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Autore Discussione: LUCIA ANNUNZIATA -  (Letto 145634 volte)
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« Risposta #135 inserito:: Settembre 29, 2010, 11:40:05 am »

29/9/2010

Sakineh dalla pietra alla corda

LUCIA ANNUNZIATA

Qualcosa si muove persino a Teheran. La condanna a morte per lapidazione inflitta a Sakineh Mohammadi-Ashtiani, la donna iraniana accusata di adulterio e omicidio, è stata commutata in condanna a morte per impiccagione. Ridicolo, certo, sostenere che si tratti di un passo avanti, eppure lo è. Lo è innanzitutto perché prova che l’indignazione internazionale viene sentita dal pure sprezzantissimo governo di Teheran.

Ma, proprio a questa svolta della vicenda, è bene riconoscere anche che, dopo che gli Usa hanno eseguito la condanna a morte per Teresa Lewis, il caso Sakineh ha assunto per noi un’ulteriore valenza. Il leader Ahmadinejad pochi giorni fa ha equiparato Stati Uniti e Iran di fronte all’uso della pena capitale, e questa similitudine ha lasciato una grande inquietudine nelle coscienze di molti cittadini delle nostre democrazie. Val la pena dunque di ribadire, esattamente ora che la storia umana di Sakineh può ancora svoltare, ora che si può ancora sperare di salvarla, perché non c’è parallelismo possibile, nemmeno davanti allo stesso strumento, la pena di morte, fra Usa ed Iran.

Sono contraria, come la maggior parte degli italiani (l’Italia è leader nella campagna contro la pena di morte) alla condanna capitale; ma i modi e i contesti della sua amministrazione sono rilevantissimi. Attraverso di essi infatti si rappresenta il sistema giuridico di cui tutti usufruiamo.

Non sono dunque indifferenti il percorso attraverso cui è stata condannata Sakineh né il tipo di morte.

La lapidazione è una antica forma di punizione, e fin dall’antichità ha sempre avuto caratteri legati a crimini che coinvolgono la sessualità: è la punizione per prostitute, adultere, omosessuali, oltre che apostati e assassini. Dunque, sia pur non esclusivamente, è punizione per eccellenza del sesso debole. Differenza che si sottolinea persino nell’esecuzione. Credo sappiate come avviene: il condannato viene seppellito in una buca nel terreno, fino alla vita gli uomini, fino al busto le donne, avvolto in un lenzuolo fino al capo: se è donna però il volto rimane scoperto. Chi abbia mai visto uno dei crudeli video di lapidazione che ogni tanto emergono dai Paesi in cui la punizione è praticata (o anche solo tollerata) sa che differenza fa vedere o meno le ferite profonde stamparsi sul volto di chi subisce il martirio. Non è un caso che i Paesi in cui questa pena capitale si pratica sono tutti musulmani: Iran, Nigeria, Arabia Saudita, Sudan, Emirati Arabi Uniti, Pakistan, Afghanistan e Yemen, dove vige un diritto strutturato intorno alla legge coranica. In Iran, ad esempio, la lapidazione è stata riammessa dopo la rivoluzione del 1983, ed è ancora oggi la nazione in cui è praticata da più lungo tempo, con una procedura studiata in modo che il decesso non avvenga a seguito di un solo colpo: la legge prevede infatti che «le pietre non devono essere così grandi da far morire il condannato al solo lancio di una o due di esse; esse inoltre non devono essere così piccole da non poter essere definite come pietre».

È in questa impostazione del processo, della visione del crimine, e del concetto di diritto individuale del cittadino/\a che è maturato il caso Sakineh. In una giustizia in cui vige la incertezza della difesa e l’abuso della forza di uno Stato rivestito di principio etico assoluto. Il processo subito dalla donna, le motivazioni della sua condanna, persino le prove di quel che ha fatto sono incerte - e se la lapidazione nella sua estrema brutalità rende evidente questo abuso del diritto, l’abuso del processo rimane anche ora che lo strumento della condanna diventa la corda e non la pietra. Del resto è questo il problema della giustizia in Iran - e lo abbiamo visto ripetutamente al lavoro negli ultimi anni nei confronti dei dissidenti: la disobbedienza è punita come principio, e la sua repressione non ha nessun limite se non la soglia che serve alla conservazione dello Stato. Che si usi poi la esecuzione per via di botte in carcere, la sparizione senza ritrovamento del cadavere, o la esecuzione in piazza via squadre speciali, è indifferente - i modi sono, appunto, il disvelamento della supremazia dello Stato/\religione sul diritto dell’individuo.

Possiamo dire altrettanto della giustizia in Usa? Non è perfetta, anzi è densa di discriminazioni di classe e di razza. Ma è un sistema che ruota intorno al pieno riconoscimento dei diritti del cittadino e ampio equilibrio di contrappesi perché essi vengano rispettati. Contrappesi interni - il tipo di processo -, ed esterni - la possibilità della opinione pubblica di sapere, conoscere, e dissentire.

Alla fine certo, una pena di morte è una pena di morte. Teresa Lewis e Sakineh hanno davanti a sé la fine della loro vita. Ma, almeno, ai nostri occhi rimarrà la differenza sul dubbio dell’innocenza, fra l’essere vittime o meno: per Teresa sappiamo che ha avuto la possibilità di potersi difendere, per Sakineh siamo certi di no. E siccome la giustizia garantisce (o meno) tutti noi, non è differenza da poco, per tutti noi, sapere di avere una certezza di giudizio nell’incerto mondo in cui viviamo.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7891&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #136 inserito:: Novembre 02, 2010, 06:27:21 pm »

2/11/2010

Obama tradito dalla crisi dei partiti

LUCIA ANNUNZIATA

L’unica indecisione sembra, alla vigilia, riguardare solo l’ampiezza dell’impatto.

Non è ancora chiaro se si tratterà di uno «tsunami» (copyright ex sindaco dem di New York, Ed Koch) o di «un’onda di proporzioni storiche» (copyright Istituto Gallup). Per il resto, che le elezioni di mediotermine segneranno un disastro per Obama non ne dubita nessuno. Nelle previsioni della vigilia, i repubblicani vincono circa cinquantacinque seggi alla Camera, superando ampiamente la quota trentanove che serve per avere la maggioranza, e vincono almeno venticinque delle trentasette poltrone senatoriali.

Conquistano inoltre una serie di governatorati oggi democratici negli Stati del centro del Paese, dalla Pennsylvania allo Iowa, luoghi chiave delle vittorie presidenziali, inclusa quella di solo due anni fa di Obama.

Val la pena dunque di cominciare a porsi da subito le domande che questo risultato metterà sul tavolo. Siamo di fronte all’inizio della fine del Presidente Fenomeno, del Presidente della Rinascita, del Presidente Nero? O il voto, questo «cambiamento di orientamenti epocale nell’elettorato Usa», è anche, secondo le parole sul Wall Street Journal di Rasmussen (direttore di uno degli istituti di sondaggio più attendibili del Paese), un sommovimento tellurico il cui impatto sarà avvertito dall’intero sistema politico? Domande autorizzate da due elementi senza i quali è impossibile capire il contesto in cui è maturata la sconfitta democratica. Il primo è l’estrema sfiducia dell’elettorato Usa nelle sue istituzioni. Il secondo è che il campo repubblicano, vittorioso per quanto sia, ha subito, a causa del movimento dei Tea Party, un totale spappolamento del suo assetto tradizionale.

Cominciamo dalla sconfitta di Obama, cui alla fine va apposto un solo nome: disoccupazione. Il profilo di chi oggi ha deciso di votare repubblicano è lo stesso ovunque: sono uomini, operai, bianchi. Sono del resto loro a costituire tradizionalmente il margine che assegna o meno la vittoria in ogni grande competizione elettorale. Sono gli stessi che, va ricordato, già nel 2008 erano incerti su Obama, dal momento che alle presidenziali avevano in prima istanza scelto Hillary sull’attuale Presidente.

Il lavoro è il primo motivo di scelta (al 38 per cento) indicato dai votanti tutti, sia quelli repubblicani (30 per cento) che democratici (40 per cento). Per capirci: la riforma sanitaria ha pesato nelle scelte elettorali solo per il 24 per cento e l’Afghanistan per il 4 per cento. I motivi di tanta preoccupazione sono ben illustrati dall’ultimo rapporto di Market Watch, del Wall Street Journal, che in ottobre ha riportato la fotografia del devastante impatto della crisi soprattutto fra gli operai, i blue-collar. Il tasso totale di disoccupazione del 9,6 per cento (che raggiunge il 17 per cento se vi si aggiunge la sottoccupazione) viene così distribuito nella società: il 4,5% colpisce i laureati, il 10,8% i diplomati e il 14,3% coloro che non hanno titoli di studio. I democratici dunque perdono proprio perché colpita è la loro base elettorale. Ogni altro merito, o demerito, che alla vigilia del voto, viene attribuito ad Obama, che abbia fatto bene o male la riforma sanitaria, che abbia usato pochi fondi dello Stato come stimolo all’economia o che non ne avrebbe dovuto usare affatto, che abbia punito troppo o troppo poco con le nuove regole, il capitale e il big business, sono tutti elementi validi ma che vengono infinitamente dopo la questione del lavoro.

Ma se la questione al centro di questa elezione è la crisi economica, la incertezza sul futuro, se il malumore è così ampio, al di là della momentanea «punizione» per Obama, se ne avvantaggeranno davvero i repubblicani? O c’è negli Usa un clima che in generale se punisce Obama non premia i repubblicani?

Come si diceva, sotto l’onda che sta arrivando nella Washington democratica opera un ulteriore motivo di tensione senza il quale è difficile capire l’intensità che ha colorato questa campagna elettorale. Questo elemento è una profonda sfiducia nei partiti di governo, che ha raggiunto in questo ultimo anno livelli massimi, che attraversa tutti gli schieramenti. Secondo l’istituto Rasmussen, «il 51% dei cittadini Usa vede i democratici come il partito del Grande Governo, mentre quasi la stessa percentuale vede i repubblicani come il partito del Grande Business. Questo significa - conclude il rapporto - che non ci sono più partiti che rappresentano il popolo americano».

Spiega Matt Rasmussen nel rapporto: «In questo senso nemmeno i repubblicani vincono. La realtà è che nel 2010 i votanti stanno facendo quello che fecero nel 2006 e nel 2008: votano contro i partiti al potere. Il che è poi la continuazione di una tendenza che ha ormai venti anni. Nel 1992 Clinton fu eletto e perse il controllo del Congresso nel corso del suo mandato. Lo stesso avvenne nel 2000 a George Bush. Ora accade di nuovo, e per la terza volta di fila». C’è dunque in atto una critica più ampia al sistema di potere, «un fondamentale rifiuto di entrambi i partiti. Più precisamente, un rifiuto bipartisan delle élite politiche che hanno perso il contatto con la gente che dovrebbero rappresentare».

Questa tensione fra cittadini e politica ha rapidamente disfatto il consenso di Obama, ma ha anche spappolato il campo repubblicano, come si è visto nelle azioni e nei programmi dei nuovi candidati del Tea Party, nati per contestare tanto i democratici quanto le vecchie élite del mondo conservatore.

Sono, naturalmente, per ora, solo analisi. Ma se così fosse, staremmo raggiungendo in America ben prima che da noi l’acme di una sfiducia antipartiti che anche in Europa conosciamo bene. Che si tratti poi di una crisi, di una crescita o di un mutamento delle forme attuali della democrazia lo vedremo. Di certo, per dirla con l’istituto Gallup, le elezioni di oggi di Midterm, portano gli Stati Uniti in un territorio «di cui non si conoscono le mappe».

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8031&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #137 inserito:: Novembre 29, 2010, 12:05:36 pm »

29/11/2010

Ma il vero obiettivo è Obama

LUCIA ANNUNZIATA


Se un complotto c’è, è nei confronti di Obama. Affascinati dal capire cosa pensano di noi i proconsoli americani nel mondo, eccitati dal poter sollevare il velo delle cortine delle opportunità pubbliche, un dato sembra acquisito.

Il rilascio di quasi due milioni di dispacci del Dipartimento di Stato da tutte le sue sedi nel mondo, è intanto e prima di tutto un gravissimo colpo per la amministrazione americana.

Ancor prima che nei contenuti, l’operazione di Wikileaks mette alla berlina l’intero sistema di sicurezza degli Stati Uniti, lo attraversa, lo squaderna e lo mette in piazza dimostrandone tutta la fragilità. In questo senso, si potrebbe dire che Assange ha un suo precursore nel giovane tedesco che poco tempo prima della caduta del Muro di Berlino raggiunse Mosca con un piccolo aereo è atterrò sulla Piazza Rossa, svelando con un solo colpo d’ala la fragilità di un sistema che si vantava dei suoi scudi stellari e delle sue testate nucleari. Se non fosse che l’azione odierna del giovane Assange ha scopi e sbocchi che la pongono ben al di là del «disvelamento» della natura del potere.

L’operazione-verità di Wikileaks, cui va dato il benvenuto come a tutte le operazioni di trasparenza, ha tuttavia anche un sottotesto molto politico, ha un impatto laterale, senza capire il quale rischiamo di essere messi anche noi nel sacco. C’è, insomma, una seconda lettura del rilascio di questi documenti, una sorta di eterogenesi dei fini, che suscita varie domande.

Intanto, le dimensioni di questo ultimo rilascio sono molto diverse dal primo, quello sulla guerra in Iraq. In quel caso, Wikileaks gestì circa quattrocentomila testi, si disse. Un numero eccezionale, ma non impossibile da raccogliere se si considera il gran numero di soldati coinvolti nel conflitto, la facilità con cui tutti loro usano in questa guerra il computer, e l’intensità dei sentimenti contro la guerra che circolano al fronte. Non suscitò dunque meraviglia che nel giro di qualche anno tale mole di informazioni venisse raccolta e passata ad Assange. Questa volta invece si tratta di quasi due milioni di dispacci, provenienti da tutte le ambasciate americane nel mondo: come ha fatto Wikileaks a mettere insieme una raccolta di tali dimensioni? Con quanti uomini e donne, in quali tempi, da quali basi operative? Certo, sappiamo bene che la tecnologia è flessibile, che basta un computer da una panchina per lavorare; sappiamo anche che proprio i grandi Stati peccano di eccesso di sicurezza rispetto ai propri sistemi operativi e ai propri codici. Ma, anche così, il dubbio rimane: bastano davvero solo un pugno di volontari e tante gole profonde per catturare ben due milioni di messaggi da tutte le ambasciate del mondo? E come può continuare a gestire tale complessa operazione un uomo come Assange che è da parecchio tempo in fuga, proprio per non far bloccare il suo lavoro? E - a proposito - come mai questo uomo che sfida da solo l’opacità del potere, non si trova? C’è qualcosa di davvero formidabile nella capacità di questo giovane di non farsi trovare dai servizi di intelligence più importanti del mondo.

C’è insomma un lato incomprensibile in questa storia, o, se volete, un vero e proprio lato oscuro. Chi sta aiutando Assange? C’è solo la sua fede e quella di pochi volontari nella libertà di stampa a sostenerlo? O, sempre in nome della libertà di stampa non abbiamo noi stessi il diritto di chiedere a questo punto allo stesso Assange trasparenza sulle sue operazioni?

Certo non si può essere così ingenui da non vedere che l’imbarazzo creato all’amministrazione di Obama, rende molto popolare il creatore di Wikileaks presso molti nemici di Obama. E se oltre che benvenuto Assange fosse stato anche aiutato da questi nemici?

Qui si apre una prateria di ipotesi, e tutte inquietanti. Sappiamo, proprio dai dispacci che leggiamo su Wikileaks, che il mondo in questo momento è un luogo molto incerto. Sappiamo che il potere degli Usa è in forte declino, e che è al centro di molti attacchi. Sappiamo infine anche che lo stesso Obama è combattuto da potenti forze nel suo stesso Paese. E’ davvero ridicolo dunque ipotizzare che Wikileaks possa essere diventato strumento involontario o volontario di queste tensioni? Staremo a vedere. Ma certo Assange stesso ci perdonerà questi dubbi, dal momento che essi sono solo l’applicazione a lui della stessa richiesta di trasparenza che la stampa libera rivolge a tutti.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8147&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #138 inserito:: Dicembre 02, 2010, 11:46:29 pm »

Esteri

02/12/2010 - PERSONAGGIO

Se Hillary Machiavelli si veste da colomba

Le forche caudine di Hillary

LUCIA ANNUNZIATA

Fra i due, il sorriso più imbarazzato, per una volta, non era quello del premier italiano. Miracoli di Wikileaks, l'algida Segretario di Stato Americano, Hillary Clinton, si è sciolta ieri in riconoscimenti pubblici per Silvio Berlusconi tali da rasentare l'affetto, con una foto insieme vicini vicini, e solo i Wasp (o pretesi tali) sanno quanto vale l'annullamento di quei centimetri di spazio personale nel linguaggio del corpo di un leader americano. Come volevasi dimostrare (e avevo scritto), se Wikileaks ha fatto male al governo italiano, ne ha fatto infinitamente di più a quello di Washington. Solo l'ossessivo ripiegamento dell'Italia su se stessa può spiegare la completa inversione di ruoli con cui il nostro mondo politico ha affrontato in questi giorni le rivelazioni di Wikileaks. Quei dispacci sono stati un indubbio danno nel rapporto Italia-Usa innanzitutto perché, al di là delle valutazione individuali su Berlusconi, hanno reso pubblico il fatto che Washington dubita della collocazione stessa dell'Italia nel fronte occidentale: per un Paese come il nostro, sempre di frontiera nel mezzo secolo passato, non è un bel sentire.

Ma il danno Wikileaks ha colpito soprattutto gli Stati Uniti e su un fronte così vasto da rendere la vicenda italiana, vista nell'insieme, meno rilevante, e, per Silvio Berlusconi, meno scottante. Paradossalmente, proprio il bisogno che hanno gli Stati Uniti ora di «recuperare» le gaffes fatte con tutti i loro alleati fornisce alla crisi da tempo latente fra Roma e Washington un inatteso respiro. Basta vedere, appunto, quello che succede in queste ore in Kazakistan, dove il capo della diplomazia americana è arrivata per il vertice Osce (l'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa), inseguita da richieste minoritarie ma forti di sue dimissioni. Il summit avrebbe dovuto essere il primo trionfale ingresso sulla scena internazionale del leader kazako Nursultan Nazarbayev, e si è tramutato per Hillary in una sorta di forche caudine. Ad Astana il segretario Usa si trova in queste ore infatti nella non invidiabile posizione di chi deve guardare negli occhi alleati di cui ha appena parlato malissimo - e scusarsi. Dopo le feste a Berlusconi, dovrà far dimenticare a Dmitri Medvedev di essere stato definito il «Robin di Batman» (Putin), ad Angela Merkel di «essere poco creativa», e al padrone di casa Nazarbayev quei dispacci che ne descrivono il lusso esagerato, oltre a raccontare un primo ministro che (s)balla da solo in un night club.

L'affettuosa foto di ieri fra Hillary e Silvio va guardata, dunque, come la prima di una lunga serie per cui il capo della diplomazia americana dovrà posare per ammorbidire, calmare, ricucire con tantissimi leader mondiali. Posizione molto inusuale per l'altera signora, che per la prima volta si trova a essere non giudicante ma giudicata. In quanto capo del Dipartimento di Stato è su di lei infatti che una parte consistente della tempesta Wikileaks si scarica. Sua in particolare è forse la più discussa direttiva finora scoperta: la richiesta a tutti i diplomatici americani nel mondo di «raccogliere informazioni» dettagliate, incluse quelle «biometriche» su vari leader politici. Fra questi i rappresentanti all'Onu delle maggiori nazioni, Russia, Cina, Francia, e persino l'alleatissima Inghilterra, incluso il segretario generale Ban Ki-moon; ma anche i leader palestinesi di Fatah e di Hamas. Naturalmente, i diplomatici hanno sempre raccolto informazioni, ma in questo caso c'è un salto di qualità tale da far parlare di spionaggio. Quello che Hillary chiede ai suoi uomini e donne, in un ordine di servizio dall'inquietante titolo di «national human intelligence collection directive», è di ottenere orari di lavoro, mail, numeri di fax, cellulari, linee private, diverse identità web, password, carte di credito, numero di tessere da «frequent flier», e persino informazioni «biometriche», cioè Dna, impronte digitali e impronta dell'iride.

Per il segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon la Clinton chiede anche dettagli «sullo stile di gestione e sulla sua reale influenza dentro il Segretariato». È un approccio ai limiti della legalità internazionale, come si può capire, che ha già creato forti tensioni nel Palazzo di Vetro. E la responsabilità pare essere davvero tutta della Clinton. Se è vero, infatti, che questa richiesta di informazioni è il proseguimento di una politica avviata da Condoleezza Rice, l'attuale Segretario ha portato l'operazione a un maggiore livello di profondità e di integrazione con il lavoro delle altre agenzie, creando un legame, oltre che con la Cia, anche con il Secret Service Us,e con l'Fbi. Al di là delle decisioni generali attribuibili a tutto il governo di Washington, da Wikileaks emergono bene, insomma, il pugno di ferro, il decisionismo e una certa mancanza di scrupoli con cui «la donna più potente del mondo» ha gestito finora il suo potere. Quanto peserà ora nelle relazioni internazionali una Hillary a cresta bassa, è tutto da vedere.

http://www3.lastampa.it/esteri/sezioni/articolo/lstp/378313/
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« Risposta #139 inserito:: Dicembre 09, 2010, 11:00:01 am »

9/12/2010 - WIKILEAKS, DIBATTITO SULL'INFORMAZIONE NELL'ERA DI INTERNET

Obama, sul web la vendetta della storia

LUCIA ANNUNZIATA

Un mortale duello fra due eroi di un nuovo mondo. L’arresto del fondatore di Wikileaks fa esplodere anche, fra le tante cose, un conflitto fra due eroi moderni, appunto, entrambi espressione della rivoluzione che il web ha operato nella politica e nella informazione, entrambi nati dentro e per buona parte grazie alla rete - Julian Assange e Barack Obama.

Del legame fra Julian e la Rete sappiamo, ovviamente, tutto. Ma pochi sembrano ricordare in questi giorni quanto intrecciata sia con Internet anche la presidenza Obama. Il «cambio» che portò due anni fa il candidato democratico a Washington nacque in effetti proprio dal web e fu proprio l’uso di questo nuovo strumento a certificarne la rottura con il passato. Quando Barack Obama si affacciò sulla scena delle primarie, il suo nome era quello di un brillante ma marginale politico.

Rispetto al sistema poderoso, oleato, iperistituzionalizzato della macchina da guerra dei Clinton la sua campagna elettorale apparve per molti lunghi mesi una sorta di speranzoso tentativo, destinato a dare i suoi frutti in un futuro distante. Nella sorpresa generale Obama vinse invece una elezione dopo l’altra nelle primarie, Stato dopo Stato, con una tattica che - poi gli analisti se ne sarebbero resi conto - combinava la riscoperta del più tradizionale strumento politico, il contatto a pelle con le persone, e il più innovativo degli strumenti di aggregazione, il web appunto.

Una squadra di giovani che fu descritta come «miracolosa» mise in piedi il più capillare network politico che avesse visto la rete: email inviate ogni giorno, possibilità di contattare il gruppo intorno al candidato quasi minuto per minuto, calendari e agenda aggiornati al momento. Se si ricorda, su rete venne lanciata una campagna di raccolta di contributi individuali dei sostenitori di Obama, che azzerò il senso stesso di quelle adunate per ricchi con cui fino ad allora si erano identificate le raccolte dei fondi. Tra Hillary che andava alle cene di New York per cercare donazioni, e Obama che raccoglieva su rete i suoi pochi ma valorosi spiccioli, la differenza divenne un marchio di novità e successo per il futuro presidente.

La rete provò alla fine di essere - se usata in maniera vasta e socializzata - il modo per riportare alla politica ampi strati di popolazione che da anni non votavano più: la vittoria di Obama, come ci dicono le statistiche, è stata dovuta in particolare al ritorno alle urne di giovani che vennero da lui convinti a votare proprio grazie alla novità del suo modo di far politica.

L’affetto e la gratitudine del nuovo Presidente per la rete si espressero, d’altra parte, appena eletto, quando, facendo sobbalzare il mondo, annunciò che lui avrebbe rinunziato a tutto ma non al suo «blackberry», confessandosi totalmente «dipendente» dalla posta su rete. Ancora oggi, del resto, quell’ampio network messo in piedi per le primarie funziona, e ancora oggi infatti se mai siete stati agganciati allora dalla campagna elettorale democratica, continuate a ricevere più volte ogni settimana annunci da parte di Obama che vi chiede questo e vi spiega quello e che vi invita a rimanere in contatto.

C’è dunque una sorta di «poetica vendetta» nel fatto che, tra le altre cose, al Presidente americano sia toccato ora fare la parte del «repressore» della rete. Che proprio contro di lui il web abbia sganciato, volendolo o no, una bomba destabilizzante quale è la pubblicazione dei documenti del Dipartimento di Stato. È in ogni caso molto significativo, e certo lacerante per coloro che lo sostengono, vedere ora Obama nel ruolo di chi chiede l’arresto di Assange che oggi è il simbolo della libertà di espressione, della efficacia della trasparenza, del potere della rete. Pagherà un prezzo molto alto il Presidente per questa sua posizione su Assange - perderà consenso presso la sua base elettorale più appassionata, più dinamica, più a lui vicina.

Ma, oltre che una «poetica vendetta» della storia, in questo nuovo ruolo di Obama c’è tutto il racconto della inevitabilità del potere. La vicenda personale del Presidente americano, e non solo per quel che riguarda il web, sembra potersi racchiudere in fondo tutta in questo apologo: il potere ha le sue leggi e non importa quante promesse puoi fare prima, una volta conquistato è difficile gestirlo cambiandone la natura. Va detto con tristezza, non sarà Obama il primo profeta che il sistema ha divorato.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8184&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #140 inserito:: Dicembre 17, 2010, 09:06:14 pm »

Cronache

17/12/2010 - REPORTAGE

Da Atene a Roma ecco l'internazionale dello scontento


Una miscela di vecchio e nuovo nelle violenze in piazza del Popolo. Gli studenti i primi a essere sorpresi dalla partecipazione agli scontri

LUCIA ANNUNZIATA


Roma, Palazzo di Giustizia. Quelli del G8 sono liquidati come «attempati». E il rapporto fra la rivolta di quei giorni a Genova e gli scontri di Roma di tre giorni fa è descritto in maniera lapidaria. A Genova ci fu un solo tentativo di assalire una camionetta della polizia e ci scappò il morto, Carlo Giuliani. A Roma non solo una camionetta è stata assalita, ma dentro c'erano addirittura tutti i finanzieri». Il tempo, nell’orizzonte dei movimenti, è un fattore insieme mobilissimo ed eterno. L’ultima volta che Piazza del Popolo, il salotto di Roma, dunque e forse il salotto del mondo, si è illuminata delle fiamme degli scontri, era il marzo del 1977. Trent’anni e passa fa, ma solo ieri, in un certo senso, per il movimento, perché quell’episodio è una pietra miliare, un metro di misurazione dell’alluvione degli umori che solo due volte in questo ultimo mezzo secolo è riuscita a violare quella piazza.

La memoria vicina è invece più vaga - già il G8 è roba un po’ passata, nell’accavallarsi di ondate di giovani e scontento. Nel tempo di attesa del processo per direttissima a 23 arrestati negli scontri di martedì (saranno fra poche ore rilasciati), non c’è molto altro da fare che valutare, spiegare e in parte ricordare. Il presidio che sfida il freddo a Piazzale Clodio, davanti al Palazzo di Giustizia della Capitale, non è enorme - ed è anche questo un segno della scarsa «politicizzazione» del movimento: «La giustizia è già un livello più complesso di partecipazione», spiega infatti uno dei leader già sperimentati del movimento, un universitario che si dice lui stesso per molti versi sorpreso di chi ha visto in piazza il 14. Quella data, vista da dentro le file di chi è sceso per le strade, sembra si stia avviando infatti a segnare un balzo avanti della protesta giovanile.

Nell’estrema mobilità del movimento (di cui si diceva), la data del 14 pare abbia indicato l’arrivo nell’area della contestazione al sistema di una leva nuova di giovani, decisamente mai vista prima, che secondo alcuni ha fatto di colpo invecchiare tutti quelli che finora si conoscevano. Una giovane donna che da anni segue il movimento, sia come militante che come giornalista alternativa, racconta così questo sviluppo: «La novità si è vista, come spesso accade in queste situazioni, in quello che è successo nel momento di scontro con la polizia: per la prima volta da anni non c’è stata una netta divisione fra quelli che queste cose le fanno quasi di mestiere e quelli che non c’entrano nulla e di solito si dileguano al primo botto».

Potremmo girare queste parole dicendo che nell’arte della guerra si formano le leadership, ma questo è il linguaggio di noi vecchi. Il ricordo sul filo del racconto di questa ragazza fornisce però un efficace riassunto di quello che abbiamo vissuto in questi ultimi anni. «Cominciamo dal G8. Lì i protagonisti furono i black bloc, davvero». I veri black bloc, sarebbero? «Quelli che per Genova vennero da ogni parte d’Europa, i tedeschi, gli olandesi, tutti i gruppi che queste cose le fanno di mestiere. Gli italiani fecero da rete per tutti loro, li invitarono, li ospitarono, e poi, certo, si presero anche il merito della guerriglia di quel giorno, ma insomma, se si parla di chi fu protagonista degli scontri, gli italiani possiamo dire che fecero da gestori dei Bed e Breakfast per questi ospiti». Quello che si vuole dire è che «a dispetto di tutto quello che scrive la stampa di sistema, gli italiani non hanno mai davvero avuto una forte capacità militare sul terreno».

Tant’è che il G8 prese nella sua spirale tanti ragazzi che negli scontri le presero, più che darle. Sono valutazioni che certo fanno sobbalzare tutti gli altri osservatori del movimento: dire che gli italiani non sono mai stati davvero «capaci da molti, molti anni di tenere la piazza» va contro tutte le parole che abbiamo scritto in questi anni, e contro tutte le relazioni scritte dal ministero degli Interni, ma quel che conta in questo momento è anche capire come il movimento vede se stesso al suo interno. È la sua valutazione che cerchiamo davanti al Palazzo di Giustizia di Roma, e secondo questa opinione interna, «da tempo, dopo il G8, si è vissuto per fasi, a volte efficaci, a volte meno». Una sorta di fenomeno periodico, in cui le varie azioni andavano in calo, per poi essere riprese da una prossima ondata di protesta. «I giornali parlano tanto, ma sempre a sproposito, di black bloc, di centri sociali; la realtà è che i centri sociali ci sono, ma sono i più diversi, dai più duri ai più fighetti, e di black bloc c’è spesso solo il nome, come dicevo, perché non c’è mai stato in Italia davvero un fenomeno del genere».

Quel che è successo il 14 è stata dunque, come a volte è successo anche in passato, un’eruzione imprevista, per lo meno nelle dimensioni. «Questa è stata la novità, per me, quando i pochi che sanno fare gli scontri hanno cominciato le azioni di dimostrazione, la maggior parte del corteo non si è squagliato, non si è defilato, ma si è buttato dritto dritto in mezzo alle fiamme». Una nuova leva, dunque. Nuova di sicuro rispetto a quelli del G8, ormai già considerati anziani, e nuova rispetto anche all’Onda, e a tutti gli altri collettivi nati nelle università in questi anni, secondo quella legge del veloce ricambio e consumo che vige nel mondo della protesta sociale. «Davvero, abbiamo visto ragazzi mai visti prima», confermano altri dei collettivi universitari della Sapienza, che è stata in questi anni passati il centro di ogni protesta. «Di solito il movimento pesca moltissimo nelle scuole del centro, che sono le più rappresentate, dove ci sono i figli di papà intellettuali di sinistra, ma stavolta abbiamo cominciato a vedere anche quelli delle scuole di periferia».

Ragazzi per i quali «le manifestazioni sono solo una delle molte modalità con cui si scarica la protesta giovanile». Per esempio? «Per esempio c’erano in corteo tanti con sciarpe dei club sportivi, della Roma o della Lazio». La differenza, dicono, in fondo è già livellata dalla crisi. Questa miscela, dunque, di nuovo e di vecchio, di ricordo del passato, un’altra piazza eppure sempre la stessa Piazza del Popolo, un altro movimento ma sempre lo stesso movimento che si stratifica, e si ricarica con sempre nuove leve negli stessi filoni, ha dato un impatto quale nessuno si aspettava agli scontri. «È una generazione che da questo punto di vista è diventata molto internazionale; è gente che è venuta qui e ha fatto quello che ha visto fare ai francesi, ai greci, agli inglesi». Stando a questo quadro sarebbe nata dunque a Roma, il 14 di dicembre, una internazionalizzazione della protesta estrema? «No, direi piuttosto un’internazionalizzazione dello scontento».

http://www3.lastampa.it/cronache/sezioni/articolo/lstp/380310/
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« Risposta #141 inserito:: Dicembre 30, 2010, 08:55:19 pm »

30/12/2010

Il futuro della strategia dei veleni

LUCIA ANNUNZIATA

Maria Antonietta non ordinò mai la famosa collana di diamanti, e non disse mai di dare da mangiare al popolo brioche. Ma per ristabilire queste verità sono stati necessari almeno un paio di secoli, e nel frattempo, come dire, Maria Antonietta, dal suo aldilà, di questa verità non sa esattamente più che farsene: non saranno un po’ di storici a recuperarle una reputazione che i libelli anti regime le hanno in ogni caso rovinato in eterno.

La macchina del fango è una cosa seria, e quella che abbiamo visto al lavoro, indefessamente, negli ultimi anni in Italia, è ancora ben poca cosa. Ha dunque ampiamente tempo e occasione per crescere, se i suoi apprendisti stregoni lo vorranno. Una certezza infatti abbiamo su questo strumento: la macchina della delegittimazione è straordinariamente efficace, ed è sicuramente irreversibile.

E' una tesi, d'altra parte, già sostenuta in un libro scritto un po' di anni fa, nel 1996 (nel 1997 pubblicato in Italia da Mondadori), e che val la pena rileggere nel clima che si respira oggi in Italia. In «Libri proibiti. Pornografia, satira e utopia all'origine della Rivoluzione francese», il noto storico di Harvard, Robert Darnton (autore di un altro libro culto degli Anni Ottanta, «The Great Cat Massacre and Other Episodes in French Cultural History», 1984) racconta come la libellistica settecentesca francese, con le sue opere erotiche e di diffamazione politica, abbia contribuito a preparare la Rivoluzione tanto quanto il possente lavoro intellettuale degli illuministi.

Anzi, sottolinea Darnton, il lavoro filosofico dei Lumi diventa tanto più efficace perché reinterpretato e popolarizzato attraverso la letteratura erotico-diffamatoria. Il più alto esempio di questa commistione è, secondo lo studioso, «Les Bijoux indiscrets», uscito dalla penna di Denis Diderot, il più libertario dei grandi illuministi francesi.

L'accostamento fra il clima prerivoluzionazio francese e gli schizzi italiani odierni sembra - mi rendo conto - pretenzioso oltre che forzato. In realtà, se è vero che la diffamazione è sempre stata, nei secoli - dall'impero romano ai regimi autoritari del Novecento, quali fascismo e comunismo -, uno strumento politico per eccellenza, è durante la rivoluzione francese che assume i caratteri di quel mix tutto a noi contemporaneo di sesso, politica e comunicazione di massa. Un esempio che parla bene al nostro orecchio è il best seller prerivoluzionario «Anecdotes sur Mme la Comtesse Du Barry», del 1775, in cui si racconta l'ascesa di Marie-Jeanne Béen, contessa Du Barry, dal bordello dove esercitava la sua professione di prostituta al letto del re di Francia, e dunque al potere. Una scalata che fa leva sulle debolezze del corpo del re, sessuali o meno che esse fossero. Un corpo concepito nella tradizione come sacro, e che viene invece materialmente avvilito dai suoi stessi bisogni, al punto da far risultare un’associazione imperdibile, secondo Darnton, cioè che lo scettro «non è più solido del pene del re». Il libro contribuì così a creare una forte impressione, il luogo comune che «una masnada di farabutti si era impadronita dello Stato, aveva dissanguato il Paese e trasformato la monarchia in dispotismo». Naturalmente, osserva Darnton, la verità storica è ben lontana da tutti questi racconti; ma la verità, appunto, arriva troppo tardi.

Detto questo, va aggiunto che è ovvio (e anche lo storico non intende sostenere nulla di diverso) che la rivoluzione francese è un evento più grande della libellistica che aiutò a prepararla; ma lo studio sull’efficacia della manipolazione pubblica vale, si è visto poi, per altre cause, altri travolgimenti storici, di segno anche perfettamente contrari tra loro. Molto rilevanti dunque per l'oggi sono le conclusioni che Darnton trae in merito: «Le nostre fonti ci consentono di stabilire un nesso tra la circolazione della letteratura illegale da un lato, e la radicalizzazione dell'opinione pubblica dall'altro».

Frase, quest'ultima, che è la chiave giusta per capire la distinzione fra denuncia e diffamazione: la prima vive della verità, ed è dunque provabile e provata, la seconda vive dell’illegalità, e dunque non solo può ma deve vivere di falsità, di mancanza di prove. La forza d'impatto della diffamazione è proprio nella sua capacità di insinuare, non di dimostrare.

Come si vede, che abbiano o meno letto i libri citati, gli operatori a tempo pieno della macchina del fango del nostro Paese hanno delle ottime ascendenze, e sanno cosa fanno. Una denuncia funziona tanto più se non ha certezza, è tanto più efficace se non provata. La scelta del direttore di Libero, Maurizio Belpietro, di scrivere storie sentite e non verificate, di dare voce a sospetti come se fossero verità, è perfettamente allineata con queste regole.

Eppure, nello scrivere queste parole, non tutto torna. Maurizio Belpietro non è l'ultimo arrivato del giornalismo italiano. Sa bene cosa scrive, ne calcola gli effetti, e conosce meglio di chiunque, essendo da tanti anni direttore, le regole della verifica delle fonti. Se un giornalista di questo livello passa al prossimo stadio del «senza fonti», ci dobbiamo chiedere non tanto perché lo fa, ma cosa registra.

In effetti, la sua scelta registra per tutti noi, non tanto una nuova fase nella battaglia politica interna al centrodestra, quanto la presa d'atto che si è entrati in nuove condizioni politico-temporali: se è vero che la delegittimazione funziona perché offre un’immagine, dà un suggerimento, solleva, come si sarebbe detto una volta, in un'altra sinistra, «un’emozione», allora forse non vale nemmeno più la pena di mascherarla con prove posticce o servizi giornalistici sbilenchi. Insomma, chi vuole una mezza verità se la falsità totale suona tanto meglio?

La nuova fase della macchina del fango è questa: ce la segnala Belpietro con il suo solito andare alla «sostanza» delle cose, com’è nel suo stile sincero. Il suo editoriale di due giorni fa è il «next step», il futuro prossimo venturo del clima in cui vivremo.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8241&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #142 inserito:: Gennaio 04, 2011, 04:18:00 pm »

4/1/2011

A Mirafiori sinistra impreparata

LUCIA ANNUNZIATA

Chi ha ragione delle due sinistre che guardano alla Fiat? Hanno ragione gli uomini del Pd, cioè i suoi principali leader, che si sono schierati per l’accordo con Marchionne - sia pur con una serie di distinguo - o i dirigenti della Fiom che lo hanno respinto senza se e senza ma?

Il lodo Marchionne, che come tale si è ormai configurato, comunque lo si guardi, è, innanzitutto, per il centrosinistra forse la prima decisione che deve affrontare senza poterla circumnavigare.

Senza il soccorso di un «ma anche»; è il primo luogo mentale cui non si può sottrarre. In questo senso, la cosa più ovvia da dire oggi, alla vigilia del referendum Mirafiori che si terrà fra un paio di settimane, è che l’appuntamento è per la sinistra una presa d’atto, ovvia, pubblica, definitiva, di una sconfitta. Il piano Fiat ne tocca in effetti la cassaforte di famiglia, il suo core business, lo zoccolo duro dei suoi elettori, e la idea stessa di mondo che ci ha proposto nell’ultimo mezzo secolo. In particolare per la sinistra italiana, lavoro e diritti sono sempre stati presentati come armoniosamente (e utilmente) compatibili, una realtà inscindibile. In questo senso, quando la Fiat chiede nuovi termini di organizzazione, qualunque essi siano, e qualunque ne sia la ragione, le nuove condizioni costituiscono obiettivamente per questa area politica la conclusione di un intero ciclo storico. Qualunque parte le varie anime della sinistra sceglieranno di giocare in questa trattativa, quella di chi lavora con Marchionne o quella di chi lo rifiuta, qualcosa è già perso, comunque - da Mirafiori non uscirà nessun vincitore.

Sono condizioni nuove di cui si discuterà con accanimento per molto tempo. Ma intanto c’è molto da ragionare sul fatto che, dopo sedici anni di Silvio Berlusconi, identificato da molti addirittura come costruttore di un «regime», la sinistra sia stata messa con le spalle al muro non dal Premier ma da un manager di una antica azienda. Manager e Azienda entrambi - è utile qui ripeterlo - considerati dei seri interlocutori da parte di questa stessa sinistra. Un vero e proprio paradosso, una sorta di poetica vendetta della storia. Come è stato possibile? Avanzo qui solo alcune delle moltissime, possibili, spiegazioni.

La prima è che Silvio Berlusconi, a dispetto di tutti i suoi modi forti, le sue leggi ad personam, i suoi assalti alla Costituzione, si riveli alla fine un avversario meno efficace di quel che si teme. Il viceversa di questa possibilità è che la sinistra abbia trascorso più di un decennio a capire chi era Berlusconi, e a dividersi su come combatterlo, perdendo di vista la società che, intorno, galoppava in tutt’altre direzioni. L’elemento della vicenda Fiat che più colpisce, alla fine, forse è proprio questo: quanto impreparata sia arrivata la classe politica del centrosinistra all'appuntamento con Marchionne. Le domande che si sta facendo ora nella spirale finale delle decisioni, in realtà avrebbero dovuto essere se non anticipate, sicuramente affrontate prima. Il Pd - e non solo, dal momento che questa è una storia che fa cambiare il volto alla industrializzazione dell’Italia - avrebbe dovuto sapere, anticipare, dirigere, insomma.

E non è che Marchionne abbia messo tutti dinanzi a un fatto compiuto: della Fiat si sa tutto, la vicenda si è sviluppata in perfetta trasparenza da almeno un paio di anni, e dall’estate scorsa, cioè dal referendum per Pomigliano, la conflittualità fra Fiom e manager Fiat è passata al calor bianco. Ma lo scontro è rimasto per mesi nel ghetto delle «relazioni industriali», come si dice in gergo per indicare che è rimasta tutta una questione di fabbriche e di sindacati. La storia che in questi giorni arriva alla conclusione è maturata - è necessario ricordarlo - confusa in mezzo alle varie agende della politica. Il governo per mesi è stato a guardare perché non aveva - per divisioni interne - il ministro dello Sviluppo economico, il Pd si è perso nella lotta interna fra le sue varie anime (veltroniane, dalemiane, popolari, centriste, cattoliche di ordinanza o meno) dopo la nomina di Bersani, mentre i centristi seguivano affascinati la «rupture» fra Fini e Berlusconi. Se un giorno qualche ragazzo in vena di fare i conti con questo Paese farà una ricerca per la sua tesi di laurea sul giornalismo nell’anno 2010 troverà (possiamo anticiparlo) molto più spazio dedicato alle escort di Silvio, alle case di Montecarlo, e allo scontro fra Palazzo Chigi e Magistratura. Un ordine di interessi perfettamente riscontrabile anche sui fogli di informazione di sinistra.

Di operai si è parlato poco, negli ultimi anni. Solo lo stretto necessario. Con una fondamentale incredulità della trasformazione in corso nel mondo. L’agenda politica intorno a cui la sinistra si è avviluppata nel 2010, a guardarsi indietro, ci appare oggi come estremamente laterale, se non addirittura irrilevante. Questa è la vera responsabilità dell’area democratica: essersi fatta bloccare da Berlusconi come un cervo abbagliato dai fari di una macchina, mentre il resto del Paese e del mondo continuavano a correre.

Oggi che l’operazione Marchionne si scopre decisiva, la sinistra vi arriva così troppo tardi per avere soluzioni diverse, o anche solo per avviare una discussione. Ma può sempre fare peggio: può ad esempio, di fronte alla difficoltà, cedere alla tentazione di lacerarsi - come sa fare benissimo, e come effettivamente già sembra incline, anche questa volta, a fare.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8254&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #143 inserito:: Gennaio 09, 2011, 11:24:18 am »

9/1/2011

Un bersaglio nella lista del rancore

LUCIA ANNUNZIATA

Ricordatevi questi nomi: Ann Kirkpatrick (Arizona), Harry E. Mitchell (Arizona), Gabrielle Giffords (Arizona), John Salazar (Colorado), Betsy Markey (Colorado), Allen Boyd (Florida), Suzanne M. Kosmas (Florida), Baron P. Hill (Indiana), Earl Pomeroy (Alabama), Charlie Wilson (Ohio), John Boccieri (Ohio), Kathy Dahlkemper (Pennsylvania), Christopher Carney (Pennsylvania), John M. Spratt, Jr. (South Carolina), Tom Perriello (Virginia), Alan B. Mollohan (West Virginia), and Nick J. Rahall II (West Virginia).

E' la «Target List», la lista di obiettivi, pubblicata il 23 marzo dello scorso anno, il 2010, da Sarah Palin. Diciassette uomini e donne del Congresso Usa, sedici democratici e un repubblicano, indicati per la loro attività a favore della riforma della assistenza medica.
Ieri sera il nome numero tre della lista, Gabrielle Giffords, dell’Arizona, è stata colpita al volto da un colpo di pistola da un attentatore di 22 anni mentre parlava a un incontro con i suoi elettori.

Chi sia esattamente l’attentatore, e quali siano le sue motivazioni, non si sa ancora. Ma che qualcuno abbia messo mano alle armi possiamo dire da subito che non è un avvenimento inatteso. Era infatti solo questione di tempo: dopo tanti inviti alla rivolta carichi di metafore da fuoco («hit», «reload»), un proiettile doveva prima o poi partire, ed è partito.

Ovviamente, in questo come in tutti gli altri casi di violenza, la responsabilità rimane individuale, ma alle spalle di questo attentato non è difficile intravedere le ombre dei «cattivi maestri» . E Sarah Palin, dopo aver colto molti vantaggi dal suo essere diventata la musa di un movimento rancoroso nonché orgoglioso di questo suo rancore, violento nonché orgoglioso della sua riscoperta della violenza, è oggi la naturale destinataria di ogni critica allo spregiudicato gioco di radicalizzazione acceso in Usa dal Tea Party e dal nuovo populismo conservatore. La stessa Palin sembra aver immediatamente realizzato la sua esposizione, dal momento che è stata il primo politico ad esprimere il suo cordoglio, prendendo le distanze dalla «tragica sparatoria» e offrendo le sue preghiere.

Nel frattempo, giusto per stare sul sicuro, la «lista degli obiettivi» è stata tolta da ogni sito che fa capo alla Palin. E’ possibile invece ritrovare in giro un altro capolavoro della incisiva creatività predicatoria della signora del nuovo conservatorismo Usa: è la mappa americana con le indicazioni dei posti dove ci sono i democratici da seguire - indicati con nomi e una croce sopra. La Gabrielle Giffords è sulla mappa, ovviamente. Fra i nomi indicati, nei mesi scorsi, sei sono stati in qualche modo colpiti - bruciati o attaccati i loro quartier generali. La Giffords stessa era invece stata avvertita fin dentro casa con un mattone lanciatole attraverso la finestra.

Ma concentrarsi sulla Palin sarebbe in questo momento riduttivo. Per capire cosa è successo ieri sera va messo sotto la lente di ingrandimento lo Stato stesso dell’Arizona, divenuto in questi ultimi anni e mesi uno dei luoghi più inquieti d’America, teatro di un acceso scontro politico, casa di un fortissimo movimento del Tea Party, evoluzione di un ambiente già molto conservatore. Il senatore John McCain, che di questo Stato porta la bandiera, e che nel 2008 divenne il secondo candidato presidenziale espresso dall’Arizona dopo Barry Goldwater, ha sempre appoggiato qui una piattaforma di estrema destra.

E’ stata del resto l’Arizona il primo Stato, nel 2006, a respingere ogni legislazione a favore del matrimonio fra individui dello stesso sesso. E nel 2010 è ancora l’Arizona ad aver conquistato il primato nella legislazione Usa per aver approvato la più dura legge anti-immigrazione. La stessa Giffords colpita ieri aveva vinto la sua campagna elettorale proprio per le sue posizioni estremamente moderate. Nel campo democratico faceva parte del gruppo dei cosiddetti Blue Dogs, aveva di recente criticato il presidente Obama per la sua inefficacia sull’immigrazione clandestina. Con il Presidente si era però schierata sulla riforma dell’assistenza medica.

Proprio questa riforma torna oggi, con il nuovo Congresso appena insediatosi a maggioranza repubblicana, al centro della politica americana. L’attentato di ieri sera può dunque cambiarne il destino. Nel bene e nel male, può incitare a una maggiore cautela o a una maggiore tensione nella valutazione delle cose. Allo stesso modo, può avere un impatto sul corso della presidenza di Obama.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8273&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #144 inserito:: Gennaio 20, 2011, 06:22:06 pm »

20/1/2011

Il pugno di ferro di un leader debole

LUCIA ANNUNZIATA

Ad aspettare l’arrivo alla Casa Bianca ieri del presidente cinese Hu Jintao, tra guardia d’onore e bandiere, c’erano un centinaio di studenti - e tra loro c’era Sasha, la più giovane figlia di Obama, arrivata in delegazione dalla sua (prestigiosa) scuola, la Sidwell Friend, anche lei impegnata, come gli altri studenti presenti, in un corso di studi sulla Cina. Non sappiamo se al momento Hu Jintao sapesse di questa presenza, ma non gli sarà sfuggito dopo: e quale maggiore omaggio poteva essere offerto, anche sul piano personale, dal leader Usa al suo equivalente cinese?

La visita a Washington di Hu Jintao non è finita, ma già dalla conferenza stampa congiunta di ieri sembra essersi svolta sotto migliore stella di quella precedente fatta da Obama a Pechino, nel 2009. Freddezza allora, visi distesi e annunci di cooperazione oggi. Un recupero quasi imprevisto, dovuto a una inusuale evoluzione della Presidenza Usa: sulla Cina infatti il leader Americano, partito dialogante e cautissimo, ha indurito le sue posizioni, e contrariamente a ogni buon senso diplomatico, lo scontro sta portando i suoi dividendi. Che la vicenda cinese diventi una indicazione per tutta la seconda fase della leadership Obama?

Per capire la distanza fra i due appuntamenti occorre riandare con la memoria al primo. Era il Novembre del 2009 e il giovane fenomeno politico americano, aveva fatto il suo ingresso sulla scena nazionale e internazionale come l’uomo del dialogo - con il mondo arabo, con tutte le minoranze del mondo, e con i peggiori nemici. Per ricordare quel clima basti qui citare che nella primavera dello stesso anno Obama aveva fatto il suo famoso viaggio al Cairo dove aveva omaggiato la cultura araba con un discorso all’università. Mani tese dunque anche alla Cina, o forse soprattutto alla Cina. In quel novembre il Presidente arrivò al suo più rilevante appuntamento di politica estera, nel Paese da cui l'America dipende di più economicamente, nel pieno di una crisi finanziaria mondiale, avendo fatto di tutto e di più per ammorbidire i Cinesi. Per dirne una: Obama il dialogante aveva rifiutato di incontrare il Dalai Lama (unico tra tutti i Presidenti Usa dagli Anni Novanta) in visita in America. E, per essere ancora più chiari, il Segretario di Stato Americano Clinton si era spinta a dire, prima della visita a Pechino: «Non dobbiamo permettere che le questioni dei diritti umani interferiscano con la crisi economica internazionale, con la questioni di sicurezza e con il tema del cambiamento climatico». Nulla di tutto questo bastò tuttavia ad ammorbidire i cinesi che trattarono l’americano con condiscendenza, e non esitarono, poche settimane dopo, in quello stesso fine anno, a dargli un doppio schiaffo boicottando il vertice di Copenhagen sul riscaldamento globale.

Da allora tuttavia, molte cose sono successe sia nella politica interna Americana (innanzitutto la crescita della opposizione interna alla amministrazione), che in quella internazionale. Dopo quel doppio schiaffo, Washington ha lentamente ma chiaramente cominciato ad accettare lo scontro con Pechino. Nel gennaio del 2010 diede il primo segnale di indurimento vendendo 6 miliardi di dollari di armi a Taiwan. C’è stato poi lo scontro sulla censura a Google, e lo scontro sulla aggressione militare della Corea del Nord alla Corea del Sud, la cui responsabilità è stata apertamente attribuita dal Dipartimento di Stato della Clinton alla Cina. Infine, e forse questo è stato un punto di non ritorno, è arrivato poco tempo fa il rifiuto di Pechino a far accettare il premio Nobel al dissidente Liu Xiaobo. Quella poltrona vuota alla cerimonia del Nobel è diventata la nuova immagine simbolica della lontananza della Cina dalla democrazia in stile occidentale.

Sullo sfondo di queste tensioni si è acuito anche lo scontro economico fra i due Paesi, con la imposizione di tariffe alle importazioni cinesi da parte degli americani, e il rifiuto di rivalutare lo yuan da parte della Cina. Una guerra guerreggiata che ha portato di recente la Clinton a guidare un gruppo di undici nazioni del Sud-Est asiatico per contrastare l’espansionismo di Pechino; e il Segretario del Tesoro Geithner a dettare le condizioni di reciprocità economiche alla Cina, chiedendo la rivalutazione della sua valuta e maggior accesso alle imprese americane.Infine, se nel 2009 Obama aveva rifiutato di vedere il Dalai Lama, questa volta ha, platealmente, riunito alla casa Bianca, alla vigilia dell’arrivo di Hu Jintao, un gruppo di dissidenti cinesi. Contrariamente a ogni senso della diplomazia, il pugno duro, stando ai risultati di questi incontri recenti, pare abbia funzionato.

Certo, ci sono molte altre componenti in gioco. Per i cinesi, sostengono gli esperti, gioca il fatto che la visita di Hu è l’ultima del suo mandato e che dunque voglia lasciare come sua eredità un successo diplomatico importante. Inoltre, sempre secondo gli esperti di Cina, il fatto che l’Obama che tratta oggi appaia più debole come Presidente di quanto non fosse all’inizio, lo rende meno «pericoloso» agli occhi di Pechino. Ma per quel che riguarda gli Stati Uniti la lezione da trarre da questa vicenda, pare abbastanza chiara: forse Obama ha capito che una fase per lui è finita; e, forse, ha capito anche che, con questa fase, è finita anche quella parte di sé che voleva conquistare il mondo semplicemente amandolo e facendosi amare.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8315&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #145 inserito:: Gennaio 30, 2011, 10:36:02 am »

30/1/2011

Il Cigno nero d'Egitto

LUCIA ANNUNZIATA

Il Cigno nero che proprio in questi giorni a Davos è stato appassionatamente cercato dai cervelloni della economia mondiale, si è materializzato - a sorpresa com’è nella sua natura - ed ha allargato le sue ali sul Nilo. Il Cigno nero, nel linguaggio di Davos, è una figura simbolica statistica, «un evento ad alto impatto, bassa probabilità, bassissima prevedibilità». Esattamente quello che possiamo dire di quello che è successo ieri al Cairo.

Il faraone Mubarak dopo trent’anni di immobilità ha imboccato in poche ore il viale del tramonto. Ha nominato un vicepresidente, il primo nella sua lunga storia politica, mentre una piccola flotta di Lear Jet privati, come in tutti i fine regime, si levava in volo dall’aeroporto cairota con a bordo i suoi figli e i ricchi del Paese, in fuga con le loro famiglie, i loro capitali e le loro Vuitton. La fine formale del regno del Faraone non è stata dichiarata ma certo ce ne sono tutte le sembianze: le decisioni di ieri hanno comunque fatto giustizia di ogni ipotesi che Mubarak si ripresenti alle presidenziali, o che suo figlio Gamal imbocchi la strada della dinastia.

Che aspetto e quale durata avrà la transizione appena iniziata è ora la domanda. Ma, più in generale, il vero dubbio riguarda il come e il perché del materializzarsi del Cigno nero, cioè di una rivolta che nessuno aveva previsto e che nessuno sa ora come gestire.

Sulla transizione, ci dice qualcosa l’uomo che è stato scelto a guidarla. Omar Suleiman in quanto capo della intelligence egiziana, gestisce da decenni i dossier più delicati di tutto il Medioriente, a partire da quelli dei rapporti con Israele. E i dossier dell’intero Egitto, su cui governa de facto, da quasi altrettanto tempo, insieme a Mubarak. È un uomo stimato dalla corolla di alleati di cui si circonda l’Egitto, nel Paese gode della reputazione di non essere corrotto, ed è capace di tenere nelle mani l’equilibrio fra esercito e potere. Ma non costituisce, come si vede, alcuna rottura con il passato, nemmeno nella età - ha 74 anni, solo otto meno di Mubarak. Il suo nome era infatti già da tempo in cima alla lista dei successori dell’attuale Presidente.

In altri tempi, in un Egitto steso al sole a servire i suoi turisti, coperto da una sottile verniciatura di pace, Suleiman avrebbe avuto la sua chance. L’intera operazione di successione fatta ieri sembra invece essere il classico «troppo poco, troppo tardi».

La maggiore sorpresa di tutte, il Cigno nero appunto, rimane così il movimento che continua a riempire le strade e le città. A cinque giorni di distanza rimane infatti forte, imprevedibile, ma soprattutto illeggibile. Nella sua identità pubblica non è finora rifluito in nessuno dei tradizionali filoni della politica egiziana. O meglio, ne presenta tutte le tracce, ma non ne è definito: ci sono i fratelli musulmani, i militanti democratici del 6 aprile, i comunisti, i trotzkisti, i socialisti, i sindacati degli insegnanti, degli impiegati, cioè tutte le sigle di un mondo molto politicizzato e di grande tradizione organizzativa qual è l’Egitto; eppure nessuna di queste identità è dominante.

Forte rimane soprattutto la vastità della protesta, la potenza della rabbia, la resistenza a rientrare nei ranghi. In queste ore la città è attraversata da squadre armate, rapine, l’assalto alle case dei ricchi; emerge la tendenza a un caos violento, che non si sa se spontaneo o manovrato, di popolo o di provocatori. Manovrato o meno che sia, queste azioni tolgono però il tappo a una tendenza cui finora in Egitto non era mai stato permesso di emergere: lo scontro armato di strada, la tensione sociale fra gente e istituzioni, ricchi e poveri, con tutte le sue potenziali derive.

In questo senso, questa rivolta egiziana che scuote tutto il mondo arabo del Nord Africa può davvero rivelarsi un fenomeno nuovo. Per capire il quale più che rivolgere gli occhi al passato, a Tienanmen piuttosto che alle rivolte nazionaliste post-coloniali, occorre guardare proprio agli Anni Duemila, ai successi e insuccessi della globalizzazione. In cui la crisi finanziaria del 2007 fa da contrappunto amaro allo splendore della rivoluzione Internet. In cui all’inclusione tecnologica fanno da contrappunto l’esplosione della disoccupazione e la crescita vertiginosa dei prezzi delle materie prime alimentari. Per tornare a Davos, proprio questa miscela veniva indicata come il materiale da cui nascono i Cigni neri.

In fondo, a ben guardare, quello che succede in Tunisia, Egitto e altrove in queste ore ha meno a che fare con l’essere «arabi» e molto più con le proteste che hanno attraversato nei mesi scorsi l’Europa del default del debito pubblico. Audace connessione? Forse. Ma se così fosse, quanto ancora più preoccupante sarebbe quello che sta succedendo.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8352&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #146 inserito:: Febbraio 09, 2011, 11:05:41 am »

9/2/2011 - LE IDEE

Ogni Paese si ribella per conto suo

LUCIA ANNUNZIATA

«A perfect storm», una tempesta perfetta. Immagine che torna spesso nella parlata americana, mutuata dalle previsioni del tempo per descrivere l’allineamento negativo di ogni condizione meteorologica, divenuta popolare con uno struggente romanzo sulla morte di un gruppo di pescatori (e di un pezzo di cultura americana) della costa del Nord East nel corso della tempesta perfetta del novembre del 1991, ed entrata in questi ultimi anni nel discorso pubblico, per indicare il più grande dei possibili disastri.

Che questa metafora sia stata usata a Monaco un po’ di giorni fa anche dal segretario di Stato Usa per descrivere all’Europa cosa gli americani temano per il Medioriente, è il segno di quanto estremo sia il timore che avviluppa Washington di fronte ai nuovi eventi. Per capire le scelte americane oggi, bisogna dunque forse rileggere quel discorso di Monaco, che pare avere un posto molto unico negli andazzi diplomatici di questi anni: raramente ne abbiamo sentito uno con meno mezze misure, così senza giri di parole, insomma così drammatico. «L’intera regione è sotto i colpi di una perfetta tempesta provocata da poderosi nuovi trends», dice la Clinton, presentando nella lista dei fattori di crisi temi che finora sono stati solo nelle agende delle analisi più radicali: una popolazione giovane, la repressione politica, la disparità economica, e la progressiva riduzione delle riserve di petrolio e acqua. Le conclusioni sono qualcosa a metà fra un monito e un ordine ai governi arabi: «Questo è quello che ha portato i dimostranti nelle strade in tutte le città della regione. Alcuni leader possono credere che il proprio paese sia l’eccezione, che la sua gente non domanderà più opportunità politiche ed economiche, o che si accontenterà di mezze misure. Forse, nel breve tempo, potrebbe anche essere così, ma nel lungo periodo nulla di quello che vediamo oggi può tenere. Lo status quo è semplicemente insostenibile».

Ad aggiungere peso a questa ammonizione, va ricordato che già a gennaio, in un viaggio nel mondo arabo che oggi, con il senno di poi, può essere descritto come una prima missione di avvertimento, la Clinton aveva detto (quasi) le stesse cose. Il timore che alberga a Washington in queste ore non è dunque strettamente provocato dalle rivolte in corso; né sembra mitigato da nessuna delle decisioni che vengono prese ora dopo ora. Di cosa hanno paura esattamente, gli Usa? Solo della combinazione micidiale di terrorismo e petrolio? O c’è di più? Insomma, di cosa altro è fatta questa tempesta perfetta? Bisogna trovare risposta a queste domande per capire Washington, noi e a che punto siamo tutti in questa storia.

Una delle possibili ragioni del panico degli americani, è che probabilmente essi si rendono conto che si trovano di fronte non a uno ma a molti eventi che precipitano tutti insieme. Formalmente simili, ma sostanzialmente molto diversi. Nonostante sia prevalsa soprattutto nei media una narrazione che lega le varie tensioni in una unica rivolta, con le stesse radici e le stesse aspirazioni, (l’89 arabo, la Tienanmen degli shebab, la rivoluzione araba democratica, il neopanarabismo moderno) in verità di comune hanno solo le forme di protesta, e l’attacco ai governi: in ciascun Paese però queste richieste hanno una diversa radice, un diverso significato, e un diverso potenziale sviluppo. Fra i primi due casi, la rivolta tunisina e quella egiziana, le differenze si sono già fatte ovvie in questi giorni. Nella Tunisia francofona e secolare, una eccezione nel mondo arabo, si è ribellato un esercito di giovani con la mente oltre che il cuore più vicino all’Europa che all’Africa, e ha avuto buon gioco contro Zine el Abidine ben Ali, un anziano cleptocrate più che un dittatore.

In Egitto si è messo in moto invece un Paese di 80 milioni di abitanti, attraversato da tutte le ansie e le contraddizioni del mondo arabo fra modernizzazione, religiosità, apertura economica e allargarsi delle distanze sociali. Nella piazza egiziana abbiamo così visto sfilare i volti di un sistema che è molto simile all’Apartheid: da un parte quel po’ di classe media acculturata prodottasi in questi anni di relative riforme economiche (i ragazzi di Internet) e dall’altra i poveri assoluti, che in Egitto, ricordiamolo, vivono con una media di 2 dollari al giorno. Una rivolta che può sintetizzarsi in due bandiere: Pane e Internet. Per la storia e il ruolo del Cairo, queste domande richiedono quasi obbligatoriamente la democratizzazione della politica e della società egiziana. Come è successo in Tunisia. Ma si può dire lo stesso delle altre tensioni che covano nella regione?

Prendiamo allora un altro caso, la Giordania, in cui la scorsa settimana la pressione popolare ha ottenuto dal Re un cambio di gabinetto e un impegno a una nuova fase di riforme. Se non si trattasse di cose serie, ci sarebbe da ridere. La famiglia reale hashemita ha tutto il potere, è vero, ma nella composizione sociale del piccolo regno - privo di petrolio e quasi totalmente dipendente dagli aiuti americani, per il ruolo che ha nelle relazioni con l’Iraq - la Monarchia è sempre stata di idee sociali più avanzate della base del Paese, influenzata dall’estremismo politico palestinese, e, più di recente, da un radicalismo religioso antioccidentale e antiamericano. Un piccolo dettaglio: ad Amman è la regina Rania a usare Twitter come suo preferito strumento di comunicazione, e la base radicale vi vede un altro segno di decadenza reale. Certo c’è disagio economico, certo nelle strade di Amman scendono i giovani - ma le loro domande non c’entrano assolutamente nulla con la democratizzazione.

Il caso Yemen, anche questo inserito nella lista delle rivoluzioni mediorientali in nuce, appare invece decisamente drammatico nel suo travisamento. Anche il piccolo Paese che vanta i natali della regina di Sheba, nonché il maggior livello di povertà del mondo arabo, ha visto migliaia in strada all’inizio di febbraio in protesta contro il governo. E anche lì Obama ha chiesto di intraprendere la strada delle riforme. E come dare torto a tutti loro: il vecchio presidente Ali Abdullah Saleh governa da 32 anni, facendo il bello e il cattivo tempo, e tenendo però fermamente ancorato al suo fianco l’alleato americano che nei passati cinque anni ha donato al Paese 250 milioni di dollari in aiuti militari. Yemen è infatti per gli Usa un punto delicatissimo, essendo diventato il nuovo snodo operativo di Al Qaeda: nel 2008 proprio al Qaeda rivendicò un letale attacco all’ambasciata americana nella capitale yemenita. Lo Yemen è oggi il maggior mercato d’armi della regione. Si calcola che su 20 milioni di abitanti si contino almeno 20 milioni di armi - cioè una a testa inclusi i bambini.

Dobbiamo davvero credere che chi sfila nella strade di Sana'a somigli ai giovani cairoti o tunisini? Si muove persino il Kuwait in questo pasticcio di rivolte. Il sistema kuwaitiano che spicca per essere l’unico a base parlamentare, segna una spiccata tendenza alla involuzione della libertà di opinione, secondo le forze dell’opposizione. Di qui le proteste dei giorni scorsi, che hanno ottenuto le dimissioni del ministro degli Interni. Difficile dimenticare in tutto questo empito democratico che il Kuwait è il Paese arabo con il più alto numero di servitù (rigidamente non kuwaitiana) pro capite.

Giovani, disoccupazione, regimi autoritari, desiderio di crescita: ha ragione la Clinton, questi sono gli elementi che hanno messo in moto un po’ dappertutto il Medioriente una profonda scossa. Ma siamo pronti a prendere tutto quello che si muove nella strada araba come movimenti di rinnovamento? Al contrario: è quasi sicuro che per una parte di queste società che si muove spontaneamente per la democrazia ce n’è un’altra altrettanto, se non più grande, che si muove organizzata, attenta, e con una propria agenda. Le tempeste perfette sono fatte così: tutto si mette in moto, e nulla è più controllabile.

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« Risposta #147 inserito:: Febbraio 16, 2011, 11:56:54 am »

16/2/2011 - LE IDEE

E' Internet l'alleato di Hillary

LUCIA ANNUNZIATA


Il Dipartimento di Stato aggiunge una nuova arma a quelle tradizionali della diplomazia: Internet. Un’operazione che ricorda, con tutte le differenze, quella di Voice of America durante la Guerra Fredda, in versione internauti.

Non si è espressa proprio con questa chiarezza, ieri, Hillary Clinton alla George Washington University, ma è un’efficace sintesi del discorso che ha pronunciato, e la cui importanza è stata sottolineata da un intenso giro di anticipazione alla stampa. E’ il secondo intervento del Segretario di Stato su Internet, ma in questo ultimo, a differenza del primo nel gennaio del 2010, l’elogio del web come strumento di libertà di opinione ha assunto il profilo di intervento molto concreto della rete nella politica mondiale. Washington intende appoggiare «la libertà di connessione», «la libertà di espressione, assemblea e associazione on line», ha detto la Clinton, promuovendo «una rete su cui i diritti della gente sono protetti, accessibile da qualunque parte del mondo, così sicura da poter rispondere alla fiducia della gente e da poterne sostenere il lavoro».

E’, appunto, il progetto di creare un nuovo strumento di lavoro, non solo di «sorvegliare» sulla Rete che già esiste. Che è anche la formalizzazione di un passaggio che il Dipartimento di Stato ha già fatto proprio nelle settimane scorse. Nei giorni più difficili della rivolta egiziana il Dipartimento di Stato si è inserito nella rivolta inviando informazioni sull’andamento delle cose tramite messaggi in arabo su Twitter, e, in questi giorni, in persiano per aiutare l’Onda Verde in Iran. Quando la rete è stata staccata dal governo egiziano, Twitter e Google, attentamente seguiti dal Dipartimento di Stato, hanno aiutato i rivoltosi formando al momento un nuovo servizio, speak2tweet, che permetteva di lasciare messaggi voce che poi venivano tradotti in forma scritta e inviati su Twitter. Innovazione anche quella sperimentata, sempre per l’Egitto, da YouTube che insieme a Storyful, ha lavorato per pubblicare tutti i video inviati dalla piazza.

La nuova attenzione della diplomazia americana è insomma il primo passo in un universo in cui gli americani in questo ultimo anno di passi ne hanno dovuti fare almeno i classici quattro nel delirio. Che Internet sia diventata il centro della mobilitazione, sostituendo i partiti e le organizzazioni tradizionali, non è una novità. Nuovo è stato per la politica internazionale il fatto che in alcuni Paesi ad alto rischio, Internet sia diventato anche l’unico esile filo fra l’interno e il resto del mondo, e dunque anche l’unico possibile veicolo di influenza.

La Cina è stato il primo terreno di scontro fra gli Usa e un governo nazionale intorno al web. E, oggi, e ben prima dell’Egitto, è l’Iran il luogo in cui questa tensione raggiunge il punto più intenso. Non a caso il discorso di ieri di Hillary è coinciso con la ripresa della protesta nella piazza di Teheran. La vicenda iraniana è molto più sfumata e delicata di quella del Cairo: nel Paese degli ayatollah qualunque percezione di influenza americana (o di altri Paesi) può costituire un danno fatale per il movimento delle riforme. Per cui l’unico modo di continuare ad appoggiare il cambio è quello, da parte degli Usa, di fornire un appoggio esterno, garantendo circolazione di informazioni e sostegno, in modo indiretto. La rete è in questo senso davvero l’unica strada.

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« Risposta #148 inserito:: Febbraio 17, 2011, 05:09:42 pm »

17/2/2011

Lo stupro di Lara il rovescio di piazza Tahrir

LUCIA ANNUNZIATA

Illuso, romantico, ottuso Occidente. Mentre tutti eravamo lì a guardare in mondovisione la festa della liberazione dell’Egitto dal despota Mubarak, mentre assistevamo alla nascita di un nuovo mondo arabo, le immagini di felicità occultavano per noi il lato oscuro anche di questa storia. Un branco di lupi, una banda di uomini egiziani, un paio di centinaia diranno dopo i testimoni, stava sbranando una donna bianca. Bionda, giovane, sudafricana di nascita ma americana per scelta, giornalista della Cbs News e inviata di 60 minutes, un simbolo dunque di quanto più bianco, ricco, dominante, occidentale si possa chiedere. Lara Logan, 39 anni, famosa per i suoi spericolati servizi di guerra, e per la sua bellezza, è stata assalita, separata dal suo gruppo di compagni di lavoro, in piazza Tahrir, e sottoposta a «un brutale e sostenuto attacco sessuale», durato mezz’ora, secondo il comunicato ufficiale della sua rete tv. Stuprata, insomma, anche se di stupro si è scelto di non parlare ufficialmente. E certo non per mano della polizia segreta di Mubarak, che quella sera aveva già gettato la spugna.

Difficile non vedere in questa storia - che peraltro negli Stati Uniti sta suscitando molti commenti - una parabola su molte cose: sul giornalismo, sulla politica estera, ma, soprattutto, sulle nostre illusioni. Tipico di come le nostre società funzionano: parte la grande macchina dei media, si forma una catena totale e globale, che crea un circuito virtuoso perfetto, in cui ogni immagine e idea rimbalza su se stessa, confermandosi a vicenda, e presto siamo tutti lì ad accettare questa rappresentazione come realtà, dimenticando ogni dubbio, ogni dato, conoscenza e studio acquisiti in precedenza. Non ci voleva molto a ricordarsi che l’Egitto è un Paese denso di tensioni e di rabbia, un Paese in cui fra la povertà e la repressione ribolle di continuo una tentazione alla violenza in cui soprattutto le donne sono trattate privatamente e pubblicamente con disprezzo.

Secondo il Centro dei diritti delle donne il 60 per cento delle donne egiziane viene molestato ogni giorno, e il 98 per cento delle donne straniere in Egitto viene molestato per strada. In passato abbiamo visto l’assalto alle donne in luoghi pubblici praticato regolarmente come punizione «etica» per quelle che vestono immodestamente, ma anche come ritorsione politica contro donne che partecipavano a manifestazioni. L’estremismo religioso c’entra solo fino a un certo punto. E’ un fenomeno che svela, come si diceva, la struttura di un intero assetto sociale e le dinamiche intorno a cui si coagula.

Lo stupro di Lara Logan avvenuto in quel modo e in quel momento è dunque ancora una volta la riprova che è sul corpo delle donne che le verità vengono misurate. E la verità è che, mentre la politica internazionale si domanda cosa faranno i Fratelli Musulmani, farebbe forse meglio a continuare a domandarsi come e di chi sia fatta questa società che in questo momento in Egitto, e in altre nazioni mediorientali, sta cominciando a muoversi.

C’è un eterno fanciullino nei nostri cuori di occidentali, sempre bisognosi di pensare che il mondo è molto meglio di quello che vediamo. Abboccando a ogni momento di felicità, a ogni bandiera che sventola, a ogni lacrima che si versa. Ma se la rivolta araba in corso in tanti Paesi è destinata a durare, sarà bene osservarla con occhi molto aperti.

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« Risposta #149 inserito:: Febbraio 25, 2011, 06:25:15 pm »

25/2/2011

Una rivolta contro le certezze

LUCIA ANNUNZIATA

Attenti ai luoghi comuni. L’interpretazione delle rivolte arabe (certo, la memoria del nostro iniziale entusiasmo per la rivoluzione iraniana del 1979 brucia ancora) si sta rapidamente ritirando nei consueti paradigmi. Se ne immagina, come risultato, il rafforzamento della componente islamica radicale, una crescita di egemonia dell’Iran rispetto all’Arabia Saudita e il mondo pro-occidentale, un Israele accerchiato.

E, per finire, un’Europa minacciata da una migrazione biblica. Può essere che vada così. Ma ci sono anche molte domande, la cui risposta indica diversi scenari. Provo a formularne tre.

La prima è proprio sull’Iran. Nei giorni scorsi un segnale del nuovo potere di Teheran ci è stato offerto dall’arrivo nel Mediterraneo, passando per il Canale di Suez, di due sue navi da guerra. La prima fase di questa partita, si dice, ha avvantaggiato l’Iran. Affermazione vera - ma fino a un certo punto. Va intanto notato che più che espressione di forza, la influenza attuale di Teheran è una delle maggiori conseguenze della guerra in Iraq. La cui lunghezza e incertezza d’esito (qualunque cosa ne dicano i nostalgici di Bush, non esiste ancora un governo vero a Baghdad) ha finito con il ridare spazio e ruolo agli sciiti della regione, e ha portato o rinsaldato sotto l’ala religiosa estremista, sull’onda dei sentimenti antiamericani, vari movimenti nazionali. Hamas come Hezbollah si sono rilegittimati in quella guerra, e a quel periodo risale la tensione di oggi in Giordania. Ed è indubbio che le rivolte odierne in regione hanno una forte componente sciita contro governi minoritari sunniti. Il Bahrein è un perfetto esempio, con il suo mezzo milione di cittadini di cui il 70 per cento sciiti, governato da un paio di secoli da una famiglia sunnita.

Ma l’Iran - ed è questa la domanda - è davvero in grado oggi di esercitare questa maggior influenza? In effetti la rivolta araba, con un classico colpo di coda, mentre rafforza Teheran all’estero, ne aumenta la destabilizzazione interna. Il movimento dell’Onda verde iraniana si rivela infatti anticipatore e fratello di quello che scuote la piazza araba, per composizione politica e sociale, come vedremo più avanti. L’Iran appare dunque in una sorta di tenaglia - e la sua partita molto più aperta di quel che si sostiene.

Può essere destabilizzata anche l’Arabia Saudita? È la seconda domanda, e forse la più importante posta dalla rivolta. Il Regno, come semplicemente viene chiamato, è il più temibile soggetto di sconosciuta potenza che abbiamo di fronte. Nel triangolo che, da dopo la Seconda Guerra, lega allo stesso destino e con vicende alterne le tre casseforti del petrolio mondiale (il Regno Saudita, l’Iran e l’Iraq) e che è all’origine di tre dei maggiori conflitti degli ultimi 40 anni, l’Arabia Saudita è la nazione che in apparenza ha meglio saputo tenere la sua stabilità.

Anche in questo momento sembra essere fuori dal caos. Ma la verità sul vecchio Regno è che, da sempre, il suo silenzio è solo la copertura di enormi lotte di potere. L’Arabia Saudita è stata incubatrice di uno dei grandi filoni di radicalismo islamico, quello salafita, ha dato non a caso i natali a Osama bin Laden, ed è oggi profondamente esposta a una guerra di successione che accompagna il declino del vecchio re. Il ciclone delle rivolte sta facendo saltare Bahrein, Giordania, Yemen, Egitto - la cintura di sicurezza che aveva intorno. La decisione recente del sovrano di prevenire ogni tensione aumentando gli stipendi ai sudditi è una ammissione di debolezza quale non se ne vedevano da tempo.

Nel caso che alla domanda di sopra si rispondesse dunque con un sì - può essere destabilizzata anche l’Arabia Saudita -, dovremmo immaginare un alterarsi drastico del già caotico panorama attuale. Si presenterebbero infatti in quel caso condizioni per una nuova guerra con un coinvolgimento degli occidentali.

Infine, terza domanda: il movimento che anima le piazze può davvero tutto rifluire nei tradizionali canali dello scontro religiosi-\laici, o estremisti-\moderati? Secondo i dati riportati da Alasdair McWilliam sul Guardian del 22 febbraio, i Paesi che hanno guidato la protesta sono anche in cima allo Human Development Index, un indicatore che misura la crescita di educazione, salute e condizioni economiche. Non è certo un caso.

Nel 2010 al primo posto dell’Index troviamo Tunisia, Egitto Algeria, Marocco. Alcuni esempi: la frequenza alle scuole superiori in Egitto è passata dal 14% al 28% dal 1990, e in Tunisia dall’8 al 34%. Ma l’assorbimento di queste nuove leve con migliore educazione è quasi inesistente - in Egitto i diplomati sono il 42 per cento della forza lavoro ma l’80 per cento dei disoccupati. In Medioriente e Nord Africa la disoccupazione è del 25 per cento, cioè la più alta del mondo, anche a causa di un’assenza quasi totale di un settore privato. E qui ben si capisce la rabbia contro governi corrotti, paternalisti e piramidali. Secondo la International Labour Organization, il mondo arabo ha bisogno di generare più di 50 milioni di posti di lavoro nei prossimi dieci anni per assorbire questa offerta.

La combinazione di tutte queste attese (stimolate dalla globalizzazione della comunicazione) si incanalerà di nuovo davvero nel movimento religioso, bigotto e radicale com’è stato finora? O non sarà, come in Iran dopo tutto, anche lo stesso movimento islamista radicale a rimanere scottato dalle più recenti fiamme?

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