LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => AUTRICI e OPINIONISTE. => Discussione aperta da: Admin - Ottobre 23, 2007, 05:05:01 pm



Titolo: LUCIA ANNUNZIATA -
Inserito da: Admin - Ottobre 23, 2007, 05:05:01 pm
23/10/2007
 
Buonsenso, Ministro
 
LUCIA ANNUNZIATA
 
Persino Clemente Mastella, un uomo che ha fatto della tattica estremista una strategia permanente, dovrebbe rendersi conto che minacciare di continuo l’uso della bomba atomica alla fine svuota persino il timore dell’esplosione nucleare. Per il caso De Magistris ci ha di nuovo messo davanti al rischio della crisi di governo (la bomba nucleare delle trattative politiche), ma, sinceramente, signor ministro, quanto può, lei per primo, affrontare una crisi di scioglimento del governo, e, viceversa, quanto ancora può il sistema politico accettare di dover convivere con tali minacce?

Il dubbio va contro le convinzioni che dominano in questo momento dentro l’establishment politico del Paese, tutto avviluppato nell’idea che il governo è debolissimo e dunque ricattabilissimo. Un’idea che certamente anche il ministro condivide, dal momento che fa ampio ricorso alla minaccia di crisi come arma di distruzione di massa. Ma la verità (che un politico abile come Mastella conosce bene) è che il buonsenso rimane il cardine della vita pubblica, e che proprio questo buonsenso (senza nemmeno scomodare alti principi) consiglierebbe in verità tutt’altra uscita dal cul de sac dove la vicenda De Magistris è finita.

Il buonsenso dei numeri intanto. Cifre alla mano, il tesoretto elettorale mastelliano è dell’1,4 per cento, tradotto in 534.553 voti alla Camera e 476.938 al Senato. Per capirne il peso è forse utile dire che 500 mila sono i consensi raccoltisi intorno alla Bindi (candidata senza partito nelle primarie) e tre milioni e mezzo hanno di recente votato per il Partito democratico.

Il richiamo è utile, non tanto per sminuire l’importanza dei voti, ma per sottolineare il movimento in corso: quando il panorama elettorale comincia a muoversi in Italia, la migrazione di consensi, il cambio di umori e di animi si fa di solito possente. Sarebbe lei sicuro, ministro Mastella, di poter indissolubilmente contare su questi 500 mila consensi, anche oggi, anche dopo le primarie, anche dopo le critiche pubbliche alla politica, e, domani, dopo la fine eventuale del governo Prodi? Specie se è una crisi accesa da lei? È sicuro che, per quanto localizzati, controllati, concentrati e sicuri siano, questi voti possano superare bene la tempesta dentro cui vivono da anni: fra centro destra, centro sinistra, dentro e fuori le coalizioni, e per andare dove ora, sempre in punta di piedi, o, meglio, sempre in punta di seggiola? Non avrà questo suo elettorato da qualche parte un moto d’insicurezza, o di fastidio, o di stanchezza tale da portarlo prima o poi a dire basta?

Un dubbio che pare essere totalmente assente dai dirigenti dell’Udeur, se si guarda alla sicurezza che sempre sfoggiano; eppure un elemento di ansia da qualche parte devono coltivarlo, se è vero che, alla fine, la porta in faccia al governo non l’hanno mai sbattuta. Al punto che, circa dieci minacce dopo, l’ultima, quella di queste ore di non votare la Finanziaria, somiglia tremendamente a un bluff.

Siamo seri, dunque, e accantoniamo per un attimo, signor ministro, questo discorso della crisi di governo, per provare a cercare una soluzione migliore: cioè più praticabile e più dignitosa. E in politica, di decisioni che rispondano a questi due aggettivi ce n’è una sola: dimissioni. Non per andare via, magari, e di sicuro non per ammettere una colpa, ma per sottolineare con un gesto una serie di principi. Intanto, il più importante di tutti: che se un giudice sbaglia, anche il suo ministro ne rimane monco; che la giustizia è un meccanismo di equilibri, in cui se i principi sono uguali per tutti, toccatone uno, nulla può rimanere esattamente come prima.

Molti, in questo complicato periodo della vita politica di Mastella, gli hanno mostrato solidarietà; persino Grillo ha rifiutato di passare il confine fra dibattito doveroso e persecuzione. Nessuno insomma, dentro la élite politica di cui fa parte, ha mostrato di voler approfittare della sua debolezza. Almeno fino a questo punto. Ma l’avocazione di un’inchiesta in cui il ministro è coinvolto ha cambiato il clima dentro lo stesso governo. Ieri, infatti, quella che fino a poche ore prima poteva ancora essere relegata a una querelle interna alla magistratura, è diventata una questione nazionale, dopo l’intervento che vi ha dedicato il Capo dello Stato, nel suo doppio ruolo anche di capo del Csm. Un richiamo alle regole che è suonato come un avvertimento a trovare una rotta di uscita. In questo passaggio di rilevanza, dalla polemica alla delegittimazione di un giudice, è cambiata anche la Sua collocazione, ministro, agli occhi della pubblica opinione.

Lei si trova, così, nella posizione perfetta per poter dimostrare con un solo gesto che la giustizia di questo Paese ha raggiunto un equilibrio superiore; che lei come ministro ha saputo fare quello che il suo predecessore non è riuscito a fare: discutere delle responsabilità dei giudici, ma anche del suo ministero. Tornando semplice cittadino, lei potrebbe in una sola, semplice, mossa recuperare la sfiducia che molti hanno oggi nella giustizia di questo Paese; nonché i dubbi che molti nutrono nei suoi confronti.

Non sarebbe un’ammissione di sconfitta. Lei perderebbe i galloni di ministro, è vero. Ma guadagnerebbe in cambio l’autorevolezza di un leader.

da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Media, l'ultimo nemico
Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2007, 09:43:45 am
28/10/2007
 
Media, l'ultimo nemico
 
LUCIA ANNUNZIATA
 

Il nuovo mondo del Partito democratico, delineato dal segretario Veltroni, è un luogo di armonia e di inclusione, «strutturato più a rete che a piramide», dove viene seppellito il bagaglio novecentesco delle tessere, delle correnti, delle gerarchie. Un mondo insomma da cui finalmente scompare l’idea stessa di Nemico - «Basta con l’odio. L’odio non fa altro che moltiplicare l’odio e se rompe gli argini genera la violenza» - in cui Silvio Berlusconi non è nemmeno nominato. Ma in cui rimane immutabile una tensione: quella con i giornalisti.

Per sei volte il segretario nel suo discorso ha citato carta stampata e televisione, ogni volta contrapponendoli alla verità delle cose. Attaccando la superficialità dei media: «È più facile enfatizzare una votazione negativa al Senato o una dichiarazione trionfalistica fatta da chi sembra aver dimenticato che quando era al governo con cento deputati di maggioranza per cento volte è andato in minoranza in un voto alla Camera». Usando il termine media in contrapposizione al reale: «Un grande partito di popolo, che parli delle cose di cui parla il popolo e non di quelle di cui parlano i circuiti mediatici...». Descrivendo la carta stampata come bugiarda: «In questi giorni, leggendo i giornali, ho scoperto di essere in prima pagina il lunedì in un’alleanza di ferro con Fini contro il sistema tedesco. Poi il martedì di avere stretto un patto d’acciaio con Bertinotti a favore del sistema tedesco. Intanto il mercoledì avrei complottato per far cadere il governo di Prodi al quale il giovedì mi legherebbe un patto per l'intera legislatura». Un lungo inciso è stato dedicato alla televisione, di cui, come si sa, il segretario è considerato un appassionato - eccetto stavolta: «Devo fare una premessa, per oggi e per domani. Io non coltivo l’idea che un uomo politico debba ogni giorno stare in televisione, ogni giorno dire la sua su tutto, ogni giorno animare o rispondere a una polemica. Sono fatto così. Penso che la televisione consumi volti, parole, idee. Penso che abbia ragione Napolitano a dire che ci debbano essere meno politici in tv», per concludere con una inequivocabile condanna della tv di oggi: «Ho nostalgia delle belle interviste di Zaccagnini o di Berlinguer in tv. Ognuno esponeva le sue idee e i cittadini giudicavano non le urla che si sovrapponevano ma le parole e la sincerità di ciascuno».

All’interno del discorso conciliante, con cui il Pd è stato battezzato, la crudele precisione di queste osservazioni dev’essere stata una doccia fredda per gli uomini e donne (e che siano tanti non è un mistero) che nel mondo dei media hanno sempre identificato in Veltroni un esempio di rapporto quasi perfetto tra comunicazione e politica. Sorprendente non è il contrasto di toni, quanto la «vecchiaia» di queste posizioni rispetto a tutta l’identità nuova che si propone. Addossare alla stampa l’invenzione di difficoltà politiche che nella realtà non esisterebbero è infatti un trucco contabile della politica vecchio quasi quanto la stampa stessa. Risuona da anni e con una forte capacità di duplicarsi, sotto ogni luna, ogni parallelo e ogni regime politico, dai generali del Baath e dagli americani di Bush, da Blair e da Sarkozy, da Clinton e da Berlusconi. Veltroni è dunque certamente in buona compagnia ma, appunto, se un politico come lui, che intende liberarsi delle tradizioni svuotate, sceglie nel discorso di fondazione del nuovo partito - discorso che, supponiamo, tra mezzo secolo sarà letto dagli studiosi per capire il clima di questi nostri anni - di puntare l’indice sull’inadeguatezza dei media, non rimane che pensare che il segnale è molto serio.

Il primo istinto di un giornalista, di fronte a queste affermazioni, è quello di rispondere a tono. In questo caso ai democratici che inaugurano il loro nuovo partito andrebbe ricordato che i giornalisti, solo fino a pochi mesi fa, cioè fino a che erano fuori dal governo, sono stati da loro considerati eroi, che ne hanno riempito infatti le loro liste elettorali, e si sono ampiamente avvantaggiati delle battaglie di libertà fatte dai media. Tuttavia, tali, e pur ragionevoli, obiezioni sarebbero una risposta banale alle osservazioni del segretario. I rapporti fra politica e media non sono un dettaglio del funzionamento democratico e dunque non possono diventare ragione di litigi da strada. In attesa dunque di capire bene come esattamente vuole affrontare questo nodo, potremo forse ricordare al Pd un paio di elementi della realtà che non pare siano stati accolti nella platea di Milano. Nella recente ondata di antipolitica è stata messa in discussione la credibilità dei politici, non dei media ed è attraverso i media che in questi mesi di tensione e di grandi eventi (inclusi referendum, primarie, ecc.), le élite di questo Paese stanno tenendo aperta una linea di contatto con i cittadini.

da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - L’autunno caldo di Fini
Inserito da: Admin - Novembre 05, 2007, 03:39:49 pm
5/11/2007
 
L’autunno caldo di Fini

LUCIA ANNUNZIATA

 
Gianfranco Fini, presidente di Alleanza Nazionale, arrivato ieri a Roma negli studi di via Teulada della Rai - via Teulada, il quartier generale dell’informazione del servizio pubblico, il sancta sanctorum dell’establishment televisivo, il cuore insomma di quella Rai da sempre accusato di battere a sinistra - è stato accolto dagli applausi.

La folla variegata delle domeniche pomeriggio - signore di mezza età che attendono da mesi di venire ad assistere a una trasmissione, belle ragazze che fanno piccole parti nello show in attesa di meglio, figuranti, cioè gente che arrotonda con una piccola paga la domenica facendo pubblico, dipendenti Rai in turno, gente di Roma, insomma, gente di quartiere - gli si è stretta intorno e l’ha accompagnato per il corridoio ripetendogli «Bravo, bravo!».

Mai Fini è stato tanto popolare e mai tanto in bilico come in queste ore. La popolarità riguadagnata contiene infatti un forte paradosso e ha come fine un gioco i cui risultati non sono affatto scontati. Guardiamolo intanto, quest’uomo che, come il tenente Sheridan, stretto nel suo impermeabile bianco, va a Tor di Quinto. Alcuni mesi fa, solo ad agosto, era poco più di un’ombra della politica nazionale. Andava per la maggiore, negli scenari dei meteorologi della politica, l’ipotesi «centro» che prevedeva una forte turbolenza moderata del governo Prodi con tendenza alla riunificazione al centro della solita vecchia Dc. L’alternativa erano elezioni anticipate con un Berlusconi arzillissimo ancora al comando. In nessuno dei due casi, l’apporto di Fini sarebbe stato più di quello dell’attore di spalla.

In quelle secche agostane - scandite dalle solite immersioni marine - il leader di An sembrava aver misurato l’arenarsi di un progetto lungo tanti anni per diventare un accettabile membro dell’establishment nazionale: un percorso fatto di tanti strappi, in tempi così ristretti, da battere persino i molti e dolorosi cambi di pelle della sinistra: dal rifiuto della fiamma e del nome Msi a Fiuggi, alla critica delle leggi razziali, alla libertà di coscienza sulla procreazione assistita, al pentimento in Israele, al riconoscimento del voto per gli immigrati, all’opposizione alla pena di morte. Una lunga serie di cambiamenti che, alla fine, ritorniamo ad agosto, gli avevano lasciato intorno un dissestato panorama. Certo, Fini era ormai un accettato politico, lodato da un professore con naso molto fino come Amato, considerato perfetto esemplare della destra corretta da una buona parte delle istituzioni. Ma il suo partito, stressato da troppi strappi, era a pezzi, con la rinascita di un’estrema destra, impersonata dall’amico-avversario Storace; un alto prezzo pagato, senza per questo aver trovato mai un buco nella doppia rete stesa nella Cdl da Casini e Berlusconi.

Da qualche parte, nelle immersioni agostane, Fini deve aver deciso che diventare istituzionali senza premierato in vista, dopotutto, forse, non valeva la pena. Alcuni parlano dell’impatto Sarkozy. Altri della scossa data al sistema dai sindaci di sinistra che diventano sceriffi, candidatisi a rubare consensi fra i moderati del Paese: certo è che il cammino verso Tor di Quinto è cominciato quest’autunno e ha preso il segno di una marcata inversione a U. L’autunno caldo di Fini è cominciato infatti con un ritorno sui suoi passi o, meglio, su quelli della sua tradizione: ha scelto il terreno della «sicurezza», di schierarsi a fianco delle forze dell’ordine e soprattutto ha scelto di fare da solo, scavalcando e/o fregandosene degli alleati della Casa della libertà, contandosi in piazza, scendendo infine a Tor di Quinto. Persino nell’immagine diverso da prima: il suo impermeabile bianco da tenente, appunto, e i suoi uomini, incluso l’elegantissimo Ronchi, chiusi nei bomber di pelle.

È stato un enorme successo, inutile nasconderselo. Ma con un paradosso dentro, come si diceva: dopo anni passati a far dimenticare di essere fascista, Fini torna alla ribalta e riacquista popolarità e peso politico reimpugnando argomenti e toni da fascista. Il termine è senza connotazione d’insulto: si vuol semplicemente dire che Fini è tornato sui tradizionali terreni dell’ex Movimento sociale. E dov’è l’errore?, si potrebbe domandare. Nessuno. Eccetto che questo riposizionamento riapre per forza di cose anche tutte le altre collocazioni politiche di An, a cominciare dalle alleanze.

Sulla piattaforma della sicurezza Fini non trascina il Cavaliere e nemmeno Casini. Quest’ultimo è troppo dentro le logiche dei cattolici per brandire come un’arma il termine «espulsione» e, per quel che riguarda il Cavaliere, beh, troppe le divisioni fra Fini e lui, se si va ad aprire il dossier sicurezza: segnale di queste divisioni è certo stato l’indulto, votato da Forza Italia ma non da An, ma in realtà è l’intero programma dei due alleati a cozzare. La sicurezza è infatti una di quelle questioni che portano a spalancare le sostanziali distanze dentro tutte le coalizioni. E se fa male a sinistra, non fa meno male a destra. Il Cavaliere non ama i magistrati e tanto meno le divise che portano controlli, leggi, regole e, nel caso, processi e prigioni. È un uomo d’affari, cioè del mondo delle aziende, non dello Stato; è un liberista che vuole poche regole e molta flessibilità. Il mondo del Cavaliere è dunque l’esatto opposto di tutto quello per cui ritorna a battersi Fini in questo momento e il silenzio, o la vaghezza da Bagaglino in cui si è rifugiato il leader della Casa della libertà sono un sufficiente commento a questa distanza.

Rischia allora di restare da solo, Fini? Dove andrà da solo, Fini? E ce la farà da solo, Fini? Ci si chiede. Ma forse non rimarrà solo, dopotutto, Fini. Può essere infatti che in questo percorso si ritroverà di nuovo in compagnia di quella destra estrema (romana e italiana, che in queste ore si galvanizza al grido di «Ora basta!»), da cui con tanta fatica si era in questi anni staccato.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Le illusioni del capo
Inserito da: Admin - Novembre 17, 2007, 07:44:39 pm
17/11/2007
 
Le illusioni del capo
 
LUCIA ANNUNZIATA
 

La più lunga transizione di un premier da Palazzo Chigi all’opposizione. Potrebbe essere questa la didascalia sotto il clamoroso capitombolo di Berlusconi: 17 mesi di passione ribalda, di proclami, e di smemorata sicurezza, finiti nel risveglio improvviso davanti alla fatale e burocratica verità dei voti. Talmente abituati tutti, amici e avversari, a pensarlo come Abile, Vitale, Imprevedibile, Invincibile che la sua sconfitta ci obbliga a una quasi totale riscrittura dei codici: cosa e dove ha sbagliato il leader di Forza Italia? Le risposte non mancano, in queste ore. La maggioranza è di natura politica o forse «politicista» e ha a che fare con lo sgretolarsi della coesione interna dell’opposizione, con l’incapacità del leader di unificare le forze intorno a un obiettivo credibile.

E con le ambizioni degli eterni Delfini, Casini e Fini. Spiegazioni giuste, e tuttavia parziali. Fenomeno troppo complesso e troppo fuori dalla politica convenzionale per essere spiegato totalmente con le ragioni della politica, Berlusconi nella caduta oggi, come nell’ascesa ieri, rivela snodi rilevanti del funzionamento del sistema.

Va ricordato che è uomo di azienda e nell’impresa privata se si è padroni non si perde mai l’incarico. Non si è mai davvero finiti fino a che si ha un nutrito pacchetto di azioni. Altro è il mondo della politica, dove nessuno possiede nulla se non il voto di chi lo elegge, e il voto decide chi vince e chi perde. Chi perde, perde tutto, anche se la maggioranza è d’un voto solo. Questa diversità di prospettive fra Capo d’azienda e Capo del Consiglio dei ministri è un elemento che ha giocato fortemente nella politica italiana degli ultimi 15 anni, e c’è un ampio accordo sul fatto che per il Berlusconi in ascesa questa differenza abbia avuto una funzione rinvigorente, innovativa del far politica. C’è da domandarsi tuttavia, ora, se questa stessa differenza non si sia tradotta in una sorta di gabbia intellettuale che invece di alimentare sta lentamente distruggendo le capacità del leader dell’opposizione.

Dal primo giorno dopo il voto, questo politico noto per la flessibilità mentale, lo spontaneo tatticismo, si è inchiodato su una battaglia impossibile da vincere: sostenere che le elezioni non erano legittime e che la vittoria ottenuta per poche migliaia di voti non era una vittoria. Un argomento comprensibile da usare nelle ore immediatamente successive al voto, e a cui hanno fatto ricorso altri leader famosi, incluso il democratico americano Al Gore. Ma, come dimostra il caso Gore, l’operazione delegittimazione può durare giorni, poi i governi s’insediano, fanno nomine, prendono decisioni, e l’opposizione li accetta e li sfida su nuovi terreni. Non è stato il caso di Berlusconi, per mesi fissato prima sulla illegittimità del governo, poi scandalizzato che il governo governasse, infine convinto che il governo di fatto non esistesse, che la maggioranza non stava insieme, e che bastasse una spallata per mandarla a casa. Tutte tappe d’uno stesso stato d’animo: l’incapacità di accettare di non essere più il «dominus» della situazione, di non avere più lo stesso peso nei media, né gli stessi rapporti internazionali nemmeno con i leader con cui era amico personale quali Putin e Bush, di non poter più, allo schiocco delle dita, cambiare l’ordine delle cose.

E quando alla fine è sembrato accorgersi che qualcosa dopotutto andava fatto, non ha trovato di meglio che sfoderare l’idea di un Take Over, l’acquisto di un po’ di senatori, misura di natura tipicamente aziendale, rivelatasi impossibile da utilizzare persino nella cinica politica d’oggi. Quella di Berlusconi è stata insomma una sorta d’incapacità di accettare la realtà, che gli ha sottratto la forza di sviluppare tattiche e l’ha spinto a dare dimostrazioni pubbliche sempre più esagerate, per provare d’essere ancora il premier del Paese, l’uomo che è davvero nel cuore degli italiani, nonché l’unico leader dell’opposizione. Un’inutile illusione, che i suoi alleati Fini e Casini, più deboli di lui ma privi d’ogni posizione di rendita se non quella del voto, hanno immediatamente colto come tale. S’è schiantato così questo primo assalto di Berlusconi al governo Prodi. È un capitombolo, un ruzzolone, difficile che sia una sconfitta definitiva, visto il peso e l’abilità di questo leader. Ma per il momento questo schianto rivela qualcosa d’interessante sul futuro del nostro sistema. Berlusconi è inciampato sulle regole: quelle del voto, quelle del meccanismo parlamentare, quelle della vita pubblica. L’approvazione della Finanziaria è arrivata perché una coalizione, ancorchè fragile, può vincere se rispetta le regole dell’onorabilità parlamentare: non ultima quella di non sfuggire alle difficoltà ricorrendo al voto di fiducia.

da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Colpo di scena
Inserito da: Admin - Novembre 19, 2007, 07:13:25 pm
19/11/2007
 
Colpo di scena
 
LUCIA ANNUNZIATA

 
Diciamo che è possibile sognare. L'idea sarebbe quella di immaginare che a questo punto, dopo un duello lungo dieci anni, gli eterni avversari Romano Prodi e Silvio Berlusconi si convertano in due padri della patria che, convinti dall’età, dalle medaglie e dalla ostinazione altrui, alla fine portano insieme il Paese verso il cambiamento - riforme elettorali, snellimento dell'esecutivo, abbattimento dei costi della politica.

Un sogno appunto, ma autorizzato a essere almeno delineato dopo il secondo colpo di scena che in 48 ore ha scombussolato la politica italiana. L'annuncio che Silvio Berlusconi fonderà un nuovo partito segue di poche ore la vittoria di Romano Prodi in Senato ed entrambi i passaggi hanno lo stesso risultato: quello di rimettere i due uomini in posizione decisiva dentro i rispettivi schieramenti, in cui negli ultimi mesi avevano sofferto una progressiva marginalità. Ma decisiva per fare cosa?

La novità di ieri non è tanto l'annuncio della rifondazione di Forza Italia e di tutta la Cdl in una nuova organizzazione. Il Cavaliere gioca da tempo con questa possibilità, l'ha usata nei mesi scorsi, ammettendola e negandola, come bastone e carota del dibattito interno alla sua coalizione.

Gli osservatori politici così ne hanno già sviscerato ragioni e torti, potenzialità e limiti; ne hanno distinto - come è sempre d'obbligo nel caso di Berlusconi - annunci da realtà. Nell'insieme, dunque, l'accalorato discorso di Milano, in mezzo alla folla, non lascia di stucco. È evidente che c'è dentro questo progetto un adeguarsi a destra alle novità portate dal Pd, di cui Berlusconi raccoglie il senso del rinnovamento e il processo dal basso, come lui stesso dice: «Oggi nasce ufficialmente qui il nuovo grande partito del popolo italiano, un partito aperto che è contro i parrucconi della vecchia politica. Invito tutti a entrare senza remore e a venire con noi, questo è quello che la gente vuole: Forza Italia si scioglierà nella nuova formazione» - che si chiamerà, appunto, «partito del popolo italiano delle libertà». Così come è evidente che sciogliere tutto gli renderà più semplice muoversi nei complicati rapporti con i suoi alleati-amici-nemici.

Meno ovvia è invece l'unica dichiarazione politica uscita dal discorso milanese così segnato dall'entusiasmo. Berlusconi ha indicato infatti anche il primo passo che il nuovo partito potrebbe fare, e la sua prima intervista a questo giornale lo conferma: riaprire il dialogo fra Cdl e governo, appunto. «Se l'altra parte avanzerà delle proposte o dirà di sì a nostre proposte saremo i primi a essere lieti di trovare, per il nostro Paese, una direzione di svolta che assicuri la democrazia, lo sviluppo e la libertà». La novità, il colpo di scena è questo. Da ieri sera Silvio Berlusconi ha ufficialmente ripreso in mano la partita che fino a poche ore prima aveva sostenuto di non voler fare, preferendo - così diceva - andare alle elezioni subito, e con la vecchia legge. Molti dei suoi amici dentro Forza Italia, come Gianni Letta, hanno caldeggiato questa mossa, e molti suoi alleati ne erano sicuri: Casini proprio ieri pomeriggio aveva ironicamente anticipato che probabilmente Letta e Veltroni si stavano già parlando. Da ieri sera insomma Berlusconi ha archiviato la prima fase della sua opposizione a Prodi.

Dove lo porteranno ora i suoi passi? Con chi dialogherà all’interno del centro-sinistra, con che modello di riforme in mente, e soprattutto con quanta serietà e convinzione procederà? Da qui arriviamo al sogno di cui si parlava prima.

È ovvio infatti che un Silvio Berlusconi che scende in campo nel dialogo fra coalizioni ha tutta la forza e l'interesse a dinamitarlo. Il dialogo dopotutto è stato lanciato da Walter Veltroni, cioè da un leader più giovane di lui, e potenzialmente più popolare di lui. Perché mai, dunque, Berlusconi dovrebbe impegnarsi in una mossa che rafforza il suo più forte avversario?

D’altra parte, in questi mesi, e in particolare in questi ultimi giorni, dopo la vittoria di Prodi al Senato, potrebbe aver pensato a una rotta più saggia: se c'è un giovane avversario, perché mai non contrastarlo sottraendogli ruolo sul suo stesso terreno? Magari ri-costruendo un rapporto con l'avversario di sempre, quel Prodi lui stesso di nuovo al centro della politica? E chissà che, su questa strada, via via, non ci scappi anche di diventare un Padre Fondatore.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Troppi dubbi sul dialogo
Inserito da: Admin - Dicembre 03, 2007, 10:08:20 pm
3/12/2007
 
Troppi dubbi sul dialogo
 
LUCIA ANNUNZIATA

 
Di solito si scrive perché si è raggiunto un livello - sia pur minimo - di certezze su un argomento. Sull’incontro fra Berlusconi e Veltroni e sul percorso che intendono avviare, la ragione per scrivere è invece l’opposta: a dispetto delle parole positive, del clima sereno e, persino, della simpatia evidente e rassicurante che i due leader insieme proiettano, continuo a non capire. Nel senso di non trovar risposta all’interrogativo che questo incontro solleva: cos’è cambiato perché oggi si possa credere e avere fiducia in un evento che fino a poche settimane (non mesi!) fa non sembrava nemmeno nominabile, non parliamo di praticabile?

Mi rendo conto che in un Paese lacerato da un eccesso di ideologie, da resistenze psicologiche, da reducismi di vario tipo, se si dubita davanti ai primi segnali di Concordia Nazionale si fa la parte dei disfattisti. Ieri un quotidiano politico del centro-sinistra, ben fatto nonché ben informato, Europa, bollava in anticipo i dubbiosi dividendo gli addetti ai lavori (pochi e scettici) dalla maggioranza del popolo italiano (contento). Ma ognuno fa il suo mestiere. E nel mestiere di chi osserva la politica è implicita una memoria che, nei fatti, esalta il dubbio. Vi giro, dunque, le mie domande.

1) È cambiato qualcosa nel profilo «ideologico» di Silvio Berlusconi? Oggi è opinione comune che la «svolta» - su cui l’incontro con Veltroni si fonda - sia stata decisa da Berlusconi a seguito della sconfitta sull’approvazione della Finanziaria e per essersi convinto che il Paese chieda un cambio della politica.

E’ sicuramente lodevole, cosa della quale tutti hanno preso atto, che Berlusconi reagisca agli stimoli e lanci nuove iniziative, tenti di rinnovare se stesso e gli altri: ma se queste sono le ragioni per aprire un dialogo, si tratta fondamentalmente solo di passaggi tattici. Nel corso del cambiamento berlusconiano non abbiamo infatti ascoltato nessuna «revisione» di idee. Non sappiamo, al momento, se l’Italia sia ancora piena di «comunisti», se la sinistra governi ancora la stampa, le case editrici, le tv e i giudici, se nei confronti di Silvio ci sia ancora la solita persecuzione, se i sindacati ricattino il Paese, se la politica estera di sinistra aiuti il terrorismo e, visto che ci siamo, se ancora l’Italia sia in mano a un governo non legittimo in quanto eletto con troppi pochi voti, se non addirittura con brogli. Non per essere pignoli, ma un vero dialogo nasce da qualche profonda novità nelle proprie opinioni sugli avversari; in assenza di tutto ciò, è difficile non concludere che dialogare sia solo un altro movimento, un passo tattico, che produrrà qualche messa in scena nel teatrino della politica.

2) È cambiato qualcosa negli interessi che Silvio Berlusconi ha sempre così gelosamente salvaguardato attraverso il suo ruolo politico? Non pare. In Parlamento ci sono due leggi simbolo della tensione destra-sinistra: quella sul conflitto di interessi e la Gentiloni sull’assetto radiotelevisivo. Fuori dal Parlamento, è invece del tutto aperta l’annosa questione della Rai, dove le colorite cronache di questi giorni, al di là delle responsabilità individuali, hanno fatto riemergere i danni di lungo periodo causati proprio dall’impatto sul servizio pubblico del conflitto di interessi durante il governo berlusconiano.

3) È cambiata la valutazione, se non l’opinione, di Silvio Berlusconi sul funzionamento della giustizia in Italia? In effetti, questo è forse il tema che presenta maggiori novità e dev’essere di qualche conforto a Forza Italia. Il caso Forleo, più ancora che quello di De Magistris, potrebbe provare agli occhi di Berlusconi che si è infranto il suo vecchio teorema che la giustizia sia dominata dalle toghe rosse. Né dev’essergli sfuggito il risultato del voto per il rinnovo degli organismi sindacali della magistratura, vinto da Unicost, la corrente dei moderati.

Giustamente, nessuno di questi temi viene nominato quando si parla di incontro fra Veltroni e Berlusconi. Il dialogo ha infatti come fine un accordo per la legge elettorale, si dice. Ma davvero si potranno tenere tutte queste irrisolte questioni fuori dall’accordo? È possibile, ad esempio, tenerle ferme mentre si discute e fino a un’intesa? Anche a volerlo, significherebbe di fatto bloccare in parte l’attività stessa dell’agire pubblico. La legge Gentiloni, ad esempio, deve andare in discussione. E per quel che riguarda la Rai, il cambiamento «di pelle» dell’azienda, avvenuto durante il governo Berlusconi, obbliga a rilevanti decisioni strutturali, altro che la punizione di qualche dirigente. Può il servizio pubblico aspettare a prenderle per i mesi necessari a trovare un accordo sulla legge elettorale? Infine la giustizia: il clima è migliore, ma alla prima, prossima, tensione fra qualche giudice e la politica, come reagiranno i due leader che dialogano: diranno ancora una volta che si tratta di «giustizia a orologeria» (come si è già detto per le intercettazioni Rai) o diranno forse di non poter dire nulla perché stanno trattando?

Due parole, infine, sulla posizione di Veltroni, in questa vicenda. Se c’è un politico, dentro la sinistra, che può affrontare il complesso negoziato è certamente lui. Per una ragione, su tutte. A differenza di Massimo D’Alema, la cui Bicamerale suscitò reazioni enormi a sinistra, Veltroni è il leader riconosciuto della sinistra più intransigente del nostro Paese. La sinistra che, per intenderci, ha sempre sospettato D’Alema d’«inciucio», la sinistra più graffiante intellettualmente, quella della satira in Rai o delle riviste o dei girotondi, ha sempre amato Walter Veltroni. La fiducia che questa area molto influente ha in lui permette oggi al nuovo leader del Pd di osare operazioni che avrebbero suscitato scandalo in mano a chiunque altro. Ma fino a che punto può tenere questa fiducia, se si arriva allo scontro, nel frattempo, sulle questioni che indicavamo, giustizia, Rai, conflitto d’interessi?

Nasce così il Dubbio dei Dubbi: quante possibilità dareste voi al raggiungimento di tale accordo, dopo aver fatto l’elenco di tutte le difficoltà? Io non molte. Ma, forse, il lettore e altri vedono cose che io non riesco neppure a immaginare.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Se gli Usa ci vedono proprio come siamo
Inserito da: Admin - Dicembre 14, 2007, 10:47:13 pm
14/12/2007
 
Se gli Usa ci vedono proprio come siamo 
 
LUCIA ANNUNZIATA
 

Meno male che, almeno, ci amano tutti. Una breve rassicurazione iniziale è di solito il miglior sistema per prepararti a un fracco di botte. E di botte il New York Times, con mano di velluto, voce pacata e tono ineluttabile, ce ne infligge tante.

Non che l’Italia sia nuova a tali «ramanzine»; il Financial Times e l’Economist, per dirne un paio, hanno sempre pronto il rampognino all’Italia. Imparziale nei tempi e nel cambio di governo. Solo che il rampognino inglese suona più o meno così: le liberalizzazioni ancora non sono state fatte, e quelle poche decise sono state fatte male. Voci di mercato, insomma, prosa dry (questa volta l’inglesismo è permesso, immagino), che non scalda il cuore.

Ian Fisher, invece, ci ha inviato ieri sul New York Times una lettera sull’Italia molto italiana: chi non ha immediatamente riconosciuto il nostro Paese (con una fitta al cuore) in quel gruppo di vecchiette che nei parchi si contende l’attenzione di un unico pargolo? L’italianità di Fisher è nel posare su di noi quello sguardo straniato, di non avere il tono del curioso-ma-vero con cui gli Usa mescolano - quando si parla di noi - nostalgie per un Paese pieno di asinelli e trionfo del lifestyle.

L’Italianità di Fisher è di aver scritto - osiamo dirlo a un corrispondente dell’immenso New York Times? - come un giornalista italiano.

Non per dire, ma quel paese lì, descritto agli Usa, è quello che descriviamo tutti i giorni sui nostri giornali: ad esempio «una nazione più vecchia e più povera» ( al punto che «le gerarchie della Chiesa preparano oggi un aumento di aiuti in pacchi alimentari»), una nazione in cui i più bravi «stanno emigrando, come i più poveri cento anni fa», e gli altri, i famosi bamboccioni, il 70 per cento tra i venti e i trenta, vivono a casa una prolungatissima adolescenza. Bella, meravigliosa, intelligente nazione il cui vanto, l’economia di famiglia, la piccola industria, fino ad oggi la sua forza, sta velocemente dilapidandosi. Un paese «fermo» o quasi, la cui produttività scende, ma dove ancora di più sono scesi in quindici anni i salari. E i cui simboli nazionali e internazionali non sono più Fellini e Loren, ma Beppe Grillo. Ian Fisher è tra noi da sufficiente tempo da arrivare anche alle conclusioni che ogni italiano condividerebbe: alla domanda di chi è la colpa, risponde infatti senza dubbi: la politica. Essa stessa vecchia, costosa, e immobile, il miglior ritratto che c’è, insomma, dell’Italia stessa.

Detto tutto questo, e dimostrato che di queste cose sono pieni i nostri stessi (benché più umili) giornali, rimane la curiosità di capire se anche al New York Times verrà risposto con la stessa indifferenza e malumore con cui i politici leggono di solito i fogli nazionali. O se anche il giornale più importante del mondo non sarà preso nella rete di sospetti e complotti che la politica nazionale legge in ogni riga, specie di questi tempi. Ma noi ci affidiamo al presidente Napolitano, che quell’articolo ha avuto il privilegio di leggere ben prima di noi: ha risposto difendendo l’Italia, ricordando tutti i nostri meriti e la nostra creatività, ma soprattutto confessando di considerare la principale risorsa del paese gli animal spirits, la «capacità di iniziativa dal basso, di impresa, vitalità». Giusto, ci sono queste energie. Basta che il celebre concetto di John Keynes non divenga invece il più banale racconto di un paese che invece, preso in una palude, alla fine si sbrani.

da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Good bye Sessantotto
Inserito da: Admin - Dicembre 31, 2007, 05:08:19 pm
31/12/2007 - QUARANT'ANNI DOPO
 
Good bye Sessantotto
 
Le celebrazioni del quarantennio sono destinate ad affossare definitivamente il "grande sogno"
 
LUCIA ANNUNZIATA
 

«Good vibrations» dei Beach Boy ha fatto quarant’anni, peccato che quel che rimane di quelle fantastiche vibrazioni somigli sempre più al Parkinson. Del resto la leggendaria Marianne Faithfull, cantante e musa del rock, fa la nonna nel film Irina Palm, appena uscito. Nonna palmo-erotica, ma sempre nonna. Bill Clinton, il presidente che ha portato alla Casa Bianca la baby boom generation, ha quattro by-pass; e l'altro presidente che ha portato alla Casa Bianca la stessa generazione da destra, George Bush, sta per andare in pensione, dove è già andato Tony Blair. Benazir Buttho, prima donna degli Anni 60 salita al potere nel mondo musulmano, è stata uccisa, e Bob Dylan si trasforma nell'icona di se stesso, nel film fatto con Martin Scorsese, «No direction home: Bob Dylan», una terribile operazione commerciale con tutti i resti dei suoi ricordi e canzoni.

E se questi Dei del firmamento globale sixties non appaiono più così dorati, anche le star italiane di quei tempi accusano qualche mal di testa. Paolo Mieli, direttore due volte del Corriere, il più importante giornalista uscito dalle fila degli Anni Sessanta, è oggi un astro dell'establishment italiano, Ferrara fa la dieta contro l'aborto, D'Alema vive elegantemente fuori dal Paese, Capanna si occupa di Omg, Sofri è un gentile signore che dispensa saggezza, e tutti noi ci guardiamo allo specchio venti chili e quarant’anni più tardi. Più grassi, più comodi e più che mai convinti di noi stessi - in completo diniego del nostro transito su questo palcoscenico. Abbie Hoffman qualche anno fa pronunciò una epigrafe per questo mondo: «We were young, we were foolish, we were arrogant, but we were right». Boh! Non è certo nemmeno che avevamo ragione. La ragione si vedrà da quanto questa generazione globale, la prima ad esserlo, nata negli stessi anni e cresciuta con gli stessi omogeneizzati e la stessa musica, capirà ora la sua mortalità. Non quella fisica - perché i citati, e non, di quegli anni a noi piacciono ancora tutti - ma quella spirituale. Trasformare il quarantesimo genetliaco che il 2008 propone, dalla galleria di celebrazioni in un onorevole funerale, sarà forse la più dura prova da affrontare per questo gruppo. Good By sixties - la pace sia con voi.

Naturalmente, questo è un consiglio, non un tradimento. Se mai la generazione Anni 60 ha davvero quella superiore capacità creativa e analitica che vanta, dovrebbe oggi essere la prima a capire che un vasto movimento le preme contro. Il cambiamento è infatti il tema sociale più pressante dello sviluppo dei nostri Paesi occidentali, e in questo passaggio, i baby boomer fanno la parte del tappo, dell'élite, della conservazione insomma.

Sono poi, come sempre, le vicende politiche che per prime afferrano gli umori dei tempi. A questa onda devono le loro fortune Zapatero e Sarkozy (ognuno a modo suo); in Inghilterra sono oggi i Tory ad afferrare la bandiera del nuovo contro l'invecchiato Labour, interpretato dal catatonico Brown; in Germania è una donna il cambiamento - e anche se viene da vecchia scuola politica, nuovo è il mix che propone fra governo e gender, interpretando bene la fine della cultura della Guerra fredda. Ma è in due Paesi, lontanissimi tra loro eppure uniti dai profondi segni lasciati dai sixties, che questo clima fra il vecchio e nuovo è più visibile e più insoluto: gli Stati Uniti e l'Italia. Le primarie democratiche in Usa, e il tentativo di fondare il Pd hanno infatti in comune l'esaurimento dell'establishment politico nato da quegli anni. Hillary Rhodam Clinton e Barak Obama sono il caso lampante di quella che, nata come una sfida tra due valori Anni Sessanta, una donna e un nero, si è presto disvelata come guerra intestina per il rinnovamento del Partito democratico.

Barak Obama, ci raccontano ormai quotidianamente le cronache dagli Stati Uniti, ha mobilitato un attivismo giovanile, femminile, bianco e nero, come non se ne vedeva da anni, diverso da quello che muove il Partito democratico a ogni elezione. La passione per Obama è suscitata dalla sua età, dalla sua linea post-ideologica, dal non voler più contare su differenze come bianchi e neri, dal suo essere un outsider senza molti soldi, e dal non essere mai incorso nell'errore politicista di cambiare opinione sulla guerra irachena. A semplificare questo scontro, la frattura passa anche tra i neri: da una parte la potente nera star tv Ophra, totalmente trasversale nel suo appeal, dall'altra per Hillary, i neri degli Anni 60, Angela Davis e Andrew Young, pezzo da novanta dell'establishment del Partito democratico. Del resto cosa ha significato la proposta della signora Clinton, dopo il marito, alla presidenza? Avrebbe dovuto indicare la parità delle donne, in realtà ha solo svelato come i Democratici si siano appiattiti sui Repubblicani.

La politica è per I Clinton una professione e un business, fondato su una macchina di potere e soldi, che oggi con Hillary propone di fatto la trasformazione della presidenza del Paese più democratico del mondo, in un modello ereditario e familista, come del resto già hanno fatto i Bush. Quella dei Clinton è la metamorfosi da innovatori (rieccoci ai 60s) a élite. Ma non è questa metamorfosi la ragione anche dello scontento che muove le ondate di antipolitica in Italia? E che non a caso è indirizzata più a destra che a sinistra: compromessi, inefficaci, privilegiati, è l'accusa a una generazione che invece di portare il cambiamento è diventata un'altra élite. Cosa siano oggi, del resto, i politici, i giornalisti, i professionisti venuti dagli Anni 60 (chi scrive inclusa) è nelle cose: dopo aver anni fa portato il mutamento generazionale dentro il sistema, oggi lo dominano e il suo non volerlo cedere è nella evidente resistenza a ogni cambio generazionale che non sia attentamente scelto, selezionato, e cooptato per somigliarle. Che è poi il dilemma in cui si dibatte oggi anche la vicenda politica del Pd e del suo segretario, Walter Veltroni, uomo degli Anni Sessanta lui stesso, mosso da una forte comprensione di questo rinnovamento: il Pd nasce così attraverso la diretta decapitazione delle vecchie élites Dc e Pci; ma il nuovo proposto appare per ora solo un debole esperimento genetico, invece che una autentica trasfusione di sangue fresco.

da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Il gioco del Cavaliere
Inserito da: Admin - Gennaio 14, 2008, 05:47:18 pm
14/1/2008 - RETROSCENA
 
Il gioco del Cavaliere
 
Partita a doppio binario
 
LUCIA ANNUNZIATA

 
Tornato da Antigua, Silvio Berlusconi ha rilanciato il tema che più gli sta a cuore: la Concordia Nazionale, la voglia e la necessità di sostenere la sinistra che vuole fare un ampio accordo, ha detto, «per salvare il Paese». Con lo stesso respiro ha però subito aggiunto, in merito alla prospettiva di approvare in poco tempo la legge Gentiloni sulla Tv, un: «Certo, se poi vogliono fare leggi criminali, è ovvio che non ci sarà nessun accordo». Ma a che gioco gioca Forza Italia? La legge Gentiloni non solo è uno dei punti più rilevanti del programma del centro sinistra, è parte della sua identità agli occhi degli elettori. Berlusconi certamente non può immaginare che il dialogo sulla legge elettorale valga per la sua controparte questo sacrificio. Dunque, torniamo alla domanda: a che gioco gioca Forza Italia?

Se usciamo un attimo infatti da questa sorta di ipnosi in cui il Palazzo è precipitato discutendo della riforma elettorale e allarghiamo lo sguardo a tutte le vicende italiane che segnano questi ultimi mesi, l’operato dell’opposizione assume i caratteri di una offensiva molto articolata e, aggiungo, molto di successo. Una sorta di doppio binario, in cui da una parte si gioca sul tavolo del negoziato, e dall’altro si gioca sotto il tavolo, con la acutizzazione dello scontro.

Di questa doppia tattica possiamo persino, credo, indicare l’inizio: la morte di Giovanna Reggiani a Roma. L’opposizione insorse allora contro la sinistra, contro Veltroni, e contro i Rom, in un unico movimento.

Fini si reca sul luogo del delitto, come poi ha fatto pochi giorni fa a Napoli per la spazzatura; la parola «vergogna» rientra nel lessico politico del centro destra (prima usata quasi sempre dalla sinistra estrema); iniziano le prime vere mirate richieste di dimissioni, il tutto mescolato a una forte campagna contro gli immigrati e sulla sicurezza.

Nelle piazze spuntano i primi gagliardetti, annunci di scontri, le prime promesse di rivolta sociale. Legittime naturalmente sono le manifestazioni (quelle nazionali di protesta, quella di Napoli, e tutte quelle che volete) e legittima è l’indignazione e la denuncia. Ma qui parliamo di un aspetto molto più limitato e pericoloso: la tentazione di usare la piazza per mettere in ginocchio la politica.

Chi ricorda Reggio Calabria? Nulla forse c’è di così grave, ma alla campagna sulla insicurezza sociale, seguono le proteste i tassisti di Roma, con cui viene piegata la città oltre al suo sindaco, e poi la rivolta degli autotrasportatori guidati da un uomo di Forza Italia, che fa risorgere nei più vecchi la memoria del Cile. Esageriamo? Possibile. Ma in questi giorni abbiamo visto tutti negli scontri a Cagliari, nell’assalto alla casa di Soru, le bandiere di Alleanza Nazionale, e, in Lazio, di Forza Nuova; e a parte Casini, che ha detto con chiarezza «mi vergogno di aver visto le bandiere dell’Udc sotto la casa di Soru» non abbiamo sentito pentimenti.

Che l’Italia viva un passaggio difficile, è indiscusso. Che ci siano errori e malumori popolari che ricadono sul governo, non c’è dubbio. Ma che da parte della opposizione ci sia la voglia di fomentare la rivolta sociale, mi sembra indubbio. Del resto, l’ha sempre fatto anche la sinistra a suo tempo, contro Berlusconi - ma alla sinistra è stato sempre chiesto di prendere le distanze chiare e nette su queste derive. Forse potremmo aspettarci oggi uno stesso rigore - che però non notiamo - dall’opposizione.

L’asta del livello dello scontro è stata alzata, del resto, anche e parecchio sul terreno culturale. Dal momento in cui Veltroni è stato eletto, il centro destra ha tentato di entrare nel percorso iniziato dal centro sinistra per influenzarlo: ricorderete che il dibattito sul partito liquido o degli iscritti, è stato lanciato e gestito (anche per la sinistra) dal Foglio e sul Foglio. Così come dal Foglio e sul Foglio è partita la moratoria sulla 194, che sta avendo un profondo impatto, aggregando un nuovo fronte cattolico, approdando rapidamente in Parlamento attraverso uomini di FI come Bondi, e mettendo in crisi profonda l’alleanza fra cattolici e laici dentro il Pd. La visita di Ferrara, due giorni fa, al comitato Statuto del Pd, uno dei luoghi, si immagina, più riservati di un partito, è stata la rappresentazione perfetta di questa dinamica di «forzatura» delle porte di una intera area politica.

Infine l’intervento di Berlusconi oggi, sulla legge Gentiloni, dietro cui c’è sempre la legge sul conflitto di interesse. E non è finita: mercoledì è annunciato un importante discorso del leader di Forza Italia in Parlamento, dove non parla dal luglio del 2006. Secondo anticipazioni di «Libero», solleverà il tema della giustizia e delle intercettazioni, farà denunce, aprendo così un nuovo fronte.

Mi pare indubbio, mettendo tutti questi avvenimenti in fila, che Silvio Berlusconi sta giocando in maniera molto articolata. Ed è una tattica, oltre che di successo, intelligente. Come tutti sanno, in ogni guerra, dal Libano, all'Iraq, al Vietnam, nel momento in cui si profila un accordo si apre la fase più crudele. Mettere in ginocchio il proprio avversario è infatti condizione indispensabile per ottenere il massimo possibile al tavolo delle trattative.

Quello che sorprende è la mollezza, la mancanza di focalizzazione e di chiarezza, con cui la sinistra si fa speronare e spaccare da queste offensive. Se negoziato deve esserci (e tutti lo vorremmo) al momento pare che solo Berlusconi ne abbia in mano il capo.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Nel vuoto politico 150 ragazzi si fanno sentire.
Inserito da: Admin - Gennaio 16, 2008, 02:10:21 pm
16/1/2008 (6:50) - REPORTAGE

Nella Sapienza sfuggita di mano

Nel vuoto politico 150 ragazzi si fanno sentire.

E i prof di fisica ora temono: siamo preoccupati

LUCIA ANNUNZIATA


ROMA
Università La Sapienza, Roma. La tecnica è quella di sempre. Due passano per il corridoio, incrociano lo sguardo e prendono la stessa direzione. Presto sono seguiti da altri due, poi da quattro. Quando escono dalla facoltà di Scienze Politiche, sono ormai di corsa e altri si uniscono.

Sulle scale del Senato Accademico comincia l'ansia: «Presto, presto, c….». Porte sbattono, una si apre, «forza, forza», dentro gli impiegati aprono i loro uffici, «ma che volete?», «ce volete mette paura?». Il corridoio però è quello sbagliato. Vanno avanti, indietro. Fino a che la mano di un impiegato, pietoso o esasperato, gli apre la porta giusta per le scale, e verso la sala del senato accademico. OCCUPAZIONE! Occupazione è fatta. Il megafono è tirato fuori, la polizia arriva (nelle vesti del direttore del distretto di polizia, Marcello Cardona, conciliantissimo e tranquillo), poi le tv poi altri studenti. Comincia così, con una sorta di improvvisazione, la lunga giornata che porterà il Papa ad annullare la sua visita all'Università La Sapienza.

Sono tanti questi studenti? Tanti no. L’occupazione e le attività sono in mano a un centinaio. Il panorama politico della Sapienza è piuttosto spoglio: operano ormai piccoli gruppi di cui due, la Rete per l'autoformazione e il Coordinamento Collettivi, hanno ramificazioni in tutta l'Università. Gli studenti che si identificano nelle sigle istituzionali (cioè dei vari partiti) sono piccole cellule. Forte è poi la presenza di Cl, ma la loro attività non è strettamente interna. I collettivi sono «autonomi» come si definiscono, ma non nel senso di anni fa quanto nel senso di non avere riferimenti politici: giusto per farci capire, sono gli stessi che hanno contestato due mesi fa Bertinotti in visita alla stessa Università. Saranno 500. I più attivi? Troppo pochi per rappresentare i 140 mila studenti che questa università frequentano; ma non così pochi da poter dire che non hanno alcuna influenza, perché molti di loro sono qui da anni, sono conosciuti, e affatto stupidi o sfaccendati. Il fatto è che l’occupazione cade nella giornata di ieri come un'ulteriore prova che la situazione alla Sapienza era estremamente volatile e, tutto sommato, in mano quasi a nessuno. Questo è stato forse il singolo più importante elemento che alla fine sembra aver contato nelle decisioni finali.

Per capire il resto, se è possibile spezzare qualche lancia, anche ora che infuriano le polemiche, anche ora che è giusto ripetere che Ahmadinejad ha parlato alla Colombia U, e il Papa non alla Università di Roma, si potrebbe aggiungere che il clima ieri, nella Sapienza, non era incendiario. Crederci o meno, proprio mentre nello specchio della nostra polemica nazionale si consumava lo scontro fra Scienziati e Chierici, fra luce e buio, fra libertà di pensiero e censura, fra giacobini e sanfedisti - e date voi il ruolo a chi è chi delle due parti - sappiate che lì dentro c'era soprattutto molto sconcerto.

Nella piccola stanza dove l'anziano professore Carlo Bernardini passa il suo prepensionamento, si raccolgono a giro alcuni dei 67 che hanno firmato la lettera di Marcello Cini che ha avviato la polemica. E la parola più ripetuta, nella stanza, era ieri, «preoccupazione». «Mi pare che qui siamo cascati in una bella trappola», è la frase con cui mi accoglie Michelangelo De Maria, prof ordinario di Fondamenti della Fisica, di Storia e Epistemologia della Fisica, nonché collaboratore Esa, agenzia europea dello spazio. «È indubbio che c'è di che essere preoccupati», concorda il prof. Bernardini che è il primo firmatario della lettera, e subito precisa di non aver mai amato quegli studenti dei decenni scorsi. Ricordano, i professori, che la lettera è stata firmata a novembre, che doveva essere parte di un confronto interno alla Università, e che nessuno avrebbe mai davvero immaginato che la cosa prendesse questa piega. Cattiva immaginazione, cattivo senso politico, il loro? Davvero potevano pensare che anche solo l'uso di un termine come «improvvido» riferito al Papa non si sarebbe trasformato in un affare nazionale?

«La preoccupazione non vuol dire che lo scontro intorno all'arrivo di Papa Benedetto non ci sia», dice Bernardini. «Né che i “Fisici”, cioè i professori che si sentono e sono gli eredi di Enrico Fermi, si siano pentiti delle loro posizioni. È solo che, come spesso le vicende vere, anche questa nasce in un modo, cresce in un altro, e si sta trasformando per strada in un intreccio di tanti umori diversi, e tante casualità». E i professori cattolici di Fisica che non hanno firmato? «Sì, non hanno firmato ma senza polemiche» sottolinea il direttore del Dipartimento di Fisica, Giancarlo Ruocco, «la nostra è una facoltà con grande tradizione di tolleranza». Pochi dimenticano qui che sono vissuti insieme sempre i tanti cattolici e ebrei, brillanti matematici e fisici. Persino Giovanni Bachelet (figlio del professore Bachelet ucciso dalle Br) e cattolico, spiega il Direttore del DPT, non ha firmato per «sensibilità», «ma "ha detto che era d'accordo con la lettera"».

Il fatto è che, qualunque sia l'appellativo che si vuole usare per questi professori, va almeno notato che da dentro le Mura della Sapienza il mondo appare in maniera un po' diversa. «Siamo noi gli sconfitti, siamo noi ad essere sotto attacco» dice De Maria. «Il Papa non è un uomo qualunque, e non solo per la sua carica, ma perché è un forte e raffinato intellettuale che sta attaccando il laicismo, e che viene qui a segnare questo passaggio politico». Quello che nessuno sembra capire, fra studenti e professori, è perché non si comprenda che le posizioni del Papa sui sacri principi della Scienza, portati in territorio universitario - magari scalcagnato, logorato, sporco com'è quello della Sapienza, ma pur sempre territorio di studi - suonano come una delegittimazione di valori e di una missione da loro sentita non meno sacra e devota di quella della Chiesa. «E saremmo noi i censori? E chi difende allora il nostro diritto di parola?» dice il prof. Carabini, citando quella che secondo lui è la più bella frase mai pronunciata sul dissidio scienza-religione, pronunciata durante il suo processo da Guillaume de Conches, della scuola di Chartres, nel XII secolo: «Io so che nella sua immensità Dio può mutare un vitello in un albero, ma il mio problema è capire perché non lo fa mai». Da dentro l'Università, insomma, più che violenza si odora amarezza per il mondo lì fuori, e non solo quello del Vaticano. «Avrà notato» dice il preside della facoltà di Scienze politiche Fulco Lanchester - fra quelli che sarebbero invece andati ad ascoltare il Papa, ma rifiutandosi di fare il bacio dell'anello - che qui i manifesti non sono solo contro il Papa, ma contro Veltroni e il ministro Mussi». C'è molto di più, conclude con la sua solita secca schiettezza: «Ancora una volta tutto è stato gestito fin dall'inizio con incompetenza, ma soprattutto, ancora una volta, la politica vede i problemi che le pongono i media, non quelli veri dell'Università».

da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Così fan tutti
Inserito da: Admin - Gennaio 18, 2008, 03:29:35 pm
18/1/2008
 
Così fan tutti
 
LUCIA ANNUNZIATA

 
Per il bene di Sandra e Clemente, ma ancora di più delle istituzioni (sarebbe davvero uno scandalo di proporzioni enormi un processo nei confronti di un ministro della Giustizia), siamo fra coloro che sperano che le accuse di queste ore si sciolgano al sole di una verifica. Ma mentre il governo e il premier attendono questo giudizio (che può venire solo dalla legge), sia chiaro che la difesa di Mastella davanti ai cittadini non può essere basata sull’idea che non ha fatto altro che «far politica».

È questa infatti più o meno la voce dal sen fuggita dal Parlamento già ieri, e ripresa da molti commenti. Il profilo del caso, così come esce da queste prime intercettazioni, si dice, non sembra avere un gran peso «penale» in quanto manca «il passaggio di denaro» o «la presenza di potenziali intermediazioni di affari», volgarmente dette tangenti. In effetti, si ripete, Mastella e l’Udeur non facevano altro che trattare incarichi pubblici, applicare in maniera magari un po’ drastica, e con frasi troppo colorite (confermo: è vero che in Campania quando si dice «quello per noi è morto», significa che ha chiuso con te) gli accordi dentro la sua coalizione. E chi non fa questo? Mastella e l’Udeur insomma, non facevano altro che «far politica».

Con grande efficacia, il concetto è stato illustrato, con uno di quei colpi di genio mediatici che vengono solo a chi non fa parte del circuito mediatico, dai sindaci presentatisi a sostenere Mastella con le fasce tricolore orgogliosamente indossate.

Ma che questa sia o no la politica, è esattamente il dilemma e il problema intorno a cui la classe dirigente si sta giocando la sua stessa esistenza. È proprio vero infatti che nella realtà Mastella non ha fatto nulla che non facciano proprio tutti. Tanto per non andar lontano, le nomine di cui si discute con tale passione nelle telefonate politiche dell’Udeur sono in buona parte quelle della Sanità, le maledette nomine Asl, cui negli ultimi anni hanno legato il proprio nome i peggiori scandali del Paese, a destra e a sinistra. È nel giro delle nomine Asl e degli Ospedali che ha origine in Calabria prima un omicidio, quello di Fortugno, e poi un’immensa faida dentro un pezzo della Margherita.

A Genova il governatore della Regione, Burlando, Ds, è stato di recente quasi travolto dalla denuncia di medici genovesi contro l’eccesso di ingerenza dei politici nelle nomine dei medici. Scandali anche per il centro destra nella Sanità del Lazio; enorme macchina di potere la Sanità della Lombardia. L’influenza sulla spartizione del pubblico e dei suoi servizi è in Italia da tempo la radice e la ragione di un enorme cambiamento del fare politico. I partiti sono imprigionati in coalizioni obbligate, gli eletti sono scelti dai partiti, e il potere sulla macchina pubblica è la misura dell’influenza politica nel suo complesso. Un tutto che si tiene, e che ha permesso il lievitare, fuori da ogni credibilità di funzionamento, sia dei costi che della dimensione della gestione pubblica. La politica come macina-nomine, e suprema agenzia di collocamento.

Perché allora giudicare Mastella così duramente, si dice? In fondo il suo agire è solo parte di un trend, di un modo di essere, i suoi sono insomma non più che una serie di peccati veniali. Questa è la convinzione che ha fatto scattare l’applauso bipartisan del Parlamento; e questo è in gioco nella partita che la politica pensa di avere aperta con la giustizia. Senza mascherarlo neanche troppo, la politica sostiene infatti che una cosa sono le infrazioni vere e proprie (interessi legati ai soldi, corruzioni private etc), altro è l’esercizio dell’influenza politica e delle trattative politiche. Ma se questa distinzione passa, passa un’intera visione della società. Si parla, ad esempio, tanto di camorra in questi giorni. Ma cos’è la camorra se non l’idea che gruppi privati possano piegare le regole del gioco grazie alla forza? Cos’è la camorra, la malavita, la corruzione vera, se non la ricerca di una zona franca che permetta ai legami familiari, di gruppo, di sangue, o di convinzione ideologica, di contare più delle regole comuni della società? Con ciò non vogliamo dire che la politica è diventata camorrista, o malavitosa. Ma se è vero che la criminalità è innanzitutto una cultura, tanto per richiamarci all’eterno Sciascia, la politica non può non vedere l’affermarsi di una cultura pubblica che si nutre di alibi, scuse e scorciatoie come sostituto della legalità.

da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Il professore a Stalingrado
Inserito da: Admin - Gennaio 23, 2008, 05:49:55 pm
23/1/2008
 
Il professore a Stalingrado
 
LUCIA ANNUNZIATA
 

A chi si meraviglia dell’ostinazione, della forza con cui Prodi si batte per la sua legislatura, suggeriamo di riandare con la mente a una delle decisive battaglie della Seconda Guerra Mondiale. In queste ore, in effetti, il premier prepara la sua personale Stalingrado: accerchiato e inferiore di numero, vincerà se riuscirà ad aggirare e chiudere i nemici in un sacco. Il lato paradossale della situazione è che, se perde, non ci sarà nulla di eroico nella sconfitta.

Sarà solo una mesta, ma stavolta definitiva, riedizione della sua uscita di scena nel 1998, magari con Veltroni sospettato, invece di D’Alema, di complotto.

Mi scuso con i lettori per aver scomodato l’enormità di Stalingrado per una più modesta vicenda italiana, ma l’eccesso serve bene a spiegare lo spirito del Premier, e la peculiarità di questa crisi che solo formalmente si può chiamare di governo. La vera posta in gioco fra Palazzo Chigi e il Parlamento non è infatti oggi soltanto la sopravvivenza dell’esecutivo, ma il bastone della futura leadership del Paese. La crisi non nasce dallo scontro destra-sinistra; è piuttosto il frutto avvelenato della lotta interna a entrambe le coalizioni. Una sorta di collasso pubblico, una forma di resa dei conti, più forte dentro il centro-sinistra, più controllata dentro il centro-destra, che scoppia invece che nelle stanze chiuse delle sedi di partito fra i banchi parlamentari e sulle teste dei cittadini.

Il segno di questo percorso è il punto di origine stesso dell’attuale scossa: la nascita del Pd. L’evento prima di costruire, distrugge.
Nel centro destra, per effetto indiretto, suggerisce a Silvio Berlusconi, come sempre attento politico, che il vecchio ordine è logoro, che il cambiamento è necessario se la sua coalizione non vuole sembrare un museo delle cere. È il momento del «predellino», dell’annuncio impetuoso della fondazione di un nuovo partito, che provoca un tormentato periodo di rotture, distinzioni, e rivalità che spappolano la vecchia Cdl. Dentro il centro sinistra il Pd innesca lo stesso esatto processo: lo scioglimento dei partiti è in questo caso programmatico, ma non per questo meno devastante. Nuova organizzazione, nuovi gruppi dirigenti, e la vecchia classe politica dell’Unione - da Prodi a D’Alema, a Rutelli, ai sindaci, ai Popolari - nel giro di poche ore si ritrova in balia del cambiamento stesso, senza luogo e, soprattutto, al momento, senza ruolo.

In poche settimane l’Italia politica, già scossa dalle critiche alla «Casta», si avviluppa nel disfarsi contemporaneo delle due vecchie coalizioni intorno a cui aveva ruotato la pur faticosa vita dell’imperfettamente bipolare Seconda Repubblica; e l’avvio, a destra come a sinistra, di una serrata competizione per il ricambio della leadership nazionale. Chi è il nuovo, cosa è il nuovo, chi guiderà i processi, e su quale identità: sono questi i temi su cui la nostra vita pubblica si è bloccata. Nel centro-destra la competizione passa per il voto cattolico e\/o moderato; nel centro-sinistra la tensione prende la forma di una paralisi decisionale del governo. È un passaggio che ricorderemo probabilmente come storico, ma senza molta nostalgia: è una fase forse necessaria del cambiamento, ma somiglia molto a un collasso. La deriva formalistica in cui cade la discussione sulle riforme elettorali è la perfetta rappresentazione di un cambio tanto desiderato quanto impossibile.

La crisi odierna nasce così, da un’implosione del governo, e la sua soluzione è infinitamente più complicata e più imprevedibile, proprio perché non può far leva su una mobilitazione comune di natura affettiva o ideologica, antifascismo, antiberlusconismo essendo armi spuntate rispetto alla radice tutta interna della rottura. La caduta o no del governo Prodi, in questa situazione, non equivale dunque solo a elezioni per un nuovo esecutivo, ma al costruirsi di uno scenario completamente diverso per il prossimo futuro. Al di là delle dichiarazioni di oggi, e persino delle stesse volontà dei vari protagonisti. Così, ad esempio, nel centro-sinistra, elezioni oggi significherebbero la discesa in campo di Walter Veltroni, con un partito tutto nuovo e a lui legato, con la voglia di «correre da solo» e nelle mani il diritto-dovere di decidere con l’attuale legge i prossimi parlamentari. Insomma una notevole sminuizione di ruolo di tutti gli attuali potenti e potentati, nonché la ratifica definitiva della leadership del sindaco di Roma. Nel centro-destra, come si vede già ora dalla pace scoppiata nelle sue file, le elezioni anticipate sgombrano il campo alla riconferma della leadership di Berlusconi. Un game over per molti, forse per troppi. Se Prodi invece continua il suo governo, la competizione per la guida della nazione rimane più flessibile, più aperta, in un certo senso dunque più «democratica», ma anche irrisolta.

Il problema per il Paese non è semplice: se vogliamo un rinnovamento della classe politica, realisticamente dobbiamo sapere che il costo del suo collasso, della sua decadenza e della sua (eventuale) reinvenzione, dobbiamo pagarlo anche noi. Non ci sono scorciatoie.
 
da lastampa.it


Titolo: E adesso ministri e onorevoli sono in cerca di occupazione
Inserito da: Admin - Febbraio 05, 2008, 09:13:35 am
5/2/2008 (7:46) - ANALISI

E adesso ministri e onorevoli sono in cerca di occupazione
 
L'incubo del pensionamento

LUCIA ANNUNZIATA
ROMA


Un anno di gloria e dieci di solitudine, potrebbe essere la Spoon River per tutti quelli che scelgono di dedicare la vita alla politica. Li critichiamo spesso, i politici, ma quasi mai pensiamo al lato oscuro della loro esistenza: l’altalena fra certezza e incertezza. A fine legislatura, o a metà, l’odore amaro della sconfitta è sempre lo stesso. Fuori il mondo ti colpisce con il rumore delle strade e l’indifferenza dei comuni mortali. Ma mai più crudele è questo passaggio se alla fine di una legislatura si sovrappone una crisi di sistema e di fiducia pubblica che rende più incerto il futuro. Nelle versioni più ufficiali il quadro è uno sfoggio di fortitudine e consenso: «Ma se questo è un partito che non fa altro che consultarsi!», dicono dal Pd.

«Non c’è dubbio che molti saranno i nuovi, che Walter vorrà dare il suo volto e le sue scelte a questa campagna elettorale, ma il resto non può scomparire». Tuttavia, un rapido giro di telefonate più informali rivela una sospensione ribollente di giudizio, e anche molto malanimo. C’è intanto la sfida al voto. L’Ulivo si appresta a combattere fino all’ultimo respiro, ma dal fondo tutti vedono salire un denso sedimento di pessimismo. Chi fa i conti con il proprio futuro pensa dunque a lungo termine. Il primo cambio che questa crisi di governo si porta dietro è intanto quello generazionale. E’ probabile che la prossima legislatura porterà a una riduzione dell’età media del Parlamento. Si intravede lo svanire anche di un ruolo tradizionalissimo e nobilissimo: il ruolo del padre della patria, della riserva della Repubblica, o, se volete, del grande vecchio.

Osservate del resto come escono logorati da queste ultima esperienza i senatori a vita, usati, di volta in volta, come stampelle, attaccapanni, o colonna. Cade un plotone di illustrissime teste pensanti, davanti a cui svanisce la tradizione italiana che non negava un ritorno al potere praticamente a nessuno. Due uomini in particolare meditano oggi su questa prospettiva, due professori: il ministro del Tesoro, Tommaso Padoa-Schioppa, e il ministro dell’Interno più intellettuale che il Viminale abbia avuto, Giuliano Amato. Il primo aveva già fatto un anno di pensionamento, prima di tornare a Roma nel governo Prodi: la pensione non gli fa paura, e la ripresa di una routine europea, densa di libri e riflessione, non gli è sgradita. Nel futuro Pd gli economisti in salita, i consiglieri del Principe sono altri, Salvati, Morando, Boeri, differenti dall’attuale ministro non solo per età, ma anche perché il primo si è formato nel mondo delle ferree regole, i secondi nel mondo della deregulation.

Vivrà sereno, dunque, ma - dicono coloro che gli sono vicini - soprattutto si atterrà alle regole, appunto: «Prima di un anno, come vuole l’etica e il protocollo, il ministro non penserà a nessun altro lavoro nel settore privato». Tuttavia, per lui come per altri, è difficile che sparirà dal nostro orizzonte, specie se l’uomo con cui ha tanto lavorato, Prodi, avrà un ruolo ancora. Amato resterà sempre Amato, invece, un intellettuale bifronte o caleidoscopico, come preferite. Tornerà ai giri anglo-americani che tanto ama, dicono i suoi amici. Ma avrà sempre influenza, aggiungiamo noi. Complessa è invece la situazione della generazione di mezzo, i cinquantenni-sessantenni che oltre ad uscire da questo governo sono (stati messi) in uscita anche dai loro partiti. Per questa generazione l’arrivo anticipato del voto avviene prima che dentro il Pd si chiarisse l’equilibrio di potere. Per cui, fin da queste liste elettorali - che dipendono dal porcellum e dunque trattabili centralmente - avrà inizio il gioco del riequilibrio di potere.

Corrosive battute scappano, in merito, ai veltroniani: «Le aziendine devono rassegnarsi a restringersi». Per aziendine si intendono i gruppi amicali di potere, i fassiniani ma, ben di più, i dalemiani. Attraverso le liste elettorali si gioca il futuro di molti degli attuali ministri, come Turco, Pollastrini, Bersani, e di altri esponenti ex Ds come Bassolino («Farà il deputato europeo, e gli è andata anche bene», feroce realismo veltroniano), o Cuperlo, o i fassiniani Morri e Sereni. Mentre Anna Serafini ragiona su nuove strade. La scure sembra pendere sulla testa anche di altri, come la Melandri «che per un po’ sarà necessario far riposare». Salvo invece il futuro della Finocchiaro, «che Walter stima e che potrebbe restare come capogruppo di qualche commissione».

Buono è visto lo sviluppo anche di un’altra donna, Linda Lanzillotta, «che ha un giusto profilo tecnico ed è donna, e dunque perfetta per le esperienze alla Attali... anche se deve ridurre un po’ la sua spocchia di signorina so tutto io». Di Fassino si pensa che resterà sugli esteri, invece che sindaco di Torino, «perché lui stesso non lo vuole», e che D’Alema «farà di sicuro sempre qualcosa, ma come un’eminenza del partito». Un dalemiano ironizza: «Sì. Farà qualcosa. Navigherà come Micheli sullo Shenandoah». Massimo non si ritirerà certo, e non starà fuori, ma i suoi amici dicono che davvero al momento sente un forte distacco da tutto. Rimane Prodi, l’uomo meno leggibile di questa e altre legislature: «Tenace, di passo lungo, e vendicativo», sono gli aggettivi per lui. «Farà qualcosa, sempre», dicono i dalemiani che certo ben conoscono questo leader. «Presenta sempre i conti, e nel partito ci sarà sempre posto per lui». Ma prima di ogni altra considerazione c’è, come si diceva, la campagna elettorale. «Alla fine Walter avrà bisogno di tutti, e tutti finiremo dietro di lui».

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Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Hillary destino di donna
Inserito da: Admin - Marzo 04, 2008, 03:47:23 pm
4/3/2008
 
Hillary destino di donna
 
LUCIA ANNUNZIATA

 
La prova della verità, per Hillary, ha il nome di quattro Stati: Ohio, Texas, Vermont e Rhode Island. Per capire quanto combattuto sarà il traguardo, basta sfogliare l’almanacco storico che racconta che la prima e l’ultima volta in cui l’Ohio ha avuto un ruolo nella gara presidenziale risale al 1976 e che, significativamente, in quella data venne scelto Carter, la cui vittoria in questo Stato così poco controverso convinse tutti i suoi avversari ad abbandonare la corsa. Carter allora come Obama oggi. Carter chi? Un signor nessuno che prese come un’onda anomala la Presidenza. Vero è che poi si rivelò un presidente debole, e che Obama è lui stesso sospetto di tale difetto, ma per Hillary, qui e oggi, l’ombra di quel risultato è un ulteriore «memento mori» di cui è stata inanellata questa sua sfortunata avventura.

Fino a qualche mese fa molto pochi furono coloro che si spinsero a dire che Obama sarebbe stato il vincitore. Ma anche quelli che lo hanno sostenuto, fra cui io stessa, mai avrebbero immaginato di vedere a un certo punto Hillary annaspare. Ogni giorno meno in controllo di se stessa, ogni giorno con una nota di disperazione in più nella gola, una piega in più nei pantaloni, una giacca dal colore sbagliato, un Bill sempre più nervoso, un attacco a Obama fuori dalle righe. Avevamo indicato il suo punto debole: che la sua forza era quella degli apparati, delle élite, del denaro, della rete di sicurezza che una vita di lavoro e di autodisciplina ti costruisce addosso. Avevamo detto che Hillary non era una bandiera sufficientemente passionale, normale, ordinaria per rappresentare le donne.

Avevamo detto che era sbagliato il suo rapporto con il potere, con la politica, e irritante la sua pretesa di essere insieme moglie avvantaggiata dalle relazioni del marito e donna indipendente. Ma pur avendo affermato tutto questo - e bastava avere gli occhi per vedere quei piedi di argilla - la sua sconfitta sta arrivando ora con una velocità, una crudeltà e una inevitabilità che non ci si aspettava. Arriva come una mannaia e taglia tutti insieme i simboli: l’età, il gender, la cerebralità e le illusioni; ma arriva anche come una liberazione da tutto il perbenismo in cui si erano costretti i veri sentimenti della gente: si sente un’aria di esplosione dei pregiudizi nelle osservazioni minuziose che le si fanno, negli insulti che ci si permettono, nell’ironia su difetti fisici, le corna subite, la natura delle ambizioni, che mai a un uomo sarebbero propinati con tale gusto e ferocia.

Ora che sta perdendo, insomma, Hillary assaggia per la prima volta l’amaro pane della condizione di donna: la violenza che si scatena con gusto sul sesso debole. Nelle previsioni di voto gli uomini la detestano talmente che persino i democratici, in caso venisse preferita a Obama, voterebbero per McCain. Parabola dura, ma parabola vera.

Hillary ha incarnato la generazione degli Anni 60 e la rottura del femminismo, hanno sempre detto i suoi sostenitori. Purtroppo, questa affermazione si è rivelata col passare del tempo così vera da diventare una maledizione. Nel giro di pochi mesi, infatti, quell’immagine delle donne uscite dagli Anni 60, brave, studiose, operose, ambiziose, orgogliose, e in diretto conflitto con gli uomini, si è sfaldata nel riflesso di molte altre esperienze. Sotto la lente d’ingrandimento della campagna, Hillary è divenuta, di volta in volta, la donna tradita dal marito, la donna che combatte inutilmente contro le rughe attraverso massicce dosi di chirurgia, la donna che non riesce, nonostante tutta la sua bravura, a farsi amare. Fino all’emergere delle prime ansie, delle lacrime, delle crepe nel sorriso, delle risposte isteriche e, infine, come la vediamo in questi giorni, della disperazione di chi siede sull’orlo della sconfitta.

È un amaro specchio, quello in cui Hillary ci ha fatto mirare. Una storia che da donne conosciamo bene: non importa quanto lavori, ci sarà sempre alla fine un uomo che, con passo leggero e un sorriso, ti sorpassa sul filo e ti lascia dietro. Nella sconfitta, insomma, Hillary è tornata appieno donna, rappresentando infine bene, fuori da calcoli e forzature, il dolore che la sua generazione femminile si porta dietro. La sconfitta la rende umana, e - anche sostenendo ancora con la mente Obama - a questa umanità, come donna, oggi mi inchino.
 
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Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - La fine di un ciclo
Inserito da: Admin - Marzo 10, 2008, 03:03:20 pm
10/3/2008
 
La fine di un ciclo
 
LUCIA ANNUNZIATA

 
Romano Prodi ha annunciato il suo ritiro: «Io ho chiuso con la politica italiana, forse ho chiuso anche con la politica. Ma il mondo è pieno di occasioni e di doveri, c’è tanta gente che aspetta una parola di pace e di aiuto, e quindi c’è più spazio adesso di prima». Nel cinismo in cui si sguazza oggi, l’addio sarà forse lasciato cadere nel cestino della carta straccia insieme a tutti i virtuosi propositi di cui, in particolare a urne aperte, i politici abbondano.

O sarà letto nella girandola di retroscena preelettorali, adeguandolo al qui ed ora, del genere: «Prodi lascia per sottolineare le sue distanze dal Pd e dunque per danneggiare Veltroni...».

Credere alle intenzioni dei politici è certo difficile. Ma in questo caso, per le parole, per il tono realmente intimo e, soprattutto, per la scelta in sé, è difficile, al contrario, non crederci. Quella di Prodi è infatti una mossa non dovuta: uno spazio per l’ex premier era già segnato, contrattato quasi. La presidenza del partito, un ruolo da padre nobile e, perché no?, magari una possibilità di andare al Quirinale fra qualche anno. Avrebbe potuto dunque nascondersi in uno dei soliti incarichi «prestigiosi», lasciare la scena per un po’, e non annunciare nulla. Come hanno fatto tanti prima di lui, tanti ex premier, ed ex ministri. Ma appunto, avrebbe fatto come tanti altri.

Ci piace invece pensare che le parole di Romano Prodi siano un segno della diversità dei tempi, una vera rottura, e non solo stilistica, con il passato. Se ci fermiamo infatti un attimo sulla querelle delle liste senza lasciarci irretire dal piacere circense del chi entra e chi esce, troviamo nel passaggio di queste settimane un’indicazione chiara: la fine del governo dell’Unione appare davvero come la fine di un ciclo. Nello spazio di un tempo brevissimo (per i tempi della politica) il panorama è cambiato radicalmente. Come mai prima, la classe dirigente, di destra come di sinistra, ha fatto un passo indietro. Si ritirano ancora prima della fine della legislatura pesi massimi come Luciano Violante e Giuliano Amato; Vincenzo Visco, pure sotto tiro, non rincorre l’immunità parlamentare. Gustavo Selva, An, si tira indietro per non esporre il suo partito alla «figuraccia» da lui fatta; sull’altro fronte Diliberto lascia il Parlamento per dare spazio a un operaio.

Altri invece lasciano quella istituzione scalciando o in dignitoso silenzio, come Biondi e Jannuzzi, De Mita e Brutti, e, simbolo di questa rottura, Clemente Mastella. Molti altri non arrivano neppure alla scelta, con la decisione di «fare liste pulite». Per tutti, sia chi è riconfermato, sia chi esce, il luogo che li definisce non è più lo stesso. Nella macrofusione di varie sigle in due maggiori partiti, si confonde e cambia il ruolo di ciascuno: ci sono leader di partito come Fini, che arretrano nella posizione di vice, delfini come la Brambilla, che vengono scalzati dai favori, una fila di numero uno come D’Alema e Fassino, che cedono il passo a giovani e sconosciuti, portavoce che prendono posizioni più elevate di storici deputati di questo partito o quell’altro; e sindaci e governatori destinati a posizioni nazionali da sempre, come Cofferati e Bresso, che contemplano un affollamento difficile da penetrare, o governatori come Cuffaro, che per la prima volta scoprono l’amarezza di non stare in prima fila. Boselli e Santanché corrono per la premiership, mentre solidi deputati di lunga carriera nel Pci e Pds, come Angius e Salvi, si ritrovano invece confinati in piccoli gruppi.

Un terremoto, in realtà, che solo l’eccesso di abitudine e forse pigrizia, o sfiducia, ci impedisce di riconoscere appieno come tale. Senza voto, senza riforme, la politica italiana si è profondamente trasformata sotto i nostri occhi. E le persone che conosciamo da anni sono le stesse e non più le stesse, come in una delle commedie di Shakespeare, come in Sogno di una notte di mezza estate.

Si sarebbe Prodi dimesso se intorno a lui non ci fosse stato questo sconvolgimento? Ci sarebbero stati tanti drammi e scelte personali, se questo sconvolgimento non fosse stato serio al limite della violenza? E cosa c’è all’origine di questo mutamento?

Fra pochi anni forse ne vedremo le ragioni più chiaramente, e forse quel che sto per dire si rivelerà un errore clamoroso: ma, se i risultati possono farci capire il progetto da cui nascono, ci sono pochi dubbi che all’origine di tutto ci sia la forte ondata di critica alla politica che ha attraversato il Paese e che ha rotto molto più che la reputazione della Casta. L’antipolitica in effetti ha scavato a fondo, molto più efficacemente di una riforma parlamentare, nell’identità che la politica si era data fin dal dopoguerra. Ne ha spaccato la sacralità, ha svelato la non consequenzialità fra ruolo e privilegio, la mancanza di senso della separatezza, e per conclusione, la debolezza delle istituzioni. Così facendo ha alterato tutte le regole del gioco dei Palazzi Romani. Le regole che sostenevano percorsi come quelli dei Padri della Patria, delle Riserve della Repubblica, ma anche dei deputati anonimi ma eterni, delle operazioni di marketing televisivo, sono tutte saltate per aria.

Prodi, in compagnia di molti altri, sembra aver compreso che un mondo è finito, e che non ci sono scorciatoie. Ci piace credere che il suo abbandono sia il riconoscimento dei migliori politici alla forza delle critiche della base. Consapevoli che, nella saggezza di questo riconoscimento, c’è, dopotutto, motivo per pensare che un passo indietro è misura leninista per due passi avanti.
 
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Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Tutto già visto
Inserito da: Admin - Marzo 17, 2008, 09:58:36 am
17/3/2008
 
Tutto già visto
 
LUCIA ANNUNZIATA

 
C’ è un problema grandissimo», dice Silvio Berlusconi: «Quello dei brogli». Non l’aveva forse già detto? Ma sì, era solo due anni fa, e la storia ci ha perseguitato fino a quasi l’anno scorso. Già visto. E la raccomandazione ai candidati del Pdl di richiamare sempre l’ombra di Stalin?

Un classico del berlusconismo: già visto. Non che dall’altra parte non ci siano domande: il Ciarra, ad esempio, quanto conta? Davvero la sua presenza nel centro destra è una tale traumatica scoperta per il centro sinistra da indignarsi fino al cielo? E che crimine è stracciare un programma, come ha fatto Berlusconi? Non sarà mica, dopotutto, la Costituzione! Insomma, già visto, già visto.

Non è vero che, come molti sostengono, i grandi temi sono fuori dalla campagna elettorale. C’è lo scontro sulla natura della crisi globale, e sulla politica estera italiana, sulla ricetta per la ripresa economica, e sull’analisi del capitalismo. Alla fine, tuttavia, fatte alcune eccezioni, si ripresentano nella veste di sempre, guardati attraverso i soliti occhiali.

Facciamo l’esempio più paradossale che lo scontro in corso ci offre: entrambi i maggiori partiti, e in maniera marcata quello di Veltroni che ne è stato l’inventore e l’apripista, puntano oggi a liberare la campagna elettorale dal più antico vizio della politica italiana, la partigianeria. La promessa nuova fatta a noi elettori è stata quella di una politica che si focalizza sul fare e non sull’odio, sul «per» e non sul «contro». Propositi assolutamente condivisibili, e che hanno suscitato infatti molti entusiasmi in tutti. La verità del giorno per giorno ci svela però che quando la battaglia si accende, è per tornare sui soliti cliché.

Nel centro sinistra, per quanto Veltroni provi con sforzo immane a segnare la sua diversità, i cuori si sono davvero accesi sul Ciarrapico, cioè sull’antifascismo. E se fra i due schieramenti si deve parlare di identità non ci sono né ricette sulla precarietà né promesse di detassazione che contino: il filo della divisione corre piuttosto sul nome di Calearo, in un rigurgito marxista che vuole, a destra come nella estrema sinistra, che stiano «padroni con i padroni e operai con operai». In politica estera, dopo tante disquisizioni sugli «interessi nazionali», si ricasca alla fine nei soliti schemi: con gli Usa il centro destra, con gli arabi il centro sinistra. Al punto che il centro destra, pur di sottolineare il suo punto, arriva a proporre di ri-inviare soldati italiani in Iraq, mentre Washington ha solo il problema di come ritirarli. E il centro sinistra gli risponde con la solita, speranzosa, litania del «dialogo come migliore strada». Interessante invece che l’unico accordo fra i due grandi partiti, l’opposizione al boicottaggio delle olimpiadi in Cina, si sia formato senza nessuna sottolineatura.

Sulle donne nelle liste elettorali, si è detto fin troppo. Ma, giovani o vecchie che siano, possiamo smetterla, a questo punto di usarle come bandierine su un balcone? Abbiamo capito che fanno tendenza, ma che la Cgil, dopo l’ampiamente sfoggiata novità Marcegaglia, senta l’urgenza di annunciare l’intenzione (ripeto: «annunciare l’intenzione») di scegliere una donna come leader in futuro, è davvero un abuso della pazienza di tutti. Tutte sempre insieme (la presentazione delle candidate è sempre plurima), tutte sempre accanto al leader, con accuse incrociate fra Pd e Pdl su segretarie e veline (non cito quanto strasentite siano le battute), alla fine questo insistito modo di usarle come il volto del rinnovamento, sta cominciando a farle sembrare più come i polli di Renzo che come le facce di una rivoluzione alla finlandese.

Infine, la giustizia: la grande desaparecida della campagna elettorale è forse la più banalizzata. Se ne parla infatti solo (e quanto già visto!) per evocare lo scontro politica-giudici. Ma non lamentiamoci, potrebbe andare peggio: questa fuga della politica dalla giustizia si tramuta poi nella cosiddetta società civile, ai casi del padre di Gravina, della Knox di Perugia, o di Alberto con la bicicletta. Già visto anche questo: solo che una volta si chiamavano fotoromanzi. Niente di nuovo sotto il sole, dunque. A quattro settimane dal voto, per spiegare la propria identità, il ripiegamento sulle opinioni di sempre rispunta ancora come la vera strategia elettorale. Né questa tentazione è un dettaglio. A dispetto, o forse proprio a causa, della continua evocazione del cambiamento, le vecchie culture, le vecchie ideologie, sfidate, criticate, strappate come manifesti dal muro, continuano a tornare in scena, e vi ci si riaccomoda dentro come un buon vecchio rifugio. Per ritrovare un po’ di quella sicurezza cui il cambiamento sottrae.
 
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Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Contro il partito del no
Inserito da: Admin - Aprile 15, 2008, 10:54:12 pm
15/4/2008
 
Contro il partito del no
 
LUCIA ANNUNZIATA

 
La Lega ha vinto. Senza se e senza ma. Suo è ora il più forte mandato dentro il prossimo governo, perché suo è il successo più straordinario e sua è probabilmente l’indicazione più chiara che ci arriva dall’elettorato. Bisognerà ovviamente guardare bene fin nelle pieghe dei voti della Lega, ma fin da ora, guardando al quadro regionale dei consensi che ha raccolto e al parallelo sgonfiarsi di altre organizzazioni politiche, è possibile avanzare qualche risposta.

La più significativa delle vittorie regionali è forse quella in Emilia Romagna, dove il 7 per cento leghista ha creato un forte cuneo dentro l’insediamento storico del centrosinistra. La Lega ha avuto ottimi risultati inoltre in Piemonte, e risultati addirittura strabilianti nelle sue tradizionali roccaforti, il Veneto e la Lombardia. Tracciando un’ipotetica linea che unisca questi luoghi fra loro, ci troviamo di fronte a un disegno nuovo del profilo della Lega stessa: non più forza nordica soltanto, non più forza di valli e regioni pedemontane, ma una linea che sfonda i tradizionali limiti del Nord e già guarda al centro del Paese. Questi voti, insomma, non sono più solo su base regionale, ma offrono un’identità di «questioni». E qual è la maggiore delle questioni che uniscono questi differenti territori?

Ci sono le tasse, certo, ma Berlusconi sarebbe bastato se questo fosse stato il principale obiettivo del popolo leghista. Ci sono certo le intrecciate questioni sicurezza e immigrazione, ed è possibile che verso la Lega sia rifluito un certo disincanto dei votanti di An, che fondendosi dentro il Pdl ha rinunciato alla battaglia d’ordine di cui aveva fatto la sua bandiera.

I voti raccolti dall’organizzazione di Bossi sono tuttavia ben più di quelli che queste due questioni in sé gli avrebbero raccolto intorno. Spunta così una nuova ragione, che unisce tutte queste realtà: ed è la paralisi economica, l’impossibilità della micro e macroeconomia del Nord a operare in assenza di chiare capacità di prendere decisioni da parte del governo centrale. Possiamo anche dare un nome e un simbolo a questa paralisi del governo di Roma, che si è trasformata nella paralisi di un’economia che pure vuole, può e intende andar bene: le grandi opere.

Tutte le regioni che hanno dato il successo alla Lega sono infatti sulla carta legate fra loro dal bisogno vitale di una certa modernizzazione dello sviluppo: la grande rete viaria che dovrebbe facilitare i traffici con l’Europa, il rinnovamento dell’ormai impraticabile strada verso Venezia, la Tav a Torino, l’alta velocità nazionale, la Malpensa, i vari aeroporti locali, e persino la nuova base militare di Verona. Potremmo aggiungere il Ponte sullo Stretto, i rigassificatori, il miglioramento delle linee ferroviarie: questa sorta d’insaccamento in cui sono finite le comunicazioni del Paese è certo un danno per l’Italia tutta; ma la linea di guerra in cui i grandi progetti di modernizzazione del Paese si sono combattuti corrisponde quasi esattamente alla linea del successo leghista.

È insomma questo un voto che ci rimanda non a una spiegazione sociologica - la classe operaia debole, i commercianti, il popolo delle partite Iva - ; è un voto che coincide invece con la produttività impedita, non importa a che livello, non importa da chi e per chi. L’impressione è che per la Lega abbiano votato tutti coloro che accusano Roma di non capire, non sapere, di mettere troppi lacci, di aver sprecato tempo e denaro pubblico in un oscuro balletto di alleanze tanto fragili quanto remunerative per politici interessati solo a perpetuarsi. Un voto che raccoglie i malumori contro la «casta», e ben di più: è il voto che chiede attivamente di essere liberato dalla trappola della politica centrale.

È certo questa forse solo un’ipotesi: ma per smentirla bisognerebbe non aver mai prestato orecchi ai danni fatti, anche psicologicamente, all’Italia dalla politica del No: no alle strade come alla flessibilità, alla redistribuzione del tesoretto, al treno verso Parigi e agli inceneritori per la spazzatura. A proposito, non ci rendiamo conto che la débâcle della spazzatura è stata la somma dell’esasperazione della impotenza?

È stato il popolo dei No a condurre infatti il balletto degli scontri negli ultimi due anni. Non è così un caso che al successo della Lega corrisponde il collasso della sinistra radicale e di altre forze. Sfortunatamente questo popolo del No ha vissuto e prosperato dentro il governo Prodi. Non mi meraviglierò, dunque, domani di leggere che i voti operai e delle cooperative, e di molti cattolici si sono aggiunti a quelli delle piccole imprese e della partita Iva. È l’Italia che vuole crescere. E che non ha avuto la sensazione di avere più questa chance dal centrosinistra.

 
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Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Berlusconi e Bassolino amici per forza
Inserito da: Admin - Aprile 17, 2008, 12:28:08 pm
17/4/2008 (7:24) - RETROSCENA, L'INTESA POSSIBILE

Berlusconi e Bassolino amici per forza
 
Caso spazzatura, collaborare conviene a tutti e due

LUCIA ANNUNZIATA


NAPOLI
I divani delle terrazze di Villa Lucia sono stati rinfrescati l’anno scorso dall’interior designer Paolo Colucci, e rifoderati di un bel rosso. «Non rosso comunista - dice Colucci -, un rosso pompeiano per rifarsi alla storia illuminista di Villa Lucia, luogo di amore e poesia di Ferdinando IV di Borbone». Dettagli fino ad ieri conosciuti solo dalla famiglia De Feo-Fede, e che da oggi entrano nella scenografia della Repubblica. Villa Lucia, una delle più belle dimore storiche di Napoli, ereditata dalla neo senatrice Pdl Diana De Feo in Fede, è stata scelta dal premier come abitazione per i tre giorni ogni settimana che - ha promesso - spenderà qui fino alla fine dell’emergenza spazzatura. Da questi divani dunque Silvio Berlusconi guarderà il Golfo, vedrà il mare dove «luccica l’astro d’argento»: se ne innamorerà, come prima di lui hanno fatto schiere di illustri viaggiatori? Ne adotterà bellezze e difetti, la spazzatura e magari anche il governatore Bassolino?

Idea azzardata, ma non meno curiosa di quel 72% di schede per il Pdl uscite dalle urne di Capri, pure buen retiro di un mondo molto “democratico” (da Gorky a Lenin al Presidente Napolitano). Da Villa Lucia l’Isola Azzurra è ben visibile, e la sua armonia è parte di Napoli almeno quanto la rivolta, il populismo, il sanfedismo. Che dopo le barricate arrivino gli accordi qui è il ciclo naturale degli eventi. Direbbe Totò: al tuono segue la pioggia, e al fuoco la pizza! Tradurremmo noi: dopo gli insulti, fra il Nuovo Premier e il Vecchio Governatore - che per altro già hanno collaborato in altri ruoli, ad esempio il vertice con Clinton - seguirà ora una pace di fatto, se non addirittura una alleanza per salvare Napoli? Aprite le orecchie: nel Golfo se ne parla molto. E non come un pettegolezzo.

Due giorni fa il primo scambio di cortesie è stato pubblico. Il Governatore: «Berlusconi a Napoli? Benvenuto e buon lavoro. Per quel che mi riguarda collaboreremo come è sempre accaduto fin dal ‘93». La risposta è toccata proprio alla padrona di Villa Lucia, la Senatrice De Feo, che certo è alle prime armi come politica ma non come amica del Cavaliere: «Ragionevoli» ha definito le parole di Bassolino. Ieri, raggiunta al telefono, la Senatrice confermava, sia pur con cautela, le aperture: «I due si conoscono e c’è un obbligo di collaborazione fra le istituzioni. Su qualche aspetto locale, d’altra parte, qualche collaborazione per il bene della città non sarebbe negativa» . A Napoli, insomma, il classico caffè è stato offerto. Ma se saliamo di un livello e andiamo a Roma, troviamo una traccia ben più precisa. È passata, insieme agli auguri, in una telefonata fra Gianni Letta e un collaboratore del Governatore. Con il collaboratore che diceva «naturalmente, siamo a disposizione, capisci bene che non è una cosa formale, anche a voi conviene che noi si stia qui per un periodo, per sbolognare queste rogne...» e Letta che diceva, «...ne sono convinto…», con affetto e calore. Poi naturalmente le cose saranno più vischiose, ma il clima è buono.

Non una pace firmata, dunque. Gli eletti campani del Pdlcontinuano a chiedere la rimozione immediata di Bassolino ed elezioni regionali a ottobre. Questa sarà la linea ufficiale. Per la carica del Governatore circola già una rosa di nomi: quello della Carfagna va forte, nel caso non si materializzasse per lei un ministero. Ma troppi elementi fanno di una collaborazione fra Silvio Berlusconi e Antonio Bassolino se non un obbligo, di sicuro una necessità. Per il Premier vale il fatto che il suo partito in Campania, dopo quasi due decenni di egemonia del centrosinistra, è poco consolidato, con personalità di spicco ma nuove alla politica. Ci sono le insidie del territorio, bisognerà mettere le mani nello scottante intrigo di interessi che ha prodotto la crisi della spazzatura. Berlusconi può certo ricominciare daccapo, e da solo: ma perché non ricorrere a chi ha già fatto esperienza, a chi conosce le trappole? In questo senso l’orientamento del Premier si conoscerà molto presto. Fra un mese scade l’incarico del Commissario Straordinario, De Gennaro. Lui vuole andare via, e del resto il Governo Prodi intendeva abolire in futuro questo incarico: Berlusconi potrebbe confermare De Gennaro, nominarne un altro o farne a meno del tutto. Ancora: due giorni fa a Napoli si è esaminato il piano di transizione fra la fine del commissariamento e la gestione ordinaria della spazzatura, presentato da Walter Canapini, assessore regionale all’ambiente. Bassolino è soddisfatto di questo piano: perché Berlusconi non dovrebbe profittare di un lavoro già fatto? Bassolino, per conto suo, ha interesse a non impegnarsi in una guerra con il premier, perché i risultati gli hanno riaperto un passaggio, ed ha bisogno del suo anno di tempo per imbroccarlo. Il Pd in Campania è cresciuto, dice il Governatore, i seggi campani sono gli stessi (10) al Senato e solo uno in meno alla Camera. Rispetto al crollo nazionale, ragiona il Governatore, si può dire che la spazzatura di Napoli non ne è certo la causa. Bassolino liquida dunque i processi nei suoi confronti così: «A Roma c’è stato un terremoto politico. Tante cose sono cambiate, ora si è liberi rispetto a un quadro che ci paralizzava», e rilancia: «Ora bisogna pensare alle alleanze. Ora c’è bisogno di creatività, di passione e di laboratorio politico. Non si costruisce un’alleanza a tavolino». Laboratorio politico, per chi conosce questa città, è una delle parole chiavi della tradizione. Significa che la stagione di caccia è di nuovo aperta, e che - si sa - importante è (Ferdinando il Re Borbone insegna) prendere la selvaggina. Non chi spara.

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Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Perché tutti vogliono la Grande Meretrice
Inserito da: Admin - Aprile 27, 2008, 11:23:20 am
27/4/2008
 
Perché tutti vogliono la Grande Meretrice
 
Città-inciucio o camera di compensazione: la corsa è sempre qui
 
LUCIA ANNUNZIATA
 

Che un vento politico avviatosi quasi quindici anni fa al grido di «Roma Ladrona» si scateni alla fine proprio su Roma, non è affatto sorprendente.

A pensarci, anzi, non poteva che concludersi così. Quel sentimento contro Roma, iniziato come bandiera del separatismo leghista si è via via gonfiato, nel corso dell'ultimo decennio, di malcontenti e significati sempre più intensi. La Capitale è diventata il simbolo dei Palazzi, del Privilegio, dei Salotti, degli Accordi, e infine, tutta insieme, della Casta, il terreno dove fermenta, e si riproduce all'infinito, una classe dirigente, papalina o laica, estremista o moderata, tutta omologata alla fine da una cultura dell'immagine, della Tv, della distanza dal resto del Paese, e, dunque, dell'inefficienza. Avremmo avuto il risultato che c'è stato a queste ultime elezioni se al leghismo non si fosse coniugato questo sentimento Anti Casta? Avrebbero votato a destra pezzi della sinistra se le critiche alle élite politiche romane non si fossero fatte così aperte, dolorose ed esplicite ?

D'altra parte, il sentimento contro Roma «la Grande Meretrice» dell'Apocalisse di Giovanni, di San Bonaventura e di Lutero, non è la prima volta che spunta nella storia; e non sarà nemmeno l'ultima.

La contesa per Roma, anche in epoca moderna, ha sempre segnato l'inizio e la fine di fasi storiche - la Repubblica Romana del 1849, la breccia di Porta Pia, la fuga dalla capitale del Re Vittorio Emanuele III nel 1943, Roma città aperta, Roma delle Fosse Ardeatine, e quella degli scontri di piazza più violenti della storia repubblicana fra estremismi negli Anni Settanta. Tutto alla fine in Italia torna su Roma, prepotentemente.

Non ci vuole molto dunque a capire perché la sfida per la guida della Capitale, per cui si vota oggi, abbia catalizzato l'interesse e le passioni dell'intera nazione: lo scontro fra Rutelli e Alemanno ha infatti preso nei fatti il significato di una verifica del voto nazionale. Se anche Roma passa al centro-destra è la certificazione definitiva della forza del prossimo governo Berlusconi; se invece il centro-sinistra mantiene la capitale che ha guidato negli ultimi anni significa che non tutto è perduto, che proprio da Roma ricomincia subito la sua riscossa.

Ma è giusto vivere così intensamente questo scontro, o non è il solito riflesso mediatico; la solita proiezione, buffonesca e dissacrante, che Roma ama fare di sé stessa come nel brillante e autoreferenziale circuito intellettuale di Dagospia?

Purtroppo no. Sarebbe più rassicurante per tutti ridurre a un fatto nervoso la tensione di queste ultime ore fra Alemanno e Rutelli.

La verità è che questa corsa elettorale merita tutta l'attenzione che ha. Al di là dei luoghi comuni, e dei difetti, Roma rimane infatti il punto determinante nella gestione dello Stato. In maniera diversa da Milano, certo. Ma forse più rilevante. Se Milano decide infatti la composizione del potere, è a Roma che si definisce invece l'equilibrio del potere. Le forze che vi si muovono, pure così sfacciate e mondane per certi versi, sono la necessaria e inevitabile terra di cultura di ogni dialogo possibile; il luogo naturale in cui si scuciono e si ricuciono, ben prima della mediazione parlamentare, idee e rapporti di forza. La capitale è insomma tradizionalmente la camera di compensazione del governo nazionale.

Ha davvero un governo centrale bisogno di una funzione di questo tipo alle spalle, ci si potrebbe chiedere? Si potrebbe dire no, e farci anche una bella figura, appagando un po' di populismo anticasta (tanto a noi giornalisti non costa molto). Ma la verità è che tutte le idee e le mosse di governo hanno sempre bisogno di essere saggiate, provate, delineate prima di essere operative - e non tutti questi passaggi sono «inciucio». Da Roma operano le grandi Banche, e la Banca d'Italia, le direzioni delle industrie di Stato; operano Confindustria, i Sindacati, quasi tutta l'industria culturale italiana, sicuramente quella del cinema e della televisione, e sedi centrali o nazionali di molti giornali. Roma è il Papa, è la Vecchia Aristocrazia, nonché il paradiso dei Grandi Padri della Repubblica, e dei tecnici dell'alta burocrazia che mai cambia mentre tutto cambia. In questa città, che è anche il centro fisico della nazione, tutti questi poteri formidabili colloquiano con la Politica del governo. Filtrano opinioni e ipotesi, ricevono stimoli e segnali, aggiustano con il dito mignolo la direzione di una palla di neve, prima che arrivi a diventare una slavina. La ragione per cui posti «leggeri» come il ministero dei Beni culturali, o presidenze di istituti culturali, siano molto ambiti: la cultura è a Roma il liquido facilitatore di ogni rapporto.

Tutto questo è spesso definito, come si diceva, trasversalismo amorale, decadenza dei salotti. E' talmente forte questa idea che Bertinotti è caduto proprio sulle accuse di essere entrato in questo gioco. E certamente c'è sempre dietro l'angolo il pericolo che il dialogo divenga accordo, e l'accordo diventi criminale.

Ma non è necessariamente così. Roma sta al governo italiano come Washington sta al governo Usa, e come Parigi e Londra e Mosca stanno ai loro rispettivi governi. Nelle democrazie c'è sempre bisogno di una sorta di Bicamerale degli intenti, se non delle decisioni, e Roma è da anni la Bicamerale d'Italia a cielo aperto.

Che arrivi a guidarla dunque Rutelli o Alemanno farà una grande differenza non solo in termini di voti, ma anche e soprattutto nell'allineamento fra politica e poteri. Milano ha già fornito la prima tessera di questo equilibrio; Roma completerà, in un verso o in un altro, il puzzle.

da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Casta a sinistra
Inserito da: Admin - Aprile 30, 2008, 11:33:11 pm
30/4/2008
 
Casta a sinistra
 
 
LUCIA ANNUNZIATA


 
Per chi suona la campana della Casta?, ci siamo chiesti per quasi un anno intero, mentre il fenomeno ingrossava le rendite delle librerie e le piazze. Avevamo risposto un po’ in coro (ché il mondo intellettual-giornalistico-politico non è vittima, come dice Grillo, di servitù, ma di conformismo) che suonava per tutti. Certo l’attacco arrivava dritto contro il centro-sinistra, veniva riconosciuto, ma, si aggiungeva: «Solo perché è al governo». Il centro-destra del resto si sentiva ugualmente impaurito da quelle piazze insultanti.

In una intervista proprio a questo quotidiano Gianfranco Fini, allora presidente di An, appena tornato dalle vacanze, diceva «le critiche toccano anche noi», e che solo «la buona politica in futuro ci può far affrontare meglio queste sfide».

Ma il famoso sermone di John Donne, citato da Hemingway, quello secondo il quale nessun uomo è un’«isola», rispondeva alla domanda più precisamente: «... non chiedere per chi suoni la campana. Essa suona per te». Per ciascuno di noi. Questa campana (di morte perché in inglese «to toll» si riferisce al tocco del lutto) non è cioè un avviso generico, ma una specifica attribuzione di responsabilità individuale. Un anno dopo la comparsa del fenomeno, e a voti consolidati, possiamo allora forse oggi attribuire questa responsabilità: la Casta che veniva attaccata dal malumore popolare non era l’intera classe politica, ma solo quella del centro-sinistra.

Questo ce lo dicono intanto i numeri. Un tale dislivello di fiducia fra centro-destra e centro-sinistra non può essere spiegato da conversione ideologica, ma solo, come ormai tutti paiono accettare, da una crisi di rappresentanza. Concetto centrale della filosofia politica dalla Rivoluzione Francese in poi, la rappresentanza politica è il rapporto fra individuo e istituzione, la possibilità del singolo di vedere affettivamente soddisfatta la volontà espressa nella sua delega. L’antipolitica, al di là degli insulti con cui ha condito i suoi attacchi, ha sollevato appunto questo problema: la frustrazione dei cittadini, il distacco fra elettori ed eletti. Con una aggiunta che solo il voto ci ha reso visibile: questa frustrazione ha colpito più il blocco di centro-sinistra che quello di centro-destra.

Il perché, a questo punto, non è poi difficile da capire, anche solo prendendo in considerazione le parti più banali di questo processo. L’antipolitica ha battuto nei mesi scorsi su una pubblicistica moralisteggiante, descrivendo le élite politiche con categorie ineffabili, e crudeli - salotti, radical-chic, distanza - descrivendo una società divisa in due, con da una parte un luogo dorato e quieto, di scambi di parti, di ruoli e di favori, dall’altra il luogo dei bisogni reali, concreti, banali e solidi, della gente «comune». La divisione, pur semplificante, è diventata una potente ed efficace arma di attacco, perché ha messo il dito su una delle principali malattie del mondo contemporaneo: il privilegio.

E cosa è il privilegio, oggi? Non la ricchezza – che si può acquisire; non la professionalità – che si può acquisire. E’ la capacità di avere accesso facile alle risorse: cioè avere molto, a sforzo minimo. Da dove nasce questo privilegio? Dalla capacità di lavorare nel sistema, usarne le pieghe, manipolarlo.

I nuovi «cattivi» sono infatti oggi i finanzieri, i manager delle stock option, i mandarini delle istituzioni, i gestori della proprietà pubblica, e, infine, i politici. Un intero mondo di chierici che dovrebbe essere il garante delle risorse pubbliche e ne diviene invece il facilitatore per un piccolo gruppo di «privilegiati» appunto. E’ un fenomeno che sulla carta dovrebbe accomunare destra e sinistra. Ma, come si diceva, porta sotto accusa invece solo il centro-sinistra. Perché?

Primo perché la sinistra promette nel suo programma l’uguaglianza; secondo perché la classe politica di sinistra è statalista: promette dunque uno Stato amico e padre. Quando il centro-sinistra trasforma la sua rappresentanza in un mestiere del privilegio, e vive alle spese dei cittadini, commette un tradimento doppio. Mentre il centro-destra, percepito come rappresentante di un mondo e di una ideologia della ricchezza, è caricato di meno attese. Agli occhi di chi sceglie a sinistra le pensioni parlamentari, le macchine blu, il balletto di incarichi nazionali che si avvicendano tra poche persone, sempre le stesse, le liste bloccate e decise dall’alto, il verticismo, agli occhi degli elettori del centro-sinistra diventano i simboli, per nulla irrilevanti, della disparità del loro rapporto con chi li rappresenta. Il privilegio contro cui si è scagliata in Italia l’anticasta, il rimprovero nato dentro la sinistra dalla sua stessa base contro le élite al suo interno – politici, giornalisti, manager – è lo specchio non di un collasso di gestione, ma del collasso di una comunità di intenti.

La Casta è stata dunque trovata. Per questo diciamo che per il centro-sinistra quella di oggi non è solo una sconfitta elettorale, ma il rischio che il suo mondo scompaia. Capire chi e come rappresentare sarà il lungo lavoro di ricostruzione della prossima opposizione. Ricordando che in altri Paesi un processo così disarticolante è già avvenuto: dopo Clinton e dopo Blair ad esempio, e dopo Jospin. E che i segni di recupero non sono esattamente dietro l’angolo.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Piazze inquiete
Inserito da: Admin - Maggio 05, 2008, 12:41:47 pm
5/5/2008
 
Piazze inquiete
 
LUCIA ANNUNZIATA

 
La tentazione è quasi inevitabile. Pare in effetti una perfetta sequela di eventi: nella stessa settimana in cui il centrodestra chiude il suo trionfo nazionale nelle urne con la conquista anche della Capitale, un gruppo di neofascisti riduce in fin di vita la notte del 1° Maggio il giovane Nicola Tomassoli.

Episodio gravissimo, e da condannare. Ma sarebbe uno sbaglio se il centrosinistra si facesse risucchiare dalla tentazione di usare l’episodio contro il governo.

La prima ragione di questo eventuale errore ha a che fare con il merito. Isolare l’episodio di Verona e attribuirlo al nuovo clima nel Paese significa perdere di vista una più ampia inquietudine che scuote le nostre piazze, da diverse posizioni e per diverse ragioni. Proprio oggi La Stampa riporta una notizia che di questi tempi è sia normale che eccezionale: due sere fa un gruppo di vigili urbani in piazza Vittorio Veneto, il salotto di Torino, è stato aggredito, accerchiato, insultato, e costretto infine a ritirarsi, sotto l’attacco di decine di giovani che lanciavano bottiglie, sputi e insulti. Una rivolta nata dal rifiuto di una multa; un generico ma chiaro disconoscimento di autorità. Ma chiunque conosce l’Italia sa bene che in tutto il Paese, da Roma, a Campo dè’ Fiori per esempio, a molte altre città, lo scontro con le autorità è una tensione che attraversa tutte le notti. Attori ne sono spesso giovani senza precise coloriture politiche, e non riconducibili a nessuna organizzazione.

Ci sono poi, ancora, le tensioni nel Sud: a Napoli, ad esempio, proprio due giorni fa sono ricominciate le azioni degli incendiari di spazzatura e le proteste degli abitanti dei paesi vicini alla nuova mega discarica. Non si tratta della stessa gente, né della stessa causa: coloro che incendiano i cassonetti sono dei «sabotatori» dell’intervento pubblico; i cittadini che protestano sono persone che difendono la loro sicurezza. Ma sono uniti nello scontro con le autorità.

Nessuno di questi episodi è dunque riconducibile a identiche radici. In comune c’è un solo filo: i protagonisti sono tutti italiani, a dispetto della cultura anti-straniero su cui ha battuto il Pdl nella sua vittoriosa campagna elettorale. L’inquietudine che percorre il nostro Paese al di sotto, o al di là, della pelle politica della nazione, è dunque un fenomeno autoctono, che proprio nella molteplicità delle sue forme appare un segno dei tempi molto più del ritorno di una specifica violenza «fascista».

Impossibile non vedere infatti in queste tensioni il nervosismo che ha venato tutta la vicenda pubblica di questi ultimi anni, il malumore che il Paese ha poi certamente sfogato anche nel voto al centrodestra. Ma ridurre questa cultura e insoddisfazione al frutto avvelenato del governo di centrodestra sarebbe sbagliato oggi da parte del centrosinistra, così come è stato sbagliato da parte del centrodestra attribuirlo negli anni scorsi al malcontento contro il governo Prodi. L’inquietudine italiana di oggi è una combinazione di sfiducia nelle istituzioni, rottura dell’affidamento ai partiti, un disfarsi che sotto il nome dell’anti-politica ha fatto emergere la rottura del patto di rappresentanza fra cittadini e Stato. È un fenomeno di lungo periodo, che per ora è andato a favore del centrodestra, ma domani gli si potrebbe rivoltare contro, per le stesse ragioni e con le stesse motivazioni.

Ridurre tutto ciò ad antifascismo sarebbe dunque un errore. Dire che con la destra al governo torna la violenza in piazza, è una posizione efficace, ma arretrata. Perché guarda al passato, perché riporta la lotta politica a una dimensione conosciuta e soddisfacente, ma non adeguata alle tensioni reali dei nostri tempi. Cavalcare l’antifascismo come strumento, in un momento in cui il centrosinistra non ha ancora deciso i suoi strumenti e i suoi percorsi, darebbe insomma all’opposizione un’identità soddisfacente, consolante, emotiva, ma semplificatoria.

Sarebbe invece una mossa molto più istituzionale ed efficace chiedere al nuovo governo una presa di posizione chiara sull’episodio di Verona e su tutti gli altri, esattamente come nel passato il centrodestra ha sempre chiesto al centrosinistra di prendere le distanze dalle sue frange estremiste.

Difende di più i cittadini, infatti, avere un governo che dica con chiarezza come analizza e come intende affrontare queste tensioni, piuttosto che avere una zuffa politica di condanne reciproche fra schieramenti.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Il percorso di un presidente
Inserito da: Admin - Maggio 12, 2008, 11:56:12 pm
10/5/2008
 
Il percorso di un presidente

 
LUCIA ANNUNZIATA
 
Nessun cerimoniale al mondo avrebbe potuto scegliere meglio i tempi. Il discorso con cui il presidente Napolitano ha ieri commemorato la morte di Moro, aprendo una nuova stagione di riflessione nazionale sulla nostra storia, era preparato da molto; ma la coincidenza delle sue parole con il giuramento del nuovo governo Berlusconi, in una sequenza perfetta come una scenografia, è stato il miglior viatico che il Quirinale poteva dare a questa legislatura: una sottolineatura del compito che il Colle si aspetta da tutti nei prossimi cinque anni, l’impegno a lasciarsi dietro le liti e le decisioni ideologiche, per tentare di rimettere insieme il Paese.

Il messaggio è stato accolto bene. Tutti hanno omaggiato il Presidente e in particolare il governo ha festeggiato la sua «apertura» intellettuale. Le ragioni dell’entusiasmo sono comprensibili: la rilettura in chiave non partigiana della nostra storia è estremamente necessaria alla compagine di centrodestra, perché solo questo passaggio culturale, l’abbandono dei moduli del ’900, può darle quel riconoscimento finale che ancora le manca per sentirsi - e essere sentita - classe dirigente dall’intero Paese. Nessun dialogo e nessuna collaborazione istituzionale potrebbero esistere senza gettare queste nuove fondamenta.

Tuttavia se il Presidente di una nazione a lungo divisa, un Presidente che ha lui stesso radici «partigiane», apre un nuovo capitolo nella lettura della storia, fa comunque un passo che va al di là delle contingenze politiche. Ed è proprio questo aspetto meno occasionale che attira davvero la nostra attenzione. Giorgio Napolitano è un intellettuale di origine comunista, cioè parte di quella razza particolarissima che ha dominato il ‘900, di chierici formatisi e cresciuti nel senso della missione del loro impegno. Non intellettuali in sé, ma per sé, si diceva nei circuiti dove è cresciuto Napolitano, citando Hegel. Hegel, Kant, studiati ben prima di Marx; filosofi espressione dell’humus profondo della fondazione culturale dell’Europa moderna, nella cui visione etica, logica e fine sono un unico intreccio. La cultura non come specchio, ma come azione; e l’azione come obbligo morale. Da quella stessa radice, a guardare oggi il secolo scorso con occhi meno appannati dalle passioni, è nato in verità non solo il comunismo ma anche il nazismo, in una divisione di percorso che in conclusione ha condiviso non i fini forse, ma l’utopia e i mezzi sì.

Immaginiamo forse troppo, perché a questa generazione appartengono i nostri padri e come tali li abbiamo sempre studiati con l’intensità con cui gli adolescenti fissano vezzi e vizi degli adulti. Immaginiamo dunque forse troppo, dicevo; eppure il percorso che il Presidente della Repubblica sta facendo ci pare acceso non dalla contingenza, e neppure dal desiderio di servire il Paese. Il «revisionismo» di Napolitano ci piace pensarlo come frutto di un complicato e macerante percorso privato da parte d’uno degli uomini di quella storia, che ha avuto la fortuna non solo di sopravvivere ai suoi tempi, ma di diventarne per obbligo un simbolo. Il Presidente avrebbe potuto infatti evitare, personalmente, qualunque ripensamento: in fondo il Napolitano politico avrebbe potuto vantare patenti di «distacco dalla Russia» ante-litteram, convinzioni atlantiste non solcate da dubbi, maturate in anni quando nessuno ancora osava portare, come lui ha fatto, il suo comunismo nelle università inglesi e americane. Napolitano non avrebbe come dovere neppure quello di scusarsi della pecca maggiore della sua generazione: la macchia nera dell’appoggio alla repressione della rivolta in Ungheria, degli insulti agli operai rivoltosi definiti dai comunisti italiani «sediziosi» e «provocatori». «L’intervento militare russo in Ungheria serve a salvare la pace nel mondo», scriveva nel ‘56 l’attuale Presidente della Repubblica. Ma a quel giudizio errato non si è poi mai sottratto, e ha continuato a farne una lunga penitenza al punto da fare come primo viaggio all’estero quello sulla tomba di Imre Nagy, leader della rivolta ungherese ucciso dai russi.

Se ieri il Presidente ha parlato in maniera così chiara, esprimendo una potenziale equazione fra comunismo e nazismo, e ruotando su sé stesse le lotte degli anni di piombo italiani, in modo da esporre a luce la pena le vittime, invece delle ambiguità dei terroristi, non ha espresso parole contingenti, e nemmeno facili da pronunciare. Napolitano sembra fare davanti ai nostri occhi il disvelamento pubblico di un viaggio dentro la sua vita e dentro un’epoca. Non pensiamo sia facile per nessuno, tanto meno per una persona quale è lui. La sua emozione si vede, e spesso appare persino imbarazzante per lui, nella sua visibilità sotto le fredde luci degli occhi elettronici che lo inquadrano permanentemente.

Insomma, noi pensiamo che Napolitano creda in quel che dice; che non agisca sulla base di opportunità politiche nazionali. Ma proprio per questo, noi che spesso lo abbiamo difeso, vorremmo comunicare questa nostra convinzione anche al nuovo governo di centrodestra. Diciamolo con franchezza: l’appartenenza di Napolitano all’esperienza comunista è quello che il centrodestra gli ha sempre rimproverato; è lo strumento con cui sfama, periodicamente, il populismo di destra quando ha bisogno di accusare la sinistra, le sue Caste, o ha anche solo bisogno di destabilizzare il gioco politico. Sono ancora fresche le tracce di insulti e provocazioni con cui spesso è stato assalito l’inquilino del Quirinale nei mesi scorsi. Oggi che i politici del centrodestra, dunque, lo applaudono speriamo che essi stessi lo facciano in maniera non contingente. Che il loro applauso sia un identico segnale di apertura intellettuale.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Quasi quasi difendo Travaglio
Inserito da: Admin - Maggio 17, 2008, 11:26:25 am
17/5/2008
 
Quasi quasi difendo Travaglio
 
 
LUCIA ANNUNZIATA
 
Vorrei dire qualcosa a favore di Marco Travaglio. Inizierei dal dichiarare i miei personali sentimenti nei suoi confronti. Non per protagonismo ma perché i «sentimenti» - rancore, gelosia, oltraggio, paura - mi pare siano gran parte della discussione in corso. Parlo per esperienza.

Mi sono trovata infatti nelle fauci affilate di Travaglio, all'epoca della chiusura di Raiot in Rai. Fauci capaci di lacerare carne e ossa. D’altra parte, mi difesi con denti che credo non fossero meno taglienti. Vari anni dopo, la questione è sopita - e magari mi illudo oggi che Travaglio abbia scoperto in quello scontro una persona più retta di quel che lui pensasse; di certo io oggi penso che quello è stato un passaggio necessario, nonché istruttivo, per chiunque faccia un mestiere pubblico.

Travaglio ha infatti la capacità di fare da magnete di tutte le opinioni, i malumori, i sospetti che oscuramente ruotano intorno a una persona, o a una situazione. E di dargli voce.

Questa voce è il ruolo fondamentale della critica; che il critico abbia nel merito torto o ragione, è irrilevante.

Il merito: è esattamente questo l'aspetto con cui la nostra democrazia non riesce a fare pace. La possibilità di criticare è un dovere/diritto che si esercita in campo democratico «a prescindere». Al di là del fatto che le critiche siano giuste o sbagliate, fondate o meno, rispettose o irrispettose. La critica si esercita come fattore di inter-azione, è parte della trama stessa del tessuto che tiene insieme una società. Soprattutto è il principale canale comunicatore che mantiene in dialettica ricchi e poveri, eletti ed elettori, buoni e cattivi. La critica è, insomma, un meccanismo necessario proprio in quanto violazione dell'ordine costituito: solo così obbliga la società a una verifica continua e a una messa a punto del suo funzionamento. Senza andare troppo lontano, basta vedere come l'efficacia del giornalismo, anche quello più istituzionale, è nella sua capacità di vedere i punti deboli, più che rafforzare i punti già solidi.

C'è invece in Italia, e il caso Travaglio lo prova, da molti anni l'opinione che la critica va fatta solo come «stimolo», solo se doverosamente incanalata dentro un cosiddetto rispetto della persona o delle istituzioni. Ma questa idea è storicamente errata: senza il costante bombardamento cui la nostra cultura si autosottopone, non saremmo chi siamo. E' la nostra differenza di Occidentali, dopo tutto. Qualcuno ricorda alla fondazione del pensiero moderno l'Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam? O le tele allucinate di Hieronymus Bosch? La disinvestitura del potere, e lo svelamento della Pochezza che convive con la Grandezza sono dopo tutto i gesti che minano le piramidi sociali medioevali e inaugurano l'inizio dell'era moderna e della libertà individuale. Che ha dato a tutti noi il diritto di essere moralisti, fanatici, irragionevoli, cioè critici.

Ora, io penso che Travaglio, come tutti, sia fallibile ed abbia debolezze. Ma difendo l'idea che la sua irrispettosità dia forma a molte cose che il sistema non riflette o non include: che sia l'opinione dei deboli, o solo il sospetto, l'invidia, la rabbia, la reazione, è irrilevante. Rilevante è che questi elementi vengano alla luce. Come altro potremo spiegarci l'antipolitica? O pensiamo oggi che sia un fenomeno già concluso?

L'alternativa alla quale il sistema vuole arrivare, quale potrebbe invece essere? Un ordinato e rispettoso bussare alla porta assicurandosi prima di essere tutti ben accetti? Immaginare un mondo senza rabbie, sbavature e attacchi? E non sarebbe questo null’altro che la meccanizzazione di ogni diversità, un orwelliano paradiso riempito di aspidistre?

Certo, i politici, le istituzioni, tutti noi, abbiamo il diritto di non essere accusati ingiustamente, e di non essere vilipesi. Come del resto chiede appunto per sé anche Travaglio. Ma questo diritto si afferma nella spiegazione, nello scontro, nella capacità, insomma, di rispondere alla guerra; non nel dettare regole preventive, quali voler conoscere prima la sceneggiatura, o le domande di una intervista, o rivedere un articolo.

Cos'è alla fine la leadership se non saper sopravvivere alle critiche? Il dunque delle democrazie più compiute delle nostre è proprio questo: cosa ci insegnano infatti le sanguinose primarie in Usa, o la vita di leader come Blair o Thatcher? Solo da noi la leadership pare voler essere misurata unicamente dal suono di cimbali e trombette. Solo in Italia la leadership identifica il rispetto con l’unanimità di lodi, e la forza delle istituzioni con il silenzio che le circonda.

da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Il candidato mostri i suoi malanni
Inserito da: Admin - Maggio 24, 2008, 10:26:16 pm
24/5/2008
 
Il candidato mostri i suoi malanni
 
 
LUCIA ANNUNZIATA

 
Urge dibattito. Da anni il concetto di privacy nel nostro Paese è tirato da ogni parte e risponde a numerose sollecitazioni come la coperta famosa. Troppo corta per tutto: per coprire gusti culinari dei clienti, piccoli ritocchi al viso delle belle per sempre, le più recenti passioni delle celebrità di turno, la pace delle vacanze dei milionari, ma soprattutto ogni dato personale, dalla carta di credito agli indirizzi, alle tasse.

Da una decina di anni, cioè tanti da quando si è scoperto in Italia che la privacy è fatto politico e non solo letterario (ricordate i tempi in cui privacy si traduceva in «privato»?), la gestione pubblica della persona (o del suo trattamento) è divenuta ragione di aspre contese. Chiedo venia al Garante della Privacy, severissimo strumento di difesa di tutti noi, per la rozzezza con cui mi addentro in questo sofisticato campo giuridico, ma nessuno sa meglio di lui quanto l’uso e l’abuso della difesa dei propri diritti sia stato piegato in questi ultimi anni a discussioni che con la privacy hanno ben poco a che fare. Basta ricordare i due più recenti e clamorosi casi: le intercettazioni, e la pubblicazione su Internet delle dichiarazioni di reddito degli italiani.

Entrambi casi squisitamente politici - il primo costola della questione giustizia, il secondo costola dello scontro sulle tasse - e tuttavia affrontati come si trattasse di violazioni di diritti individuali.

Insomma, con una di quelle trasposizioni culturali cui si ricorre spesso nel nostro Paese per aggirare le difficoltà, i diritti della persona sono spesso stati chiamati in causa per evitare di parlare dei fallimenti della politica. Con richiami comparativi a sistemi più avanzati dei nostri: sostenendo cioè che la privacy è il metro di misura delle democrazie compiute, cioè quelle di tipo anglosassone.

E sarà pur vero: ma come spiegarsi allora il bel gesto con cui l’aspirante presidente degli Stati Uniti, il candidato ultrasettantenne John McCain, ha convocato ieri i giornalisti e ha consegnato loro 1173 pagine di sue analisi mediche che vanno dal 2000 al 2008? Sappiamo ora così dell’anziano senatore molto più di quanto sapremmo di nostro padre. Sappiamo che nel 2000 ha avuto un rilevante intervento al viso per asportare un melanoma, e che il rischio di un ripresentarsi del cancro non è finito. Sappiamo che i cinque anni e mezzo di prigionia e torture in Vietnam gli hanno lasciato segni di fratture ossee; ma anche che ha il colesterolo alto (per controllare il quale ha cambiato recentemente medicina), che riesce a correre per dieci minuti, che quando si alza di colpo soffre di vertigini, e che all’inizio dell’anno si è tolto il cerume dalle orecchie.

È molto di più di quello che sarebbe necessario sapere dei propri politici, per non dire di quanto ne vorremmo sapere. Un esagerato eccesso di mancanza di privacy, ci verrebbe da dire di fronte al quasi inutile sfoggio di dettagli. O una serena pratica di trasparenza? Tanto più serena in quanto non obbligata né dalle regole né dalla pratica istituzionale.

Sì, è vero. McCain deve rispondere ai timori che la sua vecchiaia suscita nell’elettore. L’ambizione di entrare alla Casa Bianca vale bene un’esposizione pubblica fino al colon (da dove, dimenticavo, gli è stato asportato un polipo); ma, si potrebbe ribattere, uguali ambizioni in altri Paesi (e non solo il nostro, in verità) non sono affrontate con identico spirito.

Uno dei più affascinanti temi negli studi dei politologi è quello del «corpo del Re», cioè la essenza mortale o statale, privata o pubblica, del potere; il rapporto con questo «corpo» da parte dei sudditi è stato sempre la misura nei secoli della distanza fra istituzioni e cittadino. Oggi, come scrive Federico Boni in «Il corpo mediale del leader. Rituali del potere e sacralità del corpo nell’epoca della comunicazione globale» (Meltemi Editore), la società dei media ha cambiato profondamente questo rapporto. La distanza si è accorciata, o forse del tutto annullata, grazie alla visibilità quasi totale in cui tutti si vive.

Molti leaders lottano con furore per mantenere il loro «mistero», come difesa e come strumento di governo. McCain invece, come molti leader intelligenti, ha scelto la strada opposta, concedendosi alla trasparenza totale. Ben sapendo che è impresa impossibile nascondersi ai raggi X del mondo. È un sacrificio totale della privacy, certo. Ma è questa rinuncia forse la messa moderna che vale la pena celebrare per la Casa Bianca.


da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - I due presidenti
Inserito da: Admin - Giugno 06, 2008, 10:42:59 pm
6/6/2008
 
I due presidenti
 
 
LUCIA ANNUNZIATA
 

In attesa del governo del Presidente - idea temuta ed esaltata in pari misura da nemici e amici di Silvio Berlusconi - la cronaca politica sembra portarci in un imprevisto luogo: il Governo dei Presidenti. Passo dopo passo l’accordo fra il Quirinale e Palazzo Chigi sta infatti emergendo non solo come cortesia istituzionale, ma come un progetto.

Un vero progetto, mirato a costruire una solida cintura di sicurezza intorno a istituzioni in transizione, un governo non completamente ancora sulle sue gambe e un’opposizione molto debole. Ad esempio, la tenaglia in cui i due presidenti hanno stretto la Lega nelle ultime ore è così visibile da non poter essere vista come pura coincidenza. Due giorni fa Napolitano ha fatto un’affermazione coraggiosa al punto da essere un filo sovraesposta: ci si ricordi, ha detto, della corresponsabilità di ciascuno nella crisi della spazzatura, con l’affondo: «Gran parte dei rifiuti tossici qui sepolti sono arrivati dal Nord». Frase leggermente sovraesposta, si diceva, nel senso che, come si è visto anche dalle reazioni, ha messo da parte il conciliante tono che si assume per la Presidenza della Repubblica a favore di un robusto intervento di merito. Un appello alla verità, mirato a rompere stereotipi e a non permettere la divisione del Paese in cittadini di serie A e serie B.

Il giorno prima, l’altro presidente, quello del Consiglio dei ministri, Silvio Berlusconi, aveva rotto l’unanimismo di queste prime settimane di lavoro governativo, dicendosi contrario al reato di clandestinità, cioè la misura che finora ha meglio espresso il clima culturale della nuova maggioranza. L’unica nota difforme era stata la scelta fatta dal ministro dell’Interno Maroni e dagli altri esponenti della Lega il 1° giugno di non prendere parte - vero e proprio sgarbo istituzionale - al tradizionale ricevimento della Festa della Repubblica: proprio il ricevimento dove l’accordo fra Berlusconi e Napolitano è apparso così perfetto da suggerire per la prima volta l’idea che nei giardini del Quirinale c’erano non uno, ma due Presidenti.

Entrambe le prese di posizione di Berlusconi e Napolitano convergono sullo stesso punto: inviare un messaggio alle punte oltranziste della Lega. È un accordo di visioni, che va oltre ogni ipotesi di casualità; e che le reazioni della Lega (sorpresa, delusione e disaccordo) mostrano sia stato ben capito.

Naturalmente, questa dei due Presidenti è un’immagine da definire con cautela: la figura del Presidente della Repubblica è, nella nostra Costituzione, iscritta nell’empireo del distacco. Ogni volta infatti che questo distacco è venuto meno per tradursi in passione - Cossiga e Scalfaro vengono inevitabilmente in mente - il sistema si è diviso, con ferite ancora non rimarginate. È giusto, dunque, non azzardarsi ad attribuire al Colle comportamenti interventisti.

Ma viviamo in un momento complicato, in cui la vittoria schiacciante di Berlusconi, dopo anni di equilibri numerici, sembra aver spappolato il centro-sinistra. E l’assenza di un’opposizione forte rischia di rendere sbilanciato lo stesso governo. Segni leggeri di questa dinamica si sono del resto già avvertiti: da una parte la nuova maggioranza sembra preda d’una sorta di ebbrezza, che si esprime in un fiume di annunci, iniziative e dichiarazioni reboanti; dall’altra l’opposizione pare essersi auto-ingabbiata nella formalizzazione di un governo ombra che è finora servito solo - a poco - da controcanto al governo vero.

Tra una maggioranza eccessivamente euforica e un’opposizione troppo labile, il rischio è che il dialogo, così necessario per mettere a punto tutte le riforme che si vogliono fare, non trovi una sua solida base. In questo potenziale vuoto d’iniziativa politica, si sta formando, per obbligo ancora prima che per scelta, la partnership dei Presidenti.

Le priorità dei due leader sono diverse: Berlusconi deve includere nella sua azione le voci che potrebbero sentirsi minacciate dall’eccesso di forza o dall’emarginazione delle idee. È il caso, importantissimo, dei cattolici e della Chiesa, un’area fortemente presente nei voti al Pdl (il 56 per cento dei cattolici hanno abbandonato il Pd alle ultime elezioni), ma che ha scarsa rappresentanza in Parlamento e scarsa rappresentazione (per ora) nella cultura di questa maggioranza. Il Papa infatti ha lodato il nuovo clima, ma la Chiesa ha espresso comunque tutta la sua indignazione per gli interventi muscolari contro zingari, stranieri e crisi della spazzatura. Per questo Berlusconi, che oggi va per una prima rilevante visita in Vaticano, prima di presentarsi di fronte a Benedetto XVI ha dovuto creare l’opposizione a sè stesso, autocancellando il crimine d’immigrazione illegale.

Il presidente Napolitano d’altra parte, in assenza di un’opposizione efficace, si trova di fronte a un problema identico: assumere sulle sue spalle il dovere di non far sbandare verso l’estremizzazione né la vittoria del centrodestra né l’impotenza del centrosinistra. In altre parole, entrambi i presidenti hanno necessità di delimitare e fermare un terreno d’incontro, un «centro» delle idee la cui esistenza garantisca e renda possibile lo scambio di idee.

Entrambi i presidenti insomma sono oggi investiti di una sorta di doppio incarico, in ruoli che potrebbero forzare le loro stesse funzioni. Il presidente del Consiglio è infatti di solito «equilibrato» dall’opposizione; e il Presidente della Repubblica è solo il notaio di questa dinamica. Ma nelle eccezionali circostanze in cui viviamo entrambe queste figure stanno divenendo anche costruttori oltre che garanti di un nuovo equilibrio. Che Dio gliela mandi buona, si dice in questi casi.

 
lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Opposizione, chi vince e chi perde
Inserito da: Admin - Luglio 10, 2008, 10:02:15 am
8/7/2008
 
Opposizione, chi vince e chi perde
 
 
   
LUCIA ANNUNZIATA
 
Pochi o molti che siano, simpatici o meno gli intervenuti, stasera alle 18 a Piazza Navona a Roma la manifestazione organizzata da Di Pietro, e benedetta da Grillo, fa partire una nuova competizione dentro il centro sinistra. Non certo sulla scelta dei leader ma sulla natura e sull’identità dell’opposizione.

Ancora una volta, come sempre è successo negli ultimi quindici anni, è la giustizia il passaggio obbligato. E il ripresentarsi della stessa questione ha portato già molti a commentare, fuori ma anche dentro il centro sinistra, che questo è il punto debole, il pozzo nero da cui l’opposizione non sa venir fuori. Schema di lettura che per altro è esso stesso non nuovo e della cui staticità conviene discutere.

Al momento è però forse più rilevante chiedersi se questa interpretazione sia giusta: se davvero la manifestazione di oggi a Piazza Navona sia sempre la solita cosa, il solito antiberlusconismo, il solito conflitto fra estremisti e leader del partito (oggi Veltroni, ma poteva essere chiunque altro). O se invece non sia in atto una dinamica diversa.

La diversità è intanto nelle mosse del premier. Anche lui, infatti, come i suoi avversari, ripete le parole e i gesti di sempre; eppure gli stessi atti hanno oggi un significato indubbiamente nuovo. Il Berlusconi che arrivò la prima volta al governo, più di un decennio fa, era molto diverso dall’attuale: il giovane e irruente affabulatore di allora era un uomo vigorosamente diverso dentro il panorama politico. I suoi interessi di fondo erano, allora come oggi, e per sua ammissione, «la difesa dei suoi interessi e di se stesso», ma nel Paese con lui arrivava comunque una ventata nuova. Così come nuove apparivano le sue parole contro i giudici: era fresca allora la memoria di Mani Pulite, il processo Andreotti in corso, per cui il discorso sulla giustizia risuonava di umori ampi perché coglieva i dubbi di molti.

Negli anni, invece, di pari passo alle misure ad personam con cui i nuovi governi Berlusconi intervenivano, lo scontro con i giudici diventò sempre meno corale, fino al solipsismo di una sfida individuale: un uomo contro un sistema. Il Berlusconi di oggi, che appena ritorna sullo scranno di premier riapre il suo contenzioso con i giudici (e le loro ombre, ai suoi occhi, cioè i giornalisti), introduce un ennesimo sviluppo di questa saga: lo scontro tra il premier e i giudici non è nemmeno più quello di un uomo contro un sistema, bensì un limitatissimo e focalizzato intervento su un paio di temi e un paio di processi. I nuovi interventi che Berlusconi chiede non hanno più nulla di epico, nulla che riecheggi una condizione storica: non sono conditi più né dalla retorica dei diritti individuali, né dall’interesse generale, e nemmeno da un forbito discorso sulla giustizia nelle democrazie. Non si evoca neppure la riforma della giustizia: lo scudo per il premier e le misure anti-intercettazioni appaiono, e sono, solo una piccola pulizia di un paio di angoli della casa che non erano ancora messi a posto.

La prova di tutto questo non è tanto nelle parole della sinistra, che è a sua volta spaccata, ferita dallo scontro con i giudici, confusa dalla sua stessa debolezza. L’estremo isolamento con cui Berlusconi porta avanti queste sue ultime accuse è rispecchiato dal silenzio di molti o dai mugugni di altri dentro il suo stesso schieramento. Parliamo dei malumori della Lega, dello sfilarsi di importanti ministri e importanti cariche dello Stato da ogni solidarietà con Silvio e, infine, dell’alacre progredire dei lavori con cui una buona parte del governo segnala il suo distacco dalla centralità delle questioni poste dal premier.

Non che non si capisca questo atteggiamento: ministri come Bossi o Tremonti, per esempio, hanno priorità molto diverse da quelle della giustizia, e l’impegno con cui il premier si butta invece su questo tema non può essere visto da loro che come una distrazione o una complicazione dei percorsi stabiliti. Bossi si rende infatti non a caso disponibile a discutere anche con il centro sinistra del Federalismo fiscale; così come ci sono pochi dubbi che la rottura del dialogo con l’opposizione penalizzi un progetto di riforme economiche. Quel che scrivo non va d’accordo con recenti sondaggi che danno il premier di nuovo in salita e i giudici in discesa nei favori popolari. Ma la valutazione reale del giudizio degli italiani andrebbe incrociata con un sondaggio sulle loro attuali priorità: quanto popolare o fondamentale appare loro lo scontro sulla giustizia?

Tornando alle scelte del centro sinistra: se le ragioni di Berlusconi contro i magistrati appaiono più pallide che in passato rispetto alla forza degli interessi generali, anche nella sua stessa parte politica, non conviene all’opposizione dividersi su questi temi. Il dialogo sulle riforme o sull’economia si può perseguire, senza necessariamente fare della giustizia le forche caudine di ogni accordo. La natura del tutto personale del terreno scelto dal premier è troppo evidente per farsene anche solo tentare. Si dica un netto no: sulla giustizia non si tratta. Non succederà nulla, vedrete, al resto del dialogo nazionale. Le cattive proposte si esauriscono da sole.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Obama a rischio Diana
Inserito da: Admin - Luglio 20, 2008, 09:39:24 am
18/7/2008
 
Obama a rischio Diana
 
 
 
 
 
LUCIA ANNUNZIATA
 
Sull’Altra Sponda, in Europa, si preparano schiere di politici e politologi; da questa parte, in America, si preparano invece i conduttori televisivi. Il primo viaggio all’estero del candidato democratico Barack Obama, è ancora di là da venire ed è già ottimamente piazzato nei media americani per diventare un avvenimento secondo solo ai viaggi di Diana. E, purtroppo, non è una battuta. La politica Usa con queste elezioni presidenziali tende a un nuovo primato.

La nazione che ha inventato la politica spettacolo sembra voler ora rompere anche questo argine e trasportare il candidato nella zona celebrities. La macchina del consenso appare sull'orlo di una nuova accelerazione mediatica: passando dalla rappresentazione al reality, dalle 24h a E-entertainment. Un giro con seri impatti da un punto di vista istituzionale, ma rischioso anche per lo stesso candidato democratico. Ma andiamo con ordine.

Due giorni fa è stato il Washington Post a «rivelare» che tutti e tre i principali conduttori dei tre maggiori network americani seguiranno Barack Obama in Europa, la prossima settimana. Un avvenimento nell'avvenimento. Questo vuol dire che Brian Williams, Charlie Gibson and Katie Couric lasceranno le loro sedi americane e apriranno ogni sera i loro Tg dalle varie tappe del candidato. Non è finita: da quel che scrive il Post, con tanto di conferme di fonti politiche, c'è già un accordo in base al quale il candidato concederà interviste a turno ai tre conduttori, ogni sera da una diversa capitale. Naturalmente, il movimento dei grandi Network è solo la punta dell’iceberg delle dimensioni del resto del circuito mediatico che seguirà questo tragitto: «L'Europa attende a braccia aperte Obama», già si scrive. Per misurare le proporzioni del fenomeno basta aggiungere un solo dato di «contesto»: nei passati quattro mesi il candidato repubblicano John McCain ha fatto tre viaggi all'estero e non è stato accompagnato da nemmeno uno dei network, che hanno lasciato la copertura ai corrispondenti. I Repubblicani, giustamente, stanno attaccando questo divario di attenzioni, denunciando la solita inclinazione liberal dei media Usa, per altro già dimostratasi fallace nel passato, sia con Gore che con Kerry.

Come definire questo processo: prefigurazione di una nuova era, o caduta nel ridicolo? C'è di che far riflettere anche il più appassionato ammiratore di Obama (incluso chi scrive). Ma la domanda qui ha forse meno a che fare con i media, e molto più con le strategie politiche e i suoi rischi. La fascinazione per Obama, il nero, il nuovo, il diverso, il desiderato ponte fra primo e terzi mondi, il potenziale ricucitore fra Camelot leggendario e presente deprimente, rimane l'arma più potente del candidato. Per ragioni che vanno anche al di là delle «speranze» che - come si dice in gergo propagandistico - egli suscita. Barack e Michelle sono molto popolari soprattutto perché sono perfettamente ascrivibili alla attuale cultura dominante delle nuove generazioni del paese: quella, come si diceva, delle «celebrità». Sorta di meticciato fra culture del blog, del glamour, della diversità razziale, della identità globale, del gossip e del successo, che rende oggi popolarissimo in Usa (e nel mondo) il neo impegno hollywoodiano fra Africa, adozioni, società civile e denaro e successo. Per spiegarci: le nuove generazioni americane sanno dei Kennedy perché oggi li vedono attraverso le lenti di questo mondo, e amano gli Obama perché perfettamente in linea con esso.

Non c'è in sé nulla di male, in questa cultura pre-post hollywoodiana. La più grande industria culturale degli Usa, come sempre, traduce il paese stesso. Dietro Obama si allinea il peso di un'America che vuole riportare lo sguardo fuori dai propri confini, e che vuole di nuovo dire: guardateci, siamo qui e amarci vale ancora la pena. Ma questo processo - se spinto alle estreme conseguenze - rischia di essere controproducente. Per ora Obama è, e rimane, un piccolo politico di Chicago, senza grandi esperienze né di governo né di affari internazionali. Fornirne un’immagine sulla linea dei Kennedy come i Brangiolini e degli Obama come Diana, è il miglior modo per bruciarlo.

da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Aggrappati a una spina
Inserito da: Admin - Agosto 06, 2008, 10:59:58 pm
6/8/2008
 
Aggrappati a una spina
 
 
 
 
 
LUCIA ANNUNZIATA
 
Mi rendo conto che il rischio è mischiare sacro e profano, ma è proprio questo il rischio da correre.

La morte che per ben due volte questa estate ha fatto strage di scalatori, anche italiani, sulle montagne più alte della Terra è accaduta in un altro mondo, eppure tra le bianche vette e il bianco lettino in cui giace Eluana Englaro c’è un sottile ma non lontano tracciato comune: in entrambi i casi ci troviamo di fronte alla scelta fra la vita e la morte. Il fatto che questo legame fra le tragedie non si veda è esattamente uno dei problemi che abbiamo nell’affrontare il caso Eluana, chiusi come siamo nelle nostre case, tranquilli e comodi cittadini, abituati a confondere e spesso a sostituire la parola con la realtà.

La morte in alta quota è stata trattata sotto quasi tutti gli aspetti: della sicurezza, dell’incoscienza, della commercializzazione della montagna. Ma nella discussione è rimasto sullo sfondo il vero nodo: la ragione per cui si corre il rischio di scalate di tal genere. La ragione per cui si sceglie di mettere a repentaglio la propria vita. Perché di questo si tratta: quel tipo di avventura è una consapevole esposizione alla morte. Dalla comunità degli alpinisti - stando a quel che si legge sui siti dedicati alla montagna - arrivano, invece parole che si misurano senza veli con questa scelta.

Ad esempio, sul sito Planetmountain.com, in un intervento dal titolo «Alpinismo degli 8000 e le storie da comprendere», Manuel Lugli - medico e lui stesso alpinista, che da molti anni con «Nodo Infinito» organizza e accompagna i viaggi degli alpinisti sulle montagne più alte - scrive: «In questo stesso sito, qualche anno fa, parlando per l’ennesima volta di morte sulle montagne himalayane, avevo rivolto una sorta di invito alla “sospensione del giudizio” sui fatti, sulle possibili ragioni che stanno alla base delle tragedie d’alta quota. Sostenendo che è molto difficile giudicare comportamenti e decisioni attuati nello spazio-tempo distorto dall’ipossia, valutare fatti e misfatti di uomini e donne che sono mossi da una passione così grande da portarli a compiere fatiche sovrumane, a correre rischi altissimi, ad abbandonare per mesi una cosiddetta “civiltà” per confrontarsi con la wilderness assoluta di una montagna. Giudicare è molto difficile anche per chi quei luoghi li conosce e li frequenta, figurarsi per chi scrive seduto a casa. Proponevo una sospensione, non un non-giudizio. Un momento di riflessione in più, che consentisse di considerare tutte le variabili e i risvolti delle storie, di ciascuna storia. Perché ogni storia è a sé stante, anche se sono tutte legate dal filo rosso della passione».

Nella presentazione dell’intervento la redazione riprende il tema: «È un’avventura tra luci e ombre quella degli alpinisti, una “magnifica ossessione” a volte, che richiede per essere accettata (se non capita e amata come da noi appassionati) sensibilità e conoscenza, unite alla lucidità che si ottiene lasciando decantare le emozioni che ci afferrano nell’immediatezza di un lutto in montagna».

Astratte dall’affanno della cronaca e del trauma, queste parole si avvicinano al cuore delle vicende: una scalata gloriosa quanto pericolosa è parte delle molte consapevoli volte in cui gli esseri umani scelgono di abbracciare per uno scopo l’esposizione alla morte. Questo scopo può apparire futile solo a chi non alza la testa: dietro le imprese come quelle dell’alta quota c’è in realtà la passione per saggiare e rompere i limiti umani. Una spinta che oggi è spesso rispecchiata nello sport, ma che è la principale molla che ha spinto avanti la specie umana, il suo gesto di noncuranza per quello che le veniva stabilito dalla generazione precedente, il suo alzare la testa a dispetto del Sole, il suo ripetere il gesto di Icaro.

Icaro: mito dell’umiliazione dell’arroganza umana, ma anche racconto disvelatore del conservatorismo arrogante degli Dei. In questa forbice fra obbedienza e rottura giace la dinamica dell’evoluzione, esistente - come dimostrano i miti greci - da ben prima che si arrivasse a chiamare tutto questo fede e ragione, scienza e dominio, ordine e libertà, destra e sinistra.

La fine di questi scalatori ci ricorda che vita e morte sono sempre una scelta, sia che si inclini per la quiete sfuggendo le sfide, sia che si abbraccino le sfide. E che in questa dinamica c’è l’essenzialità dell’evoluzione della specie.

C’entra tutto questo con Eluana? Conosco l’argomento che si può opporre a questo ragionare: gli alpinisti scelgono, Eluana no. In realtà non è così: la mancata volontà della ragazza allarga, non elimina, lo spettro di chi decide, obbligando gli altri, tutti noi, a farlo per lei. Per questa strada arriva nel cuore della società lo stesso dilemma che un pugno di uomini affronta salendo sulle alte vette: rottura o conservazione, continuità o salto nel vuoto? Per quanto azzardato appaia, questo è il filo comune tra la morte eroica sulle nevi e la morte in ospedale. Non ci aiuta certo a dare risposte immediate. Ma collocare il caso di Eluana fra le ragioni più ampie delle dinamiche umane che affrontiamo tutti i giorni, toglierlo dal suo status di anormalità per collocarlo nel senso dei gesti che l’umanità compie ogni giorno, ci permette almeno di poterne discutere, uscendo dalla trappola fede-\scienza , politica-\etica e, buon ultimo, Pdl-Pd.
 

da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - L'America smarrita
Inserito da: Admin - Agosto 12, 2008, 09:02:28 am
12/8/2008
 
L'America smarrita
 
 
 
 
 
LUCIA ANNUNZIATA
 
Nella prima vera crisi, che esplode oggi e che dopo le elezioni di novembre sarà probabilmente ancora aperta, i due candidati alla Casa Bianca hanno avuto la possibilità di mostrare la loro statura come leader del mondo.

Estando alle prime reazioni, si sono rivelati inadeguati al momento. La prova generale del conflitto in Georgia ha trovato il primo, McCain, pronto all’impegno al fianco della Repubblica ex sovietica - sbattendo però così contro il muro di cautela che il suo amico e presidente George Bush ha innalzato intorno alla questione; il secondo, Obama, si è limitato, dopo quasi tre giorni, a dire di essere preoccupato e di volere un mediatore terzo alla crisi (caspita!) - rivelando così un grande buco nella sua speranzosa dottrina di un mondo post 9/11.

È ancora troppo presto perché gli elettori colgano queste debolezze, essendo l’America assorbita, come del resto fino a poche ore fa il suo Presidente, nei giochi Olimpici. Ma nei circuiti politici e mediatici, e in quello altrettanto fervente dei blog, la povera performance dei candidati non è sfuggita. Soprattutto perché nella esitazione di queste ore si rispecchia una sorta di resa dei conti con le scelte degli ultimi anni in politica estera, fatte sia da democratici che repubblicani. Sulla Georgia, e sull’Ucraina (l’altra nazione minacciata dall’intervento russo) pesano infatti le ombre di Bill Clinton e George Bush, ma anche le teorie del multilateralismo e dell’unilateralismo, della Realpolitik di anni addietro di Kissinger, e quella più vicina dei Neocon. A riprova di questo intreccio, le dichiarazioni dei due candidati allineano ciascuno su un diverso asse.

McCain ha preso una posizione interventista, dichiarandosi decisamente al fianco della Georgia. Per l’anziano militare è una uscita non sorprendente visto il suo attivo coinvolgimento già in passato con la Georgia - ma le sue parole contrastano con la moderazione dell’attuale Bush, posizionandolo piuttosto con i Neocon. È Obama invece oggi al fianco di Bush, con la sua richiesta di mediazione internazionale. Il riallineamento è di non poco conto, perché segnala non solo la generale difficoltà dei candidati, ma degli stessi Stati Uniti nei confronti della Russia.

Chi è la Russia per gli Usa, un amico o un nemico? E’ la questione che negli ultimi anni ha attraversato la comunità dell’intelligence e degli esperti. E che finora era stata risolta in superficie con un certo fideistico ottimismo della storia. In un recente saggio, l’arcirealista Henry Kissinger ha scritto che l’era di Putin «non è guidata da sogni di restaurazione della propria gloria», ma «dalla ricerca di un solido partner, con l’America come soggetto preferenziale». Gli aveva fatto eco, sul versante sinistro, Stephen Cohen, celebre studioso di Russia e professore a Princeton, che ha sempre indicato la strada delle relazioni fra le due ex potenze come necessariamente di alleanza.

Tuttavia, una corrente di pessimismo e intransigenza ha sempre continuato a vivere sotto le dichiarazioni più ufficiali: la posizione, ben conosciuta, dei Neocon, riconfermata ieri da editoriali di Robert Kagan e Bill Kristol. Il primo che è anche advisor di John McCain ha ripreso il tema del suo libro «The Return of History and The End of Dreams», secondo il quale la principale ambizione dei russi «è ristabilire la Russia come il potere dominante in Eurasia». E Kristol ha fustigato l’impotenza Usa paragonandola alla impotenza dell’Occidente nei confronti del patto Hitler-Stalin. Ma, sia pur meno virulenta, anche nel campo di Obama questa opinione al fondo è sempre stata condivisa: Michael McFaul, di Stanford e advisor del candidato democratico, ha sempre sostenuto che la Russia è uno stato premoderno, dominato «dalla mentalità di Guerra Fredda di Putin», per il quale, «ogni cosa che può danneggiare gli Usa va bene per noi».

La guerra in Georgia, e la eventuale difesa dell’alleato, era dunque nelle carte: perché allora nel momento in cui la crisi precipita nessuno in Usa, a cominciare dal Presidente per finire ai due candidati, sembra avere una ricetta per affrontarla? La risposta è probabilmente nella crudezza con cui la Russia ha, abilmente, evocato il fantasma del Kosovo. Se quella guerra fu fatta per la difesa dei diritti umani di una minoranza, e finì con la separazione dello Stato Kosovaro dalla ex Jugoslavia, gli Stati uniti si trovano oggi di fronte a un deficit di «legalità». Un deficit che entrambi i partiti politici condividono: se è stato infatti Clinton a inventare la guerra umanitaria, è stato Bush a concedere l’indipendenza al Kosovo. Infine, c’è il non piccolo problema delle responsabilità degli Stati Uniti nel conflitto in Georgia. Gli Usa hanno in Georgia, secondo il Dipartimento di Stato, 130 addestratori dell’esercito locale: possibile dunque che nessuno abbia informato Washington che il carissimo alleato georgiano si stesse muovendo? E ancora, molti ricordano una sequenza significativa: il primo luglio mille marines Usa hanno partecipato a manovre congiunte con le forze georgiane in una operazione battezzata «Operation Immediate response 2008», conclusasi solo 10 giorni prima della invasione russa. Una coincidenza?
 
da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Il nemico ritrovato
Inserito da: Admin - Agosto 14, 2008, 07:52:18 am
14/8/2008
 
Il nemico ritrovato
 
 
 
LUCIA ANNUNZIATA
 
Il quinto punto e il sesto. Sotto scrutinio della diplomazia americana ci sono proprio queste due richieste, aggiuntive, volute dal presidente russo Medvedev e dal primo ministro Putin, all’accordo raggiunto con il francese Sarkozy.

Accordo lodato in pubblico ieri dal presidente Bush in persona: «Gli Stati Uniti appoggiano con convinzione gli sforzi del presidente francese, nel suo ruolo di presidente della Unione Europea, nel tentare un accordo che ponga fine a questo conflitto». Ma valutato, appunto, con occhi diversi nelle stanze degli specialisti. La vaghezza del linguaggio di queste aggiunte russe lascia aperti vari e rilevanti problemi.

Il quinto punto non chiarisce dove si devono posizionare le truppe russe e quelle georgiane, né quale deve essere il ruolo dell’esercito di Mosca, di cui si chiede il ritiro, ma cui si assegna anche una funzione di peacekeeper per «mettere in atto ulteriori misure di sicurezza»; il sesto punto lascia nel vago il futuro della discussione su Abkhazia e Ossezia del Sud. Allo stato attuale, dunque, la valutazione realistica della amministrazione Usa, secondo il New York Times, è che nell’accordo raggiunto le richieste russe accettate «permettono ai russi di fare quasi tutto quello che vogliono. Ma quando Sarkozy ha presentato a Saakashvili l’accordo, il georgiano non aveva nessun potere di trattativa. L’idea è che gli è stato presentato come un “questo è tutto quello che si può ottenere”».

Sarà arroganza, sarà opportunismo, ma la soluzione europea sembra dagli Usa più che una via verso la soluzione, una sorta di tregua che permette di prendere tempo. La cautela e la lentezza continuano ad essere il segno di quella che appare, appunto, una tattica di temporeggiamento per permettere a Washington di trovare una propria misura nella crisi. Intanto c’è un piccolo movimento di truppe in corso, sia pur mascherato: ieri Bush ha annunciato di aver inviato in Georgia una missione umanitaria, che consiste in un aereo con medicinali, un Us C-17, già arrivato, e un secondo in arrivo domani. Insieme agli aerei è partito un contingente di forze di fanteria e marina, «che poi svilupperà l'azione umanitaria». Contemporaneamente si sviluppa l’attività diplomatica: Condoleezza Rice è partita verso la Francia da cui raggiungerà la Georgia, riconoscendo nel suo stesso itinerario la funzione avuta dall’Ue.

Questi due passi sono definiti «il maggiore coinvolgimento degli Usa finora nella crisi georgiana». Ma, viste più da vicino, anche queste mosse appaiono una sorta di teatro delle ombre. Così come c’è un divario fra valutazione pubblica e privata dell’accordo europeo, la stessa distanza fra parole e fatti si ritrova nella funzione di queste misure. La missione è stata sostenuta, sempre ieri, da Bush con gli aggettivi «vigorous and ongoing» accompagnati da un fermo avvertimento alla Russia di «mantenere il suo impegno a permettere ogni aiuto umanitario possibile». «Ci aspettiamo che la Russia assicuri che tutte le linee di comunicazione e di trasporto, inclusi i porti, gli aeroporti, le strade e lo spazio aereo, rimangano aperti per permettere l’arrivo delle missioni umanitarie». Bush si è anche schierato con il «governo democratico della Georgia» e ha insistito sul «rispetto della integrità territoriale del Paese».

Ma se pensate che tutte queste parole siano un «vigoroso» avvertimento, aspettate a sentire i commenti del Pentagono. All’entusiasmo con cui Mikhail Saakashvili ha interpretato le dichiarazioni, sostenendo che gli Usa intendono occupare e mettere sotto controllo i porti e le vie di comunicazione, un portavoce del Pentagono ha spiegato ufficialmente: «Non vogliamo né abbiamo bisogno di prendere il controllo delle vie aeree e marittine per portare a termine la nostra missione».

In che direzione, dunque, vogliono andare gli Stati Uniti, che messaggio si può leggere in questo loro gioco fra apparenze e realtà? Se si dovesse scommettere sulla base di come opera questa grande potenza, diremmo che si muove verso una discreta ma chiara delineazione di un fronte di Guerra Fredda attiva in Georgia. Il primo segno reale e visibile di un ritorno alla geografia politica di quel grande scontro, come da anni ormai anticipato e spesso invocato da molti esperti.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Ritorno al passato
Inserito da: Admin - Agosto 24, 2008, 06:19:53 pm
24/8/2008
 
Ritorno al passato
 
 
LUCIA ANNUNZIATA
 
Se il Partito Democratico avesse uno Scalfari americano o se Graham, fondatore del Washington Post, fosse ancora vivo o se Ted Kennedy non fosse malato: solo una di queste figure avrebbe potuto offrire a Obama una rassicurazione istituzionale maggiore di quella che gli porterà come vice presidente l’appena scelto Joe Biden.

Per il candidato democratico che ha fatto del cambiamento la bandiera della sua campagna, la scelta di Biden, gran navigatore dei corridoi del potere di Washington, è forse la prima vera ammissione di debolezza. Ed è anche il segno della profondità della turbolenza in cui è rientrata la collocazione internazionale degli Stati Uniti.

Fra tutte quelle possibili, Biden è infatti la scelta più convenzionale - più «sicura», preferiscono dire i commentatori americani - che il democratico potesse fare. Di certo, fino a pochi giorni fa non era fra le più quotate. Per mesi Obama ha ragionato intorno a personaggi che in una maniera o nell’altra rappresentavano la sottolineatura della sua diversità dentro il sistema. Uomini come il governatore della Virginia Tim Kaine, cinquantenne, bianco dal fluente spagnolo perché figlio di missionari in Honduras; o una donna, come la governatrice Kathleen Sebelius o la stessa Hillary Clinton. Ciascuno di questi avrebbe rafforzato il cambio, raddoppiandolo o ricucendo una frattura dentro il voto e l’establishment democratico. Che la scelta sia caduta infine proprio su Joe Biden è forse la più chiara, sia pur indiretta, affermazione di una profonda riflessione in corso - e forse di una messa a punto di programma - da parte di Obama.

Biden è un perfetto rappresentante di una delle costituency tradizionali del partito democratico, gli operai, bianchi cattolici (che da anni abbandonano il partito), ma la vera dote che porta al candidato è la sua ultradecennale esperienza fra gli intrighi, le trattative, gli scontri, e gli accordi del più grande «Boys club» del mondo che è il Senato americano. Nella sfera dell’equilibrio dei poteri fra Giustizia e Legge, o fra poteri presidenziali e decisionalità in politica estera, nulla è stato toccato a Washington senza che Joe lo abbia approvato. Per questa esperienza, Obama mette in secondo piano i temi del rinnovamento strutturale o generazionale del sistema (Biden ha sessantacinque anni, fra l’altro, solo pochi in meno di McCain): un cambio leggero ma sicuro di prospettive, che rivela i timori che Obama ha maturato, a questo punto, sulla collocazione internazionale degli Stati Uniti.

Il senatore Biden in politica estera è parte della vecchia generazione, della grande tradizione della politica estera bipartisan; un uomo che sa gestire il mondo uscito dal ’900. Esattamente come McCain. Un mondo che non è quello post razziale e post 11 settembre, che Obama prospettava fino a poche settimane fa. Scegliendo Biden, insomma, Obama in parte torna a guardarsi indietro e sceglie in realtà la persona del partito democratico più vicina al suo avversario McCain, il cui peso è in veloce risalita dopo la crisi con la Russia.

Quattro anni fa, in un’altra corsa presidenziale, Joe Biden se ne uscì con una battuta che fece allora scandalo: il ticket perfetto ai suoi occhi, disse, era composto da John Kerry e John McCain. Oggi quella battuta suona come un’intuizione.

da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Grande Hillary
Inserito da: Admin - Agosto 28, 2008, 11:58:45 am
28/8/2008 - DEMOCRATICI
 
Grande Hillary
 
 
LUCIA ANNUNZIATA
 
Finalmente. Finalmente una donna in meno e un politico in più sulla scena mondiale. Hillary Clinton, arrivata boccheggiante alla fine della corsa presidenziale che avrebbe dovuto vederla vincitrice, ha avuto nell’ultimo round l’illuminazione giusta, e ha ricorretto il tiro. In un virtuale striptease si è tolta i fronzoli.

Si è tolta i fiocchi, le lacrime, le tenerezze, i ruoli di mamma e moglie, insomma tutta quella bardatura da «donna» che l’attuale cultura politica l’aveva obbligata a indossare, e alla luce dei riflettori è rimasta scintillantemente nuda, in tutta l’intelligenza, la cattiveria, la capacità di calcolo e di tattica d’un politico di razza. E grazie a questo ha vinto.

Il discorso con cui due giorni fa, dal palco della Convention di Denver, la Clinton ha (forse) salvato il destino del partito democratico (e il suo) in queste elezioni 2008, contiene una morale politica, che a guardar bene è una sana lezione di realismo. «Voglio che voi vi domandiate: avete partecipato a questa campagna solo per me? O per quel giovane marine, o per la mamma malata di cancro che fatica a crescere i suoi figli, o per quel ragazzo e la madre che tirano avanti con il salario minimo?», è il passo più significativo di questo discorso. Domande e risposte retoriche, ma efficaci nel contrapporre l’interesse generale a quel «per me», formula che condensa tutta l’ipertrofia personalistica in cui la politica si è trasmutata nello scorcio di secolo: l’elezione come percorso imperniato su un personaggio più che su una persona, su un’immagine piuttosto che su una linea politica. Complice una cultura dei mass media considerati più nel loro potere di condizionamento che in quello di convincimento. Dalla Thatcher e Reagan, a Blair e Sarkozy, la storia di questi ultimi due decenni potrebbe essere facilmente raccontata nel passaggio da personaggi realmente carismatici, e dunque produttori di immagini, a personaggi carismatici solo attraverso le immagini.

In questo gioco di travestimento della politica, il ruolo di «donna» ha avuto uno spazio sempre più grande: come nella commedia dell’arte, la politica alla ricerca di nuove identità da spingere in scena ha ripescato le maschere meno utilizzate. Le donne, i giovani, poi le minoranze, i nuovi immigrati, i neri. Maschere - diciamocelo - perché mentre il potere reale non si è mai spostato dalle mani in cui è sempre stato, queste nuove identità sono state spesso solo la rappresentazione del nuovo, illusioni ottiche per mostrare un cambio in atto, senza che ci fosse. Il nuovismo, appunto. Dentro le cui vacuità si sta perdendo più di una democrazia (e di un partito) occidentale.

Solo grazie a questa sorta di vacuità politica, del resto, si poteva arrivare, come si è fatto, a descrivere le elezioni della più rilevante carica politica del mondo, quella del presidente degli Stati Uniti, come una competizione fra la Prima Donna e il Primo Nero alla Casa Bianca. In una gara di «mascheramento», in cui i due candidati hanno in qualche modo dovuto autolimitare la misura della propria sfera d’influenza per diventare figurine pubbliche. Con il risultato che in questi mesi una campagna elettorale partita in maniera molto stimolante ha cominciato, agli occhi degli stessi elettori, a perdere senso proprio a causa del suo eccesso di simbolismo.

Essere «nero» o «donna» si sono rivelati ruoli sempre meno convincenti rispetto alle richieste di leadership nate dalla crisi del prezzo del petrolio, dei mutui, o della Georgia. Entrambi questi forti candidati hanno alla fine raggiunto Denver molto più deboli che all’inizio, anche in termini di favore di voto. E la Convenzione nelle prime ore è sembrata, invece che nuova, normalizzata, con le solite figure: da Joe Biden a Ted e Caroline Kennedy, a Gore, a Bill Clinton, fino al discorso di Michelle Obama, ex ragazza ribelle dei quartieri neri, costretta a impersonare, in questo gioco di maschere, la versione nera di Jackie Kennedy, che a sua volta fu costretta a impersonare una First Lady che non era.

Poi, Hillary sembra aver capito. È salita sul palco e ha fatto quello che un politico di razza deve fare: non alimentare il proprio spazietto, il proprio piccolo mito, ma prendersi la responsabilità per tutti e di tutti. Ha smesso i panni della Evita Perón delle femministe di mezza età ed è tornata il politico-avvocato: additando obiettivi e costi necessari a vincere e capitalizzando così in senso vero la scommessa sulla vittoria: aumentando cioè la somma finale non sottraendo i propri voti.

Discorso da politico, ripeto. Crudo, nel senso che in politica conta vincere. Ipocrita, perché dopotutto non ha mai detto le cose che pur avrebbe dovuto dire di Obama: ad esempio, che è inadatto a guidare il Paese in una crisi internazionale. E realistico: Hillary sembra aver capito prima di altri nel centro di Denver quello che è successo nelle ultime settimane. Le tensioni con la Russia hanno infatti avuto un immediato impatto anche in questa campagna elettorale, rovesciandone le logiche: una nuova lacerazione dentro l’Occidente (non più con il nemico «terzo») è cosa troppo seria per essere affrontata con quattro cliché sulla democrazia, due luoghi comuni su donne e neri, e qualche bella immagine su Cnn.

Ma questa parte della vicenda è ancora tutta da scrivere. Per ora ci basta segnalare che, dopo mesi di lagna, Hillary per la prima volta ha fatto un discorso in cui non ha mai detto di essere la Prima Donna che vuole entrare alla Casa Bianca. E per questo la ringraziamo.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Donna-panda, addio
Inserito da: Admin - Settembre 04, 2008, 12:15:24 pm
4/9/2008
 
Donna-panda, addio
 
 
 
 
 
LUCIA ANNUNZIATA
 
C’è qualcosa di liberatorio in quello che sta succedendo alle donne. Hillary, Sarah, Emma. Dai podi delle Convenzioni americane a quelli della Confindustria italiana, le donne arrivate al potere vengono sinceramente e vigorosamente attaccate. Qualcuno ci riprova a evocare il maschilismo, ma, francamente, a quel livello di potere e in questa versione, a destra come a sinistra, possiamo dire con tranquillità che si tratta di un’arma spuntata. Vedo che molte si indignano, ma questa ondata di critiche dovrebbe essere invece celebrata per quel che è: una chiara indicazione che la questione donna non è più nel cerchio magico delle aree protette, nella zona panda, nel circuito delle minoranze, nel dibattito di valori astratti. È divenuta una normale discussione sulla gestione del potere e la capacità di chi lo gestisce. Benvenute, dunque, ragazze, alla maggiore età e all’uguaglianza della lotta politica.

Prendere o lasciare, questo è l’insegnamento che ci viene da quelle che appaiono, insieme, le due settimane migliori e peggiori nella vita di alcune figure femminili. Un tratto comune lega infatti tra loro vicende apparentemente lontanissime. Della storia di Hillary, così esposta, non abbiamo nulla da ricordare ai nostri lettori/lettrici, se non come è finita. L’essere donna non è bastato nel caso della Clinton a superare i limiti di una piattaforma politica; in compenso la carriera di Hillary è tornata a brillare proprio quando alla Convenzione democratica ha messo da parte il corsetto femminile per divenire il kingmaker di Obama. Ha trionfato cioè quando ha rinunciato a brandire la rivendicazione delle donne, ma ha fatto l’unica scelta responsabile per un politico: unire il partito, unire il voto, diventando così una figura con cui Obama dovrà fare per forza i conti. Dopo quel discorso - come abbiamo già scritto - c’è una donna in meno e un politico in più sulla scena mondiale. Come tale la giudicheremo, e del resto lei stessa ha voluto così.

C’è stata poi Sarah Palin, la cui selezione ha funzionato da prova del nove (se ce ne fosse stato bisogno) del fatto che non si tratta più di una questione donne. Se McCain intendeva mostrare la modernità dei repubblicani e lanciare un ponte al voto femminile rimasto scontento dalla esclusione di Hillary, ha dovuto ricredersi subito: le donne democratiche hanno fatto a pezzi la bella Sarah; la poderosa Maureen Dowd (già aspra critica di Hillary e del femminismo hillarista) l’ha ribattezzata «Trophy Vice» (Trophy Wife è la seconda moglie, più giovane e più bella della prima); i media tutti, inclusa la militante di destra Fox Tv, le hanno scaricato addosso l’esilità del suo curriculum, come del resto già fatto con Obama (che al confronto sembra Churchill, è stato scritto); infine sul New York Times Garry Wills, editorialista principe di tutti i conservatori, alla vigilia del suo discorso alla Convenzione le ha chiesto di ritirarsi: «Forse il Governatore Palin», rendendosi conto della sua inadeguatezza, ma anche «per minimizzare la sua stessa umiliazione, dovrebbe ritirarsi prima di essere nominata, e lasciare libero il senatore McCain di scegliere qualcuno con maggiore esperienza».

Infine Emma Marcegaglia. Su un palcoscenico molto meno visibile, sta anche lei sperimentando una tempesta perfetta: a pochi mesi dalla ovazione che ha accolto la sua nomina a presidente della Confindustria, è aspramente criticata, persino nel suo ambiente, per il conflitto di interessi in cui è caduta accettando come imprenditrice di partecipare alla cordata Alitalia.

Sono forse prova di maschilismo questi attacchi? Al contrario: queste donne vengono attaccate per quello che fanno, cioè per le loro capacità o incapacità. Qualcuno avrebbe accettato un vicepresidente uomo, un Hillaro, che tentava di fare le scarpe al presidente, o un vicepresidente, Saro, che non ha altra esperienza se non quella di gestire uno Stato di 670 mila abitanti? Così per Emma Marcegaglia: un Emmo sarebbe stato certamente criticato di fronte alle stesse scelte di conflitto di interessi; dovremmo scusarla invece perché è la prima donna a capo della Confindustria?

In questo senso, quel che succede è, appunto, il raggiungimento di una maggiore età e di una cittadinaza vera per le donne: essere giudicate non per il fatto di portare una gonna, ma per il merito; per quello che si sa fare, non perché si è rosa.

D’altra parte, questo è un processo avviato da tempo: la Royal ha perso perché era politicamente debole la sua proposta, mentre la Merkel è senza discussione il politico più autorevole d’Europa, in quanto la più abile di tutti, e anche se va a fare la spesa ed è stata colta una volta in costume da bagno a nessuno viene in mente di attribuirle meriti in quanto «donna». Un processo sano, che ha liberato le ingessate relazioni femminili, bloccate dalla vecchia convinzione che le donne in quanto tali si devono sempre difendere tra loro. L’altra metà del cielo oggi ha sviluppato una forte e limpida lotta politica al suo interno: contro Ségolène scese in campo un gruppo di autorevoli donne del Ps francese e le loro critiche si rivelarono preveggenti; negli Statio Uniti donne di destra e di sinistra si attaccano come belve; e anche nella nostra Italia, dentro gli stessi partiti, le donne si sono divise sul merito di una nomina o un’altra, sulla base delle capacità di ciscuna.

Tutto questo costituisce il passaggio dal corporativismo femminile alla cittadinanza completa. Stesse opportunità degli uomini, stesse responsabilità, stesse botte. Ma anche stesso giudizio di merito. Un entusiasmante traguardo di vera uguaglianza.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - La scommessa di Epifani
Inserito da: Admin - Settembre 20, 2008, 10:51:24 am
20/9/2008
 
La scommessa di Epifani
 
 
LUCIA ANNUNZIATA

 
Sono stati scomodati i controllori di volo di Reagan e i minatori della Thatcher per ricordare la gravità dello scontro sull’Alitalia. Non molto è stato detto invece di una partita che rende ancora più rilevante, se possibile, il braccio di ferro intorno alla compagnia di bandiera: il destino e la leadership del Partito democratico. Il Pd non è apparso un soggetto molto attivo nella contesa, ma è possibile leggere nelle decisioni di Epifani il peso del fatto che questo partito è tornato (volenti o nolenti i suoi leader) a dipendere dalla Cgil. Una dipendenza che è lo specchio di un disegno di sfida al Pd lanciato proprio intorno all’Alitalia dall’attuale premier in campagna elettorale, e riproposto nel progetto di salvataggio governativo. In questo senso, se invece di duellare sulle ragioni del mercato accettiamo di prendere atto della totale politicità dello scontro, risultano più chiare anche le scelte di Epifani. A nessun commentatore è sfuggita, ad esempio, la contemporanea (e difficile) discussione in corso in Confindustria per il rinnovo del modello contrattuale.

La Cgil è molto dubbiosa su questo accordo perché ridisegna le relazioni all’interno del mondo del lavoro; lo stesso problema è il vero nodo dell’accordo Alitalia: la convergenza fra piloti, sigle autonome e Cgil non è avvenuta sui soldi, ma sulle regole dei rapporti aziendali. Che questa fosse l’essenza della contesa lo conferma lo stesso governo, quando con il ministro Sacconi continua a ripetere che oggi l’obiettivo per far ripartire il Paese è togliere dal campo gli ostacoli della contrattazione. Poteva davvero il sindacato accettare di far passare una rivoluzione di tale importanza nel mondo del lavoro, il cambio del peso della rappresentanza, senza far sentire la sua voce? Nella soluzione proposta dal governo per l’Alitalia è contenuta anche una seconda essenziale sfida al Pd. Se Epifani avesse firmato, nonostante tutte queste perplessità, ci sono pochi dubbi che l’assenso sarebbe stato spiegato anche come risultato della presenza in cordata di uomini «di sinistra» come Colaninno e Passera: con la conferma del passaggio a una fase di cogestione fra destra e sinistra che nessuno ha ancora né approvato né discusso. Dopo la rottura con la sinistra radicale e quella con Di Pietro, la firma da parte di Epifani di una tale piattaforma - anche se in nome di un’emergenza nazionale - avrebbe significato un ulteriore colpo a quel che rimane dello spazio e dell’insediamento sociale del Pd. La Cgil - su cui pure pesa la responsabilità dei molti no del passato alle varie soluzioni per l’Alitalia - questa volta non si limita al no, ma prova persino a rilanciare una certa egemonia sindacale: la sua posizione oggi non sarebbe la stessa se non segnasse la convergenza della Cgil con sigle autonome o di destra. E proprio questi incroci politici, aggiunti alle condizioni fatte per la Cai, rendono credibile - anche agli occhi di chi non è un economista - la possibilità che qualche nuova soluzione ci sia, magari offerta dallo stesso fronte del no. È un gioco pericoloso quello del capo della Cgil, ma non è detto ancora che sia fallito. Se anche solo questo azzardo riuscisse a spostare su un terreno migliore i rapporti di forza fra sinistra e governo, gli effetti sarebbero immediati. Come si è capito fin da ieri. Al leader della Cgil sono arrivati infatti gli appoggi di Liberazione, Manifesto, Europa, in parte dell’Unità (rifugiata in un doppio commento) e soprattutto della componente ex Ds del Pd: Bersani e D’Alema sono del resto ben consapevoli che i loro rapporti con Colaninno li obbligano a una scelta chiara, pena aggiungere l’accusa di «inciucio» alla sconfitta. Possiamo davvero chiamare tutto questo una resa della Cgil agli interessi della sua area politica invece che a quelli del Paese? Facile dirlo, più difficile dimostrarlo: non si capisce bene infatti con quale forza i molti richiami al mercato vengano proposti in un momento in cui in tutto il mondo lo Stato scende in campo e in Italia il ministro dell’Economia predica «il mercato quando è possibile, lo Stato quando è necessario». La partita è politica da entrambe le parti, rassegniamoci. Ed Epifani è il più adatto a condurla. A dispetto infatti dei numerosi richiami al ruolo avuto nel passato da Cofferati, l’attuale capo della Cgil ha poco del suo predecessore. Guglielmo Epifani, quello stesso che oggi viene accusato dal governo e rimproverato da parte della sinistra riformista, ha dato un grande contributo a cambiare l’orizzonte del sindacato, a portarlo da «Mr No» a protagonista nella ristrutturazione del Paese: o abbiamo già dimenticato l’emarginazione dell’estremismo della Fiom? Epifani è per altro un ex socialista, difficilmente dunque sospetto di simpatie per radicalismi Anni 60 e tradizioni comuniste. Questo suo profilo gli dà una forza nei confronti del sistema che Cofferati non aveva. E se in questo passaggio tattico riesce a dimostrare che la proposta del governo non è l’unica, riesce cioè a ricompattare di nuovo identità di sinistra e capacità di opposizione, questo profilo potrebbe anche essere - perché no? - quello del possibile nuovo leader dello stesso Pd.


da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Obama in mancanza di meglio
Inserito da: Admin - Ottobre 09, 2008, 10:35:02 am
9/10/2008
 
Obama in mancanza di meglio
 
 
 
 
 
LUCIA ANNUNZIATA
 
Il paradosso dei paradossi sarebbe che Obama divenisse ora Presidente in mancanza di meglio. Colui che avrebbe dovuto personificare una radicale svolta dell’America, il primo nero alla Casa Bianca, l’uomo del cambio generazionale, eletto alla fine sull’onda d’una semplice deriva. Siamo seri, qualcosa non funziona con il candidato democratico. Ha perso carisma, anche se è sempre gradevole; ha perso appeal, anche se tutti lo baciano; ha perso grinta, anche a parole, ma soprattutto pare non abbia più nulla da dire. Questa distanza non siamo certo i primi a notarla, sebbene i suoi collaboratori abbiano già cercato di rigirarne il segno, definendola «uno stato zen», che pare potrebbe rivelarsi una forma di leadership, rappresentando la calma nel mezzo della tempesta. Può essere. Ma più che zen, Obama appare il cerbiatto abbagliato dai fari. E la macchina è quella della crisi economica che sopravviene veloce.

Nel secondo dibattito con McCain sull’economia, cioè su quel battito cardiaco accelerato che fa pulsare il sangue nelle vene d’America, Barack ha fatto un discorso ripetitivo, senza nessuna originalità di formule, e ancor meno soluzioni.

Di fronte a un crollo inimmaginabile, da lui non è arrivato uno scatto intellettuale, o anche solo l’indicazione di una strada da prendere. Come si salva l’America da questa enorme crisi, può dircelo passo per passo?, chiede il giornalista durante il confronto. Obama risponde, letteralmente: «Io penso che tutto cominci con Washington perché siamo noi, intanto, a dimostrare di avere un comportamento virtuoso... Sono convinto che molti dei presenti soffrono di non poter condividere il proprio peso con altri... Ognuno di noi deve contribuire... Per questo dobbiamo tagliare il bilancio statale usando non l’ascia ma lo scalpello, in modo da non ferire nessuno». Se questa non è la solita generica dichiarazione di buone intenzioni, vuol dire che non ho capito niente (il che è possibile). Ma non mi pare che tali affermazioni abbiano fatto salire la Borsa.

Tutto questo non ha nulla a che fare con la performance di McCain, apparso anche lui debole; ma almeno ci ha provato, annunciando a sorpresa un piano dello Stato per rinegoziare i debiti di una buona fetta di proprietari di casa in difficoltà. Dei piani dei repubblicani l’America non pare fidarsi e la proposta non ha scaldato i cuori. Obama poteva inserirsi qui: ma si è limitato a riprendere il suo filo, dando l’impressione di parlare dal palco come se fosse solo. Mentre McCain prometteva nuove perforazioni negli Stati Uniti per trovare il petrolio, nuove centrali nucleari, Barack rispondeva promettendo alle donne educazione e assistenza medica, in particolare sostegno alla maternità e mammografie. Se McCain tentava di alzare i toni, «i cittadini sono arrabbiati, preoccupati e piuttosto timorosi», Obama rispondeva con il linguaggio del tenero familismo democratico: ha usato la parola «you» o «yours» novanta volte, ha parlato di sua madre, di sua moglie e persino di sua nonna, ed ha usato la parola «classe media» un’infinità di volte, proponendo alla fine il solito, sia pur attento, intervento dello Stato nel sollevare i destini dei cittadini. Insomma, la ricetta usuale in tempi inusuali.

Eppure il Wall Street Journal prevedeva che sei su dieci elettori voteranno guardando alle migliori soluzioni economiche, e che su questa base c’è una maggioranza a favore di Obama. Come è possibile? Davvero offre fiducia una proposta così esile come quella che abbiamo sentita? O a favore di Obama sta forse giocando solo il risentimento nei confronti dei repubblicani, considerati coautori della crisi? Insomma, Barack Obama può vincere allo stato attuale, ma sarebbe una vittoria di deriva.

Non sappiamo che cosa stia succedendo al candidato democratico. Sappiamo però da quando datare questo suo «evaporare». Dopo la Convention che lo ha coronato vincitore, la sua voce non si è sentita quasi più, inghiottita prima dalla stanchezza della corsa, poi forse dai molti patti che ha dovuto fare nel suo stesso partito e poi ancora dalla vitalità di Sarah Palin. Si può capire dunque questa sorta di crisi, ma a pochi giorni dal voto quel che conta non è il suo percorso da candidato, ma quello di futuro Presidente. Se proprio lui, l’uomo nuovo, vincesse più per collasso altrui che per forza propria, non sarebbe molto rassicurante in un momento in cui il prossimo Presidente degli Stati Uniti dovrà riempire il vuoto creatosi con questa crisi al centro stesso del mondo.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - La politica ai tempi della crisi
Inserito da: Admin - Ottobre 15, 2008, 03:54:50 pm
15/10/2008
 
La politica ai tempi della crisi
 
 
LUCIA ANNUNZIATA
 
Due storie emblematiche di questi giorni. Berlusconi arriva a Washington, accolto con grandi cerimonie e affetto dal presidente Bush ma, per la prima volta nella sua storia politica, neanche questo viaggio gli ridà quel ruolo da protagonista che da settimane gli ha strappato il suo ministro Tremonti. Veltroni arriva all’anniversario del Pd, pronto a misurare la sua forza con una manifestazione lungamente attesa e preparata contro il governo, ma la coalizione si spacca sull’opportunità di mantenere l’appuntamento: anche questa discussione sa di prima volta.

Disagi impalpabili, impatti ancora non pienamente visibili, ma segni di come la crisi internazionale, tenuta (forse) fuori dagli sportelli bancari, sia comunque arrivata fra noi. Lo tsunami finanziario ha infatti già strappato la politica nazionale dal suo piccolo orto al di qua delle Alpi, obbligandola a misurarsi con il mondo. Gli effetti di questo shock, sono qui per restare. Il primo colpo si è avvertito sulle proporzioni. Dopo anni di prediche contro il «teatrino» italiano, eccolo finalmente scoperchiato. Quanto più immense le proporzioni del crollo internazionale, tanto più insignificanti gli affari cui di solito la nostra nazione s’appassiona. Meschine le divisioni interne ai partiti, frantumate le grida degli studenti, in polvere le piccanti polemiche sulle capacità dei ministri donna, trivialissima l’impasse fra commissione di Vigilanza Rai e Consulta, sospesa nel vuoto persino la riforma della Giustizia: di fronte al panico vero, buona parte della nostra realtà politica ha rivelato di quanta irrilevanza sia fatta.

Ma la caduta di significato, da cui eventualmente usciremo non appena ci sentiremo più sicuri, ha portato allo scoperto, come la caduta di un telo di protezione, anche alcune debolezze strutturali dei due principali leader politici del Paese. Iniziamo dal premier. Berlusconi è stato colto dal crack finanziario nel momento migliore di tutta la lunga carriera: il 67% di consensi, ministri delegati più che comprimari, alleati tutto sommato in riga. Questi primi mesi di governo sono stati in effetti la consacrazione di quella che era stata finora la sua maggiore debolezza, il conflitto d’interessi. Punita alle elezioni del 2006, la commistione fra politica ed economia è tornata in gloria in quelle del 2007: la vicenda più rilevante nel segnare questa rivincita del conflitto di interessi è stata l’Alitalia, non a caso vissuta in maniera così appassionata, quale la resa dei conti che è stata, da tutti gli italiani.

Il Berlusconi che in campagna elettorale era riuscito a smantellare una proposta di vendita già quasi firmata dal governo in carica per prometterne un’altra migliore è il Berlusconi che ha esercitato in pieno il suo doppio peso come imprenditore e come leader politico; una volta al governo, la realizzazione della nuova cordata promessa è stata poi il trionfo della forza di questo doppio ruolo, in cui la parola del businessman rafforza l’agibilità promessa dal politico e viceversa. Un trionfo ben sottolineato dallo sdoganamento della neutralità degli affari anche da parte di grandi banchieri e imprenditori di fede politica lontana dal Pdl. Sfortunatamente per il premier, lo tsunami finanziario si è incuneato di nuovo proprio in questo suo doppio ruolo: non c’è bisogno d’essere economisti per capire che il leader del Paese che nella crisi vede precipitare anche le sue imprese non è esattamente neutrale nel giudizio né nelle proposte (ricordate la gaffe dei consigli per gli acquisti di azioni?).

Nel momento della crisi i cittadini hanno posto le loro domande non ai banchieri o ai manager, ma allo Stato come pura rappresentanza politica della società, al di là e al di sopra degli affari. È un caso che nella crisi sia brillata la stella del ministro del Tesoro? È un caso che questo ministro si sia distinto, dentro il governo, contro una concezione spregiudicata degli affari? Amato o meno, Tremonti in questi mesi si è collocato come un politico puro e diverso dal suo premier ed è questo che, prima in Italia e poi a Washington, gli è valso la credibilità di rappresentanza. Mentre Berlusconi nella crisi ha avuto peso decisamente minore. È stata ancora l’ex Alitalia, adesso Cai, a indicare questa debolezza ora, come prima la gloria: la crisi finanziaria ha messo in crisi la cordata che con tanta grazia e persuasione il premier aveva assemblato.

Il caso di Veltroni è più lineare. Schiacciato dai numeri in Parlamento e dalla sua crisi interna, il centro sinistra non ha avuto né gran ruolo né successo nel periodo di trionfo berlusconiano. Eppure, anche su queste forze la crisi finanziaria si è abbattuta in maniera crudele, arrivando proprio mentre il Pd lavorava alla lunga e paziente ricostruzione della sua forza e alla manifestazione nazionale indetta il 25 ottobre prossimo. Un corteo contro il governo, convocato - ironia della furia della crisi - proprio mentre la situazione è divenuta così grave da obbligare tutti a collaborare per fronteggiare il disastro. Da dentro il Pd si chiede ora di cancellare il corteo o almeno di cambiarne le parole d’ordine: persino l’atto più semplice, un rituale ben oleato come una sfilata, è diventato un problema. Se non la debolezza, la crisi ha certo accentuato la confusione del centro sinistra.

Rimpiccioliti dal peso del mondo, i problemi di leadership italiani ci lasciano di fronte a una doppia domanda. Se la crisi in futuro dovesse peggiorare e il premier dovesse sempre più confrontarsi con i danni alle sue imprese, riuscirà a non coinvolgere il Paese nel suo conflitto d’interessi? E la sinistra, così presa dal dipanare torti e ragioni del proprio recente passato, avrà mai la capacità di divenire, come la nuova fase richiede, una parte delle istituzioni?
 
da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Mamma li fondi sovrani
Inserito da: Admin - Ottobre 21, 2008, 11:23:37 am
21/10/2008
 
Mamma li fondi sovrani
 
LUCIA ANNUNZIATA
 

I servizi segreti fanno capolino nella crisi finanziaria e non riesco a capire se dobbiamo preoccuparci o considerare questa storia un’ennesima esagerazione della politica. Mercoledì 15 ottobre il presidente del Consiglio annuncia che esiste il pericolo di «opa ostili».

Opa ostili, spiega il premier, su «molte validissime imprese italiane», che oggi hanno «una quotazione che non corrisponde assolutamente al loro giusto valore»: «Io ho notizia che i Paesi produttori di petrolio, che hanno molti fondi, stanno acquistando massicciamente sui nostri mercati».

L’annuncio non è di quelli che passano inosservati: evoca la possibilità che l’Italia venga comprata e dunque dominata da altri Stati, in particolare da quelli arabi. I fondi sovrani sono quelli controllati direttamente dai governi, utilizzati per investire il surplus fiscale o le riserve di valuta estera. Ad esempio, la Cina ha massicciamente investito in titoli di Stato statunitensi, creando in Usa molti timori. La dichiarazione di Berlusconi crea un gran trambusto, al punto che il premier reinterviene per precisare che si tratterebbe solo di «speculazione finanziaria», non di «entrate in aziende». Tuttavia, tanto per stare al sicuro, annuncia che l’Italia è pronta a scrivere una norma per tutelare le nostre imprese dalle Opa ostili.

Due giorni dopo, Francesco Rutelli, presidente del Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (l’organo di controllo del Parlamento sui servizi segreti, che come da tradizione è presieduto dall’opposizione), ritira in ballo la vicenda: «È da maggio che i nuovi servizi segreti stanno monitorando i flussi d’investimento verso l’Italia e i movimenti di petrolio. C’è un giusto grado di attenzione verso la molteplicità di questi fondi sovrani e le loro strategie che potrebbero non essere più solo quelle di investimento». Il rischio è quello «legato ad interventi poco trasparenti di alcuni fondi sovrani, verso asset strategici per la sicurezza nazionale».

Qualcosa a questo punto si muove: venerdì Rutelli incontra il Presidente della Repubblica e nel colloquio si parla anche (o soltanto?) dei fondi sovrani. Nelle stesse ore il ministro degli Esteri Frattini si reca in missione negli Emirati, regalandoci una nuova notizia: «Finora i grandi fondi sovrani hanno avuto come interlocutori le merchant bank, ora l’interlocutore diretto sarà invece il governo: perché l’Italia è il primo Paese europeo ad aver stabilito, quattro giorni fa, un Comitato strategico per l’interesse nazionale in economia. Il debutto non a caso è qui ad Abu Dhabi». Ieri infine, martedì 21, il Copasir inizia una serie di audizioni in merito a questi pericoli per la nostra economia: il primo ascoltato è il generale della Finanza D’Orrigo.

Tutto pubblico, come si vede. A questo punto sarebbe importante che dal disegno che ci è stato delineato si scendesse nei dettagli. Non c’è dubbio che i fondi sovrani, nati soprattutto nei Paesi forti esportatori di petrolio - Emirati, Qatar, Abu Dhabi, Dubai - ma anche a Singapore e in Cina, fanno in questo momento paura a tutti perché la crisi dei subprime ha fatto emergere il loro peso. Così come non c’è dubbio che il controllo straniero su aziende che assicurano la nostra indipendenza nazionale aprirebbe un problema di sicurezza persino più grave di un attacco terroristico armato: ma siamo davvero al punto da dover impiegare i servizi segreti e formare una task force nazionale?

Da questi primi passi nascono varie domande. La prima: questa attenzione dei servizi segreti sui fondi sovrani significa nei fatti che stiamo spiando le mosse finanziarie di altri Stati. E’ legittimo, è utile e soprattutto non rischia di logorare i nostri rapporti con queste nazioni? La seconda: quali sono i fondi sovrani che si stanno muovendo in Italia? Ad esempio, se i libici che entrano in Telecom vanno bene, sarebbe utile sapere perché non va bene invece il fondo Singapore. Frattini ad Abu Dhabi sembra aver stipulato un accordo bilaterale con un fondo «buono»: che cosa succederà con i fondi «cattivi»? Insomma, se tutto ciò è vero, non cambia anche il quadro delle relazioni internazionali del nostro Paese?

Infine, sulla nostra sicurezza nazionale. Quali siano le aziende che coinvolgono la sicurezza nazionale più o meno si sa: energia, imprese militari, telecomunicazioni. Ma alcune, come l’Eni, sono già blindate contro Opa ostili. Se non l’Eni, allora quali altre? La Finmeccanica, Telecom, piccole imprese che paiono secondarie ma che in effetti, per vari accordi multilaterali, offrono prodotti che vanno a finire in settori strategici? E non pongono questioni di sicurezza anche le infrastrutture? Ricordo che un paio di anni fa fondi sovrani arabi volevano comprare il porto di New York e che l’offerta venne respinta con un intervento del Congresso Usa perché i porti sono il passaggio più esposto nel controllo delle frontiere, data la facile infiltrazione di persone e materiali.

Forse queste sono preoccupazioni eccessive, ma ugualmente, vista la drammaticità della crisi finanziaria e le forze coinvolte, sarebbe meglio avere risposte chiare.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Un segno debole
Inserito da: Admin - Ottobre 23, 2008, 04:44:51 pm
23/10/2008 - IL SABATO DEL PD. PERCHE' NO
 
Un segno debole
 
LUCIA ANNUNZIATA
 
Ora che Berlusconi flette i muscoli contro la protesta, dovrebbe essere da vigliacchi dire che la manifestazione del Pd a Roma sarebbe preferibile non farla.

Ma dal momento che il dilemma «corteo sì, corteo no» non ha mai riguardato una decisione pratica, è stato semmai solo un buon modo di discutere le pratiche dell’opposizione, penso che si possa continuare a parlarne senza evocare disfattismi.

Ieri a Roma è stata l’ennesima bella giornata di questa stagione. Strade, vicoli, università e piazze piene: in particolare piena era piazza Farnese, ma non di turisti. L’ampio quadrato definito da ristoranti, bar e palazzi storici è diventato per l’intero giorno, dal mattino a quasi sera, la sede all’aperto della facoltà di Fisica della Sapienza. Due lavagne trasportate a mano dall’Università e appoggiate alla base di marmo di una delle fontane hanno fatto da piano di lavoro, mentre centinaia di studenti a ogni ora si sono alternati disciplinatamente seduti a terra, in differenti classi, con diversi professori, per differenti lezioni. Alla fine della giornata il corso era stato rispettato fino in fondo. Venerdì Fisica farà lezione davanti a Montecitorio.

Non è stata ieri l’unica classe all’aperto in Italia, di sicuro non è stata l’unica protesta. Ma qui parliamo della Facoltà di Fisica, un posto con poco più di seicento studenti, un posto dove lavorano aspiranti premi Nobel, come Cabibbo, un posto le cui aule sono intitolate a Fermi e Majorana, e i cui ricercatori lavorano al progetto Cern di Ginevra, per non dire poi che è la stessa facoltà cui si è attribuita la responsabilità, pochi mesi fa, d’aver impedito al Papa di entrare alla Sapienza. Che cosa avreste chiesto - tanto per curiosità - a questi protestatari illustri? La mia prima domanda è stata: a che organizzazione appartenete? La risposta corale: nessuna. Siamo contro l’occupazione, siamo fuori da ogni collettivo, e questo è un modo per farci sentire («contro i tagli che eliminerebbero alcune punte di eccellenza nella ricerca»), ma senza smettere di studiare. Altra domanda: andrete al corteo del 25 ottobre? Risposte vaghe: a quello del 30 che riguarda la scuola di sicuro. Del 25 non ne abbiamo nemmeno parlato.

Se ieri aveste avuto la pazienza di continuare a seguire non tutti ma almeno un po’ di altri appuntamenti della protesta della scuola a Roma, molto spesso avreste sentito parole simili. Non ci vado il 25, non mi unisco alla politica, mettere in mezzo la politica oggi significa rovinare tutto. Questo è il clima prevalente nella scuola (salvo che nei gruppi che fanno riferimento in vario modo al Pd, e ce ne sono parecchi e molto forti in vari istituti, insegnanti inclusi). Vuol dire che il corteo del Pd non rappresentarà nessuno? Non esattamente. Vuol dire però chiedere con una certa precisione che cosa sia il raduno nazionale del 25 e a che cosa serva.

Non mi inoltro nella critica alla ritualità e alla inutilità dei cortei in generale. Da parecchio tempo la sinistra ha imparato a conoscere i limiti dell’uso e abuso di questo strumento. I cortei, ormai lo sanno tutti, sono in ogni caso una rappresentazione. Possono essere giustificati per cause di minoranza da portare all’attenzione generale, o per una specifica vertenza, magari per mettere sotto pressione l’avversario. Quello previsto sabato dal Pd appare invece parte di una diversa tradizione: un corteo come richiamo per contarsi e farsi contare. Che il Pd abbia fatto questa convocazione è comprensibile e condivisibile, nel suo attuale momento politico, ma va anche detto esplicitamente che essa serve a questi due propositi: serve insomma a ridare adrenalina a un corpo elettorale bastonato dalla sconfitta. Cosa che del resto Berlusconi ha sempre fatto per le stesse ragioni nei mesi dopo ogni sconfitta elettorale.

Ma se si pensa a un corteo che possa oggi proporre una piattaforma generale dell’iniziativa della sinistra, allora siamo fuori segno rispetto al problema centrale di quest’area politica. Il centro sinistra è debole perché ha una crisi di rappresentanza dentro il Paese reale. Una crisi di sfiducia, di qualunquismo, di delusione, chiamatela come volete. È sufficiente dire che questa crisi si esprime non solo nella perdita di consenso a favore della destra, ma anche nella distanza da quella che dovrebbe essere la sua base naturale. Operai e non solo: giovani, professionisti, la vasta intellighenzia diffusa che compone le società moderne. Un corteo generale (che auguro al Pd ampio, colorato e appassionato) di sicuro non serve a riprendere a colloquiare con questi strati che di colloquio con il centro sinistra non ne hanno più.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Gli studenti non c'erano
Inserito da: Admin - Ottobre 27, 2008, 03:46:49 pm
27/10/2008
 
Gli studenti non c'erano
 

LUCIA ANNUNZIATA
 
Con commendevole sincerità il direttore dell’Unità Concita De Gregorio lo ha scritto ieri (il giorno dopo la manifestazione del Circo Massimo) nel suo editoriale.

Non si lasciano strumentalizzare, gli adolescenti. Federica Fantozzi è andata ieri per noi nei licei occupati. “Siamo l’alba del mondo” le ha detto con qualche enfasi, ma con sincera passione Francesco Begiato, uno studente. Poi ha aggiunto: ”Non lasceremo che i partiti mettano il cappello sulla nostra protesta perché non è né di destra né di sinistra: è in difesa della scuola pubblica”. Infatti gli studenti ieri non sono andati al Circo Massimo. C’erano, ma non c’erano. Erano mescolati, senza insegne, ai genitori e agli insegnanti».

Commendevole sincerità, appunto. Il giorno dopo l’adunata del Pd, la discussione sul numero dei partecipanti è stucchevole, in quanto del tutto non essenziale. Chi non ha mai avuto dubbi sul significato o la necessità di questo appuntamento - e tra questi chi scrive - non ne ha fatto una questione di partecipazione: si temeva forse che fallisse uno sforzo organizzativo tipo quello messo in campo, prodotto, per altro, di una lunga tradizione di raduni di massa? La domanda della vigilia era: questa manifestazione aiuta o meno il Pd a uscire dal suo angolo per parlare ad altri pezzi della società che ha perso? Oggi, due giorni dopo, la domanda è ancora aperta, per nulla risolta dal numero di chi ha marciato. Se il problema del centro-sinistra è quello di non saper più parlare a molti dei suoi tradizionali elettori, la mancanza degli studenti e degli insegnanti al corteo di Roma è il vero segno del limite delle adunate come strumento di lavoro. L’assenza ufficiale (cioè con proprie insegne) di chi protesta in questi giorni è tanto più rilevante perché il 25 ha preceduto solo di pochi giorni la manifestazione nazionale della scuola convocata per il prossimo giovedì: sarebbe stato dunque facile far montare la marea con un doppio appuntamento a rimbalzo. Se distinzione c’è stata, è dunque una separazione voluta, costruita sugli umori ben riportati dalla stessa Unità. «Né di destra né di sinistra», dice lo studente intervistato dal quotidiano: la politica è «un cappello», senza distinzioni, non più un aiuto naturale per chi protesta, ma addirittura un ostacolo.

Qualcuno potrebbe obiettare che dopotutto gli studenti non sono il centro dell’universo. D’accordo. Ma gli umori che si registrano nelle aule scolastiche o universitarie non sono esattamente isolati, se è vero un dato pubblicato ieri dal Corriere della Sera. Secondo un’indagine fatta per questo quotidiano dal noto (e credibile) Renato Mannheimer, la maggioranza del nostro Paese pare essere in fuga sia dalla destra sia dalla sinistra. Il governo Berlusconi a giugno vantava il 61 per cento di consensi, a settembre ne aveva ancora il 60 per cento, oggi, cioè dopo la crisi economica, e dopo le polemiche sulla scuola, è sceso al 42 per cento. Il centro-sinistra va dal 46 per cento di consenso a giugno al 20 per cento di settembre, al 16 per cento di oggi.

Dati bizzarri, che negano per la prima volta (se non sbaglio) la famosa regola dei vasi comunicanti, in base ai quali il consenso perso da una coalizione si riversa nell’altra. La rottura di questa alternanza è certo oggi in Italia il dato più nuovo, ma anche, per certi versi, il più coerente con quello che è successo negli anni scorsi: difficile non vedervi quel distacco dei cittadini dal valore stesso della politica, che aveva alimentato la lunga onda dell’antipolitica, oggi silenziosa, ma che, evidentemente, ha scavato un profondo solco dentro la coscienza nazionale. Atene piange, ma Sparta non ride, è il motto cui spesso ci si è richiamati in questi anni di disaffezione dei cittadini. Il calo di consenso è un danno per l’attuale premier, ma è un danno ben più profondo per la sinistra non essere in grado di attrarre questo scontento. Basta di fronte a questo quadro la consolazione di un bel numero di uomini e donne in marcia? La loro mobilitazione è essenziale (come lo fu per il Pdl quando era all’opposizione), ma appunto è ben lontana dall’essere anche solo l’inizio di una soluzione.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Il popolo del ghetto che spaventa i bianchi
Inserito da: Admin - Ottobre 31, 2008, 03:56:31 pm
31/10/2008 - VISTI DA VICINO
 
Il popolo del ghetto che spaventa i bianchi
 
Con la gente dei quartieri poveri a sentire il candidato tra frigoriferi portatili, parasoli e sedie pieghevoli
 
 
LUCIA ANNUNZIATA
 


Tutto questo è straordinario, portentoso, ma capisco. Capisco perché l’America può avere paura della elezione di Barack Obama. Il pensiero arriva laterale, come tutti quelli inconfessabili. Concentro il mio fastidio (la mia paura?) in maniera da analizzarlo. Ma l’analisi è il peggior rimedio.

Sono da ore dentro un’astronave. Non ho altre immagini per descrivere la profonda emozione e la lontananza dal resto del mondo che traspira in questo spazio chiuso. Lo Stadio BankAtlantic Center, lungo la statale 95 che percorre la Florida dal Sud al Nord, da ore ha lasciato la terra per divenire una fonte di «esperienza». La folla pompa, come un motore, odori, rumori, sudore; l’adrenalina è un collante che forma una seconda pelle. E in mezzo a questo battito sostenuto, c’è Barack Obama, intoccabile, liscio, come avviluppato da una membrana. Ha un vestito grigio che cade senza una piega - eppure lo avrà addosso da ore. E’ salito con i soliti brevi balzi sulla scaletta del palco, ma da quando è davanti alla folla non spreca un movimento. Una mano per sottolineare la pause del discorso, un mezzo giro per essere sicuro di risultare visibile a tutti. Le urla della sala non lo scuotono. E’ una pallida, luminosa zona di calma in mezzo a una tempesta di passioni. Voglio uscire.

Negli ultimi ventotto anni ho seguito ogni elezione americana. Ma nessuna delle onde di entusiasmo che periodicamente le precedono, dal 1980 di Reagan al 1992 di Clinton, si misura con quello che si è messo in moto intorno ad Obama. Sunrise, dove siamo, è un posto di nulla, un non-stop su una autostrada, dietro cui si allarga uno dei molti quartieri neri. Non è dunque un comizio per la Tv questo, come quello che fra poco tutti seguiranno sullo schermo, a Orlando, con Bill Clinton; ma forse per questo è più vero.

La folla arriva dal mattino a ondate così massiccie che la polizia deve continuare a bloccare il traffico sulla superstrada. Arrivano con impeto. Sono tutti neri. Non i neri della pubblicità e nemmeno quelli di Columbia o Harvard, così perfettamente digeriti dalla nostra estetica. Sono neri del ghetto, che portano con sé il ghetto: frigorifero con il cibo, ombrelli per farsi ombra, sedie pieghevoli. Sono tutte le facce di una integrazione data, negata, limitata, e non tutte queste facce sono rassicuranti: ci sono le commesse, le signore della classe bene, le anziane donne con file di nipotini senza genitori, ma anche i ragazzi delle gang, i lavoratori giornalieri, le ragazzine sfacciate, e il rasta puzzolente e «fatto» ha lasciato il suo angolo di strada per arrivare fin qui. Lontano dalla città, i bianchi sono solo una spruzzatina di diversità, e i Latini non ci sarebbero comunque.

Si materializza così un mondo che è tutto interamente nero. E’ l’America senza i bianchi. Con il suo inglese, le sue abitudini così diverse, un mondo parallelo che finalmente emerge, invece di essere, come ogni giorno, spezzettato nel volto della cameriere, o del giardiniere, o dell’autista. E nell’emergere mostra apertamente qualcosa che abbiamo letto, nei romanzi di James Baldwin soprattutto, ma di cui raramente abbiamo fatto esperienza diretta: l’intensità. Ci possono arrivare i sentimenti circoscritti da secoli di ghetto. Non è infatti una semplice folla elettorale questa, e Obama non è un semplice candidato presidenziale.

Pregano, cantano, ballano. L’intensità della loro certezza è tutta raccoglibile in un piccolo episodio successo mentre tutti si aspettava fuori. Nell’angolo del dissenso (spazio ufficiale) si presenta un repubblicano, giovane, che innalza un cartello con scritto «Obama è il presidente di Hamas». Viene circondato, giovani neri vogliono convincerlo, si passa all’Iraq, alla disoccupazione, si alzano le voci - fino a che dal fondo si stacca un vecchio nero, magrissimo, con le mani spaccate, un lavoratore della terra, che pare uscito da Huckleberry Finn, si avvicina, punta il dito verso il repubblicano, e tuona con la certezza di chi ascolta gli angeli: «Uomo, ho una notizia da darti: il 4 novembre il presidente degli Stati Uniti cambierà. E sarà un nero». Non Obama, non un politico. Non uno qualunque, ma il presidente degli Stati Uniti. E sarà nero. È la voglia, la attesa, la speranza di quasi tre secoli di ghetto. Sempre finite con una uccisione o una delusione. Che si risvegliano oggi di nuovo, e trasformano una elelzione in una preghiera.

Questa preghiera è quello che avverto dentro la navicella spaziale. È così lontana da noi bianchi questa dimensione, è così poco mediato questo rapporto razziale, che la parte istintiva di me si ritrae. Il momento passa, ma quell’attimo (posso dire di “razzismo”?) c’è stato. Sufficientemente lungo per capire la forza tellurica che contiene questa sfida elettorale, e i miasmi di paura che sta spargendo: per i bianchi c’è il timore di essere presto spossessati, per i neri il timore di venire per l’enessima volta ricacciati fuoti.

Capisco anche infine perché al centro di questa navicella ci sia un Obama così controllato, a pulsione così bassa da sembrare lontano. L’Obama-Zen, come tutti i commentatori chiamano la sua calma. Per fortuna che è così. Se alla passione di tutti i presenti aggiungesse la sua, questa sarebbe non un’astronave, ma una scatola di cerini incendiati.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Né bianco né nero Obama è il primo "Homo Globalis"
Inserito da: Admin - Novembre 07, 2008, 12:23:34 am
6/11/2008 - IL METICCIO COME METAFORA DEGLI USA
 
Né bianco né nero Obama è il primo "Homo Globalis"
 
 
LUCIA ANNUNZIATA
 

NEW YORK

Nera fu la madre di tutti noi, Lucy, nell’Africa dell’Est, dice l’archeologia. E colorati ridiventeremo tutti noi, dice la genetica. Quando le razze saranno divise e poi mixate di nuovo nel grande vortice del mondo, quel color terracotta, quel volto stretto da bianco, la bocca grande da nero, gli occhi sottili da arabo, le mani lunghe da intellettuale e i piedi grandi da contadino di Barack Obama, saranno guardati fra i quadri dei presidenti americani nella Casa Bianca, come il ritratto del primo uomo globalizzato diventato capo degli Stati Uniti. E chissà che (osiamo in queste ore di assoluta imprevedibilità) non succeda che, per allora, gli Stati Uniti saranno formati da un numero di stati ben maggiore dei suoi attuali 50.

Esagerazione mica tanto. Più che uno scenario futuribile da Ursula Le Guin, è il profilo del futuro che possiamo ricavare dalla lettura dei risultati elettorali. Da cui si vede bene che colui che comunemente oggi definiamo «Il Primo Nero alla Casa Bianca» è in realtà il Primo Uomo di Colore Globale che varca quella soglia.

La grande sorpresa dei numeri è infatti che Obama non ha vinto, come si pensava, grazie ai nuovi elettori neri andati alle urne. Questo elettorato è quasi lo stesso di sempre. Barack vince in realtà, come Jimmy Carter nel 1976, la maggioranza del voto Americano. Il voto tutto. E il voto moderato in particolare, di cui i democratici raccolgono il 60%. C’è una trasversalità piena nel consenso al nuovo presidente, che spiega perché i democratici vincano dove da anni non vedevano la luce del sole, (44 anni in Virginia) ma anche dove Bush nel 2004 aveva una maggioranza assoluta, come Nord Carolina, Florida, Indiana e Ohio. Soprattutto, Obama vince nelle aree più economicamente vitali, che sono anche quelle a maggior mescolanza razziale. E se nel profondo Sud tutto rimane immobile, diverso è il quadro nel cosiddetto «Nuovo Sud», o nelle zone dell’Ovest a veloce crescita come le Rocky Mountains, o nelle aree intorno a Orlando, Washington, Indianapolis a Columbus.

Il significato di questo elenco non è solo geografico. Le zone a crescita veloce in Usa sono colorate da un misto di etnie; aree urbane, con gente sotto i 40 anni. Zone che sono più figlie dell'omogeneizzazione prodotta dalle scuole e dai matrimoni misti, che dalle nuove ondate di immigrazione. E’ il profilo di una società e di una generazione in cui la razza è secondaria; persino i giovani latini in queste aree hanno votato Obama, contrariamente a quanto si pensava all’inizio. Cosi come ad Obama è andato il voto di contee tradizionalissime come Fairfax, Virginia, o Orange in Florida. Il partito democratico, sull’onda di Obama, si assicura infatti tanti seggi da suscitare la preoccupazione di una eccessiva maggioranza nel Congresso.

Sono questi voti che fanno di Obama il presidente di «giovani e vecchi, ricchi e poveri, democratici e repubblicani, neri, bianchi, latini, asiatici e nativi americani, gay, eterosessuali, disabili e sani», come li ha elencati lui stesso a Chicago. Una collezione di razze che, così come non definisce più le aree locali, non definisce più territorialmente nemmeno solo gli Usa: da qui l’eco di partecipazione e familiarità che queste elezioni suscitano nel mondo. Lo stesso Obama del resto non è un nero, ma tecnicamente un sangue misto, con un’evoluzione culturale che va dall’Africa agli Usa all’Asia, dove è vissuto. «Noi siamo americani che dicono al mondo che non siamo mai stati solo un elenco di Stati rossi e blu: noi siamo e sempre saremo gli Stati Uniti d’America», ha detto ieri a Chicago.

Una vicinanza con il resto del mondo che non sarebbe potuta essere tale se non fosse stata nutrita anche da quella seconda patria di tutti noi che è la tv. I tanto deprecati media, che però hanno formato, tramite video, Internet, sms, mms, il linguaggio di questa rivoluzione generazionale e razziale; oltre che l’anima della campagna elettorale. Raccontandoci in questi anni i disastri economici, le guerre, ma anche le canzoni, i matrimoni e le scuole e le lingue di questa nostra magnifica e orribile interazione.

E’ solo giusto dunque che queste siano state anche le prime elezioni non in visione globale, ma direttamente globali, con la tv americana connessa con tutte le sorelle locali, a formare una sola pelle catodica «live». L’effetto più mirabile di questa nuova era è stato presentato proprio in tv: il «beaming», la possibilità di materializzare in uno studio una persona che invece è in collegamento da un altro luogo. La prima volta è toccato a una giornalista della Cnn che con il virtuale tridimensionale si è materializzata nello studio centrale della rete. Ma domani con questa tecnologia il presidente Obama potrà materializzarsi in un summit mondiale o nella casa di un contadino africano. Diventando il Presidente di tutti. Naturalmente, quel contadino potrà materializzarsi nella sua Casa Bianca. Diventando il cittadino con cui tutti dovranno fare i conti.

 
da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - I comici: "Con Barack addio satira"
Inserito da: Admin - Novembre 07, 2008, 10:06:25 am
7/11/2008 - IL CASO
 
I comici: "Con Barack addio satira"
 
 
 
 
Armi spuntate per il divertimento politically correct: gli artisti che sparavano a zero su Clinton e Bush risparmiano il neo-eletto per non sembrare razzisti
 
 
LUCIA ANNUNZIATA
 
Per gli Altri è stato sempre molto facile. Clinton non era ancora Presidente e già lo si presentava circondato da montagne di hamburger e gelati di cui era estremamente ghiotto; con altrettanta facilità, negli anni tardivi del suo mandato, venne rappresentato circondato da ben altre tentazioni. Poi venne George Bush, ed è stata un’autentica manna: nel primo Thanksgiving dopo la sua elezione nel 2000 (cioè quasi due mesi prima che mettesse anche solo piede nella Casa Bianca) venne presentato alla nazione, nelle piume del Tacchino - Turkey in Usa è anche un modo per dire «cretino».

Ma ora con Obama? Dove sono le imitazioni di Barack? Mai visto il candidato nella veste di Zio Tom, e neanche in quella, magari meno offensiva, del primo della classe. Mai visto Lui preso in giro, né durante la campagna elettorale, né ora, che pure è ormai Presidente. Né mai toccata è la sua famiglia - e dire che la statuaria e felina Michelle potrebbe ben competere con la risatina folle che i comici fanno fiorire periodicamente sulle labbra di Hillary. Niente. Anche perché la prima e l'ultima volta che su di Lui e Michelle della satira è stata fatta, con la famosa copertina del New Yorker in cui entrambi venivano ritratti come ribelli neri, divenne uno scandalo nazionale. E il New Yorker dovette fare un gran passo indietro.

La satira americana, dunque, batte colpi. Anche la suprema irriverenza americana tace ammutolita davanti a un Presidente Nero, bello e di sinistra? Eccessi di «correttezza politica», visto che Obama è nero? O persino in America la satira sa attaccare solo la destra? Ferve dibattito. Un prosperoso e amato settore culturale e mediatico è arrivato probabilmente al picco della sua influenza e notorietà proprio durante questa ultima corsa elettorale, con la parodia di Sarah Palin fatta da Tina Fey, o il Bush di Will Ferrell, o le battute su McCain che rifiuta l'intervista a David Letterman.

Un fenomeno che lo stesso John Stewart conduttore di «Saturday Night Live» ha definito come l'affermarsi del «complesso satirico industriale», parafrasando il «complesso militare industriale», cioè uno dei famosi poteri che nel linguaggio sinistrese vengono identificati come le forze oscure della destra, e di Bush in particolare. Ma ora che Washington è dominata da un serissimo clima e da tanta correttezza politica, si chiede il pepato Salon, pubblicazione on line cultural- progressista, «chiuderà il complesso satirico industriale»?

Ma al dunque, al netto di tutte le discussioni più «colte» il discorso ritorna il più semplice possibile: perché nessuno, neppure i più sofisticati comici come Letterman, appunto, sono finora mai riusciti a ridere di Obama? E, per il futuro, ci riusciranno mai? James Downey, uno degli autori di «Saturday Night Live» ha recentemente ammesso, durante il New York Festival, che «sarà difficile» ridere di Obama. Intanto perché «i media sono innamorati folli di Obama», e poi perché «è così perfetto che davvero non offre mai molte occasioni cui attaccarsi». Ma al fondo, ha confessato Durst, c'è l'imbarazzo della razza: «All'inizio sarà sicuramente difficile perché sono un bianco, e bianca è anche la maggioranza di coloro che seguono il nostro tipo di satira».

Una situazione autenticamente delicata , dunque. Cui però si sta già cercando di mettere riparo. Un primo rimedio potrebbe venire già nella prossima stagione dalla Abc, dove Jonathan Collier, lo stesso della fortunata serie dei Simpson, sta lavorando a una nuova serie «The Goode Family», che rappresenta l'elettorato obamiano. Per ora Obama è così «perfetto» che le uniche battute su di lui se le è fatte da solo, scherzando con i giornalisti: «Contrariamente a quanto è stato detto non sono nato in una stalla».
 
da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Bamboccioni, fannulloni
Inserito da: Admin - Novembre 18, 2008, 09:22:25 am
18/11/2008 - PAROLE E POLITICA
 
Bamboccioni, fannulloni
 
LUCIA ANNUNZIATA

 
La carriera del ministro del Tesoro Padoa-Schioppa sbatté sul termine bamboccioni. Quella dell’attuale ministro Brunetta rischia di sbattere su fannulloni. Curioso parallelismo, in cui - con tutte le differenze, e a dispetto di ogni magnifica intenzione dei due - si misura il paradosso di come alla fine nella vita pubblica splendidi curricula possano essere messi in ginocchio da un dettaglio. Specie se questi dettagli sono efficaci: bamboccioni infatti ha perfettamente definito lo spirito di una generazione, così come fannulloni ha perfettamente colto una malattia italiana.

Questa osservazione porterebbe a parlare dei media e del loro potere. Ma in questi incidenti (volontari o no che siano) viene svelata una storia infinitamente più affascinante: quella di quanto complesso sia, in Italia, l’inserimento di outsider nella grande scena politica. Sono certa che anche solo evocare questa lontana somiglianza fra i due personaggi nominati può scontentare molti, e sono ancora più certa che gli stessi due chiamati in causa non saranno contenti della compagnia in cui li si mette. Padoa-Schioppa e Brunetta non potrebbero infatti essere più distanti per modi di essere, pensare, parlare; per scopi, abitudini e vezzi.

Su un solo terreno si muovono all’unisono: sulla scena politica entrambi sono spericolatamente coerenti nel dire quello che pensano. Il primo, Tommaso Padoa-Schioppa con la lenta e distante parlata del professore, il secondo con l’irruente e costante fiume di parole di un uomo che vuole lasciare il segno. Eppure sono entrambi scopertamente sinceri. Nessuno dei due, una volta inciampato sulla propria formula, vi si è mai sottratto, rivendicandola, ripetendola, espandendone il significato nei luoghi e nel tempo. Entrambi in qualche modo sorpresi e scandalizzati a loro volta della sorpresa e dello scandalo altrui.

La peculiarità di questi incidenti di percorso impartisce sicuramente una lezione. Se si va a guardare nel passato dei due personaggi, vi si trova una caratteristica comune: provengono dal mondo degli «esperti», cioè dal mondo delle accademie, dei consiglieri. Con diversi titoli, certo, e diverse distanze. Padoa-Schioppa la politica non l’ha mai direttamente frequentata e i suoi incarichi sono sempre stati superistituzionali. Brunetta invece in politica circola da parecchio, ma anche lui vi è sempre vissuto soprattutto come consigliere, economista, esperto appunto.

Non possiamo così considerare un caso se l’inciampo arriva quando entrambi si trovano nello stesso passaggio. Buttati nell’arena della politica pura, la funzionalità dei due tecnici si ingrippa. Eppure, nulla cambia nel loro approccio, fra il prima e il dopo. Arrivano ai ministeri con le loro carte, i loro studi, i dati statistici e le curve di andamento. Fanno proposte sulla base di grafici e previsioni credibili. Sviscerano con sistematicità il corpo della nazione, ne mettono a nudo la struttura, e vanno all’essenziale. Fanno esattamente quello che la politica li ha chiamati a fare. Padoa-Schioppa dice che le tasse sono «bellissime», dopo aver parlato di bamboccioni. Brunetta aggiunge la parola tornelli (che evoca macchine da tortura all’orecchio di chi non sa) a quella di fannulloni. È un nuovo linguaggio, immaginifico, efficace, che arriva a tutti. Perché allora queste definizioni suscitano enormi tempeste? Non si tratta di errori di comunicazione, come dicono gli esperti di media: al contrario siamo di fronte a due strepitosi esempi di comunicazione politica, come prova il fatto che sia bamboccioni che fannulloni raggiungono la stampa internazionale (rispettivamente sul Times di Londra e sul New York Times) diventando una lampante sintesi, finalmente traducibile presso gli stranieri, del nostro dibattito politico.

Ne è una spiegazione la loro durezza. Entrambe suscitano una quota di forte dissenso, per la radicalità della proposta che trasmettono. Ma proprio in questa legislatura abbiamo un esempio di proposte radicali di non minore durezza che pure non suscitano scandalo: il ministro Tremonti, ad esempio, ha riscritto il credo sociale del suo partito, ha rivisitato Marx e ha abiurato al liberismo sfrenato, mietendo, al contrario, lodi per la sua immaginazione e per la sua profondità.

Se scartiamo la battaglia politica e l’errore di comunicazione, allora, cosa ci rimane come spiegazione per gli inciampi pubblici di alcuni ministri? La spiegazione - ecco la piccola morale di questi aneddoti - è probabilmente nell’asciuttezza del linguaggio non politico. I tecnici che usano le curve e i dati per leggere la realtà spesso non li sanno definire, non hanno aggettivi per farli lievitare in progetto, sicuramente non ne vedono la traduzione a pelle scoperta, che è quella dell’elettore. La politica, alla fin fine, rimane l’arte del consenso, del palpito, di un’aspirazione o, se volete, oggi che siamo in epoca obamiana, del sogno. Ed è così che molto spesso, nella storia del nostro Paese, ma non solo, alcuni dei migliori uomini chiamati a governare da fuori della politica non hanno avuto grande successo: amati, riveriti e detestati; divenuti a volte, nell’infinita tela che è la politica, più uno strappo che un ago. Messi così alla porta - sia pur con tutti gli onori - più dagli amici che dai nemici. Una lezione che, fra gli altri, ha subito e ha ampiamente meditato e fatto fruttare il ministro Tremonti. E che oggi non è detto che non dovrà subire lo stesso Brunetta.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Il premier tagliafuori
Inserito da: Admin - Novembre 22, 2008, 12:16:58 pm
22/11/2008 - LUCIA ANNUNZIATA
 
Il premier tagliafuori
 
 
Scontro frontale con il Partito democratico, ma apertura ai sindacati, alle fasce deboli della società, agli operai in pericolo di licenziamento. E se il governo Berlusconi si stesse preparando a gestire i provvedimenti anti-crisi in modo da rilanciare il suo consenso popolare, isolando ulteriormente - magari dalla sua stessa base - il Pd già in preda agli spasmi d’una violenta crisi interna? E’una domanda che offre forse una lettura troppo esile di fronte alla tensione in cui ogni giorno la nostra politica sembra affondare. Ma che un «progetto intelligente» sia in corso, cioè che una trama logica emerga dall’apparente caos di questi giorni, val la pena segnalarlo. Nelle ultime settimane, a dispetto delle profferte continue di dialogo, il premier Berlusconi si è concentrato sul tentativo di spezzare la forza del centrosinistra. A questo scopo erano mirati i due più rilevanti episodi recenti: la convocazione separata di Confindustria, Cisl e Uil a Palazzo Grazioli e l’elezione di un senatore del Pd, Villari, a presidente della Commissione di vigilanza Rai, con i voti del Pdl. Le esplosioni di quel poco di unità interna al fronte sindacale e di quel poco di accordo interno al Partito democratico provocate da queste mosse, sono stati indubbi successi per il governo, che così riconferma, nonostante un certo calo di popolarità e alcune crepe interne, la sua capacità di unico soggetto politico effettivo nel Paese. Certo si tratta di successi soprattutto «gestionali», cioè dimostrazioni di forza nei confronti dello schieramento avversario. Ma, se la vera messa alla prova per il governo è la crisi economica in arrivo, forse queste dimostrazioni di forza non sono estranee alla linea scelta da Berlusconi per fronteggiare i prossimi passaggi.

Nasce qui il sospetto - o la possibilità - che l’indebolimento del centrosinistra sia in realtà funzionale proprio al progetto che il governo ha sul pacchetto anti-crisi che dovrebbe approvare la prossima settimana. L’allerta su questo intreccio lo ha fatto suonare ieri un’intervista del ministro del Welfare Sacconi, nemico di ogni compiacenza per le cosiddette istanze sociali. Sacconi, proprio lui, ha annunciato che l’esecutivo si prepara a incontrare lunedì sindacati e imprese sulle misure anti-recessione, che il massimo sforzo verrà fatto per le categorie più deboli - quelle cioè che perdendo il lavoro non hanno ammortizzatori sociali -, che 600 milioni saranno spesi per la cassa integrazione e la mobilità in deroga. Soprattutto, ha fatto sapere che il suo dicastero, insieme con le Regioni, sorveglierà su licenziamenti o sospensioni di lavoro non giustificati. In definitiva, Sacconi propone che la gestione della crisi sia fatta con una triangolazione fra Stato, Regioni e istanze sociali: è una formula che può tranquillamente essere descritta come il lancio di una nuova concertazione che va direttamente ai cittadini, attraverso alcune istituzioni come gli organi locali e varie organizzazioni del lavoro. Il controllo della mobilità, del tipo di licenziamenti, non possono infatti che essere il prodotto finale di una collaborazione con il territorio, a partire dalla Regione per finire alle singole fabbriche. Solo una concertazione molto forte consente di gestire questa crisi economica e gli scarsi interventi possibili per alleviarne le conseguenze. Ma il modello proposto è nuovo perché visibilmente esce dal confronto politico nazionale e va direttamente al Paese. Nel passaggio vengono infatti escluse, o aggirate, l’opposizione e la Cgil che è dentro il confronto ma nella condizione di non poter essere determinante dopo gli ultimi scontri. Lettura troppo sottile? Può essere, se non fosse per due altre prese di posizione che segnano gli avvenimenti recenti. Se il governo avesse voluto coinvolgere l’opposizione nella gestione della crisi, avrebbe accolto l’offerta messa sul piatto da Veltroni: il Pd aveva chiesto nei giorni scorsi un summit a Palazzo Chigi fra governo, opposizione e parti sociali. Ma il summit non è stato concesso. L’esclusione non è casuale. D’altra parte, Epifani sembra aver capito che l’aria è cambiata, se è vero che, dopo tante accuse al governo, proprio in una tv di cui è proprietario il presidente del Consiglio, si è dichiarato disponibile a riprendere un discorso sulla crisi sociale, mettendo in campo anche la possibilità di ridiscutere lo sciopero generale. Da buon sindacalista sta forse rimuginando - a differenza dei politici - sulla possibilità che un’esclusione dalle decisioni sia peggio della cancellazione di una protesta? C’è infine da segnalare una dichiarazione attribuita al nostro premier a Washington per il G20 la scorsa settimana. Le parole sono ripetute in varie versioni, perché non ufficiali. Ma il senso è più o meno lo stesso: se devo sopportare il peso della crisi, allora non voglio nemmeno dividerne il minimo merito con nessuno; non faremo nulla con il Pd. Naturalmente, tra il piano e la sua attuazione ci sono vari ostacoli: il reperimento del denaro o i conflitti di competenze nello stesso governo. Eppure non va sottovalutata l’intelligenza tattica del premier. A mettersi nei panni di Silvio Berlusconi, un progetto del genere appare sicuramente interessante.

da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Il senso del denaro
Inserito da: Admin - Novembre 28, 2008, 05:50:27 pm
28/11/2008
 
Il senso del denaro
 
LUCIA ANNUNZIATA
 

Un po’ di conti: se una famiglia guadagna 500 euro al mese, un dono mensile di 40 euro costituisce quasi il 10% di aumento del suo reddito.

Sputateci sopra! Molto fastidiosa, perché molto snob, la discussione sollevata dall’introduzione della Social card. Si è sentito di tutto: «Umiliante elemosina», «tessera annonaria», «beffa». «Misura irrisoria e paternalista». Definizioni eccessive, e perfetto esempio di come la polemica a tutti i costi spesso non fa bene all’opposizione e non lede il governo.

Provo a partire dalle critiche fin qui mosse al pacchetto anticrisi che il governo dovrebbe approvare: si dice che 80 miliardi sono pochi per un vero intervento, sono ancora tutti sulla carta e in più i soldi realmente disponibili sono in parte già impegnati, come quelli per il Sud (i fondi Fas). Più sostanzialmente il pacchetto è criticato tuttavia per il suo approccio: esaminate da vicino, le sue misure sono più di difesa contro il peggio che un vero stimolo economico. La mancanza di un intervento diretto sulle tredicesime, per far sì che davvero i consumi vengano rilanciati nel critico periodo di Natale, è un buon esempio simbolico di tutti questi limiti.

Sono critiche condivisibili, che per altro sembrano avere un’eco nello stesso governo, se è vero quel che si legge delle tensioni dentro l’esecutivo intorno a un intervento prima di Natale, e se si leggono bene le dichiarazioni del premier sulla necessità di avere più risorse a disposizione, grazie anche alla leggera flessibilità sui parametri arrivata dall’Europa. Ma - ecco la vera domanda - perché respingere (ridicolizzare) le misure che contiene di una qualche efficacia? Ad esempio: lo spostamento del pagamento dell’Iva al momento in cui si incassa non è certo un forte intervento di detassazione, ma non è anche un piccolo sollievo? Ancora: se gli ammortizzatori sociali vengono estesi anche a lavoratori precari e irregolari, si può dire giustamente che questi fondi non sono sufficienti per tutti coloro che si troveranno in difficoltà, ma bisogna per questo respingere quelli che arriveranno a pochi?

Lo stesso vale per la Social card. Non mi è chiaro che cosa ci sia esattamente da criticare. È dedicata specificamente «agli ultimi degli ultimi», a quel milione e mezzo di poveri irreversibili - vecchi, donne sole con bambini, famiglie prive d’ogni prospettiva - gli stessi la cui esistenza Prodi denunciò, facendone la base dei suoi interventi più immediati. La Card è per definizione un piccolissimo gesto di sostegno sociale e se anche fosse la piccola carità dei capitalisti compassionevoli, non sarebbe per questo da respingere. Su qualche giornale (centrodestra e centrosinistra) si sostiene che questi interventi deludono la classe media, ma i fondi dedicati a questa assistenza avrebbero avuto ben piccolo impatto su quel che serve per la classe media. Mentre per i veri poveri, per chi guadagna 500 euro al mese, anche 40 euro in più fanno una differenza.

L’impressione è che al centro della discussione sulla Social card ci sia un vuoto di consapevolezza su che cosa sia la povertà. Non la povertà «percepita» di una società che diventa progressivamente più immobile, né quella della classe media che deve ridefinire il suo stile di vita, e neanche quella di una classe operaia che deve drasticamente ridurre anche i consumi essenziali. Parliamo di poveri veri, che per metà vivono con quello che hanno, per l’altra metà vanno alle mense pubbliche; di coloro per cui a Natale andare a mangiare un pasto decente (e servito) alla Comunità di Sant’Egidio fa tutta la differenza del mondo. Questa la gente che a volte ruba una mela nei supermercati o che nei supermercati con dignità compra una mela e una scatola di pelati a prezzi scontati. E anche chi sta meglio di loro - e che non avrà la Social card - non vive con molto di più: la pensione di un operaio che ha lavorato quarant’anni è fra 700 e 800 euro, e uno stipendio nel nostro Paese è di 1200-1500 euro.

Questo è il senso del denaro che hanno i cittadini comuni. Per ognuno di loro 40 euro sono un mese di carica per il telefonino del figlio o una sera fuori a cena, o la spesa di una settimana. Per quelli davvero poveri 40 euro sono il consumo mensile di elettricità, la differenza fra riscaldarsi o meno. Inoltre, queste persone non hanno vergogna di avere nelle mani una carta che ne attesti la condizione di povertà: i veri poveri sanno di esserlo e conoscono già l’umiliazione di mettersi in fila alle mense, o di chiedere ai figli qualche lira in più. Una carta probabilmente porta loro almeno un senso di considerazione da parte degli altri. Sono poi stati così terribili i «food stamp» kennediani? Erano certo più dei 40 euro della nostra carta, e come questa sono stati discussi: i neri d’America ne sono stati umiliati ed esacerbati, ma ne sono anche stati aiutati in uno dei peggiori passaggi della loro storia.

Attenzione, dunque, a non parlare per chi non ha la nostra stessa condizione e la nostra stessa voce. Quelli che «con 40 euro si comprano tre caffè e le sigarette» probabilmente non si rendono conto dell’ammontare di privilegio che è contenuto in questa frase.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Cgil, fortuna che piove
Inserito da: Admin - Dicembre 12, 2008, 03:44:15 pm
12/12/2008
 
Cgil, fortuna che piove
 
LUCIA ANNUNZIATA
 

Quello che non poté il dialogo poté il maltempo. Il sindacato, avviato verso lo sciopero generale di questa mattina, ieri sera ha dato uno sguardo all’Italia intirizzita sotto l’acqua e ha cancellato l’astensione nazionale dal lavoro dei dipendenti delle Ferrovie.

Grazie Cgil, ha detto il sindaco romano Alemanno. Grazie Cgil, gli hanno fatto eco i molti viaggiatori alle prese da ore con treni lumaca e strade intraversabili.

Ma il gesto di «responsabilità sociale», per quanto saggio sia, ha il retrogusto amaro d’una sorta di ammissione dell’inutilità inconfessata con cui a questo sciopero si è, alla fine, arrivati. Crediamo davvero che la «sensibilità» nei confronti del povero italiano bagnato si sarebbe esercitata, se l’appuntamento di oggi fosse stato percepito come realmente decisivo? La Cgil avrebbe sentito così acutamente il disagio dei cittadini se già non avesse maturato l’idea che, dopotutto, un disagio di tale portata non vale la pena? Se, insomma, tra simpatie degli scioperanti e simpatie della cittadinanza, non temesse di più la perdita delle seconde?

Povera Cgil. È proprio vero che la politica è ampiamente una questione di tempi e di luoghi prima che di opinioni. Lo sciopero generale di oggi, nato come una prova di forza, una conta decisiva, per tutta una serie di ragioni arriva al suo momento decisivo con le polveri - è il caso di dire - bagnate. A riprova di quanto incerto sia l’orizzonte della politica italiana. La traiettoria fatta da questo appuntamento - dal momento in cui prese forma come idea di dare al governo un «segnale forte» fino ad oggi - sembra in realtà un corso accelerato di realismo.

La convocazione dello sciopero generale avvenne - e come dimenticarlo? - più come reazione a una clamorosa snobbata politica che come progetto. L’11 novembre il presidente del Consiglio invitò a casa sua due dei tre leader sindacali nazionali, sottovalutando il fatto che la sua dimora, Palazzo Grazioli, è da tempo il più frequentato e osservato dei Palazzi del potere romano. La cena che doveva essere riservata finì, ancor prima di essere consumata (consumazione infatti non ci fu), sui media e l’escluso Epifani calò sul tavolo la più forte minaccia che un sindacato può sfoderare: una protesta nazionale. Fatta comunque, disse, anche da solo. Come poi è successo.

Non che non avesse ragione Epifani: l’isolamento della Cgil è sempre stato un progetto accarezzato da un governo come questo, attraversato spesso dalla tentazione di liberarsi da «lacci e lacciuoli». Alla vigilia di un nuovo pacchetto di misure anticrisi far abbassare le penne alla Cgil non avrebbe comunque nuociuto, ragionava Palazzo Chigi. E a un centro-sinistra privo di coesione interna sulla strategia antigoverno, lo scatto di Epifani offriva l’indubbio vantaggio di definire almeno un’identità, se non una linea.

Ma l’identità è uno strumento pericoloso da manovrare in un’area politica composita, in cui le varie componenti non solo non hanno ancora trovato coesione, ma si dividono anche all’interno delle stesse organizzazioni sindacali. Sganciata da una piattaforma unitaria, l’operazione identitaria della Cgil si è trasformata in una scelta di collocazione, in un confronto di principi più che di contenuti. Non sarà un caso se - a partire dall’attenzione dei media - il dibattito su questo sciopero invece che intorno al «che fare» si è sviluppato intorno al «che fa» Epifani.

Vista con il senno di poi, la mobilitazione di oggi si è riverberata in maniera più intensa dentro le file del Pd che dentro le stanze del governo. Avvantaggiato dalla tempesta dentro le organizzazioni sindacali, Palazzo Chigi ha portato a casa, senza gravi problemi, le sue misure anticrisi. Allo sciopero di oggi si arriva così un po’ in ordine sparso. A spinta esaurita. E sotto la pioggia. Che, però, non sempre è una sfortuna.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Di Pietro leader a sinistra
Inserito da: Admin - Dicembre 17, 2008, 03:34:17 pm
17/12/2008
 
Di Pietro leader a sinistra
 

LUCIA ANNUNZIATA
 

E se fosse proprio Di Pietro il leader che gli elettori del Pd vorrebbero? Domanda provocatoria, ma necessaria per provare a uscire dalla ripetitività della discussione interna al Pd. Al voto in Abruzzo il Pd (in tutte le sue componenti) ha risposto con la lettura di sempre - il dualismo Veltroni-D’Alema, il nuovo contro il vecchio, la necessità di fare piazza pulita della vecchia guardia - e con lo stesso dilemma dell’ultimo anno: rompere o no con Di Pietro? Se è tutto quello che il centro sinistra riesce a dire sul proprio declino, ha davanti una sola possibile conclusione: la rottura. Fra Pd e Di Pietro, e\o dentro il Pd fra dalemiani e veltroniani, ma anche fra ex popolari ed ex Ds, e fra rutelliani ed ex popolari. Una spaccatura in un organismo così fragile scuoterebbe come un terremoto tutti gli equilibri che ora rimangono a stento in piedi.

La vittoria di Di Pietro in Abruzzo, parte di una veloce crescita del suo partito, andrebbe forse guardata non solo come una «reazione» a qualcosa che il Pd non fa, ma anche come un’indicazione su quello che la base vorrebbe che facesse. L’ex magistrato sta costruendo la sua base nazionale su un paio di temi, non di più, che hanno molta risonanza nel Paese: la giustizia e la critica alla classe dirigente. È difficile non guardare a queste due questioni (Abruzzo docet) intrecciate. L’astensionismo - il dato maggiore del voto di due giorni fa, ma che di fatto dissangua il centro sinistra da tempo - cos’altro è se non un voto di sfiducia nel Pd proprio a causa della questione morale? In fondo, un identico giudizio d’inadeguatezza etica ha fatto crollare il consenso ai partiti della sinistra estrema quando i loro rappresentanti erano al governo.

Se questo è il senso dell’astensionismo, evidentemente Di Pietro è l’unico politico che, direttamente e indirettamente, appare circondato da approvazione. Perché l’unico di tutta la classe dirigente considerato al di sopra di ogni questione «morale»: sia colpa giudiziaria o responsabilità di consociativismo politico o anche solo di eccessiva integrazione nel sistema.

Il fenomeno Di Pietro appare così, in questa luce, come l’unico vero erede di quella rivolta che mesi fa venne chiamata l’antipolitica. Si disse allora che il fenomeno era contro tutta la classe politica, ma nella sostanza si è rivelato quasi esclusivamente scagliato contro il centro sinistra. Quelle critiche costituivano una richiesta di coerenza in particolare alle forze politiche che della questione morale avevano fatto una bandiera, un loro segno di «diversità». In questo senso, l’antipolitica, morta nelle sue forme più folkloristiche, non solo non è mai finita ma si è ben radicata nella coscienza profonda della sinistra, diventando richiesta più complessa. Al di là dell’attacco alle furbizie della casta e dell’omaggio alle procure, in quella protesta si è riversata e sedimentata tutta la domanda di ristabilire una vera giustizia sociale. Giustizia richiesta in varie forme: dal rispetto dei deboli nelle questioni economiche all’affermazione di meritocrazia sociale contro i privilegi dei pochi, alla riscoperta dello spirito di servizio da parte della politica.

Contro l’antipolitica s’infranse il governo Prodi. Grazie allo scontento della base Pd ha avuto la sua rivincita Berlusconi, e per rispondere al malessere espresso da quel movimento è nato il «rinnovamento» di Veltroni. Ma l’aspetto drammatico delle vicende di oggi è che nulla di quello che il Pd ha fatto appare ancora sufficiente a recuperare la fiducia della base. Di questo si fa forte Di Pietro: della sua fedeltà ai magistrati, dei suoi modi e apparenze da leader totalmente fuori dalle modalità della classe dirigente, con la sua parlata grezza, le semplificazioni, i pronunciamenti senza mediazioni. E a questo deve stare attento il Pd: l’ex magistrato è un leader che il popolo della sinistra può condividere o meno, ma che capisce meglio di quanto capisca tutti loro.

Più che litigare su come liberarsene (o su come liberarsi dei propri nemici con la scusa di Di Pietro), i dirigenti del Partito democratico farebbero bene a chiarire innazitutto a se stessi cosa intendono fare sui temi che Di Pietro rappresenta. Ad esempio, ci sono pochi dubbi che sulla giustizia l’elettorato Pd appare molto più intransigente dei suoi leaders. È un problema reale di differenza: ma in ogni caso è molto meglio che il centro sinistra dica immediatamente un sì o un no alla riforma, senza manovre per prendere tempo, come la commissione di 60 giorni. Lo stesso vale per la questione morale: il Pd può difendere i suoi dirigenti o può aprire bocca e sostituire chi vuole, ma non restare nel limbo dell’indecisione. Nell’ormai molto attesa riunione di venerdì in cui la direzione del Pd dovrebbe affrontare un «chiarimento», basterebbe forse fare chiarezza su questi due punti.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Il Paese virtuoso
Inserito da: Admin - Dicembre 28, 2008, 12:03:16 pm
28/12/2008
 
Il Paese virtuoso
 

LUCIA ANNUNZIATA
 

Il venti per cento in meno dei consumi per il Natale è un indubbio segno di sacrifici e di timore, ma vi si può leggere anche un segno di virtù delle famiglie italiane. Un’indicazione degli umori con cui il Paese si prepara ad affrontare la tempesta.

Va detto che la stretta nei consumi non era affatto scontata. Come spesso ci ricordano gli economisti e come abbiamo imparato dalle esperienze di questi ultimi decenni, non c’è nulla di scontato nel comportamento collettivo. Nemmeno nella reazione a una crisi economica. In particolare se questa è - lo ha scritto su questo giornale il 22 dicembre Luca Ricolfi - una crisi che ha molte sfaccettature, come sfaccettato è del resto il profilo del reddito italiano. «È possibile che il 2009 sia un anno molto duro per molti, sia in basso (disoccupati, precari, piccoli esercenti), sia in alto (imprenditori, commercianti, lavoratori autonomi in genere). Però, attenzione a non generalizzare. Disoccupati, precari e lavoratori indipendenti non sono tutta la società», ricordava Ricolfi. A guardarla da vicino, senza paraocchi di pregiudizi, questa crisi è, come sempre succede, una realtà piena di differenze e sfumature, in cui accanto alla radicalizzazione della sofferenza di molti strati, permangono zone di stabilità se non di sicurezza.

E’la differenza che sperimentiamo ogni giorno e che viene riflessa nell’informazione, che ci mostra da una parte spensierate vacanze e dall’altra famiglie in difficoltà. Ma, pur essendo la crisi una realtà a molti strati, il Paese ha avuto una reazione unanime: una frenata dei consumi, una scelta di parsimoniosa oculatezza che non era affatto scontata. Al bando il solito falò delle vanità italiane/occidentali, il culto del corpo, con i suoi annessi di creme, scarpe, borse e abbigliamento; decurtate le spese delle abbuffate, delle vacanze stravaganti, ma non quelle dell’interrelazione. Che si tratti di giocattoli, di sport o telefonini, l’elettronica non crolla perché è parte essenziale della vita.

Questa unanimità di comportamenti è forse la novità più rilevante del momento. Perché ci può far pensare che non è solo il frutto obbligato della diminuzione del denaro da spendere, ma anche di decisioni «psicologiche». Insomma, a differenza di quel che abbiamo visto in passato in altre crisi - l’esempio più potente che mi viene in mente è quello dello scoppio della bolla della nuova economia - durante le quali le difficoltà sottolinearono le differenze di reddito, nella crisi di oggi sembra di poter leggere anche il segno di una turbata coscienza nazionale che, al di là dei propri mezzi, sceglie la cautela e la parsimonia. Naturalmente è del tutto possibile che queste osservazioni siano più che altro una speranza, un riflesso di ottimismo natalizio sul nostro Io collettivo. Ma in parte sono basate anche sulla memoria di quella che è poi la natura del nostro Paese.

Solo mezzo secolo fa eravamo una nazione di contadini, ci diciamo spesso, per poi dimenticarlo più spesso. Gli attuali capifamiglia, cioè la maggioranza di chi produce in Italia, hanno genitori contadini o operai, e i nostri preziosi figli, che all’apparenza sembrano viziatissimi principini, hanno i nonni la cui parlata ha profonde radici nei dialetti locali. Sulle nostre tavole natalizie questi legami sono ovvi. Meno ovvi sono invece nel corso della nostra vita quotidiana. Il merito maggiore dell’Italia del dopoguerra è proprio questo: aver saputo diventare in due generazioni un Paese benestante e colto, e questo cambio è stato possibile grazie alla prudenza, al realismo, alla flessibilità e al coraggio con cui gli italiani hanno sempre affrontato le proprie traversie.

In questo Natale il solido spirito del Paese sembra ritrovarsi. Uno stato d’animo che ci dice molto del pessimismo con cui i cittadini guardano oggi alle cose a venire, ma ci dice anche della virtù italica di saper sempre ritrovare la propria bussola in quella serietà di comportamenti che è la base di ogni rispetto degli altri. Non sarà certo un caso se il tema politico prevalente in queste feste siano i contratti di solidarietà. Il Palazzo invece sembra per ora assorbito come sempre dalla riforma della giustizia. Ma se possiamo fare un augurio anche ai nostri governanti e ai politici tutti, governo e opposizione uniti, auguriamogli di non sprecare con una gestione irrazionale, partigiana e opportunista della crisi questa disponibilità di fondo del Paese.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - L'alberello del buon teppista
Inserito da: Admin - Dicembre 31, 2008, 12:22:42 pm
31/12/2008 - LA FAVOLA DI NATALE
 
L'alberello del buon teppista
 
LUCIA ANNUNZIATA
 

Di questa storia che sto per raccontarvi sono testimone diretta. Implicata, anzi. A causa di un paio di spintoni nel fianco.

Immaginate come luogo una delle nostre molte località di montagna. In questo caso sono le discese di Mont'Elmo, alta Val Pusteria al confine con l'Austria, posto quieto di famiglie. Non ci sono qui mondanità ed esibizioni, ma, come si dice, anche qui arrivano i tempi moderni, anche qui, secondo quel birignao della modernità che vuole sempre che tutto sia peggio di prima, le vacanze non sono più quelle di una volta. Le piste soprattutto. Affollate di ragazzini, di pirati delle discese, di dilettanti allo sbaraglio. Quella montagna che una volta era il momento della intimità è diventata solo un altro momento della folla corsa con cui misuriamo la nostra vita su e contro quella degli altri.

Non è difficile, per pura deformazione professionale, ripassarsi in mente tutti questi pensieri mentre, in fila davanti all'autobus che ci riporta dal fondo delle piste nei vari paesini, ci sorbiamo ognuno la regolare dose di spinte per salire. Sci che si ficcano nei polpacci, gomiti che allargano gli spazi di passaggio, qualche ginocchiata ben diretta sono il pane quotidiano di chi vuole frequentare il servizio pubblico che raccorda le varie piste. Specie mentre fa buio il 24 dicembre, e tutti corrono a prepararsi.

Nella calca di ragazzetti dal gomito facile si distingue uno, con una fiammante tuta rossa, casco e scarponi ancora allacciati, che si fa largo con la sua decina d'anni a colpi di spintoni, brandendo alto un piccolo abete. Prende la rincorsa fra tutti, riesce grazie alla foga a salire per secondo e mentre tutti lo riempiono di improperi, conquista il posto su cui aveva messo gli occhi: la prima fila, dove si infila, mettendo al sicuro, tra sé e il finestrino, l'abetino - un alberello spezzato a mano alla radice, con poche file di rami radi, storto alla cima, così brutto che l'occupazione di un posto intero per salvaguardarlo appare una vera provocazione a chi è rimasto in piedi. Teppisti moderni.

Alle dieci di sera, al suono delle campane, l'intera San Candido è chiamata alla messa nella austera chiesa medievale che segna il centro della cittadina. Le pareti spesse, il campanile quadrato, e il cimitero che lo circonda danno a questo centro uno speciale silenzio in cui si entra con la massima concentrazione.

Ogni volta che si apre, la massiccia porta lascia passare il suono del coro in tedesco che ci accompagnerà fino a mezzanotte, e un fascio di luce. La luce illumina la neve e le tombe che in tante file, guardate da semplici croci di ferro, girano intorno alle mura della chiesa. E' il cimitero di questa comunità fin dal medioevo, dove i defunti di oggi si distinguono solo per i lumini accesi dai più antichi ormai senza nome.

Due file più in là dell'entrata, su una di queste semplici tombe qualcuno ha deposto un alberello. Così brutto che non è possibile che ce ne siano due uguali.

Mi avvicino, ed effettivamente non potrebbero mai essercene due di abeti così. E' lo stesso, basso, con i suoi radi rami, storto alla cima che ho visto in mano al teppistello in bus poche ore prima. E' ora davanti a questa croce, messo su con un po' di foga, formando una piccola montagnola di neve per fermarlo. Mi avvicino ancora. L'albero adorna una croce su cui, in un ovale di ferro, c'è la foto di una vecchia signora, con i capelli raccolti in una crocchia. Ha un lungo nome in italiano e in tedesco, e una data di morte: 2005. Ma per suo nipote è ancora Natale con lei.

Non so se sono più commossa o più pentita delle mie generalizzazioni sui ragazzini.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA. INTERVISTA A ROSA RUSSO IERVOLINO
Inserito da: Admin - Gennaio 03, 2009, 04:23:48 pm
3/1/2009 (12:55) - RIMPASTO DOPO IL TERREMOTO GIUDIZIARIO

Napoli, domani la nuova giunta
 
La Iervolino: «Lavoro completato»

Pd in pressing: «Sindaco garantisca reale rinnovamento nelle sue scelte»


NAPOLI

«Probabilmente domani mattina» sarà annunciata la nuova giunta del Comune di Napoli. Lo ha detto il sindaco Rosa Russo Iervolino al suo arrivo a Palazzo San Giacomo, sede del Comune. Dell’incontro di ieri sera con il segretario provinciale del Pd Luigi Nicolais il sindaco dice: «È accaduto il contrario di ciò che è stato detto. Cioè abbiamo completato la nuova giunta». «Ci sono delle persone - ha aggiunto - che ancora non sanno di essere in giunta e quindi adesso devo dirglielo».

«Auspico che il sindaco sappia garantire un profondo e reale rinnovamento, condizione indispensabile per rilanciare l’azione amministrativa del Comune e riaprire una relazione positiva con la città e con i suoi bisogni». Intanto sulla situazione politico-amministrativa al Comune di Napoli, interviene anche Luigi Nicolais. Il segretario provinciale del Pd, all’indomani di un incontro con Rosa Iervolino Russo, rilancia: «A Napoli ed in Campania il Pd ha davanti una doppia sfida: un deciso rilancio dell’azione di governo delle amministrazioni di cui siamo la principale forza di riferimento, ed il recupero della fiducia dei cittadini nella capacità della politica, a cominciare dal Pd, di rispondere ai bisogni della gente».

Secondo Nicolais «le due cose vanno insieme: non c’è azione di governo possibile, se non si gode della fiducia dei cittadini. Per queste ragioni il partito napoletano ha ritenuto di proporre al sindaco di operare scelte di forte discontinuità nell’indirizzo politico, negli obiettivi programmatici e nelle persone che li devono interpretare». «Nell’incontro che ho avuto ieri, come nei precedenti - conclude Nicolais - mi sono limitato a confermare al sindaco l’urgenza di queste necessità, nel rispetto delle prerogative istituzionali e di reciproca autonomia». Secondo alcune fonti tuttavia l’ipotesi della formazione di una giunta di forte discontinuità con la precedente sembra essere svanita nelle ultime ore.

L’ampio rinnovamento che nei giorni scorsi il sindaco in qualche modo aveva preannunciato, nel corso degli ultimi incontri con gli esponenti locali del Pd, sembra ora lasciare il posto alla sola sostituzione degli assessori indagati nell’ambito dell’inchiesta della Procura sugli appalti Romeo. Secondo indiscrezioni, la Iervolino avrebbe fatto dei passi indietro rispetto alla linea voluta dal partito, intervenuto in modo incisivo su palazzo san Giacomo proprio in seguito alla inchiesta giudiziaria. Nicolais ha ribadito la linea della fermezza, chiedendo un rimpasto sostanziale, per marcare la discontinuità con l’amministrazione precedente. Sì alla permanenza, nella nuova giunta, al vicesindaco Tino Santangelo e all’assessore alla Legalità Vincenzo Scotti - irrinunciabili per il primo cittadino -, ma in un contesto di forte rinnovamento, riguardo a tutte le altre caselle.

da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - L'Italia di Romeo
Inserito da: Admin - Gennaio 03, 2009, 04:27:25 pm
3/1/2009
 
L'Italia di Romeo
 
LUCIA ANNUNZIATA
 

Non regolate le intercettazioni, non mettete il lucchetto ai verbali. Se non potete evitarlo per la politica, fatelo per la letteratura. Le intercettazioni e i verbali costituiscono il miglior romanzo popolare che da anni si vada scrivendo in Italia. Nessuno scrittore, tranne forse Saviano, è mai riuscito finora a eguagliare per verità inattese e sorprese linguistiche l’intensità del racconto del Paese che i documenti contengono.

L’ultimo capitolo, dal titolo «L’amministrazione pubblica secondo Romeo», ci sta accompagnando a puntate e, come i buoni romanzi di appendice, è pieno di disvelamenti. Il mio preferito - considerando i miei gusti terroni - è quello che riguarda le gare d’appalto a Milano. «Ho vinto la prima volta, la questione è finita in Giunta», racconta Romeo. «Albertini (sindaco dell’epoca, ndr) in Giunta ha detto: “Questo camorrista di Napoli amico di Bassolino non può venire”. Ah, gli atti! Andatevi a prendere gli atti del Comune di Milano! Ho fatto ricorso e loro: “Ah, che facciamo? Siccome c’è Edilnord (concorrente all’appalto, ndr) non può perdere Edilnord perché non può vincere Romeo. E siccome Romeo è bravo e se facciamo un’altra gara vince lo stesso, spacchiamo i lotti, ne facciamo tre così anche se vince Romeo noi ce lo teniamo fra le scatole però entra Edilnord..."». Finì che a Milano con la spartizione a tre entrarono tutti: Romeo, Edilnord e Pirelli. È vero, è falso? Fu saggia decisione o preparazione a una spartizione di favori? Romeo non lo dice e tocca in ogni caso ai giudici deciderlo, ma è un meraviglioso sprazzo di realismo che irrompe nella rappresentazione politica.

Così come accade a Roma, dove le gare virano verso il surreale: «Non ero io che dovevo vincere!», dice Romeo ai magistrati. «Chiamatevi Rutelli (sindaco all’epoca, ndr), non ero io che dovevo vincere! Hanno trovato il cilindro aperto e hanno trovato il prezzo migliore... mi sono trovato vincitore con l’ira della Lanzillotta (Linda Lanzillotta, ministro degli Affari regionali nel governo Prodi, ndr) e Rutelli». L’imprenditore napoletano è lo specchio, tanto efficace quanto involontario, delle viscere della pubblica amministrazione.

Nelle telefonate e negli interrogatori di Romeo colpisce l’emergere di figure politiche di struttura psicologica del tutto infantile, in cui sono evidenti i bisogni di rassicurazione, l’affidamento all’imprenditore, e una continua sbruffoneria. L’assessore napoletano Giuseppe Gambale, in una telefonata dice a Romeo: «Ho parlato con il sindaco. Lo sai che lei è molto contenta (del progetto Global Service, ndr); io sono stato un po’ criptico...». Romeo lusinga: «Eh, ma lei non ha capito che ha degli assessori intelligenti». Gambale ribatte: «Ma quella è scema completa... non si rende conto». Ingenuamente autocongratulatorio è anche il povero Nugnes che poi si ucciderà: «Tieni nu’ grande amico assessore», dice a Romeo. «Questo è il più grande provvedimento di questa consiliatura, allora dice... Arriva questo fresco fresco, ragazzino ragazzino, e ci frega a tutti quanti». Parole quasi amorose, quelle di affidamento. Romeo chiama un giorno Renzo Lusetti, parlamentare del Pd, e apre la conversazione con uno strepitoso: «Ti sei scordato di me». E Lusetti, invece di sobbalzare per l’intimità della frase, subito rassicura: «No, sto lavorando, invece», per poi fare un sfoggio di potenza: «Ho un incontro operativo alle 8 - spiega Lusetti - direttamente con il grande capo e parliamo di tutto, capito? Stai tranquillo». Gli fa eco Italo Bocchino, del Pdl, con uno «stai tranquillissimo. È andato tutto bene, hai visto, poi ormai siamo una cosa». «Un sodalizio consolidato», risponde l’imprenditore. E Bocchino aggiunge: «Proprio una cosa solida, una fusione fra i due gruppi». Anche Bocchino fa sfoggio di forza: «Non ti preoccupare perché domani sera c’è una riunione con tutti a cui viene spiegato qual è la tesi da sostenere». Ripete: «Tutti allineatissimi».

Cos’è questo sfoggio di forza, intimità e tranquillità se non la prova dell’esatto contrario, come dimostra l’ansia di questi contatti frenetici? Ne esce l’efficace disegno d’un momento, di un’epoca della nostra vita pubblica. La vicenda Romeo intercetta bene quella terra di nessuno dove ognuno può infiltrarsi e tutto può accadere, e dove tutti, di conseguenza, sono prede e cacciatori, a giorni alterni o nello stesso giorno. Romeo finisce col raccontare ai giudici questo continuo cambio di ruoli, definendo i politici come «incapaci» ma anche «iene», e se stesso come «Belzebù» ma anche «agnello». Controllore in quanto vittima potenziale: «Provate voi a inserirvi nella foresta, nella giungla, lasciando perdere l’albero», invoca i giudici.

Non è forse questo un efficace ritratto dell’incertezza di legittimità e autonomia in cui si muove oggi la politica locale? E viceversa non è questo anche un fantastico ritratto del mondo degli affari italiani, che di privato ormai hanno ben poco e che sono essi stessi predatori e prede del denaro pubblico? Che potere è quello di entrambi i lati? Così come «il bacio in fronte» all’allora governatore Fazio ci rivelò l’interconnessione fra controllori e controllati; e le intercettazioni Mastella e Di Pietro l’interfaccia fra politica e famiglia; e quelle di Fassino, D’Alema e La Torre, l’ansia d’inserimento nel sistema da parte di un partito che avrebbe dovuto combattere quel sistema; e quelle di Saccà alla Rai la natura del rapporto fra leader e alleati, così la vicenda Romeo è solo l’ultimo capitolo di una narrativa «rubata» alla politica. È un racconto che non costituisce necessariamente materiale penale, ma ha una forte qualità letteraria: la capacità di andare dritto a quel «fattore umano» che tanto appassionava Graham Greene e che è scomparso invece del tutto dal racconto ufficiale della nostra vita pubblica.

da lastampa.it


Titolo: Napoli, Nicolais si dimette da segretario Pd "E' mancata una svolta coraggiosa"
Inserito da: Admin - Gennaio 05, 2009, 02:54:32 pm
La decisione in seguito alla formazione della nuova giunta voluta dal sindaco Iervolino dopo l'inchiesta Global service

Napoli, Nicolais si dimette da segretario Pd "E' mancata una svolta coraggiosa"


NAPOLI - L'onorevole Luigi Nicolais questa mattina ha rassegnato le dimissioni da segretario del Partito democratico di Napoli. E lo ha fatto inviando una lettera al segretario nazionale Walter Veltroni. Le dimissioni di Nicolais sono da mettere in relazione alla formazione della nuova giunta del Comune di Napoli in seguito agli arresti legati all'inchiesta Global Service.

"E' mancata una svolta coraggiosa che consentisse di recuperare la fiducia dei cittadini". Così l'ex ministro del governo Prodi ha argomentato la sua scelta.

La notizia giunge nello stesso momento in cui il sindaco Rosa Russo Iervolino commenta favorevolmente il cambiamento in atto al Comune: "Questa è una giunta su cui si è fatto molto rumore - ha detto la Iervolino - ma nasce senza contrapposizione con nessuno. Il sindaco ha tenuto correttamente i rapporti con il suo partito e con gli altri partiti politici con uno stile costruttivo e collaborativo".

La Iervolino, parlando ai giornalisti, ha anche ribattuto all'accusa di Nicolais, secondo cui la linea del partito è stata sconfessata: "Non è vero che è stata sconfessata. E' nella logica concordata con lui a casa mia e con Iannuzzi qui".

(5 gennaio 2009)
da repubblica.it


Titolo: Rosa Russo Iervolino «Ho cacciato i disonesti. Adesso arrivo fino al 2011»
Inserito da: Admin - Gennaio 08, 2009, 12:27:39 pm
«Ho cacciato i disonesti. Adesso arrivo fino al 2011»

di Marcella Ciarnelli


Quando Rosa Russo Iervolino si è presentata alla messa di mezzogiorno, la funzione più affollata, nella chiesa di Santa Chiara, nel cuore antico della città, ha capito che aveva fatto bene a resistere. «Brava sindaco, mi hanno detto in tanti. Ora pensa al bene di Napoli, andate avanti» racconta il sindaco “bersagliera” come l’ha raffigurata l’Unità, «un’idea carina, e poi a Napoli c’è un famoso ristorante che si chiama così, e la Lollobrigida... ». Da oggi si ricomincia, gomito a gomito con i nuovi assessori e con quelli che sono stati riconfermati.

«Bisogna recuperare, in questi giorni si è fatta solo “ammuina”. Mi sono portata a casa un po’ di lavoro, anche se è ancora festa» racconta nel pomeriggio dell’Epifania che tutte le feste si porta via. «Ma i nuovi, loro sì, li abbiamo riempiti di carte...».

Sindaco, è passata la tempesta?
«Direi di sì. Io alle tempeste ci sono abituata. Questa l’ho superata nel modo più logico possibile: fuori da qualsiasi spartizione politica ho chiesto ad alcuni amici che sono anche personalità di rilievo, di grande livello, di impegnarsi per il bene della città. Sei nuovi assessori, quattro li avevo cambiati un paio di mesi fa. Una giunta profondamente rinnovata che ora dovrà affrontare la sfida del governo di Napoli».

Per lei questi sono numeri che assicurano la discontinuità che le era stata richiesta?
«La discontinuità la raggiungi cacciando i disonesti non penalizzando gli onesti».

Allude alla difesa strenua che lei ha fatto di alcuni dei più stretti collaboratori, a cominciare dal vicesindaco Santangelo
e dall’assessore Scotti
«Loro, ma anche gli altri. Santangelo è stato ed è un pilastro della mia giunta. Luigi Scotti è un uomo di legge, il primo e unico ex ministro della Giustizia che per amore della sua città, ed anche per amicizia, ha accettato di fare l’assessore. Li ringrazio per il loro lavoro. E lo stesso vale per tutti».

Poi ci sono i nuovi.
«Amaturo,Realfonzo, D’Aponte, Belfiore. Professori universitari qualificati e competenti che hanno accettato facendo anche grossi sacrifici. L’editore Diego Guida, il nipote di Mario, un’istituzione della città ora non potrà più partecipare ad alcun bando fatto dal Comune. E il nuovo impegno influirà anche sulle attività accademiche degli altri. Ma hanno accettato tutti con la consapevolezza che Napoli aveva bisogno delle loro competenze».

Quando si comincia?
«Oggi. Anche se una prima riunione l’abbiamo già fatta ed è stato subito chiaro che deve prevalere lo spirito di squadra. Nessun personalismo, nessuna uscita ad una sola voce. Quando parla uno tutti di devono poter riconoscere in quelle parole. Bisogna avere ben chiaro,ed è anche questa convinzione che mi ha guidata, che c’è differenza tra la politica politicante ed i bisogni della gente. E’ ai napoletani che dobbiamo dare le risposte che si aspettano da noi».

I primi appuntamenti?
«Lo ripeto, riallacciare i rapporti con la città. E poi fare il bilancio perché siamo in esercizio provvisorio. C’è da mettersi le mani nei capelli per come il governo ha ridotto le finanze dei comuni. Ne ho parlato con il presidente dell’Anci, Domenici che è persona che stimo. Bisogna lavorare per arrivarci in tempi rapidi. I rapporti li terrà l’ex assessore alla Nettezza urbana, Gennaro Mola».

Non ha paura che proprio sul bilancio in consiglio comunale le possano fare un imboscata? Qualcuno la crede possibile anche da parte di consiglieri del suo partito.
«Chi dovesse fare una cosa del genere se ne assumerà tutta la responsabilità davanti alla città».

A proposito del Pd, come sono i suoi rapporti con il partito dopo il braccio di ferro di questi giorni?
«Io sono donna di partito, nel Pd ci credo e quindi l’ultima cosa che potevo pensare di fare era di mettermi contro il partito. Ma i diktat sui singoli assessori non avrei potuto mai accettarli. Sarebbe stato come far rivere la peggiore Dc. Io il partito l’ho aspettato e l’ho rispettato».

Però Nicolais si è dimesso e arriva il commissario Morando.
«Mi dispiace per Nicolais. Gli avevo chiesto di non dimettersi. Con Morando avrò un ottimo rapporto. E’ una persona splendida a cui, sono convinta,nessuno qui gli farà la fronda. Avrà massima collaborazione».

C’è la questione della registrazione dell’ultima riunione con Nicolais. La sua versione??
«Dopo una prima riunione, venerdì, in cui tutto sembrava risolto tant’è che in mia presenza,dopo avermi abbracciato,Gino aveva telefonato a Boccia per dirgli che tutto era a posto, mi sono trovata il giorno dopo con una clamorosa smentita. Allora, alla successiva riunione, che mi è stata chiesta attraverso la senatrice Armato, ho fatto sapere che avrei usato un registratore ed avrei preteso, alla fine, la firma di un verbale con le decisioni prese. Non potevo fare di nuovo la figura del carciofo. Arrivano a casa mia Nicolais e Iannuzzi. Va tutto talmente bene che al documento controfirmato ci ho rinunciato. E invece mi hanno negato l’evidenza per la seconda volta».

Quindi...
«A quel punto ho deciso: faccio io. Ed ho proseguito per la mia strada chiamando ad aiutarmi fior di persone che non sono compagnucci di corrente. Io correnti non ne ho mai avute, tranne quella elettrica».

Lei ora pensa di arrivare al 2011, alla fine del suo mandato?
«Spero di arrivarci per il bene della città. Basta con le beghe di Pinco contro Pallino, di Tizio contro Caio. Ci sono soldi europei da spendere, ci sono progetti da condurre in porto, ci sono necessità quotidiane e di prospettiva a cui dobbiamo dare risposte».

Come il rischio spazzatura?
«Proprio. Berlusconi dice di aver risolto il problema e intanto chiede alla Puglia di prendersi quarantamila tonnellate di rifiuti. Vendola ha rifiutato perché anche da quelle parti ci sono problemi. Ora dovrà decidere il commissario straordinario Bertolaso come andare avanti ed evitare una nuova emergenza. Vorrei ricordare che il Comune ha possibilità di intervento solo per quanto riguarda la differenziata ed è sull’aumento di questa raccolta che puntiamo. L’obbiettivo è passare dal 12 al 17 per cento. Ci lavorerà il nuovo assessore, Paolo Giacomelli che è stato direttore del settore Igiene Urbana del Comune di Roma ed ha lavorato con Veltroni. Io non mi voglio trovare un’altra volta nei guai».

mciarnelli@unita.it

07 gennaio 2009
da unita.it


Titolo: Il «file» del vertice tra Nicolais e Rosetta
Inserito da: Admin - Gennaio 08, 2009, 03:48:09 pm
Le registrazioni

Lo staff del sindaco: il dischetto è nelle nostre mani «Poche novità». «Più di così non posso»

Il «file» del vertice tra Nicolais e Rosetta

L'ex segretario provinciale: lei mi ha chiesto dei nomi, io li ho fatti


NAPOLI — «Marcello D'Aponte all'assessorato al Patrimonio va bene, Diego Guida al Decoro urbano anche, non c'è nessun problema su queste persone.
Ma forse serviva un rinnovamento maggiore». «Più di così non era possibile fare, ci sono non solo ragioni politiche di cui tenere conto, ma anche storie e situazioni personali e familiari che non mi hanno permesso di spostare certi assessori»: sono alcuni dei passaggi chiave del botta e risposta di domenica scorsa fra Luigi Nicolais e Rosa Russo Iervolino, alla presenza del «testimone » Tino Iannuzzi, segretario regionale del Pd. Quaranta minuti di «normale e legittima trattativa politica », dicono dallo staff del sindaco.

Al centro della discussione c'era il mini-rimpasto della giunta deciso dal sindaco dopo che l'amministrazione è stata travolta dal ciclone della vicenda degli appalti comunali nel mirino della magistratura. Il file audio con la registrazione secondo i collaboratori del sindaco «non è stato nemmeno trascritto». E la stessa Iervolino sostiene che «la riunione era andata talmente bene che non ce ne era bisogno di fare un verbale e metterci le firme sotto per dimostrare che stavolta eravamo tutti d'accordo ». In realtà — raccontano dagli uffici del Comune — già lunedì mattina il dischetto era stato consegnato a un dipendente per la sbobinatura della chiacchierata. Ma poi sarebbe arrivato lo stop. Una cosa è certa. Il testo ufficialmente non è stato diffuso. «Registratore e dischetto sono ora personalmente nelle mani del sindaco», rivelano i suoi collaboratori, «la vicenda per noi è chiusa. Ora bisogna pensare ad alto. Alle decisioni per la città».

Dal racconto frammentario dei protagonisti si delineano comunque i contenuti della riunione. «E' stato un normale colloquio fra tre persone che devono risolvere dei problemi, non si dice niente di così particolare », minimizza Rosa Russo Iervolino. «Abbiamo parlato di come ridare lustro alla città dopo questa fase confusa e difficile. E in quest'ottica abbiamo ovviamente parlato di persone», aggiunge diplomaticamente Nicolais, che ha svelato al Corriere del Mezzogiorno gran parte dei contenuti del vertice. «Ma come? Venerdì ci eravamo messi d'accordo, non mi sembrava che ci fossero problemi. Poi che cosa è successo? Perché il giorno dopo non andava più bene niente? Perché la mattina dopo devo sentire delle cose che non c'entrano niente con quello che ci siamo detti»: in apertura di riunione, dopo i saluti e i convenevoli di rito, è il sindaco a introdurre il tema caldo. Cioè il rimpasto. E chiede a Nicolais spiegazioni sulle dichiarazioni critiche rilasciate dall'ormai ex segretario cittadino del Pd sabato scorso. La risposta di Nicolais? È la stessa Iervolino a riferirla: «Mi ha detto semplicemente: "Ci ho ripensato nella notte, ho cambiato idea"».

La discussione entra poi nel dettaglio dei nomi. La Iervolino sollecita «suggerimenti» a Nicolais, chiede al segretario del Pd di indicare «nomi di persone valide da poter utilizzare per rilanciare l'attività dell'amministrazione ». E l'ex ministro non si tira indietro: «Io ho ritenuto opportuno indicare Paola De Vivo e il sindacalista Giuseppe D'Errico. Sono persone che stimo». Nicolais, secondo quanto poi ha riferito alle persone più vicine, non avrebbe posto veti sui nomi proposti dal sindaco. «Ho espresso anche parere favorevole per la nomina di D'Aponte, che mi sembra sia stato indicato da Emilio Montemarano (esponente del Pd locale legato a Bassolino, ndr), ho chiesto solo che si valuti l'opportunità di altri interventi oltre a quelli già adottati». Niente scontri all'arma bianca, dunque. E toni tutto sommato pacati. Anche perché - sostengono dallo staff del sindaco - non solo Rosa Russo Iervolino sapeva che tutto veniva registrato. «Ma anche Nicolais, ammesso che non fosse informato ufficialmente, probabilmente se ne è reso conto. Tant'è che ha giocato di rimessa. Lasciando la parola sempre al sindaco. E avuto un atteggiamento ben più diplomatico e prudente rispetto a venerdì scorso». «Non sapevamo di essere registrati», ribadisce invece Nicolais. Chi ha ragione? Rebus irrisolto.

Paolo Foschi
08 gennaio 2009

da corriere.it


Titolo: Il segretario Veltroni: "Basta con i cacicchi" (Ok ma quando? ndr).
Inserito da: Admin - Gennaio 08, 2009, 03:49:40 pm
Napoli, nuovi veleni sul caso registrazioni

Il segretario Veltroni: "Basta con i cacicchi"

Il sindaco Iervolino e il Pd "Non mi fido più di nessuno"

di GIOVANNA CASADIO

 
ROMA - Non ci saranno invitati e quindi neppure ospiti sgraditi. Ma alla manifestazione pubblica con la quale Walter Veltroni, mercoledì prossimo insedierà Enrico Morando a commissario del partito in Campania, c'è da stare certi che, se Antonio Bassolino e Rosa Russo Iervolino si presentassero, sarebbero accolti dal gelo. Il segretario ha pensato a una kermesse stile Pd-pride: da un lato il partito del rinnovamento, dall'altro i potentati locali, i "cacicchi", i loro riti e impasse. Con loro, "basta". E per marcare la distanza da tutto, a cominciare da quella che, nel coordinamento di ieri, ha definito "la sgradevole vicenda della registrazione", sarà a Napoli a parlare di politica e a presentare Morando.

"Attenti, che siamo tutti registrati...", è la battuta che circola nel vertice dei Democratici. Difficile però stemperare le tensioni, tenuto conto che il pugno duro di Veltroni potrebbe abbattersi - dopo i commissariamenti di Napoli, della Sardegna e dell'Abruzzo - anche sulla Sicilia. Francantonio Genovese viene per ora messo soltanto in mora. Beppe Fioroni lo ha difeso: "Altolà a troppi commissari". Anna Finocchiaro ha invitato a una riflessione sui poteri dei commissari stessi. Rosy Bindi avrebbe preferito che a Napoli ci andasse il vice segretario, Dario Franceschini tanto per fare sentire il peso del partito.

Morando tuttavia non perde tempo: a metà pomeriggio è già a Napoli e riesce a sbrogliare la grana più evidente, la "sconcertante" questione della registrazione: "Non si pubblica la registrazione, ho parlato con gli interessati, ora a Napoli si apre una nuova fase". Per il Pd il caso è chiuso. Il sindaco Iervolino infatti, era pronta a rendere pubblico quel colloquio registrato all'insaputa degli interlocutori alla vigilia della formazione della nuova giunta: "Se gli interessati", cioè Tino Iannuzzi e Luigi Nicolais (il segretario provinciale dimissionario per queste vicende), "mi danno l'autorizzazione, faccio sentire il nastro, Per chi ha la coscienza a posto, che problema c'è?". Grande imbarazzo. A cui si era aggiunta la smentita di Teresa Armato, fino all'altroieri amica per la pelle di "Rosetta", da lei chiamata in causa in quanto informata dell'affaire, Armato nega di averne mai saputo nulla. Iervolino: "Armato nega? Me lo dica in faccia, guardandomi negli occhi... non ho più fiducia in nessuno".

A rendere più caotica la situazione ci si mette Linda Lanzillotta, ministro-ombra, vicina a Francesco Rutelli: "Il Pd potrebbe sfiduciare la giunta comunale di Iervolino e quella regionale di Bassolino". Lo dice in una conversazione a Radioradicale sulle prerogative degli amministratori che "si assumono la loro piena responsabilità", e però è necessario "un segnale forte" da parte di Veltroni. Iervolino non le risparmia un amabile: "Si facesse i fatti suoi...".

Andrea Orlando, il portavoce del partito, è per sganciare il Pd dall'"infeudamento" rispetto ai poteri locali. In Campania si va verso il rinnovo dei consigli provinciali di Napoli, Caserta, e Avellino. Non si può perdere tempo. Né si sa quanto resisterà Bassolino alla guida della Regione, ora che anche D'Alema ha invocato il rinnovamento napoletano. E che al "governatore" sia assicurato un seggio a Strasburgo, non sembra affatto scontato.

(8 gennaio 2009)
da repubblica.it


Titolo: Napoli, la minaccia della Iervolino
Inserito da: Admin - Gennaio 08, 2009, 03:54:54 pm
8/1/2009 (7:43) - IL CASO

Napoli, la minaccia della Iervolino
 
"Rendo pubblici i nastri". Ma Morando li blocca: ho deciso di no

FABIO MARTINI
ROMA


Bene o male, la telenovela napoletana sembrava ai titoli di coda. E invece, con uno spettacolare tric-trac, la sceneggiata si è arricchita di nuovi spunti melodrammatici. Di prima mattina Linda Lanzillotta, ministro Ombra e dunque uno dei massimi dirigenti del Pd, ha provato a riaprire la questione-Napoli con una spruzzata di vetriolo: «Se al Pd campano non stanno bene le giunte guidate da Bassolino e dalla Iervolino, perché non gli tolgono la fiducia? Mi aspetto un segnale forte dal Coordinamento nazionale del Pd». Di lì a qualche minuto Walter Veltroni e il Coordinamento - sorpresi da una proposta simile a quella di Luciano Violante ma sopraggiunta fuori tempo massimo - hanno ignorato la Lanzillotta.

Ma in compenso da Napoli, il sindaco Rosa Russo Iervolino, non ha resistito alla tentazione di una replica scoppiettante: «La Lanzillotta? Ma si facesse i fatti suoi!». Uno scambio di petardi che è proseguito anche su altri «balconi». In particolare sulla ormai famosa e irrituale registrazione voluta dalla Iervolino della riunione napoletana del Pd, quella nella quale si discusse animatamente sulla formazione della nuova giunta comunale. Enigma irrisolto: il capo del Pd di Napoli Luigi Nicolais e quello della Campania Tino Iannuzzi erano stati informati dal sindaco che le loro parole sarebbero state registrate? La promotrice dell’incontro, la senatrice Teresa Armato, ha detto: «Non ricordo di aver autorizzato l’uso del registratore...». Alla Armato ha replicato la loquacissima Jervolino: «La sfido a ripetermi quella frase, guardandomi negli occhi».

Proposta finale della Iervolino: «Se gli altri due partecipanti, Nicolais e Iannuzzi, sono d’accordo possiamo renderla pubblica la registrazione, così sapremo chi dice la verità e chi no. Chi ha la coscienza a posto, non ha nulla da temere...». Nervi scoperti e toni melodrammatici che restituiscono lo spaccato di un Pd campano nel quale nessuno si fida più dell’altro. E così, per provare a spegnere la vicenda davvero originale della registrazione, è dovuto intervenire il neo-commmisario del Pd napoletano, Enrico Morando: «Ho rivolto a Iervolino, Iannuzzi e Nicolais un pressante invito a non consentire la pubblicazione dei testi della registrazione e ho deciso in questo senso, certo di trovare l’accordo» dei contendenti.

I tre contendenti si sono subito rimessi alla decisione di Morando, anzi per dirla con Nicolais: «Il partito ha deciso di non pubblicarle e io obbedisco». Quanto al segretario del Pd, Walter Veltroni, sulla vicenda-Napoli sinora ha preferito muoversi e mediare dietro le quinte, senza mettere la sua “faccia” o il suo sigillo sulle soluzioni via via maturate. E anche se i suoi rapporti personali con i notabili napoletani - Bassolino, Iervolino, Nicolais - risultano fortemente compromessi, la prossima settimana Veltroni ha deciso di uscire allo scoperto: sarà a Napoli e nel corso di una manifestazione darà la «linea» al commissario straordinario, il coordinatore del Governo Ombra Enrico Morando. Durante la riunione del Coordinamento Pd, dimezzata per la numerose assenze, si è brevemente discusso dei poteri dei Commissari che da qualche tempo Veltroni sta inviando nei punti di crisi. Anna Finocchiaro ha chiesto di «chiarirne mandati e poteri», Veltroni ha consigliato di «guardare ai commissari come a qualcosa di positivo», ma a fine riunione, tra i partecipanti, è rimasti il dubbio: da Roma si pensa di commissariare mezza Italia? In serata è arrivata la nota chiarificatrice del portavoce del Pd Andrea Orlando: «Non ci sono altri commissariamenti in vista, ogni voce al riguardo è destituita di fondamento».

da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - La politica nel registratore
Inserito da: Admin - Gennaio 08, 2009, 04:00:13 pm
8/1/2009
 
La politica nel registratore
 
LUCIA ANNUNZIATA
 

Il Pd approda alle nuove tecnologie. Non siamo ancora alla rete o ai blog, ma parliamo di un registratore ultimo modello: piccolo come una scatola o un’elegante stilografica. Tecnologia non invasiva. Un passo verso la modernità. Non si capisce dunque perché questo passaggio tecnologico faccia indignare (quasi) tutti. Rosetta Iervolino, sindaco di Napoli, ha registrato - non si sa se con o senza autorizzazione - una riunione con alcuni rappresentanti del Pd prima della presentazione della nuova giunta.

Più tardi ha anche detto di averlo fatto, come prova della sua verità. Scandalo generale: che metodi, non lo sapevo, non si fa tra persone per bene!

Ma guardiamola diversamente: un registratore è pur sempre un passo avanti, per chiarezza, per semplificazione e per fedeltà, rispetto al «verbale» della tradizione. Forse che in tutte le riunioni importanti d’ogni partito non c’è sempre stato un «testimone»? Forse che le riunioni preelettorali per l’indicazione dei seggi non si sono spesso concluse con documenti d’impegno? E forse che testimoni e carte e verbali non sono sempre stati utilizzati per ricatti, chiarificazioni, pubbliche o private? Il registratore è solo un aggiornamento tecnologico del vecchio spirito di controllo che ha sempre distinto i partiti tradizionali. Si è chiamata in causa la Dc di Gava, ma vanno ricordate anche tutte le «note riservate» che circolavano nel vecchio Pci. La vicenda potrebbe dunque essere archiviata sotto la voce ipocrisia. Se non fosse che effettivamente la storia ha un suo potere di demistificazione, strappo, disvelamento. Ma qual è l’elemento che la rende esplosiva? Il registratore o la mano che l’ha acceso?

La verità è che Rosetta Iervolino, in questa sua coda di mandato da sindaco, sta rivelandosi imprevedibile, sorprendente, ricca di linguaggio e infiammata da un indomito spirito di combattimento. Nelle ultime settimane la Sindaca ha recuperato un profilo e un ruolo che la riscattano - almeno ai nostri occhi - dalla pedante e formale gestione con cui ha portato avanti per anni il Comune di Napoli. Non sappiamo chi sia la vera Rosetta, se quella degli immobili foulard, o la scapestrata, chiacchierona e menefreghista di questi giorni. Ma, sicuramente, come cittadini non possiamo che farci entusiasmare di più da quest’ultima versione.

Nel gioco a specchi dell’intera vicenda napoletana, la Iervolino sembra aver fatto solo la sua parte. Ragioniamo: il partito nazionale si è più o meno tenuto ambiguamente lontano da Napoli, per aspettare e giudicare a seconda di come buttava il vento. L’ha fatto su tutta la cosiddetta «questione morale», come s’è visto, e a Napoli più che altrove. Rosetta si è così trovata spesso fra Scilla e Cariddi, con un Pd semimuto, un governatore, Bassolino, che sta acquattato, e una giunta che le franava sotto i piedi, a rischio di apparire o totalmente incapace (l’ex suo assessore Gambale la chiama «scema» in una conversazione con Romeo) o totalmente debole. Inutile dire che alla debolezza i suoi alleati politici del Pd volevano in effetti ridurla, con quella sorta di mobbing psicologico cui l’hanno sottoposta per settimane, nelle quali ogni giorno qualcuno le diceva che doveva andarsene, ma senza assumersi la responsabilità di dirglielo direttamente.

Forse si pensava che questo mobbing avrebbe fatto effetto su una donna. Ma la Iervolino è anche un politico, e ha giocato così l’altro ruolo possibile che le donne e i politici scelgono quando sono nell’angolo: l’imprevedibilità. L’angolo è una posizione in cui non bisogna mai mettere nessuno, diceva l’indimenticabile generale israeliano Rabin quando guidava la lotta anti-Intifada: «Se mettete un uomo in una situazione senza via d’uscita combatterà con energie che non sapeva neanche di avere». Regola squisita di tattica politica, prima ancora che militare. Una donna e politico messa con le spalle al muro può fare molti scherzi, e usare come le pare la libertà di essere vicino alla fine. Così Rosetta si è tolto il foulard e gliel’ha fatta vedere, ritrovando una verve rara in politica. Ha scaricato felicemente i suoi assessori dicendo che «non avevano avuto il sussulto di dignità» che aveva avuto Nugnes - cioè che sarebbe stato meglio se si fossero suicidati -. Ha definito - accidenti - le relazioni con il Pd nazionale «una tarantella». Ha fatto la giunta come le piaceva, alla faccia di tutti. E infine ha acceso il registratore, e poi ha informato di averlo fatto. Questo annuncio è il più imprevedibile dei gesti: che l’esistenza di un potenziale elemento di ricatto venga reso pubblico da chi quel ricatto ha preparato è il colpo di scena. Toglie la faccenda dal torbido del segreto e ha il merito di far ben capire ai cittadini la natura reale di alcuni rapporti politici. Brutta figura, frutto del «deteriorarsi delle relazioni interne al partito», come ha detto il senatore Tonini? O franca lotta politica? Propendo per la seconda. Mentre attendo l’ennesimo sviluppo.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA. INTERVISTA A ROSA RUSSO IERVOLINO
Inserito da: Admin - Gennaio 09, 2009, 04:31:06 pm
9/1/2009 (7:40)

- LA CRISI DEI POLI - INTERVISTA A ROSA RUSSO IERVOLINO

"Walter mi ha pregata di non mollare"
 
Il sindaco di Napoli: qui la politica è cattiva, più che a Roma


LUCIA ANNUNZIATA
NAPOLI


Parliamo del registratore e togliamocelo dai piedi. Più o meno è questo lo sbrigativo approccio con cui il Sindaco di Napoli Rosetta Iervolino inizia l'intervista. Affatto pentita dell'uso dello strumento; convinta che ora bisogna mettere da parte la vicenda "perché ci sono tante cose più importanti da discutere, ed ora di calmare le acque". Ma, come sempre, dannatamente sincera. Una macchina tritasassi, non appena apre la bocca.

Le registrazioni che aveva promesso di non rendere pubbliche oggi sono uscite... «Non da me, ma forse dalla memoria di chi parlava con me e si è sentito tirato i ballo...».

Pentita di aver usato l'aggeggio?
«No, assolutamente. Tra l'altro non lo so nemmeno manovrare. Ma ribadisco che ho detto a Teresa Armato che il registratore era la condizione per parlare con il Pd. Del resto, se si è in buona fede non si hanno problemi a parlare».

Dunque lei dice che Nicolais e Iannuzzi sapevano del registratore?
«Ripeto, l'ho detto a Teresa Armato di fronte a due testimoni. Se poi Teresa non glielo ha detto non mi interessa. Sono stufa di questa storia. E poi se i presenti non avevano gli occhi per vedere non ci posso fare nulla. Basta così però, è ora di smorzare questa storia ...».

Però l'uso del registratore dimostra che non si fida dei suoi interlocutori del Pd.
«Di alcuni interlocutori. Avevo già sperimentato in precedenza che decisioni prese in concordia in privato sono state negate in pubblico, per cui...».

Parla sempre di Nicolais e Iannuzzi.
«Certamente».

Ma che gioco fanno? Cosa non le piace?
«Non mi piace rispondere a questa domanda non voglio riaccendere le beghe. Mi auguro solo che loro facciano l'interesse del partito, e io, come sindaco, della mia città».

Un rapporto molto drastico direi. In questo periodo in cui è in difesa, sembra di vedere una nuova Iervolino, capace di resistenza e scontro , rispetto alla figura molto istituzionale del pasato.
«Non so se è nuova o se solo non è mai stata notata prima. Io sono sempre stata un po' più matta di quel che appare. Come cattolica e madre di quattro figli sono sempre stata composta, ma io la rivoluzione ho cominciato a farla dall'Università, scrivendo a quei tempi una tesi sulla parità dei sessi. Così come mi vanto del fatto che una delle leggi più liberali, quella sul cambio di sesso, l'ho fatta io insieme alla mia amica Giglia Tedesco. E poi, la pare, sono stata la prima donna Ministro degli interni».

Non c’è dubbio però che Lei in tutti questi anni si e' tenuta nel Pd molto defilata. «Defilata si, ma a mio merito. Il fatto è che io non ho mai avuto pacchetti di voti. In casa mia ci sono state sempre solo due tessere, la mia e quella di mio padre. Dalla sua morte nel 1985 solo la mia. Mi hanno sempre chiamata solo per i compiti difficili, come quando insieme a Martinazzoli facemmo piazza pulita degli inquisiti della Dc».

Come descrive il suo rapporto con il Pd?
«Di grande desiderio. Per me il Pd nasce nel 1994 quando durante la battaglia contro la finanziaria di Berlusconi facemmo i primi interventi concordati con gli ex Pci. Può immaginare che speranza ho avuto?».

Una speranza che continua ancora?
«Diciamo che continuo a coltivarla».

Molti dicono che il Pd non si è comportato bene sulla questione Napoli. Indeciso, indiretto, senza un orientamento. Quale è il suo bilancio?
«Il fatto è che a Napoli il Pd dovrebbe discutere su Israele e Palestina non se quello fa o meno l'assessore».

Mi scusi, ma non la seguo. A Napoli si parla degli assessori perché nella Giunta si sono scoperte delle mele marce.
«Attenzione, le mele marce le abbiamo cacciate io la magistratura. Gambale ad esempio, con eccellente storia, focolarino, eletto tante volte, antimafia: io non me ne sono accorta, e me ne prendo la responsabilità. Ma neanche loro del Pd! Il litigio attuale sulla giunta non è sul passato ma su chi nominare, e per me alcune delle loro obiezioni sono inaccettabili perché il primo rimpasto per cambiare l’ho fatto da sola a giugno. Il loro problema è di mettere altri da quelli che io volevo. Ma io ho la mia autonomia, per legge».

C’è stato insomma nei suoi confronti da parte del Pd una sorta di mobbing, di pressione al fine di indebolirla?
«Si, e c’è stata una rabbia da morire quando hanno visto che i nervi non mi saltavano. Ma sa, io avevo un bellissimo marito, professore universitario, medico, somigliava a Tyron Power, ma era malato marcio di cuore. Ho vissuto tutta una vita a far finta che la paura non ci fosse, per dare a tutti una vita normale. L'unica che lo sapeva era Giglia Tedesco che quando mi vedeva pallida e vicino al crollo mi diceva solo "su Rosetta, vai dal parrucchiere". Ho fatto una tale scuola in quegli anni, che ogni mattina mi sveglio, penso ai miei figli e ai miei nipoti, so che stanno bene e questo è tutto quel che mi basta».

Dunque mai un momento di nervi a pezzi?
«Intendiamoci: quando hanno arrestato i 4 assessori non ho perso tempo. Dopo mezz’ora ero in macchina per Roma dove mi sono consigliata con Walter. Gli ho detto che facciamo, sono a disposizione. E Walter, insieme a Franceschini, Fioroni, Nicolais mi hanno detto chiaramente "Vai avanti, tu sei pulita, fai il rimpasto più ampio possibile". Insomma io mi sono posta il problema e mi sono messa a disposizione. Ho ricevuto anche tanta solidarietà: da Ciampi, da Scalfaro, da Mattarella...».

Mi sembra di capire da tutto quel che dice che lei ha un contenzioso soprattutto nei confronti di Nicolais, non del Pd tutto.
«E’ una persona di gran valore ma credo abbia chi non lo consigli bene. Mi è spiaciuto che si sia dimesso, non ne vedo ancora le ragioni».

Il Commissariamento da parte di Morando è secondo lei un aiuto o una sconfitta per il Pd napoletano?
«E' una decisione. Non concordata con me e secondo me non necessaria, ma ora che c’è rendiamola utile».

Bassolino. Come descrive i rapporti fra voi? Non mi pare si sia sprecato molto a difenderla.
«Di rispetto reciproco. Devo riconoscergli che non ha mai fatto il padre padrone. D'altra parte se volevano un sindaco malleabile non avrebbero scelto me».

Entrambi però avete segnato una sconfitta politica, al di là delle vicende giudiziarie. Eppure non abbiamo mai sentito una autocritica da lei.
«Per carità, solo un cretino non se le fa. Io me le faccio ogni sera prima di dormire. Ma provateci voi a guidare una città senza soldi, quella con la maggiore povertà. Che avrebbe fatto Chiamparino ad esempio se non avesse avuto le Olimpiadi invernali?».

Però, ripeto, dei 4 consiglieri non se n’è accorta
«Come no. Il più fetente, Gambale l'ho cacciato a giugno, e le gare approvate dal consiglio comunale sono state bloccate dal sindaco in persona!».

Dunque sapeva e non faceva nulla?
«Sospettavo. Di sicuro più di chi li ha sempre sostenuti e li ha eletti più di una volta».

Dopo 7 anni che rapporto ha stabilito con Napoli?
«Di affetto. E' dopotutto la città mia e della mia famiglia. Ma la politica a Napoli è molto cattiva, più di quella di Roma».

Davvero? Mi sorprende.
«Si. A Napoli la gente ti attacca personalmente appena può e anche se non può. Nella politica in Parlamento non ho mai avuto una offesa. A differenza di qui. Riparlo di Gambale, che mi ha chiamato scema con Romeo. Un esempio».

Perché? E' un riflesso di una cultura camorrista, cioè aggressiva, anche nelle istituzioni?
«Non andrei così lontano. Ma certo Napoli è il luogo degli eccessi e delle diverse verità e comportamenti in pubblico e in privato».

da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Israele e la vera identità di Hamas
Inserito da: Admin - Gennaio 26, 2009, 10:02:52 am
26/1/2009
 
Israele e la vera identità di Hamas
 
LUCIA ANNUNZIATA
 

Ora che le armi tacciono, è possibile ritornare a parlare di Gaza invocando, se non la serenità, almeno il diritto di cronaca. Ieri un’unità navale degli Stati Uniti ha fermato nel Golfo una nave con un carico di armi diretto a Gaza. Ordinaria amministrazione che ha meritato solo una «breve» nei media. Il piccolo schermo in compenso è stato «bucato», sempre ieri, da uno strepitoso reportage firmato da Mark Innaro per il Tg3. Innaro, corrispondente della Rai, ha documentato l’intervento con cui Hamas (soldi in mano davanti alle telecamere) ripaga ora i civili vittime degli attacchi di Israele: poche centinaia di dollari per minori danni, 5000 per un intero edificio distrutto, 3000 dollari per un martire. Lodevole attenzione, per la quale Hamas ha calcolato, dice Innaro, 50 milioni di dollari di risarcimento. Da dove vengono?, chiede il giornalista, senza trovare risposta dagli uomini di Hamas.

La risposta formale è irrilevante. Emiro, leader terrorista o Stato che sia il finanziatore, basta un servizio di un Tg ad allargare la nostra visione dei fatti: Hamas non è un semplice partito palestinese, sia pur radicale, e Gaza non è solo un pezzo di terra conteso.

Hamas è parte di una alleanza internazionale di uno o più soggetti arabi, e la Striscia è una piattaforma militare strategica. Un buon esempio per ricordarci quanto restrittivo sia guardare oggi a quello che accade fra Israele e Palestina come a uno scontro fra occupati e occupanti, uno scontro per la terra, o anche solo per uno o due Stati.

L’operazione militare scatenata da Israele a Gaza ha formato due fenomeni che - è facile anticiparlo - segneranno nei prossimi anni la nostra vita pubblica. La discesa in campo di un movimento di protesta arabo con forti connotati radicali-religiosi; e il contemporaneo aumento di opinioni antiebraiche dentro la popolazione italiana. Con il risultato che arriviamo al fatidico Giorno della Memoria (domani, martedì) in uno Stato di post-sbornia: commossi come sempre dalla tragedia dell’Olocausto, ma sconnessi dalle passioni che l’operazione Gaza ci ha suscitato fino a poche ore fa.

Il conflitto arabo-israeliano fa di questi effetti, e ne farà sempre più, se ci ostiniamo a ridurlo invece di capire quali dimensioni abbia ormai preso.

Diciamolo di nuovo a freddo. Bisogna accettare che Hamas ha metodi, identità e scopi ben più ampi e complessi di quella che pure per anni è stata la semplice resistenza palestinese - quella guerrigliera degli Anni 70 o, ancora di più, quella autoctona della prima Intifada. Sarà un caso che in Cisgiordania non ci sia stata una mobilitazione vera contro la guerra di Gaza? Che nei Paesi arabi le manifestazioni siano state poche e di maniera? Che l’Egitto, che avrebbe dopo tutto potuto fare il gesto salvifico di aprire le frontiere e accogliere i civili, non lo abbia fatto? Certo non immaginiamo disumanità nel mondo arabo di fronte alle vittime di Gaza; ma di sicuro possiamo immaginare reticenze, calcoli, paure e rancori, maturati dentro una causa che da tempo non è più solo e semplicemente quella dell’indipendenza della Palestina.

Hamas ha certo vinto le elezioni nel 2006. Ma dopo cosa è accaduto? Battaglie tremende, fra il 2006 e 2007, hanno opposto Fatah e Hamas, lacerato Palestina e Gaza, fatto morti palestinesi per mano palestinese a centinaia: esecuzioni, colpi di mano, cannonate per la conquista di pubblici edifici. Ancora oggi fa meraviglia guardare alla violenza di quella guerra civile in un popolo già vittima di un altro conflitto. La divisione estrema maturata dentro i palestinesi negli ultimi anni non è altro che il riflesso della spaccatura che travolge oggi tutto il mondo arabo, e che lo vede più o meno armato al suo interno fra differenti governi e fazioni - come prepotentemente ci ha ricordato l’11 settembre, e ci ricordano le cronache delle tensioni nei vari Paesi mediorientali.

Arriviamo così a una terza cosa da dire a freddo. Niente di tutto questo giustifica l’operato di Israele a Gaza nelle scorse settimane; l’operazione militare, oltre ad avere avuto un costo di sangue altissimo, non ha reso né efficace né duratura la lezione che voleva essere inferta a Hamas. Diciamolo ancora meglio: l’uccisione di civili non si giustifica con la natura dell’avversario. Ma, proprio per le dimensioni prese dalle vicende mediorientali, è chiaro che Israele non è nemmeno più tra i grandi attori di questo conflitto; sicuramente non ne è il deus ex machina, fermato il quale si ferma tutto. Anzi, la follia militaristica, nella quale periodicamente il governo di Gerusalemme cade, appare solo, visti i risultati, come un processo di indebolimento delle sue élite militari e politiche.

Questo è un ragionamento per grandi linee, naturalmente. Ma è nei momenti di grande attesa e di sospensione delle armi che bisogna mettere sul tavolo tutti i caveat di un giudizio che nel fuoco della polemica diventa invece azzardato e limitato.

Il Medioriente entra ora, si dice, in una nuova fase con l’amministrazione Obama. In compenso l’antisemitismo è rientrato da tempo nella nostra nuovissima Europa. Appiattire le nostre opinioni in merito a tutto ciò non solo non aiuta soluzioni politiche, ma ci porta sempre più a muoverci come piume al vento. Per cui spesso questo nostro Paese oscilla fra difesa degli arabi in Palestina e attacco agli arabi immigrati, e fra l’onore alle vittime dell’Olocausto e il rogo delle bandiere di Israele. Senza mai riconoscere il nesso tra nessuna di queste opinioni. O emozioni.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Lo stupro come simbolo
Inserito da: Admin - Gennaio 28, 2009, 12:21:46 pm
28/1/2009
 
Lo stupro come simbolo
 
LUCIA ANNUNZIATA
 

Guardando le immagini di Guidonia, quelle in cui arrabbiatissimi abitanti del luogo cercano di linciare i romeni presunti responsabili della violenza e dello stupro di una coppia di giovani fidanzati, mi viene un dubbio: hanno vinto finalmente le donne, oppure sta vincendo una nuova forma di barbarie?

Non tanto tempo fa, penso agli Anni Ottanta, epoca modernissima di questo Paese, per far riconoscere lo stupro come reato, non contro la morale ma contro la persona (in questo caso basta citare quello del Circeo, 1975), le donne dovettero calare in massa davanti ai tribunali, incatenarsi ai pali della luce, improvvisare volantinaggi sotto i più importanti media per rompere la teoria secondo la quale ogni donna era in realtà colpevole dell’abuso sessuale che aveva subito. Oggi assistiamo invece a un’enorme reattività in difesa delle vittime di violenza.

Lo stupro e la morte della signora Reggiani prima e quello quasi immediatamente dopo di una giovane africana sono stati la materia più scottante della campagna elettorale nazionale un anno fa. Le violenze sulla coppia di Guidonia hanno portato quasi al linciaggio, mentre per il giovane che a Capodanno ha stuprato una ragazza durante una festa del Comune di Roma, un coro nazionale ha chiesto il massimo della pena, oltraggiati tutti dal fatto che un giudice (donna) gli avesse concesso «solo» gli arresti domiciliari. La nazione, insomma, sembra scossa da un’indignazione protettiva nei confronti delle donne che si può paragonare solo a quella che negli anni ha suscitato la pedofilia.

La sensibilità sociale si è evidentemente evoluta, dobbiamo concludere. O no? Forse c’è un’altra domanda che andrebbe fatta alle donne nell’attuale momento: è questo che la loro mobilitazione di anni voleva ottenere? È questo il tipo di reazione, protezione, per cui hanno lottato? Ovviamente, è meglio avere una difesa che il disprezzo; è meglio pensare di avere un padre, un marito, un fratello che mena le mani per te, e un Paese che chiede a gran voce la tua sicurezza. Ma, parlando senza arroganza, c’è qualcosa di ugualmente espropriante della persona donna in questa levata di scudi.

La prima espropriazione ha a che fare con il «tipo» di stupro che suscita proteste: si tratta inevitabilmente di quelli commessi in ambienti pubblici. L’Istat ha pubblicato una ricerca sulla base della quale le donne dai 16 ai 70 anni che in Italia hanno subito in totale violenza sono 6 milioni 743; di cui un milione e 150 mila nel 2006: di queste un milione 400 mila ragazze hanno subito violenza sessuale prima dei 16 anni. Autori della violenza? Il 69 per cento sono partner, mariti o fidanzati. Statistiche più recenti ci dicono addirittura che solo il 10 per cento degli stupri è perpetrato da stranieri. Inutile dire che per questa vasta zona grigia di crimine «in famiglia» non ci sono né proteste, né denunce: possibile che nessuno mai se ne accorga?

Ma se lo stupro fa rabbia solo quando è fatto da «stranieri», forse entriamo in un diverso campo, in cui diventa simbolo (fortissimo, ma pur sempre simbolo) di mancanza di sicurezza, di degrado dell’ambiente, e di una guerra per il controllo del territorio. Insomma, lo stupro indigna quando si carica di una battaglia più ampia di quella della difesa delle donne. Una battaglia in cui, paradossalmente, le donne si trovano di nuovo «oggetto», in quanto proprietà collettiva di un gruppo contro un altro. Una versione dello scontro globale che ritorna a livello tribale. Per chi avesse perso memoria, ricordo che anche nella ex Jugoslavia, una guerra che è stata il massimo dello scontro tribal-identitario, lo stupro femminile è stato usato come «sfregio» di un’etnia contro l’altra.

Come vedete, qualcosa di molto inquietante si accompagna sempre al corpo femminile. Su di esso inevitabilmente pare calare il destino dell’appropriazione da parte di altri. Non era certo questo per cui hanno combattuto le donne di anni fa: volevano innanzitutto la propria dignità come cittadini contro i quali ogni assalto è proibito dalla legge. Ma non credo volessero nessun taglione, nessuna vendetta. Tantomeno diventare parte di un ingranaggio così vasto, di cui alla fine si rimane comunque ostaggi.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Sfascio a Sinistra
Inserito da: Admin - Febbraio 18, 2009, 11:01:59 am
18/2/2009
 
Sfascio a Sinistra
 
LUCIA ANNUNZIATA
 

Walter Veltroni ieri ha fatto uno di quei gesti che possono essere definiti onorevoli ed efficaci. L’onorabilità delle dimissioni in un Paese in cui raramente vi si fa ricorso si dimostra da sola. Quanto all’efficacia, c’è poco da discuterne.

Le dimissioni date come sono state date, improvvise e irreversibili, hanno esposto in tutta la loro crudezza le condizioni in cui versa il Partito democratico. Rimosso l’esile velo di una timida leadership, ci si è accorti che sotto non c’è altro che un’area politica allo sbando. L’improvvisazione, l’impreparazione, la confusione che hanno dominato la giornata di ieri sono state i migliori testimoni di una mancanza di strategia, individuale e collettiva, ai vertici del Pd, sia da parte degli uomini finora al comando, sia di quanti erano in posizione critica.

Questo pesante giudizio si basa, intanto, sulla modalità della scelta di Veltroni. È stato raccontato che nemmeno i più stretti collaboratori del segretario fossero stati informati: è solo un dettaglio, ma fra i più inquietanti. Esiste forse migliore prova di quanto poco ci si parli o ci si consulti al vertice di questo partito? Che dire poi della sorpresa che ha colto tutta l’élite del Pd di fronte a queste dimissioni? A dispetto della tanto lodata esperienza di una classe politica che si vanta della propria finezza, non uno dei leader aveva previsto questa mossa. Il che vuol dire, banalmente, che nessuno di tutti quelli che hanno criticato Veltroni aveva davvero fatto un calcolo delle possibilità, delle mosse, e nemmeno aveva riflettuto a fondo sulle caratteristiche del segretario.

Ma se la costernazione che ha colto il gruppo dirigente ha suonato l’allarme sulla sua profonda debolezza, è l’ipocrisia che ne è seguita a indicare un pessimo futuro. Che dire di quel «no» collettivo risuonato all’annuncio di abbandono del segretario? L’hanno pronunciato leader come Letta che non ha mai nascosto la sua distanza da Veltroni, come Bersani che è già sceso in campo contro il segretario e come Rutelli che non nasconde il suo disagio a stare in compagnia di molti di loro. Non c’era D’Alema, ma pensiamo che avrebbe anche lui opposto il suo rifiuto, e cercato di non far precipitare la situazione.

Più che desiderio di ricucire, quel «no» è apparso come un desiderio di guadagnare tempo. La discussione infatti si è rapidamente orientata non sul merito, ma sul calendario. Quel calendario che è la gabbia mentale e fisica di questa politica oggi: elezioni a giugno, cda Rai da nominare forse già domani, tesseramento in ritardo, testamento biologico da approvare. Pareva di veder passare negli occhi di molti dei presenti lo scorrere di questa agenda. Il Pd da mesi non fa altro che navigare così, da un appuntamento istituzionale all’altro, vedendo in ognuno l’occasione di piccole sconfitte e vittorie: un processo che ormai da anni, fra scadenze parlamentari e urne, ha sostituito per questo partito il percorso appassionato e visionario della strategia politica.

Non ci siamo dunque meravigliati quando, invece di svenire, urlare o fare un drammatico gesto qualunque, il coordinamento del Partito democratico ha imboccato la strada di un altro calendario: ha cominciato a discutere di segretari provvisori, transizione, reggenza collettiva, e date, sempre date, su quando e come convocare il congresso per altre primarie e un altro segretario. Naturalmente calcolando già - senza mai dirselo - quale e quanto vantaggio andasse a chi, in questa nuova situazione, nella formazione delle prossime liste per le Europee. Si spiega così la via che infine è stata imboccata per il prossimo futuro: quella burocratico-formale di un’altra mezza transizione nella transizione, di un segretario part-time, di un coordinamento che tenga insieme i cocci. In maniera da poter non ammettere che il vaso è rotto.

La sinistra ha molte responsabilità nella propria continua sconfitta di questi ultimi anni. Ma nessuna è forse così rilevante quanto la rimozione con cui continua a negarsi la verità su se stessa.

da lastampa.it
 
 


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Il Pd e l'arca perduta
Inserito da: Admin - Febbraio 23, 2009, 10:43:46 am
23/2/2009
 
Il Pd e l'arca perduta

 
LUCIA ANNUNZIATA
 
Nel suo quarto film Indiana Jones si trova davanti al solito ponticello di legno sospeso su un burrone: nella prima pellicola, a vent’anni, lo avrebbe imboccato di corsa; ora Jones è ancora piacevole e gagliardo, ma nella sua quarta e finale avventura, si ferma sull’orlo del vuoto, bloccato dall’ansia e dalla paura.

Senza nessuna irriverenza, lo sguardo sull’assemblea del Pd che sabato ha eletto Dario Franceschini portava alla mente la fatale e inarrestabile decadenza dei miti: una selva di volti conosciuti, fedeli a se stessi negli anni, con carriere onorevoli, lunghe e faticose, ma privi ormai di slanci, con bassa adrenalina, preoccupati del futuro e dalla mancanza di forza. Anche gli Indiana Jones invecchiano. E che fossero ex Dc o ex Pci o neoradicali o vecchi liberisti, non era più rilevante.

Non era più rilevante di fronte all’improvviso ingrigirsi dei loro lineamenti, avvenuto nel corso di una sola settimana. Non è solo questione di numeri di anni, ma di quel senso d’impotenza, del tempo e della fine, che con la vecchiaia ti coglie.

Non so. Sfoglio i giornali, guardo la tv e leggo le parole dei miei colleghi che ruotano intorno ai termini nomenklatura, controllo, patti. Non è quello che ho visto alla nuova fiera di Roma. In quel rituale con cui si è conclusa la crisi nata dalle dimissioni di Veltroni c’era solo (almeno ai miei occhi) l’aggrapparsi alle poche certezze - i regolamenti, il voto - una banale scimmiottatura delle assemblee «decisive» di un tempo. Mi veniva da dire: «Magari qui ci fosse una nomenklatura!». L’esistenza di una nomenklatura significherebbe almeno l’esistenza di progetti, truppe, trattative, signori della guerra, complotti; insomma, di segni di vitalità e di ambizione. Ma non c’era nulla di tutto questo: le decisioni finali sono scivolate via con la rassegnazione di chi sa di non poter fare diversamente.

L’assemblea del Pd riunitasi a Roma, 1200 convenuti su 2800, cioè solo il 43 per cento del numero totale, era insomma quella di una classe dirigente piegata dalle sue molteplici sconfitte. Composta in genere da gente che ha scelto la politica come professione, è vero: ma appesantita, più che dal proprio interesse, dall’impossibilità di capire come questi interessi - quelli della politica che hanno rappresentato - possano ancora essere affermati.

Non è irrilevante capire di cosa sia fatta questa classe dirigente. Solo gli inesperti o gli illusi possono vedere oggi in questi uomini e donne la forza del potere. La cosiddetta nomenklatura, se la si guarda bene, è fatta di persone che hanno varcato i sessant’anni, sono tutti ex - in una maniera o nell’altra - di un qualche incarico o altro, e hanno già quasi tutti preso la strada che conviene agli ex: studi, libri, incarichi internazionali, passeggiate con i nipotini, o fondazioni.

La verità è che le dimissioni di Veltroni sono state per tutti loro uno shock quale nessuno avrebbe potuto anticipare nel subbuglio che ha animato questi sedici mesi di esperienza del Pd. Tolto Veltroni, il Re è rimasto nudo. E non perché ha portato alla luce finalmente i piani e le malizie, ma perché, al contrario, ha esposto la mancanza di tutto questo. Finché c’è stata battaglia interna, l’adrenalina della tenzone ha come oscurato i contorni della realtà vera, quella esterna. Tolta la benda, il ponticello è lì, Indiana: le sue marce tavolette sono il crollo nel voto operaio in tutta Italia, sono il dilagare di ricette come le ronde per la sicurezza cittadina e i milioni di disoccupati in arrivo. Insufficienze della sinistra tanto quanto decisionismo della destra. Fenomeni strutturali destinati a non finire, e che certo non si possono spiegare come il risultato della «litigiosità» interna delle correnti del partito, nonostante quello che ha detto Veltroni nel suo addio e la fascinazione di tutti noi osservatori per le spaccature dentro qualsiasi organizzazione politica.

Una sola osservazione basta a confermare queste mie opinioni («sensazioni»?). Sia chi voleva le primarie sia chi voleva evitarle sabato a Roma ha proposto la propria linea sulla base della stessa analisi: che il Pd rischia un tracollo finale e ravvicinato. Con la differenza che i sostenitori delle primarie pensavano che le urne popolari avrebbero dato a un partito avvilito almeno la chance di arrivare, alle prossime elezioni e alla crisi occupazionale di primavera, con il sostegno della passione di base. Mentre i secondi, quelli che poi hanno votato Franceschini segretario, pensavano che la situazione sia così grave che gettarsi nell’entusiasmante scelta interna di nuovi volti avrebbe privato il partito di ogni capacità decisionale di fronte a questi stessi temuti appuntamenti dei prossimi mesi.

La somma finale, insomma non cambia. Al di là di quello che farà il nuovo segretario, una cosa possiamo dire con sicurezza: che mai la consapevolezza della propria durata terrena, in senso fisico e metafisico, è stata così presente nelle menti (e nei cuori) del Partito democratico.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Giustizia è sfatta
Inserito da: Admin - Marzo 05, 2009, 09:22:13 am
5/3/2009
 
Giustizia è sfatta
 
LUCIA ANNUNZIATA
 

Francamente non so se bisogna benedire o maledire quello che è successo. Sia ben chiaro: la scoperta che i due immigrati romeni accusati di essere i colpevoli dello stupro della Caffarella in realtà non lo sono, è un vero e proprio schiaffo alla nostra coscienza nazionale.

Vogliamo davvero lasciar passare questo episodio come un ennesimo «disguido» delle Istituzioni del nostro Bel Paese, o vogliamo fermarci un attimo a chiederci come sia stato possibile, e chi ne sia responsabile? Perché, prima ancora che si sappia bene quel che è accaduto, una cosa è certa: questo è un tipico caso in cui almeno un responsabile va trovato e deve pagare.

Vediamo intanto perché la vicenda Caffarella si presenta come più grave dei pur molti errori simili. Le indagini italiane non sono un esempio di efficacia. Questa affermazione si fa molto spesso a proposito di iniziative «audaci» da parte di magistrati che indagano sulla politica. In questi casi, c’è un’attenzione quasi parossistica al tema da parte sia dei giornali che del Parlamento.

La verità però è che le indagini italiane sono ampiamente carenti anche quando si tratta di crimini comuni. La prova? La confusione e le lungaggini in cui si sono insabbiati alcuni grandi delitti, quasi tutti dati per altro come «chiariti»: ci trasciniamo ancora fra il pigiama e gli zoccoli di Anna Maria Franzoni nella villetta di Cogne, fra il computer e i pedali della bici di Alberto Stasi, fra le tracce di Amanda e Raffaele sul reggipetto di Meredith. Quasi tutti i maggiori delitti del Paese, anche quelli non politici, periodicamente rigurgitano una nuova prova persa, avvilita, trascurata o smarrita. Ad esempio, Profondo Nero, un recente libro di Giuseppe Bianco e Sandra Rizza (ed. chiarelettere) riapre l’inchiesta sull’assassinio di Pasolini, collegandolo alla morte di Mattei e del giornalista De Mauro, proprio in base a nuove testimonianze.

A differenza dei casi che riguardano la politica, però, gli italiani non sembrano indignarsi troppo degli errori nelle indagini di «nera». Anzi: la confusione è diventata una sorta di nuovo genere di «soap» giornalistica che si sviluppa nel tempo e con grande godimento di tutti.

Lo stupro della Caffarella presenta una forte novità, figlia di questi nostri tempi: è un fatto di violenza, dunque di nera, che assume però una fortissima valenza sociale per il contesto in cui avviene. Un caso «transgender» che scavalca le tradizionali distinzioni fra cronaca e politica.

Della delicatezza della situazione siamo stati consapevoli tutti fin dal primo momento. E ci siamo fidati. Fidati, sì. Perché in Italia, nonostante si ami dilaniarsi su tutto fra Guelfi e Ghibellini, resiste una profonda fiducia nelle nostre istituzioni. Ogni volta è come se fosse la prima, per la nostra opinione pubblica. Ci siamo tanto fidati che quando la polizia ci ha presentato i suoi mirabolanti risultati, nessuno di noi ha sollevato un dubbio. Nonostante le Amande, gli Alberti, le Annamarie e gli Azouz, abbiamo applaudito e gridato al miracolo. Se non è fiducia nelle istituzioni questa!

Poi le smentite, e infine la certezza dell’errore. E non si sa se benedire il disvelamento, o se maledire la nostra stupidità collettiva. Tutti convinti da parole come «materiale organico» e «Dna», nonché ammiratori del metodo. La polizia ha avuto anche l’impudenza di presentarci (in una conferenza stampa!) il racconto di un’inchiesta esemplare, svolta in collaborazione internazionale con la polizia romena, con foto e pedinamenti, il metodo tradizionale. Approfittando così (tanto per colorare di più la valenza politica del risultato) per dare una bastonata polemica all’uso delle intercettazioni.

Ora, di fronte alle smentite, si dice: «La politica ha messo fretta». Ma non è questo lo scandalo: la politica fa sempre fretta, ha sempre bisogno di presentare, usare, mangiare. Scandalosa è l’incoscienza dei corpi dello Stato che hanno accettato questa fretta. E scandaloso è soprattutto il risultato: l’intero Paese si è visto condurre per il naso verso una direzione che conferma il razzismo più frettoloso e più rozzo. Cui nessuno è riuscito a sottrarsi, nemmeno i democratici più convinti.

Qualcuno dei nostri lettori potrebbe alzare la mano e porre una domanda molto opportuna: ma voi giornalisti? Perché anche voi vi siete accucciati? È un rimprovero giusto. Troppo spesso noi giornalisti facciamo da acritica cassa di risonanza delle indagini. Una responsabilità che ci è stata già rinfacciata. E che ci prendiamo.

Ma come dubitare di un teatrino perfetto, come quello messo in piedi dalle nostre istituzioni? Siamo di fronte a una vera e propria frode. Qualcuno deve pagare per il clima che l’episodio lascia in tutto il Paese, di amaro in bocca e di sgomento.

da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Il politico e il leader carismatico
Inserito da: Admin - Marzo 23, 2009, 11:12:51 am
23/3/2009
 
Il politico e il leader carismatico
 
LUCIA ANNUNZIATA
 
Scriveva, negli Anni Venti, Max Weber che la leadership carismatica è definita da «una certa qualità della personalità di un individuo, in virtù della quale egli si eleva dagli uomini comuni ed è trattato come uno dotato di poteri o qualità soprannaturali, sovrumane, o quanto meno specificamente eccezionali. Questi requisiti sono tali in quanto non sono accessibili alle persone normali, ma sono considerati di origine divina o esemplari, e sulla loro base l’individuo in questione è trattato come un leader».

Pensando a queste note, ieri, non si poteva che provare simpatia per il presidente della Camera mentre teneva il suo discorso alla Fiera di Roma per dire addio ad An e scioglierla nel Pdl. Nell’eterna saga del suo dualismo con Silvio Berlusconi (uno dei pochi punti fermi della politica italiana, esattamente come il dualismo Veltroni/D’Alema) Gianfranco Fini ha provato, come sempre fa da anni, a mantenere il proprio ruolo di alleato leale ma diverso, mettendo paletti e definendo regole per il futuro partito unico. Ma, in realtà, che partita davvero può giocare un normale (sia pur talentuoso) politico di fronte a un leader quale quello raccontato da Weber?

La vera novità del Pdl unificato, che nascerà formalmente nell’assemblea convocata a Roma da venerdì a domenica prossima, è proprio la scelta di una leadership carismatica. Concetto che nella storia abbiamo visto spesso emergere, nel bene e nel male, da Gandhi a Hitler (la definizione, dice Weber, non ha in sé un giudizio «morale»). Ma mai nessuno ha finora provato a tradurlo in una regola politica, applicandolo cioè alla formazione di un partito, che rimane, dopo tutto, un’entità burocratica, sia pure nel senso più alto. Compito di una organizzazione è selezionare la classe dirigente, coordinare le politiche di un’area di pensiero, lavorare al rapporto fra cittadini e istituzioni (coltivando consenso o dissenso), produrre cultura politica. Un partito è insomma uno dei bracci operativi della democrazia, nel senso proprio di fluidificare il rapporto tra potere e cittadinanza.

Tant’è che i partiti moderni, in particolare quello americano, sebbene considerato «leggero» (e a cui pure si riferisce il nuovo Pdl), sono su base elettiva - a cominciare dalle primarie. Il «carisma», è vero, è sempre stato un concetto forte della politica, in particolare negli Usa. Ma come attributo della personalità: ad esempio, Carter (senza carisma) e Obama (carismatico) sono stati eletti e hanno governato con le stesse regole. Viceversa, i partiti in cui la classe dirigente non è selezionata da una scelta di base (penso al partito comunista dell’Unione Sovietica) sono solo una finzione che copre o autoritarismo o populismo.

Tecnicamente, dunque (e mi piacerebbe ascoltare il parere dei costituzionalisti), partito e leadership carismatica dovrebbero essere incompatibili. E segni di questa incompatibilità si avvertono fin da ora anche sulla strada appena iniziata dal Pdl.

Silvio Berlusconi è l’indiscusso leader della sua area politica e della stessa Italia. Altro però è che venga eletto come guida del suo partito senza nessuna (nemmeno formale) selezione. Sappiamo che se un pazzo volesse presentarsi contro di lui nella prossima assemblea non potrebbe, perché non è prevista nemmeno la procedura per un diverso candidato: si può immaginare qualcosa di più debole? La leadership così eletta si riproduce infatti immediatamente nell’alterazione delle regole della stessa organizzazione: sarà ancora Silvio Berlusconi, eletto plebiscitariamente, a nominare gli organismi che guideranno il partito. Allora a cosa servono i delegati, e a che serve il partito se non a esprimere la propria classe dirigente? Aggiungiamo che nelle intenzioni del premier la segreteria sarà formata dai ministri più qualcun altro: che ruolo ha un partito espressione diretta di un governo, visto che invece dovrebbe lavorare esattamente lì dove il governo non arriva?

Si può obiettare, e a ragione, che il Pd prova che nella sostanza le primarie e le elezioni assembleari possono essere aggirate e ridursi a commedia. Ma, è sempre il Pd a provarlo, il principio comunque diventa vitale quando poi si arriva alla crisi di una gestione.

Torniamo così a Fini. Il presidente della Camera non può non sapere queste cose. Per questo ha riproposto un partito con «dialettica interna», che non si appiattisca sul «pensiero unico», né sul «culto della personalità», né su un presidenzialismo «che emargini il Parlamento». Ma la sua è una concezione normale, terrena potremmo dire, del lavoro politico. Quella di Silvio Berlusconi è invece una concezione eccezionale. Il partito che nasce è una emanazione e un sostegno al leader assoluto, del governo come delle piazze. Del resto è già così: chi in Italia può competere per forza popolare e fortuna personale con Silvio Berlusconi? Solo che fondare un partito su una leadership carismatica vuol dire formalizzare questa superiorità assoluta.

Quella del presidente della Camera potrebbe essere dunque definita una battaglia permanentemente persa. E molti osservatori lo scrivono. Ma c’è un’idea politica anche nell’ostinazione con cui si ripresentano le proprie convinzioni. E soprattutto c’è sempre un’idea politica nell’attesa stessa. Tanto per citare di nuovo Max Weber: «Per la sua peculiare natura e per la mancanza di un’organizzazione formale, l’autorità carismatica dipende dalla cosiddetta legittimità politica percepita. Se dovesse vacillare la forza di siffatta fede, lo stesso potere del capo carismatico potrebbe decadere rapidamente, il che per l’appunto costituisce una manifestazione di come questa forma di autorità sia instabile».
 
da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Fritzl vicino di casa
Inserito da: Admin - Marzo 27, 2009, 11:46:10 am
27/3/2009
 
Fritzl vicino di casa
 
LUCIA ANNUNZIATA
 
Italians do it better, dice un’ambigua battuta autocelebratoria con cui gli italiani amano spesso presentarsi nel mondo. Sappiamo fare quasi tutto meglio degli altri, incluso, pare, lo stupro. A Torino non uno ma ben due stupratori hanno abusato per 25 anni non di una figlia, bensì di quattro, figlie, nipoti e cugine, di anni 20, 18, 9 e 6. La prima tenuta segregata in stanze senza elettricità. Trama evocativa di Uomini che odiano le donne, primo libro della popolare trilogia di Stieg Larsson.

Altro che il signor Fritzl, il mostro papà stupratore austriaco che per quasi tre decenni ha tenuto chiusa nel sottoscala sua figlia e i 6 bambini che le ha fatto concepire. Dopo aver ossessivamente osservato e cercato di spiegare come è possibile che nella «placida cittadina» austriaca piena di «famiglie normali» (sono i termini più usati da esperti e giornalisti) si nascondesse un mostro, cosa ci inventeremo per negarci che non uno ma più mostri si nascondevano anche nell’amata Torino, città dell’amata Italia?

O faremo scivolare tutto in un breve attimo di pietà che si scioglie nel leggere la condizione sociale di questa famiglia? Sia il padre che il figlio stupratori sono in effetti venditori ambulanti: è molto semplice dirsi che in fondo si tratta solo di «degrado sociale». Degrado. Dolce concetto che viene in soccorso alla nostra coscienza ogni volta che c’è qualcosa che ci rifiutiamo di capire: se qualcosa di spaventoso avviene nel mondo dei ricchi si tratta di degrado morale; se invece avviene nel mondo dei poveri è degrado economico. Ci si lascia così alle spalle, dopo una giusta fitta di pena, quello che non riusciamo a digerire.

Ma stavolta vorrei fermare la vostra attenzione almeno per la durata del tempo di lettura di queste parole. Gli stupri sono in Italia un fenomeno di violenza che nasce tutto in famiglia. Padri, fratelli, zii, fidanzati. Le statistiche parlano di più del 60 per cento di violenze consumate dietro le accoglienti mura di una casa. Troppi per attribuirli a occasioni, a ignoranza, a povertà o a malattie morali. Gli stupri non si raccolgono solo in un particolare luogo (il Sud, ad esempio) o in una categoria sociale. Se si guardano le statistiche, la violenza sulle «proprie» donne è una passione interclassista e nazionale. Eppure, mentre il caso Caffarella di Roma ha assorbito attenzione pubblica e delle forze di polizia, lì dove non c’è uno straniero, preferibilmente romeno, regna in genere il completo silenzio. Per questo il caso Fritzl ha fatto paura: perché rompeva il silenzio ed esponeva lo scempio. In Italia abbiamo letto e rabbrividito, tutto sommato attribuendo l’episodio all’anima austriaca che ha portato quel Paese in passato nel ruolo di «carnefice volontario» accanto ai nazisti. Ma ora che un caso del genere scoppia a Torino, una dei luoghi più dignitosi d’Italia, sapremo guardare il mostro negli occhi? Sarà il caso di Torino seppellito presto da sterili sociologismi e dalla voglia di guardare dall’altra parte? O ne faremo, come merita, un caso ben più grande e ben più scottante di quello austriaco?

Non sono domande inutili. La corte austriaca, con qualche superficialità, si è lavata la coscienza con un processo veloce. In Italia invece non abbiamo mai portato alla sbarra - a mia memoria - un padre che approfitta delle figlie. Il perché è chiaro: il primo responsabile (non colpevole, che è colui che commette la violenza) è il silenzio di tutti coloro che sono in grado di sapere e che invece guardano dall’altra parte. Penso ai silenzi del resto delle famiglie, dei vicini, degli assistenti sociali, dei professori, ma soprattutto delle altre donne di questi uomini violenti. Le madri, le zie, le cugine, che non possono non sapere, avvertire, o riconoscere i segni - nelle lenzuola, nei vomiti, nelle assenze, nelle depressioni - dello sporco che si accumula in casa. Invece, quando qualche mostro arriva in tribunale, come nel caso Fritzl, questo altro universo femminile che ha visto e taciuto, non appare mai. Derubricato con un altro sociologismo da salotto: «vittime». Queste donne, si dice, sono vittime anche loro della stessa dipendenza dai mostri.

Questo è invece il punto da cui partire per smantellare l’omertà che permette questo crimine: dal silenzio delle donne complici. È davvero vittima chi guarda la violenza e tace? È davvero vittima chi si presta a uno dei più odiosi crimini del mondo, la tortura? In nome della dignità stessa delle donne, penso che si debba, in casi come questi, togliere loro ogni copertura, e chiamarle in tribunale esattamente come gli uomini che hanno coperto. Il loro coinvolgimento penale può essere il momento di rottura della catena.

Per altro non c’è bisogno di nessun’altra legge per iniziare il nuovo corso. C’è già un nome per la responsabilità di chi copre un crimine, e si chiama: favoreggiamento. Leva risultata potente persino per combattere l’omertà intorno alla mafia.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Stavolta lo Stato c'è
Inserito da: Admin - Aprile 07, 2009, 06:54:48 pm
7/4/2009
 
Stavolta lo Stato c'è

 
LUCIA ANNUNZIATA
 
Come sempre, i racconti dei sopravvissuti ci dicono che nelle difficoltà gli italiani danno il meglio di se stessi. Ma il terremoto che ha devastato l’Abruzzo sembra svelare qualcosa di diverso.

Svela qualcosa di diverso anche nell’operare della classe politica: una sorta di dignità e di assunzione di responsabilità, non scontate nel velenoso clima politico che avvolge il Paese. La macchina dello Stato ha ben operato. C’è certo la polemica che riguarda lo studioso che forse aveva previsto il terremoto. Ma questa è una discussione incerta, esposta com’è ad argomenti scientifici che avranno bisogno di tempo per essere dipanati. Quel che conta in queste ore è il tempismo, l’efficienza e il volume dell’intervento di soccorso: da questo punto di vista il primo bilancio è positivo. I soccorsi si sono messi in moto pochi minuti dopo la scossa più grave, stando alle testimonianze più importanti, quelle delle vittime. I vigili del fuoco sono stati velocissimi ad arrivare e a cominciare a scavare. Nel giro di poche ore hanno poi portato sui vari luoghi le unità cinofile e le grandi attrezzature, tipo gru, che servono nei casi di crolli di interi edifici.

La Protezione civile ha ben coordinato tutti i suoi bracci operativi: ad esempio, e non è un dettaglio secondario, il sito Internet è stato immediatamente attivato dopo la scossa, dando informazioni anche prima dei canali all news tv, che pure hanno ben lavorato. Altro esempio di organizzazione: le Ferrovie hanno fermato i treni per controlli e hanno riaperto le linee locali con il massimo della velocità. Così com’è stato fatto per le autostrade verso L’Aquila, già sbarrate all’alba per far passare i soccorsi. Ancora: la richiesta di sangue è scattata così immediatamente che a mezzogiorno ce n’era già a sufficienza. Le tendopoli sono state erette in mattinata e il trasporto feriti in ospedali anche lontani è stato efficiente.

Se ritorniamo a tutte le altre tragedie di questi ultimi anni, ci si ricorderà che le prime preziose ore sono sempre andate perse nella confusione - dal terremoto del Friuli, 6 maggio 1976 (all’epoca non c’era ancora la Protezione civile), a quello dell’Irpinia, 23 novembre 1980 (2735 morti), a quello in Umbria, 6 settembre 1997 (quando la Basilica di San Francesco ad Assisi venne danneggiata), e cito qui anche la frana tragica del maggio 1998 a Sarno, vicino a Napoli, in cui i soccorsi persero quasi un intero giorno. In tutte queste occasioni abbiamo sempre assistito alla generosità dei cittadini, ma non alla stessa prontezza dello Stato.

Lo Stato va dunque congratulato, oggi. In parte la macchina si è messa in moto grazie proprio alle esperienze passate. Ma in parte la prontezza va riconosciuta anche al clima instaurato dal governo, che è quello di un interventismo misurato sul fare. Efficace è stato soprattutto il fatto che il premier si sia recato di persona in Abruzzo, facendo una conferenza stampa con gli operativi dei settori. Anticipiamo critiche da sinistra che diranno, comunque, che Berlusconi come al solito riduce tutto al suo protagonismo. Ma questa volta anche nella maggioranza del centrosinistra sembra emergere un approccio diverso, che prende atto della nuova situazione: Dario Franceschini non ha dato la stura alle polemiche, anzi ha «messo a disposizione» gli uomini e le strutture del Pd. Il leader democratico ha anche telefonato al premier, e persino la spiegazione della sua assenza in Abruzzo in queste ore (spiegazione fornita informalmente dal suo portavoce) ha una nota di serio buonsenso: «Non siamo andati per non sembrare che eravamo lì a contendere le luci della ribalta», insomma per non «politicizzare» il dramma. Né abbiamo udito nessun fischio o grido «assassini», come di solito succede durante la commemorazione alla Camera.

Nel clima di lutto generale ieri l’Italia politica, governo e opposizione, si è comportata con dignità. In questa serietà ritrovata emerge anche un metodo che appare efficace agli occhi dei cittadini. Ha fatto bene Berlusconi a «metterci la faccia», andando a rassicurare gli italiani che lo Stato non è così lontano. È un metodo che nel passato - vedi Napoli - gli ha già portato un successo. E la decisione di Dario Franceschini di mettere prima a disposizione la forza locale del Pd e poi recarsi presto in Abruzzo, come dice ancora il suo portavoce, non appare un passo improvvisato: va ricordato che fu proprio lui a presentarsi a Lampedusa durante la rivolta degli immigrati un paio di mesi fa. Anche quella fu una mossa premiante per lui; nei fatti fu il primo passo che lo distinse dal grigiore dell’apparato, alcune settimane prima dell’imprevista elezione a segretario.

Piace immaginare, in queste ore di lutto, che tutto questo potrebbe davvero contenere una lezione sui nuovi tempi di crisi e di drammi: uscire dai Palazzi e confrontarsi con la concretezza della vita reale è ben più premiante che misurarsi fra schieramenti opposti nelle cupe aule di Camera e Senato.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - I moderati
Inserito da: Admin - Aprile 14, 2009, 02:55:47 pm
14/4/2009
 
I moderati
 
 
LUCIA ANNUNZIATA
 
Dal buio in fondo al tunnel della sconfitta della sinistra, si avanza un nuovo soldato: il moderato. Il termine è aleggiato intorno a Dario Franceschini e al suo Pd per la tregua istituzionale scelta nel periodo del terremoto; è stato imbracciato da un politico mite per eccellenza, Enrico Letta, che nel suo nuovo libro in uscita, Costruire una cattedrale, lo usa in maniera tutt’altro che timida. E - se possiamo presumere che i media ancora rispecchiano il paese - forse non è un caso che sia stato ritirato fuori dal nuovo direttore del Corriere della Sera Ferruccio De Bortoli per declinare la identità del suo giornale nel saluto ai lettori.

Che si tratti di tendenza, speranza, o anche soltanto di un semplice augurio, l’idea ha preso forma, in maniera conscia o inconscia, durante la settimana di lutto che abbiamo alle spalle: che si sia davvero di fronte a un tempo di nuova moderazione?

Già solo la domanda è un segno. I moderati sono spariti da anni dall’orizzonte della nostra politica, trascinati via dal disfacimento della Dc, divenuti sinonimo di trasformismo, debolezza, ambiguità nella corsa iperidentitaria del bipolarimo tra destra e sinistra. In questi ultimi anni il loro posto è stato preso infatti, e con un po’ di imbarazzo per la non perfetta simmetria, dai Centristi.

Ma moderato, almeno come se ne sente parlare in questi abbozzi di discussione, non è affatto il centro. Nel dire questo, prendo in prestito proprio una definizione di Enrico Letta: «L’elettorato non è bipolare, ma tripolare: diviso non tra destra e sinistra ma tra progressisti, moderati e populisti». Questa è, come si vede, una riscrittura radicale delle definizioni che usiamo oggi: non più destra, non più sinistra, e nemmeno centro. Si parla di una nuova geometria in cui sotto il termine «populista» si allineano parti della destra, della sinistra e delle terre di mezzo attuali. Per dirla ancora con Enrico Letta: «Si tratta di unire progressisti e moderati, in un patto che non potrà includere né la Lega da una parte, né Di Pietro e i comunisti dall’altra».

Se questa idea andrà avanti o no non lo sappiamo. E’ interessante invece cogliere gli elementi da cui nasce questo ragionare, che sembra tentare molti nel centro sinistra di oggi.

Il terremoto ha segnato una svolta significativa del Pd. E’ troppo parlare di unità nazionale. Ma certo il nuovo segretario del partito dei democratici si è preso una bella responsabilità: quella di rompere la prigione berlusconismo-antiberlusconismo. E non certo per «tradire» o fare «inciuci». Tanto è vero che, in piena emergenza terremoto, ha piazzato alla Camera una formidabile manovra parlamentare che si è infilata dentro le contraddizioni del governo e ha permesso l’affossamento delle misure più «populiste» (quelle della Lega) sugli immigrati. Mi piace pensare, dunque, che la rottura dello schema «sì o no a Berlusconi» sia il merito di uno sguardo che si è alzato dalla quotidianità.

Il tremito che ha scosso l’Abruzzo - come sempre accade nel cortocircuito che lega catastrofi e politica - è stato nel nostro paese un momento quasi catartico di risveglio: la materializzazione dello sfascio, della fragilità, della insicurezza su cui poggiano i nostri piedi, è stata la stessa che la crisi economica filtra nella nostra coscienza. Il tremore della terra è diventato il segno di tempi più duri per tutti, la scoperta, il sapore dei tempi in cui viviamo. La cautela, l’attenzione con cui il Pd si è mosso, sono state - credo - non un consenso al premier Berlusconi, ma una presa d’atto di questo nuovo mondo.

Vorrei ricordare qui un dettaglio, andato perso la scorsa settimana nella travolgente cronaca del dolore, ma non sfuggito a chi fa politica, specialmente nel centro sinistra. Stanno emergendo segni sempre più consistenti di nuove reazioni popolari alla crisi. Penso ai sequestri di manager, alle ribellioni, agli attacchi e a tutte quelle azioni che l’economista francese Jean-Paul Fitoussi ha già definito, senza giri di parole, «una rivolta popolare non coordinata, spontanea. E molto pericolosa». Che nasce stavolta da una dimensione «intellettuale» della crisi economica: la sensazione, cito ancora Fitoussi, che «la gente ha avuto di essere stata presa in giro». «Le fondamenta della democrazia sono in pericolo», non esita a dire il francese, e con lui molti intellettuali italiani oggi, nello schieramento di centro destra come in quello di centro sinistra. Se questa è la dimensione della crisi che ci viene addosso, forse la «moderazione» è un’illusione. Ma è certo un buon luogo da cui tirare un respiro, riflettere, e contare fino a tre prima di lanciarsi nel vuoto.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Chiamatela Exodus
Inserito da: Admin - Aprile 20, 2009, 04:41:04 pm
20/4/2009
 
Chiamatela Exodus
 
LUCIA ANNUNZIATA
 

Si chiama Pinar. Ma le onde del Mediterraneo ricordano una sua sorella di molti anni fa, che vagava ugualmente senza meta, senza approdo, col suo carico di umanità a perdere, incastrata dalle logiche dei trattati internazionali nella marginalità della Storia.

Quella sorella si chiamava Exodus. Per chi è troppo giovane, ma anche per chi ha l’età del ricordo, vorrei richiamare qui quella memoria. L’Exodus salpò ai primi di luglio del 1947 da Porto Venere. Una carretta del mare, coperta di ruggine, un goffo battello che, col nome di President Warfield, era servito in Virginia, Usa, a portare turisti su e giù per il Potomac. La comandava un giovane ebreo di 27 anni. Era stata ristrutturata nel cantiere dell’Olivo a Porto Venere e si avviava verso la più grande impresa dell’emigrazione ebraica clandestina: trasportare dall’altra parte del Mediterraneo, stivati su quattro piani di cuccette, 4.515 profughi ebrei sopravvissuti all’Olocausto. Non era la prima, e non fu l’ultima, su quella rotta, ma il suo viaggio divenne il simbolo del diritto di un popolo a emigrare.

Alla fine della seconda guerra mondiale, il Golfo della Spezia divenne uno dei luoghi di speranza per migliaia di ebrei europei, uomini, donne e bambini che avevano conosciuto la persecuzione, lo sterminio, i Lager. Nello Stato ebraico, La Spezia è chiamata ancora oggi «Schàar Zion», Porta di Sion. Da questa nostra città partirono tra l’estate del 1945 e la primavera del 1948 oltre 23 mila ebrei. Ma la traversata non fu semplice. L’arrivo di profughi in Palestina era stato bloccato a un numero di 75 mila entrate in cinque anni, secondo gli accordi del dopoguerra che avrebbero dovuto fermare il conflitto arabo-palestinese. Lo Stato di Israele, in questi accordi, non era previsto. La Gran Bretagna, che aveva il Mandato per la Palestina, combatté in tutti i modi l’arrivo dei profughi ebrei.

Nel maggio del 1946 l’immigrazione clandestina ebraica divenne un caso internazionale: l’Inghilterra bloccò la partenza dal porto della Spezia di due imbarcazioni, la Fede di Savona e il motoveliero Fenice, cariche di 1.014 persone. I profughi rimasero bloccati sulle navi, in condizioni disastrose, e partirono solo grazie all’aiuto di tutta la città italiana, l’intervento dei giornalisti di tutto il mondo e la visita a bordo di Harold Lasky, presidente dell’esecutivo del Partito laburista britannico. Nella notte tra il 7 e l’8 maggio 1947 salpò quindi la nave Trade Winds/Tikva, allestita in Portogallo, con 1.414 profughi imbarcati a Porto Venere. E a luglio la Exodus, che con i suoi 4.515 passeggeri era la più grande impresa di trasferimento illegale di clandestini nel Mediterraneo.

Exodus mosse da Porto Venere, sostò a Port-de-Bouc, caricò a Sète, fu assalita e speronata dai cacciatorpediniere britannici davanti a Kfar Vitkin, proprio quando era in vista la costa della Palestina. Ci furono morti a bordo e la nave fu sequestrata dalla Corona. Gli inglesi rimandarono i profughi ad Amburgo, al campo di Poppendorf, un ex Lager trasformato in campo di prigionia per gli ebrei. Solo con la fine del mandato britannico i profughi poterono tornare in Palestina, quando la nave, insieme con altre, salpò di nuovo dal Golfo della Spezia. La vicenda fu narrata nel 1958 da un celebre romanzo di Leon Uris, e nel 1960 da un film di Otto Preminger interpretato da Paul Newman e Eva Marie Saint.

Il Mediterraneo, il mare nostro, è sempre stato l’acqua su cui galleggiano i nostri ricordi, le nostre identità e le nostre coscienze. Oggi Israele è una potenza, che desta sentimenti forti, di amore e di antagonismo. Ma allora gli ebrei erano solo una massa di persone senza nome e senza volto, senza passato e senza futuro. Il Mediterraneo fu il loro purgatorio, la loro culla ma anche la loro speranza.

La Pinar non sarà forse mai famosa come la Exodus e non passerà alla storia. Ma il suo vagare in mare stretta tra ragioni di Stato e ragioni della umanità non è molto diverso. Allora gli italiani scelsero l’umanità. Oggi fanno la stessa, giusta, scelta. Questi illegali di oggi con la pelle nera sono i nuovi ebrei che scappano dall’Olocausto nascosto della globalizzazione.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - La forza del silenzio
Inserito da: Admin - Maggio 15, 2009, 12:39:24 pm
15/5/2009
 
La forza del silenzio
 
 
LUCIA ANNUNZIATA
 
Gli U2 le dedicarono nel 2003 una canzone, Walk on (va’ avanti). È bastato perché il cd All that you can’t leave behind, che contiene il brano, fosse messo al bando dalla Birmania.

Non può essere né importato, né scaricato e nemmeno ascoltato. Come chiamare il raggiungimento di una vetta di tale stupidità censoria? Purtroppo nel mondo dei persecutori il ridicolo è spesso direttamente proporzionale alla crudeltà. E il caso della band irlandese è il miglior ritratto della stolidità feroce con cui il regime dei militari Birmani continua a perseguitare il leader politico dell’opposizione. Il premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi ieri è stata ricondotta in carcere. Nell’alba di Rangoon i militari hanno rimesso tra le sbarre questa donna di 63 anni, che ne ha già fatti 19 di galera e 6 agli arresti domiciliari. Una donna malata, cui non viene permesso di essere visitata dal suo medico, perché lui stesso in carcere. È accusata di aver ospitato per due giorni un americano che aveva raggiunto la sua casa traversando a nuoto il lago su cui si affaccia.

A questo punto si dovrebbero spiegare la Birmania, la Cina, e gli equilibri asiatici. Ma di fronte a decisioni così grottesche, parlare di politica servirebbe solo a nobilitare i persecutori e i loro protettori: in questo caso la Cina. Propongo invece di salutare la nuova tappa in carcere di Aung San Suu Kyi come un suo ennesimo trionfo. Che un gruppo di militari che tiene in mano con la forza un Paese abbia così paura di una donna fragile e anziana è solo il segno della suprema forza che questa donna incarna. Aung San Suu Kyi non è una vittima, ma il vero centro del potere in Birmania. In queste ore, insieme con la pietà, dovremmo forse riflettere proprio su questo.

Aung San Suu Kyi è sulla scena politica da una vita, fin da bambina, figlia di un padre dell’indipendenza Birmana, assassinato, e di una madre che continuò il lavoro del marito. Ragazza di quelle élite asiatiche (come di quasi tutti i Paesi del Terzo Mondo) che vengono educate nelle capitali intellettuali dell’Impero - Oxford o Harvard, Uk o Usa - e poi tornano dall’Impero come alleate dell’Occidente e classe dirigente. La sua biografia ricorda molto quella di Benazir Bhutto. Ma una particolarità è solo di Suu Kyi e anche in questo ultimo giro di vite contro di lei viene riconosciuta ed esaltata. Non è il suo essere élite, e nemmeno donna, bensì il suo percorso verso l’affermazione delle sue idee. Questa leader Birmana è diversa da tutti gli altri leader politici per aver scelto una strada occidentale nei valori, ma tutta «asiatica» nel metodo. L’esatto contrario dell’azione politica come la si concepisce in Occidente. Là dove, nella nostra cultura, la leadership è esposizione, movimento, scontro aperto, visibilità, immagine, riflesso pubblico, totem mediatico, quella di Suu Kyi è leadership al contrario: costruita sull’assenza, sul silenzio, sulla paziente accettazione del tempo e della sofferenza. Potere tutto interiore, e interiorizzato.

Mancava da anni sulla scena politica mondiale un ribaltamento del genere, una leadership autenticamente diversa, tutta «orientale». Non si vedeva dalla non violenza del Mahatma Gandhi. Da allora non appariva sulla scena mondiale il poderoso scontro fra divise militari e una sola tunica: un blindato fronteggiato a mani e piedi nudi, un grido di guerra respinto dal silenzio. Aung San Suu Kyi si richiama al Mahatma. Si dichiara profondamente influenzata dal suo pensiero. Dopo anni di rumore globale, sferragliare di metallo e accozzaglia d’immagini, appelli, manifestazioni e martiri, del leader dell’opposizione birmana avvertiamo solo l’assenza, non una parola, non una foto, non un’immagine a raccontarci le sue intenzioni. Un supremo silenzio che, come un buco nero, si allarga inevitabile, divorando la pesante materia del mondo intorno.

Noi occidentali non sappiamo riconoscere questo potere, e in queste ore pensiamo a Aung San Suu Kyi come a una vittima. Ma è certo che i militari del suo Paese sanno bene chi hanno di fronte.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Giovani come tanti
Inserito da: Admin - Maggio 20, 2009, 10:43:59 am
20/5/2009
 
Giovani come tanti
 
 
LUCIA ANNUNZIATA
 
Ma, insomma, cosa mai devono fare, questi ragazzi? Se vogliono fare le letterine, li si accusa di seguire i più volgari modelli culturali.

Se si chiudono in casa e chattano tutto il tempo, ci si allarma per una generazione distaccata dalla realtà. Se bevono ogni sera nella movida, li si descrive sulla strada dell’alcolismo. Se vanno in piazza per il Papa, li si guarda come premoderni. Se invece hanno rapporti sessuali, li si proclama amorali precoci. Se si iscrivono obbedienti alla trafila delle primarie del Pd, li si descrive come precoci burocrati. Se diventano giovani leader alla Bocconi o all’Aspen, li si racconta come mostri di ambizione. E se manifestano in piazza - come succede in questi giorni - non ne parliamo: eccole lì, le nuove leve del terrorismo.

È possibile che un Paese come il nostro, malato di misoginia e di xenofobia, risulti alla fine malato anche di fobia antigiovani. Ma, se di fobie si tratta, sotto si nasconde una serpe vera. Gli studenti asini, e le veline, e i solitari, e gli ambiziosi, rimangono relativamente visibili (e infatti se ne fregano delle nostre analisi - non so se lo sapete), ma affrontare ogni forma di rivolta giovanile come una questione di ordine pubblico è un azzardo. Arriviamo così a Torino, che in una settimana è stata il set di due episodi raccontati come paradigmatici di un clima e di un futuro. Parlo del centinaio di Cobas - li cito qui perché molti di loro erano giovani - che hanno attaccato Rinaldini e la Cgil, e le poche centinaia di studenti dell’anti-G8. Tante parole. Ma alla fine gli scontri di massa si sono risolti in un po’ di «cariche di alleggerimento» e tre-feriti-tre. Ugualmente si può dire dell’aggressione dei Cobas: non è affatto un avvenimento nuovo nella vita del sindacato, e la dimensione della contestazione è stata ridicola. Eppure, in entrambi i casi, come succede sempre più spesso, l’intera Nazione Istituzionale si è levata adombrando il pericolo terrorismo.

Scusate se non mi unisco al coro, ma sia Torino (in grande) sia io (in piccolo) nella nostra comune vita ne abbiamo viste di ben peggiori. E la caduta dal palco di Rinaldini non è certo quella di Lama alla Università di Roma.

Non voglio giustificare. Ma il terrorismo è stato una cosa seria. Le intemperanze, i musi, il ridicolo, gli «scazzi» e le violenze sono invece buona parte di quello che i giovani fanno in ogni società, in ogni tempo e in ogni luogo. Anche ora, in molti Paesi d’Europa. Questione di libertà, questione di testosterone.

Perché dunque invocare sempre così facilmente l’ombra della rivolta armata, oggi in Italia? Non voglio dare questa risposta - essa stessa molto complessa. Dare un avvertimento tuttavia non costa molto. Per cui - per quel che serve - lo butto lì: se ogni ribellione, ogni contrazione della società deve essere rubricata sotto il nome di potenziale terrorismo, state attenti. Invocare l’Apocalisse a ogni tuono può davvero condurvici.

 
da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Se la star dei giornali va sul Web
Inserito da: Admin - Maggio 24, 2009, 05:48:17 pm
24/5/2009
 
Se la star dei giornali va sul Web

LUCIA ANNUNZIATA
 

Noi giornalisti siamo tutti egocentrici. Anzi per dirla tutta, ognuno di noi - dal principiante al vecchio notista - si sente una star, unica e irripetibile. Per cui, confesso, quando il presidente di Mediaset Fedele Confalonieri, manager fra i più autorevoli (nonché fra i più simpatici) del settore editoriale, ha detto a Bagnaia, «i cimiteri sono pieni di persone indispensabili», mi si è gelato il sangue. Il presidente Confalonieri parlava di Mentana, fino a poche ore fa grande star dell’informazione proprio di Mediaset, ma tutti sappiamo riconoscere una campana quando suona per ognuno di noi.

Pausa. Respiro. Non preoccupatevi. Non intendo ora addentrarmi nella questione se Mentana sia o meno una vittima di censura politica. Personalmente penso che lo sia. Ma in questo caso, non è di questo che voglio parlare.

Il presidente di uno dei maggiori gruppi editoriali italiani, con la sua affermazione ha in realtà dato voce a una opinione molto condivisa, e non da poco tempo, dagli editori in tutto il mondo. L’idea che l’epoca delle grandi firme, dei Grandi Giornalisti, sia arrivata alla sua fine. Una idea affiorata sulle acque di quel meraviglioso fiume dell’innovazione tecnologica che ha cambiato la nostra vita, lo splendente flusso delle notizie h24, le dirette, i satelliti, la banda larga, la immediatezza del luogo-non luogo. Che bisogno c’è di giornalisti, quando abbiamo la possibilità di stare ovunque, sempre, con un semplice click?

La domanda riecheggia da anni nelle nostre redazioni, e finora è sempre più o meno finita nei seminari sull’informazione di cui il mondo è pieno. E lì sarebbe rimasta, se la caduta economica a picco del settore dell’editoria (tra gli altri) non l’avesse recuperata come il Santo Graal.

Oggi l’editoria internazionale, in testa l’imprenditore dalle uova d’oro Rupert Murdoch - e, pare, anche l’editoria italiana raccolta a Bagnaia - vuole passare su Internet, e vuole far pagare i contenuti. Il ragionamento funziona più o meno così: le notizie sono più o meno le stesse, prodotte da un alveare operoso ma senza nome dei vari media, e saranno dunque inevitabilmente gratis. Altro sono i contenuti e questi si faranno pagare. Dunque meno giornalisti per lavorare al corpaccione unico delle news generali, e poche pepite d’oro da far pagare care. Se si aggiunge al costo finale l’assenza della carta, con tutti gli enormi benefici anche per la «sostenibilità» (altra parola da «seminario»), voilà.

A parte la complicata distinzione fra contenuti e notizie che ha già dato vita a una disputa annosa e non meno divisiva di quella sulla essenza del corpo di Cristo fra Ario e Atanasio, la domanda rimane sempre la stessa: ma che razza di contenuti sono questi da spingere a comprare in una rete gratuita e zeppa di notizie un particolare accesso a una particolare testata?

Fino ad oggi nel mondo ci sono vari esempi di successo online. L’informazione economica, che è assolutamente necessaria, di Bloomberg, dei servizi speciali del Ft, o di Economist o di WSJ, e che riesce, in parte, a farsi pagare. Nell’informazione politico-generalista, ci sono esempi di altissimo livello, come «politico.com», da tutti guardato come esempio: ma anche questo sito, pur fatto da superfirme superpagate, al momento per sfidare Washington Post e New York Times rimane gratuito.

Per farci pagare l’accesso al Web avremo dunque bisogno di offrire grandi cose. Notizie esclusive (scoop, si diceva quando eravamo ingenui)? Le analisi migliori? Storie senza pari? Risate irripetibili? Informazioni senza le quali non possiamo uscire? Qualunque di queste cose sia, per essere acquistate dovranno essere, appunto, uniche, irripetibili, migliori, senza pari, impossibili da ignorare. E chi farà questi strepitosi «contenuti», se non strepitosi giornalisti? Ecco, così, tanto per indicare un dettaglio.

Non parliamo dunque di Mentana, ma parliamo di Fiorello. Persino lui, che è una vera grande star, se messo dentro il tritacarne di una Tv da pagare non raccoglie milioni ma solo decine di migliaia di spettatori. Figuriamoci se spendo un euro per andarmi a leggere un testo di cui non conosco nemmeno l’autore.

da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Ambasciatori in missione con il marito
Inserito da: Admin - Maggio 25, 2009, 11:18:55 am
25/5/2009
 
Ambasciatori in missione con il marito
 
LUCIA ANNUNZIATA
 
Quando la scorsa settimana, nel pieno del dibattito sulle torture durante la presidenza di George W. Bush, un ennesimo traduttore arabo venne cacciato dall’esercito americano perché gay, il comico Jon Stewart così trafisse le ipocrisie americane: «Permettiamo agli interrogatori di usare il waterboarding per i terroristi, ma cacciamo perché gay i traduttori che ci potrebbero dire cosa rivelano i terroristi sotto tortura».

«Don’t ask, don’t tell» - Non chiedere e non spiegare.

La formula, che è da sempre nel mondo anglosassone la base della ricerca della felicità in condizioni di incertezza - per esempio, nel matrimonio - è diventata da anni sinonimo della pilatesca fuga a cui hanno fatto ricorso una serie di Amministrazioni statunitensi di fronte a uno dei più scomodi tra i diritti civili: il riconoscimento dei gay nell’esercito. Fu Clinton - Bill, presidente Usa - nel primo mandato a dovervisi adeguare, dopo aver fatto molte promesse, intimorito dalla reazione dei conservatori. La storia torna a galla ora, rimessa in moto da un secondo Clinton, Hillary, Segretario di Stato, che ha deciso di picconare il muro delle fobie pubbliche antiomosessuali. Non si tratta di militari, stavolta, ma - da un certo punto di vista - il riconoscimento è persino più audace: il Dipartimento di Stato riconoscerà ai compagni/e dei diplomatici americani gay gli stessi diritti delle coppie eterosessuali. E forse gli Usa rischieranno di pentirsene. A volte succede. Ma, se di rivoluzione nel linguaggio internazionale si vuol parlare, quale migliore shock che quello di portare a tavola, a ricevere i potenti di turno, insieme con il Signor Ambasciatore anche il suo Signor compagno?

È un bel ribaltamento, intanto, contro l’ipocrisia. I Mr e Mrs Ambasciatori esistono già oggi: nelle mani di Hillary e Obama c’è un recente appello di ben 2200 membri dell’Amministrazione Esteri di sgombrare la vita diplomatica dalle ambiguità connesse al problema di compagni di vita che finora vengono inclusi come «parte della famiglia», ma che non hanno diritto, ad esempio in situazioni di guerra, di essere evacuati insieme con i loro compagni/e. Il caso più famoso lo ha fatto esplodere nel 2007 un apprezzato diplomatico, Michael Guest, che dopo 26 anni di servizio si dimise dal Foreign Service per protesta contro le regole che gli impedivano di riconoscere il suo compagno, «obbligandomi così a scegliere tra la lealtà al mio partner e quella nei confronti della patria». Guest è poi stato chiamato da Obama a far parte del «transition team» nel Dipartimento di Stato.

Molti punti di vista possono essere letti, ovviamente, in questa decisione di Hillary Clinton. Secondo gli ultimi dati, il 57 per cento della popolazione Usa sotto i 35 è a favore dei matrimoni gay. Una tendenza che contraddice la cautela con cui il presidente Obama ha deciso di gestire in questi mesi la questione dei diritti civili. È possibile dunque che il Segretario di Stato voglia aiutare Obama trascinando avanti lei stessa la palla in campo. O che voglia aiutarlo magari riprendendo in mano una torcia liberal tipica dei Clinton e della loro generazione. O anche solo che voglia «compensare» la cautela nazionale della Casa Bianca, aprendo una campagna di immagine internazionale.

Perché, alla fine, di questo poi si tratterà. Immaginiamo l’impatto che avranno sul piano diplomatico queste coppie «same-gender»; immaginiamo gli sconvolgimenti del più arido e del più tradizionale settore della burocrazia, quello dei «foreign offices» esposti alla frizione di una rivoluzione sessuale aperta; immaginiamo imbarazzi di cerimoniali, e autentici problemi di rispetto religioso, come potrebbero verificarsi in Medio Oriente o anche in Vaticano. Ma qualunque sarà l’intoppo, questa decisione di Foggy Bottom si irraggerà in tutta l’amministrazione pubblica americana, e anche in quelle mondiali. Con effetti non meno rivoluzionari di quelli già avuti nelle relazioni internazionali dall’elezione del primo presidente Usa nero.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - L'ombra del complotto
Inserito da: Admin - Maggio 28, 2009, 09:56:36 am
28/5/2009
 
L'ombra del complotto
 
LUCIA ANNUNZIATA
 

Si scrive «Bilderberg», e si legge «Complotto». L’incontro annuale del gruppo che riunisce circa 150 degli uomini più influenti del pianeta (italiani inclusi).

Bilderberg, che prende il nome dall’hotel olandese dove ne avvenne la fondazione nel 1954, ha attirato anche quest’anno (fra il 14 e il 17 maggio) l’attenzione di sempre. Con una notevole eccezione. Dal blog degli appassionati dei complotti mondiali (tipo infowars) stavolta l’attenzione è trasmigrata sull’autorevole quotidiano Politico.com iniziando a Washington una vera e propria caccia alla conferma o no dei presenti in Grecia.

L’interesse è dovuto al fatto che all’incontro, tenutosi presso Atene nell’Hotel Astir Palace, ha partecipato un gruppo di rappresentanti di alto livello dell’Amministrazione Obama, fra cui Richard Holbrooke, inviato sulla questione Pakistan-Afghanistan, e James Steinberg, vicesegretario di Stato. La presenza di membri di un’Amministrazione Usa in queste riunioni non è inusuale - dopotutto è Henry Kissinger il grande padre di questa specie di fondazione. Ma che in questa tradizione si calasse anche l’Amministrazione Obama, considerata così di rottura, questa volta ha fatto notizia.

È solo un dettaglio, dopotutto. Ma utile a far avvertire un clima. Sotto la superficie più o meno tranquilla con cui guida la sua nave il presidente americano Barack Obama, i cambi e le decisioni avviate da Washington sono tutti a pelle scoperta. In patria e altrove. Né potrebbe essere diversamente. La macchina della politica Usa, accelerata dal fuoco di combustione della crisi economica, alimenta dubbi e domande, in moltissimi Paesi. Rientra così in scena la vecchia ombra - quella dei complotti internazionali, che è sempre il sostituto per ogni mancanza di certezze.

Non sarà sfuggito a molti che in queste ultime settimane alcuni quotidiani italiani riportano voci che il nostro governo teme un «complotto» appunto, che nasce negli Usa e nel mondo anglosassone in generale. E di cui i numerosi attacchi di vari quotidiani stranieri potrebbero essere, si dice, uno specchio.

Il complotto è un’ombra che tradizionalmente si avverte nella politica italiana. Vi hanno fatto ricorso Andreotti e ambienti socialisti per Mani Pulite. La sinistra vi ha attinto a piene mani per molti dei suoi problemi. Oggi però pare rispuntare anche dentro il centrodestra, sostenendo che a ledere il rapporto fra Usa e Italia sia l’eccessiva vicinanza dell’attuale premier Silvio Berlusconi al premier russo Putin.

Accantonando, tuttavia, le ricostruzioni fantasiose, di cui sempre i complotti fanno parte, è possibile ascoltare alcune segnalazioni interessanti da voci dentro un paio di think tank in Usa e in Gran Bretagna. La questione Putin, si dice, è senza dubbio molto sentita in Inghilterra. E non da ora. Si vada ad esempio a recuperare un vecchio articolo dell’Economist del 7 novembre 2008, cioè pochi giorni dopo l’elezione di Obama. Il titolo è da messa in guardia: «Per Obama non c’è verso di ignorare Putin», e in un passaggio vi si legge che «alcuni leader europei, dopo la vittoria di Obama, aumentano le proprie scommesse sulla Russia. Silvio Berlusconi, il presidente italiano gaffeur, ha fatto una visita a Mosca dall’interessante scelta di tempi (intriguingly timed visit to Moscow, nel testo, nda) ed ha dato vita a una controversia riferendosi ad Obama come “giovane, bello e abbronzato”». L’articolo prosegue definendo l’Italia «uno dei Paesi che si sono avvicinati a Mosca molto più di quanto Washington desideri, a partire dalla crisi in Georgia».

Da allora molto tempo è passato, ma non è mai venuta meno la «specialità» di alcuni rapporti dell’Italia - quello con la Russia, e anche quello con l’Iran, come ci ha ricordato la recente cancellata visita di Frattini.

Non è questione di «abbronzato» ovviamente, si dice dalla sponda americana di uno dei think tank di Washington. «È piuttosto questione di distanza siderale» nel come si guarda oggi alle relazioni internazionali. Anche qui, eliminando ogni ridicolo cenno ai complotti, basta guardare all’agenda delle visite Usa-Europa. Nei primi fatidici cento giorni l’Italia non è stata mai inclusa in nessuna delle visite ufficiali, né del Presidente Obama, né del segretario di Stato americano.

L’assenza di questo passaggio - che sarà certamente recuperato con la visita del G8 - è stata notevolmente esposta proprio nel tanto celebrato primo viaggio europeo organizzato a più mani e più voci dall’amministrazione Usa in Europa. Come si ricorderà, il vicepresidente Biden scelse come sua tappa Bruxelles, mentre il Segretario di Stato Clinton, arrivata in Europa dall’Estremo Oriente, è passata per Sharm el Sheik in Egitto, per poi andare a Bruxelles, in Svizzera (per un incontro con i russi) e infine in Turchia. Obama invece ha fatto Londra, Francia, Germania e Praga. Non si trattò di un’alzata di spalle verso l’Italia, si disse. E infatti non fu uno sgarbo personale, dal momento che altre nazioni non vennero incluse. Ma in quegli itinerari c’è una logica: gli Usa attuali si rapportano all’Europa innanzitutto come istituzione collettiva, in cui privilegiare solo i rapporti con le nazioni più forti. E intendono avere con l’Europa rapporti chiari, ma non più di divisione di ruoli. Hillary Clinton, ad esempio, all’Europa diede un’indicazione chiara: unità transatlantica, ma nessun «messaggio doppio» in rapporti delicati e controversi con altri Paesi. L’avvertimento aveva a che fare con Russia e Iran, come poi si è ben visto.

A proposito: l’unico incontro fra un rappresentante Usa, la Clinton, e il nostro premier, Silvio Berlusconi, è stato a Sharm el Sheik.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Se Obama va a Maometto
Inserito da: Admin - Giugno 07, 2009, 12:14:45 am
3/6/2009
 
Se Obama va a Maometto
 
 
LUCIA ANNUNZIATA
 
Non sappiamo ancora cosa dirà. Ma sappiamo dove lo dirà. Il che, secondo le regole della politica odierna, è quasi quanto basta. Barak Obama parlerà domani al mondo musulmano dall’Aula Magna dell’Università del Cairo, dove si presenta dopo aver reso omaggio ai custodi della Mecca, i reali della casa saudita, a Riad. Lo seguirà un’opinione pubblica musulmana che non ha mai guardato con tanto favore a un leader occidentale: lo approva il 25 per cento degli egiziani (contro il 6 a favore di Bush).

Lo approva il 29 per cento dei sauditi (per Bush il 12), il 37 per cento dei turchi (per Bush il 14), il 15 per cento dei siriani (per Bush il 4). È una dislocazione geografica e di umori sufficiente a farci dire che qualcosa già è accaduto nelle relazioni fra Stati Uniti e mondo arabo.

Obama terrà domani al Cairo il quarto discorso di politica estera della sua presidenza. Ognuno di questi interventi è stato fatto in un luogo intimamente connesso al senso del messaggio. Il primo, sul ritiro dall’Iraq, il 27 febbraio, è stato pronunciato nel campo di addestramento dei marines di Camp Lejeune, in North Carolina, davanti a uomini e donne che stavano per partire per le basi di Baghdad. E cominciava: «Sono venuto a parlarvi di come la guerra in Iraq finirà». Il secondo, del 5 aprile, forse il più visionario, su un mondo privo di armi nucleari, è stato pronunciato a Praga, già ponte della Guerra fredda fra Est e Ovest. Che si riferisse a quell’epoca, Obama l’ha lasciato capire da un romantico omaggio alla moglie: «Sono l’uomo che accompagna Michelle», parafrasando John e Jackie Kennedy del viaggio europeo nel 1961. Il terzo discorso, del 21 maggio, sulla sicurezza nazionale, ha annunciato la chiusura di Guantanamo, ed era ai National Archives di Washington, tempio in cui è custodita la storia della Repubblica Usa.

Al Cairo si attende ora un altro segmento della visione strategica dei nuovi Stati Uniti. Gli inviti alla cautela degli esperti, in questa vigilia, sono numerosi. Fortissime le resistenze in Israele e in una parte dello stesso mondo democratico americano contro le pressioni dell’amministrazione per fermare gli insediamenti. Problematica, a dir poco, è nel mondo arabo ogni soluzione (fosse anche quella - impossibile - dei due Stati) che implichi il pieno riconoscimento di Israele. Sullo sfondo c’è, poi, il ruolo attivo che Obama ha preso nel rilanciare in Afghanistan quella che ogni giorno appare sempre più come una nuova guerra ai talebani. Viceversa, le aperture all’Iran e la chiusura di Guantanamo sono, per ora, più gesti di buona volontà che impegni. Eppure, contro ogni voce della ragione, di cui sempre abbondano diplomatici ed esperti, il luogo scelto dal presidente per parlare ai musulmani appare già un’offerta in sé.

I Presidenti americani viaggiano molto. Attraversano il globo in lungo e in largo. Ma i colloqui veri, gli accordi finali, le amicizie strategiche si stringono solo a Washington. Come avvenne per l’accordo di una pace da Nobel fra Arafat e Rabin nel 1993. Come avviene per tutti i leader mondiali oggi in palpitante attesa di un invito alla Casa Bianca. Il mondo imperiale è infatti una piramide, dove la legittimazione dei Barbari non può che avvenire nella Nuova Roma.

Stavolta questa piramide si capovolge. Obama parla ai musulmani lì dove i musulmani vivono, parla alle madrasse dell’universo arabo da una grande università araba, porta sé stesso al loro livello e nei loro luoghi, pellegrino fra i pellegrini, dove il conflitto è nato. L’Egitto, ricordiamolo, è la patria del fondamentalismo islamico, il paese che ha dato i natali agli uomini più vicini a Osama Bin Laden. Nonché il punto di equilibrio, quieto ma pericolosamente ancora in bilico, tra Occidente e Oriente. È difficile dunque non vedere in questa scelta del Presidente degli Stati Uniti un desiderio di spaccare i ruoli, riscrivere le regole, riconoscere e non umiliare le diversità. In un’epoca di conflitti fatti da immagini, valori, disprezzi reali e percepiti, in un mondo in cui i rapporti fra culture pesano quanto una volta i rapporti fra testate nucleari, un gesto di modestia e di omaggio può fare molta strada.

Non è un’idea nuova quella di Obama. I migliori strateghi e politici hanno vinto guerre con il riconoscimento delle differenze altrui. Il generale Edmund Henry Hynman Allenby, primo visconte Allenby, dopo aver sconfitto l’Impero Ottomano in Palestina, facendo il suo ingresso a Gerusalemme alla testa delle truppe, l’11 dicembre 1917, smontò da cavallo e attraversò a piedi la Porta di Jaffa, «in segno di rispetto dello status di città sacra per ebrei, cattolici e musulmani». Poco importa se, con il senno di poi, oggi diciamo che quel gesto di rispetto sarebbe stato pagato molto caro da Gerusalemme. In quel momento bastò a trasformare una potenza di conquista in un protettore per molti anni. Forse la visita di Obama in Medio Oriente non sarà risolutiva. Ma ciò non toglie che, recandosi al Cairo, oggi Obama scriva una forte pagina culturale, rendendo reale la metafora dell’impossibilità: per la prima volta vedremo la montagna che va da Maometto.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Sembra Tienanmen
Inserito da: Admin - Giugno 15, 2009, 06:29:19 pm
15/6/2009
 
Sembra Tienanmen
 

LUCIA ANNUNZIATA
 
C’è un solo parallelo capace di descrivere la sanguinosa rivolta in corso in Iran: Tienanmen.
Esattamente come a Pechino, vent’anni e dieci giorni fa (il 4 giugno 1989), i carri armati che ripulirono la piazza Tienanmen ufficializzarono agli occhi del mondo la debolezza del governo cinese, così ieri a Teheran la repressione feroce di una ribellione contro l’esito elettorale rende visibili le crepe aperte nel governo di Mahmoud Ahmadinejad. Sia la Cina allora sia l’Iran adesso sono infatti sistemi basati sullo stesso principio, lo stesso pilastro: sono cioè entrambi governi di natura teocratica, fondati sulla pretesa di rappresentare l’intera nazione, senza dubbi e senza dissidenza, in quanto espressione di una autorità superiore, intoccabile. Rompi l’intoccabilità di questa origine prepolitica o superpolitica, e rompi il pilastro stesso su cui questi governi si reggono. Il dio della Cina era allora il Partito comunista, quello di Teheran è oggi Allah, ma in entrambi i casi la pubblica rivolta indica che la loro identità di intoccabili è saltata.
Prima di Tienanmen non c’erano state proteste antigovernative, se non quelle pilotate della rivoluzione culturale.

Ieri a Teheran è avvenuta la prima rivolta della piazza contro le autorità, dalla rivoluzione del 1979. Tienanmen rivelò che nel cuore del Partito comunista stesso c’era una spaccatura, ieri a Teheran si è messa in piazza l’esistenza di due anime, e di due concetti religiosi, dentro il cuore di un sistema apparentemente granitico.

Il futuro dell’Iran sarà quello della Cina, che dopo le repressioni di Tienanmen avviò un corso accelerato di rinnovamento? Non lo sappiamo ancora, ma questa ipotesi apre una seconda porta all’Occidente, laddove tutto sembrava chiuso.
L’Occidente sperava che dalle urne elettorali uscisse una vittoria dei moderati. E certo, se avesse vinto Hossein Mousavi, sarebbe stato molto comodo. Un problema che da anni tormenta il nostro Primo Mondo - l’esistenza di uno Stato forte e antagonista come l’Iran - sarebbe stato improvvisamente cancellato. Si capisce dunque la passione con cui molti osservatori, dopo il verdetto delle urne, si sono precipitati a sottolineare che la rielezione di Ahmadinejad è la sconfitta della speranza di pace per Obama, e dunque per tutti noi.

Ma non è un po’ frettolosa questa conclusione, di fronte agli eventi in corso?
Il successo dei riformisti sarebbe stato un miracolo: e i miracoli, come si è visto, in politica non accadono - nemmeno quelli provocati dal fascino del presidente Obama. Viceversa, la rivolta popolare al voto fa intravedere la possibilità di un percorso forse più lungo ma più concreto e anche più efficace di un miracolo. La vittoria di Mousavi non sarebbe stata comunque serena e pacifica; avrebbe provocato in ogni caso una spaccatura in Iran, di natura molto più velenosa della attuale. Già adesso i riformisti iraniani sono identificati come fantocci dell’imperialismo Usa. Una loro affermazione avrebbe portato i conservatori a un contrattacco di delegittimazione, sollevando davanti a un popolo fieramente indipendente e religioso, come quello iraniano, lo spettro dell’intervento americano. E come in questi anni abbiamo visto tragicamente ripetersi (non possiamo che rimandare all’Iraq), la carta del golpe Usa è sempre la più efficace nella propaganda nazionalistica di molti paesi - arabi e/o africani, e non solo.

Il rischio della vittoria riformista era dunque quello di rendere apparentemente tutto più facile, ma anche più fragile. Una rottura pubblica, un dissenso che sfocia in lotta politica aperta, avvia invece, come dicevamo, una destabilizzazione profonda. È una strada lunga, sanguinosa, ma con più potenzialità di provocare un solido cambiamento.
 
da lastampa.it


Titolo: Annunziata: «Sospetto una crisi ampia Forse con un altro scandalo»
Inserito da: Admin - Giugno 15, 2009, 06:35:51 pm
«D'alema ha riassunto un pensiero diffuso nel centrosinistra»

Annunziata: «Sospetto una crisi ampia Forse con un altro scandalo»

«La sensazione è che il premier stia entrando in un grave momento di debolezza. Temo storie torbide»


ROMA - Lucia Annunziata, senti: quando Massimo D’Alema ti ha detto che c’è da aspettarsi una maggioranza attra­versata da «scosse», tu a che genere di scosse hai pensato?
«Non ci ho pensato. Ho, anzi, reagito d’istinto. Nella frazione di un secondo. Co­me ti sarai accorto, l’ho infatti subito incal­zato, chiedendogli: 'D’Alema, il termine scossa sta per...?'».
(Lucia Annunziata, giornalista al mani­festo, a Repubblica, al Corriere, dall’agosto del 1996 al giugno del 1998 alla guida del Tg3, poi presidente della Rai, attualmente editorialista de La Stampa, ieri ha intervi­stato su Raitre, nel suo programma di in­formazione 'In Mezz’Ora', il suo vecchio amico Massimo D’Alema: un’amicizia ve­ra, che i giornali tendono sempre a rappre­sentare con una foto d’epoca, datata 1976, in cui lei, Walter Veltroni — 'ancora senza certe profonde stempiature' — Fabio Mus­si e, appunto, D’Alema — 'capelli folti tipo afro' — sono all’università di Roma La Sa­pienza in attesa di un intervento di Giorgio Amendola).

D’Alema ti ha risposto, un po’ vago, che per «scosse» si intendono «momenti di conflitto, di difficoltà, anche impreve­dibili, che richiedono, come dire? un’op­posizione in grado di assumersi le pro­prie responsabilità»...».
«Senti, io con D’Alema non ho parlato né prima, né dopo la trasmissione...».

Dai, direttore...
«Giuro. Né prima, né dopo. Non è mia abitudine farlo con gli ospiti, e certo non ho fatto eccezione con Massimo, che pure conosco da una vita. Detto questo...».

Ecco, detto questo?
«Provo a intuire, a dedurre».

Dai, prova.
«Io penso che Massimo, in fondo, abbia riassunto un pensiero abbastanza diffuso all’interno del centrosinistra».

Sarebbe?
«La sensazione che la stagione di Berlu­sconi stia entrando in un grave momento di debolezza... da cui potrebbe scaturire, o deflagrare, fai tu, una crisi più ampia».

Genere di crisi?
«Istituzionale».

Spiegati. Cosa potrebbe innescare que­sto genere di crisi?
«Non lo so. E suppongo non lo sappia, di preciso, neppure Massimo. Io sospetto l’ar­rivo di altri scandali, di altre foto spiacevo­li... temo storie torbide... credo che l’imma­gine internazionale di Berlusconi, già com­plicata nei rapporti con l’amministrazione Obama, nel volgere di un tempo non lun­ghissimo, possa risultare ulteriormente danneggiata».

Berlusconi parla di «piano eversivo».
«D’Alema non crede all’ipotesi del com­plotto. Con me, in trasmissione, è stato piuttosto chiaro. D’Alema, se posso aggiun­gere, è anzi più sottile: e dice che quando il Cavaliere parla di complotto, parla ai suoi. Gli spiega la scena dell’accerchiamento».

Per questo poi...
«Arrivano in difesa Calderoli e Cicchitto, certo. Annusano, anche loro, il pericolo».

Francesco Cossiga, sul Giornale, insi­nua che sia già pronta la successione al Cavaliere...
«Il governatore della Banca d’Italia, Ma­rio Draghi? Se è per questo, girano anche altri nomi... No, io dico che la situazione è molto in evoluzione».

Direttore, sembri molto informata.
«Ragiono, leggo, parlo, faccio questo me­stiere da una vita. Ma puoi escludere che D’Alema m’abbia detto qualcosa».

Anche in privato? Senti: cosa ti ha det­to sul congresso del Pd?
«Ne ha parlato in trasmissione. Ha ribadi­to di tenere per Bersani. Poi, se vuoi la mia idea...».

Certo. Qual è?
«Si profilasse davvero una crisi grave, strategica, istituzionale per il Paese... beh, io penso che D’Alema non esiterebbe a tor­nare in campo. Ma oltre il Pd».

Oltre, scusa, in che senso?
«Sarebbe pronto a rimettersi in gioco da statista tra gli statisti...».


Fabrizio Roncone
15 giugno 2009

 da corriere.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Troppo freddi con l'Iran
Inserito da: Admin - Giugno 19, 2009, 06:07:04 pm
19/6/2009
 
Troppo freddi con l'Iran
 
LUCIA ANNUNZIATA
 

Non erano molti, due giorni fa, a Roma in piazza Farnese, a solidarizzare con la rivolta iraniana. Né ci arrivano notizie di grandi (e, se è per questo, neanche di piccoli) raduni al fianco degli iraniani dalle capitali europee.

Siamo così al solito interrogativo che da un po’ di tempo ci si ripresenta, davanti ai regolari flop di attivismo solidale. Forse la sensibilità internazionale europea - a destra comea sinistra - si è affievolita? Una risposta scientifica non può esserci. Ma, ragionando sugli avvenimenti di questi ultimi anni, è possibile dire ex post che questa sensibilità europea esiste, ma sembra essere rimasta ferma lì dove si è formata: al dopoguerra e alla guerra fredda. Cioè allo scontro fra Est e Ovest, fra Nord e Sud, in chiave destra/ sinistra, comunismo/anticomunismo. Anche in questi ultimi anni infatti, quando si presenta l’ombra dell’imperialismo americano i democratici europei sanno subito scattare, così come quando appare il segno della dittatura comunista in forme varie i conservatori capiscono subito di che si tratta. Ripercorrendo così le passioni internazionali di questi ultimi anni, si disegna unamappa del mondo completamente deformata rispetto a quella reale.

Le ultime reali mobilitazioni si sono viste durante la guerra dei Balcani, e dopo l’11 Settembre fino alla guerra in Iraq.

Entrambi casi riconducibili ai conflitti del ’900. Nei Balcani si è giocata forse l’ultima resa dei conti fra Washington e Mosca nei vecchi confini europei del dopoguerra; intorno, per altro, a un residuo delle soluzioni razziali del ’900, la pulizia etnica. Il conflitto in Iraq è stato a sua volta semplicissimo da comprendere in queste logiche. Ha diviso il campo fra Stati Uniti e mondo arabo: tema che ha riacceso la tradizionale passione che brucia dal dopoguerra in Europa, la divisione fra Arabi e Israele.

Tutto il resto, tutti i numerosi, e per certi versi non meno gravi, conflitti di questo stesso periodo non hanno mai attirato grande attenzione. La Cina del dopo Tienanmen, con la continuazione delle sue politiche di controllo sociale, e del Tibet; le guerre e i massacri in Somalia, o in Darfur; i conflitti dentro e fra le repubbliche ex sovietiche, e dentro la stessa Russia, come ben sanno i giornalisti uccisi in questi anni. Né sembra sollevare attenzione il pericolo terrorista o nucleare, intorno a cui dopo tutto si combatte in Iran e in Afghanistan. Se questa è la mappa partecipazione/ indifferenza, è evidente che è guidata dal sopravvivere di una sensibilità totalmente novecentesca. I conflitti che con il mondo del dopoguerra c’entrano poco o nulla se non per filiazione molto lontana risultano troppo incomprensibili, intricati, spesso persino a una classe dirigente colta.

Un tipico esempio del cambiamento dei significati degli avvenimenti globali ci viene offerto, proprio in questi giorni, dalla costernazione che suscita l’atteggiamento del Presidente degli Stati Uniti in merito all’Iran. Obama guarda a questa vicenda con distacco e con una certa freddezza. Indignando (forse per la prima volta dalla sua elezione) il popolo delle solidarietà - interventisti conservatori, militanti di diritti umani, pro israeliani che vedono nell’Iran il pericolo supremo per Israele, democratici che vorrebbero che si aiutasse chi vuole democrazia e donne che solidarizzano con le altre donne in piazza.

In realtà si può guardare differentemente a questo distacco. Obama è anche lui un presidente nato fuori dagli schemi del ’900, e sa molto bene una cosa che il ’900 ancora non sapeva: la difesa della democrazia non si fa con interventi e invasioni degli imperi. Se questo giudizio è vero (cautela necessaria) il Presidente americano potrebbe star aspettando gli eventi, consapevole che una sua mossa peggiorerebbe la situazione dell’opposizione, già accusata di filoamericanismo. Ma sa anche - perché la storia di questi ultimi anni ci ha insegnato pure questo - che la storia di un paese è alla fine nelle mani solo di chi in quel paese vive. La più bella storia di resurrezione nazionale degli ultimi vent’anni, quella del Sud Africa, è stata costruita con sacrifici dagli stessi sudafricani. Certo non grazie alle manifestazioni dell’Europa, o alle timide sanzioni inglesi di anni fa, né grazie ai media che se ne sono occupati in maniera alterna. Qualunque siano le ragioni delle distanze prese da Obama, certo questa sua apparente freddezza è comunque un altro elemento di disorientamento dell’opinione pubblica.

Fin qui le osservazioni possibili. Ma se invece stessimo sbagliando tutto? Se l’indifferenza europea avesse invece a che fare con la percezione che l’Europa ha di sé stessa oggi? In altre parole: c’è una relazione fra la bassa affluenza al voto per il Parlamento europeo e l’indifferenza alle vicende internazionali? Crisi economica, difficoltà a vedere il futuro costituiscono oggi le ragioni di un ritorno del razzismo e della paura in Europa. Non è difficile attribuire agli stessi elementi un profondo ripiegamento anche rispetto alle vicende del mondo.

da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Neda la prima martire
Inserito da: Admin - Giugno 23, 2009, 09:48:25 am
22/6/2009
 
Neda la prima martire
 
LUCIA ANNUNZIATA
 
Cade con un solo colpo al cuore, il sangue che sgorga prima dalla bocca poi dalle orecchie e dal naso, gli occhi rovesciati verso il cielo. Le è scivolato il velo dalla testa, le si è aperto l’abito nero che la ricopriva, rivelando blue jeans e scarpe da ginnastica. Il video dell’agonia di questa ragazza di Teheran, vittima dei soldati dell’esercito iraniano, sta facendo il giro del mondo su YouTube.

Ma prima di entrare nel significato di questa morte, vorrei condividere tutto quello che ho trovato sulla ragazza. Per darle intanto un nome, e per capire in che circostanza è morta. In assenza di giornalisti, persino queste semplici informazioni potrebbero andar perse. Potenti messaggi quelli che ci arrivano dai blog in Iran: «Sì, questa è la ragazza persiana colpita a morte da uno sparo, il suo nome è Neda e stava partecipando alla protesta contro Ahmadinejad e l’intero governo che pretende di essere musulmano mentre non ha alcun rispetto di cosa significhi lavorare per Dio, è davvero il più tirannico dei governi».

Questa è la disperata testimonianza del medico che ha assistito la ragazza nei suoi ultimi momenti; testimonianza subito cancellata, ma ritrovabile come il link sul blog cui è stata inviata: «I “Basij” hanno sparato e ucciso una giovane donna in Teheran, il 20 giugno mentre protestava. Alle ore 19:05. Posto: Carekar Ave., all’angolo con la strada Khosravi e la strada Salelhi. La giovane donna era accanto al padre ed è stata sparata da un Basij che si nascondeva sul tetto di una casa civile. Ha avuto una vista perfetta della ragazza, e dunque non avrebbe potuto mancarla. Ha sparato diritto al cuore. Sono un dottore e mi sono precipitato immediatamente a cercare di salvarla. Ma l’impatto del proiettile è stato così forte che è esploso nel suo petto e la vittima è morta in meno di due minuti. Il video è stato girato da un amico che mi stava accanto. Per favore, fatelo sapere al mondo».

Sì, qui siamo infatti, il mondo che guarda questa rivolta iraniana, per molti versi come tutte le altre rivolte, e per certi versi assolutamente unica. Un tiratore scelto prende la mira su una ragazza accanto al padre e con freddezza le spappola il cuore. E’ qui tutta la storia della rivolta iraniana in corso. Il regime di Teheran spara a freddo a una donna, alle donne. Confessando tutta la sua debolezza ma anche la natura della paura che corre nelle vene dell’establishment religioso iraniano.

La novità che ci svela è questa. Ahmadinejad ha lanciato un attacco alle donne. Ieri è stata arrestata Faezeh Rafsanjani, la figlia dell’ex presidente Akbar Hashemi Rafsanjani. Faezeh, ex deputata, attivista, editore della rivista «Donna», fosse la più famosa delle tante donne che animano l’attuale rivolta popolare. Ma una seconda umiliazione è nascosta in questo attacco a lei: arrestare una figlia vuol dire in Iran portare vergogna sull’intera famiglia. Il messaggio va dunque a tutti i padri della nazione: se non tenete a posto le vostre donne, non ci fermeremo davanti a nessuno. E qui parliamo di ben altro che un signor nessuno.

Rafsanjani, infatti, oltre a essere uno dei principali sostenitori di Hossein Mousavi, è anche uno degli uomini più ricchi dell’Iran. Forbes lo ha incluso nella lista degli uomini più ricchi del mondo, è dunque forse il più ricco del suo Paese, grazie alla sua partecipazione in molte imprese, incluse quelle petrolifere. Una potenza che gli ha guadagnato il nomignolo di Akbar Shah. La famiglia Rafsanjani possiede inoltre interessi nel commercio con l’estero, ampi possedimenti di terra, e la più vasta rete di università private, conosciuta come Islamic Azad University, 300 campus in tutto il Paese e circa 3 milioni di iscritti. Attaccare un uomo così potente, che da solo gioca un ruolo decisivo, arrestandone la figlia è un’intimidazione ridicola. Ma rivelatrice del timore che anima il governo di Ahmadinejad.

Questa provocazione è infatti direttamente proporzionale al peso acquisito da mogli e figlie di politici nella campagna elettorale prima e negli avvenimenti della rivolta oggi. La moglie di Mousavi, Zahra, è scesa in campo a fianco del marito, per la parità fra uomini e donne, sfoggiando colorati veli al posto di quello nero. Va ricordato anche un episodio di aggressione, forse meno noto ma non meno significativo, nei confronti della vedova di Mohammed Ali Rajai, il primo ministro assassinato nei primi anni della rivoluzione Khomeinista. La vedova si è recata a Qom, la città Santa, per sollecitare l’appoggio dei Mullah al movimento riformatore, e in risposta è stata arrestata.

E torniamo così alla uccisione della ragazza, l’assassinio da parte di un occupato della Santa Rivoluzione di una donna è il segno di tutto quello che è cambiato in Iran. Con quell’uccisione viene dissacrata una donna per tutte. La donna. L’oggetto (è il caso di dirlo) sacro dell’Islam, il luogo della custodia, il simbolo e il metro della purezza degli umani. Inattaccabile. Almeno finora. Ma che una rivolta animata dal senso di libertà e dei diritti, democratici e individuali abbia fra i suoi martiri una giovane in jeans senza velo è la perfetta metafora di quel che sta succedendo in Iran.

 
da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Una banana republic per Barack
Inserito da: Admin - Luglio 01, 2009, 11:25:03 am
30/6/2009
 
Una banana republic per Barack
 
LUCIA ANNUNZIATA
 
Il golpe appare, soprattutto, ridicolo. Un golpe dei soliti soldati con le facce di contadini sudamericani, in Honduras, 112.088 km quadrati e 6 milioni di abitanti, in corso mentre si sviluppa la crisi politica dell’Iran. Ma per un potere globale come gli Stati Uniti non c’è disturbo ormai troppo piccolo da poter essere ignorato. Ed ecco il presidente Obama tirato per la giacca da un piccolo Paese e messo di fronte a una scelta imbarazzante: essere il solito presidente Usa che appoggia dei militari golpisti, o il primo che appoggia uno dei tanti leader di sinistra che spuntano come funghi nella parte Sud del suo stesso continente. Per l’amministrazione di Washington, che, giustamente, non ha messo l’America Latina fra i primi posti del suo impegno, il golpe in Honduras è in effetti un richiamo alla realtà del proprio rapporto con il suo miglior partner.

Il Sud delle Americhe è il più grande fornitore di petrolio, il più forte co-investitore nella ricerca di energie alternative, il maggiore produttore di droga, e anche la più ampia fonte di immigranti, legali e illegali, degli Usa. Negli ultimi anni questo partner è apparso ampiamente pacificato, e, in certi casi, protagonista di grandi successi economici. Ma interessi petroliferi, radicalismo politico, e persino islamismo, hanno nel frattempo proliferato, portando il continente su rotte che lo allontanano dagli Usa e lo spingono a incrociare altre potenze del globo. Il caso Honduras fa capire bene questo percorso. La nazione, classica «banana republic», è stata base del maggior conflitto Usa degli Anni 80 in America Centrale, contro i sandinisti, sotto la guida di John Negroponte, poi divenuto ambasciatore nell’Iraq occupato e capo della task force antiterrorismo globale nell’amministrazione Bush. Questo Paese, totalmente «americanizzato», che nel 2004 ha firmato il Cafta (Central American Free Trade Agreement), ed è il principale partner commerciale degli Usa, è stato governato da un presidente, Manuel Zelaya (ora fatto cadere dai militari) che si è staccato progressivamente da Washington per avvicinarsi a Hugo Chávez, abbracciandone lo stile di governo (da cui il tentativo di modificare la Costituzione per essere rieletto), ed entrando nel Petrocaribe.

La ragione da lui data per questo «voltafaccia» è che gli Usa non hanno mantenuto le loro promesse di benessere economico. Il cambiamento di opinione dell’ex presidente honduregno riflette bene un nuovo umore delle terre di tutto il Sud America che guardano ora a governi come quelli di Lula (Brasile), Morales (Bolivia), oltre che a quello venezuelano, come a storie di indipendenza e di relazione con interlocutori che non siano più gli Usa. Un rapporto del Council on Foreign Relations, presentato pochi mesi fa, comincia proprio così: «L’era della dominante influenza degli Usa in America Latina è finita. I Paesi di questa regione non solo sono molto più forti, ma hanno esteso le loro relazioni con altre potenze, incluse la Cina e l’India. Mentre gli Usa si concentravano su altre sfide, in particolare in Medioriente, l’America Latina ha fatto progressi sostanziali. La democrazia si è rafforzata, le economie si sono aperte, e le popolazioni sono diventate molto più mobili, nonostante molti Paesi stiano ancora combattendo contro povertà e disuguaglianze».

Il petrolio venezuelano e il boom economico brasiliano sono un magnete in effetti non solo per un senso di rinascita regionale, ma anche per appetiti politici internazionali. Alla Cina e all’India bisogna aggiungere l'iniziativa dei russi (da cui il Venezuela ha comprato miliardi di dollari di armi) e dell’Iran. Voci si rincorrono anche su forti iniziative d’intelligence di questi Paesi. La parola più ufficiale che abbiamo in merito è quella del segretario alla Difesa, Robert Gates: «Sono preoccupato dal livello di attività sovversive che gli iraniani stanno portando avanti in numerose nazioni in America Latina. Stanno aprendo molti uffici e attività di copertura dietro le quali interferiscono in molti Paesi». Si ricorderà, infine, che nel 2004 si parlò molto anche di un’infiltrazione di Al Qaeda in Usa via America Latina. Gli opinionisti sia conservatori che liberal in America, hanno da tempo focalizzato la loro attenzione su queste evoluzioni.

La Fox denuncia che in Bolivia sta crescendo la popolazione musulmana, e viceversa Noam Chomsky scrive: «Per la prima volta in metà millennio, il Sud America inizia a riprendersi il proprio destino, è ora la più eccitante regione del mondo». L’amministrazione Obama almeno finora non ha messo l’America Latina nelle sue priorità. Ma sembra difficile che vi sfugga. Il perché lo spiega bene il già citato rapporto del Council on Foreign Relations: Obama «è di fronte a un ambiente diplomatico e politico drasticamente differente da quello dei suoi predecessori. Comprensibilmente, ripropone la propria posizione di rafforzare la partnership, recuperare il terreno perso negli ultimi anni, e lavorare insieme per un destino comune di prosperità, inclusione sociale e sicurezza. Ma con una crisi economica globale, per non parlare di un’agenda internazionale di altre priorità, gli Usa hanno oggettivamente forti limiti in quello che possono fare e ottenere. Tuttavia, l’interdipendenza fra le Americhe rimane necessaria, e richiede una strategia che difenda gli interessi Usa in queste nuove condizioni: mentre i Paesi latinoamericani divengono via via più indipendenti, gli Usa avranno difficoltà sempre maggiori a far funzionare la vecchia relazione. Obama deve dunque prendere atto dei nuovi «fatti della vita» dell’emisfero Sud. Soprattutto, la nuova amministrazione deve lavorare a non interpretare più la propria azione attraverso stanchi luoghi comuni come quello dei «miglioramici», dei desideri impossibili, o delle demonizzazioni». E se tutte le ragioni fin qui elencate non fossero sufficienti, vorremmo aggiungere che la politica Usa in Sud America rimane importante per il più semplice ed efficace dei motivi. Quello che, in una relazione del 1971, il National Security Council dell’amministrazione Nixon definì così: «Se gli Usa non possono controllare l’America Latina, come potranno mai pretendere di tenere in riga il resto del mondo?».

da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - La svolta di Obama
Inserito da: Admin - Luglio 15, 2009, 10:17:49 am
15/7/2009
 
La svolta di Obama
 
LUCIA ANNUNZIATA
 

Washington in Afghanistan continua ad accelerare. A febbraio Richard Holbrooke, inviato speciale dell’Amministrazione Usa in quel Paese, ha creato una task force, un «Support group» all’azione delle organizzazioni internazionali in Afghanistan. Il gruppo ha il ruolo di prendere decisioni, collegando i governi direttamente alle attività in corso. E’ composto da 27 membri di altrettante nazioni: incluse Cina e Egitto, ma non la Russia. Anche l’Italia ha il suo delegato indicato dalla Farnesina.

Il lavoro della task force è frenetico, gli incontri avvengono ogni settimana, ogni volta in una capitale diversa. Scopo di questo nuovo super-organismo è tagliare i tempi della burocrazia, saltare i cerimoniali intermedi, velocizzare le decisioni e rendere così più efficace l’operazione Afghanistan. Per ora, dicono, pare stia funzionando benissimo. Di sicuro ci dà il senso di quanto siano cambiati lo scopo e gli obiettivi di Washington, pur in mano a un democratico come Obama, in quella parte di mondo.

E’ qui, in questa evoluzione, che ha trascinato anche noi italiani, che va guardata la morte del caporal maggiore Alessandro Di Lisio. L’Afghanistan è un formicaio dentro cui abbiamo infilato una mano». «In Afghanistan siamo in guerra: inutile nascondercelo». Scegliete voi. I commenti nel mondo dei diplomatici e delle forze armate che seguono da vicino la nostra impresa in Afghanistan sono, in privato, molto più realistiche e amare di quelle che provengono dal mondo ufficiale della politica. Perché, alla fine, con il sangue di Di Lisio è stato scritto ieri l’ennesimo avvertimento ai naviganti italiani che non vogliono prendere atto di molte verità. La principale è che la missione italiana è da tempo mutata, sia negli scopi che nel profilo regionale. La seconda è che questo mutamento avvenuto negli anni scorsi in maniera lenta e invisibile si è accelerato proprio da quando l’amministrazione Obama ha elevato l’Afghanistan a suo principale conflitto.

«Questa ultima casualità ha un significato maggiore di tutte le precedenti», dice un alto grado militare, «soprattutto perché viene alla fine di una serie di attacchi alle nostre forze condotti con tattica diretta, cioè con assalti da vicino, che fanno pensare all’inizio di una forma di guerriglia organizzata». I numeri parlano chiaro: gli attacchi nei confronti degli italiani si sono intensificati negli ultimi mesi. La morte di ieri, insomma, da tempo stringeva il suo cerchio intorno agli italiani. Che cosa ha attirato sulle nostre truppe l’attenzione dei talebani?

La risposta si trova proprio nella evoluzione della nostra missione. Quanti uomini abbiamo in Afghanistan? Il numero fluttua, ma possiamo parlare di 2.700 stabili, cui vanno aggiunti 400 o 500 nuovi invii per le elezioni del 20 agosto, che poi si prolungheranno nel ballottaggio il 1° di ottobre, dopo il Ramadan. A quel punto queste 500 nuove entità torneranno davvero a casa? «Dipende dagli eventi» dicono gli ambienti militari, il che vuol dire che la nostra presenza avrà raggiunto la considerevole quota di 3.200. Molto lontana da quei 500 alpini che si unirono a Operation Enduring Freedom nata subito dopo l’11 settembre 2001, e dai circa 2000 uomini che l’Italia inviò l’anno dopo, quando la Nato rispose al mandato dell’Onu per una forza di ricostruzione e peacekeeping creando l’Isaf.

Abbiamo scritto peacekeeping e ricostruzione. Parole che ancora oggi identificano l’intera operazione occidentale ma che sono ormai termini svuotati. Per spiegare anche questo mutamento basta guardare la trasformazione geografica della presenza italiana. Nei primi anni, i nostri soldati (come tutte le forze Isaf) erano concentrati prevalentemente a Kabul. Poi è iniziata l’era della divisione in 4 settori, di cui l’Ovest è stato assegnato agli Italiani, un territorio grande quanto tutta l’Italia del Nord fino a Firenze. Zona all’inizio non conflittuale, ma lentamente entrata nel fronte di guerra con il movimento delle nostre truppe verso il Sud, nella più pericolosa cittadina di Farah, dove oggi ci sono circa 400 unità. Da Farah le nostre truppe hanno stabilito base anche a Bala Bakun; mentre nel Nord alto abbiamo stabilito una base a Bala Mugab, con 200 uomini. Quasi tutti gli attacchi recenti sono avvenuti intorno a queste nuove posizioni: «Aree in cui si arriva per stabilire un controllo, e in cui questo controllo alla fine sollecita una reazione», commenta un generale. «La reazione locale è diventata più attiva perché più attiva è oggi la nostra iniziativa», concorda un diplomatico.

Questa maggiore iniziativa ha come data, appunto, l’elezione di Barack Obama. Il Presidente che ha portato via i soldati Usa dall’Iraq, l’uomo che ha riaperto il dialogo con ogni possibile nemico, è invece convinto che l’Afghanistan è il Paese in cui si vincerà o si perderà la sicurezza americana. Opinione maturata ben prima che arrivasse alla Casa Bianca. Richard Holbrooke, nominato suo inviato il 29 gennaio del 2009, già nel numero di settembre-ottobre 2008 di Foreign Affairs definiva la politica americana in quel Paese «un fallimento», avvertendo il rischio di un nuovo Vietnam. «Il Vietnam del terrorismo è quello che teme il presidente Obama, convinto che almeno su questo punto, quello della sicurezza nazionale, non può permettersi di essere sconfitto», parole di diplomatico.

Fin dai primi giorni della sua amministrazione, il Presidente ha così chiesto a tutti i suoi alleati internazionali un rinnovato impegno nella regione. Ne ha riparlato anche in questo G8 italiano. L’Italia ha risposto con quel che poteva: a maggio Frattini ha annunciato che toglievamo alcuni caveat all’ingaggio di fuoco, e alcuni limiti geografici, dando insomma il via a un maggiore impegno di combattimento delle nostre forze. Poi sono arrivate le truppe per le elezioni. Ma un militare precisa: «In realtà anche durante il governo Prodi le nostre unità speciali collaboravano con gli americani, anche se si negava».

Questo è il bilancio dei primi otto anni dell’Occidente in Afghanistan. E il percorso, in questo tragico anno, sembra persino essersi allungato.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - La guerra assedia i soldati italiani
Inserito da: Admin - Luglio 20, 2009, 10:18:43 am
20/7/2009
 
La guerra assedia i soldati italiani
 
 
LUCIA ANNUNZIATA
 
Leggerei questo episodio nella chiave delle vicende interne al Libano: che Hezbollah stia lavorando da vari mesi a un sistematico riarmo, mi sembra nello stato delle cose».

Così si valuta, nelle alte sfere delle Forze Armate Italiane, lo scontro - il primo in tre anni - che qualche giorno fa ha opposto i Caschi Blu in Libano alla popolazione civile. Fra i militari non sembra ci sia spazio per versioni di comodo: dire infatti che Hezbollah è in riarmo, vuole semplicemente dire che la nostra missione in Libano è entrata in una fase di difficoltà seria.

Forse è il caso di cominciare a richiedersi cosa succede alle nostre missioni. Dall’Afghanistan al Libano. Sono tanti i segnali che gli Italiani corrono il rischio di essere presi in mezzo da guerre mai dichiarate.

La presenza italiana in Libano è forse la più rilevante per il nostro Paese. L’Unifil, con oltre 12 mila uomini, di cui 2100 italiani, è sotto il comando del generale italiano Claudio Graziano, uomo unanimemente stimato. La missione Onu (Unifil) riorganizzata nel 2006, alla fine della guerra fra Hezbollah e Israele, per garantire la smilitarizzazione della fascia fra Libano e Israele, al Nord e al Sud del fiume Litani, ha come compito essenziale il disarmo della zona, dunque delle milizie di Hezbollah.

In questo senso, l’incidente più recente è significativo. Il 14 luglio è esploso accidentalmente un deposito di armi e munizioni proprio di Hezbollah, ospitato in un edificio abbandonato a pochi chilometri dal quartier generale degli italiani. E’ stata aperta una inchiesta su queste armi «irregolari», ma una volta arrivate sul posto le forze Unifil sono state accolte da qualche centinaio di civili, che le ha bloccate a colpi di pietre. Un muro umano che ha circondato i mezzi militari, isolandone uno che per ripiegare ha dovuto persino sparare colpi in aria. Immagine vecchia come lo stesso Medioriente, civili, donne, bambini, armati solo di pietre, contro dei soldati. Una situazione non pericolosa, obiettivamente «umiliante».

Eppure non isolata. Come in Afghanistan, anche in Libano le acque si stanno intorbidendo. Negli ultimi sei mesi ci sono stati diversi momenti di tensione tra i caschi blu e i miliziani sciiti, di cui l’ultimo il mese scorso, quando gli Hezbollah hanno fatto ripiegare una pattuglia dell’Unifil che aveva appena scoperto un camion carico di armi e munizioni. Le tensioni preoccupano Gerusalemme, che, secondo il quotidiano liberal Haaretz, teme che il generale Graziano e l’Onu nascondano deliberatamente informazioni sul rafforzamento militare della milizia sciita, per timore delle reazioni proprio di Israele. A difesa della missione, in verità, c’è proprio la cautela con cui il Graziano si muove. Ma, come sostiene l’ufficiale prima citato, sono le condizioni libanesi ad essere cambiate. C’è di nuovo una crisi proprio degli sciiti. La sconfitta inattesa della coalizione guidata da Hezbollah alle elezioni del 2007 ha infatti mostrato i limiti della supposta popolarità dell’organizzzazione. Da allora la coalizione si è spaccata. Le altre componenti, gli sciiti di Amal, e i cristiani del generale Aoun cercano ora di rientrare nel gioco politico nazionale. Hezbollah ha risposto alla crisi impegnandosi a ricostruire la propria forza e la propria identità. La tattica è quella di nuovi villaggi dentro cui crescono basi armate - come quello che gli italiani sono andati a controllare - e lo sviluppo di traffico di armi. I luoghi sono proprio il Sud del Litani, il settore più vicino al confine con Israele, e il Nord del Litani, dove passa la strada per la valle del Bekaa, quartier generale storico di Hezbollah.

E’ proprio l’area in cui vive e vigila l’Unifil, e i caschi blu Italiani. Che la missione Onu rischi di essere presa dentro la crisi dei giochi libanesi e dentro una crisi di Hezbollah, è un rischio vero. Tanto più in un momento in cui l’esplosione sociale del grande alleato Iran, espone le milizie a una grande incertezza. Dal Libano all’Afghanistan, dunque, anche contro la volontà degli stati maggiori, le nostre missioni stanno cambiando, perché a cambiare sono le condizioni in cui si svolgono.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Il problema di Bossi è l'America
Inserito da: Admin - Luglio 28, 2009, 06:35:46 pm
28/7/2009
 
Il problema di Bossi è l'America
 
LUCIA ANNUNZIATA
 
Uno dei suoi più famosi manifesti recita: «Sì alla polenta, no al cous cous». Naturalmente il messaggio, come tutti i messaggi politici, è terribilmente semplificato, ma rende molto bene su quale base si fonda la politica estera della Lega Nord: quella di una forza legata al territorio, in un mondo che tende a omogeneizzarsi nella globalizzazione. Per una organizzazione sostanzialmente nazionale, anzi, semiregionale, questa idea è finora più che bastata. Ora che la Lega ha ruolo nazionale, basterà questa base a elaborare una politica estera di governo?

Un quesito interessante, con cui il partito di Bossi sembra in questi giorni determinato a misurarsi, proponendo una sorta di riapertura della discussione sulle missioni italiane all’estero. Ma può davvero la Lega permettersi di intraprendere questa strada, o rischia una cantonata clamorosa? Guardando alla storia di questo partito, è molto alta la possibilità che proprio la politica estera si riveli il suo primo, vero, tallone di Achille.

Anno 1989, elezioni europee (due leghisti eletti), la Lega si ritrova campione degli euroscettici e autonomisti di tutta Europa. Nei suoi primi anni, infatti, incrocia molto bene il pullulare di organizzazioni e di spinte localiste, molte di orientamento «democratico», che si battono contro i primi effetti della globalizzazione. È l’epoca dei no global, della difesa dei formaggi francesi, delle prime spinte protezioniste dentro i sindacati americani. L’autonomismo, come quello basco di Pujol, è una bandiera più di identità che di separazione: e alla Lega guardano autonomisti fiamminghi (VolksUnie), Eusko Alkartasuna (indipendentisti pacifici baschi), Sud Tirolesi,Psd’Az, Sardinia Natzione, Catalani.

Ma lo schema di alleanze cambia con il tempo, e con le stesse evoluzioni della Lega. Spuntano altre seduzioni internazionali. Iniziano nel 1996 i primi contatti con il reazionario russo Zirinovksy. Una delegazione della Lega guidata da Maroni incontra Haider a Bolzano tramite i Freiheitlichen del Sud Tirolo. E una delegazione del partito di Haider è presente al Congresso leghista del febbraio 1997. Questi contatti con la destra estrema creano tensioni politiche dentro e fuori l’organizzazione, specie in Europa. Il cambiamento, tuttavia, non è un vero voltafaccia: piuttosto è un segno dei tempi, come si diceva. Dentro la questione globalizzazione cresce quella dell’immigrazione e l’identità nazionale diventa la difesa della propria cultura dalle invasioni. Certi feeling sono dunque quasi naturali. Altri si traducono in posizioni quasi bizzarre.

Come quella che la Lega assume nella guerra del Kosovo, del 1999, che è anche il suo punto di maggiore esposizione sulla politica estera. Bossi si schiera con Milosevic e contro gli «immigrati» e «straccioni» kosovari. Sulla Padania si inneggia al «valoroso popolo serbo». Persino la pulizia etnica viene negata (26 marzo, La Padania). Bossi si reca anche a Belgrado, incontra Milosevic e raccoglie i consensi più vari, inclusi quelli di Rifondazione e dei Comunisti italiani. Surreale, come si diceva, ma la Lega fa il suo gioco di sempre: si smarca su una guerra, combattuta dal governo D’Alema e sostenuta anche dal centrodestra.

Da allora molto tempo è trascorso. Dal 2001 la Lega sceglie con convinzione un ruolo progressivamente più istituzionale e più agganciato a quello di Silvio Berlusconi. La politica estera leghista va sotto traccia, e su molte questioni sceglie di tacere (ad esempio la guerra contro Saddam Hussein non li trova esattamente felici) o, se parla, come nel caso della maglietta di Calderoli, viene bastonata. Insomma, più forte diventa il ruolo istituzionale della Lega e meno paga il suo metodo «pirata». Perché allora riaprire una discussione così corposa come quella sulle missioni estere che sono uno dei pochi punti di accordo fra tutti i governi degli ultimi quindici anni? Perché questa Lega, oggi così forte e così pesante istituzionalmente, rimane tuttavia a disagio con alcuni fili della storia di questo Paese. Gli Stati Uniti sono uno di questi.

Gli Usa sono, nell’universo leghista, il motore della globalizzazione - una forza guardata dunque non esattamente come un modello. La crisi economica, il ruolo che vi hanno avuto le grandi banche americane, risvegliano echi negativi nei cuori leghisti. E che dire poi di Obama? Non è questione di razzismo, ma Obama è pur sempre l’uomo che nella crisi riprende in mano l’egemonia Usa, cerca il contatto con il Medio Oriente, riporta in primo piano l’Africa, e dà un rilievo enorme alla Turchia. Sull’altro grande fronte del mondo, la Cina, la Lega coltiva da anni perplessità forti. La Cina è infatti nel suo linguaggio il simbolo di ogni rischio vero della globalizzazione.

Il disagio affiora così su un terreno più vicino, quello delle missioni estere, su cui c’è un evidente stato di paura nel Paese. E che può servire a sostenere l’idea che nella crisi non si possa spendere per aiutare «stranieri» e «musulmani». Del resto, credere che uno Stato abbia un suo interesse nazionale non è molto facile per una forza politica che non è nemmeno del tutto convinta che questo Stato debba esistere nella forma attuale.

La coalizione di Palazzo Chigi, a cominciare dal Premier, ha però solide radici atlantiste. E dopo l’accelerazione della crisi ha bisogno più che mai del rapporto con gli Usa, e di un (riscoperto) rapporto con l’Europa; per non parlare della Cina e dell’Est, guardate come occasioni di investimento e sviluppo. Posizioni che costituiscono per altro alcuni dei pochi punti davvero condivisi con l’opposizione. Tentiamo dunque ad azzardare: se la Lega si fa davvero tentare dal porre pressioni al governo sulle missioni, è probabile che la politica estera diventi la sua prima occasione di ridimensionamento.

 
da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Obama le zucchine e le tasse
Inserito da: Admin - Agosto 04, 2009, 03:30:08 pm
4/8/2009
 
Obama le zucchine e le tasse
 
 
LUCIA ANNUNZIATA
 
A Michelle le zucchine, a Barack le tasse. La realtà ha modi grandi e piccoli per imporre la sua forza.

A marzo Michelle aveva piantato il primo orto della Casa Bianca dai tempi di Eleanor Roosevelt. Il New York Times scrisse allora: «L’orto ha assunto un profondo significato politico, dopo che Obama è stato per mesi sotto pressione di numerosi gruppi ambientalisti che credono che produrre più cibo locale e organico possa portare a una dieta più salutare per tutti, e a ridurre di conseguenza la domanda per le grandi coltivazioni industriali e il loro uso di petrolio per i trasporti, e di sostanze chimiche per fertilizzare». Non solamente un gesto, dunque, non solo un hobby: come tutto quello che riguarda gli Obama, anche l’orto entrava a marzo nell’unica grande tela del cambiamento. Quella teoria un po’ volontarista, un po’ elitaria, su cui si fonda l’operare del Presidente Usa. L’orto come nuova idea della salute, filo che si dipana, dal dettaglio alla legislazione - quella poi annunciata della riforma dell’assistenza medica - in un unico percorso per la trasformazione stessa dell’Homo Americanus.

La fine dell’orto l’abbiamo vista in questi giorni: la Casa Bianca è inquinata, non ha un terreno adatto alla crescita di prodotti organici. Come finirà invece la proposta dell’assistenza medica universale è ancora da vedere. Ma dal dettaglio delle zucchine alla grande rivoluzione medica, si avverte la stessa tensione - il materializzarsi di un progressivo impatto della realtà sulle idee, del realismo sui sogni nel percorso della Presidenza americana. Potenti forze al lavoro, che si sono già misurate intorno alla chiusura di Guantanamo, alla trasparenza sulla sicurezza all’epoca di Bush. Fino alla grande dose di realismo che oggi Obama sembra pronto a ingerire sul più pericoloso dei terreni per ogni politico: le tasse. Il Segretario del Tesoro Tim Geithner e il presidente del Consiglio Economico Nazionale Larry Summers hanno dichiarato, domenica, che la riforma sanitaria e il prolungamento del sostegno ai disoccupati rende quasi inevitabili nuove tasse. Il Presidente ha immediatamente fatto sapere che non ci saranno, comunque, aumenti per la classe media, cioè per coloro che guadagnano meno di 250 mila dollari. Ma, insomma, ci siamo. La promessa ripetuta durante la campagna elettorale, «non vedrete nessuna delle vostre tasse crescere nemmeno di dieci centesimi», è nei fatti rotta.

Qual è la sorpresa? Le tasse sono il diavolo in corpo della politica, la loro diminuzione è l’inevitabile promessa elettorale e la inevitabile smentita post elettorale per tutti i politici in tutte le democrazie del mondo. Sorpresa è che tocchi anche a Obama, colui che finora è sembrato saper bilanciare tutto e il suo contrario. Ma la forza dei fatti continua a scavare.

In questo caso, i fatti sono i numeri. Mentre l’amministrazione pensa a come finanziare il più ambizioso programma sociale mai avviato, la crisi ha svuotato le casse dello Stato. Un’analisi dei dati economici ufficiali, curata dalla Associated Press, forniva ieri dati preoccupanti: il ritorno delle tasse quest’anno sarà del 18 per cento in meno, mentre il deficit federale raggiungerà il valore record di 1,8 trilioni di dollari. Secondo questa analisi, la crisi ha tirato giù le entrate delle tasse individuali del 22 per cento e quelle aziendali del 57 per cento. L’ultima volta che il ritorno per il governo è stato così basso era il 1932, nel mezzo della Grande Depressione. L’impatto di questa diminuzione di entrate si avverte già su molti dei programmi sociali esistenti, come la Social Security. In sofferenza anche alcuni investimenti nelle infrastrutture vitali per gli Usa, quali le autostrade e gli aeroporti. La minore attività produttiva ha ridotto i fondi che alimentavano questi progetti. Il Congresso ha dovuto già intervenire, approvando una nuova tranche di finanziamento (8 miliardi di dollari) oltre ai 7 miliardi approvati all’inizio dell’anno e già finiti in agosto.

Da dove verranno tutti questi soldi? A dispetto dei segni positivi, il recupero economico dovrebbe essere molto veloce e di grandi proporzioni per evitare il ricorso a nuove tasse. Quali tasse, poi? Per ora si parla di varie ipotesi, dalle tasse sui soft drinks, alle tasse sui ricchi o sulle società, fino alla cancellazione delle esenzioni per i super-ricchi introdotte da Bush. Prospettive che non vengono guardate con alcuna simpatia, specie nella comunità degli affari. Secondo Business Week «azioni di questo tipo incoraggerebbero molte società a registrarsi altrove, spostando le loro sedi e le loro operazioni all’estero». Che resta a un Presidente se non prendere atto? O trovare altre vie che nessuno ha finora immaginato.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - L'Iraq "liberato" uccide i gay
Inserito da: Admin - Agosto 14, 2009, 11:40:27 am
14/8/2009
 
L'Iraq "liberato" uccide i gay
 
LUCIA ANNUNZIATA
 
Pare che le milizie sciite e l’esercito regolare abbiano trovato a Baghdad un terreno di salda collaborazione: la voglia di ripulire l’Iraq dalla piaga dei tanta, gli omosessuali. Secondo il più recente rapporto di Human Right Watch in arrivo dall’Iraq, questa è la più recente evoluzione della guerra sociale che continua a travagliare il Paese.

Le 67 pagine di «”They Want Us Exterminated”: Murder, Torture, Sexual Orientation and Gender in Iraq» documentano la campagna di rapimenti, torture ed esecuzioni contro i gay iniziata con il 2009 e con centinaia di vittime già all’attivo. Le torture includono stupri di gruppo e ferite permanenti inflitte ai presunti gay. Ecco il racconto, raccolto in aprile, di uno dei sopravvissuti: «Confessare cosa? chiesi. “Il lavoro che fai, l’organizzazione di cui fai parte, e che sei un tanta”. Per giorni sono stato picchiato e umiliato... e poi mi hanno violentato. Per tre giorni». Nel rapporto alcuni medici testimoniano di aver visto cadaveri o ricevuto in cura uomini con ferite grottesche.

I dettagli, violentissimi, li lasciamo a chi consulterà il rapporto, che dovrebbe essere reso pubblico il 17 di agosto, ma di cui già circolano alcune anticipazioni. Secondo l’organizzazione per i Diritti Umani, l’azione è iniziata nella zona sciita della capitale, Sadr City, quartiere famoso nella storia di Baghdad per la sua strenua resistenza al regime di Saddam. Oggi è il quartier generale del gruppo politico e militare della milizia di Moqtada al-Sadr. Da quell’area, la campagna di persecuzioni si è estesa a altre città grazie alla segreta collaborazione con le milizie sciite di membri dell’esercito regolare composto in maggioranza da Sunniti.

La paura del «terzo sesso» e della «femminilizzazione» dell’Iraq è divenuta negli ultimi mesi un tema propagandistico delle milizie sciite; in realtà le campagne antigay sono ricorrenti in molti Paesi musulmani. Se l’Iran è diventato famoso per le impiccagioni, altrettanto famose sono le persecuzioni dei gay in Egitto. Nel caso dell’Iraq c’è tuttavia una notevole differenza: il ruolo che ancora oggi vi hanno gli Stati Uniti. Dopo la decisione Usa di non occuparsi più direttamente della sicurezza nel Paese (le truppe americane sono raccolte in alcune guarnigioni cittadine) il compito è passato all’esercito regolare iracheno. Ma può Washington ignorare violazioni di tali portata?

da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Escalation dentro l'urna
Inserito da: Admin - Agosto 19, 2009, 12:15:17 pm
19/8/2009
 
Escalation dentro l'urna
 
LUCIA ANNUNZIATA
 

In questa vigilia elettorale, si contano in Afghanistan 63.000 soldati Usa e 40.500 Nato. Il numero più alto dall’inizio delle operazioni contro i talebani, nel 2001.

Cosa dovremmo scrivere, oggi, se dovessimo valutare solo queste cifre, le dichiarazioni politiche, e i bollettini militari provenienti da Washington? La risposta è molto semplice. Se il Presidente degli Stati Uniti non si chiamasse Barack Obama, e se su di lui non fossero appuntate speranze di rigenerazione politica di tutto il mondo, la mobilitazione di uomini e di armi con cui gli Usa arrivano a questo decisivo appuntamento nel paese dei talebani si definirebbe con il più tradizionale dei termini: una marcata escalation militare.

Da febbraio, in effetti, Washing-ton ha irrobustito il ruolo delle sue forze in Afghanistan. Due decisioni in particolare sono state rilevanti: l’aumento delle truppe, 17 mila uomini più 4000 addestratori delle forze locali, annunciato personalmente dal Presidente; e il cambio ai vertici delle operazioni Usa nel Paese dei talebani. Di entrambe queste mosse misuriamo in questi giorni gli effetti.

L’invio di altre truppe ha inserito un importante nuovo elemento dentro le relazioni fra Usa e Nato: come si è visto anche nei rapporto con gli italiani, Obama ha tradotto l’impegno statunitense in un metro di misura valido anche per le alleanze europee.

L’avvicendamento nella conduzione della guerra ha nel frattempo mutato il profilo del conflitto. Il generale David McKiernan, veterano dell’invasione dell’Iraq, cambiato solo dopo 11 mesi di incarico, è stato sostituito a maggio dal generale McChrystal, un berretto verde che ha passato la maggior parte della carriera nelle forze speciali e nel cui medagliere c’è l’uccisione del braccio destro di Osama Bin Laden, Abu Musab al-Zarqawi. La scelta di quest’uomo, segno di un ripensamento della strategia americana secondo le parole dello stesso Segretario alla Difesa Gates, è stata fatta per eliminare gli indiscriminati bombardamenti dei civili e indirizzare il conflitto verso azioni più mirate, nelle mani di militari più addestrati (fino all’arrivo di McChrystal non c’era nemmeno uno specifico addestramento per l’Afganistan). Il risultato di questo migliore approccio è stato - almeno per il momento - un allargamento e approfondimento del fronte di guerra. Lo hanno constatato anche le truppe italiane negli ultimi mesi.

La storia della guerra in Afghanistan tuttavia non si ferma qui. Le elezioni non sono viste come risolutrici da Washington. Tant’è che è già pronta una nuova piattaforma di richieste per Obama. Il mese scorso, il 21 luglio, sul tavolo del Presidente è arrivata una lettera delle due più influenti commissioni del Congresso firmata da due nomi eccellenti. Il senatore Joseph Lieberman, presidente della commissione Sicurezza interna, e Carl Levin, presidente della commissione Forze Armate, hanno chiesto a Obama di raddoppiare il numero delle truppe afghane, portandole dal livello attuale di 175 mila a 400 mila. Si sa che il generale McChrystal e Gates sono d’accordo con questa opzione. Che è poi la stessa avanzata in una lettera del 19 maggio a Obama da 17 democratici e repubblicani, fra cui Lieberman e McCain. Il costo di tale operazione sarebbe enorme, soprattutto nell’attuale contingenza economica. E richiederebbe un’ulteriore crescita di personale militare. Ma, dicono i senatori, un approccio «massiccio» oggi è l’unico modo per rimettere al più presto l’Afghanistan sui propri piedi. L’alternativa è la strategia del «passo dopo passo» che porterebbe al rischio di rimanere invischiati in un conflitto sempre più difficile e lungo.

A queste nuove richieste Obama non ha dato risposte. Aspetta anche le elezioni, ovviamente. Ma già il fatto che questi scenari vengano avanzati è un elemento interessante in sé per capire le dinamiche in corso a Washington. Si riconosce infatti in molte di queste tesi l’eco nemmeno così distante di altre discussioni fatte intorno alla guerra in casa democratica: la paura delle sabbie mobili di un approccio troppo timido (Vietnam), l’uso massiccio di addestratori (Centro America), diritti umani (Jugoslavia).

I democratici, insomma, insieme al messaggio diplomatico di apertura e di dialogo hanno ripreso a lavorare alacremente anche a una revisione e a un rafforzamento dell’uso della forza nei rapporti internazionali. Questo lavoro è un obbligo, una forma di saggezza per una classe dirigente che deve misurarsi con l’intero mondo (in questa discussione, ad esempio, il caso Iran lampeggia in fondo al tunnel come un avvertimento). I democratici americani infatti non si sono mai tirati indietro rispetto alla guerra.

Ma questa regola vale anche ora, dopo l’elezione di Obama? Per una di quelle rare, ma non uniche, interconnessioni tipiche della realtà, i seggi di uno dei più deboli Paesi della Terra, l’Afghanistan, ci forniranno indirettamente una risposta anche sulla natura del potere mondiale. Nei prossimi mesi sapremo se Obama diverrà l’ennesimo «riluttante guerriero» della storia moderna americana. O se a un certo punto farà un nuovo strappo, per affermare la sua diversità.

da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Quei baffetti di Hitler anti Barack
Inserito da: Admin - Agosto 24, 2009, 05:47:18 pm
24/8/2009
 
Quei baffetti di Hitler anti Barack
 

LUCIA ANNUNZIATA
 

Il manifesto tarocco di Barack Obama con i baffetti di Hitler è apparso già da alcuni mesi. Condannato, irriso, denunciato.

Eppure, il fantasma del Grande Dittatore non accenna ad andar via da questa vera e propria campagna elettorale innescatasi intorno alla riforma dell’assistenza sanitaria proposta dal Presidente americano.

In stile esercito della salvezza, il manipolo di seguaci dell’ottantaseienne e semidemente Lyndon LaRouche espone Obama-Hitler ogni giorno agli angoli delle strade.

Nelle ormai famose assemblee cittadine il grido di Obama-Hitler è inevitabile. La reintroduzione dell’eutanasia nazista contro i vecchi e i disabili nella riforma di Obama (i «Comitati della morte») è denunciata da eminenti repubblicani, come il senatore Chuck Grassley, che pure è parte della squadra bipartisan al lavoro sul testo della riforma, e la ex governatrice Sarah Palin. Di politiche di eutanasia nazional-autoritarie (ma senza nominare i Nazi) parlano tuttavia anche il democratico ex sindaco di New York Ed Koch e Camille Paglia, la saggista liberal-radical. L’ombra del Grande Dittatore, uscita dalla scatola della storia, semplicemente sembra rifiutare di ritornarvi.

Il fenomeno può essere preso molto o poco sul serio. Vi si può costruire sopra una teoria della cospirazione anti-Obama. O lo si può declassare al livello del solito folklore americano. Entrambe le tentazioni sono presenti nelle parole dei protagonisti della scena di Washington. Ma se si va al di là della cronaca, il richiamo al nazismo nella polemica americana è importante per una diversa ragione: l’evocazione di Hitler in questo Paese non è affatto una novità, è anzi una presenza costante del panorama emotivo-politico.

Non bisogna andare molto indietro nel tempo per ritrovare l’ombra del Führer. Negli anni di Bush il fotomontaggio del presidente in camicia con svastica è stata un’icona della protesta dei democratici e del mondo pacifista. L’ironia dell’odierna inversione di ruoli intorno a Hitler non può sfuggire. D’altra parte, fu proprio Bush a invocare Hitler per spiegare la natura di Saddam Hussein e la necessità della guerra in Iraq. Il capo del Terzo Reich è anche l’ispiratore di uno dei gruppi terroristi americani di maggiore pericolosità e continuità - i White Supremacist, alla cui influenza è stato attribuito il maggior attentato terroristico sul suolo americano prima dell’11 settembre, la bomba di Oklahoma City del 1995, in cui morirono 168 persone. Ancora più indietro: la simpatia del patriarca Kennedy per il fondatore della nuova Germania venne spesso usata per attaccare il presidente Kennedy.

Insomma, c’è un Hitler quasi per ogni stagione Usa. E proprio questa ubiquità del nazismo è un elemento rivelatore della formazione politica americana e della sua memoria. Perché questa permanenza? Perché proprio Hitler, e non - in un Paese così anticomunista - Stalin, i cui baffi, dopotutto, avrebbero forse fatto su Obama, accusato di essere un criptosocialista, miglior figura?

La prima risposta a questi interrogativi è molto facile: la lotta al nazismo è stato l’avvenimento definitorio del «Secolo americano». Un paese nato contro ogni intervento e interventismo europeo, in nome della fine di qualunque ingerenza imperialistica nei confronti della libertà dei popoli, trovò nell’opposizione al nazismo la forza e la ragione per intervenire in un conflitto mondiale e, alla fine, per reinventarsi come superpotenza. Includendo, in questo processo, la grande influenza intellettuale ebraica nella formazione dell’arena pubblica Usa.

Il nazismo come Male supremo è l’epitome della politica nella coscienza comune americana. Il brillante lavoro di Charlie Chaplin sul Grande Dittatore è forse il miglior testimonial di questo tipo di sensibilità. Tuttavia, questa onnipresente figura di Hitler non è sempre la stessa. In varie epoche e nelle varie polemiche il Male simbolizzato dal nazismo si presenta in forme diverse. Seguirne le diverse versioni diventa così un’utile mappa per capire cosa cova sotto le ceneri dei malumori di ieri e di oggi.

L’esempio da cui partire è proprio quello di cui abbiamo già parlato, cioè l’uso fattone, in questi ultimi anni, alternativamente, da democratici e repubblicani, contro Bush e contro Obama. Stesso Hitler, significati diversi.

Prendiamo un documento circolato molto nel 2004 , stilato dal professor Edward Jayne, ex attivista degli Anni Sessanta, in cui si elencavano ben 31 somiglianze fra Bush e Hitler. Il cuore del parallelismo era la guerra. «Come Hitler, Bush ha usato un pubblico disastro per tagliare le libertà civili: nel caso di Hitler fu l’incendio del Reichstag, nel caso di Bush l’11 settembre»; «Come Hitler, Bush è ossessionato dalla visione di un conflitto fra il Bene (il patriottismo Usa) e il Male (l’antiamericanismo)»; e, come Hitler, Bush «ha usato il meccanismo delle guerre “preventive”». Il razzismo si rivela alla fine la vera base di queste identiche concezioni: la distorsione del darwinismo, «nel caso di Hitler trattando la razza ariana come superiore su base evoluzionista, nel caso di Bush rifiutandone la scienza a favore di un creazionismo fondamentalista».

Per un Hitler perfetto da usare contro Bush, abbiamo oggi un altro Hitler la cui evocazione ci spiega i sentimenti profondi che albergano contro Obama in una parte della popolazione americana. L’equivalente del manifesto citato è un sito collettivo, «America vs Obama», e si intitola «Obama the black Hitler». L’Hitler che si evoca per il presidente attuale è quello che arriva al potere tramite la manipolazione delle emozioni, della verità e dei media. Queste alcune delle citazioni del Reich valide per Obama: «Solo colui che conquista i giovani ha in mano il futuro», «Io uso le emozioni per le masse e riservo la ragione per pochi», «Di’ una bugia, una bugia grande, continua a ripeterla, e alla fine ti crederanno».

Obama e Hitler, in questa interpretazione, condividono una visione dello Stato collettivista e autoritaria: «La salvezza individuale dipende dalla salvezza collettiva». Condividono dettagli della loro vita: «Hitler era vegetariano, pro aborto, un promotore dell’assistenza medica universale». Condividono la frode sulle loro origini miste: «Hitler aveva sangue ebreo, e Obama sangue arabo».

Ma alla fine, anche questa volta, è il razzismo che cementa le somiglianze: in questo caso, il comune odio contro gli ebrei. A Obama viene attribuito «l’arrivo di un secondo Olocausto», quello dell’Iran contro Israele, e una politica di «eliminazione degli indesiderabili». Dall’autoritarismo al dominio dello Stato, fino alla riforma medica, tutto alla fine si tiene. Con l’evocazione dell’eutanasia come sigillo finale di un percorso solo apparentemente irrazionale. Rivisitando l’ombra di Hitler, si capisce bene di quali sentimenti si nutra l’attuale tensione di base, dei vari movimenti e delle assemblee cittadine, nei confronti di Obama. E su cui molti rappresentanti repubblicani lavorano.

La prossima domanda è: questa tensione, così radicale nelle sue evocazioni, può anche diventare pericolosa? La traduzione in altre parole di questo interrogativo è se Obama rischia o no la vita - ma nessuno lo dice così direttamente. Questo è lo spettro vero che circola, ma tutti hanno il pudore di non dargli forma. Si evoca dunque Hitler. Metafora che, ogniqualvolta appare sulla scena americana, come abbiamo cercato di dimostrare, è comunque il segno che il termometro della discussione pubblica si alza.

1. Continua

 
da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Kennedy, una famiglia un simbolo
Inserito da: Admin - Agosto 27, 2009, 04:12:13 pm
27/8/2009 - ADDIO A TED. LA MORTE DEL PATRIARCA

Kennedy, una famiglia un simbolo
   
I Kennedy entrarono in politica dando un grande ballo. Le élite di Boston li criticarono, l'America se ne innamorò

LUCIA ANNUNZIATA


Dopo tanti anni, e dopo tanti libri, alla morte di Ted, l’ultimo di loro si può finalmente scrivere che i Kennedy erano dei «burini»? Che burini erano proprio la loro bellezza, le loro foto, la loro estetica, cioè tutto ciò che è stato a lungo chiamato il glamour dei Kennedy? Accettare di sminuire questa famiglia non sarebbe una cattiveria - ma solo, e finalmente, una molto necessaria opera di revisione critica di una rilevante parte della cultura del dopoguerra americano ed europeo. È molto difficile, oggi, giorno delle commemorazioni, scrivere seriamente della famiglia Kennedy. Si può prendere la strada della gloria - e troveremo un percorso lastricato di vittorie, dagli eroismi durante la seconda guerra mondiale, alla lotta contro la discriminazione razziale. Oppure si può percorrere la strada degli errori - e cosa è mancato al lato oscuro dei Kennedy, dalla simpatia del patriarca per Hitler, al fallimento della Baia dei Porci e alla stupidità del coinvolgimento in Vietnam? Si può prendere infine la molto battuta strada della «famiglia reale» americana. Camelot, Jackie, le vacanze e la bellezza. E andrebbe bene ugualmente.

Ma quale sia la verità terrena, inalterabile di questa famiglia, rimane sfuggente, se per verità intendiamo ciò che riguarda le persone separate dal loro mito. Il Mito è infatti il vero problema con i Kennedy. Una famiglia che è ormai una produzione della nostra mente più che della loro vita. Noi occidentali, che li abbiamo usati per rappresentare quello che volevamo essere alla fine della devastante seconda guerra mondiale: una nouvelle vague della politica, degli stili di vita, e dei valori democratici. È così interessante riportare i Kennedy alle loro origini, valutarli attraverso gli occhi di chi li vide muovere i primi passi sulla scena politica del paese. E li valutò come dei semplici «nuovi ricchi», e «cattolici», in aggiunta. Quello sguardo, non molto ricordato nelle agiografie, è stato ben re-illuminato da un articolo del 12 agosto del Washington Post, dunque prima della morte di Ted, in cui il quotidiano ricorda come i Kennedy fecero irruzione nella vita pubblica americana, nel segno di una certa volgarità di modi e di intenti. «Tre giorni prima che John F. Kennedy vincesse la sua prima campagna politica, le primarie democratiche per l’ottavo distretto di Boston, la famiglia Kennedy convocò una grandissima festa all’Hotel Commodore di Cambridge. Inviti su carta pesante, affitto del salone da ballo, abito da sera obbligatorio.

L’idea della grande festa venne subito irrisa dai vecchi politici e le vecchie famiglie di Boston, ma anche da molti consiglieri dello stesso John che pensavano che questo pretenzioso ballo esponesse al ridicolo l’intera famiglia». La cronaca successiva ci racconta che il ballo invece fu un successo, che almeno 1500 signore in abito lungo «anche se affittato» si presentarono e che altre centinaia rimasero fuori sul marciapiedi tanto per farsi vedere. Il ballo, spiega l’autore dell’articolo, segna il momento in cui si rese chiaro che i Kennedy «non solo offrivano alla politica un candidato, ma una sorta di aristocrazia alla cultura pop, di cui anche il cittadino medio poteva sentirsi parte. In una sola serata di glamour la famiglia aveva raccolto intorno a sé le aspirazioni e la immaginazione di una città di immigranti».

Quello che oggi a noi appare come una nouvelle vague della politica e dell’estetica, ha le sue radici in una mimetica riproposizione, una elaborata riappropriazione, in questo senso un po’ volgare, dei riti e valori delle vecchie élite. Questa élite bianca, protestante, richiusa nei propri riti bancari e commerciali cui i Kennedy apparivano straordinariamente esibizionisti e straordinariamente arrampicatori - intenti a sfoggiare una ricchezza di nuovo conio - ma anche straordinariamente sovversivi nella loro vita e idee comunitarie e liberali, ispirate dalle esperienze della recente immigrazione e dai valori cattolici.

I Kennedy, dunque, come classe media che ha avuto successo? Ben lontano dall’essere una diminuizione, una tale definizione ci offre una spiegazione molto più seria di altre della loro ininterrotta popolarità. La loro affermazione è infatti l’affermazione della nuova società contro la vecchia aristocrazia dei Bramini di Boston, il club del Mayflower, il peso dei grandi proprietari terrieri quali i Roosvelt. Una funzione di legittimazione che è stata, questa si, storica. E che ha guadagnato ai Kennedy l’unico vero privilegio che ancora detengono: quello di esser l’unica dinastia politica cui tutto viene perdonato. In questo senso, il miglior complimento che il senatore Ted merita, oggi che muore, è quello di aver meglio rappresentato nel molto bene e nei molti errori fatti, la essenza pura, la più eccellente, la più volgare e la più tragica, della sua famiglia.

da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Usa, il lavoro salva le donne
Inserito da: Admin - Settembre 04, 2009, 07:48:20 pm
4/9/2009
Usa, il lavoro salva le donne
   
LUCIA ANNUNZIATA


Soglia storica, in Usa: le donne hanno quasi superato il numero degli uomini, nel mondo del lavoro. Ma è una maggioranza amara, che segna più il crollo del mercato del lavoro maschile che una vittoria dell’uguaglianza.

E’ un evento, tuttavia, che, pur nel suo chiaroscuro, annuncia un ulteriore cambiamento dei profili personali e legali di un’intera società.

Secondo i dati del Bureau of Labor Statistics relativi al mese di giugno, le donne americane occupano il 49,83 per cento dei 132 milioni dei lavori censiti; la soglia del 50 per cento dovrebbe essere superata a ottobre o novembre, perché alle donne sta andando anche la maggioranza dei nuovi posti creatisi dentro la mini-ripresa in corso. Anche in questo settore dunque il «secolo americano» arriva alla sua piena conclusione; il sorpasso conclude infatti un trend di crescita che dura da circa cento anni ed ha segnato alcuni picchi storici durante la Depressione e poi durante la Seconda Guerra Mondiale.

Il taglio del traguardo ha avuto una sorta di sua celebrazione, del tutto involontaria, in verità, ma ugualmente molto simbolica, proprio in uno dei settori in cui il volto delle donne ha costituito in questo secolo l’elemento trainante, la televisione. Diane Sawyer, una delle prime anchor in Usa, ha raggiunto due giorni fa la agognata direzione/conduzione delle news della prima serata della Abc, portando anche qui a un piccolo sorpasso. Con l’arrivo di Sawyer, dopo Katie Kouric, due delle tre conduzioni rilevanti della rete passano al femminile.

Al di là delle storie di donne celebri, tuttavia, la raggiunta maggioranza nel mondo del lavoro non racconta una storia di vittorie per le donne. La crescita della presenza femminile è figlia di una trasformazione abbastanza radicale del profilo stesso del lavoro dentro la crisi in corso. Le donne sono diventate di più semplicemente perché gli uomini, nell’ultimo anno, hanno subito una vera e propria decimazione. Dal dicembre del 2007 ad oggi in Usa sono stati persi 6,4 milioni di lavori, il 74 per cento dei quali maschili. Inoltre, questi lavori cancellati sono in maggioranza nei settori più produttivi, e sono lavori delle fasce alte. Le donne, che comunque guadagnano il 77 per cento di quello che guadagnano gli uomini e hanno più funzioni part time, sono state tenute perché più «leggere» per il mercato. La natura del lavoro femminile è anche la ragione per cui i nuovi lavori creati nel corso della crisi vanno in maggioranza alle donne. Sono impieghi che nascono dai vari «stimoli» statali, e dunque ruotano più o meno dentro l’area del sistema pubblico, in cui è più funzionale la «flessibilità» (in termini di ore e retribuzione) femminile. In compenso, i lavori di alto profilo con alti salari, parliamo qui di manager, rimangono fermamente a maggioranza maschile.

Comunque sia e qualunque sia la ragione, la soglia attraversata consegna alle donne la staffetta del capofamiglia. Una condizione che inevitabilmente porterà a ridefinire i tempi delle coppie, gli equilibri personali, il concetto di lavoro e famiglia, ma anche il territorio legale. Reversibilità pensionistica, allargamento dell’assistenza sociale, educazione. Sono tutti i campi in cui se ne sentirà l’impatto.

da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - E l'America scopre gli studenti senza casa
Inserito da: Admin - Settembre 07, 2009, 10:45:37 am
7/9/2009

E l'America scopre gli studenti senza casa
   
LUCIA ANNUNZIATA


Una odiosa, ennesima polemica contro Obama segna l’inizio dell’anno scolastico americano. Odiosa per toni ed espressioni. Ma rilevante. Perché svela il nervosismo con cui le famiglie, gli educatori e i legislatori prendono atto che la scuola Usa, uno dei bastioni della forza del paese, riapre i cancelli contando le profonde ferite inferte dalla crisi. Alle radici della polemica, la decisione del Presidente di celebrare l’inizio dell’anno scolastico, data sacra dei rituali familiari, con un discorso agli studenti.

L’intervento di Obama avrà luogo domani, 8 settembre, in Virginia, uno degli Stati di più nobili tradizioni in Usa, sede, assieme al New England, delle più antiche scuole americane, nonché Stato del Sud, fatto la cui rilevanza è ovvia.

Apriti cielo, la destra si è sollevata. Come si permette il Presidente di fare questo intervento? Di che cosa si tratta se non di indottrinamento, o di una ennesima prova che Obama è un cripto-socialista, un dittatore con un profondo culto della personalità come Saddam o come Kim Jong-il? Per quanto esagerate, queste opinioni - lanciate da voci della destra radicale, come Michael Leahy, portavoce della Tea Party Coalition - sono state fatte proprie anche dal quotidiano Washington Times e da esponenti repubblicani importanti, come Jim Greer, presidente del Partito repubblicano in Florida, e Gary Bauer, leader di American Values ed ex sottosegretario all’Educazione con Reagan.

Nelle mire di queste critiche è soprattutto il manuale inviato ai vari istituti per preparare l’intervento di Obama, in cui si chiede a tutti gli studenti di scrivere un tema su «come aiutare il Presidente». Mai, si sottolinea, negli ultimi 19 anni la Casa Bianca aveva preso una simile iniziativa. Quest’ultima è un’osservazione debole, dal momento che l’ultimo Presidente a fare un appello agli studenti 19 anni fa è stato proprio George Bush padre. I discorsi hanno comunque galvanizzato una parte delle scuole: alcune hanno cancellato l’ascolto del discorso, in altri casi gruppi di genitori hanno annunciato che non porteranno in aula i propri figli.

Nell’agitato clima attuale, segnato dalle proteste contro la riforma medica e quelle sull’energia, la tensione intorno alla scuola è in verità apparsa fin qui minore. Fino a ieri. Quando la Casa Bianca ha dato chiare indicazioni della sua preoccupazione per la polemica. Proprio ieri, infatti, il segretario all’Educazione Arne Duncan è andato in tv per rassicurare i genitori: «Il Presidente vuole solo parlare di responsabilità personale e stimolare gli studenti a prendere i loro studi molto seriamente». A calmare ulteriormente gli animi è arrivata l’offerta del Presidente di rendere noto oggi, lunedì, il testo del discorso che pronuncerà domani.

Insomma, una chiara ricerca di distensione da parte dell’Amministrazione. Ma proprio questa prudenza è rivelatrice. Il discorso agli studenti è evidentemente dettato non tanto da una scelta di bandiera, quanto dalla consapevolezza che inizia un anno in cui la scuola americana avvertirà pesantemente le conseguenze della crisi e dovrà affrontare problemi impensabili solo un anno fa. Nei due opposti punti dell’arco scolastico che va dalle maggiori scuole private alle più povere scuole pubbliche, i segni del cambiamento di clima economico sono fin da ora ben visibili. Molte famiglie di classe medio-alta, che tradizionalmente investono sull’educazione dei figli, pur non rinunciando all’investimento oggi cominciano a fare scelte diverse, a mettere in discussione curriculum finora considerati prestigiosi e un livello di debito al di sopra delle proprie capacità, che sarà poi trasferito in futuro ai loro stessi figli.

Esempio di questo nuovo stato d’animo è un interrogativo che è molto circolato sui media: «Val la pena di investire 50 mila dollari l’anno per imparare filosofia e letteratura?». L’impatto di questo dubbio è evidente, se si considera che a fronte dei 50 mila dollari, che sono il costo annuale delle scuole private, l’educazione classica è stata finora considerata il «premium» della distinzione di queste stesse scuole. All’altro capo dello spettro scolastico, la crisi economica che si scarica sulla scuola è quella delle nuove povertà. Non a caso l’edizione di ieri del New York Times è aperta da un articolo dedicato alle migliaia di bambini provenienti da famiglie di nuovi poveri che iniziano l’anno accademico. Secondo Barbara Duffield, direttore delle politiche della National Association for the Education of Homeless Children and Youth, nel 2007 sono stati contati in Usa 679 mila studenti di famiglie senza casa. La scorsa primavera la cifra ha superato il milione.

da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - I dubbiosi non sperino in Barack
Inserito da: Admin - Settembre 18, 2009, 11:54:25 am
18/9/2009

I dubbiosi non sperino in Barack
   
LUCIA ANNUNZIATA


Detto in maniera franca, come è necessario nelle circostanze difficili: se la classe dirigente italiana (tutta, di ogni colore) sull’onda del lutto intende aprire un balletto di dubbi sul come, sul quanto e sul perché della nostra permanenza militare in Afghanistan, sappia che troverà nel presidente Obama un uomo molto meno paziente, molto meno accomodante, insomma un osso molto più duro, di quanto sia stato George W. Bush.

Questo avvertimento è reso necessario dalla consapevolezza di come vanno le cose nel nostro Paese. La presenza militare italiana all’estero è da anni sottoposta al solito andazzo. Quando tutto va bene, ognuno (destra e sinistra) si fregia della «ritrovata capacità di avere un ruolo internazionale». Quando il prezzo di sangue dell’impegno ci viene presentato, tutti cercano invece di sfuggire dalle responsabilità. Iraq, Libano, Afghanistan: in questo rosario di Paesi siamo presenti ormai da tanti anni da poter equamente parlare delle responsabilità di centrodestra e centrosinistra.

Le ragioni di questa oscillazione non sono difficili da riconoscere. Mentre sul piano internazionale è sempre stato chiaro a tutti che non possiamo se non essere parte attiva di una alleanza militare, all’interno del Paese la guerra non è mai stata popolare. Prodi ha dovuto far fronte al pacifismo dentro la sua coalizione, ma anche il centrodestra sa di avere una base elettorale per cui tasse e economia valgono più dell’impegno militare. Siamo dunque abituati, dopo ogni incidente mortale, al «dibattito sulla guerra». Un dibattito francamente stucchevole, proprio perché si è sempre saputo che serviva solo a incanalare le emozioni del momento.

Nella situazione presente, tuttavia, con Obama presidente, l’Italia dovrà stare molto più attenta. Per un’unica ragione. George Bush era il Presidente della guerra - americana, identitaria, necessaria, preventiva. Il conflitto, dopo l’11 settembre, è diventato parte integrante della teoria politica dei repubblicani: Bush l’avrebbe fatta - ed è successo - comunque, su larga scala, e anche senza alleati. Obama è invece un Presidente le cui radici intellettuali sono quelle del rifiuto del conflitto e della fine della guerra come strumento di dominio Usa. Ma in concreto è l’uomo che per la sicurezza ha dovuto impegnarsi in una guerra, per altro molto tesa e incerta come quella in Afghanistan, dai contorni meno definiti e meno rassicuranti di quanto sia stata quella in Iraq. L’impegno di questo Presidente democratico costituisce dunque in sé una potente contraddizione, la differenza fra realtà e promesse della sua politica: l’Afghanistan è per Obama un vero e proprio tallone di Achille. Questo punto debole per ora non duole (o almeno ancora non tanto) in Usa perché ci sono cose che fanno ancora più male dentro il Paese. Ma la contraddizione è lì, e Obama non può permettersi di farla scoppiare. Tanto meno da parte degli alleati.

Per cui: se l’Italia avanza, oggi o domani, anche solo un sospiro di dubbio su come e quanto stare in Afghanistan, può aspettarsi che l’Amministrazione americana respinga bruscamente tutti questi dubbi. Come mai è successo prima. Magari mettendo sul tavolo anche una serie di altre differenze esistenti fra gli Stati Uniti e l’alleato di Roma.

da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Ma Barack ci ama o non ci ama?
Inserito da: Admin - Settembre 21, 2009, 04:07:40 pm
21/9/2009

Ma Barack ci ama o non ci ama?
   
LUCIA ANNUNZIATA


L’elezione di Obama, nonostante i toni di grande riconciliazione, ha inserito una sorta di disagio nelle vene dell’Alleanza atlantica, quale mai sperimentata prima. Con il presidente Bush questi rapporti fra le due sponde erano infatti non idilliaci ma chiari. Con il nuovo inquilino della Casa Bianca, il perfetto contrario: idilliaci ma non chiari. La prevedibilità, la nettezza di posizioni del presidente repubblicano sulla guerra preventiva e la negazione del multilateralismo sono state sostituite dall’amichevolissimo ma illeggibile e per molti versi distaccato rapporto con Obama.

Proprio in questi giorni, due grandi eventi hanno portato a galla l’incertezza. L’accelerazione della guerra in Afghanistan, di cui i morti italiani sono insieme il prodotto e il simbolo; e la cancellazione dello scudo spaziale antirusso, i cui siti sono stati collocati finora in Polonia e in Repubblica Ceca.

Entrambe le circostanze hanno messo in fibrillazione gli europei. Il lutto italiano è solo l’ultimo di una serie che fa ormai parlare i Paesi europei della necessità di rivedere la missione in Afghanistan - ma questi dubbi sbattono contro un’accelerazione dell’impegno in quel Paese decisa dal presidente americano.

Vero è che nel Paese dei Taleban le missioni sono due e separate, quella Nato e quella Usa, per cui tecnicamente gli alleati possono procedere senza necessariamente intersecarsi, ma il raddoppio dei soldati Usa deciso negli ultimi mesi da Obama (nel 2008 erano 32 mila, oggi 62 mila) e il desiderio di ritiro che circola in Europa sono elementi di distanza obiettivi, e creano un ovvio disagio.

Per quel che riguarda l’annullamento dello scudo spaziale antirusso, l’Europa continentale non può che esserne contenta, dopo tanto aver invocato la fine di ogni tentazione di guerra fredda. Ma la cancellazione di ogni difesa antirussa sembra essere andata molto più in là di ogni attesa, e non solo lascia sorpresi gli europei ex occidentali, ma lascia impauriti gli europei ex orientali. La laconica risposta con cui proprio ieri Obama ha cercato di rassicurare tutti noi, più che risolvere i dubbi, è suonata ancora più distaccata: «Bush aveva proprio ragione, questo scudo non è mai stato una minaccia per la Russia. Noi abbiamo preso le decisioni più efficaci per proteggere noi e i nostri alleati. Se poi uno dei risultati di questa decisione è di rendere un po’ meno paranoide la Russia spingendola a fronteggiare con noi la minaccia dei missili dell’Iran, è un risultato in più».

In Italia, va aggiunto, la nuova vicinanza distante con l’America di Obama è stata ulteriormente sottolineata dal molto pubblicizzato cambio dell’ambasciatore Usa nella capitale, Thorne, che, in maniera certo inusuale, ha prima dato un’intervista al Corriere della Sera e poi si è presentato a Palazzo Chigi.

Nasce così, in tutti questi solchi e buche della strada, il dubbio che si sente circolare: e se Obama oggi si sentisse meno vicino all’Europa di quanto (paradosso!) non lo fosse Bush? E se Obama rispettasse di più ma amasse meno questa nuova Europa? La domanda in sé è già un segno dei tempi: l’esistenza stessa del dubbio è una forma di cambiamento. Ma se di diversità si tratta rispetto al passato, forse andrebbe capita non tanto scrutando Obama, quanto noi stessi, europei. Effettivamente, per certi versi il nuovo leader americano è più lontano dall’Europa. Ma il modo e le ragioni non sono parte di una differenza, quanto del significato stesso dell’attuale presidenza. Forse, dunque, siamo noi a non capirlo bene. Obama legge il mondo, inteso come il globo terrestre, con un movimento diverso, strettamente legato ai suoi obiettivi. Davanti a sé ha due compiti storici: salvare l’economia mondiale, per salvare quella del suo Paese, e riaffermare l’egemonia americana.

Entrambe queste sfide le vince o le perde in Asia. Il suo braccio di ferro economico è con la Cina, e le sue guerre di stabilizzazione sono tutte intorno e dentro i Paesi musulmani. Di conseguenza, Obama guarda al mondo ogni mattina, affacciandosi al balcone della Casa Bianca, non più da Ovest a Est, mirando cioè all’altra sponda dell’Atlantico, bensì da Ovest a Ovest, voltato verso il Pacifico, e oltre, la Cina appunto, l’Estremo Oriente, il Medio Oriente. Alle sponde europee arriva solo dopo questo lungo volo di uccello. E prima di arrivare a noi europei dell’Ovest, passa ben prima dalla Turchia e dalla Russia. In questo senso è vero, siamo più lontani di prima dalla Casa Bianca. L’Europa che per anni ha detenuto il centro di quasi tutti gli sviluppi mondiali, insieme con gli Usa, oggi è geograficamente ai margini del centro. Il modo rispettoso ma parallelo a noi con cui l’Amministrazione Usa gestisce tutti i suoi dossier esteri - dall’Afghanistan al petrolio, alle alleanze, alle rogne, come l’Iran - è la prova di questa nuova realtà.

Ma è freddezza? È distacco politico? È un indebolimento dell’Alleanza atlantica? È una sua marginalizzazione? Insomma, Obama ci ama o non ci ama? A tutte queste domande che poi nei vari Paesi rischiano, come in Italia, di ingigantirsi fino a diventare tensioni con gli Usa, la risposta migliore è forse la più semplice: sì, Obama ci ama, ma la geografia purtroppo non è più la stessa.

da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Afghanistan Obama non fa sconti
Inserito da: Admin - Ottobre 02, 2009, 05:37:08 pm
30/9/2009

Afghanistan Obama non fa sconti
   
LUCIA ANNUNZIATA


Bisogna dire che gli Europei hanno una strepitosa capacità di autoingannarsi. O forse solo di sognare. La novità costituita da Obama, dalla sua nuova geografia, dai movimenti con cui sta provando a ridefinire i confini e le alleanze nel mondo continuano a non essere compresi a fondo da questa Europa che, attaccata alle sue passate glorie, pretende, pensa, o è forse solo speranzosa, di essere ancora un partner paritario degli Stati Uniti.

Un ottimo esempio di questa ambiguità è la guerra in Afghanistan, finora trattata da questa parte dell’Atlantico esattamente come le guerre americane precedenti. La guerra di Bush in Iraq, continuiamo l’esempio, venne affrontata da europei ed americani stabilendo una forma di «convergenza parallela» (e noi italiani sappiamo bene di cosa parliamo). Cioè con un accordo di fatto in cui gli Usa facevano la guerra, e gli Europei facevano un po’ di guerra e un po’ di opposizione alla guerra, salvando capra e cavoli degli impegni di governo e del dissenso anti-guerra.

Su questa linea di alleanza e dissenso la Francia ha fatto il successo del suo «Orgoglio nazionale», Tony Blair, con abilità molto curiale, è riuscito a tenere fino all’ultimo minuto del suo incarico. Per quel che riguarda l’ambiguità italiana non dovrebbe essere forse necessario tornarci. E, visto che questo atteggiamento ha funzionato, i capi di Stato europei si sono attrezzati a ripeterlo sull'Afghanistan. Ma, signori, Obama non è Bush, come si ripete da un po’ di tempo. E non lo è soprattutto nel senso che le sue prese di posizione sono ben più definite, assolute, convinte, di quelle del Presidente che lo ha preceduto. Obama pensa che siamo entrati in una irripetibile e decisiva fase del mondo. Crede che c’è uno scopo finale che si gioca a partire dal qui e ora. Un senso, se volete, di missione per se stesso, e per gli Usa. Non ha voglia di giocare a prendere il tè, né di salvare la faccia dei suoi interlocutori con vuoti rituali.

Ed ha ragione. C’e un senso di ultimatum in questi nostri tempi che sembra arrivare dritto al cuore della partita di tutti, l’idea che l’orologio non misura più il tempo del piacere, ma quello del dramma. Economia, risorse, occupazione, guerre. Il nodo della storia si è ingarbugliato di nuovo. In questo spirito, pressato e pressante, Obama si muove, e non fa sconti a nessuno, nemmeno alle esigenze interne, elettorali, o mediatiche dei suoi nemici o alleati.

A Pittsburgh alcuni giorni fa, quando è salito sul palco per richiamare all’ordine l’Iran, aprendo un percorso che potrebbe portare alla prima guerra globale atomica, non si è fatto scrupolo di portare accanto a sé solo gli europei di cui si fida di più: Francia, Inghilterra, e la (solo evocata) Germania. L’Italia, la Spagna, ogni altro Paese della Nato o dell’Unione Europea lasciati fuori, senza timore di ferire o umiliare i vari orgogli nazionali. Obama è in questo senso senza scrupoli. Con questo spirito, incurante se non di quello che considera rilevante, è andato ieri all’essenziale di nuovo sull'Afghanistan con la Nato, dunque gli europei. Tirandoli fuori dalle loro cuccette nazionali. Nel corso dell’incontro ufficiale (dunque nessun ammiccamento, nessuna parola sfuggita tra una stretta di mano e l’altra) con Anders Fogh Rasmussen, attuale capo della Nato, ha ricordato che «l’Afghanistan non è una battaglia americana. Ma anche una missione Nato». Ed ha così chiesto altre truppe anche all’Europa.

Possiamo ora dire di no a questa richiesta? Rasmussen e Obama si sono incontrati per discutere del più recente rapporto sulla situazione in Afghanistan elaborato dalle Armate Usa. Un bilancio molto negativo. La ragione per cui il comandante Usa delle operazioni americane nel Paese dei talebani, Stanley McChrystal, ha chiesto altri 40 mila uomini. Il Presidente Usa nei primi mesi del suo lavoro ha già accettato di raddoppiare il numero di truppe, dai 32 mila di Bush ai 62 mila attuali. La richiesta di 40 mila uomini in più gli è ben più difficile da gestire: se concede infatti altri soldati in Afghanistan dovrà fronteggiare l’accusa dei pacifisti; al contrario se dice di no dovrà affrontare il dissenso dei suoi generali, a partire dalle ventilate dimissioni da parte dello stesso generale McChrystal. Una situazione difficile per il Presidente, soprattutto dopo l’accelerazione dello scontro con l’Iran.

Se gli europei pensavano di poter ancora giocare a nascondino con gli Usa, condividendone le vittorie e distanziandosi dalle sconfitte, questa volta hanno trovato pane per i propri denti. Tramite Rasmussen Washington ci avverte che se l’Afghanistan va male, la responsabilità non è solo sua. Per cui, si muova anche l’Europa. La palla passa ora ai nostri governi. Tocca a loro ora scegliere e decidere se mandare o no altri uomini. Potremo dire di no, allora? Sì, ma stavolta Washington metterà un prezzo su questo rifiuto. Dopotutto, ci ha ricordato Obama, essere alleati è un po’ come essere sposati. Si sta insieme, e insieme significa condividere tutto.

da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Priorità al problema del lavoro
Inserito da: Admin - Ottobre 02, 2009, 06:00:06 pm
25/9/2009


Priorità al problema del lavoro
   
LUCIA ANNUNZIATA


A Londra, in aprile, nell’ultima riunione del G20, preparatoria di quella che si tiene oggi a Pittsburgh, Obama si distinse per l’appello rivolto ai grandi del mondo presenti affinché non cadessero vittime del protezionismo, assecondando gli spiriti animali che scattano in ogni governo di fronte a un crollo economico come l’attuale.

Quell’appello è ancora rilevante per la riunione in corso del G20, che vuole definire le regole per una morale del mercato. Il protezionismo ha infatti una forte valenza etica, essendo - concetto che riprendiamo dal Presidente Usa - la chiusura sui propri singoli interessi, a spese di quelli di tutti gli altri. Ma con un livello di disoccupazione del 9,7 per cento negli Stati Uniti, potrà davvero Obama battersi a Pittsburgh contro l’egoismo delle barriere economiche? È una delle tante domande che alimentano scetticismo sui risultati effettivi del vertice.

Dall’appuntamento londinese di aprile molte cose sono cambiate. Allora la riunione avvenne con l’acqua alla gola. L’incontro di oggi si svolge invece nel segno di una ripresa - sia pur non tale da poter brindare. E proprio l’alto livello di disoccupazione svela la fragilità di questa ripresa.

Il peso e il significato della crisi occupazionale sono stati ratificati mercoledì scorso dalla più autorevole delle fonti, la Fed. Dopo un seminario di due giorni, la Banca centrale americana ha dichiarato che non cambierà i tassi di interesse «per un lungo periodo» (i tassi Usa sono di poco superiori allo zero dal 2008, a stimolo di una economia ancora debole). Una decisione che gli analisti spiegano così: «Ci si aspetta per i prossimi due anni una crescita positiva ma molto lenta, non sufficiente a far abbassare significativamente il livello di disoccupazione - che è poi la vera ragione per cui la Fed sarà molto accomodante nei prossimi anni». La scelta di Obama di mettere nell’agenda del G20 il problema del lavoro è dunque perfettamente comprensibile, quasi obbligata. Ma la sua è anche una mossa propagandistica mirata al sostegno di un settore elettorale per lui decisivo: la classe operaia. Il voto operaio in America è tendenzialmente democratico, ma esposto a oscillazioni. Nel 2004 ad esempio, fu proprio il voto operaio a riversarsi su Bush e a far perdere John Kerry.

Per tenere agganciato questo sostegno, il Presidente negli ultimi mesi non si è risparmiato nulla, incluse operazioni contraddittorie con altri suoi settori di consenso. Solo due settimane fa, subito dopo il discorso al Congresso per rilanciare la riforma dell’assistenza medica, Obama ha fatto uno spettacolare giro a tappe forzate del mondo operaio - dalla Gm alla Convenzione del sindacato Afl Cio. Sfoggiando nell’occasione una retorica anti-Wall Street mai ascoltata prima: «Il settore finanziario preferisce la ricchezza al lavoro, pratica l’egoismo invece che il sacrifico, e l’avarizia invece della responsabilità»; e facendo l’occhiolino alla centralità operaia: «Insieme, con le braccia allacciate, otterremo tutto».

Gli atti e gli impegni sottoscritti a favore di questo mondo sono tanti. Intanto, Obama ha messo in atto un programma di rottamazione (4500 dollari per cambiare macchina) a favore di auto a maggior efficienza energetica. L’intervento ha molto beneficiato la Gm, che produce la Chevrolet Cobalts, favorita dai consumatori. Sulla stessa linea, il Presidente si è impegnato a adottare uno standard nazionale per facilitare la costruzione di auto a risparmio energetico. Ha poi promesso di sostenere l’adozione della legge «Employee Free Choice Act», che dovrebbe rendere possibile la sindacalizzazione di ogni posto di lavoro. Un provvedimento visto come «socialista» da molti.

Obama sembra insomma lavorare a una sorta di patto globale tra Stato e operai, come da anni non si vedeva negli Stati Uniti. A rinsaldare questo patto, la violazione del pur tanto celebrato antiprotezionismo viene fatta senza batter ciglio. Nel mese in corso, ad esempio, è stata imposta una tariffa del 35 per cento sulle ruote importate dalla Cina: su richiesta del sindacato United Steelworkers, e contro le opinioni di molte industrie dello stesso settore. Obama è poi rimasto silenzioso quando il Congresso ha appoggiato la protesta del sindacato dei Teamster, che ha bloccato i camion messicani che portavano generi alimentari negli Usa: una chiara violazione del North American Free Trade Agreement. E a tutt’oggi non si è dichiarato contrario all’idea di una parte dei democratici che chiede l’imposizione di tariffe per gli Stati che non accettano restrizioni sulle emissioni di carbone. Prima di concludere, tuttavia, abbiamo una lancia da spezzare a favore di Obama. Si può certamente affermare che non è il solo ad arrivare alla riunione di oggi con qualche contraddizione. Secondo il Centre for Economic Policy Research in London, dall’ultima riunione «i membri del G20 finora hanno violato il loro impegno contro il protezionismo ogni tre giorni». Prova, ove se ne sentisse ancora il bisogno, che la pressione della disoccupazione al momento è l’unica vera emergenza che abbiamo di fronte.

da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Olimpiadi 2016: vince Rio, Obama al tappeto
Inserito da: Admin - Ottobre 03, 2009, 11:13:05 am
3/10/2009

Olimpiadi 2016: vince Rio, Obama al tappeto
   
LUCIA ANNUNZIATA


Il metodo Obama ha avuto a Copenaghen la sua prima battuta di arresto. Il metodo è quello che ben conosciamo: «Be nice», cioè presentati, offri le tue parole, il tuo carisma, la tua fede, la tua splendida moglie, la tua vita, le tue speranze, e il mondo sarà ai tuoi piedi.

C’è qualcosa di triste, brusco, burbero, ma profondamente reale, nello schiaffone che il Cio ha assestato al Presidente degli Stati Uniti a Copenaghen bocciando (e immediatamente, senza un batter di ciglio) la candidatura di Chicago per le Olimpiadi 2016, per poi dare il proprio voto al Brasile. È una lezione di realismo, sferrata con quei modi da spogliatoio che caratterizza tutte le competizioni del Cio, come ben sa l’Italia. I giudici di quel giro lì sono duri e puri. Nel senso che volano regali, circolano accordi, e per il resto chissenefrega: gli interessi sono tali che quasi sempre, come ripeto ben sa l'Italia, il calcolo fra messe e candele è molto difficile. Ma, proprio perché tutti sanno della durezza della competizione per le Olimpiadi, più acuta è la sorpresa per il no ad Obama, e più imbarazzante è per la Casa Bianca prenderne atto.

Guardandosi indietro, lasciati di stucco dall’eliminazione, è chiaro che nessuno negli Usa aveva anticipato che Barack Obama, il Presidente più seducente e più amato nel mondo di tutti i recenti leaders, sarebbe stato bocciato. Meno di tutti lo avevano capito Obama e sua moglie. Non ci avrebbero certo speso il tempo e le energie che vi hanno dedicato. Ricordiamo che nulla è stato lasciato all’improvvisazione: è stato creato un apposito ufficio presso la Casa Bianca, l’Olympic Office, affidato a Valerie Jarrett, vecchia amica e confidente della coppia presidenziale; per la prima volta una First Lady ha messo la sua faccia sull’evento, e per la prima volta un Presidente Usa si è speso di persona per fare lobby per la propria patria, anzi la propria città, presso il Cio.

È evidente che la Casa Bianca non si sarebbe tanto esposta se non fosse stata almeno ragionevolmente sicura di vincere. Più che una sorpresa, la bocciatura ha avuto infatti a Washington l’eco di una cannonata, scatenando un frenetico attivismo dell’opposizione e delle news che vi hanno subito affondato i denti. Quello di Obama appare così come il primo vero errore di ingenuità su se stesso e le proprie forze. Cosa ha calcolato male? Due elementi. Il primo è geopolitico - termine abusato che possiamo semplificare in questo modo: mai sottovalutare la volontà dei cani da cortile. Il Brasile è lì, nel cuore del continente al Sud degli Stati Uniti, e pulsa, e ha voglia, con le sue riserve energetiche, la sua densità demografica, e la sua volontà, di uscire dal Terzo Mondo, dalla lista dei sottoposti.

L’altro errore è invece solo di Obama - un errore che attiene al suo intimo: la fiducia eccessiva nel suo stesso metodo. Quel «be nice», di cui si parlava prima. La sua certezza quasi ormai inscalfibile, cresciuta nei mesi di campagna elettorale e maturata al sole dell’ammirazione mondiale dopo l’elezione, che gli basti presentarsi alle folle per cambiare le cose. È un sistema che ha funzionato per lungo tempo. Bastava il suo sorriso, le sue bambine, un bacio a Michelle, la sua promessa, e il mondo si apriva. In patria però il metodo comincia a logorarsi - le ore in tv ad esempio non sono bastate a cambiare il voto in commissione del Senato sulla Riforma dell’Assistenza Medica. Da ieri abbiamo la prova che non basta più nemmeno sulla ribalta internazionale. Finché si tratta di Olimpiadi - nonostante la grande quantità di soldi coinvolti - è una sconfitta che si può accettare. Ma il dubbio che lo schiaffo danese diffonde è più insinuante: se il metodo si rivela fragile in una competizione di gomito come quello per le Olimpiadi, reggerà in competizioni a colpi di cannoni come in Palestina, il Caucaso, la Cina, l’Iran?

da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - I giornali e la politica fragile
Inserito da: Admin - Ottobre 14, 2009, 10:27:16 am
14/10/2009

I giornali e la politica fragile
   
LUCIA ANNUNZIATA


Il punto è, ministro Frattini, se davvero la cultura cospiratoria, irrisolta, opaca con cui guardiamo alla nostra storia - che lei indica, nella sua lettera di ieri a questo quotidiano, come la radice di un giornalismo disfattista - non sia poi una cultura condivisa dalla nostra stessa classe dirigente. In altre parole, potremmo leggere l’equazione che lei scrive invertendo le parti.

Potremmo domandarci se una classe di governo che ha bisogno di incitare i propri giornalisti ad essere «positivi» non sia essa stessa la prima ad essere convinta di non potercela fare da sola. Cioè grazie esclusivamente alla chiara e indiscussa forza dei fatti.

Una persona come Lei, ministro, cui va l’apprezzamento di essere uomo profondamente internazionale, sa bene che buona parte della polemica del governo sulle malefatte dei giornalisti italiani vale solo se la si guarda dentro il perimetro delle Alpi. Tutti sappiamo infatti che la tensione fra governi e stampa esiste da sempre, a tutte le latitudini e al di qua di ogni colorazione ideologica.

Ricorderà di sicuro le bordate amiche (oltre che nemiche) sparate contro (e in alcuni casi seguite da affondamento) i vari governi di sinistra degli Anni Novanta. Ben prima del sesso orale nello Studio Ovale, Bill Clinton ha dovuto fronteggiare le accuse dello scandalo Withewater - che approdò dalla stampa a un’inchiesta in Congresso -, le accuse di finanziamenti illeciti, e il sospetto addirittura che insieme ad Hillary avesse avuto parte nel suicidio\/omicidio di un loro strettissimo amico, Vince Foster. Tony Blair ha dovuto leggere sui giornali delle droghe dei suoi figli, delle spese irrituali della moglie, e anche lui subire il sospetto della responsabilità nella strana morte di un professore che avrebbe potuto denunciare le sue bugie nella scelta di andare in guerra in Iraq.

Prodi e D’Alema negli stessi anni sono stati attaccati, a diverso titolo, per le tangenti Telecom, e\/o misfatti bancari. E tutti ricordano che parte di quegli attacchi vennero sferrati loro anche da gruppi come L’Espresso-Repubblica che oggi il premier considera suoi principali nemici.

I tanti scandali sessuali cui abbiamo assistito negli anni, sono forse il meno - per altro, colgo l’occasione per ricordare a tutti che la prima rete della nostra Tv di Stato, la Rai, ha portato in Italia dagli Usa la Monica Lewinsky appositamente per un’intervista, e che l’evento andò in fumo solo perché la stagista all’ultimo minuto abbandonò lo studio in quanto offesa dai titoli della trasmissione.

Gli esempi sono tanti. E li evoco per dire non solo che Silvio Berlusconi non è in una condizione unica, ma anche per ricordare che i governi citati - di «sinistra» ripeto - hanno reagito in parte come il nostro premier fa oggi: dicendo che i giornalisti sono un ostacolo al governare, che i giornalisti si sostituiscono alla politica, anzi che spesso fanno politica, e a volte la fanno anche per conto di altri. Basta un solo esempio, che non a caso scelgo dal mondo anglosassone: Tony Blair, dopo anni trascorsi a sedurre la stampa, nel suo memoriale finalmente confessa che «se solo non ci fossero stati i giornalisti...».

Sbagliano i politici a lamentarsi? No. Hanno ragione nel dire che se non ci fossero i giornali molte cose andrebbero diversamente. Lo sa bene Bill Clinton che nonostante tutto ha visto il suo ruolo storico e quello dei democratici americani appannato dall’affaire Lewinsky. Quell’affaire ha consegnato per otto anni l’America a una destra che ha vinto sottraendo ai liberal il concetto stesso di etica. Se i giornali non avessero parlato allora della Lewinsky in Usa, come oggi della D’Addario, il bilancio di quel governo e della successiva elezione di Bush, sarebbe stato di sicuro un altro. Come vede, ministro, anche senza citare il conflitto di interessi, il caso Italia non è un’eccezione. Potremmo finire qui. Ma val la pena di riprendere, anche, prima di concludere, il suo argomento più specifico. Lei dice: il giornalismo italiano è unico nel senso che è vittima di una sindrome peggiorativa di una malattia tipicamente italica - quella di una visione oscura, opaca, complottista e dunque di negativa autorappresentazione, della nostra storia. Su questo mi trova d’accordo: c’è questa sindrome, in Italia, ed è materia degna anche di grandi rotture politiche.

Un Paese che ha così tanti misteri, trame e scandali, un’Italia che ha più retroscena che scene, è di sicuro un Paese che confessa di essere nelle mani di tanti. Di mafia, potenze straniere, servizi, Opus Dei, massoneria; di tutti, e comunque, eccetto la propria classe dirigente. Una nazione con tale storia, su questo, ripeto, sono d’accordo con lei, non è una democrazia. E’ un Paese prigioniero. Val la pena di combattere dunque, apertamente, il complottismo come interpretazione storica del nostro passato. Ma, con ogni rispetto, questa interpretazione è la stessa cui il governo fa ricorso da sempre e in queste stesse ore, indicando nella stampa lo strumento di poteri forti, interessi oscuri, complotti internazionali.

Con una differenza, però. I giornalisti possono sbagliare, è parte del loro privilegio ma anche delle responsabilità che davanti alla legge si assumono. Ma un governo che si dichiara in battaglia contro forze oscure, confessa solo la propria fragilità.

da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Quel liberal nordista di Marino
Inserito da: Admin - Ottobre 27, 2009, 07:04:27 pm
27/10/2009

Quel liberal nordista di Marino
   
LUCIA ANNUNZIATA


Non solo il terzo risultato, il terzo posto. Piuttosto, l’identificarsi di una voce «liberal» all’interno del voto del centrosinistra di domenica.

Supercittadina, giovane, professionale, nordica. Insomma, un voto tipico del settore della modernità. Non dissimile da quello che in Usa è chiamato urban radical, che anche in elezioni sfortunate come quelle del 2004 ha costituito la roccaforte del consenso democratico, e che nel 2008 è stata una delle basi su cui si è innestato il consenso a Obama. Né lontano da quello della classe media dei nuovi professionisti il cui protagonismo negli Anni Novanta decretò il primo successo di Tony Blair.

Sono, mi rendo conto, affermazioni un po’ audaci, e forse affrettate. Ma in questo caso scomodiamo i «sacri» nomi di Obama e Blair non per incoronare un nuovo leader, ma per cercare di trovare termini di paragone per capire nuove tendenze. E se qualcosa di nuovo è emerso nelle primarie, è proprio il voto per Marino, che non appare affatto come un voto residuale, cioè di chi è finito in coda alla lista dei contendenti, bensì un voto «terzo», come ben appare dalle analisi possibili già ieri sera, su 2 milioni e poco più di schede scrutinate, pari a 7176 sezioni su un totale di circa diecimila.

Bersani ha avuto 1.081.532 preferenze, Franceschini tocca quota 697.759 (34,4%), Marino arriva a 249.784 voti (12,3%). Le schede bianche e nulle sono state 33.807 (1,6%). Bersani supera il 50% in tutte le regioni tranne Friuli, Toscana, Lazio, Sicilia e Valle d’Aosta. In nessuna, comunque, Franceschini risulta vincitore. Solo in Puglia supera di poco il 40%. La lista Marino che poi, forse, alla fine dello spoglio si assesterà - dicono gli analisti - intorno all’11 per cento nazionale, non solo ottiene più del previsto, ma in alcuni luoghi fa dei veri e propri exploit , quali il 16,55% in Liguria, il 17,88 in Piemonte e il 18,28 in Lazio.

La localizzazione, cioè il dove si è aggregato, è la prima chiave di identità di questo voto. Su «Termometropolitico.it», un sito molto stimato fatto da giovani studiosi di trend elettorali, era possibile ieri guardare sia in numeri che in immagini l’Italia che esce dalle primarie. A differenza degli altri due candidati il cui voto è molto più a macchia di leopardo (in particolare questo vale per Franceschini), il consenso dato a Marino va dal Nord al Sud in perfetta discesa. Insieme alle citate Piemonte e Liguria, il Trentino dà a Marino il 14,52%, il Veneto il 16,78, la Val d’Aosta il 16,80, la Lombardia il 15,74, la Toscana il 13,11% e il Lazio il 18,28 per cento. Da lì il consenso a Marino va giù seguendo la curva del Sud - toccando in Campania il 5,30, in Calabria il 4,30, in Puglia il 7,62. Alcuni di questi risultati al Sud si spiegano con la solidità con cui (nel bene e nel male) gli ex Ds o ex popolari ancora oggi fanno blocco nelle regioni del Sud. Ma non è del tutto vero: se si guarda ad esempio alle città, si vede come Bersani e Marino convivono perfettamente.

Ad esempio proprio a Milano, a Roma, e a Torino, il voto di Bersani che è ampio in tutte le periferie industriali delle città, tende poi a cedere spazio al voto di Marino mano mano che ci si avvicina ai centri storici.

Questo intreccio si ritrova ben rispecchiato nella disamina del voto sulla base dell’età. Scrive «Termometropolitico.it»: «Marino raggiunge o sfiora il 20% tra i giovanissimi, cioè dai 16 ai 24, per poi diminuire fino al 10 per cento scarso ottenuto tra gli elettori di mezza età e gli anziani. Franceschini è forte nell’elettorato giovanile ma debole nelle fasce centrali, per poi risalire leggermente tra gli ultra 65enni. Viceversa, Bersani soffre tra i votanti sotto i 25 anni, dove è scavalcato da Franceschini, e tocca il suo massimo tra i 45 e i 64 anni, cioè una fascia molto rappresentativa per l’elettorato democratico medio; una sua leggera flessione, invece, si registra nei più anziani».

Mettendo insieme tutti questi dati, è dunque evidente che quello di Marino è un elettorato molto diverso da quello che si raccoglie attorno a Bersani, e al quale dunque non sembra aver sottratto granché di consenso. Molte invece le sovrapposizioni, più o meno marginali, con la base di Franceschini, come abbiamo visto nella città e fra i giovanissimi.

Se la piattaforma dei due può spiegare il risultato finale, è evidente che la competizione che è avvenuta fra i due si è giocata sul ricambio, vigorosamente sostenuto da entrambi, e sui temi della laicità, sui quali invece i due si sono distanziati nettamente. Dovendo indicare lo spartiacque fra loro, possiamo con sicurezza indicarlo nel testamento biologico. Uno dei più controversi temi dei mesi recenti, di cui uno, Marino, è diventato il campione, e su cui l’altro, Franceschini, si è trovato a fare il mediatore fra le varie anime cattoliche.

Nel corso delle primarie, l’identità «laica» di Marino si è accentuata con lo scorrere della cronaca. Dalle unioni civili, all’adozione da parte dei single, fino alla battaglia contro l’omofobia, la sua si è definita come la più netta delle posizioni fra le tre in campo, sui temi dei diritti individuali.

Non pare dunque sbagliato dire che la mozione Marino ha aggregato il mondo delle identità e dell’intellighentia giovanile, femminile, urbana. Un mondo «liberal», come si diceva, che pur già essendo dentro il Pd non ha mai visto ben riflesso il proprio atteggiamento nelle tradizioni ex Ds e ex Popolari che vi sono rappresentate.

Non sappiamo - perché non ci sono gli strumenti di analisi - se questo voto ha allargato o no i confini della partecipazione, come sostengono i mariniani. E’ però credibile dire che questo consenso porta dentro il Pd un nuovo pezzo di piattaforma politica quale finora non era mai così distintamente emersa.

Sarà questa una complicazione, ulteriore, nella futura gestione? Possibile. Come anche è però possibile che questo voto «terzo» sia utile a scardinare il confronto a due che spesso ha bloccato il Pd, preso in mezzo fra le sue anime ex comunista e ex cattolica.

da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Voto Usa il fattore non è Barack
Inserito da: Admin - Novembre 05, 2009, 10:14:20 am
5/11/2009

Voto Usa il fattore non è Barack
   
LUCIA ANNUNZIATA


Più che un voto per due Governatori, le elezioni locali americane, appena concluse, sono state una indagine psicologica sullo stato d’animo del Paese.

Il risultato in numeri segna per i Democratici una secca sconfitta in Virginia e New Jersey, con la piccola consolazione della vittoria per un seggio in Congresso nello Stato di New York. Ma i numeri dicono poco: dopotutto, Bill Clinton nella sua prima presidenza perse tutte le midterms, e rivinse le presidenziali.

La misura vera del risultato ha piuttosto a che fare con il cataclisma economico abbattutosi sulla società americana fra il trionfo presidenziale di Obama un anno fa e questo nuovo ricorso alle urne. Cosa ha lasciato nell’anima dei cittadini quel trauma, quanto è rimasto della precedente America, forte e fiduciosa, in quella attuale? Per dirla, insomma, più chiaramente: oggi verrebbe rieletto Obama?

Senza questi dubbi a fare da sfondo, non si capirebbe bene l’attenzione con cui si sono seguite queste ultime elezioni. E in effetti, il risultato, visto da questo punto di vista, accende una luce su almeno tre luoghi essenziali, in cui l’opinione pubblica sta oscillando, dubitando, e forse cambiando di nuovo.

Il primo di questi luoghi è, ovviamente, la percezione del potere presidenziale. Le motivazioni di voto ci aiutano notevolmente a capire questo punto.

Più della metà dei votanti, sia in Virginia sia in New Jersey, ha detto di aver votato sulla base delle preoccupazioni per la situazione economica. I più scontenti si sono rivelati gli indipendenti, cioè i non iscritti a nessuno dei due partiti. Sono loro ad avere mostrato nei mesi passati il maggior timore per il piano di assistenza medica e per la crescita nella spesa pubblica. Questi votanti sono proprio coloro che, nel 2008, hanno dato la maggioranza a Obama: il 59 per cento di loro (contro il 40 per cento) in Virginia, e il 61 per cento (contro il 38 per cento) in New Jersey, votò per il cambio. Gli analisti così leggono il trasferimento di consensi: le difficoltà economiche di un anno fa vennero imputate a Bush, quelle di oggi vengono attribuite pienamente a Obama.

Questa affermazione sembra una banalità, ma non lo è. In campo democratico infatti la retorica del cambiamento che ha dominato le presidenziali non è mai stata mandata in soffitta. Anzi, Obama è ancora oggi rappresentato come il profeta (più che il presente autore) di un cambio, dopo anni di sfacelo di amministrazione Bush. Nella campagna elettorale appena finita i candidati democratici hanno presentato la loro eventuale elezione come la conclusione del ciclo post-Bush aperto dalla vittoria alla Casa Bianca. Lo stesso Obama ha rinforzato questa idea, recandosi molte volte in New Jersey.

Di conseguenza è l’«effetto Obama» l’elemento venuto meno. Lo si vede anche - ed è bruciante per i Democratici - nell’assenza stavolta alle urne di quella quota di voto in più fra i giovani, i neri, i professionisti, che nel 2008 ha permesso l’alzarsi dell’onda. I votanti sotto i 30 sono stati solo il 10 per cento (la metà dello scorso anno); diminuita la partecipazione dei neri, mentre la quota dei «non diplomati» è passata di quasi 30 punti in Virginia e 15 in New Jersey ai repubblicani.

Cosa significhi la scelta di questo elettorato non è chiaro: che questo voto si mobilita solo per Barack? E’ solo perplessità o è già sfiducia? Di sicuro possiamo leggere anche questa assenza come una indicazione che, da Mito, Obama si è già trasformato in Presidente da giudicare come tale.

Ma non è tutto. E non è tutto contro i Democratici quello che si muove negli umori degli elettori.

Dalle urne è uscito anche un verdetto punitivo per i Paperoni di Wall Street. Il democratico sconfitto in New Jersey è Jon S. Corzine, banchiere, che ha fatto la sua fortuna in Goldman Sachs, da dove uscì nel 1999 con 400 milioni di dollari in tasca. Quasi sconfitto è stato anche l’altro Riccone di questa campagna elettorale, il pur popolarissimo Michael Bloomberg. Il sindaco di New York e imprenditore, che per essere rieletto la terza volta al suo incarico ha fatto cambiare le regole del Comune di New York, ed ha speso 90 milioni di dollari in pubblicità, ce l’ha fatta a malapena contro il suo avversario carneade William Thompson Jr. Evidentemente, il crollo di Wall Street ha lasciato una scia profonda nei cuori degli elettori.

Una terza luce è accesa infine anche per i Repubblicani. La vittoria dei Democratici per il seggio al Congresso nel distretto 23 dello Stato di New York è stata una vera bizzarria, frutto di un’abile manovra di Washington (pare ci abbia messo la manina Emanuel Rahm) che ha sfruttato uno scontro interno ai Repubblicani. La candidata scelta dai Repubblicani, Dede Scozzafava, attaccata per le sue posizioni su aborto e diritti civili dall’ala dura del suo partito, si è ritirata dalla corsa ed ha fatto votare il democratico. Una sconfitta esemplare per i Repubblicani, segno dei tempi. La spaccatura fra i conservatori tradizionali, e i duri e puri alla Palin, non ha smesso infatti di lacerare il Grand Old Party. Lo stesso voto andato ai governatori vincenti è profondamente condizionato dai movimenti di base anti-Obama emersi nei mesi scorsi, quali la Tea Party Coalition in Virginia. Un disequilibrio che non sarà facile gestire per i Repubblicani, e che certo gioca a favore dei Democratici.

Questo è quanto. Finora. Ed è passato solo un anno. Ma di movimento velocissimo è anche fatta l’America nuova.

da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Democratici e cristiani
Inserito da: Admin - Novembre 09, 2009, 11:29:38 am
9/11/2009
Democratici e cristiani
   
LUCIA ANNUNZIATA

Il volto e la sapienza parlamentare sono quelli di Nancy Pelosi, Madam Speaker come recita il suo titolo, che lasciando l’aula dopo il voto ha replicato ai complimenti con quello che appare già come il migliore degli understatement della storia parlamentare americana: «Dopo tutto, è stato facile». In realtà non lo è stato affatto. Pelosi ha messo insieme un successo mai ottenuto da nessuno dei suoi predecessori: una maggioranza risicata, ma maggioranza, di 220 contro 215 a favore dell’assistenza medica universale in America.

Ma questa vittoria non sarebbe stata possibile senza un incredibile, inatteso, e fino all’ultimo improbabile accordo con i vescovi della Chiesa cattolica americana. Senza il loro sì molti dei deputati democratici non avrebbero votato a favore.

Dentro questa prima vittoria in Congresso della riforma medica è nascosta dunque una seconda pepita d’oro. L'accordo trovato fra Casa Bianca e Chiesa ha implicazioni ben più profonde della stessa vittoria parlamentare, perché traccia ora una strada maestra nei rapporti fra il presidente Barack Obama e papa Benedetto. Il compromesso trovato dimostra fin dal suo percorso il valore di cambiamento che contiene.

Da parte democratica è stato il capolavoro, come si diceva, di Nancy Pelosi, capo della maggioranza democratica alla Camera. La Pelosi è essa stessa cattolica (sia pur «da caffetteria» come dicono i conservatori), ma anche, da anni, voce preminente a favore dei diritti delle donne e dunque dell’aborto.

Dall’altra parte, c’è stata la Conferenza episcopale che fino alle ultime ore prima del voto ha tenuto il punto, mobilitando le sue parrocchie in tutti gli Usa, perché la riforma non contenesse un indiretto via libera all’aborto fornendogli copertura medica. L’assistenza finanziaria all’interruzione della gravidanza non è punto irrilevante - il maggior numero di aborti si segnala infatti proprio fra le classi più povere. Argomento questo imbracciato, di converso, dalle molte organizzazioni femminili per dimostrare quanto ogni eventuale compromesso su questo emendamento sia punitivo proprio per le donne più esposte.

Che in questo ginepraio di voci, interessi e fedi, si sia alla fine trovata una intesa è quasi un miracolo. Intesa che, da sola, come si diceva, prova non solo la saggezza politica dei democratici, ma anche quanto importante sia per l’amministrazione Obama un accordo con i cattolici.

La prima ragione che ha indotto Obama a trattare - anche mettendo in conto di perdere, come è successo, una parte di elettorato femminile - ha a che fare con la composizione dell’attuale Congresso. I democratici negli Anni 80 e 90 hanno continuato ad eleggere senza problemi rappresentanti con forti opinioni pro aborto. Ma nelle ultime elezioni Obama ha trascinato con sé a Washington una maggioranza così ampia e variegata da non permettere più una posizione coesa sul tema. Semplicemente, i nuovi eletti hanno una base troppo differenziata per poter votare una rottura radicale con la Chiesa.

La Chiesa, appunto. L’altro grande protagonista di questa battaglia. La Chiesa americana, come si sa, ha vedute sociali molto ampie, ed ha appoggiato con entusiasmo Obama. Non era un appoggio scontato. I democratici sono anche in buona parte cattolici, ma questo voto dei fedeli di Roma negli ultimi anni è stato molto oscillante. Proprio nella rielezione del 2004 di Bush, e proprio sul tema dei valori e dell’aborto, passò in massa ai repubblicani. La riconquista di questo settore di elettori è dunque molto preziosa per i democratici di oggi. La Chiesa Usa, a dispetto di tutte le sue traversie - di cui la più famosa sono gli scandali pedofili - e del diminuire dei suoi fedeli, mantiene infatti una grande influenza proprio nelle aree sociali colpite oggi dalla crisi, le zone ex operaie, ed è rilevantissima fra i latini, unico settore di voto che tende a crescere.

Eppure, in questa ricerca di una sintonia fra Casa Bianca e Chiesa cattolica in America c’è qualcosa di più degli stessi interessi nazionali comuni. Obama è molto amato dai vescovi Usa per la sua piattaforma sociale anche a livello internazionale. Questi vescovi, potente forza anche nella politica del Vaticano, sono dunque forti sostenitori di un rapporto speciale fra Roma e Washington. Fra Benedetto e Obama, ragionano, ci sono grandi interessi comuni: la giustizia sociale, l’Africa, il progetto «verde» per il mondo. Ma finora proprio la posizione dei democratici sull’aborto ha impedito ai rapporti fra Roma e Washington di diventare calorosi.

La Chiesa americana, lavorando per un accordo sulla riforma universale senza aborto, ha inteso dunque lavorare anche a far progredire le relazioni fra queste due grandi potenze che sono gli Usa e il Vaticano. La loro collaborazione, sognano i vescovi Usa, può preparare un ulteriore passo avanti per tutto il mondo.

E’ dunque con questo senso di speranza che dobbiamo leggere l’articolo scritto ieri dal settimanale cattolico «America», fondato nel 1909, gestito dai gesuiti, considerato la più influente voce cattolica del Paese. Il titolo è: «Il voto alla Camera: un grande trionfo per la Chiesa», e vi si riafferma il senso di un passaggio storico, di una mediazione trovata su due temi difficili eppure irrinunciabili. E’ stato un trionfo della Chiesa cattolica. Ma anche per una visione del mondo che la Chiesa ha sostenuto spesso da sola, contro l’individualismo radicale della cultura americana. «Il nostro credo che l’assistenza universale sia un diritto, non un privilegio, ha ieri fatto un gigantesco passo avanti. Ieri ha fatto un gigantesco passo avanti anche l’idea che l’opposizione all’aborto sia un principio su cui non sono possibili compromessi».

Come si vede, sono parole chiare, e impegnative. Soprattutto per Obama.

da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Michelle non riscatta Harlem
Inserito da: Admin - Novembre 12, 2009, 10:07:46 am
12/11/2009 - IL CASO

Michelle non riscatta Harlem
   
LUCIA ANNUNZIATA


L’America nera di Obama ha alzato la sua bandiera culturale - ma, come il bilancio del primo anno del Presidente, l’evento ha un ambiguo, doloroso, retrogusto. Come il sapore di una vittoria che non ingrana, o forse solo quello di una schiavitù che è più facile combattere che superare.

Parliamo di Precious, cioè di Claireece Precious Jones, sedicenne, obesa, brutta oltre ogni limite di decenza, analfabeta, e incinta per la seconda volta di suo padre. Claireece Precious Jones è nera. Di più, è una adolescente nera di Harlem.

«Precious», il film del regista Lee Daniels, tratto dal romanzo del 1996 «Push» della poetessa Sapphire, ha scosso le acque morte del dibattito sul «cambio» dentro cui da mesi è rifugiata la cultura americana liberal e di colore, riportandovi dentro il dolore, l’angoscia, lo strazio. Presentato a Cannes, e poi al Sundance Film Festival, «Precious» appena uscito ora in Usa nel grande circuito, ha fatto il pieno di incassi e di elogi. Facendo piangere, soffrire, e, non ultimo, indignare. Nemmeno chi ha girato e sostenuto questo film si aspettava probabilmente tali e tante reazioni.

Nella sua infinita bruttezza, trattata nel film senza pietà alcuna, il grasso flaccido che le circonda il corpo come un animale vivo di una sua vita indipendente, la pelle oleosa del viso gonfio, la ragazza parla a se stessa, anzi parla di se stessa - nel linguaggio spezzettato e quasi incomprensibile dell’underclass nera - come di una esistenza per caso. «A volte vorrei non essere viva. Ma non so come morire. Non so come togliere la spina. E non importa quanto sto male, sento che il mio cuore non si ferma, e i miei occhi si aprono comunque ogni mattina».

Quegli occhi si aprono ogni giorno sui muri disadorni, gli angusti corridoi e scale di un palazzo dove vivono coloro che, come Precious e sua madre, sono in Welfare. Una madre violenta, che non intende aprire i suoi, di occhi, sulle proprie responsabilità e quelle del suo compagno, genitore di sua figlia e dei suoi nipotini. Il primo bimbo di pochi mesi, un piccolo fagotto di coperte, e il secondo che cresce nel grottesco ventre di Precious. E’ un mondo senza uomini. Donne che abusano con il loro rancore le figlie perché sono state esse stesse abusate. Donne che passano la vita gravate dall’inutilità di chi svuota l’oceano con un secchiello. Ma anche donne che si accorgono del male e che cercano una soluzione. Per Precious questa soluzione si presenta alla fine come la possibilità di poter andare in una scuola per casi difficili.

Fin qui la storia, tragica, ma del tutto scontata, tante volte già ripetuta - basta guardare la tv, ad esempio allo show di Tyra Banks con le sue confuse adolescenti. Cosa fa di questo film un caso è dunque proprio la sua qualità e l’impatto che questa qualità riflette del momento della società cui parla.

Il rischio polpettone è dietro l’angolo, e per molti versi è scritto nel progetto stesso: troppo denso di simboli e volti. Il romanzo da cui è tratto, «Push», è esso stesso opera cult di una intellettuale cult della società afroamericana, la poetessa Sapphire, nata Ramona Lofton, attivista dei diritti gay neri, e dello «Slam Poetry», movimento situazionista poetico-politico. Al film partecipano come attrici un gruppo di grandi star. La madre di Precious è ad esempio Monique, e l’assistente sociale è Mariah Carey. La solita Oprah Winfrey si è addossata la distribuzione. L’operazione è nata insomma, come si diceva, con l’intenzione dichiarata di essere un omaggio della cultura afroamericana alla propria storia di redenzione, opportunamente coincidente con un anno dall’elezione di Obama. Nonostante tutto ciò, il film non solo non è un polpettone ma fa male. La differenza fra una operazione ideologica, come era stata forse congegnata, e il risultato, è nelle emozioni crude, senza mediazioni che riempiono lo schermo. Anche le star ne sono divorate, diventando fisicamente irriconoscibili, ridotte a facce anonime di anonime donne nere.

Dentro questa intensità, si nasconde però anche il punto critico dell’operazione, il retrogusto di cui si parlava. Come presi alla sprovvista dalla sincerità, molti si chiedono, nella comunità nera, la cui voce passa nei blog, se questa non è la riproposizione proprio di tutti i cliché del razzismo. E molti, più sottilmente, si domandano invece se tutta questa emozione non sia altro che la prova che il passato non è davvero passato. Se insomma, la realtà non divori la speranza che pure il film vuole fornire.

Le implicazioni di questa ondata di lodi e dubbi sono facili da cogliere. Alla Casa Bianca, yes, abita una donna nera - bella evoluta rispettata. La cultura, quella pop e non, è dominata da star di colore. Mai come ora le donne nere sono simbolo positivo. E mai come ora, va però aggiunto, questa loro forza fa a pugni con tutte quelle rimaste indietro. Tutte le Precious d’America, che, ad esempio, nella cronaca recente hanno preso la forma dei cadaveri decomposti nella casa di un serial killer. Un ex marine (nero) di Cleveland (la storia è ancora sulle pagine dei giornali) che ha ucciso nella sua casa decine di ragazze. I vicini ne avevano spesso sentito gli strilli e spesso il vento diffondeva nel quartiere l’inequivocabile odore di morte. Ma la polizia non ha mai dato seguito alle denunce: per la giustizia americana, ancora oggi, le giovani donne nere non scompaiono, ma si dissolvono nel nulla.

E’ attraverso tali processi di vicinanza e distanza simbolica, che il film è diventato il fenomeno che si avvia ad essere. Una sorta di urlo nella notte. Lo specchio in cui ogni mattina Michelle e le grandi star di colore devono per forza specchiarsi.

da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Così il Muro nascose i morti del Salvador
Inserito da: Admin - Novembre 17, 2009, 10:44:35 am
17/11/2009 - LA STORIA

Così il Muro nascose i morti del Salvador
   
LUCIA ANNUNZIATA


Ignacio Ellacuría non era mai solo, in Salvador. Intellettuale stellare, se per stella si intende una luce che brilla in cielo, alto, bellissimo, il prete gesuita, spagnolo di nascita e cittadino salvadoregno di adozione, non era solo nemmeno il giorno in cui incontrò la morte. Venne ucciso insieme ad altri cinque gesuiti, tutti insegnanti come lui, e due donne delle pulizie. Venti anni fa, esatti. Un dramma passato inosservato, allora come oggi, perché avvenuto all’ombra dalla più grande storia moderna dell’Occidente, la caduta del Muro di Berlino.

Fu un piccolo mondo dunque quello che si accorse (e pianse) della morte di questo pugno di «ordinari santi». Un piccolo mondo che però li ricorda ancora oggi.

Quando il gruppo di uomini armati si presentò alle porte del campus della Uca, la Università Centroamericana fondata dai gesuiti e guidata appunto da Ellacuría, nessuno provò a resistere. Fuggirono tutti. Gli uomini armati appartenevano al battaglione Atlacatl, the Yankee Battalion, il primo addestrato totalmente in Usa e reimpiegato in Salvador nel 1981 agli ordini del colonnello Monterrosa. Gente che aveva sulle mani ancora la polvere da sparo usata per alcuni dei più terrificanti massacri di quella guerra civile che durava dalla fine degli Anni Settanta, tra cui la cancellazione totale del villaggio di El Mozote. Nella operazione alla Uca l’Atlacatl non trovò dunque difficoltà. I soldati entrarono con sicurezza nelle stanze al pianterreno del rettore, lo trovarono con i suoi colleghi professori e due signore delle pulizie, tutti stretti in difesa in un angolo. Li trascinarono fuori, li misero distesi, e li uccisero con colpi di mitra. Quella posizione a pancia in giù era il modus operandi, la firma dell’Atlacatl.

Qualche ora dopo, il sangue degli otto cadaveri era già secco. Il prato su cui riposavano era rigoglioso. La struttura di cemento intorno, in cui aveva sede l’Università, era coperta dal solito cielo limpido, fermo, azzurrissimo e indifferente del Tropico. Ellacuría si distingueva per il pantalone e la camicia kaki, la lunga capigliatura bianca, ora sporca di sangue.

Insieme alla gente del Salvador, piansero davanti a quei cadaveri tanti giornalisti. I gesuiti, Ellacuría, erano sempre stati la voce della civilità in un universo di dolore, gli ospiti sempre pronti a fornire una bibita e una spiegazione. Indomiti, senza paura. Senza di loro il Salvador e una guerra civile dominata da torture e machete non avrebbero forse potuto essere raccontati. Ma il Muro di Berlino cancellò nella sua immensità quelle povere morti, i «santi ordinari» come padre Amando López, che si addormentava davanti alla tv la sera, e padre Juan Ramón Moreno, conosciuto per la estrema noiosità del suo modo di parlare.

Non sfuggì però a Noam Chomsky il valore di quella coincidenza e di quella dimenticanza. «I dissidenti dell'Est Europeo erano stati appoggiati dagli Usa e dal Vaticano, a differenza di ogni altro dissidente in altri posti nel mondo». La vittoria contro i «comunisti» in Europa, divorò dunque e in qualche modo sembrò, a posteriori, giustificare l’assenza di scandalo per le morti di alcuni padri gesuiti sospetti di «comunismo», uccisi mentre Usa e Vaticano guardavano oltre il Muro.

Forse, dunque, il doppio anniversario, la caduta del Muro e quel delitto, vanno oggi riletti insieme. Forse, davvero, fu quello il momento in cui il mondo occidentale cominciò a guardare negli occhi un nemico ben più elusivo e feroce del comunismo in tutte le sue declinazioni. Nel 1990 l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq, apriva la strada a un nuovo conflitto mondiale e a una inedita guerra di religione e di civiltà che avrebbe fatto sembrare antiche tutte le altre guerre ideologiche.

Non dobbiamo dunque, forse, sentirci colpevoli per aver perso di vista quell’America Latina a cui l’Europa dagli Anni Sessanta agli Ottanta dedicò tanta attenzione. Ma in questo anniversario di venti anni, val la pena di cominciare a gettarci un nuovo sguardo.

Il Salvador, dolce Paese di vulcani e colline, venti anni dopo è in preda a una sorta di nemesi storica. I figli di tutti quei campesinos che fuggirono allora la loro terra per andare a crearsi una vita in Usa, sono tornati nel loro Paese e figli della guerra quali sono, hanno creato oggi in Salvador un nuovo inferno. Su circa sette milioni di abitanti le bande criminali contano almeno 30 mila membri. Maras si chiamano, queste street gang che hanno importato la violenza del ghetto di Los Angeles in Centroamerica. 53,3 uccisioni per ogni centomila abitanti. Le estorsioni, gli stupri, gli incendi, i furti non si contano. Oggi il Salvador è al decimo posto fra i Paesi più pericolosi nel mondo.

L’ultima vittima vicina a noi, noi italiani, si chiama William Quijano, ammazzato mentre usciva di casa. Aveva 21 anni, studiava e lavorava come volontario della Comunità di Sant Egidio. Una collaborazione con uomini di religione, che oggi, come venti anni fa, merita ancora una condanna a morte.

da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - La crisi di Obama
Inserito da: Admin - Novembre 27, 2009, 11:50:38 am
27/11/2009

La crisi di Obama
   
LUCIA ANNUNZIATA

È possibile che la presidenza americana stia attraversando una sorta di crisi di identità?
Un abito sbagliato, una cena fuori luogo, un cambiamento di umori, un viaggio deciso all’ultimo minuto, percorsi decisionali tortuosi e annunci finali esitanti. Le ultime settimane hanno mostrato un presidente Obama imprevedibile. Come se procedesse un po’ a tentoni. O, meglio, come se avesse perso in parte quell’inequivocabile senso di direzione che è sempre apparso come una sua seconda pelle.

L’idea di una crisi di identità - concetto molto impolitico, ma narrativamente efficace - nasce da un episodio minore: il tono scelto per la prima cena di Stato, dalla elezione, offerta pochi giorni fa dalla coppia Obama. Questi pranzi sono molto formali e servono a celebrare il Potere attraverso uno smodato uso dello Sfarzo. Gli Obama hanno interpretato l’appuntamento, già di per sé enfatico, con una enfasi che secondo molti è ormai il loro stile.

Gli ospiti, di solito 130, sono lievitati a 400 e per accoglierli si è dovuto costruire un apposito padiglione di vetro e metallo nel giardino della Casa Bianca. Oro il colore della serata. Oro sui bicchieri, i piatti, le tovaglie, le tende, e sul corpo statuario di Michelle, in abito lungo splendente sulla pelle color ebano. Da mozzafiato. E da mozzadenti. L’enorme sfarzo è stato accolto da un cortese silenzio. L’assenza del solito coro di ammirazione ha riempito le orecchie di tutti. A quattro giorni da un discorso con cui si annuncia il raddoppio delle truppe in Afghanistan, in piena emergenza disoccupazione, nel giorno di un Thanksgiving segnato dal calo di consumi, il colore dell'oro è apparso stridente, una ovvia indelicatezza.

Interpretato come frutto di disorientamento più che di arroganza, lo sfortunato pranzo ha fatto tuttavia emergere l’impazienza che si sta accumulando nei confronti del Presidente, per il trascinarsi di troppi rimandi, per il suo persistente evitare di tagliare i nodi, preferendo un percorso che comincia ad apparire bizantino - cioè l’esatto contrario di tutto ciò che ha promesso. Il caso clamoroso di queste esitazioni, come ormai è chiaro a tutti, è quello dell’invio dei soldati in Afghanistan, cui si è arrivati con incertezza, divisioni, e con una soluzione che, come razionalizza Leslie H. Gelb, presidente emerito del Council on Foreign Relations, «è ragionevole ed è il massimo che si poteva attendere visto gli attuali conflitti interni».

Uguale, se non maggiore incertezza viene suggerita dal percorso dell’impegno degli Usa nel vertice convocato fra pochi giorni a Copenhagen sul cambiamento climatico. Come si ricorderà, Obama in campagna elettorale si è impegnato sulle questioni ambientali al punto da aver dichiarato Kyoto un protocollo superato e inefficace, promettendo un accordo mondiale nuovo di zecca. Ancora un mese fa, questa era la linea, e un universo di fiduciosi governi e ambientalisti si preparava a marciare sul Paese della Sirenetta. Poi però sono arrivati il viaggio in Asia di Obama, le resistenze di Cina e India a qualunque «imbragatura» del loro sviluppo, e il Presidente Usa ha soavemente preso atto, derubricando Copenhagen a «una prima tappa» di un nuovo accordo. Ma due giorni fa, nuovo cambio di scena: la Casa Bianca ha annunciato che il presidente Obama andrà al vertice in Danimarca, sulla strada della Svezia dove ritirerà il Nobel per la Pace.

L’inchiostro delle domande su questo nuovo passo non si era asciugato ancora che è arrivato l’annuncio della Cina, la nazione che produce più inquinamento al mondo, che si impegna a tagliare le sue emissioni del 45 per cento (invece che del 40) entro il 2020. Gli esperti dicono che non è granché, come promessa, ma è segno che forse di Copenhagen qualcosa si può salvare. Ma una domanda maliziosa si pone: quando ha saputo Obama della decisione della Cina? Il curioso rincorrersi in poche ore degli annunci da Washington e da Pechino sembrano indicare una troppo perfetta sintonia per non apparire anche una mossa di facciata per salvare la reputazione dei due Paesi.

Il dubbio alla base di tutte queste osservazioni è che nel suo tentativo di tenere tutto insieme, Obama sfumi piuttosto che chiarire il posizionamento che vuole dare a questo Paese.

Un altro elemento di questa confusione è un certo consumarsi della famosa oratoria obamiana, che ogni tanto è ripetitiva o inefficace. E’ il caso del tradizionale discorso di Thanksgiving, pronunciato proprio due giorni fa. Obama ieri è stato breve, secondo tradizione, ma non convincente. Sul suo invito alla concordia sociale (fra coloni e indiani), un tipico «volemose bene» americano, si sono avventati con grande energia osservatori quali E. J. Dione che sul «Washington Post» ha richiamato la forza della prosa di un discorso di Franklin D. Roosevelt pronunciato per il Thanksgiving del 1934, in tempo di uguale crisi: «Il nostro senso di giustizia si è fatto più profondo. Abbiamo oggi tutti noi una comune visione per come far avanzare il benessere e la felicità delle persone, in uno spirito di aiuto reciproco che ci aiuterà a rendere tutto ciò una realtà...».

Vero. A fronte, Obama sembra sussurrare invece che gridare. Ma - e qui finiamo con una domanda, come abbiamo iniziato - se è questione di identità, non occorre forse anche ricordare che Roosevelt era un grande aristocratico, e che Obama è ancora (e solo) il primo Presidente nero mai eletto negli Stati Uniti?

da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Obbligati a finire l'opera
Inserito da: Admin - Dicembre 06, 2009, 11:12:15 am
3/12/2009

Obbligati a finire l'opera
   
LUCIA ANNUNZIATA


Per capire la decisione di Obama sull’Afghanistan val la pena di ripassare alcuni numeri. Nel 2000 i paesi occidentali producevano da soli il 55% della ricchezza mondiale - nel 2025 produrranno il 40%. In quella data, l’Asia ne produrrà il 38%, rispetto all’attuale 24. Un sostanziale pareggio. Demograficamente il rapporto fra Ovest ed Est si può raccontare in maniera ancora più spettacolare: nel 2025 la popolazione di America ed Europa insieme costituirà il 9% di quella mondiale (nel 19° secolo, all’apice della sua influenza, l’Europa da sola rappresentava il 22%, cioè quanto la Cina oggi), mentre l’Asia ospiterà il 50% dei cittadini del mondo. Come dire: in quindici anni una persona su due al mondo sarà asiatica.

Leggendo questi numeri, tratti da uno studio della influente Fondazione Notre Europe, di cui è oggi presidente l’ex ministro del Tesoro Tommaso Padoa-Schioppa, c’è una sola domanda cui rispondere: possono davvero Usa ed Europa non impegnarsi a fondo nella guerra in Afghanistan?

Il legame fra quel conflitto e la velocissima ridefinizione in corso dei rapporti di forza internazionali è forse poco apparente, ma fondamentale.

La guerra afghana non è stata iniziata dall’attuale Presidente americano e sicuramente quando è stata avviata era stata immaginata dall’allora presidente Bush nel contesto dell’attacco dell’11 settembre agli Usa. Ma fin da allora la discesa in campo di Washington aveva sullo sfondo l’Asia, e la Cina in particolare. A fronte della rapida crescita di quell’area del mondo, gli Stati Uniti si sono ritrovati in effetti privi di efficaci strumenti di intervento, proprio nella data che ha fatto da spartiacque fra un secolo e un altro.

La Nato, principale struttura del governo occidentale per quasi mezzo secolo, è stata costruita con in mente la minaccia sovietica della Guerra Fredda. Le alleanze mediorientali, un cesto misto di Israele più un gruppetto di Paesi arabi moderati, sono state tirate su con l’idea che Washington potesse agire, in quella area, via controllo remoto. Cioè tirando i fili da lontano, grazie alle molte leve di aiuti economici, interventi coperti, petrolio e lobbismo. Uno schema di lavoro diplomatico-militare applicato d’altra parte dagli Usa in molte altre aree del mondo, tutte quelle più o meno catalogate «in via di sviluppo».

Strumenti vecchi, dunque, per una visione vecchia del mondo. Mentre ancora in Occidente, guardando ai resti del Muro, ci si gingillava con il concetto di Fine della Storia, la Vecchia Talpa era in effetti già riemersa altrove. Senza farla troppo lunga, dal momento che questa è ormai cronaca sotto gli occhi di tutti, la globalizzazione ha espanso la ricchezza di paesi fino a poco prima «in via di sviluppo», ed ha avviato un capovolgimento in poco più di venti anni del rapporto di forze tra nazioni. La Cina, con il suo grande balzo verso il capitalismo, è stata uno dei motori della globalizzazione, come sappiamo. Si è trascinata dietro l’intera Asia, come sappiamo. Le domande poste da questa crescita hanno direttamente alzato la pressione intorno alle fonti energetiche, al potere di acquisto e alla supremazia produttiva dell’Occidente. In questo senso l’attacco terroristico iniziato contro di noi nel 2001 non è l’inizio delle guerre che oggi sono in corso, ma è il frutto e la rappresentazione del potenziale tellurico che c’è in questo cambiamento di rapporti di forza. Anche questo sappiamo.

Quello che meno sappiamo, da occidentali, da almeno un decennio, è come confrontarci con queste nuove richieste di questi nuovi poteri. Bush, dopo l’emergenza del 2001, ebbe una idea. Discutibile, come è stata, ma sicuramente una idea. Avanzare il fronte della presenza americana. Avanzarlo letteralmente - nel senso, cioè, di creare attraverso le invasioni di alcuni paesi nuove roccaforti di presenza Usa, piantate direttamente nel cuore dei nuovi equilibri. Il controllo dell’Iraq, dell’Afghanistan, del Pakistan, che direttamente o meno gli Usa si ritrovano, aggiunto alla solida alleanza con l’India, forma, se guardiamo alle carte geografiche, una lunga fascia di presidio diretto. Una sorta di cintura Gibaud, che abbraccia i paesi del petrolio, amici e nemici; ma, anche, fa da contenimento, sotto la pancia del Caucaso e della Cina.

Le guerre di Bush sono state molto criticate, e si sono rivelate certo meno efficaci e veloci di quel che il Presidente allora aveva promesso. Ma l’idea del «Contenimento» dell’Asia e della Cina in particolare è di sicuro oggi il punto numero uno dell’agenda mondiale. Contenimento nel senso di espansione di influenza, ma anche, e per ora soprattutto, nel senso di accesso alle fonti di energia. Questo è da dieci anni il nuovo potenziale conflitto nel mondo.

Obama non solo lo ha ereditato, ma rischia addirittura di esserne schiacciato: il ruolo che la Cina ha avuto e può avere nella crisi economica americana è oggi infatti il vero tallone d’Achille del presidente Usa.

Certo, Obama non è Bush. Non crede alla guerra come soluzione unica e finale. È arrivato al potere promettendo rispetto e parità nelle relazioni fra nazioni. Si è impegnato a farlo usando tutti gli strumenti che già conosciamo, e se possibile inventandosene di nuovi. Rapporti bilaterali, allargamento delle organizzazioni internazionali, dialogo fra culture. Ma la sua posizione di trattativa non può che passare anche attraverso la riaffermazione del potere militare del suo paese.

Per questo non può abbandonare l’Afghanistan, per questo non può che impegnarsi in un braccio di ferro con l’Iran, per questo non può che consolidare l’influenza Usa in Iraq - insomma, non può che finire quello che Bush ha iniziato. Nel mondo, come dicevamo, l’Occidente si avvia a essere minoranza. È importante - e questo vale anche per l’Europa - che essere minoranza non significhi anche diventare marginali.

da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Giustizia incerta e sospetta
Inserito da: Admin - Dicembre 07, 2009, 11:19:52 am
7/12/2009

Giustizia incerta e sospetta
   
LUCIA ANNUNZIATA

Il processo ad Amanda Knox diventa affare di Stato. Il capo della diplomazia americana, Hillary Clinton, si è detta ieri disposta a verificare se davvero ci sono, come afferma la senatrice Cantwell, «seri interrogativi sul funzionamento del sistema giudiziario italiano», e se «l’anti-americanismo possa avere inquinato il processo».

Una inusuale presa di posizione, che pone la vicenda Knox nella lista di altri famosi contenziosi legali tra l’Italia e gli Stati Uniti. Con la differenza che le obiezioni al processo di Perugia toccano il nervo più scoperto del nostro dibattito sulla Giustizia, e, indirettamente, sui processi al premier Berlusconi.

Finora, Italia e Stati Uniti si sono scontrati nelle aule di tribunali per casi politici. Nel 1998 si trattò della tragedia del Cermis, venti vittime nella caduta di una funivia abbattuta da un aereo Prowler dei marines. Nel 2007 si trattò di processare il soldato Usa Lozano, che aveva ucciso in Iraq il nostro uomo del Sismi Nicola Calipari. Infine, il più recente, il processo agli uomini della Cia che avevano rapito Abu Omar. Tutti processi politici, appunto, che ruotavano intorno alle rispettive «sovranità» nazionali dei due Paesi.

Nel caso di Amanda, invece, il Dipartimento di Stato si arrogherebbe il diritto di verificare il funzionamento stesso della giustizia italiana, dichiarandosi disposto ad ascoltare coloro che sollevano l’ipotesi - gravissima - che «non esistevano prove sufficienti per spingere una giuria imparziale a concludere oltre ogni ragionevole dubbio che Amanda fosse colpevole». E, dal momento che la giustizia è uno dei metri di misura del funzionamento di una democrazia, il sospetto va dritto al cuore del nostro Paese.

Quello alla Knox è solo l’ultimo di una serie di processi che hanno lasciato la nostra pubblica opinione con l’amaro in bocca dei dubbi. Parliamo del processo ad Annamaria Franzoni per il delitto di suo figlio a Cogne, di quello contro Alberto Stasi per l’uccisione della fidanzata Chiara Poggi, e infine di questo di Perugia. Tre casi celebri, accomunati da elementi simili. Innanzitutto la confusione delle indagini: prove che vengono raccolte, poi cambiate, e mentre il processo è in corso. Coltelli, reggiseni, pigiami, biciclette, zoccoli e computer che entrano ed escono di scena come fondali intercambiabili invece che elementi certi di accusa. Oggetti totemici per il pubblico che, alla fine, mai si sono rivelati prove indiscutibili.

In mancanza di certezze, il processo italiano si è spesso rifugiato nella costruzione di teoremi: il colpevole non è colui che ha indiscutibilmente fatto il male, ma colui che avrebbe potuto o voluto farlo. Nasce qui l’uso e l’abuso dei «profili» psicologici, la depressione non ammessa di Annamaria a Cogne, le ossessioni nascoste di Alberto Stasi, e la violenza da baccanale fatta esplodere da Amanda. Tutti colpevoli in quanto «inclini ad esserlo», invece che indiscutibilmente provati tali dai fatti.

La psicologizzazione del processo tende a mettere sotto giudizio la personalità (e quanto distante è questo giudizio da quello razziale?), e a creare dunque «mostri». Con la conseguenza di sollecitare nel pubblico una risposta emotiva, una divisione radicale, fra difensori e accusatori. Questa tifoseria del pubblico, è forse, in termini sociali, la conseguenza più devastante del malfunzionamento della nostra giustizia.

Fin qui il caso Knox. Ma come non vedere che il fallimento di tanti processi penali getta dubbi anche sui procedimenti «politici»? Un Paese che non riesce a dare giustizia certa a due cittadini comuni, con che autorevolezza saprà mai processare il suo premier? L’attenzione del Dipartimento di Stato va presa con molta serietà dunque. Rischia di esporre agli occhi della comunità internazionale una nostra fragilità di sistema, e aprire una serie di scatole cinesi. Magari anche senza volerlo.

da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Il male inevitabile
Inserito da: Admin - Dicembre 09, 2009, 04:34:40 pm
9/12/2009

Il male inevitabile
   
LUCIA ANNUNZIATA


E’ il rimprovero che più spesso ci viene rivolto, la critica, o l’esortazione, che ci accompagna da sempre. «Voi giornalisti sapete solo vedere e raccontare il male». Se queste parole arrivano però da Sua Santità in persona, occorre ancora una volta - e non sarà l’ultima - spiegarsi. Forse.

Confesso, intanto, di non trovare per nulla assurda o esagerata la reazione contro il male che ogni giorno gronda su di noi dai media.

Per un giornalista, aprire gli occhi al mattino e accendere la tv, e scartare il pacco dei giornali, è il primo gesto, una preparazione rituale della professione, la nostra preghiera laica del mattino, secondo Hegel, che da anni ormai io stessa anticipo con una stretta allo stomaco. Qualcuno, nelle ore che abbiamo rubato al generoso oblio del sonno, è morto, qualcun altro ha provocato danni, qualche maggior pericolo - psicologico, politico, pratico - sta scavando nella nostra vita. La tentazione c’è, di prendere la direzione che sembra indicare il Santo Padre: richiudere gli occhi, mettere da parte giornali, tv e avviarsi a un giorno normale, in cui le cose e i rapporti - senza il rumore di fondo dei media - spiccano come gioielli nelle loro scatole di velluto. Nei rari giorni in cui i media, per feste o per scioperi, non ci sono, la vita appare più tersa, e più vivibile. Per questo, quando tanti ci dicono che il nostro mestiere sta avvelenando il mondo e che noi siamo una banda di cinici, ascolto sempre. Nel mio cuore gli do ragione.

Potremmo dunque assumere questa lezione. E potremmo limitarci a voler sapere e raccontare solo di quel che ci rasserena e di quel che ci lega agli altri uomini, piuttosto che quel che ce ne divide. Potremmo ridurre il male a una breve, accennarne e pudicamente subito ammantarlo di veli. Potremmo invocare per questa pudicizia la preservazione dell’innocenza e della fiducia negli altri. Avremmo, ripeto, ragione e, forse, vivremmo meglio.

Ma sarebbe questa una vita piena? Sarebbe questa una scelta davvero positiva? Su queste domande si inciampa.

Che il male esista non credo ci siano dubbi, neppure dal punto di vista religioso. Non è nei media, non è creato dai media, ma è nella costruzione stessa della realtà. Accantonarlo, non guardarlo negli occhi, non dargli nome e cognome, non è segno di maggiore sensibilità e civiltà. E, purtroppo, ignorarlo non ci restituisce nemmeno un nuovo senso di sicurezza.

I media non sempre hanno funzionato come oggi, con la crudeltà quasi da bisturi di penetrare le cose che oggi hanno acquisito.

Nell’Ottocento i grandi giornali del mondo anglosassone, dove di fatto i media si sono sviluppati seguendo l’onda delle espansioni imperiali, erano ispirati dal cristiano senso del pudore e dalla missione di sostenere l’orgoglio della Nazione. Fu grazie a questa ispirazione che il mondo vittoriano poté a lungo non capire i suoi crimini imperiali. Ma fu sempre grazie alla rottura di quel pudore che quello stesso mondo riuscì a capire e correggere vari errori. Fra questi, le incompetenze di generali che il 25 ottobre del 1854 ordinarono la carica di Balaclava, in Crimea. I dispacci dei comandanti britannici dal fronte, che avevano mandato al massacro inutile una forza di eccellenza, e che si volevano tenere riservati, vennero pubblicati in un’edizione straordinaria della London Gazette il 12 novembre dello stesso 1854. Avremmo potuto dunque sorvolare, o seguire differentemente l’Iraq, l’Afghanistan, i Balcani, l’Iran, o la Cina, o l’Africa?

Ma forse il Santo Padre dice altro. Parla probabilmente del modo con cui parliamo di noi, delle società in cui viviamo. Queste società democratiche, che a volte nei media appaiono troppo aperte, troppo democratiche. Indugiamo troppo sui difetti di chi ci governa, seguiamo troppo la violenza sociale, le volgarità, si dice. Al punto da finire con il non farci credere più a nulla. Ripeto, può essere. E la goduria del lerciume è sicuramente il rischio.

Ma, nella sostanza, non guardare al male significa anche dare mano libera a tutti coloro che esercitano il proprio interesse, coloro che perseguono solo la propria individualità. E cosa è meglio, per tutti noi, sapere o no come si usano i nostri soldi, che rischi corriamo, come vengono educati i nostri figli, come vengono scritte o infrante le regole?

E’ vero, fa male vivere così. Ma girare gli occhi non significa vivere meglio, ma solo diventare delle vittime inconsapevoli. La migliore regola del giornalismo, che alla fine credo vale per tutti, è che una notizia buona per uno è una cattiva per un altro.

da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - La sinistra a un bivio
Inserito da: Admin - Dicembre 14, 2009, 10:14:17 am
14/12/2009

La sinistra a un bivio
   
LUCIA ANNUNZIATA

Il volto insanguinato, sorpreso e spaventato del premier Silvio Berlusconi rimarrà un’icona nella storia di questa Repubblica. Chiunque lo abbia colpito non ha nessuna, e val la pena di ripetere, nessuna giustificazione. Né di quelle che si sono immediatamente sentite: che è stato lui, il premier, ad aizzare la folla, gridando pochi minuti prima «vergogna, vergogna» a chi lo fischiava - come sostiene Di Pietro -, né di quelle che ci potrà offrire la cronaca sullo squilibrio mentale dell’assalitore. Ieri sera a Piazza del Duomo è stata, in ogni caso, passata una soglia.

E’ stato violato il corpo del premier, e qualunque sia l’opinione sulla sua politica, questa violazione costituisce un attacco diretto, fisico, materiale, alla sua carica. In questo senso è un attacco alle istituzioni, e come tale va giudicato: un nuovo strappo dei molti che stanno disfacendo il corpo della Repubblica. In questo senso, è un passo senza ritorno - senza se e senza ma - che anticipa, fa intravedere quanto facilmente l’attuale infiammata situazione possa piegare verso lo scontro fisico.

Del resto è questa la preoccupazione che sembra motivare l’immediato richiamo del Presidente della Repubblica che ha fatto appello a «stroncare ogni impulso e spirale di violenza», usando quelle parole «spirale di violenza» che tante volte abbiamo già sentito negli anni più bui del Paese.

Lo schieramento politico tutto, il governo e l’opposizione, hanno la responsabilità nelle prossime ore di decidere che piega prenderanno ora gli eventi. Al di là della solidarietà, che consideriamo obbligatoria, la vera questione che va ora posta sul tavolo è se davvero la pratica dell’opposizione si sia tramutata in una campagna di odio.

Il premier lo ha sempre sostenuto in questi ultimi mesi e lo ha ripetuto proprio nel comizio milanese. Ora, dopo l’attacco, tutto sembra dargli ragione. Si avvarrà di questa prova per farsi forza nello scontro, per alzare di tono le polemiche, o vi troverà, come lo spavento nei suoi occhi raccontava, una sorta di buona ragione per rasserenare il clima prima che gli avvenimenti comincino a correre? Questa è la scelta che ha di fronte Silvio Berlusconi.

Peggiore è invece la posizione dell’opposizione. Comunque lo si guardi, anche se si dovesse trattare di una persona squilibrata, l’attacco è figlio di un clima di esasperazione dei conflitti? Il centrosinistra si sente in parte responsabile dell’attuale clima, pensa di aver sbagliato qualcosa, o, al contrario, scrollerà le spalle addossando anche questo episodio a Berlusconi, o derubricando l’intero episodio a un dettaglio?

Per l’opposizione, sono domande complicate perché sono già presenti, sia pur in altre forme, nel suo dibattito interno, e già si sono rivelate molto laceranti. Basta ricordare la tensione provocata la settimana scorsa dal semplice rifiuto di Bersani di aderire in forma ufficiale all’anti-Berlusconi day.

Ora che il pericolo di violenza si è materializzato, la discussione su come si combatte il governo dovrebbe invece assumere dei contorni ben più precisi: cambiare molte parole e moduli fin qui usati, rompere con ogni personalizzazione e concentrarsi completamente sugli aspetti politici dello scontro. Saprà o potrà farlo il Pd che già ora è incalzato da un settore politico come quello di Di Pietro, che dell’antiberlusconismo ha fatto la sua unica piattaforma?

Questa è la scelta di fronte a cui si trova il Partito democratico. E tuttavia non è una scelta impossibile. Silvio Berlusconi è oggi un avversario meno forte di quel che lui stesso sostiene. L’aggressore lo ha colpito proprio alla fine di un comizio che tutto è stato meno che un «predellino 2», cioè un rilancio e un rinnovamento della sua leadership. Anzi, il comizio di Milano è apparso soprattutto mirato a rassicurare un elettorato probabilmente confuso dalle tensioni interne.

Il nuovo segretario del Pd, proprio nel rifiuto di aggregarsi al No Berlusconi Day, ha già dato una prima indicazione della identità tutta politica che vuole dare all’organizzazione. Del resto, Bersani e buona parte dell’attuale gruppo dirigente del Partito democratico vengono direttamente dalle file di quel Pci che negli anni bui non temette di stare accanto al suo avversario storico, la Dc, per fermare il terrorismo. Ora non siamo affatto nell’emergenza di allora. Ma, oggi come allora, il perno della politica rimane il principio che la governabilità di un Paese dipende dall’assumersi responsabilità. Anche da parte di chi è all’opposizione.

da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Raffreddare l'amore
Inserito da: Admin - Dicembre 28, 2009, 09:57:48 am
28/12/2009

Raffreddare l'amore
   
LUCIA ANNUNZIATA


Il centro sinistra sembra aver cominciato a ragionare su come raggiungere un diverso clima politico nel Paese, dopo l'attacco al premier. E se ne sta accollando le conseguenze: le cronache politiche sono piene in questi giorni delle tensioni che percorrono l’opposizione su se e come e in che tempi avviare una diversa fase del confronto.

Ma il premier? Cosa sta facendo, a sua volta, il premier, per stabilizzare questo nuovo clima? Non possiamo affrettare, naturalmente, la riflessione di Silvio Berlusconi. Né vogliamo lanciarci in giudizi. Ma la solidarietà e anche la convinzione di dover cambiare molte cose nella politica attuale, non possono diventare esenzione dalle critiche. Per cui, senza alcun intento di lesa maestà, si può forse dire, ora che il premier sembra aver recuperato il suo spirito e il suo ottimismo, che la sua continua riproposizione dell'amore come base della ricostruzione di un clima di concordia nazionale, è un clamoroso rischio se non addirittura un clamoroso errore.

Non parliamo qui del «partito dell'amore», di cui si è già scritto molto. Richiamando Ilona Staller, o l'allucinata descrizione del ministero dell'Amore di George Orwell nel romanzo «1984» («Fra tutti il ministero dell'Amore era quello che incuteva un autentico terrore. Era assolutamente privo di finestre. Accedervi era impossibile, se non per motivi ufficiali, e anche allora solo dopo aver attraversato grovigli di filo spinato, porte d'acciaio e nidi di mitragliatrici ben occultati.

Anche le strade che conducevano ai recinti esterni erano pattugliate da guardie con facce da gorilla, in uniforme nera e armati di lunghi manganelli»). Parliamo di errore, perché evocare l'amore come base della arena istituzionale è operazione esattamente uguale a quella di chi rivendica l'odio come base della lotta politica.

L'odio, si dice, giustamente, va bandito perché è un avvelenatore della vita comune, perché focalizza sulle persone, restringe il campo, premia il dettaglio sulla visione di insieme.

Ma l'amore ha lo stesso potere divisivo, frazionante, assolutista. Quando è stato infatti invocato in politica ha sempre avuto i connotati delle dittature, e del consenso forzato. Che si tratti di regimi su basi ideologiche, o su basi religiose, che si tratti delle dittature del ‘900 o di quelle teocratiche odierne, non abbiamo bisogno di andare molto lontano per ricordarci che il filo fra odio e amore è molto sottile, e che i morti fatti dall'uno e dell'altro sentimento ammontano agli stessi milioni.

Quando si condanna dunque l'odio in politica, non si sta parlando di uno specifico atteggiamento negativo. Si sta in realtà evocando una concezione della politica profondamente diversa. Le ragioni per cui si condanna l'odio è perché l'interesse comune richiede una gestione della cosa pubblica priva - per quel che è possibile - di deviazioni individuali, di personalizzazioni, di un uso del potere piegato alle convinzioni e alle passioni negative di chi in quel momento lo detiene, o di chi lo contesta.

Si invoca dunque una democrazia «raffreddata», in cui la stella polare non sia l'individuo con i suoi dettagli, ma una macchina della compatibilità, una terza entità - che è il bene del Paese - che proprio nel suo distacco dalle passioni dei suoi stessi gestori diventa garanzia di uguaglianza di tutti.

Naturalmente, gli uomini hanno passioni. Naturalmente, non si vive né si può vivere senza avere presente sempre e comunque il proprio particolare. Ma quando si parla di istituzioni, quando si dice di dover prendere una strada che vale per tutti, si indica un processo di «raffreddamento» e persino di «dismissione» di una parte di questi interessi individuali.

Se non ci siamo del tutto sbagliati, quando si parla di un nuovo clima si intende questo.

Il richiamo di Silvio Berlusconi all’amore suona dunque come una sua incomprensione, se non addirittura una sua ostinazione. In maniera diversa, questo richiamo ci sembra riproporre infatti la sua idea di sempre di una democrazia personalizzata. E se la sua idea, al rientro nella vita attiva, è quella di trovare un Paese in cui si stendano ai suoi piedi tappeti rossi, è probabile che si stia preparando per lui una forte delusione.

Come cittadini, il nostro principale diritto non è né all'odio né all'amore, ma a uno Stato che funzioni, che restituisca in beni comuni quello che paghiamo in tasse, e che difenda le diversità, di fede e di opinione, che ciascuno, nella sua individualità, abbraccia. Se poi uno statista vuol farsi amare, basta che eserciti la sua pietas incanalandola nel suo esercizio pubblico.

Non è difficile neppure capire come fare. Basta guardarsi intorno in queste sfortunate feste odierne.

Ci sono molti operai, molti disoccupati, molti sventurati che trascorrono questi giorni di celebrazioni nell'angoscia e nella incertezza. Presentare una solida piattaforma di aiuti a queste parti della nostra società, e farla approvare subito e bene, dandogli una assoluta priorità rispetto alle riforme istituzionali, sarebbe un’ottima iniziativa per avviare un nuovo clima. Un ottimo gesto da statisti. E non sarebbe nemmeno un povero sostituto dell'Amore.

da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Craxi e le strategie sulla giustizia
Inserito da: Admin - Gennaio 08, 2010, 11:03:25 am
8/1/2010

Craxi e le strategie sulla giustizia
   
LUCIA ANNUNZIATA


Si scrive Craxi e si legge Riforme o, viceversa, si scrive Riforme e si legge Craxi. Come preferite. Si può combinarlo in entrambi i modi, ma il risultato è lo stesso - è il nuovo assioma della politica italiana.

Non si spiegherebbe altrimenti la forza con cui il decennale della morte del leader socialista ha fatto irruzione sulla scena politica. Dopo tutto di anniversari ne capitano uno all’anno per ogni evento. Quello che sta succedendo in verità è che il memoriale per Bettino Craxi si è trasformato, de facto, in una convinta, seria e (quasi) aggressiva richiesta di riabilitazione. Una richiesta che prende atto, e si avvantaggia, delle condizioni in cui è entrato il dibattito italiano.

Ci sono intanto una serie di coincidenze, che definiscono il contesto di perfetti rimandi. La prossima settimana, dominata dalle celebrazioni in memoria di Craxi, inizia anche con un vertice a Palazzo Grazioli per decidere la strategia del governo sulla Giustizia. In aula al Senato sono in arrivo sia gli emendamenti al ddl sul processo breve, sia la nuova versione, stavolta di iniziativa parlamentare, del Lodo Alfano in veste costituzionale.

Alla Camera si lavora invece al legittimo impedimento e, dietro le quinte, si discute di immunità parlamentare. Tutti sono passaggi considerati una prova generale per poter decidere o no se procedere con le Riforme.

Coincidenze, certamente. Ma il risultato è sconcertante. Oggi per Berlusconi, come un decennio fa per Bettino Craxi, il rapporto fra giustizia e politica è lo stesso, è irrisolto e - addirittura - ha il volto degli stessi protagonisti.

Non siamo così ingenui da appiattire questi due leader l’uno sull’altro. Politicamente rappresentano esperienze quasi incomparabili: il primo, Craxi, è uno «scardinatore» che rimane dentro il sistema dei partiti; il secondo, Berlusconi, è il fondatore di un sistema anti-partiti. Eppure sulla questione della giustizia fra i due c’è una assoluta continuità.
Sostiene oggi Berlusconi, come ieri Craxi, che i giudici sono strumento di attacco a una leadership politica non gradita. E per il premier di oggi, come per il premier di allora, il tema che si pone è come «difendersi» dallo scontro giudiziario. Entrambi hanno in merito raggiunto le stesse conclusioni: il rifiuto di accettare il processo di una giustizia «ingiusta».
Ma questo parallelismo - dopo tutto noto, e di recente sottolineato dalla stessa Stefania Craxi - non basterebbe da solo a dare all’attuale anniversario di Hammamet la forte carica politica che ha assunto. L’effetto nasce anche dalla evoluzione stessa del quadro in cui ci troviamo.

C’è intanto il nuovo clima post attacco a Berlusconi. La avvertita e condivisa necessità di mettere fine all’odio e agli attacchi personali, si vuole ora estenderla anche ai nemici di ieri.
C’è poi la nuova storia degli ex socialisti. Nel governo attuale la loro componente - a partire da 4 ministri - è tale da poter far dichiarare chiusa, e bene, la crisi nata dalla fine del craxismo. Molti socialisti hanno ritrovato ruolo personale e, in particolare sulla giustizia, hanno riportato le loro opinioni al governo.

Quello che manca loro, per avere una definitiva rivincita, è la riabilitazione del passato. Nell’unica forma concreta possibile: ottenere oggi, via Berlusconi, quel rapporto fra politica e giustizia che Bettino non riuscì invece a ottenere.

Il cortocircuito di tutte queste componenti è perfettamente rappresentato da Fabrizio Cicchitto - uomo di primo piano nella difesa di Berlusconi sulla giustizia, gran sacerdote della memoria di Craxi, e gran sostenitore delle Riforme «a patto che». Un recente episodio, che lo ha visto protagonista, ci ha raccontato quasi teatralmente il grumo di emozioni, guerre vecchie e nuove, e conti aperti che dal passato ritorna sul tavolo oggi: in un violento scontro che, dopo l’attacco a Berlusconi, si è scatenato fra lui, Cicchitto, e Antonio Di Pietro, si parlava di odio, giustizia, riforme ma, appunto, l’eco che è arrivata alle orecchie di tutto era Craxi, Hammamet, Tangentopoli. Come in una macchina del tempo erano infatti ancora lì, ancora gli stessi, con gli stessi argomenti alla mano.

Non sappiamo come intenderà procedere la politica. Ma se la strada è questa, se l’atmosfera rimane così carica, il percorso delle riforme si fa molto difficile.
Dialogare è obbligatorio. Diverso è fare un pacchetto di mischia in cui insieme si devono cambiare leggi, opinioni, e Storia.

Bettino Craxi è sicuramente una parte ancora controversa e da discutere del nostro vicino passato. La sua è una storia che fa ancora male, comunque e chiunque la tocchi. A maggior ragione va affrontata fuori dalla cronaca. E fuori dalla strumentalizzazione politica.
Forse lo chiederebbe lo stesso Craxi.

da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Povertà sangue e voodoo
Inserito da: Admin - Gennaio 14, 2010, 02:26:35 pm
14/1/2010
 
Povertà sangue e voodoo
 
LUCIA ANNUNZIATA
 
Ero lì quando Baby Doc lasciò in stracci e sangue la sua piccola nazione, Haiti. Baby Doc Duvalier, figlio di Papa Doc, François Duvalier, il despota nero di pelle e di cuore, che per anni, indossando i panni del padre della nazione, aveva senza scrupolo ucciso chiunque avesse letto un libro, avesse una lingua, o avesse un soldo.

Lasciando poi il suo regno di sciacallo arricchito a un figlio semi-demente. Papa Doc aveva preso il potere nel 1957 in nome dell’anticolonialismo Usa; Baby Doc, che aspettavamo, lasciava il paese in una notte del 1986, ben 31 anni dopo.

Lo attendeva, a motori accesi, un cargo militare Usa. Baby Doc arrivò preceduto da un corteo di limousine nere, cariche di bagagli Vuitton. Poi arrivò la sua macchina, lui seduto dietro. Michelle sua moglie, la famosa Michelle, la nera dagli occhi verdi, la più bella mezzosangue di Haiti e dei Caraibi, e la più rapace, sedeva invece di fronte. Mentre Baby Doc si copriva il viso, lei fece fermare la macchina, alzò il suo sguardo magnetico verso i flash dei fotografi e con calma tirò una boccata dalla sigaretta.

Nemmeno il rombo del motore dell’aereo riuscì a coprire il rullo di tamburi che riempì la lunga notte dell’isola. Nel buio si svolgeva la caccia ai TonTon Macoutes, le guardie pretoriane dei Duvalier, che negli anni avevano ucciso in notti come quelle gli oppositori, e che ora venivano massacrati con il loro strumento preferito, il machete. Machete, dittatori, tamburi. Era una piccola anticipazione di quello che negli Anni Novanta avremmo poi visto nelle grandi guerre tribali africane. Haiti era infatti Africa allora, lo è sempre stata, lo è ancora oggi: e, come in Africa, una natura incontrollabile ha sempre punito questo pezzo di terra, aggiungendosi, imprevedibile, alle violenze degli uomini.

Fascino, paura, passione, unicità.

Emozioni che Haiti ha sempre suscitato, attirando poeti e scrittori come Graham Greene, creando una scuola di pittura naïf che è la più importante del mondo, mettendo in circolazione nelle vene dell’Occidente il virus dell’Aids passato ai bianchi benestanti del Nord, scesi a godersi a ore i piccoli e le piccole dee degli slums di Port-au-Prince. Emozioni che si spiegano solo per questa anima arcaica e africana dell’isola: il suo essere, nel cuore dell’Occidente, l’isola degli Schiavi che non sono mai riusciti ad affrancarsi.

Emozioni che oggi, di fronte al disastro umanitario, possiamo meglio chiamare mala coscienza. Il dannato circolo di violenze, povertà e distruzione, cui con foga si associa la natura, è un testo scolastico della storia del colonialismo. Quello di Washington, che da un secolo alternativamente manda nell’isola marines e spedizioni di aiuti umanitari - senza mai salvarla -; e quello europeo. Haiti è infatti un neo purulento sul volto di due delle più luminose pagine di storia del nostro mondo: la rivoluzione francese e quella americana.

Nell’isola, colonia francese per eccellenza, le idee di liberté égalité e fraternité furono accolte, celebrate e applicate con entusiasmo uguale a quello della madrepatria. Nel 1790, a meno di un anno dalla rivoluzione in Francia, 350 schiavi la imposero in Haiti. Peccato che la rivoluzionaria Francia fece sapere, nel 1791, che poteva dare diritti agli haitiani liberi, ma non affrancare gli schiavi. Dopo tutto la liberté non è da tutti.

Nasce lì, da quel rifiuto, la vera disgrazia di Haiti. Una schiera di schiavi neri, colti, entusiastici, cresciuti sugli stessi testi illuministi dei loro padroni, non accettò la disparità. Un cocchiere, Toussaint L’Ouverture, divenne leader rivoluzionario, poi generale e infine imperatore (una carriera tutta sullo stile di Napoleone, come si vede) e fece la sua rivoluzione: contro i bianchi francesi. Teste vennero tagliate, sangue fatto scorrere, piantagioni bruciate.

Quella di Haiti è stata la prima rivolta nera del mondo, e il primo Stato di schiavi affrancati. Piantata nel cuore dei Caraibi pieni di neri d'Africa, sotto le coste di Stati Uniti che di schiavi neri vivevano, la rivolta di Toussaint L’Ouverture divenne una minaccia per tutti. Liberò gli schiavi spagnoli dell’altra metà della sua isola, Hispaniola, istigò ribellioni ovunque, nell’America del Nord come del Sud. A un certo punto quattro milioni di schiavi cominciarono a guardare a lui come al loro imperatore. Un’idea inconcepibile, persino per gli uomini cui oggi guardiamo come ai padri della modernità.

Toussaint incrociò il suo destino con Napoleone e Thomas Jefferson: nessuno di loro due ebbe mai dubbi sul trattare questo schiavo come un ribelle da schiacciare. Jefferson non aiutò il generale nero, nemmeno per usarlo contro i francesi; e Napoleone segnò la fine del governo di Haiti imponendo un blocco commerciale, un embargo durato più di un secolo.

Haiti rivoluzionaria venne strozzata così nella culla dalle rivoluzioni moderne - ed è difficile trovare ancora oggi parabola migliore sui limiti delle nostre democrazie.

Gli Usa hanno provato a farsi carico nell’ultimo secolo di questo disastro. Nel 1915 inviarono i marines a imporre l’ordine e una costituzione che era stata preparata dal futuro presidente Franklin Delano Roosevelt. Uno dei primi atti del «riluttante» imperialismo americano. Da allora hanno ingombrato Haiti con soldati, religiosi, organizzazioni umanitarie, dittatori pur di tener lontana l’ombra della rivolta nera, questa volta nella forma del comunismo caraibico. Ma il risultato non è mai cambiato. Haiti è sempre rimasta povertà, sangue, voodoo, predicatori, sesso, liquore, prostituzione, e morte. Ferma nel tempo di una rivoluzione fallita, finita nella autodistruzione.

Chissà se il primo Presidente nero della storia degli Stati Uniti saprà fare occasione della immane tragedia attuale per provare a salvare il salvabile non solo delle vite umane, ma di questa lontana dignità storica.
 
da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - La cattiva coscienza degli Usa
Inserito da: Admin - Gennaio 16, 2010, 11:51:22 am
16/1/2010

La cattiva coscienza degli Usa
   
LUCIA ANNUNZIATA

Un sogno luminoso sembra sorgere dalle macerie di Haiti, il sisma è una drammatica forma di eterogenesi dei fini. Per dimensioni, per miseria, per contrasto, l’orrore in cui sono morti gli ultimi della terra, sembra far scorgere di nuovo all’Occidente un segno morale nelle sue azioni. Guardare nell’abisso e chiedersi se non sia possibile reinventare la storia. Guardare al biforcarsi della strada tra quello che gli uomini possono fare o vogliono fare, tra decisione e passività, tra immaginazione e realtà. In fondo ai due sentieri c’è non solo il futuro di milioni di persone, ma il rispetto per sé stesse delle nostre buone democrazie occidentali.

Di questo parla l’incredibile sforzo umanitario messo in atto dalle nostre nazioni. Stati Uniti innanzitutto - che in queste ore sembrano aver guardato negli occhi il loro ruolo di padri-vessatori-padroni dei Caraibi, assumendosene le responsabilità. Il soccorso ad Haiti di Washington ha assunto dimensioni materiali e intellettuali che non si ricordano a memoria recente. Un ingente stanziamento di soldi e di uomini, benedetto da una promessa che ricalca le parole che Obama di solito riserva al suo Paese: «Voglio parlare direttamente alla gente di Haiti. Non sarete abbandonati, non sarete dimenticati. Nell’ora del vostro più intenso bisogno, l’America è con voi». Un intento firmato da una straordinaria unità politica della leadership americana: accanto a Obama, Hillary Clinton, Biden, ma anche Clinton e Bush.

Impossibile non leggere in questa coreografia, intensità di sforzi e unità di intenti, il disegno che gli Stati Uniti evocano: riprendere in mano la storia - quella fra Haiti e gli Usa - e riscriverla, per il bene di milioni di persone, ma, in definitiva, soprattutto per il bene e l’onore della stessa America.

I torti che Washington ha da farsi perdonare non sono infatti solo quelli delle origini: che la rivoluzione americana sia stata schiavista è ormai un fatto passato. Più dolenti sono invece le colpe maturate dalle amministrazioni Usa negli ultimi venti anni - democratici e repubblicani, Clinton e Bush, uguali. Non a caso i due ex Presidenti sono stati chiamati ad aiutare e non a caso entrambi si sono immediatamente - e umilmente - resi disponibili.

Ci sono ragioni specifiche per cui Haiti non è governabile da due decenni, cioè dalla fine dei 30 anni di dittatura dei Duvalier. Stato senza Stato, frontiere attraversabili con poche centinaia di dollari di corruzione, mano d’opera disperata, hanno fatto di questa isola il maggiore aeroporto illegale per lo smercio del traffico di droga dall’America Latina verso Usa e Europa. Secondo le stime ufficiali del governo americano, il 20 per cento di tutta la droga che arriva in Usa viene spedita attraverso Haiti. È ormai l’unica industria del Paese, dopo la fine del turismo a causa della criminalità. Nel 2003 Haiti è stata poi messa sotto osservazione americana per un secondo tipo di traffico non meno pericoloso: secondo Washington l’isola è la base per entrate clandestine in Usa di potenziali terroristi o immigrati da Paesi a rischio, come Pakistan e Palestina.

Dei due ex Presidenti, forse Bush è quello che porta sulle spalle la responsabilità minore - se minore è il peccato dell’oblio. Che Bush abbia scelto infatti di non focalizzare la sua attenzione politica su questo disastro, mentre gli Usa erano impegnati in Iraq e Medioriente, è stato quasi naturale. Ma è grazie a questa disattenzione che il ciclone del 1998 fu quasi ignorato in America. L’ultima volta che si è sentito parlare di Haiti, nell’epoca di George Bush è stato attraverso un appello dell’Onu nell’aprile del 2003, in cui si chiedeva alla comunità internazionale una donazione di 84 milioni di dollari per combattere la crisi umanitaria del Paese.

E’ Bill Clinton, che invece tentò una politica vera, ad avere la responsabilità del maggiore fallimento. Due giorni fa, nelle prime ore del disastro, è stato proprio un suo collaboratore, David Rothkopf che guidava l’agenzia clintoniana per la ripresa economica di Haiti, a fare pubblicamente autocritica. Nel 1991 venne eletto nelle prime elezioni democratiche del Paese il sacerdote Jean-Bernard Aristide, considerato dai democratici americani come un Mandela dei Caraibi. Ma Aristide provocò il definitivo collasso politico del nuovo Stato. Venne quasi immediatamente deposto, riportato al potere nel 1994 con l’appoggio militare e politico di Clinton; venne di nuovo deposto e di nuovo nel 2001 rimesso in sella. Questo indiscusso appoggio, dice ora David Rothkopf, fu il vero errore: «Alla fine venne fuori che Aristide non era il santo che le commosse star di Hollywood e i giornalisti americani liberal sostenevano». Eppure, continua, «sapevamo, ce lo aveva detto l’intelligence, chi era Aristide, ma abbiamo guardato dall’altra parte». Non fu un errore dovuto a malafede, ma, al contrario, a un’illusione: «Vedemmo Aristide come la possibile affermazione di una politica fondata sulla speranza». Ma il risultato è lo stesso. Per questo Clinton è rimasto impegnato con Haiti. Per questo oggi viene richiamato ad avere un ruolo.

Il fardello di decenni è ora tutto raccolto da Barack Obama, nero lui stesso - e il colore della pelle non è un dettaglio. Se Obama ridesse speranza ad Haiti, salverebbe gli errori del passato, e bilancerebbe forse nel suo cuore, e in quello di molti dei suoi votanti, le decisioni di guerra fatte dagli Usa, e oggi da lui stesso, su altri fronti.

Da Haiti insomma qualcosa può ripartire. La storia forse si può riscrivere. Di questo parlano queste ore. E se Cuba, l’Arcinemica, ha deciso di acconsentire ad aprire agli Yankee i suoi spazi aerei, per facilitare le operazioni di soccorso, forse a questo nuovo inizio gli Usa non sono i soli a pensare.

da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - L'imbarazzo celato per il Pontefice tedesco
Inserito da: Admin - Gennaio 18, 2010, 12:07:23 pm
18/1/2010

L'imbarazzo celato per il Pontefice tedesco
   
LUCIA ANNUNZIATA

Commozione, certo. Impossibile non sentirne. In via Catalana, una delle arterie del Ghetto, la veste bianca del Papa sfiora, dopotutto, le stesse pietre consumate dai passi di tanti uomini e donne che in quei pochi metri quadri sono stati costretti a vivere per secoli, chiusi da altri uomini con la veste bianca, da altri Papi come lui, Benedetto.

Commozione dunque, sì, certo. Ma filtrata, un po’ guastata, dall’imbarazzo. Un sentimento che nasce da ombre nominate ma non allontanate, decisioni prese e non spiegate, memorie onorate ma non risolte. Persino il peso di una tonalità di voce che echeggia a volte più rumorosa delle stesse parole: quel riflesso inconfondibilmente tedesco che risuona nella Sinagoga.

Bisogna essere ebrei per sapere che la memoria del passato ha una eco - quella della musica di un Wagner che accompagnava le giornate dei campi di concentramento, o quella dello stridore di un treno sugli scambi ferroviari, o di un accento, appunto, che da solo, irrimediabilmente, con un riflesso involontario, apre echi di voci che davano ordini, maltrattavano, condannavano. «Siamo cresciuti in una generazione - ricordava ieri Riccardo Pacifici, presidente della Comunità Ebraica, poche ore prima dell’arrivo del Papa - che rifiutava di comprare ogni cosa che fosse stata prodotta in Germania; ci sono persone che per decenni non hanno preso nessun aereo che avrebbe anche solo volato nello spazio aereo tedesco. Oggi non è più così, racconta Pacifici, «ma bisogna sapere che i segni dei traumi e del dolore hanno molte forme, inclusa questa dell’udito».

Non è politicamente corretto dirlo, e nessuno lo ha ufficialmente detto, ma il fatto che un accento tedesco sia risuonato in Sinagoga, è stato ieri una parte vera, palpabile, e drammatica di un grande evento. Un accento che sottolineava la straordinarietà della visita: non è un caso che siano stati un Papa Polacco e un Papa Tedesco i due Capi della Chiesa Cattolica che hanno visitato il Tempio di Roma, il primo nel 1986, il secondo ieri. Che sia toccato a loro chiudere in maniera virtuosa un circuito maledetto nato dentro le loro nazioni di origine è per certi versi la maggiore prova del riscatto oggi degli Ebrei nel loro rapporto con la Chiesa.

Ma se la razionalità trova sempre una strada per farsi comprendere, non così il cuore. Sulla base di questo assunto si può così riassumere l’incontro di ieri: il Ghetto Ebraico ha accolto Papa Benedetto con intensità, e riconoscimento, ma non con facilità.

Nelle strade del piccolo borgo romano, affacciato sul Tevere e sull’Isola Tiberina, la più antica comunità ebraica della storia, che era lì ancora prima dell’Impero Romano, e che oggi vive all’ombra dei colonnati che ne costituivano i Portici, si è molto discusso dell’arrivo del Papa. Il Ghetto è piazza permanente, è una vita comunitaria senza soluzioni, dall’apertura dei negozi la mattina presto, al caffè prima del lavoro, fino a sera, con le sedie messe sui marciapiedi. In questi capannelli - rumorosi, per altro, perché gli ebrei di Roma amano parlare ad alta voce come tutti i romani - l’opinione su Benedetto XVI non è definita. Dal Papa espansivo che venne qui 24 anni fa e gridò abbracciando tutti che «gli Ebrei sono i nostri fratelli maggiori» sfondando gli ultimi muri psicologici del Ghetto, a questo Papa: la connessione in fondo non è mai stata ben fissata.

Per la prima volta, tuttavia, i dubbi degli Ebrei su un leader cristiano sono stati espressi e si sono sentiti con chiarezza, e hanno diviso una comunità che comunque, per un vecchio riflesso di autodifesa, alla fine fa sempre fronte comune. Le critiche pubbliche come quelle del rabbino Laras, di Milano, o di intellettuali come Luzzatto, sono state solo la punta dell’iceberg pubblico. A Roma, principale comunità italiana, influente per numero e centralità, si sono ascoltate nelle mattine nei bar e nelle sere in rosticcerie, le voci di chi, fino all’ultimo, non era convinto. Come quella di Terracina, un vecchio rispettato, amatissimo, sopravvissuto all’Olocausto, che ha detto (con espressione molto romana) «piuttosto sto a guardarmi la partita».

Chi è Benedetto XVI? Cosa davvero pensa di Lefebvre, cosa pensa davvero di Pio XII? Pio XII che ha taciuto, e la cui ombra si aggira sempre sulle bocche di tutti, qui al Ghetto, esattamente come il silenzio in cui il Pontefice si tenne chiuso allora mentre deportavano gli ebrei di Roma. Anche in questo, bisogna essere ebrei per sapere quanto quel silenzio ancora conti.

Alla fine, è prevalsa la gioia per un altro incontro con il Papa. L’orgoglio di potere esporre, aperto, e rivestito di fiori e frutta, il proprio Tempio, i propri rabbini, i propri ospiti, per accogliere il Capo della Chiesa cattolica, ha alla fine, ieri, gonfiato le stradine del quartiere. Ma qualcosa è rimasto, al fondo, di non detto. Qualcosa di non convincente. Come un affidamento non maturato. O un sospetto mai sedato.

Ma forse è meglio così. Esprimere apertamente dubbi, fare critiche, farsi domande, e non ricoprire ogni cerimonia della melassa della celebrazione a ogni costo, è prova di trasparenza, realismo, dunque di onestà.

La visita fatta ieri al Tempio da parte dell’attuale Pontefice non si ricorderà dunque come gloriosa, ma è possibile, che, proprio per questo, sia una tappa per grandi risultati.

da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - No, disastro nei soccorsi
Inserito da: Admin - Gennaio 28, 2010, 08:42:10 pm
27/1/2010

No, disastro nei soccorsi
   
LUCIA ANNUNZIATA

E’ vero: gli Stati Uniti sono la nazione che più si è impegnata a fornire aiuti ad Haiti. Ma il fatto che siano i maggiori protagonisti dell’operazione, vuol dire anche che fanno tutto bene? Le parole di Bertolaso, capo della Protezione civile italiana, rappresentante cioè di un governo «amico», hanno causato una reazione del tutto spropositata.

A meno che non vi si legga il monito che nessuno può criticare gli Usa. Cosa ha detto, dopo tutto, Bertolaso? Che gli aiuti ci sono, ma che non arrivano alla popolazione in fretta, come dovrebbero arrivare. Ha detto che gli Americani hanno una grande struttura militare, che però non è adatta a gestire una emergenza post disastro.

La domanda è: le affermazioni di Bertolaso sono false? Non è forse quello che tutti i nostri inviati scrivono e ci fanno vedere da Haiti tutti i giorni? E’ forse normalizzata Port-au-Prince? Avete visto da qualche parte tendopoli? E’ normale che quindici giorni dopo il sisma la principale piazza della città - non un piccolo quartiere nel dedalo delle viuzze - ospiti una massa di migliaia di persone senza tende e senza regolare distribuzione di acqua e cibo? Sono invenzioni di Bertolaso le critiche di Sarkozy, il collasso del governo locale, e quello delle Nazioni Unite? E sarà un caso che le sue parole siano state ampiamente riprese anche da altri media internazionali, specie quelli inglesi? Se queste affermazioni hanno avuto tale eco, non è certo per la importanza del personaggio (ci perdoni Bertolaso), ma forse perché hanno toccato un nervo scoperto.

Sì, è vero che anche l’Europa sta facendo poco e male (baronessa Ashton, se ci sei batti un colpo!) e che molte critiche dovremmo farle anche a noi stessi. Ma gli Usa sono ad Haiti in maniera così massiccia non perché sono più bravi degli Europei, ma perché da un secolo sono il vero governo dell’isola. Dal 1915, anno del primo sbarco di marines sull’isola, fino ad oggi, Haiti è di fatto un protettorato americano. Ed è proprio nella consapevolezza di questa storia che Obama si è mosso (parole sue). Tra i presidenti Usa che si sono molto occupati di Haiti c’è anche Bill Clinton. Un impegno - anche quello - generosissimo, ma non necessariamente con successo: se si va a consultare Foreign Policy si potrà leggere l’autocritica su quegli anni scritta da David Rothkopf, l’uomo che guidava la agenzia clintoniana per la ripresa economica di Haiti. Oggi Clinton ha avuto da Obama l’incarico di seguire l’emergenza Haiti. Purtroppo è innegabile che ci sia andato una sola volta.

Indicare oggi dunque alcune mancanze di questo intervento non significa svilirne la generosità, ma capirne la complessità. A proposito: Clinton è anche marito di Hillary Clinton. Siamo certi che un segretario di Stato americano è al di sopra di ogni sospetto - ma non credo di sbagliare se dico che se si fosse trattato di un caso italiano avremmo indicato in questo intreccio un conflitto di interessi.

da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - I leader parlano solo per il consenso
Inserito da: Admin - Febbraio 05, 2010, 12:13:13 pm
5/2/2010

I leader parlano solo per il consenso
   
LUCIA ANNUNZIATA

Il problema, con la leadership carismatica, è che diventa come un blog su Internet: ha bisogno di essere alimentata continuamente.
Il rapporto fra la persona e il suo magico consenso deve essere tenuto in vita con gesti, fatti, eventi, con un continuo climax in cui converge ogni momento la riaffermazione o la caduta di una proposta politica.

Sarà per questo che le relazioni internazionali, una volta reame di passi felpati e voci sussurrate, sembrano aver preso la strada dello strappo, dell’annuncio, e del grido. Con il risultato che raramente come in questi ultimi mesi viviamo come in una caverna che risuona di voci discordanti. Una cacofonia che rende quasi incomprensibili molti passaggi cui stiamo assistendo.

Ancora una volta il fenomeno è trainato dagli Stati Uniti. Negli ultimi mesi il Presidente Obama ha fatto una serie di scarti che hanno lasciato del tutto sorpresi - soprattutto per la sequenza in cui sono stati intrapresi.

L’esempio migliore è quello della Cina. Non avevamo fatto in tempo a sprecare parole sulla nascita del G2, questa quasi inevitabile alleanza tra le maggiori potenze attuali, Cina e Usa, che il G2 si è frantumato. Tutti i primi passi della nuova amministrazione di Washington sono stati segnati dal riconoscimento di fatto di questa inevitabilità: i primi passi del segretario di Stato Hillary Clinton sono partiti non a caso dalla Cina, e non dall’Europa, come tradizione.

Quando lo stesso presidente si è poi recato in Cina, pochi mesi fa, alla nascita del G2 Washington ha sacrificato le questioni del diritti umani, del Tibet, e della libertà individuale nell’ex Paese di Mao. Alla Cina sembrava tenere così tanto, Obama, che in dicembre ha inghiottito con grazia anche la mazzata sferrata da Pechino sul summit ecologista di Copenhagen.

Pragmatismo, realismo - Obama si è preso le sue brave lodi su queste decisioni; forse non dagli appassionati delle varie cause, ma dall’establishment mondiale di sicuro.

Solo un mese dopo l’amministrazione si è spostata sul versante esattamente opposto alla conciliazione. Hillary Clinton ha preso posizione contro la censura a Google, poi c’è stato l’annuncio della vendita delle armi a Taiwan e, ora, quello dell’incontro fra il presidente Usa e il Dalai Lama. Praticamente tre dita negli occhi della dirigenza cinese.

Ma ci sono altri casi clamorosi: quello dell’Iran è certamente il più drammatico. Washington ha tenuto una linea erratica: richiesta di sanzioni dure, richiami energici a tutti i partner (e gli alleati italiani ne sanno qualcosa di questa bruschezza di modi washingtoniani in merito all’Iran), alternata ad aperture a possibili trattative; difesa dell’opposizione iraniana nelle strade, seguita dal silenzio più totale mentre dall’Iran arrivano come uno stillicidio i numeri degli oppositori arrestati, impiccati, fucilati.

Dall’altra parte, va detto che l’oscillazione Usa ha attecchito in tutte le nazioni. Teheran negli ultimi giorni ci ha fatto sapere alternativamente di essere disposta a inviare l’uranio per l’arricchimento all’estero (posizione minima per una trattativa), ma anche che ha sperimentato un nuovo missile, e che Israele sarà cancellata dalla faccia della Terra. La Cina ha risposto al duro «nuovo Muro di Berlino» di Hillary, prima con un diplomatico: «richieste irragionevoli»; ora però è vicina all’aut aut sulla questione del Dalai Lama.

Di affermazioni bombastiche non ne mancano dal Brasile e dal venezuelano Chávez; né va dimenticato l’Osama bin Laden in versione (questo sì sorprendente) ambientalista. Qualche contributo a questa atmosfera è venuto anche dall’Italia. Il nostro premier è sembrato ondivago sulle critiche fatte dal Commissario Bertolaso agli aiuti Usa per Haiti prima smentendolo e poi celebrandolo. A proposito di Usa-Italia: qualcuno ha dimenticato il pesante intervento di Hillary sulla giustizia italiana per difendere l’Amanda di Perugia, per poi fare un immediato passo indietro? Durante la visita di Silvio Berlusconi in Israele abbiamo infine sentito il nostro Premier scagliarsi contro Teheran (rompendo così il ruolo di mediazione che in quel conflitto l’Italia intende da anni ritagliarsi) e celebrare in Israele l’operazione «Piombo fuso» a Gaza, e subito dopo dichiarare ai palestinesi «inaccettabili» gli insediamenti nei Territori.

La cacofonia è questa, questo accavallarsi di voci in cui è difficile ritrovare un filo conduttore.

«Mosse tattiche», «fragilità da coprire», si dice nel mondo diplomatico. Ma è egualmente difficile ritrovare un senso a tutto questo. A meno che, come si diceva, non si assuma il punto della leadership carismatica.

Le caratteristiche della vittoria di Obama, quel mix di fascino, proposte, speranza, affabulazione e esoterismo, sembra in realtà aver avuto una profonda influenza in tutto il mondo. Il patto diretto, emozionale, che un presidente stabilisce con il suo popolo è divenuto, quasi istintivamente, il segno che tutti i leader del mondo (salvo i pochi che proprio non ci riescono, come Brown) hanno copiato. Ma, come si diceva, la leadership carismatica è difficile da mantenere. Proprio perché si fonda su un patto diretto con i cittadini, rischia di spezzarsi in ogni momento, su ogni decisione «impopolare». Si è visto con Obama, quanto sensibile sia il consenso: e non è dunque difficile immaginare che molte mosse con la Cina (ad esempio) siano la risposta alle critiche che ha ricevuto sull’economia, o la mancata difesa del clima, o dei diritti umani. Identici meccanismi che si intravedono per Teheran, e tutti i leader fin qui citati. Senza escludere - tanto per far capire quanto pervasivo è il fenomeno - la stessa opposizione italiana.

La leadership carismatica può trasformarsi dunque in una sorta di trappola, che va alimentata in continuazione da misure «popolari», da gesti e annunci. A spese di quella che - come ben si sa - è la capacità di scelta che contraddistingue la vera leadership. Con il rischio di finir governati non dalle schede elettorali, ma dai poll di gradimento.

da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Adottiamo un iraniano
Inserito da: Admin - Febbraio 12, 2010, 02:12:39 pm
12/2/2010

Adottiamo un iraniano
   
LUCIA ANNUNZIATA

Raramente il nostro ipertrofico ego occidentale è più umiliato che in giorni come questi - mentre migliaia di persone in queste stesse ore sono sotto attacco in Iran per affermare quel valore supremo che diciamo di avere come nostra bandiera di civiltà, la Libertà.

Noi non sappiamo fare altro che stare a guardare e prendere atto della nostra impotenza.

Noi che abbiamo addirittura teorizzato in decine di occasioni che la libertà va esportata anche sulla bocca dei cannoni, noi che chiediamo l’esame di «diritti civili» a paesi membri che vogliano entrare in Europa, noi che ci vantiamo di poter dettare le regole, monetarie e politiche, a tutto il mondo, di fronte all’Iran taciamo. Da almeno nove mesi - cioè da quanto dura la presente ondata di protesta «verde» nella Repubblica Iraniana - siamo precipitati in una balbettante confusione non tanto su «cosa fare», ma (addirittura!) su «se fare qualcosa».

Sfociando nel paradosso che, mentre nulla facciamo, ci scervelliamo sul livello di durezza che potremmo sfoggiare con l’Iran: mettere le sanzioni, chiudere i depositi bancari all’estero, montare una operazione di intelligence, scatenare una guerra cibernetica, o magari una guerra vera e propria. Se mi si permette di parafrasare una recente frase del segretario di Stato americano Hillary Clinton, questa sì che pare la discussione da bar nel dopo partita.

È tempo forse, invece, di riporsi la domanda, l’unica: davvero non si può fare nulla per la rivolta popolare verde o, anche solo, per le violazioni dei diritti umani in Iran? Davvero dobbiamo limitarci a registrare l’elenco di arresti e di impiccagioni che viene annunciato quotidianamente da Teheran? Tra l’oggi, il qui e ora, e una guerra totale, davvero non si può fare nulla?

Uno dei metri di misura della difficoltà in cui ci si trova sull’Iran è che chiunque pone questa domanda, pure ovvia, fa la figura dello scemo - tale e tanta è la superfetazione politologica del processo decisionale.

Si fa la figura dello scemo perché subito ti viene fatto notare, nell’ordine: 1) che l’Iran è troppo potente per poter essere attaccata militarmente, per cui inutile minacciare, o provocare; 2) ci sono troppi interessi industriali intrecciati fra noi e l'Iran per cui non possiamo davvero fare una politica di sanzioni efficace senza nuocere anche a noi stessi; 3) che la peculiare natura islamico-teocratica del governo di Teheran rende impossibile a noi occidentali intervenire senza fomentare una reazione religiosa ancora più severa e dunque in definitiva più dannosa per gli stessi oppositori.

Tutto vero. Ma tutto questo non prende in considerazione che quello che succede in Iran cammina sui piedi di milioni di persone e che sta camminando ormai da mesi, senza fermarsi. Questo movimento dunque va visto come la variabile che svela in fondo la rigidità di tutte le nostre analisi. Se tale movimento c’è e sfida carcere e morte per tanto tempo, forse c’è in Iran qualcosa che non rientra nelle perfette equazioni della nostra politologia. Forse c’è un vero tallone d’Achille, come credo, nella forza monocratica della Repubblica Islamica. Se questo fosse vero, anche il discorso politico potrebbe cambiare.

Certo, gli Stati debbono essere cauti. Le nazioni fanno bene a garantire affari e trattati internazionali.

Ma un movimento di persone chiama intanto la solidarietà di altre persone. Mentre gli Stati discutono e decidono, forse qualcosa possiamo fare noi - «noi» intesi nel modo più ampio: comuni cittadini, informazione, imprenditori singoli, o politici che si vogliono impegnare, o comunità del diritto.

Il più semplice degli aiuti che possiamo dare all’onda «verde» ci viene offerto intanto dalla cronaca. Teheran non vuole testimoni: non ha voluto ieri, per la festa islamica, giornalisti stranieri, e si appresta a non volere Google. Google che già negli ultimi mesi ha sperimentato molte interruzioni, anche se il governo sostiene che sono solo difficoltà tecniche.

La battaglia per impedire la chiusura di Google va fatta in Iran, come in Cina: perché questo è il nuovo luogo di difesa dei diritti umani. Ed è una battaglia che si può fare con efficacia e senza danni al business tradizionale, perché su Internet si muove una potenza economica e finanziaria che nulla ha a che fare con la vecchia economia, e che serve agli Stati molto più di una censura alla comunicazione individuale di un qualsiasi dissidente.

Una volta c’era nelle scuole l’incoraggiamento a crearsi degli «amici di penna», alunni di altri Paesi con cui ci si scriveva per «conoscere altri mondi». Sarebbe forse così impossibile oggi adottare un amico di e-mail per ogni cittadino iraniano che ha bisogno di farci sapere qualcosa?

Ci dicono le voci che arrivano da dentro l’Iran che il movimento verde è a una svolta, che nessuno sa più con certezza se, a fronte di queste repressioni di massa, ci sia più lo spirito o la convinzione per continuare. C’è già chi vuole fermarsi, e chi radicalizzarsi. In ogni caso a noi tocca non lasciare solo nessuno davanti agli attacchi e alle violazioni delle ragioni individuali.

da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Sacrificato dai servizi pachistani
Inserito da: Admin - Febbraio 27, 2010, 09:49:20 am
27/2/2010

Sacrificato dai servizi pachistani

LUCIA ANNUNZIATA


E’ possibile che Pietro Antonio Colazzo, l’agente dell’Aise, l’agenzia per le informazioni e la sicurezza esterna, cioè i servizi di sicurezza italiani destinati a operare all’estero, non sia stato sacrificato dai taleban, ma da suoi «colleghi» (e mi scuso per accomunarlo anche solo nel termine) pachistani. L’attentato a Kabul, contro un centro commerciale, col passare delle ore sembra assumere infatti un profilo molto più complicato di quello che si è dato per scontato all’inizio.

Secondo fonti dell’intelligence afghana, raccolte da vari giornalisti stranieri, l’attacco sarebbe stato ideato e portato a termine non dai taleban, ma dai servizi segreti del Pakistan, con lo scopo di inviare un pesante avvertimento all’India. Questa versione, in maniera più edulcorata, l’ha fornita del resto in una nota ufficiale lo stesso Karzai, che ha indicato nell’India - e non negli stranieri in generale - l’obiettivo della strage.

Non che tutto questo faccia alcuna differenza per i familiari del nostro agente caduto, né per tutte le altre vittime; ma potrebbe farlo per il nostro dibattito politico interno che, ancora una volta, accenna a riprendere fiato, come sempre ogni volta che un italiano resta sul terreno nella missione afghana.

I pachistani, arcinemici dell’India, e con l’India impegnati da molti anni in una guerra di frizione in zone della loro frontiera, temono oggi la crescente influenza indiana nel Paese di Karzai. Secondo una versione più o meno oggi accertata, sono stati loro a progettare e portare a termine, insieme ai taleban, i vari attacchi all’ambasciata indiana a Kabul: quello nel luglio 2008, costato più di 60 morti, e l’altro, nell’ottobre scorso, con 17 morti.

Cosa significhi questa aggressiva presenza a Kabul dei servizi pachistani, ai fini del nostro dibattito sulla missione in Afghanistan, è presto detto: la guerra in quel Paese è ormai ben oltre il punto di non ritorno di una possibile negoziazione. Per la semplice ragione che, negli ultimi anni, la situazione interna del Paese si è frammentata e frantumata in molte schegge di conflittualità ed interessi: si è divisa in zone rurali e non, fra aree controllate o no dai taleban, in aree di influenza in cui i giochi sono molti. E’ il profilo di un conflitto che continua a muoversi sotto i piedi della missione Onu, e quella americana. Troppo in movimento perché si possa fare - almeno finora - un punto fermo da cui ricominciare un processo politico.

In termini di decisioni nazionali dei Paesi che hanno lì delle truppe questo significa una sola cosa: che il ritiro delle truppe - che deve essere giustificato da una qualche stabilizzazione interna - è ben lontano dall’essere possibile. L’offensiva lanciata dagli americani nelle ultime settimane, seguita al rinnovato impegno militare del presidente Obama, è in fondo la presa d’atto proprio che le forze occidentali, a quasi un decennio dal loro primo impiego nel Paese, non hanno mai davvero raggiunto il controllo del territorio. Tanto per capire la dimensione dell’impegno che gli Usa hanno ancora davanti, basta leggere le dichiarazioni dell’Amministrazione americana, che proprio ieri ha detto che la grande operazione appena finita, che ha portato alla conquista della roccaforte talebana di Marjah nell’Helmand, è solo «un preludio tattico» a una più ampia operazione nella provincia di Kandahar.

Questo in fondo è tutto quello che c’è da dire sull’ennesimo attacco dentro la capitale afghana. Una sintesi che, nella sua scarsità di parole, riflette quanto scarna sia diventata la verità di quel che succede in quel Paese.

Eppure, per quanto ridotta all’osso sia ormai la situazione afghana, non è detto che non peggiori.

Nell’agenda mediorientale c’è un nuovo appuntamento che contiene ulteriori incognite. Il 7 marzo, fra due domeniche, si va al voto in Iraq. Sono le seconde elezioni (le altre nel 2005) dopo l’invasione del 2003 da parte degli americani, e hanno la potenzialità di farci capire se la pax americana lascia dietro di sé, dopo sette anni, un Paese in grado di reggersi da solo, o se ancora una volta prevarrà la strada della lotta intra-etnica, del frazionamento religioso e politico. Gli iracheni vanno alle urne sullo sfondo del ritiro delle truppe Usa, che dovrebbero essere ridotte a 50 mila uomini in settembre, e poi azzerate nel 2011.

Per capire la frammentazione del Paese basterà sapere che alle urne si presentano 306 organizzazioni, di cui 251 in liste coalizionali e 55 da sole, per eleggere 325 membri del Consiglio dei Rappresentanti dell’Iraq, che a loro volta eleggeranno il primo ministro e il Presidente del Paese.

Ha scritto di recente Thomas Freedman sul New York Times: «Le elezioni ci faranno capire se l’Iraq è quel che è a causa di Saddam, o se è quel che è a causa di se stesso». Una bellissima affermazione su guerra e cultura o, se preferite, su politica e storia.

Ma al di là della letteratura, il rischio che giace al fondo delle urne irachene vale non solo per l’Iraq, ma, come si diceva, per tutta la zona di instabilità del Medio Oriente.

Negli ultimi dieci anni la guerra è stata come un pendolo che alternativamente ha oscillato fra Iraq e Afghanistan, passando per l’Iran. Nelle elezioni irachene, che saranno guardate anche per misurare il peso che l’Iran ha guadagnato in Iraq, si capirà soprattutto se questo pendolo può fermarsi.

La stabilizzazione dell’ex Paese di Saddam darebbe infatti agli americani sia la forza politica di aver stabilito un punto fermo, sia la forza militare di potersi concentrare sull’Afghanistan. Altrimenti il pendolo riprenderà a muoversi, con gli effetti distruttivi di sempre.

da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Tutto Obama in sette giorni
Inserito da: Admin - Marzo 16, 2010, 10:24:23 am
16/3/2010

Tutto Obama in sette giorni

   
LUCIA ANNUNZIATA

Nella storiografia presidenziale americana esiste un passaggio considerato essenziale, di natura quasi mitologica.

È il «the defining moment», il momento in cui un Presidente, dopo essere stato votato, trova sé stesso, definendo la Storia.

Senza questo salto non ci sarebbe la stessa Presidenza americana, il suo valore esemplare, che la distingue - almeno nelle aspettative - dall’essere una carica puramente istituzionale. Per George Washington il momento fu l'attraversamento del fiume del Delaware la notte di Natale del 1776, per Kennedy fu il discorso di Berlino, per Franklin D. Roosevelt la decisione di entrare nella Seconda guerra mondiale. Ci sarà, quale sarà, e quando sarà il momento di Obama? Che sia proprio questo, che sia vicino, che sia questa settimana, che sia la riforma della assistenza sanitaria?

Nel clima infuocato di Washington, si ascoltano, tra le molte accuse e proteste, anche queste domande. Il clima è di fuoco perché la settimana che inizia potrebbe davvero definire se non la Storia con la maiuscola di sicuro una importante parte del lavoro fin qui fatto da Barak Obama.

Se tutto va infatti secondo i piani, i Democratici potrebbero essere in grado di inviare a fine settimana la legge sulla riforma sanitaria al Presidente. Cioè pensano di ottenere il voto della Camera dopo il sì ottenuto di misura al Senato, e di poter dunque presentare al Presidente il testo in maniera che possa firmarlo per tradurlo in legge.

Ma, a settimana iniziata, nessuno davvero sa se il testo sarà pronto, nel senso che dal testo dipende il numero di voti che gli si raccoglieranno intorno. Dunque si può ben dire che nonostante la sicurezza che i Democratici sfoggiano, i voti non ci sono, altrimenti, come dice l’opposizione, «al voto si sarebbe già andati». In corso c'è così una specie di gioco di guardie e ladri, in cui la abilissima Nancy Pelosi tesse la tela dei contatti per cercare consensi, ma senza scoprire le sue carte, mentre i Repubblicani moltiplicano le denunce del bluff.

Lasciamo qui perdere la descrizione delle molte manovre e possibili compromessi legislativi che nei prossimi giorni si affronteranno, per poter arrivare al voto - dopotutto l'attività parlamentare è fatta di cavilli e accordi a tutte le latitudini e in tutte le nazioni.

Quel che conta è che al di qua dei corridoi, e delle aule del Congresso, questo voto sulla riforma sanitaria ha acquisito, o forse acquisito per la prima volta, una dimensione definitoria per la Presidenza. Obama ne è perfettamente consapevole; sembra anzi voler sottolineare questo aspetto: ha spostato infatti il suo viaggio in Asia per attendere il voto, e il gesto da solo ha drammatizzato l'appuntamento dandogli la valenza di vittoria o sconfitta. La Casa Bianca insomma ha rimesso definitivamente il suo volto, e dunque il suo operato, su questa riforma.

Voto che a sua volta assume, nel tipo di consenso che raccoglierà o meno, anche il valore di fotografia dello stato del partito democratico. Molte delle difficoltà dei congressisti a votare la riforma dipende infatti dal loro elettorato e dall'impatto che il voto a Washington può avere nei loro territori di origine. Ci sono resistenze di natura etica, legate al finanziamento indiretto dell’aborto.

Pochi mesi fa in Senato fu trovato un modo per aggirare questo problema, restringendo con una mossa molto spregiudicata da parte di Nancy Pelosi, famosa abortista, quasi ogni finanziamento ai settori pro-choice.

Oggi alla Camera si propone lo stesso problema, ma paradossalmente in maniera meno rilevante. I democratici sono pronti a cancellare ogni discorso sull'aborto che la riforma potrebbe legalizzare.

Ma a differenza di quando si votò al senato, oggi le preoccupazioni maggiori paiono essere più di natura economica che morale. Come verrà finanziata questa riforma? E' sempre stato il dubbio di tutti. Oggi non è nemmeno un dubbio, nel senso che la risposta è ormai chiarissima anche nelle parole dei Democratici: la riforma sarà un inevitabile peso sulla spesa pubblica.

E la spesa pubblica di Obama oggi continua a salire, e non dà nessuna indicazione di frenata.

La terza grande componente che, in questa vigilia di voto, contribuisce a fare del passaggio della Riforma un momento definitorio per Obama, è proprio la preoccupazione per una crisi economica che, nonostante tutti gli sforzi, rimane fuori controllo. Il debito pubblico americano è oggi il più alto della sua storia, e con un governo che ha profonde riforme in mente e non può alzare le tasse, non si vedono segni di soluzione. E' esattamente il problema che ha l’Europa, dopotutto, ed è paradossale ma anche pericolosissimo che si presenti, e non abbia soluzioni in vista, anche in Usa. In fondo a tutto questo, in autunno, si profila la tagliola: le elezioni di mid-term sono infatti già state definite da alcuni nel giro dei più stretti collaboratori di Obama come un potenziale «massacro».

Quella che si addensa questa settimana, intorno al voto, è dunque davvero una sorta di tempesta perfetta, come amano dire qui in Usa quando si concentrano multiple avverse condizioni di maltempo.

Ma, come si diceva, proprio questa tempesta perfetta può essere la materia in cui si fa o si disfa la Presidenza Obama. I mesi passati sono stati per il leader americano un faticoso alternarsi di alti e bassi, di successi e insuccessi. In molti punti la tela del suo charme, della sua politica e delle sue alleanze, mostra la corda. Contrasti interni cominciano a scoppiare nel circolo più intimo dei suoi collaboratori, e deputati e senatori cominciano a guardarsi intorno. Alcuni sostengono che la stessa magia del «cambio» si è appannata. La ostinazione con cui Obama ha deciso ora di tenere, difendere, e sostenere la Riforma sanitaria, a dispetto di tutto, sembra essere una sua riscossa.

Forse sarà l’errore della sua vita, forse sarà una sconfitta, dicono in molti. Ma a questo punto di sicuro ha preso le forme di un suo incontro con il destino. Un punto dove si capisca, (e magari lo capisca lui stesso) per dirla con David Brooks, «Chi è Barack Obama».

da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Obama-Israele molte ripicche scarsa visione
Inserito da: Admin - Marzo 18, 2010, 08:46:45 am
18/3/2010
Obama-Israele molte ripicche scarsa visione
   
LUCIA ANNUNZIATA

Una spirale di ripicche e offese ha portato le relazioni fra Usa e Israele, nel giro di un fine settimana, al livello di bandierina rossa. Uno stato di eccezionale emotività, che si può misurare con efficacia dal riverbero che ha avuto nelle parole di un grande giornalista, nonché difensore (finora) inflessibile di Israele. Thomas Friedman, pluripremio Pulitzer, sul «New York Times» domenica ha marchiato il comportamento di Gerusalemme con parole di fuoco: «Il vicepresidente Biden avrebbe dovuto tornare immediatamente a bordo dell’Air Force Two e lasciare il seguente messaggio dall’America al governo di Israele: gli amici non permettono agli amici di guidare ubriachi. E in questo momento voi state guidando ubriachi. Pensate davvero di poter mettere in imbarazzo il vostro unico alleato al mondo, per rispondere alle vostre beghe interne, senza pagarne le conseguenze? Avete perso totalmente contatto con la realtà. Chiamateci quando sarete seri».

Non a caso, Friedman parla di telefono. Riprende infatti quasi letteralmente un’altra citazione telefonica usata per mandare a quel paese Israele. Nel 1992, dopo la prima guerra del Golfo, l’allora segretario di Stato James Baker, dell’amministrazione di Bush padre, stanco di dover convincere Israele a sedersi al tavolo delle trattative di Oslo, sbottò: «Conoscono il mio numero, possono chiamarmi». Aggiungendo: «F... the Jews. Comunque non ci votano».

Finora era stato quello il punto più basso nella storia delle relazioni fra i due Paesi, ma la crisi attuale sembra averlo però ampiamente superato. Umori come quelli di queste ore non si coglievano effettivamente da anni. Che non ci sia grande amore fra Barack Obama e Bibi Netanyahu, fra l’attuale amministrazione democratica e il governo di Gerusalemme, è ormai un dato (tristemente) acquisito. Ma che il governo israeliano si lanciasse in una pubblica campagna di deterioramento delle iniziative americane in Medio Oriente non lo avrebbe previsto nessuno. Meno di tutti l’uomo cui è stato fatto lo sgarro, l’elegante vicepresidente Joe Biden, recatosi la scorsa settimana in Israele nell’ennesima visita per il processo di pace, e trovatosi spiaccicato in faccia l’annuncio del governo di Israele di aver avviato la costruzione di 1600 nuove case a Gerusalemme Nord-Est, confine zona araba.

Viceversa, si può dire che nemmeno Israele aveva anticipato le conseguenze di questo suo gesto di pubblica umiliazione. Washington ha risposto con indignazione, denunciando lo «schiaffo», ventilando conseguenze, arrivando a parlare del primo ministro israeliano senza mai citarne il titolo ma chiamandolo solo con il nomignolo, Bibi. Bibi come il bullo del quartiere, la testa calda del cortile di casa. Questa reazione emotiva da parte di Washington sta scuotendo il mondo diplomatico. Può piacere o no, è però di sicuro una diversità rispetto al passato, una forma di trasparenza rispetto al manierismo che spesso soffoca il dibattito pubblico fra nazioni.

In questo senso, la franca incavolatura della Casa Bianca va presa come una indicazione in sé: il segnale di quanto preoccupati siano gli americani per la situazione mediorientale. Secondo quanto è stato fatto circolare nella capitale, Obama pensa che Israele non abbia sufficiente cognizione della delicatezza della sua posizione, e della politica americana. Forse il maggior impegno preso in politica estera dal Presidente è stato proprio quello di affrontare di petto la riappacificazione con il mondo arabo. Nella convinzione - da Obama più volte sottolineata - che la tensione fra Est e Ovest non sia uno scontro di culture, ma uno scontro politico.

Naturalmente già in questa distinzione fra scontro di culture e tensione politica si può leggere un mare di distanza fra Israele, che legge la sua missione come quella di «faro» dell’Occidente, e il pragmatismo a-ideologico di Obama.

Ma fin qui le posizioni fra i due alleati potrebbero anche convivere. Se non fosse che la politica Usa ha dovuto fare in questi mesi un bagno di realtà. Il Presidente democratico, che pure si è preso la responsabilità di parlare al mondo arabo recandosi di persona in una delle sue capitali, Il Cairo, oggi, poco più di un anno dopo, si ritrova con in mano due guerre con gli arabi - una in Afghanistan e l’altra non del tutto conclusa in Iraq - e una potenziale deflagrazione mondiale con l’Iran. L’avvio di un qualunque colloquio fra palestinesi e israeliani, fosse anche solo formale, darebbe al presidente Obama una boccata di ossigeno, una carta da giocare, una prova che il meccanismo può essere da qualche parte disinnescato.

La teatralità, le ripicche di Gerusalemme sono in questo senso avvertite a Washington come un personale affronto, ma, ancora di più, un irresponsabile calcio negli stinchi all’unico alleato, come dice appunto il giornalista Friedman. Dunque una immaturità totale di Israele. Che è poi la conclusione cui porta la tensione di queste ore. Fra Israele e Stati Uniti ogni rottura è impensabile. Eppure, il rapporto automatico, senza ombre, paritario fra loro sembra decisamente in declino. Per colpa di Obama, amano dire molti in Israele. Per colpa di Israele, rispondono molti a Washington, convinti che mettere in imbarazzo un Presidente americano per dare soddisfazione ai propri elettori è segno di una grave perdita di visione e di grandezza da parte del governo di Gerusalemme. Sono due linee non di collisione, ma certo non più di reciproca e indiscussa appartenenza.

da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Sanità Usa, le insidie non sono ancora finite
Inserito da: Admin - Marzo 22, 2010, 12:27:23 pm
22/3/2010

Sanità Usa, le insidie non sono ancora finite

   
LUCIA ANNUNZIATA

L’happy ending non è stato ancora apposto in calce ma, mentre scriviamo, l’approvazione della riforma dell’assistenza medica, la più ostica e intensamente ideologica legge del dopoguerra americano, sembra essere molto vicina. Se questa speranza dei democratici si materializzasse nel corso della nostra notte, da questa mattina anche in Usa - il Paese della libera concorrenza, del capitalismo senza pentimenti, dell’individualismo senza mitigazioni - i poveri potranno (più o meno) avere cure mediche. E Obama avrà firmato il primo vero passo del promesso «cambio», e rovesciato il corso declinante in cui era entrato.

La eventuale vittoria conseguita non porta tuttavia necessariamente al consolidamento della sua Presidenza. Anzi.

La battaglia per far passare questa riforma ha infatti profondamente inciso nel tessuto politico americano, cambiando il sistema degli alleati e quello dei nemici. Davanti al Presidente, nel momento stesso in cui prenderà atto di aver vinto, si presenteranno dunque nuovi terreni di conflitto persino più insidiosi di quelli finora affrontati. Fra gli amici persi nei mesi scorsi ci sono sicuramente i democratici pro aborto.

La vittoria della legge ieri è apparsa vicina quando il decisivo gruppo di antiabortisti, repubblicani e democratici, guidati dal democratico Bart Stupak ha deciso di votare a favore. La Casa Bianca ha subito annunciato una nuova misura per rassicurare la sua base a favore dell’aborto. Ma, come si dice, nessuno è scemo: e tutti a Washington hanno ben valutato il significato del gruppo di Stupak.

Ci sarà dunque da aspettarsi molta delusione nel fronte pro-choice ma, per dirla con Shakespeare, si tratterà alla fine di «molto rumore per nulla». Il sostegno pro-aborto all’interno del Partito democratico è da anni ormai più una battaglia di identità, legata a un certo periodo, gli anni Sessanta, che una reale battaglia di libertà. Negli ultimi 30 anni la questione femminile in America si è completamente ridisegnata, e non a caso nessuna delle grandi donne al potere oggi, che pure negli anni Sessanta sono state protagoniste della battaglia pro aborto, ha fatto sentire la sua voce. Né è un caso che il sacrificio di questo fronte sia stato portato a termine con sveltezza e senza pentimenti da una abortista convinta quale è Nancy Pelosi. Taglio saggio, dunque, taglio di un mito, a favore di una più concreta assistenza sociale: ma ugualmente, dello scontento di pezzi del partito democratico sentiremo molto nei prossimi mesi.

Il fronte più pericoloso per la Casa Bianca oggi è quello dei nemici che, nella opposizione alla riforma, si è approfondito nei toni, negli umori, e si è allargato, includendo il potenziale risentimento di forti settori economici che non sono solo le grandi industrie della sanità.

Con quali umori si debba confrontare Obama lo abbiamo visto - tanto per fare un solo esempio - dalla manifestazione inscenata dai militanti del movimento Tea Party alla vigilia del voto. Hanno aspettato rappresentanti democratici, chiamandoli «Nigger», o «Faggot», dispregiativi per nero e omosessuale, e innalzando cartelli oltraggiosi, quale il disegno di Obama defecato da un asino a illustrare lo «sterco d’asino». Ma anche di questi il Bardo di Avon direbbe probabilmente «tanto rumore per nulla».

Obama ha nel prossimo futuro da temere molto di più da nemici che per ora non sfilano. Come si sa, il colpo che davvero uccide è quello che cala svelto, silenzioso, inatteso, e nel segreto del buio. E di colpi come questi se ne stanno preparando molti, nei segretissimi santuari del potere economico americano. Si sa dello scontento delle Farmaceutiche. Ma nella equazione di Washington è entrata ora anche Wall Street. La Wall Street che dalla crisi del 2007 è uscita indebolita ma non vinta e che, dopo essere stata salvata da un presidente democratico, guarda oggi con favore ai repubblicani. Dei democratici le banche temono infatti la legge di riforma delle regole per le istituzioni finanziarie.

Sulla natura e l’impatto di questa sfida val la pena di leggere direttamente Frank Rich, che sul New York Times scriveva tre giorni fa: «La battaglia intorno alla riforma delle regole è cominciata la scorsa settimana con la presentazione al Senato del progetto di legge di Chris Dodd… e la guerra che sta per iniziare ha a che fare non solo con chi controllerà Wall Street, ma su quali saranno le regole. La domanda ora per i politici è: con chi si schiereranno? La leadership repubblicana si è già dichiarata inequivocabilmente la settimana scorsa. Parlando alla American Bankers Association il leader repubblicano della Camera, John Boehner, ha promesso una netta opposizione alla legge di riforma». Il feeling fra banche e i repubblicani, d’altra parte, è stato già confermato dalle donazioni di sostegno. Perfetto esempio del cambio di clima: la JP Morgan Chase e i suoi dipendenti, che nel 2008 avevano garantito corpose sottoscrizioni ai democratici, l’anno scorso hanno dato il 73 per cento delle loro donazioni ai repubblicani.

È dunque un percorso in salita quello che aspetta Obama. Ma la vittoria di queste ore gli fornisce una sorta di orientamento, una bussola per navigare dentro la frammentazione degli interessi della società americana. Se è riuscito oggi a far prevalere sugli interessi elettorali ed economici di forti settori sociali quelli di una parte di società senza grande potere, forse ha trovato una chiave di volta per riallineare in maniera diversa l’interesse privato e quello pubblico del sistema di cui è a capo.

da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - L'America che odia Wall Street
Inserito da: Admin - Marzo 24, 2010, 08:34:55 am
24/3/2010

L'America che odia Wall Street
   
LUCIA ANNUNZIATA

Sembrava quasi dimenticata. Lo tsunami di licenziamenti e difficoltà seguito alla crisi del 2007 sembrava aver dato a Wall Street il beneficio di almeno un attimo di riposo dalla rabbia della pubblica opinione. Guerre, disoccupazione, riforma dell’assistenza medica sembravano aver spinto il Quartier Generale del Denaro in fondo alla lista degli interessi dei cittadini.

Ma sotto sotto la rabbia contro la grande finanza ha continuato a scavare nella percezione degli americani, costituendo una fertile base per un clima antisistema, in un Paese che è da sempre incline al rifiuto di grandi ingerenze. Grazie a una serie di rivelazioni, libri, iniziative, e passaggi politici - fra i quali innanzitutto la presentazione al Senato della nuova legge sulle regole - Wall Street sta ritornando alla grande sotto attacco.

Di come la grande crisi abbia scavato un fossato nella psiche americana si è occupato la scorsa settimana il Los Angeles Times. Nulla di psicologico: in realtà l’articolo era dedicato ai mutui. Ma, essendo la bolla edilizia la miccia che ha acceso la crisi, c’è molto da capire dai comportamenti di coloro che hanno un prestito sul collo in Usa.

La storia è questa - ed è una storia tutta nuova -: circa 11 milioni di mutui, cioè un quarto del totale, è «under water», sott’acqua; vale a dire che sono stati utilizzati per comprare case il cui valore è oggi sotto il prezzo che avevano al momento dell’acquisto. Con buona probabilità di non tornare più a quel livello. Dalla crisi del 2007 il prezzo medio delle case in America è in parte risalito, ma è rimasto ampiamente al di sotto del picco che aveva toccato prima.

Nulla di nuovo, dunque nella sofferenza del settore. Molto di nuovo invece da segnalare sul comportamento di coloro che hanno contratto questi mutui. Invece di continuare a nuotare «under water», molti cittadini che pure sono in grado di pagare, preferiscono oggi semplicemente lasciare la casa e liberarsi del pagamento. Preferendo nuovi acquisti o nuovi affitti, che la crisi ha reso disponibili a minor costo. In gergo, queste decisioni sono state battezzate «strategic defaults», per distinguerli dai fallimenti obbligati. E le perdite? Le perdite tornano alle banche, e in parte alla comunità dal momento che lo Stato con i soldi delle tasse ha salvato le banche.

Il fenomeno ha già raggiunto una consistenza tale da essere rilevato dal sistema. Per inciso, è un professore italiano, Luigi Zingales, della Booth School of Business dell’Università di Chicago, a seguirne lo sviluppo, che a dicembre costituiva il 35 per cento del totale dei fallimenti, rispetto al 23 per cento del marzo 2009. Il timore è che questo atteggiamento cresca al punto da avere un impatto sulla ripresina del settore.

Ma al di là degli effetti economici, è l’indicatore morale che lampeggia rosso in questa tendenza. Questo comportamento è del tutto nuovo in un Paese dove la capacità di mantenere il proprio livello di vita e i propri impegni economici ha sempre costituito parte essenziale dell’onorabilità pubblica e privata della persona. «È il segno di una crescente rabbia, una crescente consapevolezza che esiste un doppio standard in base al quale le banche sono state salvate e i cittadini invece devono rispettare i loro impegni», secondo Brent T. White, professore di Giurisprudenza alla University of Arizona che ha scritto un saggio sul fenomeno.

Dal default economico, al default etico? È questa una possibile conseguenza di questi anni di crisi? Sono un po’ le domande che si pongono oggi sul tavolo della politica. D’altra parte, non farsi prendere dal menefreghismo, se non addirittura dal cinismo, è un po’ difficile di fronte al permanente malcostume degli ambienti finanziari. Alle notizie sui dividendi che continuano ad essere distribuiti a dispetto della crisi, si è aggiunta la settimana scorsa la conclusione dell’indagine sulla «madre» di tutti i fallimenti, quello di Lehman Brothers Holding Inc., il cui collasso il 15 settembre costituì l’inizio della fine per molti.

L’inchiesta, ordinata dalla Corte Federale di Manhattan, sulla bancarotta di Lehman Brothers Holding Inc., e istruita da Anton Valukas, spiega in 2200 pagine una verità che si traduce in una riga: i top manager di Lehman sapevano della bancarotta e, invece di avvertire, si impegnarono in una manovra illegale per muovere 50 milioni di dollari, al fine di continuare a truccare i bilanci, dimostrando una liquidità che non avevano. Secondo Anton Valukas, i capi della Lehman «sapevano già il 2 settembre», cioè due settimane prima della crisi, della loro insolvenza. In almeno un caso la consapevolezza arriva ben prima: «In una occasione - scrive Valukas - nel maggio del 2008, un vicepresidente della Lehman avvertì i dirigenti di potenziali irregolarità, ma il rapporto fu ignorato dalla società di revisori Ernst & Young». Interessante è anche capire la manovra illegale messa in atto: la Lehman vendette 50 milioni di pacchetti azionari in cambio di denaro liquido, con impegno a ricomprare più tardi gli asset. Un regolare e legale accordo, che però venne registrato come vendita, in modo da poter contabilizzare la liquidità. Partners in questa manovra furono due grandi banche, JP Morgan Chase & Co. e Citigroup Inc. Sapevano, dunque, tutto a Wall Street. E hanno continuato fino all’ultimo a fiancheggiarsi a vicenda.

All’oltraggio generale causato da questo rapporto - ampiamente riportato nei media - si sono aggiunti altri fuochisti. È uscito ad esempio l’ultimo libro di Michael Lewis, «The Big Short: Inside the Doomsday Machine» (Ed. Norton), in cui l’autore, scrittore già molto popolare di temi economici, esplora proprio il tema del «saper tutto prima». Peraltro facendo una serie di casi specifici di investitori e manager che avevano capito la caduta e che, proprio mentre il mercato si liquefaceva, hanno fatto fortuna per sé e per i propri clienti. L’accumulazione di questo malumore contro il Big Business è destinata, ovviamente, a riversarsi tutta su Washington.

La legge per approvare un sistema di nuove regole per il mercato è stata approvata dalla commissione Finanza e passata al Senato proprio il giorno dopo l’approvazione della riforma sanitaria. Ma il modo come la proposta, firmata dal senatore democratico Chris Dodd, è passata in commissione è indicativo dell’umore con cui è stata accolta: le 1300 pagine di testo sono state votate in 21 minuti perché i repubblicani hanno deciso di non presentare nessuno dei 200 emendamenti che pure avevano preparato. Tanto per mettere bene in chiaro il loro assoluto rifiuto anche solo a discuterne. Del resto la leadership repubblicana si è già dichiarata per bocca del loro leader alla Camera, John Boehner, che, parlando all’American Bankers Association, ha promesso ai banchieri una netta opposizione alla legge sulle regole.

Si profila dunque per Obama uno scontro epocale con Wall Street? Sì e no. La risposta non è del tutto chiara. Visto l’umore che c’è in America e che abbiamo tentato di descrivere, è possibile che una forte presa di posizione da parte dello Stato contro la speculazione finanziaria e i grandi interessi economici non trasparenti abbia un ampio riscontro anche fra i repubblicani. Non è un caso che un idolo di questo tipo di opposizione, Glenn Beck, il Santoro americano, si sia sempre dichiarato nemico proprio di Wall Street.

da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Usa-Israele, il bivio nucleare
Inserito da: Admin - Aprile 10, 2010, 09:07:13 am
10/4/2010

Usa-Israele, il bivio nucleare

LUCIA ANNUNZIATA

Fossi Benjamin Netanyahu preparerei la valigia: per andare a Washington all'ultimo minuto, dopo aver preso atto di aver fatto una sciocchezza; o per andare a casa dopo aver perso l'incarico di primo ministro; in alternativa, per andare a meditare sulla tomba del suo maestro e predecessore Yitzhak Shamir, l'ultimo leader israelano in ordine di tempo che - benché più prestigioso e abile di Netanyahu - fu defenestrato da un presidente americano (Bush padre) per essersi messo di traverso ai progetti in Medioriente della Casa Bianca. La ragione per cui siamo preoccupati per il Premier Israeliano Bejamin Netanyahu è che ha preso ieri una decisione molto azzardata, per sé e per il suo Paese. Ha cancellato la propria partecipazione al vertice di 47 Paesi sulla sicurezza nucleare promosso dal presidente Usa per il 12 e 13 aprile a Washington, sostenendo che i delegati musulmani avrebbero chiesto ad Israele di rinunciare al suo presunto arsenale atomico.

Con il rifiuto Bibi ha lanciato una sfida al Presidente Obama sul cui eventuale e finale risultato non credo ci siano dubbi. Tre giorni fa il Presidente americano ha firmato con il Presidente Russo Dmitry Medvedev un patto di disarmo degli arsenali nucleari, un passaggio definito con buone ragioni «storico» perché dà l'avvio a una nuova strategia globale di limitazione dell'uso delle armi atomiche. La partnership de-nucleare dei due ex nemici nucleari, firmata con tutto il possibile impatto mediatico nella città di Praga simbolo della Guerra Fredda, è valso, per le due nazioni, Usa e Russia, come riscrittura di una virtuosa nuova bipartnership globale. Dall'inchiostro delle penne di Obama e Medvedev è fluito infatti anche un indiretto patto di collaborazione nel controllo di tutti gli attuali e futuri pericoli di riarmo: con un indiretto ammonimento alla Cina, un diretto monito ad Al Qaeda, alla Corea del Nord, e una minaccia netta e pubblica all'Iran.

Nel corso della stessa conferenza stampa in cui si presentava la riduzione degli arsenali, Obama, spalleggiato dal partner russo, ha rilanciato sanzioni contro l'Iran, ammonendo: «Non tollereremo nessuno strappo al trattato di non proliferazione». La dichiarazione ha tanto innervosito la guida temporale dell'Iran da provocargli una reazione fra le più scomposte. Reazione servita in qualche modo a rendere ancora più preciso il profilo dell’operazione Obama. Il patto di Praga si presenta infatti come una strategia realistica, proprio perché è accompagnata da misure «punitive». Il Presidente americano, come si vede ormai ogni giorno più chiaramente, sta perseguendo una politica unificata non dal segno «ideologico» (liberal o conservatore) quanto dalla identificazione dell'interesse nazionale del Paese. Interesse nazionale che ha fornito continuità a operazioni apparentemente diverse, come la riforma sanitaria, l’autorizzazione alle estrazioni petrolifere in patria - e ora il disarmo.

Per Obama, la riduzione delle armi nucleari è parte del suo modo di vedere la nuova leadership Usa: spostandone il peso dalla forza alla risoluzione dei conflitti, multilaterale piuttosto che monocratica. Ma non irrealisticamente pacifista. Quest'ultimo è l'aspetto della strategia americana che Ahmadinejad non sembra aver capito. Purtroppo non sembra averlo capito neanche il primo ministro israeliano. Nella conferenza di Washington sul disarmo la questione della denuclearizzazione di Israele sarà probabilmente sollevata: il governo di Gerusalemme infatti non ha mai firmato il «Trattato di non proliferazione», del 1970; non si è dunque mai impegnato a non realizzare armi nucleari né ad aprire agli ispettori internazionali le porte del suo reattore di Dimona, che per gli esperti ha prodotto plutonio capace di armare dalle 80 alle 200 testate nucleari. In passato dunque altri leaders israeliani hanno evitato forum sul disarmo.

Con la differenza che oggi una riunione come questa è diventata centrale nella agenda americana. Questo è intanto l'effetto immediato del rifiuto di Netanyahu: sottolineare che gli interessi di Israele e Usa non sono più perfettamente coincidenti. Non è un mistero che questa distanza da Washington crea da mesi un grande malessere a Gerusalemme. Con le buone e le cattive, con i ragionamenti, gli editoriali, la discussione e anche le ripicche i leader israeliani si stanno prodigando per richiamare Washington alla vecchia intesa. La più recente di queste ripicche l'hanno inflitta al vicepresidente Usa, due settimane fa, annunciando la costruzione di altre centinaia di case negli insediamenti proprio mentre Biden arrivava a Gerusalemme. Ora è arrivato il rifiuto ad Obama. Come Biden allora, anche Obama oggi sceglie di minimizzare - inviando a Israele il peggiore dei messaggi: che le sue azioni non smuovono gli americani.

Washington intende dunque procedere sulla propria strada. Per un disarmo duraturo, per un patto contro il terrorismo che sia efficace, gli Stati Uniti hanno bisogno di un accordo di pace fra Israele e Palestinesi. Ed hanno bisogno, anche per combattere Teheran, di ottenere un Medioriente senza nucleare - cioè Israele senza atomica. Se Bibi vuole sapere chi prevarrà fra il governo di Gerusalemme e quello degli Stati Uniti non ci sono dubbi, dunque, fin da ora. Anche perché, come si ricordava, un uomo ben più forte e significativo di lui è già caduto sotto le ire di Washington. Nel 1992, dopo la guerra del Golfo, George Bush padre si trovò di fronte alla necessità di consolidare il dopo guerra contro Saddam Hussein firmando un accordo di pace fra israeliani e palestinesi. Il premier di allora, Yitzhak Shamir leggendario e carismatico leader, fondatore dello Stato di Israele, si mise contro questo accordo. Finì che il 23 giugno del 1992 Shamir perse le elezioni a favore del partito laburista, e l'accordo di Oslo si celebrò in pompa magna. Nessuno meglio degli israeliani, dopo tutto, dovrebbe saper riconoscere nel sottofondo dei discorsi della Casa Bianca l'eco del cesariano «para bellum».

da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Piroetta diplomatica
Inserito da: Admin - Aprile 15, 2010, 09:44:27 am
15/4/2010

Piroetta diplomatica

LUCIA ANNUNZIATA

Complice il viaggio a Washington, dove sono probabilmente passate notizie di prima mano, il governo italiano ha cambiato toni e misure nei confronti del presidente afghano e dei tre uomini di Emergency. Silvio Berlusconi in persona ha scritto ieri a Karzai una ferma lettera in difesa dei diritti degli italiani arrestati nel suo Paese, compiendo una perfetta piroetta diplomatica rispetto ai primi giorni di questo complicato affair internazionale durante i quali il governo aveva fatto trapelare più dubbi sulla credibilità degli italiani arrestati che su quella delle autorità di Kabul.

Il drastico aggiustamento di linea, tuttavia, non va visto come l’apertura di una crepa da parte dell’Italia dentro la coalizione che sostiene (con notevole prezzo di sangue e di denaro) Hamid Karzai. In realtà è quella di oggi, non la precedente posizione, ad allineare correttamente il governo di Berlusconi agli Usa: in questo momento il presidente afghano non è un interlocutore affidabilissimo degli Occidentali.

Karzai non è saldamente in sella, e, per dirla tutta, gli americani se potessero ne farebbero volentieri a meno. Forse il viaggio a Washington ha chiarito (ma queste sono solo supposizioni) l’esatta misura delle relazioni fra gli Stati Uniti e il governo afghano. O forse l’aggiustamento è derivato solo da una pausa di riflessione: ieri il «Foglio», quotidiano sempre molto influente nel nostro governo, ha raccontato con la consueta autorevolezza la recente odissea di irritazioni e tensioni fra Obama e Karzai, definito per altro recentemente da Peter Galbraith, ex inviato Onu in Afghanistan, senza tanti giri di parole «sotto influenza di sostanze narcotiche». Il dubbio che erode i rapporti fra Washington e Kabul da mesi è molto chiaro: si può vincere la guerra al terrorismo con un alleato del genere?

Fra i due protagonisti di questa storia, nell’ultimo anno si è sviluppato infatti un rapporto di forza inversamente proporzionale - l’Afghanistan è diventato il fronte di guerra più importante per Obama proprio mentre il presidente Karzai diventava sempre più incontrollabile e inaffidabile. Che fra le due traiettorie ci sia un intreccio, appare del tutto ovvio.

Come ben si sa, Obama ha ereditato la guerra contro i talebani e non ha potuto chiuderla come ha fatto in Iraq. Sottrarvisi - secondo tutti i suoi esperti - avrebbe comportato il rischio di impantanarsi in un conflitto di lungo periodo, o in una perdita secca di quel poco di controllo che gli Usa sono riusciti a stabilire nell’area. Una ritirata tanto più impossibile mentre il confronto con l’Iran si fa sempre più duro e la minaccia di Al Qaeda non recede. Obama, presentatosi come uomo della pace, in Afghanistan ha impegnato così migliaia di nuove truppe nonché la sua faccia. Possiamo solo immaginare quel che significhi per lui ritrovarsi come alleato Karzai, che dovrebbe rappresentare agli occhi del suo Paese la democrazia e il futuro, e che invece affonda nella corruzione.

Alle radici delle tensioni ci sono le fraudolente elezioni che hanno portato lo scorso anno alla riconferma del presidente afghano. Avrebbero forse potuto e dovuto essere annullate, ma nelle condizioni di guerra in corso una decisione del genere avrebbe fatto precipitare ogni strategia americana nel caos.

Da allora le relazioni non sono mai più state le stesse. Karzai è accusato ogni giorno da media ed esperti di «comportamenti incomprensibili e bizzarri». Si diceva di Peter Galbraith, che a Karzai ha dato del drogato in maniera semiufficiale, solo tre settimane fa. Ma va ricordata anche l’inchiesta pubblicata di recente dal «New York Times» in cui si rivela che il fratello del presidente Karzai, Ahmed Wali, è pagato dalla Cia ed è un barone del narcotraffico.

Il presidente afghano risponde da tempo a queste pressioni colpo su colpo. Dal giurare che «se le pressioni continueranno mi schiererò con i taleban», fino all’invito rivolto al presidente dell’Iran Mahmoud Ahmadinejad a visitare l’Afghanistan. La versione degli uomini del governo afghano è molto semplice: gli Usa accusano perché preparano in anticipo la giustificazione alla loro sconfitta militare, e al ritiro già annunciato del 2011.

Tuttavia, con un’offensiva in corso, quella di Kandahar, Washington non può e non vuole andare più in là. La Casa Bianca ha infatti già annunciato una visita di Karzai in Usa il prossimo mese, a maggio, in segno di distensione. Ma la freddezza è destinata a durare. E non si dovrebbe escludere che anche il caso italiano sia parte di questo sviluppo negativo dei rapporti fra missione occidentale e afghani. Certo è che la lettera di ieri del premier Berlusconi sembra non solo riscrivere il contesto in cui è stato deciso l’arresto degli uomini di Emergency, ma delineare una presa di distanza oggettiva anche del nostro Paese dal governo afghano.

Se, come e quando si potrà avvertire questo cambio, dipenderà molto proprio da come si svilupperà la vicenda dei prigionieri italiani.

da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Il fascino del terzo uomo
Inserito da: Admin - Aprile 20, 2010, 09:37:50 am
20/4/2010

Il fascino del terzo uomo

LUCIA ANNUNZIATA

Specchio, specchio delle mie brame chi è il più implausibile del reame?

Il popolare ritornello della vecchia favola risuona, secondo Timothy Garton Ash, nelle elezioni inglesi del 6 maggio. Il primo candidato, Gordon Brown, Primo ministro, risulta implausibile perché «il Labour ha smantellato significativi elementi del vecchio ordine costituzionale senza crearne uno nuovo»; il secondo, David Cameron, per essere rappresentante di «Conservatori che pretendono di essere Giacobini, un Burke vestito da Paine»; per quanto riguarda il terzo, Nick Clegg: «I liberal democratici rimangono implausibili alla loro dolce maniera. La loro piattaforma prevede cambi rilevantissimi. Ma chi crede che avranno mai il potere per realizzarli?». Va notato che l’elegante e preciso scetticismo dell’articolo offre anche una quarta, sia pur indiretta, valutazione: Timothy Garton Ash esamina tre candidati. Tre, non due.

Anche la Gran Bretagna, possiamo dunque dire, si arrende alla tentazione, e, probabilmente (se le cose vanno come anticipano le indagini preelettorali) alla seduzione del Terzo Uomo. Dal 15 aprile l’esistenza di questo ulteriore protagonista è stata formalizzata dalla (e da chi altro?) televisione. Il «dibattito fra candidati», vecchio strumento di lavoro di tutti i Paesi occidentali, per la prima volta è stato ammesso anche nella tradizionale Inghilterra. E non è affatto un caso che le due cose abbiano proceduto d’accordo: il confronto in tv e l’affermazione del terzo candidato.

Dopo il confronto televisivo, Clegg è addirittura saltato in testa nei sondaggi. I Liberal Democrat ieri sfoggiavano un bel 33 per cento di favori popolari, in posizione di testa nei poll YouGov Plc che ogni giorno pubblica il quotidiano Sun, contro il 32 per cento di David Cameron e il 26 per cento di Gordon Brown.

Non che questo significhi qualcosa: in tutto il mondo gradimento e voto non sono la stessa cosa. Eppure, il fenomeno c’è e va guardato con attenzione. A cominciare dal fatto che molti inglesi scontenti abbiano (in verità con una certa fretta) evocato Obama per spiegare Clegg.

Quanto e perché l’Inghilterra sia affascinata dal leader liberal democratico, lo vedremo poi alle urne. Quel che è importante per noi è invece notare come la vicenda inglese conferma una regola non scritta che è divenuta però ormai tratto consuetudinario delle nostre democrazie: la vitale presenza di un Terzo Uomo nei passaggi elettorali più delicati.

Va intanto precisato cosa si intenda con questa definizione. Anche nel sistema bipolare più ferreo, candidati di partiti minori sono sempre stati presenti. Diverso è quando, com’è il caso di Clegg, uno di loro diventa così decisivo da alterare la competizione elettorale.

Forse è Ross Perot, industriale texano che nel 1992 si inserì fra Clinton e Bush padre facendo in effetti vincere il democratico, il caso più clamoroso dei decenni scorsi. Ma Barack Obama può in qualche modo rientrare in questa categoria: diventa infatti il terzo uomo delle primarie, riscrivendo lo scontro già definito fra Hillary e McCain. Un altro caso di Terzo Uomo decisivo, lo abbiamo proprio da noi, in Italia, nella persona di Umberto Bossi, che oggi con la sua Lega addirittura condiziona l’intero bipolarismo. A suo modo lo stesso Silvio Berlusconi lo è stato, al declino della prima Repubblica; e, sempre rimanendo nell’esempio non perfetto del sistema proporzionale, va ascritto anche a Bettino Craxi un ruolo di Terzo e decisivo incomodo. E perché non inserirvi anche quel Sarkozy che è emerso come terza opzione nazionale in quanto anima diversa del suo stesso partito? Non meraviglia dunque che spuntare come numero tre sia diventato una sorta di luogo mitologico della politica moderna: ne fa testo la ostinata ricerca perseguita nel nostro orizzonte nazionale da leader come Casini, Rutelli, e, oggi, Gianfranco Fini.

Tutti gli esempi fin qui fatti rappresentano casi diversissimi tra loro. Accumularli sotto una identica voce ci pone a rischio di una severa bocciatura di ogni buon professore costituzionalista. Ma la politica moderna, quella dei cittadini acculturati, quella che ha la comunicazione come spina dorsale, si fonda anche sulle associazioni emotive, e le suggestioni.

Ancor prima che politica, c’è una dinamica culturale nella richiesta di un Terzo protagonista. Il doppio è perfezione tale da pendere verso l’occlusione. Il Terzo Uomo è infatti anche figura letteraria dell’inquietudine - come vuole il romanzo\screenplay di Graham Greene. Il terzo candidato è dunque colui che si afferma quando il sistema conosciuto entra in fase di affanno. E in questi passaggi, in cui da una parte e dall’altra le alternative non appaiono più soddisfacenti, si materializza spesso il miracolo di un underdog, di un fuori gara. Di uno sconosciuto la cui presenza serve soprattutto a dimostrare i limiti di quel che già si conosce.

Non a caso, dicevamo, c’è uno stretto legame, spesso, fra l’affermazione di questi irregolari, e il dominio preso nelle nostre democrazie dalla comunicazione-televisione sulle campagne elettorali. E' solo lì infatti, nella rappresentazione della politica, che le differenze possono essere messe in scena e raccontate e capite. Clegg in tv si è presentato come alternativo ad entrambi i suoi opponenti: facile da fare per una forza politica che non ha mai governato. Ma il successo della sua differenza ci parla soprattutto dello stato d’animo di chi va a votare in Inghilterra oggi: il senso dell’esaurirsi di una fase politica.

Come ben dice lo stesso Clegg: «C’è oggi una fluidità in queste elezioni che non ho visto in una generazione. Le vecchie certezze, i vecchi riti che governano il ricorso alle urne si stanno rompendo». Parole che, come si diceva, trovano oggi una indubbia eco anche negli umori con cui è appena andato alle urne il nostro Paese.

da lastampa.it


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - A Londra finisce la Terza Via
Inserito da: Admin - Maggio 06, 2010, 11:53:54 pm
6/5/2010

A Londra finisce la Terza Via

LUCIA ANNUNZIATA

Qualunque sarà il risultato, una cosa è sicura fin da ora: le elezioni che si tengono oggi in Inghilterra segnano la fine di un’epoca, e non solo per gli inglesi. Il Labour Party, da dodici anni al potere, è l’ultimo sopravvissuto di un’idea politica e di un periodo in cui quest’idea sembrava essersi realizzata nei governi dei principali Paesi dell’Occidente - la Terza Via, immaginata, e battezzata, proprio in Uk dall’attivismo intellettuale del filosofo sociologo Anthony Giddens, con il nobilissimo ascendente di un libro del 1938, The Middle Way, scritto da Harold McMillan, primo ministro a Londra dal 1957 al 1963.

Cosa volesse essere la Terza Via, lo diceva, efficacemente, il nome: il rifiuto di scegliere fra destra e sinistra, reinventando un terzo luogo della politica, dove potessero unirsi il liberismo capitalistico e lo Stato sociale caro alla sinistra. Dopo tanti anni di guerre fredde e non, dopo la scossa della caduta del Muro, dopo un secolo quasi di dispute ideologiche e lacerazioni, una ridefinizione della storia così semplice e immaginifica sembrò la soluzione perfetta.

A un certo punto, alla fine degli Anni Novanta, l’intero mondo occidentale sembrava ammansito e sedotto da questa terza strada. Ci fu un momento in cui i maggiori Paesi industrializzati erano governati da partiti e politici nati dentro quest’idea, una nuova generazione di leader con davanti quello che sembrava un magnanimo futuro denso di sviluppo economico, innovazione tecnologica, e privo di gravi contraddizioni.

L’apogeo e la rappresentazione di queste nuove forze hanno una data e un luogo italiano: Firenze, 21 novembre 1999.

Faceva freddo, quella mattina, con le colline fiorentine imbiancate dalla prima neve dell’anno. Le storiche pietre delle pareti del Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio trasudavano gelo sui 500 ospiti che attendevano un convegno di due giorni intitolato, modestamente, «Il riformismo nel XXI secolo». Di fronte ai cinquecento, dietro un lungo tavolo rosso posto su un’alta piattaforma, in attesa di parlare di «La nuova economia: uguaglianza e opportunità», c’era la più folta delegazione di leader al di fuori della Assemblea Plenaria dell’Onu: Bill Clinton, Massimo D’Alema, Tony Blair, Lionel Jospin, Gerhard Schröder, Fernando Cardoso. Onori di casa affidati a Romano Prodi, presidente della Commissione Europea. Non ci si può molto credere oggi, ma in quel 1999 - sull’orlo del disastro si dirà ora con il senno del poi - governi di sinistra riformista guidavano gli Stati Uniti, l’Inghilterra, la Francia, la Germania e il Brasile. Ognuno dei 500 presenti aveva lottato, litigato, brigato, e mentito per venire a occupare una seggiolina davanti a tali potenze. In prima fila le first lady, prima di tutte le anglo Hillary e Cherie guidavano la folta delegazione di signore/\deputate/\imprenditrici/\giornaliste/\letterate che la Terza Via aveva proiettato nell’universo della perfetta metà del cielo - la nuova donna colta-chic che faceva da musa e compagna nel percorso dei nuovi leader. E se i 500 posti nel salone era stato un inferno assegnarli, immaginate la definizione dei posti a tavola nelle varie colazioni, cene, breakfast che scandirono quelle giornate. Un universo che si celebrava come estremamente raffinato, oltre che intelligente: discuteva di occupazione, welfare, sfida della globalizzazione, teoria politica al volgere del decennio del Muro, tra una visita alla ex Villa di Sir Harold Acton e una cena firmata Vissani. Un migliaio di giornalisti accreditati, delegazioni estere che sfioravano le 700 unità, tremila addetti alla sicurezza italiani, e 500 uomini di 90 corpi speciali solo per la sicurezza del presidente Usa.

Il cielo sembrava l’unico limite, nella Firenze della Terza Via. Ma uno stillicidio di sconfitte avrebbe presto decimato il gruppo. Il 25 aprile del 2000 si dimetteva Massimo D’Alema. Nel 2001 Bill Clinton lasciava la Casa Bianca; dopo di lui veniva eletto per otto anni il repubblicano George Bush. Lionel Jospin terminava il suo mandato di primo ministro nel 2002. Presentatosi candidato alla presidenza francese, veniva eliminato al primo turno, dopo essersi piazzato ultimo, dietro Jacques Chirac e Jean-Marie Le Pen. Schröder in Germania avrebbe continuato fino al 2005 al governo: si sarebbe sistemato rapidamente con un incarico nell’azienda petrolifera russa Gazprom, ma il suo partito subì la drastica sconfitta della elezione di Angela Merkel.

La esperienza della socialdemocrazia si rivela così solo una stagione, che non lascia dietro di sé una solida eredità per la sinistra democratica.

Dell’originario gruppo di leader riformisti che va al potere dopo la metà degli Anni Novanta, l’unica continuità è segnata in Brasile, dove a Cardoso segue Inacio Lula, e in Inghilterra, dove a Blair segue Brown. Ma da oggi anche in Inghilterra la socialdemocrazia chiuderà i battenti, e con essa un’epoca e una idea.

Tempo dunque di bilanci. Che tocca fare agli storici, non ai giornali. Ma un paio di suggestioni qui si possono far balenare. La prima è che la stagione di cui abbiamo parlato, seppur breve, ha avuto una funzione fondamentale come cuscinetto fra l’intensa territorialità (fisica e mentale) della Guerra Fredda e le vertiginose aperture della Globalizzazione. La seconda è che la conciliazione fra istanze sociali e liberismo è possibile solo in società molto ricche, quali sono state le nostre in quel periodo: la Nuova Economia degli Anni Novanta e la sua drastica interruzione nel 2000 sono all’origine e alla fine del ciclo socialdemocratico occidentale. La destra che arriva quasi ovunque dopo il 2000 arriva proprio sull’onda di un ciclo economico di crisi.

Infine, un’annotazione laterale ma non inessenziale: la Terza Via fu portata al governo dalla generazione che si era formata negli Anni Sessanta. Di quella generazione ha costituito il momento forse più alto, nonché, a guardare oggi indietro, la fine.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7309&ID_sezione=&sezione=


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Equilibri stravolti
Inserito da: Admin - Giugno 01, 2010, 11:37:22 am
1/6/2010

Equilibri stravolti

LUCIA ANNUNZIATA

C’era una volta la capacità di Israele di eseguire operazioni militari con il minimo di spargimento di sangue e il massimo di successo. Un esempio, l’«operazione Entebbe» del 4 luglio del 1976, in cui 100 uomini delle forze speciali di Israele sottrassero ai palestinesi 103 su 105 ostaggi ebrei, dopo aver percorso 4000 km in volo senza farsi intercettare dai radar di mezza Africa, e dopo solo 90 minuti di azione di terra. Oggi quello stesso esercito non riesce più nemmeno a fermare una piccola flotta di pacifisti senza fare una strage.

Fra i due episodi un legame evocativo: a Entebbe l’unico morto ebreo fu il comandante del commando, il leggendario Jonathan Netanyahu; l’operazione sanguinosa di Gaza oggi è invece il suicidio politico del fratello minore di Jonathan, il premier Benjamin (Bibi) Netanyahu. Israele è terra di famiglie, terra di storia accelerata e drammatica. Il nesso fra i due Netanyahu, i loro ruoli e il loro successo o no, è una vicenda che misura nello spazio di una generazione familiare le evoluzioni del Paese. Le più rilevanti delle quali riguardano proprio, in maniera intrecciata, l’esercito e la leadership di Israele.

L’operazione Gaza nasce infatti nel segno dell’indebolimento delle forze armate israeliane. Operazione non pensata, non preparata, eseguita con il personale sbagliato - militari invece che poliziotti, tecnica di assalto invece che semplice blocco navale - e, soprattutto, con uomini privi di senso della realtà: soldati che rispondono con il fuoco alla resistenza con sbarre di ferro sono uomini impauriti, confusi sulla propria missione. Cioè l’esatto contrario di un addestrato corpo scelto.

L’indebolimento della forza militare di Israele si è del resto fatto progressivamente sempre più visibile nelle ultime guerre. L’invasione del Libano fu mal calcolata, sanguinosa anche per l’esercito ebraico e, alla fine, non vittoriosa - solo la mediazione internazionale rimise insieme i cocci e la reputazione del governo di Gerusalemme. La successiva invasione di Gaza è stata sproporzionata, inutile e, anche questa, priva di sostanziali risultati. L’indebolimento della supremazia militare israeliana è una delle maggiori evoluzioni strategiche del Medio Oriente e, come si è visto ieri, si rivela un fattore di pericolo per tutta l’area, ma anche per la stessa Israele.

Che ci sia un profondo intreccio fra debolezza militare e indebolimento della leadership è fatto innegabile. Dopo l’ultimo vero leader militare e politico, quel Rabin che piegò la prima Intifada, ma si piegò lui stesso agli accordi di pace, la guida di Israele oscilla fra pragmatici, un po’ corrotti, e superideologizzati, come Netanyahu. La mancanza di un chiaro sbocco per il futuro provoca l’ansia, la confusione, e l’autoritarismo da cui nascono tutte queste guerre sbagliate.

In questo senso il Primo Ministro di Israele è profondamente responsabile di quel che è successo nel mare davanti a Gaza, anche se era in Canada. Sua è la responsabilità di un leader che naviga a vista, e che non sembra capire la possibilità degli eventi di precipitare. Le uccisioni di Gaza sono figlie della paranoia politica che, tra le altre cose, è stata rinforzata nell’ultimo anno dalla convinzione da parte di Israele di non avere più in Obama l’alleato che ha sempre avuto nei precedenti presidenti Usa. E proprio nel nuovo strappo che la strage ha causato nel rapporto con Washington c’è la migliore prova del boomerang che la strage sulla nave costituisce per il governo di Gerusalemme. Saltato è infatti l’incontro che proprio oggi doveva avvenire a Washington fra i due capi di Stato. Questo ultimo, il quarto in pochi mesi, era stato organizzato da Rahm Emanuel, capo dello staff della Casa Bianca, a riprova dei tanti fili ancora da riparare fra Washington e Gerusalemme. Netanyahu e Obama sono oggi invece ognuno a casa propria, e la crisi assume a questo punto una valenza regionale.

Il presidente americano, impegnato con la difficile situazione in Afghanistan, con le tensioni con l’Iran e quelle fra le due Coree e, in patria, con il disastro petrolifero e le elezioni a novembre, non ha né agio né tempo per aprire nuovi fronti. Per l’amministrazione affrontare (sia pur non risolvere) la questione palestinese è snodo cruciale per poter mettere sul tavolo della sua politica in Medio Oriente la prova di qualche progresso nel conflitto più storico. Per questa ragione Washington era riuscita il mese scorso a far digerire a Israele l’idea di una ripresa di colloqui di pace - in verità così sciolti da essere chiamati «proximity talks», fatti cioè attraverso l’inviato Usa George Mitchell. Questi colloqui, appena iniziati, dopo la strage, possono considerarsi chiusi.

Così come interrotti sono ora i rapporti fra Israele e Turchia, che è stato uno dei pochi interlocutori fra i Paesi musulmani di Gerusalemme. Con la conseguenza di spingere ulteriormente in direzione radicale l’orientamento della pubblica opinione di Istanbul. Non meglio esce il rapporto costruito fra Il Cairo e Israele. Finora infatti l’Egitto ha tenuto chiusa la sua frontiera di Rafah con Gaza, in silenzio/assenso alla politica israeliana di isolamento di Hamas. La pressione sull’Egitto a rompere questa politica è ora inevitabile. La strage di Gaza consegna, infine, ad Hamas la più seria vittoria di immagine finora conseguita dall’organizzazione.

La politica palestinese in Cisgiordania e Gaza è profondamente diversa, dopo la rottura che ha opposto Hamas a Fatah. Negli ex Territori Occupati, il Presidente e il primo ministro Fayyad, riconoscono Israele, hanno mantenuto aperti i canali di negoziazione, hanno acquisito una parte di diritto di governo indipendente, in un’alleanza con i governi occidentali. A Gaza invece Hamas è fisicamente accerchiata, è disconnessa per scelta da ogni contatto con Israele, la cui esistenza non è stata mai legalmente riconosciuta, e guarda come alleato principale all’Iran. Da queste differenze sono nate guerre intestine pesanti: Fatah ha fatto prigionieri, torturato e ucciso gli uomini di Hamas - e viceversa, a Gaza. Secondo informazioni recenti, è in corso fra le due fazioni anche un’intensa guerra di spie per boicottare l’uno l’altro. In questa guerra semisegreta Egitto e Usa sono stati finora al fianco dei Palestinesi in Cisgiordania, nella speranza che la conquista di egemonia di Fatah su Hamas fosse l’unica soluzione per riprendere in mano la esplosiva Gaza.

La divisione fra Palestinesi in questi ultimi anni è stata insomma un bonus per il governo di Gerusalemme. La strage di Gaza cambia gli equilibri di nuovo, e consegna la bandiera morale al radicalismo di Hamas e, dunque, dell’Iran.

Se non fosse che Bibi è in queste ore già un politico mezzo morto, varrebbe la pena di dirgli: congratulazioni. Dopotutto ci vuole una grandiosa incapacità per rompere un intero equilibrio regionale, tutto, e tutto insieme.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7427&ID_sezione=&sezione=


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Se Benedetto parla come Obama
Inserito da: Admin - Giugno 07, 2010, 09:23:31 am
7/6/2010

Se Benedetto parla come Obama

LUCIA ANNUNZIATA

Se è possibile mischiare cose che si muovono fra cielo e terra senza irriverenza, si potrebbe dire che il Santo Padre ieri si è espresso sul Medio Oriente come un democratico americano. Usiamo questa formula non per sminuire il discorso di Benedetto XVI, ma per sottolineare con chiarezza quanto di nuovo ci sembra sia emerso dal discorso con cui ha detto addio a Cipro, e dal documento che prepara il Sinodo sul Medio Oriente che si terrà a Roma in ottobre.

La frase che certamente ha avuto più impatto, anche emotivo, riguarda la chiara definizione di responsabilità di Israele: «L’occupazione di Israele dei territori palestinesi sta creando difficoltà nella vita di tutti i giorni, impedendo la libertà di movimento, della vita economica e religiosa», ha detto il Papa, definendola «un’ingiustizia politica imposta ai palestinesi».

Ma è davvero questa una drastica presa di posizione? In realtà su Israele il Vaticano non ha mai avuto toni teneri. Basta riandare con la mente agli interventi pubblici della Chiesa di Roma in merito alla invasione di Gaza da parte di Israele nel 2008.

Più rilevante pare oggi una precisazione che sottolinea la gravità dell’occupazione: un atto, dice Benedetto XVI, «che nessun cristiano può giustificare con pretese teologiche». Il riferimento è fra i più duri, e coinvolge quell’enorme movimento di neo-evangelici (in Usa alcuni ne contano 50 milioni) che giustificano con il percorso della fine della storia, l’esistenza di Israele, e militano al suo fianco. È un fenomeno molto conosciuto negli Stati Uniti, che ha avuto il volto soprattutto del predicatore Jerry Falwell, uomo noto per il suo radicalismo repubblicano.

Forse qui troviamo una chiave di volta del discorso del Papa. Forse è proprio la condanna di ogni estremismo, in qualunque religione, o meglio l’uso della religione come giustificazione di estremismo politico, ad essere il filo che percorre l’intervento di Benedetto XVI.

Meno risalto hanno avuto ieri le sue parole sul mondo arabo, ma non sono state meno forti. Se la relazione con gli ebrei è stata definita «essenziale, benché non facile», quelle «tra cristiani e musulmani sono, più o meno spesso, difficili», ha detto il Papa. E ha introdotto una ragione di distanza fra mondo musulmano e visione cristiana di natura politica oltre che religiosa: «Soprattutto per il fatto che i musulmani non fanno distinzione tra religione e politica, il che mette i cristiani nella situazione delicata di non-cittadini». Un taglio netto, e di profonda inconciliabilità, attuato intorno all’idea di cittadinanza, e che in maniera elegante parla dell’essenza di una dittatura.

Benedetto XVI, dunque, ieri non ha risparmiato critiche a nessuno dei protagonismi radicali in Medio Oriente: che sia l’esercizio delle armi di Israele, o il giustificazionismo in nome del Vangelo, o le dittature arabe.

In questo senso la denuncia che ha fatto della precarietà e delle responsabilità mediorientali, non si riferisce solo al governo di Gerusalemme: «Da decenni, la mancata risoluzione del conflitto israelo-palestinese, il non rispetto del diritto internazionale e dei diritti umani, e l’egoismo delle grandi potenze hanno destabilizzato l’equilibrio della regione e imposto alle popolazioni una violenza che rischia di gettarle nella disperazione». In questo senso, nella sua posizione si avverte quella di Obama: la novità che agisce oggi in Medio Oriente, e che è all’origine di molte delle tensioni, è proprio il cambiamento di lettura che vi ha portato il Presidente Usa. Con il suo discorso del Cairo agli arabi, Obama ha spostato lui stesso l’accento dalla ragione di questo o quello Stato, alle ragioni della cittadinanza: diritti umani, diritti civili, libertà, benessere, ovunque essi vengano violati. Un discorso che certamente ha in parte allontanato gli Usa dal loro ruolo di difensori senza se e senza ma di Israele, che però ha il merito di poter suonare la stessa campana dappertutto, e in tutte le orecchie. Dalla diplomazia, alla società civile, si direbbe in gergo europeo.

Interessante è dunque che anche il Papa abbia parlato di cittadinanza da recuperare, nel senso dei valori di individuo e di libertà innanzitutto. Benedetto XVI si riferisce ai cristiani. Sappiamo qual è la sua preoccupazione su questo tema alla luce delle persecuzioni che i cristiani subiscono in tutti i Paesi arabi, certo non solo a Gaza o nei Territori ex Occupati della Cisgiordania. L’uccisione in Turchia di padre Padovese è ancora nella testa di tutti. La richiesta ai cristiani di diventare il metro di misura dei diritti di tutti è, in effetti, la scelta anche da parte del Santo Padre di puntare sul protagonismo della società civile prima ancora che sui grandi accordi internazionali.

Fin qui l’analisi razionale delle parole. Ma c’è un aspetto emotivo negli interventi - e anche questo va valutato. È indubbio che l’intervento papale è risuonato soprattutto per le affermazioni su Israele. Ed è indubbio che questa eco c’è stata a causa del massacro di pacifisti sulle navi dirette a Gaza. La nostra percezione, in questo senso, più che delle posizioni del Vaticano, ci racconta quanto forte sia in questo momento il sentimento nell’opinione pubblica contro Israele.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7449&ID_sezione=&sezione=


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - L'orgoglio del Sud
Inserito da: Admin - Giugno 25, 2010, 10:20:46 am
25/6/2010

L'orgoglio del Sud
   
LUCIA ANNUNZIATA

Quando aprì nel 1972 persino la sua cruda estetica sembrò un riconoscimento di eguaglianza. L’ampia colata di cemento dei piazzali che respingevano ai margini il caos edilizio dell’entroterra, le cancellate, i pallidi fari gialli - tutta quella aspra modernità odorava di fabbrica, produzione, lavoro, operai, futuro, insomma Nord. Quando nel 1972 aprì a tempi di record l’Alfa Sud (la prima pietra era stata posata il 17 gennaio del 1968, alla presenza dell’allora presidente del Consiglio Aldo Moro) a Pomigliano d’Arco, Napoli fu travolta da un grande orgoglio.

Infatti Pomigliano divenne fin da subito il magnete della vita politica e sociale di quegli anni: il luogo dove come studenti universitari andavamo la mattina a volantinare, il posto dove i politici si facevano vedere per ottenere e dare consenso, l’appuntamento dei giornalisti per capire il polso del Paese, mentre i turni giravano, e lo Stabilimento (a Napoli è questo il termine comune per Fabbrica) accoglieva o sputava fuori fiumi di uomini e donne, che passavano, con il loro odore di lavoro, fatica, sudore, protesta, a testa alta. Tutta quella roba lì, sotto il Vesuvio, era la prova che il Sud era come il Nord, una grande immagine che mandava in archivio la questione meridionale scritta sempre tra virgolette, le parabole di Eboli, Gesù, e Masaniello.

Se oggi l’ingegner Marchionne avesse bisogno di un solo suggerimento mentre decide cosa fare, dopo il referendum di martedì, della sua fabbrica a Pomigliano d’Arco, mi piacerebbe che includesse nei suoi pensieri anche quell’orgoglio che travolse il Sud di fronte alla fabbrica oggi in discussione; che realizzasse appieno che quello stabilimento ha fatto di più per il senso dell’unificazione del Paese dello stesso sbarco dei Garibaldini più di un secolo prima. La costruzione dell’Alfasud è stata una delle più riuscite operazioni di «empowerment» (termine familiare ai manager) che il Sud abbia conosciuto. Tutto questo per dire che di fronte al grande dilemma se si può o no tornare a investire nel Sud non si può rispondere solo guardando al qui e ora. Va guardata nel suo insieme l’intera storia della industrializzazione del Sud, e, vista in un arco di tempo ampio, questa storia si rivela di segno positivo, non negativo. Al di là (e al di qua) di tutto quello che non ha funzionato nei quarant’anni scorsi, il Sud di oggi non è quello degli Anni Settanta grazie proprio alla presenza di queste grandi fabbriche. E non è certezza da poco.

Che poi questo sviluppo industriale sia stato accidentato, sbagliato, e persino frammentato da conflittualità, incompetenze, indifferenze, e corruzione, non lo nega nessuno. I dati dell’assenteismo, dello sprezzo, dei boicottaggi operai negli anni passati a Pomigliano d’Arco sono scritti nero su bianco, e nemmeno i sindacati li contestano. Ma quello che è avvenuto negli anni passati è una realtà che continuerà a perpetuarsi? C’è da augurarsi di no, c’è una nuova strada che il Sud può e deve percorrere.

Si dice che il meridionale ha nel suo Dna il ribellismo, o il rifiuto del lavoro; che la malavita organizzata ha tale presa culturale sulla società da renderne impossibile ogni inserimento in una logica trasparente di mercato; che il doppio lavoro ha tale peso nella economia in nero del Sud da non poter essere piegato alla logica della produzione continua che una fabbrica richiede. Ma a parte il fatto che ognuna di queste affermazioni ha scarsa base scientifica, la risposta che la Fiat deve dare - cioè se è il caso o no di tornare a investire al Sud - ha molto poco a che fare con l’antropologia e il consenso. Ha invece tutto a che fare con il mercato, l’efficienza e i rapporti di forza. Cioè con le leggi che regolano la produzione.

Provando a riavvolgere il nastro di questa vicenda industriale che si pone oggi come decisiva per il futuro del Paese, l’anello debole della catena di decisioni appare l’averla fatta diventare paradigmatica. La scelta del referendum, in particolare, è stata la miccia che ha caricato in maniera esplosiva quella che per altri versi poteva (e può ancora) essere gestita come una regolare vicenda industriale.
Quali sono i fondamentali economici della vicenda di Pomigliano? Che ci sono nuove condizioni della produzione che richiedono maggiore elasticità: la Fiat ha messo le sue proposte sul piatto e ha fatto una offerta conseguente. Gli operai a loro volta sanno che queste sono le condizioni, visti gli anni di crisi che hanno attraversato, e non si sono arroccati sul tradizionale rifiuto. Non fosse stato per il referendum, oggi questi sarebbero i dati di fatto.

Era proprio necessario questo referendum? per tutti i soggetti coinvolti, come si è visto, era importantissimo - con la conseguenza che è diventato paradigmatico anche per gli operai. La scelta del sì o del no ha finito infatti con il significare che non solo si doveva approvare un piano di sacrifici, ma adottarlo con «consenso».

Un punto di non poco conto. Industriale ed etico. Il consenso operaio a priori, eliminando alle radici ogni frizione e differenza, elimina il rischio della gestione della conflittualità, un valore che, come ogni moderno manager sa bene, è il vero azzardo delle produzioni nei Paesi democratici avanzati, con i loro diritti, il loro livello di alfabetizzazione e richieste. Inoltre, come immaginiamo un manager come Marchionne ben sappia, la costruzione di una impresa in cui il consenso sposa il sacrificio è la realizzazione non solo di un successo di produzione, ma anche di un universo conciliato, partecipe. Il sogno, molto democratico, di un mondo del lavoro che raggiunge l’equilibrio della compartecipazione.

Marchionne sogna questo sogno. Lo abbiamo ben capito da quello che ha costruito con i sindacati in Usa. Avrebbe voluto lo stesso nel Sud.
Ma senza voler costruire, come si diceva, teorie sul nulla, le relazioni che abbiamo in Italia si fondano sulle differenze, incluse quelle geografiche fra Nord e Sud e forse da noi la perfezione è impossibile.

Quale è infatti la lezione profonda del referendum di Pomigliano? Che il Sud vuole lavorare e vuole fare sacrifici, come si è visto dal risultato dei consensi del referendum che, non dimentichiamo, sono maggioritari. Quello che non vuole concedere è invece un perfetto matrimonio di intenti e di interessi. Ma è davvero questa una condizione che condanna alla paralisi o ci sono ancora strade da percorrere per allargare il consenso? E forse non dobbiamo considerarla anche una prova di consapevolezza, orgoglio, identità, sia pur caparbia, del mondo del lavoro del Sud? Questa è la partita che si giocherà nelle prossime settimane.

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Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Larry King la Tv gentile va in pensione
Inserito da: Admin - Luglio 01, 2010, 04:59:58 pm
1/7/2010

Larry King la Tv gentile va in pensione
   
LUCIA ANNUNZIATA


Ha fatto 25 anni nella stessa sedia, nella stessa serata, nello stesso palinsesto, e ha portato a casa 40 mila interviste guardate e ammirate (o odiate) in tutto il mondo, da Bill Clinton a Lady Gaga, da Michelle Obama, a Dolly Parton. Ma neppure questa immane fatica lo avrebbe atterrato, alla sua tenera età, se non fosse stato per lo share, quel numerino che indica la percentuale di spettatori fra quelli che guardano la televisione in quel momento che guarda solo te. Numero magico, cui sono legati carriere e contratti, e che per Larry King negli ultimi anni è stato il termometro del suo lento declino.

Più che a un vecchio leone, il saluto a Larry e alle sue bretelle, è infatti l’addio a una formula, a un tipo di intervista, a un’era della comunicazione tv. Non morirà con lui infatti lo spazio da lui creato: ma finisce con lui quel tipo di colloquio gentile, ironico, mai puntuto, in ogni caso generico, che erano le sue interviste, indicazione di un’epoca in cui la tv parlava a tutti, doveva arrivare a tutti e farsi capire da tutti.

La conclusione della carriera di Larry King viene alla fine di un lungo periodo di trasformazione della televisione in Usa, e ne segna probabilmente la conclusione di un’era. Per quanto poco se ne parli, in effetti, questo percorso somiglia molto più di quel che si pensi all’evoluzione in corso nella carta stampata. I due grandi media della modernità, in maniera pur così diversa, negli ultimi vent’anni hanno avuto la stessa vicenda: sono passati dall’essere giganti dominanti della formazione della grande opinione pubblica, a giganti lentamente erosi dalla competizione, la dispersione, la molteplicità, e la creatività di tanti altri media.

Così come la carta stampata ha perso il suo monolitico controllo di mercato e copie, a favore di Internet, così la tv generalista e il suo gigantismo si sono frammentati nei tanti rivoli dei molti modi con cui la tv si costruisce e si fruisce, cable, web, satellite, digitale. Questo passaggio non è tuttavia solo un fatto tecnologico, ma è la evoluzione stessa della società, del modo in cui parla di se stessa, e in cui si percepisce e si costruisce.

Il c’era una volta dei media a cui Larry King appartiene, era un mondo in cui alcuni giganti, il cui numero stava ampiamente nelle dita delle due mani, rappresentavano il pinnacolo della informazione. Washington Post, New York Times, Los Angeles Times, Wall Street Journal e i network tv Cbs, Abc, Nbc costituivano la spina dorsale del formarsi della opinione pubblica americana. Una loro parola faceva e disfaceva presidenti. I loro giornalisti vincevano e perdevano le guerre. Era questo il sistema mediatico che poteva decidere di non dire nulla dell’invasione di Cuba, su richiesta del presidente Kennedy, e il pubblico (come accadde) non lo avrebbe mai saputo se non a cose fatte. Era quel sistema mediatico in cui un unico giornalista, Walter Cronkite, poteva divenire «l’uomo di cui l’America si fida di più» e il cui commento sulla guerra in Vietnam, nel ‘68 portò il presidente Lyndon Johnson a dire: «Se ho perso Cronkite, ho perso la maggioranza degli americani».

Erano gli anni in cui chi scriveva o chi andava in tv poteva formare i giovani e ispirare progetti. I loro nomi non erano infatti carriere, ma stelle del firmamento. Come David Brinkley del «Huntley e Brinkley report» degli Anni Settanta e poi di «This week with David Brinkley»; o come Mike Wallace del celebre «60 minutes» e, ancora Dan Rather inviato e anchor per eccellenza.

Era un sistema piramidale, in altre parole, come a lungo sono state le nostre democrazie.

Quel sistema piramidale è stato sconvolto dai nuovi media - che è poi soprattutto il web in tutte le sue forme. Il web ha direzioni esattamente diverse da quel sistema. E’ orizzontale nella diffusione, e va dal basso verso l’alto nella sua «infezione». Chi parlava allora non aveva bisogno di altro che della sua eco. Oggi Internet replica, discute, e, soprattutto, si sottrae alla piramide.

Questo sta succedendo alla carta stampata, e questo sta succedendo anche alla tv.

I giganti di una volta sono in affanno. Perdono copie, e spettatori, ma soprattutto soffrono di non essere più in totale controllo del mondo intorno. Oggi non ci sono più giornalisti giganti, ma tante voci - e spesso quel che conta è l’individualità di queste voci più che la loro gravitas. E’ il caso del maggior successo tv di questi ultimi anni che è la Fox Tv.

Nella nuova parzialità di protagonisti e di esperienze mediatiche si rispecchiano però anche aggregazioni di società diverse. Oggi il riconoscersi in gruppi, comunità di interessi è spesso più forte della cittadinanza generica. Di sicuro più forte del rispetto dell’ordine piramidale di una volta. E questo non è necessariamente un male.

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Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Parodia di guerra fredda
Inserito da: Admin - Luglio 10, 2010, 11:28:55 am
10/7/2010

Parodia di guerra fredda
   
LUCIA ANNUNZIATA

La più audace operazione messa in atto da una delle 11 spie che lavoravano da anni in Usa per i russi è stata il tentativo del ventottenne Mikhail Semenko (fluente in inglese, spagnolo e mandarino) di «stabilire contatti a Washington con think tank che ispirano la politica di Obama».

I due istituti dove ha provato a lavorare sono la New America Foundation and il Carnegie Endowment: cioè due gruppi con cui senza problemi hanno contatti tutti coloro che nel mondo, per una ragione o per l’altra, si occupano di politica estera. Se questo era il massimo cui le spie russe potevano aspirare, dopo anni di vita in America, forse avrebbero fatto meglio a entrare in una università (americana o sovietica, è lo stesso) e fare un master presso questi centri studio. Lo avrebbero ottenuto senza problemi.

La dimensione dell’ultimo capitolo della guerra di intelligence fra Washington e Mosca, chiusosi ieri con uno scambio di agenti fra le due ex potenze ex nemiche, è tutta in questo dettaglio. Nonostante l’insistito richiamo dei media a Le Carré e a Graham Greene, due narratori nelle cui mani il conflitto del dopoguerra era già stato ridotto a un cumulo di luoghi comuni, in questo ultimo round la Guerra Fredda - per citare Bbc - «è tornata in forma di farsa».

Nessuno dubita infatti che ci sia ancora una rete di spie nel mondo, che i conflitti si nutrano ancora dell’intelligence umana. Su questo piano, lo scontro fra Usa e Urss ha segnato il secolo scorso con leggendari episodi di cappa e spada. Negli Anni 30, ad esempio, i russi potevano contare su ben quattro americani che spiavano a loro favore dentro lo stesso Dipartimento di Stato, a cominciare da Alger Hiss, assistente del segretario di Stato.

A ridosso della Seconda Guerra, si scoprì che per i russi lavoravano il vicesegretario del Tesoro americano, Harold Glasser, e Harry Dexter White, uno degli uomini più influenti dentro il Tesoro. Anche dopo il conflitto mondiale, la guerra nascosta fra Occidente e Urss ha scritto storie leggendarie, come quella di Rudolf Abel, nome d’arte dell’inglese William Fischer, capo di un’enorme rete di doppi agenti occidentali che lavoravano per la Russia. Fischer venne poi liberato nel 1962 scambiato con la liberazione di un agente della Cia, il pilota Francis Powers, catturato dai sovietici dopo l’abbattimento del suo aereo. Ancora negli Anni 90 la tensione Usa-Urss ha prodotto scandali come quello di Aldrich Ames, operativo della controintelligence della Cia e spia russa, colpevole di aver «bruciato» almeno un centinaio di agenti americani, in cambio di circa 3 milioni di dollari versati da Mosca.

A fronte del livello in cui abbiamo visto svolgersi negli anni passati questa guerra fra superpotenze, la rete catturata in queste ultime settimane appare un abito tessuto e cucito con mani approssimative. Un’operazione di sapore casalingo, in cui gli undici agenti che per anni hanno vissuto in Usa sembrano non aver avuto né grandi accessi né grandi successi.

Coppie medio-borghesi, professionisti di attività di intermediazione, giornalisti apertamente critici degli Usa, precari del terziario commerciale, non hanno avuto - secondo gli stessi investigatori che li hanno scoperti - molto più accesso «di quello dell’associazione scolastica dei genitori». Più che della Guerra Fredda, questo nuovo circuito sembra piuttosto figlio dell’era di Facebook, strumento ampiamente usato da tutti loro (come da tutti noi) per prendere contatti.

Ovviamente, è sempre possibile che il gruppo si riveli retroattivamente di una pericolosa efficacia. Per ora, proprio l’aspetto leggermente farsesco dell’operazione ci rivela comunque qualcosa di vero nelle relazioni fra i due ex grandi nemici del dopoguerra. Washington e Mosca hanno affrontato il problema velocemente e senza nascondere una sorta di imbarazzo reciproco. Le autorità russe, ad esempio, pur ammettendo di fatto che si trattasse di spie, hanno anche fatto notare che non hanno mai agito contro gli interessi americani, facendo appello perché Washington «dimostri l’adeguato livello di comprensione e tenga in conto le attuali buone relazioni fra Russia e America».

Comprensione cui la giustizia americana non si è sottratta condannando gli «agenti» per «non aver notificato alle autorità americane le loro attività», paradosso usato per dare al termine agente il più ampio senso possibile. Le spie dunque non sono state condannate per «spionaggio» e il Dipartimento di Stato ha avuto, probabilmente in cambio della clemenza, il rilascio di quattro prigionieri fra cui almeno uno importante, accusato di aver aiutato a scoprire Ames.

L’unica rivelazione che sembra venire da questa nuova cattura di spie ci pare dunque essere che né Russia né Usa vogliono essere disturbate da questi vecchi giochi. Le relazioni diplomatiche fra i due Paesi sono molto migliori di prima, ma sono anche attraversate da tensioni serissime. Terrorismo, petrolio, deriva islamista in Caucaso e Medioriente, sanzioni per l’Iran, espansione cinese: a fronte dei tanti temi su cui Mosca e Washington possono scontrarsi, il destino di una bella spia rossa con gli occhi verdi è (giustamente) del tutto irrilevante

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Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Il giornalismo che cambia la storia
Inserito da: Admin - Luglio 27, 2010, 09:41:49 am
27/7/2010

Il giornalismo che cambia la storia

LUCIA ANNUNZIATA

Una meditazione sulla guerra e una meditazione sul giornalismo.E forse una preghiera sulla tomba di quella che fu la nostra sensibilità di cittadini. Questo dobbiamo alle rivelazioni emerse ieri sulla guerra in Afghanistan, il cui impatto si profila già come capace di ridefinire il corso della storia attuale degli Stati Uniti, e dunque, in parte,anche della nostra.

Novantaduemila rapporti classificati del Pentagono che coprono sei anni di guerra in Afghanistan, dal gennaio 2004 al dicembre 2009, dunque sia durante l’amministrazione Bush che durante quella Obama, sono stati resi noti domenica da tre dei maggiori quotidiani internazionali, l’americano New York Times, l’ingleseTheGuardian e il tedesco Der Spiegel, che hanno lavorato su archivi segreti della guerra resi pubblici da Wikileaks, il portale Internet creato per diffondere documenti riservati. Il racconto che ne esce è quello di un conflitto combattuto con approssimazione, cattiva coscienza e, soprattutto, schermato da un altomuro di bugie di Stato.

Si tratta della maggiore fuga di notizie militari mai avvenuta. E, come si diceva, si presta a una lettura a tanti livelli da muovere interrogativi che vanno dalla capacità e trasparenza delle istituzioni mondiali alle nostre coscienze individuali, infilzando, nel passaggio, la credibilità dell’intera macchina informativa.

Cominciamo dal conflitto afghano. Dalle migliaia di pagine di racconti in prima persona, rapporti ufficiali e testimonianze - molte delle quali, siamo sicuri, saranno negate dalla amministrazione americana, come ha già iniziato a fare - prendono forma tre indiscusse verità. La prima, la più dolorosa, riguarda i numerosi morti civili di cui non è mai stata data notizia. La seconda, la più dannosa per Washington, è la confusione e la pochezza decisionale nella conduzione della guerra. Si apprende ad esempio che gli americani nell’epoca Obama hanno aumentato l’uso di droni, aerei senza pilota, nel tentativo di risparmiare il pericolo per i propri uomini, in realtà mettendo in moto un meccanismo più pericoloso di prima per i civili e per gli stessi militari, costretti spesso a pericolose operazioni di recupero degli aerei caduti, per evitare che i taleban ne catturino la tecnologia. Ma il maggior fallimento militare riguarda la natura stessa dell’alleanza intorno a cui si incardina il conflitto, quella fra forze Nato e Pakistan: i documenti rivelano infatti che sono gli stessi agenti segreti del Pakistan (Paese con l’atomica) a aiutare i taleban, in un doppio gioco, un vero e proprio tradimento consumato con continuità e convinzione da parte di un Paese che nelle stesse parole del Dipartimento di Stato questa guerra dovrebbe difendere da una presa del potere dei taleban. La considerazione finale che si trae dai documenti è che «dopo aver speso 300 miliardi di dollari in Afghanistan, gli studenti coranici sono più forti ora di quanto non lo fossero nel 2001». Ma, per dirla con l’editorialista Leslie Gelb, «non sono tutte cose che conoscevamo già?». In fondo i giornalisti in questi anni non sono stati esattamente con le mani in mano. Un’idea di come stessero le cose ce l’eravamo già fatta.

Le rivelazioni che stiamo leggendo in effetti hanno valore, più ancora che per quello che ci dicono, per tutto il resto che implicano. La differenza fatta da queste carte è proprio nella loro resa pubblica: come già accaduto in passato, la differenza non è fatta dalla notizia ma dalla volontà di farla apprendere. Non è la prima volta, infatti, che questa dinamica tra informazione e conflitti si materializza nella storia recente, e anche oggi, come nelle volte precedenti, è frutto di una lacerazione nella tela del consenso ancor prima che in quella della verità.

L’esempio del Vietnam è sempre quello da cui ripartire. In quel conflitto il giornalismo riuscì a intercettare e incanalare la rottura di consenso intorno a una guerra che pure era definitoria della identità stessa degli Usa. Sono nati in quell’epoca paradigmi giornalistici che hanno ispirato generazioni, dal lavoro di Peter Arnett, a quello di Philip Caputo, David Halberstam, a Neil Sheehan, Tom Wolfe e Sydney Schanberg. Anche allora, alla fine la notizia capovolse il consenso. Pensiamo alla storia della strage di My Lai a firma di Seymour Hersh, e alle parole con cui nel 1968 Walter Cronkite concluse un reportage della Cbs report: «Appare sempre più chiaro a questo giornalista che l’unica via razionale per uscirne è negoziare, non come vincitori, ma come uomini d’onore». Leggenda narra che furono quelle frasi a far dire al presidente Johnson «Se ho perso Cronkite, ho perso l’opinione pubblica americana». Anni dopo qualcosa del genere è accaduto in Usa sul fronte interno, con il caso del Watergate. E, più di recente ancora, è accaduto, nel 2004, con un reportage di 60 Minutes sulle torture agli iracheni da parte di soldati Usa nella prigione di Abu Ghraib.

In ognuno di questi casi la pubblicazione di una notizia ha segnalato la fine di un consenso, prima ancora che di una verità ufficiale. Così accade oggi, per l’amministrazione Obama.Ma non solo.

C’è qualcosa in più da segnalare in questa vicenda. Qualcosa che ci parla anche di giornalismo e cittadini. Da anni non vedevamo i media impegnati in operazioni come quella i cui risultati stiamo leggendo. Le sue dimensioni e complessità riportano a galla un modo di lavorare che appare da lungo tempo defunto nelle redazioni di tutto il mondo. Con in più un intreccio fra new media e grande comunicazione tradizionale, che seppellisce molte sciocchezze dette sulla fine del giornalismo nell’epoca di Internet. I new media, per la loro stessa facilità di uso, flessibilità e, non ultima, economicità, si rivelano in questa inchiesta il motore di un potenziale rinnovamento dello spirito stesso del giornalismo sempre più appannato negli intrighi commerciali e proprietari del nostro attuale sistema editoriale.

Operando così lo squarcio di un miracolo: i 92 mila documenti, peraltro consultabili da chi volesse, sono un trillo di sveglia anche per noi stessi, i lettori. Noi stessi forbiti interpreti di troppi cinismi, su tante guerre, vicine e lontane, signori del chissenefrega, contenti e accontentati da una informazione senza verifiche e senza fonti.

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Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - L'ombra del partito del Sud
Inserito da: Admin - Luglio 31, 2010, 08:27:53 am
31/7/2010

L'ombra del partito del Sud
   
LUCIA ANNUNZIATA


La linea del prossimo scontro viene disegnata dalla semplice verifica dei luoghi di nascita del gruppo di deputati e senatori che si sono schierati con il presidente della Camera. Su 43 contati ieri, solo 9 sono nati al Nord: 1 bolognese, 2 piemontesi, 4 lombardi, 2 veneti. Il resto degli uomini e delle donne di Fini si raggruppano in Lazio, Campania, e Sicilia, con qualche nome eccellente anche in Basilicata, Abruzzo e Puglia. La battaglia si sposta al Sud. Qualunque sarà l'occasione che dividerà, formalmente o meno, Berlusconi da Fini, o il governo attuale da un eventuale governo istituzionale, o il sistema dei partiti di adesso dalla definizione di nuove alleanze; qualsiasi sarà insomma la strada su cui la attuale rottura dentro il Pdl porterà il paese, questa strada passerà per il Sud. Una regione che mai come oggi è in condizioni di grande incertezza. I successi della Lega, lo scontro intorno a Pomigliano d'Arco, i tagli della finanziaria, le continue critiche quasi «antropologiche» al Sud, hanno creato un calderone da cui salgono i fumi di una vecchia sfiducia che torna a galla, una stizzita presa d'atto dell'inevitabile ripresentarsi per il Meridione di un destino di serie B. E' per ora solo un cocktail di sensazioni, paure, e incertezze cui però la crisi dentro il governo e il Pdl può fornire una dimensione molto politica. L'origine prevalentemente meridionale del gruppo che rimane con Il Presidente della Camera non è in sé una sorpresa; si sa che la base tradizionale dell'ex An è sempre stata nel centro-meridione.

Più interessante è rilevare che questo insediamento è rimasto uguale, anche dopo anni di «fusione» di An dentro il Pdl. Se ancora ce n'era bisogno, anche questa è una ulteriore prova di come il Pdl non sia mai divenuto davvero un partito. Ora, dopo la separazione, è dunque piuttosto facile immaginare che le distanze mai accorciatesi fra i due spezzoni si riacutizzeranno. Come in fondo è già successo. Se oggi si guarda infatti da questa angolatura alle differenze politiche maturate nel governo durante i mesi passati, vi si rintracceranno bene le impronte «meridionaliste» delle posizioni finiane. Così, la punta di diamante dello scontro fra Berlusconi e Fini, cioè la eccessiva influenza della Lega, ha in effetti un doppio versante: quello della difesa dell'Unità nazionale, e di conseguenza della unità con il Meridione; facile da vedere nella divisione sulla immigrazione anche la sensibilità prodotta dalle immigrazioni dal Sud al Nord; e non è certo un caso se la divisione sulla moralizzazione della politica si è fatta aspra proprio fra rappresentanti del Pdl tutti del Meridione. Va aggiunta a questa realtà strettamente regionale, anche quella più culturale dei potenziali simpatizzanti di Fini. Il presidente della Camera, come dimostrano i consensi che ha avuto in questo suo recente ruolo è posizionato molto bene per raccogliere l'eredità di voti che la ex An e prima ex Msi ha sempre avuto nelle istituzioni e nell'apparato dello Stato, dalle forze dell'ordine, alle prefetture, alla magistratura. Corpi istituzionali in cui la gens meridionale è molto rappresentata. Dunque, il premier Berlusconi separandosi dal cofondatore si ritrova oggi davanti potenzialmente un partito del Sud. Proprio quella regione in cui lui ha una presenza forte numericamente, ma fragile nelle identità: la ex Forza Italia nel Sud è stata soprattutto il partito dei senza casa, Dc, socialisti, spezzoni vari. Sono tanti ma non sanno fare «testuggine». Anzi in battaglia si dividono. Basta qui ricordare lo scontro che divide in due il Pdl in Sicilia, e quello in Campania, combattuto a colpi di dossier. Non sarà dunque facile per il premier cancellare con un colpo di spugna questo radicamento meridionale dei finiani. Tanto più se, come si diceva all'inizio, il Sud è oggi un luogo di tremende instabilità. Non c'è molta percezione dei tremori che scuotono questa area del nostro Paese perché, come per tutto il resto, anche nella informazione il Sud è tagliato fuori dalla attenzione nazionale. Quello che sfugge al resto della nazione è, ad esempio, la inquietudine che il successo della Lega sta provocando nel Meridione. Prendiamo il federalismo: è una riforma necessaria, e su cui è certamente possibile costruire il consenso di vasti strati illuminati del meridione, ma è indubbio che per il Sud significa una riduzione di spesa. Ora, se tale prospettiva viene condita, come è successo, da una forte retorica antimeridionali - pasticcioni, imbroglioni, fannulloni - è molto difficile che non appaia invece come solo una misura punitiva. Questo è il calderone di cui si parlava prima. Gli uomini ex An lo conoscono molto bene. Nella loro storia ci sono molte rivolte meridionali. Come i comunisti, hanno nella loro memoria automatica un modo di star per strada e raccogliere le persone. Una cultura che non hanno perso in questi anni, se solo riandiamo indietro alla forza con cui a Roma hanno agitato la opposizione contro la giunta di centrosinistra.

Nella battaglia politica dei prossimi mesi questo «vigore» (non so che altro vocabolo usare per descrivere la combattività degli ex fascisti) potrebbe tornare loro sottomano. Gli servirà di sicuro. La Campania è la seconda regione, dopo la Lombardia, per numero di voti. Il Sud è stato decisivo nelle recenti tornate elettorali. La sinistra, nonostante la tenuta delle regioni rosse, ha perso quando ha perso il meridione. Viceversa solo con la vittoria al Sud si è consolidato per Berlusconi un governo come quello attuale che pure ha la testa e il cuore al Nord. E nella prossima tornata elettorale amministrativa, il prossimo aprile, tra le grandi città in cui si vota c'è anche Napoli.

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Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Il sogno infranto del Cavaliere
Inserito da: Admin - Agosto 02, 2010, 09:23:36 am
2/8/2010

Il sogno infranto del Cavaliere

LUCIA ANNUNZIATA


Quel che avrebbe potuto essere. C’è una sorta di tristezza nella foga con cui Silvio Berlusconi sta provando in queste ore a rassicurare tutti sulla tenuta del suo governo.

Comprensibilmente. Qualunque sia l'analisi che se ne fa, e qualunque ne sarà lo sbocco, la rottura dentro il Pdl lascia come principale vittima sul terreno il sogno che il Premier aveva accarezzato nei primi mesi del suo terzo governo.

Quello di divenire l’uomo che dopo aver spaccato l'Italia l’avrebbe ricostruita, trasfigurandosi da leader di parte in Statista. Quello che avrebbe potuto essere, appunto. Per misurare il reale impatto nel governo della crisi di questi giorni, occorre riandare con la memoria agli straordinari inizi e successi della attuale legislatura. Nell’aprile del 2008 Silvio Berlusconi tornava a Palazzo Chigi in maniera inaspettata, dopo un brevissimo governo Prodi che aveva consegnato alle ceneri ogni futuro della sinistra. Tornava sull’onda della crisi della spazzatura, uomo del destino, uomo di popolo, santino di una Napoli che adora i Masaniello, e raccoglieva una maggioranza senza precedenti nelle legislature del dopoguerra. L'uomo del fare sembrò confermare la sua fama pochi mesi dopo l’elezione, con la sua reazione al terremoto dell’Aquila: subito in mezzo alla gente, risolutore, risanatore, affettuoso leader.

Agli occhi della sua maggioranza più che l’avvio di una legislatura, quel primo anno di Silvio Berlusconi sembrò l’inizio di un intero futuro. In quei mesi circolava nelle vene delle aule di governo una fiducia senza limiti, che poteva essere paragonata solo alla disperazione con cui il centro-sinistra si immergeva in una lenta autodistruzione che avrebbe portato alle dimissioni di Veltroni. Persino in quel centro-sinistra si immaginava che Berlusconi avrebbe governato per sempre: «Durerà venti anni» si sentiva dire dappertutto.

Se si vanno a rileggere oggi i giornali e i commentatori politici di allora, vi si troveranno gli scenari di quell’entusiasmo: si vedeva già Silvio al Quirinale, dopo una rapida riforma che avrebbe trasformato apposta per lui un sistema Parlamentare in uno Presidenziale; si parlava già persino di manovre per accorciare la Presidenza Napolitano, tanta era la convinzione e la impazienza del leader. Del resto, va ancora ricordato, è quello il clima in cui è nato il più singolare partito della storia moderna: il partito a leadership carismatica, unico possibile titolo per dimostrare la assoluta grandezza di un Premier che si fa votare con un applauso della assemblea nazionale.

Dentro i successi e la sicurezza di quel primo anno prese forma una convinzione più grande della stessa leadership, o, se volete, un sogno: che si fosse arrivati a una vera svolta nella storia, che l’Italia fosse pronta a diventare un nuovo Paese e che Silvio potesse diventare l’uomo che dopo averla divisa, sfondata, cambiata, poteva riunificarla.

Perché non immaginarlo, d’altra parte? Nel suo terzo governo (formalmente quarto, per via di un rimpasto nel 2005) Berlusconi riceve un consenso persino da quella élite del Paese che per lungo tempo si è tenuta lontana: direttori di giornali, imprenditori, artisti, intellettuali ammettono la sua potenza. Se si rilegge oggi la collezione di - ad esempio - «il Foglio», si capirà bene la ampiezza del sogno.

Il momento più alto di questa tendenza è raggiunto il 25 aprile del 2009, festa di sinistra cui di solito il Premier si è sempre sottratto. Per questo 2009 «il Giornale» invece annuncia: «Silvio ci sarà e sarà una prima volta storica». Effettivamente ci va e sceglie una location significativissima: il paesino di Onna, da poco devastato dal terremoto, teatro in passato di un eccidio nazista, patria della «leggendaria» (parole di Berlusconi) brigata partigiana Maiella. Vi pronuncia un discorso che ancora oggi è il più serio invito mai pronunciato dal premier alla riunificazione dell’Italia: «In quel momento - dice parlando della Resistenza - tanti Italiani di fedi diverse, di diverse culture, di diverse estrazioni si unirono per seguire lo stesso grande sogno, quello della libertà. Vi erano fra loro persone e gruppi molto diversi. Vi era chi pensava soltanto alla libertà, chi sognava di instaurare un ordine sociale e politico diverso, chi si considerava legato da un giuramento di fedeltà alla monarchia. Ma tutti seppero accantonare le differenze, anche le più profonde, per combattere insieme. I comunisti e i cattolici, i socialisti e i liberali, gli azionisti e i monarchici, di fronte a un dramma comune, scrissero, ciascuno per la loro parte, una grande pagina della nostra storia». Segue un elogio alla Costituzione, che suona ancora oggi sorprendente, se si pensa a tutte le polemiche successive: «Una pagina sulla quale si fonda la nostra Costituzione, sulla quale si fonda la nostra libertà. Fu nella stesura della Costituzione che la saggezza dei leader politici di allora, De Gasperi e Togliatti, Ruini e Terracini, Nenni, Pacciardi e Parri, riuscì ad incanalare verso un unico obiettivo le profonde divaricazioni di partenza. Benché frutto evidente di compromessi, la Costituzione repubblicana riuscì a conseguire due obiettivi nobili e fondamentali: garantire la libertà e creare le condizioni per uno sviluppo democratico del Paese».

Il discorso irrita i nemici acerrimi, spiazza tutti, e commuove i partigiani - i quali applaudono il premier, lo circondano quando scende dal palco e gli regalano il fazzoletto della Brigata Maiella. Circondato a quei vecchi eroi, con sulle spalle quel fazzoletto simbolo della resistenza, Berlusconi fa il giro del paese terremotato. Il giorno dopo il suo consenso è, secondo tutti i sondaggi, il più alto che abbia mai raccolto. Ma è anche l’ultimo momento di felicità del Premier. Il giorno dopo, il 26 aprile, si reca a Casoria alla festa di una ragazzina di 18 anni. Una decisione che segna simbolicamente una lunga discesa in un lungo anno, fra polemiche, scandali, divisioni, inchieste e dimissioni. Fino alla separazione di questi giorni.

Di quello che accadrà ora, dopo la crisi apertasi con Fini, è difficile dire. Silvio Berlusconi ha dimostrato in questi quindici anni di politica, di essere un uomo forte, astuto, cocciuto, cinico, abile, popolare. Ha dimostrato insomma di essere un vero politico, e infatti ha saputo più volte risorgere dalle sue difficoltà. I segni della sua popolarità sono ancora forti anche in queste ore, e se si andasse a votare presto rivincerebbe. Ma nemmeno una nuova vittoria potrebbe riportarlo indietro al tempo di cui abbiamo parlato. La crisi ha tolto al premier la sua onnipotenza, la sua intangibilità, il suo «magico». Un governo che in soli due anni arriva a schiantarsi su una crisi parlamentare, sia pur controllata, è infatti solo un governo come tanti altri. E di conseguenza, Silvio Berlusconi si è lui stesso ridimensionato a un politico come tutti gli altri. Il giocattolo che aveva nelle mani quando ha riattraversato la soglia di Palazzo Chigi per la terza volta si è definitivamente rotto.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7667&ID_sezione=&sezione=


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - L'orizzonte ristretto di Fini
Inserito da: Admin - Agosto 05, 2010, 03:34:32 pm
5/8/2010

L'orizzonte ristretto di Fini
   
LUCIA ANNUNZIATA

Di partiti ne abbiamo visti nascere, spaccarsi, morire, rifondarsi anche nella nostra (nemmeno tanto lunga) vita. E sempre, in una maniera o in un’altra, ragionevoli o irragionevoli che siano stati, comunisti, socialisti, liberisti, terzomondisti, autoritari, nazionalisti, qualunquisti, sempre comunque nati intorno a un principio da difendere con la ragione, il cuore, le mani se necessario, le armi se chiamati.

Intorno a una passione, insomma. Mai, assolutamente mai, ne abbiamo invece visto nascere uno sulla negazione della scelta: l’astensione. Qualcosa è andato perso per strada, ieri, durante il voto di sfiducia al sottosegretario Caliendo. Qualcosa che pure aveva rianimato il dibattito politico di questo Paese negli ultimi mesi: il vigore della polemica, il desiderio di scegliere, la passione dell’opinione, appunto.

Lo sappiamo, lo abbiamo ben capito. L’astensione del gruppo di Fini, insieme a quello di Casini, ha ragioni istituzionali molto serie: non precipitare il Paese nel caos di una crisi al buio. Ma questo orizzonte è già in sé una rinuncia, un rinchiudersi in un orizzonte tutto parlamentare-politico. Una negazione in sé, dunque, della battaglia che lo stesso Fini ha finora condotto, e che ha avuto l’impatto che ha avuto proprio perché aveva spaccato il recinto del politicismo istituzionale.

Qualunque cosa ne dica il Premier, il presidente della Camera ha pesato non perché (o non solo) ha compiaciuto la sinistra, ma perché ha reso trasparente il dissenso interno a un partito, perché ha verbalizzato con semplicità le conseguenze pratiche dei diversi principi. Fini è stato efficace, insomma, perché è uscito dai circuiti giornalistico-politici, rotto le pareti dei Palazzi, del Parlamento stesso, ridando ai cittadini la possibilità di capire e scegliere fra coloro con cui si è d’accordo e coloro con cui non lo si è. Che è poi il centro della dinamica democratica, ed è l'aria che manca in un sistema parlamentare che, ricordiamoci, è stato costruito con liste bloccate, cioè senza dare alcuna scelta a chi vota. Non a caso, i temi agitati dal presidente della Camera non sono stati di natura tecnica, ma temi essenziali, comprensibili a tutti: la moralità pubblica, la tenuta anticorruzione, l’unità della nazione, la distinzione fra eroi veri ed eroi sbagliati. Quando poche settimane fa, ad esempio, pronunciava il suo «Borsellino è un eroe, Mangano (lo stalliere di Arcore, nda) no», dava alla politica di nuovo il suo ruolo di guida del Paese in una scelta di valori. Che la sua sia stata una battaglia popolare, a dispetto dei sondaggi del Cavaliere, lo prova il numero stesso di deputati e senatori che ha deciso di seguirlo - secondo la regola spesso citata da Churchill (ma non da lui inventata) che nessun tacchino anticipa il Natale, questi parlamentari non pensano certo che il loro è un suicidio.

Rispetto a tutto il «furore» dei mesi scorsi, l’aula ci ha restituito ieri invece un gruppo finiano smortaccino, sedato più che calmo. L’intervento di Della Vedova, più che volterriano è stato l’apologia dei distinguo. La definizione di un sé politico scritto più da quello da cui si prende le distanze che da quello per cui si scende in campo. Garantismo e giustizialismo non sono «opposti estremismi» come ha detto Casini, nuovo alleato ufficiale da ieri, di Gianfranco Fini. Il garantismo è un concetto legale, il giustizialismo è un vizio della politica. Non riusciamo a credere che ieri non si potesse scegliere sulla questione Caliendo, sul filo di un rigoroso garantismo: quello dovuto ai cittadini, ad esempio, che hanno diritto per definizione a un governo senza ombre. In realtà, nemmeno Fini e i finiani, in questa loro più modesta versione, hanno dato l'impressione di credere in quello che facevano. Le buone ragioni istituzionali per cui si sono mossi in questo modo per altro non sono state affatto difese, dal momento che i 304 voti contrari e astenuti sono comunque una messa in mora, sia pur non formalizzata, di un governo che ha contato solo 299 consensi. Ma allora tanto valeva dirlo. Dire che ci si asteneva per ragioni nobili ma tattiche. Ed evitare un po’ di imbarazzo a tutti.

Fossi Fini mi chiederei stamattina quanto hanno capito di tutto quello che è successo e ancora succederà i cittadini che sono stati a guardarlo in questi ultimi mesi. Nel bar collettivo in cui di solito collochiamo l’opinione pubblica, mi immagino sentire la domanda: ma valeva la pena di spaccare un partito, e un governo, per astenersi?

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7680&ID_sezione=&sezione=


Titolo: ANNUNZIATA - I lati oscuri di uno dei pochi veri protagonisti del nostro Paese
Inserito da: Admin - Agosto 18, 2010, 11:09:58 am
18/8/2010 (7:18)  - GLI ANNI DI PIOMBO

"Kossiga" e i troppi misteri mai svelati

I lati oscuri di uno dei pochi veri protagonisti del nostro Paese

LUCIA ANNUNZIATA
ROMA

C’è una foto di Cossiga che fa parte, a pieno titolo, della galleria della storia di questo Paese. È in bianco e nero, sgranata come all’epoca erano le foto. Il Presidente emerito vi appare in un loden, si intravede il suo profilo aquilino in quel volto lungo e spesso, da sardo. Poche ore prima di quello scatto ha compiuto un gesto obbligato: si è dimesso da ministro degli Interni.

Solo, dunque, spoglio di ogni responsabilità ufficiale, ha probabilmente trovato la forza di aprire l’ultimo, muto, dialogo con il suo amico Aldo Moro, sepolto lì, davanti a lui, in quella tomba di Torrita Tiberina. Aldo Moro, ucciso il 9 maggio 1978, dopo 55 giorni di prigionia, dalle Brigate Rosse; ma quanta colpa c’è in quella morte anche del ministro degli Interni che ha guidato il ministero durante il rapimento? Cosa pensa Cossiga su quella tomba, mentre un fotografo scatta quel fotogramma? Pensa di aver peccato? E se sì, qual è la sua colpa: impotenza, incapacità, mancanza di volontà? Il suo dolore è evidente, la sua figura piegata dentro il loden è la perfetta illustrazione fisica del peso che la morte di Aldo Moro ha fatto cadere sulle sue spalle, e su quelle del partito, la Dc. Quell’immagine coglie l’inizio della fine della Prima Repubblica.

Da allora, tutte quelle domande hanno continuato ad aleggiare intorno alla poderosa personalità dell’ex ministro degli Interni poi divenuto Presidente della Repubblica. Ma non ne avremo mai risposta diretta. Sappiamo però con certezza, perché lo abbiamo vissuto allora, che nell’attizzare le polveri del terrorismo che avrebbe lacerato il Paese e portato al rapimento di Aldo Moro, Francesco Cossiga fu uno degli apprendisti stregoni.

L’anno cardine di questo giudizio è il 1977, dodici mesi in cui una nuova esplosione di movimenti studenteschi naufragò nella violenza. Un breve periodo in cui una generazione di studenti fu presa in mezzo (o se preferite: si lasciò prendere in mezzo) da uno scontro che in Italia già ribolliva e da forze che non aspettavano altro che di essere evocate. I gruppi armati da una parte, le già organizzate Brigate Rosse, nuove sigle con una nuova leva di adepti, e lo Stato dall’altro: forze dell’ordine, magistrati, e su tutti Lui, il ministro degli Interni, Francesco Cossiga, il più inflessibile dei difensori delle istituzioni statali.

Dietro tutti loro agivano tensioni, o forse solo suggestioni e paure, più grandi: lo scontro fra Est e Ovest, i rubli del Kgb, i dollari della Cia, l'Italia frontiera della Guerra Fredda, la inflessibilità di un Segretario di Stato americano, Kissinger, di accento e patria tedesca, già impigliato nella fine del Vietnam, e ossessionato, per quella sua teutonica origine, dal timore di una nuova espansione sovietica in Europa.

Di tutto questo sapevano ben poco i ragazzi del ’77, che irruppero in scena a differenza dei loro predecessori del ’68, armati solo dell’ironia, della creatività, delle radio e delle droghe. Indiani metropolitani, si definivano, incoscienti contestatori di leggendari leader sindacali come Luciano Lama; rivoltosi distratti nei cui cortei giocavano a rimpiattino infiltrati delle Br, della nascente autonomia, e agenti del ministero dell’Interno travestiti da manifestanti. Il solito Forattini che già allora aveva una imperdonabile matita, disegnò una vignetta in cui era proprio il ministro degli Interni, con i suoi riccioli, e una maglietta a righe, a sfilare armato di pistola. Furono pochi mesi di una miscela esplosiva, dall’inizio alla primavera del ’77, in cui il corso degli eventi poteva essere indirizzato in una maniera o un’altra, e purtroppo andò per il verso peggiore.

Già nell’autunno divenne evidente che quella mobilitazione giovanile aveva alla fine fatto solo da riserva d’acqua per i pesci di una nuova ondata di terrorismo. In quell’autunno nasce l’onda lunga che pochi mesi dopo, nel 1978, porta al rapimento e alla uccisione di Aldo Moro. La responsabilità di quell’assassinio rimane tutta sulle spalle di chi lo rapì e poi lo uccise. Eppure, proprio perché le cose avrebbero potuto essere diverse, nessuno poté in quegli anni dirsi totalmente innocente. Nessuno di quei giovani che sfilarono, nessuno dei dirigenti dei partiti del Paese, dal Pci alla Dc, e certamente non Cossiga, ministro degli Interni, che nei momenti più difficili scelse sempre la linea dello scontro, dello schianto. Cossiga, detto anche Kossiga.

Non a caso, nel corso della sua lunga vita il Presidente ha poi scelto di rivisitare spesso quegli anni. Consapevole di aver lì gettato una radice fatale del suo destino. Contattò i terroristi in carcere e quelli fuori, divenne amico di molti ex ragazzi del movimento. Di tutti loro cercò di essere un interlocutore. In realtà ne era piuttosto distaccato studioso, come un entomologo davanti a un covo di formiche. Non c’era mai fine alle storie che ricordava e a quelle che faceva ritornare a galla, sugli Anni Settanta e il terrorismo. A casa sua, o all’Harry’s Bar di via Veneto. Ma nonostante l’amicizia offerta e la spontanea logorroica esposizione della memoria, mai, assolutamente mai, si è saputo da lui nulla che aiutasse a sciogliere i principali interrogativi sui fatti di cui fu protagonista e di cui è stata travolta la Prima Repubblica. In questo tremendamente simile al suo amico nemico di sempre Giulio Andreotti.

La morte di Aldo Moro fu per Cossiga un dolore personale immenso. Che in lui si è sempre avvertito. Forse perché il fato lo ha punito con il più ironico dei regali: farlo diventare Presidente della Repubblica, esaudendo il sogno che già nel ’77 aveva ispirato la linea da salvatore della Patria. La sua è stata, dunque, una Presidenza nata sotto un sole nero. Finita, non a caso, come si sa, in mezzo alla furia distruttrice. Facendo di lui una delle poche, vere, tragiche e grandi figure della nostra storia politica.

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201008articoli/57732girata.asp


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Sette anni senza gloria
Inserito da: Admin - Agosto 20, 2010, 12:35:07 pm
20/8/2010

Sette anni senza gloria
   
LUCIA ANNUNZIATA

Conclusione senza gloria - né quella della vittoria, né quella della sconfitta. Il conflitto che gli Usa hanno scatenato in Iraq, finito ieri, con prudenti dieci giorni di anticipo, è stato a tutti gli effetti una guerra mediocre.

Che si ricorderà più per quello che ha involontariamente rivelato, che per quello che ha volontariamente ottenuto. Iniziata come Guerre Stellari, finita alla chetichella. Iniziata con una seduta dell’Onu in mondovisione per svelare le armi di distruzione di massa in mano a Saddam, finita con una silenziosa corsa notturna nel deserto della colonna corazzata della «4th Stryker Brigade», ultima brigata combattente degli Usa in Iraq. Niente di eccezionale ha immortalato il momento, nessuna emozione particolare, nessun elicottero che si alza in volo con gli ultimi civili. Della fine della seconda guerra irachena possiamo dire che ci ricorderemo solo la eccezionale quiete della ritirata notturna, perfetto contrappunto alla rumorosa galoppata con cui sette anni e mezzo fa la cavalleria meccanizzata americana aveva attraversato quello stesso deserto puntando a Baghdad. Fra l’inizio eroico e questa fine silenziosa giace un periodo del declino della stessa storia americana.

Ricordiamola ora. Nella strategia del presidente americano George Bush, la guerra a Saddam Hussein ha avuto un posto senza precedenti. Gli Stati Uniti usciti a malapena integri dall’attacco alle Torri Gemelle, nel 2001, avevano già risposto aprendo un fronte di guerra al terrorismo di Al Qaeda in Afghanistan, con il consenso e l’aiuto di tutti i suoi alleati europei. Ma la sicurezza del mondo era ben lontana dall’essere restaurata.

L’intervento in Iraq venne individuato da Washington come la prima mossa per riorganizzare i rapporti di forza globali, nell’era in cui agli Stati Uniti toccava l’onere e l’onore di essere l’unica grande potenza rimasta a garanzia contro il caos. Iraq piattaforma geografica perfetta nel cuore del Medioriente radicale religioso, Iraq forziere petrolifero ancora ampiamente non sfruttato e, soprattutto, Iraq governato da un indiscusso dittatore con un conto aperto con gli Usa e la famiglia Bush da una guerra precedente. Iraq dunque nuovo laboratorio di un futuro migliore - la prima guerra americana in cui gli Usa non si limitavano a «difendere» la democrazia, ma si impegnavano a esportarla, creandone le condizioni dalla radice. Dopo le Due Torri, gli Usa sarebbero stati al sicuro solo se si fosse ridisegnata la mappa morale e sociale e politica delle nazioni come le conoscevamo.

Teoria affascinante e pericolosa, che Washington abbracciò ammettendo con chiarezza - anche questa per la prima volta nella sua storia- che gli Usa potessero essere i primi ad attaccare, che le vecchie regole diplomatiche erano solo dei lacci che indebolivano il mondo, che le alleanze come si conoscevano erano solo una vecchia scarpa con cui non si poteva più correre.

A rievocare questi pensieri, le paure da cui erano nati, non meraviglia, oggi, ripensare anche alla carica quasi messianica che Washington mise nel preparare l’intervento in Iraq. Per sostenere la necessità di combattere Baghdad venne mandato all’Onu a dire bugie sulle armi di distruzione di massa in possesso di Saddam Hussein un bravissimo uomo e un ottimo generale, Colin Powell, la cui carriera ne è uscita distrutta. Sullo stesso altare vennero sacrificati Tony Blair e molti degli alleati europei che giurarono sulle stesse prove non provate. Si chiamò alla fine «guerra preventiva», e ben prima della caduta di Saddam Hussein, portò con sé la cancellazione del multilateralismo, la fine della diplomazia, e la spaccatura dell’Alleanza Atlantica.

E forse è stato solo conseguente che un conflitto nato su delle forzature, e su delle pure bugie, si sia poi sviluppato senza grandi successi, e senza onore. Saddam venne rovesciato, è vero. Ma di tutto quello che avrebbe dovuto essere, questo è stato quasi l’unico obiettivo raggiunto. Per il resto, sette anni e mezzo in Iraq hanno svelato solo il volto peggiore delle guerre moderne: senza eroi, senza scopo, e con troppo denaro in ballo.

Ricorderemo così il conflitto iracheno come la involontaria esposizione di piccole e grandi infamie. Dell’Iraq ora sappiamo come era fatto: generali che si vendettero agli Usa mentre ancora giuravano fedeltà al capo, un dittatore che dopo tanti assassini e tanti proclami corse a nascondersi in un buco nell’ora della disfatta del suo Paese, bande di terroristi armati dediti al rapimento, alle uccisioni di massa, alla vendetta religiosa tra versioni varie dell’Islam. Degli Usa, anche, sappiamo oggi più di prima: sappiamo delle torture di Abu Ghraib, sappiamo di un esercito di professione ormai proletarizzato e insufficiente nei numeri, sappiamo dell’impiego massiccio di contractors (mercenari), sappiamo di attacchi indiscriminati ai civili e dell’uso del fosforo nei combattimenti.

Sette anni e mezzo senza gloria, appunto, come si diceva, da una parte e dall’altra. Sette anni e mezzo in cui insieme a Saddam è caduta una parte molto importante del discorso politico Usa: non solo la democrazia non si può esportare; in discussione oggi è la stessa missione etica del popolo americano.

L’Iraq in questo senso segna la fine dell’innocenza di una grande nazione, senza neppure l’alibi di un grande scontro, di una grande passione ideologica, come quello che fu combattuto intorno al Vietnam. Senza eroismo da segnalare da parte degli americani, né eroi da additare ad esempio - come, va ripetuto, il Vietnam pure aveva prodotto.

Una mediocre guerra, di una mediocre presidenza americana. Il cui unico simbolo che rimarrà è un uomo nudo, tenuto in piedi dai fili elettrici che lo torturano. Ma senza volto, coperto da un cappuccio. Segno che nemmeno il nemico, anche quello che si tortura, si conosce più.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7727&ID_sezione=&sezione=


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Medio Oriente, neanche Obama fa miracoli
Inserito da: Admin - Settembre 04, 2010, 09:33:04 am
4/9/2010

Medio Oriente, neanche Obama fa miracoli
   
LUCIA ANNUNZIATA

Il processo di pace fra israeliani e palestinesi è per i Presidenti americani una sorta di pellegrinaggio a Medjugorie: la regolare, sia pur quasi sempre disperata, ricerca di un miracolo. Neppure Barack Obama ha fatto eccezione a questa regola. Il suo recente tentativo di ravvivare la speranza in Medioriente convocando a Washington i leader più direttamente coinvolti nel conflitto ha ottenuto risultati definiti «modesti» anche dai più benevoli osservatori. L’accordo fra le parti consiste infatti nell’essersi accordati ad incontrarsi ogni due settimane - il prossimo incontro è per il 14 e il 15 settembre - per la durata di un anno, nella promessa che in un anno «si raggiungerà la pace». Il primo ostacolo si profila già per il 26 settembre. In quella data scade la moratoria sulla costruzione degli insediamenti, e Israele non avrebbe intenzione di prolungarla.

Quello che rimane della due giorni di Washington è dunque solo una domanda: perché mai questi colloqui sono stati convocati? E forse la parte più interessante dell’appuntamento è proprio il tipo di risposta che comincia a circolare: forse il metodo (oltre che il merito) dei colloqui di pace in Medioriente ha fatto il suo tempo. In epoca di leadership deboli, quale è - a dispetto di tutti i suoi ammiratori - anche quella di Obama, forse gli Stati Uniti non sono più i migliori mediatori.

Prima di arrivare ad esplicitare questi dubbi, va ricordato che l’intervento americano in Medioriente ha, in politica estera, una forte valenza narrativa. Lo racconta molto bene William Quandt, membro del National Security Council, nella riedizione aggiornata di un suo libro, un classico per il settore: «Peace Process: American Diplomacy and the Arab-Israeli Conflict Since 1967». L’intervento Usa in Medioriente è, vi viene ricordato, relativamente nuovo, ma ha un alto impatto simbolico. Dal primo coinvolgimento diretto nella questione arabo-israeliana di Lyndon Johnson, che nel 1967 appoggiò l’invasione e occupazione dei Territori della West Bank, fino all’Obama di oggi, il ruolo americano è una lunga catena di speranze, successi, e delusioni.

Johnson vede spezzata la sua speranza di pace con la guerra del 1973, che portò poi il Medioriente dritto sul tavolo di Kissinger e Nixon, essi stessi ben altrimenti occupati dal conflitto in Vietnam. L’idea di un negoziato americano nasce, nota Quandt, tuttavia, proprio dal metodo che porta alla fine del Vietnam - l’idea appunto di un tavolo di trattative in cui gli americani siano la forza propulsiva. Il primo successo di questo approccio lo coglie Carter, con il Camp David del 1978, in cui Begin ed Anwar Sadat si stringono la mano. I due leader ricevono il Nobel per la Pace, ma nemmeno quel successo dura: la presidenza Carter è oscurata dalla crisi iraniana, e nell’era Reagan, l’assassinio di Sadat nel 1981, poi l’uccisione di 242 marines a Beirut nel primo suicidio bomba della storia, infine lo scandalo Iran-Contras, chiudono definitivamente l’era di Camp David. Vi riproverà il primo Bush, con la shuttle diplomacy inventata da James Baker, che porterà alla conferenza di pace di Madrid, e i cui frutti saranno colti da Bill Clinton con gli accordi di Oslo del 1993. Le guerre non si fermano.

Nel 2000 prima di chiudere il suo secondo mandato Clinton rifarà un tentativo, che verrà ricordato solo per la cerimonia che scimmiotta il primo Camp David. C’è poi un secondo Bush, il cui lavoro finirà nel mare magno della doppia guerra nel Golfo (Iraq e Afghanistan). Infine Obama, il cui segretario di Stato e un altro Clinton, Hillary, che della pace con il mondo musulmano ha fatto la più rilevante promessa della sua campagna elettorale.

Sulla strada di questa pacificazione Obama si è molto impegnato. Va ricordato il suo discorso al Cairo, il primo fatto in territorio musulmano da un presidente Usa; il ritiro dall’Iraq, e quello, promesso, dall’Afghanistan; ma anche la decisione di dare via libera alla moschea vicino al sito dell’11 Settembre. Per questo lavoro Obama ha anche pagato dei costi: primo fra tutti una crescente tensione con Israele, che fin dall’inizio ha guardato alle sue attività mediorientali come a una presa di distanza, nei fatti, dalla tradizionale amicizia senza se e senza ma fin qui esistita fra Israele e Washington.Ma il dossier Palestina-Israele è cresciuto, comunque, nei mesi passati: gli Usa hanno ottenuto un isolamento parziale di Hamas, nella West Bank hanno rafforzato la leadership palestinese moderata che sta costruendo un primo abbozzo di Stato; dalla stessa Israele, nel bene o nel male, hanno ottenuto la moratoria sugli insediamenti.

Eppure, come si è visto in questi giorni chiaramente, il processo di pace rimane sempre più «un processo», e sempre meno «pace».
Si torna così alla domanda: perché allora convocare questi appuntamenti? La risposta tradizionale, cui si accennava sopra, non è più sufficiente. L’impegno in Medioriente è un «obbligo» per la politica estera americana, e i colloqui danno ai presidenti lustro, specie in periodi di difficoltà politiche. Ma l’altalena storica di successi e insuccessi è ormai probabilmente troppo lunga persino per i meglio intenzionati. Un’atmosfera di scetticismo accompagna ormai, infatti, questi incontri: gli stessi leader che vi intervengono non nascondono i loro (mal)umori.

Sfogliando il dibattito politico a più ampio raggio, si ha l’impressione che da questa impasse stia emergendo un ripensamento dell’intero approccio. Yossi Beilin, ex ministro della Giustizia in Israele, ed ex negoziatore israeliano, due giorni fa ha scritto in merito una riflessione che punta dritto al cuore del problema. Ricordo - scrive - che siamo riusciti non poco tempo fa a stendere 500 pagine di accordi dettagliati in cui tutte le questioni venivano risolte, ma le 500 pagine sono rimaste lettera morta. Perché? La risposta è semplice e difficile insieme: la pace non è un negoziato, dice Beilin, la pace è un atto politico.

Gli fa eco un altro ex negoziatore, Aaron David Miller che è stato a lungo consigliere sul Medioriente per segretari di Stato sia repubblicani che democratici. Miller, che ha scritto «The Much Too Promised Land: America’s Elusive Search for Arab-Israeli Peace», è intervenuto sul numero di maggio-giugno di Foreign Policy denunciando la sua sfiducia in quella che secondo lui, negli anni, è diventata una convinzione quasi religiosa: «L’America ha usato il suo potere per fare guerre, può dunque usarlo anche per fare la pace. Ne ero un credente. Oggi non lo sono più».

Le ragioni di questa sua disillusione vanno probabilmente lette - da chi volesse saperle - direttamente su Foreign Policy. Quello che davvero rimane del suo intervento sono i dubbi che innesta nelle sicurezze fin qui coltivate: «Il vecchio modo di pensare su come costruire la pace vale ancora oggi in un nuovo contesto? Il conflitto arabo-israeliano è davvero al centro di tutto? E, dopo due decenni di grandi speranze seguite da violenza e terrore, possiamo davvero credere che le negoziazioni servono? Infine, davvero l'America ha il potere di fare la pace?».
In assenza di risposte, la grande politica mondiale rimane in stand by.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7782&ID_sezione=&sezione=


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Quell'allarme delle donne di Ciudad Juarez
Inserito da: Admin - Settembre 16, 2010, 10:12:32 am
16/9/2010

Quell'allarme delle donne di Ciudad Juarez
   
LUCIA ANNUNZIATA


All’inizio ci fu (non è sempre così?) una donna. Anzi, le donne: le 394 ragazze giovani e indifese uccise, dopo tortura e goduria inflitte ai loro corpi, e abbandonate nel deserto, a fertilizzare con le loro ossa e con il loro terrore, la psiche del Messico. Oggi lo vedono tutti che il Messico ha quasi varcato la soglia di ogni possibilità di recupero dalla sua deriva di stato canaglia - eppure da qualche parte un campanello d’allarme suonava per farci capire cosa stava succedendo. Quel campanello era il «feminicidio» di Ciudad Juarez, lo stillicidio di uccisioni femminili continuo, organizzato e gaudente come appunto spesso sono le pulizie etniche o gli olocausti.

Nel 1993 cominciò la via crucis della ragazze dello stato di Chihuahua, in particolare di Ciudad Juarez, città proprio al di qua della frontiera con gli Usa, città del miracolo economico della prima ondata di globalizzazione, poi organizzata e rinsaldata dal Nafta, il primo accordo di libero commercio fra gli stati nordamericani, firmato tra l’altro proprio nel 1992. Quell’ onda di cambiamento a Ciudad Juarez si chiamava «maquilladoras», le manifatturiere che le grandi aziende americane avevano convenientemente spostato sull'altro lato della frontiera Usa. Donne giovani in particolare il cui lavoro era, e rimane, in nero, sporco, privo di sicurezza. In quel flusso umano i serial killers hanno trovato l’appagamento, facile, dei loro sogni di sesso e morte. Eppure nessuno per anni ha mai voluto vedere. Le morti divennero dieci, centinaia, e a lungo la polizia le ha trattate come crimini isolati, frutto di violenze familiari o prostituzione. Ci sono stati film , documentari, e manifestazioni, ma ancora oggi di giustizia vera non se ne vede. In compenso è sempre più evidente il legame fra quelle morti e le condizioni generali di decadenza del Messico.

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Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Sakineh dalla pietra alla corda
Inserito da: Admin - Settembre 29, 2010, 11:40:05 am
29/9/2010

Sakineh dalla pietra alla corda

LUCIA ANNUNZIATA

Qualcosa si muove persino a Teheran. La condanna a morte per lapidazione inflitta a Sakineh Mohammadi-Ashtiani, la donna iraniana accusata di adulterio e omicidio, è stata commutata in condanna a morte per impiccagione. Ridicolo, certo, sostenere che si tratti di un passo avanti, eppure lo è. Lo è innanzitutto perché prova che l’indignazione internazionale viene sentita dal pure sprezzantissimo governo di Teheran.

Ma, proprio a questa svolta della vicenda, è bene riconoscere anche che, dopo che gli Usa hanno eseguito la condanna a morte per Teresa Lewis, il caso Sakineh ha assunto per noi un’ulteriore valenza. Il leader Ahmadinejad pochi giorni fa ha equiparato Stati Uniti e Iran di fronte all’uso della pena capitale, e questa similitudine ha lasciato una grande inquietudine nelle coscienze di molti cittadini delle nostre democrazie. Val la pena dunque di ribadire, esattamente ora che la storia umana di Sakineh può ancora svoltare, ora che si può ancora sperare di salvarla, perché non c’è parallelismo possibile, nemmeno davanti allo stesso strumento, la pena di morte, fra Usa ed Iran.

Sono contraria, come la maggior parte degli italiani (l’Italia è leader nella campagna contro la pena di morte) alla condanna capitale; ma i modi e i contesti della sua amministrazione sono rilevantissimi. Attraverso di essi infatti si rappresenta il sistema giuridico di cui tutti usufruiamo.

Non sono dunque indifferenti il percorso attraverso cui è stata condannata Sakineh né il tipo di morte.

La lapidazione è una antica forma di punizione, e fin dall’antichità ha sempre avuto caratteri legati a crimini che coinvolgono la sessualità: è la punizione per prostitute, adultere, omosessuali, oltre che apostati e assassini. Dunque, sia pur non esclusivamente, è punizione per eccellenza del sesso debole. Differenza che si sottolinea persino nell’esecuzione. Credo sappiate come avviene: il condannato viene seppellito in una buca nel terreno, fino alla vita gli uomini, fino al busto le donne, avvolto in un lenzuolo fino al capo: se è donna però il volto rimane scoperto. Chi abbia mai visto uno dei crudeli video di lapidazione che ogni tanto emergono dai Paesi in cui la punizione è praticata (o anche solo tollerata) sa che differenza fa vedere o meno le ferite profonde stamparsi sul volto di chi subisce il martirio. Non è un caso che i Paesi in cui questa pena capitale si pratica sono tutti musulmani: Iran, Nigeria, Arabia Saudita, Sudan, Emirati Arabi Uniti, Pakistan, Afghanistan e Yemen, dove vige un diritto strutturato intorno alla legge coranica. In Iran, ad esempio, la lapidazione è stata riammessa dopo la rivoluzione del 1983, ed è ancora oggi la nazione in cui è praticata da più lungo tempo, con una procedura studiata in modo che il decesso non avvenga a seguito di un solo colpo: la legge prevede infatti che «le pietre non devono essere così grandi da far morire il condannato al solo lancio di una o due di esse; esse inoltre non devono essere così piccole da non poter essere definite come pietre».

È in questa impostazione del processo, della visione del crimine, e del concetto di diritto individuale del cittadino/\a che è maturato il caso Sakineh. In una giustizia in cui vige la incertezza della difesa e l’abuso della forza di uno Stato rivestito di principio etico assoluto. Il processo subito dalla donna, le motivazioni della sua condanna, persino le prove di quel che ha fatto sono incerte - e se la lapidazione nella sua estrema brutalità rende evidente questo abuso del diritto, l’abuso del processo rimane anche ora che lo strumento della condanna diventa la corda e non la pietra. Del resto è questo il problema della giustizia in Iran - e lo abbiamo visto ripetutamente al lavoro negli ultimi anni nei confronti dei dissidenti: la disobbedienza è punita come principio, e la sua repressione non ha nessun limite se non la soglia che serve alla conservazione dello Stato. Che si usi poi la esecuzione per via di botte in carcere, la sparizione senza ritrovamento del cadavere, o la esecuzione in piazza via squadre speciali, è indifferente - i modi sono, appunto, il disvelamento della supremazia dello Stato/\religione sul diritto dell’individuo.

Possiamo dire altrettanto della giustizia in Usa? Non è perfetta, anzi è densa di discriminazioni di classe e di razza. Ma è un sistema che ruota intorno al pieno riconoscimento dei diritti del cittadino e ampio equilibrio di contrappesi perché essi vengano rispettati. Contrappesi interni - il tipo di processo -, ed esterni - la possibilità della opinione pubblica di sapere, conoscere, e dissentire.

Alla fine certo, una pena di morte è una pena di morte. Teresa Lewis e Sakineh hanno davanti a sé la fine della loro vita. Ma, almeno, ai nostri occhi rimarrà la differenza sul dubbio dell’innocenza, fra l’essere vittime o meno: per Teresa sappiamo che ha avuto la possibilità di potersi difendere, per Sakineh siamo certi di no. E siccome la giustizia garantisce (o meno) tutti noi, non è differenza da poco, per tutti noi, sapere di avere una certezza di giudizio nell’incerto mondo in cui viviamo.

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Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Obama tradito dalla crisi dei partiti
Inserito da: Admin - Novembre 02, 2010, 06:27:21 pm
2/11/2010

Obama tradito dalla crisi dei partiti

LUCIA ANNUNZIATA

L’unica indecisione sembra, alla vigilia, riguardare solo l’ampiezza dell’impatto.

Non è ancora chiaro se si tratterà di uno «tsunami» (copyright ex sindaco dem di New York, Ed Koch) o di «un’onda di proporzioni storiche» (copyright Istituto Gallup). Per il resto, che le elezioni di mediotermine segneranno un disastro per Obama non ne dubita nessuno. Nelle previsioni della vigilia, i repubblicani vincono circa cinquantacinque seggi alla Camera, superando ampiamente la quota trentanove che serve per avere la maggioranza, e vincono almeno venticinque delle trentasette poltrone senatoriali.

Conquistano inoltre una serie di governatorati oggi democratici negli Stati del centro del Paese, dalla Pennsylvania allo Iowa, luoghi chiave delle vittorie presidenziali, inclusa quella di solo due anni fa di Obama.

Val la pena dunque di cominciare a porsi da subito le domande che questo risultato metterà sul tavolo. Siamo di fronte all’inizio della fine del Presidente Fenomeno, del Presidente della Rinascita, del Presidente Nero? O il voto, questo «cambiamento di orientamenti epocale nell’elettorato Usa», è anche, secondo le parole sul Wall Street Journal di Rasmussen (direttore di uno degli istituti di sondaggio più attendibili del Paese), un sommovimento tellurico il cui impatto sarà avvertito dall’intero sistema politico? Domande autorizzate da due elementi senza i quali è impossibile capire il contesto in cui è maturata la sconfitta democratica. Il primo è l’estrema sfiducia dell’elettorato Usa nelle sue istituzioni. Il secondo è che il campo repubblicano, vittorioso per quanto sia, ha subito, a causa del movimento dei Tea Party, un totale spappolamento del suo assetto tradizionale.

Cominciamo dalla sconfitta di Obama, cui alla fine va apposto un solo nome: disoccupazione. Il profilo di chi oggi ha deciso di votare repubblicano è lo stesso ovunque: sono uomini, operai, bianchi. Sono del resto loro a costituire tradizionalmente il margine che assegna o meno la vittoria in ogni grande competizione elettorale. Sono gli stessi che, va ricordato, già nel 2008 erano incerti su Obama, dal momento che alle presidenziali avevano in prima istanza scelto Hillary sull’attuale Presidente.

Il lavoro è il primo motivo di scelta (al 38 per cento) indicato dai votanti tutti, sia quelli repubblicani (30 per cento) che democratici (40 per cento). Per capirci: la riforma sanitaria ha pesato nelle scelte elettorali solo per il 24 per cento e l’Afghanistan per il 4 per cento. I motivi di tanta preoccupazione sono ben illustrati dall’ultimo rapporto di Market Watch, del Wall Street Journal, che in ottobre ha riportato la fotografia del devastante impatto della crisi soprattutto fra gli operai, i blue-collar. Il tasso totale di disoccupazione del 9,6 per cento (che raggiunge il 17 per cento se vi si aggiunge la sottoccupazione) viene così distribuito nella società: il 4,5% colpisce i laureati, il 10,8% i diplomati e il 14,3% coloro che non hanno titoli di studio. I democratici dunque perdono proprio perché colpita è la loro base elettorale. Ogni altro merito, o demerito, che alla vigilia del voto, viene attribuito ad Obama, che abbia fatto bene o male la riforma sanitaria, che abbia usato pochi fondi dello Stato come stimolo all’economia o che non ne avrebbe dovuto usare affatto, che abbia punito troppo o troppo poco con le nuove regole, il capitale e il big business, sono tutti elementi validi ma che vengono infinitamente dopo la questione del lavoro.

Ma se la questione al centro di questa elezione è la crisi economica, la incertezza sul futuro, se il malumore è così ampio, al di là della momentanea «punizione» per Obama, se ne avvantaggeranno davvero i repubblicani? O c’è negli Usa un clima che in generale se punisce Obama non premia i repubblicani?

Come si diceva, sotto l’onda che sta arrivando nella Washington democratica opera un ulteriore motivo di tensione senza il quale è difficile capire l’intensità che ha colorato questa campagna elettorale. Questo elemento è una profonda sfiducia nei partiti di governo, che ha raggiunto in questo ultimo anno livelli massimi, che attraversa tutti gli schieramenti. Secondo l’istituto Rasmussen, «il 51% dei cittadini Usa vede i democratici come il partito del Grande Governo, mentre quasi la stessa percentuale vede i repubblicani come il partito del Grande Business. Questo significa - conclude il rapporto - che non ci sono più partiti che rappresentano il popolo americano».

Spiega Matt Rasmussen nel rapporto: «In questo senso nemmeno i repubblicani vincono. La realtà è che nel 2010 i votanti stanno facendo quello che fecero nel 2006 e nel 2008: votano contro i partiti al potere. Il che è poi la continuazione di una tendenza che ha ormai venti anni. Nel 1992 Clinton fu eletto e perse il controllo del Congresso nel corso del suo mandato. Lo stesso avvenne nel 2000 a George Bush. Ora accade di nuovo, e per la terza volta di fila». C’è dunque in atto una critica più ampia al sistema di potere, «un fondamentale rifiuto di entrambi i partiti. Più precisamente, un rifiuto bipartisan delle élite politiche che hanno perso il contatto con la gente che dovrebbero rappresentare».

Questa tensione fra cittadini e politica ha rapidamente disfatto il consenso di Obama, ma ha anche spappolato il campo repubblicano, come si è visto nelle azioni e nei programmi dei nuovi candidati del Tea Party, nati per contestare tanto i democratici quanto le vecchie élite del mondo conservatore.

Sono, naturalmente, per ora, solo analisi. Ma se così fosse, staremmo raggiungendo in America ben prima che da noi l’acme di una sfiducia antipartiti che anche in Europa conosciamo bene. Che si tratti poi di una crisi, di una crescita o di un mutamento delle forme attuali della democrazia lo vedremo. Di certo, per dirla con l’istituto Gallup, le elezioni di oggi di Midterm, portano gli Stati Uniti in un territorio «di cui non si conoscono le mappe».

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8031&ID_sezione=&sezione=


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Ma il vero obiettivo è Obama
Inserito da: Admin - Novembre 29, 2010, 12:05:36 pm
29/11/2010

Ma il vero obiettivo è Obama

LUCIA ANNUNZIATA


Se un complotto c’è, è nei confronti di Obama. Affascinati dal capire cosa pensano di noi i proconsoli americani nel mondo, eccitati dal poter sollevare il velo delle cortine delle opportunità pubbliche, un dato sembra acquisito.

Il rilascio di quasi due milioni di dispacci del Dipartimento di Stato da tutte le sue sedi nel mondo, è intanto e prima di tutto un gravissimo colpo per la amministrazione americana.

Ancor prima che nei contenuti, l’operazione di Wikileaks mette alla berlina l’intero sistema di sicurezza degli Stati Uniti, lo attraversa, lo squaderna e lo mette in piazza dimostrandone tutta la fragilità. In questo senso, si potrebbe dire che Assange ha un suo precursore nel giovane tedesco che poco tempo prima della caduta del Muro di Berlino raggiunse Mosca con un piccolo aereo è atterrò sulla Piazza Rossa, svelando con un solo colpo d’ala la fragilità di un sistema che si vantava dei suoi scudi stellari e delle sue testate nucleari. Se non fosse che l’azione odierna del giovane Assange ha scopi e sbocchi che la pongono ben al di là del «disvelamento» della natura del potere.

L’operazione-verità di Wikileaks, cui va dato il benvenuto come a tutte le operazioni di trasparenza, ha tuttavia anche un sottotesto molto politico, ha un impatto laterale, senza capire il quale rischiamo di essere messi anche noi nel sacco. C’è, insomma, una seconda lettura del rilascio di questi documenti, una sorta di eterogenesi dei fini, che suscita varie domande.

Intanto, le dimensioni di questo ultimo rilascio sono molto diverse dal primo, quello sulla guerra in Iraq. In quel caso, Wikileaks gestì circa quattrocentomila testi, si disse. Un numero eccezionale, ma non impossibile da raccogliere se si considera il gran numero di soldati coinvolti nel conflitto, la facilità con cui tutti loro usano in questa guerra il computer, e l’intensità dei sentimenti contro la guerra che circolano al fronte. Non suscitò dunque meraviglia che nel giro di qualche anno tale mole di informazioni venisse raccolta e passata ad Assange. Questa volta invece si tratta di quasi due milioni di dispacci, provenienti da tutte le ambasciate americane nel mondo: come ha fatto Wikileaks a mettere insieme una raccolta di tali dimensioni? Con quanti uomini e donne, in quali tempi, da quali basi operative? Certo, sappiamo bene che la tecnologia è flessibile, che basta un computer da una panchina per lavorare; sappiamo anche che proprio i grandi Stati peccano di eccesso di sicurezza rispetto ai propri sistemi operativi e ai propri codici. Ma, anche così, il dubbio rimane: bastano davvero solo un pugno di volontari e tante gole profonde per catturare ben due milioni di messaggi da tutte le ambasciate del mondo? E come può continuare a gestire tale complessa operazione un uomo come Assange che è da parecchio tempo in fuga, proprio per non far bloccare il suo lavoro? E - a proposito - come mai questo uomo che sfida da solo l’opacità del potere, non si trova? C’è qualcosa di davvero formidabile nella capacità di questo giovane di non farsi trovare dai servizi di intelligence più importanti del mondo.

C’è insomma un lato incomprensibile in questa storia, o, se volete, un vero e proprio lato oscuro. Chi sta aiutando Assange? C’è solo la sua fede e quella di pochi volontari nella libertà di stampa a sostenerlo? O, sempre in nome della libertà di stampa non abbiamo noi stessi il diritto di chiedere a questo punto allo stesso Assange trasparenza sulle sue operazioni?

Certo non si può essere così ingenui da non vedere che l’imbarazzo creato all’amministrazione di Obama, rende molto popolare il creatore di Wikileaks presso molti nemici di Obama. E se oltre che benvenuto Assange fosse stato anche aiutato da questi nemici?

Qui si apre una prateria di ipotesi, e tutte inquietanti. Sappiamo, proprio dai dispacci che leggiamo su Wikileaks, che il mondo in questo momento è un luogo molto incerto. Sappiamo che il potere degli Usa è in forte declino, e che è al centro di molti attacchi. Sappiamo infine anche che lo stesso Obama è combattuto da potenti forze nel suo stesso Paese. E’ davvero ridicolo dunque ipotizzare che Wikileaks possa essere diventato strumento involontario o volontario di queste tensioni? Staremo a vedere. Ma certo Assange stesso ci perdonerà questi dubbi, dal momento che essi sono solo l’applicazione a lui della stessa richiesta di trasparenza che la stampa libera rivolge a tutti.

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Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Se Hillary Machiavelli si veste da colomba
Inserito da: Admin - Dicembre 02, 2010, 11:46:29 pm
Esteri

02/12/2010 - PERSONAGGIO

Se Hillary Machiavelli si veste da colomba

Le forche caudine di Hillary

LUCIA ANNUNZIATA

Fra i due, il sorriso più imbarazzato, per una volta, non era quello del premier italiano. Miracoli di Wikileaks, l'algida Segretario di Stato Americano, Hillary Clinton, si è sciolta ieri in riconoscimenti pubblici per Silvio Berlusconi tali da rasentare l'affetto, con una foto insieme vicini vicini, e solo i Wasp (o pretesi tali) sanno quanto vale l'annullamento di quei centimetri di spazio personale nel linguaggio del corpo di un leader americano. Come volevasi dimostrare (e avevo scritto), se Wikileaks ha fatto male al governo italiano, ne ha fatto infinitamente di più a quello di Washington. Solo l'ossessivo ripiegamento dell'Italia su se stessa può spiegare la completa inversione di ruoli con cui il nostro mondo politico ha affrontato in questi giorni le rivelazioni di Wikileaks. Quei dispacci sono stati un indubbio danno nel rapporto Italia-Usa innanzitutto perché, al di là delle valutazione individuali su Berlusconi, hanno reso pubblico il fatto che Washington dubita della collocazione stessa dell'Italia nel fronte occidentale: per un Paese come il nostro, sempre di frontiera nel mezzo secolo passato, non è un bel sentire.

Ma il danno Wikileaks ha colpito soprattutto gli Stati Uniti e su un fronte così vasto da rendere la vicenda italiana, vista nell'insieme, meno rilevante, e, per Silvio Berlusconi, meno scottante. Paradossalmente, proprio il bisogno che hanno gli Stati Uniti ora di «recuperare» le gaffes fatte con tutti i loro alleati fornisce alla crisi da tempo latente fra Roma e Washington un inatteso respiro. Basta vedere, appunto, quello che succede in queste ore in Kazakistan, dove il capo della diplomazia americana è arrivata per il vertice Osce (l'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa), inseguita da richieste minoritarie ma forti di sue dimissioni. Il summit avrebbe dovuto essere il primo trionfale ingresso sulla scena internazionale del leader kazako Nursultan Nazarbayev, e si è tramutato per Hillary in una sorta di forche caudine. Ad Astana il segretario Usa si trova in queste ore infatti nella non invidiabile posizione di chi deve guardare negli occhi alleati di cui ha appena parlato malissimo - e scusarsi. Dopo le feste a Berlusconi, dovrà far dimenticare a Dmitri Medvedev di essere stato definito il «Robin di Batman» (Putin), ad Angela Merkel di «essere poco creativa», e al padrone di casa Nazarbayev quei dispacci che ne descrivono il lusso esagerato, oltre a raccontare un primo ministro che (s)balla da solo in un night club.

L'affettuosa foto di ieri fra Hillary e Silvio va guardata, dunque, come la prima di una lunga serie per cui il capo della diplomazia americana dovrà posare per ammorbidire, calmare, ricucire con tantissimi leader mondiali. Posizione molto inusuale per l'altera signora, che per la prima volta si trova a essere non giudicante ma giudicata. In quanto capo del Dipartimento di Stato è su di lei infatti che una parte consistente della tempesta Wikileaks si scarica. Sua in particolare è forse la più discussa direttiva finora scoperta: la richiesta a tutti i diplomatici americani nel mondo di «raccogliere informazioni» dettagliate, incluse quelle «biometriche» su vari leader politici. Fra questi i rappresentanti all'Onu delle maggiori nazioni, Russia, Cina, Francia, e persino l'alleatissima Inghilterra, incluso il segretario generale Ban Ki-moon; ma anche i leader palestinesi di Fatah e di Hamas. Naturalmente, i diplomatici hanno sempre raccolto informazioni, ma in questo caso c'è un salto di qualità tale da far parlare di spionaggio. Quello che Hillary chiede ai suoi uomini e donne, in un ordine di servizio dall'inquietante titolo di «national human intelligence collection directive», è di ottenere orari di lavoro, mail, numeri di fax, cellulari, linee private, diverse identità web, password, carte di credito, numero di tessere da «frequent flier», e persino informazioni «biometriche», cioè Dna, impronte digitali e impronta dell'iride.

Per il segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon la Clinton chiede anche dettagli «sullo stile di gestione e sulla sua reale influenza dentro il Segretariato». È un approccio ai limiti della legalità internazionale, come si può capire, che ha già creato forti tensioni nel Palazzo di Vetro. E la responsabilità pare essere davvero tutta della Clinton. Se è vero, infatti, che questa richiesta di informazioni è il proseguimento di una politica avviata da Condoleezza Rice, l'attuale Segretario ha portato l'operazione a un maggiore livello di profondità e di integrazione con il lavoro delle altre agenzie, creando un legame, oltre che con la Cia, anche con il Secret Service Us,e con l'Fbi. Al di là delle decisioni generali attribuibili a tutto il governo di Washington, da Wikileaks emergono bene, insomma, il pugno di ferro, il decisionismo e una certa mancanza di scrupoli con cui «la donna più potente del mondo» ha gestito finora il suo potere. Quanto peserà ora nelle relazioni internazionali una Hillary a cresta bassa, è tutto da vedere.

http://www3.lastampa.it/esteri/sezioni/articolo/lstp/378313/


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Obama, sul web la vendetta della storia
Inserito da: Admin - Dicembre 09, 2010, 11:00:01 am
9/12/2010 - WIKILEAKS, DIBATTITO SULL'INFORMAZIONE NELL'ERA DI INTERNET

Obama, sul web la vendetta della storia

LUCIA ANNUNZIATA

Un mortale duello fra due eroi di un nuovo mondo. L’arresto del fondatore di Wikileaks fa esplodere anche, fra le tante cose, un conflitto fra due eroi moderni, appunto, entrambi espressione della rivoluzione che il web ha operato nella politica e nella informazione, entrambi nati dentro e per buona parte grazie alla rete - Julian Assange e Barack Obama.

Del legame fra Julian e la Rete sappiamo, ovviamente, tutto. Ma pochi sembrano ricordare in questi giorni quanto intrecciata sia con Internet anche la presidenza Obama. Il «cambio» che portò due anni fa il candidato democratico a Washington nacque in effetti proprio dal web e fu proprio l’uso di questo nuovo strumento a certificarne la rottura con il passato. Quando Barack Obama si affacciò sulla scena delle primarie, il suo nome era quello di un brillante ma marginale politico.

Rispetto al sistema poderoso, oleato, iperistituzionalizzato della macchina da guerra dei Clinton la sua campagna elettorale apparve per molti lunghi mesi una sorta di speranzoso tentativo, destinato a dare i suoi frutti in un futuro distante. Nella sorpresa generale Obama vinse invece una elezione dopo l’altra nelle primarie, Stato dopo Stato, con una tattica che - poi gli analisti se ne sarebbero resi conto - combinava la riscoperta del più tradizionale strumento politico, il contatto a pelle con le persone, e il più innovativo degli strumenti di aggregazione, il web appunto.

Una squadra di giovani che fu descritta come «miracolosa» mise in piedi il più capillare network politico che avesse visto la rete: email inviate ogni giorno, possibilità di contattare il gruppo intorno al candidato quasi minuto per minuto, calendari e agenda aggiornati al momento. Se si ricorda, su rete venne lanciata una campagna di raccolta di contributi individuali dei sostenitori di Obama, che azzerò il senso stesso di quelle adunate per ricchi con cui fino ad allora si erano identificate le raccolte dei fondi. Tra Hillary che andava alle cene di New York per cercare donazioni, e Obama che raccoglieva su rete i suoi pochi ma valorosi spiccioli, la differenza divenne un marchio di novità e successo per il futuro presidente.

La rete provò alla fine di essere - se usata in maniera vasta e socializzata - il modo per riportare alla politica ampi strati di popolazione che da anni non votavano più: la vittoria di Obama, come ci dicono le statistiche, è stata dovuta in particolare al ritorno alle urne di giovani che vennero da lui convinti a votare proprio grazie alla novità del suo modo di far politica.

L’affetto e la gratitudine del nuovo Presidente per la rete si espressero, d’altra parte, appena eletto, quando, facendo sobbalzare il mondo, annunciò che lui avrebbe rinunziato a tutto ma non al suo «blackberry», confessandosi totalmente «dipendente» dalla posta su rete. Ancora oggi, del resto, quell’ampio network messo in piedi per le primarie funziona, e ancora oggi infatti se mai siete stati agganciati allora dalla campagna elettorale democratica, continuate a ricevere più volte ogni settimana annunci da parte di Obama che vi chiede questo e vi spiega quello e che vi invita a rimanere in contatto.

C’è dunque una sorta di «poetica vendetta» nel fatto che, tra le altre cose, al Presidente americano sia toccato ora fare la parte del «repressore» della rete. Che proprio contro di lui il web abbia sganciato, volendolo o no, una bomba destabilizzante quale è la pubblicazione dei documenti del Dipartimento di Stato. È in ogni caso molto significativo, e certo lacerante per coloro che lo sostengono, vedere ora Obama nel ruolo di chi chiede l’arresto di Assange che oggi è il simbolo della libertà di espressione, della efficacia della trasparenza, del potere della rete. Pagherà un prezzo molto alto il Presidente per questa sua posizione su Assange - perderà consenso presso la sua base elettorale più appassionata, più dinamica, più a lui vicina.

Ma, oltre che una «poetica vendetta» della storia, in questo nuovo ruolo di Obama c’è tutto il racconto della inevitabilità del potere. La vicenda personale del Presidente americano, e non solo per quel che riguarda il web, sembra potersi racchiudere in fondo tutta in questo apologo: il potere ha le sue leggi e non importa quante promesse puoi fare prima, una volta conquistato è difficile gestirlo cambiandone la natura. Va detto con tristezza, non sarà Obama il primo profeta che il sistema ha divorato.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8184&ID_sezione=&sezione=


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Da Atene a Roma ecco l'internazionale dello scontento
Inserito da: Admin - Dicembre 17, 2010, 09:06:14 pm
Cronache

17/12/2010 - REPORTAGE

Da Atene a Roma ecco l'internazionale dello scontento


Una miscela di vecchio e nuovo nelle violenze in piazza del Popolo. Gli studenti i primi a essere sorpresi dalla partecipazione agli scontri

LUCIA ANNUNZIATA


Roma, Palazzo di Giustizia. Quelli del G8 sono liquidati come «attempati». E il rapporto fra la rivolta di quei giorni a Genova e gli scontri di Roma di tre giorni fa è descritto in maniera lapidaria. A Genova ci fu un solo tentativo di assalire una camionetta della polizia e ci scappò il morto, Carlo Giuliani. A Roma non solo una camionetta è stata assalita, ma dentro c'erano addirittura tutti i finanzieri». Il tempo, nell’orizzonte dei movimenti, è un fattore insieme mobilissimo ed eterno. L’ultima volta che Piazza del Popolo, il salotto di Roma, dunque e forse il salotto del mondo, si è illuminata delle fiamme degli scontri, era il marzo del 1977. Trent’anni e passa fa, ma solo ieri, in un certo senso, per il movimento, perché quell’episodio è una pietra miliare, un metro di misurazione dell’alluvione degli umori che solo due volte in questo ultimo mezzo secolo è riuscita a violare quella piazza.

La memoria vicina è invece più vaga - già il G8 è roba un po’ passata, nell’accavallarsi di ondate di giovani e scontento. Nel tempo di attesa del processo per direttissima a 23 arrestati negli scontri di martedì (saranno fra poche ore rilasciati), non c’è molto altro da fare che valutare, spiegare e in parte ricordare. Il presidio che sfida il freddo a Piazzale Clodio, davanti al Palazzo di Giustizia della Capitale, non è enorme - ed è anche questo un segno della scarsa «politicizzazione» del movimento: «La giustizia è già un livello più complesso di partecipazione», spiega infatti uno dei leader già sperimentati del movimento, un universitario che si dice lui stesso per molti versi sorpreso di chi ha visto in piazza il 14. Quella data, vista da dentro le file di chi è sceso per le strade, sembra si stia avviando infatti a segnare un balzo avanti della protesta giovanile.

Nell’estrema mobilità del movimento (di cui si diceva), la data del 14 pare abbia indicato l’arrivo nell’area della contestazione al sistema di una leva nuova di giovani, decisamente mai vista prima, che secondo alcuni ha fatto di colpo invecchiare tutti quelli che finora si conoscevano. Una giovane donna che da anni segue il movimento, sia come militante che come giornalista alternativa, racconta così questo sviluppo: «La novità si è vista, come spesso accade in queste situazioni, in quello che è successo nel momento di scontro con la polizia: per la prima volta da anni non c’è stata una netta divisione fra quelli che queste cose le fanno quasi di mestiere e quelli che non c’entrano nulla e di solito si dileguano al primo botto».

Potremmo girare queste parole dicendo che nell’arte della guerra si formano le leadership, ma questo è il linguaggio di noi vecchi. Il ricordo sul filo del racconto di questa ragazza fornisce però un efficace riassunto di quello che abbiamo vissuto in questi ultimi anni. «Cominciamo dal G8. Lì i protagonisti furono i black bloc, davvero». I veri black bloc, sarebbero? «Quelli che per Genova vennero da ogni parte d’Europa, i tedeschi, gli olandesi, tutti i gruppi che queste cose le fanno di mestiere. Gli italiani fecero da rete per tutti loro, li invitarono, li ospitarono, e poi, certo, si presero anche il merito della guerriglia di quel giorno, ma insomma, se si parla di chi fu protagonista degli scontri, gli italiani possiamo dire che fecero da gestori dei Bed e Breakfast per questi ospiti». Quello che si vuole dire è che «a dispetto di tutto quello che scrive la stampa di sistema, gli italiani non hanno mai davvero avuto una forte capacità militare sul terreno».

Tant’è che il G8 prese nella sua spirale tanti ragazzi che negli scontri le presero, più che darle. Sono valutazioni che certo fanno sobbalzare tutti gli altri osservatori del movimento: dire che gli italiani non sono mai stati davvero «capaci da molti, molti anni di tenere la piazza» va contro tutte le parole che abbiamo scritto in questi anni, e contro tutte le relazioni scritte dal ministero degli Interni, ma quel che conta in questo momento è anche capire come il movimento vede se stesso al suo interno. È la sua valutazione che cerchiamo davanti al Palazzo di Giustizia di Roma, e secondo questa opinione interna, «da tempo, dopo il G8, si è vissuto per fasi, a volte efficaci, a volte meno». Una sorta di fenomeno periodico, in cui le varie azioni andavano in calo, per poi essere riprese da una prossima ondata di protesta. «I giornali parlano tanto, ma sempre a sproposito, di black bloc, di centri sociali; la realtà è che i centri sociali ci sono, ma sono i più diversi, dai più duri ai più fighetti, e di black bloc c’è spesso solo il nome, come dicevo, perché non c’è mai stato in Italia davvero un fenomeno del genere».

Quel che è successo il 14 è stata dunque, come a volte è successo anche in passato, un’eruzione imprevista, per lo meno nelle dimensioni. «Questa è stata la novità, per me, quando i pochi che sanno fare gli scontri hanno cominciato le azioni di dimostrazione, la maggior parte del corteo non si è squagliato, non si è defilato, ma si è buttato dritto dritto in mezzo alle fiamme». Una nuova leva, dunque. Nuova di sicuro rispetto a quelli del G8, ormai già considerati anziani, e nuova rispetto anche all’Onda, e a tutti gli altri collettivi nati nelle università in questi anni, secondo quella legge del veloce ricambio e consumo che vige nel mondo della protesta sociale. «Davvero, abbiamo visto ragazzi mai visti prima», confermano altri dei collettivi universitari della Sapienza, che è stata in questi anni passati il centro di ogni protesta. «Di solito il movimento pesca moltissimo nelle scuole del centro, che sono le più rappresentate, dove ci sono i figli di papà intellettuali di sinistra, ma stavolta abbiamo cominciato a vedere anche quelli delle scuole di periferia».

Ragazzi per i quali «le manifestazioni sono solo una delle molte modalità con cui si scarica la protesta giovanile». Per esempio? «Per esempio c’erano in corteo tanti con sciarpe dei club sportivi, della Roma o della Lazio». La differenza, dicono, in fondo è già livellata dalla crisi. Questa miscela, dunque, di nuovo e di vecchio, di ricordo del passato, un’altra piazza eppure sempre la stessa Piazza del Popolo, un altro movimento ma sempre lo stesso movimento che si stratifica, e si ricarica con sempre nuove leve negli stessi filoni, ha dato un impatto quale nessuno si aspettava agli scontri. «È una generazione che da questo punto di vista è diventata molto internazionale; è gente che è venuta qui e ha fatto quello che ha visto fare ai francesi, ai greci, agli inglesi». Stando a questo quadro sarebbe nata dunque a Roma, il 14 di dicembre, una internazionalizzazione della protesta estrema? «No, direi piuttosto un’internazionalizzazione dello scontento».

http://www3.lastampa.it/cronache/sezioni/articolo/lstp/380310/


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Il futuro della strategia dei veleni
Inserito da: Admin - Dicembre 30, 2010, 08:55:19 pm
30/12/2010

Il futuro della strategia dei veleni

LUCIA ANNUNZIATA

Maria Antonietta non ordinò mai la famosa collana di diamanti, e non disse mai di dare da mangiare al popolo brioche. Ma per ristabilire queste verità sono stati necessari almeno un paio di secoli, e nel frattempo, come dire, Maria Antonietta, dal suo aldilà, di questa verità non sa esattamente più che farsene: non saranno un po’ di storici a recuperarle una reputazione che i libelli anti regime le hanno in ogni caso rovinato in eterno.

La macchina del fango è una cosa seria, e quella che abbiamo visto al lavoro, indefessamente, negli ultimi anni in Italia, è ancora ben poca cosa. Ha dunque ampiamente tempo e occasione per crescere, se i suoi apprendisti stregoni lo vorranno. Una certezza infatti abbiamo su questo strumento: la macchina della delegittimazione è straordinariamente efficace, ed è sicuramente irreversibile.

E' una tesi, d'altra parte, già sostenuta in un libro scritto un po' di anni fa, nel 1996 (nel 1997 pubblicato in Italia da Mondadori), e che val la pena rileggere nel clima che si respira oggi in Italia. In «Libri proibiti. Pornografia, satira e utopia all'origine della Rivoluzione francese», il noto storico di Harvard, Robert Darnton (autore di un altro libro culto degli Anni Ottanta, «The Great Cat Massacre and Other Episodes in French Cultural History», 1984) racconta come la libellistica settecentesca francese, con le sue opere erotiche e di diffamazione politica, abbia contribuito a preparare la Rivoluzione tanto quanto il possente lavoro intellettuale degli illuministi.

Anzi, sottolinea Darnton, il lavoro filosofico dei Lumi diventa tanto più efficace perché reinterpretato e popolarizzato attraverso la letteratura erotico-diffamatoria. Il più alto esempio di questa commistione è, secondo lo studioso, «Les Bijoux indiscrets», uscito dalla penna di Denis Diderot, il più libertario dei grandi illuministi francesi.

L'accostamento fra il clima prerivoluzionazio francese e gli schizzi italiani odierni sembra - mi rendo conto - pretenzioso oltre che forzato. In realtà, se è vero che la diffamazione è sempre stata, nei secoli - dall'impero romano ai regimi autoritari del Novecento, quali fascismo e comunismo -, uno strumento politico per eccellenza, è durante la rivoluzione francese che assume i caratteri di quel mix tutto a noi contemporaneo di sesso, politica e comunicazione di massa. Un esempio che parla bene al nostro orecchio è il best seller prerivoluzionario «Anecdotes sur Mme la Comtesse Du Barry», del 1775, in cui si racconta l'ascesa di Marie-Jeanne Béen, contessa Du Barry, dal bordello dove esercitava la sua professione di prostituta al letto del re di Francia, e dunque al potere. Una scalata che fa leva sulle debolezze del corpo del re, sessuali o meno che esse fossero. Un corpo concepito nella tradizione come sacro, e che viene invece materialmente avvilito dai suoi stessi bisogni, al punto da far risultare un’associazione imperdibile, secondo Darnton, cioè che lo scettro «non è più solido del pene del re». Il libro contribuì così a creare una forte impressione, il luogo comune che «una masnada di farabutti si era impadronita dello Stato, aveva dissanguato il Paese e trasformato la monarchia in dispotismo». Naturalmente, osserva Darnton, la verità storica è ben lontana da tutti questi racconti; ma la verità, appunto, arriva troppo tardi.

Detto questo, va aggiunto che è ovvio (e anche lo storico non intende sostenere nulla di diverso) che la rivoluzione francese è un evento più grande della libellistica che aiutò a prepararla; ma lo studio sull’efficacia della manipolazione pubblica vale, si è visto poi, per altre cause, altri travolgimenti storici, di segno anche perfettamente contrari tra loro. Molto rilevanti dunque per l'oggi sono le conclusioni che Darnton trae in merito: «Le nostre fonti ci consentono di stabilire un nesso tra la circolazione della letteratura illegale da un lato, e la radicalizzazione dell'opinione pubblica dall'altro».

Frase, quest'ultima, che è la chiave giusta per capire la distinzione fra denuncia e diffamazione: la prima vive della verità, ed è dunque provabile e provata, la seconda vive dell’illegalità, e dunque non solo può ma deve vivere di falsità, di mancanza di prove. La forza d'impatto della diffamazione è proprio nella sua capacità di insinuare, non di dimostrare.

Come si vede, che abbiano o meno letto i libri citati, gli operatori a tempo pieno della macchina del fango del nostro Paese hanno delle ottime ascendenze, e sanno cosa fanno. Una denuncia funziona tanto più se non ha certezza, è tanto più efficace se non provata. La scelta del direttore di Libero, Maurizio Belpietro, di scrivere storie sentite e non verificate, di dare voce a sospetti come se fossero verità, è perfettamente allineata con queste regole.

Eppure, nello scrivere queste parole, non tutto torna. Maurizio Belpietro non è l'ultimo arrivato del giornalismo italiano. Sa bene cosa scrive, ne calcola gli effetti, e conosce meglio di chiunque, essendo da tanti anni direttore, le regole della verifica delle fonti. Se un giornalista di questo livello passa al prossimo stadio del «senza fonti», ci dobbiamo chiedere non tanto perché lo fa, ma cosa registra.

In effetti, la sua scelta registra per tutti noi, non tanto una nuova fase nella battaglia politica interna al centrodestra, quanto la presa d'atto che si è entrati in nuove condizioni politico-temporali: se è vero che la delegittimazione funziona perché offre un’immagine, dà un suggerimento, solleva, come si sarebbe detto una volta, in un'altra sinistra, «un’emozione», allora forse non vale nemmeno più la pena di mascherarla con prove posticce o servizi giornalistici sbilenchi. Insomma, chi vuole una mezza verità se la falsità totale suona tanto meglio?

La nuova fase della macchina del fango è questa: ce la segnala Belpietro con il suo solito andare alla «sostanza» delle cose, com’è nel suo stile sincero. Il suo editoriale di due giorni fa è il «next step», il futuro prossimo venturo del clima in cui vivremo.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8241&ID_sezione=&sezione=


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - A Mirafiori sinistra impreparata
Inserito da: Admin - Gennaio 04, 2011, 04:18:00 pm
4/1/2011

A Mirafiori sinistra impreparata

LUCIA ANNUNZIATA

Chi ha ragione delle due sinistre che guardano alla Fiat? Hanno ragione gli uomini del Pd, cioè i suoi principali leader, che si sono schierati per l’accordo con Marchionne - sia pur con una serie di distinguo - o i dirigenti della Fiom che lo hanno respinto senza se e senza ma?

Il lodo Marchionne, che come tale si è ormai configurato, comunque lo si guardi, è, innanzitutto, per il centrosinistra forse la prima decisione che deve affrontare senza poterla circumnavigare.

Senza il soccorso di un «ma anche»; è il primo luogo mentale cui non si può sottrarre. In questo senso, la cosa più ovvia da dire oggi, alla vigilia del referendum Mirafiori che si terrà fra un paio di settimane, è che l’appuntamento è per la sinistra una presa d’atto, ovvia, pubblica, definitiva, di una sconfitta. Il piano Fiat ne tocca in effetti la cassaforte di famiglia, il suo core business, lo zoccolo duro dei suoi elettori, e la idea stessa di mondo che ci ha proposto nell’ultimo mezzo secolo. In particolare per la sinistra italiana, lavoro e diritti sono sempre stati presentati come armoniosamente (e utilmente) compatibili, una realtà inscindibile. In questo senso, quando la Fiat chiede nuovi termini di organizzazione, qualunque essi siano, e qualunque ne sia la ragione, le nuove condizioni costituiscono obiettivamente per questa area politica la conclusione di un intero ciclo storico. Qualunque parte le varie anime della sinistra sceglieranno di giocare in questa trattativa, quella di chi lavora con Marchionne o quella di chi lo rifiuta, qualcosa è già perso, comunque - da Mirafiori non uscirà nessun vincitore.

Sono condizioni nuove di cui si discuterà con accanimento per molto tempo. Ma intanto c’è molto da ragionare sul fatto che, dopo sedici anni di Silvio Berlusconi, identificato da molti addirittura come costruttore di un «regime», la sinistra sia stata messa con le spalle al muro non dal Premier ma da un manager di una antica azienda. Manager e Azienda entrambi - è utile qui ripeterlo - considerati dei seri interlocutori da parte di questa stessa sinistra. Un vero e proprio paradosso, una sorta di poetica vendetta della storia. Come è stato possibile? Avanzo qui solo alcune delle moltissime, possibili, spiegazioni.

La prima è che Silvio Berlusconi, a dispetto di tutti i suoi modi forti, le sue leggi ad personam, i suoi assalti alla Costituzione, si riveli alla fine un avversario meno efficace di quel che si teme. Il viceversa di questa possibilità è che la sinistra abbia trascorso più di un decennio a capire chi era Berlusconi, e a dividersi su come combatterlo, perdendo di vista la società che, intorno, galoppava in tutt’altre direzioni. L’elemento della vicenda Fiat che più colpisce, alla fine, forse è proprio questo: quanto impreparata sia arrivata la classe politica del centrosinistra all'appuntamento con Marchionne. Le domande che si sta facendo ora nella spirale finale delle decisioni, in realtà avrebbero dovuto essere se non anticipate, sicuramente affrontate prima. Il Pd - e non solo, dal momento che questa è una storia che fa cambiare il volto alla industrializzazione dell’Italia - avrebbe dovuto sapere, anticipare, dirigere, insomma.

E non è che Marchionne abbia messo tutti dinanzi a un fatto compiuto: della Fiat si sa tutto, la vicenda si è sviluppata in perfetta trasparenza da almeno un paio di anni, e dall’estate scorsa, cioè dal referendum per Pomigliano, la conflittualità fra Fiom e manager Fiat è passata al calor bianco. Ma lo scontro è rimasto per mesi nel ghetto delle «relazioni industriali», come si dice in gergo per indicare che è rimasta tutta una questione di fabbriche e di sindacati. La storia che in questi giorni arriva alla conclusione è maturata - è necessario ricordarlo - confusa in mezzo alle varie agende della politica. Il governo per mesi è stato a guardare perché non aveva - per divisioni interne - il ministro dello Sviluppo economico, il Pd si è perso nella lotta interna fra le sue varie anime (veltroniane, dalemiane, popolari, centriste, cattoliche di ordinanza o meno) dopo la nomina di Bersani, mentre i centristi seguivano affascinati la «rupture» fra Fini e Berlusconi. Se un giorno qualche ragazzo in vena di fare i conti con questo Paese farà una ricerca per la sua tesi di laurea sul giornalismo nell’anno 2010 troverà (possiamo anticiparlo) molto più spazio dedicato alle escort di Silvio, alle case di Montecarlo, e allo scontro fra Palazzo Chigi e Magistratura. Un ordine di interessi perfettamente riscontrabile anche sui fogli di informazione di sinistra.

Di operai si è parlato poco, negli ultimi anni. Solo lo stretto necessario. Con una fondamentale incredulità della trasformazione in corso nel mondo. L’agenda politica intorno a cui la sinistra si è avviluppata nel 2010, a guardarsi indietro, ci appare oggi come estremamente laterale, se non addirittura irrilevante. Questa è la vera responsabilità dell’area democratica: essersi fatta bloccare da Berlusconi come un cervo abbagliato dai fari di una macchina, mentre il resto del Paese e del mondo continuavano a correre.

Oggi che l’operazione Marchionne si scopre decisiva, la sinistra vi arriva così troppo tardi per avere soluzioni diverse, o anche solo per avviare una discussione. Ma può sempre fare peggio: può ad esempio, di fronte alla difficoltà, cedere alla tentazione di lacerarsi - come sa fare benissimo, e come effettivamente già sembra incline, anche questa volta, a fare.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8254&ID_sezione=&sezione=


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Un bersaglio nella lista del rancore
Inserito da: Admin - Gennaio 09, 2011, 11:24:18 am
9/1/2011

Un bersaglio nella lista del rancore

LUCIA ANNUNZIATA

Ricordatevi questi nomi: Ann Kirkpatrick (Arizona), Harry E. Mitchell (Arizona), Gabrielle Giffords (Arizona), John Salazar (Colorado), Betsy Markey (Colorado), Allen Boyd (Florida), Suzanne M. Kosmas (Florida), Baron P. Hill (Indiana), Earl Pomeroy (Alabama), Charlie Wilson (Ohio), John Boccieri (Ohio), Kathy Dahlkemper (Pennsylvania), Christopher Carney (Pennsylvania), John M. Spratt, Jr. (South Carolina), Tom Perriello (Virginia), Alan B. Mollohan (West Virginia), and Nick J. Rahall II (West Virginia).

E' la «Target List», la lista di obiettivi, pubblicata il 23 marzo dello scorso anno, il 2010, da Sarah Palin. Diciassette uomini e donne del Congresso Usa, sedici democratici e un repubblicano, indicati per la loro attività a favore della riforma della assistenza medica.
Ieri sera il nome numero tre della lista, Gabrielle Giffords, dell’Arizona, è stata colpita al volto da un colpo di pistola da un attentatore di 22 anni mentre parlava a un incontro con i suoi elettori.

Chi sia esattamente l’attentatore, e quali siano le sue motivazioni, non si sa ancora. Ma che qualcuno abbia messo mano alle armi possiamo dire da subito che non è un avvenimento inatteso. Era infatti solo questione di tempo: dopo tanti inviti alla rivolta carichi di metafore da fuoco («hit», «reload»), un proiettile doveva prima o poi partire, ed è partito.

Ovviamente, in questo come in tutti gli altri casi di violenza, la responsabilità rimane individuale, ma alle spalle di questo attentato non è difficile intravedere le ombre dei «cattivi maestri» . E Sarah Palin, dopo aver colto molti vantaggi dal suo essere diventata la musa di un movimento rancoroso nonché orgoglioso di questo suo rancore, violento nonché orgoglioso della sua riscoperta della violenza, è oggi la naturale destinataria di ogni critica allo spregiudicato gioco di radicalizzazione acceso in Usa dal Tea Party e dal nuovo populismo conservatore. La stessa Palin sembra aver immediatamente realizzato la sua esposizione, dal momento che è stata il primo politico ad esprimere il suo cordoglio, prendendo le distanze dalla «tragica sparatoria» e offrendo le sue preghiere.

Nel frattempo, giusto per stare sul sicuro, la «lista degli obiettivi» è stata tolta da ogni sito che fa capo alla Palin. E’ possibile invece ritrovare in giro un altro capolavoro della incisiva creatività predicatoria della signora del nuovo conservatorismo Usa: è la mappa americana con le indicazioni dei posti dove ci sono i democratici da seguire - indicati con nomi e una croce sopra. La Gabrielle Giffords è sulla mappa, ovviamente. Fra i nomi indicati, nei mesi scorsi, sei sono stati in qualche modo colpiti - bruciati o attaccati i loro quartier generali. La Giffords stessa era invece stata avvertita fin dentro casa con un mattone lanciatole attraverso la finestra.

Ma concentrarsi sulla Palin sarebbe in questo momento riduttivo. Per capire cosa è successo ieri sera va messo sotto la lente di ingrandimento lo Stato stesso dell’Arizona, divenuto in questi ultimi anni e mesi uno dei luoghi più inquieti d’America, teatro di un acceso scontro politico, casa di un fortissimo movimento del Tea Party, evoluzione di un ambiente già molto conservatore. Il senatore John McCain, che di questo Stato porta la bandiera, e che nel 2008 divenne il secondo candidato presidenziale espresso dall’Arizona dopo Barry Goldwater, ha sempre appoggiato qui una piattaforma di estrema destra.

E’ stata del resto l’Arizona il primo Stato, nel 2006, a respingere ogni legislazione a favore del matrimonio fra individui dello stesso sesso. E nel 2010 è ancora l’Arizona ad aver conquistato il primato nella legislazione Usa per aver approvato la più dura legge anti-immigrazione. La stessa Giffords colpita ieri aveva vinto la sua campagna elettorale proprio per le sue posizioni estremamente moderate. Nel campo democratico faceva parte del gruppo dei cosiddetti Blue Dogs, aveva di recente criticato il presidente Obama per la sua inefficacia sull’immigrazione clandestina. Con il Presidente si era però schierata sulla riforma dell’assistenza medica.

Proprio questa riforma torna oggi, con il nuovo Congresso appena insediatosi a maggioranza repubblicana, al centro della politica americana. L’attentato di ieri sera può dunque cambiarne il destino. Nel bene e nel male, può incitare a una maggiore cautela o a una maggiore tensione nella valutazione delle cose. Allo stesso modo, può avere un impatto sul corso della presidenza di Obama.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8273&ID_sezione=&sezione=


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Il pugno di ferro di un leader debole
Inserito da: Admin - Gennaio 20, 2011, 06:22:06 pm
20/1/2011

Il pugno di ferro di un leader debole

LUCIA ANNUNZIATA

Ad aspettare l’arrivo alla Casa Bianca ieri del presidente cinese Hu Jintao, tra guardia d’onore e bandiere, c’erano un centinaio di studenti - e tra loro c’era Sasha, la più giovane figlia di Obama, arrivata in delegazione dalla sua (prestigiosa) scuola, la Sidwell Friend, anche lei impegnata, come gli altri studenti presenti, in un corso di studi sulla Cina. Non sappiamo se al momento Hu Jintao sapesse di questa presenza, ma non gli sarà sfuggito dopo: e quale maggiore omaggio poteva essere offerto, anche sul piano personale, dal leader Usa al suo equivalente cinese?

La visita a Washington di Hu Jintao non è finita, ma già dalla conferenza stampa congiunta di ieri sembra essersi svolta sotto migliore stella di quella precedente fatta da Obama a Pechino, nel 2009. Freddezza allora, visi distesi e annunci di cooperazione oggi. Un recupero quasi imprevisto, dovuto a una inusuale evoluzione della Presidenza Usa: sulla Cina infatti il leader Americano, partito dialogante e cautissimo, ha indurito le sue posizioni, e contrariamente a ogni buon senso diplomatico, lo scontro sta portando i suoi dividendi. Che la vicenda cinese diventi una indicazione per tutta la seconda fase della leadership Obama?

Per capire la distanza fra i due appuntamenti occorre riandare con la memoria al primo. Era il Novembre del 2009 e il giovane fenomeno politico americano, aveva fatto il suo ingresso sulla scena nazionale e internazionale come l’uomo del dialogo - con il mondo arabo, con tutte le minoranze del mondo, e con i peggiori nemici. Per ricordare quel clima basti qui citare che nella primavera dello stesso anno Obama aveva fatto il suo famoso viaggio al Cairo dove aveva omaggiato la cultura araba con un discorso all’università. Mani tese dunque anche alla Cina, o forse soprattutto alla Cina. In quel novembre il Presidente arrivò al suo più rilevante appuntamento di politica estera, nel Paese da cui l'America dipende di più economicamente, nel pieno di una crisi finanziaria mondiale, avendo fatto di tutto e di più per ammorbidire i Cinesi. Per dirne una: Obama il dialogante aveva rifiutato di incontrare il Dalai Lama (unico tra tutti i Presidenti Usa dagli Anni Novanta) in visita in America. E, per essere ancora più chiari, il Segretario di Stato Americano Clinton si era spinta a dire, prima della visita a Pechino: «Non dobbiamo permettere che le questioni dei diritti umani interferiscano con la crisi economica internazionale, con la questioni di sicurezza e con il tema del cambiamento climatico». Nulla di tutto questo bastò tuttavia ad ammorbidire i cinesi che trattarono l’americano con condiscendenza, e non esitarono, poche settimane dopo, in quello stesso fine anno, a dargli un doppio schiaffo boicottando il vertice di Copenhagen sul riscaldamento globale.

Da allora tuttavia, molte cose sono successe sia nella politica interna Americana (innanzitutto la crescita della opposizione interna alla amministrazione), che in quella internazionale. Dopo quel doppio schiaffo, Washington ha lentamente ma chiaramente cominciato ad accettare lo scontro con Pechino. Nel gennaio del 2010 diede il primo segnale di indurimento vendendo 6 miliardi di dollari di armi a Taiwan. C’è stato poi lo scontro sulla censura a Google, e lo scontro sulla aggressione militare della Corea del Nord alla Corea del Sud, la cui responsabilità è stata apertamente attribuita dal Dipartimento di Stato della Clinton alla Cina. Infine, e forse questo è stato un punto di non ritorno, è arrivato poco tempo fa il rifiuto di Pechino a far accettare il premio Nobel al dissidente Liu Xiaobo. Quella poltrona vuota alla cerimonia del Nobel è diventata la nuova immagine simbolica della lontananza della Cina dalla democrazia in stile occidentale.

Sullo sfondo di queste tensioni si è acuito anche lo scontro economico fra i due Paesi, con la imposizione di tariffe alle importazioni cinesi da parte degli americani, e il rifiuto di rivalutare lo yuan da parte della Cina. Una guerra guerreggiata che ha portato di recente la Clinton a guidare un gruppo di undici nazioni del Sud-Est asiatico per contrastare l’espansionismo di Pechino; e il Segretario del Tesoro Geithner a dettare le condizioni di reciprocità economiche alla Cina, chiedendo la rivalutazione della sua valuta e maggior accesso alle imprese americane.Infine, se nel 2009 Obama aveva rifiutato di vedere il Dalai Lama, questa volta ha, platealmente, riunito alla casa Bianca, alla vigilia dell’arrivo di Hu Jintao, un gruppo di dissidenti cinesi. Contrariamente a ogni senso della diplomazia, il pugno duro, stando ai risultati di questi incontri recenti, pare abbia funzionato.

Certo, ci sono molte altre componenti in gioco. Per i cinesi, sostengono gli esperti, gioca il fatto che la visita di Hu è l’ultima del suo mandato e che dunque voglia lasciare come sua eredità un successo diplomatico importante. Inoltre, sempre secondo gli esperti di Cina, il fatto che l’Obama che tratta oggi appaia più debole come Presidente di quanto non fosse all’inizio, lo rende meno «pericoloso» agli occhi di Pechino. Ma per quel che riguarda gli Stati Uniti la lezione da trarre da questa vicenda, pare abbastanza chiara: forse Obama ha capito che una fase per lui è finita; e, forse, ha capito anche che, con questa fase, è finita anche quella parte di sé che voleva conquistare il mondo semplicemente amandolo e facendosi amare.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8315&ID_sezione=&sezione=


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Il Cigno nero d'Egitto
Inserito da: Admin - Gennaio 30, 2011, 10:36:02 am
30/1/2011

Il Cigno nero d'Egitto

LUCIA ANNUNZIATA

Il Cigno nero che proprio in questi giorni a Davos è stato appassionatamente cercato dai cervelloni della economia mondiale, si è materializzato - a sorpresa com’è nella sua natura - ed ha allargato le sue ali sul Nilo. Il Cigno nero, nel linguaggio di Davos, è una figura simbolica statistica, «un evento ad alto impatto, bassa probabilità, bassissima prevedibilità». Esattamente quello che possiamo dire di quello che è successo ieri al Cairo.

Il faraone Mubarak dopo trent’anni di immobilità ha imboccato in poche ore il viale del tramonto. Ha nominato un vicepresidente, il primo nella sua lunga storia politica, mentre una piccola flotta di Lear Jet privati, come in tutti i fine regime, si levava in volo dall’aeroporto cairota con a bordo i suoi figli e i ricchi del Paese, in fuga con le loro famiglie, i loro capitali e le loro Vuitton. La fine formale del regno del Faraone non è stata dichiarata ma certo ce ne sono tutte le sembianze: le decisioni di ieri hanno comunque fatto giustizia di ogni ipotesi che Mubarak si ripresenti alle presidenziali, o che suo figlio Gamal imbocchi la strada della dinastia.

Che aspetto e quale durata avrà la transizione appena iniziata è ora la domanda. Ma, più in generale, il vero dubbio riguarda il come e il perché del materializzarsi del Cigno nero, cioè di una rivolta che nessuno aveva previsto e che nessuno sa ora come gestire.

Sulla transizione, ci dice qualcosa l’uomo che è stato scelto a guidarla. Omar Suleiman in quanto capo della intelligence egiziana, gestisce da decenni i dossier più delicati di tutto il Medioriente, a partire da quelli dei rapporti con Israele. E i dossier dell’intero Egitto, su cui governa de facto, da quasi altrettanto tempo, insieme a Mubarak. È un uomo stimato dalla corolla di alleati di cui si circonda l’Egitto, nel Paese gode della reputazione di non essere corrotto, ed è capace di tenere nelle mani l’equilibrio fra esercito e potere. Ma non costituisce, come si vede, alcuna rottura con il passato, nemmeno nella età - ha 74 anni, solo otto meno di Mubarak. Il suo nome era infatti già da tempo in cima alla lista dei successori dell’attuale Presidente.

In altri tempi, in un Egitto steso al sole a servire i suoi turisti, coperto da una sottile verniciatura di pace, Suleiman avrebbe avuto la sua chance. L’intera operazione di successione fatta ieri sembra invece essere il classico «troppo poco, troppo tardi».

La maggiore sorpresa di tutte, il Cigno nero appunto, rimane così il movimento che continua a riempire le strade e le città. A cinque giorni di distanza rimane infatti forte, imprevedibile, ma soprattutto illeggibile. Nella sua identità pubblica non è finora rifluito in nessuno dei tradizionali filoni della politica egiziana. O meglio, ne presenta tutte le tracce, ma non ne è definito: ci sono i fratelli musulmani, i militanti democratici del 6 aprile, i comunisti, i trotzkisti, i socialisti, i sindacati degli insegnanti, degli impiegati, cioè tutte le sigle di un mondo molto politicizzato e di grande tradizione organizzativa qual è l’Egitto; eppure nessuna di queste identità è dominante.

Forte rimane soprattutto la vastità della protesta, la potenza della rabbia, la resistenza a rientrare nei ranghi. In queste ore la città è attraversata da squadre armate, rapine, l’assalto alle case dei ricchi; emerge la tendenza a un caos violento, che non si sa se spontaneo o manovrato, di popolo o di provocatori. Manovrato o meno che sia, queste azioni tolgono però il tappo a una tendenza cui finora in Egitto non era mai stato permesso di emergere: lo scontro armato di strada, la tensione sociale fra gente e istituzioni, ricchi e poveri, con tutte le sue potenziali derive.

In questo senso, questa rivolta egiziana che scuote tutto il mondo arabo del Nord Africa può davvero rivelarsi un fenomeno nuovo. Per capire il quale più che rivolgere gli occhi al passato, a Tienanmen piuttosto che alle rivolte nazionaliste post-coloniali, occorre guardare proprio agli Anni Duemila, ai successi e insuccessi della globalizzazione. In cui la crisi finanziaria del 2007 fa da contrappunto amaro allo splendore della rivoluzione Internet. In cui all’inclusione tecnologica fanno da contrappunto l’esplosione della disoccupazione e la crescita vertiginosa dei prezzi delle materie prime alimentari. Per tornare a Davos, proprio questa miscela veniva indicata come il materiale da cui nascono i Cigni neri.

In fondo, a ben guardare, quello che succede in Tunisia, Egitto e altrove in queste ore ha meno a che fare con l’essere «arabi» e molto più con le proteste che hanno attraversato nei mesi scorsi l’Europa del default del debito pubblico. Audace connessione? Forse. Ma se così fosse, quanto ancora più preoccupante sarebbe quello che sta succedendo.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8352&ID_sezione=&sezione=


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Ogni Paese si ribella per conto suo
Inserito da: Admin - Febbraio 09, 2011, 11:05:41 am
9/2/2011 - LE IDEE

Ogni Paese si ribella per conto suo

LUCIA ANNUNZIATA

«A perfect storm», una tempesta perfetta. Immagine che torna spesso nella parlata americana, mutuata dalle previsioni del tempo per descrivere l’allineamento negativo di ogni condizione meteorologica, divenuta popolare con uno struggente romanzo sulla morte di un gruppo di pescatori (e di un pezzo di cultura americana) della costa del Nord East nel corso della tempesta perfetta del novembre del 1991, ed entrata in questi ultimi anni nel discorso pubblico, per indicare il più grande dei possibili disastri.

Che questa metafora sia stata usata a Monaco un po’ di giorni fa anche dal segretario di Stato Usa per descrivere all’Europa cosa gli americani temano per il Medioriente, è il segno di quanto estremo sia il timore che avviluppa Washington di fronte ai nuovi eventi. Per capire le scelte americane oggi, bisogna dunque forse rileggere quel discorso di Monaco, che pare avere un posto molto unico negli andazzi diplomatici di questi anni: raramente ne abbiamo sentito uno con meno mezze misure, così senza giri di parole, insomma così drammatico. «L’intera regione è sotto i colpi di una perfetta tempesta provocata da poderosi nuovi trends», dice la Clinton, presentando nella lista dei fattori di crisi temi che finora sono stati solo nelle agende delle analisi più radicali: una popolazione giovane, la repressione politica, la disparità economica, e la progressiva riduzione delle riserve di petrolio e acqua. Le conclusioni sono qualcosa a metà fra un monito e un ordine ai governi arabi: «Questo è quello che ha portato i dimostranti nelle strade in tutte le città della regione. Alcuni leader possono credere che il proprio paese sia l’eccezione, che la sua gente non domanderà più opportunità politiche ed economiche, o che si accontenterà di mezze misure. Forse, nel breve tempo, potrebbe anche essere così, ma nel lungo periodo nulla di quello che vediamo oggi può tenere. Lo status quo è semplicemente insostenibile».

Ad aggiungere peso a questa ammonizione, va ricordato che già a gennaio, in un viaggio nel mondo arabo che oggi, con il senno di poi, può essere descritto come una prima missione di avvertimento, la Clinton aveva detto (quasi) le stesse cose. Il timore che alberga a Washington in queste ore non è dunque strettamente provocato dalle rivolte in corso; né sembra mitigato da nessuna delle decisioni che vengono prese ora dopo ora. Di cosa hanno paura esattamente, gli Usa? Solo della combinazione micidiale di terrorismo e petrolio? O c’è di più? Insomma, di cosa altro è fatta questa tempesta perfetta? Bisogna trovare risposta a queste domande per capire Washington, noi e a che punto siamo tutti in questa storia.

Una delle possibili ragioni del panico degli americani, è che probabilmente essi si rendono conto che si trovano di fronte non a uno ma a molti eventi che precipitano tutti insieme. Formalmente simili, ma sostanzialmente molto diversi. Nonostante sia prevalsa soprattutto nei media una narrazione che lega le varie tensioni in una unica rivolta, con le stesse radici e le stesse aspirazioni, (l’89 arabo, la Tienanmen degli shebab, la rivoluzione araba democratica, il neopanarabismo moderno) in verità di comune hanno solo le forme di protesta, e l’attacco ai governi: in ciascun Paese però queste richieste hanno una diversa radice, un diverso significato, e un diverso potenziale sviluppo. Fra i primi due casi, la rivolta tunisina e quella egiziana, le differenze si sono già fatte ovvie in questi giorni. Nella Tunisia francofona e secolare, una eccezione nel mondo arabo, si è ribellato un esercito di giovani con la mente oltre che il cuore più vicino all’Europa che all’Africa, e ha avuto buon gioco contro Zine el Abidine ben Ali, un anziano cleptocrate più che un dittatore.

In Egitto si è messo in moto invece un Paese di 80 milioni di abitanti, attraversato da tutte le ansie e le contraddizioni del mondo arabo fra modernizzazione, religiosità, apertura economica e allargarsi delle distanze sociali. Nella piazza egiziana abbiamo così visto sfilare i volti di un sistema che è molto simile all’Apartheid: da un parte quel po’ di classe media acculturata prodottasi in questi anni di relative riforme economiche (i ragazzi di Internet) e dall’altra i poveri assoluti, che in Egitto, ricordiamolo, vivono con una media di 2 dollari al giorno. Una rivolta che può sintetizzarsi in due bandiere: Pane e Internet. Per la storia e il ruolo del Cairo, queste domande richiedono quasi obbligatoriamente la democratizzazione della politica e della società egiziana. Come è successo in Tunisia. Ma si può dire lo stesso delle altre tensioni che covano nella regione?

Prendiamo allora un altro caso, la Giordania, in cui la scorsa settimana la pressione popolare ha ottenuto dal Re un cambio di gabinetto e un impegno a una nuova fase di riforme. Se non si trattasse di cose serie, ci sarebbe da ridere. La famiglia reale hashemita ha tutto il potere, è vero, ma nella composizione sociale del piccolo regno - privo di petrolio e quasi totalmente dipendente dagli aiuti americani, per il ruolo che ha nelle relazioni con l’Iraq - la Monarchia è sempre stata di idee sociali più avanzate della base del Paese, influenzata dall’estremismo politico palestinese, e, più di recente, da un radicalismo religioso antioccidentale e antiamericano. Un piccolo dettaglio: ad Amman è la regina Rania a usare Twitter come suo preferito strumento di comunicazione, e la base radicale vi vede un altro segno di decadenza reale. Certo c’è disagio economico, certo nelle strade di Amman scendono i giovani - ma le loro domande non c’entrano assolutamente nulla con la democratizzazione.

Il caso Yemen, anche questo inserito nella lista delle rivoluzioni mediorientali in nuce, appare invece decisamente drammatico nel suo travisamento. Anche il piccolo Paese che vanta i natali della regina di Sheba, nonché il maggior livello di povertà del mondo arabo, ha visto migliaia in strada all’inizio di febbraio in protesta contro il governo. E anche lì Obama ha chiesto di intraprendere la strada delle riforme. E come dare torto a tutti loro: il vecchio presidente Ali Abdullah Saleh governa da 32 anni, facendo il bello e il cattivo tempo, e tenendo però fermamente ancorato al suo fianco l’alleato americano che nei passati cinque anni ha donato al Paese 250 milioni di dollari in aiuti militari. Yemen è infatti per gli Usa un punto delicatissimo, essendo diventato il nuovo snodo operativo di Al Qaeda: nel 2008 proprio al Qaeda rivendicò un letale attacco all’ambasciata americana nella capitale yemenita. Lo Yemen è oggi il maggior mercato d’armi della regione. Si calcola che su 20 milioni di abitanti si contino almeno 20 milioni di armi - cioè una a testa inclusi i bambini.

Dobbiamo davvero credere che chi sfila nella strade di Sana'a somigli ai giovani cairoti o tunisini? Si muove persino il Kuwait in questo pasticcio di rivolte. Il sistema kuwaitiano che spicca per essere l’unico a base parlamentare, segna una spiccata tendenza alla involuzione della libertà di opinione, secondo le forze dell’opposizione. Di qui le proteste dei giorni scorsi, che hanno ottenuto le dimissioni del ministro degli Interni. Difficile dimenticare in tutto questo empito democratico che il Kuwait è il Paese arabo con il più alto numero di servitù (rigidamente non kuwaitiana) pro capite.

Giovani, disoccupazione, regimi autoritari, desiderio di crescita: ha ragione la Clinton, questi sono gli elementi che hanno messo in moto un po’ dappertutto il Medioriente una profonda scossa. Ma siamo pronti a prendere tutto quello che si muove nella strada araba come movimenti di rinnovamento? Al contrario: è quasi sicuro che per una parte di queste società che si muove spontaneamente per la democrazia ce n’è un’altra altrettanto, se non più grande, che si muove organizzata, attenta, e con una propria agenda. Le tempeste perfette sono fatte così: tutto si mette in moto, e nulla è più controllabile.

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Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - E' Internet l'alleato di Hillary
Inserito da: Admin - Febbraio 16, 2011, 11:56:54 am
16/2/2011 - LE IDEE

E' Internet l'alleato di Hillary

LUCIA ANNUNZIATA


Il Dipartimento di Stato aggiunge una nuova arma a quelle tradizionali della diplomazia: Internet. Un’operazione che ricorda, con tutte le differenze, quella di Voice of America durante la Guerra Fredda, in versione internauti.

Non si è espressa proprio con questa chiarezza, ieri, Hillary Clinton alla George Washington University, ma è un’efficace sintesi del discorso che ha pronunciato, e la cui importanza è stata sottolineata da un intenso giro di anticipazione alla stampa. E’ il secondo intervento del Segretario di Stato su Internet, ma in questo ultimo, a differenza del primo nel gennaio del 2010, l’elogio del web come strumento di libertà di opinione ha assunto il profilo di intervento molto concreto della rete nella politica mondiale. Washington intende appoggiare «la libertà di connessione», «la libertà di espressione, assemblea e associazione on line», ha detto la Clinton, promuovendo «una rete su cui i diritti della gente sono protetti, accessibile da qualunque parte del mondo, così sicura da poter rispondere alla fiducia della gente e da poterne sostenere il lavoro».

E’, appunto, il progetto di creare un nuovo strumento di lavoro, non solo di «sorvegliare» sulla Rete che già esiste. Che è anche la formalizzazione di un passaggio che il Dipartimento di Stato ha già fatto proprio nelle settimane scorse. Nei giorni più difficili della rivolta egiziana il Dipartimento di Stato si è inserito nella rivolta inviando informazioni sull’andamento delle cose tramite messaggi in arabo su Twitter, e, in questi giorni, in persiano per aiutare l’Onda Verde in Iran. Quando la rete è stata staccata dal governo egiziano, Twitter e Google, attentamente seguiti dal Dipartimento di Stato, hanno aiutato i rivoltosi formando al momento un nuovo servizio, speak2tweet, che permetteva di lasciare messaggi voce che poi venivano tradotti in forma scritta e inviati su Twitter. Innovazione anche quella sperimentata, sempre per l’Egitto, da YouTube che insieme a Storyful, ha lavorato per pubblicare tutti i video inviati dalla piazza.

La nuova attenzione della diplomazia americana è insomma il primo passo in un universo in cui gli americani in questo ultimo anno di passi ne hanno dovuti fare almeno i classici quattro nel delirio. Che Internet sia diventata il centro della mobilitazione, sostituendo i partiti e le organizzazioni tradizionali, non è una novità. Nuovo è stato per la politica internazionale il fatto che in alcuni Paesi ad alto rischio, Internet sia diventato anche l’unico esile filo fra l’interno e il resto del mondo, e dunque anche l’unico possibile veicolo di influenza.

La Cina è stato il primo terreno di scontro fra gli Usa e un governo nazionale intorno al web. E, oggi, e ben prima dell’Egitto, è l’Iran il luogo in cui questa tensione raggiunge il punto più intenso. Non a caso il discorso di ieri di Hillary è coinciso con la ripresa della protesta nella piazza di Teheran. La vicenda iraniana è molto più sfumata e delicata di quella del Cairo: nel Paese degli ayatollah qualunque percezione di influenza americana (o di altri Paesi) può costituire un danno fatale per il movimento delle riforme. Per cui l’unico modo di continuare ad appoggiare il cambio è quello, da parte degli Usa, di fornire un appoggio esterno, garantendo circolazione di informazioni e sostegno, in modo indiretto. La rete è in questo senso davvero l’unica strada.

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Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Lo stupro di Lara il rovescio di piazza Tahrir
Inserito da: Admin - Febbraio 17, 2011, 05:09:42 pm
17/2/2011

Lo stupro di Lara il rovescio di piazza Tahrir

LUCIA ANNUNZIATA

Illuso, romantico, ottuso Occidente. Mentre tutti eravamo lì a guardare in mondovisione la festa della liberazione dell’Egitto dal despota Mubarak, mentre assistevamo alla nascita di un nuovo mondo arabo, le immagini di felicità occultavano per noi il lato oscuro anche di questa storia. Un branco di lupi, una banda di uomini egiziani, un paio di centinaia diranno dopo i testimoni, stava sbranando una donna bianca. Bionda, giovane, sudafricana di nascita ma americana per scelta, giornalista della Cbs News e inviata di 60 minutes, un simbolo dunque di quanto più bianco, ricco, dominante, occidentale si possa chiedere. Lara Logan, 39 anni, famosa per i suoi spericolati servizi di guerra, e per la sua bellezza, è stata assalita, separata dal suo gruppo di compagni di lavoro, in piazza Tahrir, e sottoposta a «un brutale e sostenuto attacco sessuale», durato mezz’ora, secondo il comunicato ufficiale della sua rete tv. Stuprata, insomma, anche se di stupro si è scelto di non parlare ufficialmente. E certo non per mano della polizia segreta di Mubarak, che quella sera aveva già gettato la spugna.

Difficile non vedere in questa storia - che peraltro negli Stati Uniti sta suscitando molti commenti - una parabola su molte cose: sul giornalismo, sulla politica estera, ma, soprattutto, sulle nostre illusioni. Tipico di come le nostre società funzionano: parte la grande macchina dei media, si forma una catena totale e globale, che crea un circuito virtuoso perfetto, in cui ogni immagine e idea rimbalza su se stessa, confermandosi a vicenda, e presto siamo tutti lì ad accettare questa rappresentazione come realtà, dimenticando ogni dubbio, ogni dato, conoscenza e studio acquisiti in precedenza. Non ci voleva molto a ricordarsi che l’Egitto è un Paese denso di tensioni e di rabbia, un Paese in cui fra la povertà e la repressione ribolle di continuo una tentazione alla violenza in cui soprattutto le donne sono trattate privatamente e pubblicamente con disprezzo.

Secondo il Centro dei diritti delle donne il 60 per cento delle donne egiziane viene molestato ogni giorno, e il 98 per cento delle donne straniere in Egitto viene molestato per strada. In passato abbiamo visto l’assalto alle donne in luoghi pubblici praticato regolarmente come punizione «etica» per quelle che vestono immodestamente, ma anche come ritorsione politica contro donne che partecipavano a manifestazioni. L’estremismo religioso c’entra solo fino a un certo punto. E’ un fenomeno che svela, come si diceva, la struttura di un intero assetto sociale e le dinamiche intorno a cui si coagula.

Lo stupro di Lara Logan avvenuto in quel modo e in quel momento è dunque ancora una volta la riprova che è sul corpo delle donne che le verità vengono misurate. E la verità è che, mentre la politica internazionale si domanda cosa faranno i Fratelli Musulmani, farebbe forse meglio a continuare a domandarsi come e di chi sia fatta questa società che in questo momento in Egitto, e in altre nazioni mediorientali, sta cominciando a muoversi.

C’è un eterno fanciullino nei nostri cuori di occidentali, sempre bisognosi di pensare che il mondo è molto meglio di quello che vediamo. Abboccando a ogni momento di felicità, a ogni bandiera che sventola, a ogni lacrima che si versa. Ma se la rivolta araba in corso in tanti Paesi è destinata a durare, sarà bene osservarla con occhi molto aperti.

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Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Una rivolta contro le certezze
Inserito da: Admin - Febbraio 25, 2011, 06:25:15 pm
25/2/2011

Una rivolta contro le certezze

LUCIA ANNUNZIATA

Attenti ai luoghi comuni. L’interpretazione delle rivolte arabe (certo, la memoria del nostro iniziale entusiasmo per la rivoluzione iraniana del 1979 brucia ancora) si sta rapidamente ritirando nei consueti paradigmi. Se ne immagina, come risultato, il rafforzamento della componente islamica radicale, una crescita di egemonia dell’Iran rispetto all’Arabia Saudita e il mondo pro-occidentale, un Israele accerchiato.

E, per finire, un’Europa minacciata da una migrazione biblica. Può essere che vada così. Ma ci sono anche molte domande, la cui risposta indica diversi scenari. Provo a formularne tre.

La prima è proprio sull’Iran. Nei giorni scorsi un segnale del nuovo potere di Teheran ci è stato offerto dall’arrivo nel Mediterraneo, passando per il Canale di Suez, di due sue navi da guerra. La prima fase di questa partita, si dice, ha avvantaggiato l’Iran. Affermazione vera - ma fino a un certo punto. Va intanto notato che più che espressione di forza, la influenza attuale di Teheran è una delle maggiori conseguenze della guerra in Iraq. La cui lunghezza e incertezza d’esito (qualunque cosa ne dicano i nostalgici di Bush, non esiste ancora un governo vero a Baghdad) ha finito con il ridare spazio e ruolo agli sciiti della regione, e ha portato o rinsaldato sotto l’ala religiosa estremista, sull’onda dei sentimenti antiamericani, vari movimenti nazionali. Hamas come Hezbollah si sono rilegittimati in quella guerra, e a quel periodo risale la tensione di oggi in Giordania. Ed è indubbio che le rivolte odierne in regione hanno una forte componente sciita contro governi minoritari sunniti. Il Bahrein è un perfetto esempio, con il suo mezzo milione di cittadini di cui il 70 per cento sciiti, governato da un paio di secoli da una famiglia sunnita.

Ma l’Iran - ed è questa la domanda - è davvero in grado oggi di esercitare questa maggior influenza? In effetti la rivolta araba, con un classico colpo di coda, mentre rafforza Teheran all’estero, ne aumenta la destabilizzazione interna. Il movimento dell’Onda verde iraniana si rivela infatti anticipatore e fratello di quello che scuote la piazza araba, per composizione politica e sociale, come vedremo più avanti. L’Iran appare dunque in una sorta di tenaglia - e la sua partita molto più aperta di quel che si sostiene.

Può essere destabilizzata anche l’Arabia Saudita? È la seconda domanda, e forse la più importante posta dalla rivolta. Il Regno, come semplicemente viene chiamato, è il più temibile soggetto di sconosciuta potenza che abbiamo di fronte. Nel triangolo che, da dopo la Seconda Guerra, lega allo stesso destino e con vicende alterne le tre casseforti del petrolio mondiale (il Regno Saudita, l’Iran e l’Iraq) e che è all’origine di tre dei maggiori conflitti degli ultimi 40 anni, l’Arabia Saudita è la nazione che in apparenza ha meglio saputo tenere la sua stabilità.

Anche in questo momento sembra essere fuori dal caos. Ma la verità sul vecchio Regno è che, da sempre, il suo silenzio è solo la copertura di enormi lotte di potere. L’Arabia Saudita è stata incubatrice di uno dei grandi filoni di radicalismo islamico, quello salafita, ha dato non a caso i natali a Osama bin Laden, ed è oggi profondamente esposta a una guerra di successione che accompagna il declino del vecchio re. Il ciclone delle rivolte sta facendo saltare Bahrein, Giordania, Yemen, Egitto - la cintura di sicurezza che aveva intorno. La decisione recente del sovrano di prevenire ogni tensione aumentando gli stipendi ai sudditi è una ammissione di debolezza quale non se ne vedevano da tempo.

Nel caso che alla domanda di sopra si rispondesse dunque con un sì - può essere destabilizzata anche l’Arabia Saudita -, dovremmo immaginare un alterarsi drastico del già caotico panorama attuale. Si presenterebbero infatti in quel caso condizioni per una nuova guerra con un coinvolgimento degli occidentali.

Infine, terza domanda: il movimento che anima le piazze può davvero tutto rifluire nei tradizionali canali dello scontro religiosi-\laici, o estremisti-\moderati? Secondo i dati riportati da Alasdair McWilliam sul Guardian del 22 febbraio, i Paesi che hanno guidato la protesta sono anche in cima allo Human Development Index, un indicatore che misura la crescita di educazione, salute e condizioni economiche. Non è certo un caso.

Nel 2010 al primo posto dell’Index troviamo Tunisia, Egitto Algeria, Marocco. Alcuni esempi: la frequenza alle scuole superiori in Egitto è passata dal 14% al 28% dal 1990, e in Tunisia dall’8 al 34%. Ma l’assorbimento di queste nuove leve con migliore educazione è quasi inesistente - in Egitto i diplomati sono il 42 per cento della forza lavoro ma l’80 per cento dei disoccupati. In Medioriente e Nord Africa la disoccupazione è del 25 per cento, cioè la più alta del mondo, anche a causa di un’assenza quasi totale di un settore privato. E qui ben si capisce la rabbia contro governi corrotti, paternalisti e piramidali. Secondo la International Labour Organization, il mondo arabo ha bisogno di generare più di 50 milioni di posti di lavoro nei prossimi dieci anni per assorbire questa offerta.

La combinazione di tutte queste attese (stimolate dalla globalizzazione della comunicazione) si incanalerà di nuovo davvero nel movimento religioso, bigotto e radicale com’è stato finora? O non sarà, come in Iran dopo tutto, anche lo stesso movimento islamista radicale a rimanere scottato dalle più recenti fiamme?

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Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Il raiss paghi gli aiuti
Inserito da: Admin - Marzo 04, 2011, 06:42:55 pm
4/3/2011

Il raiss paghi gli aiuti

LUCIA ANNUNZIATA

Il governo italiano ha finalmente fatto un passo giusto nella crisi libica: l’invio di una missione umanitaria destinata a intervenire sulla vera emergenza profughi in corso, quella di migliaia di lavoratori stranieri poveri fuggiti dalla Libia verso la Tunisia e l’Egitto. La crisi è stata denunciata nei giorni scorsi in maniera pressante dalla Commissione rifugiati dell’Onu e da varie ong.

Va dunque lodata questa decisione romana come un gesto di sensibilità non puramente nazionalistica. Ma è giusto che questo intervento sia pagato dal contribuente italiano? E se invece lo facessimo pagare a Gheddafi e alla sua famiglia, attraverso i soldi che hanno investito nei nostri Paesi? Ad esempio chiedendo agli istituti che hanno beneficiato della presenza dei libici di fare un passo avanti – magari con una autotassa di scopo (linguaggio molto alla moda in questo momento) o anche solo con delle megadonazioni?

Lo so, dico una bestialità - mica il mercato funziona così, mica gli investimenti si possono muovere o valutare come i semplici stipendi familiari. È un problema di sistema e di non destabilizzarne gli equilibri complessivi.

Eppure, varrebbe la pena almeno, anche sostenendo bestialità, di porsi in momenti come questi domande diverse. Se è vero che quello che sta succedendo in Nord Africa e in Medio Oriente sta cambiando tutto, e richiede un «New Thinking», un nuovo modo di pensare, perché «nulla sarà come prima», come avvenne nell’89, allora forse potremmo anche ripartire con il rimettere in discussione le solite risposte economiche. La radiografia della Libia ci presenta un tale squilibrio che anche solo un gesto simbolico di restituzione in questo momento avrebbe un forte impatto.

Il petrolio rappresenta l’80% degli introiti governativi libici. Il forziere dell’oro nero vale 50 miliardi di dollari l’anno. Gli abitanti del Paese sono all’incirca (le cifre sono incerte) sei milioni, di cui il 30% è composto da giovani. L’età media della popolazione è di 24 anni e l’80% di questi giovani abita nelle città, che soprattutto nell’Est del Paese sono state gli epicentri della rivolta. Ci sono poi due milioni e mezzo di immigrati che vivono in Libia, per quasi la metà clandestini. Gli egiziani sono stimati fra i 500 ed i 700 mila. Il rapporto fra il valore del forziere, quei 50 miliardi annui, e il numero relativamente basso di popolazione (in Egitto ad esempio ci sono 80 milioni di abitanti) dovrebbe aver assicurato alla Libia negli anni scorsi un fantastico livello di vita – il Paese avrebbe dovuto avere un Welfare non lontano da quello che in alcuni dei Paesi del Golfo porta lo Stato a regalare alle giovani coppie la casa; i 1500 chilometri della costa dove la costruzione dell’autostrada ce la siamo dovuta accollare noi italiani, avrebbero dovuto essere un paradiso di sviluppo. Invece, se si ritorna ai magri dati statistici, il secondo Paese esportatore di petrolio dell’Africa garantisce un reddito medio pro capite di 13.800 dollari: non poco, ma certo non adeguato alle risorse in campo.

La gran parte della ricchezza libica è andata in questi anni a produrre altra ricchezza per pochi, e per la Famiglia.

Il Libyan Investment Authority (Lia), che è considerato il principale veicolo di investimenti di Gheddafi, vale 70 miliardi di dollari. Questi investimenti, come ben sappiamo, sono un po’ dappertutto, in Europa, in Usa, in Italia ma anche in Zimbabwe, Ciad, Sudan, Sierra Leone, Liberia. Alcuni si conoscono, come i maggiori fatti in Italia, altri invece non sono immediatamente tracciabili: il Tesoro inglese pochi giorni fa ha creato una task force per scoprire dove sono i soldi libici. Sappiamo che gli Stati Uniti hanno congelato investimenti del raiss e della sua famiglia per un valore di 30 miliardi di dollari; il Canada, l’Austria e il Regno Unito hanno proceduto poi al congelamento di asset del valore rispettivamente di 2,4 miliardi, 1,7 miliardi e 1 miliardo di dollari. Nelle banche e nelle società di private equity americane i libici sono molto presenti - Goldman Sachs, Citigroup, JP Morgan Chase e Carlyle Group - e in Italia il loro maggiore investimento è il 7,5 per cento in Unicredit.

Certo, questi fondi sono ora in maggioranza congelati. Ma è davvero questa la migliore misura da prendere? Perché, insomma, non trovare un qualche modo per far pagare oggi, da subito, a questi fondi l’emergenza umanitaria che la crisi libica ha scatenato e scatenerà? Come detto, sappiamo che ci daranno dell’ignorante per aver anche solo osato sollevare queste curiosità. Ma alla fine, a forza di respingere tutte queste osservazioni di buon senso come idiozie, finirà come è già successo in America nella crisi finanziaria del 2007, che le istituzioni di mercato vengono difese sempre (anche quando hanno colpe) e i cittadini continuano a pagare ogni tipo di salvataggio.

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Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Ma per ora vince il raiss
Inserito da: Admin - Marzo 08, 2011, 06:35:38 pm
8/3/2011

Ma per ora vince il raiss

LUCIA ANNUNZIATA

La Nato e gli Usa stanno considerando ogni opzione nei confronti della Libia, inclusa quella militare. O almeno, questo è quanto si dice ufficialmente.

In realtà l’inatteso ribaltarsi di quella che fino a pochi giorni fa si considerava una veloce rivoluzione in guerra civile scopre il bluff delle prime ore, e lascia dietro di sé la imbarazzante presa d’atto di una sostanziale impreparazione dei nostri governi. Mentre l’orologio scandisce il conto alla rovescia verso la riunione che giovedì 10 vedrà riuniti a Bruxelles i ministri degli Esteri della Nato, e mentre tutti ripetono di essere pronti, sul tavolo c’è una sola domanda: pronti a fare esattamente cosa? La resistenza del Colonnello coglie la comunità internazionale di sorpresa, e senza vere opzioni da spendere.

L’unica scelta finora adombrata, quella dell’intervento militare, si sta rarefacendo proprio nelle ore in cui più la si sta agitando. La giornata di ieri a Washington è stata in questo senso illuminante. Dal Senato la vecchia guardia si è fatta sentire per chiedere al presidente Obama prese di posizione più aggressive nei confronti del Colonnello. Due di queste voci le conosciamo bene. Una è quella del senatore McCain, repubblicano, che ha chiesto di fermare gli aerei libici che bombardano i ribelli. L’altra è quella del senatore democratico John Kerry, che della commissione è anche il presidente, che ha chiesto di bombardare le piste degli aeroporti per impedire agli aerei del Colonnello di decollare.

La Casa Bianca, per bocca del capo dello staff William Daley, ha però fatto subito piazza pulita di queste intemperanze, facendo presente la difficoltà a mettere in atto una no fly zone su una nazione vasta come la Libia, armata di moderne difese antiaeree di fabbricazione russa. «Tanti parlano di no fly zone - ha detto Daley con un certo sprezzo - come se si trattasse di un videogame», frase che in giornata ha ripreso, e non a caso, il nostro ministro degli Esteri Franco Frattini. Ugualmente sprezzante nei confronti di ogni ipotesi militare è stato l’uomo che, eventualmente, avrebbe nelle sue mani proprio la gestione di un intervento di tal genere, il segretario alla Difesa Robert Gates, definendole «chiacchiere». Un Paese vasto come l’Alaska, ha detto Gates, trovando la perfetta immagine per chiarire le dimensioni di una impresa armata, non può che iniziare con attacchi aerei e finire con una operazione di vaste proporzioni. Il termine va tradotto con «invasione di terra».

In ogni caso, e qualunque fossero i piani di guerra, non ci sarebbe mai un appoggio internazionale sufficiente a far approvare all’Onu un mandato. Mancano all’appello i membri chiave del Consiglio, come la Russia (ieri lo ha detto il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov) e la Cina, e mancano potenze regionali come il Brasile. Così come in Medioriente mancherebbe l’appoggio della Lega Araba che già si è schierata contro ogni intervento occidentale.

L’Italia, già riluttante nemica di Gheddafi, ha ancora meno dubbi sul che fare: «Mi pare di sentir parlare di interventi militari e credo che sarebbe un errore molto grave», ha detto il ministro dell’Interno Roberto Maroni. Quello che rimane sul tavolo, dunque, sono le solite strade - un piano Marshall, che è la parola magica che si evoca quando non si sa cosa dire, oppure la via diplomatica dei contatti con l’opposizione, o ancora un massiccio invio di mezzi per aiutare la popolazione delle zone liberate o i profughi. Misure necessarie, ma tutte di contorno rispetto al problema che si è creato ormai in Libia: cioè che il colonnello Gheddafi non appare vicino, e forse nemmeno lontano, a cadere.

Giorno dopo giorno, i combattimenti stanno svelando la assoluta improvvisazione con cui i ribelli hanno avviato la loro rivolta. Ma se la buona fede con cui si sono avviati in una vicenda che oggi appare forse più grande delle loro forze è spiegabile con il contesto generale con cui si sono mossi, la sorpresa della resistenza messa in atto dal Colonnello parla anche della esilità delle nostre conoscenze dei rapporti di forza, della situazione sul terreno, e della struttura di potere nella Libia di Gheddafi.

Da quel che si riesce a capire da comunicati, da mezze frasi e da informazioni più o meno riservate, in queste ore gli Usa - e dobbiamo supporre anche noi europei - si stanno concentrando soprattutto nel recuperare tale ritardo. Il Washington Post cita fonti anonime della amministrazione che sostengono che Washington ha inviato osservatori alle frontiere libiche per fare un calcolo esatto dell’emergenza, e che la intelligence Usa - «ridiretta» ora sulla Libia - stia cercando di capire da chi è fatta e come è composta la opposizione. Un ritardo che da solo prova che, in fondo, non ci si aspettava che Gheddafi arrivasse fino a qui. Cioè fino al punto da obbligare a una rimessa a punto di strategia da parte degli occidentali. Forse questa messa a punto non è un ripensamento. Forse è solo la riflessione d’obbligo quando si arriva a un rialzo sulla strada e in cima si guarda al percorso fatto e a quello da fare. Ma, in ogni caso, qualunque ne sia la ragione, la perplessità sul cosa fare da parte di tutti i nostri governi è di sicuro già una parziale vittoria del Colonnello.

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Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Ma a volte ne basta una sola
Inserito da: Admin - Marzo 10, 2011, 06:25:34 pm
10/3/2011

Ma a volte ne basta una sola

LUCIA ANNUNZIATA

Sono umilianti ma funzionano.
Ridotto alla classica dimensione del guscio di noce, questo è il più realistico giudizio che si può dare delle quote rosa.

È dunque con lieta mestizia che accogliamo la decisione finalmente presa dal governo di approvare un disegno di legge che porterà più donne nei cda delle aziende a partire dal 2015, con una misura che in realtà avrebbe già dovuto essere da anni parte della nostra storia sociale.

La parità per imposizione, l’uguaglianza ottenuta dall’alto, non è certo un orizzonte entusiasmante per la metà del cielo dei cittadini. Fra le donne che hanno sempre dato battaglia, ma anche fra quelle che semplicemente si sono limitate a difendere il loro percorso nel mondo del lavoro, le quote sono ragione di disagio spesso, di controversia sempre. Paradossalmente, vi sono dentro principi offensivi proprio della parità: la definizione di uno status speciale lavorativo è infatti molto simile alla formalizzazione del ghetto; e la abolizione del merito a favore del «genere» è una indubbia offesa della pari dignità intellettuale. Soprattutto nel mondo in cui abbiamo vissuto, attraversato da decenni di grande orgoglio delle donne (dentro e fuori e spesso anche contro il femminismo), le quote sono insomma sempre sembrate concessive e paternaliste. Laddove le donne hanno voluto e vogliono contare per le loro storie, i loro risultati, il loro impegno.

Nella vita reale tuttavia si tratta sempre di materialità pesante, discriminazioni impalpabili, percorsi interrotti da detti e non detti, per cui quando ci si trova davanti ai dati è difficile non sostenere che sono disastrosi e che qualcosa va pur fatto.

La Commissione Europea ha di recente reso pubblici i risultati del «Report on progress on equality between women and man», e l’Italia vi spicca per avere i più bassi livelli di occupazione femminile, insieme alla Grecia, e per aver raddoppiato la quota di disoccupazione, passando in cinque anni dal 4 all’8 per cento. In questo quadro, l’esiguo 5 per cento di donne che in Italia siedono nei cda è, si potrebbe dire, quasi un miracolo. In Svezia e Finlandia ce n’è il 25%, il 15% in Usa, mentre la media europea è del 12%. Dunque, perché no? Fare qualcosa va bene - che si festeggino anche le quote.

La funzione di stimolo al sistema ottenuto negli anni dalle nuove misure appare - per quel che si riesce a capire, vista la impalpabilità della materia - efficace. Secondo i dati di uno studio Cerved riportato dal Corriere Economia del 7 marzo nel triennio 2007-2009 le imprese con un cda «rosa» hanno avuto migliore redditività e una minore probabilità di insolvenza rispetto a quelli con una più ridotta partecipazione femminile. Uguale la conclusione dello studio di Renée Adams e Daniel Ferreira «Women in the boardroom and their impact on governance and performance», Journal of Financial Economics 2009, citato due giorni fa su La Voce.info nell’articolo «Se le quote rosa diventano mimose», di Fausto Panunzi.

Uno stimolo che, per quel che riguarda le donne, rimane tuttavia di natura numerica e non qualitativa.

La settimana scorsa ha dato voce a questa insoddisfazione una delle più brillanti firme del giornalismo inglese, Lucy Kellaway, editorialista nonché membro dell’executive board del Financial Times, che si è chiesta, sul suo stesso giornale, a cosa mai serva che un terzo dei posti nei consigli di amministrazione delle società quotate in Borsa sia riservato per legge alle donne, se poi queste vengono messe all’angolo dai colleghi e le loro decisioni prevaricate dalla maggioranza maschile. Anche lo studio già citato di Renée Adams e Daniel Ferreira tira conclusioni finali in chiaroscuro sull’impatto della presenza delle donne nei cda. Se è vero infatti, scrive Panunzi, che le donne si comportano in modo diverso dagli uomini nei cda, ad esempio hanno un maggior tasso di presenza alle riunioni e partecipano a un maggior numero di comitati, «Tuttavia, una volta che si sia controllato per la possibilità di causalità inversa e di possibili variabili omesse, Adams e Ferreira trovano che le imprese con un rapporto più paritario tra uomini e donne nei cda hanno una performance peggiore. Gli autori scrivono esplicitamente che i loro risultati suggeriscono che l’imposizione di quote obbligatorie per i consigli di amministrazione possa, in alcuni casi, ridurre il valore delle imprese».

Infine le quote aprono la strada anche a impliciti effetti collaterali. Lo fa notare l’economista Luigi Zingales, che ricorda che con la imposizione delle quote c’è il rischio di cooptare donne non «preparate», cioè donne che non arrivano al vertice dopo un percorso che le porti in quel luogo, ma in qualche modo scelte per rispondere a un obbligo legale. Dobbiamo temere dei cda pieni di professoresse, avvocati, suore, giornaliste e ereditiere?

La questione della qualità, dunque , ritorna centrale alla fine di ogni valutazione. Il dubbio che solo una selezione, per quanto dura e ingiusta, porti poi a dare un reale impatto alla scelta delle donne, rimane il dubbio di fondo. Anche perché, come abbiamo spesso visto nella storia, di donne al vertice a volte ne basta una per fare la differenza. Il loro materializzarsi basta da solo a togliere le ragnatele a vecchie istituzioni e a imporre nuovi modi, nuove regole o anche solo nuovi percorsi all’interno del potere.

Angela Merkel o Susanna Camusso insegnano.

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Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Per l'energia è un momento di svolta
Inserito da: Admin - Marzo 16, 2011, 12:18:42 pm
16/3/2011

Per l'energia è un momento di svolta

LUCIA ANNUNZIATA

Non solo nucleare. E’ probabile che nel prossimo futuro ci volteremo indietro e guarderemo a questi mesi come alla fine complessiva di una intera epoca energetica. Almeno dal punto di vista dell’opinione pubblica.

Va considerato infatti che di disastri ne abbiamo sofferti ben due in questo ultimo anno, e che entrambi hanno seppellito, sotto le loro scorie, la affidabilità delle due più rilevanti energie del nostro sviluppo finora - il nucleare e il petrolio. La esplosione della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon che portò al versamento di 4,9 milioni di barili di petrolio nel Golfo del Messico risale a solo undici mesi fa, il 20 aprile del 2010. Comparata alle radiazioni nucleari di oggi la lunga agonia di quel fluire in mare di materia viscosa appare infinitamente meno dannosa, più contenibile, ma la sua memoria e, soprattutto, i suoi effetti sull’ambiente non sono ancora spariti. Se la opzione nucleare appare oggi terrorizzante, l’esplosione della piattaforma della Bp ha segnato nella opinione pubblica un punto di non ritorno anche nella disponibilità ambientale a favore del petrolio. Il perfetto incatenarsi dei due incidenti si fa anche più chiaro se si ricorda che proprio il disastro del Golfo del Messico aveva ridato fiato e credibilità alla opzione nucleare. Il doppio incidente ha già ridotto dunque di molto lo spazio in cui decidere le future politiche energetiche.

Un esempio perfetto dello sbandamento che questi avvenimenti hanno già imposto alle scelte dei governanti ci viene proprio dagli Stati Uniti, che sono, dopo il Giappone, il Paese maggiormente toccato, sia pur in forme diverse, dai disastri di cui parliamo. Ed è una storia che vale forse riprendere dall’inizio perché spesso, almeno finora, si è persa di vista.

Nella agenda di Obama, l’energia è sempre stata seconda solo alla riforma della assistenza medica. Fin dalla campagna elettorale ha promesso agli Usa sicurezza energetica, cioè il progressivo affrancarsi dalla sua massiccia dipendenza petrolifera - obiettivo ambiziosissimo e rivoluzionario per una nazione che negli ultimi 50 anni è stata quasi permanentemente in guerra per assicurarsi certezza di rifornimento.
Il progetto obamiano si presenta come molto originale. Contrariamente al suo profilo da sognatore, Obama sul tema energetico non è un ambientalista «puro»: vuole lo sviluppo di energie rinnovabili, ma propone anche un forte «revisionismo» sull’uso di petrolio e nucleare.
I suoi primi passi da Presidente sono sorprendenti - riapre la concessione di permessi di estrazione in mare lungo le coste americane, incluse aree considerate intoccabili, chiedendo al Paese di avere fiducia nella tecnologia e chiudere la pagina del grande disastro della Exxon in Alaska. La sfortuna sembra però piagare questo piano. L’annuncio è del 31 marzo, il 20 aprile c’è il Golfo del Messico e i permessi sono sospesi.

Come si ricorderà, Obama sbandò di fronte a quell’incidente, al punto da apparire, e probabilmente essere, in un primo tempo passivo.
Nel Golfo del Messico va in fumo infatti un pezzo importante della sua proposta. A fine anno però l’Amministrazione ci riprova.
A gennaio 2011 presenta il piano per il rilancio del nucleare. Gli Stati Uniti producono il 20 per cento della loro elettricità con 104 centrali. Dopo l’incidente di Three Mile Island del 1979, non ne sono più state costruite. Obama ne propone 20 nuove, con un investimento di 36 miliardi di dollari, sostenendo che proprio il disastro del Messico prova che è questa la energia più pulita e più rispettosa dell’ambiente. Nel nuovo clima il piano riscuote un ampio consenso di democratici, repubblicani, e di molti gruppi ambientalisti.
Anche il New York Times, come ricordava proprio ieri il giornale, dopo tanti anni si schiera con il nucleare. Ed ecco arrivare il Giappone. Obama appare piagato dalla sfortuna. In realtà i suoi alti e bassi sono la perfetta rappresentazione di quanto stretti si siano fatti i margini di manovra per ogni decisione energetica.

Lo spazio appare ancora più ristretto se vi si include l’intreccio di tutte le scelte che ogni governo dovrà fare, ciascuno con le proprie priorità. Ad esempio, Cina e India, le due nazioni che al momento consumano più energia al mondo, e che sono avviate con convinzione e rapidità sulla strada del nucleare. La Cina ha 11 reattori e ne progetta dieci all’anno per i prossimi dieci anni per rispondere al suo consumo elettrico che cresce del 12 per cento l’anno. L’India ha 20 reattori nucleari e progetta di spendere 150 miliardi di dollari per dotarsi di altri dodici. Ma il nucleare gioca un ruolo persino in Medioriente, una regione che proprio perché affogata nel petrolio ben conosce la volatilità di questa materia prima. C’e l’Iran, di cui tutti sappiamo; e ci sono gli Emirati Arabi, che lavorano a 4 centrali.
La Giordania, il Kuwait, il Qatar, il Bahrein, hanno allo studio progetti, e la stessa Arabia Saudita vuole una città completamente alimentata dal nucleare. In sintesi, secondo la World Nuclear Association nel mondo si contano 443 reattori nucleari, e dovrebbero raddoppiare in 15 anni. Non sfugge dunque a nessuno che, qualunque sia il futuro italiano, si dovrà tenere conto di un processo di evoluzione che è molto più grande di noi.

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Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - La campagna d'Africa di Barack Obama
Inserito da: Admin - Marzo 21, 2011, 05:39:59 pm
21/3/2011

La campagna d'Africa di Barack Obama

LUCIA ANNUNZIATA

Non bisogna farsi ingannare dalle immagini che dallo schermo ci raccontano in questo momento l’intervento in Libia. A differenza di quel che appare, questa è una guerra tutta americana e ha come obiettivo non il Medio Oriente ma l’Africa. Il riferimento per capirla non è il Kosovo né l’Iraq, ma la crisi del Canale di Suez del 1956. Quella data ha un valore fortemente simbolico nella politica estera degli Stati Uniti. Usciti dalla Seconda Guerra Mondiale alla ricerca, come tutte le grandi potenze di allora, di un radicamento nel mondo del petrolio, fino alla crisi egiziana gli Usa rimangono in una posizione marginale in Medio Oriente.

La nazionalizzazione del Canale di Suez vede infatti scendere in campo accanto ad Israele (che si muove formalmente ma non sostanzialmente in maniera indipendente) le due potenze che per più di un secolo avevano condiviso la gestione mediorientale, cioè Francia e Inghilterra. Gli Usa giocano una mano in quella crisi - la cui causa scatenante è proprio il rifiuto americano di concedere un megaprestito a Nasser per la costruzione della diga di Assuan - tentando di calmare Israele, e mettendo in allerta la Sesta Flotta nel Meditterraneo, ma ne rimangono fuori. Il senso di questa «terzietà» Americana venne colto da una battuta che è stata ripetuta poi molte volte in altri teatri di guerra confusi: all’Ammiraglio Burke che ordinava al suo vice «Cat» Brown «Situazione tesa. Preparatevi a ostilità imminenti», Brown rispose: «Pronti a imminenti ostilità. Ma da parte di chi?»

Com’è noto, il tentativo di sottrarre al controllo egiziano il Canale fu un fallimento, grazie soprattutto alle minacce della Russia, e formalmente il conflitto terminò con la prima missione Onu di peace keeping, cioè con la formazione e l’impiego di truppe delle Nazioni Unite in funzione di cuscinetto. In sostanza però la crisi segnava la fine dell’influenza delle ex potenze imperiali e la nascita di un nuovo equilibrio in Medio Oriente in cui la Russia avrebbe avuto un ruolo indiretto sempre maggiore, e gli Stati Uniti avrebbero avuto campo libero.

Come si vede, si possono contare molti punti di contatto fra quella vicenda e quella di oggi. Ma la somiglianza maggiore è nella cesura fra due periodi di influenza. L’attacco europeo contro Gheddafi oggi somiglia molto al colpo di coda finale di Inghilterra e Francia allora nel tentativo di recuperare una svanita autorevolezza. L’attacco che l’Europa muove oggi a un alleato di trentanni è comunque la certificazione di uno schema politico andato a male. Su questo fallimento gli Stati Uniti si sono mossi per entrare in quello che finora era rimasto
l’ultimo spazio riservato alla influenza quasi esclusiva dell’Europa, il Mediterraneo.

La genesi di questo intervento, cioè il modo in cui è stato immaginato e poi messo in atto, è indicativa. Nonostante si usi molto - e con buona ragione - il Kosovo come punto di riferimento per indicare la «filosofia» che ha spinto Obama a muoversi sulla Libia, l’«intervento umanitario» è oggi solo una parte delle valutazioni che hanno mosso Washington. Non c’è dubbio che, come confermano le cronache, un ruolo decisivo nella decisione è stato giocato da un gruppo di diplomatici quali la Rice, la stessa Clinton (e forse oggi ci sarebbe anche Richard Holbrook se non fosse mancato poche settimane fa) formatisi all’ombra di un paio di crisi andate male negli Anni Novanta, una seconda generazione di Clintoniani nella cui memoria brucia ancora soprattutto il Ruanda, la pulizia etnica cui la comunità occidentale assistette senza sollevare un dito. Ma l’intervento umanitario non avrebbe potuto essere invocato se non si fossero determinate nuove condizioni: e queste nuove condizioni sono quelle fornite dalla entrata in scena in chiave democratica delle masse arabe. In altre parole, per poter difendere un popolo dal massacro era necessario che ci fosse un popolo oltre che un dittatore, e le rivoluzioni del gelsomino hanno offerto insieme al materializzarsi del popolo anche lo scardinarsi del vecchio schema del quietismo dittatoriale in cui gli Usa e noi ci siamo rifugiati per decenni come assicurazione contro il radicalismo islamico. Dicono ancora le cronache (sapientemente manovrate dalla amministrazione) che va ricordato l’attivismo con cui Hillary ha seguito il Nord Africa nella settimana immediatamente precedente alla scelta dell’Onu: un viaggio al Cairo dove, in risposta al rifiuto dell’attuale governo di farle incontrare i giovani attivisti della rivolta, il Segretario ha deciso di fare una «passeggiata» in piazza Tahrir, e a Tunisi da dove ha lanciato il primo ammonimento alla Libia.

L’America insomma ha deciso di intervenire in sprezzo a un vecchio schema politico e cavalcandone uno nuovo, cogliendo una opportunità che la vecchia Europa, proprio a causa della sua ex influenza, ha lasciata marcire quell’attimo di troppo. I francesi, così pronti oggi con i loro aerei, sono gli stessi che a gennaio hanno perso la Tunisia ancora prima di accorgersene, non richiamando a casa un ministro in vacanza a spese di Ben Ali proprio mentre la rivolta spazzava il Paese.

Hillary ed Obama hanno così pavimentato la strada verso una zona dove gli Usa da decenni non erano riusciti ad entrare: nel Mediterraneo, e nel Nord Africa in particolare. E dietro la frontiera del Nord Africa si stende l’Africa intera, come ben sappiamo proprio dal ruolo che negli ultimi anni ha avuto Gheddafi, e come sapevano ancor prima dei generali italiani, inglesi e tedeschi, i generali dell’Antica Roma.
Lo sbarco sulle coste libiche è a tutti gli effetti l’apertura della porta sull’Africa. Quell’Africa diventata negli ultimi anni per gli Usa meta di conquista in una feroce competizione con l’altra grande potenza in espansione nel continente nero, la Cina. Una pervasiva presenza, quella cinese, che si è per altro materializzata davanti ai nostri occhi proprio quando all’inizio delle tensioni contro Gheddafi la Cina ha evacuato decine di migliaia di suoi concittadini al lavoro in Libia.

Anche questo è in fondo un obiettivo della seconda generazione di clintoniani: la prima campagna d’Africa Americana fu iniziata e fu persa proprio dal primo Clinton, Bill, con la sua sfortunata operazione «Restore Hope» in Somalia. Chissà se ora un secondo Clinton, Hillary, non voglia vedere vendicato anche quel fallimento.

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Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - A Damasco il gorgo del mondo
Inserito da: Admin - Marzo 28, 2011, 05:01:39 pm
28/3/2011

A Damasco il gorgo del mondo

LUCIA ANNUNZIATA

La Siria sta rapidamente raggiungendo un punto di non ritorno. Di fronte al presidente Assad si apre un bivio molto semplice: di qua le riforme, di là la repressione. Quale sarà la direzione che Damasco prenderà si saprà in non tanto tempo.

Ieri le cose lasciavano sperare: sono state annunciate la cancellazione dopo 48 anni dello stato d’emergenza imposto nel 1963 e le dimissioni dell’attuale gabinetto di governo. Ma alla fin fine, come ci hanno insegnato fin qui le altre rivolte arabe, il livello di riforme necessarie a calmare le acque o è molto alto o è inesistente. E la leadership dell’erede del Leone di Damasco, come lo definisce nella sua migliore biografia Patrick Seal, non ha mai dato fin qui particolari segni di forti capacità né strategiche né politiche - nemmeno nel senso di forza repressiva che il padre era capace di scatenare.

Per cui, se tanto dà tanto, al di là anche delle intenzioni della presidenza, molto presto la Siria potrebbe diventare terreno di intervento di altre potenze regionali.

Non intendiamo qui né un’occupazione militare né tanto meno un intervento diretto degli occidentali.

I giochi dentro questa nazione sono però troppi e troppo aperti perché la rivolta contro gli Assad proceda troppo a lungo e vada fuori controllo. La ribellione siriana sarà pure, infatti, parte dell’onda delle rivoluzioni popolari del Nord Africa, ma sposta l’asse della storia dal Mediterraneo alla regione a più alta tensione del mondo - il triangolo petrolifero tra Iran, Iraq e Arabia Saudita. Il paradosso è dunque che proprio un Paese senza petrolio, qual è la Siria, rischia di aprire una falla nel faticoso equilibrio che negli ultimi dieci anni si è costruito intorno alla cassaforte energetica mondiale.

L’importanza di Damasco è scritta sulla carta geografica, dove si colloca, oggi come nei secoli scorsi, al centro di un vasto incrocio. Sul vicino Libano esercita da anni un protettorato senza scrupoli, che negli anni ha fatto sentire il suo pugno di ferro nei momenti chiave - dal bombardamento contro il generale cristiano maronita Michel Aoun a Beirut Est, con cannoni di lunga gittata, nel 1989, all’uccisione nel 2005 dell’ex primo ministro libanese Rafiq Hariri che aveva guidato la rinascita del Libano dopo la Guerra civile. Oggi il ruolo di Damasco è quello di costituire un santuario politico per gli Hezbollah che senza governare pienamente controllano la vita politica in Libano, e per le forze palestinesi radicali di Hamas nella Striscia di Gaza: è tramite la Siria, infatti, che arriva a questi movimenti l’appoggio logistico (armi) e politico dell’Iran.

A proposito di religione, va notato che la Siria è governata dagli Assad che sono una minoranza sciita alawita in un Paese a maggioranza sunnita. L’esatto contrario di quel che è stato l’Iraq di Saddam Hussein, per intenderci. Il che la dice lunga nel rapporto con l’Iraq attuale.

La tensione inter-islamica è all’origine di uno degli episodi della formazione della Siria moderna la cui memoria oggi rischia di avere molto peso negli eventi di questi giorni: nel 1982, nella città di Hama, Assad padre sterminò ventimila persone per dare una lezione ai Fratelli Musulmani. Oggi però l’esercito popolare è a maggioranza sunnita, e questo mette a rischio la coesione dell’intervento del governo centrale.

Delle frontiere che la Siria ha con Israele e con la Turchia, e del ruolo che ha nella politica di questi due Paesi, si sa molto. Infine va considerato il legame, anche sociale, fra la Giordania e la Siria, entrambi Paesi con una vasta popolazione di palestinesi, retaggio del conflitto arabo-israeliano. E in Giordania l’opposizione islamista agita le piazze e ha chiesto le dimissioni del primo ministro Maaruf Bakhit.

Quante possibilità ci sono che questo gorgo non diventi un ingovernabile caos che si scarica su tutti i Paesi confinanti?

Per Washington infatti la Siria pone un serio dilemma. L’indebolimento degli Assad sarebbe positivo per gli Usa perché indebolirebbe l’influenza regionale iraniana. Ma una crisi non risolta bene e presto rischierebbe di scalfire il precario equilibrio iracheno. Per ora si sa che a Damasco il nuovo ambasciatore Usa, Robert Ford, sta fortemente consigliando al Presidente la via delle riforme.

Ma lo scenario è pronto, come si diceva, per una sorta di apertura a un intervento di potenze esterne. È possibile che più o meno apertamente si muova l’Iran: un po’ di settimane fa, come si ricorderà, subito dopo la caduta di Mubarak, il Canale di Suez fu attraversato da due navi da guerra iraniane. La loro apparizione nel Mediterraneo suscitò allarme. Quelle navi erano dirette in Siria, e ancora lì stanno. Si muove tuttavia anche la Turchia, altra potenza che in questa crisi libica ha assunto peraltro un maggior ruolo nei confronti degli Stati Uniti. Fra Istanbul e Damasco corrono relazioni, anche recenti, «fraterne», con una vigile presenza dell’abile Erdogan sul fragile giovane Assad.

Un altro dilemma dunque si è aperto, un altro gioco nel Grande Gioco. Un altro possibile deragliamento del mondo arabo, in una maniera o nell’altra, è dietro l’angolo.

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Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Quelle fragili vite in prima linea
Inserito da: Admin - Aprile 16, 2011, 04:21:53 pm
16/4/2011

Quelle fragili vite in prima linea

LUCIA ANNUNZIATA


Gli assassini non meritano aggettivi. Basta l’elenco dei fatti. Nelle guerre a sfondo islamista degli ultimi 30 anni, dal Mediterraneo alle Filippine, dal Caucaso all’Africa, dunque in una delle maggiori superfici del globo, gli uomini e le donne che vengono trucidati dal terrorismo, sono, di preferenza, uomini e donne disarmati. Giornalisti, preti, suore, e volontari di organizzazioni umanitarie.
L’Italia ha aggiunto ieri il suo ultimo nome all’elenco già lungo di prigionieri – ricordiamo Simona Torretta, Simona Pari, Giuliana Sgrena, Clementina Cantoni. E ha allungato anche quello dei morti, dopo Enzo Baldoni, in Iraq, e il free lance di radio radicale Antonio Russo ucciso in Georgia nell’ottobre del 2000. Ma ogni Paese ha la sua lista di non combattenti caduti – gli inglesi (ricordate la lunga agonia di Margaret Hassan, inglese, responsabile di Care in Iraq), gli americani, e persino i giapponesi (lo studente viaggiatore Shosei Koda decapitato in Iraq). Poi, quasi sempre, come due giorni fa a Gaza, questi attacchi vengono giustificati come una punizione per il mondo occidentale e i suoi peccati. Ma la verità di questi atti risalta ugualmente nella indifesa fragilità delle loro vittime.

Quando al posto del grande schema, quale fu l’attacco alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001, si sostituiscono queste operazioni da bulli contro gli indifesi, la qualità morale e politica degli assalti rivela l’occasionalità e la pochezza delle organizzazioni che li praticano. Come ricorderete, quando la resistenza palestinese sfogò il suo «eroismo» contro una nave da turismo, la Achille Lauro, e un uomo in carrozzella, Leon Klinghoffer, la operazione delegittimò un’intera epoca – oltre che un intero popolo. Per inciso: l’uomo che ordinò di buttare a mare Klinghoffer morì braccato e ucciso dagli americani proprio in Iraq, dopo la caduta di Saddam Hussein, in una perfetta nemesi di inversione di ruoli fra forti e deboli. Significa tutto questo che non dobbiamo temere quello che è successo a Gaza? Al contrario. Non c’è nulla di più pericoloso di gruppi che si fanno forti delle debolezze delle loro vittime. Essi sono il momento marcescente delle guerre – gruppi sbandati, autoriferiti e spesso autoalimentati. Senza orizzonte politico, sono queste schegge di conflitto a costituire i punti imprevedibili di nuove tensioni.

Che è poi esattamente quello che sta succedendo a Gaza, che, nella uccisione del ragazzo italiano ci offre uno specchio in cui si riflette con esattezza il punto di ebollizione raggiunto dal Medioriente. Un gruppo che da posizioni radicali contesta in quanto poco radicale un governo come quello di Hamas che è iscritto nelle liste internazionali delle organizzazioni terroriste, è solo in apparenza un paradosso. In realtà è la versione applicata a Gaza della dinamica che si sviluppa in tutte le strade arabe del pianeta: rivolte contro l’ordine esistente. Qualunque esso sia, l’ordine di Assad in Siria, o quello di Saleh in Yemen, degli ayatollah iraniani o del re sunnita Hamad ibn Isa Al Khalifa in Bahrein. Il mondo musulmano è in rivolta contro chiunque abbia il potere – o per lo meno questa è la percezione. Più al fondo di questa percezione c’è il reale significato del sommovimento arabo: un incredibile vuoto di potere che si è creato come effetto combinato dell’invecchiamento, della corruzione dell’ordine esistente, e dell’accesso globale. Già una volta in anni recenti il Medioriente è stato travolto da un vuoto di potere. Quello prodotto dall’89, il crollo dell’impero sovietico, con il suo muro caduto a Berlino e i suoi militari che si ritiravano dall’Afghanistan.

Con la Russia si ritirava dall’intera area uno dei due elementi del mondo bipolare del dopoguerra. E nel vuoto che i russi si lasciarono alle spalle si mossero i pirati - si mosse ad esempio nel 1990 Saddam Hussein occupando il Kuwait e provocando la prima Guerra del Golfo. Oggi come allora, nel vuoto di potere del crollo delle dinastie autoritarie, si muove chiunque ha, sa, vuole, o pensa di poter afferrare qualcosa. Il ragazzo italiano che faceva il pescatore è stato, come tutte le vittime, sacrificato non all’odio contro di lui, ma al potere che la sua morte dà a chi lo ha ucciso. L’esecuzione di Vittorio Arrigoni è in questo senso un avvertimento, ma anche una premonizione, della direzione in cui si muovono i conflitti oggi: nessun angolo del mondo e nessun suo cittadino ne sarà esente. Anche per questo dobbiamo chiederci: c’è qualcosa da fare per evitare che nuovi pericoli travolgano persone innocenti, testimoni non di guerra ma di pace? Ovviamente nulla è mai casuale. Non è un caso infatti se ostaggi e vittime delle nuove guerre siano sempre più medici, volontari, religiosi, gente insomma del mondo delle organizzazioni umanitarie.

Il fatto è che sempre più spesso queste organizzazioni volontarie sono quelle che rimangono in prima linea. I giornali e le tv, per ragioni anche economiche, hanno quasi del tutto smantellato le loro reti internazionali. La diplomazia è sempre più all’interno dei meccanismi della Difesa - le ambasciate sono ormai dei bunker. Tutto giusto. Ma alla fine, appunto, capita che in mezzo alle situazioni reali rimangano sempre più spesso esposte le fragili organizzazioni di buona volontà. Possiamo lasciare soli questi uomini e donne, o dobbiamo forse cominciare a farci carico anche di tutti coloro che – anche contro la loro volontà (e la nostra) e ogni prudenza – rimangono in prima linea? Ecco una domanda per le nuove guerre.

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Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Un salto di qualità
Inserito da: Admin - Aprile 22, 2011, 05:25:56 pm
22/4/2011

Un salto di qualità

LUCIA ANNUNZIATA

Inviando consiglieri militari, gli Stati Uniti e i suoi alleati hanno raggiunto un nuovo livello di coinvolgimento in Libia», scrive il «Washington Post». «L’invio di consiglieri tira al limite l’interpretazione della risoluzione Onu», scrive il «New York Times». «I consiglieri in Libia potrebbero ottenere risultati ben più grandi del loro numero», spiega la rivista di studi militari e sicurezza «Bellum», una sezione della Princeton Review, che continua: «Per i semplici osservatori abituati ad ascoltare discorsi sull’impiego di forze tradizionali – con l’impiego di centinaia di missili, migliaia di truppe – l’annuncio che la Gran Bretagna, la Francia e l’Italia manderanno una decina di consiglieri militari a testa, fa ridere. Ma la realtà della efficacia di questi uomini è ben diversa da quel che appare».

Insomma, molti e rilevanti organi di informazione e analisi sostengono oggi senza false prudenze che, con l’invio di un gruppo di consiglieri militari, tre nazioni europee, Italia inclusa, hanno elevato l’asticella del loro impegno militare contro Gheddafi. I tre governi coinvolti invece continuano a sminuire l’importanza di questa nuova fase. E per una volta non è l’Italia a guidare la danza dell’ipocrisia. L’inglese William Hague secondo cui «I consiglieri vanno in Libia come mentori», si è meritato così la feroce battuta di una giornalista americana, Claire Berlinski: «Visto che non possono addestrare I ribelli, che faranno allora? Organizzeranno una tavola rotonda?».

Le ragioni per cui le tre nazioni debbano continuare a negare ogni coinvolgimento in azioni di terra è comprensibile. Un’invasione della Libia sarebbe l’ammissione di un disastro delle operazioni fin qui condotte, nonché uno choc per l’opinione pubblica occidentale fermamente contraria a nuove avventure militari su vasta scala.

Il problema però rimane: l’invio di consiglieri apre di sicuro una nuova fase, ma quale? La difficoltà a rispondere è nella stessa sfuggente definizione del ruolo di «consigliere» – e in realtà la mancanza di un profilo preciso è funzionale ad un impiego che, nel corso degli anni, ha assunto dimensioni sempre maggiori e sempre più «multiuso».

Nonostante in questi giorni siano stati evocati Vietnam, e (persino) Lawrence of Arabia, l’advisor è un tipo di figura impiegata in continuazione nei conflitti degli ultimi 50 anni, e in ruoli molto diversi (incluso nelle guerre della droga in America Latina). In particolare, però, dopo l’11 Settembre 2001, questo ruolo diventa uno snodo centrale nei rapporti profondamente modificati fra occidentali e mondo islamico. «Gli avvenimenti dell’11 settembre, e i successivi interventi Usa in Afghanistan e Iraq, hanno generato un tipo di relazioni fra i militari americani e i rappresentanti politici di governi stranieri quali mai previsti in nessun manuale militare». Così scrive un saggio del Peacekeeping and Stability Operations Institute e del Strategic Studies Institute - entrambi dell’esercito Americano. Il lavoro pubblicato nel 2008, è dedicato proprio alla complessità e alla flessibilità del ruolo dell’advisor, in particolare nel mondo islamico dopo il 2001. Firmato da Michael J. Metrinko il saggio è intitolato: «The American military advisor: dealing with senior foreign officials in the Islamic World». Il testo è forse dunque la migliore guida per capire la vera missione degli uomini che abbiamo mandato in Libia. Si legge nella prima parte: «Ufficiali dell’esercito sono spesso stati chiamati a fare da consiglieri a politici di altre nazioni e a giocare un ruolo fondamentale nello sviluppo di questi Paesi. Oggi, in Iraq e Afghanistan questo ruolo si è grandemente ampliato e le relazioni fra militari Usa e governatori, membri di governi locali sono divenute strategiche». «La funzione va ben al di là di quella del consigliere in materia di tattica e logistica. Quasi sempre travasa nella sfera politica annullando le tradizionali distinzioni fra ruolo militare, responsabilità del dipartimento di Stato, UsAid, e altri compiti civili. Entra direttamente dunque nel lavoro di “nation-building”, definendo così le relazioni stesse fra i politici di altre nazioni e gli Stati Uniti».

Sono sufficienti tutte queste parole per portarci a riflettere per un attimo in più su dove ci porta questa ultima iniziativa che abbiamo preso in Libia?

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Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Missili in cambio di parole
Inserito da: Admin - Maggio 01, 2011, 05:18:33 pm
27/4/2011

Missili in cambio di parole


LUCIA ANNUNZIATA

Non fosse stato per i soliti spiriti animali del mercato, l’atmosfera sarebbe stata decisamente euforica. Ma anche così, anche con l’Opa di Lactalis lanciata su Parmalat proprio nel giorno della pace franco-italiana, a Palazzo Madama si è ascoltato ieri mattina un grande respiro di sollievo. Testimoni gli imperturbabili amorini degli affreschi e le eterne edere del giardino italiano, Silvio Berlusconi e Nicolas Sarkozy hanno riportato la serenità nelle relazioni fa i loro Paesi, intorno a un accordo dopo tutto semplice: bombe italiane sulla Libia in cambio di una mano francese con gli immigrati. Naturalmente, l’equazione non è stata esposta esattamente in questi termini, ma, occorre dire, non fa una piega.

La maggiore difficoltà che il premier italiano ha incontrato è stata quella di spiegare il nostro lato del patto, cioè far capire come si può contemporaneamente bombardare ma negare di farlo. La frase che ha usato è la seguente: «Ho detto e ripeto che non bombarderemo, nel senso che non useremo le bombe cluster, a grappolo, quelle cioè che colpiscono anche i civili.

Faremo solo pochi interventi con missili mirati, che colpiscono esattamente gli obiettivi». Tradotto dal gergo, l’Italia si impegna a usare solo armi intelligenti. Sarkozy invece ha dovuto sbrogliarsi dalle domande dei cronisti presenti sul suo versante più delicato, quello degli immigrati. Anche lui ha usato una lunga formula per impegnarsi ad aiutare l’Italia con gli immigrati senza irritare il suo elettorato anti-immigrati. Ha così sostenuto che la Francia è a favore del fatto che Schengen «rimanga vivo, ma perché rimanga vivo deve essere riformato». La conclusione è però solo una lettera congiunta franco-italiana al presidente del Consiglio Ue Herman Van Rompuy e al presidente della Commissione europea Manuel Barroso in cui, ha detto Berlusconi, «Abbiamo chiesto all’Ue maggiore collaborazione e solidarietà da parte dei nostri partner europei».

Questo scambio di favori - maggior impegno dell’Italia in guerra e maggior impegno a favore dell’Italia da parte della Francia con gli immigrati - sulla carta ha un suo senso. Ma a guardarlo bene, ci sono pochi dubbi che la parte più gravosa rimane sulle spalle dell’Italia: per quanto pochi possano essere i missili che lanceremo, le armi hanno una loro inevitabile materialità che pesa molto. Le lettere su Schengen invece sono impalpabilmente vaghe, promesse e impegni che sono in ogni caso, letteralmente, parole su carta. Eppure la richiesta fatta all’Italia di impegnarsi di più sul fronte della guerra con la Libia porta al Paese un indiretto riconoscimento: il coinvolgimento di Roma in quanto ex colonia e miglior amica di Gheddafi rafforza l’alleanza Nato ed evita il rischio (che è anche il terrore da parecchio tempo e su molti scacchieri da parte del Dipartimento di Stato Usa) che gli italiani facciano da scappatoia per il leader libico. Il rientro militare pieno dell’Italia come combattente nella Nato riscatta anche il nostro Paese dal rischio isolamento: «Essere stati esclusi dalle consultazioni è stato spiacevole» ha ricordato un premier inusualmente sincero. E se un prezzo da pagare interno c’è per questo nuovo ruolo guerriero - un prezzo quale il malumore della Lega- l’accordo su Schengen con la Francia può almeno essere offerto come un riequilibrio. La benedizione arrivata da Napolitano a questo nuovo ruolo italiano è la prova che almeno per ora il dossier è chiuso.

E’ rimasto aperto invece quello, scottante, delle relazioni economiche fra i due Paesi. L’importanza di questa seconda pagina nel vertice era testimoniata dalla presenza in prima fila, durante la conferenza stampa finale di Sarkozy e Berlusconi, anche dei due algidi ministri del Tesoro, Tremonti e Christine Lagarde, oltre a Frattini, Maroni per l’Italia, e al primo ministro François Fillon, Alain Juppé (Esteri) e Claude Guéant (Interno) per la Francia.

Fra Italia e Francia, come si ricorderà, si combatte da anni una battaglia di competizione industriale attraverso cui passa - dall’Alitalia agli assetti delle grandi banche - la difesa della «italianità». Alla lunga fila di casi si è aggiunto il recente tentativo della francese Lactalis di acquisire il controllo della Parmalat. Il ministro Tremonti, in difesa della italianità e di un elettorato del Nord interessato alle quote latte, si è speso in favore della Parmalat al punto di inserire il latte fra i prodotti strategici del Paese, e da proporre una modifica delle norme antiscalata.

Il mercato però non ha grande pazienza con i bizantinismi della politica - e proprio nel giorno del vertice, ieri, Lactalis ha lanciato una Opa volontaria totalitaria su Parmalat. Il nostro premier non ha gradito, e ha scusato il governo francese: «Il tempismo è tale da far escludere ogni responsabilità del governo francese». Non gli è rimasto però che prendere atto: «Auspico la creazione di grandi gruppi franco-italiani e italo-francesi che possano stare insieme nella competizione globale»; archiviando così di fatto tutte le battaglie fatte in nome della italianità. In cambio anche di questa ritirata, Sarkozy ha lodato Mario Draghi come un ottimo candidato alla guida della Banca centrale europea - ma davvero Draghi ha bisogno del voto dei francesi?

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Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - In discussione una certa idea del potere
Inserito da: Admin - Maggio 16, 2011, 11:20:51 am
16/5/2011

In discussione una certa idea del potere

LUCIA ANNUNZIATA

Lo so, dovremmo sfoggiare un pudico senso delle istituzioni, ma è difficile invece non ammettere che l’arresto di Dominique Strauss-Kahn ci riempie di gioia. Per una ragione che – al netto di ogni necessario garantismo - spero che anche i nostri lettori maschili meno avveduti comprenderanno: lo smascheramento di questo signore comporta una serie di buone notizie per le donne.

L’arresto di Strauss-Kahn apre intanto nuove possibilità nella politica francese, creando le condizioni perché una donna arrivi alla presidenza di Francia. Il direttore del Fondo monetario internazionale è stato fino a due giorni fa il candidato preferito dell’opposizione alle presidenziali, ma nel complesso (e non meno rancoroso che in Italia) universo dei socialisti francesi non era l’unico aspirante alla nomina. Dietro la sua si profilava la candidatura di Martine Aubry, data però finora perdente. I giochi a questo punto si riaprono, e le prossime presidenziali francesi che saranno giocate all’ombra della crisi di leadership di Sarkozy, potrebbero essere decise da ben due donne.

La Aubry da una parte e dall’altra, nel ruolo della guastatrice, Marine Le Pen. Marine, figlia di Le Pen, nuovo fenomeno della destra francese, potrebbe infatti acutizzare il declino di Sarkozy, sottraendogli consensi, e aprendo così la strada a un ritorno all’Eliseo dei socialisti.

Una seconda e significativa conseguenza per le donne è che in questo nuovo scenario non si intravede nessuna quota rosa, nessuna leadership femminile prodotta come fiore di serra. Se la Le Pen, come detto, è cresciuta a pane e politica, la Aubry ha tutti i carati per essere Presidente. Figlia d’arte (suo padre è Jacques Delors, ministro socialista delle finanze dal 1981 al 1985, e soprattutto uno dei fondatori dell’Unione Europea, della cui Commissione è stato presidente dal 1985 al 1995) ha un palmarès da leader nazionale, da ministro del Lavoro fra il 1997 e il 2000, ai due mandati da sindaco di una città complessa come Lille, al suo attuale incarico di segretario del partito socialista. Va anche ricordato che la Aubry è stata una delle donne socialiste che nelle scorse presidenziali prese apertamente le distanze dalla candidata del partito Ségolène Royale, considerata, a loro opinione, troppo mediatica e poco politica. Come si vede, nell’animo pubblico di Martine non alberga nessun femminismo o quotarosismo di maniera. E’ una donna che ha puntato su lavoro, passione, competenza e disciplina: se venisse eletta si innesterebbe nel filone in cui si muovono Hillary Clinton e la Merkel. Un modello femminile seccamente alternativo alla donna bella e subalterna che è il secondo modello femminile proposto dalla politica. Stiamo certamente correndo troppo – ma qui si vuole solo segnalare quanto serie sono per le donne le implicazioni dell’inciampo di Strauss-Khan. Accanto a queste della politica istituzionale, ce ne sono infatti anche altre, di natura più etico-tattica: la vicenda del direttore dell’Fmi contiene un avvertimento sul nuovo clima del tempi.

La giovane cameriera che ha denunciato l’aggressione, è solo l’ultima delle molte donne che, coinvolte volenti o nolenti in umiliazioni sentimentali o sessuali in rapporti con uomini potenti, non stanno zitte. Non ha taciuto la Monica Lewinsky, come non ha taciuto in Italia la signora Berlusconi, o molte delle ragazze vicine al premier. Come non hanno taciuto le amanti e le mogli dei vari candidati americani, o svedesi, o inglesi.

La loro non è solo vendetta femminile – si profila qui la rivolta delle donne a un certo senso del potere, politico ed economico. Il modello che ha permesso a Kennedy di avere tutte le donne che voleva e a Mitterrand di avere due famiglie nella accettazione generale è parte definitiva del passato. Distrutto non da un nuovo moralismo, dal momento che questi smascheramenti non sono frutto di una campagna ideologica, ma di concrete svolte in concrete relazioni fra individui. Quello che si attacca dunque più che la persona, è un concetto: cioè l’idea che le donne siano un fringe benefit, come la macchina e le stock option, del Potere.

In questo senso, l’incidente Strauss-Khan ha un riflesso (sia pur solo di immagine) anche sulla politica italiana. L’arroganza sessuale del politico francese mette sicuramente in un contesto diverso le «intemperanze» sessuali che deformano la nostra politica. E’ indubbio che questa vicenda ci ricorda che la Francia - e potremmo gettare uno sguardo non innocente anche sul resto dei Paesi europei e sugli Usa - ha costumi privati e pubblici scollacciati quanto quelli italiani. Al momento è un punto a favore del nostro premier. Ma cosa dovremo pensare di Silvio Berlusconi se a seguito di questo incidente Strauss-Khan decidesse di rinunciare alla corsa presidenziale?

In conclusione, speriamo che a Strauss-Khan venga riservata una inchiesta giusta, ma anche un trattamento severo in termini di giudizio. Non vorremmo sentire compiacenti giustificazioni sulla seduzione, sui francesi, e ancora meno sui complotti giudaico-massonici. Nemmeno ci piacerebbe ascoltare disquisizioni sul perché i socialisti possano peccare e la destra no. Cari amici, compagni di vita, mariti, fratelli, padri, uomini, queste cose per le donne non sono roba da poco: cercate di essere all’altezza delle nostre attese.

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Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Senza slanci emotivi
Inserito da: Admin - Maggio 21, 2011, 09:21:22 am
20/5/2011

Senza slanci emotivi

LUCIA ANNUNZIATA

Il tanto atteso intervento del Presidente degli Stati Uniti sul Medioriente, arrivato nel pieno di grandi eventi, forse non passerà alla storia.

Un discorso troppo minuzioso, ragioneristico nell’elencazione e cauto nelle soluzioni. Obama questa volta non ha avuto né lo slancio emotivo né la visione politica del discorso con cui al Cairo, solo un paio di anni fa, aveva aperto una nuova era nelle relazioni fra Stati Uniti e mondo musulmano.

Barack Obama ha parlato ieri a fine mattina al Dipartimento di Stato, cioè nel sancta sanctorum della politica estera Usa, e accanto a Hillary Clinton, cui ha dedicato ogni possibile complimento – incluso quello errato (e lo hanno subito sgamato i blog) di aver già volato 1 milione di miglia (sono in realtà la metà, e la Rice aveva raggiunto la mitica cifra, resa tale dal George Clooney di «Tra le nuvole», dopo soli 4 anni). Nulla lasciato al caso, dunque, «per fornire una nuova narrativa», come dicono gli analisti americani, a una storia di tensioni fra Usa e Medioriente ormai più lunga di mezzo secolo. Nessun compito avrebbe potuto essere più facile, dopo le rivoluzioni in Egitto, la cacciata di Mubarak, il ritrovato accordo con l’Europa sulla Libia; nulla di più trionfale da annunciare, dopo l’uccisione di Osama, il ritiro dei soldati americani dall’Iraq l’anno scorso, e la promessa di un altro ritiro in Afghanistan.

Abbiamo ascoltato invece un solo acuto, un unico passaggio in puro stile Obama. Onorando il venditore ambulante di 17 anni Mohammed Bouazizi, che bruciandosi vivo per protesta contro le vessazioni della polizia ha acceso la miccia della rivoluzione in Tunisia, il Presidente ha paragonato i moti dei giovani arabi alla rivoluzione americana, e al movimento dei diritti civili: «A volte nel corso della storia le azioni di cittadini comuni avviano grandi cambiamenti perché colgono un desiderio di libertà che negli anni si è accumulato. In America penso ai patrioti di Boston che rifiutarono di pagare le tasse al re, e penso a Rosa Parks che rimase con coraggio al suo posto». Un audacissimo parallelo da proporre alla sua nazione, gli Usa, in cui oggi l’estrema destra ha eletto la rivolta dei patrioti di Boston a simbolo contro Obama, e in cui contro Obama questa stessa destra solleva di continuo lo spettro del razzismo.

Forzatura retorica, dunque, usata dal Presidente per avocare a sé la riscrittura di una nuova piattaforma di politica estera, che passi dalla «sicurezza e stabilità» per sé stessi, all’appoggio a un sistema di valori. «L’equilibrio attuale non è più sostenibile. Società tenute insieme da paura e repressione possono dare l’illusione di stabilità per un periodo, ma alla fine crollano. Noi appoggiamo diritti universali che includono libertà di parola, di riunione, di religione, di eguaglianza per uomini e donne davanti alla legge, e il diritto di scegliere i propri leader – che si sia cittadini di Baghdad o Damasco, di Sanaa o di Teheran».

Il giorno per giorno di quest’appoggio non è però molto chiaro. E infatti, a parte questi passaggi ispirati, il Presidente si è inoltrato con grande cautela, passo per passo, pragmaticamente, in tutti i problemi aperti nella regione. E di ognuno di questi interventi è stata pesata parola per parola, nelle varie capitali mediorientali, dove l’attesa per il discorso ieri era massima. Nulla di nuovo sulla Libia, salvo la rassicurazione che «Gheddafi se ne andrà o sarà deposto». Più vigoroso invece il tanto atteso richiamo alla Siria, in cui Obama adombra un ultimatum, ma senza davvero spingersi a formularlo: «Il presidente Assad ha una scelta: può guidare lui la transizione, o può andarsene». Del resto, le sanzioni appena applicate al governo di Damasco sono un segno di un indurimento di Washington, ma ben al di qua di ogni sfida. Duro avvertimento anche all’«ipocrisia del regime iraniano, che dice di sostenere le rivolte negli altri Paesi e massacra i suoi giovani che protestano». Ma forse la parte più rivelatrice di questa lista è quella che riguarda i Paesi «amici», come definiti nel discorso. E’ lì infatti che covano il disagio e il dilemma sulle cose da fare: su Israele, sull’Arabia Saudita, sul Bahrein e sullo Yemen, tutti alleati a diverso titolo e con diversa grandezza, ma tutti fondamentali per gli Usa. Al presidente yemenita Saleh, Obama ha ripetuto il suo invito (nulla di nuovo, qui) a mantenere la promessa di lasciare il suo posto. Per la prima volta, invece, abbiamo sentito un chiaro messaggio al Bahrein, dove è di stanza la 5ª Flotta americana. Il movimento di piazza nel piccolo Stato è agitato dall’Iran, e il Presidente Usa lo ha ricordato, «ma ugualmente abbiamo insistito privatamente e pubblicamente», ha rivelato, «perché arresti di massa e forza bruta non esprimono rispetto per i diritti umani». E’ il primo cenno esplicito alle brutalità in corso nel Paese. Mai pronunciato invece il nome dell’Arabia Saudita.

Solo in conclusione Obama ha affrontato il tema più dolente, Israele e Palestina. Ha parlato di nuovo di una soluzione che arrivi alla creazione di due Stati, e ha fatto un riferimento al 1967 «come base» dei confini reciproci. Il ripescaggio dell’anno 1967 ha provocato un certo trambusto nella comunità internazionale dal momento che è la data della Guerra dei Sei giorni che portò alla conquista da parte di Israele della maggior parte dei territori poi occupati e di Gerusalemme. Ma l’uso cautelare dell’espressione «sulla base di» tiene il riferimento dentro le possibili revisioni di quei confini in accordi di scambio, come è sempre stato nelle trattative. La realtà di cui Obama ha preso indirettamente atto nel chiedere il rilancio di un’inizitiva di pace è in effetti il fallimento di due anni di tentativi di stabilire un nuovo dialogo. Pochi giorni fa l’inviato Usa George Mitchell (l’uomo che ha costruito il dialogo fra Irlanda e Inghilterra, per capirsi) ha gettato la spugna. E il nuovo accordo tra Fatah e Hamas ha scombussolato gli schemi di lavoro fin qui usati. Il futuro di Israele e Palestina rimane dunque, come sempre, terra incognita.

Giunti alla fine, non si può che prendere atto che nell’elenco fatto i problemi rimangono più numerosi delle soluzioni. Questo è del resto il Medioriente. E nemmeno l’uomo più potente del mondo può illudersi di plasmarlo. In questo senso, forse, la modestia di questo discorso, di cui parlavamo all’inizio, è l’unico possibile, realistico e anche commendevole tono da assumere.

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Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Una guerra diventata grottesca
Inserito da: Admin - Giugno 16, 2011, 12:13:43 pm
16/6/2011

Una guerra diventata grottesca

LUCIA ANNUNZIATA

L’altroieri la Camera dei rappresentanti Usa ha bocciato la richiesta del presidente Obama di nuovi fondi per continuare l’offensiva in Libia. «Chi metterà ora i soldi?», si chiede il ministro Maroni.

Nelle stesse ore in cui in Italia si ascoltano questi dubbi, negli Stati Uniti proprio lo speaker repubblicano di quella Camera dei rappresentanti evocata da Maroni dà un altro avvertimento a Obama: domenica, fa sapere John Boehner, scadono i 90 giorni concessi dal War Power Act del 1973 ai Presidenti Usa per decidere azioni di guerra senza permesso del Congresso. L’ultimatum di Boehner è chiaro: in questa settimana Obama deve o chiedere al Congresso il consenso a prolungare la missione contro Gheddafi o ritirarsi dalla missione.

Il dialogo fra Maroni e Boehner, di natura puramente virtuale (anche se non casuale), illumina uno dei principi cardine dei conflitti: la guerra è una scelta che non riguarda mai i principi, ma solo le opportunità. Il dibattito in corso sulla Libia ha così raggiunto un punto surreale. La Lega utilizza l’intervento in Libia contro il proprio alleato Berlusconi come leva di una potenziale crisi di governo. E a Washington i repubblicani, fino a ieri propugnatori della Guerra Preventiva, brandiscono oggi la bandiera del non intervento contro il fino a ieri anti-guerra Barack Obama. Quando la prossima volta dovremo discutere di qualche altro conflitto sarà utile ricordare il cinismo che permette con una giravolta, e così spesso, lo scambio di panni fra guerrafondai e pacifisti.

Questa inversione di ruoli porta tuttavia oggi anche a una non irrilevante presa d’atto. Il cambio di posizioni è maturata, e può esprimersi, perché la guerra in Libia si è sicuramente insabbiata. In questo caso non sono le sabbie mobili evocate, a suo tempo, per le paludi del Vietnam, ma le sabbie vere e proprie di un conflitto dispiegato in un deserto, geografico e geopolitico. Del deserto geografico non è necessario parlare. Quello geopolitico si è invece materializzato a poco a poco fino allo stallo della iniziativa politica, che è superiore solo alla paralisi militare.

Quello della Libia è - possiamo finalmente dirlo? - un conflitto da barzelletta. Una di quelle alla Totò, dove l’uso paradossale delle parole svela quanto grottesca sia la realtà. L’intervento in Libia è nato come una costruzione virtuale, con personaggi deformati per creare una narrativa credibile: la ferocia di Gheddafi, la rivolta del popolo oppresso, i colpi e contraccolpi di battaglie all’ultimo sangue, le persecuzioni, gli appelli alla solidarietà, la fuga della famiglia del dittatore, le incursioni televisive di leader e ribelli. Tutti questi eventi e immagini a novanta giorni dal suo inizio si sono rivelati per quello che sono sempre stati: chiacchiere. Oggi sappiamo - grazie anche al lavoro certosino di tanti corrispondenti - che la vicenda libica, pur non essendo priva di tensioni, aspirazioni e sangue, è però molto più prosaica. Il dittatore è il solito leader sulla strada del declino, è grasso, stanco, frustrato, e corrotto; la sua famiglia è spaventata, i suoi affiliati indecisi fra tradimento e rassegnazione; i ribelli sono gruppi disorganizzati, senza preparazione militare, senza armi, senza coordinamento, e, soprattutto, senza nessun collante ideale.

Del resto, per capire le dimensioni e la natura della guerra in Libia basta confrontarla con l’altra guerra civile in corso nel mondo arabo, la rivolta siriana in cui da mesi migliaia di uomini e donne accettano consapevolmente di farsi uccidere offrendo i loro petti, ogni venerdì, ai carri armati inviati da un’altra famiglia di dittatori nascosti dietro occhiali scuri e silenzio internazionale. È sgradevole fare paragoni di questo tipo, ma non è un caso che il numero dei morti in Siria in poche settimane abbia ampiamente battuto quello delle vittime (per altro ampiamente non verificate) libiche.

Qualcuno potrebbe offendersi per l’uso di un linguaggio così duro, ma è necessario confrontarsi con la realtà delle cose per capire dove vanno e a cosa ci portano. La guerra in Libia va male perché è una guerra mediatica, nata e gestita confusamente perché non si poteva dichiarare il suo unico e vero intento: trovare un nuovo assetto intorno al petrolio in Nord Africa.

La stessa inanità colpisce infatti questo conflitto sul suo versante Nato. La guerra in Libia ha rivelato, per converso, la perfetta debolezza militare della Alleanza Atlantica, come molto rudemente ha detto nel suo ultimo discorso prima della conclusione del suo incarico il ministro della Difesa Usa Robert Gates, che a Bruxelles ha criticato «le insufficienze militari e di altro tipo svelate dalla operazione in Libia». A lui si è unito, pochi giorni dopo, l’ammiraglio Sir Mark Stanhope, capo della Marina britannica, avvertendo che l’Inghilterra ha solo altri tre mesi di autonomia operativa. Non ha detto che la Marina britannica in Libia ha solo quattro navi anche ora che è pienamente operativa.

Siamo, dunque, al dunque: la guerra in Libia può dichiararsi ufficialmente incagliata.

Cosa succederà ora? È probabile che la de-scalation militare non verrà ufficializzata, tanto è nelle cose. Si accelererà invece la ricerca di una soluzione politica. E quale può essere, visto che non c’è la caduta del dittatore? Potrebbe essere quella che si è intravista fin dall’inizio: una partizione della Libia. Come del resto già quietamente si sta preparando con il riconoscimento del governo dei ribelli a Washington e in Europa.

Ma non è una scelta facile, come abbiamo già sperimentato nei decenni scorsi nei Balcani, e in Medioriente. I confini sono, come ben sappiamo, entità politiche e dunque fittizie, ma ogni loro violazione (ricordiamo l’invasione del Kuwait nel 1990 da parte dell’Iraq di Saddam) porta spesso a reazioni a catena, riaprendo tutti i malesseri delle rivendicazioni territoriali. In Nord Africa ci sono i popoli del deserto, artificialmente inseriti nei vari Stati della fascia araba del Mediterraneo. Ma il dossier delle rivendicazioni territoriali è molto ampio anche in Medioriente - basti pensare alla convivenza difficile fra sunniti e sciiti, come in Iraq, e alla questione curda che attraversa Iraq, Iran e Turchia.

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Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Addio al mito del paese perfetto
Inserito da: Admin - Luglio 23, 2011, 05:45:13 pm
23/7/2011

Addio al mito del paese perfetto

LUCIA ANNUNZIATA


Ha guidato per circa un decennio, dal 2000 al 2006 , e ancora nel 2009 e nel 2010, il Human Development Index , l’indice che designa I paesi piu’ evoluti del mondo misurando il livello di eguaglianza, integrazione e opportunita’ . E’ stata designata per anni di seguito come la nazione con il piu’ alto livello di vita. Ma anche e soprattutto, ancora l’anno scorso, come il paese piu’ pacifico del mondo.

Sulla bomba che ha fatto saltare gli edifici del centro di Oslo e’ saltato, ieri, anche il mito della Norvegia come paese perfetto. Ma questo violento risveglio e’ davvero una sorpresa? Nulla avviene in realta’ mai all’improvviso, e neanche questo attacco del terrorismo all’estremo nord d’Europa, arriva di punto in bianco.

La Islamofobia e’ stata in permanente crescita negli ultimi anni sotto la pelle del quietissimio paese, in cui circa 150mila islamici su una popolazione di cinque milioni di abitanti, hanno finito con il costituire un permanente elemento di frizione culturale, un esempio tangibilissimo di come l’Islam in un paese pure laicissimo non sia facilmente assorbibile. E dentro questa tensione, dentro lo sfaldarsi di un sistema, negli ultimi anni si e’ manifestato in questo come in altri paesi del Nord il formarsi di una reazione di destra, laffermarsi , soprattutto via internet, di gruppi razzisti, violenti. Nutriti da una nostalgia del passato, che in questi paesi del nord, come sta succedendo anche in Svezia, ha il volto delle forti correnti di simpatia che ci furono prima della Guerra mondiale per il Nazismo.

La convulsa giornata di ieri, nelle ore drammatiche dopo gli attentati, alla ricerca di un responsabile navigando nel vuoto, iniziata con una rivendicazione Islamista e conclusasi con l’arresto di un Norvegese, ha costituto il racconto perfetto dell’oscura massa di fango e incertezze che si muove da tempo sotto la perfetta facciata del paradiso norvegese.

A notte tardi la polizia ha fatto trapelare che la responsabilita’ e’ probabilmente da accollare a gruppi neonazisti, che puntano a scardinare l’ordine del paese. La mente va automaticamente a un altro caso del genere, l’attacco ad Oklahoma City, del 19 Aprile 1995, in cui un gruppo di “resistenza “ Bianca, uccise 160 persone, l’attentato piu’ grave su suolo Americano fino a quello delle Torri Gemelle. Ma se quello Americano ebbe una matrice tutta nutrita del sentimento antistato dei gruppi di destra in Usa, questo in Norvegia , se fosse davvero attribuibile alla fine a un gruppo interno, avrebbe motivazioni molto diverse.

L’antiimmigrazione, quella Islamica in particolare, e’ il principale motivo di crisi nazionale per questi gruppi. Questo sentimento, combinato con ideologie piu’ tradizionalmente politiche, come l’attacco e la esecuzione a sangue freddo di giovani “socialisti” lascia intravvedere, forma una miscela che finora non si era ancora mai materializzata.

La pista interna , insomma, e’ la piu’ destabilizzante possibile. E non solo per la Norvegia. L’attacco puo’ avviare uno sconvolgimento emotivo ( se non politico) delle grandi democrazie del Nord Europa, che finora hanno comunque assicurato solidi contrappesi alle continue crisi dell’Europa del Sud.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9010


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Di padre in figlio
Inserito da: Admin - Agosto 01, 2011, 04:43:00 pm
1/8/2011

Di padre in figlio

LUCIA ANNUNZIATA

Inviando i carri armati contro la popolazione della città di Hama, la famiglia Assad si conferma la più capace genia regnante oggi nel Medioriente della Mezzaluna, se per capacità si intende saper conservare il proprio potere con crudeltà e sprezzo di ogni interesse umano che non sia il proprio.

Papà Hafez al Assad, detto anche il Leone di Siria, guarda probabilmente oggi dall’alto con orgoglio la sua progenie, Bashir che è Presidente, e Maher, capo dei gruppi di élite della Guardia repubblicana che guida da mesi la repressione delle proteste. I due rampolli, arrivati sulla scena politica del Paese con la reputazione dei rammolliti (Bashir è dentista e ha conquistato il titolo con molti anni di studi a Londra), si sono rivelati in effetti in questi mesi degni eredi del Leone: la scelta di spianare Hama è del resto un perfetto omaggio a lui, il papà. Fu Assad padre infatti, nel 1982, il primo ad avere l’idea di radere al suolo, novello Attila, la città di Hama, che aveva osato ribellarsi, per farne il monumento alla stabilità e alla forza del suo potere, uccidendo 30 mila islamici. Si capisce bene dunque che oggi i suoi figli inviando i carri armati intendano ripetere l’operazione simbolica di fare di Hama il luogo in cui anche stavolta si è insegnata una lezione a tutto il dissenso siriano che da mesi scuote il Paese.

Il momento, del resto, è perfetto - e tutto si può dire degli Assad meno che non sappiano far di conto e di politica.

Questo inizio di agosto è il festival della distrazione internazionale. Obama è profondamente indebolito dal rischio default, e nel clima che si respira in America è improbabile che Washington si impegni su questioni internazionali. Il presidente turco Erdogan, cui l’Occidente ha affidato il compito di tirare (ogni tanto) le orecchie ai focosi giovani Assad, è in piena crisi da conflitto con i suoi generali dimessisi in massa venerdì per protestare contro l’arresto di 250 ufficiali da parte del governo con l’accusa di cospirazione. Al Cairo fra due giorni dovrebbe iniziare il processo a Mubarak, che rischia di essere la piazza mediatica internazionale su cui si ufficializzerà che i Fratelli musulmani sono quasi riusciti a dirottare e rapire la rivoluzione di Piazza Tahrir. Infine inizia oggi, primo agosto, il Ramadan, il mese di celebrazioni del calendario musulmano, in cui il mondo islamico digiuna, prega e festeggia se stesso - con un antico rito che nel decennio scorso è diventato data simbolica anche per l’Islam radicale di un diverso tipo di festeggiamento, quello delle armi. Proprio ieri l’ammiraglio Usa Mullen, che guida lo staff dei capi di stato maggiore americani, ha proclamato la massima allerta delle truppe in Afghanistan per timori di attacchi taleban durante il Ramadan. E se lo fanno i taleban, perché non farlo in Siria, devono aver pensato gli Assad. Va detto che tutto quello fin qui scritto è solo frutto di osservazioni - tra le altre cose, infatti, il tanto «westernizzato» governo di Damasco, con la sua splendida first lady cresciuta a Londra, le sue portavoce donne, e la sua elegante borghesia che ha ristrutturato il centro storico della capitale, non ha avuto esitazione a buttar fuori (e a tenerli fuori) i giornalisti occidentali.

Riusciranno dunque i fratelli Assad nel loro progetto di radere al suolo Hama? Non abbiamo dubbi. Si è scritto e riscritto (e a questo punto è inutile ripetere) del doppio standard che l’Occidente ha adottato nei confronti della Siria: decisionismo militare per la Libia e chiacchiere di vuote proteste per Damasco. Le ragioni di questa disparità sono state esse stesse descritte numerose volte. La Siria è il cortile di casa di due grandi potenze mediorientali - la Turchia e Israele, ed è dunque area di gioco di quasi tutti i conflitti locali. Attraverso la Siria passa l’aiuto iraniano agli Hezbollah e ad Hamas (che agiscono rispettivamente contro Israele in Libano e a Gaza). La Siria è inoltre una nazione a base etnica molto variegata, con una importante presenza, tra le altre, sia di cattolici che di curdi. Si aggiunga che in Siria non c’è petrolio, e la somma finale è semplice: il timore di una destabilizzazione di questa nazione è più forte di ogni preoccupazione umanitaria.

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Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Quando il popolo processa il faraone
Inserito da: Admin - Agosto 04, 2011, 09:51:41 am
4/8/2011

Quando il popolo processa il faraone

LUCIA ANNUNZIATA


In una vecchia aula del Cairo, un’aula dominata da una enorme struttura di ferro che incute timore, il processo all’ex presidente egiziano Hosni Mubarak ha il sapore di un monito biblico sull’arroganza del potere decennale.

L’uomo che ha governato e deciso su milioni di vite per trent’anni, finisce lui stesso giudicato – portato lì dalla rivolta dei poveri, degli spossessati, degli scontenti, dei dissidenti, dei senza voce che fino a pochi mesi fa lo chiamavano Faraone. Un gigantesco ribaltamento della piramide sociale, e dei ruoli. Un cambio drastico della Sorte, che nella storia si ripresenta con certa regolarità e che, pure, ogni volta che si materializza, guardiamo con stupore, e persino, con un certo sgomento. Possibile che il Faraone non avesse messo in conto la rivolta? Possibile che le mura dei Palazzi offrano tanta sicurezza da sfiorare regolarmente l’impunità? Con il senno di poi è facile vedere i fallimenti avrebbe dovuto sapere, avrebbe potuto salvarsi, bastava un po’ di serenità, viene da pensare, guardando a quegli uomini che siedono davanti alle sbarre dei loro popoli e della storia: ci sono poche cose così incomprensibili come la Sconfitta. Ma se si cerca una risposta a queste domande negli occhi di Mubarak e dei tanti Potenti che prima di lui hanno dovuto affrontare in pubblico la loro caduta, di solito non si trova nulla. Sarà anche questo un attributo del potere: la sua cecità a comprendere la sua fine.

Il monito del processo a Mubarak assume un significato ancora più devastante se si colloca nella sua specifica storia, nel suo specifico tempo.

L’ex Presidente egiziano non è il primo potente a cadere. Anzi. Il mondo arabo è un universo inquieto, in cui i destini di leader e regnanti sono sempre stati incerti ma di solito questi destini sono decisi da guerre, o golpe militari o congiure di palazzo (e a volte da tutte e tre le cose insieme). I potenti rovesciati in passato sono fuggiti, ancora più spesso, sono scomparsi dalla scena politica, in dorati esili interni o direttamente nell’Aldilà.

Gli esempi di questi passaggi di potere, nella sola ultima metà del Secolo XX, abbondano: in Iran lo Scià di Persia nel 1979 fuggì dal Paese sotto l’incalzare di una enorme rivoluzione; in Arabia Saudita non si è mai riusciti a contare il numero degli eredi e dei cugini divorati da lotte interne alla famiglia tuttora regnate. In Iraq si è avuto tempo di vedere due golpe militari e due guerre internazionali. Nello stesso Egitto il fine secolo ha mandato al macero un Re (fuggito) e un Presidente (assassinato).

Ma questa è la prima volta che un potente – che è per altro colui che più a lungo ha guidato un Paese arabo - finisce in un tribunale. Sotto processo, non molto tempo fa, abbiamo visto anche Saddam Hussein, ma è un caso non comparabile perché nel processo agiva fortemente la pressione Americana e l’odio interetnico nei confronti dei Sunniti.

Questo a Mubarak è il primo vero processo in cui senza alibi, senza retropensieri, senza influenze straniere, il popolo spoglia di potere il suo leader, e gliene chiede conto. Una storia araba, fatta da arabi, ma conclusasi in qualche modo in maniera non araba: il processo al Potere è una invenzione occidentale, e nasce non a caso dal secolo dei Lumi, eredità esclusiva del nostro mondo.

Insieme al monito sul Potere, il processo a Mubarak contiene dunque anche la rottura con un percorso del mondo mediorientale come l’abbiamo fin qui conosciuto. Chissà se lo avvertono i vari Gheddafi, Ahmadinejad, Saleh e, soprattutto, gli Assad impegnati proprio in queste ore a domare con il massacro le fiamme della rivolta siriana.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9055


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Sul volto i segni della fatica del Potere
Inserito da: Admin - Agosto 04, 2011, 09:56:43 am
4/8/2011 - OBAMA - L''IMMAGINE

Sul volto i segni della fatica del Potere

LUCIA ANNUNZIATA

Ha ancora una buona camminata, molto elastica, ma i capelli bianchi e le rughe ne hanno già in parte modificato la fisionomia. Anche le sue abitudini sono cambiate – non affronta più di corsa le scale e gioca più a golf che a pallacanestro. Barack Obama è diventato anche lui grande – fa 50 anni, e si vedono. Quel che colpisce però non è l’età raggiunta ma la velocità con cui l’ha raggiunta. Fino a pochi mesi fa aveva ancora l’aspetto del ragazzo, improvvisamente è diventato un uomo.

Forse capita a tutti di cedere di colpo, di varcare la soglia non con un dolce declino, ma come un incidente. Nel caso di Obama, però, il passaggio ha qualcosa di intenso, qualcosa di sentimentale – è come veder scritto sul corpo del più giovane presidente degli Stati Uniti i segni della fatica del Potere più che quelli del Tempo. E anche questa appare come una ulteriore prova della intensità con cui affronta il suo lavoro.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9058


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - I profughi siriani che spezzano il sogno turco
Inserito da: Admin - Agosto 07, 2011, 12:29:47 pm
7/8/2011

I profughi siriani che spezzano il sogno turco

LUCIA ANNUNZIATA

Negli scorsi due mesi la Turchia ha preparato ai confini con la Siria un campo di accoglienza in grado di ospitare fino a 200 mila profughi. Lavoro fatto in silenzio e senza allarmi, ma confermato da ambienti diplomatici stranieri nel Paese. Il livello e la velocità di questa preparazione è la migliore indicazione delle nere previsioni e della preoccupazione con cui anche la Turchia, Paese finora molto vicino alla Siria, segue l’avvitarsi verso l’inferno della Casa degli Assad di Damasco. La deriva siriana lambisce dunque anche il Paese più dinamico, e più differente (in quanto non arabo) del Medioriente. Il pericolo per la Turchia non è certo la destabilizzazione interna - troppo grande il suo Pil, troppo solido il suo consenso interno. Ma la fine precoce di un rinnovato sogno delle sue élite: la voglia di contare di nuovo, la non confessata ma coltivata determinazione di far rivivere un neo-Ottomanismo del terzo millennio. Era proprio all’insegna di queste aspirazioni «Ottomane» che i rapporti fra Turchia e Siria si erano fatti strettissimi, e sono rimasti tali anche dopo settimane dall’inizio della protesta contro gli Assad. La repressione della protesta in Siria ha però infine scavato un profondo solco tra le due nazioni confinanti. Nel corso di giugno, secondo la Commissione Onu per i rifugiati dal 7 a fine giugno tra i 500 e i 1500 cittadini siriani hanno attraversato in fuga gli 840 chilometri di confine tra il loro Paese e la Turchia.

Il 27 di giugno, il governo Turco ha affrontato energicamente il problema inviando le proprie truppe a limitare la zona per evitare che i profughi si diffondessero in Turchia. Contemporaneamente, secondo fonti diplomatiche straniere, i siriani hanno a loro volta dispiegato le loro truppe lungo la strada che va dalla Turchia a quel rilevante snodo commerciale che è la siriana città di Aleppo. La strada di cui si parla è la principale arteria dell’area e convoglia verso le capitali mediorientali, fino all’Iraq, il traffico di merci provenienti dall’Europa. La strada è stata messa sotto controllo dai soldati di Assad con posti di blocco fino alla zona di Deir al-Jamal, cioè a 25 chilometri dalla frontiera turca. La mossa, mirata, secondo le parole del diplomatico, «a prevenire la rivolta di Aleppo tagliando ogni legame logistico con la Turchia», la dice lunga sul livello di integrazione, e dunque possibile danno, fra i due Paesi: nella Siria del Nord è molto diffuso il servizio turco di telefonia (che viene usato dai dissidenti per diffondere informazioni sulla rivolta), e l’interscambio di merci è spinto anche da un fiorente traffico di contrabbando. Da fine giugno la situazione è drasticamente peggiorata. Dal primo Agosto la famiglia Assad ha scelto la strada della strage. E se l’Occidente sembra attaccare (un po’), la Turchia si è limitata a un modesto avvertimento. Reticenza che è segno – come sostiene il maggior esperto di sicurezza in Turchia, Gareth Jenkins, senior fellow dell’Istituto Central Asia/Caucasus - di imbarazzo, e di indecisione. Il peggiorare della crisi siriana ha del resto colto Ankara nel pieno di una sua propria crisi istituzionale non insignificante. Due settimane fa l’annoso braccio di ferro fra il governo di Erdogan e Gul e i militari, parte a sua volta di una decennale tensione fra civili e militari dentro il Paese fin dalla sua rifondazione per mano di Atatürk (un militare), è finita con le dimissioni di massa dei vertici militari. Erdogan e il Presidente Gul hanno risposto nominando due giorni fa nuovi vertici dell’esercito. La conclusione ha avuto diverse letture (rafforzamento «autoritario» del governo, o apertura democratica?) - ma di sicuro sposta il pendolo a favore dei civili. Significativo però è che il discorso di Erdogan di presentazione della nuova giunta militare abbia sottolineato i pericoli terroristi che di nuovo minacciano la Turchia. Per terrorismo qui si intende soprattutto i curdi, il cui più influente leader rimane Abdullah Ocalan (ricordate chi è e quanto costò all’Italia?) dal 1999 in isolamento sull’isola di Imrali, unico prigioniero guardato da più di mille soldati. Di recente in uno scontro a fuoco sono morti 13 soldati turchi e sette curdi. Come è noto I curdi sono divisi in quattro Stati - Turchia, Iran, Iraq, Siria. Per Ankara, dunque, ogni movimento in questi Paesi pone un grave minaccia. I militari turchi hanno sviluppato così una lunga esperienza nel chiudere con efficacia i propri confini: nella memoria di tutti c’è ancora la brutalità con cui dopo la prima guerra del Golfo, nel 1991, fermarono sparando a vista mezzo milione di iracheni (non solo curdi) che fuggivano la pulizia etnica di Saddam Hussein.

Negli Anni Novanta questi stessi militari intervennero in Siria per prendere curdi cui Damasco offriva santuario. Per la Turchia oggi, tesa a uno sviluppo democratico, economicamente forte, vogliosa di pesare, queste tattiche di «polizia» militare sarebbero un’imbarazzante regressione. Tacere sulla Siria, però, sarebbe regressione ancora maggiore. Le opzioni dunque non sono molte. Fra esperti e diplomatici si parla molto della possibilità che la Turchia decida di creare una «buffer zone» una zona cuscinetto, per contenere (più che per accogliere) i rifugiati. Tale scelta però, secondo Gareth Jenkins, potrebbe creare in molti Paesi del mondo arabo una reazione, dando un segno negativo a quella ambizione «neo-Ottomana» che finora era servita come motore per riscrivere i rapporti fra la Turchia e i suoi vicini.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9069


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Il vuoto lasciato dall'Occidente
Inserito da: Admin - Agosto 19, 2011, 11:47:19 am
19/8/2011

Il vuoto lasciato dall'Occidente

LUCIA ANNUNZIATA

Neanche questa volta accadrà nulla. Le indignate richieste di dimissioni rivolte ieri al siriano Bashar al Assad da parte degli Stati Uniti e dell’Unione Europea e da un comunicato congiunto di Cameron, Merkel e Sarkozy (e gli italiani?) non convinceranno certo il dentista di Damasco e suo fratello a lasciare. Ma almeno segnalano che i leaders occidentali, fra una pausa e l’altra delle gravissime scosse all’economia, sono consapevoli che qualcosa va fatto sulla Siria – non fosse altro perché, come dimostra la nuova fiammata terroristica esplosa su suolo israeliano proprio ieri, in Medioriente bolle una grave e nuova crisi.

La natura di questa crisi non è difficile da capire, ed è in parte l’altra faccia della luna di quella che ha afferrato tutti i nostri Paesi. Ovunque si guardi nel nostro mondo ci sono segni di strappi, quelli economici che le Borse ci sbattono in faccia tutti i giorni, il default che fa capolino alla fine di un lungo tunnel di rallentamento della crescita in Europa come in Usa; e quelli sociali, dalle rivolte inglesi al diffondersi della protesta del Tea Party in America, allo scontento italiano sotto il peso di una manovra che lacera lo stesso governo di Silvio Berlusconi. Da almeno un paio di mesi l’esercizio politico di leadership che nel bene e nel male l’Occidente ha saputo finora assicurare (sia pur in maniera sempre più flebile) appare completamente assorbito da un accelerarsi di eventi di cui non erano state previste né la natura né le dimensioni. Un Occidente ripiegato su sé stesso significa sostanzialmente il crearsi di un vuoto politico, in tutte le aree del mondo in cui è finora stato attivissimo: il Medioriente innanzitutto.

La crisi siriana che ha ormai cinque mesi e che è entrata nella sua fase acuta in questo ultimo mese di agosto coinciso con il Ramadan, ha potuto esplodere e alimentarsi proprio dentro e grazie a questa impossibilità delle grandi potenze a prendere una qualunque iniziativa. Con il rischio che da Damasco possa ripartire una nuova valanga di slittamento di un precarissimo equilibrio, quello delle rivoluzioni iniziate in primavera e non arrivate a oggi ancora a nessun approdo.

In Medioriente si vive in queste settimane una grande incertezza. Una sorta di fiato sospeso sulle molte strade che i vari Paesi possono prendere. In Egitto dietro il processo a Mubarak si confrontano forze molto diverse – musulmani, cattolici copti, liberal occidentalizzanti, spuntano nuovi partiti, si divide l’esercito - e non è chiaro come giocheranno fra loro. Nei Paesi del Golfo, l’Arabia Saudita sta guidando la difesa delle famiglie reali sunnite sotto attacco ovunque, in Bahrein, come in Kuwait. In Libano Hezbollah ha rialzato la testa, nel tentativo di intercettare e capitalizzare le varie rivolte nazionali, la maggior parte delle quali animate da popolazioni sciite. Ugualmente sta tentando di fare Hamas a Gaza. La Turchia che negli ultimi anni si è imposta come punto di riferimento regionale grazie alla sua stabilità politica e all’incredibile sviluppo economico che ha proiettato dentro tutti gli ex Paesi a dominio ottomano, è essa stessa oggi minacciata dal rapido evolversi delle varie situazioni ai suoi confini. E fuori da questo intreccio stanno a guardare due Paesi decisivi: l’Iran e Israele, che in modi diversi hanno scelto un basso profilo nei mesi scorsi in attesa di valutare gli sviluppi.

Gli Assad di Siria con il loro brutale comportamento hanno non solo violato ogni diritto umano della propria gente, ma hanno anche sferrato un pesante colpo a questa situazione sospesa. La Siria confina con la Turchia e con la Giordania, domina sul Libano, ha finora avuto ottimi rapporti con le monarchie del Golfo, e di fatto esercita per conto dell’Iran il ruolo di protettorato di ogni possibile estremismo e terrorismo nella Mezza Luna mediterranea. La sua destabilizzazione può essere di fatto, in queste condizioni, l’inizio di un nuovo conflitto mediorientale fra interessi e Paesi da sempre in frizione fra loro.

Due settimane fa è toccato così all’Arabia Saudita di uscire dal suo tradizionale silenzio diplomatico e capeggiare un fronte del Golfo contro gli Assad. La Turchia si sta muovendo sulla stessa linea. Gli ambasciatori del Golfo sono stati ritirati, minacciosi messaggi sono stati recapitati a Damasco da parte di Ankara. Le dichiarazioni occidentali di ieri si aggiungono a queste iniziative regionali.

Ma si è ancora molto lontani da una soluzione. E ben lo ha capito il terrorismo che ieri ha rimesso Israele nel mirino - il terrorismo bene sa infatti che il vuoto politico è il suo migliore alleato.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9104


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Alfano: Riforma delle pensioni per ridurre i tagli agli ...
Inserito da: Admin - Agosto 21, 2011, 11:46:46 am
Politica

21/08/2011 - CRISI. INTERVISTA

Alfano: "Riforma delle pensioni per ridurre i tagli agli enti locali"

«Faremo un ultimo tentativo per dire alla Lega che, vivendo di più, è ragionevole lavorare più a lungo. Ma ogni decisione sarà maturata insieme»

LUCIA ANNUNZIATA

Toccherà ad Angelino Alfano, alla sua prima uscita come Segretario del Pdl, avviare da domani il tentativo di mettere d’accordo un riottoso partito intorno a un piano di modifiche che renda «accettabile» la più grave manovra fatta in Italia, nella più grave crisi mondiale finora.

Battesimo di fuoco, direi. Si aspettava un inizio così difficile?
«Non mi aspettavo che questo fosse l’ambito, ma sapevo che il mio compito sarebbe stato quello di trovare un punto di convergenza».

Nostalgia da Guardasigilli?
«L’iter Giustizia era di rango altissimo, ma mi pare che il nuovo ruolo non abbia nulla da temere nella comparazione. Diciamo che la situazione è tale da confermarmi nella scelta di non fare le due cose insieme... Sa, la mia convinzione è che il corpo umano è fatto per occupare una sola sedia».

Certo l’economia non mi pare il suo forte...
«Mi permetta una battuta: non mi pare, a livello mondiale, una buona stagione per gli economisti puri... non ne hanno azzeccate molte... E poi, il mio primo incarico è stata la commissione bilancio per sette anni».

Visto che il partito che lei dovrà guidare è diviso in molte anime, vediamo subito su che mediazioni sta lavorando...
«A saldi invariati si può dire che sono possibili modifiche. Su tre proposte in particolare c’è una certa attesa. 1 i tagli agli enti locali, 2 il contributo di solidarietà connesso al quoziente familiare, 3 l’Iva».

Insomma, nella discussione peseranno molto gli amministratori e i cattolici, dentro e fuori, penso all’Udc, cui darete soddisfazione accettando il correttivo del quoziente familiare per bilanciare il contributo di solidarietà.
«La famiglia è un tema centrale, tutelando la famiglia possiamo rendere ancor più equa la manovra».

L’Iva invece ha coalizzato un fronte molto battagliero, penso a Crosetto. Proposte? «C’è un grande dibattito in verità: se l’Iva consenta davvero di ammorbidire i tagli senza far contrarre i consumi, su se, insomma, valga davvero la pena. Ma c’è anche una questione di identità della manovra che deve, ahinoi, essere un mix di tagli e tasse e la Iva è di sicuro una tassa. Su questo tema bisognerà essere concreti e poco ideologici».

E la difesa ad oltranza delle pensioni da parte della Lega come la affronterete?
«Questo è un evidente nodo politico, ma siccome non si può fare una crisi di governo, faremo un ultimo tentativo per dire alla Lega che è ragionevole che vivendo più a lungo si vada in pensione più tardi e ciò senza mai toccare i diritti acquisiti di chi la pensione ce l’ha già. Fermo restando che è chiaro che ogni decisione sarà maturata insieme. Gli amici della Lega spero colgano che la riduzione dei tagli agli enti locali può essere bilanciata da un intervento sulla riforma delle pensioni».

Luca di Montezemolo è sceso in campo con la proposta di una patrimoniale sui grandi capitali, a partire dal proprio. Perché non è una idea accettabile?
«A noi del Pdl le nuove tasse procurano l’orticaria e la patrimoniale è particolarmente odiosa perché incide su beni che già sono stati tassati anche più di una volta».

Non trova che Montezemolo ponendosi come supericco «buono» muove un attacco molto insidioso alla immagine stessa di Berlusconi?
«E perché? Il presidente Berlusconi difende un principio liberale e sacrosanto di tutela dei cittadini dalla vessazione fiscale. E una deroga al principio gliela sta imponendo solo la crisi mondiale».

C’è una certa convergenza anche sulle dismissioni di immobili dello Stato.
«Sì, ma nella consapevolezza che non si tratta di un intervento strutturale, ma di una una tantum».

La discussione sulla manovra ha sottolineato, come si vede, le molte anime del partito. A quali si sente più vicino il nuovo Segretario?
«Sono di estrazione cattolica, ma non ho mai creduto nella rinascita della Dc. Credo nei cattolici che non diventano clericali e nei laici che non si sentono obbligati a esternazioni contro i cattolici. Non possiamo permetterci come partito di essere una caserma, ma tra caos e caserma ci può essere una comunità».

Questo vuol dire che le differenze culturali possono continuare a vivere come una sorta di ufficializzazione delle correnti, quella di Martino, o Scajola, per fare esempi. «I nomi che lei fa sono già indicativi: se a quei due nomi aggiunge il mio, lei descrive tre generazioni di Forza Italia – la Tessera numero due (Martino), l’uomo che affiancò Berlusconi nella Traversata nel deserto (Scajola) e io...».

Risposta molto elegante per dire che sono vecchi?
«Assolutamente no. È per dire che è stata abilità di Berlusconi governare tutto questo e oggi sarà, in parte, anche mio compito».

Vedo che lei evoca di continuo Berlusconi in questa nostra chiacchierata come entità di fatto ormai metapolitica. Cosa rappresenta per lei, un padre?
«Ho con lui un rapporto di vero e profondo affetto e stima. Qualcosa di vero che è parte del mio essere. Ognuno di noi nella vita deve qualcosa a qualcuno e nessuno si può sottrarre a questa regola. Nel mio caso, il qualcuno è Berlusconi cui devo ben più di qualcosa».

Qualche errore di fondo di Berlusconi però dovrà ammetterlo, se non altro, mi pare ovvio il fallimento del Partito Carismatico, grande sogno dell’attuale Premier. «Ammetto che il passaggio da un partito carismatico in mano a coordinatori che erano frutto del 70+30 (le quote di accordo fra componenti, nda) a un segretario è stato possibile perché il Titolare del Carisma ha favorito questo processo. Il Carisma rimane in mano a lui».

Di fronte a lei ci saranno due ex alleati, Casini e Fini: che intenzioni ha nei loro confronti?
«Intanto, io distinguo nettamente i due. Casini è arrivato da solo in Parlamento, trovandosi i suoi voti e ha sempre avuto una strategia. Non ha mai risparmiato critiche anche urticanti al capo del Governo, ma non le ha mai caricate di acrimonia. Quando penso invece a Fini mi viene sempre in mente una vignetta di Giannelli in cui Fini diceva “quando Berlusconi tace non so come contraddirlo”. Questo penso di lui: che è un leader che si è caratterizzato soprattutto per la sua azione contro Berlusconi. Però... cosa vuole che le dica... nella vita mai dire mai. Il Terzo Polo ha una sua articolazione e vedremo, ma noi non possiamo non tenere conto del rapporto, dei sentimenti anche, che ciascuno ha nei confronti del Premier».

Finora abbiamo parlato tenendo conto che la manovra sia sufficiente e che il governo continui. Ma nel caso in cui i mercati continuino a non gradire, sull’orlo del precipizio, insomma, potrebbe ancora essere necessario un governo tecnico?
«I Governi tecnici sono una ipocrisia. Si sa come funzionano: viene chiamata una grande personalità, come si dice, che impone un salasso di nuove tasse; tanto poi non si ripresenta al giudizio del voto. Noi invece dobbiamo sempre accettare le regole degli elettori».

Ma c’è almeno un piano b (come lettera dell’alfabeto non come Berlusconi), in caso di disastro? Si parla ad esempio di una sostituzione di Tremonti con una personalità che rassicuri di più i mercati?
«Non esiste questo scenario. A Tremonti va dato atto di aver lavorato bene muovendosi fra paletti molto stretti. E in ogni caso non si cambia un giocatore, peraltro eccellente, all’ottantesimo della partita...».

Berlusconi soffre molto nel vedere Sarkozy e Merkel prendersi la guida di fatto dell’Europa impartendo consigli e istruzioni a destra e a manca?
«Non ne abbiamo parlato, ma non credo proprio. E non credo che una Europa a 27 possa essere guidata da 2».

Ora che non è più Ministro della Giustizia, può dirci se pensa che i giudici abbiano manovrato politicamente le ultime inchieste contro il Governo?
«Sarebbe un buon metodo vedere fra qualche anno quali di questi processi sono andati avanti, e quali condanne per quali accuse sono state comminate. Vedrà che negli anni ci sarà uno spegnimento progressivo di quelli che ora appaiono grandi casi, come la P3 e la P4».

L’inchiesta sul Pd a Sesto S. Giovanni non dimostra però che i giudici agiscono a 360 gradi?
«La inchiesta sul Pd sconfigge la pretesa del Pd di essere geneticamente diversi, cui non avevamo mai creduto».

Un rimpianto per qualcosa non fatto da Guardasigilli?
«Che in parlamento non si sia trovato un equilibrio fra diritto alla privacy, diritto di cronaca, efficacia delle indagini in merito alle intercettazioni».

E qualcosa di più personale?
«C’è qualche amarezza personale, sicuro, ma un uomo pubblico non le deve confessare in un’intervista. Su questo invoco il latino “Ubi commoda Ibi incommoda”».

Che potremmo tradurre con un po’ di licenza: «Chi gode di un vantaggio deve saperne accettare anche gli svantaggi» - che è poi anche una efficacissima sintesi per descrivere la mirabolante carriera di questo giovane politico. Almeno, fin qui.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/416373/


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Ma la crisi indebolisce i vincitori
Inserito da: Admin - Agosto 27, 2011, 04:06:57 pm
25/8/2011

Ma la crisi indebolisce i vincitori

LUCIA ANNUNZIATA

La vittoria della Nato e dei ribelli in Libia è molto più fragile di quel che le celebrazioni facciano immaginare in queste ore. La battaglia per la Libia comincia in effetti ora - come ben sanno tutti coloro che vi hanno messo anche solo un dito e sono tanti, emigrati, governi, Nato, petrolieri, servizi, e faccenderi.

La prima ragione di fragilità è nel modo stesso in cui la guerra è stata combattuta: che sia stata tutta «esterna», cioè fatta dalle forze Nato, ha reso impossibile far maturare una guida politica dell’opposizione.

I leader attuali sono, infatti, come si vede dalle loro biografie, un’accozzaglia di vecchie volpi e nuove aspiranti volpi, segnati tutti da opportunismi di vecchia conoscenza, e manovrati dalle varie nazioni occidentali, ognuna delle quali si è scelta il suo «protagonista» di riferimento. Per molti versi si riproduce lo stesso schema della conquista di Baghdad: una relativamente facile vittoria militare «esterna» e un vuoto di classe politica dentro il Paese che ancora, ad anni di distanza, non si è riempito. Il parallelo fra Tripoli e Baghdad non è, ovviamente, perfetto - la caduta di Gheddafi, a paragone di quella irachena, è stata certamente meno drammatica dell’invasione diretta di truppe straniere vista in Iraq, ha ramificazioni politiche minori perché minore è l’influenza della Libia nel suo contesto, di quella che aveva Baghdad fra Arabia Saudita e Iran, ma non è un caso che in queste ore negli ambienti politici internazionali si senta ripetere la frase «evitare gli errori del dopo-Saddam». Dobbiamo aspettarci anche a Tripoli, dunque, una transizione lunga e senza esclusione di colpi di testa, e colpi di Stato.

La seconda ragione per cui non si può immaginare un immediato, brillante futuro per la nazione oggi in festa è il contesto in cui questo cambio di regime è avvenuto. C’è infatti una profonda debolezza di sistema intorno alla Libia. Sull’incertezza nordafricana sappiamo tutto, ed è ovvio che dove e come andranno a finire le rivoluzioni arabe, a partire dai confinanti Egitto e Tunisia, avrà effetti profondi anche sul destino libico.

Meno invece si discute della debolezza anche del sistema occidentale, che ha promosso la guerra contro Gheddafi. La caduta del dittatore tripolino è un’indubbia vittoria nell’immediato della Nato, del presidente Obama e di quei leader europei, come i francesi,che più l’hanno cavalcata. Ma va notato anche che nei brevi sei mesi della durata del conflitto questi Paesi non sono più gli stessi. L’elemento forte di novità che agirà nel dopo Gheddafi è che la Nato che ha raggiunto la vittoria non è la stessa entità che ha avviato la guerra. La crisi economica che scuote le nostre nazioni non è un fenomeno occasionale e l’esposizione della debolezza del nostro sistema economico sta indebolendo anche la forza politica, la capacità di gestione dei progetti internazionali avviati. Pomposamente questa tendenza si chiama «declino» della potenza occidentale, ma nel risvolto pratico ha aspetti piuttosto semplici da osservare. Tanto per fare un esempio, basti pensare che in Libia già prima della guerra operava una nutritissima presenza cinese (circa 23 mila se ne sono contati all’evacuazione), turca (altri ventimila) e di varie altre nazioni non occidentali. La Libia è da tempo, infatti, e non solo per noi europei, la porta sull’Africa; quell’Africa che negli ultimi anni è già diventata il playground dell’espansione delle potenze emergenti. L’interesse di questi Paesi non diminuisce né viene escluso dalla vittoria Nato – ne è semmai acuito. Il punto è se un’Europa con una crescita in affanno, con spese militari destinate a (quasi) azzerarsi, e Stati Uniti in condizioni di incertezza politica interna come mai prima, saranno in grado di portare a termine in Libia quello che avevano cominciato solo sei mesi fa.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9125


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Alfano: "Riforma delle pensioni per ridurre i tagli agli ...
Inserito da: Admin - Agosto 28, 2011, 10:10:13 am
Politica

21/08/2011 - CRISI. INTERVISTA

Alfano: "Riforma delle pensioni per ridurre i tagli agli enti locali"

«Faremo un ultimo tentativo per dire alla Lega che, vivendo di più, è ragionevole lavorare più a lungo.

Ma ogni decisione sarà maturata insieme»

LUCIA ANNUNZIATA

Toccherà ad Angelino Alfano, alla sua prima uscita come Segretario del Pdl, avviare da domani il tentativo di mettere d’accordo un riottoso partito intorno a un piano di modifiche che renda «accettabile» la più grave manovra fatta in Italia, nella più grave crisi mondiale finora.

Battesimo di fuoco, direi. Si aspettava un inizio così difficile?
«Non mi aspettavo che questo fosse l’ambito, ma sapevo che il mio compito sarebbe stato quello di trovare un punto di convergenza».

Nostalgia da Guardasigilli?
«L’iter Giustizia era di rango altissimo, ma mi pare che il nuovo ruolo non abbia nulla da temere nella comparazione. Diciamo che la situazione è tale da confermarmi nella scelta di non fare le due cose insieme... Sa, la mia convinzione è che il corpo umano è fatto per occupare una sola sedia».

Certo l’economia non mi pare il suo forte...
«Mi permetta una battuta: non mi pare, a livello mondiale, una buona stagione per gli economisti puri... non ne hanno azzeccate molte... E poi, il mio primo incarico è stata la commissione bilancio per sette anni».

Visto che il partito che lei dovrà guidare è diviso in molte anime, vediamo subito su che mediazioni sta lavorando...
«A saldi invariati si può dire che sono possibili modifiche. Su tre proposte in particolare c’è una certa attesa. 1 i tagli agli enti locali, 2 il contributo di solidarietà connesso al quoziente familiare, 3 l’Iva».

Insomma, nella discussione peseranno molto gli amministratori e i cattolici, dentro e fuori, penso all’Udc, cui darete soddisfazione accettando il correttivo del quoziente familiare per bilanciare il contributo di solidarietà.
«La famiglia è un tema centrale, tutelando la famiglia possiamo rendere ancor più equa la manovra».

L’Iva invece ha coalizzato un fronte molto battagliero, penso a Crosetto. Proposte? «C’è un grande dibattito in verità: se l’Iva consenta davvero di ammorbidire i tagli senza far contrarre i consumi, su se, insomma, valga davvero la pena. Ma c’è anche una questione di identità della manovra che deve, ahinoi, essere un mix di tagli e tasse e la Iva è di sicuro una tassa. Su questo tema bisognerà essere concreti e poco ideologici».

E la difesa ad oltranza delle pensioni da parte della Lega come la affronterete?
«Questo è un evidente nodo politico, ma siccome non si può fare una crisi di governo, faremo un ultimo tentativo per dire alla Lega che è ragionevole che vivendo più a lungo si vada in pensione più tardi e ciò senza mai toccare i diritti acquisiti di chi la pensione ce l’ha già. Fermo restando che è chiaro che ogni decisione sarà maturata insieme. Gli amici della Lega spero colgano che la riduzione dei tagli agli enti locali può essere bilanciata da un intervento sulla riforma delle pensioni».

Luca di Montezemolo è sceso in campo con la proposta di una patrimoniale sui grandi capitali, a partire dal proprio. Perché non è una idea accettabile?
«A noi del Pdl le nuove tasse procurano l’orticaria e la patrimoniale è particolarmente odiosa perché incide su beni che già sono stati tassati anche più di una volta».

Non trova che Montezemolo ponendosi come supericco «buono» muove un attacco molto insidioso alla immagine stessa di Berlusconi?
«E perché? Il presidente Berlusconi difende un principio liberale e sacrosanto di tutela dei cittadini dalla vessazione fiscale. E una deroga al principio gliela sta imponendo solo la crisi mondiale».

C’è una certa convergenza anche sulle dismissioni di immobili dello Stato.
«Sì, ma nella consapevolezza che non si tratta di un intervento strutturale, ma di una una tantum».

La discussione sulla manovra ha sottolineato, come si vede, le molte anime del partito. A quali si sente più vicino il nuovo Segretario?
«Sono di estrazione cattolica, ma non ho mai creduto nella rinascita della Dc. Credo nei cattolici che non diventano clericali e nei laici che non si sentono obbligati a esternazioni contro i cattolici. Non possiamo permetterci come partito di essere una caserma, ma tra caos e caserma ci può essere una comunità».

Questo vuol dire che le differenze culturali possono continuare a vivere come una sorta di ufficializzazione delle correnti, quella di Martino, o Scajola, per fare esempi. «I nomi che lei fa sono già indicativi: se a quei due nomi aggiunge il mio, lei descrive tre generazioni di Forza Italia – la Tessera numero due (Martino), l’uomo che affiancò Berlusconi nella Traversata nel deserto (Scajola) e io...».

Risposta molto elegante per dire che sono vecchi?
«Assolutamente no. È per dire che è stata abilità di Berlusconi governare tutto questo e oggi sarà, in parte, anche mio compito».

Vedo che lei evoca di continuo Berlusconi in questa nostra chiacchierata come entità di fatto ormai metapolitica. Cosa rappresenta per lei, un padre?
«Ho con lui un rapporto di vero e profondo affetto e stima. Qualcosa di vero che è parte del mio essere. Ognuno di noi nella vita deve qualcosa a qualcuno e nessuno si può sottrarre a questa regola. Nel mio caso, il qualcuno è Berlusconi cui devo ben più di qualcosa».

Qualche errore di fondo di Berlusconi però dovrà ammetterlo, se non altro, mi pare ovvio il fallimento del Partito Carismatico, grande sogno dell’attuale Premier. «Ammetto che il passaggio da un partito carismatico in mano a coordinatori che erano frutto del 70+30 (le quote di accordo fra componenti, nda) a un segretario è stato possibile perché il Titolare del Carisma ha favorito questo processo. Il Carisma rimane in mano a lui».

Di fronte a lei ci saranno due ex alleati, Casini e Fini: che intenzioni ha nei loro confronti?
«Intanto, io distinguo nettamente i due. Casini è arrivato da solo in Parlamento, trovandosi i suoi voti e ha sempre avuto una strategia. Non ha mai risparmiato critiche anche urticanti al capo del Governo, ma non le ha mai caricate di acrimonia. Quando penso invece a Fini mi viene sempre in mente una vignetta di Giannelli in cui Fini diceva “quando Berlusconi tace non so come contraddirlo”. Questo penso di lui: che è un leader che si è caratterizzato soprattutto per la sua azione contro Berlusconi. Però... cosa vuole che le dica... nella vita mai dire mai. Il Terzo Polo ha una sua articolazione e vedremo, ma noi non possiamo non tenere conto del rapporto, dei sentimenti anche, che ciascuno ha nei confronti del Premier».

Finora abbiamo parlato tenendo conto che la manovra sia sufficiente e che il governo continui. Ma nel caso in cui i mercati continuino a non gradire, sull’orlo del precipizio, insomma, potrebbe ancora essere necessario un governo tecnico?
«I Governi tecnici sono una ipocrisia. Si sa come funzionano: viene chiamata una grande personalità, come si dice, che impone un salasso di nuove tasse; tanto poi non si ripresenta al giudizio del voto. Noi invece dobbiamo sempre accettare le regole degli elettori».

Ma c’è almeno un piano b (come lettera dell’alfabeto non come Berlusconi), in caso di disastro? Si parla ad esempio di una sostituzione di Tremonti con una personalità che rassicuri di più i mercati?
«Non esiste questo scenario. A Tremonti va dato atto di aver lavorato bene muovendosi fra paletti molto stretti. E in ogni caso non si cambia un giocatore, peraltro eccellente, all’ottantesimo della partita...».

Berlusconi soffre molto nel vedere Sarkozy e Merkel prendersi la guida di fatto dell’Europa impartendo consigli e istruzioni a destra e a manca?
«Non ne abbiamo parlato, ma non credo proprio. E non credo che una Europa a 27 possa essere guidata da 2».

Ora che non è più Ministro della Giustizia, può dirci se pensa che i giudici abbiano manovrato politicamente le ultime inchieste contro il Governo?
«Sarebbe un buon metodo vedere fra qualche anno quali di questi processi sono andati avanti, e quali condanne per quali accuse sono state comminate. Vedrà che negli anni ci sarà uno spegnimento progressivo di quelli che ora appaiono grandi casi, come la P3 e la P4».

L’inchiesta sul Pd a Sesto S. Giovanni non dimostra però che i giudici agiscono a 360 gradi?
«La inchiesta sul Pd sconfigge la pretesa del Pd di essere geneticamente diversi, cui non avevamo mai creduto».

Un rimpianto per qualcosa non fatto da Guardasigilli?
«Che in parlamento non si sia trovato un equilibrio fra diritto alla privacy, diritto di cronaca, efficacia delle indagini in merito alle intercettazioni».

E qualcosa di più personale?
«C’è qualche amarezza personale, sicuro, ma un uomo pubblico non le deve confessare in un’intervista. Su questo invoco il latino “Ubi commoda Ibi incommoda”».

Che potremmo tradurre con un po’ di licenza: «Chi gode di un vantaggio deve saperne accettare anche gli svantaggi» - che è poi anche una efficacissima sintesi per descrivere la mirabolante carriera di questo giovane politico. Almeno, fin qui.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/416373/


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - La vita come un colossal di Hollywood
Inserito da: Admin - Agosto 28, 2011, 05:02:45 pm
28/8/2011

La vita come un colossal di Hollywood

LUCIA ANNUNZIATA

L’impressione è che siccome gli Americani devono essere primi in tutto, abbiano deciso di anticipare anche il calendario Maya, battendo di un anno la fine del mondo, altrimenti prevista dall’antico ciclo degli dei latinoamericani e dai moderni stregoni di Hollywood per il «2012» – titolo di un blockbuster cinematografico che già nel 2009, con prodezze computerizzate, dava conto della distruzione del pianeta.

La pellicola mostrava un devastante terremoto a Los Angeles, la cancellazione via mare di New York e l’esplosione della Casa Bianca, anticipatamente abitata rispetto alla data reale, da un Presidente nero. Difficile non fare riferimento al cinema, parlando della paura che attraversa la East Coast in queste ore. Arte quintessenzialmente americana, che tutto muove, tutto prepara, tutto commuove, tutto anticipa – e tutto rende finto. Ascoltando gli annunci e le conferenze stampa, le preparazioni e gli scenari, non si sa se correre a prendere un fucile (ci sarà un evento catastrofico dopo, o no? No, quello è un altro film, e riguarda un disastro nucleare) o mettere nel microonde i pop corn. Con questa tipica schizofrenia, fra realtà e fantasia, la stessa New York si è preparata infatti all’evento. Venerdì sera, ultima sera prima dell’evacuazione, la città era piena di chi si faceva un ultimo cinema, un’ultima birra e, viste le cancellazioni di chi lasciava la Grande Mela, trovava finalmente i biglietti per il musical «The Book of Mormon» che a Broadway è un enorme successo (e chissà? sarà perché ben due dei candidati alle prossime elezioni sono mormoni?). Il litorale è stato popolato da surfisti in cerca dell’onda da tempesta tropicale fino all’ultimo minuto, tanto che quel bullo del governatore del New Jersey, Chris Christie, nella sua conferenza stampa ha gridato ai suoi concittadini: «E’ inconcepibile questo atteggiamento! Alzate il c… e lasciate libera quella spiaggia!».

Difficile, in verità, mantenere un senso di realtà quando nulla avviene con banalità, e in Usa, si sa, ogni cosa prende dimensioni spropositate, inclusa la concatenazione degli eventi. Quante volte capita che un Paese sperimenti prima un terremoto, poi mentre ancora sta rimettendo in ordine il caos provocato dal terremoto nei trasporti e nei servizi, arrivi tra capo e collo un uragano tropicale per cui bisogna «evacuare» qualcosa come un milione di persone, e badare alle ricadute del maltempo su vari milioni di cittadini?

Lo scenario peggiore
Un infernale girone di sfortune, non c’è dubbio, coincidente quasi perfettamente con il decimo anniversario dell’attentato dell’11 settembre 2001, punteggiato da infernali dubbi sull’economia, collassi finanziari come quello del 2007, con la gente con scatoloni da evacuazione (causa licenziamento, in quel caso), e nuovi crolli di Borse, fino al grande timore del default dell’intero Stato americano. Nulla è mancato in queste ultime ore per definire il peggiore scenario: c’è stata persino l’evacuazione d’urgenza del Presidente, con tutti i rituali passaggi di corteo di limousine nere, elicotteri rombanti e corsa contro il tempo. Il Presidente – guarda la coincidenza – era in vacanza a Martha’s Vineyard, isola presa essa stessa di mira dal ciclone. Ma il senso di déjà-vu non deve farci sottovalutare la portata di quel che sta succedendo. C’è sempre molto di profondamente politico – nel senso di formazione del comportamento pubblico - in quel che succede negli Stati Uniti, e il caso dell’uragano Irene non fa differenza.

Il mito del Bene che vince il Male
Il fatto è che la Paura è un mito quintessenzialmente americano, funzione e propulsore di altri miti che costruiscono, con una serie di passaggi concatenati, la struttura stessa del discorso pubblico: la vittoria sulle forze del male, siano esse del regno politico, oppure naturali e, anche, soprannaturali. Il giovane Stato della prima rivoluzione della storia moderna nasce all’insegna della sua estrema fragilità. La sua affermazione avviene attraverso la dialettica continua fra una minaccia e il superamento di questa minaccia. Il pericolo sono gli indiani per i primi coloni, poi gli inglesi per i primi ambiziosi fondatori, poi ancora la natura per gli espansionisti della Grande Frontiera, e i nazisti e i comunisti per la Grande Potenza, e via via tutti i volti presi dall’impetuoso sviluppo di un Paese che ha guidato un secolo: le possibili deviazioni della scienza, la mancanza di scrupoli delle corporazioni, il risentimento degli esclusi, l’odio interrazziale, i complotti di potere. Hollywood, che di questa società costituisce l’Io letterario, non a caso si impossessa di queste paure, e narra la rigenerazione cui il loro superamento conduce. C’è molto di politico, dunque, in queste ore recenti di paura, nella enorme preparazione al disastro incombente di cui lo Stato si è fatto protagonista: in poche ore abbiamo visto un Presidente, Barack Obama, un sindaco, Michael Bloomberg, quattro Governatori di altrettanti Stati della Costa orientale, e un infinito numero di commissari cittadini (alla sicurezza, all’energia, all’assistenza eccetera) competere per ottenere spazio alle loro conferenze stampa in diretta televisiva. L’uragano Irene ha costituito l’occasione per l’apparato statale di mostrare la sua efficienza, i suoi muscoli, e per dimostrare ai cittadini la giustezza del voto che gli avevano offerto. Quel che è più rilevante (specialmente per un europeo) è che a questi annunci è seguita una massiccia mobilitazione di uomini e mezzi che nel giro di poche ore hanno aperto rifugi, messo in sicurezza le fogne, l’energia, e tolto il pedaggio (cosa non da poco) a tutti i trasporti pubblici per non far pagare l’evacuazione alla popolazione.

L’incubo di Katrina
Preparativi che si riveleranno quasi di sicuro eccessivi. Ma in qualche modo anche questo eccesso ha una natura politica. Nella memoria della classe dirigente americana è infatti rimasto scolpito un nome: uragano Katrina. In quel caso, nel 2005, si fece poco o nulla, e quel poco, anche dopo che i venti e le acque avevano spazzato via mezza New Orleans, venne fatto in ritardo. Il Presidente George W. Bush pagò quella sottovalutazione più della guerra in Iraq. Una lezione che nessun politico, a partire dal Presidente, ha dimenticato. Anche perché combattere un uragano è infinitamente più semplice che invertire il corso di una grave crisi economica.


da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9137


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - I sogni neo-ottomani della Turchia
Inserito da: Admin - Settembre 07, 2011, 05:32:14 pm
7/9/2011 - ROTTURA CON ISRAELE

I sogni neo-ottomani della Turchia

LUCIA ANNUNZIATA

La Turchia sogna una era «neo-Ottomana», il rilancio della sua influenza sugli ampi ex confini dell’Impero della Porta.

La partita dalle rivoluzioni popolari ha riaperto il Grande Gioco mediorientale, ed Ankara ha deciso di parteciparvi sacrificando i suoi tradizionali buoni rapporti con Israele per conquistare popolarità nelle piazze arabe. Da ieri dunque abbiamo una Ankara meno «pro-occidentale» e più musulmana. Ma attenti al gioco di specchi: non è detto infatti che un ruolo forte della Turchia nella regione non sia utile, e dunque voluto e incoraggiato, anche dai Paesi occidentali.

La mossa di Erdogan non ha sorpreso nessuno. Era in preparazione da almeno un anno, e infatti, al di sotto dell’impetuoso scambio di epiteti, è stata accuratamente preparata. La dichiarazione di rottura è curiosamente precisa: «Sono sospese tutte le relazioni commerciali e militari relative all’industria della difesa. Seguiranno altre misure». La precisione (che è peraltro un tratto nazionale turco) serve a far ben capire al mondo arabo che viene tagliato il più importante cordone ombelicale fra Gerusalemme ed Ankara: la massiccia cooperazione nell’industria della difesa. Pochi vi hanno fatto attenzione ma, nei passati venti anni, Israele e la Turchia hanno costruito insieme tonnellate di equipaggiamento militare. Per l’esercito turco Israele ha adattato e migliorato i jet e i carri armati di origine americana, ed ha costruito (e appena consegnato) 10 droni, aerei senza pilota, importantissimi come aerei sorveglianza nella guerra ai curdi. La Turchia a sua volta ha assemblato nelle sue industrie buona parte dei veicoli di terra blindati, essenziali per Israele nelle molte invasioni e operazioni di sfondamento in Libano e negli ex Territori.

Un intreccio delicatissimo e senza precedenti fra un Paese musulmano e la nazione ebraica. Un legame legittimato però dal ruolo di appoggio operativo, sia politico che militare, che la Turchia ha espletato in questi ultimi 30 anni per l’Occidente nel mondo arabo. In tutte le ultime guerre mediorientali in un modo o nell’altro – ad esempio, facendo passare l’equipaggiamento delle truppe di terra dirette verso l’Iraq – ha costituito una fondamentale «spalla» per gli Stati Uniti. Ed è su questa funzione di ponte, di «mediazione» fra Oriente e Occidente, che la Turchia, Paese musulmano ma non arabo, ha costruito la sua diversità nonché la sua ambizione ad entrare in Europa. Dieci anni di quasi ininterrotto sviluppo economico, e quasi altrettanti di una nuova leadership politica che ha lentamente messo all’angolo il potere dei militari, hanno legittimato queste ambizioni e ne hanno fatto uno dei successi della storia mediterranea.

Poi sono arrivate le rivolte popolari arabe e il gioco di tutti è cambiato di nuovo: l’effetto domino della caduta di vari governi, la resistenza di molti altri, la incertezza di sbocco dei vari esperimenti rivoluzionari, hanno creato in Medioriente un vuoto politico spaventoso, accentuato dalla distrazione politica dell’Occidente dovuta alla crisi economica. E il vuoto è la condizione perfetta per creare altri poteri o altre guerre. L’Iran sta facendo la sua partita, come sappiamo, attraverso molte piazze arabe. L’Arabia Saudita tradizionale nemico dell’Iran, ha deciso di rispondere attivando una alleanza delle case reali sunnite, come fronte antisciita. La crisi siriana ha poi accelerato questi protagonismi, e lo scontro per la supremazia. Per la Turchia rimanere fuori da questa sfida ora significava sperperare il vantaggio di influenza maturato in questi anni, e recedere nella sua particolarità. Si è fatta così avanti, già dall’anno scorso, mettendo in discussione, con l’aiuto alla flotta pacifista, i suoi legami con Israele. Ieri poi con la rottura ufficiale con il governo di Tel Aviv, che gli ha immediatamente procurato un grande favore popolare, ha consacrato ufficialmente la sua voglia di competere per la leadership del mondo arabo.

Dobbiamo ora temere una deriva musulmana radicale anche dei turchi? Molti diranno di sì – ma chi lo dice non conosce bene la sottigliezza della identità della Turchia, la furbizia dei suoi governanti, e l’infinito realismo ereditato da secoli di vecchio Impero. E’ molto molto probabile, dunque, che la corsa per «crescere» in Medioriente Ankara poi continuerà a giocarsela, di ritorno, come partita di scambio sui soliti tavoli dell’Occidente.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9168


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Non temete la Turchia
Inserito da: Admin - Settembre 14, 2011, 08:55:24 am
14/9/2011

Non temete la Turchia

LUCIA ANNUNZIATA

Tayyip è stato, nell’ultimo anno, il nome più popolare per i nuovi nati nella Striscia di Gaza.

Tayyp come Erdogan, primo ministro turco che si è meritato questo onore aiutando la flotta dei pacifisti a Gaza, e che ieri ha iniziato il suo tour nelle capitali della primavera araba scandendo al Cairo davanti alla Lega Araba: «Il riconoscimento di uno Stato palestinese non è una scelta, ma un obbligo». La frase, pronunciata due giorni dopo l’assalto all’ambasciata israeliana, dalla voce del premier di una nazione che per decenni è stata il miglior alleato musulmano di Israele, ha infiammato l’opinione pubblica ed ha fatto immediatamente dire che il Medioriente da oggi non sarà più lo stesso. Di sicuro l’affermazione è un’ulteriore minaccia a Israele, nonché una ulteriore complicazione per gli Stati Uniti.

Dobbiamo dunque aver paura della Turchia? Nasce un nuovo panislamismo radicale all’insegna stavolta della stella e della mezzaluna in campo rosso? Le rive del Bosforo hanno cullato la nascita di un nuovo Nasser?

A dispetto delle apparenze, la ragione e la realtà ci fanno propendere per il no.

Il viaggio di Tayyip Erdogan in «appoggio delle nuove democrazie» (si noti la scelta delle parole, così moderne comparate al vecchio vocabolario arabista) è ormai senza ombra di dubbio la mossa con cui il primo ministro lancia sulla scena internazionale l’ambizione della Turchia a guidare la regione. Sfidando ogni altro potere che già vi esercita la sua influenza - l’Arabia Saudita, l’Iran, e lo stesso Israele. Alle ancora entusiaste ma già dissanguate rivolte, l’uomo di Ankara porta una barca di aiuti economici e di contratti commerciali. Porta la forza politica e militare di una nazione di 79 milioni di abitanti con una crescita economica dell’8,9 per cento nel decennio, paragonabile solo a quella asiatica – nel 2010 con un picco del 12 per cento ha superato la Cina.

Non fa nessuna meraviglia che un tale Paese sia arrivato negli ultimi anni a sentirsi stretto nella sua vecchia pelle: «spalla» degli Stati Uniti, eterno aspirante all’Europa, alleato di Israele grazie a una enorme cooperazione delle industrie della difesa, ma anche sempre più attratto dalla sua identità musulmana e civile, dopo anni di dittature militari. Nell’ultimo anno, e dopo aver ricevuto un nuovo plebiscito elettorale nel 2010, Erdogan ha sciolto questa ambiguità, nella maniera con cui di solito si fa in Medioriente: rompendo ogni legame con Israele. Dopo l’aiuto alla flotta dei pacifisti per Gaza l’anno scorso, e il ritiro la scorsa settimana dell’ambasciatore turco da Tel Aviv, ieri, al Cairo, con le sue parole, ha deciso di appoggiare, senza se e senza ma, una spericolata mossa diplomatica che i palestinesi stanno preparando. Il 23 settembre, in occasione dell’assemblea generale, l’Olp chiederà il pieno riconoscimento come membro dell’Onu. Un passo che sarebbe di fatto un voto sulla creazione dello Stato palestinese. La mossa è destinata a creare un’enorme tensione. L’Olp infatti intende portare la richiesta non in Assemblea (dove avrebbe i due terzi) ma direttamente al Consiglio di sicurezza, dove avrà bisogno di nove voti su quindici per passare. E dove però un solo veto dei cinque membri permanenti del consiglio basta a bocciare la richiesta. I conti sono presto fatti. Dei cinque membri permanenti, Cina, Inghilterra, Russia, e Stati Uniti, è quasi certo che gli Stati Uniti porranno il veto. I palestinesi sanno di questo orientamento, e hanno intenzione di andare avanti proprio per forzare la mano in un senso o nell’altro al presidente Obama accusato oggi in Medioriente di coltivare un’ambigua politica.

Erdogan, dunque ieri, si è unito a questa politica di sfida, ponendosi lui come paladino dei palestinesi – fatto che ha sottolineato annunciando di star preparando un viaggio a Garza con il leader della Autorità palestinese Mahmoud Abbas, e la sua controparte di Hamas, Ismail Haniya.

La domanda iniziale - dobbiamo temere la Turchia? – sembra dunque molto giustificata.

Ma gli elementi di «irregolarità» che finora hanno fatto di questa nazione una eccezione nel mondo musulmano, formano un quadro molto più articolato di questa apparente radicalizzazione.

La doppia anima occidentale e orientale è difficilmente scindibile. Non sorprende dunque che lo stesso Erdogan che ha riportato la Turchia sulla strada dell’identità religiosa, ieri l’abbia così presentata al Cairo: «Lo Stato turco è uno Stato libero e secolare». Il successo economico del decennio del resto non sarebbe stato possibile senza questi valori, e senza una autentica partecipazione alla modernità occidentale. Dice qualcosa di questo Paese il fatto che Erdogan appena arrivato al Cairo abbia presentato la sua missione andando in televisione, ospite di un popolare talk politico di una attraente giornalista (non velata), Mona el-Shazly.

Va infine ricordato che i turchi sono musulmani ma non arabi. Cosa che fa una enorme differenza storica e culturale nei rapporti con l’Occidente.

Non è dunque un caso che l’aggancio all’Europa e l’alleanza con gli Stati Uniti non vengano messi in discussione, nemmeno mentre si rompe con Israele. Anzi la Turchia rimane fra i Paesi più «curati» dal Segretario di Stato Clinton perché considerato ancora oggi la vera testa di ponte, il più fidato retroterra di ogni operazione Usa in regione.

E forse la chiave per leggere le ambizioni di Erdogan è proprio questa: continuare a fare da ponte fra Oriente e Occidente, regnare sul Bosforo e la sua storia, ma senza padrinati.

Questo atletico primo ministro, amante di Ray-Ban a specchio, ex sindaco di Istanbul, ha dimostrato fin qui di saper creare cocktail politici di inusuale composizione – mischiando modernità e islamismo, laicismo e autoritarismo, forza e consenso. Non stupirebbe se riuscisse in futuro a combinare un ulteriore mix esercitando appieno la sua influenza sul mondo arabo, ma rispendendola poi anche nei suoi rapporti con l’Occidente.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9196


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Strategie di sopravvivenza
Inserito da: Admin - Settembre 26, 2011, 05:11:55 pm
26/9/2011

Strategie di sopravvivenza

LUCIA ANNUNZIATA

Le donne saudite potranno votare. Quasi come dire che gli asini potranno volare, o i cani parlare. Uno strano ma vero, che, ancora una volta, e nella più estrema delle circostanze (l’Arabia Saudita), prova che nelle società attuali la questione femminile è la cruna d’ago della politica.

Di politica, anzi di Superpolitica, si tratta infatti: il diritto delle donne saudite che finalmente viene riconosciuto è il pezzo centrale di una tela che re Abdullah sta tessendo per prevenire la protesta della primavera araba nel suo Paese, e per consolidare il fronte delle monarchie sunnite contro l’Iran. Un peso geopolitico non da poco per quel che appare come un semplice diritto civile, ma così è: concedendo ieri alle donne di votare re Abdullah ha fatto tutte queste mosse insieme.

Sapevate, intanto, che l’unica protesta della primavera araba che ha lambito il Regno è stata fatta da donne? Nella nazione dove queste donne hanno bisogno di un permesso scritto da un guardiano uomo (padre, marito, fratello o anche figlio) per lavorare, partire, o sottoporsi a interventi medici, il braccio di ferro della libertà si è concentrato sull’obiettivo di poter guidare la macchina. Una vecchia battaglia delle saudite, questa del volante libero, che però negli anni ha sempre visto le protagoniste arrestate. Come è successo ancora lo scorso mese, con l’arresto di una 32enne che aveva guidato e messo su Internet il video. Solo che negli ultimi mesi la semplicissima protesta non si è mai fermata.

Ieri l’annuncio, in cui il re in prima persona ha detto di non «voler emarginare le donne», e ha messo in chiaro che il permesso da lui dato ha l’appoggio totale dei clerici. Dunque anche i rigidissimi ulema sauditi, quei custodi della versione più rigida della tradizione conosciuta come wahabita, appaiono convinti.

Una decisione salutata nel Paese e nel resto del mondo arabo, nonché a Washington, dove abita un segretario di Stato, Hillary Clinton, notoriamente sensibile a queste cose, come un segno di cambiamento epocale.

Ma se epocale è, lo è, come si diceva, perché è un purissimo indicatore politico. Con questo gesto infatti il re procede su un percorso che ha intrapreso da mesi, nel tentativo di non essere inghiottito dalle sabbie mobili della primavera araba, all’interno e all’esterno della sua nazione.

La decisione sui diritti delle donne mirata anche a raggiungere e compiacere il mondo occidentale dove l’Arabia Saudita ha i suoi migliori alleati – gli Usa innanzitutto - è solo l’ultima di una serie di mosse. In primavera, il re ha stanziato 93 miliardi di dollari in sostegno alla occupazione e ai servizi, pensando soprattutto allo scontento della popolazione sciita, che abita la zona Est del Paese dove si trovano numerosi pozzi petroliferi.

Ancora maggiore è stato l’attivismo del regno in politica estera. L’Arabia Saudita in primavera ha inviato il suo esercito – una violazione del diritto internazionale che si è preferito non rilevare – in Bahrein, per disperdere con la forza le proteste che assediavano la monarchia locale, sunnita come quella saudita. Nella casa dei Saud ha trovato ospitalità per tre mesi il Presidente dello Yemen, Ali Abdullah Saleh, in fuga dalla sua nazione, oggi sull’orlo della guerra civile, e dove è tornato questa settimana – con una mossa cui si guarda con certa apprensione da Washington. Lo Yemen è un punto strategico per gli Stati Uniti per la profonda collaborazione stabilita negli ultimi anni fra la intelligence yemenita e la Cia nella lotta contro Al Qaeda che in Yemen ha importanti basi. In agosto, poi, re Abdullah ha rotto con la Siria, Paese alleato dell’Iran, guidando uno schieramento contro Damasco formato dalle monarchie sunnite.

Nell’insieme, dunque, l’Arabia Saudita sembra voglia mettersi alla testa di un fronte che cerca di fermare le rivoluzioni arabe nel Golfo, stringendo un patto fra sunniti per fermare la dilagante influenza iraniana che in parte queste rivoluzioni diffondono.

Ma forse il segno più sorprendente di questo attivismo saudita, è l’attivismo in sé. Il regno ha un peso internazionale enorme, per petrolio, alleanze e intrighi che sa muovere, ma ha sempre esercitato il suo ruolo secondo una strategia di segretezza, rimanendo sempre in secondo piano, preferendo la diplomazia della intermediazione a quella dei proclami. Il fatto che il re oggi si esponga, parli ai suoi sudditi, prenda decisioni clamorose, e vada in tv, è in sé l’indicazione che un cambiamento è già avvenuto: la misteriosa casa dei sauditi ha dovuto mettere la faccia sulla sua politica.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9242


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Obama archivia il buon senso
Inserito da: Admin - Ottobre 01, 2011, 03:26:48 pm
1/10/2011

Obama archivia il buon senso

LUCIA ANNUNZIATA

Il celebratissimo professore di Harvard Joseph Nye scriveva nel giugno del 2008: «L’elezione di Obama è la più determinante singola mossa per ricostituire il peso del soft power americano». Soft power, potere soffice, nelle parole di Nye che ha coniato l’espressione nel 1990 (in un articolo per Foreign Policy), è «la capacità di ottenere risultati attraverso l’attrazione piuttosto che la coercizione», ed è fondato, come dice Nye nei libri «Soft Power: The Means to Success in World Politics» (2004), e «The Powers to Lead», del 2008, «sulla emozione intellettuale, la visione e la comunicazione». Cioè su tutte le doti che sono sempre state attribuite ad Obama in abbondanza. Che dire, dunque, se proprio Obama, simbolo quasi fisico del potere soffice degli Stati Uniti, evoca, come ha fatto, questo termine in senso critico? Il Presidente parlava di economia e così ha spiegato quel 9.1 per cento di disoccupazione: «Questo è un grandissimo Paese che è diventato un po’ soffice e non ha più la stessa capacità competitiva. Dobbiamo ritornare come eravamo prima». L’elogio pare a tutti gli effetti quello della vecchia, buona, virtù degli americani di fare gioco duro per vincere.

Freudiano lapsus autocritico di un Presidente accusato ormai quasi quotidianamente anche dalla stampa amica di essere «debole»? Furbo revisionismo di fine mandato? Piuttosto, pare una amara presa d’atto dei rapporti di forza attuali nel mondo, in cui dopo tanto autoflagellarsi e interrogarsi sulla natura del proprio dominio nel mondo, gli Stati Uniti si ritrovano ad essere il vaso di coccio in mezzo ai vasi di ferro.

Nella formula «Soft Power» di Joseph Nye, elaborata negli anni di un declinante reaganismo e di una nascente rivincita democratica con Clinton, confluiscono in realtà più di trent’anni di rielaborazione «politicamente corretta» del modo di pensare a sé stessa dell’America. Imperialismo dei Diritti Umani, come utopisticamente aveva sostenuto per primo Jimmy Carter, Presidente dal 1977 al 1981, cioè nell’era che dovette confrontarsi con «gli imbarazzanti e sordidi anni» del Vietnam, con la necessità del Paese di «riguadagnare la statura morale che una volta avevamo» come lui stesso diceva. Un giovanissimo Andrew Young, allora ambasciatore alle Nazioni Unite, arrivò persino a suggerire che gli Stati Uniti rifiutassero «ogni attività militare».

Quella lunga catena di ripensamenti che prova a riscrivere l’etica pubblica americana, e che oggi sprezzantemente chiamiamo «buonismo» o «correttezza politica» – con la sufficienza di chi pensa che si tratti di eccessi dogmatici della celebrazione dei diritti individuali – ha alla sua origine proprio la crisi degli Anni Settanta dell’Impero, la scoperta dei suoi fallimenti in politica estera, e delle sue inadeguatezze in politica nazionale, svelate soprattutto dal movimento per i diritti civili.

La natura del potere non a caso è stata riportata a quella della Guerra da George Bush, ed è ritornata ad essere definita dall’influenza e dall’autorevolezza da Obama: tra le due versioni la differenza si è affermata in questi anni come una disputa quasi religiosa, sicuramente di fede, su quello che un Presidente pensa che sia la missione terrena degli Stati Uniti d’America.
Per Obama dunque anche solo evocare con sfumatura critica il termine soffice è un segnale. Di certo il mondo in cui si è trovato ad operare questo uomo nuovo è infinitamente più vecchio di quel che si sperava. All’inizio della sua presidenza si teorizzava che la semplice riapertura americana al multilateralismo, al rispetto e al contatto con tutti, avrebbe fatto il miracolo. Tre anni dopo, il multilateralismo americano – che pure c’è stato - si sta rivelando superfluo nel corso degli eventi. La crisi economica ha messo in ginocchio Usa ed Europa, che oggi accolgono con modestia la donazione (eventuale) dei Brics (i vecchi Paesi in sottosviluppo) per rimpinguare la riserva di liquidità.

La Cina che ancora oggi riceve dal Fondo Monetario fondi per progetti in aree di povertà, nel frattempo, si è impossessata delle chiavi dell’economia americana, e rivendica senza giri di parole la sua espansione anche fuori dall’Asia. La vecchia cara alleata Russia gioca al domino con il potere autoritario, con due uomini che si rimbalzano da anni l’incarico di Presidente e capo del governo. Il mondo arabo procede spedito a una sua resa dei conti con il passato, con ex potenze come la Turchia e l’Arabia Saudita che riaprono il gioco del controllo regionale. Un Presidente americano lui stesso accusato con cadenza quasi quotidiana di indecisione e debolezza rischia dunque ora di diventare anche il primo Presidente americano che prende atto che il «soft power» del suo Paese è diventato un gioco buono solo per signorine.

DA - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9265


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Madri della rivoluzione
Inserito da: Admin - Ottobre 08, 2011, 06:02:44 pm
8/10/2011



LUCIA ANNUNZIATA

Hanno vinto tre donne o, rispettivamente, il Presidente della Liberia, un’attivista dei diritti civili e una giornalista rivoluzionaria?

I premi alle donne anche quando sono importantissimi come il Nobel assegnato ieri alle tre protagoniste di cui parliamo, hanno sempre un sapore un po’ dolce-amaro. Dedicati con pompa magna all’altra metà del cielo dovrebbero essere in effetti più precisamente assegnati alle opere che alla identità sessuale. E mai come nel caso anche di questi Nobel ci ritroviamo a festeggiare tre donne africane i cui successi si innalzano molto più in alto della loro differenza.

Queste signore infatti hanno portato a termine in questi anni imprese con cui si sono misurati vanamente un numero enorme di uomini. Sarà anche perché ciascuna di loro ha raggiunto nella vita ben prima del Nobel un livello di scolarizzazione, educazione, e capacità di operare al di sopra di ogni mediocre convinzione, incluse quelle delle civiltà occidentali.

Ellen Johnson Sirleaf e Leymah Gbowee, le due liberiane, si sono confrontate non tanto con la condizione femminile, ma con le devastazioni di una guerra civile come se ne ricordano poche, se si fa eccezione per quella del Ruanda. La Liberia fondata nel 1847 prende il suo nome dagli schiavi neri americani liberati, e la capitale si chiama Monrovia in onore del Presidente James Monroe. Gli americani Liberiani, come venivano chiamati, hanno dominato la politica del Paese, sempre aiutati dagli Stati Uniti in funzione del ruolo pro-occidentale che la Liberia ha giocato in Africa e alle Nazioni Unite nel secondo dopoguerra. Aiuti che non vennero meno neppure dopo un colpo di Stato nel 1980 che diede l’avvio a ben due guerre civili, la cui eredità è di 250 mila morti e l’85 per cento della popolazione sotto il livello di povertà. Qualcuno ricorderà i nomi di due signori di queste guerre: Samuel Doe, che si elesse presidente nel 1985 dopo aver fatto il golpe, e Charles Taylor che lanciò una offensiva contro Doe nel 1989 con l’aiuto del Burkina Faso e della Costa d’Avorio. Entrambi sono diventati il prototipo della violenza militare in Africa, dell’uso dei bambini in guerra, delle violenze ripetute sulle donne, e, non ultimo, grazie a molti film e a una campagna sostenuta da grandi star, del traffico illegale dei «diamanti insanguinati», usato dal regime per autofinanziarsi. La vicenda di Taylor finì per mano di un ulteriore gruppo ribelle che nel 2003 conquistò Monrovia e spedì (col sostanziale aiuto degli Usa) il dittatore in esilio, aprendo la strada alla ennesima missione di messa in sicurezza delle Nazioni Unite, sotto la cui egida avvennero le elezioni del 2005 in cui venne eletta la attuale Presidente e ora Premio Nobel. Dov’erano Ellen Johnson Sirleaf e Leymah Gbowee mentre tutto questo accadeva e cosa hanno fatto per la Liberia? Solo dopo aver risposto a questa domanda possiamo davvero capire l’importanza del Premio svedese.

Ellen Sirleaf era dentro e fuori il suo Paese, spesso dentro e fuori un carcere, e negli Stati Uniti. Figlia del primo deputato nero di origini locali, adottata da una famiglia benestante, economista con numerose lauree inclusa quella di Harvard, alla John F. Kennedy School, ministro delle Finanze del suo Paese fino al golpe di Samuel Doe, poi fuggita a Washington dove lavora per la World Bank e più tardi in Africa per le Nazioni Unite. Nel frattempo sfidava inutilmente nel 1997 alle elezioni presidenziali Charles Taylor, e arrivava poi alla presidenza nel 2005 dopo la cacciata del dittatore. Probabilmente Sirleaf non sarebbe giunta così in alto se non ci fosse stata in Liberia un’attivista come la sua compagna di Nobel, Leymah Gbowee, una vera e propria Lisistrata nera di cui Aristofane sarebbe stato molto orgoglioso. Fu lei, 39 anni, assistente sociale, madre oggi di sei figli, a lanciare e sostenere nell’anno cruciale della fine della Guerra civile, il 2002, uno «sciopero del sesso» sostenuto dal suo gruppo delle «donne in bianco», musulmane e cristiane, che si scontrarono a più riprese con le varie bande di militari denunciando la pratica sistematica dello stupro. In un episodio famosissimo Leymah Gbowee affrontò un’assemblea di legislatori minacciando di spogliarsi nuda in pubblico, gesto di potente maledizione in West Africa.

Anche la terza donna del Nobel esercita un ruolo che va ben al di là di quello femminile: Tawakkul Karman dello Yemen ha 32 anni, tre figli ed è una giornalista che in uno dei Paesi più repressivi dell’Africa musulmana è diventata, con il suo velo rosa a fiori, l’ispirazione della protesta contro Ali Abdallah Saleh. Fondatrice dell’associazione «Giornaliste senza catene» è militante nel partito islamico e conservatore Al Islah, primo gruppo di opposizione. Arrestata a gennaio, poi rilasciata grazie alle manifestazioni a suo sostegno, ha già ottenuto il titolo di madre della rivoluzione. Il Nobel a lei è nei fatti il Nobel alle primavere arabe. Durante una delle manifestazioni a Sana’a disse queste parole: «Manterremo la dignità delle persone e il loro diritto ad abbattere ogni regime».

E’ un po’ la frase che il comitato del premio Nobel ha parafrasato nella motivazione della sua scelta. Ma va ricordato che questa moderna dichiarazione dei diritti universali può essere attribuita alle donne proprio perché oggi il loro ruolo femminile si è trasformato in metafora e pratica del bene generale.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9295


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Si apre lo spiraglio per un nuovo negoziato
Inserito da: Admin - Ottobre 19, 2011, 11:19:09 pm
19/10/2011

Si apre lo spiraglio per un nuovo negoziato

LUCIA ANNUNZIATA

I prigionieri sono pedine di una sinuosa trattativa condotta a più mani e a più livelli per risistemare l’ordine mediorientale sconquassato dalle rivoluzioni della scorsa primavera. Sulle lacrime, la polvere, le feste e i ringraziamenti che hanno accompagnato il ritorno a casa di 1027 palestinesi e 1 israeliano, si proietta l’ombra di un grande disegno per isolare di nuovo l’Iran, tenere l’Egitto nelle file occidentali, fornire ad Israele una cintura di sicurezza, e, forse, riaprire il dialogo fra governo di Gerusalemme e palestinesi. Spettatori distaccati in apparenza, gli Stati Uniti sono i reali mastermind, gli autori di questa iniziativa, aiutati dall’alleato di sempre, l’Arabia Saudita.

Fra il gioco di spie nella elegante Washington e il suolo riarso di Gaza, dove è stato nascosto per 5 anni il soldato Shalit, il legame appare molto labile. Ma del tutto logico. Se solo si ha la pazienza di seguire il filo di tutte le interconnessioni di due incredibili storie.

Partiamo, come è dovuto alla cronaca di queste ore, dalle ragioni per cui dopo cinque anni è stato firmato un accordo che nell’attuale clima ha dell’incredibile, a partire dalla asimmetria numerica: un uomo contro 1027 equivale, secondo qualche calcolo, a un palestinese ogni settanta grammi di Shalit.

Più che di asimmetria si tratta in effetti di differenti condizioni di forza: la prima delle quali è il fatto che i palestinesi hanno in prigione 5800 uomini processati e condannati, cui vanno aggiunti le migliaia che vengono detenuti e rilasciati dopo un certo tempo dopo gli scontri. Una cifra che secondo alcune organizzazioni umanitarie tocca le diecimila unità, di cui 300 in carcere da prima degli accordi di Oslo del 1993. La liberazione di queste persone è uno dei primi obiettivi da sempre di tutte le organizzazioni politiche palestinesi ed ha senso solo se contata nell’ordine delle migliaia.

Per Israele d’altra parte la tradizione di non lasciare nessun uomo abbandonato, nemmeno quando è morto, è più forte persino di quella del «No man left behind» che ispira le forze Usa. L’esercito israeliano è il popolo stesso, è il simbolo e l’istituzione della capacità dei figli di Israele di non essere più indifesi. La liberazione dei propri uomini, il recupero degli ostaggi, è diventato negli anni una vera e propria specialità militare di Israele - vale per tutte l’operazione Entebbe, la prima e più spettacolare di questi recuperi, durante la quale le forze di Gerusalemme nel giugno del 1976 liberarono 248 passeggeri di un aereo Air France dirottato dai paestinesi in Uganda. Quell’operazione era guidata - e il dettaglio è significativo anche per capire gli umori di Israele oggi - dal Jonatan Netanyhau, fratello maggiore dell'attuale premier che ha firmato lo scambio di prigionieri. L’opzione militare è sempre stata la prioritaria per Israele, innanzitutto per dimostrare la propria superiorità di forze, ma anche per ragioni di sicurezza. Il rilascio di attivisti palestinesi, molti dei quali coinvolti in attacchi terroristici sanguinosi, è sempre stato un rischio: secondo gli studi dell'Intelligence del Paese, che ha monitorato tutti i palestinesi rilasciati, il 60 per cento di loro è tornato alla sua attività terroristica. Per queste ragioni le famiglie delle vittime israeliane sono state contrarie anche stavolta allo scambio di prigionieri.

Aver accettato questo accordo è stato dunque un passo non facile per il governo di Gerusalemme, anche se appoggiato dal 79 per cento dei cittadini. Come mai l’ha fatto? La risposta è facile: le opzioni militari non erano più possibili, e non lo erano perché' Israele è in una posizione di forte fragilità politica.

Le primavere arabe hanno rotto il cerchio di accordi che negli anni l’hanno protetta. Saltato il patto con l'Egitto, con la Siria degli Assad, e persino con la Turchia, con un profilarsi all'orizzonte di una rinascita dell’influenza iraniana: la maggior parte delle rivoluzioni arabe e' infatti portata avanti da popolazioni a maggioranza sciita.

E Hamas - che nemmeno riconosce Israele - perché ha a sua volta accettato questo scambio di prigionieri? Il felice (in questo caso) paradosso è: per le stesse ragioni per cui lo ha accettato Israele. Anche Hamas, che pure insieme ad Hezbollah in Libano è la sponda mediterranea dell’Iran, è stata indebolita dalle rivoluzioni arabe.

La Siria che è il santuario logistico dell’organizzazione, che ha a Damasco il suo quartier generale, è diventata, in questa rivolta, sospettosa di ogni radicalismo islamico incluso quello di Hamas. La lunga rivoluzione egiziana ha spezzato per lunghi mesi il legame organico fra il vecchio governo di Mubarak e Gaza, per il quale l’Egitto è un importante retroterra logistico. La rivolta popolare ha inoltre spaventato la dirigenza palestinese, timorosa di vedere il virus della ribellione attaccare anche la sua piccola Striscia di terra. Negli ultimi mesi Hamas ha vissuto un progressivo isolamento: il mancato arrivo di aiuti ha peraltro impedito il pagamento degli stipendi da cui dipende l’intera economia della zona.

In questo cuneo di disagio di entrambi i nemici si è infilata l’iniziativa che ha portato allo scambio. Vero o falso (come credono anche molti ammiratori degli Usa) il complotto dell’Iran porta tutti i segni di una controffensiva preparata a tavolino. L’attacco, molto opportunamente, avrebbe dovuto essere contro un ambasciatore saudita - e l’Arabia Saudita da mesi è a capo di una riscossa antiiraniana in regione. Un'altra indicazione è il ruolo avuto dagli egiziani nella trattativa sui prigionieri: è evidente che i militari tornati al potere al Cairo hanno con questa trattativa dato prova di lealtà ai vecchi patti di alleanza con Usa ed Israele. Infine, il consenso strappato ad Hamas è prova che l’organizzazione si è staccata dalla Siria e dall’Iran.

Il circolo è molto ampio, ma si chiude perfettamente. Ieri è stata una buona giornata per il Medioriente in tutti i sensi. Molte famiglie hanno festeggiato, Israele ha riavuto il suo soldato e i suoi vecchi alleati. Ed Hamas ha portato ai suoi palestinesi l’indubbio successo politico di una liberazione di massa, e la riapertura della viabilità politica e logistica con l’Egitto. Incassano anche Usa e Arabia Saudita: tornano protagonisti e con la giravolta di Hamas tagliano un po’ di unghie a Teheran.

Da questo successo si intravede ora uno spiraglio per nuove negoziazioni fra Israele e palestinesi. Un passaggio che, dopo le incertezze delle rivolte popolari e la guerra in Libia, sarebbe un ottimo regalo al mondo. Nonché alla campagna presidenziale Usa che sta per iniziare.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9336


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Ma il vero scontro avverrà all'Onu
Inserito da: Admin - Novembre 01, 2011, 11:47:25 am
1/11/2011

Ma il vero scontro avverrà all'Onu

LUCIA ANNUNZIATA

Mettiamoci d’accordo. Se i palestinesi si armano, tutti gridano che la violenza è un ostacolo alla pace. Se i palestinesi provano a forzare la via diplomatica, come hanno fatto ieri, tutti gridano che queste iniziative «unilaterali» sono un ostacolo alla pace. Ci piacerebbe allora sapere - in particolare da Israele, Stati Uniti, e Italia - esattamente cosa dovrebbero fare i palestinesi, a parte svanire quietamente tra le nuvole, come in «Miracolo a Milano».

Ieri la Palestina è stata ammessa all’Unesco. Vecchia storia - ogni anno i palestinesi regolarmente chiedono di essere ammessi -, nuovo risultato: 107 contro 14, con 52 astenuti.

L’approvazione è arrivata, grazie soprattutto al consenso del nuovo fronte che guida lo sviluppo mondiale, i Paesi Brics, Brasile, India, i Paesi africani, arabi, la Cina, la Russia e qualche Paese europeo rilevante come la Francia e il Belgio. Contro hanno votato Usa, Israele, Germania, Canada, Australia, Olanda. L’Europa si è divisa, come si vede, esprimendo anche una buona parte di prudenti che si sono astenuti, fra cui Italia e Inghilterra, Polonia, Portogallo, Ucraina, Danimarca, Svizzera. Un voto insomma che insegue i profili del multilateralismo in cui nuotiamo, e che, non a caso, ne ha svelato tutte le venature. Usa e Israele hanno reagito con forza, I primi annunciando che taglieranno ora i loro fondi all'Unesco (il 22 per cento dei 634 milioni di dollari annuali), il secondo parlando di «tragedia».

Reazioni francamente esagerate se si trattasse solo dell’entrata in questa organizzazione culturale che difende tra l’altro i siti patrimonio dell’umanità, cui i palestinesi contribuiscono con Betlemme e il curioso e fangoso Mar Morto. La relazione fra Washington e Unesco è in effetti tormentata da molto tempo - il presidente Ronald Reagan nel 1984 decise di boicottare l’organizzazione, da lui accusata di sentimenti anti-israeliani e antioccidentali, e il rientro è avvenuto solo nel 2003, grazie a George Bush.

Ma l’irritazione di ieri ha a che fare con il senso che il voto è stato un’anticipazione, una sorta di frecciata arrivata a segno, del vero scontro che avverrà fra poco: a novembre infatti l’Onu dovrebbe esprimersi sulla richiesta della Palestina di essere ammessa come Stato membro. Se l’ammissione passasse, magari proprio grazie al fronte creatosi ieri all’Unesco, significherebbe il riconoscimento di fatto dello Stato palestinese, aggirando il consenso di Israele, e dunque anche di Washington.
Ma davvero questa strategia palestinese è così dannosa?

Le puntate precedenti all’origine di questo dubbio vanno forse richiamate qui, per chiarezza. I palestinesi sono divisi in due entità, sia territoriali che politiche, almeno dal 2003. Oggi il West Bank, cioè la ex Cisgiordania occupata, è guidata da Fatah, l’ex organizzazione di Arafat, maggioritaria nella Pla, Palestinian National Authority, il governo ad interim, il cui presidente è Abu Mazen, nomignolo di Mahmoud Abbas, e il primo ministro è Salam Fayyad, economista, con una carriera nel Fondo Monetario. Gaza è invece controllata, dopo le elezioni del 2007, da Hamas, che ha vinto quelle elezioni. Fra le due entità non c'è oggi quasi nessuna relazione - anzi scorre tale cattivo sangue da aver dato origine a una guerra segreta - così come diverse sono le posizioni politiche. Nel West Bank il primo ministro è concentrato da tre anni nella costruzione di istituzioni locali, con una propria economia, aiuti internazionali, e relazioni estere, nell’ipotesi di dimostrare e far pesare la maturità raggiunta dalla Palestina. Hamas invece, alleato di Iran ed Hezbollah, non riconosce nemmeno Israele, figuriamoci aprire tavoli di pace.

Non che le differenze abbiano alla fine avuto molta rilevanza nel rapporto con Israele. I colloqui di pace guidati dal Quartetto (Usa, Unione Europea, Russia e Onu) con inviato Tony Blair, e rilanciati da Obama, hanno preso la solita ferrovia morta, e giacciono lì - colloqui per preparare altri colloqui - da un paio di anni.

Le strategie dei due settori di palestinesi si sono nel frattempo distinte ancora di più dopo la primavera araba: mentre Hamas stringeva i suoi rapporti con l’estremismo, i vecchi (anche in senso di età) leader di Fatah hanno avuto un’idea coerente con quella dello Stato de facto: chiedere, appunto, l’ammissione all’Onu come membro.
In questa situazione si capisce bene la reazione di Usa e Israele, ma ugualmente ci rimane incomprensibile.

E’ vero che uno Stato palestinese dovrebbe nascere da una negoziazione con Israele, come sostiene Washington. Ma se i negoziati da decenni non vanno da nessuna parte, cosa debbono fare i palestinesi, che, fra i due popoli, ricordiamolo, sono quelli che lo Stato non ce l’hanno? L’ammissione all’Unesco, e all’Onu, forzare insomma la mano alla diplomazia, è davvero un ostacolo alla pace, una «minaccia», come si è detto ieri, alla stregua di un’aggressione armata o di un atto di terrorismo?

La verità è che dal West Bank sta nascendo una abile e nuova strategia che lavora nel cuore delle istituzioni internazionali, lavora sui nuovi equilibri e umori mondiali. E Stati Uniti e Israele farebbero bene a riconoscerne l’intelligenza, e a misurarvisi con altrettanta.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9385


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Quei dubbi sul ruolo dell'Europa
Inserito da: Admin - Dicembre 20, 2011, 07:34:43 pm
20/12/2011

Quei dubbi sul ruolo dell'Europa

LUCIA ANNUNZIATA

Quanto pronta è la classe dirigente del Paese ad accettare l’attuale governo Monti? Pronta, ma non senza qualche seria riserva. Con un po’ di immaginazione, e una certa forzatura, potrebbe essere letta così l’indagine sull’Europa presentata ieri a Roma nella sede della Rappresentanza Italiana della Commissione Ue, – stanze di solito vuote, riempite ieri, nel giusto segno dei tempi, da giornalisti e osservatori.

Il lavoro si intitola «L’Europa e l’agenda delle Riforme», è stato voluto dal Forum internazionale economia e società aperta, figlio della Bocconi e dal Corriere della Sera , cioè dei due luoghi seminali del governo tecnico, e si rivolge a una fascia sociale ben precisa – con un campione di cittadini fra i 18 e i 60 anni, che usano internet, cui si aggiungono i dirigenti di un centinaio di aziende. Insomma parliamo qui sicuramente di una élite ben informata e molto attiva nel mercato del lavoro.

L’arco di tempo in cui questo gruppo viene contattato è cruciale: fra il 2 e il 9 novembre, cioè dopo la lettera a Bruxelles di Berlusconi (26 ottobre) e dopo la riunione del G20 a Cannes (quel 3 e 4 novembre del risolino fra Sarkozy e Merkel) ma prima delle dimissioni di Silvio Berlusconi (11 novembre) e dell’incarico a Monti (13 novembre). La ricerca, dunque pur non essendo direttamente sull’attuale premier fornisce un quadro di cosa passava nella testa di un po’ di italiani proprio nelle ore delle scelte che hanno portato al governo dei tecnici. Le risposte, pur ampiamente a favore dell’Europa, risultano più sfumate di quel che ci si potesse aspettare.

La più importante domanda, che costituisce l’architrave del lavoro, si riferisce alla famosa lettera della Bce: «La gran parte degli italiani ha fiducia nell’Europa e nelle sue indicazioni sulle cose da fare per uscire dalla crisi attuale?». La risposta è da maggioranza assoluta: un sì dal 72 per cento dei cittadini, che cresce all’88 per cento, come c’era da aspettarsi, fra gli imprenditori. Ma se si va nello specifico le opinioni si dividono nettamente. Così il 41 per cento pensa che l’Europa ci sta aiutando concretamente a risolvere i problemi, mentre un altro 41 per cento dice che non ci sta dando alcun aiuto, e il 18 per cento dice addirittura che l’Europa è la causa stessa dei nostri problemi. Sotto la fiducia si profila così una maggioranza molto più scettica se non addirittura contrariata dalla sudditanza all’Europa.

Lo stesso accade sul tema delle riforme. La maggior parte delle proposte (che poi sono quelle fatte proprie da questo governo) trovano enorme consenso – soprattutto quelle che «liberano» la società da «lacci e lacciuoli». Per cui c’è consenso alla flessibilità del lavoro (63%), al salario legato alla produttività (69%), alla riduzione delle imposte sui redditi da lavoro delle donne, a rendere più selettivi gli accessi all’università (75%).

Ma questa generale spinta alla meritocrazia e alla trasparenza frena davanti ai due maggiori interventi di cambiamento - la riforma delle pensioni, e la patrimoniale. La prima raccoglie una netta maggioranza contraria, e la seconda trova consenso solo se inquadrata in un contesto più ampio di misure. Come definire queste risposte? Come tenere insieme affidamento e sfiducia? Timori e sospetti che le sottendono?

Nella riunione di presentazione della ricerca ieri, tutta nel segno dell’«andiamo avanti», pure i segnali di dubbio non sono stati trascurati. Emma Marcegaglia, presidente di Confindustria, ha preso atto ma ha rilanciato: «Nessun tabù sull’articolo 18. La riforma del mercato del lavoro va affrontata con molta serietà, pragmatismo e senza ideologia». Il curatore, professore Carlo Altomonte, ha segnalato che anche in Italia c’è una crescita della sfiducia nei confronti dell’Europa. Il ministro per gli Affari Europei Enzo Moavero Milanesi, si è dichiarato assolutamente convinto che l’Europa ha in sé la capacità di recuperare, «reinventandosi continuamente». Ragion per cui «l’euro non corre rischi».

Ma forse la migliore annotazione sulla complessità dei sentimenti proEuropa in Italia è stata fatta dal direttore del Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli che ha ricordato un dubbio del defunto PadoaSchioppa, ex ministro del Tesoro, uno dei padri dell’Europa: «Forse non abbiamo dato sufficiente peso a chi aveva sensibilità diverse». Un ricordo che dovrebbe avere molta eco nei difficili tempi attuali.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9567


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Casa Bianca, sfida alla delusione
Inserito da: Admin - Gennaio 01, 2012, 06:41:53 pm
31/12/2011

Casa Bianca, sfida alla delusione

LUCIA ANNUNZIATA

Da tempo la politica europea non si impegna in uno dei suoi giochi di scenario preferiti: «la lezione Americana», cioè l’esegesi in chiave atlantista del destino comune dell’Occidente. Comprensibilmente. Il concentrarsi della crisi nei confini europei sembra aver fatto recedere gli alleati Usa al ruolo di comprimari. Eppure le peripezie di Obama, eletto come uno dei Presidenti più votati della storia degli Stati Uniti e finito oggi a doversi battere per una difficile rielezione, costituiscono in effetti un racconto esemplare di come la crisi economica stia obbligando la politica a cambiare, in tutto il nostro mondo.

Il percorso del Presidente Usa ci racconta intanto che al primo impatto con una realtà pesante, inamovibile, e indiscutibile, qual è il disagio economico, si vanifica, come bolle nell’aria, tutta quella «schiuma comunicativa» di cui tanto si sono nutrite le leadership degli ultimi decenni.
Le teorie sul carisma personale, sul rapporto emotivo-emozionale fra leader ed elettori, su messaggi e community, su simboli e identificazione, si rivelano per quello che sono: materia per tempi grassi.

Quello che è accaduto a Obama nel corso di questi ultimi anni è molto più semplice di quanto lo si immagini. Sotto il vento gelido della crisi le sue doti «magiche» nel sollevare speranze, mobilitare e motivare, si sono rivelate irrilevanti. Come qualunque altro Presidente, nero o bianco, bello o brutto, innovatore o conservatore, anche lui oggi, nei tempi magri, deve rispondere a una sola domanda: che proposte hai per riportarci al benessere?
E’ successo ad Obama, è successo in Italia a Silvio Berlusconi segnatamente ma non solo, sta succedendo a Cameron come a Sarkozy – e se c’è un vantaggio che segna la Merkel è proprio quello di essere sempre rimasta sui «fondamentali» - eppure è notevole come ci si rifiuti di prenderne atto. Anni di McLuhan (mal impiegato) non hanno preparato nessun leader al peggio.

Ma la politica spogliata delle sue arti «comunicative» sta facendo giustizia anche di una serie di concetti che fin qui sono stati l’asse di ogni buon manuale di governo. Anche in questo l’esperienza di Obama ha fatto da battistrada.

La forte polarizzazione economica che la crisi spinge ha nei fatti vanificato in Usa, come sta accadendo da noi, la convinzione che vince chi conquista la classe media, identificata anche con l’area moderata. Un’idea con un saldo fondamento, dal momento che nell’ultimo mezzo secolo nessun candidato democratico ha vinto senza conquistare il 60 per cento dei voti moderati. Ma come si definisce ora una classe media in rapido impoverimento, e, di conseguenza, cosa significa moderazione?

Sono i dilemmi con cui si trova a misurarsi già da parecchio il Presidente degli Stati Uniti. Misure che all’inizio del suo mandato avrebbero tranquillamente potuto passare come atti di riequilibrio sociale - il più importante da ricordare è certo la riforma dell’assistenza medica – si sono rivelate un campo di battaglia che gli ha alienato buona parte proprio della classe media. E, per la stessa ragione, interventi che avrebbero dovuto passare come sostegno alla classe media – pensiamo qui al salvataggio di alcune grandi istituzioni finanziarie, e agli aiuti per superare la crisi della bolla edilizia – si sono rivelati un frutto avvelenato che ha ulteriormente diviso i moderati.

Pochi casi sono più rivelatori di questa nuova atmosfera del complicato rapporto che gli Usa e il suo Presidente hanno sviluppato negli anni scorsi con Wall Street. Durante la campagna «Hope and Change» del 2008 Obama raccolse più contributi dal settore finanziario di tutti i politici nella storia degli Stati Uniti. Secondo dati Reuters, Wall Street fornì ad Obama il 20 per cento dei fondi, e in cima ai donatori spiccavano nomi quali Goldman Sachs, Aig, Morgan Stanley, JP Morgan Chase, Bank of America e Citigroup.

Gli stessi nomi che ritroveremo neppure poche settimane dopo l’elezione, al centro della peggiore crisi economica mai sperimentata in anni recenti. E il cui salvataggio, proprio per mano della Casa Bianca, è rimasto avvolto da allora in una nube di dubbio, divenuta sempre più densa con il focalizzarsi dei malumori dentro il Paese contro quella stessa Wall Street identificata come origine di tutti i mali. Una parabola perfetta per capire come nonostante Obama non sia cambiato, la sua presidenza si sia in buona parte sfarinata.

Il Presidente che affronta la rielezione del 2012 è dunque un uomo che non è più alla testa della trasformazione, ma ne è, piuttosto, al traino. Non è più perfetto alfiere di nessuna causa - è anzi troppo radicale per molti e troppo poco radicale per molti altri. E il Paese che guida è nel suo insieme molto più scontento e molto più radicalizzato dei nostri. Uno Stato in cui i semi del populismo possibile venturo sono molto più sviluppati di quel che si vede oggi in Europa. Di tutti i moniti che possiamo trarre dalla vicenda di Obama, questo è forse quello a cui prestare maggiore attenzione.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9599


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - 2012, l'anno delle donne che decidono
Inserito da: Admin - Gennaio 09, 2012, 05:40:44 pm
9/1/2012 -

NUOVE LEADERSHIP

2012, l'anno delle donne che decidono

LUCIA ANNUNZIATA


Il 2011 si è chiuso su una scena minore ma emblematica del nostro futuro comune. Sull’asfalto di piazza Tahrir al Cairo un gruppo di soldati poco tempo fa si accaniva a calci sul corpo trascinato a terra di una donna che partecipava a una protesta. Noi, cittadini del tempo mediatico globale, guardavamo in diretta e con orrore al salire e scendere degli scarponi, alla nudità esposta della ragazza, al chador simbolo di pudicizia così impudicamente strappato, per altro da uomini di fede musulmana.

Ma l’incredibile per i nostri occhi era in realtà il colore del reggiseno che da tanta nudità spuntava. Un azzurro brillante, vezzoso, che rivelava il segno di una cura tutta femminile evidentemente universale, identica a se stessa, sotto un austero chador come sotto un altrettanto austero tailleur di lavoro.

Molti dei leader nazionali e internazionali per le cui mani passeranno nel 2012 decisioni che avranno rilevanza sui destini di tutti noi, sono donne. E non è un caso. Continuate a leggere, cari lettori uomini, perché qui si parla anche di voi.

L’elenco delle leader si conosce bene. Tre per tutte: Angela Merkel, cancelliera tedesca, Hillary Clinton, segretario di Stato americano, e Christine Lagarde, direttore del Fondo Monetario Internazionale. Per una volta l’Italia sembra essersi velocemente messa al passo – e non è infatti cosa da poco che in un Paese piagato dai ritardi come il nostro, oggi il più delicato dei dossier sociali, quello del lavoro, sia nelle mani di tre donne: il presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, il segretario della Cgil, Susanna Camusso, e il ministro del Welfare, Elsa Fornero.

E che portafogli molto rilevanti, come quello della Giustizia e dell’Interno, siano affidati a Paola Severino e ad Annamaria Cancellieri.

Nel 2011 sembra in effetti arrivata a pieno sviluppo un’onda lunga di riconoscimenti alla sapienza femminile, con l’ingresso generalizzato delle donne ai livelli più alti della gestione del potere. Dal premio Nobel a tre leader africane – il cui lavoro in verità è stato riduttivamente tradotto in impegno «umanitario» – all’economia, alla politica, all’editoria. In Usa ad esempio, nel 2011 si sono affermati tre nuovi editori, Tina Brown, Arianna Huffington e Oprah Winfrey. In un periodo di crisi profonda dell’informazione tradizionale, hanno rilanciato il settore, innovandolo, cambiandone il linguaggio, ma anche risanando bilanci, producendo profitti e, nel percorso, diventando anche personalmente molto ricche, cosa che non guasta.

La portata di queste eccellenze femminili è una buona indicazione del volume di pressione da cui sono state spinte in alto. Negli ultimi anni, ma nel 2011 in particolare, il protagonismo di massa delle donne ha abbracciato il globo e le culture. Con una trasversalità ben più ampia di quello femminista degli Anni Sessanta, che fu limitato ai Paesi più avanzati.

Oggi, a molti mesi dai vari accadimenti, possiamo dare un giudizio più chiaro delle rivolte che hanno scosso il mondo l’anno scorso. Si capisce oggi così che la Primavera chiamata araba, al di là dello scontento mediorientale (che sconterà sicuramente tutti i condizionamenti delle vicende specifiche di ciascun Paese), è parte di un fenomeno più generale. Ha svelato una nuova modalità politica, una richiesta di trasparenza e partecipazione individuale che rompe con la tradizionale intermediazione fra cittadini e governanti. Protesta delle nuove classi colte della globalizzazione, dei figli della tecnologia e dei diritti universali, partita non a caso dalla più repressiva (in tutti i sensi) delle culture, quella araba, eppure, altrettanto non a caso, capace di germogliare anche dentro modelli tra loro agli opposti, come quelli dei due ex imperi, la Russia e gli Usa. Formando un unico circuito che svela le somiglianze che oggi esistono sotto la pelle delle differenze, come, appunto, quel reggiseno azzurro sotto la stoffa del chador.

Il punto è che queste proteste non sarebbero quello che sono senza la partecipazione femminile che le anima. Dalle donne viene infatti la più «pesante» richiesta di eguaglianza che scalpita in questo mondo così attraversato dall’impazienza e dalle domande. Loro è la pienezza del diritto individuale: la conquista della cittadinanza piena. E loro è la maggioranza numerica. Dall’Iran alla Russia, passando per l’Europa fino agli Usa, quella che finora è stata chiamata «la metà del cielo» può ormai essere definita tranquillamente maggioranza. Nelle scuole del mondo il numero delle laureande si avvia a superare quello dei colleghi uomini, così come il numero della partecipazione politica. Cito un paio di cifre per tutte: in Usa il 58% degli studenti universitari di tutte le facoltà, scientifiche incluse, è femmina. E donne sono la maggioranza di chi va a votare, cioè il 60%.

Tutto questo significa che, al di là di ogni nozione romantica dello sviluppo di genere, le donne sono oggi il settore più in movimento dentro la globalizzazione, il fattore la cui espansione può diventare il motore effettivo non solo della ripresa ma anche di una diversa organizzazione economica.

Dietro l’influenza delle leader sta maturando, dunque, un vero e proprio nuovo paradigma del rapporto fra donne e potere. Ma questo rapporto è efficace e significativo, come abbiamo tentato di spiegare, se non è concepito solo come movimento di vertice e al vertice. Una questione di «quote rosa» o programmi speciali, per intenderci. Se i governi attuali, incluso quello italiano, affondano con coraggio le mani nel serbatoio di aspirazioni, insoddisfazione, ambizione e talento che ribollono nelle piccole mani e grandi teste delle nuove generazioni femminili.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9629


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Questa rabbia non è il Cile di Allende
Inserito da: Admin - Gennaio 25, 2012, 10:48:05 pm
25/1/2012

Questa rabbia non è il Cile di Allende

LUCIA ANNUNZIATA

Addirittura, si sta scomodando il Cile di Salvador Allende.

Audacissima citazione di vicende passate, in cui, è vero, affonda radici la mitologia che attribuisce ai camionisti un ruolo di «forza d’urto» delle rivolte sociali, ma la cui storia concreta, probabilmente dimenticata oggi nei suoi dettagli, è quanto di più lontano ci sia dalla rivolta sulle strade italiane oggi.

La prima diversità fra la ribellione in Cile e quella di oggi in Italia è nelle ragioni della lotta: i camionisti cileni si scagliarono contro le nazionalizzazioni, questi italiani lottano contro le liberalizzazioni. Un universo dunque capovolto, che giustifica dal suo impianto la forza di quelli (i cileni) e le debolezze di questi (gli italiani). Le nazionalizzazioni di cui Salvador Allende, presidente eletto in Cile il 4 settembre del 1970, furono un’operazione radicale dentro il Paese e destabilizzante dentro i rapporti internazionali. Contro quelle misure si scagliavano dunque anche le grandi multinazionali, in particolare degli Stati Uniti. Le liberalizzazioni di Mario Monti, specie quelle che toccano I camionisti, sono (almeno per ora) ritocchi che i mercati e le istituzioni internazionali attendono da tempo.

Il giorno 9 ottobre del 1972, lo sciopero dei camionisti, cui si aggiunsero i trasporti tutti, microbus e taxi compresi, non arrivò in Cile come una sorpresa. La Confederación Nacional del Transporte, guidata da León Vilarín (la cui potenza politica secondo un suo collega sindacale «valeva milioni di dollari»), espressione del gruppo dell’ultradestra «Patria y Libertad», riuniva 165 sindacati di camionisti, contava 40 mila iscritti e controllava 56 mila veicoli. Come si è poi scoperto, nel corso della declassificazione dei documenti del governo americano, lo sciopero era parte di quello che un memoriale della Cia definiva «Plan Septiembre», ed era così poco una sorpresa che venne annunciato dall’allora ambasciatore americano in Cile, Nathaniel Davis, con un messaggio segreto indirizzato direttamente a Nixon, con un giorno di anticipo. Il testo, brevissimo, diceva: «Per proteggere gli interessi dell’opposizione, lo scontro può rivelarsi inevitabile». Lo sciopero dei camionisti si prolungò per 24 giorni, mise in ginocchio il Paese, e si concluse, almeno in una sua prima fase, con la decisione da parte di Allende di procedere a un rimpasto di governo facendo entrare agli Interni un militare, e con la promessa di non toccare il settore. Non servì né l’una né l’altra mossa. E i camionisti si affermarono come coloro che avevano segnato l’inizio della fine del governo Allende, fama in verità immeritata ed esagerata. Nemmeno quello sciopero che tagliò in due un Paese strettissimo e lunghissimo, attraversato da una sola strada, avrebbe infatti potuto avere l’effetto che ebbe se non fosse stato per le tante e incredibili condizioni in cui si sviluppò.

E anche di queste conviene forse parlare adesso per capire quanto abissalmente diverse siano le situazioni del mondo negli anni di allora e quello (Italia compresa) di oggi.

Torniamo così su nazionalizzazioni e liberalizzazioni.

Salvador Allende inizia ufficialmente il suo mandato il 4 novembre 1970, Presidente scaturito da una sorta di scherzo della storia: il suo è il primo governo di sinistra che va al potere regolarmente eletto in un pianeta in cui la sinistra tutta pensa ancora che il potere si ottenga con la rivoluzione. L’elezione di Allende diventa così un vero e proprio esperimento nel cuore della Guerra Fredda. La sinistra lo osserverà con scetticismo e passione insieme (per Enrico Berlinguer sarà una tappa centrale del suo percorso di ricollocazione del Pci); per il mondo atlantista, Stati Uniti in testa, è il materializzarsi di un nuovo pericolo per il sistema, dopo l’infezione del subcontinente da parte della Rivoluzione cubana. Un pericolo tanto più insidioso perché legittimato dalla democratica pratica elettorale, coperto da una alleanza con settori moderati, e articolato intorno a un programma economico coerente. A tutto questo va aggiunto un Medioriente che in quegli anni è molto in bilico, già attraversato da guerre e da quella febbre della nazionalizzazione del petrolio che porterà poi alla crisi petrolifera del 1973 causata dalla interruzione dell’approvvigionamento di petrolio proveniente dalle nazioni appartenenti all’Opec.

Le riforme cui Allende mette mano alacremente sono effettivamente impressionanti per audacia ed estensione. A partire dalle «prime quaranta misure di base», fra cui la refezione scolastica per tutti gli alunni della scuola di base, il mezzo litro di latte gratuito al giorno a ogni bambino al di sotto dei 14 anni e alle madri in attesa; l’istituzione di asili nido e scuole d’infanzia per 80 mila bambini, la distribuzione gratuita dei libri di testo nella scuola dell’obbligo; l’aumento delle borse di studio (le iscrizioni al primo anno di università aumentano subito dell’80%); l’apertura di consultori e di nuovi ospedali; un programma di edilizia popolare, l’alfabetizzazione degli adulti, l’estensione a tutti della pensione di vecchiaia, l’innalzamento dei minimi salariali e pensionistici, l’adeguamento automatico dei salari all’aumento dei prezzi.

Poi ci sono le riforme vere destinate ad intaccare la struttura economica del Paese. Tra il dicembre del 1970 e il gennaio del 1971 il governo prepara in Parlamento la nazionalizzazione del rame, del salnitro, del carbone e del ferro; istituisce l’Area de propiedad social (Aps), la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese statali. Accelera la riforma agraria. E procede all’acquisizione allo Stato delle banche cilene (di cui il 3% monopolizza il 45% dei depositi, il 55% dei profitti e il 44% dei prestiti) e di quelle straniere - fra cui le filiali delle americane First National City Bank e Bank of America - con l’accordo delle banche medesime. Nel 1971 viene nazionalizzata anche la Compañía de Teléfono y Telégrafo, proprietà della multinazionale nordamericana Itt.

Il primo impatto è straordinario:l’utilizzo degli impianti risale dal 75 al 95%, la disoccupazione scende in due anni dal 9 a meno del 4%, la crescita del Pil raggiunge nel 1971 il 7,7%. La ricaduta è altrettanto straordinaria. Le reazioni interne ed estere a questo programma, che di fatto intacca interessi fondamentali delle multinazionali, fra cui innanzitutto quelli del rame, portano a paure, poi a complotti, spostamento di capitali all’estero, speculazioni e manovre politiche. La visita di tre settimane di Fidel Castro nel novembre del 1971, parte di un lungo tour nelle capitali dell’America Latina e in Unione Sovietica, mette probabilmente un chiodo definitivo sulla bara del progetto del socialismo pacifico. Kissinger e Nixon faranno di tutto per accelerare il fallimento di questo governo ed è storia nota, narrata peraltro da tutte le carte declassificate della Cia, pubblicate oggi sul sito ufficiale della Cia stessa.

I camionisti – torniamo a loro – diventano la parte emersa di questo quadro di tensioni. Persino la loro repressione è difficile per Allende perché a quel punto il governo non si fida già di esercito e polizia. E un altro elemento va aggiunto al quadro di «destabilizzazione»: allo sciopero dei trasporti e «dei padroni», come verrà chiamata dalla sinistra tutta la mobilitazione di vari settori che si aggiungono ai camionisti: medici, farmacisti, avvocati, commercianti all’ingrosso e dettaglianti, la sinistra reagisce nei fatti dividendosi. Le organizzazioni di base della sinistra, dei lavoratori, i gruppi più militanti, si mobilitano per annullare le conseguenze dello sciopero che blocca il Cile, e nei fatti cercano di imporre ad Allende di passare a una fase più radicale del suo governo. L’insieme di queste tensioni porta presto il Paese a quello che il Presidente stesso definì «l’orlo della Guerra Civile».

Come finì, si sa. Questa ricostruzione serve oggi solo a far mente locale su di noi. Nulla di quella drammatica era è anche solo pallidamente rispecchiata dalla realtà in cui ci troviamo. Diverse le condizioni sociali, ma anche le condizioni internazionali, e i progetti. Noi viviamo oggi in un mondo molto ricco e molto disfunzionale, e i progetti di riforma che abbiamo davanti sono, almeno per ora, ritocchi se comparati alle sofferenze che questo stesso nostro mondo ha già vissuto. Il che non significa che non sia necessario decidere, discuterne, e anche ribellarsi. Ma le parole e i parallelismi hanno un loro perverso modo di funzionare: se evocati, anche se sono solo fantasmi, hanno a volte il potere di tornare reali.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9689


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - L'idraulico che serve a Davos
Inserito da: Admin - Gennaio 31, 2012, 11:34:55 pm
31/1/2012

L'idraulico che serve a Davos

LUCIA ANNUNZIATA

Se il bagno di Davos è tanto tanto una metafora, e quale bagno non lo è?, il grande evento di leader e sapienti che da anni ci consegna l’oroscopo sul nostro futuro ha definitivamente bisogno di un idraulico. Non quello polacco (mitica figura inventata da un altro sapientone, Fritz Bolkestein, commissario europeo al Mercato Interno, nel gennaio 2004, nel presentare la sua direttiva sulla liberalizzazione del mercato dei fornitori di servizi in Europa), ma di quelli che arrivano con l’architetto e concludono che la toilette in questione non può più essere aggiustata, signora mia.

La Bbc, del resto, l’ha detto senza giri di parole, il World Economic Forum quest’anno è risultato «piatto» – che è poi il termine più cortese per dire «flop».

La Davos di cui stiamo parlando è quella ben raccontata da Federico Fubini, che sul Corriere della Sera del 28 gennaio ci rivelava che nel consesso internazionale a maggior concentrazione di potere e denaro (partecipazione da 25 mila euro a testa fino a mezzo milione di euro per i «partner»), la più semplice delle comodità umane è anche la più scarsa delle risorse, il bagno appunto. Una sola «ritirata» per i duemila partecipanti, «mentre al piano superiore del Centro Congressi c’è un luogo guardato con cura da una hostess, dominato da una grande scritta argentata: Strategic Partners. Sono i bagni riservati alle aziende che pagano circa mezzo milione di dollari l’anno. Sono un centinaio di nomi celebri come Goldman Sachs, Bank of America, Bill and Melinda Gates Foundation, Google, Saudi Basic Industries». Seguendo la più semplice regola di mercato (cioè il controllo delle risorse non importa quali esse siano), basta dunque restringere l’area di accesso ai bagni per ricostruire la piramide umana anche lì dove sono tutti ricchi. Dall’involontario apologo nasce la domanda inevitabile: se un consesso così spontaneamente, ossessivamente, conservatore dell’ordine esistente sia davvero il più adatto ad affrontare la riflessione che gli veniva sottoposta quest’anno, «La grande trasformazione: formare nuovi modelli».

In effetti, in un anno segnato dal «people power», quello delle rivolte arabe o di Occupy, nella stagione del declassamento delle principali economie mondiali, la riunione di 2600 top leaders politici, economici ed intellettuali, è parsa del tutto incongrua nella sua estrema minorità. Non parliamo di numeri – anche se duemilaseicento persone costituiscono lo 0,00004% della popolazione mondiale e preferiamo non contare quanti zeropercentuale di denaro mondiale gli appartiene. Parliamo piuttosto di rappresentanza.

Non si evoca qui il solito sospetto contro il governo mondiale dei banchieri e della finanza – Davos è troppo visibile per rappresentare una agenda segreta. Né si vuole mettere in dubbio l’importanza delle élite, che hanno sempre svolto una fondamentale funzione di stimolo nelle nostre società.

Il dubbio è proprio se queste élite che si riuniscono a Davos siano davvero tali, se cioè siano oggi in grado di esercitare davvero la loro funzione di «avanguardia» del pensiero.

Intanto, possiamo sostenere con certezza che è improbabile che le decine di teste coronate presenti in Svizzera siano capaci di rappresentare i propri sudditi – che dire dell’Arabia Saudita, ad esempio? Ma altrettanto si può dubitare dei leader economici, che siano George Soros o i manager di Facebook e Google. Per non parlare di leader politici attuali ed ex arrivati in massa. Come dimenticare che sono loro che hanno guidato o guidano la nave delle economie in crisi oggi? Possono essere i conducenti falliti coloro che si inventano nuovi modelli?

Mai come a Davos in questi giorni è stato possibile vedere rappresentata la crisi nella sua stessa essenza: in un mondo che è in difficoltà perché non sa rinnovarsi, coloro che chiedono il cambiamento sono proprio quelli che non cambiano, i leader politici, intellettuali ed economici di sempre.

Davos è in verità un importante luogo della nostra storia. E’ cresciuto ed ha rappresentato (dall’anno della fondazione, il 1971) la trasformazione delle nostre economie. In un capitalismo sempre più sganciato dal prodotto, è diventato il tempio della celebrazione del marginale sul sostanziale, del progressivo peso giocato nel capitalismo moderno senza prodotto dalle idee, dalla interrelazionalità, dalle parole. Oggi che quel capitalismo è entrato in crisi, il peso di quelle parole rischia di diventare la zavorra delle chiacchiere.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9713


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Lo sfoggio di entusiamo dell'America
Inserito da: Admin - Febbraio 11, 2012, 10:05:45 am
11/2/2012

Lo sfoggio di entusiamo dell'America

LUCIA ANNUNZIATA

Il viaggio di Mario Monti in Usa è andato bene. Forse troppo bene.

C’è stato infatti un innegabile elemento di esagerazione nell’accoglienza americana al premier italiano, e se alcune reticenze nel discorso pubblico e una serie di sorrisi di imbarazzo valgono una dichiarazione, lo stesso premier sembra essersene accorto.
Mario Monti guida il governo da soli tre mesi, ha fatto un forte intervento sulla strada verso il pareggio del bilancio accompagnato dalla riforma delle pensioni («e solo con tre ore di sciopero» ha raccontato di aver detto ai suoi interlocutori alla Casa Bianca, ascoltato «con grande meraviglia»).

Per quanto riguarda le altre riforme, che sia quella del mercato del lavoro (tema molto comprensibile agli americani) o quella (molto più sottile per questo pubblico) della modifica dei rapporti fra Merkel e l’Italia, sono ancora tutte da provare.
La domanda da porsi è dunque cosa stiano cercando di dirci gli americani con questo inedito sfoggio di entusiasmo.

La più maliziosa interpretazione è che il nuovo clima ha a che fare con il passaggio di governo in Italia - e non c’è dubbio che la differenza fra le impacciate relazioni di Washington con Silvio Berlusconi negli ultimi anni, e quelle di oggi con Mario Monti, è inenarrabile. In effetti ha dell’incredibile che il passato governo non sia mai stato citato in questi incontri, e che l’unico a pronunciare il nome di Silvio Berlusconi (come al solito per dirne bene, nella ormai assodata routine istituzionale della continuità formale fra esecutivi) sia stato proprio Monti. Tuttavia l’America, presa da tali e tanti problemi complessi, non avrebbe sprecato molta energia in questo momento solo per sottolineare diversi toni diplomatici.

La chiave di volta della sua ospitalità è iscritta in realtà nelle novità segnalate dalla agenda del premier in questi giorni. A differenza di quanto sempre avvenuto con altri premier in passato, Monti in effetti ha speso molto meno tempo con le istituzioni politiche – Congresso, governo, Onu –, per investire la maggior parte delle energie nel comunicare direttamente con altri luoghi del potere, think tank come il Peterson, i maggiori media, come la Cnbc di Maria Bartiromo, il Time, il New York Times, e gli investitori di Wall Street, che hanno la capacità di influenzare direttamente le opinioni più vaste del mercato. Non è un caso che il più lungo incontro «politico» sia stato delegato al ministro degli Esteri Terzi che ha trascorso con Hillary Clinton più tempo di quanto Monti con Obama. Così come non un caso è che per ricevere il professore italiano a New York siano scesi in campo i big della finanza, da Bloomberg a Soros.

La vera missione di Mario Monti in America, detta in maniera un po’ poco caritatevole, è stata fin dall’inizio dunque quella di «venditore», di un uomo che alla fin fine era lì per convincere della nostra affidabilità quegli stessi mercati che ci avevano condannato.

Si spiega così anche l’entusiasmo profuso nel far sì che la missione riuscisse: un po’ di esagerazione ci voleva per far ben capire a tutti che i vari punti di influenza del potere americano, media, politica e investitori, ci hanno riaccettato. Quell’«Italy is back», in questo senso è risuonato in effetti nelle orecchie tanto entusiasta quanto accondiscendente nei nostri confronti. Ma è stata anche l’eco di una sorta di autocritica del Paese più arrogante del mondo.

«L’Europa è un terreno scivoloso per gli americani, specie in questa campagna elettorale. Se non si fosse visto un miglioramento, non credo che Obama si sarebbe tanto impegnato», diceva alcune sere fa un insider di Washington, un avvocato che lavora per le industrie della difesa. Con tipico spirito pragmatico, i mercati e la politica Usa hanno fatto negli ultimi tempi una rapida marcia indietro, dopo aver capito che per l’America dei prossimi anni l’Europa è ancora più un beneficio che una palla al piede, come la si descriveva nei momenti peggiori della crisi.

Non solo, come viene ripetuto, la miniripresa americana potrebbe essere affossata da qualunque peggioramento dell’economia della Eu. L’Europa si rivela molto importante in prospettiva anche nell’intreccio fra costi e sicurezza dell’Impero.

La crisi economica sta portando gli Usa a una rimodulazione delle spese militari. I (meno) soldi saranno sempre più impegnati da Washington nei teatri asiatici, per tenere d’occhio i contendenti di domani, Cina soprattutto.

La conseguenza è che il peso della sorveglianza sulla Russia (testate nucleari incluse) e la gestione del Medioriente ricadrà sempre più sull’Europa: il modello Libia - quello in cui la Nato opera e gli Stati Uniti appoggiano - è il modello che gli Usa oggi vedrebbero esteso a tutta la zona di influenza europea. Per questo molto si è parlato fra Monti e Obama della conferenza sulla nuova Nato che si terrà a maggio a Chicago. Molto ne hanno parlato, e poco ce ne è stato riferito. Il terreno è infatti scottante per le opinioni pubbliche europee.

La lezione che si trae da tutto questo, è che l’entusiasmo Usa è come un venticello – capace di cambiare rapidamente direzione a seconda delle necessità (o utilità?) del Paese. Ha soffiato molto bene, sulla visita di Monti ma non dovremmo farci molto affidamento. Anche perché, come dimostra il dossier Nato, porta sicuramente con sé un cartellino con il solito salato prezzo.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9761


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Valzer diplomatici: nemici a Baghdad alleati in Siria
Inserito da: Admin - Febbraio 19, 2012, 11:35:48 am
17/2/2012

Valzer diplomatici: nemici a Baghdad alleati in Siria

LUCIA ANNUNZIATA

Se qualcuno ricorda ancora il conflitto iracheno che solo fino a ieri ci ha lacerato, non avrà sicuramente dimenticato il nome di Falluja, cittadina redolente di sangue e polvere, il posto dove come messaggio agli occidentali vennero squartate quattro guardie del corpo americane, il luogo di imboscate e rapimenti, in altre parole il cuore, insieme a Ramadi, del triangolo sunnita che dopo la caduta di Saddam Hussein è stato il centro della resistenza e del terrorismo antioccidentale, e che l’Occidente ha sprecato sangue e uomini per conquistare. Falluja e Ramadi in apparente sonno da qualche tempo, hanno ora rimesso in moto le proprie strutture militari e militanti, in uno sforzo diretto questa volta non contro gli Usa, ma a favore di quella stessa resistenza contro il regime di Assad in Siria per cui si stanno impegnando Europa, Usa e Onu. Il che fa di noi occidentali, oggi, gli alleati di fatto dei «terroristi» che combattevamo ieri. L’ennesimo paradosso, l’ennesimo scherzo della storia che continua a provare che i nostri interessi in Medioriente sono sempre più forti di ogni nostra convinzione politica, e che le fratture etniche e religiose sono per i mediorientali efficaci strumenti di potere prima ancora che di fede.

Non esattamente una posizione comoda in cui stare, all’inizio di un nuovo capitolo diplomatico. Dopo il veto di Russia e Cina alla risoluzione Onu che chiedeva le dimissioni di Assad, gli Stati Uniti si sono concentrati nel creare un nuovo gruppo, «Amici della Siria», che opera fuori dall’Onu e di cui fanno parte Usa, europei, e le nazioni arabe contrarie agli Assad. Il gruppo si riunirà a Tunisi il 24 prossimo, giovedì, e l’Italia vi farà la sua parte, presiedendo per altro il 20 la riunione euromediterranea.

La storia di Falluja – raccontata due giorni fa sulla prima pagina del «New York Times», con il contributo di quasi tutti i suoi corrispondenti dai Paesi dell’area - segnala l’avvio di uno sviluppo molto pericoloso. Come scrivono molti analisti americani in merito alla crescente mobilitazione in Iraq, Libano e Giordania, intorno alla opposizione anti-Assad: «E’ sempre più chiaro che la guerra siriana sta diventando un conflitto regionale». Le indicazioni sono tante le bombe di Aleppo e Damasco, un’ondata di violenza nel Nord del Libano direttamente legata alle tensioni in Siria, e, non ultimi, i recenti appelli fatti sia dai leader di al Qaeda che da quelli dei Fratelli Musulmani della Giordania, ai jihadisti di tutto il mondo perché si mobilitino a favore dei resistenti siriani. Gli analisti americani avvertono che questo è appena l’inizio: «Come l’Iraq e l’Afghanistan prima, la Siria è destinata a diventare il terreno di addestramento di una nuova era di conflitto internazionale».

Noi occidentali appoggiamo dunque ora una rivolta che consideriamo una lotta di liberazione popolare a un tiranno, e ci ritroviamo al fianco dei sunniti pro Saddam, dei Fratelli Musulmani nonché di Al Qaeda. Ma quello che sembra un paradosso è solo l’ultimo illogico giro di valzer di un logicissimo giro di alleanze storiche. Se si segue infatti il profilo delle identità religiose, l’attuale linea di opposizione alla famiglia Assad non è affatto una sorpresa. Anzi. Quando si dice che la Siria è il potenziale gorgo mediorientale, si intende indicare proprio il fatto che al suo interno si ritrovano quasi tutti i frammenti del più grande quadro regionale.

Basta seguire le linee di scorrimento dei rapporti fra sunniti e sciiti nella regione. Val la pena di iniziare ricordando la composizione della Siria: i musulmani sunniti sono il 74 per cento dei 22 milioni di cittadini, seguono gli alawiti con il 12 per cento, i cristiani con il 10 per cento e i drusi con il 3. Gli Assad sono alawiti, una minoranza religiosa considerate eretica dai sunniti, senza essere davvero parte degli sciiti dalla cui tradizione gli alawiti si sono separati molto tempo fa.

Considerati nei fatti una vera e propria setta segreta nella credenza popolare, gli alawiti hanno costruito intorno a questa loro diversità e minoranza la struttura del potere siriano dopo il golpe che nel 1970 portò al potere Assad padre, costituendo il nucleo di comando dell’esercito e dell’apparto di sicurezza. Bisogna dire che non tutti gli alawiti sono con Assad e non tutti sono parte dell’élite del Paese: ce ne sono molti nelle popolazioni più povere sulle montagne, e ce n’è un nutrito gruppo anche in Turchia.

Gli uomini che da mesi sfidano le armi di Damasco sono dunque sunniti, come i sostenitori del regime di Saddam Hussein, che noi abbiamo combattuto. E infatti nella Prima Guerra del Golfo la Siria faceva parte della coalizione contro Saddam, con cui era sempre stata in competizione. Ma contro la famiglia Assad si schierano oggi anche Fratelli Musulmani e qaedisti in odio alla identità secolare e anti-islam radicale che ha sempre identificato Damasco. Il massacro di circa 20 mila musulmani perpetrato ad Hama nel 1982 dall’esercito guidato dal fratello minore di Hafez al Assad non è stato mai dimenticato dalle organizzazioni radicali islamiche.

Le simpatie per l’opposizione siriana in Libano sono altrettanto chiare, ma nel Paese dei cedri spirano direttamente nelle stanze del premier. Un premier sunnita, come da tradizione.

La Siria è sempre intervenuta nel Paese costiero, direttamente o indirettamente – dopotutto, fino al 1926 il Libano è stato parte della Siria post ottomana. Nel 1976 Hafez al Assad intervenne nella guerra civile libanese a sostegno dei cristiani maroniti, poi fece del Libano la sua base nello scontro con Israele, appoggiando nel Sud del Libano la radicale Hezbollah.

Nel 2005 quando lasciò il Paese l’esercito siriano vi contava ancora 17 mila unità. Negli anni recenti l’influenza di Damasco ha protetto la componente sciita, che costituisce il 28 per cento della popolazione ed è al governo sotto la bandiera politica di Hezbollah. Nella continua frizione interna che continua a tenere sull’orlo della guerra civile il Libano, il Paese è tenuto insieme da un fragile accordo che, in nome delle varie componenti religiose, indica che il capo del Parlamento sia sempre uno sciita e il capo del governo sempre un sunnita (come il 28 per cento della popolazione - ma le statistiche ufficiali in Libano non sono sempre quelle giuste). Il Presidente è cristiano. Ma la Siria se ne è sempre abbastanza disinteressata di questi accordi: l’assassinio del premier libanese Hariri pochi anni fa è stato infatti attribuito a Damasco.

Non è dunque strano che la vicenda siriana abbia di nuovo diviso in due la lealtà libanese, facendo di nuovo salire la fibrillazione interna.

La linea dei nostri alleati contro Assad oggi è dunque abbastanza curiosa – i sunniti al governo in Libano e i reietti sunniti pro-Saddam in Iraq, più Al Qaeda e i Fratelli Musulmani. A tutti loro va aggiunto il potente fronte delle monarchie sunnite del Golfo, con a capo l’Arabia Saudita.

Fatte tutte le analisi sugli schieramenti locali, l’ampiezza e la singolarità di questa catena di solidarietà intorno all’opposizione in Siria si spiega con l’identità del grande avversario che si staglia sullo sfondo di questa partita, l’Iran. Il Paese degli Ayatollah è il vero alleato di Assad e il vero nemico da sconfiggere intaccando il potere di Damasco. Quell’Iran che è uscito, senza volerlo, vero vincitore dalla Seconda Guerra del Golfo, grazie alla caduta di Saddam, e che oggi può cavalcare molte delle rivolte arabe. Le stesse cui intendono rivolgersi anche Al Qaeda e Fratelli Musulmani, entrati per questo essi stessi in aperta competizione con la eccessiva influenza iraniana.

Dopo un lungo giro, cosi, l’Occidente torna po’ alle vecchie alleanze sunnite (perciò a lungo Saddam era stato nostro alleato contro l’Iran) ma acquisisce anche alleati molto difficili da gestire. Mentre la Russia e la Cina restano paradossalmente ferme alla loro posizione di sempre, accanto all’ex regime socialista siriano e al più potente Stato petrolifero dopo l’Arabia Saudita, l’Iran.

La strada verso una nuova deflagrazione regionale sembra segnata.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9782


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Ecco perché pagherà anche il salotto buono
Inserito da: Admin - Febbraio 22, 2012, 11:45:23 am
22/2/2012

Ecco perché pagherà anche il salotto buono

LUCIA ANNUNZIATA


Non si sa se la cosa più grave è che abbia citato la «distruzione creativa» di Schumpeter, o il termine «salotto buono». Avremmo amato capire, ma le cronache non ci hanno illuminato, se chi lo ascoltava è rimasto più sorpreso dalla negazione di ogni sua «deferenza» al potere economico, o dalla riaffermazione del divieto «di sedere simultaneamente nei Cda di banche e assicurazioni».

Mario Monti, due giorni fa parlando alla Borsa di Milano, davanti al Gotha finanziario del Paese, 400 invitati, ha fornito un’altra tessera al profilo del suo governo: e stavolta nel mirino non ha messo il sindacato ma i «poteri forti». Stranamente, le sue parole sono passate quasi inosservate nell’arena politica, specie nell’area di centrosinistra che pure si sta aspramente dividendo sull’appoggio o meno al suo governo.

Vediamole, queste parole, nella versione ufficiale del sito di Palazzo Chigi. «Una cronaca veloce ci attribuisce deferenza verso il salotto buono ma togliere la possibilità di sedere simultaneamente nei cda di banche e assicurazioni, non è stata una cosa molto gradita. Pensiamo, poi, che in passato si sia tutelato il bene esistente e consentito la sopravvivenza un po’ forzata dell’italianità di alcune aziende, impedendo la distruzione creatrice schumpeteriana e non sempre facendo l’interesse di lungo periodo».

Colpisce intanto una rottura formale, l’uso di quel termine, «salotto buono», che nel linguaggio comune è carico di significati negativi. Così come colpisce la franchezza con cui il premier, sottraendosi al solito unanimismo, riveli che la sua decisione di cancellare il cumulo di incarichi non è risultata molto «gradita» proprio a quel mondo del potere cui si stava rivolgendo in quel momento.

Il riferimento, ben capito da tutti i presenti, è all’articolo 36 contenuto nella manovra finanziaria, detta Salva Italia, con cui l’esecutivo vieta «ai titolari di cariche negli organi gestionali, di sorveglianza e di controllo e ai funzionari di vertice di imprese o gruppi di imprese operanti nei mercati del credito, assicurativi e finanziari di assumere o esercitare analoghe cariche in imprese o gruppi di imprese concorrenti». Non è ancora chiaro come verrà applicato, ma le parole alla Borsa di Milano sono la riconferma che il governo intende procedere.

L’intreccio di cariche, è il grande nodo dell’immobilità del capitalismo italiano (la barriera conservatrice levata contro la «creatività distruttrice» di Schumpeter). Il meccanismo che ha permesso che si creasse un «salotto buono», un luogo privilegiato del potere dove tutto converge e tutto si controlla. Insomma il conflitto di interesse seminale del sistema italiano. Basta pensare che Unicredit, Mediobanca, Intesa Sanpaolo, Ubi, Mediolanum e Generali, cioè i maggiori istituti italiani hanno diversi componenti in più poltrone. Nell’elenco delle personalità che sono toccate dalle nuove regole ci sono uomini come Palenzona, e Giovanni Bazoli, il più rispettato banchiere italiano. Nonché Alberto Nagel, che è sia amministratore delegato di Mediobanca che vicepresidente delle Assicurazioni Generali.

La teoria politica più ricorrente è che Mario Monti vincerà la sfida di «cambiare l’Italia» solo se sarà capace di dimostrare di far «pagare» a tutti il sacrificio di questo cambiamento. Solo se, specifica la sinistra, non prenderà di mira solo gli operai e la classe media.

L’intervento di Milano sembra essere la prova che effettivamente il premier non intende lasciare intatto nessun luogo di influenza. Come del resto ha già fatto rifiutando le Olimpiadi del 2020, esponendosi così a uno scontro che pure avrebbe potuto evitare (in fondo sarebbero avvenute in un lontano futuro) con una delle maggiori lobby del Paese.

DA - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9801


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Un penoso déjà-vu
Inserito da: Admin - Marzo 02, 2012, 05:33:13 pm
2/3/2012

Un penoso déjà-vu

LUCIA ANNUNZIATA

La libertà di stampa che per la lunga stagione del berlusconismo è stata la bandiera della definizione della democrazia, può tornare ad essere tranquillamente stracciata? Da quella stessa area sociale che l’aveva impugnata?

Finito Berlusconi, insomma, torneremo alle passate macerie? Alle vecchie diatribe sui giornalisti servi dei padroni?

In Italia esponenti di un movimento che si richiama allo Stato di diritto, insultano poliziotti (quello del casco, di cui non abbiamo nome), magistrati (uno per tutti, Giancarlo Caselli) e attaccano i giornalisti (sappiamo della troupe del Corriere, e sappiamo anche di altre aggressioni che nell’ambiente dei media si evita di denunciare per non attizzare gli animi). Imbarbarimento, si dice. Ma quale? In questi gesti c’è un penoso déjà-vu, un nulla di nuovo, che risulta, alla fine, essere l’elemento più inquietante.

Per il «confronto» fra celerini e manifestanti abbiamo sufficiente memoria collettiva da (iper)citare (come ricorda Adriano Sofri su Repubblica) Pasolini. Ma anche sul resto, le linee di connessione con il passato sono, a dir poco, sorprendenti.

Basta riprendere in mano proprio il caso più discusso di queste settimane, quello del procuratore Caselli. Il magistrato che oggi è conosciuto soprattutto come il servitore dello Stato in prima linea a Palermo contro la mafia, negli Anni Settanta, in un’altra sua vita, era attaccato esattamente come oggi. Anche allora era un Servitore dello Stato, ma in quel caso in prima linea contro le Brigate Rosse.

Ugualmente sorprendenti le somiglianze fra quegli anni e il rapporto che i vari movimenti hanno stabilito con i giornalisti, definiti oggi come allora «spie», «porci», «servi del padrone», espulsi dalle assemblee, ed eventualmente finiti nel mirino. Qualcuno ricorderà quella sfida raccolta a muso duro da alcuni di questi reporter, come il non dimenticato Carlo Rivolta, che per primo scrisse senza remore, per l’ancora nuovissima la Repubblica, delle minacce dei bulli della Sapienza. E nessuno certo ha mai dimenticato quello che maturò poi in quel clima: Montanelli, Casalegno e Tobagi.

Tempo dopo, con qualche anno e qualche lettura in più sulle spalle (nonché qualche incarico pubblico), molti di coloro che avevano sostenuto quell’atteggiamento si fecero alfieri di un ripensamento, ammettendo che quel modo di trattare i giornalisti svelava tutto l’integralismo, il settarismo di una visione illiberale del mondo, secondo la quale il metro di misura della bontà dell’informazione è quanto sia dalla tua parte. L’opinione pubblica del Paese più in generale si è orientata nel corso degli ultimi decenni verso la riscoperta dei valori «anglosassoni» dell’indipendenza dei poteri – magistratura e media compresi. Che l’arrivo di Silvio Berlusconi al potere nella Seconda Repubblica sia stato combattuto dalla sua opposizione sotto la bandiera di «Libera stampa in libero Stato» è sembrato dunque solo una naturale evoluzione dei tempi, una crescita generale della società in una direzione diversa dal passato.

Ma forse ci siamo ancora una volta sbagliati, viene da dire, osservando una nuova sorta di mutismo riemergere dalle macerie della Seconda Repubblica. L’area «democratica» così pronta ad indignarsi nell’epoca di Berlusconi, sembra accettare oggi senza emozione sommarie critiche alla giustizia: il giudizio sui giudici torna ad essere una variabile dipendente della sentenza. L’eroe Caselli torna nelle vesti del cattivo, così come il giudice che difende la Fiat e condanna Formigli, mentre va bene il giudice che condanna la Fiat e dà ragione alla Fiom.

E come non considerare ancora ingarbugliatamente simbolico il caso Celentano?

Un grande artista che davanti a una formidabile platea di quindici milioni (un numero che nessun premier si è mai sognato di radunare) chiede che chiudano dei giornali (Avvenire e Famiglia Cristiana), dà del deficiente a un giornalista del Corriere, e rincara poi la dose nella trasmissione di Santoro chiamando cretini quelli di Repubblica, e sostenendo, senza nessun intento ironico, che la «Corporazione della stampa si è unita per attaccarmi», parole molto care all’ex premier. Il diritto di Celentano a dire quello che vuole è stato difeso, giustamente. Ma quella stessa area democratica che lo ha difeso non ha avuto nessun sobbalzo etico di fronte a quei contenuti. Vero è che Celentano, come si è detto, «non ha il potere di chiudere i giornali». Ma ha quello – non di poco conto – di creare un clima culturale.

Di questo clima vale la pena oggi parlare. La libertà di informazione, brandita come principio assoluto in quasi due decenni di berlusconismo, rischia di tornare esattamente come era prima: identificata solo con il proprio interesse?

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9834


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Il peso che ci manca nel mondo
Inserito da: Admin - Marzo 09, 2012, 03:40:05 pm
9/3/2012

Il peso che ci manca nel mondo

LUCIA ANNUNZIATA

Il premier Monti (e noi italiani con lui) deve preoccuparsi di un imprevisto pericolo: il rischio che una delegittimazione della sua leadership arrivi proprio da quei leader, quegli ambienti, quell’Europa che finora lo hanno lodato, sostenuto, celebrato. L’Italia che sta faticosamente risalendo il pozzo della mancanza di credibilità in materie economiche, viene lasciata amaramente sola, proprio dall’Europa, in due gravissime crisi internazionali in cui si ritrovata intrappolata.

Ieri l’italiano Franco Lamolinara e il britannico Christopher McManus, ostaggi sequestrati il 12 maggio 2011 a Birkin Kebin, in Nigeria, sono stai uccisi nel corso di un blitz delle teste di cuoio inglesi per liberarli. Mario Monti non era stato informato di questa operazione militare, né dai servizi segreti inglesi, ma nemmeno dal suo grande amico, in altri momenti sempre generoso di apprezzamenti nei suoi confronti, il premier Cameron. Palazzo Chigi non ha nascosto di essere stato aggirato, e nel comunicato ufficiale scrive che l’operazione per liberare i prigionieri «è stata avviata autonomamente dalle autorità nigeriane con il sostegno britannico, informandone le autorità italiane solo ad operazione avviata».

Potremmo archiviare (e comunque non dobbiamo farlo) il caso come un incidente di percorso se questa mancanza di «rispetto» da parte delle autorità inglesi non avvenisse contemporaneamente a un altro grande «affronto» che ci viene dall’Europa. Su certe questione val la pena di parlar chiaro, ed è abbastanza ovvio che l’Europa non ci sta dando un grande aiuto nella serissima questione dei due marò prigionieri in India. E’ dal 16 febbraio che l’Italia prova a disincagliarsi da uno scontro con l’India sul destino di due nostri fucilieri arrestati in quanto sospettati di aver ucciso due pescatori. Il nostro Paese ha provato in ogni modo a disinnescare la mina, prima di rivolgersi all’Europa. E quando lo ha fatto si è sentito rispondere da Catherine Ashton, commissario Ue per gli Affari esteri che «il problema è di competenza esclusivamente italiano». Nelle ultime ore si sono moltiplicati gli appelli e i malumori dei rappresentanti italiani a Bruxelles e solo con una certa condiscendenza ci è stato assicurato che «l’Europa si impegnerà».

Solo l’ignoranza di quello che è in gioco nell’Oceano Indiano ci può permettere di non capire quanto grave sia la situazione avviatasi con le accuse ai due fucilieri. La storia dei pirati, che dal nome appare una sorta di gioco fra il militare e il letterario, con tutte le sue evocazioni salgariane, è in effetti la nuova frontiera di una guerra non dichiarata che va avanti, da un decennio almeno, fra le due maggiori potenze del mondo attuale: la Cina e gli Usa.

Il controllo della sicurezza dell’Oceano Indiano è il «great game» dei nostri tempi, in cui le rotte commerciali che vanno verso l’Estremo Oriente sono la nuova «Via della Seta». In questo senso, l’intervento sulla pirateria in quel mare è una guerra indiretta fra Usa, Cina (e noi europei fra gli altri) per assicurarsi il controllo dell’espansione dell’Estremo Oriente. Che ci siano pirati è fuori discussione. Chi siano e a cosa servano, è tutto da vedere. Un solo esempio basta per illustrare di cosa stiamo parlando. Nelle Isole Seychelles (si proprio quelle delle vacanze esotiche) alla fine di dicembre 2011, i cinesi sono riusciti ad ottenere una base a supporto delle unità navali di Pechino impegnate nella lotta alla pirateria nell’Oceano Indiano. La cosa ha preoccupato l’India e gli Usa. L’India si sente «circondata» da Pechino nell’Oceano Indiano e gli Usa hanno dovuto prendere atto dell’ennesima «spartizione» di spazi con la Cina, visto che gli Stati Uniti alle Seychelles dispongono di un aeroporto agli ordini dell’Us Africa Command (Africom), dotato di droni - anche armati - per il controllo delle coste orientali del Corno d’Africa e per colpire le milizie fondamentaliste somale. Va aggiunto che la Cina ha altre basi nell’area, a Gibuti, in Oman e nello Yemen. Inoltre, Pechino ha costruito e sta ampliando nell’Oceano Indiano e dintorni altre sue postazione, a Sittwe in Myanmar, a Chittagong in Bangladesh e a Hambantota nello Sri Lanka.

In questo quadro è evidente che i nostri marò sulle navi non sono esattamente lì solo per una difesa delle navi. Sono parte di una iniziativa internazionale. Il cosiddetto accordo sui Vessel Protection Detachement è nei fatti una nuova frontiera di guerra non dichiarata.

Che l’Europa faccia finta che la questione sia solo italiana è ridicolo e offensivo. E anche se le questioni di politica estera nel nostro Paese sono sempre sottovalutate, questo è esattamente il caso di prestare il massimo di attenzione. Il rischio è quello di esser presi in giro. Lodati quando siamo virtuosi sul nostro debito e soli se abbiamo degli incidenti. Presidente Monti si faccia sentire.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9861


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - La Sinistra italiana aspetta il vento di Hollande
Inserito da: Admin - Aprile 20, 2012, 11:24:38 pm
20/4/2012 - FRANCIA AL VOTO

La Sinistra italiana aspetta il vento di Hollande

LUCIA ANNUNZIATA

Nelle urne francesi che si aprono domenica avvertiremo anche un assaggio di elezioni in Italia.

François Hollande, unico leader di sinistra rimasto in Europa a dire «qualcosa di sinistra», è ufficialmente l’occasione che la sinistra italiana aspetta, il movimento del pendolo che fa cambiare gli equilibri di forza, una nuova locomotiva europea, cui molti Paesi, a iniziare proprio dall’Italia, potrebbero attaccare i loro vagoncini.

Con il suo programma di vigorosa spesa pubblica e ridistribuzione delle risorse, partendo da una patrimoniale ad ampio spettro, Hollande è oggi la speranza per il Pd, ma anche per il Sel e molte altre forze, di poter fare in Europa, coperti dalla Francia, quella battaglia che la sinistra non può fare in Italia, per senso di responsabilità e per timore di dividersi.

Solita illusione (e quante volte la sinistra italiana l’ha coltivata nei confronti dei colleghi francesi)? O stavolta qualche spazio c’è perché si apra effettivamente un nuovo gioco in Europa?

Le risposte sono molteplici, e dipendono da molte componenti, non ultime le evoluzioni possibili dentro il governo Monti, arrivato a dover scegliere, pressato dagli eventi, un profilo più politico di quanto abbia tenuto nei suoi primi cinque mesi.

In effetti con Hollande rientra sulla scena della sinistra un candidato come non si vedeva da tempo: figura per nulla di rottura, anzi figlio delle strutture di partito, parte integrante delle élite del suo Paese, ma anche di «sinistra». Il suo programma rompe con trent’anni di programmi liberisti come uniche formule possibili per far marciare l’Occidente. Rompendo così anche l’incantesimo che per altrettanti anni la stessa sinistra ha subito nei confronti delle ricette liberiste. Una conversione che il candidato socialista ha, per così dire, in casa: ha ricevuto l’ investitura anche della sua ex moglie Ségolène Royal, che solo nel 2007 sfidò Sarkozy impugnando «l’idolatria fiscale» e «l’ossessione per le regole» di cui soffriva una parte secondo lei minoritaria della sinistra.

Oggi è un po’ fuori moda ricordarlo, ma la famosa terza via che segna il periodo d’oro della sinistra in Occidente, negli anni Novanta, con Blair in Uk, Clinton in Usa, Jospin in Francia, Gerhard Schrö der in Germania e Prodi e D’Alema in Italia, fu costruita proprio sullo sdoganamento del mercato a sinistra.

Così oggi si potrebbe dire che con Hollande si immagina una terza via al contrario. Del resto, i risultati elettorali in Occidente tendono ad avere una loro onda lunga. E sicuramente un cambiamento di posizioni della Francia, costituirebbe una forte novità negli assetti europei attuali. Il programma di Hollande è un bel chiodo piantato nell’asse Merkel-Sarkozy su cui si sostiene l’equilibrio europeo.

Alla obbedienza rigorista della Merkel, alla sua piena osservanza dei dettami della Bundesbank, Hollande oppone lo scontro frontale con le banche considerate una delle cause del crac finanziario internazionale: nella sua proposta alle banche francesi sarà vietato operare nei paradisi fiscali, le stock option potranno essere date solo dalle imprese nascenti, l’imposta sui profitti degli istituti di credito crescerà del 15% e sarà introdotta la tassa sulle transazioni finanziarie, la famosa Tobin Tax. Una forte tassa patrimoniale (il 75% sui redditi oltre il milione di euro) completa un quadro di ridistribuzione della ricchezza sociale, in cui il denaro per aumentare la spesa sociale in vari campi viene dai redditi più alti e dalle rendite. Tra le altre cose cui le nuove risorse dovrebbero essere dedicate è un piano per regolare il mercato degli affitti, anche attraverso la costruzione di due milioni e mezzo di alloggi popolari, promesse che, siamo sicuri, colerebbero come miele di questi tempi nelle orecchie degli elettori di sinistra italiani.

Il punto è proprio questo. Le promesse di Hollande sono esattamente quelle che vorrebbero/dovrebbero fare i democratici. Quelle su cui otterrebbero più consensi, su cui potrebbero meglio unirsi. Ma che non possono pronunciare per la scelta di sostenere Monti, per l’obbligo di responsabilità nazionale, e per la paura di non avere la stessa capacità dei colleghi francesi.

E se però vincesse Hollande, non potrebbe essere lui una sorta di nuovo leader indiretto, un papa nero straniero, che rimetta in moto un movimento che da soli gli altri non possono fare?

Il primo punto di questa marcia, partita da mesi, con un accordo fra François Hollande, il presidente dell’Spd tedesco, Sigmar Gabriel, e
l’italiano Bersani, passa per una serie di elezioni in Europa, nazionali ed europee che dal 2014 potrebbero portare a un «cambiamento»
dell’Europa, come dicono i leader, con al primo posto del programma la revisione del patto di stabilità. Il simbolo stesso della gestione
dell’Europa, oggi è, a seconda dei punti di vista, la sua prigione o la sua salvezza.

C’è davvero spazio per uno scenario del genere oggi?

Non sarà facile (forse) né vincere, né continuare a vincere per Hollande. Il mondo anglosassone (quello che spesso si chiama «mercati») ha già inviato i suoi avvertimenti. La Francia entrerebbe subito nel mirino. Come ha fatto capire in una interessante intervista a La Stampa Richard Haass, presidente del più autorevole think tank d’America, Council on Foreign Relations. Ma è anche vero che l’opinione pubblica di altri Stati europei, e l’Italia per prima, potrebbe essere affascinata da questa riapertura politica, e magari davvero spingere per un cambiamento di equilibri a Bruxelles.

In questo senso un segnale di possibili cambiamenti, sia pur molto esili, si avverte persino nel governo Monti. Il Professore premier è nato letteralmente battezzato dall’Europa di Merkel e Sarkozy. È la sua stessa identità. Non che il nostro premier non faccia i dovuti distinguo, ma l’affermazione di questi è sempre rimasta dentro le regole conosciute, e come processo di accreditamento più che di sfida. Ma nello stesso governo italiano, e tra le figure italiane in Europa, non c’è necessariamente lo stesso atteggiamento nei confronti della Germania. Mario Draghi, governatore della Bce, non è certo benvisto dalla Banca centrale tedesca, la Bundesbank. In marzo Der Spiegel scriveva: «C’è una crescente divisione all’interno della leadership della Banca centrale europea su come gestire la crisi europea, per non parlare di quelle fra la Bce e la Bundesbank. Mario Draghi è molto contento di aver allagato i mercati con moneta a poco prezzo, mentre il presidente della Bundesbank Jens Weidmann ha invece avvertito dei pericoli che questa operazione comporta». Il riferimento è alla decisione di Draghi di fornire liquidità al tasso dell’1 per cento alle banche europee per stabilizzarle.

Contro la Bundesbank si è però di recente schierato – con sorprendente chiarezza, durante un’intervista – il più forte ministro dell’esecutivo Monti, Corrado Passera, lui stesso con un passato da banchiere: «Il problema non è la Merkel ma la Bundesbank». Parole che indicano che questo governo, di fronte al disagio del Paese, potrebbe voler affrontare sfide politiche che non sono per ora nella sua carta fondativa.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10017


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Cina e Usa alla prova delle libertà
Inserito da: Admin - Maggio 03, 2012, 07:26:41 pm
3/5/2012 - IL CASO DEL DISSIDENTE

Cina e Usa alla prova delle libertà

LUCIA ANNUNZIATA

Dai baci alle accuse, dai festeggiamenti ai sospetti, dai brindisi alla virtù che si afferma al caos delle doppie versioni: gli Stati Uniti sono inciampati ieri in Cina in un confuso incidente di percorso che rischia di esporre al sospetto di incompetenza o superficialità il vertice stesso della diplomazia di Washington. E non è assolutamente un caso che materia dell’inciampo siano, ancora una volta, i diritti umani, l’eterno terreno di frizione fra gli Stati Uniti e la Cina.

Il Segretario di Stato Hillary Clinton è arrivata ieri nella capitale cinese insieme al ministro del Tesoro, Timothy F. Geithner, per un giro di colloqui importantissimi su Iran, Corea del Nord, Siria, e su accordi per rilanciare l’economia mondiale. Ma, come sempre più spesso avviene, la questione dei diritti umani ha preso il sopravvento su ogni negoziato. Una settimana fa, infatti, un dissidente cinese molto famoso, l’avvocato cieco Chen Guangcheng, che dal 2005 conduce una battaglia contro l’aborto, si è rifugiato nell’ambasciata americana, sfuggendo agli arresti domiciliari cui è costretto da anni. Il caso è diventato così troppo grave per essere evitato, il rifugio concesso dall’ambasciata troppo coinvolgente per essere gestito dai soliti canali diplomatici.

Gli osservatori attendevano dunque con attenzione l’arrivo del Segretario di Stato per vedere come gli Usa avrebbero gestito questa ennesima frizione con la Cina sul gravoso tema delle violazione dei diritti umani. Hillary non ha smentito i suoi metodi decisionisti ed è intervenuta direttamente sul governo di Pechino, ottenendo che l’avvocato potesse tornare a casa e continuare in futuro la sua battaglia civile in tutta libertà, sotto tutela degli americani.

Chen è stato liberato e portato, sotto gli occhi di tutti, all’ospedale cittadino. Fra Hillary e l’uomo ci sarebbe anche stata una telefonata conclusasi, secondo i testimoni con un «vorrei baciarla» di Chen al Segretario Usa.

La crisi si è chiusa così in maniera spettacolare, visibile, e indiscutibile. Con un accordo del tutto nuovo (di solito i dissidenti vengono buttati fuori dal Paese, se liberati) valutato come un incredibile passo avanti da parte della Cina. Ma la narrativa pubblica è durata poche ore. Il tempo di arrivare in ospedale e l’avvocato Chen Guangcheng ha sostenuto che non esiste accordo sulla sua permanenza in Cina e che gli Stati Uniti lo hanno lasciato solo di fronte alle minacce di morte ricevute appena fuori dall’ambasciata. Gli Usa hanno replicato gelidi che «rimanere in Cina, per continuare la battaglia e cambiare le cose» è sempre stata la linea del dissidente.

In verità, dubbi sulla soluzione trovata erano filtrati fin dall’inizio. Ci si chiedeva soprattutto come fosse stato possibile che la Cina lasciasse a un dissidente libertà di azione nel Paese. E ci si chiedeva come potessero gli americani farsi garanti di diritti su cui chiaramente non avrebbero avuto nessun controllo.

Il contrasto ha assunto alla fine toni amari. Le smentite reciproche hanno dato la sensazione di una vicenda provocata da superficialità e incompetenza. O, forse, da un gioco delle parti portato all’estremo, da un errore di calcolo finito male, fra due potenze impegnate da anni in un doppio binario di relazioni, fra bisogno reciproco e obblighi politici.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10059


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Il Nobel all'esattore delle tasse
Inserito da: Admin - Ottobre 14, 2012, 03:54:21 pm

Il Nobel all'esattore delle tasse

Pubblicato: 12/10/2012 15:47

Lucia ANNUNZIATA

Quando venne dato il premio Nobel per la pace a Barack Obama appena eletto presidente, nel 2009, commentarono i Cinesi: "E' come aver dato l'Oscar a un trailer...". Parafrasando, oggi si potrebbe dire che il Nobel per la pace all'Unione Europea è come aver dato il premio della generosità all'esattore della tasse.

Il comitato norvegese per il Nobel, ormai lo abbiamo imparato, è molto sensibile al suo ruolo politico nel mondo. Sa di pesare sugli avvenimenti in corso, è consapevole di poter spostare la bilancia della pubblica opinione nel mondo della esposizione mediatica globale, e ogni anno si conferma sempre più accorta nell'esercizio del suo "soft power". Nulla di male. Salvo il rischio di arrivare a passare l'esile filo che divide l'esercizio dell'influenza intellettuale dalla megalomania.

Che è poi quel che è successo nel premio Nobel per la pace alla Unione Europea. Capiamo il ragionamento degli accademici norvegesi. L'Unione Europea è effettivamente la prova vivente della fine delle divisioni che portarono alla seconda guerra mondiale e poi alla guerra fredda. Oggi, nella crisi economica mondiale, il governo centrale del continente sta facendo sforzi di progettualità e coordinamento per evitare cadute dei governi nazionali che potrebbero sfociare in esperienze populiste e/o autoritarie.

In questo senso, immagino, sia da leggere il contributo alla pace nel mondo della Ue, cui la Norvegia aggiunge ora di suo tutto il peso di un Nobel. Eccetto che questa è la foto ufficiale, la proiezione di quello che la Unione Europea vorrebbe essere e che ancora non è chiaro che sarà. Nel frattempo - avventure neocoloniali a parte - come ignorare lo stato reale di questa Unione? La strada che l'Europa sta percorrendo è lastricata di sacrifici enormi dei cittadini più deboli, di rivalità fra leader, tentazioni egemoniche di alcuni stati su altri, una diffusa rapacità economica ed egoismi finanziari nazionalistici.

E' così difficile da vedere che questa crisi è nata in Europa, nel seno di quegli stessi governi che formano l'Unione attuale? Persino la lontana Norvegia non dovrebbe avere difficoltà a percepire quel certo senso di disperazione che pervade i nostri paesi.
 
da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/il-nobel-allesattore-dell_b_1961136.html?utm_hp_ref=italy


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Veltroni, un segnale per tanti mondi, non solo per Il Pd
Inserito da: Admin - Ottobre 17, 2012, 04:15:24 pm

Veltroni, un segnale per tanti mondi, non solo per Il Pd

Pubblicato: 15/10/2012 18:56

Lucia Annunziata

La realtà sembra spesso così pesante da essere inamovibile. Ma spesso basta smuovere un solo mattone per far crollare l'intera casa. E' più o meno quello che è successo con la decisione di Walter Veltroni di non candidarsi più alle prossime politiche.

Conosco Walter da giovanissimo, come parte dello stesso giro che ha fatto della nostra generazione (si parla di '68, sì) quella permanente "festa mobile" durata una intera vita. Una festa che ha fatto di noi tutti, degnamente e meno, protagonisti inamovibili, ombelico del mondo, di tutto quello che passava sugli schermi, nelle piazze, negli uffici, nelle scuole. O anche solo nei nostri tinelli.

Oggi quella festa mobile appare eccessiva, e ingombrante. Il processo a quel che siamo stati è infatti, credo, buona parte del fastidio con cui oggi, giustamente, generazioni di esasperati giovani chiedono con tanta foga il rinnovamento nel nostro paese. Sicuramente il predominio di questa generazione si avverte pesantemente nell'area politica di sinistra, e nel Pd in particolare, dove negli anni è rimasta la parte più attiva di quella militanza che ha radici negli anni sessanta. In questo senso, la domanda di rinnovamento intorno a cui ruotano oggi le primarie credo possa essere ampiamente definito come un conflitto emotivo prima ancora che di potere.

Non sbaglio, forse, se immagino che tutto questo sia stato ampiamente presente nelle considerazioni che Walter Veltroni ha fatto nel prendere la sua decisione di farsi da parte, e non ricandidarsi. Una posizione che è stata valutata soprattutto per il suo impatto interno al Pd. Ma che in realtà ha implicazioni che toccano un po' tutto il sistema. Non va sottovalutato infatti il ruolo che ha ed ha avuto nel nostro paese l'ex segretario del Pd. Veltroni ha vissuto collocato da sempre su alcuni degli snodi centrali fra settori che fanno molta opinione in Italia.

Uomo politico e di comunicazione, scrittore, sindaco di Roma, vicepremier, ha rapporti personali che contano nell'editoria e nella cultura, in Rai come fra registi e attori, con la comunità ebraica (cui ha sempre dedicato viaggi ad Auschwitz) e con gli Usa, con cui grazie alla sua passione per i Kennedy si è rapportato già quando la sinistra italiana si muoveva su un anti-americanismo di maniera. Veltroni è anche stato dialogante con i cattolici, ha ammiratori dentro la intellighentia berlusconiana (fa testo per tutti il favore con cui l'ha sempre guardato Giuliano Ferrara) ed ha sempre avuto una attenzione "giovanilistica" per le mode e i modi della modernità.

La sua decisione di sfilarsi dalla competizione elettorale ha dunque smosso qualcosa in tanti luoghi, è stato un messaggio inviato a vari mondi. L'eco che ha avuto è spiegabile solo grazie a queste tante interconnessioni. In questo senso, la sua è stata una presa di posizione molto politica.

Politica secondo la interpretazione più efficace di questo termine. Il rapporto fra mossa e impatto è stato infatti altissimo. La capacità, come si è visto da quel che ne sta seguendo, di muovere una intera casa smuovendo, come si diceva, un solo mattoncino è la riprova di una sensibilità che solo i migliori politici sanno avere. Che è poi la ragione per cui Veltroni non scomparirà dal nostro orizzonte, ma solo da quei tristissimi scranni parlamentari.
 
da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/veltroni-un-segnale-per-t_b_1967534.html?utm_hp_ref=italy&utm_hp_ref=italy


Titolo: L. ANNUNZIATA. Difficile dolorosa ed efficace: la sfida che sta cambiando il PD
Inserito da: Admin - Novembre 26, 2012, 05:35:30 pm
 Lucia Annunziata: "Difficile, dolorosa ed efficace: la sfida che sta cambiando il Pd"

L'Huffington Post  |  Di Lucia Annunziata Pubblicato: 24/11/2012 21:00 CET Aggiornato: 24/11/2012 21:02 CET


Non ci giro intorno. Alle primarie ho simpatizzato per due degli sfidanti, Renzi e Vendola.
Il primo, a forza di proteste, provocazioni e calci nel muro ha ottenuto le primarie e vi ha portato uno spirito critico, alternativo, arrabbiato e determinato a vincere.
Il secondo, Vendola, vi ha invece portato il fattore umano, un percorso a pelle scoperta fra fragilità, vittorie, paure, superamenti, amore, restituendo un po’ di calore a un universo la cui comunicazione è da tempo congelata.

Ho simpatizzato perché proprio grazie agli strappi, alla diversità e, anche, agli errori di questi due le primarie sono diventate una cosa vera.

Che Bersani vinca questa sfida non ci sono mai stati, a mio parere, dubbi. E’ un uomo che ha la storia e la statura per essere (ed essere avvertito come) il leader del partito. Ma la forza politica che guida è un gigante da tempo malato di burocrazia, di intrecci con funzioni amministrative sul territorio, di opacità e lentezza nella selezione della classe dirigente e nel ricambio generazionale interno. E la cui base elettorale è ampia ma anziana – dunque spesso conservatrice nella visione del futuro.

Problemi che le primarie hanno in parte fatto emergere, rivelando anche il costo in dolore di tale presa d’atto.
Sono state infatti settimane dense di sospetti, accuse, insulti. E di alti prezzi pagati – persino leader come Veltroni e D’Alema, cioè due delle più forti figure del partito, hanno accettato di farsi coinvolgere, e, in parte, travolgere.

Il risultato finale è però senza alcun dubbio positivo. Le primarie hanno rianimato il partito, hanno cambiato il clima nel centrosinistra, abbassando le barriere fra politici e persone, aprendo un varco nella cortina di pessimismo e sprezzo che circonda la politica oggi.

In questo senso, il merito assoluto di Perluigi Bersani è quello di aver permesso questa competizione e di averla alla fine capita, come ha detto in dirittura finale: “ Tutto questo ci fa bene. Più confronti facciamo meglio stiamo in salute ”. Non era scontato che il Segretario si mettesse in gioco, né che lo facesse con l’intensità con cui lui l’ha fatto. E più ricorderà e preserverà della sincerità e della passione emerse da questo processo, più forza avrà la sua ambizione di fare il Premier.

da - http://www.huffingtonpost.it/2012/11/24/la-sfida-che-sta-cambiando-il-pd-annunziata_n_2185082.html


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Il realismo di Bersani contro il rischio ingovernabilità
Inserito da: Admin - Febbraio 09, 2013, 10:47:58 am

Il realismo di Bersani contro il rischio ingovernabilità

Pubblicato: 05/02/2013 18:52


Lucia Annunziata
Direttore, L'Huffington Post


Il principio di realtà ha rifatto il suo ingresso nella campagna elettorale. Pier Luigi Bersani e Mario Monti si sono scambiati segnali di pace, dopo settimane di tensioni. Un cambio di clima destinato a durare o semplice "cortesia istituzionale" da parte del Segretario del Pd, che oggi è a Berlino, la patria spirituale della presidenza Monti?

Escluderei il gesto di "cortesia". Impegnato nello sprint finale di una competizione dominata da grandi spinte a sinistra, e da una vasta platea di scontenti e potenziali non votanti, per Bersani non deve essere stato semplice rilanciare la collaborazione con un Premier, quale ancora è Monti, contro cui, a torto o a ragione, si stanno scagliando sia la destra che la sinistra.

Ma il segretario del Pd ha una dote che è molto sua - e di cui oggi ha dato ennesima prova: il realismo, appunto.

Negli ultimi giorni Piazza Affari, trainata verso il basso da Mps, Saipem, Seat pagine gialle, ha fatto di nuovo tremare i mercati internazionali. Il Wall Street Journal, JP Morgan, e le borse europee hanno immediatamente riacceso i fari sul pericolo italiano - reintroducendo nell'orizzonte politico nostro un termine "ingovernabilità" che sembrava sparito. La possibilità che dalle urne non esca una vittoria limpida per nessun partito, è stata ampiamente assegnata, sia in patria che all'estero, alla rimonta nei sondaggi di un Silvio Berlusconi ormai chiaramente antieuropeo.

Ma il segretario del Pd sembra stavolta non aver abboccato alle facili consolazioni di chi preferisce scaricare tutto sugli avversari, specie se questi sono "gustosi" come il Cavaliere. Nella idea di una ingovernabilità italiana c'è infatti una verità che vale per tutti: una nazione che si definisce ingovernabile è un paese potenzialmente fuori controllo.

La crisi di Piazza Affari degli ultimi giorni in questo senso è stata rivelatrice di una fragilità economica del sistema italiano in buona parte indipendente anche dalla crisi internazionale; un disvelamento di quel mix di cordate di interessi, incapacità, furbizia e pura e semplice corruzione che da almeno un decennio ha trasformato in bad company le migliori aziende italiane. Questo aspetto tutto nazionale, interno, delle turbolenze economiche ha immesso nel dibattito elettorale una urgenza che, a dispetto delle molte parole fin qui spese, non si era ancora avvertita.

Un partito grande come il Pd, su cui pesano forti aspettative dentro e fuori delle nostre mura, può sottovalutare il rischio una possibile catastrofe, non importa quanto buone siano le sue intenzioni sul futuro governo? Rinsaldando il rapporto con Monti oggi Bersani ha preso la strada della prudenza, ha riaperto un dialogo che lo aiuta presso i moderati, e presso le opinioni pubbliche internazionali, che ancora vedono in Monti un garante.

Non deve essere stato facile, si diceva. La decisione di riallacciare con Monti lo espone alle critiche della sinistra dentro e fuori la sua coalizione. Ancora di più, è una implicita ammissione dei limiti in cui si muoverà il prossimo governo. Infine (se mai ci fosse bisogno di consolazione o incoraggiamento) val la pena di ricordare a Bersani e ai suoi elettori che un partito è grande non per numero di voti né per senso della propria importanza, ma solo per quanto bene riesce a servire gli interessi comuni.

da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/il-realismo-di-bersani-contro-il-rischio-ingovernabilita_b_2623898.html?utm_hp_ref=italy


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - "Dio salvi l'Italia"
Inserito da: Admin - Febbraio 26, 2013, 10:09:59 pm

"Dio salvi l'Italia"

Pubblicato: 26/02/2013 00:01

Lucia ANNUNZIATA

La coalizione del centro sinistra ha vinto sulla carta. La sua è una vittoria così risicata da costituire una sconfitta rispetto al compito che dovrebbe (e vorrebbe) svolgere.

Il vincitore reale di queste elezioni è il Movimento 5 Stelle. Lo è per ragioni numeriche perché è il primo partito italiano, ma lo è soprattutto per ragioni sostanziali: è Grillo ad avere raccolto il consenso di chi vuole cambiare il sistema, e ad aver dato forma a quel ricambio generazionale - da così tante parti voluto e augurato per l'Italia. Il Movimento coagula insomma intorno a sé tutte le spinte "rivoluzionarie" che finora aveva mobilitato la sinistra. Poi, magari, scopriremo che anche questa è una illusione: ma per una buona parte della sinistra l'alfiere del cambiamento oggi non sono più né il Pd, né Di Pietro, né Ingroia, né Vendola, ma le bandiere stellate.

Al secondo posto della vittoria si colloca Silvio Berlusconi - proprio lui, in persona, dal momento che la scalata al cielo della ripresa elettorale è tutta dovuta al leader, che ha riaffermato il suo ruolo. La ragione di questo buon risultato è lapalissiana - le promesse di Silvio Berlusconi hanno ancora un forte consenso.

Ammetto tranquillamente che mentre mi aspettavo una forte affermazione di Grillo e consideravo evidente il default in cui si muove il sistema italiano, non avevo previsto la ottima performance di Silvio. E nemmeno la risicata affermazione del Pd.

Ancora una volta, come nel 2006, il Pd è partito con un vantaggio di quasi una decina di punti, ed è arrivato malamente al traguardo. Questa caduta deve ora aprire una discussione nel Pd. Per quel che mi riguarda è abbastanza evidente che, qualunque sia la ragione, il partito di Bersani non ha dato il senso di un cambiamento, nonostante le primarie, e non è riuscito a rassicurare sul lavoro. Sarebbe stato differente, si dice, se a correre come premier fosse stato Renzi. Io sono stata fra i Renziani, ma credo che con senno del poi non si può davvero riscrivere la storia.

Un altro senno del poi si applica in queste ore anche al risultato della lista di Mario Monti. "Se fosse rimasto da parte oggi Monti avrebbe potuto essere la figura intorno a cui costruire un nuovo governo di riforme/di transizione", si dice. "Vero, ma il quadro uscito dalle urne è comunque troppo frammentato per permettere una semplice soluzione "tecnica". Monti ha voluto "metterci la faccia", e la sua scelta, che non gli ha certo portato il consenso che sperava, rimane a mio parere una scelta più "coraggiosa" di quella di stare ad aspettare nell'ombra, protetto dal fango dello scontro politico, ad attendere su un piatto d'argento un premio istituzionale.

Ma tutto questo, cioè la discussione sul perché e il per come, è per molti versi già parte del passato. Il problema che le urne ci consegnano è che nessuno dei tre maggiori partiti ha i numeri per una solida maggioranza.

In altre parti di questa testata (vedi il blog del costituzionalista Ceccanti) si spiega il percorso ad ostacoli del percorso istituzionale fra governo che non c'è e governo che dovrebbe esserci. Un altro intervento (il blog di Andrea Bassi) spiega il meccanismo economico di cui siamo prigionieri e la aggressività con cui i mercati sono pronti a sbranarci.

La sostanza di tutti questi ragionamenti è che non possiamo non avere un governo, eppure non si riesce a capire come lo si costruisce. Questo è il catch 22 che domina a questo punto la nostra politica.

Le ipotesi per uscirne non sono molte. La più semplice da un punto di vista numerico è una grande coalizione Pd e Pdl - ma è una soluzione che va contro ogni altra indicazione di cambiamento espressa dal voto. Avallerebbe l'idea dei Grillini che il Parlamento sopravvive solo sull'inciucio e servirebbe solo ad aumentare esponenzialmente la perdita di consenso dei due partiti.

L'altra possibilità, che si contempla in queste ore, è che il Pd lanci una "Opa" (Offerta pubblica di alleanza), magari anche solo temporanea e di scopo, ai Grillini, per fare le riforme istituzionali e su questo vedere poi cosa si può costruire. Ma il Movimento 5 Stelle non sembra incline a esplorare tale possibilità, dopo che Bersani e Vendola sono stati fin qui dichiarati defunti.

Silvio Berlusconi da parte sua ha chiesto che il Viminale riconosca la parità del risultato - così nei fatti delegittimando la pur esile vittoria del Pd. Del resto, la sua è la posizione di maggior comodo: vincitore senza davvero esserlo, può restare in un ruolo di denuncia ed opposizione - filando magari tatticamente quando è necessario, e senza nemmeno dichiararlo, con i Grillini.

Gli Inglesi terminano ogni discorso con un "Dio salvi la Regina". Al momento ci viene da parafrasare con un "Dio salvi l'Italia".

da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/dio-salvi-litalia_b_2761702.html?utm_hp_ref=italy


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - E il Sistema si risvegliò grillino
Inserito da: Admin - Febbraio 28, 2013, 11:56:33 pm

E il Sistema si risvegliò grillino

Pubblicato: 27/02/2013 14:42

Lucia ANNUNZIATA

C'è qualcosa di imbarazzante nello svegliarsi e ritrovarsi in un sistema che improvvisamente abbraccia un partito che da tre anni nel peggiori dei casi ha insultato, nel migliore ignorato.

Una straordinaria operazione di gattopardismo è in corso, il cambiare per non cambiare, nostra specialità nazionale. La si può seguire live, minuto per minuto, mentre si ingrossa, si fa flautata, prende le misure, e poi si aggiusta. Non sia mai che in Italia non si sia con il vincitore.

Non sto condannando l'offerta di collaborazione da parte di Bersani a Grillo. L'alternativa, quella di formare un governo fra il Pd e Berlusconi è impossibile anche solo da immaginare, dopo tanti anni di scontri così laceranti.

Però, lo sdoganamento da parte di Pier luigi Bersani di un partito di cui il Pd fino al giorno del voto non si era mai nemmeno voluto accorgere, va chiamata quel che è. E non è la "rigenerazione" del Partito Democratico, e nemmeno la riscoperta di una piattaforma "comune", come dicono alcuni, ma una operazione politica obbligata.

Ma una cosa è fare alleanze politiche, altro è, come sta succedendo nel paese, fare operazioni di camuffamento ideologico.

Nell'entusiasmo con cui l'Italia (quella di sinistra ma con una buona rappresentanza di quella di destra) scopre i Grillini c'è molto retropensiero, e altrettanto ce n'è , azzardo, da parte dei Grillini stessi.

Il vero scopo del Sistema ( esse maiuscola obbligata in questo caso) è addomesticare questa forza che lo critica.

Non costituisce uno scoop raccontarvi quel che si dice in giro. Nel quadrilatero dei Palazzi romani si sussurra "ma guardati intorno, quando arriveranno qui piano piano anche loro si aggiusteranno". E' il solito gioco: vedrete l'effetto che fanno gli ori, gli incarichi, i quadri antichi, i corazzieri che scattano (ebbene si, se Grillo andrà alle consultazioni al Quirinale ci sarà una intera fila di corazzieri a sbattere i tacchi e a fare il saluto). Il senso di rilevanza che ti viene dal poter governare il tuo paese è un afrodisiaco sul cui altare sono rimasti intossicati tanti destini : come si spiegherebbero altrimenti gli straordinari errori fatti da tanti ( e tante) pur di rimanere in quel quadrilatero?

In effetti, la vicenda politica che più ricorda quella dei Grillini oggi, sembra avere proprio questa morale: quando la Lega arrivò venti anni fa, si materializzò sulla scena con la stessa irruenza e lo stesso distacco del M5S... "e guardate come è finita", dicono le vecchie volpi. E effettivamente il viaggio ideale leghista da quei primi anni in cui mangiavano solo in pizzeria e stavano a Roma solo il minimo necessario, fino agli abusi del denaro pubblico, è uno dei più deprimenti passaggi della storia recente.

Il retropensiero del sistema sui Grillini è dunque che sono dei provinciali e, soprattutto, degli sprovveduti. Basterà aprirgli le porte e si adegueranno.

Ma i Grillini, immagino, essendo un movimento così "alternativo", siano rafforzati contro le lusinghe di qualche lustrino e un po' di immagine. Pragmatici, tattici, e alternativi, appunto, finora hanno seguito la felice tattica di "entrare" nel sistema ma per "aprirlo come una scatoletta da tonno". Questo è il loro obiettivo politico. Confermato già stamattina dalla risposta drastica con cui Grillo ha rimandato al mittente la "apertura" di Bersani.

Magari il dialogo fra Pd e M5S non si chiude qui, ma Grillo è un capo politico che ha creato dal nulla e in breve tempo un partito di successo: è inimmaginabile che ora "ceda" generosamente a quel sistema cui si contrappone (e che considera "morto") la guida dei suoi voti. Come tutti i leader, ha bisogno invece del potere massimo per mettere in atto il suo programma. Meno di Palazzo Chigi non credo che ci sia nella sua testa.

L'atteggiamento più serio in questo momento, viste le circostanze, sarebbe quello di rispettare la diversità di Grillo, aprire un vero canale di dialogo (non mirabolanti offerte di governo insieme) ma mantenendo ciascuno le proprie identità, e misurandosi da forza politica a forza politica, da quel che si è. Senza finzioni.

da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/e-il-sistema-si-risveglio-grillino_b_2772971.html?utm_hp_ref=italy


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Contenta che Lei resti, Presidente. Ma i saggi fanno miracoli
Inserito da: Admin - Marzo 31, 2013, 07:42:53 pm

Contenta che Lei resti, Presidente. Ma i saggi fanno miracoli?

Pubblicato: 30/03/2013 20:02


La decisione di Napolitano di formare due gruppi di lavoro ci fa piacere soprattutto perché, dopo aver temuto per sue dimissioni, ci lascia in compagnia del Presidente fino all'ultimo giorno di mandato.

Nel merito, tuttavia, sono scettica.

Possono due Commissioni, per quanto formate da personalità eccellenti, di fatto "negoziatori supplementari", individuare proposte condivise in un paese così diviso da essere arrivato a questo punto di stallo? Può un gruppo di saggi fare (e in pochi giorni, visto che il 15 aprile inizia l'iter per l'elezione del Presidente della Repubblica) quel miracolo che lo stesso Napolitano non è riuscito a fare, cioè trovare una base su cui indicare un nome che faccia il governo?

Può essere. Vista la rilevanza dei nomi, sarò contenta di essermi sbagliata.

Alcuni, in queste ore, pongono delle domande sulla correttezza istituzionale del ruolo di questo gruppo di saggi. Non credo che ci siano problemi - il Quirinale sa di certo cosa fa in merito, visto che è il guardiano della Costituzione. Ma, oltre ad essere costituzionale, l'indicazione dei saggi è anche rispettosa delle attese di noi cittadini?

Con il voto si scelgono i nostri rappresentanti in Parlamento; poi, chi ha la maggioranza governa. Se la maggioranza non si trova il Presidente indica nuovi nomi, nuove formule, fino a trovare una maggioranza. Sennò si torna a votare. Ma Napolitano non può sciogliere le Camere perché a fine mandato.

Queste Commissioni sono dunque un ulteriore passaggio che si infila in questa sequenza di passaggi aumentando, diciamo così, lo spazio delle consultazioni; disegnando per Napolitano un percorso che permetta al Presidente di "costruire" il consenso dei partiti lì dove andando alle Camere, à la carte, questo consenso non si trova.

Sembra un percorso giusto, ma nei fatti (e qui ritorno al peso della realtà) vi si cela il forte rischio di creare una camera di compensazione alla incapacità dei partiti stessi.

Può funzionare, come dicevo. Tuttavia, noi non abbiamo votato per questi saggi, ma per i nostri parlamentari. I quali, tanto per parafrasare il vecchio Franklin Roosevelt, non saranno perfetti ma sono pur sempre i nostri parlamentari.

L'ultimo dubbio: che l'incarico a queste (tutte ottime, ripeto) persone sia solo l'ennesima soluzione all'italiana - quando non sai cosa fare, fai una commissione. È il modo migliore per fare senza fare, e, soprattutto, per procrastinare.

Che alla fine, forse, è tutto quello che serve: arrivare con una certa dignità, di fronte ai cittadini italiani e ai mercati internazionali, all'elezione per il Presidente della Repubblica, fra due settimane.

da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/contenta-che-lei-resti-presidente_b_2985407.html?utm_hp_ref=italy&utm_hp_ref=italy


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Di elezioni-non-fatte è morta la Seconda repubblica
Inserito da: Admin - Aprile 01, 2013, 11:16:12 pm

Se non c'è maggioranza seria, al voto subito.

Di elezioni-non-fatte è morta la Seconda repubblica

Pubblicato: 27/03/2013 17:38

Lucia ANNUNZIATA

Le sirene della stabilità hanno ripreso a cantare: governo comunque, governo a tutti i costi, governo in ogni caso. In nome dell'interesse nazionale.

Ma siamo davvero sicuri che l'interesse nazionale sia servito al meglio da un governo comunque? Prima che Bersani salga al Quirinale, in condizioni in cui è evidente che non ha nessuna maggioranza, è meglio chiarirci su questa domanda.

Ma se la sua soluzione dipende da un patchwork di voti di gruppi non omogenei fra loro (Lega, Monti, fuoriusciti vari?), da manovre parlamentari (il Pdl che esce dall'aula per abbassare il quorum?) o, ancora peggio, da trattative non trasparenti sul futuro capo dello stato (non voglio prendere nemmeno in considerazione alchimie intorno alla conferma dell'attuale capo dello stato che è persona troppo seria per tali trame), pensiamo davvero che i cittadini e il resto del mondo potrebbero sentirsi rassicurati da questi castelli di carta? Meglio il voto subito.

Meglio tornare subito alle urne che infilarsi in un governo debole. Per quanto pericoloso, e incerto, sia un nuovo voto, sarebbe almeno da parte della classe dirigente una presa d'atto della profondità della crisi, nonché un atto di fiducia nei cittadini.

Una delle ragioni che si può portare a favore di questa posizione è che di elezioni-non-fatte è morta la Seconda Repubblica.

I governi messi insieme alla meglio, gli esperimenti politici audaci, sul filo delle regole, in nome "della stabilità" del paese sono stati una vera e propria malattia di questo ultimo ventennio. Una malattia di cui, purtroppo, è stata più affetta il centrosinistra di ogni altra forza - e anche questo è un elemento su cui ragionare in queste ore.

Con risultati sempre peggiorativi: a ogni "pasticcio" cucinato per Palazzo Chigi ha sempre fatto seguito solo un ulteriore avvitamento del sistema.

Ricorderei qui il primo caso di questa febbre istituzionale, il "ribaltone" Dini con cui nel 1994 il centro sinistra ci si liberò di Silvio Berlusconi senza incorrere nel pericolo di sfidarlo di nuovo nelle piazze. Il governo tecnico raffreddò per un po' il sistema, e diede modo alla sinistra di vincere la sfida elettorale successiva, nel 1996. Ma solo in apparenza. L'operazione Dini infatti rafforzò definitivamente Silvio Berlusconi, confermando presso una buona parte dell'elettorato italiano la natura infida della sinistra e lo status di vittima della stessa del Cavaliere.

Il governo del ribaltone non portò tuttavia fortuna nemmeno al centro sinistra la cui vittoria venne piagata da manovre di palazzo fin dall'inizio. Non a caso a soli due anni dal suo insediamento cadeva Romano Prodi, e ci si dovette porre di nuovo la domanda: tornare o meno al voto. Si decise di no, per il solito richiamo alla responsabilità (rinforzato allora dal conflitto in corso nei Balcani), e D'Alema andò a Palazzo Chigi. Ma lui stesso senza la stabilità necessaria che un voto popolare gli avrebbe assicurato. Un errore gravissimo che come tale D'Alema ha riconosciuto nel suo recente libro intervista con Peppino Caldarola. La decisione di non tornare alle urne avviò un lungo periodo di tensioni dentro e fuori il governo di centro sinistra, che infatti cambiò altri due governi in tre anni, tutti espressione di accordi di Palazzo. Contribuendo non poco a formare quella immagine di Casta che ha perseguitato da allora le elite politiche.

La scelta tra votare o meno si è ripresentata ancora per il secondo governo Prodi che vinse di poco nel 2006 e durò solo 722 giorni. Governo brevissimo, che servì a ridare a Berlusconi una maggioranza schiacciante nelle urne, nel 2008.

Salvo dover anche lui uscire da Palazzo Chigi anticipatamente sotto il giogo di una crisi senza precedenti. Le sirene della responsabilità alla sua uscita intonarono subito il canto "governo, governo", per dare affidabilità all'Italia di fronte alle istituzioni internazionali. E invece delle elezioni arrivò un ennesimo governo senza voto, sul filo delle regole - il governo tecnico affidato a Mario Monti. Anche questo è durato poco, non ha risolto quasi nulla, e, come le urne hanno dimostrato poche settimane fa, sembra essere servito solo a deprimere il paese, frazionare il voto, e incarognire ulteriormente l'umore nazionale.

Nella breve storia di venti anni, c'è scritto insomma una lezione su cui meditare. Non sappiamo se a ognuna di queste congiunture andare alle elezioni avrebbe dato migliore soluzione ai problemi, ma possiamo dire con certezza che ogni governo nato senza maggioranze numeriche e politiche sicure ha peggiorato le condizioni iniziali di crisi.

In questo senso si deve riformulare oggi l'idea di responsabilità. Essere responsabili oggi significa rifiutare l'ennesimo governo debole, l'ennesimo prodotto di alchimie parlamentari e politiche.

http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/se-non-ce-maggioranza-seria-voto-subito-di-elezioni-non-fatte-e-morta-la-seconda-repubblica_b_2964458.html?utm_hp_ref=italy&ref=HREA-1


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Settimana tumultuosa per il Pd.
Inserito da: Admin - Aprile 11, 2013, 11:46:26 am

Barca, Renzi, Vendola. E se fossero un po' più simili di quel che appare?

Pubblicato: 07/04/2013 10:32

Lucia Annunziata

Settimana tumultuosa per il Pd.

Tanto da far immaginare l'inizio di una resa dei conti fra le molte aree e ambizioni interne. Al punto che non è mancato chi ha evocato lo spettro della scissione. Non sono del tutto convinta, però, che la rottura sia lo sbocco delle vicende che si stanno svolgendo sotto i nostri occhi.

Effettivamente, Matteo Renzi, Nichi Vendola e Fabrizio Barca nel giro di pochi giorni hanno cambiato il panorama interno del partito; ciascuno a proprio modo.

Il Sindaco di Firenze ha rotto le esitazioni con cui ha ricoperto la sua voglia di contare nella vicenda politica nazionale - tra le altre cose facendo sapere di voler fare pesare la opinione sua e dei suoi circa 50 eletti nella scelta del Presidente della Repubblica.

Il Governatore della Puglia - che ha già preso su di sé dopo le elezioni il ruolo di pontiere fra il partito di Bersani e il M5S costruendo convergenze con gli eletti di Grillo su diritti civili, notav, ritiro soldati dall'Afganistan - ha fatto fare un passo avanti al rapporto fra Sel e Pd invitando I due organismi a "mescolarsi". Di fatto avviando una fusione informale ma non per questo meno chiara.

Infine è arrivata la prima confessione - timida ma, anche questa, non meno chiara - da parte di Fabrizio Barca , di interesse "per le sorti del partito". Barca è al momento ancora ministro del governo Monti, ma negli ambienti del Pd intorno alla sua figura da tempo si fanno anticipazioni, o si disegnano scenari, il più importante dei quali quello di futuro leader .

Decisamente, un affollarsi di persone e progetti che appare come inizio inevitabile della competizione per la segreteria e per la identità del Pd, con Barca e Vendola in un posizionamento più di "sinistra", e Renzi uno più "moderato". Differenze e ambizioni ci sono tutte, ed è sicuro dunque che produrranno calor bianco. Ma produrranno anche una guerra che sfascerà l'attuale partito?

Su questo sono ottimista. I tre uomini ( ma va anche immaginato che non rimarranno i soli a scendere in campo in un processo di rinnovamento) hanno in comune un elemento più forte delle stesse differenze: la cultura di governo. Ad essere più precisi, tutti e tre sono quel che sono oggi perché si sono formati in esperienza di governo, da sindaco, ministro, e governatore. Nessuno di loro è un "politico puro", una creatura di partito, o di scranni parlamentari .

Renzi certo è uno dei sindaci della generazione che ha criticato l'ideologia corporativa e assistenziale divenuta sinonima di funzione pubblica. Famosi , e ancora oggi significativi, sono i suoi scontri con il sindacato. Ma la sua idea liberista rimane tutta rappresentata dallo Stato.

Così come è alla gestione pubblica che Barca e Vendola affidano la pietas e lo stimolo dell'equilibratore dello sviluppo.

Tutti e tre ,insomma, ancorano la loro visione politica al ruolo dello Stato, non del settore privato, né di una economia pienamente di mercato. In questo rimanendo tutti e tre in piena tradizione della sinistra.

da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/barca-renzi-vendola-e-se-fossero-un-po-piu-simili-di-quel-che-appare_b_3031446.html?utm_hp_ref=italy&utm_hp_ref=italy


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Prodi e il Sudoku grillino
Inserito da: Admin - Aprile 14, 2013, 11:20:53 pm

Prodi e il Sudoku grillino

Pubblicato: 13/04/2013 19:01


Lucia ANNUNZIATA

Non capisco come il sistema politico possa essere in diniego così assoluto. Piaccia o meno, Grillo e il suo movimento hanno vinto qualunque partita sia stata giocata fin qui. E ora, con il voto online per indicare il nuovo Presidente della Repubblica, hanno trovato il modo per condizionare anche la scelta per il Quirinale.

La tattica del M5S è stata per altro semplicissima. Il rifiuto di fare accordi sia con Bersani che con Berlusconi ha bloccato ogni tatticismo parlamentare riducendo le alleanze alla sola opzione Pd/Pdl. Una possibilità che ha fatto subito riemergere dentro il centrosinistra, e non solo, tutte le mai sopite tensioni sul rapporto fra le due coalizioni (inciucio o no?).

Stesso approccio per l' elezione presidenziale.

La selezione online del candidato dei cittadini di Grillo sembra una mossa minoritaria e di scarsa legittimità: il Presidente in Italia viene eletto dal Parlamento, dopotutto, e non con il consenso popolare diretto. Il voto online potrebbe essere dunque considerato poco più di un gioco.

Ma la forte richiesta di partecipazione diretta che si respira in questi tempi dà al metodo online la legittimità "emotiva" di un mini- referendum. Non solo: il gruppo selezionato dai M5S smuove il Sudoku politico in cui siamo bloccati.

La rosa contiene infatti una possibile soluzione alla attuale paralisi: almeno due dei nomi dei dieci, Bonino e Prodi, sono candidati che il Pd potrebbe votare. Dunque, se solo si volesse, da questo momento una maggioranza fra M5S e Pd ci sarebbe. Viceversa, se nessuno dei due candidati in comune fra Pd e M5S sarà eletto, i cittadini di Grillo potranno urlare alla "svendita" del Pd, incastrandolo, ancora una volta, alla sua ambiguità.

Silvio Berlusconi, che ha ben capito la delicatezza di questo snodo, non a caso davanti a migliaia dei suoi fan a Bari ha tracciato una linea di guerra proprio sulla elezione di Prodi a Presidente.

Come si vede, la natura della vittoria del M5S è nella dinamica che è riuscito ad innescare, obbligando tutti a concentrarsi su tutto quello che è nuovo. Definendo la "novità" non con criteri generazionali, alla Renzi (nella rosa per il Quirinale sono tutti molto avanti negli anni), ma di "estraneità" al sistema come fin qui conosciuto.

La forza trainante dei cittadini grillini è possibile che non sia profonda, e nemmeno duratura. Nel giorno per giorno, i nuovi eletti faticano. Appaiono sprovveduti di soluzioni concrete, e incapaci di muoversi su tutti i versanti della società, non solo quello parlamentare - è significativo che sulle questioni del lavoro e della crisi, in questo momento al centro delle scelte più urgenti, siano assolutamente muti.

Ma questi limiti non diminuiscono l'impatto avuto dai grillini. La politica italiana è nelle mani dei loro veti e consensi. E se il Parlamento è la testa del Paese, è il caso di aspettarsi un inevitabile effetto trickle down, come nella famosa teoria economica così cara a Reagan.

da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/prodi-e-il-sudoku-grillino_b_3076634.html?utm_hp_ref=italy


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Un governo perbene, di ricambio generazionale, ma debole
Inserito da: Admin - Aprile 28, 2013, 12:04:32 pm

Un governo perbene, di ricambio generazionale, ma debole

Pubblicato: 27/04/2013 22:04

Lucia ANNNUNCIATA

Un governo per bene, con un segno di forte ricambio generazionale, ma debole. In cui le figure piu' forti sono I tecnici , e non I politici. Un governo il cui dna politico maggioritario e' quello che discende dall'aria dc( ce ne sono 6, a cominciare dalle dominanti figure del Premier e del Vicepremier; e due sono di Cl, cosa che a mia memoria non e' mai successo), in cui I diritti non sono rappresentanti da figure forti , in cui il tema lavoro e' sostanzialmente fuori, tutto affidato com'e' alle sole spalle (pur larghissime) del Presidente Istat, e in cui, cosa ancora piu' rilevante di questi tempi, non c'e' nessuna figura che parli all'anticasta. Questo e' in poche parole il mio giudizio sull'esecutivo Letta. Immagino che questa media intensita' politica sia pensata come la ricetta che serve per "riconciliare" il paese, che e' l'obiettivo dichiarato del presidente Napolitano nell'avere cosi' tenacemente perseguito questa operazione. Sicuramente l'assenza dei signori della Guerra della seconda repubblica ha l'effetto positivo di sgombrare il campo da troppi rancori accumulati, troppe storie irrisolte. Ma la conclusione di un ventennio di scontri laceranti in un paese e' una questione etica? Una questione estetica, di adrenalina, di umori? In altre parole - per rappacificare l'Italia ci serve un governo di "tranquilli", di gente "che va d'accordo"? Di persone che sanno mediare? Va detto, a questo punto, semmai non ve ne ricordaste, che mi colloco tra chi ha partecipato pienamente agli scontri e alle passioni della Repubblica che si conclude. Dunque gli occhi con cui guardo al governo Letta appena formatosi sono certamente annebbiati. Ma il vantaggio di navigare nelle passioni del passato e' che chi vi sta dentro puo' almeno dire con certezza quel che serve per superarle. In Italia ci siamo "scannati" piu' o meno a bassa intensita' ( dalle prese di posizione di moderati come me, ai visionari rifiuti di chi non ha mai fatto passare nulla ai propri avversari) per ragioni concretissime, non ideologiche. Abbiamo avuto per venti anni soluzioni diverse fra destra e sinistra per questo paese: sul lavoro, sulle tasse, sui diritti civili, sul sud e sul nord, sulle donne e sugli uomini, su fede e laicita', su potere e politica, su gestione della cosa pubblica e liberta' individuale. Queste diverse visioni si sono acuite negli anni a causa di una crisi sociale economica che ha reso I margini di mediazione fra le parti cosi' sottili da essere ormai inutilizzabili. La pacificazione sociale che , e' vero, e' il diritto di ogni cittadino a vivere nelle migliori condizioni possibili, non e' un atto d'amore reciproco. E' una soluzione concreta dei conflitti. In altre parole: l'Italia si pacifichera' se si sapra' dare soluzione "condivisa" ai suoi problemi. E questi problemi oggi si avvitano non intorno a chi e' di destra o di sinistra, ma intorno a disoccupazione , paura del futuro e sfiducia in una classe politica avvertita come parte del problema non come risolutrice del problema. Puo' darsi che il governo che sta nascendo fara' tutto questo. Io non me ne auguro il fallimento, perche nessun cittadino puo' augurarsi che il gruppo che guida il paese non sia adeguato. Seguiro' dunque con doverosa attenzione ogni passo che sara' fatto da Letta e dai suoi uomini e li giudicheremo senza pregiudizi. Per altro tre di loro sono blogger di questa testata. Ma penso che la costruzione dell'intero edificio di Enrico Letta guardi piu' alle camere interne della politica che a quello che c'e' fuori; che abbia uno sguardo piu' sulle alchimie della compensazione fra le diverse posizioni dei partiti e del parlamento che sul tumulto che divide il paese. Temo, insomma, che sia troppo debole per il vigoroso compito di guidare una nazione in un passaggio del genere. Vedremo.

da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/un-governo-perbene-di-ricambio-generazionale-ma-debole_b_3170965.html?utm_hp_ref=italy&ref=HREA-1


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Il sogno di un week end di pacificazione rovinato dal ...
Inserito da: Admin - Maggio 15, 2013, 12:03:52 pm

Il sogno di un week end di pacificazione rovinato dal ciclone della realtà

Pubblicato: 11/05/2013 22:36

Lucia ANNUNZIATA

Doveva essere un fine settimana di raccoglimento. Niente distrazioni, spiritualità della natura, il peso delle preoccupazioni quotidiane abbandonate come la giacca dell'abito quotidiano da lavoro. Enrico Letta è un uomo che conosce bene l'efficacia di questi rituali da grande club intellettuali come Aspen , o Pontignano.

È probabile dunque che sia stato l'entusiasmo per le sue esperienze a dettargli quel twitter così inatteso "domenica tutti insieme a fare spogliatoio". Un gesto giovanile, con quella voglia di buttare il cuore oltre l'ostacolo. Un invito sorprendente per uno come lui accusabile più di prudenza che di passione.

Peccato che la realtà si sia scatenata come un ciclone su questo progetto. Facendo saltare il sogno di un weekend, e mettendo a nudo l'animo del governo di pacificazione.

A Brescia Silvio Berlusconi ha raccolto I suoi uomini e le sue donne, per manifestare contro il giudici, alla vigilia della volata finale a Milano del processo Ruby. Non so cosa ne pensiate voi, ma manifestare contro i giudici, specie se si è imputati, mi sembra un atto piuttosto eversivo. Specie se l'imputato è il capo di uno dei maggiori partiti politici del paese.

Ma la storia della Guerra fra Giudici e Berlusconi ci accompagna da tanto tempo che per molti di noi comincia a somigliare alle Guerre Puniche. Per cui la manifestazione di Brescia avrebbe persino potuto risultare "scontata" se non avesse avuto quel tocco di fatale novità: fra i "convocati " contro I giudici c'erano infatti anche tre bei nomi del Pdl, che siedono anche nel governo Letta. E che nomi, e che posizioni. Al fianco del leader Silvio sono accorsi infatti il Vicepremier Angelino Alfano, che è anche ministro degli Interni nel nuovo governo, il Ministro Lupi, e il Ministro-Saggio Gaetano Quagliariello che nell'esecutivo è entrato addirittura in quota Napolitano.

Per essere un governo che deve lavorare alla pacificazione nazionale non è male, direi. E infatti ieri a Brescia di pacificazione ce n'era molto poca. Giusto quel tanto che è riuscito a imporre la polizia dividendo manifestanti pro Berlusconi da manifestanti anti Berlusconi.

Come atto iniziale di nuove larghe intese è stato, diciamolo, interessante.

I membri Pdl del governo si sono difesi dicendo che l'appartenenza al loro partito rimane parte della loro identità. E sono stati pronti a puntare il dito contro Letta che nelle stesse ore si è recato alla assise romana in cui il Pd ha eletto il nuovo segretario del Partito Democratico, Guglielmo Epifani.

Parallelismo perfetto, se non per un piccolo dettaglio di contenuti. La differenza fra Alfano e Letta, fra Pdl e Pd, è che il primo con la sua manifestazione sostiene posizioni che non sono parte del governo in cui siede, e il secondo ha evitato accuratamente di prendere atto di questo distacco.

Per molti versi, quel che esce dalla giornata è una sorta di teoria della convivenza morganatica. Il governo delle larghe intese si configura infatti come la vita di quegli uomini che hanno una doppia famiglia: una vita parallela fra due case, in cui tutti sanno ma in cui ciascuno sceglie o si illude di scegliere la finzione di un amore.

Ma forse questa è solo la versione di una donna. Prendetela così. Forse davvero la politica ci dimostrerà che si può convivere bene anche non condividendo quasi nulla. Vedremo.

Di certo però , come succede in tutte le famiglie in cui c'è maretta, il week end ne è uscito rovinato. Il lungo fine settimana di due giorni si è accorciato di brutto. Il ritiro comincia oggi domenica a fine giornata, alle 17 , e finisce domani, lunedì , alle 11.

da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/il-sogno-di-un-week-end-d_b_3260507.html?utm_hp_ref=italy&utm_hp_ref=italy


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Matteo Renzi vive in una bolla di consenso
Inserito da: Admin - Giugno 03, 2013, 04:50:11 pm

Lucia Annunziata
Direttore, L'Huffington Post
RICEVI AGGIORNAMENTI DA Lucia Annunziata
 

Matteo Renzi vive in una bolla di consenso. Una bolla speculativa come quella di Internet (che scoppiò nel 2000), quella immobiliare dei subprime (2007), o come la bolla del tulipano nel '600 in Olanda. Nel senso che il sindaco di Firenze raccoglie oggi molto più valore sul mercato del consenso politico di quello che è il suo vero potere su questo stesso mercato. E' amato da tutti, raduna folle, ma il suo itinerario politico è forse al punto più basso del suo percorso.

Renzi si trova, in altre parole, nella posizione esattamente contraria a quella delle Primarie, quando il consenso che lo circondava era molto minore del peso specifico che aveva nella battaglia politica

Su cosa si base questa valutazione? Su un fatto: il sindaco oggi non ha davvero nessuna collocazione. Ogni possibilità che trovasse un suo ruolo, dopo la sconfitta delle primarie, ha sbattuto contro le porte chiuse dal Pd - gli è stato detto no alla richiesta (piccola) di fare il grande elettore nella corsa per il Quirinale; si è ritirato dalla corsa alla presidenza dell'Anci per evitare di innescare problemi con altri sindaci del Pd; nessuna fortuna ha avuto il suo endorsement per Prodi (che ha macinato in verità non solo lui, e che rimane uno degli episodi più rivelatori del livello di violenza della battaglia interna al Pd). Questo sigillo di esclusione dalla rappresentanza del partito lo ha accompagnato fino a poche settimane fa, come rivela nel suo libro, in cui racconta che Berlusconi in prima persona gli ha comunicato di preferirgli Enrico Letta come premier del nuovo governo.

Oggi il sindaco continua a non avere voce reale nelle decisioni sulle regole interne (da riscrivere) del Pd. E pare che anche l'innesto di un suo uomo in segreteria come responsabile della organizzazione sia destinato a sfumare.

In sintesi, Matteo Renzi in questi ultimi mesi è stato di fatto, ed efficacemente, tenuto fuori dalle porte del partito: una condizione molto difficile per chi ha bisogno di costruire un percorso politico.

Non era così all'epoca delle primarie. Anche allora il sindaco era un "outsider" in termini di organizzazione, (o di "cerchio magico") ma la sua causa di allora, la "rottamazione" aveva una forte eco interna, interpretava bene cioè l'umore generale degli iscritti.

Oggi Renzi non solo è ancora un "outsider" ma la sua battaglia appare meno focalizzata, e meno chiara di prima: è amico del governo o ne è uno sfidante? vuole ancora cambiare il Pd e come (nel suo ultimo libro rottama la rottamazione)? Vuole fare il premier? Vuole fare il segretario? Non sono domande sulle cariche. A ognuno di questi interrogativi corrisponde un itinerario e un progetto diverso.

La bolla di consenso di cui parlavo è il prodotto di questo squilibrio fra posizionamento, progetti, e la grande speranza e popolarità che lo circonda.

Oggi tutti pensano che il fiorentino ha un futuro. Io stessa penso, come sanno i nostri lettori, che è l'uomo che ha più possibilità nel centro sinistra di aggiudicarsi il voto popolare in una prossima elezione. Ma in questo momento la sua scelta di rilanciare una forte campagna di presenza pubblica, i suoi interventi ad alto tasso di visibilità, si lasciano spesso dietro più la scia delle rockstar che quella del leader politico con una strategia.

Questa valutazione non è una diminuito del valore che Renzi ha per il Pd e per gli elettori di centro sinistra. Ma se questa bolla c'è (e questa mia opinione potrebbe rivelarsi errata), come tutte le sopravvalutazioni speculative, è destinata a scoppiare.

Forse è bene che Matteo Renzi si fermi un attimo e rifaccia il punto.

DA - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/la-bolla-politica-intorno-a-renzi-che-ne-dice-il-sindaco_b_3372272.html?utm_hp_ref=italy


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Le infamie di Grillo contro di me. E la mia risposta.
Inserito da: Admin - Giugno 03, 2013, 11:50:46 pm

Le infamie di Grillo contro di me. E la mia risposta.

Giudicate voi

Pubblicato: 03/06/2013 21:39

Riporto qui di seguito l'attacco di Beppe Grillo nei miei confronti. E la mia risposta. Voi siete I nostri lettori. Giudicate voi.

    ( ANSA) - PIAZZA ARMERINA, 3 GIU - Beppe Grillo di nuovo contro stampa, Tv e Rai durante il comizio a Piazza Armerina dove attacca, tra gli altri, Lucia Annunziata e Andrea Vianello. Poi se la prende con un operatore tv che allontana da sotto il palco: "Fuori! Ho detto fuori! Spostati, poi la facciamo insieme l'intervista. Questa gente deve essere isolata". E "l'Annunziata quando era direttore del Tg3 ha ricevuto 150mila euro dall'Eni per una performance teatrale a Milano, e altri 150mila euro per la gestione del giornalino interno".


La mia risposta inviata a tutte le agenzie.

    "Beppe Grillo continua la sua personalissima campagna di demonizzazione dei giornalisti confondendo e sovrapponendo - non so quanto non volutamente - informazioni che non stanno insieme tra loro.

    Per quanto riguarda il mio caso personale ha sostenuto cose non vere: che io sia stata contemporaneamente direttore del Tg3 e collaboratrice dell'Eni. Sono stata direttore del Tg3 dal 1996 al 1998 mentre la mia collaborazione con l'Eni è cominciata nel 2008 e finita nel maggio del 2012. Se non mi crede prenda pure le mie dichiarazioni dei redditi e verifichi.

    Quanto alla mia collaborazione con l'Eni, è vero sono colpevole: colpevole di aver partecipato alla stesura di un testo teatrale per il Piccolo di Milano andato in scena nell'anniversario della morte di Enrico Mattei. Il mio coinvolgimento nel testo riguardava l'anlisi della célèbre polemica Montanelli=Mattei avvenuta sulle pagine del Corriere della sera.

    Sono poi anche colpevole di aver coordinato il comitato scientifico di Oil, una "rivista clandestina sovversiva" su politica estera e petrolio, in collaborazione con due società carbonare, rivoluzionare e sconosciute come Foreign Policy e The Washington Post. La mia attività è stata ufficiale, e dichiarata alle tasse. In quel periodo non avevo nessun incarico dirigente in nessun altro media.

    Se questo significa che sono "pagata dall'Eni" - pratica di corruzione e come tale infamante - Grillo dovra' dimostrarlo con molto più di queste insinuazioni. E dovrà dimostrarlo davanti a un giudice.
    La triste verità è che l'unica libertà che Grillo sta dimostrando di poter rivendicare a pieno titolo è quella all'insulto e alla diffamazione.
    E, che gli piaccia o no, somiglia sempre di più a quei "vecchi politici" che dice di combattere, quelli a cui non piacciono i giornalisti che dicono quello che pensano."

da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/le-infamie-di-grillo-contro-di-me_b_3380213.html?utm_hp_ref=italy


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Cosa sarà ora Berlusconi? Polifemo o Andreotti?
Inserito da: Admin - Giugno 20, 2013, 11:48:02 am

Cosa sarà ora Berlusconi? Polifemo o Andreotti?

Allacciate le cinture

Pubblicato: 19/06/2013 21:35

Lucia ANNUNZIATA

Chissà cosa ci riserva ora Silvio Berlusconi. Sfonderà le porte a calci, o farà lo statista? Sceglierà il ruolo di Polifemo o quello di Andreotti? La differenza non sarà di poco conto per il paese. Ma di maggior conto ancora sarà per lui. La decisione dei giudici della Consulta a favore del tribunale di Milano che rifiutò di riconoscere il legittimo impedimento di Berlusconi, è un gravissimo colpo per il leader del Pdl che ora affronta in posizione di totale svantaggio un lungo tunnel processuale che deciderà il modo come si chiude la sua pagina politica e personale.

Eppure, per quando dura, la decisione della Consulta offre a Berlusconi anche una seconda chance. Il messaggio che i giudici gli inviano è in fondo semplice: gli ricordano che esiste la giustizia e che questa si fonda su strette regole. Non si può alternativamente rispettarle e romperle, non si può seguirle e giocarci. Non si può, in altre parole, per dirlo con una definizione ormai famosa, difendersi contemporaneamente nel processo e dal processo. In questo senso la decisione della Consulta è anche un invito, nonché una (possible) via d'uscita: accetti Berlusconi le regole, accetti il percorso, sia innanzitutto un uomo politico, una personalità dello Stato e con tranquillità accetti di essere un imputato come gli altri. Senza scorciatoie, furberie, ed evasione dalle responsabilità. Faccia, insomma, come un altro grande imputato di anni non lontani, Giulio Andreotti, appunto, la cui impassibile accettazione del processo lo ha (probabilmente) salvato da un destino pubblico, oltre che privato, ben peggiore. E (forse) proprio in questa accettazione c'è la seconda chance che da sempre Silvio cerca. Magari non la agognata assoluzione, ma di sicuro la valutazione che del suo operato resterà nel paese.

Non devo essere la sola a pensare queste cose, se già si è formata intorno all'ex Premier un nucleo di alleati, fra cui Ferrara, e l'avvocato Coppi, che gli consiglia di tenere una linea di nervi fermi, e di distinguere processi e politica.

Tuttavia, non è facile immaginare il Cavaliere nelle vesti di chi, come Andreotti fece con Caselli, si presenta obbediente seduta dopo seduta ad ascoltare immobile la corte. La partita che Berlusconi gioca non è, inoltre, solitaria. A differenza di Andreotti - che aveva tanti seguaci ma nessun accento populista, e detestava ogni forma di esibizionismo - il leader Pdl ha cresciuto una intera classe dirigente e raccolto tutti i suoi successi elettorali sulla mobilitazione di piazza contro o giudici, e, in generale, contro lo Stato.

Venti anni di suoi successi sono stati creati intorno all'invito a contestare un sistema statale considerato "illiberale" ,"iniquo" , "ingiusto". Che si trattasse di giustizia, ma anche di tasse e regole in generale. La "rivolta" è talmente parte del dna del movimento berlusconiano che appare molto difficile oggi per lui far ricorso a un "raffreddamento" dell'ultimo minuto. In fondo la classe dirigente del suo partito è fatta dal quel centinaio di senatori e deputati, fra cui ex ministri, che solo tre mesi fa ha sfilato al tribunale di Milano contro Ilda Boccassini.

Vero è che in questo momento il Pdl partecipa al governo e dunque ha molto da perdere nel caso ci sia uno scontro politico in appoggio al suo leader. Ma è anche vero che dentro il Pdl gli scontenti della partecipazione al governo sono molti e sono per lo più una vecchia guardia che è in caduta libera, che non ha da perdere molto insomma. Al contrario ha molto da guadagnare da un ritorno alle vecchie logiche di piazza. Quale di queste leve userà, dunque, Silvio? Sceglierà una via diversa o farà come sempre l'apprendista stregone di improbabili piazze, il giocoliere fra regole e disobbedienza? Vedremo. In ogni caso, c'e un consiglio che vale per tutti: allacciate le cinture.

http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/cosa-sara-ora-berlusconi-polifemo-o-andreotti-allacciate-le-cinture_b_3467669.html?utm_hp_ref=italy&utm_hp_ref=italy


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Perché il sistema vuol salvare Silvio e perché non farlo
Inserito da: Admin - Luglio 14, 2013, 11:43:00 pm

Perché il sistema vuol salvare Silvio e perché non farlo

Pubblicato: 13/07/2013 19:48

Lucia ANNUNZIATA

Ci sono tre ragioni, a mio parere, per cui il sistema, cioè quell'insieme di equilibri di potere che si erge in questo momento a garante della stabilità italiana, pensa che sia necessario "salvare" dalla condanna Silvio Berlusconi.

1) Silvio Berlusconi non è Bettino Craxi. Il leader socialista era un prodotto tutto interno alla politica. Craxi aveva molte doti necessarie a capire come muovere il sistema, ma poca "piazza". E soprattutto poco "retroterra". Il suo era un partito che faceva da vaso di coccio tra i vasi di ferro di due organizzazioni inchiavardate nella tensione della Guerra Fredda, la Dc e il Pci. La vicenda Craxi si svolge proprio sulla faglia di scongelamento di questo conflitto, e ne viene per molti versi assorbito come parte di un rimescolamento delle carte nell'intero mondo di allora.

Silvio Berlusconi invece è un leader che ha governato per buona parte di venti anni, non certo come prodotto della "politica", anzi rovesciando al suo interno la capacità di interpretare idee e bisogni popolari, oltre ai suoi interessi personali. Il suo partito, oggi in crisi, ha ancora un consenso che ammonta a un quarto dell'elettorato, ed è un consenso capace di scendere in piazza. Appoggiato inoltre, come ben sappiamo, da una sistema robusto di Tv e altri media. Cosa che Craxi non ha mai nemmeno sognato. Insomma, "estrarre" Silvio dalla Politica oggi è operazione potenzialmente molto più devastante di quella mirata su Bettino.

2) Silvio Berlusconi non è solo un politico potente, ma, come abbiamo appena ricordato, è anche un potente imprenditore: uno degli uomini più ricchi del paese. E non vanno sottovalutate le inquietudini e le paure che una eventuale condanna muoverebbe fra i suoi pari. La "invadenza" della magistratura nel mondo degli affari è una battaglia che Silvio combatte ad alta, ma che molti altri suoi pari, spesso silenziosi per senso della opportunità (propria), condividono. Nel mondo delle Ilva, delle ThyssenKrupp, delle delocalizzazioni selvagge, delle Pomigliano D'Arco, i giudici non sono amici. E quando si parla di "lacci e lacciuoli" di cui liberarsi per dare soluzione alla crisi spesso, come sappiamo, si parla di burocrazia, ma si intendono i tribunali. Una condanna del leader Pdl invierebbe a questo mondo un messaggio certo non ben accetto.

3) Silvio Berlusconi, e anche qui va fatto un paragone, ha una collocazione internazionale molto più solida di quella che aveva Craxi. Nel suo doppio ruolo di grande imprenditore e premier da venti anni è presente sulla scena mondiale. E nonostante le molte critiche ricevute non è esattamente privo di amici. A differenza di Craxi che aveva sfidato gli Stati Uniti in un periodo in cui Washington, delusi dai tradizionali alleati (in Italia la Dc) cercavano nuovi equilibri post-guerra fredda, Silvio ha con Bush un ottimo rapporto. E non ha in Obama - un presidente oggi debole ed esitante di fronte a ogni tipo di ingerenza all'estero - un nemico. In compenso ha come amico un uomo molto importante in Europa, quel Putin che domina vigorosamente la scena mondiale, e la cui amicizia non a caso è ampiamente sfoggiata dal politico Pdl.

Tutte queste ragioni portano a una conclusione che preoccupa il sistema: una eventuale condanna avrebbe un impatto sul tessuto politico italiano e internazionale molto serio. Sicuramente più grave di quello avuto dall'abbandono di Bettino Craxi. Invelenirebbe il panorama italiano, acuendone lo scontro interno. Imbarazzerebbe in via ufficiale (anche se a molti di loro in privato farebbero spallucce) i leaders occidentali, essi stessi messi sotto pressione da contestazioni, ed errori, in una crisi difficile da governare. La prima vittima - continua il ragionamento - sarebbe di nuovo la reputazione italiana, mostrando un paese più diviso che mai, dalla incerta governabilità.

La condanna di Berlusconi sarebbe nei fatti la condanna anche del governo Letta e forse di molti altri governi a venire, per lo strascico di divisioni e fallimento che si porterebbe dietro. Di qui l'aria di trincea, il dispiegamento a difesa intorno al governo Letta, e, anche, le fumisterie legal/istituzionali che oscurano il cuore del dilemma. Che è e rimane uno solo: si può e si deve cercare di "salvare" con un qualche escamotage legal/istituzionale Silvio Berlusconi dal giudizio di una Corte?

Le tre ragioni di cui ho fin qui parlato non sono infondate. Sono argomentazioni serie sulle conseguenze del terremoto che seguirà una eventuale condanna del leader Pdl. Ma, a mio parere, alle tre ne va aggiunta un'altra che da sola è forte come le altre insieme. Ed è la ragione per cui sono contraria che si "salvi il soldato Silvio".

"Salvare" un leader politico che manipola la Giustizia costituirebbe ugualmente per noi un danno alla nostra reputazione internazionale, confermandoci come l'anello debole della governabilità europea. Infine, inasprirebbe comunque la opinione pubblica. Alienando quella parte che vuole una politica con un chiaro rapporto con le istituzioni. Quello che vediamo in queste ore - la serenità di Silvio Berlusconi e le scosse che attraversano il Pd - è l'anticipazione di un diverso (ma ugualmente efficace) processo di disfacimento della stabilità governativa.

DA - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/tre-ragioni-per-cui-il-sistema-vuole-salvare-silvio-berlusconi_b_3592125.html?utm_hp_ref=italy


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Una questione di coerenza
Inserito da: Admin - Agosto 02, 2013, 11:25:56 am

Una questione di coerenza

Pubblicato: 01/08/2013 23:34


Lucia Annunziata
Direttore, L'Huffington Post

Leggerete molte parole nei prossimi giorni sulla sentenza della Cassazione.

Ma la sostanza dei fatti è (e rimarrà) molto semplice. Silvio Berlusconi è stato condannato, per evasione fiscale. Il che di questi tempi è, peraltro, un reato particolarmente odioso.

Questo mette il leader del Pdl in una condizione nuova, che cambia anche la situazione politica.

Il Pd non può in nessun modo evitare di prenderne atto, aprendo la crisi di questo governo in cui è alleato con Silvio Berlusconi. La dichiarazione del segretario Guglielmo Epifani ha già fatto un passo in questo senso.

Per i democratici è una questione di coerenza rispetto a tutta la sua identità, che riguarda non solo la giustizia, la pulizia del Parlamento, ma anche e soprattutto la natura e la qualità della politica.

Tra il Pd e il Pdl in questi ultimi venti anni è stato scavato un fossato le cui sponde sono state tracciate da quello che si pensava fossero la pratica, le regole e la finalità della vita pubblica. Per non parlare di programmi: per quanto critici si possa essere con il Pd, ci sono pochi dubbi che su tasse, lavoro, giustizia sociale, visione del sistema industriale, questo partito si è nettamente distinto dalla piattaforma del Pdl.

Capiamo le molte ragioni che hanno spinto Napolitano a lavorare per un governo di coalizione. Apprezziamo anche lo spirito di servizio con cui Letta si è preso l'incarico di guidare tale governo.

Ma la crisi delle nostre istituzioni maturata nella peggiore crisi economica degli ultimi anni, non sarà in nessun modo affrontata e ancora meno aiutata dal negare quello che è stata la storia di questo paese. Una storia di divisione, di lacerazioni, di ferite, che ha lasciato, in entrambi I lati, una sedimentazione dura di rancori, inimicizia e veri e propri odi.

Senza necessariamente dire che il Pd ha fatto tutto bene, o che il Pd è stata una forza politica senza macchia e senza paura - perché non è vero - non si esce da un lungo tunnel di scontri come quello che il paese ha vissuto in questi ultimi anni, semplicemente dichiarando una finta pace.

Se ne esce ricordando che, come si sente dire in queste ore, gli avversari non si battono per via giudiziaria, ma per via politica. Appunto. Si torni dunque alla politica. Si torni a un programma, a una proposta per la società, per uscire dalla crisi. Si prenda anche il rischio di nuove elezioni (ebbene sì, il porcellum si può cambiare velocemente se si vuole), per affrontare il giudizio del Paese.

Del resto, se mai avevamo bisogno di una dimostrazione del permanere in Italia di un clima di scontro, il messaggio con cui Silvio Berlusconi ha commentato la sua condanna è rivelatore. Se il Pd non prenderà atto che si è riaperta la Guerra dei Venti anni, come ama definirla il Pdl, glielo ricorderà con i fatti proprio il Cavaliere.

http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/una-questione-di-coerenza_b_3691897.html?utm_hp_ref=italy&utm_hp_ref=italy


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Un governo di ricambio generazionale, ma debole
Inserito da: Admin - Agosto 19, 2013, 07:37:33 pm

Un governo di ricambio generazionale, ma debole

Pubblicato: 27/04/2013 22:04


Un governo per bene, con un segno di forte ricambio generazionale, ma debole. In cui le figure più forti sono i tecnici, e non i politici. Un governo il cui dna politico maggioritario è quello che discende dall'aria dc (ce ne sono sei, a cominciare dalle dominanti figure del Premier e del Vicepremier; e due sono di Cl, cosa che a mia memoria non è mai successo), in cui i diritti non sono rappresentanti da figure forti,
in cui il tema lavoro è sostanzialmente fuori, tutto affidato com'è alle sole spalle (pur larghissime) del presidente Istat, e in cui, cosa ancora più rilevante di questi tempi, non c'è nessuna figura che parli all'anticasta.

Questo è in poche parole il mio giudizio sull'esecutivo Letta. Immagino che questa media intensità politica sia pensata come la ricetta che serve per "riconciliare" il paese, che e' l'obiettivo dichiarato del presidente Napolitano nell'avere così tenacemente perseguito questa operazione. Sicuramente l'assenza dei signori della Guerra della Seconda repubblica ha l'effetto positivo di sgombrare il campo da troppi rancori accumulati, troppe storie irrisolte.

Ma la conclusione di un ventennio di scontri laceranti in un paese è una questione etica? Una questione estetica, di adrenalina, di umori? In altre parole - per rappacificare l'Italia ci serve un governo di "tranquilli", di gente "che va d'accordo"? Di persone che sanno mediare? Va detto, a questo punto, semmai non ve ne ricordaste, che mi colloco tra chi ha partecipato pienamente agli scontri e alle passioni della
Repubblica che si conclude. Dunque gli occhi con cui guardo al governo Letta appena formatosi sono certamente annebbiati.

Ma il vantaggio di navigare nelle passioni del passato è che chi vi sta dentro può almeno dire con certezza quel che serve per superarle. In Italia ci siamo "scannati" più o meno a bassa intensità (dalle prese di posizione di moderati come me, ai visionari rifiuti di chi non ha mai fatto passare nulla ai propri avversari) per ragioni concretissime, non ideologiche. Abbiamo avuto per venti anni soluzioni diverse fra destra e sinistra per questo paese: sul lavoro, sulle tasse, sui diritti civili, sul sud e sul nord, sulle donne e sugli uomini, su fede e laicità, su potere e politica, su gestione della cosa pubblica e libertà individuale.

Queste diverse visioni si sono acuite negli anni a causa di una crisi sociale economica che ha reso I margini di mediazione fra le parti così sottili da essere ormai inutilizzabili. La pacificazione sociale che, è vero, è il diritto di ogni cittadino a vivere nelle migliori condizioni possibili, non è un atto d'amore reciproco. È una soluzione concreta dei conflitti. In altre parole: l'Italia si pacificherà se si saprà dare soluzione "condivisa" ai suoi problemi. E questi problemi oggi si avvitano non intorno a chi è di destra o di sinistra, ma intorno a disoccupazione, paura del futuro e sfiducia in una classe politica avvertita come parte del problema non come risolutrice del problema.

Può darsi che il governo che sta nascendo farà tutto questo. Io non me ne auguro il fallimento, perché nessun cittadino può augurarsi che il gruppo che guida il paese non sia adeguato. Seguirò dunque con doverosa attenzione ogni passo che sarà fatto da Letta e dai suoi uomini e li giudicheremo senza pregiudizi. Per altro tre di loro sono blogger di questa testata.

Ma penso che la costruzione dell'intero edificio di Enrico Letta guardi più alle camere interne della politica che a quello che c'è fuori; che
abbia uno sguardo più sulle alchimie della compensazione fra le diverse posizioni dei partiti e del parlamento che sul tumulto che divide il
paese. Temo, insomma, che sia troppo debole per il vigoroso compito di guidare una nazione in un passaggio del genere. Vedremo.

http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/un-governo-di-ricambio-generazionale-ma-debole_b_3170965.html


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Come mandare Berlusconi al Quirinale e vivere per sempre...
Inserito da: Admin - Agosto 31, 2013, 08:26:38 am

Come mandare Berlusconi al Quirinale e vivere per sempre felici e contenti

Pubblicato: 29/08/2013 15:26

Lucia ANNUNZIATA

Ho una modestissima proposta per mettere in sicurezza per i prossimi dieci anni (almeno) la stabilità italiana: perché non mandare direttamente Silvio Berlusconi al Quirinale?

In fondo, questo è il suggerimento che ci viene dal successo del Consiglio dei ministri che ha tolto (?) l'Imu: per cui, se due più due fa ancora quattro in matematica, immaginare il leader del Pdl presidente della Repubblica non è nemmeno tanto un paradosso.

Pochi giorni fa scrivevamo sulla prima pagina dell'Huffington Post:"Trovato l'accrocco per Silvio". Il titolo un po' sopra le righe, ci è stato rimproverato, come spesso succede, come "esagerazione". Ma va a vedere che forse avevamo sottovalutato la situazione.

L'accrocco per salvare Silvio, e con Silvio il governo, essendo ormai i due diventati la stessa cosa, è infatti scattato ieri.

La abolizione dell'Imu - una tassa che per il Pd fino a pochi minuti prima era "difficile da finanziare" e altrettanto difficile da "definire" in termini di impatto sociale - è stata approvata di impeto. E nella versione più ampia possibile.

Siamo felici ovviamente di pagare meno tasse. Almeno per il momento. Per il futuro non sappiamo se abbassare la testa in attesa di qualche mazzata peggiore dell'Imu o meno. E dalle prime reazioni anche una parte del Pd è perplessa o scontenta.

Al di là della discussione sulle tasse, il segno politico della decisione del Consiglio dei ministri è evidente: è una vittoria per il governo delle ampie intese, che Letta ha subito incassato dichiarando che l'esecutivo "non ha più un limite temporale".

Ma se il governo ha scansato la crisi, per Silvio è andata anche meglio, come ha fatto sapere festosamente rivendicando la sua vittoria con un "merito mio".

E come non gioire con lui? L'abolizione dell'Imu è il cuore del suo programma, la identità stessa di tutta Forza Italia: non pagare le tasse.

Una vittoria tanto più completa se si ripensa al dettaglio che il leader è in questi giorni alle prese con una condanna per qualche piccola malefatta, proprio nel settore della frode fiscale.

Il meccanismo di scambio politico che si è messo in moto, per arrivare a questo punto è esso stesso evidente: Silvio ha fatto marcia indietro, non aperto la crisi di governo per la sua condanna, e il premier (Pd) gli ha regalato l'Imu.

Questo scambio in nome della consolidazione dell'esecutivo, è nei fatti il suo vero successo. Perché è la migliore prova che la sua forza nella politica italiana è ancora decisiva, che il suo programma è di grande impatto, che quando si arriva al dunque le carte le dà ancora lui. In fondo, lo stesso meccanismo di riconoscimento sotteso alla nota dedicatagli dal presidente Napolitano alcuni giorni fa.

Nella risoluzione del Consiglio dei ministri c'era dunque scritta fra le righe la prima parte della riabilitazione di Silvio Berlusconi da ruolo di "condannato" a quello di leader ritrovato.

Ora manca la conclusione di questo processo. Ma la possiamo anticipare: somiglia straordinariamente alle soluzioni che la comunità internazionale prende quando nessuno vuole prendersi la responsabilità di decidere, tipo oggi sulla Siria. Si chiama "rimbalzo", "rimando", oppure "gioco delle sedie musicali". In sintesi, scommettiamo che il voto sulla decadenza già oggi in discussione, entrerà nel frullatore di in un meccanismo di incertezza e dubbi che ne diluirà tempi ed efficacia.

La schiera di politologi che assiste questo governo, le decine di saggi che si affrettano a renderne più agevole la strada, sono già al lavoro con i loro cembali. Mai come ora, ci dicono, il voto sull'Imu è la prova che le grandi intese sono utili, che l'Italia ha bisogno di stabilità, che le reazioni della Borsa dimostrano che è pericoloso muovere l'attuale equilibrio, e che in questo senso il consolidarsi dell'esecutivo è una vittoria per tutti. Con un sottinteso, pudicamante quasi mai reso esplicito, che se tutto questo vale la salvezza (politica) di Silvio Berlusconi, beh, è un prezzo che si può pagare.

Ma se così è, perché allora non andare fino in fondo nell'applicare questa lezione? Se questo è quello di cui il paese ha bisogno, allora perché non essere coerenti e ammettere che la migliore e definitiva assicurazione sul futuro dell'Italia è quello che suggerivo: portare il senatore Berlusconi direttamente al Quirinale, e vivere tutti felici e contenti.

DA - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/come-mandare-berlusconi-al-quirinale-e-vivere-per-sempre-felici-e-contenti_b_3836350.html?utm_hp_ref=italy


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - La crisi era inevitabile. Ora subito al voto per una vera...
Inserito da: Admin - Settembre 29, 2013, 11:10:48 pm

La crisi era inevitabile. Ora subito al voto per una vera stabilità

Pubblicato: 28/09/2013 21:08

Lucia ANNUNZIATA

Avevo scritto poche settimane fa, su questa stessa testata, all'indomani della condanna di Silvio Berlusconi che il governo Letta era finito. La ragione una sola: non si poteva obiettivamente tenere in piedi una coalizione fra due partiti il leader di uno dei quali viene condannato per frode fiscale in via definitiva.

Non è una questione di ideologie - scrivevo - cioè di destra e sinistra, né di emozioni. Il problema posto dalla condanna di Silvio Berlusconi è un fatto di etica pubblica. In ogni altro paese del mondo democratico, con qualunque governo, di sinistra o conservatore, la condanna di un leader avrebbe richiesto le presa di distanza del partito dal proprio capo condannato. E dal momento che fin dalla prima ora si poteva anticipare che il Pdl mai avrebbe preso le distanze dal proprio fondatore, la fine del governo Letta era scritta nelle cose.

Eppure per settimane non si è preso atto di questa realtà ovvia. Nel nome di una stabilità di governo, nel nome della difesa dell'economia italiana. La disperata difesa di questa linea di responsabilità è stata fatta da uomini e istituzioni molto rilevanti: il Quirinale innanzitutto, e molti importanti leader e commentatori politici. Silvio Berlusconi si è preso gioco di tutti loro. E speriamo che a questo punto si avvii una più seria riflessione su cosa sia la "responsabilità'" e la "stabilità" in un paese come il nostro.

Ma tutto questo è già parte dell'ieri. Oggi quel che conta è cercare di capire dove si va da questo punto in poi. Si è entrati infatti un un territorio del tutto sconosciuto. Il processo con cui si è arrivati alla crisi di governo appare in queste ore del tutto sorprendente. In giornata Napolitano aveva fatto quella che sembrava un'apertura alle richieste di Silvio Berlusconi annunciando che avrebbe chiesto al Parlamento un provvedimento di amnistia. Non più di un segnale, ma certo un gesto di buon vicinato.

Anche dalla parte del Pdl arrivavano segnali di fiducia; molti gli scontenti pronti a disubbidire alla richiesta di dimissioni di Silvio Berlusconi in nome di un atto di responsabilità. Si attendeva per fine giornata una nota dello stesso Berlusconi che rasserenasse gli animi. Invece la nota è arrivata ed è stata un maglio sul tavolo di qualunque trattativa. Sorpresa di tutti, compresa quella dei ministri berlusconiani.

Com'è potuto succedere? Non lo sappiamo bene, e forse non lo sapremo mai bene. Ed in fondo è irrilevante: la imprevedibilità del leader del Pdl è evidentemente il punto in cui si concentra la crisi del nostro paese. E' un uomo provato, arrabbiato, determinato, e convinto di non doversi piegare alle decisioni della Giustizia, come il resto dei cittadini.

Difficile immaginare che qualcosa possa essere ricostruito con leader che ha tale inclinazioni e convinzioni. Speriamo dunque che nessuno si faccia una seconda illusione. La stabilità italiana è assicurata da due cose, come del resto in tutti i paesi del mondo: un governo con una maggioranza vera, che lo metta in grado di governare, e una seria ripresa economica, i cui termini non siano ostaggio (come si è visto da Iva e Imu) di trattative fra partiti. Si vada dunque a votare al più presto. Persino con questa legge, è meglio il voto di un governo in apnea durato alla fine solo cinque mesi.

DA - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/la-crisi-era-inevitabile-ora-subito-al-voto-per-una-vera-stabilita_b_4009606.html?utm_hp_ref=italy&ref=HREA-1


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Non infierirò su Silvio Berlusconi.
Inserito da: Admin - Ottobre 06, 2013, 12:23:15 am
Non infierirò su Silvio Berlusconi.

Perché non sono una fascista

Pubblicato: 05/10/2013 15:01

Lucia ANNUNZIATA

So che molti di voi, forse la maggior parte, non sarà d'accordo con quello che sto per scrivere, ma tant'è .

In ognuno di noi esiste un fascistello. È quello che ci fa godere se siamo più belli e più forti di chi ci sta davanti. È sempre lui quello che ci induce a sfoggiare i muscoli, a esercitarci contro quelli più deboli di noi - i vecchi, gli stupidi, i brutti, i poveri, i neri, le donne, i gay... la lista è infinita.

Ma il fascista più fascista di tutti è a mio parere quella pulsione interiore che ci fa infierire sui nemici vinti.

Io sono esposta continuamente alla tentazione di tutti loro, non so voi. Raggiungere una serenità di giudizio, un equanimità di parola è sempre stato per me un grande sforzo, lo ammetto.

In compenso, Vito Crimi, senatore M5s è riuscito a dare voce in un solo post e in un solo pomeriggio a tutti i fascistelli che si annidano in noi. È riuscito a evocare la vecchiaia (che arriverà anche per lui) nella sua sordida corruzione della carne, è riuscito a rendere grottesca la figura degli anziani malati che per molti di noi sono semplicemente I nostri padri e le nostre madri, è riuscito a rendere un godimento l'età giovanile che è invece solo un divario temporale, non certo di destini. Tutto questo confezionato in una sede istituzionale, dove lui rappresenta la Repubblica, e mentre era in corso il più drammatico voto degli ultimi venti anni contro un leader politico.

Non credo che il post con cui Crimi ha deciso di comunicare al mondo la sua partecipazione alla Storia abbia inficiato i lavori della Giunta. Non credo dunque che su quel post, come ha chiesto il senatore Schifani, fosse doveroso fermarne i lavori.

Ma è importante che di quel post si parli perché ci può far riflettere - almeno, questo è quel che penso - su come uscire dalla Seconda Repubblica.

Credo di non avere bisogno di patenti per dimostrare da che parte sono stata in questi venti anni, ma davanti alla conclusione giudiziaria e politica di questo periodo non mi metterò fra chi affonda la lama dell'insulto, della soddisfazione, e ancor meno della volgarità, contro Silvio Berlusconi.

Non trarrò piacere dalla condanna di nessuno, e non mi sento nemmeno gratificata dal fatto che un leader politico che ho sempre considerato nemico della nostra democrazia - per i suoi conflitti di interesse e per il modo con cui ha trasformato la politica immettendovi il peso del denaro - abbia fatto questa fine politica in un modo così infamante. La giustizia ha trionfato ma quando un leader politico fa questo tipo di fine non sta bene l'intero paese.

E non parlo da moderata. Anzi. Il moderatismo che viene riscoperto in questo momento in un paese che per venti anni è stato avvelenatissimo, è solo un pannicello caldo che si applica su una ferita sanguinante; è una sorta di invenzione "verbale" più che sostanziale, per cambiare il discorso pubblico nel tentativo di cambiarne iI percorso. La riscoperta oggi del moderatismo è il modo con cui ci si vuole illudere che tutto ora va bene.

Non infierirò sul destino di Berlusconi invece proprio perché non sono per nulla ottimista. Perché - ripeto - un paese i cui leader politici fanno questa fine (condannati per frode ed espulsi dai ranghi del senato) non è un paese che sta bene, comunque. Perché penso che il potere avuto da Silvio Berlusconi è un sintomo di qualcosa di sbagliato di cui tutti, cittadini e non solo politici, abbiamo una corresponsabilità - ed è guardare davvero dentro di noi e dentro questo periodo la via per uscire davvero da venti anni di Guerra civile fredda.

Ma soprattutto non infierirò su Silvio Berlusconi, perché non sono un maramaldo, non amo i bulli, non mi piacciono le feste sul corpo degli altri. Non sono una fascista, insomma.
Da – repubblica.it


Titolo: L. ANNUNZIATA - La decadenza è la migliore riforma fatta da Silvio: tutti UGUALI
Inserito da: Admin - Novembre 28, 2013, 11:45:19 am
La decadenza è la migliore riforma fatta da Silvio: tutti uguali davanti alla legge
Pubblicato: 27/11/2013 22:17

Va bene, lo abbiamo capito, e peraltro non era nemmeno difficile da anticipare. Il voto di oggi non è la fine della presenza politica sulla scena italiana di Silvio Berlusconi ma solo l'inizio di una sua nuova fase. A evitare ogni possibile equivoco, il Cavaliere nel comizio tenuto davanti casa a Roma, lo ha detto con chiarezza, rilanciando sè stesso e il movimento, aprendo la campagna elettorale e promettendo ai suoi lealisti una nuova stagione di fasti.

Abbiamo anche capito - e anche questo non è difficile da anticipare - che la nuova carriera di Silvio apre per il Paese una fase di turbolente imprevedibilità. In particolare, come ci ripetono tutti i saggi e gli accorti, i tre maggiori leader politici di oggi, Renzi, Grillo e lo stesso Cavaliere, sono tutti extraparlamentari.

E tuttavia, il voto in Senato sulla decadenza di Silvio Berlusconi è un segnale di non ritorno per il nostro sistema politico. Segna la fine dell'"eccezionalismo" berlusconiano, il teorema secondo il quale la politica "domina" sulla Giustizia. Un eccezionalismo che non nasce in questi mesi, dopo la condanna in terzo grado, ma che costituisce la più antica idea del berlusconismo: l'idea che la Giustizia sia al servizio della politica.

Per venti anni Silvio Berlusconi ha sostenuto che ogni processo nei suoi confronti era un surrogato scelto dai suoi suoi oppositori per sconfiggerlo in politica. Di recente ha rafforzato questo concetto ribaltandolo in sua difesa, sostenendo cioè che un uomo che rappresenta otto milioni di voti non può essere processato. Farlo costituirebbe - come dice in queste ore - un colpo di Stato.

Questa concezione della Giustizia come prosecuzione in forme diverse della Guerra, per dirla con un certo snobismo, è stato il vero cavallo di battaglia di Forza Italia fin da quando è nata, ed ha raggiunto la sua piena formulazione dopo la recente condanna. Idea inquinante, e profondamente eversiva - almeno nelle democrazie moderne in cui si crede all'equilibrio di poteri.

Un atto parlamentare ha ristabilito quello che questo Paese pensa sia giusto. La giustizia è stata riaffermata come potere separato e superiore alla politica, strumento di giudizio indipendente ed equalitario nel misurare il peso di chi è chi, in una società.

In breve, molto in breve, il voto al Senato ha ristabilito che anche se sei il capo di un partito che mobilita milioni di persone rispondi alle stesse regole di uno che ha solo sè stesso da rappresentare. Personalmente aggiungerei che il leader di un partito di otto milioni di persone ha più ragioni del comune cittadino di farsi da parte, proprio in nome della sua rappresentatività.

Certo, non viviamo in un sistema giudiziario senza pecche. Ma il voto del Senato sula decadenza del senatore Berlusconi ristabilisce una norma che ora colpisce lui, ma che in prospettiva ( stia sereno il Cavaliere) ristabilisce una norma che serve all'intero sistema.

Il voto contro il leader del Pdl è una ammonizione per tutti gli altri politici - non importa di che colore. Il voto è il caso che fa testo per tutti. È il muro che argina tutti coloro che pensano di usare la politica come clava invece che come leva.

Dopo il voto in Senato , insomma, sarà più difficile per tutti fare i furbi. Involontariamente, dunque, l'ex senatore Berlusconi, potrà intestarsi quella che fra alcuni anni potremo forse considerare la maggiore riforma del Parlamento Italiano: l'eliminazione di ogni corruzione fra le fila di chi ci rappresenta.

Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/decadenza-miglior-regalo-di-silvio_b_4351876.html?1385587029=&ref=HREA-1


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Confronto tv Renzi, Cuperlo, Civati.
Inserito da: Admin - Dicembre 01, 2013, 05:14:56 pm
Confronto tv Renzi, Cuperlo, Civati.
Botte da orbi ma nessun disvelamento, né degli uomini né dei programmi

Pubblicato: 29/11/2013 20:42 CET  |  Aggiornato: 29/11/2013 23:05 CET

Mi avventuro nel giudizio finale sul dibattito, così a caldo.

I tre si sono confermati nelle loro dimensioni. Nell'ordine di presenza in palco. Cuperlo ha giocato la cultura (da Jefferson a Calvino) come identità profonda della sinistra.

Renzi si è tenuto stretto il suo ruolo di sindaco: combattivo, sognatore ma pragmatico.

Civati ha fatto l'outsider brillante che dice le cose con chiarezza e prova a rompere il gioco.

L'unica nota intensa: il periodico emergere di una grande animosità fra Renzi e Cuperlo, una autentica rabbia sottopelle e una gran voglia di darsele di santa ragione. Su Prodi, sul Presidenzialismo, su Privatizzazioni e Corruzione ci sono state botte da orbi: intenso lo scambio fra "i capitani coraggiosi" scagliati contro Cuperlo da Renzi e la ritorsione di Cuperlo su Renzi in merito ai brogli alle urne delle primarie. Una tensione che la dice lunga sul futuro.

Cuperlo è stato molto meno trattenuto del suo solito. Renzi ha dominato con facilità il discorso ma quando non è solo non brilla della solita luce.

L'unico che merita l'aggettivo di brillante è Civati - ma ha avuto gioco facile perché ha cavalcato tutti i temi più vicini al cuore della sinistra delusa di questi ultimi mesi. Forse non dovendo assumersi la responsabilità di essere davvero lui a guidare il partito.

Nulla di nuovo dunque. Appiattito da domande troppo semplificate e ingabbiato dalla diavoleria dei minuti e secondi (le interviste vanno fatte a mio parere parlandosi, non solo mettendo punti interrogativi), il confronto non ha brillato. Rispetto al dibattito dell'anno scorso (quello con Bersani e Renzi) non c'è stato nessuno disvelamento ulteriore, né dei personaggi né dei loro programmi.

Ps impossibile non notare la mancanza di qualunque voce femminile.

    Il direttore di Huffpost Post Lucia Annunziata ha commentato in diretta il confronto tv tra i candidati alle primarie del Pd Matteo Renzi, Gianni Cuperlo e Pippo Civati. Scorri la pagina per leggere tutti i commenti


Da - http://www.huffingtonpost.it/2013/11/29/confronto-tv-renzi-cuperlo-civati-annunziata-mauro_n_4361097.html?1385754124&utm_hp_ref=italy


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Una vittoria senza scampo, ora Renzi chieda vera ...
Inserito da: Admin - Dicembre 11, 2013, 10:45:42 am
Lucia Annunziata
Direttore, L'Huffington Post

Una vittoria senza scampo, ora Renzi chieda vera discontinuità nel governo e nuove elezioni

Pubblicato: 08/12/2013 22:51

Una affermazione senza dubbi, una valanga. Una vittoria senza scampo, si potrebbe dire.

Dopo aver ricevuto tale prova di fiducia, così decisa, così carica di attese da portare alle urne tre milioni di cittadini, Matteo Renzi non ha infatti nessuno scampo e nessun alibi: raramente nelle mani di un segretario del Pd si è concentrato tale potere quale quello che è stato conferito a lui.

Parliamo naturalmente degli ultimi venti anni. In questo periodo di tempo, nessuna investitura ha avuto la caratura di quella data oggi a Renzi. Nemmeno quelle di Prodi o di Veltroni. La differenza non è né nella modalità (le primarie sono in vigore da tempo) né nei numeri (i tre milioni sono una cifra simbolica già raccolta intorno a Prodi e Veltroni). La differenza è nel percorso.

Renzi infatti "viene da fuori", non è cioè nemmeno mai transitato dalle fila del partito, ed è stato catapultato dentro il partito "da fuori" cioè da voti di un'area che è più ampia degli iscritti al partito stesso. Le primarie questa volta sono state insomma un vero e proprio arrembaggio, una sorta di scalata al cielo, la presa di un Palazzo d'Inverno, piuttosto che il riconoscimento finale, il "visto si stampi" di un pubblico che col suo voto ratifica più che eleggere un leader già affermato, come fu il caso di Veltroni e Prodi.

Che tanta gente, il 70 per cento dei votanti quasi, abbia partecipato alla presa del Palazzo, è la prova di quanto forte è la richiesta di cambiamento che si muove nella sinistra. Ma di questa richiesta di cambiamento sappiamo. Il punto segnato da una vittoria di tale proporzioni è, piuttosto, come si diceva, la carta bianca che consegna a Renzi, è la accelerazione che imprime al suo nuovo incarico.

Con tali numeri è difficile infatti che il sindaco di Firenze possa oggi prendere tempo, cincischiare, cominciare a guardarsi intorno, fare un giro di "esplorazioni", o anche solo riunire i vari comitati. Chi lo ha votato ha rottamato infatti una idea del partito, ma anche una certa idea della politica: politica come gestione separata, come universo tecnico, con le sue regole per altro non tutte sempre comprensibili o trasparenti.

Quel settanta per cento, una maggioranza che in altri tempi si sarebbe definita bulgara, è cifra troppo chiara perché possa essere sperperata nel tempo.

Renzi voleva un referendum sul suo nome, come risposta - ha detto più volte - anche alle possibili vittorie del populismo: "se perdiamo questa occasione, Grillo e Berlusconi ci mettono in mezzo come una tenaglia e ci portano via". Il referendum c'è stato al di là delle sue stesse attese, probabilmente.

La risposta che ora Renzi deve dare ha per certi versi la stessa qualità del populismo stesso: deve essere cioè chiara, comprensibile a tutti, provatamente efficace e, non ultimo, veloce.

E più che sul partito, e su altre relativamente piccole questioni - quali sono quelle interne al partito, alle liste di segreterie, alle composizioni degli organi e cose del genere - il nuovo segretario del Pd dovrà dare una risposta a questioni molto più essenziali: il lavoro, le compatibilità europee, la stabilità politica. Difficile che possa anche solo cominciare questo processo senza innanzitutto dare una chiaro segnale di discontinuità con il passato.

Senza cioè porre al più presto all'ordine del giorno un nuovo governo, che abbia un più vasto consenso, un nuovo spirito, nuove idee di riforma, e, necessariamente, una nuova idea di rappresentanza politica. In parole semplici, le nuove elezioni - presto - sono all'ordine del giorno.

Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/una-vittoria-senza-scampo-ora-chieda-vera-discontinuita-nel-governo_b_4409416.html?1386539500=&utm_hp_ref=italy&ref=HREA-1


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Renzi dà l'addio alla "meglio gioventù".
Inserito da: Admin - Dicembre 16, 2013, 04:47:04 pm
Renzi dà l'addio alla "meglio gioventù".
La ribellione generazionale cambia la narrativa del paese

Pubblicato: 15/12/2013 19:31

Lucia ANNUNZIATA

La frase più efficace, o almeno quella che a me è sembrata la migliore nel segnare il crinale di un passaggio, è stata: " Basta pensare che la meglio gioventù sia nata e morta con l'alluvione di Firenze".
La questione generazionale è stata ancora una volta la chiave del successo con cui il neosegretario Matteo Renzi a Milano ha preso d'impeto il suo Partito e lo ha portato dalla sua parte.

Chiave generazionale che nulla ha a che fare con la stucchevole, e francamente banale, questione della rottamazione, della stima fra vecchi e giovani, e bolle teoriche del genere. Il ricambio generazionale è sempre una presa del potere a mano armata, non avviene mai in maniera indolore, e la mia generazione (che è quella oggi ampiamente rottamata) con i suoi vecchi all'epoca ha saputo fare di ben peggio di quel che oggi ha fatto Renzi. Infatti, come ci si poteva aspettare, questa parte banalizzante del ricambio di età, è arrivata all'appuntamento milanese già ampiamente sgonfia, avviata, con la elezione di Cuperlo, sulla strada di pragmatiche soluzioni.

La interpretazione generazionale più autentica riguarda invece la memoria, e l'eredità che compongono e giustificano l'investitura nel presente della classe dirigente di una società. Il dominio di una generazione ha infatti quasi tutto a che fare con la interpretazione del suo passato. In questo l'Italia è certo un paese di superconservatori, ancor prima che di anziani. Un paese in cui il vuoto di visione da anni viene coperto da una versione mitizzata, e dunque distorta, del tempo che fu.

Nella nostra immaginazione collettiva - e non solo quella di sinistra, va detto - il passato si è fissato in una sorta di età dell'oro rispetto a cui tutto il resto è una unica, lunga , strada di decadenza. Dalla Resistenza prima, dal glorioso Dopoguerra poi e, perfino, da un Sessantotto raccontato come non è mai stato, quello di una non casualmente autodefinitasi "meglio gioventù'" di cui si ricordano in metafora l'alluvione, ma non le rotture, gli errori e anche orrori che ha commesso.

Questa memoria ricostruita (la polemica qui, ripeto, è contro la finzione della memoria, non è la negazione dei meriti del passato) è in effetti diventata la maggiore forza di resistenza al cambiamento che conosciamo perché ha fondato l'idea che di teste come quelle che in passato hanno fatto politica (ma ugualmente si può dire per tutte le altre istituzioni, incluso il mondo imprenditoriale) non se ne sono prodotte più. Al punto che tocca ancora oggi a queste teste continuare (magari mentre si lamentano per il peso della responsabilità) a ragionare, a tenere insieme il paese, ad essere responsabili per tutti gli irresponsabili e gli "ignoramus" che popolano il nostro territorio.

Nel senso di questa missione degli anziani c'è tutto il disprezzo, e neppure tanto sottile, per giovani cui si attribuisce una minorità intellettuale permanente. Giovani corrotti, si dice, da una società consumista, dalla società del successo facile, e dalla mancanza di una "vera cultura". In queste due affermazioni ci sono due fantasmi che spuntano anche senza farne il nome: quello di Silvio Berlusconi, cui si intesta la corruzione degli attuali "mores", e quello di Internet, come viene chiamata con semplificazione, quella rivoluzione tecnologica che ha portato un cambiamento che i vecchi non capiscono e di cui si liberano dicendo che è la fine dell'umanesimo, della vita sociale, dei diritti, insomma, della cultura occidentale "alta".

Si capisce bene come questa visione del mondo sia (occasionalmente) all'origine delle Larghe Intese, e (strategicamente) la base di una visione crepuscolare, triste, avvolta in un permanente velo luttuoso, del declino della nostra società. Di una dell'Italia sull'orlo del baratro, e di italiani troppo immaturi per votare e ancora più immaturi per esprimersi in politica. Che debbano insomma essere salvati da se stessi, dal loro populismo brado e dalla loro ignoranza, ad opera di un manipolo di quel che rimane della "meglio gioventù", sentinella permanente ed effettiva sulla retta via.

Renzi, come lui stesso ha detto, ha usato toni spesso non condivisibili per sfondare questo muro di resistenza. Lui stesso ha definito "forse volgare" il termine rottamazione - e certo un filo di ombra di eutanasia si è sempre steso su questa parola. Ma a Milano sembra aver finalmente portato a segno la spiegazione delle sue stesse idee, ribaltando il senso della narrazione dei nostri tempi. Ridando in mano ai giovani la supremazia in questo momento della frontiera culturale: "I giovani non hanno mai avuto tale accesso al sapere, non hanno mai avuto un tale deposito di cultura a cui attingere".

Osando attaccare quello stupidario sull'Italia cui si è ridotta, con il tempo, la storia dei giovani che vanno a studiare all'estero, diventati simbolo di una malfunzione del paese invece che naturale ristrutturazione (e ambizione) del mercato del lavoro globale. "Ne ho incontrato uno che si è presentato", ha raccontato Renzi, dicendo 'sono un tipico cervello all'estero'. Dopo che gli ho parlato gli avrei detto e ci puoi pure restare, viste le sciocchezze che mi hai detto. Non è che uno è un cervello solo perché è all'estero. I cervelli sono anche in Italia".

Sembrano solo osservazioni, ma sono tutti pezzi di un racconto diverso, in cui il nostro paese, descritto come un luogo in profonda crisi economica, non è certo però in crisi di energie e progetti. Un paese con le mani legate da burocrazia e resistenze - in cui quelle della politica risultano persino minori se comparate a mandarinati statali, furberie, e avvilimento di ogni meritocrazia - ma non della forza d'urto intellettuale e sociale per farcela.

È questo cambio di sguardo il vero elemento di novità, perché tocca una corda profonda nel cuore dei 35/40enni italiani che si avvertono come una generazione mandata al macero dai propri adulti. Renzi sa restituire loro un ruolo, e se non potesse contare sulla loro forza d'urto l'accelerazione che ha proposto nel programma politico non avrebbe senso. Riforma elettorale (entro gennaio), riforme politiche, semplificazione del mercato del lavoro, diritti, cittadinanza. Tutto e subito, ha promesso Renzi. Con coraggio forse maggiore del realismo. E, forse senza volerlo, ma chissà?, riprendendo una parola d'ordine proprio di quella “meglio gioventù” che ha appena sostituito.

Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/renzi-da-laddio-alla-meglio-gioventu-la-ribellione-generazionale-cambia-la-narrativa-del-paese_b_4449682.html?utm_hp_ref=italy&utm_hp_ref=italy


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Cosa concederà ai conflitti di interesse di Berlusconi?
Inserito da: Admin - Gennaio 19, 2014, 06:08:09 pm
Cosa concederà ai conflitti di interesse di Berlusconi?
Su questo sarà giudicato anche Renzi

Pubblicato: 18/01/2014 10:15

Ci sarà ampio tempo per discutere sul perché per come e cosa è successo alla sinistra e al berlusconismo, dopo (e se) Matteo Renzi avrà portato a casa una accordo sulla legge elettorale con Silvio Berlusconi. Ma alcune precisazioni, almeno a livello personale, preferisco farle prima, a busta chiusa. Per evitare ogni forma di opportunismo intellettuale del poi.

Non mi scandalizza che Renzi incontri Berlusconi per parlare di legge elettorale. Le riforme, e in particolare una legge delicata come quella elettorale, devono essere fatte con la più ampia delle maggioranze parlamentari. Non mi scandalizza nemmeno che l'incontro tra il Cavaliere e il Segretario avvenga dentro la sede del Pd: è un pugno allo stomaco, è iconograficamente una sorta di presa della Bastiglia. Ma è anche il luogo più pubblico, il più istituzionalmente giusto. Dunque quello che assicura a questo incontro il massimo della trasparenza.

Il punto di valutazione della operazione per me sarà un altro: cosa dovrà dare a Silvio Berlusconi Matteo Renzi per ottenere il suo consenso alla intera operazione? Risposte in giro ce ne sono. La più importante è che il Cavaliere sarà soddisfatto di tornare di nuovo al centro della politica, e di avere un modello elettorale che lo garantisce nelle prossime elezioni. Non sarebbe poco. Ma davvero è quel che basta per Silvio Berlusconi? Non vorrei che in questo frangente si dimenticasse quello che è successo negli ultimi venti anni.

Il capo di Forza Italia ha portato sulla scena istituzionale un intreccio unico di potere e interessi economici personali. Il conflitto di interessi, pur presente in tutte le democrazie moderne, è stato praticato dal Silvio Berlusconi con estensione e passione tali da aver di fatto trasformato la natura stessa della politica in Italia. Se oggi abbiamo un parlamento frantumato e incapace, se oggi abbiamo una nazione dominata da una politica espressione prevalente di affari (e dunque corruttela) questa è una responsabilità che va tutta sulla testa di Silvio Berlusconi. Lo dicono oggi anche i tribunali. Ma anche senza condanne questa responsabilità politica del leader del centro destra mi sembra acclarata dalla storia recente. E il fatto che la sinistra non abbia saputo sottrarsi a questo clima, che, anzi, per moltissimi versi lo abbia accettato se non addirittura favorito, non diminuisce in nulla il ruolo - per me del tutto negativo - che Silvio Berlusconi ha avuto in questo paese.

Il modus operandi del Cavaliere è dunque sempre stato quello di intrecciare i suoi obiettivi politici a quelli privati. La sua funzione di leader è sempre stata accompagnata soprattutto dalla sua voglia di "sistemare le sue cose": il controllo della Rai da padrone di Mediaset, lo scontro con i giudici per riformare a sua necessità la giustizia, e infine le tante leggi "ad personam" per evitare incriminazioni. Incriminazioni che oggi gli sono cadute addosso, e a cui ancora oggi Berlusconi cerca di sottrarsi usando la politica. O abbiamo dimenticato la sua idea che un leader di peso non puo' essere condannato, senno' si tratta di un deformazione delle democrazia?

Il Silvio Berlusconi politico che tratterà la legge elettorale porta con sè in un intreccio, come ho cercato di dire fin qui, inestricabile, il suo pacchetto di richieste "ad personam". Già sappiamo di cosa si tratta - non va dimenticato che il Cavaliere è in attesa di una decisione sulla sua personale libertà, e che il suo tempo come uomo a piede libero sta per scadere. Possiamo davvero, davvero, davvero, immaginare che questo pacchetto "ad personam" non farà parte della trattativa? O non immaginiamo che, innominato, sarà il convitato di pietra degli incontri sulla legge elettorale? Nei giorni scorsi Marco Travaglio sul Fatto e Curzio Maltese su Repubblica hanno entrambi fatto notare che la attuale classe politica del Pd che oggi fa la nei confronti dell'incontro far Renzi e Berlusconi non ha titolo a parlare dal momento che è la stessa che negli anni lo ha favorito e che di recente ha formato un governo con lui. Giustissimo. Condivido.

Prova ne sia l'opposizione di questi mesi mio e da questa piccola testata al governo Letta. Proprio per questo aggiungo: se Matteo Renzi concederà a Silvio Berlusconi aiuti su qualunque punto dei suoi interessi personali, avrà perso ai miei occhi ogni patente di diversità e novità. Appoggio Matteo Renzi, lo appoggio dalla prima ora, cioè dalle primarie che ha perso contro Bersani, ma il modo come condurrà questo passaggio con Silvio Berlusconi sarà per me dirimente. Non ci saranno proposte nuove, né nessun dinamismo politico che, almeno per me, varranno un patto ambiguo ed opaco con quel che di peggio il nostro paese ha espresso in politica negli ultimi venti anni.

Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/cosa-concedera-matteo-renzi-ai-conflitti-di-interesse-di-silvio-berlusconi_b_4621792.html?1390036540=&ref=HREA-1


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA Accordo perfettibile, che rompe comunque con la palude italiana
Inserito da: Admin - Gennaio 30, 2014, 04:18:44 pm
Accordo perfettibile, che rompe comunque con la palude italiana

Pubblicato: 29/01/2014 16:57

Lucia ANNUNZIATA

C'è l'accordo per una nuova legge elettorale. Non è un accordo perfetto, e ne parleremo, ma ci sono molti motivi per esserne contenti

Cominciamo da questi.

Il primo. Avere una nuova proposta di legge rompe intanto la maledizione: è dal 21 dicembre 2005 che vivevamo con la legge porcata che ci ha regalato il più rapido degrado che il nostro sistema politico abbia mai conosciuto. Ci sono pochi dubbi che il passaggio nelle mani dei leader e delle segreterie di partito della nomina degli eletti sia alla radice di tutti i fenomeni di corruttela istituzionale, e di distacco della politica dai cittadini. La bozza che Renzi porta sul tavolo su questo punto non è perfetto, e ci ritorno fra poco. In ogni caso, la parte peggiore di un infelicissimo capitolo della nostra vita pubblica oggi è stato chiuso.

Il secondo. L'accordo trovato introduce anche un altro rilevante cambio nella nostra vita pubblica. Il segretario del Pd ha fatto una operazione come non se ne vedevano da tempo: darsi un obiettivo, darsi tempi stretti, e raggiungerlo nei tempi dichiarati. Questo atto di decisionismo nasce da un rapporto con Berlusconi che non è piaciuto a molti, e me tra questi. Non c'è dubbio che Berlusconi ne abbia tratto vantaggio. Ma l'intero arco delle forze politiche è stato poi coinvolto, e il Pd, all'inizio riottoso in alcune sue aree, ha scelto poi il percorso molto istituzionale di seguire il suo segretario mentre esprimeva anche le sue differenze. Il complesso di questo movimento - capacità di agire, trasparenza, intreccio fra identità di partito, obbedienza, dissenso, con aggiunta una buona dose di pragmatico cinismo dei rapporti di forza - è sicuramente un rinnovamento, un procedimento dell'agire che mostra una efficacia che da anni non vedevamo nella paludosa politica italiana. Renzi ha fatto l'azzardo di avviare questo processo. Renzi ne coglie oggi tutto il successo. Allo stesso modo con cui ne coglierà l'insuccesso, in caso di una svolta negativa degli eventi. Per ora si può dire che il rapporto fra responsabilità, promessa , e risultato rompe con l'eccezione Italiana e riallinea il paese alla più normale gestione politica delle democrazie avanzate.

Nel merito dell'accordo ci sono molte obiezioni, se lo si misura nel confronto con le richieste fatte dai cittadini in questi anni. La più forte di queste obiezioni ha a che fare con il residuo di porcellum che c'è nella bozza: la esistenza di liste bloccate sia pur "corte" nelle circoscrizioni. Questo è il vero punto debole dell'accordo. È come se il porcellum nazionale, fatto esplodere, si trasformi in bombe grappoli nelle realtà locali. I cittadini, ben consapevoli di quello che è successo con il porcellum non vogliono sentir parlare di miniporcellum. I politici devono capirlo. Pubblichiamo per altro qui un sondaggio di Ispo che sottolinea come gli elettori di ogni colore politico sono uniti a stragrande maggioranza dal desiderio di esercitare la possibilità di scegliere chi eleggere. Su questo ci deve essere e ci sarà battaglia in Parlamento.
Non è detto che la soluzione debba essere la troppo inquinata preferenza, ma soluzione va trovata.

Altro teme molto delicato sono le soglie di sbarramento: quella verso l'alto, fissata al 37 per cento, e quella verso il basso, del 4,5 per cento.

Il diritto dei piccoli partiti a vivere è una questione di identità collettiva. Non ci sono dubbi, per quel che mi riguarda: i padri costituenti dell'Italia del dopoguerra abbracciarono il proporzionalismo proprio per affermare, dopo l'esperienza del fascismo, che la difesa delle moltitudini di voci è essenziale. Credo che nessuno abbia dimenticato il valore avuto in passato il contributo di partiti piccolissimi come il Partito Repubblicano il cui leader ha avuto un peso inversamente proporzionale al numero di voti che raccoglieva.

Oggi è ancora di più così: in epoca di moltitudini di voci, di moltiplicazione dell'accesso, via media e strumenti di partecipazione, fare una battaglia per rasare I cespugli non solo è sbagliato, è anche alla lunga perdente perché irrealistico. Un buon esempio di questo nuovo stato di cose è il M5S, che può essere accusato, irriso, ma ha una sua radice nella modernità del mondo che non sarà sradicata con la politica dello struzzo. Esiste è vero la questione della governabilità, ma è questione politica non di azzeramento di voci. Anche su questo punto si deve discutere.

Tuttavia, c'è un compenso nella bozza che funziona bene da bilancia. Sei i piccoli soffrono di questo accordo, va detto che, viceversa, non se ne avvantaggiano troppo i grandi. Il premio di maggioranza arriva a una soglia tale che, almeno sulla carta, è difficile per ciascuno degli attuali protagonisti raggiungerlo al primo turno. Facendo intravvedere un quasi automatismo verso il doppio turno, che è passaggio difficile ma sempre catartico, in politica. La competizione per sopravvivere dei grandi insomma non sarà meno feroce di quella dei piccoli. In questo senso la legge premia un dinamismo a favore delle scelte nette - per essere più espliciti: il rapporto di accordo fra Forza Italia e Pd, raggiunto sulla discussione della bozza, non dovrebbe più essere ripetibile come schema di gioco governativo per default. In questo senso l'intesa con Berlusconi per fare la legge, ma anche le larghe intese dovrebbero essere a questo punto un meccanismo non più ripetibile. Nel complesso, dunque, siamo sulla strada buona. Speriamo che il Parlamento la percorra fino in fondo.

Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/accordo-perfettibile-rompe-palude-italiana_b_4687686.html?1391011044=&ref=HRER1-1


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Caos M5s. Partigiani o fascisti?
Inserito da: Admin - Febbraio 03, 2014, 04:49:25 pm
Caos M5s. Partigiani o fascisti?
Pubblicato: 30/01/2014 21:11

A parte la richiesta di impeachment di Napolitano, che tutti sanno che non ha nemmeno i requisiti per poter essere formalizzata, e dunque è solo una trovata pubblicitaria, in effetti, l'uso della pubblicità come sostituzione della politica ha raggiunto ieri da parte dei Grillini il livello parossistico del ridicolo.

Quello che è stato descritto come un assalto alla democrazia, è stato in effetti solo una messa in scena organizzata da dilettanti della sceneggiatura.

Il bel ragazzo Di Battista, nuova star del movimento, è andato con videomaker a seguito allo scontro verbale con Speranza, del Pd, sperando di essere spintonato, urlando " che fai mi metti le mani addosso?" Appena il piddino gli toccava un braccio, senza però mai dimenticare di guardare la telecamera.

Assalti ai banchi del governo con memoria di Ombre Rosse: la carica verso la presidenza parte da un capofila che si muove dall'alto e fa segno ai suoi di uscire dai banchi con gesti da indiani.

Bavagli tirati sulla bocca, come di fronte alla polizia in piazza, salti con slancio sui banchi del governo e attacco ai commessi di Montecitorio degni di scontro con i Navy Seal. E paroloni, paroloni - "boia", "golpisti", "affamatori" - tirati in aria senza testo e senza contesto dunque come coriandoli in un anticipo di Carnevale.

Fino alla Carnevalata più grossa di tutte, appunto - l'autoinvestitura di Beppe Grillo, che di fronte a una magnifica finestra di una bella stanza, annuncia che la democrazia è morta e tocca a lui ora guidare i nuovi partigiani.

Cose, insomma, per nulla preoccupanti. Se non fosse che questa messa in scena è quello cui si è ridotto un grande, interessante, moderno e allegro movimento. Paralizzato dalla sua incapacità di muovere la sua stessa forza, di capire cosa fare di tutti I consensi che ha conquistato, di tutte le simpatie che ha raccolto intorno a sé in questi mesi in Parlamento.

Di fronte allo smacco di un Renzi che in poche settimane ottiene quel che voleva, invece di guardarsi dentro, gli eletti del M5S ripiegano sulla più banale delle soluzioni - il grido, l'urlo, il rumore e l'agitarsi, pur di allontanare la propria crisi, pur di riempire in qualche modo l'horror vacui della scoperta della propria paralisi.

Peccato. Peccato vedere tutte le giovani promesse che solo pochi mesi fa avevano portato un felice vento nuovo con i loro zainetti nel Parlamento trasformarsi nel solito rabbioso giro di chi non sa che altro fare.

Peccato, davvero. Soprattutto perché di gente che urla e grida e assale in sostituzione di parole e fatti l'Italia ne ha conosciuta molta. Ma questi non si chiamano forse fascisti, caro Grillo? Altro che partigiani.

Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/caos-m5s-partigiani-o-fascisti_b_4697240.html?utm_hp_ref=italy


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Cos'era? Un discorso o una provocazione dadaista ai senatori
Inserito da: Admin - Febbraio 25, 2014, 05:13:11 pm
Cos'era? Un discorso o una provocazione dadaista ai senatori?

Pubblicato: 24/02/2014 20:12

In riunione di redazione poco prima dell'arrivo del Premier al Senato avevamo deciso di rivederci il primo discorso di Tony Blair e il primo di Kennedy, convinti che ci saremmo trovati di fronte a un evento certo non altrettanto formidabile, ma di sicuro ambizioso.

E cosa c'è di più ambizioso di un uomo che ha afferrato per il petto il suo partito, la classe dirigente di un intero paese, per poi abbandonare le sue stesse promesse di rottamare il mondo e con una piroetta assegnare a se stesso il massimo potere, il ruolo di Premier?

Immaginavamo dunque che Renzi avrebbe usato la sua prima apparizione istituzionale per spiegare il suo fin qui complesso percorso; per rassicurare i già convinti senatori cui ha chiesto la maggioranza; per farsi conoscere mostrando magari aspetti finora andati persi nella corsa in cui è impegnato da anni; per sfidare i suoi critici, e, soprattutto, per fornire al paese tutto (e a tutte le opinioni pubbliche di altre nazioni che lo seguono con interesse e curiosità) il suo personale progetto di un nuovo futuro per l'Italia.

Ci aspettavamo insomma qualcosa magari non di storico, ma di sicuro pensato. Su una cosa fino a oggi dubbi non ci sono mai stati: che il nuovo Premier sia maestro di comunicazione. Ma anche questa certezza oggi traballa.

Il primo discorso di Matteo Renzi è stato infatti una deludente prova sia nella forma che nei contenuti. Improvvisato, con nessuna struttura ravvisabile, quel che in volgare si direbbe "un discorso senza capo né coda"; piuttosto un collage di tanti altri suoi interventi, comizi, battute e aneddoti. Per esempio: il pezzo che avrebbe dovuto essere più denso di emozione e visione, quello sulla bellezza italiana, l'avevamo già sentito nel suo addio pochi giorni fa alla carica di sindaco di Firenze. E siamo certi che ricordate anche voi la storia delle due ragazzine che siedono nello stesso banco, sono nate entrambe in Italia ma una di loro non ha la cittadinanza. Nulla da dire - hanno funzionato fin qui queste storie perché non riproporle?

La risposta è: perché Matteo Renzi non è uno che conduce uno spettacolo e dunque fa e rifà il suo numero più riuscito. Devo dire che non riesco neppure a ricordare quante volte ho già sentito quell'unica frase sull'Europa: "Il punto è che mettere a posto le cose di casa nostra non deriva da un obbligo europeo: non è la signora Merkel o il governatore Draghi a chiedere di essere seri con il nostro debito pubblico: è il rispetto che dobbiamo ai nostri figli, alle generazioni che verranno". Una curiosità invece mi rimane: "Quell'uomo che in un'isoletta immaginava gli Stati Uniti d'Europa in pieno conflitto", è evidentemente Spinelli. Perché non abbia colto l'occasione di regalarci il nome e qualche suo pensiero su questo padre della patria non mi è chiaro.

Forse perché in questa logica del discorso a braccio, i contenuti entrano casualmente, insieme a tutto il resto, e non trovano un loro spazio di articolazione.

Le promesse per il nostro domani, pur enunciate con forza, sono rimaste dunque molto generiche. Abbiamo così impegnativi obiettivi, ma slegati da ogni percorso. Quello definito prioritario, lo 'sblocco totale dei debiti della Pa", è affidato a "un diverso utilizzo della Cassa Depositi e Prestiti". Sulle tasse ha promesso un taglio di ben dieci punti delle tasse sul lavoro. Come? "Attraverso misure serie e irreversibili, non solo attraverso il taglio della spesa, per avere nel primo semestre del 2014 risultati immediati e completi". Il sussidio universale per i disoccupati, è tornato sotto queste striminzite spoglie: "Uno strumento universale a sostegno di chi perde il posto del lavoro e con regole normative anche profondamente innovative".

Fumosissimo invece - e forse non a caso - la parte sulla giustizia. Abbiamo capito che per Renzi si deve cominciare dalla giustizia amministrativa, proseguire con quella civile ("oggi la lunghezza del procedimento civile è tale per cui non solo se ne vanno gli investimenti ma anche la certezza che le situazioni siano redimibili") e poi con quella penale. Ma sul nodo politica-giustizia che ha lacerato il paese un solo passaggio: "dopo 20 anni le posizioni sono calcificate e intangibili". Seguito da un altro accenno che arriva come un inciso: "Questa è la vita reale che vorremmo informasse di più la discussione sulla giustizia: non, semplicemente, i nostri derby ideologici, ma la necessità di fare della giustizia un asset reale per lo sviluppo del Paese". Un po' poco, devo dire, per venti anni vissuti pericolosamente.

D'altra parte dobbiamo dire che sarebbe stato difficile forse fare meglio essendo Renzi arrivato al Senato senza un rigo scritto. Cos'è poi questa scelta? Una provocazione alla Renzi, un segno dadaista di diminutio di quel Senato che vuole abolire? O una scommessa alla James Dean su chi salta per ultimo dalla macchina che corre verso il bordo dell'aula senatoriale?

Ma Renzi non ha un gruppo di persone che lo aiuta? Se proprio non aveva tempo lui, non poteva esserci qualcuno che questo discorso lo scrivesse?

La verità, dicono però subito i renziani, è che questo intervento è perfetto così perché proprio così concepito e voluto. Quella che a molti è apparsa come improvvisazione - dicono - è solo l'ennesima prova della diversità del leader; che quello che "agli intellettuali", ai giornalisti e a "quelli che si ergono a maestri" (oddio, riecco la intellighentia che rema contro!) sembra mancanza di contenuti è solo un linguaggio che "parla al cuore"; che Renzi rimane un maestro del ribaltamento e della rottura perché parla alla gente.

Va bene così. Il potere di guidare questo paese passa fra oggi e domani, con il voto di Camera e Senato, saldamente nelle mani di un giovane (che non smette di vantarsi di essere tale) leader. Con il potere, la responsabilità. I prossimi mesi saranno dirimenti, come lui stesso dice.

Ma forse val la pena che qualcuno (come lo schiavo sul carro del trionfo nell'orecchio dell'Imperatore) gli ricordi che immaginare che ci sia un paese lì fuori e uno qui dentro, uno fuori della mura e un altro dentro, è un altro di quei miti antropologico-politici su cui si è scornata tanta sinistra in questi ultimi anni. Per dirlo più semplicemente: siamo per nostra fortuna una repubblica molto più accorta, molto più colta e molto più discernente di quel che si pensa e si ama ammettere. I contenuti in questo paese trionfano sempre. A volte anche quelli che non ci piacciono. E anche in quelli che non ci piacciono c'è sempre un pezzo di verità.

Il Premier-Sindaco Renzi troverà presto sulla sua strada la verifica che cerca.

Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/discorso-a-braccio-e-fumoso-ma-la-verifica-sui-contenuti-del-premier-sindaco-arrivera-presto_b_4848411.html?utm_hp_ref=italy&ref=HREA-1


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Effetto Dorian Gray per Matteo Renzi
Inserito da: Admin - Marzo 06, 2014, 12:11:11 pm
Effetto Dorian Gray per Matteo Renzi
Pubblicato: 05/03/2014 19:54

Di giovane c'è sempre il solito movimento - tweet, IPad, battute, film, interviste a mensili patinati, che però da giovanili che sono si trasformano sempre più in giovinate dell'immagine, mentre il premier politico invecchia a vista d'occhio. È in atto un effetto Dorian Gray per Matteo Renzi, fra l'entusiastico leader del cambiamento e lo statista già un po' appesantito che si disvela in questi primi giorni.

Il contatto del mirabile ragazzo con la realtà è parso duro fin dai primi attimi, rovinati dalla sfortunata coincidenza fra il primo weekend di governo e la peggiore crisi militare in Europa da un paio di decenni. La cautela lì si è vista subito - né tweet né messaggi al popolo e nemmeno mediatici affacci. Un cautissimo silenzio ha avvolto il di solito loquace governo. Riserbo da prudenza - il vertice fra premier e i due ministri,

Difesa ed Esteri, è arrivato solo alla fine della domenica, buon ultimo dopo che tutti, Onu, Nato, americani ed europei si erano già espressi sull'operato della Russia. E anche con tutta la cautela usata, la nostra posizione è stata così poco chiara fra Putin e il resto del mondo che abbiamo dovuto precisare e poi precisare sulla precisazione, per dire che siamo ancora in campo occidentale.

Non che tutto questo sia stato sia colpa del governo. L'Italia è da anni nella singolare posizione di essere con il portafoglio a favore di Putin e con le idee a favore dell'Occidente. Quando c'era Berlusconi questa divaricazione la sinistra italiana l'ha cavalcata fino al grottesco (ricordate il "lettone di Putin"?). Ne ha fatto le spese, anche se in forma minore, Enrico Letta, unico leader occidentale presentatosi a Sochi a dispetto delle "buche" date a Putin dagli alti leader occidentali. Renzi però ha avuto la sfortuna di trovarsi a confrontare la nostra singola più difficile questione di politica estera, appena ha cominciato a camminare. E lì abbiamo subito visto un altro Renzi, quello che, di fronte al primo bagno di realtà, ha cominciato a virare verso le sponde sicure della politica e dei ruoli tradizionali, per subito rifugiarsi con educazione sotto la tutela del presidente della Repubblica: cappottino grigio e aria seria, all'inizio dell'anno accademico dei nostri Servizi

Segreti, un passo indietro al Presidente, ha pronunciato ai vertici della nostra intelligence un discorso scritto.

Dalle mani in tasca al discorso preparati (è arrivato finalmente nello staff qualcuno che scrive?): una vera e propria educazione sentimentale per il nostro premier, potremmo dire. Senonché, la vecchiaia in politica non è certo quella dei modi (e chissene delle mani in tasca), ma della sostanza. Ed eccoci qui, a pochi giorni dall'inizio dell'era del ringiovanimento italiano, a prendere atto di una tripla mossa di illusionismo parlamentare. Quell'Italicum il cui pirotecnico passaggio è stato fin qui la base per giustificare l'arrivo al potere senza voto del Premier, proprio quell'Italicum eccolo cadere e rinascere modificato in altra forma e in altri scopi ancora prima che arrivasse in discussione alla Camera. E con un accordo ancora una volta fatto senza nessun ruolo dei parlamentari, ma per vie dirette fra il premier stesso, Alfano e Berlusconi.

Pratica molto tradizionale, non vi pare?, questi rapporti fra vertici di partito. E non mi dite che si è sempre fatto così perché questo è esattamente il punto: Renzi aveva promesso a tutto il paese di rottamare la vecchia politica, di cambiare il modo di far funzionare il paese, per questo ha vinto le primarie. La soluzione finale di questi accordi è stata - e non sorprende - la produzione di una di quelle immaginifiche formule tanto in voga in tutte le nostre varie repubbliche: una legge elettorale che vale solo per una camera "tanto il Senato lo dobbiamo abolire", un "Italicum a metà" che degnamente può compararsi all'audacia intellettuale delle "convergenze parallele".

La parola ora torna, come sempre, ai costituzionalisti. Ma davvero vorrei capire se sia sensato, ancora prima che legittimo, fare una riforma a-la-carte, per un elettorato sì e un altro no. Dal punto di vista politico il risultato però è chiaro. L'Italicum a metà salva molti interessi. Renzi nel giorno della approvazione potrà dire di aver mantenuto la promessa ed di aver fatto la "rivoluzione" di una nuova legge elettorale. Ma, se per andare al voto si dovrà poi aspettare la abolizione del senato, cambiando la Costituzione, ci andremo sicuro molto in là. Il più in là possibile - quel 2018 cui il giovane Renzi ambisce diventa così un arco possibile di legislatura.

È un bellissimo salto mortale, una splendida manovra parlamentare per ottenere tutto e non pagare prezzo. Il sogno, insomma, di ogni leader politico da quando la politica ha cominciato a camminare. Renzi si conferma così ogni giorno un po' di più un leader tradizionale. Dopo aver promesso di cambiare il sistema, rottamare la vecchia politica, è arrivato al potere senza il voto, per poi prolungare a colpi di manovre parlamentari la sua permanenza in questo potere. I renziani che hanno creduto in lui, i cittadini che gli hanno dato fiducia (io tra questi) sono (siamo) contenti?

Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/effetto-dorian-gray-per-matteo-renzi_b_4905438.html?utm_hp_ref=italy&ref=HREC1-3


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - «Il guaio dei renziani? Sono inesperti del potere»
Inserito da: Admin - Marzo 12, 2014, 11:56:43 am
Annunziata «Il guaio dei renziani? Sono inesperti del potere»
La direttrice dell’Huffignton Post : «Io supporter del premier, ma D’Alema non fece sottosegretari i membri del suo staff»

di Monica Guerzoni

ROMA - «La Boschi non è la zarina di tutte le Russie, è una ragazza gentile, perbenissimo e non spocchiosa. Quasi umile...».
Scusi Lucia Annunziata, ma lei e il ministro non vi eravate lasciate con un «ci rivedremo in tribunale» per colpa dell’ormai celebre pizzino?
«L’Huffington Post ha pubblicato un articolo che raccontava le pressioni della Boschi su Dorina Bianchi, bigliettino o non bigliettino, per il voto sulla parità di genere. Lei mi ha chiamato, voleva che togliessimo il pezzo dal sito e io le ho spiegato che non funziona così».
Cosa le ha detto, direttrice?
«Che avremmo pubblicato la smentita. Ma il ministro, sempre molto cortese nei toni, insisteva nel dire che dovevamo togliere l’articolo. Io le ho risposto che avevamo agito secondo le regole e che non l’avremmo tolto».
E Boschi?
«Ha detto che si riservava di denunciarmi. E io ho chiuso con un “bene, sarò felice di vederti in tribunale”... Questo episodio è il primo grande inciampo, rivela che non sanno le regole del gioco nel senso più alto. Hanno in mano un potere che non conoscono e le pressioni della Boschi sono una prova di debolezza. A Palazzo Chigi c’è un gruppo dirigente che non ha preso le misure al potere».
Governano da un mese.
«Sono saliti su un treno in corsa senza sapere dove andare e si sono ritrovati a Palazzo Chigi. Non hanno esperienza del potere, della stampa, della satira...».
Non è un bene?
«No, pensano che il loro potere sia più grande di quanto non è. Il loro rapporto col potere è sbagliato e la telefonata del ministro lo conferma. Quel che mi preoccupa del governo Renzi è che sembra che sappiano come si fa, ma non lo sanno».
Non sanno governare, intende?
«Non lo sanno, perché non sono mai passati dalle forche caudine del voto. Una campagna elettorale è un fuoco che ti forma, ti insegna a rapportarti con tutti».
Renzi ha vinto le primarie.
«Lui le ha fatte, molti dei suoi no. In tre sono passati da aiutanti del sindaco a sottosegretari, mentre D’Alema quando si portò lo staff a Palazzo Chigi lo chiamò staff, non diede ai “lothar” il titolo di sottosegretari».

Rimpiange D’Alema?
«Questo gruppo dirigente è totalmente nuovo ed è la debolezza di fondo che Renzi paga. Ci sono ministri, come la Boschi, che non hanno mai lavorato. Il problema non è l’età, la competenza, o il fatto che sia donna, è che questo gruppo politico è arrivato lì senza essere stato votato. Berlusconi diceva “a sinistra non hanno mai lavorato” e nel caso di Renzi è vero, il nostro premier non ha mai fatto un minuto di lavoro».
Ha fatto il sindaco. Non era renziana, lei?
«Io sono una supporter di Renzi della primissima ora. Lo appoggiavo perché diceva “cambio l’establishment, cambio le regole”... Poi però ha deciso di andare a Palazzo Chigi senza passare per il voto e ha ricompensato tutti, compreso Civati. Ha tradito la promessa di cambiamento e la pagherà. Sono addolorata. Renzi si sente un leone rampante, ma ha i piedi d’argilla».
Le è piaciuta l’imitazione della Boschi?
«La satira tutti dobbiamo subirla. Io ne ho avuta a pacchi, non ci può essere un doppio standard. A me mi fanno sempre brutta, meridionale, con un occhio storto. A lei la fanno pure bella! Ci sta».
Chi ha vinto sulla parità di genere?
«Dividere il cinismo di Renzi dal cinismo del Pd è difficile, si meritano l’un l’altro. Il segretario, che ha un ammontare di potere mai visto, non doveva lavarsene le mani. Ma dentro c’era anche il risentimento della minoranza. Un disprezzo reciproco di cui sono entrambi colpevoli. Renzi ha portato all’esplosione nucleare della sinistra».

12 marzo 2014 | 08:37
© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/politica/14_marzo_12/annunziatail-guaio-renziani-sono-inesperti-potere-bb42fa8e-a9b7-11e3-9476-764b3ca84ea2.shtml


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Contro l'estromissione di un senatore
Inserito da: Admin - Giugno 14, 2014, 10:28:49 pm
Contro l'estromissione di un senatore
Pubblicato: 12/06/2014 15:22 CEST Aggiornato: 12/06/2014 17:45 CEST

Lucia Annunziata

Dice il sottosegretario Lotti che "dodici senatori non possono permettersi di mettere in discussione il volere di 12 milioni di elettori". Ha spiegato così perché il senatore Mineo (i dodici, poi diventati 13, si sono autosospesi in solidarietà con lui) è stato rimosso per poter far guadagnare al Pd la maggioranza sulla riforma del Senato nella ormai fatale Commissione Affari Costituzionali.

Potrei chiedere come fa il governo a sapere che quei dodici milioni di italiani hanno votato specificamente per la riforma Renzi sul Senato. Potrei chiedere di quali elettori si parla. Perché se si parla di quelli che hanno eletto l'attuale Parlamento, allora il Premier attuale non è stato votato e Mineo sì. Se invece parla del voto per le Europee andrebbe ricordato che il pur immenso consenso non è comunque consenso politico diretto.

In ogni caso gli eletti, come abbiamo ricordato di recente in merito alla ondate di espulsioni dal M5S, hanno diritto alla libertà di opinione. Come del resto i militanti di partito - in questo caso, se parliamo al segretario del Pd, mi pare che andrebbe ricordato che in quel partito si è lavorato una vita (del Pd stesso e di varie generazioni di militanti) per affermare il diritto al dissenso interno, con conseguente richiesta di affrontare questo dissenso con pratiche il più possibile lontane dallo stalinismo.

Questi sono naturalmente dettagli. Si sa che i renziani credono che il potere che hanno in mano vada gestito in maniera decisionista. Chi dissente è palude, lo sappiamo.

Tuttavia, visto che la convivenza civile è fondata sulla salvaguardia - che nel suo piccolo riguarda la salvaguardia delle regole - non posso che segnalare che brandire l'investitura popolare come legittimazione ad agire forzando le regole costituisce una tentazione autoritaria. Non farò a Renzi il torto di accostarlo a Berlusconi, perché sappiamo che ha ambizioni e riferimenti storici molto più alti.

Nelle sue idee il paragone è Blair, o Obama. Peccato che anche la traiettoria di questi leader dimostri che il vasto consenso popolare non fornisce un passaporto con il destino. Blair è alla fine caduto nella trappola delle sue forzature (ricordate l'Iraq? In queste ore qualcosa di molto drammatico ce lo ricorda) e Obama in quelle della sua inefficacia.

Ma forse sbaglio geografia. Forse è la visita in Cina ad aver fatto velo al giudizio del nostro premier. Lì certamente c'è un bellissimo modello su come governare insieme un partito, un paese, le riforme, un mercato, e, se possibile, il mondo.

Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/contro-espulsione-mineo_b_5487871.html?utm_hp_ref=italy&ref=HREC1-1


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Ruby, Berlusconi assolto: finisce un'era. Ma chi vince oggi..
Inserito da: Admin - Luglio 19, 2014, 06:54:25 pm
Ruby, Berlusconi assolto: finisce un'era. Ma chi vince oggi si vergognerà in futuro

Pubblicato: 18/07/2014 19:27 CEST Aggiornato: 11 minuti fa

Tutti a casa, compagni. La guerra è finita e noi la abbiamo persa.
Per venti lunghi anni abbiamo dubitato del nostro Premier, lo abbiamo chiamato puttaniere, e lo abbiamo accusato di uso privato del suo potere.
Sbagliato. L'uomo è in verità un politico integerrimo.

Altro che rottamazione. È quello che ci grida, dall'alto dei suoi scranni, il potere togato, quello stesso che abbiamo venerato per anni, e come smentirlo ora, ora che ha trasformato in un niente il reato di prostituzione minorile e di concussione?

Dalla pena massima, sette anni, alla assoluzione totale. Innocente. Rimane in realtà un pluricondannato, ma gli è stato tolto dalle spalle la più infamante delle accuse - quella del bunga bunga - che lo ha ridicolizzato nel mondo.

Altro che rottamazione renziana. Rottamato qui è il pilastro di una lotta politica. È la fine di un'era.

Ci rassegniamo dunque. Abbiamo sbagliato tutto. Del resto c'è chi vince e c'è chi perde, e tocca accettare le sconfitte.

Ma prima di chiudere il cassetto (e per la mia generazione è solo l'ennesimo, dopo aver chiuso quello della Rivoluzione, poi quello del governo dei Migliori, e infine anche quello almeno e solo del governo degli Onesti) vorrei qui condividere un paio di lezioni che porto con me in questa sconfitta.

La prima è che la parte che mi fa più pena di questa sentenza (sì, ho detto pena) non è la assoluzione dal reato di prostituzione minorile. Non sono mai stata una moralista e chi se ne frega se il premier ama fare cose così poco eleganti come le sue cene eleganti. Di quelle cose al massimo doveva rendere conto alle sue donne, che infatti gliela hanno fatte pagare. Penosa è l'assoluzione dal reato di concussione. Fatemi capire: un premier può telefonare in Questura e fare pressione sui dirigenti dello Stato, sui dipendenti da cui dipende il rispetto della legge, e questo gesto non è pressione, è una legittima iniziativa?

Sono un po' sensibile su questo tema perché anni fa mi capitò di intervistare a In mezz'ora Annamaria Fiorillo, la giudice minorile a cui toccava dare il parere finale sull'affidamento di Ruby alla Minetti, parere che lei non diede. La giudice venne in televisione e tremava come un agnello mentre raccontava le pressioni subite, le telefonate ricevute, l'impazienza dei dirigenti della Questura, e ricordava il caos e la tensione che la telefonata del Premier aveva scatenato. La giudice era ancora scossa per le conseguenze di quella notte, ma c'eravamo sbagliati. Tutti loro avevano sbagliato. Non si trattava altro che di una telefonata del Premier che si informava su di una ragazza.
Tutto normale. E che sarà mai. Da domani però ogni volta che mia figlia mi porta un pacco di multe, ci proverò anche io a chiamare in ufficio contravvenzioni, per dire "Non sapete chi sono io". Tanto non è reato, e forse mi va pure bene.

La seconda lezione da trarre da questa sentenza è fare tanto di cappello al centrodestra italiano. Ha sempre detto che i giudici sono politicizzati. Che sia vero? Oppure i giudici sono molto attenti ai climi stagionali, come spiegarsi altrimenti oscillazioni così radicali tra il massimo di una sentenza e la assoluzione?

Però c'è da dire che un vantaggio c'è nell'attuale soluzione: c'è da #starsereni. Quando nel futuro rileggeremo la storia d'Italia il leader politico che ha firmato le riforme che cambieranno il sistema in vigore dal 1948 non sarà definito un condannato, bensì un politico integerrimo e, in più, perseguitato politico. C'è da #starsereni appunto: abbiamo un padre della patria a fianco di Matteo Renzi. Che poi questo era il punto, no? L'Italia aveva bisogno di riforme, e se serviva farlo con un condannato, è bastato togliere la condanna. Un classico caso di montagna che è andata da Maometto.

La assoluzione risolve così il maggiore problema che aveva il Premier, e il maggiore che il presidente Napolitano voleva risolvere. Si immagina che il Presidente sia stato correttamente terzo mentre si giocavano i destini di tante persone. Ma forse i giudici sanno interpretare oltre che le parole anche i silenzi. E in ogni caso, coerenti con quello che pensiamo, non arriveremo a contestare neanche questa loro decisione.

Una generazione esce sconfitta da questa sentenza, ha avuto torto. Ma speriamo che chi ha vinto abbia davvero ragione, e che sia valsa tutta la pena che si è dato. Non vorrei trovarmi poi nei panni di chi è vittorioso a breve e si vergognerà in futuro.

Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/berlusconi-ruby-assolto_b_5599371.html?1405704479&utm_hp_ref=italy


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Politica estera, Matteo Renzi mobilita l'intelligence per ...
Inserito da: Admin - Luglio 26, 2014, 11:08:48 am
Politica estera, Matteo Renzi mobilita l'intelligence per affrontare i temi caldi: Ucraina, Gaza, Siria e Libia

Lucia Annunziata, l'Huffington Post
Pubblicato: 21/07/2014 21:39 CEST Aggiornato: 1 ora fa

L'intelligence italiana scende in campo. Mercoledì mattina, prima del Consiglio dei Ministri, su richiesta diretta di Matteo Renzi, si riunisce il Cisr, il Comitato Interministeriale per la Sicurezza della Repubblica.

E’ solo la seconda volta che il Cisr viene riunito da questo governo, e stavolta sarà a ranghi pieni, con la partecipazione di tutti i ministeri “forti” che ne fanno parte – Esteri, Interno, Difesa, Giustizia, Economia. L’attuale Sottosegretario ai Servizi, Marco Minniti e il Direttore generale del DIS, l’Ambasciatore Giampiero Massolo, stanno istruendo l’incontro.

Sul tavolo mercoledì ci sarà la valutazione della intelligence italiana sulle crisi internazionali in corso – Ucraina, Gaza, Siria/Iraq e Libia. “In effetti da anni non ci trovavamo in una situazione in cui esplodono contemporaneamente ben quattro fronti in cui il nostro paese è esposto in primo piano”, dice una fonte a conoscenza delle questioni di intelligence.

Se c’era bisogno di un segnale che facesse capire il vero stato d’animo con cui il sempre sereno Matteo Renzi guarda ora alla partita europea e alle responsabilità del semestre italiano, questa convocazione la dice lunga.

E’ una nuova situazione in effetti quella di fronte a cui ci si è risvegliati tutti – l’aereo malese abbattuto, i corpi frugati fra i campi di girasole, il gioco delle bugie fra eserciti opposti in Ucraina, e l’incomparabile numero di morti civili e armi fra Gaza e Israele hanno cambiato volto alla politica europea. Quello che finora è apparso come il solito gioco fra burocrati per formare il nuovo governo Eu, si è trasformato in una partita pericolosa.

In queste ore gli Stati Uniti e i maggiori paesi europei hanno aperto un fronte anti Russia che sta scivolando rapidamente verso un inasprimento di cui non è chiaro il fine. Mentre in Medioriente, lo stesso fronte naviga a vista senza saper cosa fare.

A questo punto, per l’Italia non si tratta già più di nomi, Mogherini sì o no; si tratta di chiarire che posizione prenderemo nelle nuove circostanze. L’esempio più chiaro è la domanda di queste ore: se, come sta succedendo, si crea un fronte a favore di sanzioni contro la Russia, cosa farà l’Italia che è la nazione che guida il semestre europeo ma è anche la più vicina a Mosca?

In effetti la crisi Ucraina si sta rivelando una prova difficile, quasi un oscuro doppio di questo governo, per altri versi molto fortunato. Il governo Renzi giura il 22 febbraio del 2014, lo stesso giorno in cui Yanukovich venne esautorato dal Parlamento Ucraino dopo il massacro di piazza Maidan. Notizia che getta scompiglio a Palazzo Chigi e alla Farnesina, che si trovano a dover prendere posizione, ancor prima di vagire, su una crisi che si colloca sul lato più esposto della politica italiana, i rapporti con la Russia. Ci fu allora, infatti, fin da subito un’arcigna attesa delle capitali europee su quanto avrebbe detto il giovane governo.

Renzi vuole ora, con il suo solito atteggiamento da sfondamento, scendere in gioco e far vedere che l’Italia c’è.
Torniamo così a quel che bolle in pentola a Palazzo Chigi. Quella del Cisr non sarà una riunione di maniera.
Su cosa ragiona oggi l’Intelligence Italiana? Secondo fonti vicine a Palazzo Chigi e ai nostri servizi, sull’Ucraina si anticipa un inasprimento del fronte contro la Russia: “si arriverà a un indurimento diplomatico”. Forse non saranno subito le sanzioni, che sono in qualche modo l’arma finale. Ma se a quel punto si arrivasse? “Se ci si arriva, l’Italia è definitivamente con l’Europa, in campo nettamente atlantico”. Ma l’Italia non intende dismettere il suo “ruolo di cerniera” . Nella convinzione che la pressione convinca Putin a dover trovare una via d’uscita, “ che non può che essere diplomatica”.

Sul Medioriente, dove il presidente Renzi è particolarmente colpito dalla tragedia delle persecuzioni dei cristiani in Siria, i servizi italiani vedono come unica via d’uscita una mediazione egiziana: “Certo possiamo criticare la realpolitik, ma pensiamo cosa sarebbe oggi la situazione a Gaza se alla guida dell’Egitto fosse rimasto Morsi”. Per quel che riguarda Israele si sente ripetere come definizione di posizione Italiana la frase pronunciata da Renzi in Europa: “Israele ha non solo il diritto ma il dovere di esistere”.

E tuttavia, se queste sono davvero le analisi che verranno discusse mercoledì l’Italia non sembra andare molto al di là di quella sorte di “terzismo” che costituisce da tempo l’asse della nostra posizione in questa zona del mondo , in continuità e a dispetto delle alternanze politiche dei governi.

Questo terzismo italiano che in condizioni di tranquillità può essere anche una sorta di positiva equidistanza rischia ora di essere fatto a fette in nuove condizioni di conflitto quali le odierne. Oggi le domande si sono fatte più nette e più cruente: all’ombra del califfato dell’Isis saremo una Italia che difende più i bambini di Gaza o più il diritto di Israele ad esistere? All’ombra di un neoimperialismo russo avvertiremo con maggior fragore le paure dei paesi dell’Est, o i diritti della Russia? O ci rifugeremo ancora nel blabla diplomatico di stare con tutti e con nessuno?

Se dunque la convocazione del Cisr ci dice qualcosa è che a Palazzo Chigi è crescita la consapevolezza che la partita internazionale non sarà una passeggiata. Chiusa già l’idea di arrivare in Europa ed avere un automatico consenso, grazie al consistente successo elettorale (”che rimane unico”, ripete però Renzi ) il premier sembra ora aver preso le piene misure che l’Europa è un campo di battaglia politica, e che in parte questa si scarica anche contro di lui.

La fronda anti-Renzi è il Partito popolare europeo, “direi non tutto il partito ma alcuni suoi membri” precisa il premier. Sono i popolari infatti ad agitare le acque contro l’Italia, ma sono soprattutto i popolari a rappresentare con forza gli interessi dello stato più rilevante dello schieramento che teme la Russia, la Polonia.

Una fonte di alto livello Ppe, ci raccontava nei giorni scorsi che la scintilla che ha provocato il caso Mogherini si è accesa proprio a Varsavia: “A Varsavia all’inizio di giugno per il 25esimo anniversario della caduta del muro di Berlino è venuto Obama, ma non il governo italiano”. Secondo questa stessa fonte, confermata da un diplomatico polacco in Europa, l ‘assenza fu notata e considerata “un errore dovuto al troppo recente insediamento del governo”.

La “Mogherini si è poi recata a Mosca, ma senza mai passare né alla andata nè al ritorno per Varsavia”. La Polonia è importante in questa vicenda perché guida dal 2008 la proposta di un Eastern Partnership, l’idea di creare una cooperazione rafforzata fra nazioni dell’ex blocco sovietico, – Armenia, Azerbaijan, Bielorussia, Georgia, Moldova, Ucraina. La proposta non è mai stata davvero accettata dall’Ue, proprio per le sue implicazioni antirusse. Me è lì sul tavolo e ora si ri-illumina alla luce della caduta dell’aereo
Va anche detto, a questo punto, che le more in cui si trova la posizione italiana non sono solo nostre. Come ricorda Ulrich Speck in un articolo su Carnegie Europe, il sito del think thank americano Carnegie Endowment, “l’intera Europa è caduta da sonnambula nel conflitto con la Russia”.

Ma, appunto, questo dà all’Italia – se Renzi sarà capace – una partita aperta.
Vedremo. Ma da tutto questo percorso si ricava una primo doppia lettura di dove siamo sulla mappa. Renzi che realizza e si prepara ad affrontare la complessità europea è una evoluzione positiva del carattere e del personaggio del leader politico fin qui espresso. Ma la sua presente maggiore cautela è anche un muto riconoscimento che l’Europa ci ha già un po’ rimesso in riga, dunque un po’ ridimensionati.


Da - http://www.huffingtonpost.it/2014/07/21/renzi-mobilita-intelligence-fronti-caldi_n_5606967.html?utm_hp_ref=italy


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Matteo Renzi, l'evasivo
Inserito da: Admin - Agosto 06, 2014, 04:41:19 pm
Matteo Renzi, l'evasivo
Pubblicato: 04/08/2014 13:55 CEST Aggiornato: 2 ore fa

Volete davvero avere un Premier che considera un'accusa essere "troppo condiscendete con le richieste delle opposizioni"? Esiste, evidentemente, nella mente dell'attuale inquilino di Palazzo Chigi l'idea che fare l'opposizione non è un diritto, casomai una concessione di chi governa. Qualcuno potrebbe ricordargli che il diritto pieno di fare opposizione, incluso l'ostruzionismo duro e puro, è stato in epoche buie la rispettosissima garanzia di vita di un Partito Comunista e di tanti altri partiti, dalla cui area politica per altro lui stesso proviene. Ma si sa, il Premier è troppo giovane per ricordare.

Torna in campo, con una magnifica intervista al quotidiano La Repubblica, Matteo Renzi. Mi sbilancio sul "magnifica", scontando di apparire "fan" del gruppo in cui lavoro, perché davvero il colloquio con Tito ci riporta a casa il vero Primo Ministro, l'uomo che alle grandi risposte sulle grandi questioni - per esempio sullo stato economico del paese, o sugli accordi extraparlamentari fatti con Silvio Berlusconi - preferisce sempre uscirsene assestando una bella mazzata ai nemici, perché tanto la colpa è sempre loro.

Lasciamo perdere la bruttissima pagina dell'attacco diretto al Presidente del Senato, quello stesso che è stato insultato in aula dalle opposizioni per aver regalato a Renzi il decisivo voto segreto per far passare il secondo emendamento, la pietra angolare della (da Renzi) tanto agognata riforma del Senato. Non è bastato. Il povero Grasso si ritrova, ora, accusato di essere, appunto, "troppo accondiscendente con le richieste delle opposizioni". Lasciamo perdere anche la solita tiritera contro "professori, opinionisti ed editorialisti" che "non possono ritenersi senza responsabilità". Vero hanno (abbiamo) tutti responsabilità nello stato del Paese, ma, caro Premier, ci abbiamo messo tutti la faccia, ben prima di Lei, scrivendo appunto con nome e cognome. Sopporteremo le conseguenze stoicamente di quel che abbiamo detto, e diremo.

In questa girandola di distribuzione di responsabilità quel che manca sono quelle che il Premier si assume. Il verbale scoppiettio del discorso renziano diventa infatti un distaccato discorso da statista quando si va ai nodi centrali del governo, quello istituzionale e quello economico.

Sull'orizzonte istituzionale inutile sperare in chiarimenti: vuole davvero andare a votare Renzi? C'è davvero di mezzo un accordo sul Quirinale con il leader di Forza Italia? Alla vigilia del secondo incontro con Silvio Berlusconi, il Nazareno due, le domande sul contenuto del patto scritto del Nazareno uno sono derubricate a "cultura del sospetto". Ci assicura, il Premier, mai più una legge ad personam per Berlusconi", ma è difficile immaginare una legge più ad personam dell'aver reso il Cavaliere un padre rifondatore della patria, mentre le opposizioni vengono additate al pubblico ludibrio.

Sull'economia siamo alla vera e propria evasività. Alla domanda di Tito: "Dopo le riforme i 1000 giorni ma non vi toccherà affrontare un autunno caldo?", il premier sbadiglia: "Sono convinto di no. Questa è una retorica che fa sbadigliare. È trita e ritrita".
A fine del discorsetto concede "So bene che la ripresa è fragile. Che l'Eurozona cresce meno degli altri. L'Italia non ha invertito la marcia e non la invertirà con la bacchetta magica. Ma la narrazione degli autunni caldi è un noioso dejà vu". Il giusto Tito insiste: "Ma dovrete trovare 20 miliardi oppure no?". Il cauto statista lo riprende: " Definire le cifre del 2015 è prematuro". Sugli ottanta euro: "A chi dice che non hanno rilanciato i consumi dico di aspettare".

Nello stile dismissive, contemptuous, disdainful, scornful (glielo diciamo in inglese così forse gli piace di più) il Premier lascia a noi dunque trattare con i soliti dettagli. L'Italia è il paese che cresce meno di tutta l'Eurozona, ma lo stesso Renzi che aveva promesso un + 0,8% così vede il quasi default: "La crescita è negativa da tempo. Avviandosi verso lo zero darebbe segnali di miglioramento". L'Italia è il paese in cui, in questo inizio di settimana, si imballa sulle coperture il decreto Madia sulla Pubblica Amministrazione, dando ragione al tanto offeso Cottarelli, cacciato con infamia come tutti i non amici di Renzi. L'Italia è il paese che in questo momento è alla guida del semestre europeo e nessuno se ne è accorto. Ma noi ci siamo in compenso accorti che il maldestro primo passaggio sulla scena europea del nostro leader con l'inutile braccio di ferro su Mogherini ci ha solo fatto sprecare tempo: le nomine saranno trattate a fine agosto e se ci va bene dunque il meraviglioso semestre di ridurrà a un paio di mesetti - da settembre agli inizi di dicembre: altro che svolta decisiva impressa dall'Italia alle politiche europee.

Del resto, al di là della retorica della velocità, la perdita di tempo pare essere la essenza di questo primo squarcio di governo Renzi. Eventi alla mano, le uniche priorità di Renzi riguardano tutti gli impegni che hanno a che fare con la definizione del potere istituzionale, il suo e quello che circola nei palazzi romani. Non sono iscritta al partito di chi crede che Renzi farà Cesare o Napoleone - per essere l'uno o l'altro ci vuole un po' più di visione di quel che finora ci ha mostrato. Ma di nomine, sostituzioni di persone, battaglie per il controllo dei ministeri, alleanze e disalleanze politiche: di questo il giovane premier si è rivelato espertissimo. Riducendo di fatti il suo promesso nuovo inizio a un soffocante neo parlamentarismo, riportando in primissimo piano la politica politicista. Da cui il paese reale, a parte le sue visite a favore di telecamere, è stato di nuovo totalmente escluso.

Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/matteo-renzi-blog-annunziata_b_5647029.html?ref=HRER1-1


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Ma Renzi è adatto a governare?
Inserito da: Admin - Settembre 07, 2014, 05:36:15 pm
Ma Renzi è adatto a governare?

Pubblicato: 01/09/2014 08:56 CEST Aggiornato: 01/09/2014 12:44 CEST

È adatto Matteo Renzi al compito che si è preso? "Is he fit to govern?". Mi sembra che si stia avvicinando il tempo di farsi anche su di lui la domanda che ha dannato tanti altri premier italiani, e non solo, in questa crisi che dura da ormai sei anni.

Diamo per scontato la risposta da parte delle artiglierie dei Renzi-fan, diventati oggi così radicali e insultanti da far sembrare i grillini dei perfetti gentiluomini. Intorno all'inquilino di Palazzo Chigi si è formato infatti un dogma di "infallibilità", una narrativa che passa da trionfo a trionfo , una vulgata del genere "durerà venti anni", il mantra "a lui non c'è alternativa" ripetuto da amici e ancor più da nemici. In una sorta di sindrome di Fukuyama, autore de "la fine della storia", presto smentito dalla storia stessa.

Un leader tuttavia dura tanto quanto è efficace la sua azione di governo. E al momento Matteo Renzi , a dispetto dei molti fuochi d'artificio che circondano la sua persona, è in un punto molto critico della sua forza politica.

Non è questione né di immagine né di buone maniere, di cui non ci interessa assolutamente nulla. Si tratta di risultati - materia che rimane molto ostica per il giovane presidente.

Il più atteso dei suoi provvedimenti, lo Sblocca Italia, è intanto stato giudicato quasi unanimemente inferiore alle esigenze della drammatica situazione del paese. E se una parte di inadeguatezza era da mettere in conto, visto che Renzi è in sella da soli sei mesi, e non ha la colpa di una difficile situazione che dura da anni, non è invece giustificabile la inadeguatezza del metodo con cui il premier si sta confrontando con le reali condizioni del paese.

Fa testo di questa inadeguatezza il percorso di preparazione e le conclusioni del primo Cdm d'autunno - insieme sono purtroppo la fotografia di un governo segnato dalla approssimazione amministrativa. Abbiamo assistito a vicende incredibili, che per qualunque altro esecutivo avremmo stroncato sul nascere.

Surreale il percorso della riforma della scuola. Non c'è nulla di meno serio di un premier che su un argomento così delicato per le famiglie e le decine di migliaia di lavoratori del settore, non lavori insieme al suo ministro; un premier che pochi giorni prima di proporre questa riforma scenda in campo con pirotecniche affermazioni tipo "vi stupirò", salvo poi ritirare l'intero progetto evidentemente non pronto, con la flebile scusa dell'ingorgo.

Surreale anche il percorso della riforma del lavoro, che ha subito lo stesso travaglio di quella della scuola, con un ministro, Poletti, che un giorno annuncia, un giorno nega quel che ha detto. E il riemergere di un tema, l'abolizione o meno dell'articolo 18, che ha a lungo diviso il paese, e che certo meritava di essere trattato , non fosse altro per capire cosa ne pensa il governo, e che è stato però seppellito sotto un aggettivo, in questo caso "superato".

Ma se la voce lavoro è dispersa, la voce giustizia, la più delicata da vent'anni a questa parte, è finita dritta dritta di nuovo nelle secche dello scambio politico, irretita nelle fibrillazioni della maggioranza e delle preoccupazioni di Silvio Berlusconi. Stesso destino per le risorse fresche, i milioni promessi per il rilancio dell'economia, passati da 43 miliardi, oppure 30, altre cifre vaganti, a infine solo a 3,8.

Nel complesso, persino le azioni giuste, che riguardano soprattutto la semplificazione normativa, sbiadiscono in rapporto a tutta la retorica dei mesi passati - Renzi, ricordate, è lo stesso leader che solo sei mesi fa accusò il suo predecessore Enrico Letta di usare "il cacciavite" laddove, disse, per cambiare l'Italia ci voleva "una rivoluzione". Altro che cacciavite - al suo primo incontro con il mondo reale della vita dei cittadini Renzi ha fatto soprattutto manutenzione.

La nomina della Mogherini a Lady Pesc sembra segnare invece l'azione internazionale del premier di ben altra caratura di quella mediocre nazionale. Quella nomina, va detto con chiarezza, è un indubbio successo, e la Mogherini non è né giovane - solo in Italia si è giovani a 40 anni - né inesperta. A lei vanno i nostri auguri perché dal suo lavoro dipendono oggi molte vicende, prima di tutte la potenziale guerra in Europa, ad alto impatto anche nazionale.

Ma, parlando appunto di guerra, come in Italia, così a Bruxelles non abbiamo sentito nessun discorso di contenuti accompagnare la nomina. Non sappiamo oggi più di ieri perché abbiamo chiesto il posto di Lady Pesc. Perché vogliamo creare un nuovo detente contro la Russia, perché temiamo una seconda guerra fredda, perché pensiamo che solo noi Italiani possiamo essere un ponte fra russi e Occidente, perché pensiamo che i russi possano aiutarci in Medioriente - o forse sono essenziali solo a noi italiani perché così abbiamo una leva in più in Occidente? Di quale di queste opzioni si tratta? Esattamente per cosa ci batteremo sul cosiddetto scacchiere mondiale? Siamo con Kissinger che chiede di ridefinire tutti gli strumenti di intervento, siamo per definire una nuova frontiera occidentale, siamo per un ribaltamento di alleanze in Medioriente, o per nuovi fronti militari? Siamo per i diritti umani o per la realpolitik? Siamo per bombardare Isis con Assad, e l'Iran, e vogliamo pagare per gli ostaggi, o liberarli impiegando le forze speciali? Insomma cosa pensa Renzi, premier del nuovo mondo? Per ora abbiamo soltanto sentito ripetere la frase "mediazione" a ogni angolo. Speriamo che basti.

Ma se non ha parlato di politica estera, Renzi ha però fatto un commento per festeggiare la nomina di Mogherini: "questa nomina indica che c'e' una nuova generazione al potere". E questa frase è in fondo il vero cuore della sua identità politica- il raggiungimento del potere. Un potere formale, materiale, riconoscibile in una serie di posizioni per sé e per tutti i suoi associati.

Non c'é nessun disprezzo in quel che dico. Il potere è l'anima della competizione pubblica da sempre. Non per tutti, non sempre, ma afferrarlo e esercitarlo è la ragione per cui si scende - o non si scende - in politica. O, almeno, in un certo tipo di politica .

E nella piattaforma renziana, fin dall'inizio, il potere ha un ruolo centrale, sotto forma di rottamazione, annuncio di un ricambio generazionale fatto con maniere decise. Obiettivo del tutto legittimo, parte della dinamica dell'evoluzione, e base molto forte della popolarità che ancora gonfia la bandiera renziana.

Su questa piattaforma Renzi si è rivelato geniale, e degno erede di quella grande scuola della Dc che ha visto in Andreotti il suo maggior e più pragmatico rappresentante, quello del potere che logora solo chi non ce l'ha. Come un treno, ha saputo cogliere le debolezze del suo partito, del sistema burocratico romano, delle classi dirigenti italiane prima e quelle europee dopo. È riuscito a intimidire con insulti alcuni di loro, altri li ha invece piegati con la seduzione della sua energia, altri ancora facendo leva sull'opportunismo di chi ama i vincenti.

La sua è stata una visione del potere senza gabbie etiche, solo e puramente funzionale. Non ha mai avuto dubbi infatti sulla natura tattica delle alleanze, e così come non ha esitato a far fuori Enrico Letta, così ha risdoganato e rimesso al centro senza nessuna spiegazione l'arcinemico del suo stesso partito, Silvio Berlusconi; o ha distrutto e rivivificato carriere a seconda dei voti che aveva necessità di raccogliere su questo o quel provvedimento. Che la priorità assoluta dei primi sei mesi della sua attività di governo sia stata la riforma del Senato ha senso solo in questo percorso.

Non è in sé sbagliato. Come si diceva è una idea che viene da una onorata e molto lunga tradizione - il potere si giustifica col potere perché solo il potere autorizza il cambiamento. Renzi in questo sfoggio di forza ha infatti affascinato e addomesticato quasi il 50 per cento del paese.

C'è un solo problema in questo schema, e che ora si presenta alla sua porta. Dopo la conquista, il potere occorre riempirlo di fatti, di idee, di proposte. E su questo Renzi arriva tardi e male. E non solo perché non ha i soldi. Anzi.

Arriva tardi e male perché in questi mesi non ha saputo o voluto raccordarsi davvero con il paese, e la sua crisi. Il suo orizzonte è stato il più politicista di tutti i leader più recenti. Proprio perché concentrato sulla presa dei centri di potere. Ma non ha saputo mai spiegare a tutti noi perché si sta sempre peggio, cos'è che non funziona nelle nostre città e come mai l'Italia ha continuato a scivolare verso dati economici negativi. Non lo abbiamo visto parlare con nessun poveraccio, salvo i suoi giri veloci e le sue pacche sulle spalle. Ha visitato a mala pena qualche fabbrica, della lunga vicenda della Alcoa non ha preso mai nota, ha fatto i suoi gesti di potere disprezzando Squinzi e i sindacati, ma ha visto Landini che è 'nuovo' e cool ma non sembra avergli parlato a sufficienza da capire che lui e Landini vivono in luoghi diversi. Parla tanto di quote rose, ma non parla mai di aborto, di diritti, di bambini uccisi da madri a da padri in depressione. Non ha mai fatto una filippica sull'onestà collettiva, sulla evasione fiscale, in compenso abbiamo tante filippiche su gufi e invidiosi e specie altre. Non ha mai detto una parola sul disagio dei giovani, sul degrado che alcol droga e bassi affitti hanno scatenato questa estate sul nostro territorio nazionale, in compenso fa docce gelate, e prepara una mossa smart via l'altra, un permanente girotondo di discorsi, conferenze stampa, convegni - oggi sappiamo già della conferenza stampa di mercoledì e poi del convegno europeo di venerdì e poi della la visita all'Onu prima anticipata da quella - e dove altro? - alla Sylicon Valley.

Ma soprattutto sembra non aver mai albergato nella sua testa l'idea che un paese in gravissima crisi c'è bisogno di un qualche misura speciale. Forse di una idea di unità nazionale che non sia solo il suo patto con Berlusconi e Ncd a fini di raccattare i voti che gli servono.

Roosvelt fece i lavori pubblici, Marshall finanziò la ripresa europea, Mussolini risanò le paludi. E lui ha qualche compito cui tutti noi possiamo concorrere, ha in mente una chiamata alla responsabilità di lavoratori e imprenditori, come in Germania ad esempio, o la ripresa viene automaticamente fuori dal suo inarrestabile presenzialismo? Si è mai chiesto Renzi perché i suoi 80 euro non hanno funzionato? Dove li ha messi la gente che li ha ricevuti? Sotto il materasso? Ha saldato i debiti pregressi? Nemmeno con quei dieci milioni di Italiani che ha concretamente e generosamente aiutato lo abbiamo mai visto parlare.

Il premier si fa sempre un punto di far sapere di fregarsene delle opinioni dei suoi critici. Ma le cambiali arrivano anche per lui. E nel caso di questi ultimi giorni la conseguenze del suo stile di lavoro si sono viste.
Alla fine di questa girandola di gestione di potere, arrivato al dunque delle misure da decidere per il paese, i tanti suoi progetti sono poi stati filtrati, messi in ordine e limitati da uomini più saggi e più vecchi di lui. Le sue ambizioni meravigliose si sono scontrate con la fermezza del ministro del Tesoro nel tenere i piedi per terra nei conti, nella fermezza di Napolitano di non prestarsi a giochi di illusionismo politico, e con la figura imponente di Mario Draghi diventato ormai il real player politico anche per l'Italia, oltre che per l'Eurozona.

Alla fine, spenti i fuochi artificiali, il Renzi che esce da Palazzo Chigi e naviga nel mondo reale è nei fatti un premier tenuto continuamente a balia da altri. Un premier decisamente messo al suo posto di ragazzino. E non solo dalla copertina dell'Economist.

Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/ma-renzi-e-adatto-a-governare_b_5746122.html?utm_hp_ref=italy&ref=HREA-1


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Cambio di pagina: ora Renzi non ha più né gufi né alibi
Inserito da: Admin - Ottobre 09, 2014, 05:04:23 pm
Cambio di pagina: ora Renzi non ha più né gufi né alibi

Pubblicato: 09/10/2014 12:44 CEST Aggiornato: 4 ore fa

L'Italia da ieri ha cambiato pagina. Attraverso i modi e i contenuti del voto sull'articolo 18, Matteo Renzi ha virato il governo italiano verso un neo-centrismo fondato su un rapporto più forte fra leadership personale e paese, e un rammodernamento del sistema, inteso soprattutto come eliminazione del 'conservatorismo' della sinistra. Una stra-vittoria sui suoi oppositori, non solo numerica, che costituisce un profondo chiarimento politico. Il Premier ha ora infatti quello che ha sempre voluto: governare alle condizioni che desiderava, sul progetto che voleva. Ma non ha più nessun gufo da abbattere, nessun alibi insomma in cui rifugiarsi in futuro.

La stra-vittoria non arriva come una sorpresa. La cronaca delle ultime settimane ci aveva già raccontato il serrar di ranghi e consensi del mondo degli affari e della imprenditoria intorno a Matteo. Nella Silicon Valley ha collezionato l'entusiasmo della parte "nuova e migliore" del nostro Paese, e a Detroit ha avuto l'abbraccio di Marchionne. Nel viaggio a Londra è stato omaggiato dall'amico di sempre Serra, ma anche dal brillantissimo Colao, mentre in Italia nelle stesse ore si affiancavano alle lodi il grande vecchio Bazoli e Patuano di Telecom. Sempre restando alla cronaca, grandi consensi di manager e business si potevano leggere, come è stato scritto da molti, nella lista degli invitati al matrimonio di Marco Carrai: Tronchetti Provera e Palenzona, Bernabè e Testa. È un mondo dentro cui per un bel po' Renzi ha sostenuto di essere un estraneo, dentro cui si è mosso spesso in maniera sospettosa. È solo dell'altro ieri lo sgarbo a Confindustria, la polemica contro i poteri forti.

Ma la sensibilità del governo proprio a temi come quello sul mercato del lavoro, e lo scontro con il sindacato hanno certo cambiato molti umori. Proprio sull'accesa fase di discussione prima del voto sull'articolo 18 Renzi raccoglie il primo frutto di nuove alleanze. Squinzi che rappresenta la Confindustria, uomo timido ma che con uno dei suoi ruggiti ha fatto cadere il Governo Letta, definisce Renzi un grande politico. Opinione condivisa da due dei tre sindacati, che lasciano sola la Cgil sulle sponde anti-Renzi.

A guardarsi indietro, potremmo forse dire oggi che che a quel punto la partita aveva già trovato il suo 'verso'. In realtà, infatti, al di là della drammatizzazione degli eventi per opera degli stessi protagonisti, antirenziani e renziani, la partita anti-articolo 18 dentro il Pd non ha mai davvero avuto una possibilità. La parte del Pd che si oppone a Renzi non ha mai avuto la forza numerica per vincere; come si è visto alle primarie e come si è visto nella composizione della direzione. Ma soprattutto non ha la forza di convinzione per far saltare il partito o farsi saltare per fare una 'bella morte'. Come poi si è visto al Senato, il senso di rispetto del Partito, sia pur lacerato e lacerante, ha avuto il sopravvento.

Forse la parte più interessante della storia dentro il Pd è in effetti stata proprio la scoperta del nuovo profilo della minoranza. I giovani Pd non renziani da tempo sono diventati renziani-in-modo-diverso, ed è comprensibile che lo siano: nel condividere l'età del Segretario ne condividono anche problematiche e futuro. Questo dissenso tenderà dunque a sfumarsi ancora più nel tempo, e ad amalgamarsi nel percorso di cambiamento del Pd tutto.

Il dissenso di quella che viene chiamata "vecchia guardia" di Bersani e D'Alema, ha incluso in questo caso un'area più vasta e più variegata dei vecchi. Cuperlo e Civati, ma anche Camusso e Landini, per la prima volta collocati sulla stessa sponda. Non è poco. Il comun denominatore fra loro è costituto da alcuni valori che identificano la sinistra: una certa idea del mondo si direbbe, ma ancor più una certa idea di cosa significa battersi a sinistra. In questa difesa della identità fin qui conosciuta c'è però anche la debolezza di questa area: nessuno di loro potrà mai rompere con un Partito che difendono fino in fondo, e con cui hanno vissuto in maniera simbiotica. Senza Pd sono senza un posto nel mondo. E non è un male: speriamo per la sanità delle istituzioni che a nessuno venga in mente di fare altri assemblaggi politici.

Il partito che esce da questa prova di forza non è in buona salute. Al proprio interno cova il malessere delle guerre oscure: quelle degli incarichi, delle nomine, delle alleanze di pura opportunità; la vicenda delle primarie e del contenzioso intorno alle tessere, il calo degli iscritti, provano la profondità di questo malessere, che è avvertito anche da renziani di primo conio, oggi scontenti del fatto che la rivoluzione, proprio del partito, si è appannata. Ma anche se tutte queste tensioni dovessero esplodere di nuovo, alla fine del giorno il Pd non sarà comunque un problema per Renzi. Semplicemente perché Renzi questo partito lo ha già archiviato: non gli interessa più. La sua idea di un nuovo paese, di un nuovo mercato del lavoro, passa anche per una totalmente diversa esperienza di aggregazione politica, che è già di fatto nelle sue mani.

Quello che ho appena scritto non è una opinione, ma la descrizione del nuovo consenso creatosi intorno a Renzi fornitaci dal Sole 24 ore di lunedì 7 ottobre. Secondo un'analisi del prestigioso Itanes (Italian National Election Studies) che mette a confronto il voto 2014 con quello del 2013, nel famoso 40 per cento europeo, comparato al 25 per cento bersaniano, si rileva "L'avvicinamento di una fascia - artigiani, commercianti, imprenditori, professionisti - che prima si teneva molto lontana, dai recinti del centro sinistra". Secondo Maraffiti di Itanes, "C'è un più 50 per cento di voti tra artigiani e commercianti, un 20 per cento in più di imprenditori e liberi professionisti - e questo è il salto in avanti più forte e più nuovo... e il consenso dei disoccupati passa dal 15 al 40 per cento". Come si vede, un partito "pigliatutto" (definizione Itanes) in cui la tradizionale identità di sinistra ('novecentesca') viene tendenzialmente sostituita da quello sfondamento al Centro da anni sognato da molti leader politici prima di lui, di destra e di sinistra, e in maniera diversa, hanno provato a esplorare, dal D'Alema della Terza Via, al Veltroni del Lingotto, al Berlusconi stampo Thatcher. Renzi ci è riuscito perché dagli 80 euro al Jobs Act, dalle riforme istituzionali, alla alleanza con Berlusconi, ha rotto con sistematicità la gabbia sociologica ed intellettuale delle definizioni destra/sinistra. Lo scalpo dell'articolo 18 ottenuto nelle aule parlamentari rafforza e definisce questo percorso.

Come dicevamo, dunque, oggi il Premier riallinea il nostro paese su un nuovo asse: quello con l'Europa che dal 2011, con una lettera della Bce voleva la riforma del mercato del lavoro, e la Merkel non gli ha risparmiato il suo riconoscimento; quello con il capitalismo italiano che da tempo voleva più mani libere; quello di una semplificazione delle istituzioni politiche che, a detta di tutti gli analisti e economisti, appesantite dalla vecchia gabbia di destra e sinistra, da tempo frenavano il sistema. È una ricetta molto lontana dalla sinistra tradizional.

E un nuovo progetto, neocentrista, ed ha vinto. Sbaragliati i nemici, e consolidati molti consensi, Matteo Renzi ha così oggi, come si diceva, l'occasione che voleva: può lasciarsi alle spalle il lungo periodo di pre-governo, la battaglia contro chi frena, e governare finalmente nelle condizioni che desiderava. Niente, nessuno, dunque nessun alibi, si frappone fra lui e la sua efficacia.

Provi ora a imbracciare con serenità questa vittoria, e a dimostrarci che le soluzioni che ha sostenuto con tale vigorosa convinzione, e con tali dolorosa conseguenze per molti, sono quelle giuste. Provi che non porteranno - come hanno sostenuto molti "gufi" - a gravi nuove ingiustizie sociali; che ci porteranno anzi fuori dal fanalino di coda dell'area europea. Nessuno in Italia, nemmeno i vecchi, nemmeno chi ancora crede che esiste differenza fra destra e sinistra, e che questi valori non sono fungibili, sarà scontento di vedere la disoccupazione scendere e la produzione salire. Magari con velocità proporzionale alla guerra politica vinta intorno al Jobs Act.

Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/cambio-pagina-renzi-gufi-alibi_b_5957228.html?1412851522=&utm_hp_ref=italy&ref=HRER1-1


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Essere grandi borghesi non è certo un'accusa.
Inserito da: Admin - Ottobre 13, 2014, 02:56:15 pm
Genova, per noi...
Pubblicato: 12/10/2014 19:44

CEST Aggiornato: 12/10/2014 19:45 CEST

Tre borghesi, o, meglio, usando le sottigliezze delle classi sociali di una volta, tre grandi borghesi. Luigi De Magistris, magistrato figlio di una illustre famiglia di magistrati da generazioni. Marco Doria aristocratico di nome e di modi, figlio a sua volta di un famoso comunista, chiamato per via dei titoli, "marchese rosso". Giuliano Pisapia, avvocato, figlio di Gian Domenico Pisapia, uno dei più celebri avvocati penalisti italiani, autore del nuovo codice di procedura penale italiano in vigore dal 1989. Essere grandi borghesi non è certo un'accusa.

Quando nel 2011 questi tre uomini si presentarono per la elezione da sindaco nelle rispettive città - Napoli, Genova e Milano - questa loro estrazione sociale fu certo un elemento, una forte suggestione, che giocò una parte nella loro elezione. Elemento immateriale, ma non per questo irrazionale. Le loro biografie erano perfetta rappresentazione di quelle élite della società civile, che in una Italia sempre esposta al vento delle cose, ha nel tempo finito con il rappresentare tutte le virtù private di vite non esposte ai maneggi del momento.

In questo senso - ora che si comincia a parlare del loro fallimento - non è irrilevante ricordare le ragioni del loro primo (e straordinario) successo. La rivoluzione arancione vista oggi, soli pochi anni dopo ma a una distanza politica planetaria, fu la prima crepa nella calcificazione del potere istituzionale. Il primo segno che la struttura della politica era avvertita come rigida, estranea e fallimentare alla maggior parte dei cittadini, specie quelli della più vibratile sinistra. I tre più importanti nuovi sindaci arancioni costituirono appunto con la loro virtù fuori dalla casamatta del potere di allora il primo tentativo di modificarlo.

Il loro arrivo in questa casamatta fu chiamato non a caso rivoluzione. Ma nei fatti, rivoluzione non c'è stata.

La disgregazione della politica italiana subito dopo quella elezione del 2011 ha continuato ad accelerare. Non ci fu virtù della società civile che chiudesse quella prima crepa. La sfiducia nelle istituzioni si è poi allargata dando vita a un successo ancora più vasto e radicale , quello dei grillini, fenomeno che nel 2013 conquista un quarto del Parlamento con maggiore sorpresa di quella suscitata dal successo dei Sindaci Arancioni. E subito dopo è Matteo Renzi ad afferrare per le corna quella sfiducia nella politica facendone la base di una ulteriore modifica del corso del paese - in mano a Matteo Renzi la "rottamazione" (parola che più rivoluzionaria non c'è) diviene lo slogan di una decostruzione e ricostruzione dell'intero arco di partiti precedenti. Il potere renziano oggi gioca sul filo sottile di una doppia difficile partita, tra distruzione del vecchio ordine (sindacati, partiti, Confindustria, Parlamento) e ri-costruzione di un ordine nuovo.

La rivoluzione arancione, che pure aveva aperto la fase di cambiamento, non è riuscita ad agganciarsi a nessuno dei nuovi sviluppi. Non è diventata grillina, non è diventata renziana, non si è nemmeno assestata sulla sua prima promessa di dare corpo a una solida e lungimirante efficacia borghese.


Significativamente ognuno di loro è inciampato proprio sul terreno dove era più forte: De Magistris nel suo rapporto con la Magistratura, Doria sulla stessa alluvione che tre lo aveva fatto eleggere, e in prospettiva pare minaccioso l'esito dell'Expo (che pure non ha mai voluto) per Pisapia.

Il fallimento non è arrivato inatteso. Alcuni ricordano che già Micromega, la rivista che aveva appoggiato questi uomini nel 2011, ha pubblicato, nel 2013, una lunga inchiesta in cui si narrava l'esaurirsi della spinta al cambiamento dei sindaci arancioni.

A giustificare quello che è successo a Genova in queste ore sono chiamati in causa passività burocratiche, opacità conservatrici e corporativismi di sinistra, catene legali, assurdità legislative e vincoli europei, impotenza del locale e rigidità delle decisioni nazionali. Al di là dei motivi, i sindaci arancioni dovrebbero riconoscere queste difficoltà e se necessario farsi da parte.

Questa onestà è parte delle ragioni per cui hanno vinto nella prima ora. Non credo vogliano negarla ora nelle ore più difficili. La Napoli rovinata e la Genova allagata non sono materia di dibattito, ma una assoluta verità di fallimento. Vorrei aggiungere qui di mio anche il livello drammatico raggiunto dalla città di Roma anche se guidata non da un "arancione".

E tuttavia, l'esaurirsi così veloce di una esperienza così positiva ci dice molto di più. Ci dice di quanto la crisi sia ben più rapida dei tentativi di governarla. E di quanto, di conseguenza, sia sempre più breve o più fragile il ciclo di rigenerazione politica del sistema. Le città che soffrono sono i piedi di argilla di un paese in grave affanno.

Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/genova-per-noi_b_5973294.html?utm_hp_ref=italy&ref=HRER3-1


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Non è tutta colpa di Renzi, ma dovrà farsene carico
Inserito da: Admin - Novembre 25, 2014, 04:39:33 pm
Non è tutta colpa di Renzi, ma dovrà farsene carico
Pubblicato: 24/11/2014 09:45 CET Aggiornato: 33 minuti fa

Lucia ANNUNZIATA

Credo proprio che Renzi abbia questa volta ragione nel dire che l'astensione elettorale riguarda tutti. Ridurre il risultato emiliano solo a un voto contro o pro Renzi significa non afferrare pienamente la dimensione di quel che è successo.

La tesi degli avversari del premier, dentro e fuori il partito, è che l'assenteismo lo abbia punito per il suo attacco all'identità vera del Pd; che la Rossa Emilia, cassaforte della ortodossia, abbia espresso con questo distacco dalle urne la sua "offesa" per il suo stile di governo autocratico, per una finanziaria virata sugli imprenditori, per le scelte antisindacali, per il linguaggio di umiliazione portato dentro il partito, per il patto del Nazareno. Sicuramente c'è parte di questo malumore in giro nella roccaforte rossa. Ma l'astensione è troppo grande per avere come spiegazione solo la "rottura" della tradizione; i numeri sono troppo grandi per essere solo frutto di uno shock identitario.

Circola in Emilia Romagna, questo sì, il senso che alla regione, nota per essere una delle locomotive della partecipazione civica, sia toccato stavolta il ruolo di suonare il campanello d'allarme: ma contro cosa?

Il voto in effetti si capisce bene se lo si valuta con uno sguardo elettorale ampio, cioè proprio portandolo fuori dall'ambito della sinistra. I due risultati più significativi per capirlo sono infatti la comparazione con il voto in Calabria, e il successo della Lega.

Le urne calabre ci hanno consegnato una stabilità mirabolante - gli equilibri di sempre, un po' scossi dalle vicende della passata giunta, sono stati subito ricomposti in una ordinata continuità: ha vinto un candidato di sempre, e un voto che rispecchia le alchimie nazionali.

L'Emilia non fatto invece "ricomposizioni" della crisi della sua giunta. Con la forza tipica di una cittadinanza ben informata, gli emiliani non hanno permesso alla giunta di sinistra nessun make up del recente passato. Sulla logica della parrocchia (votiamo il partitone) è prevalsa la richiesta di "pulizia", di cambiamento vero della classe dirigente. Questa mi pare la prima lezione del voto emiliano.

In merito, se una responsabilità va accollata a Renzi, è che come segretario di partito ha semmai sottovalutato questa domanda, alzando le mani e lasciando prevalere gli equilibri locali. In vista delle primarie per le prossime regionali (competizione segnata al momento da nomi non credibili e da solite faide locali) è un pensiero su cui il premier dovrebbe forse ritornare.

Il successo della Lega è l'altro indicatore. La Lega ha vinto nella sua veste attuale - molto nazionale, e poco isolazionista/scissionista: nella versione orgoglio italiano contro le scelte del governo di oggi, ma anche di ieri e l'altro ieri; insomma la Lega come forza di contestazione alle istituzioni, canale della esasperazione che erompe continuamente nel paese davanti allo sgretolarsi delle condizioni di vita quotidiane.

Il voto leghista in Emilia ha raccolto probabilmente molti consensi operai, che, come sappiamo, spesso non si sono sottratti a votare Lega quando pensavano fosse il caso, anche se iscritti alla Cgil. Comunque, questo voto ha delle manifestazioni operaie di questi mesi la stessa forza di malessere, se non di programma. È credibile ipotizzare, e lo vedremo dalle analisi dei prossimi giorni, che la muta rivolta dell'astensionismo condivida parte delle motivazioni che hanno mosso al voto alla Lega.

Insieme, astensione e salvinismo sono l'indicazione di malessere ad ampiezza trasversale; sommati costituiscono il formarsi di un nuovo, diversificato ma impressionante, potenziale di pressione sugli attuali equilibri del paese. Persino maggiore di quello espresso solo due anni fa dal voto grillino che era ugualmente di contestazione del sistema, ma programmaticamente fuori (come si è visto) dalle sue fila.

Questa è una evoluzione del panorama politico che riguarda tutti, come dicevamo. Certamente non è solo preoccupazione o responsabilità del governo.

Sulle spalle del governo ricade però il fallimento di non aver saputo né voluto riconoscere, ancor meno trattare, l'esistenza di questo profondo scontento nel paese. Ricade la responsabilità di fare un paio di riflessioni su una leadership che per quanto carismatica non è bastata a tenere in moto il motore della fiducia. Ricade soprattutto l'obbligo di adeguare la sua azione alle nuove condizioni.

Renzi non è stato sconfitto, ma ha di fronte un vero passaggio.

Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/non-e-tutta-colpa-di-renzi_b_6209868.html?1416818728&utm_hp_ref=italy


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Quirinale: Matteo Renzi al bivio sul Presidente: un avatar...
Inserito da: Admin - Gennaio 10, 2015, 10:02:06 am
Quirinale: Matteo Renzi al bivio sul Presidente: un avatar o un suo pari?
Pubblicato: 01/01/2015 11:58 CET Aggiornato: 2 ore fa

All'inizio c'era qualcosa che potremmo chiamare il "lodo Putin": eleggere Presidente della Repubblica un Medvedev qualunque, che permetta al Premier di controllare anche il Colle, oltre che Palazzo Chigi. E poi chissà, magari scambiare posto a tempo dovuto?

Ammetto, l'espressione "lodo Putin" non ha mai attraversato le labbra del Primo Ministro. Ma nei fatti è la migliore definizione di quello che è stato, fin dal primo momento, il rapporto con il potere dell'attuale Premier.

Significativo che l'elezione del nuovo Presidente della Repubblica coincida con il primo anniversario del governo. A febbraio di un anno fa Matteo Renzi sfondava le porte delle stanze romane con una manovra che lasciava senza fiato.

I suoi avversari ma anche molti dei suoi seguaci: appena nominato segretario del partito, con una valanga di consensi, otteneva da Giorgio Napolitano la poltrona di Palazzo Chigi, tradendo le rassicurazioni date ad Enrico Letta, e quelle date ai suoi elettori delle primarie, cui aveva promesso la fine di manovre di potere, la trasparenza nei rapporti fra cittadini e potere, nonché la fine di governi senza legittimazione popolare, cioè non eletti. Per quel che vale, tra i supporter che Renzi ha perso quel giorno ci sono anche io.

Fu quello un momento molto opaco della nostra storia pubblica, una occasione persa per rimettere sul binario un treno istituzionale che da parecchio aveva perso la sua rotta e continuava a macinare eccezioni alla regola, accrocchi, soluzioni trovate caso per caso - la fine extraparlamentare del berlusconismo, il governo tecnico Monti promosso e subito abbandonato, il pubblico abbattimento ( "come un cavallo azzoppato" ha ricordato l'interessato recentemente ) del leader Pd Bersani che aveva comunque vinto le elezioni, sostituito con il suo vice Letta, a sua volta presto abbandonato, fino alla vergognosa eliminazione su pubblica piazza, ma per mano nascosta, di ogni candidato alla presidenza della Repubblica e la nuova emergenza di un secondo mandato per Napolitano.

Dobbiamo proprio ricominciare da lì, direte? Certo. Perché di quel periodo, a dispetto di tante dichiarazioni, rimangono oscuri passaggi e motivazioni (come poi rimproverare ai cittadini la sfiducia nelle istituzioni? ). E perché è in quel momento che, invece di sanarsi, si è creata una nuova anomalia italiana; invece di interrompere la deriva eccezionalista di quel percorso, si è creato in quella occasione un leader che dell'eccezionalismo fa oggi la sua cifra.

Un anno dopo possiamo azzardare qualche risposta sulle ragioni che spinsero Matteo Renzi a fare la sua accelerazione su Palazzo Chigi.

Oggi abbiamo di lui una conoscenza migliore, e sappiamo che questo fenomenale leader non è un uomo che crede nella paziente costruzione di filiere, di luoghi di aggregazione sociale, di egemonie culturali. Niente Gramsci da quelle parti.

L'ex sindaco di Firenze è un uomo di gestione, di amministrazione nel senso più alto, un uomo del fare della cosa pubblica, la cui maggiore efficacia si espleta proprio nel massimo controllo delle leve di questa cosa pubblica.

In altre parole, Matteo Renzi è davvero il primo Sindaco d'Italia - pensa che il potere forte, individuale e decisionista sia lo strumento più importante per governare. Pensa a una equazione perfetta tra massimo potere del leader e massima efficacia.

In questo senso, si capisce ora bene perché un anno fa sbarcò a Palazzo Chigi senza attendere: era ed è sua profonda convinzione che solo operando da una posizione di potere avrebbe potuto "agire", cambiare l'Italia come voleva. E se questo implicava un compromesso iniziale per fare il Premier, una messa con cui conquistare Parigi, Matteo Renzi scelse allora di considerare che valesse la pena.

Nulla di male in questo approccio. La politica è in generale sinonimo di potere. Nella nostra storia recente da Craxi a D'Alema a Berlusconi, sono più i leader tentati da questo schema, di quelli che hanno provato a percorrere il sentiero della condivisione.

Nel caso di Renzi, l'inclinazione "decisionista" ha acquisito forza grazie anche a una richiesta popolare di azione e cambiamento - e infatti di tutti I leader nominati è quello che finora ha segnato più successi nell'accumulo di potere: con in corso una riforma in senso monocamerale del Parlamento, una riforma elettorale , e la trasformazione di fatto di Palazzo Chigi in un premierato forte ,somma delle cariche di segretario del partito di Maggioranza, e di titolare di un Governo in cui i Ministri sono poco più di suoi avatar.

Insomma, di messe per Parigi Renzi ne ha trovato più di una in questo anno e direi che continua a trovarne.

Tutto bene, dunque? E perché scriverne oggi, all'inizio della elezione del nuovo Presidente della Repubblica? Semplice: perché il progetto di ridefinizione dei poteri che Renzi ha avviato un anno fa, si conclude solo con la elezione del nuovo Presidente. Non a caso c'e stata da parte sua fin dall'inizio una lunga preparazione al "lodo Putin" - con tutte le sbandierate intenzioni su una donna al Quirinale, o un grande direttore di orchestra, o un grande architetto. Solo la esistenza di un Presidente che non gli faccia ombra, potrebbe infatti oggi lasciare al Premier l'agibilità di potere totale che sta inseguendo.

I modi del voto, e la personalità che verrà scelta per il Colle, saranno dunque dirimenti. Porteranno il progetto renziano da una parte o dall'altra. Ne accentueranno il controllo sulle istituzioni o ne costituiranno il bilanciamento, ne ricostituiranno una dialettica interna.

Fin qui la posta in gioco. Il terreno di questo gioco tuttavia ha già cominciato a definirsi.

Nelle ultime settimane si sono accumulati I messaggi al Premier. E non solo da parte dei grandi elettori in Parlamento. Da destra e da sinistra, dalle zone più scontente della politica a quelle più autorevoli, incluso una buona parte del mondo imprenditoriale favorevole a Renzi, si sente chiedere una personalità in grado di guidare il paese con "autorevolezza" ed "autonomia" in questo difficile momento.

Vale per tutti il discorso di dimissioni di Napolitano: la sostenuta sottolineatura della crisi economica, della necessita' di tenere insieme il paese e' stata in controluce l'enfatizzazione anche di forti istituzioni nel paese. Ed e' stato ancora Napolitano a tracciare non pochi giorni fa la strada da seguire per la scelta del suo successore, invitando ad evitare sia una scelta " di pancia" sia una scelta "estetica", cioè di pura immagine - di fatto così eliminando sia le tentazioni dell'antipolitica alla M5s, sia quella delle belle ma deboli figure proposte da Renzi. Persino una figura "tecnica" e' stata considerate dal Colle troppo debole per un ruolo estremamente politico quale quello del Colle.

L'invito che arriva a Renzi è dunque molto chiaro: gli si chiede da molte parti un Presidente che non sia semplicemente una sua proiezione, ma un suo pari.

Accoglierà queste voci, il Premier? O le considererà un'ennesima trappola che gli prepara il caro vecchio establishment del paese? Un ennesimo ostacolo dei gufi che non vogliono cambiare?

A questo incrocio suonerà fra pochi giorni la campanella d'inizio della elezione. Vedremo cosa Renzi sceglierà - perché ne ha tutta la forza politica di numeri e di manovra- , e la sua scelta varrà per tutti noi.

Dove vada la mia preferenza, è chiaro da come ho cercato di raccontare in questa testata (che rimane uno spazio aperto a tutte le idee e voci) il primo anno dell'era renziana. Renzi e' un politico di razza, arrivato sulla scena del nostro paese con una causa buonissima - rinnovare tutto. Ma la sua visione del potere e' tale da essere un rischio per tutti, a cominciare da lui.

Nelle difficili circostanze raccontate così bene da Napolitano una guida solitaria, per quanto carismatica e potente sia, non basta. L'efficacia di governo non nasce solo dalla capacità di un leader di prendere decisioni, ma da fatto che queste decisioni siano giuste.

E la forza delle decisioni non viene dai decreti, ma da quel sistema di equilibrio e controlli fra vari poteri istituzionali e sociali, la comparazione fra punti di vista, valori, e interessi, che ha sempre garantito che si arrivi a decisioni informate, anche quando non condivise.

La ragione per cui la democrazia occidentale è stata forte, anche dentro questa sua crisi strutturale, e' esattamente la sua articolazione interna. In questo senso, rimane la migliore salvaguardia per tutti. Incluso di chi è nel punto più alto del potere.

Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/quirinale-matteo-renzi-giorgio-napolitano_b_6403184.html?1420109926&utm_hp_ref=italy


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Prendere atto della Terza Guerra Mondiale
Inserito da: Admin - Gennaio 12, 2015, 10:11:08 pm
Prendere atto della Terza Guerra Mondiale

Pubblicato: 09/01/2015 21:25 CET Aggiornato: 09/01/2015 22:06 CET

Quando nel 2001 ci fu l'attacco alle Torri Gemelle, qualcuno avvertì che si trattava dell'inizio della Terza Guerra Mondiale. Un coro di critici seppellì questa previsione come esagerata e catastrofista: ma quello che in questi anni si è svolto sotto i nostri occhi ha semmai peggiorato le previsioni di allora in termini di velocità di sviluppo delle operazioni. Papa Bergoglio anche su questo tema sembra aver anticipato tutte le élite intellettuali evocando un paio di mesi fa "una terza guerra mondiale che si svolge in capitoli".

Le colpe, responsabilità di persone e idee, sono tutte dibattibili, e non manca una ampia letteratura in merito.
Ma nel frattempo c'è una questione molto più urgente che l'attacco a Parigi ci ha presentato - mentre continuiamo a discutere sulla natura del conflitto in corso, il conflitto stesso ci ha raggiunti. E ci ha trovato impreparati.

Le immagini che ci arrivano dalla Francia, da ore e ore, grondano di questo incredibile, surreale, ultraterreno senso di stupore. La perfetta bellezza delle strade della capitale, l'augusta serenità dei campi infiniti della Francia del Nord, il panorama denso dei vignoble dello champagne, in cui uomini armati, elicotteri, e spari sono irreali come un film di fantascienza sulla invasione degli alieni.

Non che la impressione sia sbagliata - il terrorismo è un sbarco alieno, è esattamente quello che pensavamo fosse di là e altrove, l'inimmaginabile, che si è materializzato. Questa è la natura degli eventi francesi - l'impossibile è diventato reale. E il modo come si sta svolgendo inizia anche a farci capire cosa abbiamo di fronte.

Vanno fatte alcune precisazioni: non è un nuovo 11 settembre 2001. Ce n'è uno solo, e quello fu la dichiarazione di guerra. A Parigi assistiamo invece a un capitolo avanzato del conflitto iniziato allora. Va anche precisato che l'attacco non è terrorismo, ma un atto di una guerra che usa il terrorismo come strumento. Una distinzione che pare secondaria, ma che invece fa tutta la differenza. Il termine terrorismo come viene usato in genere copre infatti eventi considerati per loro natura occasionali, anche se numerosi e devastanti. Una guerra è invece innanzitutto un atto politico: richiede una piattaforma ideologica che aggrega i suoi soldati, un obiettivo che li motivi, e una pianificazione di forze, strumenti, armi, e progetto. Questo sforzo bellico conta oggi assi orizzontali e verticali di collaborazione nel mondo tra le organizzazioni - unisce Isis e al Qaeda, va dal cuore dell'Africa all'Europa, al Medioriente, può spingersi a mobilitare risorse in tutti i paesi, dai più avanzati ai più lontani dell'estremo oriente. E l'Europa che ne è solo il nemico, ne è anche pieno titolo una delle madri - senza la ricchezza, la scienza, la libertà dell'Europa questa guerra avrebbe avuto un corso completamente diverso.

Ecco il punto dove siamo: l'esercito che iniziò a formarsi nel 2001 è cresciuto, si è ramificato, ha formato una sua piattaforma, ha addestrato le sue truppe - e ora queste truppe sono qui fra noi. Questo succede oggi a Parigi, questo succederà in tutti i nostri paesi. Prendere atto di questa realtà, dirci che la guerra ci ha raggiunti, di nuovo, dopo settanta anni, non è per nulla semplice. La storia del continente europeo è tale che oggi la opinione pubblica rifugge da ogni discorso di tensione. Spesso la semplice apertura di una discussione sul che fare ti fa apparire come un guerrafondaio.

Eppure, negare di essere parte di un conflitto è una ipocrisia bella e buona - dal 2001 siamo in guerra permanente. Abbiamo, come Europa, combattuto in Afganistan, e in Iraq, in Siria, in Libano e in Africa. In questo momento l’Italia porta sulle spalle l'intervento in Libia, altra nazione che ha avuto grande parte in almeno un capitolo della Terza Guerra Mondiale, e quello in Siria. Che questi interventi militari siano stati sempre limitati o seminascosti dalla nostra classe politica non ne ha certo cambiato natura.

Diciamolo dunque. Ammettiamolo. E cominciamo a pensare a nuove politiche, ad interventi di difesa seri. Chiediamo alla politica di fornirci un piano di preparazione militare, un progetto di messa in sicurezza chiaro, una idea di investimenti in questa stessa sicurezza. Del resto, non affrontare queste questioni in questi ultimi anni ci ha portato solo ad esserne risucchiati, ha portato la nostre società ad essere sempre più dominate dal timore, e attratte da politiche emotive e razziste.

Non ci illudiamo più: gli attacchi di Parigi hanno chiuso un'epoca per l’Europa, quella della politica degli struzzi, come dimostra la manifestazione di Parigi di domenica. Non si tornerà indietro.

Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/siamo-ancora-in-guerra-parigi-e-un-capitolo-dell11-settembre_b_6444624.html?1420835153=&ref=HRER1-1


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Cinismo e coraggio, così Renzi cerca di uscire dal Vietnam
Inserito da: Admin - Gennaio 30, 2015, 04:32:40 pm
Cinismo e coraggio, così Renzi cerca di uscire dal Vietnam

Pubblicato: 29/01/2015 22:07 CET Aggiornato: 53 minuti fa

È presto per fare una valutazione finale, ma la prima giornata della maratona presidenziale sembra indicare che Matteo Renzi ha forse trovato una strada fuori dal potenziale Vietnam elettorale.

Come ci stia lavorando è parte del manuale del perfetto renzismo. Lo schema di gioco che ha applicato è quello ormai collaudato dalle prime ore del suo premierato: per sottrarsi ai condizionamenti del suo partito e della sinistra ha ancora una volta usato il maglio del Nazareno; poi, una volta fatto sbandare sotto il colpo dell'alleanza con Berlusconi l'esercito di critici e oppositori, dimostrando loro di fregarsene dei loro condizionamenti, è tornato nei ranghi del Pd, con un discorso, quello della corona, ai grandi elettori, in cui li ha ascoltati, lusingati, per poi rimetterli al centro dell'azione. Nel frattempo è toccato a Silvio Berlusconi essere tradito a sua volta, sentire sulla propria pelle l'effetto che fa: Matteo fa patti solo per un tempo un luogo e uno scopo, ma nessun patto per lui va oltre le ragioni della sua immediata utilità.

Arrogante nei confronti dei critici, menefreghista nei confronti dei patti stabiliti, ma anche capace di valutare le debolezze altrui, e soprattutto di assumersi i rischi di una forzatura: renzismo puro, perfetta combinazione dei suoi peggiori difetti e dei suoi migliori attributi - un capolavoro di pragmatismo politico. Così è nata la prima giornata di relativa serenità dentro la sinistra da molte settimane.

Non è pacificazione solo formale: in Parlamento la sinistra si è rimescolata in queste ore in maniere improvvisate e sorprendenti - a un certo punto in un capannello sorridevano Zoggia, Fassina e Maria Elena Boschi. Dal Pd e da Sel, dai dem critici e dai più d'ordinanza la rottura del patto del Nazareno per sostenere Mattarella era valutata una vittoria. Vittoria vera o falsa, di lungo o di corto respiro al momento non conta. Perché certo conta l'unità ritrovata, e quel respiro di sollievo che si e' avvertito quando Matteo ai suoi grandi elettori si è presentato di nuovo come l'uomo della sfida a Berlusconi. Pagherà Renzi in altri modi questa sfida? O la ripagheranno di nuovo i dem in una futura nuova capriola? È da vedere. Ma se le evoluzioni della politica sono molte, il Presidente durerà sette anni, e dunque quel che si fa ora, costruisce comunque un punto metapolitico. Questo è quel che conta. Un pezzo di storia (in minuscola, certo) sta girando, a sinistra.

E gira anche - è proprio il caso - non certo solo per tattica politica, per quanto brillante o brutale essa sia. Gira perché una suggestione nasce intorno a un nome.

Sergio Mattarella lo avevamo lasciato come terzo mai tirato in ballo della sfortunata terna bersaniana che comprendeva anche Prodi e Marini. C'è dunque un filo logico da cui si riparte, ma nel frattempo quel filo si è rotto - questi anni sono stati così duri e diversi, hanno fatto
passare tanta acqua sotto i ponti che più che del 2012 Mattarella pare un'eco di un passato molto più lontano. C'è una forza in questa distanza.

Mattarella oggi è un uomo fuori, fuorissimo, dai giochi del catino d'acqua romano. Il suo silenzio è del tutto inusuale nell'intasato ecosistema, i suoi saperi sono completamente l'opposto della veloce modernità globalista dentro cui siamo immersi. Persino il suo profilo politico è difficile da collocare nella frastagliata evoluzione dell'attuale logos politico.

La sua è figura insieme sentimentalmente vicina alla storia della sinistra, ma lontana a sufficienza dalle fiamme che hanno consumato soprattutto negli ultimi tre anni le contorsioni politiche italiane; vicina a sufficienza da aver fatto pezzi di strada insieme a tutti, ma priva di quella caratura intergenerazionale, di quel fazionismo che potrebbe far avvertire la sua affermazione come fatta a spese di altri.

Non ultimo, la sua scelta non è riportabile direttamente nemmeno al Premier. Mattarella è molto lontano dalla idea originaria di Renzi di voler un Presidente sua diretta emanazione, un avatar come si diceva per gioco. Il premier sceglie in lui un uomo con cui non ha dimestichezza e che certo non può immaginare di aggregare automaticamente al suo gioco.

I due hanno specificità e quotidianità di cultura e di abitudini molto diverse. Tutta questa diversità di cui abbiamo fin qui parlato è probabilmente la migliore soluzione per tutti.

Se un Presidente avatar umilierebbe la dinamica politica e parlamentare, un presidente troppo forte potrebbe, viceversa, innescare tensioni. E l'ultima cosa di cui abbiamo bisogno è una ulteriore linea di frattura politica - fra le molte che già ci sono - fra il Colle e Palazzo Chigi.

Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/cinismo-e-coraggio_b_6574126.html?utm_hp_ref=italy


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Ragazzi del Parlamento, la ricreazione è finita
Inserito da: Admin - Febbraio 06, 2015, 05:57:16 pm
Ragazzi del Parlamento, la ricreazione è finita

Pubblicato: 03/02/2015 13:37 CET Aggiornato: 2 ore fa

Prendiamo in prestito un commento fatto a caldo da Pierluigi Castagnetti : "La più alta autorità dello Stato ha reso omaggio alla più alta autorità della sofferenza".

Un aggettivo per questa volta si può sprecare: il discorso del presidente della Repubblica Sergio Mattarella può essere definito bellissimo. Soprattutto per quella semplice rivoluzione copernicana del suo impianto - l'aver strappato il velo del politicismo, rotto la tela di parole alate che sono spesso solo una corazza intorno alla indifferenza delle élite, per riportare la politica dentro la vita umana. Dentro la ragione per cui essa esiste: sostenere nel loro percorso di vita uomini e donne, di qualunque colore, fede, e condizione.

E nessun cittadino italiano, infatti, per un breve periodo di mezz'ora, il tempo di quel discorso, ha potuto negare di essere protagonista, di essersi sentito personalmente portato e omaggiato dentro quell'aula, in una inversione di ruoli - anche questa una rottura - fra la vita reale e Stato.

Nessuno è stato dimenticato. Il dolore soprattutto non è stato dimenticato: quello delle famiglie in questi anni di crisi che ha aumentato le differenze sociali, quello dei vecchi lasciati soli, quello dei giovani disoccupati, quello delle donne che subiscono violenze, ma anche quello di chi soffre oggi prigioniero all'estero, o dei civili che lavorano in zone di guerra. Nessun martire è stato dimenticato, il bimbo ebreo, le vittime dentro le forze di sicurezza, e le vittime di mafia; ma nemmeno nessun diritto è stato dimenticato, quelli delle comunità straniere in Italia, quelli delle scelte private dei cittadini, e perfino, a sorpresa, il diritto della indipendenza della informazione (da quanto tempo non se ne sentiva parlare: grazie Presidente).

A leggerlo così non è un elenco diverso da quello che spesso si fanno. La diversità in questo caso è però, come dicevamo, segnato dal contesto di rottura del politicismo. La supremazia di questi diritti, di questi protagonismi e di questi dolori è raccontata come principio e fine della politica stessa e della Costituzione. Mentre alla politica che ha riempito in questi ultimi anni la contesa permanente fra uomini e partiti, sono stati dedicati passaggi rilevanti ma brevissimi: tre righe alla necessità delle riforme istituzionali; la scomparsa dell'allarme per l'antipolitica è stato sostituito dalla piena dignità di ogni istanza - a cominciare dalla indignazione dei 5 Stelle, mentre la annosa questione dei ruoli istituzionali è stata dipanata con poche parole: "il Presidente deve essere e sarà un arbitro".

Persino il ruolo stesso dei protagonisti della cosa pubblica ne esce ridimensionato: i politici, e lo stesso Presidente visti come comprimari della Costituzione e non continui interpreti, o peggio, della stessa.

Nel complesso, una operazione di risistemazione delle priorità, conclusasi, non a caso, con il ritorno in aula, chiaro e forte, dell'impegno etico. Nulla c'è di più banale, ma anche di meno scontato oggi, del rimettere al centro dell'azione dello Stato la lotta alla corruzione, al degrado economico e sociale che essa porta nella vita di tutti, e, rilevantissimo nelle attuali circostanze politiche, la definizione come pratica corruttiva della evasione fiscale.

Quello che rimane è il senso di una specie di nuovo inizio, una sorta di reset della confusione politica che ha spezzato la storia del paese dal 2011 - dalla brusca e ancora oggi in parte inspiegata conclusione extraparlamentare del governo di Silvio Berlusconi - fino ad oggi.

Un reset di doveri, priorità ma anche di clima. La brevità e la semplicità delle parole, la forza di un mite, sembrano aver ripreso posizione centrale nella scena spingendo ai margini i singulti, le frenesie, il bullismo e le astrattezze in cui viviamo da fin troppo tempo.

Ragazzi del Parlamento, la ricreazione è finita.

Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/ragazzi-del-parlamento-la-ricreazione-e-finita_b_6602682.html?1422967077&utm_hp_ref=italy


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Il "New Normal" tra Matteo Renzi e Barack Obama.
Inserito da: Admin - Aprile 12, 2015, 06:12:01 pm
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Il "New Normal" tra Matteo Renzi e Barack Obama. Primo viaggio del premier a Washington
Pubblicato: 11/04/2015 17:04 CEST Aggiornato: 11/04/2015 17:07 CEST

Nell'inner circle la si definisce già' "the new normal". E in questo caso l'uso dell'Inglese non è un vezzo: la prima visita di Matteo Renzi alla Casa Bianca dovrebbe avvenire infatti nel segno non dell'evento eccezionale, ma del proseguimento e approfondimento - dice questo inner circle - di una relazione stabilita da tempo.

Interessante che Palazzo Chigi scelga una sorta di modestia, la normalità appunto, per raccontare una visita che nella politica italiana viene di solito considerata l'apice del trionfo diplomatico di ogni nostro leader. Se pensiamo agli ultimi due premier, Monti si recò quasi subito in Usa scegliendo Wall Street per presentare il suo profilo riformatore (riforma del mercato del lavoro in particolare), e Enrico Letta anche andò a Washington molto presto. Renzi vi arriva dopo più di un anno. Eppure in tanta "modestia" dell’attuale Premier si cela anche non tanto una scelta quanto una inevitabile lettura dei nuovi modi e pesi nelle relazioni fra Stati Uniti e Europa.

Di modesto intanto ci sarà formalmente ben poco nel viaggio transatlantico di Renzi. Tappa breve certo - dal 16 al 18 di questa settimana - ma ospitalità di rango alto: il leader italiano dormirà nella Blair House, la foresteria della Casa Bianca dedicata agli ospiti di Stato (a molti tocca qualche lussuoso hotel della sedicesima), pranzo con Obama sempre in Casa Bianca dopo l'incontro di lavoro, e conferenza stampa nel Rose Garden, la più ambita esposizione alle camere della storia recente - sperando che non piova ovviamente.

Nessun think thank invece per il premier italiano, che sembra aver preferito due istituzioni della capitale: farà infatti un discorso agli studenti della Georgetown University, celeberrimo centro di pensiero dei Gesuiti, e incontrerà il board editoriale del Washington Post.

Niente di modesto si diceva. La normalità che sfoggia Palazzo Chigi è dunque piuttosto una sorta di sottolineatura del fatto che fra Renzi e Obama i rapporti sono ormai consolidati, che i due si sono visti molte volte, a cominciare dalla visita Italiana del presidente americano avvenuta a poche settimana dall'arrivo a Palazzo Chigi dell'attuale inquilino. Obama è stato del resto molto attivo su suolo europeo in questo ultimo anno, presente a molti vertici fra cui quello di Galles.

La stessa agenda dell'incontro è di conseguenza molto inchiavardata nelle storie lunghe che già si sono sviluppate in questo anno passato. Ucraina, Russia, Iran (che sono nel cuore degli Usa) , la Libia, la crisi mediterranea, il terrorismo, la Grecia e la spinta all'uscita dall'Unione Europea (molto nella mente degli italiani).

Quello che c'è di interessante in questa visita è il riflesso che vi si può leggere della relazione fra i due paesi nei tempi attuali.

La Roma che arriva questa volta a Washington non veste più solo gli abiti del sicuro alleato americano. Le turbolenze internazionali che nell'ultimo anno hanno sconvolto il territorio europeo e mediterraneo dell'Occidente hanno conferito all'Europa un nuovo status da protagonista. L'Italia si è trovata come mai in primissima fila di alcune delle peggiori crisi del ventennio. Pensiamo al rapporto con la Russia e, soprattutto, all'impegno sul fronte del terrorismo, in Iraq e in Libia. Saranno questi i due principali fronti di discussione, sicuramente i più sensibili. Ma non dobbiamo aspettarci questa volta nessuna decisione importante, nessun mandato particolare.

I tempi e i luoghi delle relazioni internazionali sono, come si diceva, cambiati. Washington non è più la guida assoluta che è stata per decenni, per sue indecisioni, e per la svalutazione oggettiva del suo peso globale. L'Europa a sua volta ha cambiato peso, rilevanza e responsabilità in questo stesso assetto globale.

Renzi da europeo si presenta a Obama nel momento in cui più si avverte questo aggiustamento sismico fra i due lati dell'Oceano, fra alleati con stesso percorso ma diverse priorità. In questo senso Washington non ha più da offrire ruoli da principe: questo onore oggi i leader europei debbono conquistarselo piuttosto nel loro continente e nei vicini teatri di guerra.

Se non bastassero questi cambiamenti, va ricordato che ce n'è un altro in corso, ben più definito ma altrettanto importante. Renzi arriva proprio mentre la discesa in campo di Hillary Clinton rende più visibile l'avviarsi alla conclusione della Presidenza Obama. Anche questo passaggio di testimone rende più esile ogni rapporto con Obama.

Ma su questo state tranquilli. Il nostro abile Renzi ha ogni contatto necessario per seguire bene questo passaggio di testimone: la sera del 16 a Villa Firenze, al ricevimento dato dall'ambasciatore Italiano saranno presenti anche gli uomini e le donne che lavorano al fianco di Hillary, tra cui John Podesta, Alec Ross, Susan Rice e Victoria Nuland.

Di tutto questo è fatto il "new normal".

Da - http://www.huffingtonpost.it/2015/04/11/renzi-obama-new-normal_n_7046168.html?1428764724&utm_hp_ref=italy


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - La solitudine di Francesco, il silenzio della sinistra sui...
Inserito da: Admin - Aprile 16, 2015, 04:23:27 pm
La solitudine di Francesco, il silenzio della sinistra sui cristiani
Pubblicato: 06/04/2015 21:35 CEST Aggiornato: 06/04/2015 21:51 CEST

Sinistra dove sei? No, non intendo parlare delle polemiche sull'Italicum, non faccio riferimento a nessuna minoranza, e non sto chiedendo conto delle varie denominazioni pro e contro Renzi.

Mi chiedo dove sia la Sinistra, con la S maiuscola, quell'ampio schieramento sociale che è tale perché ha una storia e dei principi, perché è fuori dalle gabbie e dalle beghe delle quotidianità, che ama se stesso perché ama il suo senso della giustizia. Dov'è in questo momento di fronte al più terribile dei crimini perpetrati oggi contro i deboli?

Parlo, si, delle stragi di cristiani che bagnano di sangue tante terre del mondo. Perché non ricevo appelli da firmare (eppure me ne inviano di ogni tipo)? Perché nessuno promuove non dico una manifestazione ma un sit-in, o una qualunque riunione? Non all'auditorium, non all'Ambra Jovinelli, ma nemmeno in un padiglione qualunque di periferia, o in una piazza storica occupata dalla Cgil o dalla Fiom. Nulla. Non sento slogan, non arrivano documenti, né appelli, né proposte di sottoscrizione.

Non se ne parla nei talk show, non parliamo dei talent o di Amici. La Tv è altrove, lo sappiamo, soprattutto noi che ci lavoriamo. Ma nemmeno c'è la fila, qui, dentro questo ufficio dell’HuffPost, di giovani e ambiziosi giornalisti che vogliono " dare voce", come si ama dire, a questi nuovi deboli e indifesi.

Se guardo alla cronaca di questi ultimi mesi la Sinistra si è accollata una quantità enorme di cause - quelle delle donne, del femminicidio, degli operai, della disoccupazione giovanile, dei matrimoni fra cittadini dello stesso sesso, di tagli agli sprechi della politica, di riforme delle istituzioni, di cambio della forma partito, della libertà su internet o delle tasse a Google, della privacy, della innovazione , di rottamazione, di povertà' e austerità , ma anche di chilometro zero, di talento e di diete giuste, di arte e corpo, di corpo e tatuaggi, di Isis e Guerra, di Europa e Guerra, di Putin, di Obama e di Charlie Hebdo e del Museo del Bardo.

Ma, eccezion fatta per pochi, mai una volta, in tutte queste passioni si sono inseriti la pena o l'orrore per la morte di uomini e donne a causa della loro fede. La morte cioè come violazione finale del diritto più importante della libertà personale. Fede che, per altro, è quella della maggioranza del nostro paese, ed è anche la base della definizione (volerlo o meno) della storia e della cultura del continente in cui viviamo.

No, non sono cattolica, e nemmeno una neoconvertita. Sono atea e intendo rimanere tale. E no, non ho scritto una sola riga sull'attuale Papa, non sono andata a Messa dalle nuove gerarchie religiose e ancor meno mi sono spinta a dire che questo Papa sta facendo una rivoluzione ed è il vero leader della sinistra.

Sono però una giornalista e credo di riuscire ancora a capire cosa è una notizia. E la notizia di questi giorni è la solitudine in cui è stato lasciato proprio questo popolarissimo Papa, da mesi voce unica nel denunciare le stragi dei fedeli e oggi unico capo di stato a puntare il dito contro l'immobilismo delle Nazioni Occidentali su questi eccidi. L'esatto contrario di Charlie Hebdo, insomma.

Le ragioni di tanto silenzio e imbarazzo degli Stati Occidentali si conoscono molto bene. Le si può leggere in filigrana nelle stesse spiegazioni che il segretario della Cei, monsignor Nunzio Galantino, ha fornito all'intervento di Papa Francesco. "L'appello del Papa non incita allo 'scontro di civiltà' " si è sentito in obbligo di spiegare Galantino. E ha persino chiarito l'ovvio, cioè che Francesco non intende incitare alla "guerra santa".

Questo è il punto su cui si paralizza tutto: la paura che la difesa dei cristiani significhi accendere altre mine nel già duro scontro, significhi dare via libera a una controreazione, significhi infine legittimare tutta quella destra che già ora in Occidente per propri interessi politici soffia sul fuoco del razzismo e dello scontro di civiltà.

Ma se ben sappiamo che il rispetto dei diritti umani è in genere la prima vittima sacrificale delle ragioni di Stato, possiamo anche noi cittadini, noi opinione pubblica, accodarci a questi timori e a questi opportunismi?

Torno così a parlare di sinistra. Sinistra perché è questa parte politica che ha sempre rivendicato di avere la forza e la convinzione per affrontare I temi della difesa dei deboli. E perché la sinistra in questo momento ha molto peso in grandi stati dell'Occidente. Non ultimo in Italia.

C'è molto da fare subito. Per prima cosa, i governi possono e debbono varare un piano per mettere in sicurezza intanto le migliaia di profughi - attraverso non solo l'assistenza strutturale (medicina, scuola, abitazioni) ma anche offrendo cittadinanza su vasta scala nei nostri paesi a tutte le famiglie che intendono lasciare le proprie nazioni.

Con una attenzione particolare a tutti i giovani che vogliano venire da noi a studiare o a lavorare. È un po' quello che fecero i paesi occidentali prima della seconda Guerra mondiale per migliaia e migliaia di ebrei e vittime a vario titolo del nascente nazismo. Non è tanto, ma è un inizio ed è anche un efficace messaggio di forza morale e solidarietà da opporre alle violenze dell'Isis.

La sinistra non può stare zitta, ripeto. Al contrario, il suo silenzio, le sue paure di varcare confini, di accettare il rischio di commistioni, di andare a scontri scomodi è , nelle condizioni date, anche la strada migliore per dichiarare la propria dissoluzione morale.

Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/papa-francesco-cristiani_b_7012484.html?1428348953&utm_hp_ref=italy


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Tra l'iperuranio di Renzi e la polvere di Salvini
Inserito da: Admin - Maggio 19, 2015, 09:53:24 am
Tra l'iperuranio di Renzi e la polvere di Salvini

Pubblicato: 16/05/2015 20:34 CEST Aggiornato: 1 minuto fa

Lucia Annunziata

A Massa. Ma anche a Perugia. Ora forse presto a Pisa. Ma ancora prima a Roma. In verità è la intera cartina d'Italia ad essere coperta di virtuali bandierine, di non virtuali contestazioni. Il leader della Lega è ormai un bersaglio mobile di una spericolata campagna elettorale. Piazza dopo piazza, senza mai tirare il fiato, e senza mai perdere una battuta, è diventato il motore di una invenzione politica che mancava al nostro pur vario scenario: la battuta di caccia come campagna elettorale. Una battuta di caccia in cui, beninteso i ruoli della preda e del cacciatore continuamente si alternano, con lo stesso Salvini che è oggetto della caccia altrui, ma è anche il cacciatore che stana di proposito I suoi cacciatori per infilzarli a sua volta.

Ora, si potrà ricondurre tutto questo all'invettiva contro l'indubbia natura fascistoide del discorso pubblico del leader leghista; si può riportare il tutto a una questione di ordine pubblico, giustamente scandalizzandosi del numero di poliziotti (più di 8.000) che servono a proteggere il politico.

Ma c'è anche qualcosa d'altro che non ci deve sfuggire nel micidiale meccanismo messo in moto da Matteo Salvini: la sua campagna elettorale sta polarizzando il paese, e sta mettendo in mostra una passione, una rabbia divisive che cova neanche tanto dentro la pancia dell'opinione pubblica. Di fatto costruendo l'unico polo efficace di comunicazione politica alternativa all'altra, unica dominante che c'è in campo - quella del Premier.

Prendere o lasciare è così. Inutile fare gli struzzi. E se anche volessimo farlo, la realtà se ne frega degli struzzi, e infatti ha già regalato a Matteo Salvini la prepotente conquista di quel che rimane del Centro destra.

Quello che si sta perdendo, dunque, forse, del fenomeno della mobilitazione pro e contro Salvini è proprio la mobilitazione stessa. Queste piazze, contro o pro Salvini sono diventate il collettore di rabbia e irritazione, ma anche di passione e sfida sui valori. Piazze che in ogni caso, anche senza Salvini, tornano oggi a riempirsi a ogni inciampo politico, magari solo per poco, ma con ritmo certo e intermittente - di fatti, queste piazze sono l'unico vero termometro che abbiamo in questo momento della tensione e inquietudine che il paese sente sui temi più importanti della vita comune.

L'unico termometro, scrivo, perché quella di Salvini è in effetti anche l'unica campagna elettorale in corso. Fenomeno ormai smarrito, l'appuntamento politico nel resto del paese è diventato iperprotetto: una classe politica incerta sul suo futuro, persino sulle sue stesse appartenenze elettorale, è diventata oggi anche spaventata di ogni incontro vero con i cittadini. Viaggia così circondata da stuoli di aiutanti, viaggia da appuntamenti ad appuntamenti attentamente organizzati. Evitando con cura il rapporto con i propri sfidanti, i propri nemici, e, alla fine, anche con i propri elettori. Penso alla miriade di politici locali chiusi in cinema e in microconvegni, ma ancor di più penso alle telefonate di Berlusconi, alle sedie vuote che punteggiano le sue attente uscite. E penso a Grillo che aveva fatto delle piazze la sua forza e che oggi dice che non funzionano più.

Tutti avvolti nella illusione modernizzante che dopotutto a che serve sporcarsi le scarpe nell'epoca delle comunicazione totale? Sfortunatamente per loro, il mondo della comunicazione totale è molto difficile da popolare, ed è per ora saldamente occupato da un altro Matteo, il Premier - che domina dall'alto la catena alimentare comunicativa.

Tuttavia, tra cielo e terra c'è sempre posto per tante cose. E tra l'iperuranio di Matteo Renzi e la polvere delle sfide di Matteo Salvini si stanno infilando un sacco di cose reali che faremmo bene a prendere in considerazione.

Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/tra-liperuranio-di-renzi-polvere-salvini_b_7298032.html?1431801351&utm_hp_ref=italy


Titolo: L. ANNUNZIATA - Serantini "ammazzato" dalla stupidità politica di Lotta Continua
Inserito da: Admin - Maggio 19, 2015, 10:01:46 am
Leonardo Recchia

L'episodio di Massa mi fa venire in mente la morte dell'anarchico Franco Serantini avvenuta a Pisa nel maggio 1972 a seguito di cariche della polizia. La retorica di sinistra ha fatto credere per anni che la colpa fosse della polizia, mentre io posso affermare, perché c'ero, che la colpa era di Lotta Continua che voleva a tutti i costi impedire di parlare all'avv. Niccolai candidato del MSI alle elezioni politiche di quell'anno. Lotta Continua aveva tappezzato Pisa di manifesti che proclamavano "Cascasse il mondo su un fico, Niccolai non parlerà" ed aveva indetto numerose riunioni tra i vari gruppi extraparlamentari per organizzare le truppe che avrebbero impedito il comizio. Noi del gruppo del Manifesto ci opponemmo strenuamente all'idea dello scontro con la polizia e per questo venimmo sbeffeggiati ed accusati di viltà e codardia. All'ora del comizio Lotta Continua, armata di sassi, molotov, bastoni, caschi, passamontagna (visti con i miei occhi), si schierò sul Ponte di Mezzo, di fronte alla polizia che difendeva la piazza del comizio. Partì la prima molotov; si scatenò l'inferno. In quell'inferno Franco Serantini venne colpito a morte e divenne l'eroe dell'antifascismo pisano di quegli anni. Ma il giovane Serantini venne sì colpito dalla Polizia ma venne in effetti "ammazzato" dalla stupidità politica di Lotta Continua.
Cosa facciamo, ripetiamo la scena con Salvini?

Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/tra-liperuranio-di-renzi-polvere-salvini_b_7298032.html?1431801351&utm_hp_ref=italy


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Rallenta il treno di Matteo
Inserito da: Admin - Giugno 05, 2015, 11:03:56 pm
Rallenta il treno di Matteo
Pubblicato: 01/06/2015 08:20 CEST Aggiornato: 01/06/2015 08:21 CEST

Il treno del Pd, e di Matteo Renzi, rallenta. Non è solo una questione di velocità, quale pure è - il Pd perde voti rispetto alle europee. E non è nemmeno solo questione di rinnovamento, quale pure è. È che il voto delle regionali disegna una realtà italiana molto diversa da quella che la "narrativa" di questi ultimi mesi ci aveva consegnato. Il Partito della Nazione, la nuova pelle che nell'immaginario della sinistra al governo avrebbe dovuto essere la forza trainante di una rinascita nazionale post-ideologica, nei fatti non esiste.

Il Pd a guida Renziana non sfonda a destra, anzi la destra se unita si difende bene; e non riesce a sottrarsi ai condizionamenti della sinistra. Rimane il primo partito ma mostra segni interni di grande fragilità. Al contrario, le forze che la narrativa ufficiale chiama "antisistema" non arretrano, anzi si rafforzano. La prima di queste forze potremo chiamarla "astenemos", cioè tutto quello che possono dare i cittadini italiani al posto del "podemos" spagnolo - alle urne è andato solo il 53 per cento dei votanti, dando all’astensionismo la incredibile forza elettorale di un cittadino su due.

La seconda forza " antisistema" (uso questo termine molto discutibile fra virgolette per indicare che questa è la valutazione della narrativa ufficiale) è il movimento 5 stelle, che è il primo partito in 3 regioni, e si assesta in generale intorno al 22 per cento - una percentuale di poco sotto quella raggiunta nelle politiche del 2013, con la leggera perdita compensata da una autonomizzazione dei nuovi protagonisti dai vecchi vertici, che ha portato l'ex movimento all'abilità e all'organizzazione con cui ha combattuto regione per regione. In due anni il M5S ha acquisito un peso politico che promette una interessante nuova dialettica in Parlamento.

Terza forza, anche questa descritta come " antisistema", è la Lega, che ha fatto ottime performance in tutte le regioni del Nord - e di cui il secondo posto in Toscana è forse la più notevole - superando quasi dappertutto Forza Italia.

La curiosa proiezione di tutto questo è che se queste elezioni fossero state politiche, il risultato che avremmo oggi sul tavolo non sarebbe molto lontano dall'impasse che nel 2013 portò Napolitano a decidere di non dare a Bersani l'incarico per affidarlo a Letta. Non è proprio così, perché l'attuale Pd rimane più forte di quello di Bersani e rimane nelle mani di un leader che ha molto più progetto e determinazione dei suoi predecessori. Ma la comparazione con il 2013 racconta bene come la strada che Renzi ha finora avuto l'impressione di fare non è stata tanta quanto credeva: l'Italia su cui il Premier governa non è così incardinata intorno alla sua figura o così unificata dalla forza del nuovo Pd da lui rifondato. Al contrario, il Pd che esce da questo voto mostra molte fragilità.

Intanto è oggi un partito a trazione meridionale. La vittoria di De Luca porta al Pd la Campania, dopo tanti anni di centrodestra. La vittoria di Emiliano in Puglia conferma la regione alla sinistra. Entrambe chiudono il cerchio di un Sud che a questo punto (con Sicilia, Calabria, Abruzzo, Basilicata e Sardegna) è tutto del Pd, come da anni non succedeva.

Tuttavia, la compattezza di questo quadro è inficiata dalla forza dei politici che hanno la guida di queste regioni, ognuno dei quali ha tale controllo del consenso locale da avere il destino del Pd nelle proprie mani e non viceversa. Il rapporto con questi signori del consenso, necessariamente molto autonomi, con il Premier non è stato e non sarà facile. Come si è visto anche nella campagna elettorale Renzi non li domina, e non ne è necessariamente rappresentato.

Succede così che il progetto renziano, che nasce al nord e si nutre di una serie di valori di modernità che hanno casa al Nord, oggi vive in buona parte del Sud. Condizione nuova e interessante. A fronte, soprattutto, del fatto che il Partito democratico si rivela molto fragile invece proprio nelle sue sedi storiche: le famose regioni rosse.

La Toscana, dove pure il governatore Rossi ha vinto molto bene, è stata scavata dall'astensionismo - solo il 48 per cento è andato a votare. La storica Umbria è stata molto combattuta. Perdita clamorosa quella della Liguria, dove la sconfitta è certo da attribuire alla competizione del secondo candidato di sinistra. La sconfitta lascia uno strascico di rancori interni, ma al contempo è un forte avvertimento per Palazzo Chigi a non sottovalutare l'importanza della sinistra italiana e dello stesso Pd. Se si aggiunge a questo voto il forte astensionismo delle elezioni in Emilia Romagna pochi mesi fa, il quadro dell'indebolimento delle sedi storiche del Pd è completo.

Il Nord, infine, torna invece a trazione di destra. Soprattutto della destra leghista. La vittoria di Forza Italia in Liguria ferma il declino del partito di Silvio Berlusconi, e cancella del tutto (o almeno dovrebbe) ogni tentazione di rinnovo del Patto del Nazareno. FI vince dove si oppone a Renzi e dove, come in Liguria, si ricompatta con Ncd. Soffre invece ogni divisione, come si è visto con il buon risultato di Fitto in Puglia. Nessuno di questi risultati ferma tuttavia la Lega che a livello nazionale supera Forza Italia.

È una nuova geografia, come si vede, che innesca nuovi meccanismi. A destra ne esce scosso l'assetto fin qui sperimentato. L'M5s trova in queste regionali la piattaforma per un nuovo rilancio nazionale. Ma sarà soprattutto Matteo Renzi a dover molto riflettere sul corso dei futuri eventi. Anche se questo non è stato un voto sul governo, è certo una severa valutazione dello stato di salute della "rivoluzione" renziana.

DA - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/rallenta-il-treno-di-matteo_b_7481876.html?utm_hp_ref=italy


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Renzi non è in declino, ma deve governare
Inserito da: Admin - Giugno 16, 2015, 11:04:16 pm
Renzi non è in declino, ma deve governare
Pubblicato: 15/06/2015 20:52 CEST Aggiornato: 2 ore fa

Volano sicuramente stormi di uccelli intorno a Matteo Renzi. Ma stavolta si tratta di avvoltoi. Nei commenti postelettorali già si avverte nelle corde delle élite del Paese una sorta di ridimensionamento del potere del "giovane premier". L'Italia è così - eccessiva nelle lodi e precipitosa negli abbandoni.

Ma la verità è un'altra: Matteo Renzi non era così forte quando un coro gli ripeteva che sarebbe durato vent'anni, e oggi non è così debole come lo vogliono i critici e molti ex ammiratori. Gli ultimi appuntamenti elettorali sono stati un voto di midterm, una verifica dell'azione del leader: e la realtà ha fatto prepotente irruzione nel mondo di Palazzo Chigi. Per Renzi è arrivato il momento di dimostrare di che pasta è fatto.

*****

Vediamo intanto con precisione di cosa parliamo. Dalle urne esce un altro ridimensionamento del Pd, parte però di un vero e proprio trend: tra astensione, spaccature interne e sconfitte vere e proprie, dal voto in Emilia Romagna in poi nelle urne si sono fatte visibili l'ampiezza e l'irreversibilità della crisi del Pd.

Che il partito non funzionasse d'altra parte si sapeva: se non fosse stato così, Matteo Renzi non lo avrebbe scalato con la facilità e lo slancio con cui ha vinto. Ma ora si può aggiungere che nemmeno l'arrivo di Matteo Renzi a Palazzo Chigi è bastato a tamponare questa crisi.

Di chi è la colpa? La reazione in queste prime ore è purtroppo ancora una volta la stessa: renziani che accusano la sinistra dem (in questo caso a Venezia) e antirenziani che puntano il dito sui candidati del premier (ad Arezzo). Ma lo scaricabarile è un modo classico per non capire nulla, e non cambiare nulla. Da queste elezioni non esce nessun vincitore, dentro il Pd. È il partito tutto, nella versione governativa o di sinistra, che perde colpi. Ed è il partito tutto che condivide la responsabilità di non aver preso davvero atto della sua crisi.

Un po' di mesi fa ho scritto di una falla nel governo di Renzi, della sua mancata "connessione sentimentale" con il Paese: fu in occasione dell'alluvione di Genova, dove il premier, sempre così presente in tanti eventi, non andò. Palazzo Chigi rispose che il presidente del Consiglio sarebbe andato solo per "portare soluzioni". Genova non ha evidentemente atteso. È un esempio tra molti: il rapporto di distanza con l'Italia non ha mai davvero fatto progressi nel cuore del nuovo Pd. Questo non è mai stato un governo che mostrasse "pietas" - ha messo avanti la polemica riformista con i sindacati al gesto di schierarsi con i disoccupati, ha preferito fare rischiosi giochi di equilibrio giuridico-verbali invece di affrontare di petto la disgregazione dei governi e delle varie classi dirigenti locali. Né è stato aiutato Renzi dalla sua stessa minoranza, che a sua volta ne ha condiviso il difetto: tanto ferma sulle questioni interne del partito, tanto assente nel rapporto con la realtà. Ricordate voi una parola della minoranza sui migranti, sulle giunte in difficoltà, sull'Europa stessa?

E se il premier ha pensato di risolvere il suo rapporto con il Paese con un rito di seduzione continua e subliminale - la dannatissima, ridicola, cosiddetta "narrativa" costruita come un videogame, in senso letterale - i dissidenti dem hanno finito con il difendere del Pd solo un passato sui cui era evidente che fossero già' caduti.

Difficile oggi non vedere (e lo si è anche scritto) che il Pd tutto si è rinchiuso nel quadrilatero del potere romano. La politica si è sussunta nell'estenuante gioco di maggioranze che cambiavano in aula, battaglie feroci su emendamenti, condotte a botte di trucchi parlamentari e personali. Mai governo è stato più' politicista del primo governo Renzi.

Fino a che la realtà espulsa si è presentata insalutata ospite alla porta del meraviglioso futuro che si aspettava. Si è presentata sotto forma di crisi dei profughi. Sotto forma di egoismo dell'Europa. Sotto forma di inchieste giudiziarie. Sotto forma di crisi delle gestioni delle città e del territorio. Ma ancora non è stata vista. Con il risultato di aver lasciato spazio a una nuova destra, e aver provocato altra disaffezione tra gli iscritti del Pd che, evidentemente, non sono più sicuri che il partito stia dando loro una guida, e ancor meno soluzioni.

Ieri una giovane donna, Cecilia Strada, figlia di Gino Strada, fortemente impegnata nel sociale, ha raccolto questo spirito dei tempi, con una lucidità che lascia senza replica. Nel suo blog ha scritto:

    "Risposta collettiva per tutti quelli che "perché non ospiti i profughi a casa tua, eh?": e perché dovrei? Vivo in una società e pago le tasse. Pago le tasse così non devo allestire una sala operatoria in cucina quando mia madre sta male. Pago le tasse e non devo costruire una scuola in ripostiglio per dare un'istruzione ai miei figli. Pago le tasse e non mi compro un'autobotte per spegnere gli incendi. E pago le tasse per aiutare chi ha bisogno. Ospitare un profugo in casa è gentilezza, carità. Creare - con le mie tasse - un sistema di accoglienza dignitoso è giustizia. Mi piace la gentilezza, ma preferisco la giustizia".

Vogliono in fondo poche cose i cittadini d'Italia: vorrebbero città senza spazzatura e senza pericoli, vorrebbero scuole di qualità, una idea chiara di cosa ci succede nella vasta crisi che ci sta cambiando tutti, una qualche verità sulla nostra economia, la certezza di essere trattati tutti allo stesso modo, senza favoritismi. E la sicurezza infine che il proprio denaro conferito al pubblico non sia il bancomat di squadre di imprenditori e politici che si sentono autorizzati a usarlo proprio in quanto pubblico.

Non c'è questione morale in tutto questo. C'è questione di regole, che è molto di più. Le regole sono il fluido che muove il mondo concreto in cui viviamo. Stabilire queste regole e farle rispettare significa governare. Purtroppo alla fine non si può' che concludere che il decisionista Renzi oggi è in difficoltà per troppo poco governo delle cose.

*****

Ma è questo l'inizio del suo declino? Ovviamente no. E non perché è giovane ed energico come si ama dire - queste virtù si usano per I cavalli.

Renzi non ha concluso perché suo è il tema dell'Italia di oggi: il cambiamento. L'ha imposto lui, ed è ancora nelle sue mani, perché la destra non ha cambiamento da proporre ma i soliti vecchi schemi di nazionalismo e localismo. La destra è malata di nostalgia, e Renzi ancora no.

Questo è il suo vantaggio strategico.

Ma ora è il momento per lui di capire come interpretarlo. Se nel modo verticista e politicista quale è stato finora, o affondando le mani nei problemi.

Non è un caso che solo il Jobs act per quanto discussa da molti, abbia avuto risultati, perché azione concretissima. Altre cose si possono fare, e subito.

Sugli immigranti - che definiranno il nostro futuro - è ora di decidere come affrontare questa crisi. Se questo ci costerà uno scontro con l'Europa, un'azione di rottura, va bene. Non si può obbedire all'egoismo politico di questa istituzione comunitaria.

C'è poi il nodo del governo dei territori. Che faranno i nuovi governatori eletti con questo voti dimezzati? Che progetti hanno? Renzi dovrebbe ottenere da loro una sorta di carta programmatica che ne unifichi l'azione invece di lasciarli alle loro sparse autonomie - a partire dallo scioglimento del nodo De Luca.

Infine le città. Prima fra tutte Roma. A mio modesto parere questa melina di parole che avvolge il futuro del Comune, queste inchieste sul ricambio del Pd, appaiono solo un fumogeno agli occhi dell'elettore. La verità su Roma è che la Capitale non funziona non tanto perché c'è Mafia Capitale, ma perché è piena di spazzatura e violenza. Marino si dovrebbe dimettere per le condizioni in cui si presenta al mondo la Città Eterna, per lo stato dei suoi parchi, delle sue stazioni e dei suoi mezzi pubblici. Buzzi lo lascerei ai magistrati. Uguale la storia di Milano, o Napoli. Tutte città in uno stato di crisi non dichiarata. Napoli muore da tempo, a volte senza benzina per gli autobus, a volte per un traghetto che si incendia, spesso per chiusura di negozi o per disoccupazione crescente. Altro che Gomorra. E a Milano un sindaco gentile che non vuole cavalcare il suo disagio sta andando via e solo i gonzi credono che lo faccia perché è stanco.

È tempo insomma che Renzi cominci a governare.

Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/renzi-non-e-in-declino-ma-deve-governare_b_7587834.html?1434394406&utm_hp_ref=italy


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Tre onde d'urto contro Renzi
Inserito da: Admin - Giugno 25, 2015, 07:26:37 pm
Tre onde d'urto contro Renzi
Pubblicato: 09/06/2015 20:55 CEST Aggiornato: 4 ore fa

Da politico consumato qual è, Renzi può dire di averlo capito subito. Intorno al suo Pd, che continua (purtroppo) a rimanere inchiodato sul dibattito interno su se e come restare unito, si sta accumulando una portentosa ondata d'urto, cavalcata dalle varie opposizioni al governo, ridefinite e ringalluzzite dai risultati elettorali.

Il segnale che qualcosa di nuovo fosse in ballo l'ha colto, dicevamo, la vibratile sensibilità politica dello stesso Renzi che, rompendo il suo abituale codice di lasciarsi alle spalle le questioni italiane quando è all'estero, dall'idillio di Schloss Elmau si è scagliato contro la nuova crociata di Maroni per rifiutare i profughi.

Aveva fiutato, il premier, il materializzarsi di una nuova, originale, azione nello scenario politico. Senza perdere un attimo di tempo, senza sprecare parole (se questo si può dire dei leghisti), in maniera chirurgica e sapiente, la Lega ha subito capitalizzato il suo successo alle urne, presentando al governo centrale il peso del Nord.

Maroni spalleggiato da Salvini, e accompagnato da Liguria e Veneto, è partito minacciando di togliere risorse ai sindaci locali che avrebbero accolti profughi; ha poi messo in riga i Prefetti, braccio operativo dello Stato sui territori, e infine, al corretto rifiuto dei Prefetti di farsi dare indicazioni da un governatore, ha inviato i cittadini a chiamare le prefetture e protestare.

Non è la solita strategia caciarona e scissionista della Lega di sempre. Non è né la rivolta civile che fu, ("non paghiamo le tasse"), e nemmeno il folklore dei fucili scissionisti. Maroni e Salvini sono partiti all'attacco delle articolazioni dello Stato sul territorio - usando per altro il ruolo istituzionale dei governatori, prefigurando così un conflitto di titoli e competenze con il Ministero degli Interni, che il governatore di Milano, ex Ministro di quel dicastero, conosce a menadito e sa come giocarci dentro.

Una strategia che, con la crisi dei profughi in corso, sarà molto difficile da fermare - a meno di non entrare appunto nella spirale dello scontro tra poteri, e fare proprio il gioco della Lega.

L'altra onda è cavalcata da M5S (e da una parte della destra che sta con i leghisti) che a Roma ha preso nelle sue mani la richiesta di far pulizia in Campidoglio e nelle istituzioni laziali. Campagna insidiosissima: gli sforzi fatti in questi mesi per pulire il Pd e per difendere Marino impallidiscono di fronte alla crescente lista di uomini del Pd ancora carica, e della pervasività della corruzione nella macchina amministrativa in generale, come testimonia l'amarezza dello stesso Assessore alla Legalità del Campidoglio, Sabella.

Campagna popolarissima a causa dell'esasperazione dei cittadini per le condizioni generali della Capitale, che da anni è diventata il palcoscenico mondiale perfetto per spiegare le ragioni di una sfiducia generalizzata dell'Italia nella politica.

Un messaggio arriva infine al governo anche da qualche amico, il tormentato Ncd, scontento da tempo del ruolo secondario riservatogli da Renzi, e ora ringalluzzito dalle vittorie elettorali riportate in tandem con Forza Italia. In Senato la pattuglia di Alfano e Quagliariello si è assentata mandando il governo sotto su un voto al disegno di legge sulla Scuola. Nulla di rilevante in termini di impatto, ma molto chiaro come segnale: questo è quanto contano i nostri pur pochi voti, dice Ncd, e così finisce il governo se fa a meno di noi.

Tornando a Renzi e alla sua sensibilità politica, va ricordato che in fondo aveva elencato il rafforzamento di queste opposizioni già nel discorso di apertura della Direzione del Partito. Dall'elenco fatto in quella sede, manca ancora Landini. Il Premier fa mostra di avere di lui meno paura che degli altri - Grillo e Salvini. Ma chissà?

Il luogo in cui si trova il governo, a poche giorni dal risultato elettorale, è molto pericoloso - è, per la prima volta, quello dell'accerchiamento. L'Esecutivo ha solide mura e un capitano energico ma, com'è noto, in un assedio basta una sola falla, e nemmeno tanto grande.

Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/tre-onde-durto-contro-renzi_b_7546132.html?utm_hp_ref=italy


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Le ceneri di Angela, gli attributi di Tsipras
Inserito da: Admin - Luglio 12, 2015, 04:56:32 pm
Le ceneri di Angela, gli attributi di Tsipras

Pubblicato: 06/07/2015 00:13 CEST Aggiornato: 3 ore fa

"Le ceneri di Angela", prevedeva in copertina questa settimana il settimanale Der Spiegel, con un incredibile senso degli eventi a venire, spiegando nel resto del titolo: "Come la Merkel ha fallito sulla Grecia e sull'Europa". Come dire - non c'era bisogno di essere di sinistra, o antisistema, o come volete voi, per vedere che l'Europa stava facendo qualcosa di sbagliato nella trattativa con la Grecia.

E se pure il referendum, come hanno detto fin qui tutte le élite europee, è stato una forzatura e un atto irresponsabile, ora che si è concluso si potrà almeno dire che ha portato a un chiarimento necessario e definitivo sul vero umore del popolo greco, sul consenso intorno ad Alexis Tzipras, e , non ultimo, sull'Europa stessa.

La schiacciante vittoria dei no suona come una umiliazione di chi ha voluto lo scontro in Europa, convinto di poter rimettere in riga una riottosa nazione con bastone e carota.

È l'umiliazione della Merkel innanzitutto, che ha qui rivelato una straordinaria miopia, un eccesso di muscolarità tanto in contrasto con le sue solite sottigliezze da far immaginare effettivamente, come dice Der Spiegel, il logorarsi del suo patrimonio politico. Sconfitti, insieme a lei i tanti funzionari europei mascherati da leader, di cui Juncker è oggi il perfetto stereotipo, anche loro tutti convinti che un ringhio di Bruxelles bastasse a rimettere a posto le cose.

Sconfitti sono però anche i leader europei che avrebbero potuto avere, per tradizione e convinzioni, un ruolo di bilanciamento per evitare che si arrivasse a questo punto. Penso alla Francia, che in questa circostanza ha ceduto la sua forza diplomatica per finire poi oggi a essere richiamata in servizio per aiutare la cancelliera.

L'Italia anche avrebbe potuto, voluto e dovuto fare da mediatore. Lo ha tentato all'inizio di questo scontro. Ma si è ritirata, e il perché ce lo spiegherà prima o poi Matteo Renzi. Certo è che il nostro paese che con il nuovo premier è entrato sulla scena europea solo pochi mesi fa con la ambizione di far "cambiar verso all'Europa" appare oggi fra gli spettatori più' che fra I protagonisti.

Va aggiunto che la difficoltà non è da attribuire tutta a Hollande o a Renzi : è l'intero schieramento socialista che esce scombussolato da questo scontro sulla Grecia, che ha spostato più a sinistra l'oscillazione potenziale della sinistra. Uno spostamento di cui sembra acutamente consapevole Martin Shultz che su Atene ha assunto fin da subito, e ancora oggi lo conferma, un ruolo di "guardiano della ortodossia" europea.

Sul vincitore Tsipras si accumulano ora grandi nubi - a dispetto delle parole di conciliazione che ha immediatamente pronunciato, è già stato messo da quasi tutti i media nel ruolo di nemico pubblico numero uno. Nulla di nuovo. La sua demonizzazione è per certi versi una preparazione a una nuova trattativa, se mai ci sarà.

Ma una cosa ha l'uomo di Atene che tutti i politici europei hanno mostrato di non avere: una vera leadership - fatta di certezza, consenso, audacia, e, non ultimi, "attributi". La partita con lui è aperta.

C'è infine un non-protagonista che questo risultato del referendum potrebbe oggi spingere a entrare in campo: gli Stati Uniti. Il presidente Obama non è entrato in campo in questa vicenda se non, a quel che sappiamo, verso la sua conclusione, raccomandando alla Merkel la strada dell'accordo.

Sugli affari interni della Ue, Washington ha sempre preferito applicare la regola di un'amichevole e rispettosa distanza. Ma gli Usa non possono nemmeno stare a guardare l'inizio di una potenziale spirale negativa - per tutte le ovvie ragioni del caso, a cominciare dalle possibilità che la crisi europea apre per la Russia. È possibile dunque che nelle prossime settimane gli Stati Uniti - che dopotutto sono i maggiori azionisti del Fondo Monetario - diventino più attivi in questa vicenda.

Come si vede, nel giro di una settimana, i profili di quasi tutti I protagonisti europei sono cambiati - in termini di posizionamento e percezione pubblica, che si sia con l'uno o con l'altro. Questa riscrittura è la rappresentazione di quel che è già cambiato: si opera oggi in diverse circostanze.

Dove si va da qui non è per nulla chiaro al momento, forse nemmeno a chi dovrà prendere le decisioni. Non sarà facile far ripartire la trattativa, come è stato già detto dalla Germania, ricucire lo strappo da un punto di vista politico, e persino umano. Così come non sarà facile trovare il meccanismo burocratico della riammissione della Grecia nella Comunità. Ma sarà ancora forse più difficile per ciascun paese membro digerire l'intervento sulle regole che la Grecia ha messo in moto. In assenza di una ricucitura piena, e di riforme dell'Europa stessa, la tentazione, da ora in poi, di fare come Atene, sarà sempre più alta.

Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/le-ceneri-di-angela-gli-attributi-di-tsipras_b_7731990.html?utm_hp_ref=italy


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - L'Europa che vogliamo
Inserito da: Arlecchino - Settembre 06, 2015, 12:11:07 pm
L'Europa che vogliamo

Pubblicato: 05/09/2015 22:34 CEST Aggiornato: 2 ore fa

È un giorno oggi per dire grazie - alla Germania, all'Austria, e, soprattutto, a quei profughi siriani che con la loro lenta ma determinata marcia stanno frantumando tutte le frontiere. Prima di tutto quelle dentro di noi.

Dunque l'Europa non ha guardato dall'altra parte. Non si è rifugiata dietro porte sbarrate, cancelli di ferro, polizia. L'Europa non è solo paura, evidentemente, come pure ci è stato ripetutamente detto.

Sono giorni come questi, in cui si può guardare a volti che si sorridono al di qua e al di là di transenne, a mani che si stringono, ad applausi di benvenuto tra gente di cittadinanza, religione e abitudini diverse. Sono giorni come questi quelli in cui l'antica angoscia di essere europei si scioglie, e l'Inno alla Gioia, improbabile Inno di una collezione di paesi raccolti sotto la fredda sigla Ue, trova la sua ragione per essere ascoltato.

C'è molto da gioire oggi. L'ennesima deriva umanitaria - su cui poi per anni ci saremmo autocriticati - sembra essere diventata il passaggio verso una nuova Europa.

Ma c'è anche molto, molto da imparare e su cui riflettere. Non illudiamoci in queste ore - questo momento è un passaggio, dunque iniziale, precario e, potenzialmente, pieno di rischi. Meditare su lezioni e rischi è probabilmente il metodo migliore per fare sì che la positività di questo momento non venga fra pochi giorni o mesi cancellata da un brutto risveglio.

Le lezioni, dunque. La prima ha a che fare con la leadership. Angela Merkel è la principale autrice del cambiamento in corso. In una trasformazione che pure sembra senza rotture, la Cancelliera, che poche settimane fa appariva sprezzante delle condizioni economiche del popolo greco, ha aperto le porte della sua nazione ai profughi siriani, annunciando per altro una sospensione degli accordi di Dublino. Cambiando così il corso in atto degli eventi.

Se abbia agito o meno nell'animo del leader tedesco una ragione umanitaria non possiamo saperlo. Ma la spiegazione politica della sua svolta è chiara: Merkel ha sottolineato con la sua scelta il limite della gabbia in cui l'Europa che chiuso il suo rapporto con l'immigrazione, e con le sue responsabilità. Ci sono pochi dubbi che la Siria, come altri paesi nella nostra area di intervento, sono stati attraversati e malamente da molte nostre decisioni. L'assunzione di responsabilità è il primo principio che definisce qualunque leadership che voglia anche solo definirsi tale. Tanto più quando questo senso di responsabilità ha un prezzo molto alto: tutti sappiamo che in Europa l'immigrazione è il terreno su cui si vinceranno o perderanno le future elezioni, e che l'intero continente, a partire dalla Germania, è popolato da forze sempre più antiimmigrazione, da Ukip a Le Pen alla Lega ai movimenti neonazisti. Merkel è andata proprio nella casa dove brucia questo incendio e ha detto alla sua nazione in queste ore: "Abbiamo la forza per fare quel che va fatto". Usando esattamente le parole "quel che va fatto", riportando alla nostra attenzione uno dei fondamenti della nostra coscienza moderna, la kantiana idea che l'etica è un obbligo non è una opzione. Rispetto alla quale - potremmo proseguire - anche la sconfitta elettorale è secondaria.

Se ci sono altri leader politici europei che hanno avuto lo stesso coraggio al momento mi sfugge. Tuttavia, la lezione tedesca non è solo quella della accoglienza. Così come l'apertura delle frontiere ai profughi siriani non può essere vista solo come un buon gesto.

Nel momento stesso in cui finalmente ci si mobilita per "accogliere" e non solo per respingere, si rende anche visibile a tutti la dimensione del problema che abbiamo di fronte - solo i profughi della Siria sono 1 milione e 600 mila. I profughi o disperati del resto del mondo che guardano a noi, dalla Libia innanzitutto, e Africa, e Iraq, e Afganistan, sono tanti milioni. Accoglierli tutti non è e non potrà mai essere la soluzione.

È una consapevolezza che ha prima di tutti la stessa Merkel. La Cancelliera non ha promesso infatti la salvezza a tutti. L'attuale ingresso ai siriani costa - ha fatto sapere - la sospensione di ben 75 mila richieste di asilo dai Balcani. È un esercizio di realismo lodevole, perché prova che la accoglienza non è un gesto emotivo e tantomeno salvifico. L'accoglienza tedesca di queste ore è tanto gradita quanto limitata nel numero e nello scopo (i rifugiati di guerra).

Anche questa cautela è prova di leadership. La prudenza è oggi infatti un obbligo - gestire il futuro dell'immigrazione è una sfida così grande da rischiare di schiacciare il nostro continente. La soluzione non può venire solo dalla accoglienza in Europa o nell'intero Occidente.

La soluzione deve intanto nascere soprattutto dove il conflitto c'è. Questo è forse l'aspetto di cui si parla troppo poco. Molte voci dell'ambiente dei diritti umani in queste ore chiedono di nuovo a viva voce l'avvio di un intervento massiccio nella assistenza ai profughi dentro i paesi del conflitto e nelle nazioni limitrofe. Non si parla qui dei pochi fondi che si destinano già ai profughi, ma di un intervento adeguato alle dimensioni del momento. L'Onu e I paesi occidentali, ma anche Arabi e Asiatici, hanno le forze economiche per finanziare un progetto che ristabilisca condizioni davvero vivibili per la popolazione civile che già si trova nei paesi limitrofi, e che compensi economicamente le nazioni, come Giordania, Egitto, Libano, Turchia, Grecia, che già oggi hanno aperto le proprie porte a chi è in fuga. In attesa di una stabilizzazione politica dei paese in Guerra. Un po' come e' stato fatto ai suoi tempi, quasi venti anni fa ormai, per i Balcani.

Un programma di lungo periodo, dall'esito non facile, e dal percorso pericoloso. Per questo oggi più che mai ci vogliono grandi leader. E milioni di cittadini con grande senso del mondo in cui siamo, e un grande cuore per tutto quello che potremo fare.

Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/rifugiati-europa-che-vogliamo_b_8094064.html?utm_hp_ref=italy


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - I salotti-chic hanno un nuovo Bertinotti ... vecchio.
Inserito da: Arlecchino - Settembre 15, 2015, 04:34:27 pm
Magari Corbyn non andrà al governo ma ne è valsa la pena

Pubblicato: 12/09/2015 20:24 CEST Aggiornato: 2 ore fa

Si, lo sappiamo, ma vuoi mettere il divertimento.

Sappiamo che Jeremy Corbyn che ha vinto con il 60 per cento la leadership del Labour , con quella piattaforma antiguerra, antibanche e antiausterità non è certo ben posizionato per andare al Governo.

Come del resto Bernie Sanders in America, Podemos in Spagna, e come probabilmente lo stesso Tsipras in Grecia, la prossima settimana. Che tutti loro rappresentino una sinistra irrealistica, fuori dal tempo e dai tempi, ce lo hanno detto in tanti, i migliori giornalisti del pianeta, dai grandi Italiani come Paolo Mieli , ai grandi Americani come David Brooks, per non parlare delle grandissime firme Inglesi come il Direttore del Financial Times Lionel Barber. Ma come si può essere cosi' infantili - dicono queste firme- così persi dietro a piattaforme cosi' antibusiness, antisistema, proprio quando la rivoluzione global-tecnologica ha svuotato vecchi schieramenti e vecchie ideologie?

Il Financial Times in particolare sembra essersi molto agitato per la ascesa di Mr Corbyn: nei mesi scorsi ha mobilitato sulle sue pagine, intervento dopo intervento, editorialisti simpatizzanti Labour che mettevano in guardia contro Corbyn, fino a quello che si può definire il fin qui più nobile e famoso avvertimento politico, firmato Peter Mendelson, principe della campagna di rinnovamento del Labour negli anni ottanta, esperto di comunicazione che ha reso famoso nel linguaggio politico corrente il termine spinning, diventato nel frattempo Lord: "Se vince Corbyn sarà un disastro epocale, la fine del Labour", ha detto, nientemeno.

Come dicevo, è molto probabile che Mendelson abbia ragione e che con Corbyn il Labour non tornerà al governo. Ma già aver creato tutta questa agitazione nei piani alti, non valeva forse la pena?

E chissà che significa, e chissà com'è successo - aspettiamo le dotte disquisizioni della lista di cui sopra - che tutti quegli insegnanti, quegli operai, quei sindacati, quei giovani, martellati negli ultimi anni dalle accuse di essere finiti, morti ( politicamente, ovvio), si siano improvvisamente risvegliati, seppellendo sotto le vecchie richieste di sempre (si parla di "giustizia sociale" pensate), il miglior pezzo di teoria politica nata a sinistra negli anni ottanta, il "Si vince solo al centro".

In effetti, il rifiuto del "centrismo democratico" è un po' il punto e il collante politico di tutti questi nuovi orientamenti a sinistra. È il rifiuto del realismo che ha coperto per i passati venti anni la marcia verso il centro e verso l'establishment da parte della sinistra. Non a caso la rottura si presenta oggi innanzitutto come atto dentro i gruppi dirigenti degli stessi partiti democratici, avvertiti come parte ormai più del sistema che della propria area politica. Oltre il caso Inglese, anche quello Americano fa scuola: Hillary è oggi vissuta da una parte dei suoi elettori soprattutto come establishment; lo stesso svantaggio già messo in luce dalla vittoria di Obama, e che otto anni dopo sembra essere diventato un elemento strutturale.

Un tratto di rottura dentro la classe politica di sinistra che si ritrova sia in Podemos, che in Syriza. E anche in Italia, con la rottamazione renziana, ma con una eccezione: dopo la rottura Renzi ha virato in senso ancora più centrista del passato, mentre la sinistra democratica e' entrata in affanno. Il perché della eccezione italiana mi sfugge.

È populismo quello dei Corbyn, dei Sanders, di Syriza, o semplice "ignoranza dell'economia" come ha scritto il Financial Times? O è possibile oggi che una piattaforma radicale abbia qualcosa da rifondare in politica? Questo credo sia oggi lo sviluppo cui prestare attenzione.

Non è difficile vedere come la attuale rivoluzione global-industriale abbia aumentato il senso della cittadinanza, allargato la platea dei diritti e della partecipazione, ma abbia anche, contemporaneamente, sottolineato la mancanza di eguaglianza.

La crisi dei migranti in corso è lo specchio di questo divario: siamo tutti simili in un mondo globale, ma siamo tutti profondamente diversi nella fruizione dei diritti umani di base. Così come, va ricordato, in tutti i nostri paesi industrializzati, si fa sempre più doloroso il divario fra chi ha e chi non ha, a partire dall'impoverimento della classe operaia e media che una volta era la spina dorsale delle nostre società.
Certo, il nuovo mondo è un fatto, un processo che non si può negare solo perché fa male.

Ma è davvero questo l'unico possibile corso di sviluppo, come si chiedono anche tanti economisti e pensatori, che già da oggi allertano sulle possibili conseguenza di un sistema così unidirezionale? E se cosi anche fosse, non è forse proprio compito della politica correggere, equilibrare un sistema socialmente scompensato?

Va ricordato oggi che quelle che sono sembrate per tanto tempo domande utopiche per il funzionamento del sistema - l'ecologia, il ruolo del consenso, un diverso uso delle risorse, l'accesso universale, e , infine, proprio le tecnologie - sono diventate poi le vere forze propulsive del rinnovamento del sistema in cui viviamo. E se la richiesta di "giustizia sociale" invece che essere un vecchio arnese fosse un nuovissimo strumento di espansione?

Forse il vero fallimento della sinistra del passato ventennio è quello di non aver saputo anticipare le nuove forme della disuguaglianza. Oggi, viceversa, potremmo osare dire che forse in questo riemergere della sinistra a' la Corbyn, in questa domanda di più "giustizia sociale" c'è qualcosa da ascoltare, qualcosa di utile da cogliere. Anche da parte dei suoi più feroci, o più cinici, oppositori.

Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/corbyn-labour_b_8127694.html?1442082308&utm_hp_ref=italy


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Nessuna consolazione per il 2016
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 03, 2016, 06:07:22 pm
Nessuna consolazione per il 2016
Pubblicato: 01/01/2016 11:56 CET Aggiornato: 41 minuti fa
ITALIA

Lucia ANNUNZIATA

Nessuna consolazione per il 2016. Europa e Guerra, i due grandi temi che hanno fatto irruzione nella nostra vita e la stanno drasticamente cambiando, sono stati i convitati di pietra delle conferenze stampa di fine anno dei due Presidenti. Presenti sullo sfondo. Ma quasi non citati. Una rimozione che non ci meraviglia.

Il 2015 ci ha consegnato alla paura. Ci ha consegnato a un nuovo mondo - che toglie il sonno, aumenta l'insicurezza, cambia le carte alla ripresa economica, impatta sul nostro portafoglio, e sul futuro dei nostri figli. Cosa ci dobbiamo aspettare? Come dovremmo reagire, regolarci? Ci aspettano sacrifici, aggiustamenti - ci viene detto - ma quali? Ai nostri governanti forse non possiamo chiedere soluzioni a problemi così grandi, ma hanno almeno una strategia per navigare in queste nuove acque? Se per dibattito pubblico si intende qualcosa di più del fiume di parole, e delle generiche affermazioni ottimistiche, mirate ad avere un effetto lifting sugli umori della nazione, a tutte queste domande abbiamo oggi, al varco del 2016, zero risposte. Per essere più precisi, vorrei fare alcuni esempi delle cose che forse i nostri governanti potrebbero chiarire.

Proprio in questo scorcio di fine anno, si è tenuto il Consiglio d'Europa. Un incontro diventato rappresentazione del pericoloso punto di disfacimento su cui si muove la nostra più importante istituzione.
I socialisti si sono riuniti, come spesso fanno, in un prevertice, che questa volta ha mostrato tutta la debolezza del campo socialista europeo: assente Sigmar Gabriel, per scelta sempre più tedesco che socialista; sostanzialmente assenti anche i francesi, avvitati nella loro tragica vicenda nazionale e risentiti per lo scarso appoggio socialista alle loro decisioni sulla guerra contro l'Isis; presente per prima volta l'inglese Jeremy Corbyn, ma assente una buona parte del suo Labour che sulla guerra ha preferito stare con il premier conservatore David Cameron; gli spagnoli erano alle prese con elezioni che li hanno ridimensionati; i greci, invece, ancora muti dopo le batoste dell'anno.

Sul fronte conservatore, Cameron, anche lui pressato dalle scelte sulla Brexit, si è trovato stretto tra umori popolari (a favore) e umori della City (contrari): per minimizzare, evidentemente, ha parlato all'Europa delle condizioni della Brexit nel corso della cena. Nel frattempo, Angela Merkel, a sua volta tormentata dalla possibilità concretissima di perdere la sua base elettorale a casa e in Europa, ha tenuta la più importante riunione, quella sui profughi, convocando solo i paesi europei del proprio blocco di influenza o di interesse.

Come si vede, questa è la rappresentazione di una separazione di fatto di un percorso comune. Del resto, il riemergere di scopi nazionali ha già indebolito, o svuotato, quelli che finora erano considerati come I pilastri stessi dell'Europa: Schengen è diventato un meccanismo a tempo alternato, e la inflessibilità della austerity si è ammorbidita subito di fronte alle emergenze - per i profughi o per la polizia di frontiera, per pagare la Turchia, o per chiudere un occhio su qualche crisi con rischio default di qualche paese "amico" (cioè spesso del nord Europa).

Nel 2015 è riemerso così il vecchio autoritarismo europeo, la divisione fra chi conta e chi meno, procedendo secondo la legge del più forte. Un opportunismo tattico che sul viale del tramonto pratica proprio quella Merkel che della inflessibilità delle regole è stata la vestale: l'accordo con i russi sul gasdotto North Stream è la soluzione a schiaffi in faccia (al resto dell'Europa) di una questione su cui si sono spesi anni di riunioni, decise molte carriere e i destini di molti paesi, incluso quello dell'Ucraina.

Non è forse un default, ma nel 2015, l'Europa si è già riprogrammata in difesa, riorganizzata intorno a sottogruppi di interessi, una serie di scatole cinesi di scopi nazionali. Non intende e non può più fare politiche di lungo tempo. Per questo è diventata più occhiuta, più cattiva, più determinata. Nel momento più alto della crisi l'Europa sta andando insomma in ordine sparso: che conclusioni dobbiamo trarne, per noi?

Così come in ordine sparso stiamo andando a una delle decisioni più complicate in corso: intervenire in Siria, di nuovo in Iraq, e in Libia. Oggi l'Occidente è in una coalizione a geometrie variabili, marcia unito con Sunniti e Sciiti (i due arcinemici di questo conflitto) a seconda delle occasioni, e a volte persino di singoli pezzi di territorio dentro le varie nazioni. Non ci vuole un grande generale (ma anche chi lo è oggi esprime spesso i suoi dubbi) per capire che se la guerra è un piano, qui non ce ne è uno riconoscibile nè militare e ancor meno politico.

Di questi cambiamenti l'Italia ha preso per ora la parte peggiore. Il governo Europeo ha messo sotto scrutinio la nostra accoglienza, la manovra economica, la mancata spending review.

Renzi ha alla fine alzato i toni, ha attaccato la miopia del modello, la doppiezza delle scelte, senza peli sulla lingua con la stessa Merkel "doppiogiochista". Capiamo la rabbia del premier, e non vogliamo certo dire che sia tardiva (anche se lo è). Ma dove vuole portarci Matteo Renzi con queste polemiche? Certo non vuole la rottura. Dice anzi di voler "migliorare" con queste critiche l'Europa. Ma in quali sedi istituzionali, con quali riforme, e con quali alleati? Vogliamo qui ricordare che l'applicazione delle nuove norme bancarie decise in maniera comune in Europa sono quelle che stanno ora scuotendo il sistema bancario italiano, a partire dalle famose 4 banche: perché il governo italiano non ha almeno spiegato in una campagna nazionale quelle norme a tutti i cittadini prima che si traducessero in un frettoloso decreto nazionale?

Sull'intervento in guerra siamo alla stessa indeterminatezza. In questi ultimi mesi l'Italia ha stretto moltissimo i rapporti con gli Usa, in parte anche per compensare il rifiuto di intervenire in Siria, non apprezzato nelle capitali europee. Ma per stringere questi rapporti siamo finiti in qualche modo - o almeno al momento questa è la mia impressione - dalla padella di un intervento in Siria alla brace di impegni militari in zone ed aree molto più complicate: in Libia, e a Mosul in Iraq. Perchè stiamo "pedalando" l'idea, del tutto irrealistica, che in Libia esista davvero una soluzione diplomatica? Chi sono i nostri alleati veri in quelle terre e per quali interessi ci prepariamo a intervenire? Perchè di intervento si parla - e in certe forme è già in corso. Per quali ragioni abbiamo preso la difesa pericolosissima della diga di Mosul? A quali alleanze o rotture questo ci porta? Quali interessi privati si avvantaggiano di queste mosse? Per una analisi in dettaglio della frettolosità del nostro intervento in Iraq rimando al nostro blogger Francesco Martone dell'organizzazione "Un ponte per..." che da anni opera in quelle terre. Infine, e soprattutto, perchè tutte queste decisioni non vengono formulate e spiegate pubblicamente? Ci risiamo.

Ecco, se oggi dovessimo individuare il punto esposto della nave italiana lo indicherei in questo muoversi nelle nuove condizioni, scivolandovi dentro, più che affrontandole. Chiaro segno del fatto che nessuno ha una chiara idea di cosa fare. E non parlo qui solo del capo del Governo Renzi, ma di una intera classe dirigente - Ministri, Presidenti di Commissione preposti, Parlamentari, autorità istituzionali dal Quirinale in giù e infine, ma non ultimi, vertici di tutte le forze armate dello Stato. Non ricordo a mia memoria (ed è lunga) una fase così difficile trattata con uguale sciatteria. Lo capiamo. È difficile avere grandi progetti. Ma per governare, in tempi come questi, i progetti sono necessari. E il paese non è stupido: l'incertezza si avverte.

Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/nessuna-consolazione-nel-2016_b_8889762.html?utm_hp_ref=italy


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Padoan a Bruxelles: "Abbiamo tutto il diritto di chiedere...
Inserito da: Admin - Febbraio 04, 2016, 04:51:06 pm
Padoan a Bruxelles: "Abbiamo tutto il diritto di chiedere flessibilità"
Il ministro dell'Economia rivendica gli sforzi italiani: "Non chiediamo nulla di nuovo, solo cose che esistono nelle regole europee. L'Ue sciolga la riserva evitando un'incertezza che non aiuta la crescita". L'Ufficio parlamentare di bilancio lo gela: "Italia non beneficerà della flessibilità". Ma Juncker apre: "Non faremo stupida austerity"

03 febbraio 2016
BLOG Stare con l'Italia di LUCIA ANNUNZIATA

La lotta Merkel-Schaeuble e la rivolta dei falchi di Berlino: "Basta con il ricatto italiano"
Flessibilità, le richieste italiane a Bruxelles

MILANO - La vigilia dell'aggiornamento delle previsioni economiche della Commissione europea vive ancora del botta e risposta tra l'Italia e Bruxelles sul tema della flessibilità dei conti pubblici, legata in particolare alle spese sostenute per fronteggiare l'emergenza migranti. A prendere le difese delle scelte di governo è il ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, che rivendica la legittimità delle richieste di maggiore spazio sul bilancio inoltrata alla Ue e ancora in attesa di un via libera definitivo. Parole alle quali risponde indirettamente il presidente della Commissione, Jean Claude Juncker, che apre spiragli positivi per l'Italia e chiude la porta alla cieca austerity.

I dubbi dell'Upb. Ma sulla possibilità di spuntare flessibilità piomba lo scetticismo dell'Ufficio parlamentare di bilancio, l'organismo tecnico che vaglia i documenti economici prima di inoltrarli a Bruxelles. Quest'ultimo, in un focus dedicato ai conti pubblici, sottolinea che "l'Italia non dovrebbe poter usufruire nel 2016 di margini di flessibilità legati all'emergenza migranti", perché prevede un livello di spesa in linea con il 2015 (3,2 miliardi), mentre la Commissione ne dovrebbe tener conto "solo nel limite dell'aumento rispetto all'anno precedente". Insomma, dovremmo spendere di più dell'anno scorso per poter chiedere maggiore flessibilità, mentre il Documento programmatico di bilancio si limita a prevedere lo stesso livello di uscite. Il problema, nell'ottica del governo, è che nel triennio precedente si spendevano 1,2 miliardi all'anno per affrontare l'emergenza migranti, quindi l'aggravio c'è stato ed è stato anche significativo.

La risposta di Padoan al Ppe. Soltanto ieri, il leader dei Popolari europei, Manfred Weber, è andato giù pesante sulla richiesta italiana: "La Commissione ha dato massima flessibilità negli ultimi anni, ora non ci sono più margini e sono d'accordo anche i commissari socialisti come Moscovici", ha tuonato in direzione di Palazzo Chigi. e il premier Matteo Renzi ha risposto piccato che l'Italia "non prende lezioncine da nessuno dei suoi amici europei", oggi Padoan è tornato a sottolineare quanto fatto nella Penisola: "Lo sforzo di riforme dell'Italia è quello che ci porta a chiedere con tutto il diritto la gestione di una politica fiscale più flessibile, come previsto dalle regole europee. Non è una cosa che ci stiamo inventando", ha argomentato durante un dibattito all'Aspen con il cancelliere dello Scacchiere britannico, George Osborne, che curiosamente è impegnato in questi giorni, con il suo governo, in altre trattative con Bruxelles.

Il caso Schaeuble: "Basta ricatto italiano"

Il ministro ha rimarcato che "l'Italia non sta chiedendo nulla di nuovo, né di incompatibile con le regole", anche perché il debito si ridurrà e "quindi c'è assoluta compatibilità con le regole di bilancio. Ci auguriamo semplicemente che la risposta sia sciolta presto da parte della commissione e quindi di evitare una incertezza che sicuramente non aiuta la crescita" , visto che "pesa sulla ripresa". Per Juncker, le regole sulla flessibilità introdotte dalla Commissione "sono largamente sufficiente per permettere ai diversi Paesi, anche quelli alle prese con le peggiori difficoltà, di poter proporre bilanci che corrispondono a tutte le regole ed esigenze". In ogni caso, "la Commissione europea svolgerà il suo ruolo senza fare una politica severa e stupida di austerità". Juncker è tornato anche sulla polemica riguardante i 3 miliardi di fondi destinati alla Turchia, per fronteggiare i flussi di migranti, ringraziando l'Italia per la scelta di dare l'ok al contributo (pesa 281 milioni). Nel documento sul fondo, emerge intanto, Roma ha chiesto che si inserisse la sua domanda di scorporare dal calcolo del deficit nell'ambito del patto di Stabilità e crescita anche "l'intero ammontare dei costi sostenuti dall'Italia dall'inizio della crisi della Libia". Proprio quel che è avvenuto per i fondi destinati ad Ankara.

Il punto sui conti e i fronti aperti. L'Italia chiede di attivare tre clausole di flessibilità, che le permetterebbero di alzare il deficit: una pari allo 0,5% del Pil per le riforme (8 miliardi), una dello 0,4% per gli investimenti (6,5 miliardi) e una - contestata - per lo 0,2% del Pil (3,3 miliardi) a seguito dell'emergenza dei migranti. Il deficit italiano dovrebbe attestarsi al 2,4% del Pil nel 2016, dal 2,6% dell'anno scorso. Dietro le quinte, ricostruisce Repubblica in edicola, la trattativa procede e potrebbe trovare un punto d'incontro nella richiesta all'Italia di correggere un po' il tiro sul deficit di quest'anno, per avere di nuovo un po' di spazio il prossimo. Se la Ue concedesse 13 miliardi di flessibilità, si potrebbe scendere al 2,2-2,3% del Pil di deficit, senza che la Ue debba aprire una procedura su Roma per disavanzo eccessivo. Ma la partita comprende anche il prossimo anno, quando in teoria ci sarebbero 23 miliardi da tagliare per scendere all'1,1% di deficit. Una cifra mostruosa, che assorbirebbe tutta la Finanziaria pre-elettorale del prossimo autunno: un pericolo che il governo vuole assolutamente evitare.
 
Previsioni per l'Italia    2014    2015    2016    2017
Le previsioni della Commissione Ue dello scorso autunno Pil (var. % annua)    -0,4    0,9    1,5    1,4
Inflazione
(var. % annua)    0,2    0,2    1    1,9
Disoccupazione (%)    12,7    12,2    11,8    11,6
Deficit (% del Pil)    -3    -2,6    -2,3    -1,6
Debito (% del Pil)    132,3    133    132,2    130
Saldo delle partite correnti (% del Pil)    2    2,2    1,9    1,9

© Riproduzione riservata
03 febbraio 2016

Da - http://www.repubblica.it/economia/2016/02/03/news/padoan_risponde_ai_popolari_abbiamo_tutto_il_diritto_di_chiedere_flessibilita_-132618110/?ref=nl-Ultimo-minuto-ore-13_03-02-2016


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Lo scontro fra l'Italia e Bruxelles è esploso di nuovo...
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 04, 2016, 05:07:01 pm
Stare con l'Italia

Pubblicato: 02/02/2016 21:08 CET Aggiornato: 1 ora fa

Se mi è consentita una metafora cruda, ma molto figlia di questi nostri tempi, l'Italia pare sia arrivata in acque pericolose. Una piccola barca (non diremo per rispetto un barcone) che al momento ha intrapreso un viaggio di cui non è chiaro il quando, il dove e il come dell'approdo.

Due avvenimenti contemporanei, apparentemente molto lontani fra loro, danno forma a questa impressione: nello stesso giorno vediamo un'Europa - quella stessa Europa che da settimane impiomba il governo Italiano - che lavora alacremente per trovare un accordo con la Gran Bretagna per "scongiurare" la minacciata Brexit; dall'altra parte abbiamo a Roma un summit dei 23 paesi della coalizione anti-Is che, pur senza dirlo, ci affida un ruolo di protagonisti nella prossima, rischiosa, tappa della lotta contro il terrorismo, in Libia. Le acque pericolose sono appunto quelle tra queste Scilla e Cariddi, tra le asprezze che ci riserva l'Europa, e la contemporanea richiesta di andarci ad infilare come partner principe in una nuova operazione militare.

Lo scontro fra l'Italia e Bruxelles è esploso di nuovo in queste ore. E, anticipo la mia opinione, questa volta ci sono pochi dubbi che dalla parte della ragione ci sia il premier Italiano.

Il presidente dei parlamentari del Ppe Manfred Weber ha attaccato il governo di Roma: "Basta margini di flessibilità. Sarebbe auspicabile da parte di tutti prendere coscienza dello stato dei fatti. Juncker ieri ha inviato una lettera a Renzi per ricordagli gli obblighi europei: spero che sia arrivata a destinazione". Toni oltranzisti, non a caso di natura partitica più che istituzionali, cui si è però unita la voce iperistituzionale di Moscovici, commissario agli Affari Economici: "C'è una cosa che non capisco: il perché sui dossier di bilancio siamo in una controversia con il governo italiano, quando l'Italia è già il paese che beneficia di più flessibilità, rispetto al resto della Ue. Poi la discussione proseguirà, ma non si può senza sosta aprirne di nuove, di discussioni sulle flessibilità". In mattinata Renzi dal Ghana aveva alzato i toni: "È finito il tempo in cui l'Europa ci dice cosa dobbiamo fare: noi diamo a Bruxelles venti miliardi e ne riceviamo undici. Vogliamo lavorare ma non prendiamo lezioncine". Gli Italiani nel Parlamento Europeo hanno seguito il premier, evocando, per voce della Capogruppo del Pd Patrizia Toia, addirittura la delegittimazione della stessa Commissione: "Il capogruppo conservatore tedesco è il primo nemico della Commissione europea perché mette a rischio ogni giorno la tenuta con le sue dichiarazioni oltranziste, contrarie al patto di legislatura alla base della coalizione che ha dato la fiducia Juncker. Weber gioca allo sfascio e ora ha anche la pretesa di conoscere il parare della Commissione europea, su cui la stessa cancelliera Angela Merkel ha detto di non poter parlare, e perfino del commissario socialista francese Pierre Moscovici".

Si avverte nei toni degli uni e degli altri una carica di vero astio, raramente sentito nelle relazioni europee. Di cosa tratta questa disputa lo abbiamo letto in tutte le lingue europee in questi mesi. Dei dossier aperti si conosce il nome e l'impatto economico e politico - fondi italiani per la Turchia, flessibilità della manovra italiana, bail in e risanamento delle banche. Ma alla fine lo scontro si può ridurre a una sola grande questione: il doppio standard che in Europa è ormai invalso per diversi paesi e con articolazioni diverse.

La denuncia di Roma di questi percorsi diversi e preferenziali ha non solo radicalizzato i nostri rapporti con l'Europa, ma sta scavando un fossato anche nella intellighenzia italiana, finora ampiamente a favore del renzismo. Quella bonomia con cui da Renzi finora si è accettato tutto - spregiudicatezza, familismo, eccesso di potere e poteri - si è bloccata davanti allo scontro con l'Europa. Fior fiore di editorialisti, osservatori, ed economisti sull'Europa non perdonano nessuna polemica, figuriamoci uno scontro. Il favorito premier è così oggi bombardato di una serie di moniti ("ma in Europa non si fa così", " litigando non si ottiene nulla"), eppure, se si guarda alle vicende di questi mesi, anzi se si guarda all'Europa dalla grande cavalcata dei migranti che questa estate ha distrutto i confini del nostro continente, si capisce che fra l'Unione immaginata e scritta nei trattati, e quella reale c'è ormai una distanza (quella fra Scilla e Cariddi, potremmo appunto dire) in cui nuotare è a rischio annegare.
Possiamo forse negare il grande tradimento della Merkel nel suo rapporto con la Russia? Proprio lei che ha spinto verso le sanzioni sull'Ucraina, proprio lei delle famose litigate in tedesco con Putin, proprio lei che ha chiesto a tutti i paesi dell'Europa un sacrificio economico (che l'Italia ha pagato anche non credendoci) contro Mosca a favore dei diritti delle nazioni, con una enorme giravolta si è poi accordata in solitario con lo stesso Putin sul Nord Stream. Possiamo forse negare che è stata di nuovo l'Europa tedesca a legittimare nei fatti i doppi e tripli livelli di diplomazia con i suoi bilaterali, trilaterali, più accordi separati con i paesi dell'Est, o nordici? Possiamo negare che il bisogno della Germania ha portato l'Europa a accettare la "flessibilità" quando sono serviti i 3 miliardi per trattenere in Turchia i migranti? E non è forse ancora la Germania della Merkel a legittimare, tacendo, la ormai introdotta flessibilità anche della sospensione di Schengen?

Matteo Renzi non ha del tutto ragione in questa partita europea. Anzi. Suo errore principale è quello di continuare a "svicolare" sulla situazione economica italiana, facendo per il secondo anno consecutivo una finanziaria fondata su tanti escamotage, lavorando dentro le pieghe del denaro pubblico piuttosto che presentando al paese un progetto coerente che prenda di petto la stentata crescita. L'asfissia dentro cui è confinata la sua gestione della ripresa merita certo tutte le accuse che gli si fanno di "vista corta", "improvvisazione", "gestione elettoralistica" del bilancio nazionale.

Ma nel presente stato del mondo, di ossigeno ce n'è poco in giro - fra guerra, calo del prezzo del petrolio, è tutta la crescita mondiale che batte la fiacca. È una situazione in cui tutti annaspano e in cui ogni stato arrotonda i margini e aggira molte regole.

Succede così che in queste ore, lavorando con alacrità, e per mano di Donald Tusk, Presidente del Consiglio europeo, il governo europeo è riuscito a stilare una prima offerta a Cameron per evitare la uscita della Gran Bretagna dalla Comunità. La proposta dovrebbe rassicurare il Regno Unito sui migranti, sulla protezione per la città di Londra, sulla sovranità nazionale e la competitività del paese. E dovrebbe svuotare il referendum di giugno. Gli euroscettici in U.K. si sono già fatti sentire, negativamente. Giornali influenti come Ft hanno già parlato di un accordo "esile". Ma l'intera operazione è marcata da un principio rilevante di questi tempi: il riconoscimento da parte dell'Ue dello "status speciale" della Gran Bretagna. Un'altra eccezione direi, che si somma alle molte eccezioni che abbiamo già citato più sopra. E che prova, in via di principio appunto, quanto radicate siano ormai le doppie velocità all'interno della nostra nazione sovranazionale.

L'Europa da cui oggi l'Italia viene fustigata è già un insieme di eccezioni, di riorganizzazione di interessi nazionali a pacchetto o a fisarmonica. Doppia e tripla velocità che rischiano ora di contaminare altre scelte: per esempio, i confini di Schengen. Vi sembra davvero impossibile in questo clima che la frontiera su cui si assesterà la fortezza Europa non escluda tutta l'Europa del Sud - Spagna, Grecia, e, sì, Italia?

Fra le flessibilità che ci sono state negate pare, inoltre, che ci sia anche quella sui doveri: Roma, come si è visto, è ormai l'epicentro di grandi manovre di un nuovo intervento in Libia che si profila sempre più di natura militare e sempre più gravoso per rischi e costi. Non ci sottrarremo di sicuro. Ma è curioso che nemmeno tale impegno cambi i toni e i termini dello scontro europeo.

Questa Europa è a forte rischio di non avere più né la coerenza né l'autorevolezza per dettare imperativi economici e ancor meno etici a nessuno. Con tutte le nostre colpe, l'Italia dovrebbe davvero non puntare il dito contro questo stato di cose?

Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/stare-con-litalia_b_9142308.html?utm_hp_ref=italy


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Spiati e manovrati ancora oggi?
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 26, 2016, 12:02:11 pm
Spiati e manovrati ancora oggi?

Pubblicato: 23/02/2016 20:11 CET Aggiornato: 29 minuti fa

Sì, sapevamo. L'atmosfera generale era quella. L'impazienza, il ruotar d'occhi, il sorrisino sprezzante fra Sarkozy e Merkel in mondovisione.
Ma una cosa è lo scherno di un sorriso, altro è la certezza delle trascrizioni, nero su bianco.

I dispacci di Wikileaks pubblicati da Repubblica e dall'Espresso, stilati dai funzionari americani per Washington, sulla base dell'"ascolto" illegale delle telefonate dei leaders politici italiani, sono uno schiaffo in faccia al nostro paese. E non soltanto per l'ovvio sopruso dello spionaggio.

Drammatiche sono le parole, l'atmosfera, che raccontano il disprezzo politico e la assoluta mancanza di ogni rispetto della sovranità del nostro paese: "Merkel e Sarkozy, che evidentemente non tolleravano scuse sull'attuale situazione difficile dell'Italia, hanno fatto pressioni sul primo ministro affinché annunciasse forti e concrete misure e affinché le applicassero in modo da dimostrare che il suo governo è serio sul problema del debito". Vi prego di notare quel "non tolleravano scuse".

Con nonchalance Sarkozy , in un incontro dell'ottobre 2011 con Merkel e Berlusconi, usa l'immagine del "tappo di champagne" per spiegare come "possono saltare le istituzioni finanziarie italiane": "Sarkozy avrebbe detto a Berlusconi che, mentre le affermazioni di quest'ultimo sulla solidità del sistema bancario italiano, in teoria, potevano anche essere vere, le istituzioni finanziarie italiane potrebbero presto "saltare in aria" come il tappo di una bottiglia di champagne e che "le parole non bastano più" e che Berlusconi "ora deve prendere delle decisioni". È il 22 ottobre, la data della conferenza stampa del sorrisino. Silvio Berlusconi si dimetterà il 12 novembre fra un'ala di folla che ne festeggia la caduta.

Queste carte di Wikileaks rivelano in effetti molto più della vicenda specifica (e già grave) di un ex leader defenestrato. Ci raccontano intanto che i due maggiori leader europei, uno dei quali, la Merkel, ancora in carica, pensavano fosse del tutto legittimo fare attivamente pressioni contro il Presidente del Consiglio di un altro paese. E che il nostro maggiore alleato, di allora come di oggi, gli Usa, ne erano consapevoli, se non (forse) addirittura compiacenti, visto che grazie allo spionaggio del telefoni, ne era al corrente. Siamo di fronte, insomma, a una vera e propria ingerenza, alimentata dalla convinzione, come si vede nelle trascrizioni, che il nostro è un paese debole, fragile, ed è dunque meritorio di essere messo " sotto controllo".

Molti di noi/voi dopo la lettura delle rivelazioni di Wikileaks avranno detto "Beh, vabbé si trattava di Silvio". Ma davvero, oggi, a più di quattro anni di distanza, e tutte le successive rivelazioni, possiamo leggere anche queste ultime intercettazioni e voltarci dall'altra parte, perché "tanto Berlusconi se lo meritava" o perché "Berlusconi era nostro avversario"? Può anche il peggior dei leader essere estromesso con tale procedura, senza che un danno venga fatto a tutto il sistema politico? È una domanda che dobbiamo porci noi cittadini prima ancora del Governo e del Parlamento Italiano. La rottura che si consuma in quell'inizio di inverno segna infatti tutto il percorso successivo, la storia degli ultimi quattro anni, fino ad oggi.

Intanto a questo punto dovremmo sapere con maggiore certezza chi in Italia sapeva dell'atteggiamento della leadership internazionale, e non solo la condivise ma diede una mano a farla diventare una realtà. Sarebbe molto interessante a questo punto ascoltare l'ex Presidente Napolitano che del passaggio Berlusconi/ Monti fu il deus ex machina, per capire di più quei momenti e le ragioni della classe dirigente di allora. Lo stesso Monti, che non ha mai nascosto le sue profonde radici "europee" potrebbe dare il suo punto di vista su quanto accadde allora.

E le spiegazioni non finiscono qui. Noi sappiamo oggi che dopo le elezioni del 2013 che, correttamente, segnarono la fine del governo tecnico, nemmeno il ricorso al voto riuscì a riportare la dinamica politica nel suo corso istituzionale. Sappiamo che il vincitore deciso dalle schede elettorali, Pierluigi Bersani, non ottenne l'incarico perché troppo ravvicinato il responso delle schede fra Pd e M5S. L'incarico va invece a Enrico Letta, non eletto. E dopo pochi mesi l'incarico va a Matteo Renzi, non eletto. Dal 2013 a oggi, in altre parole, nessuna elezione nazionale scioglie il nodo di governi senza maggioranza certificata. Sappiamo che questo è un lungo periodo di precario equilibrio istituzionale, di difficile situazione economica, di crescente destabilizzazione internazionale sul fronte di guerra.

Non sappiamo però cosa succede in questo stesso periodo, alle forze che vediamo protagoniste della defenestrazione di Berlusconi. Gli Usa smettono davvero di spiarci? I grandi leader europei hanno smesso di "impicciarsi" delle vicende interne Italiane? A esempio, da quel che ci dicono i file, nel periodo di Monti, in un solo mese, dal 10 dicembre 2012 al 9 gennaio 2013, la Nsa raccoglie i metadati di 45.893.570 di telefonate degli italiani, cioè informazioni derivate dai tabulati. Letta al governo in verità chiese una verifica delle attività di spionaggio, e ne uscì rassicurato, ora sappiamo erroneamente. È così strano immaginare che lo spionaggio nei confronti dei nostri leader politici sia continuato fino ad oggi? O pensare che anche Matteo Renzi, per non parlare di altri protagonisti come Casaleggio e uomini di altre istituzioni e partiti, o di aziende di Stato come Finmeccanica ed Eni siano rimasti sotto osservazione? Oppure vogliamo pensare che dopo la caduta di Silvio Berlusconi ognuno è tornato virtuosamente al suo posto? Tutto quello che è successo negli anni scorsi, la opacità di vari passaggi, in parte la loro inspiegabilità, lascia zone d'ombra in cui si possono leggere molte mani, molti interessi.

Nessun complotto. Lo scontro politico oggi non passa più attraverso i partiti e non si ferma ai confini di nessuna nazione. Lo scontro sull'Europa, i migranti, e la guerra, sono i transiti in cui si incanalano oggi i temi del dominio, del controllo e del potere del mondo. Ma la globalizzazione degli accordi e delle soluzioni non può essere un abbandono della propria forza e identità nazionale.

Che si tratti dunque di una Commissione di Inchiesta, di una protesta di diplomatica, di una discussione parlamentare, è necessario che il Governo Italiano ottenga il massimo delle informazioni e si impegni a diradare tutte le ombre di questi ultimi quattro anni.

Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/spiati-e-manovrati-ancora-oggi_b_9299576.html?utm_hp_ref=italy


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Le radici della zona grigia
Inserito da: Arlecchino - Aprile 02, 2016, 12:42:27 pm
Le radici della zona grigia

Pubblicato: 31/03/2016 23:27 CEST Aggiornato: 31/03/2016 23:27 CEST

Nel marzo del 2015, si dimette Lupi, ministro delle Infrastrutture e trasporti. Oggi si dimette Guidi, ministro delle Attività produttive. Sulle scelte di entrambi l'ombra del conflitto di interesse - per Lupi uno scambio di favori fra il suo ruolo e un trattamento di favore per suo figlio; per la Guidi di uno scambio fra la sua influenza, e affari del suo compagno. Per entrambi le accuse vanno ancora provate, e ad entrambi va riconosciuto la sensibilità nei confronti delle loro funzioni istituzionali.

Ma nemmeno queste pronte dimissioni possono stendere un velo sul fatto che il sospetto di conflitto di interessi torna continuamente sulla scena politica, e sembra confermarsi, dopo il caso Guidi, il più grande difetto del governo Renzi, il suo tallone di Achille. È la nuvola che grava da tempo sulla testa del più influente ministro, Maria Elena Boschi, e su più d'uno degli uomini che lavorano insieme al premier, dal sottosegretario Lotti, a Marco Carrai, fra i più importanti.

Il governo si è sempre difeso con vigore da questi sospetti, invocando, giustamente, la mancanza di prove. Va qui intanto precisato che il conflitto di interessi è una condizione oggettiva di frizione fra la propria influenza e la propria imparzialità di ruolo. Se ne può dunque abusare o meno (e la differenza è un reato) ma la condizione di conflitto resta perché è obiettiva. L'esistenza di questa zona grigia è così ampia nel governo da non poter più essere spiegata come frutto di polemiche dell'opposizione, o, viceversa, di ingenuità ed errori. Va forse capita come una conseguenza della concezione stessa del potere di Renzi.

Una concezione precisa che è stata ed è il motore del suo successo e della sua volontà politica: un fortissimo cocktail di voglia di controllo e furore "rivoluzionario". L'attuale premier, come abbiamo imparato nei suoi quasi tre anni a Palazzo Chigi, è arrivato ai vertici della politica nazionale sull'onda di una piattaforma di radicale rinnovamento del paese, di una polemica drastica e sprezzante nei confronti di tutto quello che c'era prima di lui, in un cerchio concentrico di accuse di incapacità che ha prima eliminato I vecchi dirigenti del suo partito, per poi allargarsi alle istituzioni di intermediazione sociale come il sindacato e la Confindustria, e su su, fino agli alti burocrati, alle strutture tecniche dei ministeri, e ancora più su fino alla diplomazia, la magistratura, la Banca d'Italia e persino l'intelligence.

Una piattaforma di tale critica era fondata, coglieva bisogni reali del paese di cambiamento e vitalità ed ha infatti decretato il suo successo. Ma nella sua applicazione, si sta trasformando nella decapitazione di ogni gruppo dirigente, di ogni settore rilevante del paese, da sostituire con uomini di diretta fiducia del premier.
Matteo Renzi in questi anni, nonostante tutti gli sforzi di allargare gli orizzonti del suo premierato, ha dedicato uno spropositato tempo alla costruzione e consolidamento del suo controllo del paese - a parte le riforme istituzionali e il kamasutra parlamentare, le nomine hanno assorbito molto del suo lavoro di trasformazione. Attenzione giustissima - un premier deve consolidare il suo potere - ma le nomine sono state fatte tutte con l'occhio fisso sulla lealtà diretta al premier stesso, cosa che è un po' più "ristretta" del consolidamento di un governo. E con un metodo che Robespierre avrebbe amato: l'azzeramento o l'aggiramento di molte regole istituzionali attraverso cui di solito queste nomine vengono filtrate. Si potrebbero fare molti esempi - I più chiari sono probabilmente la proposta di Carrai all'intelligence, o la nomina di ambasciatori fuori dai circuiti diplomatici. Ma l'esempio più rilevante della voglia di cambiare e controllare è la ri-creazione a Palazzo Chigi di tutte le strutture ministeriali, la formazione di una cabina di regia che assorbe molte delle funzioni dei ministeri, la cui autonomia non è un ghiribizzo ma una parte della dinamica dell'equilibrio dei poteri dello stato. Una sorta di Kitchen Cabinet all'Americana, applicazione di una presidenzialismo pieno, ma appunto senza il sistema di compensazione di tale presidenzialismo puro.

Fa bene, fa male al paese questo cambiamento nella gestione del potere? È troppo personalistico, è al limite del rispetto istituzionale, valica il limite dei poteri esistenti? O non è invece il necessario strappo per ridare al paese operatività e vitalità? La discussione è aperta.
Ma comunque lo si vuole valutare, appare abbastanza chiaro che è proprio questo nuovo sistema ad alimentare il sospetto di conflitto di interesse. Nel dare alla gestione del governo una tale impronta personale, nel distruggere o aggirare la catena istituzionale a favore di un protagonismo del premier e delle sue scelte, nel dare la priorità a uomini e donne fidati invece che scelti nel percorso delle competenze, infine nel manovrare il potere come una partita a scacchi ai fini di consolidare il poter del premier prima di quello dello Stato, Matteo finisce per costruire un intreccio troppo ristretto di interessi, persone e influenza. Finisce con il costruire una catena di comando troppo corta, un passaggio di verifiche troppo labile. Un universo troppo ristretto che alla fine produce il suo opposto: invece di favorire il premier lo rende perennemente esposto. Nel senso che non solo il potere ma anche tutti gli interessi convergono su questo uomo solo al comando.

È vero, le istituzioni italiane sono vecchie, letargiche e spesso impotenti. Ma la loro funzione di filtro, equilibrio, e diffusione della decisionalità non può essere archiviata insieme al cambiamento: è una garanzia che, come forse Renzi imparerà, serve a protezione anche di chi governa, non solo dei cittadini.

Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/le-radici-della-zona-grig_b_9586392.html?utm_hp_ref=italy


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - "Prevedere l'imprevedibile"
Inserito da: Arlecchino - Aprile 13, 2016, 11:23:18 am
"Prevedere l'imprevedibile"

Pubblicato: 12/04/2016 19:54 CEST Aggiornato: 2 ore fa

Lucia ANNUNZIATA

Se in quei giorni della primavera del 2013 il Movimento 5 Stelle, risultato primo partito italiano alle elezioni politiche, avesse detto sì a Pierluigi Bersani, vincitore nelle urne ma solo per qualche migliaio di voti, avremmo la stessa Italia di oggi? Forse sì, forse no. Con Bersani premier non ci sarebbe stato probabilmente un secondo mandato di Napolitano, e nemmeno forse Mattarella sarebbe oggi al Quirinale. Non ci sarebbe stato un governo Letta, né un governo Renzi - o forse no, entrambi avrebbero avuto ugualmente quel ruolo, ma con percorsi e tempi diversi. E il Pd forse si sarebbe lacerato, o sarebbe rimasto inchiodato, in un'alleanza come quella con i Cinque Stelle, "spuria" rispetto alla sua storia. E il "cambiamento" renziano sarebbe forse arrivato per questa strada invece che quella delle primarie. Di certo Berlusconi e la destra sarebbero andati in minoranza, nessun Nazareno all'orizzonte; ma forse no, forse alla fine, in un eventuale collasso del premier Bersani, il cavaliere avrebbe ritrovato la sua fortuna politica. Se.

E anche se la storia non si fa con i se, il domandarsi oggi cosa poteva essere, è in fondo il modo migliore per capire quanto l'ingresso del Movimento 5 Stelle sulla scena politica sia stato per l'Italia un cambiamento in ogni caso decisivo. Oggi che il loro fondatore è morto, il futuro del M5S avrà, nel bene e nel male, un identico impatto, ancora una volta.

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Casaleggio parlava appoggiato allo spigolo della finestra. Fuori un cortile, delle colonne, un universo ordinato, nelle stanze intorno un'attività intensa ma silenziosa. La "tana" di questo misterioso leader era in realtà un semplice, funzionale interno di azienda milanese. Eccetto per la raccolta di copertine di Tex Willer alle pareti della stanza del Capo, "ma non sono riproduzioni sono state tutte dipinte sul modello originale", spiegava con cenni di contentezza.

Casaleggio parlava, come si fa in attesa di un'intervista che gli avrei fatto, un po' per cortesia, guardando fuori. Voce quieta, frasi staccate. Parlava del futuro. E dei media. Non prediche, nessun comizio, e lo sguardo sempre laterale. Del futuro gli interessava soprattutto "quello che adesso non riusciamo a prevedere", le invenzioni, l'impatto sulle scelte. Parlava di America. Era curioso della Rai e dei giornali. Ma così, in maniera cortese, distaccata. Giusto per riempire il tempo che precede, quale era il caso, una intervista. Difficilissimo immaginarlo in altri panni che non fossero quelli di un signore colto, e piuttosto riservato. Una immagine del tutto opposta a quella con cui negli ultimi anni era stato presentato - un guru, un manipolatore, un minaccioso tiranno, o soltanto un ridicolo ciarlatano - e che veniva brandita in una delle più virulente battaglie politiche degli ultimi anni.

Nell'ora della sua morte, l'establishment del paese ha immediatamente dismesso queste accuse, e lo saluta con "rispetto" come si deve agli avversari. Ma la quasi isteria che ha circondato la sua figura da vivo non va dimenticata, perché è il metro di misura della forza e della diversità di un fenomeno politico che si è affermato quasi malgrado sé stesso.

Le elezioni del 2013, che oggi ricordiamo come "particolari" per molti motivi, portarono in Parlamento un nuovo primo partito, che nessuno aveva visto arrivare. Una scossa che da sola bastava al tran tran istituzionale. Cui si aggiunsero le caratteristiche dei nuovi eletti, un gruppo di deputati e senatori variegati, indefinibili, e sicuramente molto intensi. Al loro arrivo furono oggetto della enorme curiosità con cui si accolgono i diversi: i loro zainetti, gli abiti non sartoriali, le teste non ripassate dal parrucchiere, le gaffe davanti ai tornelli e i disorientamenti nelle stanze parlamentari. Facevano infinite assemblee a porte chiuse, rispondevano con brevi comizietti a ogni domanda, sfuggivano le telecamere e i media, e, soprattutto, inveivano contro tutto e tutti. Erano in sostanza, un gruppo di persone ingenue, ben intenzionate e ostinate, ma fuori dagli schemi comodi della "politologia": niente partito, solo Rete; niente voto ma consultazioni dei cittadini; nessun privilegio, ma anzi restituzione delle indennità parlamentari; e soprattutto nessun patto in quanto nessuna integrazione con il potere, fosse esso di destra o di sinistra, perché tutto inquinato. Insomma, un branco non assimilabile: li si derideva molto, li si sminuiva molto. La singolarità della coppia di leader, un vocalissimo attore Grillo e un silente uomo del web, fece il resto. Un movimento alieno era atterrato in Parlamento. Ma dietro gli attacchi e le ironie, c'era soprattutto paura di questa diversità. Il cui impatto di misurò da subito.

Dal rifiuto in poi di appoggiare Bersani premier, il Movimento 5 stelle, piaccia o meno, ha cambiato corso alla storia italiana. Ne ha cambiato la vicenda umana, ma anche il discorso pubblico. Sdoganando la Rete come luogo, affossando il Partito come istituzione, legittimando l'attacco alla ricchezza (altrui) come rivolta antipolitica, rompendo i limiti del linguaggio ufficiale, e diventando, al contempo, la prima ragione di una santa alleanza contro l'Antipolitica su cui si è poi ricostruito un percorso di riaffermazione delle attuali istituzioni.

Non che i Pentastellati abbiano davvero saputo o capito la loro stessa importanza. Negli anni da quel 2013 la loro presenza soggettiva nelle istituzioni è apparsa alternativamente iperpolitica e impolitica, macchiavellica a volte, ingenua o brutale altra. A contatto con compiti infinitamente più grandi della loro stessa anticipazione, spesso il movimento si è involuto, o spaccato, o diviso, in fenomeni di autocannibalizzazione come non si vedevano da anni. In una specie di giostra continua, in cui comunque la sua forza ha continuato a crescere, mantenendolo in una zona di rilevanza politica in i suoi stessi dirigenti hanno spesso dato l'impressione di stentare a credere.

Stentare a credere. Loro forse. Non Gianroberto Casaleggio, uno dei due padri fondatori di M5S, che sapeva fin dall'inizio che potevano aspirare a governare il paese, e sapeva anche che, come disse in una intervista quello stesso anno, "in futuro il movimento farà a meno di me e di Grillo".

Quel momento è arrivato. Proprio mentre il M5s può portare a casa le sue prime vittorie sensazionali in alcune città d'Italia, e può immaginare di poter davvero battere alle politiche il Premier Renzi, Casaleggio ha perso la sua battaglia con la malattia. E il movimento si trova oggi di fronte al momento più difficile della sua vita: diventare adulto di colpo, senza più rete di salvezza, o piani di atterraggio. Con di fronte due strade: quella del consolidamento (cedendo a un certo conformismo di sistema) o della esplosione della diversità di tutte le sue anime. Un eventuale collasso potrebbe ridefinire differentemente la dinamica destra/sinistra/ centro, così come il suo diventare più partito potrebbe costruire la strada verso il governo. In ogni caso, così come per il loro arrivo, anche l'attraversamento di questo guado ridefinirà l'intero quadro politico.

Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/prevedere-limprevedibile_b_9672120.html?utm_hp_ref=italy


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Le primarie della Nazione
Inserito da: Admin - Giugno 09, 2016, 11:34:38 am
Le primarie della Nazione
Pubblicato: 04/06/2016 19:42 CEST Aggiornato: 29 minuti fa

PRIMARIE NAZIONE
Senza più bipolarismo, senza più partiti, e con una classe politica totalmente nuova e ampiamente non sperimentata.

Questo è il contesto del voto attuale, drasticamente diverso da quello precedente in cui siamo andati alle urne nelle stesse città in cui si vota oggi. Era il 2011, esattamente il 15 e 16 maggio (primo turno) e il 29 e 30 maggio (secondo turno). Solo cinque anni di distanza e un salto storico di mezzo: il passaggio dalla Seconda alla Terza Repubblica.

Fu l'ultima primavera di Silvio Berlusconi, malamente illuminata dallo scandalo del "Rubygate", scoppiato a gennaio e che farà da contrappunto al malinconico declino del leone del Centro-Destra. A novembre di quello stesso anno, fra risatine alle spalle dell'Italia da parte di leader internazionali, la disastrosa campagna Occidentale contro Gheddafi in Libia, le montagne russe dello spread, il Premier di Forza Italia lascerà, costretto, Palazzo Chigi aprendo la strada al governo tecnico di Mario Monti. Nello stesso mese di novembre c'è l'insediamento di Mario Draghi alla guida della Bce, la Banca Centrale Europea. Cominciava così il cammino che avrebbe portato alla fine del sistema dei partiti come li conoscevamo, fino alla crisi elettorale del 2013 in cui le urne sancirono la fine del bipolarismo con l'affermarsi (con sorpresa di tutti gli osservatori!) di un terzo partito nazionale, il Movimento Cinque Stelle.

Vale la pena di richiamare alla vigilia di questo nuovo voto l'atmosfera cupa, combattuta, in cui si andò alle urne in precedenza. Vale la pena perché un voto è sempre anche figlio di un clima e di un sentimento. Ma soprattutto perché dimentichiamo spesso che da quel 2011 viviamo una lunga transizione, di cui è parte ancora lo stesso governo Renzi.

Cinque anni dopo il sistema bipolare non c'è più. Il nuovo ecosistema in cui si vota è la profonda fluidificazione del sistema politico seguito al voto del 2013, e la entrata in campo di una classe politica totalmente nuova rispetto al passato. Questo passaggio, quanto si rifletterà sulle scelte dei cittadini?

Al di là delle chiacchiere e tattiche che sempre segnano le campagne elettorali, questa domanda è la chiave più solida per intendere il senso del voto attuale.

Alcuni dati, elaborati dal Cise, il Centro Italiano di Studi Elettorali della Università romana Luiss, forniscono una prima possibile lettura di questo impatto.
Ricordiamo intanto che dei 26 comuni capoluogo che andarono al voto nel 2011, il Centrosinistra ne vinse 21 , quattro il Centrodestra, e in uno, Napoli, vinse De Magistris sostenuto da una coalizione di Idv e Federazione della sinistra. Una vittoria che fece allora scalpore perché nasceva come "irregolare". Annunciava infatti, insieme al successo di un pugno di sindaci (gli "arancione") della società civile eletti nelle file del centrosinistra, come Pisapia a Milano, una scelta di cittadini già fuori dalla gabbia bipolare.

Oggi, il primo dato che salta agli occhi è che 8 di quei comuni, ovvero più del 30%, andranno al voto sotto commissariamento prefettizio. Due dove aveva vinto il Centrodestra, e sei il Centrosinistra, tra cui vi è il caso più eclatante, quello di Roma guidata da Ignazio Marino. Una indicazione che illustra bene i fenomeni di malagestione se non di vera e propria corruzione in cui sono state trascinate molte città dal disfarsi del sistema dei partiti.

Per quel che riguarda la offerta elettorale, invece, la fine del bipartitismo vi si riflette in maniera complessa. Secondo i dati Luiss, si presenta "per certi versi molto simile al 2011, sia in termini di candidati sindaco (otto di media nelle 26 città, esattamente come nel 2011), sia di liste in competizione (20,4 di media contro le 21,6 del 2011)". Una continuità spiegabile con "il sistema elettorale comunale, che spinge i partiti a coalizzarsi per raggiungere il premio di maggioranza, e la presenza del voto di preferenza, che incentiva la moltiplicazione delle liste e la corsa dei partiti ad accaparrarsi quante più alleanze possibili con i ras locali del voto".

Ma se si va a guardare nel dettaglio questo dato, dentro la formale continuità bipolare, troviamo una vera e propria esplosione dell'ordine elettorale di prima.

Il numero delle liste a sostegno di candidati fuori dai due 'blocchi' principali (ovvero quelli comprendenti il Pd e FI), è aumentato: una media di 11,6 contro il 9,3 del 2011. Incredibili sono anche le punte raggiunte, in alcune città, dal numero di liste e candidati: dai 17 di Torino ai 3 di Latina, dalle 35 liste di Napoli, Torino e Cagliari alle 4 di Villacidro. In generale, la frammentazione è maggiore (come c'era da aspettarsi) al Sud con una media di 22,4 liste contro le 18,1 del Centro-Nord. Al contrario, la competizione per il sindaco risulta più variegata al Centro-Nord rispetto al Sud (in media si presentano 9 candidati al Centro-Nord contro i 7,1 del Sud). La spiegazione degli analisti Luiss riassume in poche parole queste diversità: "al Centro-Nord la competizione è soprattutto per la carica di sindaco, al Sud invece la vera partita si gioca per la conquista di un posto all'interno del consiglio comunale" . In altre parole, al Sud la proliferazione delle liste civiche è un fenomeno dominante.

Bastano questi numeri, in effetti, a raccontare la estrema fluidità in cui il sistema elettorale è precipitato con la fine del bipolarismo, e quanto si sia ben lontani dal un nuovo equilibrio.

Queste sono infatti le prime elezioni cui si vota in assenza di campi ben definiti delle strutture dei partiti. Al posto dei vecchi serbatoi di voti, in queste elezioni si confrontano nuove aree elettorali formate dalle più strane confluenze - senza più divisioni fra destra e sinistra, fra moderati, radicali, conservatori, e in molti casi (almeno 15 accertati dice la Commissione Antimafia) un troppo labile limite fra onesti e non.

Renzi porta a verifica in questo voto quello schieramento liquido che si chiama Partito della Nazione. I Cinque stelle portano un movimento dal tradizionale profilo post-ideologico, la cui identità bipolare (un po' destra un po' sinistra) a causa delle sue traversie, morte di Casaleggio, disincanto di Grillo, guerre interne per la leadership, si sta ora trasformando in vera e propria confusione. Sulla esplosione del campo moderato e del centrodestra non c'è bisogno di dilungarsi. Il lungo autunno del patriarca Silvio lo racconta bene.

In aggiunta, a capo di ciascuna di queste aree ci sono leadership esse stesse nuove, cioè emerse dopo la fine della seconda Repubblica, e dunque ancora, come le aree che rappresentano, non consolidate. Tutti gli attuali protagonisti del voto, a partire da Renzi e continuando con Di Maio, Salvini, Marchini, fino ai candidati sindaci, si sono affermati dopo il 2013 e nessuno di loro, finora, è mai stato "verificato" da nessuna tornata elettorale nazionale (quella europea in cui Renzi era già al governo non fa testo, in questo senso).

Consolidare è dunque la posta in gioco della partita elettorale in corso. Consolidare le aree politiche in voti, trasformare il consenso in movimento in un'area definita, dare identità unica alle molte voci, e non ultimo, raccogliere tutto questo intorno a un nome, a un volto, a una leadership che ne uscirà così legittimata, appunto.

In questo senso, queste amministrative sono tutte anche e fortemente primarie interne a ciascuna area, nonché primarie della nazione.

Renzi che ancora sconta il peccato originale di non essere stato votato come Premier; i Cinque Stelle che devono dimostrare di aver dei veri leader, senza Grillo e Casaleggio; Salvini e altri del centrodestra che si contendono l'eredità di Silvio; i moderati come Marchini e Alfano, e la sinistra-sinistra di Fassina, Airaudo e Landini - tutti alla ricerca di un chiarimento sul futuro.

Non è un caso che queste amministrative abbiano preso la forma di un doppio appuntamento insieme al referendum sulle riforme di autunno. È una accoppiata che è stata intestata a Renzi, ma che in realtà tutti stanno cavalcando: se chiarimento infatti sul futuro deve esserci, abbiamo allora bisogno di sapere per quale futuro sistema costituzionale e elettorale ognuno si schiera.

Le urne di questa primavera sono in effetti la prima tappa di una lunga stagione elettorale, che finirà nel 2018 (o nel 2017) alla cui fine sapremo con chiarezza chi, e intorno a quale piattaforma, guiderà per i prossimi anni il paese.

Non c'è da meravigliarsi, vista la partita, dei (discutibili) toni personali, della violenza, della durezza dello scontro. Segni di forte ansia, da parte di uomini che (pure) vorrebbero fare la storia.

Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/le-primarie-della-nazione_b_10295234.html?1465062191&utm_hp_ref=italy


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - La guerra ha corroso l'America
Inserito da: Arlecchino - Luglio 12, 2016, 11:35:57 am
La guerra ha corroso l'America

Pubblicato: 08/07/2016 22:12 CEST Aggiornato: 08/07/2016 22:13 CEST

Ancora non sappiamo tutto bene, ma l'attacco di un gruppo nero alla polizia in Dallas somiglia molto a una operazione di guerriglia urbana, un attacco militare "ben preparato e altrettanto bene organizzato" come è stato descritto da testimoni.

Quando si parla dello stillicidio di omicidi di uomini (e qualche donna) di colore da parte della polizia, del riemergere dello scontro razziale violento nelle città Usa, si parla molto di crisi sociale, di cultura e di politica - con Trump lì, perfetto candidato oggi su cui scaricare il rinfocolarsi di questo clima. Ma si dimentica sempre di ricordare che gli Stati Uniti sono in Guerra ininterrottamente dal 1990, cioè da 26 anni.

Dalla prima Guerra in Iraq del 1990, appunto, passando poi per il 2001 delle Torri, fino ad oggi. 26 anni di guerre tradizionali con eserciti di terra, come in Afganistan, e, due volte, in Iraq: guerre di posizionamento e controllo come nell'Oceano Indiano; guerre segrete, come quelle nell'ex blocco sovietico; guerre d'appoggio come in Siria e in Africa, e operazioni speciali come in Libia, o nel nome della lotta al Terrorismo.

Quasi tre decenni durante i quali la macchina militare Usa ha macinato incredibili numeri e volumi - di uomini, armi, ricerche tecnologie, e denaro. I numeri di questo sforzo bellico sono sempre discutibili e discussi. Ma possiamo farcene una idea prendendo almeno alcuni bilanci consolidati.

Ad esempio, sappiamo che nell'anno fiscale 2016 l'Esercito Usa è composto da 475.000 soldati, la Guardia Nazionale da 342.000 unità, e i Riservisti di 198.000. Circa un milione di uomini , o, per essere più precisi, 980mila unità è considerato il livello aureo per le operazioni: "Un esercito composto da meno di 980 mila unità, non potrà soddisfare tutti gli obiettivi della DSG (Defense Strategic Guidance) e non sarà in grado di rispondere alle molteplici sfide a protezione degli interessi nazionali", secondo quanto dichiarato nel 2015 dal capo di Stato Maggiore dell'esercito degli Stati Uniti, il generale Raymond Odierno, commentando il taglio di risorse fatto in bilancio per il 2016. Una riduzione del 7 per cento con una perdita di 60mila uomini.

Tradotte in cifre, le risorse militari Usa sono misurabili dalle richieste del Pentagono, che per il 2017 ha chiesto 583 miliardi di dollari. Di cui 71,4 miliardi di dollari per la ricerca e lo sviluppo, 7,5 miliardi di dollari per combattere lo Stato islamico, 8,1 miliardi di dollari destinati alla flotta sottomarina ed 1,8 miliardi per l'acquisizione di nuove munizioni.

Cito tutti questi numeri per materializzare davanti ai nostri occhi il peso, l'influenza, l'impatto di decenni di questo impegno militare Americano. Che ha portato a migliaia di vittime ( si parla di un milione e 300mila circa nei soli conflitti mediorientali, ma le fonti sono in merito sempre incerte) nei moltissimi paesi in cui gli Usa sono intervenuti. Ma che ha avuto un impatto forse meno nascosto ma visibile nelle conseguenze sulla stessa America.

Non parlo qui delle ramificazioni scientifiche ed economiche interne, di cui spesso si parla. Vorrei ricordare invece l'impatto sul tessuto sociale degli Stati Uniti. Migliaia sono le stesse vittime americane - numeri anche in questo caso non sono chiari, ma se prendiamo quelli della stessa amministrazione militare per l'anno 2010 possiamo averne una idea più chiara: 6.051 uccisi; 99,065 evacuati da zone di Guerra per ferite; 552,215 disabili ufficialmente convalidati, escludendo I disabili non riconosciuti e non dichiarati.
A queste vittime va aggiunta la influenza della Guerra sugli Usa diffusasi per strade meno visibili, attraverso I milioni di uomini che hanno servito e sono tornati a casa con occhi e menti diversi. Molti di loro sono passati nel settore della sicurezza nazionale, come la polizia. Le tecniche, gli armamenti, e, se è possibile dirlo, la psicologia dei conflitti sono diventati standard anche nella nazione. Gli Stati Uniti, insomma, in questi quasi tre decenni, sono stati profondamente cambiati dalla Guerra.

Nessuno lo dice ad alta voce, ma molti lo dicono a mezza voce. E' una verità spiacevole, soprattutto perché con la fine della leva obbligatoria decenni fa, le armi sono state relegate a una specie di sottoclasse, i cui destini non si incrociano facilmente con questi tempi in cui la politica estera appare più sussunta dal discorso sul capitale finanziario che da quello sul capitale umano.

Discorso spiacevole, questo di una civiltà democratica corrosa nel profondo da una pratica di Guerra costante e sostenuta. Discorso irrazionale. Fino a che l'uso delle armi nelle città americane non diventa esperto nelle mosse e facile nel ricorso. Fino a che non si legge nelle tecniche della polizia la copia dei check point in Afganistan, non si nota che gli uomini della sicurezza interna Americana sono vestiti e armati uguali identici come le squadre di sgombero a Falluja. E fino a che un attacco alla polizia non avviene, come a Dallas, con la stessa preparazione delle incursioni sul terreno dell'esercito Usa.

E, attenti, uno dei poliziotti morti a Dallas e uno dei neri che hanno sparato erano entrambi veterani di Guerra. Lo stesso eccesso di armi, la facilità con cui si comprano e si usano - come lamenta Obama in continuazione - è frutto di una familiarità con questi strumenti acquisita nel tempo, e in altri luoghi.

Si, certo. Tutto questo non spiega il razzismo e l'odio che di nuovo ribolle nelle strade americane. Se lo scontro razziale assume i contorni violenti che ha preso, la guerra non ne è l'origine ma ne sta diventando la peggiore maestra.

Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/dallas_b_10892958.html?utm_hp_ref=italy


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Lo Stato visto dal pozzo umano del palasport di Amatrice.
Inserito da: Arlecchino - Agosto 28, 2016, 11:18:03 am
Lo Stato visto dal pozzo umano del palasport di Amatrice.
Dove il dolore crea un mondo parallelo

L'Huffington Post | 
Di Lucia Annunziata
Pubblicato: 27/08/2016 20:27 CEST Aggiornato: 27/08/2016 20:28 CEST
PALASPORT AMATRICE

Rumore di elicottero. Passa sul tetto, sempre più vicino. Un sussurro si diffonde come una piccola onda fra volontari, cittadini, gli uomini e le donne dei vari corpi dello Stato che sono lì in tenuta da lavoro da giorni: “arriva Mattarella, arriva il presidente”. Alcuni si preparano ad andare a salutarlo più tardi, “quando passerà di qui”; altri alzano gli occhi al cielo per vedere se si tratti proprio di un elicottero presidenziale. Ma nessuno interrompe quello che sta facendo.

È il giorno, questo, che noi giornalisti racconteremo come l’arrivo dello Stato nelle zone del terremoto. Autorità istituzionali, presidente della Repubblica, presidente del Consiglio, mani che si stringono, qualche carezza, tante bare, tante lacrime. E staremo attenti a decrittare ogni cifra di questo contatto tra la popolazione e le Istituzioni. Ma da dentro questo pozzo umano che è il Palazzetto dello sport di Amatrice, dove passano la notte qualche centinaio di sfollati, in questa prima mattina, il rumore dell’atterraggio provoca a malapena qualche testa alzata. La vita fuori da questo edificio, fuori dai pochi chilometri quadrati in cui si è accentrata la furia del terremoto, non provoca più di un momento di distratta curiosità.

La notte è lunga dentro questa palestra modernissima riciclata, come succede in tutto il mondo nei momenti di emergenza, in un'unica camera da letto collettiva. La sera, fra perfetti stranieri che cercano di avviarsi a una notte comune mantenendo ciascuno un proprio spazio, è segnata da parole sottovoce per non disturbare gli altri, discreti cambi di abiti sotto le coperte, movimenti verso il bagno fatti in modo da evitare le code. Un vecchio passa a torso nudo dopo essersi lavato, appoggiandosi a un bastone. Nessuno fissa troppo gli occhi sugli altri, per evitare invasioni. Ma è impossibile non vedere, non sentire, non ascoltare. Davanti a noi, sull’altra fila di brande, c’è una signora che ha fatto otto riconoscimenti di salme – si, otto – in una giornata. È arrivata esausta. Siede piegata in due quasi sull’orlo della branda, una coperta sulla spalla. Un'assistente sociale le parla. Le parla in continuazione, a bassa voce, non capisco se lei ascolti. Non so nemmeno se sappia dove sia. Guarda verso un angolo, come se vedesse qualcuno. Dalla sua persona trasuda un’aria di indifferenza al mondo, e forse è davvero altrove. Avrà in mente tutti i corpi che ha dovuto scoprire prima di arrivare a quelli dei suoi cari, avrà lasciato ciascuno sconosciuto con un saluto, avrà parlato, infine, con i suoi cari. E forse è ancora lì in quel mondo di mezzo fra spiriti e umani. Ricomincia a piangere senza nemmeno un singulto, mentre la giovane psicologa le tiene, ora, la mano.

Un’altra donna poco più avanti oggi ha riconosciuto tre dei suoi familiari. Lei è lì, e non vuole nessuno, scuote la testa ogni volta che qualcuna delle psicologhe si fa avanti.

È un concentrato di tutto quello che è successo ad Amatrice, questo ampio spazio umano. I sospiri all’unisono di chi cerca una sua forza, l’andirivieni gentile di volontari della Croce Rossa che gestiscono il campo e cercano di interpretare ognuno di questi sospiri per ciascuno che qui arrivi: “State bene?”. “Avete bisogno di un’altra coperta?”. “Signora, vuole dell’acqua?”. La notte è lunga. Trema continuamente per le scosse. Fredda sulle brande di plastica nuovissime. Rotta da colpi di tosse, un pianto, un russare, una donna anziana che si sveglia chiamando qualcuno. E infine dal passaggio incessante, alla fine dei turni, di tutti quelli che lavorano, pompieri, carabinieri, volontari delle organizzazioni di misericordia, che rubano un’ora di sonno quando gli è possibile.

Tutto questo è in verità un orologio che ha trovato un suo ritmo. Il mondo spaccato dal terremoto si è ricomposto in un suo nuovo ritmo. Popolato da chi salva, da chi osserva, da chi prega, da chi soffre. Tutti insieme, un piccolo universo di reciproca dipendenza. Un precario equilibrio che finirà presto, quando i morti saranno seppelliti, e i soccorsi andranno via, e i giornalisti andranno via, e l'anormalità diverrà la nuova normalità. E, come sempre è successo, ognuno di noi tornerà al suo posto nella vita precedente. Ma per ora siamo qui, e tutti siamo diventati un po’ più uguali. Perché il dolore è come il freddo - entra dentro a tutti, si attacca a tutti. Ha una strana capacità di rompere barriere.

Nella vita sono stata testimone di tante tragedie. Il terremoto del Friuli, quelli del Salvador e del Messico, la frana di Sarno, quella del vulcano di Medellin, alcune delle tante esondazioni del Mississippi, per non parlare delle guerre. Ciascuno di questi drammi, grandi o piccoli, alla fine produce questa stessa esperienza: la creazione di un mondo a parte, una bolla (si direbbe oggi) di umanità che si distacca per un momento, o per sempre, dal resto del mondo. Può avvenire attraverso il pianto, la preghiera, la rabbia, l’istupidimento, la droga, il suicidio. Nulla è mai scontato di quello che ti lascia dentro il dolore.

Qui, e ora, in questo borgo appiattito in macerie, denso di polvere, di un odore cui si preferisce non dare un nome, è avvenuto già questo distacco. La vita è qui e ora, piena di piccole cosa da fare, recuperare un oggetto da case pericolanti, inviare un messaggio a qualcuno, trovare un foglio per far disegnare un bambino, dire messa, piantare meglio un palo di sostegno di una tenda, sfidare la gravità con pentoloni che cuociono le migliaia di zuppe da distribuire, e ogni giorno continuare a cercare fra i corpi sconosciuti e sotto le pietre chi non risponde all’appello.

L’elicottero dello Stato arriva, cominciano i saluti ufficiali, gli omaggi ai morti. Ma come far capire che da dentro questo mondo che si muove in questo piccolo quadrato di terra questo arrivo appare lontanissimo, del tutto irrilevante? Non è politica, non è antipolitica. Non è nulla di tutto questo. È solo, appunto, l’infinito grado di separazione che matura nel dolore. Ed è un'illusione che lo Stato, la politica, il giornalismo, possano conquistare questo divario.

Certo, si possono e devono fare cose. Gli impegni materiali da mantenere, l’onestà da salvaguardare, la vicinanza da coltivare, le promesse inutili da evitare. Ricostruire quel che è stato rotto è però davvero alla fine impossibile. Alla fine l’unico strumento più efficace è il più umile degli impegni – farsi sempre attraversare dal dolore altrui.

Da - http://www.huffingtonpost.it/2016/08/27/sfollati-palasport-amatrice-_n_11738696.html?utm_hp_ref=italy


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Nuovo Ordine Mondiale
Inserito da: Arlecchino - Novembre 11, 2016, 06:01:00 pm
Nuovo Ordine Mondiale

Pubblicato: 09/11/2016 11:34 CET Aggiornato: 09/11/2016 11:34 CET

L'America di cui prende la guida il presidente Donald Trump è un paese con una mediocre crescita economica, un accresciuto livello di diseguaglianza sociale e un lento ma costante declino nella creazione di nuovi lavori. Prima di infilarsi nell'emozione dello scontro politico, prima di parlare della fine del mondo a causa dell'elezione di Trump, vorrei portare l'attenzione su alcuni dati fondamentali della economia negli Stati Uniti.

Nonostante la ripresa economica, negli Usa il reddito medio delle famiglie che pure è aumentato del 5.2 per cento tra il 2014 e il 2015, rimane sotto i livelli pre-crisi. Contemporaneamente il livello di diseguaglianza sociale è cresciuto: fra il 1980 e oggi la ricchezza detenuta dall'1 per cento della popolazione è salito dal 10 al 18 per cento.

Dato che fa meritare agli Stati Uniti il primo posto nella scala della diseguaglianza fra i paesi ad alto reddito. Che questi numeri abbiano alimentato sfiducia nella competenza e nell'onestà della classe dirigente, rabbia nei confronti delle banche, disprezzo per l'incestuoso rapporto fra politici, intellettuali, e corporation, non provoca nessuna meraviglia.

Quello che è rilevante è che questo scontento si sia diretto verso il più irregolare dei candidati in campo. Il consenso di Donald Trump è stato ottenuto soprattutto negli stati industriali, e la sua vittoria va riconosciuta come fortemente radicata in questo scontento del mondo del lavoro, del declino della classe media. Ulteriore prova di questo legame? Se si guarda alla mappa elettorale americana, fa notare in queste ore il celebre sito di analisi politica Fivethirtyeight, fondato da Nate Silver, la lista degli stati dove Trump ha vinto è perfettamente sovrapponibile con quella identificata dall'economista del Mit David Autor come la mappa degli stati dove maggiore è stato l'impatto delle importazioni cinesi - impatto stimato nella perdita di 2 milioni di lavoro tra il 1999 e il 2011.

A tutti gli effetti, dunque, la vittoria di questo imprevisto e imprevedibile candidato fuori dalle righe, e fuori dalla tradizione, va considerata la prima piattaforma politica che nasce in risposta alla crisi che dal 2007 ha cambiato il volto degli Stati Uniti e del resto del mondo.

Non è irrilevante dire con chiarezza queste cose in queste prime ore della vittoria di Donald Trump. L'evento è di proporzioni storiche. Il successo del Tycoon costituisce l'esplosione del sistema dei partiti americani - quello democratico che ha perso voti della sua tradizionale base sociale, e quello repubblicano che sulla base del calcolo di interessi della sua tradizionale base ha preso le distanze da Trump.
Ed è significativo che il nuovo presidente arrivi a Washington spinto da un voto che pone al suo centro proprio quel mondo del lavoro che in questi anni dai partiti tradizionali è stato sottovalutato, messo da parte, se non addirittura abbandonato.

Quale forma prenderà questa delega politica al momento non è possibile prevedere. Farà davvero Trump un muro con il Messico? Porterà Trump l'America a un nuovo accordo con la Russia di Putin? Allenterà il suo rapporto con gli europei, con una diminuzione di ruolo degli Usa nella Nato? Davvero ripiegherà sulla sua visione autarchica della economia americana, rompendo trattati di libero scambio e ritornando a un severo protezionismo? Difficile dire ora. Una cosa infatti è un candidato, altra un presidente.

Già nel suo primo discorso di ringraziamento, ha usato i toni più morbidi della conciliazione nazionale. Una sola sicurezza esiste però fin da ora. La fuoriuscita del consenso dai partiti tradizionali è un fenomeno già in corso nei vari paesi europei, compreso l'Italia, ma il voto americano vi inserisce un segno in più: la vittoria di Trump è la prima affermazione di un movimento antisistema che porta un suo leader al vertice. È un voto che istituzionalizza nel punto più alto del sistema il rifiuto del sistema stesso.

In questo senso il voto americano legittima e tracima le stesse istanze in movimento in vari paesi - Europa e Italia incluse. Questa legittimazione sarà la singola più importante influenza che gli Stati Uniti di Trump eserciteranno sul resto del mondo negli anni a venire.

Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/nuovo-ordine-mondiale_b_12878384.html?utm_hp_ref=italy


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - La rivoluzione rimasta incompiuta
Inserito da: Arlecchino - Novembre 28, 2016, 08:50:21 pm
La rivoluzione rimasta incompiuta

Pubblicato il 28/11/2016
Lucia Annunziata

Hasta la Victoria, Fidel. Peccato che non sia mai davvero stata raggiunta. E’ un po’ amaro da dire per chi ci ha creduto, ma è certamente il più realistico omaggio che si possa fare a Castro. 

La Cuba di oggi ci racconta che la più irresistibile e trasversale narrazione della rivoluzione del secolo appena passato, è stata un bel mito, un fatto culturale di estremo impatto - ma se per rivoluzione intendiamo la creazione di un mondo di uguali, come ci veniva detto, a Cuba non è mai arrivata. 

Fa impressione sentire oggi i toni di celebrazione quasi sentimentali che i governi di tutto il mondo, incluso il Papa latinoamericano Bergoglio, dedicano a Castro. Fa impressione perché in questi decenni il fallimento dell’Isola caraibica era evidente: la povertà annidata nei bassi di L’Avana, il patetico sforzo di rammendo per far durare i pochi beni materiali rimasti, sogni di libertà finiti in galera, prostituzione dilagante, fughe per il mare di migliaia di persone sulle precarie balzas, nella speranza di essere raccolti dalle vedette costiere Usa prima del cattivo tempo. Nel frattempo Fidel faceva innamorare il mondo con il sogno della salvezza mondiale per la prima generazione globale dell’Occidente, il ’68, spendendo risorse per medici in Africa, e spedizioni rivoluzionarie nel Terzo mondo. 

Una grande macchina narrativa del neoromanticismo delle colpe dell’Occidente, servita però soprattutto - vista col poi - a rinnovare anche il ruolo di una Unione Sovietica macchiata durante la Guerra Fredda dalle stragi, dai gulag, dalla fame. 

All’epoca si faceva distinzione netta fra la concezione castrista e quella stalinista del potere. Ma in realtà le due erano necessaria all’altra, e non solo in termini ideali. La bella narrazione di Castro era possibile grazie ai soldi, al petrolio, e agli aiuti militari di Mosca, senza i quali l’isola non sarebbe durata. E infatti la sua epoca eroica finisce, come in tutti i Paesi sovietici, nel 1990, insieme al Muro. In questo senso, ai fini della storia, si può dire che Castro sia morto in quell’anno, perché da allora comincia la costruzione della Cuba di oggi. 

Il pendolo del potere si sposta all’Avana, dal 1990, a favore dei militari e dei servizi, guidati da Raul Castro, fratello di Fidel. Raúl, ministro della Difesa, invia ufficiali di alto rango in giro per il mondo per negoziare nuovi aiuti economici (telefonia, operazioni in aree free- tax, forniture di petrolio, in cui il Venezuela di Chavez avrà un ruolo fondamentale) e per formarsi essi stessi come manager. Raccoglie dentro il dipartimento delle industrie militari un numero maggiore di business, dal consorzio commerciale, a hotel, ristoranti, proprietà immobiliari, e naturalmente zucchero e i sigari. Il genero di Raúl, il generale Luis Alberto Rodriguez, è a capo di queste attività; il figlio di Raúl, Alejandro Castro Espin, viene preparato per un ruolo politico futuro. 

Nasce un nuovo regime, di natura oligarchia, fondato sull’intreccio fra appartenenza politica e denaro, controllato dai militari e da un pugno di famiglie di cui i Castro sono la principale. Nessuna novità: tutto questo è già successo in Russia, in Cina, nei Paesi del blocco socialista, prima del Muro, ma anche dopo il Muro. E’ questa oligarchia che apre al dialogo con Obama e con la Chiesa, frutto migliore della necessità della Rivoluzione di sopravvivere. Eccetto che la Rivoluzione a Cuba non è mai esistita. 

Il mistero, tra i tanti, che Fidel porta con sé nella tomba, è se il Líder Máximo nei suoi ultimi anni abbia capito questo stato di cose. Il suo destino personale infatti è quello di essere in qualche modo sopravvissuto a se stesso, di aver vissuto troppo a lungo per non avere qualche dubbio sulla sua Gloria. 

Direttore Huffington Post, Italia 
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Da - http://www.lastampa.it/2016/11/28/cultura/opinioni/editoriali/la-rivoluzione-rimasta-incompiuta-Osh3eiDZaQ0ugejGnF4XAO/pagina.html


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - No per ridare voce agli italiani
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 05, 2016, 04:56:55 pm
No per ridare voce agli italiani

Pubblicato: 02/12/2016 21:58 CET Aggiornato: 02/12/2016 22:12 CET

COSTITUZIONE
Lucia Annunziata

Nel novembre 2011, in nome della stabilità del paese, viene buttato alle ortiche Silvio Berlusconi, a favore di Mario Monti, senza elezioni. Nell'aprile 2013 si va alle elezioni e Mario Monti non supera l'esame elettorale, senza che però l'incarico di premier vada a nessuno dei due quasi vincitori, né a Bersani né a Grillo. Entra invece Enrico Letta, che non è il campione uscito dalle urne, ma appare più adatto degli altri due ad assicurare la stabilità. La stabilità però è una Musa Inquieta e nel febbraio 2014 butta alle ortiche anche Letta. Entra Matteo Renzi, un politico che al voto parlamentare nazionale non si è mai sottoposto, che passa direttamente da sindaco di Firenze a presidente del Consiglio. In 5 anni 4 premier, di cui 3 mai votati. Cifra da Prima Repubblica.

Se era Stabilità che volevamo abbiamo in realtà prodotto il suo contrario.

Né meglio è andata negli stessi anni in paesi ben più strutturati del nostro. La stabilità invocata, richiesta, organizzata dalle classi dirigenti dell'Occidente come risposta alla crisi montante delle democrazie non ha avuto nessun successo. Lo tsunami di una gigantesca disaffezione e rivolta che attraversa l'Europa, la Brexit Inglese e la vittoria di Trump ne sono la prova inconfutabile. Eppure nessun paese, nessun leader, nessuna classe dirigente ne ha preso finora atto. Men che meno l'Italia.

Al referendum sulla riforma Costituzionale voterò No.

Per spiegare le ragioni di questo No evito di proposito di entrare nel merito delle questioni costituzionali, perché questo voto è innanzitutto un passaggio politico, e non solo italiano. E io sono contraria alle soluzioni che ci vengono proposte. Deboli perché inefficaci.

Alla crisi fra classi dirigenti e cittadini, che serpeggia da anni nelle nostre democrazie, la ricetta che i governi propongono è quella di tentare di limitare le aree dello scontento, di stringere un cordone intorno al dissenso, usando il peso delle relazioni di classe, il peso degli interessi economici, la forza delle strutture pubbliche e, infine, a volte, anche la limitazione del ricorso al voto o, quando è il caso, al referendum, come in Inghilterra e, prima, in Grecia. Nel nome di una bandiera: la stabilità innanzitutto.

Finora la esperienza ci ha detto che questa soluzione non funziona. Eppure, ora che tocca al nostro paese, l'Italia in maniera ostinata e per me sorprendente si è incamminata sulla stessa strada: al No è stato attribuito il solito valore distruttivo, al Sì la funzione positiva, della continuità e della forza istituzionale. In questo senso, come ormai anche chi sostiene il Sì ammette, il referendum è un passaggio squisitamente politico - a dispetto di tutte le discussioni sul contenuto della riforma costituzionale, su cui appunto è quasi inutile a questo punto entrare - il risultato delle urne sarà un giudizio a favore o contro il governo. Una "deviazione" dell'istituto referendario su cui non si può essere d'accordo. Ma che era quasi inevitabile, vista la nostra storia recente.

Nella battaglia contro il "populismo" l'Italia ha, come ricordavo all'inizio, una storia ormai di qualche anno. Dalla caduta di Berlusconi, la classe dirigente del nostro paese ha giocato con il fuoco delle crisi risolte sul filo della soluzioni non istituzionali. Il voto popolare, e la scelta dei premier, come dicevo, sono dal 2011 fuori dalle mani dei cittadini. Questa gestione delle istituzioni non solo ha però aumentato il risentimento popolare contro la politica, ha anche indebolito tutti i premier. Incluso il più forte, il più abile, e spregiudicato dei suoi predecessori, Matteo Renzi, che per arrivare a Palazzo Chigi ha accettato comunque il compromesso di arrivarci senza voto popolare.

All'inizio si è probabilmente illuso che quell'entrata fatta per vie brevi sarebbe stata dimenticata presto a fronte dei suoi successi; e invece, a riprova che le istituzioni contano, la mancanza di elezione popolare ha viceversa intaccato i suoi successi. Quel condizionamento iniziale ha pesato sulle condizioni generali del suo governo: Renzi si è trovato a lavorare con un Parlamento e un potere centrale non scelti insieme a lui, e di conseguenza ha fatto in una maniera esponenziale scelte sempre più irregolari. Ha fatto ricorso a maggioranze occasionali, costruite di volta in volta. Ha dovuto forzare e personalizzare quasi tutti gli appuntamenti più tradizionali, dalle molte fiducie alle scadenze elettorali, dal Jobs Act alle elezioni europee o amministrative, ogni appuntamento ribaltato in un referendum sulla sua persona e sulla forza del suo governo, fino all'ultimo referendum in cui con lui si gioca la testa anche l'Italia.

La debolezza del mancato passaggio elettorale si è riversata infine sulla riforma Costituzionale che giudicheremo. I dubbi di chi dice No oggi in Italia sono fondati nella dinamica delle cose: davvero un lavoro così rilevante come la riscrittura di parte rilevante della nostra Carta può essere fatta nelle condizioni che conosciamo, con maggioranze variabili, forzature, trattative di scambio, in un Parlamento in cui i partiti si sono sgretolati e il cambiamento di casacca è stato sfacciato? Di sicuro si può dire che far fare una riforma Costituzionale a un premier eletto avrebbe assicurato un percorso di scrittura della riforma più trasparente, più corretto, e sicuramente più solido. Evitando il sospetto che essa serva solo a rafforzare qui ed ora il futuro elettorale dello stesso premier.

In altre parole, viviamo da cinque anni in un profondo squilibrio istituzionale, ma invece di affrontarlo, si preferisce, oggi soprattutto per volontà del premier, andare avanti con successive forzature. Nella convinzione, o la speranza, che le prove di forza prima o poi possano piegare lo scontento dei cittadini, o il dissenso.

La formula di questi anni, appunto. Al fianco del Premier infatti è tornata a scendere la classe dirigente di sempre sollevando la paura di sempre - l'instabilità. Juncker e Schaeuble, due che amano Renzi come i bambini le vaccinazioni e che comunque lo difendono, i grandi giornali finanziari, Financial Times e Wall Street Journal, e se una voce sola, l'Economist, dissente si grida al complotto delle forze oscure europee. Quella stessa Europa che però ha aperto una nuova linea di credito all'Italia pur di aiutare il governo. Arrivano, poi, insieme ai mercati, i manager - con Marchionne il 95 per cento dei manager del nostro paese. Per finire con Romano Prodi, che per non mancare all'appello dell'Europa infine si schiera con un premier che pure critica. A proposito di Casta ed Elite, intorno a Matteo Renzi non manca nessuno. È uno schieramento imponente che probabilmente regalerà al Sì la vittoria. Ma aiuterà il paese a fare un passo avanti davvero, come si promette?

La vittoria del Sì darà sicuramente un premier più forte, ma non un paese più solido. Non solo perché la battaglia prima delle urne è stata lacerante, ma soprattutto perché una vittoria ottenuta sulla paura e sulle forzature, come si diceva, aggrava la distanza fra classi dirigenti ed elettori. La vittoria del Sì assicurerà dunque un Renzi più forte, ma non una maggiore stabilità. È questo il "meraviglioso" paradosso che spiega come mai la formula non abbia finora funzionato, in nessun paese dove è stata applicata.

C'è bisogno invece di fermare questa deriva, risettare le priorità e riportare l'Italia a una discussione seria, partecipata, e comunemente accettata, sul suo futuro.

C'è bisogno di un segnale che, accendendosi, indichi che un limite non può essere superato. Questo segnale è solo il No.

Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/voto-no-per-ridare-voce-agli-italiani_b_13378350.html?1480712356&utm_hp_ref=italy


Titolo: Lucia ANNUNZIATA. La nemesi del complotto
Inserito da: Arlecchino - Marzo 06, 2017, 04:13:21 pm
La nemesi del complotto
Lucia ANNUNZIATA

Pubblicato: 04/03/2017 21:11 CET Aggiornato: 05/03/2017 19:17 CET MATTEO RENZI

Matteo Renzi è arrivato al punto in cui un politico non dovrebbe mai arrivare: il "Ci vogliono far fuori", il "disegno evidente", il "non ci faremo processare dai giornali". Parole pronunciate nel corso della intervista a Lilli Gruber. Al netto della mia parzialità dovuta all'apparentamento dell'Huffington Post con l'Espresso e con l'intero Gruppo Espresso chiamato in causa da Renzi nella persona del suo editore, se questa è la linea con cui l'ex premier va al "contrattacco" è piuttosto fragile.

C'è intanto qualcosa di triste nel vedere un politico così giovane arrivare così presto a un classico della vecchia politica. Meglio: un classico dell'invecchiamento in politica. Non c'è mai stato infatti segno migliore del concludersi di un ciclo personale e di partito della famosa spiegazione dell'altro da sé.

La caduta di Andreotti spiegata con la vicenda dell'Achille Lauro, il capolavoro di Bettino Craxi che della sua caduta fece una riscrittura della Storia, seguito con passo di danza pochi anni dopo da Silvio Berlusconi che trasformò in uno status quello del perseguitato politico. La tentazione di evocare le forze oscure che tramano contro le forze sane , è in verità una via d'uscita popolare in ogni stagione e dentro l'intero arco costituzionale - la paranoia dei due anni di D'Alema a Palazzo Chigi, il sospetto permanente del Professor Prodi nei confronti dei suoi alleati interni, la Guerra intorno ai 101, la rielezione di Napolitano e quella successive di Mattarella; fino ad arrivare alla denuncia delle oscure resistenze come forma suprema dell'analisi della quotidianità dentro il Movimento Cinque Stelle.

Il punto è che ogni volta che un politico o una forza politica arriva a denunciare questo passaggio, sta in realtà - la storia lo prova - affrontando una sconfitta. È quello che capita anche all'ex Premier. Ma nel suo caso l'adozione di questa linea di difesa è talmente lontana da tutto quello che ha fatto finora da essere essa stessa una indicazione.

Matteo Renzi si ritrova ad operare oggi in una situazione completamente diversa da quella cui è stato fin qui abituato. Un habitat nuovo della sconfitta, peggiorato anche rispetto a quello del dopo-referendum.

La strategia del ritorno di Renzi dopo il 4 dicembre è pavimentata di molte buone intuizioni rivelatesi storte. La soluzione muscolare della divisione interna al Pd si è ribaltata su sé stessa: usciti i dem, infatti, la frattura politica interna si è riaperta di nuovo, come il terremoto di questi mesi che continua a trasferirsi a faglie limitrofe. A riprova, in Umbria come nel Pd, della fragilità complessiva del territorio.

Il risentimento, la diffidenza reciproca nati in questi anni, stanno ora erompendo attraverso le denunce reciproche di brogli, di tesseramenti gonfiati, di accordi spiacevoli fra capibastone. Un clima che, privo della permanente frizione dei D'Alema, Speranza, e Bersani, si rivela oggi molto più violento di quando di poteva attribuire a un nemico interno.

A riprova di quanto difficile e arbitrario sia stato il percorso del Pd renziano, fra cambi di casacche interne, alleanze spurie fra posizioni fra loro inconciliabili, scandali di voti alle ultime due primarie. Complicazioni e rotture di una organizzazione che, sbandando come un toro ferito, negli ultimi anni, anche prima di Renzi, aveva già fregato Bersani, poi Letta, poi la Presidenza Prodi, e che ora arriva, ultimo nella fila, a fregare anche Renzi.

La volatilità e la non trasparenza della vicenda interna del Pd è la prova che l'ex segretario in realtà non controlla il suo partito. E anche se questa ingovernabilità è stata sepolta dalla scissione, rimane il suo tallone d'Achille È abbastanza evidente a tutti infatti che, in queste condizioni e qualunque ne sarà il risultato, le primarie nascono contestate, e Renzi rischia persino di perderle.

La vicenda giudiziaria che coinvolge il padre aggiunge un secondo effetto deflagrante. Al di là del risultato finale dell'inchiesta, rivela, come è stato bene scritto da altri in questi giorni, una idea di potere. È l'idea che Matteo Renzi ha tanto lavorato per affermare: un unico motore che sia capace di gestire tutto lo Stato. Una scelta che i renziani hanno sempre rivendicato come garanzia della loro possibilità di cambiamento. La reazione delle forze della "conservazione" contro questa loro ambizione al nuovo è il nemico oscuro che sostengono voglia ora farli fuori.

Ma la verità politica della vicenda giudiziaria, al netto di qualunque verdetto futuro, contiene fin da ora una lezione politica: questo potere così accentrato è stato però anche così disattento. Renzi è colto in questa vicenda nella più vecchia delle trame del mondo politico, il familismo. E si difende da queste vecchie trame con il più vecchio degli argomenti del mondo politico.

Primarie contese, perdita di credibilità personale, possibile sconfitta elettorale alle amministrative di giugno, una turbolenza che si estende al governo. È una combinazione di elementi che ci presenta un panorama inimmaginabile fino a pochi mesi fa: il possibile collasso del sistema legato al Pd.

Ma l'ex segretario non sa o non vuole cogliere questo sviluppo. Il coraggioso ragazzo di Firenze arrivato a Roma sfondando le porte, si rifugia oggi nella denuncia di "un chiaro disegno" contro di lui. C'è una nemesi e, come si diceva, una tristezza in questa trama.

Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/la-nemesi-del-complotto_b_15157870.html?1488658298&utm_hp_ref=italy


Titolo: Lucia Annunziata. Collassa il sistema ma si salvano i suoi capi
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 14, 2017, 12:37:31 pm
IL BLOG
Collassa il sistema ma si salvano i suoi capi
Con una discutibile manovra istituzionale un pugno di leader è riuscito a mandare all'ammasso tutti, eccetto sé stessi

12/10/2017 23:14 CEST | Aggiornato 13/10/2017 08:27 CEST

Lucia Annunziata Direttore, Huffpost Italia

Legislatura anomala, votata sotto i colpi di una totale rivolta contro il sistema, tra vaffa lanciati come pietre e rottamazioni imbracciate come clava; continuata nel segno dell'evaporazione delle frontiere (fra idee e partiti) e dell'assottigliarsi delle regole; insomma la XVII legislatura della Repubblica italiana che ha avuto inizio venerdì 15 marzo 2013 è di fatto finita oggi, coerentemente con il suo inizio: con un'ennesima lacerazione.

La legge elettorale è stata approvata alla Camera con ricorso alla fiducia, superando il passaggio più difficile. Il voto è avvenuto alla vigilia del decennale del Pd, festeggiato senza (fra gli altri) Romano Prodi, che è stato presidente del Comitato nazionale per il Partito democratico, e poi presidente dell'Assemblea costituente nazionale del partito.

Divina dissonanza, o meravigliosa coincidenza: in fondo la battaglia intorno e dentro il Pd è stata la storia che ha percorso tutta la legislatura, e il suo cambio di pelle è stato davvero il segnale di un cambiamento dei tempi.

L'approvazione di una legge elettorale in queste circostanze prepara una campagna elettorale avvelenata. Ci sono pochi dubbi infatti che, qualunque sia il giudizio che si vuol dare di questa mossa – e il mio è negativo – il ricorso alla fiducia per l'approvazione delle leggi elettorali è un evento eccezionale, avvenuto solo quattro volte nella storia repubblicana. Due di queste quattro sono avvenute in questa legislatura: un altro indicatore, se ce n'era bisogno, che questa è stata una legislatura fra le più instabili.

È in questa identità malata del Parlamento, nell'estrema crisi di questa istituzione, che va cercata oggi l'origine e la ragione del passo finale di queste ore.

Intanto, dal 2013, abbiamo contato tre premier non eletti: Letta, Renzi , Gentiloni – più Bersani che ha vinto il voto ma non ha avuto incarico.

Uno scollamento fra voto e rappresentanza potremmo dire di tripla potenza. Distanza poi riflessa dal collasso anche della stabilità parlamentare, a causa di un numero di cambi di casacca senza precedenti. Al Senato i cambi sono arrivati a 231, portati a termine da 136 senatori – cioè il 42,50% dell'Aula. Alla Camera i cambi di gruppo a oggi sono 297, e hanno coinvolto 203 deputati, cioè il 32,22%. I due rami hanno totalizzato 528 cambi di gruppo da inizio legislatura, con 339 parlamentari transfughi: il 35,68% del totale. Un continuo tremore di poltrone, anticipazione e segno a sua volta di un cambio di identità dei partiti stessi.

Le entrate e uscite dalle varie case politiche raccontano infatti molto bene il cambiamento di pelle dei partiti.

Alla Camera, i gruppi che registrano un saldo ingressi-uscite positivo sono il Misto (+20) con 85 parlamentari "conquistati" e 65 "persi" e Alternativa popolare (+27) con 38 nuovi ingressi e 11 uscite. Record negativo a Forza Italia (-46) con 52 perdite contro 6 ingressi. Non va meglio neppure per M5S e Pd, che perdono rispettivamente 21 e 33 deputati. Stessi trend al Senato, dove è FI a perdere più senatori (53) ed è il gruppo Misto a guadagnarne di più (46). E tuttavia questi stessi trend sono suscettibili a ulteriori cambiamenti: si segnala infatti in corso una nuova tendenza al ritorno verso Forza Italia, ora che il partito è tornato un player nazionale.

Non sorprende che per governare una tale confusa identità collettiva, la fiducia sia stata usata in maniera muscolare: 98 volte dai 3 governi.

Invocata per ben il 51% delle leggi dal governo Gentiloni: incluso il voto per il Rosatellum, vi ha fatto ricorso 22 volte. Il precedente esecutivo Renzi ha usato 66 voti di fiducia, cioè per il 26% delle leggi approvate. Letta ha usato la fiducia 10 volte, per il 27% delle leggi passate.

Tutti questi numeri portano a una conclusione ovvia: la fiducia sulla legge elettorale che chiude la porta su questa legislatura è una scelta che è quasi un'abitudine. Frutto degli sconquassi, e delle forzature, degli assalti e della delegittimazione del Parlamento. È una scelta che svela la fragilità che ha percorso l'intero assetto di questo ultimo quinquennio politico – una storia di questo periodo molto diversa dalle retoriche ufficiali.

Ma non solo di questo si tratta. La fretta di approvare la legge nasce da una fragilità ma ha uno scopo chiaro: aggirare questa incertezza per affermare un meccanismo di autodifesa degli assetti di sistema.

Il Rosatellum infatti conferma la solita dote che tutte le ultime leggi elettorali hanno conferito ai leader politici: quella di designare, attraverso i nominati, un nuovo Parlamento a propria immagine e somiglianza. In altre parole, grazie alla fiducia, in fretta e in sicurezza, si sono garantiti la sopravvivenza Renzi, Salvini, Berlusconi, Verdini, Alfano – mentre al macero andranno tutti gli altri.

In sintesi, alla sua fine, la legislatura XVII può dire di aver ottenuto il collasso del sistema – ma non dei capi di questo sistema stesso, che, con una discutibile manovra istituzionale sono riusciti a mandare all'ammasso tutti, eccetto sé stessi.

Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/collassa-il-sistema-ma-si-salvano-i-suoi-capi_a_23241747/?utm_hp_ref=it-homepage


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - In Sicilia muore il Nazareno
Inserito da: Arlecchino - Novembre 07, 2017, 11:50:44 am
IL BLOG

In Sicilia muore il Nazareno

06/11/2017 19:43 CET | Aggiornato 3 ore fa
Lucia Annunziata Direttore, Huffpost Italia

Se la Sicilia è, davvero, il laboratorio di cui tanto si parla, il suo voto ci dice che la grande coalizione, il Nazareno, o come volete chiamarla, insomma l'accordone fra la destra e il Pd è stato ucciso prima ancora di nascere nelle urne della Trinacria.

La forma, i modi e i numeri della vittoria del centrodestra dell'Isola, letti insieme a quelli del disastro Pd provano infatti che Renzi potrebbe essere parte di una grande coalizione con Silvio solo come junior partner: una posizione definitivamente impossibile da accettare da parte del segretario del Pd, o da chiunque altro nei suoi panni.

Guardiamo ai numeri. Nel centrodestra ci sono stati tre canali di raccolta del voto. Vince col 16 per cento Silvio Berlusconi – prova di una imperitura fedeltà di una parte dell'elettorale italiano a questo leader, che viene messo da questo risultato in una posizione indiscussa a capo della sua area. Il numero che salda la vittoria del centrodestra viene dunque dalla lista Musumeci che prende il 7 per cento dei favori degli elettori. Buona parte di questo consenso viene dal serbatoio di Fratelli d'Italia - come è naturale che fosse visto che si tratta dopotutto della stessa farina. Non sono esaltanti i risultati di Meloni e Salvini, a cavallo della soglia del 5 per cento per entrare nel Consiglio Regionale, anche se il valore di questo risultato per Fratelli d'Italia è che si fonde con quello di Musumeci che viene dalla stessa area. Quel 5 per cento rimane però la prova che la seduzione sovranista, o antisistema che sia, agitata dai due partiti, non parla molto alla base del centrodestra, almeno al Sud. Né fa meraviglia questa freddezza. L'Isola che ha un Statuto speciale, ha 5 volte il numero di impiegati pubblici della Regione Lombardia, e trattiene il 100 per cento delle proprie tasse, non è esattamente il terreno più fertile per spinte radicali antistatali o antieuropee.

La lettura finale di questi dati è che il centrodestra che ha vinto in Sicilia si presenta oggi sulla scena politica in una versione in parte inedita. È un blocco abbastanza compatto, a dispetto di quel che si diceva prima del voto, quando inquietava la tenuta della coalizione; ma questa compattezza trovata assorbendo voti della Lega e di Fratelli d'Italia dà al blocco moderato che la compone una inclinazione molto conservatrice, una forte venatura identitaria.

Anche i 5 Stelle escono dal voto con una sorte di nuova pelle. Hanno perso, ma sono il primo partito perché il loro voto è quasi duplicato, e questo grazie alla grande attrazione che hanno esercitato sul voto della sinistra: il centrosinistra perde 10 punti ma, anche se la misura non è sicura, ne guadagna otto Cancelleri.

Il Pd si ritrova a questo punto in una situazione in cui con i suoi voti non è più centrale né numericamente né culturalmente nell'eventuale schema del Nazareno. La coalizione permette infatti una quasi autosufficienza al centrodestra e la sua caratura ideologica moderata, ma spostata a destra, non include i moderati del Pd. L'unico ruolo possibile al Partito democratico potrebbe esser quello del junior partner, appunto; una sorta di appoggio esterno/interno a un governo di centrodestra. Un suicidio per Renzi che nella sua vita politica ha saputo fare spesso patti, ma non è mai stato incline ad accettare condizioni di servitù.

Insomma, la Sicilia doveva ristabilire per il futuro dell'Italia uno schema binario: Governo di Grande coalizione nazarenica, con il movimento pentastellato tenuto finalmente fuori. La debacle del Pd, che di fatto diventa irrilevante con il suo serbatoio di voti, ci riconsegna al solito schema che ha dannato la politica di questi ultimi cinque anni: il tripartito di fatto.

Se dovessimo oggi guardare al futuro politico dell'Italia attraverso la lente siciliana, in Italia nel prossimo futuro si potrebbe materializzare un governo di centrodestra, solido a sufficienza da garantirsi la possibilità di governare – magari con apertura ad alcuni apporti "tecnici". All'opposizione ci sarebbe M5S che a quel punto però dovrebbe prendere marcatamente le distanze dalla sua componente interna di destra. E un Pd, esso stesso all'opposizione del centrodestra. Con la conseguenza che fra M5S e Pd si eserciterà una nuova competizione – sull'unico possibile terreno di opposizione: l'attacco al sistema. Scenario che del resto si è già materializzato in questi ultimi mesi, su molte proposte di legge e sociali incrociatesi fra Pd e pentastellati. Con una piccola, ma non insignificante, inversione di ruoli. Il Pd che finora era al governo, in questa ipotesi, è il terzo partito, diventando la ruota di scorta di una opposizione alla destra in cui M5S fa la parte del leone.

Tutto questo, ovviamente, come si diceva, a patto che la Sicilia sia un laboratorio nazionale. E probabilmente non è così. Troppe unicità nell'Isola e troppe eccezioni di capibastone, flussi elettorali, e leggi amministrative. Ma le suggestioni che rilasciano nell'aria alla loro aperture queste urne siciliane, non sanno, comunque, esattamente, di zagare. Per il Pd in particolare.

Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/in-sicilia-muore-il-nazareno_a_23268399/?ref=RHPPLF-BL-I0-C8-P1-S1.8-L


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Le illusioni dei partitini svaniscono
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 09, 2017, 12:52:04 pm
Le illusioni dei partitini svaniscono

Pubblicato il 08/12/2017

LUCIA ANNUNZIATA

Meno male. Diciamocelo: la fine di un po’ di liste minori, un po’ di addii al futuro politico, lo sciogliersi e il formarsi ancora prima di entrare in azione di micro-coalizioni intorno al Pd, provoca – almeno nel mio cuore di elettore – una celebrazione. Capisco che il fallimento delle ambizioni di un progetto politico, di lista o personale, è in una democrazia un fallimento, sempre. Ma sempre davvero? 

In questa spietata vigilia elettorale stiamo assistendo a un ciclo di eventi che, a memoria dei più giovani, non si vedeva da anni. Dopo aver navigato sotto le vele sicure di un ferreo bipolarismo, introdotto in Italia a furor di popolo nel 1994, il sistema politico – modificato di nuovo a furor di popolo nel tripolarismo a sorpresa uscito dalle urne del 2012, con la affermazione di un terzo partito, il M5S – si è infine spappolato tornando al buon vecchio schema del proporzionale. Il che significa, per chi non ricordasse il passato, che ogni uomo vale un partito e ogni partito può ambire ad essere determinante nella formazione di un governo. 
 
Il massimo della democrazia, appunto. Anni di Prima e Seconda Repubblica ci hanno insegnato che governi senza salde coalizioni e chiari progetti possono essere una giostra irrefrenabile, e che a volte persino nel sistema bipolare più solido, le grandi coalizioni senza programmi consolidati hanno i piedi d’argilla. Come non confessare dunque che la crescita esponenziale di micropartiti, microsigle e microambizioni individuali nelle passate settimane non è mai stata, ai miei occhi, una espressione di superiore democrazia, tantomeno di rassicurazione? 
 
Per cui, lo ripeto: meno male che è finita come sta finendo. La caduta di accordi, il ritiro dalla scena di leader politici come Pisapia ed Alfano, e ora l’incertezza di quel che resta va vista come una salutare presa d’atto, un bagno di realismo, che per la prima volta da parecchi mesi reintroduce la realtà al posto dei sogni. Quello che viene visto da molti come un «fallimento», di individui e di ipotesi politiche, è nei fatti una grande e molto necessaria pulizia. Che ci fa intravedere qualche barlume di verità. 
 
La crisi infatti riguarda un panorama di illusioni, un racconto di macchine che in realtà non avevano motore. Giuliano Pisapia è un uomo che è sempre stato un leader riluttante e un politico luterano – negli anni ricordiamo la certezza con cui nonostante il dispiacere abbia preso posizioni scomodissime, rispetto alla sua area di appartenenza, come quella garantista. A Milano aveva funzionato perché la istituzione eminentemente monocratica del sindaco lo ha messo in grado di esercitare il suo ruolo senza venire a compromessi con sé stesso e le sue idee – a cominciare da piccole grandi scelte come quella del non accesso al centro città. Non poteva assolutamente sopravvivere in una condizione in cui le alleanze sono fluide e il programma secondario rispetto alla necessità di trovare numeri elettorali. Ha fatto bene ad andare via dunque, e a lui va il ringraziamento degli elettori per il chiarimento che la sua scelta introduce. 
 
Uguale merito condivide Angelino Alfano, un uomo che è stato fino a pochi giorni fa la nemesi di Pisapia, una delle ragioni della impossibilità a mettersi in una coalizione con il Pd. Anche Angelino, esatto opposto di Pisapia nel percorso e nella opinione popolare, Angelino morbido, accomodante nelle scelte, pronto a farsi, come dicono al Sud, concavo e convesso, anche questo Angelino ha detto addio con una frase bellissima per un politico «mi cercherò un lavoro». Alle orecchie dell’elettore attuale, questa frase è un intero programma. Un altro grande chiarimento. 
 
Restano le sorti di quelli che rimangono – tutti con mal di pancia. I radicali ed europeisti, scontenti della politica del Pd sull’immigrazione; i membri del partito di Alfano, da Lorenzin a Lupi, essi stessi divisi su quale parte scegliere; e i moderati ancora in attività come Casini. Mentre a sinistra si battono colpi in tutte le direzioni: cosa farà il presidente Boldrini ci si chiede? E ci sarà un qualche pezzo di sinistra a sinistra che rimane intorno al Pd? E alla sinistra intorno a Liberi e Uguali, si aggregheranno alcuni di questi pezzi di moderati? Domande che, nel grande quadro del voto, sono quasi irrilevanti nella loro dimensione. Mi piacerebbe, anche, qui, ricordare che se anche il disastro che descriviamo va dal centro a sinistra, il panorama che si disegna dal centro alla destra non è meno fluido. Le inquietudini di Salvini, la rimonta dei favori dei camerati neri, la moderazione di Silvio a malapena tenuti insieme da una qualche certezza di poter vincere uniti.
 
La liquefazione dei partiti è in effetti un dato strutturale delle nostre democrazie: nei passati cinque anni si sono dissolti i parametri e le macchine di funzionamento di tutte le nazioni europee – la Germania e l’Inghilterra esempi massimi di quanto in alto è arrivato lo tsunami – e degli Usa. Rispondere a questo orizzonte di crisi con tentativi superficiali, operazioni politiche rabberciate senza programmi e idee, sarebbe come curare una ferita d’arma da fuoco con un cerotto. 
 
Per questo è giusto dire che i fallimenti anticipati di cui siamo testimoni sono un bene per tutti – politici ed elettori. Ripuliscono l’orizzonte e rimettono la verità al centro della scena. Dunque, è ora rimasto solo Matteo Renzi, come tutti scrivono in queste ore? La risposta è no. Questo processo di chiarimento è anche per lui un’operazione verità. E’ la prova di quanto diverso sia diventato il Pd ricostruito da lui in questi anni; così diverso da non poter più coalizzare una parte di moderati e di sinistra che prima si riconosceva nel Pd. 
 
Accettare questo dato di fatto non costituisce per Renzi né fallimento, né solitudine. Al contrario, è per lui una incredibile opportunità per far progredire il suo progetto – che, dopotutto, si chiama «un uomo solo al comando». 
 
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Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Tutti in corsa per i voti dei moderati
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 29, 2017, 11:37:06 pm
Tutti in corsa per i voti dei moderati

Pubblicato il 28/12/2017

LUCIA ANNUNZIATA

Il convitato di pietra della prossima campagna elettorale non è un’idea, ma uno stato d’animo: il malcontento. Chi più riuscirà a rappresentarlo, o a sanarlo, sarà il vincitore, si dice. Come mai allora ovunque si guardi, a destra come a sinistra, tutte le forze politiche lanciano messaggi mirati soprattutto ad ottenere i consensi dell’area moderata? 

In primissima fila ai blocchi di partenza, non a caso spicca la figura di Silvio Berlusconi, l’unico leader che ha attraversato (quasi) intatto il ventennio. E’ nella sua versione proporzionale, ma fa da perno all’unica coalizione che può raggiungere una maggioranza. Silvio e il partito che guida da sempre sono entrambi ridotti nelle forze: Silvio ha venti anni in più, ha varcato gli ottanta, e Forza Italia quasi venti punti in meno rispetto ai fasti del passato. Ma entrambi sono, in questa loro semplice resistenza all’usura, diventati la prova materiale (e psicologica) che non tutto cade, o si deteriora. Questo atto di sopravvivenza, in tempi che hanno consumato ideologie, idee, partiti e reputazioni, vale da solo un programma politico. Curiosamente, infatti, il Silvio che oggi torna a raccogliere consensi indossa abiti totalmente diversi da quelli del primo Silvio.

La discesa in campo nel 1994 fu un atto di sfida, la promessa/minaccia di un Prometeo che voleva riscrivere il panorama della politica italiana – e ci riuscì, rompendo il panorama tardo post-guerra-fredda che durava in Italia da troppo tempo. Il sistema dell’epoca non lo amò molto – come poi si è visto. Ma non è stato alla fine cancellato. E oggi torna come la nemesi di sé stesso: Silvio oggi è leader rassicurante (per la sua stessa durata). Promette tranquillità, continuità, non si è fatto attrarre da sovranismi, da guerre contro l’Europa, ma nemmeno dalla favola del populismo che accontenta tutti gli altri leader a destra. Il re dei moderati, insomma.

E qui incontriamo Matteo Salvini, erede ma solo per via formale, di quella Lega con cui Silvio ha costruito in passato le sue fortune. Passato il tempo in cui la sua attività politica sconfinava nel goliardismo, con provocazioni più atte ad attirare l’attenzione mediatica che a costruire un partito, Salvini guida una Lega che del passato ha perso persino il nome Nord con cui si identificava. La Lega è sempre forte lì dove è nata e governa, il Veneto e la Lombardia, ma a Salvini è sempre stata stretta questa regionalissima identità – le patrie locali un po’ lo fanno soffocare, si ha l’impressione. Da quando ha mosso i suoi primi passi, molti di questi passi hanno calcato suolo e suggestioni estere: la Russia di Putin, l’identitarismo dei francesi lepenisti, l’ironia separatista inglese di Farage, e l’America di Trump. Salvini ama i grandi temi, e ne ha trovato uno perfetto alla fine: il rifiuto dell’immigrazione come grande collettore di ogni suggestione identitaria, bianca, e indipendentista. 

 Ovviamente a Salvini è rimasto il gusto di scuotere, e dunque di spararle grosse – ma alla fin fine in questa vigilia elettorale le parole più gravi le ha già messe nell’armadio – di rompere con l’Europa non si parla molto, e di campagne contro i migranti non si sente tanto. Del resto Salvini ha davanti una partita ben più grande: quella di declinare il malcontento in chiave tale da attirare anche una parte dei moderati di destra

che sta oggi con Berlusconi. E questo sì che sarebbe un colpo: come va ripetendo da un po’, «se batto Silvio anche di un solo voto faccio il premier». 

Il Principe dello «scontento» è per ora, comunque, il più giovane dei politici che calcherà la scena elettorale. Luigi Di Maio è il candidato premier del movimento che ha per primo intercettato e aiutato a coagulare lo scontento in forza politica. Sono stati i pentastellati il maglio che ha spaccato la struttura (già esanime) della Seconda Repubblica. Il loro programma appare dunque, fin da questo inizio, quello destinato al maggior successo. Le cifre dei poll gli danno numeri da primo partito. Alla lettura dei quali sorge tuttavia una domanda: ma perché un movimento dedito ad aprire il sistema «come una scatoletta da tonno», presenta come proprio candidato a Palazzo Chigi Luigi Di Maio, giovane con abiti ed abitudini, nonché idee molto istituzionali, o magari meglio ancora dire moderate? 

Il punto di caduta per i pentastellati nella campagna elettorale è dunque, un po’ come per la Lega, il giusto equilibrio che saprà trovare fra scontento e moderazione: dopotutto, una cosa è aizzare con i «vaffa», altro è governare. 

L’area moderata, chiamata riformista e moderna, è dichiaratamente anche il bersaglio di Matteo Renzi in questa che sarà la sua prima campagna elettorale nazionale: come ricorderete l’ex premier è riuscito ad arrivare a Palazzo Chigi prima che in Parlamento. L’idea con cui si è presentato in politica è quintessenzialmente moderata – rompere con il passato ideologico della sinistra tradizionale. A questa idea ha sacrificato molto. Ha subito la sconfitta del referendum, ha perso Palazzo Chigi ed ha rotto (o ha subito la rottura, come preferite) un partito forte e di lunga tradizione quale il Pd. 

Ora che c’è un nuovo Pd renziano, è l’ora per Matteo Renzi di mettere alla prova davvero la sua capacità di attrazione nonché la sua capacità di formare il destino della nazione. Sullo stesso banco di prova anche per lui: l’area moderata. Direttamente, prendendone i voti. O indirettamente, magari, come tutto lascia pensare dalle scelte del Pd, in una grande coalizione fra le forze di Berlusconi e quelle di Renzi. Che sarebbe poi la creazione di un grande fronte moderato al centro. 

Le forze radicali sono invece quasi tutte raccolte intorno a nuclei minori. Liberi e Uguali, movimento dei fuoriusciti dal Pd non pare goda al momento di grandi favori elettorali. In ogni caso, la nuova formazione ha scelto come guida un ex magistrato, una figura superistituzionale come l’ex presidente del Senato Grasso. Cos’è questa scelta se non una forma di rassicurazione contro gli strappi per chi vota a sinistra? 

Moderati ovunque, insomma. Sotto la coltre pesante di scontento, appare la richiesta di non portare il Paese a sbattere. 

Ma se questa è la domanda segreta delle urne, va a finire che vero vantaggio nella campagna elettorale lo godrà il governo Gentiloni che ha chiuso le Camere ma non si è dimesso, e che, secondo molti auspici, potrebbe essere pronto a continuare anche dopo il voto. Dopotutto, è il governo che finora, poll alla mano, pare abbia più rassicurato il Paese. 

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Da - http://www.lastampa.it/2017/12/28/cultura/opinioni/editoriali/tutti-in-corsa-per-i-voti-dei-moderati-7TUEIiuiHS4zFLa9NgtqJJ/pagina.html


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - La strana coppia della rivolta
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 24, 2018, 11:36:23 pm
La strana coppia della rivolta

Pubblicato il 24/01/2018

LUCIA ANNUNZIATA

Abitano entrambi lo stesso spicchio di cielo politico, ed è solo naturale dunque che insieme agitino questo lembo di terra dove si svolgono le elezioni. 

Matteo Salvini e Luigi Di Maio sono i giovin signori del malpancismo e della rivolta. I leader dello scontento e della estraneità alle istituzioni. Insieme sono finiti nella lista nera del populismo - quando l’Europa pronuncia moniti all’Italia sul rischio della instabilità di governo è a loro che pensa; quando i mercati fanno sapere che la ripresa c’è, ma potrebbe essere messa a rischio dal risultato delle urne, è ai due che è indirizzato l’avvertimento. Una vicinanza, la loro, che può far immaginare sviluppi ancora più pericolosi. Nella incertezza della vigilia elettorale, in effetti, la più semplice soluzione alla impossibilità numerica di formare domani un governo sarebbe proprio la somma della Lega e dei Cinquestelle. Una alleanza fra Matteo Salvini e Luigi Di Maio potrebbe formare un governo di ferro che, in quanto a numeri, supererebbe la famosa quota di sicurezza del 40 per cento.

I due sanno molto bene il valore di una loro coalizione, e l’usano spregiudicatamente come uno dei migliori strumenti di pressione sulla opinione pubblica in questa campagna.

Inseguendosi e smentendosi, in un gioco a rimpiattino fatto di promesse e dinieghi, in modo da lasciare sempre un’ampia zona grigia da cui disimpegnarsi se necessario.

Tra la Lega e i Cinquestelle ci sono in effetti, aree di grande vicinanza. La più importante riguarda l’immigrazione, seguita dalla promessa di un drastico abbattimento delle tasse, e da un polemico rapporto con l’Europa. Tutti e tre gli obiettivi sono presentati con modi e linguaggi diversi: Luigi Di Maio, che in queste elezioni lavora soprattutto a vestire il manto della credibilità, parla forbito di «taxi del mare» quando si discute di accesso troppo libero delle nostre coste, e propone «una separazione immediata», già all’arrivo, fra coloro che hanno diritto di restare e coloro che non ne hanno, per procedere poi all’immediato rimpatrio. Al netto della difficoltà di decidere con velocità su temi così complessi come il diritto di asilo, il rimpatrio di massa e immediato è certamente il comune denominatore fra Movimento Pentastellato e Lega, anche se Matteo Salvini parla di espulsione senza peli sulla lingua.

Anche sulle tasse i due leader hanno uguali desideri, ma coniugazioni diverse. Di Maio entra nel merito, chiedendo abbattimento per le piccole imprese e per gli strati più poveri, ma attento a lasciare ampio spazio al rimprovero agli evasori e ai ricchi, con toni che fanno immaginare in un futuro persino una possibile patrimoniale. Salvini invece ha scelto la strada più semplice: la tassa unica, la flat tax, slogan popolare, semplice e mobilitante. 

Sulla collocazione dell’Italia nelle relazioni con il resto del mondo Lega e M5S vanno invece davvero di pari passo: sono contro l’Europa che ha affamato con i suoi burocrati i nostri Paesi, amano Putin, e adesso, grazie a un giro perfetto della storia, anche Trump. 

Alla fine, a scriverne così, la competizione fra queste due figure si rivela quasi sovrapposizione. I due in fondo lavorano sullo stesso segmento e gli stessi sentimenti di popolo. 

L’alleanza appare dunque inevitabile. Se non fosse che nelle campagna elettorali val la regola che tutto è un gioco di specchi. E, anche nel caso di cui si parla, le assonanze paiono un fatto verbale, un tono, uno spartito musicale più che proposte comuni. Al di sotto dei toni ribelli e al di sopra delle affermazioni eccessive, la Lega e M5S hanno un rapporto con il potere molto diverso. E questa è una differenza essenziale. 

La Lega non è affatto un partito contrario al governare. Fin dalla sua comparsa sulla scena politica si pose come il protagonista di una profonda rivoluzione sociale - indipendenza del Nord dalla Capitale, dunque rifondazione dello Stato - attuata attraverso la conquista del governo. Questo desiderio si rivelò così forte da prestarsi a spericolate manovra pur di arrivare a partecipare al processo decisionale - il ribaltone con cui nel 1996 Bossi abbandonò Berlusconi per dare la vittoria alla sinistra guidata da Prodi è uno degli esempi (mai dimenticati). Del resto la Lega ha sempre voluto il governo delle Regioni e da decenni ne è una forza decisiva. Al di là dei toni, la Lega non è dunque un partito anti-istituzioni.

I pentastellati nascono invece all’ombra della critica alle istituzioni, nutrita da sospetti, complottismi e letture economico/sociali venate di paranoia. I pentastellati sono i figli del dubbio sull’11 Settembre, del sospetto delle élite nato nelle pieghe del globalismo feroce, dello sbandamento indotto dalla rapida rivoluzione tecnologica e la combinata crisi sociale. I pentastellati sono entrati in campo per demistificare, svelare, e insomma «aprire come una scatoletta di tonno» le istituzioni che governano. 

Insomma, la Lega vuole governare per difendere indipendenza territoriale, nazionalismo o piccole patrie, come si preferisce. Ha solo bisogno di avere alleati che rispettino questi punti del suo programma, sul resto può trattare. 

Anche i pentastellati vogliono governare - specie ora che si avviano ad essere il primo partito - ma devono poter «giustificare» la loro scelta di guidare il Paese senza essere accusati di essersi svenduti, presso la loro base sociale. Dunque non possono allearsi con nessuna delle forze politiche tradizionali, e devono dimostrare di stare nelle istituzioni differentemente da chiunque altro ci sia stato prima.

Questa differenza fra leghisti e M5S è l’unica vera, sostanziale. Per forma forse ancora prima che per contenuti, non riconciliabile. I due uomini antisistema, i cui discorsi e percorsi oggi ogni tanto si incrociano, sono destinati dunque a non ritrovarsi alleati. Bensì in gara per la rappresentanza del malumore popolare, in una competizione infinita come quella dei «Duellanti» di Joseph Conrad. 

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Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Silvio mette in trappola i due vincitori
Inserito da: Arlecchino - Marzo 23, 2018, 05:49:48 pm
Silvio mette in trappola i due vincitori

Pubblicato il 23/03/2018

LUCIA ANNUNZIATA

Per diciannove giorni esatti, due uomini, Matteo Salvini e Luigi Di Maio, hanno girato l’Italia in lungo e in largo, in un tour della vittoria, raccontando a tutti di aver vinto le elezioni. Intessendo intorno a questo concetto un racconto fatto di emozioni («saremo sempre fedeli a chi ci ha scelto») e parole d’ordine («nulla sarà come prima») che ha rapito anche le migliori menti nella seduzione di una idea - l’inevitabilità di un governo Lega-M5S, dannazione, disperazione, entusiasmo, come preferite, in Europa, in Usa, in Russia.

Ma, come nelle favole, a 24 ore dall’inizio della prima scelta che avvia la strada per formare un esecutivo, tutto svanisce, e i due uomini, Salvini e Di Maio, come la ragazza che porta la ricottina al mercato, scoprono che la vittoria nelle urne è stata solo un rapido sguardo riflesso in uno specchio. Avevano fatto un accordo che contentava entrambi: al primo la presidenza del Senato, al secondo la presidenza della Camera. Intesa viatico di un futuro accordo di governo.

 Salvo scoprire che per fare un governo ci vuole ben altro dei voti fin qui raccolti, e molto molto altro che una semplice somma numerica. È bastato che si rialzasse dal suo dispiacere il vecchio leone della politica italiana, per scompigliare ogni progetto. Nelle prime ore dopo i risultati sembrava morta, Forza Italia. Vergognosa, schiacciata dal sorpasso inflittogli dalla Lega. Poi, tre giorni fa l’arrivo a Roma di Silvio Berlusconi. 

A differenza degli altri leader che hanno solo partiti, il Cavaliere può contare anche su una poderosa macchina che ha costruito negli anni, e che, sebbene sminuita di peso, schiera un’ampia articolazione di ruoli e intelligenze, come Ghedini e Letta, giornali e televisioni, relazioni istituzionali e fedeltà consolidate. Fili sono stati tirati da questa macchina, progetti sono stati abbozzati. Discreti approcci, telefonate, amicizie riascoltate, una tela è stata sistemata, a Roma, per provare a rimettere l’esuberanza salviniana in un progetto logico. Un richiamo al realismo di un accordo: alla Lega l’incarico di governo, a Forza Italia la presidenza del Senato. Carica, quest’ultima da non sottovalutare, essendo la seconda dopo il Presidente, e la guida della più incerta delle ali del Parlamento, dove le maggioranze sono più ristrette e dunque più decisive. 

Come mai questo ovvio accordo fra alleati non fosse stato definito finora, è una domanda superflua. La matematica anche in politica è una scienza esatta: un Salvini in uscita dalla coalizione con Forza Italia, per fare un governo con i Cinquestelle sarebbe stato il leader di una forza politica del 18 per cento che si univa a una forza politica con il 33 per cento. Un progetto suicida per se stesso e per tutta la destra. 

L’accordo con i Cinquestelle era dunque, dopotutto, solo un po’ di scena, da parte di Salvini, per spingere la coalizione ad assicurargli l’incarico di fare il governo. 

E per rendere nullo ogni accordo fin qui fatto tra Lega e Pentastellati non è stato nemmeno necessario fare una telefonata o mandare una nota: per Di Maio una cosa è giocare con Salvini, altro è allearsi con Berlusconi. L’intesa che doveva sconvolgere l’Italia si è rivelata alla fine solo un classico «teatrino» politico. 

Potremmo persino felicitarci per questa lezione di realismo che scuote tutti ancora prima dell’insediamento del nuovo Parlamento. Se non fosse che ora sul tavolo non rimane uno straccio di idea su future maggioranze. Il Pd ex partito di governo oggi disorientato, diviso, è senza una strategia. Certo non gli sarà facile accodarsi a un centrodestra unito; d’altra parte non è nemmeno pronto a costruire un rapporto con l’acerrimo nemico M5S. In ogni caso, la lacerazione interna, dopo la sconfitta, lo tira su aree politiche opposte. 

Gli M5S che finora pensavano di poter giocare usando i due forni, la Lega e il Pd, magari mettendoli su piani di competizione, oggi si ritrovano a dover cambiare del tutto schema. 

Se il voto per le presidenze di Camera e Senato che inizia stamattina vedrà un centrodestra compatto sul nome di Romani, come è stato detto ieri sera dopo il vertice dei capigruppo, la destra sarà l’unica area con una strategia chiara. 

Se c’è un incrocio dove nei prossimi giorni ogni accordo sarà fatto o disfatto, questo è l’incrocio fra piazza Venezia e via del Plebiscito, dove si erge Palazzo Grazioli, da anni casa del Cavaliere.

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Da - http://www.lastampa.it/2018/03/23/cultura/opinioni/editoriali/silvio-mette-in-trappola-i-due-vincitori-D12vYIik5jSide3eyeEXxM/pagina.html


Titolo: L. ANNUNZIATA - Metodo Salvini Predicare al "fuori" della politica, riversando..
Inserito da: Arlecchino - Marzo 30, 2018, 04:50:43 pm
IL BLOG

Metodo Salvini

Predicare al "fuori" della politica, riversando poi il peso di questo voto di opinione sul "dentro" del circuito politico. Questa è la differenza tra populismo e politica

24/03/2018 20:14 CET | Aggiornato 27 minuti fa

Tempo di battezzare una nuova categoria della politica: il Salvinismo, cioè il metodo con cui Matteo S. sblocca le situazioni a suo favore. Un misto di forzatura, calcolo, imprevedibilità e azzardo – che ne ha fatto il protagonista di questo primo round post elettorale, la elezione dei Presidenti di Senato e Camera.

Il metodo, dunque.
Salvini si è trovato spinto dai risultati delle urne elettorali nella posizione scomoda che conosciamo: essere il primo partito, con il 18 per cento, in una coalizione del 37 per cento, ancora dominata dal prestigio e dalla macchina politico economica di Silvio Berlusconi, leader in calo di consensi, di freschezza anagrafica, ma non di ambizioni. Posizione quasi insostenibile - rimanere potrebbe significare essere messo a balia da Silvio, uscire significherebbe diventare il leader di un partitino del 18 per cento, con unica possibilità quella di diventare partner di un Cinque Stelle con il 33. Una cosa alla Fini, insomma, come gli è stato spesso ricordato.

Il Cavaliere, e il suo apparato, in queste prime due settimane dopo il voto, non hanno mancato di far sentire il proprio peso, ricordando la forza di Silvio, i suoi poteri. Richiamandolo insomma alla realtà. E proponendogli lo scambio fra il ruolo (al di là da venire) di rappresentante del centrodestra alle consultazioni (con un occhio all'incarico per formare il governo) e la Presidenza del Senato a un uomo di strettissima fiducia di Silvio, Paolo Romani, molto sgradito ai cinque stelle. Insomma lo scambio fra una leadership futura e l'oggi di una nomina, quella di Romani, sgradita ai Cinque Stelle, potenziali alleati di Salvini.

Un incrocio che solo 48 ore sembrava aver reso ancora più scomoda la posizione del leader leghista.

E qui rientriamo sul metodo Salvini.
Nelle categorie tradizionale della politica esiste la regola per cui la leadership di un'area politica, dopo un voto, la si consolida, stabilisci contatti, apri discussioni, proponi alleanze e piani. Entri insomma dentro le dinamiche di questa area, e provi a stabilizzarle a tuo favore.

Salvini invece ha fatto il contrario: ne è uscito fuori. Con dichiarazioni pubbliche ha ribaltato lo schema, rifiutando Romani, così da dare soddisfazione alle richieste M5s (e ottenerne i voti), e dando conto alla pubblica opinione di quello che faceva, con un indovinato refrain politico di fedeltà al centrodestra "Noi non chiediamo poltrone per noi: stiamo solo mettendo alla prova il M5S, che fin qui ha rifiutato Romani, e lavorando a raggiungere l'obiettivo che Berlusconi vuole, la presidenza del Senato a uno dei suoi". Una sorta di "disobbedire obbedendo", o viceversa.

Ci sono voluti, ovviamente, più passaggi per portare al termine l'operazione sui nomi finali ma l'operazione ha mantenuto il metodo: tutto in chiaro sotto le luci delle Tv e davanti ai taccuini dei giornalisti.

Che è, poi, il metodo praticato da Matteo fin dalla sua entrata in scena: rivolgersi, nel corso di una campagna politica permanente, al voto di opinione, predicare cioè al "fuori" della politica, riversando poi il peso di questo voto di opinione sul "dentro" del circuito politico.

Infatti, anche questa volta, dopo l'apertura delle urne è ripartito per una coda di tour elettorale, invece di sedersi a tavoli, o caminetti. Facendo montare il suo consenso pubblico, allargando il suo perimetro a vere e proprie trattative con i pentastellati mentre Silvio Berlusconi li attaccava. E quando gli accordi su chi votare alle presidenze si sono avviati, li ha virtualmente condotti tutti fuori dalle mura di Palazzo Grazioli.

Il risultato finale ha un doppio e forse triplo segno per tutti i protagonisti: Forza Italia ha avuto al Senato, come aveva chiesto, una berlusconiana di ferro, ma il Cavaliere ha subito un bel taglio di unghie. I Pentastellati, come volevano, hanno ottenuto la cancellazione di Romani e alla Camera hanno eletto Fico. Ma le prove d'amore di Salvini hanno avuto il caro prezzo di ridurli al traino di quel che succedeva dentro il centrodestra. Una sminuizione di ruolo.

Ovviamente, come sempre in politica, nel risultato finale c'è da valutare che prezzo futuro avrà per Salvini la disponibilità dei Pentastellati a seguirlo; e, va presa in considerazione la possibilità che Silvio Berlusconi più che ridimensionato, sia stato complice del percorso.

Qualunque sia il retroscena, oggi il leader leghista può dire di aver guadagnato per sè e per la sua coalizione la posizione migliore per l'incarico al centrodestra, quando inizieranno le consultazioni.

Dimostrando, anche, che il centro destra è oggi l'area, e l'arena dentro cui si stanno decidendo i giochi. che la partita delle leadership tra Lega e Forza Italia è il motore che può sbloccare una situazione di governo, per ora inchiodata. E, infine, che il cosiddetto metodo Salvini altro non è che la differenza tra il populismo e la politica.

Da - https://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/metodo-salvini_a_23394427/?utm_hp_ref=it-homepage


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Di Maio come Zuckerberg
Inserito da: Arlecchino - Aprile 13, 2018, 04:11:19 pm
IL BLOG

12/04/2018 22:59 CEST | Aggiornato 2 ore fa

Di Maio come Zuckerberg
Il leader M5s, Salvini, Berlusconi, il Pd: a sei settimane dal voto possiamo dire che un giro vero di vincitori e vinti cominciamo a vederlo.

Lucia Annunziata Direttore, Huffpost Italia

Livido, deluso e arrogante. Il gran fallimento della seconda giornata di consultazioni ci svela il vero volto di Di Maio. Spettacolo ultraterreno vedere quel viso levigato, impassibile sotto ogni pressione, quella fronte senza mai una ruga di fatica, cedere sotto la umanissima mazzata della delusione. Sembra un po' di rivedere la stessa trasformazione che ha attraversato poche ore prima, oltreoceano, un altro trentenne di successo, Mark Zuckerberg, la cui immacolata immagine di sicurezza si è sciolta nelle gocce di sudore che hanno alla fine invaso la sua implacabile fronte, sotto lo sgarbato interrogatorio del Congresso americano.

Capita ai giovani leader quando escono dal terreno di sicurezza che si sono costruiti intorno. Nulla di male. Son giovani e si faranno. Le loro debolezze non gli fanno male sul piano personale. Quello che ci riguarda è invece che il nuovo Di Maio, nell'ora della sua difficoltà, ci ha anche rivelato la debolezza e la supponenza etica che si celano dietro il teorema politico su cui si sono mossi i 5 Stelle in questo periodo.

Abbandonato da Salvini, irriso da Silvio Berlusconi, anche di fronte alle macerie in cui un anziano leader ha ridotto l'attento piano di arrivare a palazzo Chigi, Luigi Di Maio si presenta sulla tribuna del Quirinale e non fa un minimo di autocritica. Ripropone i propri mirabili sforzi, la propria giustezza, e ancora ha la forza di dare ordini e condanne a tutti. "Berlusconi deve fare un passo di lato", "la posizione di Salvini non la comprendo", "il Pd è fermo su posizioni che non aiutano".

A che titolo gli altri debbano fare quello che lui dice loro si fa finalmente chiaro nell'affanno del momento. I pentastellati sono i possessori unici del diritto morale nella terra della politica. Per cui ognuno deve fare quello che loro vogliono, se vogliono essere salvati.

Che è poi il vero pensiero accuratamente nascosto della presenza politica dei 5 Stelle. È proprio infatti con la stizza da predicatore stufo dei suoi peccatori che Di Maio chiude con secchezza il discorso e se ne va. Lasciando il povero elettore che lo segue da casa senza un straccio di proposta per la sua resurrezione, per non parlare del futuro prossimo.

Eppure, bastava che Di Maio, o chi per lui, facesse meno giochi, avesse un minor alto senso di sé, e forse avrebbe capito che è difficile mettere qualcuno nel sacco in politica. La politica essendo il posto dove si scaricano, in generale, tutti i più competitivi e furbi del pianeta. In politica valgono reti di rapporti seri, costruzioni di relazioni non strumentali, e concretezza. Ma i pentastellati si sentono al di sopra di queste cose. In questo senso sembrano già Renzi senza nemmeno essere andati a palazzo Chigi.

E infatti alla fine sono stati messi nel sacco proprio da colui che è il più resistente inquilino della politica, nonché il più furbo dei furbi, Silvio Berlusconi.

Un Silvio doc che esercitando la sua forza di trattativa in privato e accennando qualche mossa da cabaret in pubblico ha in un colpo solo distrutto il piano "dei due vincitori", ha sminuito Di Maio, ha convinto Salvini a stare nel centrodestra, dandogli il diritto all'incarico, e si è intestato una leadership moderata e rassicurante sulla politica estera in un momento in cui il Quirinale ha bisogno di ogni possibile aiuto per formare un governo che appaia solido a sufficienza da reggere i tremori delle esplosioni in Siria. Anche questa nel centrodestra è stata una molto dovuta operazione chiarezza.

Sul Pd invece non c'era da far chiarezza perché la inadeguatezza dell'organizzazione è stata alla luce del sole per tutto questo mese post elettorale: oggi alle consultazioni questa assenza di iniziativa è stata solo confermata dalla catatonica fibra delle dichiarazioni della delegazione. L'unica verità che luccicava, dietro le solite parole di ragionevole necessità di "dare al più presto un governo al paese" è che il Pd oggi ha un'unica speranza: quello di essere la plastilina in mano a Mattarella. A sei settimane dal voto possiamo dire che un giro vero di vincitori e vinti cominciamo a vederlo.

Da - https://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/di-maio-come-zuckerberg_a_23409987/?utm_hp_ref=it-homepage


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Non ci credo
Inserito da: Arlecchino - Aprile 25, 2018, 04:15:39 pm
IL BLOG
24/04/2018 20:25 CEST | Aggiornato 2 ore fa

Non ci credo
Un Governo fra 5 Stelle e Pd, nonostante le prime buone intenzioni, rimane poco fattibile

Lucia Annunziata Direttore, Huffpost Italia
In effetti, a meno di essere estremamente ottimista (ma molti dentro il Pd sostengono che il presidente sia incline all'ottimismo quando si parla del Pd), è molto improbabile che un partito che ancora non ha trovato una versione comune su cosa sia successo il 4 dicembre 2016 (la sconfitta del referendum), e il 4 marzo 2018 (le elezioni nazionali), e il cui segretario è dimissionario ma non sostituito (l'assemblea che doveva decidere sulla successione il 21 di questo mese è stata spostata a data da definire), riesca a decidere addirittura su una alleanza di peso quale quella che gli viene richiesta in questo momento.

E forse non ci crede, sotto sotto, nemmeno lo stesso presidente che ha dato a Roberto Fico, per esplorare la possibilità di fare un Governo fra i 5 Stelle e il Pd, sole 72 ore. Tempo maledettamente breve se si considera che le esplorazioni per un Governo centrodestra-M5S hanno avuto tre settimane.

Anche questo ultimo giro di consultazioni sembra dunque parte di quegli "atti dovuti", da fare e mettere nello scaffale, dove finiscono "tutti i tentativi espletati".

Ma se anche questo ultimo giro fallisse, cosa avremmo davanti? Davvero siamo destinati a un Governo del presidente? Non necessariamente.

Al di là dei fallimenti formali, l'unico "forno" che ha davvero funzionato è stato proprio quello del Colle, che con la sua lentezza ha bruciato tutte le scorie della varie finzioni, facendo emergere il quadro reale. A 50 giorni dall'apertura delle urne abbiamo così molti più elementi di conoscenza sul posizionamento e sulle intenzioni di tutti i protagonisti di questo semi-dramma.

Silvio Berlusconi è forse il leader che ha più perso in queste settimane. Consacrato dalle urne moderato di reputazione internazionale, reinventato in questo suo ruolo dalla necessità delle istituzioni politiche di trovare un garante, un'alternativa, al sovranista Matteo Salvini, il leader di Forza Italia è stato reinghiottito dalla sua storia. Dopo essere stato umiliato dalla più umiliante delle trattative - la richiesta della sua testa come condizione per la creazione di un nuovo governo – Silvio è stato raggiunto dalla più antica delle ombre sulla sua reputazione, il rapporto con la mafia, dopo la sentenza di condanna in primo grado a Marcello Dell'Utri sulla Trattativa Stato-Mafia. 50 giorni dopo Silvio è più debole di prima.

Matteo Salvini, proprio grazie all'indebolimento del suo partner, si è sempre più convinto che la sua leadership non passi per una rottura con Forza Italia. Al contrario, mai come oggi, il centrodestra è una prateria aperta alla sua conquista. La permanente incertezza di Forza Italia rende ormai molto possibile, oltre che probabile, che i voti e gli eletti del partito di Silvio individuino in lui il leader di un nuovo centrodestra unito. Altro che rompere per unirsi ai 5 Stelle.

Matteo Renzi, di cui si parla poco, è in realtà già rientrato nel gioco. Il segnale del suo rientro dall'Aventino, su cui per altro non è mai davvero salito, si è avuto il giorno in cui ha spostato l'assemblea ( convocata per sabato scorso, 21 aprile) che avrebbe dovuto nominare il suo successore o deciso il percorso per scegliere il suo successore. Spostamento a data da definire – il che vuol dire che un Renzi non sostituito è ancora il segretario sia pur dimissionario, e che qualunque processo ripassa per lui. La partita che ha avviato non sembra difficile da capire: piegare i 5 Stelle. Gli serve intanto per vendicare quella dignità politica che i 5 Stelle hanno ferito nel corso di una lunghissima campagna contro la sua persona oltre che contro il suo Governo: quando Di Maio avrà bisogno di lui per decidere su un governo con il Pd Renzi gli dirà, come già si capisce "solo se tu non sei il premier". L'umiliazione di Luigi Di Maio è però anche funzionale per il futuro posizionamento dell'(ancora non) ex segretario Pd. Un partito già oggi lacerato uscirà ancora più diviso da questa scelta o meno di Governo con M5S. Ma il collasso dell'unità avrà fatto chiarezza e liberato Renzi, permettendogli di collocarsi su diverse basi: il declino di Forza Italia su cui opererà Salvini sarà un terremoto interno alla destra che lascerà in libertà voti di forzisti che non condividono il sovranismo e che cercano, per amore o per forza, una via d'uscita moderata. Esattamente l'uscita su cui si collocherà Matteo Renzi, con il Pd o con il famoso partito tutto suo. La direzione convocata dopo le esplorazioni potrebbe dare già una indicazione sulla praticabilità o meno di questo percorso di Renzi.

Luigi Di Maio, nonostante il suo clamoroso 33 per cento, è diventato oggi l'anello più debole di questa catena di reazioni e controreazioni innescata dalle consultazioni. È il più debole perchè in trattative in cui ognuno dei leader ha varie opzioni, si è fidato, si è limitato, e si è fissato su un unico gioco: essere il premier. Ambizione giusta e peraltro dovuta, visto il risultato delle urne. Ma nelle fluidità delle relazioni politiche attuali, la fissità del suo percorso ha fatto di lui un facile obiettivo da abbattere – l'unico a testa emersa in un gioco di trincee dove tutti stanno coperti. È bastato dire no a questa condizione, come ha fatto Salvini, e come intende fare Renzi, per distruggere la sua posizione. Di Maio pare aver peccato di ingenuità nonostante l'aria di politico adulto che mostra: si è fidato di Salvini e rischia ora di fidarsi di Renzi ed è probabile che si tornerà a fidare di Salvini. I pentastellati, e Di Maio, cominceranno a sapersi affermare quando ammetteranno, innanzitutto a se stessi, che il Governo, lo Stato, la politica sono elementi complessi. Cosa questo significhi, se mi si permette una piccola digressione, è rappresentato dalla foto di Roberto Fico che va a piedi al Quirinale, in un'ottima scelta di semplicità che diventa, nella realtà, una scelta disfunzionale, come ha ben colto su Repubblica Sergio Rizzo. Misure, alleanze, passaggi, è l'itinerario che i pentastellati dovranno percorrere – senza diventare venduti al sistema – per diventare forza di governo. Un vero calvario per certi versi, ma necessario.

*****************

Essere nei panni di Mattarella in questi giorni deve essere molto difficile. Come si vede, i partiti oggi già non sono quelli del 5 marzo mattina. Ma il problema, l'intoppo, il busillis direbbe Totò, è che tutte queste trasformazioni non rilasciano comunque numeri sufficienti a nessuna alleanza. Nemmeno quella per un forte "Governo del presidente" su cui peseranno i rifiuti incrociati di tutti a cedere sovranità a qualunque altro leader o partito.

Un'ultima opzione ci sarebbe: potrebbe accadere che, dopo un lungo giro, si torni indietro.

Domenica prossima si sarà esaurito anche l'ultimo appuntamento elettorale del Friuli, e Matteo Salvini, con Silvio Berlusconi e Luigi Di Maio a penne basse dopo tante smusate, potrà mettere infine in moto la sua macchina di conquista del centrodestra rilanciando un governo con i pentastellati. Di Maio e Salvini hanno vinto il voto popolare, hanno programmi comuni e sono compatibili l'uno con l'altro. È questa in fondo l'unica vera soluzione, sostenibile nei numeri e coerente con il risultato delle urne.

Che poi questo governo piaccia o meno, è un altro discorso. Il voto rimane sovrano. E la democrazia italiana non è così fragile, come si è visto nella forza e nell'ostinazione di queste consultazioni, da non permettere una vigorosa opposizione.

Da - https://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/non-ci-credo_a_23419165/?utm_hp_ref=it-homepage


Titolo: Re: LUCIA ANNUNZIATA -
Inserito da: Arlecchino - Giugno 09, 2018, 06:18:41 pm
Il Corriere, Lucia Annunziata e il piano B del ministro Savona 'in busta chiusa'

Il quotidiano milanese ricostruisce una speculazione sui titoli italiani seguita alla pubblicazione sull'HuffPost del famoso piano per uscire dall'euro da cui sono cominciati i guai finanziari degli ultimi giorni

09 giugno 2018, 17:26

 “Oggi il Corriere della Sera pubblica un pezzo a firma Federico Fubini che sostiene che un fondo inglese avrebbe organizzato una speculazione scommettendo sulla crisi italiana dovuta a un eventuale uscita dall'euro. Questa operazione, sostiene il Corriere, sarebbe avvenuta anche grazie alla pubblicazione della prima bozza del contratto di governo Lega-5 stelle che conteneva, per l'appunto, elementi del cosiddetto "piano b", pervenuta in una busta anonima all'HuffPost”.

Sono le 11,45 quando Lucia Annunziata, direttrice dell’HuffPost, pubblica sul suo sito una breve replica, in risposta ad un articolo uscito sul Corriere della Sera. Articolo di una grande firma del quotidiano milanese, Federico Fubini, in cui in sostanza si ipotizza che il famoso ‘piano b’ degli economisti vicini a Paolo Savona (uscito nei giorni finali delle trattative tra Lega e M5s per la formazione del governo) sia stato inviato al sito della Annunziata per farlo uscire e dare il via ad un attacco speculativo contro l’Italia.

Scrive Fubini: "Chissà se quella mano anonima davanti alla buca delle lettere era consapevole delle conseguenze: quelle per il Paese e anche quelle per gli investitori che ne seguivano gli sviluppi. Il crollo del mercato italiano ha già cancellato circa 400 miliardi di valore in azioni e obbligazioni pubbliche o private. Almeno i due terzi di queste perdite sono a carico di cittadini italiani. E se c’è un momento in cui tutto è iniziato, a giudicare dal grafico di mercato qui accanto, è il giorno e l’ora della lettera allo «Huffington Post Italia». Il momento di martedì 15 maggio nel quale qualcuno fa trovare una busta anonima con dentro una bozza del «contratto di governo» M5s-Lega alla sede della testata diretta da Lucia Annunziata. Così ricostruisce sulla «Stampa», mai smentito, un editorialista amico di Annunziata quale Francesco Bei".

Il testo affidato all’Huffington Post, aggiunge il Corriere, contiene due proposte che hanno tutto per destabilizzare la fiducia degli investitori verso l’Italia: “L’opzione di uscire dall’euro e l’intenzione di azzerare il valore dei titoli di Stato comprati nel piano di interventi della Banca centrale europea. Ovvio che conseguenze non potessero tardare. Poco importa che nelle versioni successive del «contratto» quelle due proposte scompaiano: gli investitori sanno che i vertici di M5s e Lega hanno potuto concepire quelle idee - default e uscire dall’euro - dunque temono che prima o poi esse riemergano. La fiducia è una porcellana cinese difficile da ricomporre, una volta finita in pezzi. Da allora il mercato precipita. Il 22 maggio ha già bruciato circa 200 miliardi, di cui una sessantina in titoli di Stato a scadenza medio-lunga. Il 29 maggio il rendimento dei titoli di Stato a dieci anni, che si muove in senso opposto ai prezzi, è ormai esploso al 3,16% quando era all’1,95% subito prima che quell’anonimo si presentasse allo «Huffington Post». Il differenziale fra titoli biennali tedeschi e italiani, appena allo 0,40% prima, arriva a toccare il 3,55%. La distruzione di risparmio per il 75% di debito pubblico detenuto da italiani (anche tramite fondi esteri) è enorme”.

Sul Corriere (leggi qui l’articolo integrale) si racconta poi per filo e per segno la storia di un fondo inglese che nei giorni successivi ha segnato un rendimento superiore del 200% superiore a quello registrato negli ultimi 5 anni.

Aggiunge Lucia Annunziata nella sua replica: “Il tono e il contenuto dell'articolo del Corriere fa supporre che l'HuffPost abbia pubblicato un documento senza conoscerne le fonti prestandosi dunque a essere uno strumento di un complotto ai danni dell'Italia. Peccato che questa parte della ricostruzione sia fantasiosa. Il documento di 39 pagine è arrivato effettivamente in una busta chiusa e anonima, come è logico che sia trattandosi di documenti riservati, ma la fonte era conosciuta da me, di grande reputazione e l'arrivo del documento in quella forma e modalità era stato concordato.

Per avere queste informazioni, bastava farmi una telefonata, caro Fubini.
Speriamo che il Corriere continui a indagare su questo presunto complotto ai danni del Paese”.

La direttrice ha chiuso così: "Per quanto mi riguarda sono disponibile a rendere conto del mio operato, portando tutte le prove della veridicità di quanto scrivo, nelle sedi in cui eventualmente mi sarà richiesto".

Da - https://www.agi.it/politica/piano_b_savona_corriere_huffpost_lucia_annunziata-4012379/news/2018-06-09/


Titolo: LUCIA ANNUNZIATA - Confessione di una deficiente.
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 06, 2018, 12:37:27 pm
Confessione di una deficiente.

di Lucia Annunziata

Confesso, sono una deficiente. Pur avendo questo giornale scoperto il piano B del primo accordo di governo, l'ho poi lasciato da parte, cullata lentamente in uno stato di semicosciente ottimismo, perché poi, alla fine, chi mai davvero potrebbe esporre il paese alla destabilizzazione politica?
Una cosa sono le idee altro è la responsabilità di governo, mi sono ripetuta.
In fondo quale politico accetterebbe mai di giocare a carte con il Destino del Popolo in nome del Popolo?
Non lo avevo messo in conto. Questo azzardo non l'ho visto arrivare perché era sempre stato lì, nello stesso atto fondativo della coalizione di governo.
Il Def, presentato ieri da Luigi Di Maio (con tutti i mezzucci comunicativi di un partito che della comunicazione ha fatto il suo unico Dio), e definito come l'abolizione della povertà, è solo una povera misura elettorale.

L'asticella del deficit al 2.4, per i prossimi tre anni, non è infatti una manovra e nemmeno una proposta di manovra.
E' solo una sbruffonata, inaccettabile non tanto dall'Europa e dai mercati quanto, e innanzitutto, dai portafogli degli Italiani.
E' la bizzarra proposta di indebitare ulteriormente una famiglia che non riesce a liberarsi dei debiti. Difficilmente il modo per combattere la povertà.
Sono tutte cose queste di cui gli economisti discutono da tempo, e che lo stesso Di Maio (che deficiente non è) conosce bene.
Il suo Def è in realtà un mezzo per intraprendere un altro percorso, in base al quale l'Italia starà meglio solo se viene esposta oggi a un grande scontro: lo scontro frontale con l'Europa per ottenerne o le proprie condizioni (il 2.4) o lasciarla.
E' il piano B, appunto, che era in quella prima versione del contratto di governo, che, scoperto, fu cancellato.
L'idea dello scontro per liberarsi dai lacci europei venne attribuita allora soprattutto all'anima sovranista della Lega.
Lo scossa che si avvertì mise in dubbio persino la formazione del governo, e il professor Savona non divenne Ministro del Tesoro.

Di Maio in quelle ore si presentò invece come il paladino della continuità, l'interlocutore delle istituzioni, il contro bilanciamento di Salvini.
E siccome tutti crediamo solo alle cose in cui vogliamo credere, tutti gli credemmo, dimenticando l'originaria piattaforma dei Pentastellati a favore dell'uscita dall'Euro.
L'obiettivo, invece, è rimasto lì – la rottura con la Ue come elemento palingenetico di una sovranità nazionale, di una nuova economia, e di un nuovo popolo.
Il Def presentato, con i suoi numeri gonfiati, è l'avvio di questa rottura, anzi il mezzo scelto per "creare" in vitro il Cigno nero, l'evento imprevisto con cui giustificare l'avvio del conflitto.
Il discorso di ieri di Luigi di Maio davanti a Palazzo Chigi è dunque una dichiarazione di guerra, nemmeno tanto mascherata.

Che apre per il paese due scenari.
Il primo punta sull'effetto too big to fail : l'Italia è un paese troppo grande per potere essere davvero punita. In particolare da una Unione Europea molto indebolita ridotta a una collezione di Stati mai così disuniti.
Il cosiddetto motore dell'Europa è imballato; Macron e Merkel per diverse ragioni avvitati in una spirale discendente, l'Inghilterra fuori, e buona parte dell'Europa dell'Est in ribellione.
La disaffezione e il sovranismo sono galoppanti. Insomma l'Europa è in condizioni tali da poter essere sfidata, con una possibilità di vittoria – e in questo caso forse lo sfondamento del livello di deficit potrebbe accontentarsi di una messa a cuccia dei poteri deboli europei.

Il secondo scenario ci porta invece alla esposizione "senza se e senza ma" alla reazione dura dell'Europa, e dei mercati che, a differenza della politica, vivono e ingrassano nelle crisi.
Nel qual caso, si tratterà di una "vera guerra" come avrebbe detto oggi il Professor Savona a un think tank, "ll nodo di Gordio".
In entrambi i casi siamo entrati ieri in una nuova fase in cui nessuna opzione sarà indolore.
Il valore dei nostri risparmi, delle nostre case e delle nostre pensioni si abbasseranno.
La manovra di Luigi di Maio si rivelerà una specie di commedia dell'arte con un Pantalone che con una mano dà e con l'altra toglie.

Ma c'è terzo scenario, peggiore.
Qualcun infatti dovrebbe ricordare a Palazzo Chigi che il discorso sulla debolezza dell'Europa ha fatto il suo tempo.
Nelle istituzioni europee da tempo la fragilità del sistema ha convinto molti leader a cominciare a pensare a un modello nuovo, fondato sulla accettazione della fine di una Europa unita e paritaria.
C'è già al lavoro nei fatti lo sviluppo di doppie e triple velocità istituzionali, e persino abbandoni. Basta osservare la Brexit e alle delusioni di quella Gran Bretagna che ha guardato con sufficienza alla debolezza europea e ha sopravvalutato la propria forza negoziale.
Salvo trovarsi poi davanti a un conto miliardario da pagare presentatogli dalla Ue che si è impuntata contro ogni mediazione, ribaltando la sua crisi in una crisi interna degli stessi Tory.
O pensa la coalizione gialloverde che alla fine della guerra saranno capaci anche di non pagare nessun prezzo all'addio dell'Europa?
Se dobbiamo misurare dai festeggiamenti in piazza ieri sera, Palazzo Chigi non ha nessuna paura.
E perché averla dopotutto? Nell'attesa della guerra, la decisione presa è per la coalizione comunque win- win.

Qualunque sarà lo scenario Luigi di Maio potrà tessere nei prossimi mesi la narrazione che già da tempo è diventata la colla che tiene insieme questa fragile coalizione. Potrà sempre dire, "Vedete, noi siamo con voi, vi abbiamo dato tutto, vi abbiamo liberato dalla povertà. Ma i poteri forti, il grande capitale, quei burocrati dei ministeri, quei giornalisti venduti, quei giudici che si sono messi a servire la politica invece di affiancare il popolo, ci hanno fermato".
Una narrativa perfetta per sostenere la prossima campagna per le europee, alimentando il risentimento del Popolo e fare il pieno di voti alle prossime europee. Una soluzione perfetta.
Sempre che Salvini, che per ora segue lo schema, non metta in campo i suoi, di interessi. E sempre ammesso che le fake news dei 5 stelle, le caleidoscopiche balle create per fomentare questa narrazione, non vengano erose dalla realtà.
Perché dopotutto io sono una deficiente, ma il popolo italiano ha sempre dato prova di non esserlo.

Da Fb del 29 settembre 2018