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Autore Discussione: LUCIA ANNUNZIATA -  (Letto 145640 volte)
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« Risposta #150 inserito:: Marzo 04, 2011, 06:42:55 pm »

4/3/2011

Il raiss paghi gli aiuti

LUCIA ANNUNZIATA

Il governo italiano ha finalmente fatto un passo giusto nella crisi libica: l’invio di una missione umanitaria destinata a intervenire sulla vera emergenza profughi in corso, quella di migliaia di lavoratori stranieri poveri fuggiti dalla Libia verso la Tunisia e l’Egitto. La crisi è stata denunciata nei giorni scorsi in maniera pressante dalla Commissione rifugiati dell’Onu e da varie ong.

Va dunque lodata questa decisione romana come un gesto di sensibilità non puramente nazionalistica. Ma è giusto che questo intervento sia pagato dal contribuente italiano? E se invece lo facessimo pagare a Gheddafi e alla sua famiglia, attraverso i soldi che hanno investito nei nostri Paesi? Ad esempio chiedendo agli istituti che hanno beneficiato della presenza dei libici di fare un passo avanti – magari con una autotassa di scopo (linguaggio molto alla moda in questo momento) o anche solo con delle megadonazioni?

Lo so, dico una bestialità - mica il mercato funziona così, mica gli investimenti si possono muovere o valutare come i semplici stipendi familiari. È un problema di sistema e di non destabilizzarne gli equilibri complessivi.

Eppure, varrebbe la pena almeno, anche sostenendo bestialità, di porsi in momenti come questi domande diverse. Se è vero che quello che sta succedendo in Nord Africa e in Medio Oriente sta cambiando tutto, e richiede un «New Thinking», un nuovo modo di pensare, perché «nulla sarà come prima», come avvenne nell’89, allora forse potremmo anche ripartire con il rimettere in discussione le solite risposte economiche. La radiografia della Libia ci presenta un tale squilibrio che anche solo un gesto simbolico di restituzione in questo momento avrebbe un forte impatto.

Il petrolio rappresenta l’80% degli introiti governativi libici. Il forziere dell’oro nero vale 50 miliardi di dollari l’anno. Gli abitanti del Paese sono all’incirca (le cifre sono incerte) sei milioni, di cui il 30% è composto da giovani. L’età media della popolazione è di 24 anni e l’80% di questi giovani abita nelle città, che soprattutto nell’Est del Paese sono state gli epicentri della rivolta. Ci sono poi due milioni e mezzo di immigrati che vivono in Libia, per quasi la metà clandestini. Gli egiziani sono stimati fra i 500 ed i 700 mila. Il rapporto fra il valore del forziere, quei 50 miliardi annui, e il numero relativamente basso di popolazione (in Egitto ad esempio ci sono 80 milioni di abitanti) dovrebbe aver assicurato alla Libia negli anni scorsi un fantastico livello di vita – il Paese avrebbe dovuto avere un Welfare non lontano da quello che in alcuni dei Paesi del Golfo porta lo Stato a regalare alle giovani coppie la casa; i 1500 chilometri della costa dove la costruzione dell’autostrada ce la siamo dovuta accollare noi italiani, avrebbero dovuto essere un paradiso di sviluppo. Invece, se si ritorna ai magri dati statistici, il secondo Paese esportatore di petrolio dell’Africa garantisce un reddito medio pro capite di 13.800 dollari: non poco, ma certo non adeguato alle risorse in campo.

La gran parte della ricchezza libica è andata in questi anni a produrre altra ricchezza per pochi, e per la Famiglia.

Il Libyan Investment Authority (Lia), che è considerato il principale veicolo di investimenti di Gheddafi, vale 70 miliardi di dollari. Questi investimenti, come ben sappiamo, sono un po’ dappertutto, in Europa, in Usa, in Italia ma anche in Zimbabwe, Ciad, Sudan, Sierra Leone, Liberia. Alcuni si conoscono, come i maggiori fatti in Italia, altri invece non sono immediatamente tracciabili: il Tesoro inglese pochi giorni fa ha creato una task force per scoprire dove sono i soldi libici. Sappiamo che gli Stati Uniti hanno congelato investimenti del raiss e della sua famiglia per un valore di 30 miliardi di dollari; il Canada, l’Austria e il Regno Unito hanno proceduto poi al congelamento di asset del valore rispettivamente di 2,4 miliardi, 1,7 miliardi e 1 miliardo di dollari. Nelle banche e nelle società di private equity americane i libici sono molto presenti - Goldman Sachs, Citigroup, JP Morgan Chase e Carlyle Group - e in Italia il loro maggiore investimento è il 7,5 per cento in Unicredit.

Certo, questi fondi sono ora in maggioranza congelati. Ma è davvero questa la migliore misura da prendere? Perché, insomma, non trovare un qualche modo per far pagare oggi, da subito, a questi fondi l’emergenza umanitaria che la crisi libica ha scatenato e scatenerà? Come detto, sappiamo che ci daranno dell’ignorante per aver anche solo osato sollevare queste curiosità. Ma alla fine, a forza di respingere tutte queste osservazioni di buon senso come idiozie, finirà come è già successo in America nella crisi finanziaria del 2007, che le istituzioni di mercato vengono difese sempre (anche quando hanno colpe) e i cittadini continuano a pagare ogni tipo di salvataggio.

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« Risposta #151 inserito:: Marzo 08, 2011, 06:35:38 pm »

8/3/2011

Ma per ora vince il raiss

LUCIA ANNUNZIATA

La Nato e gli Usa stanno considerando ogni opzione nei confronti della Libia, inclusa quella militare. O almeno, questo è quanto si dice ufficialmente.

In realtà l’inatteso ribaltarsi di quella che fino a pochi giorni fa si considerava una veloce rivoluzione in guerra civile scopre il bluff delle prime ore, e lascia dietro di sé la imbarazzante presa d’atto di una sostanziale impreparazione dei nostri governi. Mentre l’orologio scandisce il conto alla rovescia verso la riunione che giovedì 10 vedrà riuniti a Bruxelles i ministri degli Esteri della Nato, e mentre tutti ripetono di essere pronti, sul tavolo c’è una sola domanda: pronti a fare esattamente cosa? La resistenza del Colonnello coglie la comunità internazionale di sorpresa, e senza vere opzioni da spendere.

L’unica scelta finora adombrata, quella dell’intervento militare, si sta rarefacendo proprio nelle ore in cui più la si sta agitando. La giornata di ieri a Washington è stata in questo senso illuminante. Dal Senato la vecchia guardia si è fatta sentire per chiedere al presidente Obama prese di posizione più aggressive nei confronti del Colonnello. Due di queste voci le conosciamo bene. Una è quella del senatore McCain, repubblicano, che ha chiesto di fermare gli aerei libici che bombardano i ribelli. L’altra è quella del senatore democratico John Kerry, che della commissione è anche il presidente, che ha chiesto di bombardare le piste degli aeroporti per impedire agli aerei del Colonnello di decollare.

La Casa Bianca, per bocca del capo dello staff William Daley, ha però fatto subito piazza pulita di queste intemperanze, facendo presente la difficoltà a mettere in atto una no fly zone su una nazione vasta come la Libia, armata di moderne difese antiaeree di fabbricazione russa. «Tanti parlano di no fly zone - ha detto Daley con un certo sprezzo - come se si trattasse di un videogame», frase che in giornata ha ripreso, e non a caso, il nostro ministro degli Esteri Franco Frattini. Ugualmente sprezzante nei confronti di ogni ipotesi militare è stato l’uomo che, eventualmente, avrebbe nelle sue mani proprio la gestione di un intervento di tal genere, il segretario alla Difesa Robert Gates, definendole «chiacchiere». Un Paese vasto come l’Alaska, ha detto Gates, trovando la perfetta immagine per chiarire le dimensioni di una impresa armata, non può che iniziare con attacchi aerei e finire con una operazione di vaste proporzioni. Il termine va tradotto con «invasione di terra».

In ogni caso, e qualunque fossero i piani di guerra, non ci sarebbe mai un appoggio internazionale sufficiente a far approvare all’Onu un mandato. Mancano all’appello i membri chiave del Consiglio, come la Russia (ieri lo ha detto il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov) e la Cina, e mancano potenze regionali come il Brasile. Così come in Medioriente mancherebbe l’appoggio della Lega Araba che già si è schierata contro ogni intervento occidentale.

L’Italia, già riluttante nemica di Gheddafi, ha ancora meno dubbi sul che fare: «Mi pare di sentir parlare di interventi militari e credo che sarebbe un errore molto grave», ha detto il ministro dell’Interno Roberto Maroni. Quello che rimane sul tavolo, dunque, sono le solite strade - un piano Marshall, che è la parola magica che si evoca quando non si sa cosa dire, oppure la via diplomatica dei contatti con l’opposizione, o ancora un massiccio invio di mezzi per aiutare la popolazione delle zone liberate o i profughi. Misure necessarie, ma tutte di contorno rispetto al problema che si è creato ormai in Libia: cioè che il colonnello Gheddafi non appare vicino, e forse nemmeno lontano, a cadere.

Giorno dopo giorno, i combattimenti stanno svelando la assoluta improvvisazione con cui i ribelli hanno avviato la loro rivolta. Ma se la buona fede con cui si sono avviati in una vicenda che oggi appare forse più grande delle loro forze è spiegabile con il contesto generale con cui si sono mossi, la sorpresa della resistenza messa in atto dal Colonnello parla anche della esilità delle nostre conoscenze dei rapporti di forza, della situazione sul terreno, e della struttura di potere nella Libia di Gheddafi.

Da quel che si riesce a capire da comunicati, da mezze frasi e da informazioni più o meno riservate, in queste ore gli Usa - e dobbiamo supporre anche noi europei - si stanno concentrando soprattutto nel recuperare tale ritardo. Il Washington Post cita fonti anonime della amministrazione che sostengono che Washington ha inviato osservatori alle frontiere libiche per fare un calcolo esatto dell’emergenza, e che la intelligence Usa - «ridiretta» ora sulla Libia - stia cercando di capire da chi è fatta e come è composta la opposizione. Un ritardo che da solo prova che, in fondo, non ci si aspettava che Gheddafi arrivasse fino a qui. Cioè fino al punto da obbligare a una rimessa a punto di strategia da parte degli occidentali. Forse questa messa a punto non è un ripensamento. Forse è solo la riflessione d’obbligo quando si arriva a un rialzo sulla strada e in cima si guarda al percorso fatto e a quello da fare. Ma, in ogni caso, qualunque ne sia la ragione, la perplessità sul cosa fare da parte di tutti i nostri governi è di sicuro già una parziale vittoria del Colonnello.

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« Risposta #152 inserito:: Marzo 10, 2011, 06:25:34 pm »

10/3/2011

Ma a volte ne basta una sola

LUCIA ANNUNZIATA

Sono umilianti ma funzionano.
Ridotto alla classica dimensione del guscio di noce, questo è il più realistico giudizio che si può dare delle quote rosa.

È dunque con lieta mestizia che accogliamo la decisione finalmente presa dal governo di approvare un disegno di legge che porterà più donne nei cda delle aziende a partire dal 2015, con una misura che in realtà avrebbe già dovuto essere da anni parte della nostra storia sociale.

La parità per imposizione, l’uguaglianza ottenuta dall’alto, non è certo un orizzonte entusiasmante per la metà del cielo dei cittadini. Fra le donne che hanno sempre dato battaglia, ma anche fra quelle che semplicemente si sono limitate a difendere il loro percorso nel mondo del lavoro, le quote sono ragione di disagio spesso, di controversia sempre. Paradossalmente, vi sono dentro principi offensivi proprio della parità: la definizione di uno status speciale lavorativo è infatti molto simile alla formalizzazione del ghetto; e la abolizione del merito a favore del «genere» è una indubbia offesa della pari dignità intellettuale. Soprattutto nel mondo in cui abbiamo vissuto, attraversato da decenni di grande orgoglio delle donne (dentro e fuori e spesso anche contro il femminismo), le quote sono insomma sempre sembrate concessive e paternaliste. Laddove le donne hanno voluto e vogliono contare per le loro storie, i loro risultati, il loro impegno.

Nella vita reale tuttavia si tratta sempre di materialità pesante, discriminazioni impalpabili, percorsi interrotti da detti e non detti, per cui quando ci si trova davanti ai dati è difficile non sostenere che sono disastrosi e che qualcosa va pur fatto.

La Commissione Europea ha di recente reso pubblici i risultati del «Report on progress on equality between women and man», e l’Italia vi spicca per avere i più bassi livelli di occupazione femminile, insieme alla Grecia, e per aver raddoppiato la quota di disoccupazione, passando in cinque anni dal 4 all’8 per cento. In questo quadro, l’esiguo 5 per cento di donne che in Italia siedono nei cda è, si potrebbe dire, quasi un miracolo. In Svezia e Finlandia ce n’è il 25%, il 15% in Usa, mentre la media europea è del 12%. Dunque, perché no? Fare qualcosa va bene - che si festeggino anche le quote.

La funzione di stimolo al sistema ottenuto negli anni dalle nuove misure appare - per quel che si riesce a capire, vista la impalpabilità della materia - efficace. Secondo i dati di uno studio Cerved riportato dal Corriere Economia del 7 marzo nel triennio 2007-2009 le imprese con un cda «rosa» hanno avuto migliore redditività e una minore probabilità di insolvenza rispetto a quelli con una più ridotta partecipazione femminile. Uguale la conclusione dello studio di Renée Adams e Daniel Ferreira «Women in the boardroom and their impact on governance and performance», Journal of Financial Economics 2009, citato due giorni fa su La Voce.info nell’articolo «Se le quote rosa diventano mimose», di Fausto Panunzi.

Uno stimolo che, per quel che riguarda le donne, rimane tuttavia di natura numerica e non qualitativa.

La settimana scorsa ha dato voce a questa insoddisfazione una delle più brillanti firme del giornalismo inglese, Lucy Kellaway, editorialista nonché membro dell’executive board del Financial Times, che si è chiesta, sul suo stesso giornale, a cosa mai serva che un terzo dei posti nei consigli di amministrazione delle società quotate in Borsa sia riservato per legge alle donne, se poi queste vengono messe all’angolo dai colleghi e le loro decisioni prevaricate dalla maggioranza maschile. Anche lo studio già citato di Renée Adams e Daniel Ferreira tira conclusioni finali in chiaroscuro sull’impatto della presenza delle donne nei cda. Se è vero infatti, scrive Panunzi, che le donne si comportano in modo diverso dagli uomini nei cda, ad esempio hanno un maggior tasso di presenza alle riunioni e partecipano a un maggior numero di comitati, «Tuttavia, una volta che si sia controllato per la possibilità di causalità inversa e di possibili variabili omesse, Adams e Ferreira trovano che le imprese con un rapporto più paritario tra uomini e donne nei cda hanno una performance peggiore. Gli autori scrivono esplicitamente che i loro risultati suggeriscono che l’imposizione di quote obbligatorie per i consigli di amministrazione possa, in alcuni casi, ridurre il valore delle imprese».

Infine le quote aprono la strada anche a impliciti effetti collaterali. Lo fa notare l’economista Luigi Zingales, che ricorda che con la imposizione delle quote c’è il rischio di cooptare donne non «preparate», cioè donne che non arrivano al vertice dopo un percorso che le porti in quel luogo, ma in qualche modo scelte per rispondere a un obbligo legale. Dobbiamo temere dei cda pieni di professoresse, avvocati, suore, giornaliste e ereditiere?

La questione della qualità, dunque , ritorna centrale alla fine di ogni valutazione. Il dubbio che solo una selezione, per quanto dura e ingiusta, porti poi a dare un reale impatto alla scelta delle donne, rimane il dubbio di fondo. Anche perché, come abbiamo spesso visto nella storia, di donne al vertice a volte ne basta una per fare la differenza. Il loro materializzarsi basta da solo a togliere le ragnatele a vecchie istituzioni e a imporre nuovi modi, nuove regole o anche solo nuovi percorsi all’interno del potere.

Angela Merkel o Susanna Camusso insegnano.

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« Risposta #153 inserito:: Marzo 16, 2011, 12:18:42 pm »

16/3/2011

Per l'energia è un momento di svolta

LUCIA ANNUNZIATA

Non solo nucleare. E’ probabile che nel prossimo futuro ci volteremo indietro e guarderemo a questi mesi come alla fine complessiva di una intera epoca energetica. Almeno dal punto di vista dell’opinione pubblica.

Va considerato infatti che di disastri ne abbiamo sofferti ben due in questo ultimo anno, e che entrambi hanno seppellito, sotto le loro scorie, la affidabilità delle due più rilevanti energie del nostro sviluppo finora - il nucleare e il petrolio. La esplosione della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon che portò al versamento di 4,9 milioni di barili di petrolio nel Golfo del Messico risale a solo undici mesi fa, il 20 aprile del 2010. Comparata alle radiazioni nucleari di oggi la lunga agonia di quel fluire in mare di materia viscosa appare infinitamente meno dannosa, più contenibile, ma la sua memoria e, soprattutto, i suoi effetti sull’ambiente non sono ancora spariti. Se la opzione nucleare appare oggi terrorizzante, l’esplosione della piattaforma della Bp ha segnato nella opinione pubblica un punto di non ritorno anche nella disponibilità ambientale a favore del petrolio. Il perfetto incatenarsi dei due incidenti si fa anche più chiaro se si ricorda che proprio il disastro del Golfo del Messico aveva ridato fiato e credibilità alla opzione nucleare. Il doppio incidente ha già ridotto dunque di molto lo spazio in cui decidere le future politiche energetiche.

Un esempio perfetto dello sbandamento che questi avvenimenti hanno già imposto alle scelte dei governanti ci viene proprio dagli Stati Uniti, che sono, dopo il Giappone, il Paese maggiormente toccato, sia pur in forme diverse, dai disastri di cui parliamo. Ed è una storia che vale forse riprendere dall’inizio perché spesso, almeno finora, si è persa di vista.

Nella agenda di Obama, l’energia è sempre stata seconda solo alla riforma della assistenza medica. Fin dalla campagna elettorale ha promesso agli Usa sicurezza energetica, cioè il progressivo affrancarsi dalla sua massiccia dipendenza petrolifera - obiettivo ambiziosissimo e rivoluzionario per una nazione che negli ultimi 50 anni è stata quasi permanentemente in guerra per assicurarsi certezza di rifornimento.
Il progetto obamiano si presenta come molto originale. Contrariamente al suo profilo da sognatore, Obama sul tema energetico non è un ambientalista «puro»: vuole lo sviluppo di energie rinnovabili, ma propone anche un forte «revisionismo» sull’uso di petrolio e nucleare.
I suoi primi passi da Presidente sono sorprendenti - riapre la concessione di permessi di estrazione in mare lungo le coste americane, incluse aree considerate intoccabili, chiedendo al Paese di avere fiducia nella tecnologia e chiudere la pagina del grande disastro della Exxon in Alaska. La sfortuna sembra però piagare questo piano. L’annuncio è del 31 marzo, il 20 aprile c’è il Golfo del Messico e i permessi sono sospesi.

Come si ricorderà, Obama sbandò di fronte a quell’incidente, al punto da apparire, e probabilmente essere, in un primo tempo passivo.
Nel Golfo del Messico va in fumo infatti un pezzo importante della sua proposta. A fine anno però l’Amministrazione ci riprova.
A gennaio 2011 presenta il piano per il rilancio del nucleare. Gli Stati Uniti producono il 20 per cento della loro elettricità con 104 centrali. Dopo l’incidente di Three Mile Island del 1979, non ne sono più state costruite. Obama ne propone 20 nuove, con un investimento di 36 miliardi di dollari, sostenendo che proprio il disastro del Messico prova che è questa la energia più pulita e più rispettosa dell’ambiente. Nel nuovo clima il piano riscuote un ampio consenso di democratici, repubblicani, e di molti gruppi ambientalisti.
Anche il New York Times, come ricordava proprio ieri il giornale, dopo tanti anni si schiera con il nucleare. Ed ecco arrivare il Giappone. Obama appare piagato dalla sfortuna. In realtà i suoi alti e bassi sono la perfetta rappresentazione di quanto stretti si siano fatti i margini di manovra per ogni decisione energetica.

Lo spazio appare ancora più ristretto se vi si include l’intreccio di tutte le scelte che ogni governo dovrà fare, ciascuno con le proprie priorità. Ad esempio, Cina e India, le due nazioni che al momento consumano più energia al mondo, e che sono avviate con convinzione e rapidità sulla strada del nucleare. La Cina ha 11 reattori e ne progetta dieci all’anno per i prossimi dieci anni per rispondere al suo consumo elettrico che cresce del 12 per cento l’anno. L’India ha 20 reattori nucleari e progetta di spendere 150 miliardi di dollari per dotarsi di altri dodici. Ma il nucleare gioca un ruolo persino in Medioriente, una regione che proprio perché affogata nel petrolio ben conosce la volatilità di questa materia prima. C’e l’Iran, di cui tutti sappiamo; e ci sono gli Emirati Arabi, che lavorano a 4 centrali.
La Giordania, il Kuwait, il Qatar, il Bahrein, hanno allo studio progetti, e la stessa Arabia Saudita vuole una città completamente alimentata dal nucleare. In sintesi, secondo la World Nuclear Association nel mondo si contano 443 reattori nucleari, e dovrebbero raddoppiare in 15 anni. Non sfugge dunque a nessuno che, qualunque sia il futuro italiano, si dovrà tenere conto di un processo di evoluzione che è molto più grande di noi.

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« Risposta #154 inserito:: Marzo 21, 2011, 05:39:59 pm »

21/3/2011

La campagna d'Africa di Barack Obama

LUCIA ANNUNZIATA

Non bisogna farsi ingannare dalle immagini che dallo schermo ci raccontano in questo momento l’intervento in Libia. A differenza di quel che appare, questa è una guerra tutta americana e ha come obiettivo non il Medio Oriente ma l’Africa. Il riferimento per capirla non è il Kosovo né l’Iraq, ma la crisi del Canale di Suez del 1956. Quella data ha un valore fortemente simbolico nella politica estera degli Stati Uniti. Usciti dalla Seconda Guerra Mondiale alla ricerca, come tutte le grandi potenze di allora, di un radicamento nel mondo del petrolio, fino alla crisi egiziana gli Usa rimangono in una posizione marginale in Medio Oriente.

La nazionalizzazione del Canale di Suez vede infatti scendere in campo accanto ad Israele (che si muove formalmente ma non sostanzialmente in maniera indipendente) le due potenze che per più di un secolo avevano condiviso la gestione mediorientale, cioè Francia e Inghilterra. Gli Usa giocano una mano in quella crisi - la cui causa scatenante è proprio il rifiuto americano di concedere un megaprestito a Nasser per la costruzione della diga di Assuan - tentando di calmare Israele, e mettendo in allerta la Sesta Flotta nel Meditterraneo, ma ne rimangono fuori. Il senso di questa «terzietà» Americana venne colto da una battuta che è stata ripetuta poi molte volte in altri teatri di guerra confusi: all’Ammiraglio Burke che ordinava al suo vice «Cat» Brown «Situazione tesa. Preparatevi a ostilità imminenti», Brown rispose: «Pronti a imminenti ostilità. Ma da parte di chi?»

Com’è noto, il tentativo di sottrarre al controllo egiziano il Canale fu un fallimento, grazie soprattutto alle minacce della Russia, e formalmente il conflitto terminò con la prima missione Onu di peace keeping, cioè con la formazione e l’impiego di truppe delle Nazioni Unite in funzione di cuscinetto. In sostanza però la crisi segnava la fine dell’influenza delle ex potenze imperiali e la nascita di un nuovo equilibrio in Medio Oriente in cui la Russia avrebbe avuto un ruolo indiretto sempre maggiore, e gli Stati Uniti avrebbero avuto campo libero.

Come si vede, si possono contare molti punti di contatto fra quella vicenda e quella di oggi. Ma la somiglianza maggiore è nella cesura fra due periodi di influenza. L’attacco europeo contro Gheddafi oggi somiglia molto al colpo di coda finale di Inghilterra e Francia allora nel tentativo di recuperare una svanita autorevolezza. L’attacco che l’Europa muove oggi a un alleato di trentanni è comunque la certificazione di uno schema politico andato a male. Su questo fallimento gli Stati Uniti si sono mossi per entrare in quello che finora era rimasto
l’ultimo spazio riservato alla influenza quasi esclusiva dell’Europa, il Mediterraneo.

La genesi di questo intervento, cioè il modo in cui è stato immaginato e poi messo in atto, è indicativa. Nonostante si usi molto - e con buona ragione - il Kosovo come punto di riferimento per indicare la «filosofia» che ha spinto Obama a muoversi sulla Libia, l’«intervento umanitario» è oggi solo una parte delle valutazioni che hanno mosso Washington. Non c’è dubbio che, come confermano le cronache, un ruolo decisivo nella decisione è stato giocato da un gruppo di diplomatici quali la Rice, la stessa Clinton (e forse oggi ci sarebbe anche Richard Holbrook se non fosse mancato poche settimane fa) formatisi all’ombra di un paio di crisi andate male negli Anni Novanta, una seconda generazione di Clintoniani nella cui memoria brucia ancora soprattutto il Ruanda, la pulizia etnica cui la comunità occidentale assistette senza sollevare un dito. Ma l’intervento umanitario non avrebbe potuto essere invocato se non si fossero determinate nuove condizioni: e queste nuove condizioni sono quelle fornite dalla entrata in scena in chiave democratica delle masse arabe. In altre parole, per poter difendere un popolo dal massacro era necessario che ci fosse un popolo oltre che un dittatore, e le rivoluzioni del gelsomino hanno offerto insieme al materializzarsi del popolo anche lo scardinarsi del vecchio schema del quietismo dittatoriale in cui gli Usa e noi ci siamo rifugiati per decenni come assicurazione contro il radicalismo islamico. Dicono ancora le cronache (sapientemente manovrate dalla amministrazione) che va ricordato l’attivismo con cui Hillary ha seguito il Nord Africa nella settimana immediatamente precedente alla scelta dell’Onu: un viaggio al Cairo dove, in risposta al rifiuto dell’attuale governo di farle incontrare i giovani attivisti della rivolta, il Segretario ha deciso di fare una «passeggiata» in piazza Tahrir, e a Tunisi da dove ha lanciato il primo ammonimento alla Libia.

L’America insomma ha deciso di intervenire in sprezzo a un vecchio schema politico e cavalcandone uno nuovo, cogliendo una opportunità che la vecchia Europa, proprio a causa della sua ex influenza, ha lasciata marcire quell’attimo di troppo. I francesi, così pronti oggi con i loro aerei, sono gli stessi che a gennaio hanno perso la Tunisia ancora prima di accorgersene, non richiamando a casa un ministro in vacanza a spese di Ben Ali proprio mentre la rivolta spazzava il Paese.

Hillary ed Obama hanno così pavimentato la strada verso una zona dove gli Usa da decenni non erano riusciti ad entrare: nel Mediterraneo, e nel Nord Africa in particolare. E dietro la frontiera del Nord Africa si stende l’Africa intera, come ben sappiamo proprio dal ruolo che negli ultimi anni ha avuto Gheddafi, e come sapevano ancor prima dei generali italiani, inglesi e tedeschi, i generali dell’Antica Roma.
Lo sbarco sulle coste libiche è a tutti gli effetti l’apertura della porta sull’Africa. Quell’Africa diventata negli ultimi anni per gli Usa meta di conquista in una feroce competizione con l’altra grande potenza in espansione nel continente nero, la Cina. Una pervasiva presenza, quella cinese, che si è per altro materializzata davanti ai nostri occhi proprio quando all’inizio delle tensioni contro Gheddafi la Cina ha evacuato decine di migliaia di suoi concittadini al lavoro in Libia.

Anche questo è in fondo un obiettivo della seconda generazione di clintoniani: la prima campagna d’Africa Americana fu iniziata e fu persa proprio dal primo Clinton, Bill, con la sua sfortunata operazione «Restore Hope» in Somalia. Chissà se ora un secondo Clinton, Hillary, non voglia vedere vendicato anche quel fallimento.

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« Risposta #155 inserito:: Marzo 28, 2011, 05:01:39 pm »

28/3/2011

A Damasco il gorgo del mondo

LUCIA ANNUNZIATA

La Siria sta rapidamente raggiungendo un punto di non ritorno. Di fronte al presidente Assad si apre un bivio molto semplice: di qua le riforme, di là la repressione. Quale sarà la direzione che Damasco prenderà si saprà in non tanto tempo.

Ieri le cose lasciavano sperare: sono state annunciate la cancellazione dopo 48 anni dello stato d’emergenza imposto nel 1963 e le dimissioni dell’attuale gabinetto di governo. Ma alla fin fine, come ci hanno insegnato fin qui le altre rivolte arabe, il livello di riforme necessarie a calmare le acque o è molto alto o è inesistente. E la leadership dell’erede del Leone di Damasco, come lo definisce nella sua migliore biografia Patrick Seal, non ha mai dato fin qui particolari segni di forti capacità né strategiche né politiche - nemmeno nel senso di forza repressiva che il padre era capace di scatenare.

Per cui, se tanto dà tanto, al di là anche delle intenzioni della presidenza, molto presto la Siria potrebbe diventare terreno di intervento di altre potenze regionali.

Non intendiamo qui né un’occupazione militare né tanto meno un intervento diretto degli occidentali.

I giochi dentro questa nazione sono però troppi e troppo aperti perché la rivolta contro gli Assad proceda troppo a lungo e vada fuori controllo. La ribellione siriana sarà pure, infatti, parte dell’onda delle rivoluzioni popolari del Nord Africa, ma sposta l’asse della storia dal Mediterraneo alla regione a più alta tensione del mondo - il triangolo petrolifero tra Iran, Iraq e Arabia Saudita. Il paradosso è dunque che proprio un Paese senza petrolio, qual è la Siria, rischia di aprire una falla nel faticoso equilibrio che negli ultimi dieci anni si è costruito intorno alla cassaforte energetica mondiale.

L’importanza di Damasco è scritta sulla carta geografica, dove si colloca, oggi come nei secoli scorsi, al centro di un vasto incrocio. Sul vicino Libano esercita da anni un protettorato senza scrupoli, che negli anni ha fatto sentire il suo pugno di ferro nei momenti chiave - dal bombardamento contro il generale cristiano maronita Michel Aoun a Beirut Est, con cannoni di lunga gittata, nel 1989, all’uccisione nel 2005 dell’ex primo ministro libanese Rafiq Hariri che aveva guidato la rinascita del Libano dopo la Guerra civile. Oggi il ruolo di Damasco è quello di costituire un santuario politico per gli Hezbollah che senza governare pienamente controllano la vita politica in Libano, e per le forze palestinesi radicali di Hamas nella Striscia di Gaza: è tramite la Siria, infatti, che arriva a questi movimenti l’appoggio logistico (armi) e politico dell’Iran.

A proposito di religione, va notato che la Siria è governata dagli Assad che sono una minoranza sciita alawita in un Paese a maggioranza sunnita. L’esatto contrario di quel che è stato l’Iraq di Saddam Hussein, per intenderci. Il che la dice lunga nel rapporto con l’Iraq attuale.

La tensione inter-islamica è all’origine di uno degli episodi della formazione della Siria moderna la cui memoria oggi rischia di avere molto peso negli eventi di questi giorni: nel 1982, nella città di Hama, Assad padre sterminò ventimila persone per dare una lezione ai Fratelli Musulmani. Oggi però l’esercito popolare è a maggioranza sunnita, e questo mette a rischio la coesione dell’intervento del governo centrale.

Delle frontiere che la Siria ha con Israele e con la Turchia, e del ruolo che ha nella politica di questi due Paesi, si sa molto. Infine va considerato il legame, anche sociale, fra la Giordania e la Siria, entrambi Paesi con una vasta popolazione di palestinesi, retaggio del conflitto arabo-israeliano. E in Giordania l’opposizione islamista agita le piazze e ha chiesto le dimissioni del primo ministro Maaruf Bakhit.

Quante possibilità ci sono che questo gorgo non diventi un ingovernabile caos che si scarica su tutti i Paesi confinanti?

Per Washington infatti la Siria pone un serio dilemma. L’indebolimento degli Assad sarebbe positivo per gli Usa perché indebolirebbe l’influenza regionale iraniana. Ma una crisi non risolta bene e presto rischierebbe di scalfire il precario equilibrio iracheno. Per ora si sa che a Damasco il nuovo ambasciatore Usa, Robert Ford, sta fortemente consigliando al Presidente la via delle riforme.

Ma lo scenario è pronto, come si diceva, per una sorta di apertura a un intervento di potenze esterne. È possibile che più o meno apertamente si muova l’Iran: un po’ di settimane fa, come si ricorderà, subito dopo la caduta di Mubarak, il Canale di Suez fu attraversato da due navi da guerra iraniane. La loro apparizione nel Mediterraneo suscitò allarme. Quelle navi erano dirette in Siria, e ancora lì stanno. Si muove tuttavia anche la Turchia, altra potenza che in questa crisi libica ha assunto peraltro un maggior ruolo nei confronti degli Stati Uniti. Fra Istanbul e Damasco corrono relazioni, anche recenti, «fraterne», con una vigile presenza dell’abile Erdogan sul fragile giovane Assad.

Un altro dilemma dunque si è aperto, un altro gioco nel Grande Gioco. Un altro possibile deragliamento del mondo arabo, in una maniera o nell’altra, è dietro l’angolo.

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« Risposta #156 inserito:: Aprile 16, 2011, 04:21:53 pm »

16/4/2011

Quelle fragili vite in prima linea

LUCIA ANNUNZIATA


Gli assassini non meritano aggettivi. Basta l’elenco dei fatti. Nelle guerre a sfondo islamista degli ultimi 30 anni, dal Mediterraneo alle Filippine, dal Caucaso all’Africa, dunque in una delle maggiori superfici del globo, gli uomini e le donne che vengono trucidati dal terrorismo, sono, di preferenza, uomini e donne disarmati. Giornalisti, preti, suore, e volontari di organizzazioni umanitarie.
L’Italia ha aggiunto ieri il suo ultimo nome all’elenco già lungo di prigionieri – ricordiamo Simona Torretta, Simona Pari, Giuliana Sgrena, Clementina Cantoni. E ha allungato anche quello dei morti, dopo Enzo Baldoni, in Iraq, e il free lance di radio radicale Antonio Russo ucciso in Georgia nell’ottobre del 2000. Ma ogni Paese ha la sua lista di non combattenti caduti – gli inglesi (ricordate la lunga agonia di Margaret Hassan, inglese, responsabile di Care in Iraq), gli americani, e persino i giapponesi (lo studente viaggiatore Shosei Koda decapitato in Iraq). Poi, quasi sempre, come due giorni fa a Gaza, questi attacchi vengono giustificati come una punizione per il mondo occidentale e i suoi peccati. Ma la verità di questi atti risalta ugualmente nella indifesa fragilità delle loro vittime.

Quando al posto del grande schema, quale fu l’attacco alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001, si sostituiscono queste operazioni da bulli contro gli indifesi, la qualità morale e politica degli assalti rivela l’occasionalità e la pochezza delle organizzazioni che li praticano. Come ricorderete, quando la resistenza palestinese sfogò il suo «eroismo» contro una nave da turismo, la Achille Lauro, e un uomo in carrozzella, Leon Klinghoffer, la operazione delegittimò un’intera epoca – oltre che un intero popolo. Per inciso: l’uomo che ordinò di buttare a mare Klinghoffer morì braccato e ucciso dagli americani proprio in Iraq, dopo la caduta di Saddam Hussein, in una perfetta nemesi di inversione di ruoli fra forti e deboli. Significa tutto questo che non dobbiamo temere quello che è successo a Gaza? Al contrario. Non c’è nulla di più pericoloso di gruppi che si fanno forti delle debolezze delle loro vittime. Essi sono il momento marcescente delle guerre – gruppi sbandati, autoriferiti e spesso autoalimentati. Senza orizzonte politico, sono queste schegge di conflitto a costituire i punti imprevedibili di nuove tensioni.

Che è poi esattamente quello che sta succedendo a Gaza, che, nella uccisione del ragazzo italiano ci offre uno specchio in cui si riflette con esattezza il punto di ebollizione raggiunto dal Medioriente. Un gruppo che da posizioni radicali contesta in quanto poco radicale un governo come quello di Hamas che è iscritto nelle liste internazionali delle organizzazioni terroriste, è solo in apparenza un paradosso. In realtà è la versione applicata a Gaza della dinamica che si sviluppa in tutte le strade arabe del pianeta: rivolte contro l’ordine esistente. Qualunque esso sia, l’ordine di Assad in Siria, o quello di Saleh in Yemen, degli ayatollah iraniani o del re sunnita Hamad ibn Isa Al Khalifa in Bahrein. Il mondo musulmano è in rivolta contro chiunque abbia il potere – o per lo meno questa è la percezione. Più al fondo di questa percezione c’è il reale significato del sommovimento arabo: un incredibile vuoto di potere che si è creato come effetto combinato dell’invecchiamento, della corruzione dell’ordine esistente, e dell’accesso globale. Già una volta in anni recenti il Medioriente è stato travolto da un vuoto di potere. Quello prodotto dall’89, il crollo dell’impero sovietico, con il suo muro caduto a Berlino e i suoi militari che si ritiravano dall’Afghanistan.

Con la Russia si ritirava dall’intera area uno dei due elementi del mondo bipolare del dopoguerra. E nel vuoto che i russi si lasciarono alle spalle si mossero i pirati - si mosse ad esempio nel 1990 Saddam Hussein occupando il Kuwait e provocando la prima Guerra del Golfo. Oggi come allora, nel vuoto di potere del crollo delle dinastie autoritarie, si muove chiunque ha, sa, vuole, o pensa di poter afferrare qualcosa. Il ragazzo italiano che faceva il pescatore è stato, come tutte le vittime, sacrificato non all’odio contro di lui, ma al potere che la sua morte dà a chi lo ha ucciso. L’esecuzione di Vittorio Arrigoni è in questo senso un avvertimento, ma anche una premonizione, della direzione in cui si muovono i conflitti oggi: nessun angolo del mondo e nessun suo cittadino ne sarà esente. Anche per questo dobbiamo chiederci: c’è qualcosa da fare per evitare che nuovi pericoli travolgano persone innocenti, testimoni non di guerra ma di pace? Ovviamente nulla è mai casuale. Non è un caso infatti se ostaggi e vittime delle nuove guerre siano sempre più medici, volontari, religiosi, gente insomma del mondo delle organizzazioni umanitarie.

Il fatto è che sempre più spesso queste organizzazioni volontarie sono quelle che rimangono in prima linea. I giornali e le tv, per ragioni anche economiche, hanno quasi del tutto smantellato le loro reti internazionali. La diplomazia è sempre più all’interno dei meccanismi della Difesa - le ambasciate sono ormai dei bunker. Tutto giusto. Ma alla fine, appunto, capita che in mezzo alle situazioni reali rimangano sempre più spesso esposte le fragili organizzazioni di buona volontà. Possiamo lasciare soli questi uomini e donne, o dobbiamo forse cominciare a farci carico anche di tutti coloro che – anche contro la loro volontà (e la nostra) e ogni prudenza – rimangono in prima linea? Ecco una domanda per le nuove guerre.

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« Risposta #157 inserito:: Aprile 22, 2011, 05:25:56 pm »

22/4/2011

Un salto di qualità

LUCIA ANNUNZIATA

Inviando consiglieri militari, gli Stati Uniti e i suoi alleati hanno raggiunto un nuovo livello di coinvolgimento in Libia», scrive il «Washington Post». «L’invio di consiglieri tira al limite l’interpretazione della risoluzione Onu», scrive il «New York Times». «I consiglieri in Libia potrebbero ottenere risultati ben più grandi del loro numero», spiega la rivista di studi militari e sicurezza «Bellum», una sezione della Princeton Review, che continua: «Per i semplici osservatori abituati ad ascoltare discorsi sull’impiego di forze tradizionali – con l’impiego di centinaia di missili, migliaia di truppe – l’annuncio che la Gran Bretagna, la Francia e l’Italia manderanno una decina di consiglieri militari a testa, fa ridere. Ma la realtà della efficacia di questi uomini è ben diversa da quel che appare».

Insomma, molti e rilevanti organi di informazione e analisi sostengono oggi senza false prudenze che, con l’invio di un gruppo di consiglieri militari, tre nazioni europee, Italia inclusa, hanno elevato l’asticella del loro impegno militare contro Gheddafi. I tre governi coinvolti invece continuano a sminuire l’importanza di questa nuova fase. E per una volta non è l’Italia a guidare la danza dell’ipocrisia. L’inglese William Hague secondo cui «I consiglieri vanno in Libia come mentori», si è meritato così la feroce battuta di una giornalista americana, Claire Berlinski: «Visto che non possono addestrare I ribelli, che faranno allora? Organizzeranno una tavola rotonda?».

Le ragioni per cui le tre nazioni debbano continuare a negare ogni coinvolgimento in azioni di terra è comprensibile. Un’invasione della Libia sarebbe l’ammissione di un disastro delle operazioni fin qui condotte, nonché uno choc per l’opinione pubblica occidentale fermamente contraria a nuove avventure militari su vasta scala.

Il problema però rimane: l’invio di consiglieri apre di sicuro una nuova fase, ma quale? La difficoltà a rispondere è nella stessa sfuggente definizione del ruolo di «consigliere» – e in realtà la mancanza di un profilo preciso è funzionale ad un impiego che, nel corso degli anni, ha assunto dimensioni sempre maggiori e sempre più «multiuso».

Nonostante in questi giorni siano stati evocati Vietnam, e (persino) Lawrence of Arabia, l’advisor è un tipo di figura impiegata in continuazione nei conflitti degli ultimi 50 anni, e in ruoli molto diversi (incluso nelle guerre della droga in America Latina). In particolare, però, dopo l’11 Settembre 2001, questo ruolo diventa uno snodo centrale nei rapporti profondamente modificati fra occidentali e mondo islamico. «Gli avvenimenti dell’11 settembre, e i successivi interventi Usa in Afghanistan e Iraq, hanno generato un tipo di relazioni fra i militari americani e i rappresentanti politici di governi stranieri quali mai previsti in nessun manuale militare». Così scrive un saggio del Peacekeeping and Stability Operations Institute e del Strategic Studies Institute - entrambi dell’esercito Americano. Il lavoro pubblicato nel 2008, è dedicato proprio alla complessità e alla flessibilità del ruolo dell’advisor, in particolare nel mondo islamico dopo il 2001. Firmato da Michael J. Metrinko il saggio è intitolato: «The American military advisor: dealing with senior foreign officials in the Islamic World». Il testo è forse dunque la migliore guida per capire la vera missione degli uomini che abbiamo mandato in Libia. Si legge nella prima parte: «Ufficiali dell’esercito sono spesso stati chiamati a fare da consiglieri a politici di altre nazioni e a giocare un ruolo fondamentale nello sviluppo di questi Paesi. Oggi, in Iraq e Afghanistan questo ruolo si è grandemente ampliato e le relazioni fra militari Usa e governatori, membri di governi locali sono divenute strategiche». «La funzione va ben al di là di quella del consigliere in materia di tattica e logistica. Quasi sempre travasa nella sfera politica annullando le tradizionali distinzioni fra ruolo militare, responsabilità del dipartimento di Stato, UsAid, e altri compiti civili. Entra direttamente dunque nel lavoro di “nation-building”, definendo così le relazioni stesse fra i politici di altre nazioni e gli Stati Uniti».

Sono sufficienti tutte queste parole per portarci a riflettere per un attimo in più su dove ci porta questa ultima iniziativa che abbiamo preso in Libia?

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« Risposta #158 inserito:: Maggio 01, 2011, 05:18:33 pm »

27/4/2011

Missili in cambio di parole


LUCIA ANNUNZIATA

Non fosse stato per i soliti spiriti animali del mercato, l’atmosfera sarebbe stata decisamente euforica. Ma anche così, anche con l’Opa di Lactalis lanciata su Parmalat proprio nel giorno della pace franco-italiana, a Palazzo Madama si è ascoltato ieri mattina un grande respiro di sollievo. Testimoni gli imperturbabili amorini degli affreschi e le eterne edere del giardino italiano, Silvio Berlusconi e Nicolas Sarkozy hanno riportato la serenità nelle relazioni fa i loro Paesi, intorno a un accordo dopo tutto semplice: bombe italiane sulla Libia in cambio di una mano francese con gli immigrati. Naturalmente, l’equazione non è stata esposta esattamente in questi termini, ma, occorre dire, non fa una piega.

La maggiore difficoltà che il premier italiano ha incontrato è stata quella di spiegare il nostro lato del patto, cioè far capire come si può contemporaneamente bombardare ma negare di farlo. La frase che ha usato è la seguente: «Ho detto e ripeto che non bombarderemo, nel senso che non useremo le bombe cluster, a grappolo, quelle cioè che colpiscono anche i civili.

Faremo solo pochi interventi con missili mirati, che colpiscono esattamente gli obiettivi». Tradotto dal gergo, l’Italia si impegna a usare solo armi intelligenti. Sarkozy invece ha dovuto sbrogliarsi dalle domande dei cronisti presenti sul suo versante più delicato, quello degli immigrati. Anche lui ha usato una lunga formula per impegnarsi ad aiutare l’Italia con gli immigrati senza irritare il suo elettorato anti-immigrati. Ha così sostenuto che la Francia è a favore del fatto che Schengen «rimanga vivo, ma perché rimanga vivo deve essere riformato». La conclusione è però solo una lettera congiunta franco-italiana al presidente del Consiglio Ue Herman Van Rompuy e al presidente della Commissione europea Manuel Barroso in cui, ha detto Berlusconi, «Abbiamo chiesto all’Ue maggiore collaborazione e solidarietà da parte dei nostri partner europei».

Questo scambio di favori - maggior impegno dell’Italia in guerra e maggior impegno a favore dell’Italia da parte della Francia con gli immigrati - sulla carta ha un suo senso. Ma a guardarlo bene, ci sono pochi dubbi che la parte più gravosa rimane sulle spalle dell’Italia: per quanto pochi possano essere i missili che lanceremo, le armi hanno una loro inevitabile materialità che pesa molto. Le lettere su Schengen invece sono impalpabilmente vaghe, promesse e impegni che sono in ogni caso, letteralmente, parole su carta. Eppure la richiesta fatta all’Italia di impegnarsi di più sul fronte della guerra con la Libia porta al Paese un indiretto riconoscimento: il coinvolgimento di Roma in quanto ex colonia e miglior amica di Gheddafi rafforza l’alleanza Nato ed evita il rischio (che è anche il terrore da parecchio tempo e su molti scacchieri da parte del Dipartimento di Stato Usa) che gli italiani facciano da scappatoia per il leader libico. Il rientro militare pieno dell’Italia come combattente nella Nato riscatta anche il nostro Paese dal rischio isolamento: «Essere stati esclusi dalle consultazioni è stato spiacevole» ha ricordato un premier inusualmente sincero. E se un prezzo da pagare interno c’è per questo nuovo ruolo guerriero - un prezzo quale il malumore della Lega- l’accordo su Schengen con la Francia può almeno essere offerto come un riequilibrio. La benedizione arrivata da Napolitano a questo nuovo ruolo italiano è la prova che almeno per ora il dossier è chiuso.

E’ rimasto aperto invece quello, scottante, delle relazioni economiche fra i due Paesi. L’importanza di questa seconda pagina nel vertice era testimoniata dalla presenza in prima fila, durante la conferenza stampa finale di Sarkozy e Berlusconi, anche dei due algidi ministri del Tesoro, Tremonti e Christine Lagarde, oltre a Frattini, Maroni per l’Italia, e al primo ministro François Fillon, Alain Juppé (Esteri) e Claude Guéant (Interno) per la Francia.

Fra Italia e Francia, come si ricorderà, si combatte da anni una battaglia di competizione industriale attraverso cui passa - dall’Alitalia agli assetti delle grandi banche - la difesa della «italianità». Alla lunga fila di casi si è aggiunto il recente tentativo della francese Lactalis di acquisire il controllo della Parmalat. Il ministro Tremonti, in difesa della italianità e di un elettorato del Nord interessato alle quote latte, si è speso in favore della Parmalat al punto di inserire il latte fra i prodotti strategici del Paese, e da proporre una modifica delle norme antiscalata.

Il mercato però non ha grande pazienza con i bizantinismi della politica - e proprio nel giorno del vertice, ieri, Lactalis ha lanciato una Opa volontaria totalitaria su Parmalat. Il nostro premier non ha gradito, e ha scusato il governo francese: «Il tempismo è tale da far escludere ogni responsabilità del governo francese». Non gli è rimasto però che prendere atto: «Auspico la creazione di grandi gruppi franco-italiani e italo-francesi che possano stare insieme nella competizione globale»; archiviando così di fatto tutte le battaglie fatte in nome della italianità. In cambio anche di questa ritirata, Sarkozy ha lodato Mario Draghi come un ottimo candidato alla guida della Banca centrale europea - ma davvero Draghi ha bisogno del voto dei francesi?

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« Risposta #159 inserito:: Maggio 16, 2011, 11:20:51 am »

16/5/2011

In discussione una certa idea del potere

LUCIA ANNUNZIATA

Lo so, dovremmo sfoggiare un pudico senso delle istituzioni, ma è difficile invece non ammettere che l’arresto di Dominique Strauss-Kahn ci riempie di gioia. Per una ragione che – al netto di ogni necessario garantismo - spero che anche i nostri lettori maschili meno avveduti comprenderanno: lo smascheramento di questo signore comporta una serie di buone notizie per le donne.

L’arresto di Strauss-Kahn apre intanto nuove possibilità nella politica francese, creando le condizioni perché una donna arrivi alla presidenza di Francia. Il direttore del Fondo monetario internazionale è stato fino a due giorni fa il candidato preferito dell’opposizione alle presidenziali, ma nel complesso (e non meno rancoroso che in Italia) universo dei socialisti francesi non era l’unico aspirante alla nomina. Dietro la sua si profilava la candidatura di Martine Aubry, data però finora perdente. I giochi a questo punto si riaprono, e le prossime presidenziali francesi che saranno giocate all’ombra della crisi di leadership di Sarkozy, potrebbero essere decise da ben due donne.

La Aubry da una parte e dall’altra, nel ruolo della guastatrice, Marine Le Pen. Marine, figlia di Le Pen, nuovo fenomeno della destra francese, potrebbe infatti acutizzare il declino di Sarkozy, sottraendogli consensi, e aprendo così la strada a un ritorno all’Eliseo dei socialisti.

Una seconda e significativa conseguenza per le donne è che in questo nuovo scenario non si intravede nessuna quota rosa, nessuna leadership femminile prodotta come fiore di serra. Se la Le Pen, come detto, è cresciuta a pane e politica, la Aubry ha tutti i carati per essere Presidente. Figlia d’arte (suo padre è Jacques Delors, ministro socialista delle finanze dal 1981 al 1985, e soprattutto uno dei fondatori dell’Unione Europea, della cui Commissione è stato presidente dal 1985 al 1995) ha un palmarès da leader nazionale, da ministro del Lavoro fra il 1997 e il 2000, ai due mandati da sindaco di una città complessa come Lille, al suo attuale incarico di segretario del partito socialista. Va anche ricordato che la Aubry è stata una delle donne socialiste che nelle scorse presidenziali prese apertamente le distanze dalla candidata del partito Ségolène Royale, considerata, a loro opinione, troppo mediatica e poco politica. Come si vede, nell’animo pubblico di Martine non alberga nessun femminismo o quotarosismo di maniera. E’ una donna che ha puntato su lavoro, passione, competenza e disciplina: se venisse eletta si innesterebbe nel filone in cui si muovono Hillary Clinton e la Merkel. Un modello femminile seccamente alternativo alla donna bella e subalterna che è il secondo modello femminile proposto dalla politica. Stiamo certamente correndo troppo – ma qui si vuole solo segnalare quanto serie sono per le donne le implicazioni dell’inciampo di Strauss-Khan. Accanto a queste della politica istituzionale, ce ne sono infatti anche altre, di natura più etico-tattica: la vicenda del direttore dell’Fmi contiene un avvertimento sul nuovo clima del tempi.

La giovane cameriera che ha denunciato l’aggressione, è solo l’ultima delle molte donne che, coinvolte volenti o nolenti in umiliazioni sentimentali o sessuali in rapporti con uomini potenti, non stanno zitte. Non ha taciuto la Monica Lewinsky, come non ha taciuto in Italia la signora Berlusconi, o molte delle ragazze vicine al premier. Come non hanno taciuto le amanti e le mogli dei vari candidati americani, o svedesi, o inglesi.

La loro non è solo vendetta femminile – si profila qui la rivolta delle donne a un certo senso del potere, politico ed economico. Il modello che ha permesso a Kennedy di avere tutte le donne che voleva e a Mitterrand di avere due famiglie nella accettazione generale è parte definitiva del passato. Distrutto non da un nuovo moralismo, dal momento che questi smascheramenti non sono frutto di una campagna ideologica, ma di concrete svolte in concrete relazioni fra individui. Quello che si attacca dunque più che la persona, è un concetto: cioè l’idea che le donne siano un fringe benefit, come la macchina e le stock option, del Potere.

In questo senso, l’incidente Strauss-Khan ha un riflesso (sia pur solo di immagine) anche sulla politica italiana. L’arroganza sessuale del politico francese mette sicuramente in un contesto diverso le «intemperanze» sessuali che deformano la nostra politica. E’ indubbio che questa vicenda ci ricorda che la Francia - e potremmo gettare uno sguardo non innocente anche sul resto dei Paesi europei e sugli Usa - ha costumi privati e pubblici scollacciati quanto quelli italiani. Al momento è un punto a favore del nostro premier. Ma cosa dovremo pensare di Silvio Berlusconi se a seguito di questo incidente Strauss-Khan decidesse di rinunciare alla corsa presidenziale?

In conclusione, speriamo che a Strauss-Khan venga riservata una inchiesta giusta, ma anche un trattamento severo in termini di giudizio. Non vorremmo sentire compiacenti giustificazioni sulla seduzione, sui francesi, e ancora meno sui complotti giudaico-massonici. Nemmeno ci piacerebbe ascoltare disquisizioni sul perché i socialisti possano peccare e la destra no. Cari amici, compagni di vita, mariti, fratelli, padri, uomini, queste cose per le donne non sono roba da poco: cercate di essere all’altezza delle nostre attese.

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« Risposta #160 inserito:: Maggio 21, 2011, 09:21:22 am »

20/5/2011

Senza slanci emotivi

LUCIA ANNUNZIATA

Il tanto atteso intervento del Presidente degli Stati Uniti sul Medioriente, arrivato nel pieno di grandi eventi, forse non passerà alla storia.

Un discorso troppo minuzioso, ragioneristico nell’elencazione e cauto nelle soluzioni. Obama questa volta non ha avuto né lo slancio emotivo né la visione politica del discorso con cui al Cairo, solo un paio di anni fa, aveva aperto una nuova era nelle relazioni fra Stati Uniti e mondo musulmano.

Barack Obama ha parlato ieri a fine mattina al Dipartimento di Stato, cioè nel sancta sanctorum della politica estera Usa, e accanto a Hillary Clinton, cui ha dedicato ogni possibile complimento – incluso quello errato (e lo hanno subito sgamato i blog) di aver già volato 1 milione di miglia (sono in realtà la metà, e la Rice aveva raggiunto la mitica cifra, resa tale dal George Clooney di «Tra le nuvole», dopo soli 4 anni). Nulla lasciato al caso, dunque, «per fornire una nuova narrativa», come dicono gli analisti americani, a una storia di tensioni fra Usa e Medioriente ormai più lunga di mezzo secolo. Nessun compito avrebbe potuto essere più facile, dopo le rivoluzioni in Egitto, la cacciata di Mubarak, il ritrovato accordo con l’Europa sulla Libia; nulla di più trionfale da annunciare, dopo l’uccisione di Osama, il ritiro dei soldati americani dall’Iraq l’anno scorso, e la promessa di un altro ritiro in Afghanistan.

Abbiamo ascoltato invece un solo acuto, un unico passaggio in puro stile Obama. Onorando il venditore ambulante di 17 anni Mohammed Bouazizi, che bruciandosi vivo per protesta contro le vessazioni della polizia ha acceso la miccia della rivoluzione in Tunisia, il Presidente ha paragonato i moti dei giovani arabi alla rivoluzione americana, e al movimento dei diritti civili: «A volte nel corso della storia le azioni di cittadini comuni avviano grandi cambiamenti perché colgono un desiderio di libertà che negli anni si è accumulato. In America penso ai patrioti di Boston che rifiutarono di pagare le tasse al re, e penso a Rosa Parks che rimase con coraggio al suo posto». Un audacissimo parallelo da proporre alla sua nazione, gli Usa, in cui oggi l’estrema destra ha eletto la rivolta dei patrioti di Boston a simbolo contro Obama, e in cui contro Obama questa stessa destra solleva di continuo lo spettro del razzismo.

Forzatura retorica, dunque, usata dal Presidente per avocare a sé la riscrittura di una nuova piattaforma di politica estera, che passi dalla «sicurezza e stabilità» per sé stessi, all’appoggio a un sistema di valori. «L’equilibrio attuale non è più sostenibile. Società tenute insieme da paura e repressione possono dare l’illusione di stabilità per un periodo, ma alla fine crollano. Noi appoggiamo diritti universali che includono libertà di parola, di riunione, di religione, di eguaglianza per uomini e donne davanti alla legge, e il diritto di scegliere i propri leader – che si sia cittadini di Baghdad o Damasco, di Sanaa o di Teheran».

Il giorno per giorno di quest’appoggio non è però molto chiaro. E infatti, a parte questi passaggi ispirati, il Presidente si è inoltrato con grande cautela, passo per passo, pragmaticamente, in tutti i problemi aperti nella regione. E di ognuno di questi interventi è stata pesata parola per parola, nelle varie capitali mediorientali, dove l’attesa per il discorso ieri era massima. Nulla di nuovo sulla Libia, salvo la rassicurazione che «Gheddafi se ne andrà o sarà deposto». Più vigoroso invece il tanto atteso richiamo alla Siria, in cui Obama adombra un ultimatum, ma senza davvero spingersi a formularlo: «Il presidente Assad ha una scelta: può guidare lui la transizione, o può andarsene». Del resto, le sanzioni appena applicate al governo di Damasco sono un segno di un indurimento di Washington, ma ben al di qua di ogni sfida. Duro avvertimento anche all’«ipocrisia del regime iraniano, che dice di sostenere le rivolte negli altri Paesi e massacra i suoi giovani che protestano». Ma forse la parte più rivelatrice di questa lista è quella che riguarda i Paesi «amici», come definiti nel discorso. E’ lì infatti che covano il disagio e il dilemma sulle cose da fare: su Israele, sull’Arabia Saudita, sul Bahrein e sullo Yemen, tutti alleati a diverso titolo e con diversa grandezza, ma tutti fondamentali per gli Usa. Al presidente yemenita Saleh, Obama ha ripetuto il suo invito (nulla di nuovo, qui) a mantenere la promessa di lasciare il suo posto. Per la prima volta, invece, abbiamo sentito un chiaro messaggio al Bahrein, dove è di stanza la 5ª Flotta americana. Il movimento di piazza nel piccolo Stato è agitato dall’Iran, e il Presidente Usa lo ha ricordato, «ma ugualmente abbiamo insistito privatamente e pubblicamente», ha rivelato, «perché arresti di massa e forza bruta non esprimono rispetto per i diritti umani». E’ il primo cenno esplicito alle brutalità in corso nel Paese. Mai pronunciato invece il nome dell’Arabia Saudita.

Solo in conclusione Obama ha affrontato il tema più dolente, Israele e Palestina. Ha parlato di nuovo di una soluzione che arrivi alla creazione di due Stati, e ha fatto un riferimento al 1967 «come base» dei confini reciproci. Il ripescaggio dell’anno 1967 ha provocato un certo trambusto nella comunità internazionale dal momento che è la data della Guerra dei Sei giorni che portò alla conquista da parte di Israele della maggior parte dei territori poi occupati e di Gerusalemme. Ma l’uso cautelare dell’espressione «sulla base di» tiene il riferimento dentro le possibili revisioni di quei confini in accordi di scambio, come è sempre stato nelle trattative. La realtà di cui Obama ha preso indirettamente atto nel chiedere il rilancio di un’inizitiva di pace è in effetti il fallimento di due anni di tentativi di stabilire un nuovo dialogo. Pochi giorni fa l’inviato Usa George Mitchell (l’uomo che ha costruito il dialogo fra Irlanda e Inghilterra, per capirsi) ha gettato la spugna. E il nuovo accordo tra Fatah e Hamas ha scombussolato gli schemi di lavoro fin qui usati. Il futuro di Israele e Palestina rimane dunque, come sempre, terra incognita.

Giunti alla fine, non si può che prendere atto che nell’elenco fatto i problemi rimangono più numerosi delle soluzioni. Questo è del resto il Medioriente. E nemmeno l’uomo più potente del mondo può illudersi di plasmarlo. In questo senso, forse, la modestia di questo discorso, di cui parlavamo all’inizio, è l’unico possibile, realistico e anche commendevole tono da assumere.

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« Risposta #161 inserito:: Giugno 16, 2011, 12:13:43 pm »

16/6/2011

Una guerra diventata grottesca

LUCIA ANNUNZIATA

L’altroieri la Camera dei rappresentanti Usa ha bocciato la richiesta del presidente Obama di nuovi fondi per continuare l’offensiva in Libia. «Chi metterà ora i soldi?», si chiede il ministro Maroni.

Nelle stesse ore in cui in Italia si ascoltano questi dubbi, negli Stati Uniti proprio lo speaker repubblicano di quella Camera dei rappresentanti evocata da Maroni dà un altro avvertimento a Obama: domenica, fa sapere John Boehner, scadono i 90 giorni concessi dal War Power Act del 1973 ai Presidenti Usa per decidere azioni di guerra senza permesso del Congresso. L’ultimatum di Boehner è chiaro: in questa settimana Obama deve o chiedere al Congresso il consenso a prolungare la missione contro Gheddafi o ritirarsi dalla missione.

Il dialogo fra Maroni e Boehner, di natura puramente virtuale (anche se non casuale), illumina uno dei principi cardine dei conflitti: la guerra è una scelta che non riguarda mai i principi, ma solo le opportunità. Il dibattito in corso sulla Libia ha così raggiunto un punto surreale. La Lega utilizza l’intervento in Libia contro il proprio alleato Berlusconi come leva di una potenziale crisi di governo. E a Washington i repubblicani, fino a ieri propugnatori della Guerra Preventiva, brandiscono oggi la bandiera del non intervento contro il fino a ieri anti-guerra Barack Obama. Quando la prossima volta dovremo discutere di qualche altro conflitto sarà utile ricordare il cinismo che permette con una giravolta, e così spesso, lo scambio di panni fra guerrafondai e pacifisti.

Questa inversione di ruoli porta tuttavia oggi anche a una non irrilevante presa d’atto. Il cambio di posizioni è maturata, e può esprimersi, perché la guerra in Libia si è sicuramente insabbiata. In questo caso non sono le sabbie mobili evocate, a suo tempo, per le paludi del Vietnam, ma le sabbie vere e proprie di un conflitto dispiegato in un deserto, geografico e geopolitico. Del deserto geografico non è necessario parlare. Quello geopolitico si è invece materializzato a poco a poco fino allo stallo della iniziativa politica, che è superiore solo alla paralisi militare.

Quello della Libia è - possiamo finalmente dirlo? - un conflitto da barzelletta. Una di quelle alla Totò, dove l’uso paradossale delle parole svela quanto grottesca sia la realtà. L’intervento in Libia è nato come una costruzione virtuale, con personaggi deformati per creare una narrativa credibile: la ferocia di Gheddafi, la rivolta del popolo oppresso, i colpi e contraccolpi di battaglie all’ultimo sangue, le persecuzioni, gli appelli alla solidarietà, la fuga della famiglia del dittatore, le incursioni televisive di leader e ribelli. Tutti questi eventi e immagini a novanta giorni dal suo inizio si sono rivelati per quello che sono sempre stati: chiacchiere. Oggi sappiamo - grazie anche al lavoro certosino di tanti corrispondenti - che la vicenda libica, pur non essendo priva di tensioni, aspirazioni e sangue, è però molto più prosaica. Il dittatore è il solito leader sulla strada del declino, è grasso, stanco, frustrato, e corrotto; la sua famiglia è spaventata, i suoi affiliati indecisi fra tradimento e rassegnazione; i ribelli sono gruppi disorganizzati, senza preparazione militare, senza armi, senza coordinamento, e, soprattutto, senza nessun collante ideale.

Del resto, per capire le dimensioni e la natura della guerra in Libia basta confrontarla con l’altra guerra civile in corso nel mondo arabo, la rivolta siriana in cui da mesi migliaia di uomini e donne accettano consapevolmente di farsi uccidere offrendo i loro petti, ogni venerdì, ai carri armati inviati da un’altra famiglia di dittatori nascosti dietro occhiali scuri e silenzio internazionale. È sgradevole fare paragoni di questo tipo, ma non è un caso che il numero dei morti in Siria in poche settimane abbia ampiamente battuto quello delle vittime (per altro ampiamente non verificate) libiche.

Qualcuno potrebbe offendersi per l’uso di un linguaggio così duro, ma è necessario confrontarsi con la realtà delle cose per capire dove vanno e a cosa ci portano. La guerra in Libia va male perché è una guerra mediatica, nata e gestita confusamente perché non si poteva dichiarare il suo unico e vero intento: trovare un nuovo assetto intorno al petrolio in Nord Africa.

La stessa inanità colpisce infatti questo conflitto sul suo versante Nato. La guerra in Libia ha rivelato, per converso, la perfetta debolezza militare della Alleanza Atlantica, come molto rudemente ha detto nel suo ultimo discorso prima della conclusione del suo incarico il ministro della Difesa Usa Robert Gates, che a Bruxelles ha criticato «le insufficienze militari e di altro tipo svelate dalla operazione in Libia». A lui si è unito, pochi giorni dopo, l’ammiraglio Sir Mark Stanhope, capo della Marina britannica, avvertendo che l’Inghilterra ha solo altri tre mesi di autonomia operativa. Non ha detto che la Marina britannica in Libia ha solo quattro navi anche ora che è pienamente operativa.

Siamo, dunque, al dunque: la guerra in Libia può dichiararsi ufficialmente incagliata.

Cosa succederà ora? È probabile che la de-scalation militare non verrà ufficializzata, tanto è nelle cose. Si accelererà invece la ricerca di una soluzione politica. E quale può essere, visto che non c’è la caduta del dittatore? Potrebbe essere quella che si è intravista fin dall’inizio: una partizione della Libia. Come del resto già quietamente si sta preparando con il riconoscimento del governo dei ribelli a Washington e in Europa.

Ma non è una scelta facile, come abbiamo già sperimentato nei decenni scorsi nei Balcani, e in Medioriente. I confini sono, come ben sappiamo, entità politiche e dunque fittizie, ma ogni loro violazione (ricordiamo l’invasione del Kuwait nel 1990 da parte dell’Iraq di Saddam) porta spesso a reazioni a catena, riaprendo tutti i malesseri delle rivendicazioni territoriali. In Nord Africa ci sono i popoli del deserto, artificialmente inseriti nei vari Stati della fascia araba del Mediterraneo. Ma il dossier delle rivendicazioni territoriali è molto ampio anche in Medioriente - basti pensare alla convivenza difficile fra sunniti e sciiti, come in Iraq, e alla questione curda che attraversa Iraq, Iran e Turchia.

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/
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« Risposta #162 inserito:: Luglio 23, 2011, 05:45:13 pm »

23/7/2011

Addio al mito del paese perfetto

LUCIA ANNUNZIATA


Ha guidato per circa un decennio, dal 2000 al 2006 , e ancora nel 2009 e nel 2010, il Human Development Index , l’indice che designa I paesi piu’ evoluti del mondo misurando il livello di eguaglianza, integrazione e opportunita’ . E’ stata designata per anni di seguito come la nazione con il piu’ alto livello di vita. Ma anche e soprattutto, ancora l’anno scorso, come il paese piu’ pacifico del mondo.

Sulla bomba che ha fatto saltare gli edifici del centro di Oslo e’ saltato, ieri, anche il mito della Norvegia come paese perfetto. Ma questo violento risveglio e’ davvero una sorpresa? Nulla avviene in realta’ mai all’improvviso, e neanche questo attacco del terrorismo all’estremo nord d’Europa, arriva di punto in bianco.

La Islamofobia e’ stata in permanente crescita negli ultimi anni sotto la pelle del quietissimio paese, in cui circa 150mila islamici su una popolazione di cinque milioni di abitanti, hanno finito con il costituire un permanente elemento di frizione culturale, un esempio tangibilissimo di come l’Islam in un paese pure laicissimo non sia facilmente assorbibile. E dentro questa tensione, dentro lo sfaldarsi di un sistema, negli ultimi anni si e’ manifestato in questo come in altri paesi del Nord il formarsi di una reazione di destra, laffermarsi , soprattutto via internet, di gruppi razzisti, violenti. Nutriti da una nostalgia del passato, che in questi paesi del nord, come sta succedendo anche in Svezia, ha il volto delle forti correnti di simpatia che ci furono prima della Guerra mondiale per il Nazismo.

La convulsa giornata di ieri, nelle ore drammatiche dopo gli attentati, alla ricerca di un responsabile navigando nel vuoto, iniziata con una rivendicazione Islamista e conclusasi con l’arresto di un Norvegese, ha costituto il racconto perfetto dell’oscura massa di fango e incertezze che si muove da tempo sotto la perfetta facciata del paradiso norvegese.

A notte tardi la polizia ha fatto trapelare che la responsabilita’ e’ probabilmente da accollare a gruppi neonazisti, che puntano a scardinare l’ordine del paese. La mente va automaticamente a un altro caso del genere, l’attacco ad Oklahoma City, del 19 Aprile 1995, in cui un gruppo di “resistenza “ Bianca, uccise 160 persone, l’attentato piu’ grave su suolo Americano fino a quello delle Torri Gemelle. Ma se quello Americano ebbe una matrice tutta nutrita del sentimento antistato dei gruppi di destra in Usa, questo in Norvegia , se fosse davvero attribuibile alla fine a un gruppo interno, avrebbe motivazioni molto diverse.

L’antiimmigrazione, quella Islamica in particolare, e’ il principale motivo di crisi nazionale per questi gruppi. Questo sentimento, combinato con ideologie piu’ tradizionalmente politiche, come l’attacco e la esecuzione a sangue freddo di giovani “socialisti” lascia intravvedere, forma una miscela che finora non si era ancora mai materializzata.

La pista interna , insomma, e’ la piu’ destabilizzante possibile. E non solo per la Norvegia. L’attacco puo’ avviare uno sconvolgimento emotivo ( se non politico) delle grandi democrazie del Nord Europa, che finora hanno comunque assicurato solidi contrappesi alle continue crisi dell’Europa del Sud.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9010
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« Risposta #163 inserito:: Agosto 01, 2011, 04:43:00 pm »

1/8/2011

Di padre in figlio

LUCIA ANNUNZIATA

Inviando i carri armati contro la popolazione della città di Hama, la famiglia Assad si conferma la più capace genia regnante oggi nel Medioriente della Mezzaluna, se per capacità si intende saper conservare il proprio potere con crudeltà e sprezzo di ogni interesse umano che non sia il proprio.

Papà Hafez al Assad, detto anche il Leone di Siria, guarda probabilmente oggi dall’alto con orgoglio la sua progenie, Bashir che è Presidente, e Maher, capo dei gruppi di élite della Guardia repubblicana che guida da mesi la repressione delle proteste. I due rampolli, arrivati sulla scena politica del Paese con la reputazione dei rammolliti (Bashir è dentista e ha conquistato il titolo con molti anni di studi a Londra), si sono rivelati in effetti in questi mesi degni eredi del Leone: la scelta di spianare Hama è del resto un perfetto omaggio a lui, il papà. Fu Assad padre infatti, nel 1982, il primo ad avere l’idea di radere al suolo, novello Attila, la città di Hama, che aveva osato ribellarsi, per farne il monumento alla stabilità e alla forza del suo potere, uccidendo 30 mila islamici. Si capisce bene dunque che oggi i suoi figli inviando i carri armati intendano ripetere l’operazione simbolica di fare di Hama il luogo in cui anche stavolta si è insegnata una lezione a tutto il dissenso siriano che da mesi scuote il Paese.

Il momento, del resto, è perfetto - e tutto si può dire degli Assad meno che non sappiano far di conto e di politica.

Questo inizio di agosto è il festival della distrazione internazionale. Obama è profondamente indebolito dal rischio default, e nel clima che si respira in America è improbabile che Washington si impegni su questioni internazionali. Il presidente turco Erdogan, cui l’Occidente ha affidato il compito di tirare (ogni tanto) le orecchie ai focosi giovani Assad, è in piena crisi da conflitto con i suoi generali dimessisi in massa venerdì per protestare contro l’arresto di 250 ufficiali da parte del governo con l’accusa di cospirazione. Al Cairo fra due giorni dovrebbe iniziare il processo a Mubarak, che rischia di essere la piazza mediatica internazionale su cui si ufficializzerà che i Fratelli musulmani sono quasi riusciti a dirottare e rapire la rivoluzione di Piazza Tahrir. Infine inizia oggi, primo agosto, il Ramadan, il mese di celebrazioni del calendario musulmano, in cui il mondo islamico digiuna, prega e festeggia se stesso - con un antico rito che nel decennio scorso è diventato data simbolica anche per l’Islam radicale di un diverso tipo di festeggiamento, quello delle armi. Proprio ieri l’ammiraglio Usa Mullen, che guida lo staff dei capi di stato maggiore americani, ha proclamato la massima allerta delle truppe in Afghanistan per timori di attacchi taleban durante il Ramadan. E se lo fanno i taleban, perché non farlo in Siria, devono aver pensato gli Assad. Va detto che tutto quello fin qui scritto è solo frutto di osservazioni - tra le altre cose, infatti, il tanto «westernizzato» governo di Damasco, con la sua splendida first lady cresciuta a Londra, le sue portavoce donne, e la sua elegante borghesia che ha ristrutturato il centro storico della capitale, non ha avuto esitazione a buttar fuori (e a tenerli fuori) i giornalisti occidentali.

Riusciranno dunque i fratelli Assad nel loro progetto di radere al suolo Hama? Non abbiamo dubbi. Si è scritto e riscritto (e a questo punto è inutile ripetere) del doppio standard che l’Occidente ha adottato nei confronti della Siria: decisionismo militare per la Libia e chiacchiere di vuote proteste per Damasco. Le ragioni di questa disparità sono state esse stesse descritte numerose volte. La Siria è il cortile di casa di due grandi potenze mediorientali - la Turchia e Israele, ed è dunque area di gioco di quasi tutti i conflitti locali. Attraverso la Siria passa l’aiuto iraniano agli Hezbollah e ad Hamas (che agiscono rispettivamente contro Israele in Libano e a Gaza). La Siria è inoltre una nazione a base etnica molto variegata, con una importante presenza, tra le altre, sia di cattolici che di curdi. Si aggiunga che in Siria non c’è petrolio, e la somma finale è semplice: il timore di una destabilizzazione di questa nazione è più forte di ogni preoccupazione umanitaria.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9045
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« Risposta #164 inserito:: Agosto 04, 2011, 09:51:41 am »

4/8/2011

Quando il popolo processa il faraone

LUCIA ANNUNZIATA


In una vecchia aula del Cairo, un’aula dominata da una enorme struttura di ferro che incute timore, il processo all’ex presidente egiziano Hosni Mubarak ha il sapore di un monito biblico sull’arroganza del potere decennale.

L’uomo che ha governato e deciso su milioni di vite per trent’anni, finisce lui stesso giudicato – portato lì dalla rivolta dei poveri, degli spossessati, degli scontenti, dei dissidenti, dei senza voce che fino a pochi mesi fa lo chiamavano Faraone. Un gigantesco ribaltamento della piramide sociale, e dei ruoli. Un cambio drastico della Sorte, che nella storia si ripresenta con certa regolarità e che, pure, ogni volta che si materializza, guardiamo con stupore, e persino, con un certo sgomento. Possibile che il Faraone non avesse messo in conto la rivolta? Possibile che le mura dei Palazzi offrano tanta sicurezza da sfiorare regolarmente l’impunità? Con il senno di poi è facile vedere i fallimenti avrebbe dovuto sapere, avrebbe potuto salvarsi, bastava un po’ di serenità, viene da pensare, guardando a quegli uomini che siedono davanti alle sbarre dei loro popoli e della storia: ci sono poche cose così incomprensibili come la Sconfitta. Ma se si cerca una risposta a queste domande negli occhi di Mubarak e dei tanti Potenti che prima di lui hanno dovuto affrontare in pubblico la loro caduta, di solito non si trova nulla. Sarà anche questo un attributo del potere: la sua cecità a comprendere la sua fine.

Il monito del processo a Mubarak assume un significato ancora più devastante se si colloca nella sua specifica storia, nel suo specifico tempo.

L’ex Presidente egiziano non è il primo potente a cadere. Anzi. Il mondo arabo è un universo inquieto, in cui i destini di leader e regnanti sono sempre stati incerti ma di solito questi destini sono decisi da guerre, o golpe militari o congiure di palazzo (e a volte da tutte e tre le cose insieme). I potenti rovesciati in passato sono fuggiti, ancora più spesso, sono scomparsi dalla scena politica, in dorati esili interni o direttamente nell’Aldilà.

Gli esempi di questi passaggi di potere, nella sola ultima metà del Secolo XX, abbondano: in Iran lo Scià di Persia nel 1979 fuggì dal Paese sotto l’incalzare di una enorme rivoluzione; in Arabia Saudita non si è mai riusciti a contare il numero degli eredi e dei cugini divorati da lotte interne alla famiglia tuttora regnate. In Iraq si è avuto tempo di vedere due golpe militari e due guerre internazionali. Nello stesso Egitto il fine secolo ha mandato al macero un Re (fuggito) e un Presidente (assassinato).

Ma questa è la prima volta che un potente – che è per altro colui che più a lungo ha guidato un Paese arabo - finisce in un tribunale. Sotto processo, non molto tempo fa, abbiamo visto anche Saddam Hussein, ma è un caso non comparabile perché nel processo agiva fortemente la pressione Americana e l’odio interetnico nei confronti dei Sunniti.

Questo a Mubarak è il primo vero processo in cui senza alibi, senza retropensieri, senza influenze straniere, il popolo spoglia di potere il suo leader, e gliene chiede conto. Una storia araba, fatta da arabi, ma conclusasi in qualche modo in maniera non araba: il processo al Potere è una invenzione occidentale, e nasce non a caso dal secolo dei Lumi, eredità esclusiva del nostro mondo.

Insieme al monito sul Potere, il processo a Mubarak contiene dunque anche la rottura con un percorso del mondo mediorientale come l’abbiamo fin qui conosciuto. Chissà se lo avvertono i vari Gheddafi, Ahmadinejad, Saleh e, soprattutto, gli Assad impegnati proprio in queste ore a domare con il massacro le fiamme della rivolta siriana.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9055
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