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Autore Discussione: Antonio PADELLARO -  (Letto 68675 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Marzo 08, 2008, 04:45:09 pm »

La forza di Walter

Antonio Padellaro


Credo di conoscere bene Paolo Bonaiuti, giornalista e portavoce di Berlusconi, e garantisco che è molto meglio di come appare nei tg di tutte le reti e a tutte le ore quando recita la dichiarazione del giorno modulando la voce a agitando le mani. Cito Bonaiuti perché è l'emblema della campagna elettorale del Pdl dove i candidati sono pezzi di una catena di montaggio. Con ciascuno che deve combaciare con l'altro e tutti contribuire all'apoteosi del capo. Come sempre nei giornali e nelle tv della destra opera una rigida divisione del lavoro. Dai reparti mistici di Libero che innalzano archi di trionfo al sommo leader solo perché non dà del tu a Veltroni. All'artiglieria pesante del Giornale che spara perfino se il Pd sospira e fomenta campagne di pubblica indignazione con titoli degni del Male («Prodi butta soldi per i Giochi gay»). Propaganda invasata di fronte alla quale perfino Veltroni ha perso la pazienza denunciando, l'altro giorno, a Massa quei giornali che «grondano odio e da cui esce veleno». Perfino Veltroni che si vede ogni giorno ricacciare addosso dalla destra a suon di cattiverie l'offerta di un confronto leale e civile.
Veltroni che purtuttavia resta convinto che ci sia una profonda differenza tra la vita reale dei cittadini e la rappresentazione mediatica del paese.

Questa è la sfida lanciata dal leader del Pd con il suo faticoso viaggio in pullman nelle 110 province italiane (32 già visitate). Parlare alle persone, che anche nelle cronache più neutrali riempiono di applausi piazze e teatri e il modo più autentico per spiegare cosa si è (e cosa no) e cosa si vuole. Perché se conti balle, se non sei sincero, se manchi di chiarezza chi ti sta di fronte se ne accorge. Le novità del Pd da raccontare sono tante: dal perché si va da soli senza la sinistra radicale al patto necessario tra impresa e lavoro. Ed è probabile che i sondaggi, già in netto progresso rispetto a un mese fa, non possano ancora registrare le conseguenze di questa minuziosa azione di convincimento. Sarebbe veramente straordinario se la sera del 14 aprile i risultati elettorali, oltre al compimento della difficilissima rimonta sulla destra registrassero l'affermarsi di un'opinione non omogeneizzata dal grande fratello televisivo ma restituita alla parola, al dialogo diretto dell'uomo politico con la gente.

Qui è la vera forza di Veltroni, quella che lo induce a sbilanciarsi sul possibile successo finale alla Camera, che è cosa diversa dal pareggio che gli analisti prefigurano nella lotteria-Senato. Dove, secondo gli analisti, tutto decidendosi in un paio di regioni (Liguria e Marche) è possibile che l'una o l'altra coalizione prevalgano per un pugno di voti, sanzionando di nuovo l'ingovernabilità del Parlamento. Insomma, a un mese dal voto la partita può considerarsi riaperta. Perché se anche il distacco tra centrodestra e centrosinistra fosse oggi i dieci punti proclamati dal cavaliere, per colmarlo il Pd dovrebbe recuperare qualcosa più cinque punti. Vale a dire circa due milioni di voti. Impresa non impossibile calcolando il numero ancora elevato di elettori che i sondaggi calcolano nella casella indecisi (tra il 20 e il 30 per cento del totale)

Tra pochi giorni il gioco comincerà a farsi duro. Sarà allora che evaporate alcune inevitabili polemiche sulle liste e recuperate, ci auguriamo, con un ultimo sforzo di pazienza alcune candidature di qualità (dopo Lumia, Nando Dalla Chiesa e Khaled Fouad Allam) tutto il Pd dovrà mobilitarsi per una battaglia all'ultimo voto. Che non può essere lasciata solo sulle spalle di Walter Veltroni o di Massimo D'Alema o di Pero Fassino. Vogliamo vedere ciò che ancora non vediamo abbastanza. Tutti i candidati del Pd, più o meno eccellenti sparsi per le strade italiane in un porta a porta capillare e appassionato.

Qualche numero fa su Internazionale il direttore Giovanni De Mauro ricordava che in un bellissimo film, «Ricomincio da capo», Bill Murray era un giornalista televisivo intrappolato in un incubo senza fine. Il tempo si era bloccato e ogni giorno si ripeteva uguale a quello precedente senza che il protagonista riuscisse a impedirlo. Con Berlusconi rischiamo di ricominciare da capo per la terza volta. Sarebbe imperdonabile se mancando al Pd solo un pugno di voti fossimo costretti a ripiombare in un incubo collettivo.


Pubblicato il: 08.03.08
Modificato il: 08.03.08 alle ore 12.57   
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« Risposta #46 inserito:: Marzo 11, 2008, 05:56:12 pm »

Fini, l'uomo del giorno dopo

Antonio Padellaro


Nella tragicomica vicenda del fascista reo confesso Ciarrapico nelle liste Pdl, rifulge ancora una volta la mezza figura dell’onorevole Gianfranco Fini la cui prontezza di riflessi a proposito delle iniziative del sommo leader si misura in giorni interi quando non in settimane. A Milano, mentre Silvio Berlusconi stracciava il programma del Pd il promettente numero due era lì impettito e silenzioso a fare da palo. Salvo accorgersi l’indomani, dalla lettura dei giornali del disastro mediatico che quel gesto violento e volgare avrebbe prodotto sull’ampia zona grigia di elettorato benpensante e ancora incerto sul da farsi. Eccolo allora l’uomo del giorno dopo arrampicarsi sugli specchi in frantumi e spiegare con voce inutilmente stentorea che in realtà Berlusconi strappando quei fogli voleva ma non voleva e insomma, forse, però. Ieri, quando si è accorto dei problemini sorti con la geniale candidatura del camerata Ciarrapico il brillante delfino ha avuto la solita reazione vispa e quanto mai illuminante sul peso decisionale da egli esercitato nel partito del predellino. Ha detto infatti che lui quello non lo voleva ma che l’ha scelto Berlusconi. Di questa sua spiccata personalità Fini aveva già dato memorabile dimostrazione ai tempi del famoso «kapò» quando seduto accanto all’allora premier fuori controllo l’intero mondo lo vide diventare verde e poi sbarrare gli occhi. Ma eroicamente dalla sua bocca non uscì neppure un gemito.

Tutto questo potrebbe essere catalogato sotto la voce miserie della politica se in gioco non ci fosse il futuro prossimo del nostro paese. Che si meriterebbe una destra moderna ed europea, come infatti esiste in Francia, in Spagna, in Inghilterra e in grado di andare al governo senza drammi, rispettata e rispettosa degli avversari. Poco a che vedere con la pantomima messa in scena dall’impresario unico, nevrotica, insultante e corredata da marce e retromarce su Roma a cui ci tocca assistere.

Pubblicato il: 11.03.08
Modificato il: 11.03.08 alle ore 11.54   
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« Risposta #47 inserito:: Marzo 16, 2008, 12:34:20 am »

Con le peggiori intenzioni

Antonio Padellaro


Con la preventiva dichiarazione dello stato di guerra nazionale, e con il preventivato numero di vite dei nostri soldati da sacrificare in Iraq, Afghanistan e Libano (per ora) il candidato premier della destra ha illustrato il suo programma di politica estera. Che viene di seguito al programma sul precariato femminile (cercatevi un buon partito o arrangiatevi) e al programma di riconciliazione nazionale: più fascismo per tutti.

Una cosa bisogna riconoscere a Berlusconi: che non sa nascondere le sue peggiori intenzioni. E quindi rispetto al più umiliante governo che si ricordi (da lui guidato dal 2001 al 2006) quello che ci sta anticipando nelle sue linee fondamentali è un incubo.

Che l’uomo si sia ulteriormente incattivito si era capito dal modo con cui ha stracciato pubblicamente il Programma del Pd. Un gesto violento da cui traspare come una volontà di rancorosa vendetta nei confronti degli avversari politici. La pagherete cara, la pagherete tutti sembra preannunciarci il piccolo duce.

La compagnia non lo aiuta certo.

Prima, almeno, era costretto ad ascoltare le pretese dei presunti alleati. Adesso Casini non c’è più. È rimasto Fini che giustamente si offende quando il camerata Ciarrapico lo definisce sguattero. Ma che faccia parte del personale di servizio (politico) è incontestabile.

Se questi qua ritorneranno per la terza volta al potere cosa altro ci aspetta già ce lo fanno capire. Fine dello Statuto dei Lavoratori. Uso della polizia stile Bolzaneto. Asservimento della giustizia all’esecutivo e vasta epurazione delle toghe considerate “rosse”.

Stop all’uso delle intercettazioni se non per indagini di terrorismo, e chi è terrorista lo decideranno loro. Omologazione dell’informazione Rai alle veline di Palazzo Chigi con trasformazione dell’azienda pubblica nella succursale di Mediaset. Bossi avrà la Padania tutta per sé mentre il presidente-padrone avrà mano libera su tutto il resto.

E non è detto che sia la parte peggiore del programma.

Pubblicato il: 15.03.08
Modificato il: 15.03.08 alle ore 8.51   
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« Risposta #48 inserito:: Marzo 21, 2008, 12:19:47 am »

Una questione di civiltà

Antonio Padellaro


È comprensibile che Ignazio La Russa insorga quando Veltroni chiede che vengano accertate le responsabilità politiche della vergogna di Bolzaneto. Lui, come tutta An, sperava che nel paese fosse evaporata la memoria di quei giorni di inaudita violenza. Non aveva però fatto i conti con la sconvolgente requisitoria dei pubblici ministeri Petruzziello e Ranieri Miniati, pubblicata integralmente solo da «Unità» e «Repubblica». Perché adesso diventa impossibile non collegare le violenze disumane perpetrate dalle schegge impazzite della polizia di Stato al particolare clima politico di quell’estate del 2001.

Sicuramente vaneggiava quel torturatore in divisa che fu sentito esclamare «con Berlusconi facciamo quello che vogliamo». Ma nella Genova sconvolta del G8 restano agli atti due attive presenze di governo. Quella del vicepresidente del Consiglio Fini, ospite dalla sala operativa in Questura. E quella del ministro della Giustizia Castelli che visitò la caserma degli orrori non battendo ciglia davanti ai “prigionieri” sbattuti contro il muro, gambe divaricate e braccia alzate. Forse solo con una commissione parlamentare d’indagine, finora osteggiata anche da una parte del centrosinistra, si potrebbero riempire i buchi neri a cui l’inchiesta giudiziaria non può dare risposta.

È possibile cioè che gli agenti indegni abbiano agito solo mossi dalla loro brutalità? O sapevano di essere comunque protetti dall’alto? La destra usa come unico argomento difensivo la necessità di impedire il linciaggio delle forze dell’ordine. Sapendo benissimo che un completo accertamento della verità servirebbe proprio a separare dalle mele marce i tanti servitori dello Stato che fecero il loro dovere. Sbaglia la destra a non capire che Veltroni pone una questione di civiltà a tutela di tutti i cittadini. Quel «segnale di attenzione» che i magistrati chiedono affinché dopo i fatti di Bolzaneto e della Diaz un altro buio della democrazia non sia più permesso.

Pubblicato il: 20.03.08
Modificato il: 20.03.08 alle ore 13.28   
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« Risposta #49 inserito:: Marzo 22, 2008, 09:38:47 pm »

Niente di personale

Antonio Padellaro


Sere fa, su «La7», nel corso dell’interessante «Niente di personale», il conduttore Antonello Piroso e il direttore del «Corriere della sera» Paolo Mieli si sono trovati d’accordo nel deplorare «l’antiberlusconismo ottuso» di chi, così abbiamo capito, finirebbe per fare il gioco del Cavaliere enfatizzandone le battute e le provocazioni varie. È una polemica che si trascina fin dai tempi della discesa in campo dell’uomo di Arcore e che, come si ricorderà, proprio alla vigilia delle elezioni del 2006 finì per investire il «Caimano», film di Nanni Moretti dedicato alla irresistibile ascesa di un politico supermiliardario. Può darsi, ma non è provato, che a causa dei meccanismi sopra citati l’opera morettiana abbia finito per contribuire alla quasi sconfitta dell’Unione di Prodi, in partenza accreditata di un vantaggio più che cospicuo sulla Casa del caimano.

È certo invece che le sale furono prese d’assalto da un pubblico di antiberlusconisti ottusi con incassi da record al botteghino. Così come un’impennata di vendite in edicola ci fu, a metà degli anni 90, con l’«Espresso» di Claudio Rinaldi che una settimana sì e l’altra pure metteva in copertina Berlusconi e la sua corte. Senza parlare del giornale che state leggendo, più volte denunciato pubblicamente come strumento del demonio comunista dal presidente-padrone e per questo circondato dall’affetto dei lettori. Chi scrive, oltre ad avere molto apprezzato il film di Moretti era parte di quell’«Espresso» come lo è di questa «Unità». Perciò, sensibile all’antiberlusconismo più o meno ottuso chiede il diritto di replica.

La teoria compiuta del più lo tiri giù e più si tira su è di Filippo Ceccarelli che su «Repubblica » del 17 marzo ha spiegato che «al fine di mobilitare un certo tipo di elettorato disattento» e con l’obiettivo di «trasformare il voto nel solito referendum sull’unico vero suo programma, e cioè su se stesso, sulla sua persona pubblica e privata, il cavaliere diverte, si diverte e provoca, e chi ci casca è perduto». Poniamo che sia così, che chi dà corda a Berlusconi finisca con l’impiccarsi. Ma allora, per assurdo, il rimedio sarebbe uno solo: non parlarne mai. O meglio non parlarne mai male visto che stampa e magazine tracimano di copertine, ritratti e interviste dai quali il Cavaliere Patinato e la sua Dinasty rifulgono in tutto il loro splendore. Sia detto senza polemica ma leggendo sul «Corriere» di ieri titoli come «Don Verzé: l’Italia è al naufragio e il genio di Silvio può salvarci» oppure «Bennato e la cena con Silvio: mi piace, non è un’infezione», può venire il dubbio che all’antiberlusconismo ottuso si voglia contrapporre una sorta di berlusconismo acuto.

Quanto alla trappola che Berlusconi tende ai suoi avversari costringendoli a parlare di lui, sarebbe tale se la critica fosse limitata ai capelli catramati e al guardaroba da anziano gagà. Non depongono benissimo ma pazienza. Se però il capo della destra candida tranquillamente un fascista, il problema non è nella macchietta in camicia nera quanto nel palese disprezzo verso valori e sentimenti comuni alla stragrande maggioranza degli italiani, come del resto dimostrato dal suo costante rifiuto di celebrare il 25 aprile. E se costui propone a una giovane donna in cerca di lavoro di trovarsi un uomo ricco che è meglio, il problema non è la simpatica battuta ma la palese sottovalutazione della questione lavoro. Il dileggio rispetto ai drammi e alle umiliazioni di un mondo giovanile condannato al precariato (e il giorno dopo il suicidio di un uomo avvilito dall’assenza di futuro). Sarà pure vero che la sua linea è creare casi per tenersi in vita ma davanti alle continue allusioni sessuali, alle “gnocche” da mettere in lista o alle veline che servono soltanto a quella cosa lì, un giornalismo degno di questo nome deve limitarsi a dare di gomito? O meglio sarebbe, come fece la moglie Veronica nella famosa lettera, pretendere un briciolo di rispetto per il genere femminile e per la tanto conclamata famiglia, senza per questo essere tacciati di «ottusità»? E che dire della disinvolta cordata elettorale su Alitalia, presentata come se giocasse a monopoli invece che sulla pelle di migliaia di lavoratori?

Questo giornale, come altri del resto, non pretende di avere l’esclusiva delle virtù civili e non pratica l’indignazione come genere d’effetto. Rispettiamo le scelte degli altri ma di fronte a certe omissioni e insofferenze ci viene in mente la famosa metafora degli occhiali del sociologo Pierre Bordieu. Spiega che i giornalisti, spinti non solo dalle propensioni inerenti al mestiere, alla loro visione del mondo, alla loro formazione, ma anche dalla logica della professione selezionano la realtà decidendo che cosa è interessante e cosa invece non lo è. I giornalisti hanno, appunto, «occhiali» speciali attraverso i quali vedono certe cose e non altre; e vedono in un certo modo le cose che vedono. Operano, insomma, una selezione e una costruzione di ciò che poi sarà pubblicato. I giornalisti, dunque, si interessano solo a ciò che è importante, sorprendente, divertente. Per loro.

Questo può spiegare che cosa non troviamo nella maggior parte dei quotidiani italiani, e cioè quei fenomeni cosiddetti di «periferia» che trattano di povertà e di emarginazione, di malattie e disoccupazione, di pelli scure e morti bianche. Argomenti sfigati, come mi disse un giorno il collega di un importante quotidiano.

Mentre gli occhiali di Bordieu non possono spiegarci perché nell’informazione televisiva c’è sempre uno molto più uguale degli altri. Molto più presente, molto più parlante, molto più importante e non c’è par condicio che tenga. Chissà quale forza irresistibile e misteriosa spinge i direttori del Tg (con la lodevole eccezione del Tg3) a dedicargli tanto tempo e attenzione. Niente di personale, ne siamo certi.

Pubblicato il: 22.03.08
Modificato il: 22.03.08 alle ore 14.51   
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« Risposta #50 inserito:: Marzo 28, 2008, 05:17:31 pm »

Bufala bill

Antonio Padellaro


Non abbiamo il minimo dubbio: il collega della «Stampa» ha riportato fedelmente le parole di Berlusconi sulla presunta cordata per Alitalia, rivelatasi poi falsa. Il virgolettato è autentico non fosse altro perché quei nomi (Mediobanca, Benetton, Ligresti, l’Eni) non può averli immaginati che l’intervistato. Una cordata priva di fondamento, inventata a scopi elettorali e subito smentita dai soggetti incautamente coinvolti con inevitabile retromarcia dal nostro bufala bill.

Ci sarebbe da ridere se l’autore della facezia non stesse da giorni giocando sulla pelle di migliaia di lavoratori e con le quotazioni della Borsa.

E se tra qualche settimana l’Italia non rischiasse seriamente di ritrovarsi questo personaggio di nuovo assiso sulla poltrona di Palazzo Chigi. Il mondo ci guarda, scrivevamo ieri, e resta di stucco (come il Wall Street Journal) nell’apprendere che alla testa di una delle nazioni più progredite può ritornare insieme al caravanserraglio di leghisti e secessionisti del nord e del sud chi interpreta la lotta all’evasione fiscale come una forma mascherata di aumento delle tasse.

Chi coltiva l’idea che si possa vivere senza regole. Chi tratta le grandi scelte economiche come affari privati. Si era detto all’inizio della campagna elettorale che nel candidarsi per la quinta volta a premier (record eguagliato solo dal fascista Le Pen) forse il capo della destra aveva cambiato look mostrandosi più cauto nelle promesse, meno aggressivo nelle accuse. Pura illusione, come dimostra la foga iraconda con cui ha ripreso a dare del comunista a chiunque osi contraddirlo.

A settanta e più anni Berlusconi non può certo cambiare una natura «allergica alla verità e una propensione voluttuaria e voluttuosa alle menzogne» (Indro Montanelli). Con i problemi che abbiamo il pensiero di altri cinque anni di avanspettacolo e girandole lascia sgomenti.

Pubblicato il: 28.03.08
Modificato il: 28.03.08 alle ore 8.30   
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« Risposta #51 inserito:: Marzo 29, 2008, 06:37:54 pm »

I voti di un povero cristiano

Antonio Padellaro


Confessiamo di provare un confuso sentimento nel vedere tanti illustri atei devoti, oppure devoti ex atei, accolti festosamente nelle più maestose basiliche dalle più alte gerarchie. Se non addirittura battezzati per mano del sommo pontefice. Fastidio? Gelosia? Invidia? Senso di pochezza da parte di noi poveri cristiani o che altro? Per restare in tema prendiamo la parabola del fariseo e del publicano.

Forse la conosce anche chi non è andato a scuola di catechismo. In breve, due uomini salgono al tempio per pregare e il fariseo («stando eretto» dice il vangelo) ringrazia Dio per essere un uomo osservante della legge e non un peccatore come quel publicano lì. Costui, persona religiosamente contaminata, tenendosi a distanza si batte il petto e invoca la pietà divina. Come sappiamo, è lui che Gesù preferisce perché chiunque si innalza sarà abbassato, e chi si abbassa sarà innalzato.

Sentiamo già i rimbrotti dei nostri custodi della legge sul vangelo fai-da-te da cui non si può prendere solo ciò che fa comodo. Mentre monsignor Fisichella ci impone come giusta penitenza di leggere per dieci volte la parabola del figliol prodigo e gli ultimi editoriali del «Foglio». Ovviamente, di assistere alla messa vespertina nella cappella vip accanto alla principessa Borghese, Giuliano Ferrara e Magdi Allam non se ne parla.

C’è, probabilmente, in molti credenti un senso come di amarezza e dispiacere di cui la Chiesa dovrebbe tenere conto. Costoro che pure si sforzano tra mille debolezze di essere coerenti con la propria fede si sentono improvvisamente messi da parte, trascurati, sospinti in fondo alla navata. Forse ancora più che per le aperture conciliari Giovanni XXIII sarà ricordato come uno dei papi più amati per quella semplice e affettuosa carezza che la sera della sua elezione chiese di portare a tutti i bambini. Quel discorso della Luna lasciò un segno nei cuori e nella storia. Tutti seppero che la Chiesa cattolica da severa, fredda, distante ritornava a riscaldare con un messaggio di amore i deboli, gli umili e i soli.

Nel ricordarci sul «Corriere della sera» che il battesimo «è un atto di vita interiore, non di spettacolarità mediatica né di logica politica», Claudio Magris ha colto il punto di possibile frattura. Più dall’alto si usa la religione in senso spettacolare e politico. E più dal basso si cerca di proteggere le proprie scelte interiori dagli agitatori della fede. Sentimenti e tormenti di cui spesso il cristiano parla a stento perfino con il confessore, diventano manifesti elettorali. Mortificante lo spettacolo dei politici che si prosternano al verbo porporato. Dai credenti si pretendono precise scelte di campo su aborto, eutanasia, coppie di fatto. Questioni di coscienza che come dice la parola stessa riguardano solo ed esclusivamente la sfera morale di ciascuno. Se i sondaggi segnalano che il voto dei cattolici è orientato più a destra che a sinistra se ne compiacciono i leader pluridivorziati paladini della famiglia. C’è qualcosa che non va. Infatti, nella lista delle tematiche da affrontare quasi tutti parlano di soldi che non bastano, di tasse, sicurezza. Ma soltanto il 2,8% degli italiani cita la tutela della vita e ancora di meno sono quelli che si preoccupano della difesa dell’identità religiosa. Per non parlare della guerre di religione, con relativa condanna globale dell’Islam che vivono solo nella immaginazione dei neoconvertiti. O perché troppo abbagliati dalla nuova luce o perché troppo furbi. Insomma, come ha scritto Ilvo Diamanti su «Repubblica», tra i tanti problemi il paese non sembra attraversato da una nuova, lacerante «questione cattolica».

Ancora meno quindi si comprende come mai la somma gerarchia non si preoccupi di arginare questa sovraesposizione mediatico-mondana della religione. Che, altrimenti, rischia di oscurare la vera dimensione del cristianesimo che, come ha lasciato detto qualcuno, è soprattutto messaggio di speranza per i poveri, gli afflitti, gli assetati di giustizia, i misericordiosi, i portatori di pace e gli ultimi della terra. Era lo stesso che scacciò i mercanti dal tempio. Ma forse ciò che non capiamo è uno dei tanti misteri della fede. Inspiegabile come l’esistenza di uomini divisi su tutto ma che dicono di credere nello stesso Salvatore.

Pubblicato il: 29.03.08
Modificato il: 29.03.08 alle ore 10.10   
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« Risposta #52 inserito:: Marzo 31, 2008, 12:38:52 am »

Crediamoci

Antonio Padellaro


Nelle cento e più dichiarazioni di voto per il Pd raccolte dall’«Unità» c’è l’Italia che non si rassegna, l’Italia che ci crede, l’Italia che ce la può fare. Un paio di mesi fa, probabilmente, molti degli interpellati avrebbero preferito non rispondere per comprensibile sfiducia. Del resto, nelle ore dell’agguato a Prodi,- al governo del risanamento e dei conti in ordine -, nei giorni bui dei pugnalatori prezzolati, delle arroganti dichiarazioni del principale esponente del fronte opposto, dei sondaggi a picco, chi avrebbe mai scommesso sulla possibilità di una rimonta sul Pdl? Recupero, invece, che tra due settimane, il 13 di aprile, potrebbe diventare uno straordinario sorpasso sul filo di lana.

Sicuramente Walter Veltroni sta trasformando una sicura sconfitta in una possibile vittoria in tre mosse.

La decisione di far correre il Pd da solo accantonando l’alleanza con la sinistra radicale e sulla base di un programma riformista. Un grande cambiamento in un sistema stagnante che sta convincendo numerosi cittadini ad uscire da limbo dell’antipolitica.

Il pullman del leader che alla fine del viaggio avrà toccato da un capo all’altro della penisola 108 province italiane. Un rapporto diretto con le persone che ha invecchiato di colpo il solito copione delle campagne televisive restituendo agli elettori il diritto a una democrazia autentica e non taroccata.

La crescita non solo numerica del Pd che soltanto un anno dopo lo scioglimento di Ds e Margherita è ormai stabilmente un pilastro portante del sistema politico italiano. Mentre il futuro del centrodestra è sempre più nelle mani di un ultrasettantenne presidente-padrone.

Ma adesso il gioco si fa duro e lo sforzo della intera squadra Pd (D’Alema, Fassino, Franceschini, Bersani, Bindi, Rutelli, Finocchiaro e le altre centinaia di candidati) deve concentrarsi sugli indecisi (se votare) e sugli incerti (per chi votare) puntando a convincerne il maggior numero possibile. Sono, secondo gli ultimi sondaggi, il 10%: 3,8 milioni di elettori, la maggior parte dei quali orientati verso il Pd. Per superare Berlusconi basterebbe che Veltroni riuscisse ad assicurarsi un po’ più della metà degli indecisi-votanti: due milioni e mezzo di voti in due settimane. Certo che è difficile. Certo che si può fare e a questo serve la Domenica dei Democratici con 12mila gazebo sparsi nelle piazze di 6mila comuni italiani. Questa volta però dobbiamo crederci tutti e non solo chi è impegnato direttamente nella campagna elettorale. Mai come in queste elezioni diventa fondamentale la figura dell’elettore che si fa parte attiva, che si mobilita per spiegare qual è la posta in gioco e per convincere chi ancora non lo è.

In questa mobilitazione appassionata e capillare, fondamentale come sempre il ruolo dell’«Unità»: 750mila copie sono oggi in piazza con il Pd, tiratura che ricorda quella degli anni eroici e delle grandi vittorie. Un’altra dimostrazione della forza e della insostituibilità di un giornale che da 84 anni è parte della storia migliore del nostro paese. Il giornale del lavoro e della libertà.

Pubblicato il: 30.03.08
Modificato il: 30.03.08 alle ore 8.39   
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« Risposta #53 inserito:: Aprile 05, 2008, 05:06:39 pm »

Minacce e paura

Antonio Padellaro


Poniamo che nella tarda serata di lunedì 14 aprile, a urne ormai chiuse né dai numeri del Viminale né tantomeno dagli exit-poll si riesca a capire chi ha vinto e chi ha perso le elezioni politiche del 2008. Mettiamo (ipotesi probabile) che al Senato, complici il sistema macchinoso e i voti ballerini degli italiani all’estero si prefiguri un sostanziale pareggio tra centrodestra e centrosinistra. E che alla Camera (ipotesi possibile) si verifichi un testa a testa Pdl-Pd sul filo dei voti e del premio di maggioranza. In una situazione del genere cosa farebbe Silvio Berlusconi? Resterebbe tranquillo ad aspettare la conclusione dello spoglio, disposto a riconoscere e a rispettare il risultato qualunque esso sia? Ne dubitiamo fortemente per il semplice fatto che egli già ora si proclama vincitore e con il più ampio margine. «Se non ci saranno brogli non ci sarà nessun pareggio», ha sentenziato ieri. E ha aggiunto: «Tutti i sondaggi ci danno avanti di 8-10 punti. Abbiamo messo in campo un esercito di 120mila volontari a difesa del voto degli italiani». Dichiarazioni che dovrebbero suscitare il più vivo allarme nelle altre forze politiche, a cominciare naturalmente dal Pd. Quella di Berlusconi, infatti, non è la consueta vanteria propagandistica o un troppo caloroso auspicio ma la rivendicazione di un diritto (la vittoria) a cui manca solo una formalità (le elezioni). Cosicché ogni altro diventa un imbroglio. Un atteggiamento tipicamente infantile. Di chi pensa è tutto mio.

Berlusconi procede per affermazioni apodittiche, quelle che non vanno dimostrate e non tollerano discussioni.

Sostiene di avere già vinto perché «tutti i sondaggi» gli danno un vantaggio incolmabile per quantità di voti e di parlamentari. Quegli stessi sondaggi elettorali che in passato si sono dimostrati assai fallibili, come nel 2006 quando vaticinarono il trionfo dell’Unione di Prodi però salvata solo da un pugno di voti. Previsioni che anche ultimamente hanno brillato per vaghezza segnalando un trenta per cento di indecisi che in campo statistico non sono proprio un dettaglio. Da una settimana, poi, chiunque può dare i numeri visto che i sondaggi dovrebbero restare riservati per legge. E dunque così come Berlusconi può vantare dieci punti di vantaggio, Veltroni potrebbe benissimo annunciare il sorpasso dell’avversario. Ma per il cavaliere tutto ciò non conta. Del resto, dieci anni fa, dopo la prima affermazione di Prodi contestò i voti degli elettori sostenendo che gli unici veritieri erano i voti dei suoi sondaggisti.

Brogli. Il sillogismo è d’acciaio. Vinco certamente io ma se dovessi perdere sarà per i maneggi dei soliti comunisti. Non è una barzelletta ma una minaccia ricorrente. Nel 2005, prima delle Regionali disse che a sinistra c’era «una vecchia professionalità nel cambiare i voti nelle schede». Nel ’96 giurò, «ce ne hanno tolti un milione e 705mila». Alla vigilia del voto del 2006 chiese nientemeno l’intervento degli osservatori dell’Onu per vigilare sui «professionisti dei brogli della sinistra». Dopo, non ha mai riconosciuto la vittoria di Prodi e ha continuato a denunciare colossali imbrogli ai danni della Cdl. Anche se resta il sospetto che i numeri li abbia falsificati qualcun altro ai danni del centrosinistra. L’esercito dei 120mila volontari nei seggi per conto di Silvio è probabilmente un’esagerazione. Che però serve a preparare un clima nel caso il Pdl dovesse perdere o anche solo pareggiare. Un brutto clima che Berlusconi surriscalda accusando le istituzioni di giocargli contro. A cominciare dal Quirinale, arbitro del confronto politico, che ha chiamato in causa con l’accusa poi rimangiata di parzialità.

Non c’è dubbio: le minacce di Berlusconi si spiegano con la paura per un esito elettorale all’inizio strombazzato come una tranquilla passeggiata e adesso non più così sicuro. Resta la sensazione, spiacevole, di una democrazia da un quindicennio tenuta costantemente in ansia da un capopopolo degno dello Zimbabwe.

Per questo fa bene il loft veltroniano a sposare, come abbiamo letto, la linea dura. Non un espediente momentaneo per motivare l’elettorato e smuovere gli incerti. E neppure un antiberlusconismo di maniera e fine a se stesso. Dura e rigorosa deve essere invece la posizione di chi pretende da ciascuno il rispetto delle regole non permettendo a nessuno di spaccare il Paese.

apadellaro@unita.it



Pubblicato il: 05.04.08
Modificato il: 05.04.08 alle ore 10.39   
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« Risposta #54 inserito:: Aprile 10, 2008, 10:59:12 pm »

L’Italia bella che si fida di Veltroni

Antonio Padellaro


A Cosenza, 108esimo capoluogo visitato, sono le sette della sera di martedì 8 aprile e in piazza dei Bruzi ci sono dieci e forse anche dodicimila persone che sgomitano e spingono e premono quelli delle prime file e gridano Walter-Walter e lo afferrano e lo toccano e si aggrappano e lo abbracciano e provano a travolgerlo malgrado la scorta faccia robusto quadrato. Lui, allenato, riesce a lasciare un segno su mani, guance, quaderni, foglietti, cartelli tricolori del Pd mentre cammina veloce inseguito da un tumulto festoso che sta per accerchiarlo ma un attimo prima lo sportello del pullman si apre e si chiude e il candidato, al sicuro, saluta la folla e poi mostra le braccia ai suoi e dice contento: sono pieno di lividi mi hanno menato un’altra volta. Era andata così la mattina a Crotone e il giorno prima a Taranto, Matera, Potenza e domenica pomeriggio a Lecce, ma lì non c’eravamo però ci fidiamo della grande macchia di folla che riempie gli schermi dei pc del servizio stampa a imperituro ricordo. Non è solo il proverbiale calore del sud, spiega Veltroni, perché a Varese, baluardo dell’ostile nord-est, la sala scoppiava e la folla debordò nella piazza, come da fotocolor.

Testimoni più neutri i giornalisti al seguito dal 17 febbraio, cinquantuno giorni fa, concordano sul complessivo successo di pubblico anche se non sempre con la stessa fisicità travolgente. Una cosa straordinaria, pazzesca, mai vista, ripete lui ad ogni squillo di telefonino. Rassicura quelli che si sincerano: certo che sto bene, certo che possiamo farcela, tutta questa gente straordinaria qualcosa vorrà dire...

All’ora di pranzo tra chiazze di neve e sbuffi di vento mentre lo festeggiano alla Tavernetta di Spezzano Silano il pronostico di Marco Minniti viceministro calabrese è che in ogni caso il candidato può fare 1 X 2. Perché, spiega, se vince o pareggia Walter avrà compiuto un miracolo. Ma se pure si perdesse, a questo punto il Pd c’è e non lo ferma più nessuno.


La vita delle persone

Ascoltare tra la folla la campagna elettorale di Veltroni significa confrontarsi con un paio di interrogativi. Dov’è l’antipolitica? E dov’è la politica che noi raccontiamo sui giornali? La prima domanda riguarda le piazze di ogni colore e un grado di partecipazione tutt’altro che in calo. Ciò sembra indicare non il rifiuto della politica in quanto tale bensì «la critica costruttiva a una classe politica che sacrifica l’interesse collettivo a favore dei suoi fini autoreferenziali» (come si legge nel bel saggio di Carlo Carboni «La società cinica»). Sul modo di fare e dare informazione forse gli addetti ai lavori, a cominciare da chi scrive, dovrebbero interrogarsi sul rapporto tra realtà e finzione. Poiché certamente incontrando un giornalista l’elettore comune non gli chiederà delucidazioni sull’ultimo scambio di battute a Matrix o a Porta a Porta. Ma se ci fermano sulla pubblica via è perché si cominci a scrivere di rimborsi sanitari sulla malattie rare (a Taranto). O di collegamenti ferroviari decenti e della crisi dell’industria chimica (Matera). O di crisi dell’agricoltura (Crotone) e disoccupazione giovanile (Cosenza).


Cronache familiari

Veltroni questo deve averlo molto chiaro tanto è vero che in ogni suo comizio tipo della durata di poco più di un’ora soltanto pochi minuti sono dedicati all’ordinario scontro di dichiarazioni con «il principale leader dello schieramento avverso», pane per i denti di quotidiani e tg. Il resto è una conversazione sulla vita delle persone reali, sui loro bisogni e sulle loro attese, costruita con il linguaggio di quelle stesse persone. E che forse proprio per questo non leggeremo sui giornali. Nello stile diretto e didascalico troviamo echi della «Bella politica», la lezione-video sui grandi personaggi che hanno acceso la fantasia di intere generazioni, da Gandhi ai Kennedy a Martin Luther King. All’astrattezza del politichese si sostituisce il senso comune delle cose. Così il dramma del precariato diventa cronaca familiare. Una volta era la bottiglia del vino buono stappata per festeggiare l’assunzione di un figlio e una strada spianata per il futuro. E che oggi si trasforma in paura per un futuro che tempo sei mesi o un anno può svanire nel nulla.

Così il mostro burocratico è la giungla di ventimila leggi e centomila regolamenti che nella vita delle persone si traduce in sessanta diversi atti e documenti necessari per aprire un negozio di alimentari o una carrozzeria. Se andremo al governo, promette Veltroni, ai giovani sarà dato un salario minimo legale di 1000/1100 euro; mentre la strategia di lungo termine sarà quella di far pagare di più alle imprese i lavori atipici incentivando i lavori a tempo indeterminato. Con noi, annuncia, si potrà aprire un’attività commerciale nell’arco di una giornata e basterà un’autocertificazione. Le parole arrivano, le gente sente che si può fare e applaude.


Io mi fido di te

Ma perché credere a Veltroni? E chi ci dice che non siano le solite promesse elettorali tante volte ascoltate invano? Qui scatta la garanzia «Letizia». Letizia Scotta, la ragazza che ha salutato Veltroni sul palco di Crotone. Giovanissima come tutti i “testimoni” che accompagnano il candidato leader dalle Alpi alla Sicilia. Tosta e senza timidezze. «Caro Walter», comincia, «hai detto: “Combatteremo contro ogni mafia”, e questa è un'espressione che non può più essere uno slogan. Ricorda che queste parole sono pietre, e pronunciarle invano come troppo spesso è stato fatto qui da noi è un vero peccato. Tu hai sempre tenuto alle cose che hai detto, ti chiediamo di continuare a farlo, e te lo chiediamo col cuore, ma anche con la spietata consapevolezza che è l’unica possibilità che abbiamo di rimanere qui, per non dovere ancora una volta partire. Io ho fiducia in te, sento che pronunci queste parole con voce di verità,e ti crediamo».

Non è affatto un caso che la manifestazione si concluda, come sempre con l’Inno di Mameli e con Jovanotti che canta «Io mi fido di te». È un marchio che si stampa nel cuore delle persone. Si fidano di Veltroni ma è come se ciascuno stipulasse con lui un proprio contratto personale. Vogliono stringergli la mano, abbracciarlo, toccarlo per dirglielo direttamente affinché resti un messaggio indimenticabile.


La dura politica

Sono elezioni complicate e il pullman diventa il cuore operativo del Pd, l’ufficio dei colloqui riservati. In Puglia sale Nicola La Torre, braccio destro di D’Alema. Il sindaco di Bari Emiliano si spinge fino a Taranto. In Calabria ci sono Minniti e Rosa Calipari. Fino a qualche settimana fa il Mezzogiorno sembrava una partita disperata. Adesso non più. Improvvisamente sul viaggio spira un vento ottimista e un po’ folle. Prendiamo Napoli. Vigilia con l’ansia delle prove difficili. I rifiuti e tutto il resto. Poi, l’annuncio di Bassolino: un anno per non lasciare i problemi in mezzo alla strada e poi le elezioni regionali. Ieri a piazza Plebiscito erano in centomila, un delirio.

Veltroni è su di giri. I sondaggi? Bene, ma possiamo crescere ancora. Il meteo sembra preoccuparlo di più. Forse piove a Milano. Venerdì a Roma andrà meglio. Il candidato sforna idee per la comunicazione. La lettera a Berlusconi sulla lealtà repubblicana. Reagiscono con gli insulti? Ottimo, sono in difficoltà. La rimonta come fece l’Italia di Bearzot al Mundial dell’82. Loro hanno Paolo Rossi? E noi Tardelli. Pressing a centrocampo. Non diamogli tregua, chiede Veltroni. Politica e calcio. Manda un messaggio a Spalletti, a Manchester con la Roma. Sì, si può fare,

Ce la faremo?, è la domanda più frequente. Io ci credo, ho scommesso uno stipendio sulla nostra vittoria, sorride un signore a Cosenza. La carta segreta sono i giovani. Mai visti tanti. Trasmettono allegria, voglia di fare. Uno li guarda e pensa che il futuro è nostro. Quando Veltroni dice che avrà la stessa età che oggi ha Berlusconi nel lontano 2026, la gente si diverte. Verde è anche la squadra del pullman. Silvia, Luigi primo, Roberto, Tatiana, Domenico, Vittorio, Walter, Luigi secondo, Anna, Luciano, Valerio. Li ho citati tutti perché voterò anche per loro domenica 13 aprile.

Pubblicato il: 10.04.08
Modificato il: 10.04.08 alle ore 8.23   
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« Risposta #55 inserito:: Aprile 12, 2008, 04:16:32 pm »

Dichiarazione di voto

Antonio Padellaro


Voglio vivere in un Paese dove non si definiscono eroi i condannati per mafia e dove i politici non comprano i voti dalla ‘ndrangheta.

In un Paese dove non si stracciano i programmi degli avversari e dove chi la pensa diversamente non è definito un grullo o un fuori di testa o un antropologicamente diverso. In un Paese dove se un magistrato indaga sui reati dei potenti non viene sottoposto a visita psichiatrica.

Voglio vivere in un Paese dove i giornalisti non baciano la mano del leader proprietario e non sghignazzano alla sue battute da caserma. In un Paese dove per ottenere un lavoro non occorre piegarsi al padrino di turno. Dove chi rispetta la legge, e ne chiede il rispetto, non viene considerato un fallito o un invidioso. Dove non si giustifica chi evade il fisco dicendo che avrà le sue buone ragioni. In un Paese dove per un baratto elettorale non si permette ai vari capataz nordisti e sudisti di sputare sul tricolore auspicando fucili e cannoni. Dove comizianti in camicia nera non invocano la cacciata degli immigrati a calci nel sedere. Dove i ragazzi sono educati al rispetto della Costituzione e della legalità.

Voglio vivere in un Paese che non deve più vergognarsi dei propri governanti davanti al mondo che ci guarda e non sa se ridere o piangere. Un Paese che deve interrogarsi sulle ragioni profonde che periodicamente rischiano di trasformarlo in una repubblica delle banane.

Voglio vivere in un grande Paese che deve aprire le finestre e cambiare l’aria avvelenata dell’odio e della paura. Un Paese che ha bisogno di respirare fiducia, ottimismo, intelligenza, creatività. Per tornare subito a correre e a prosperare.

Spero, speriamo, che sia questa l’Italia nella quale da lunedì potremo continuare a vivere.


Pubblicato il: 12.04.08
Modificato il: 12.04.08 alle ore 12.36   
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« Risposta #56 inserito:: Aprile 16, 2008, 12:19:52 pm »

Le tante facce del voto

Antonio Padellaro


È andata male perché Berlusconi ritorna a governare l’Italia. È andata male perché il Pd non è riuscito a vincere. Ma è andata bene perché il partito di Walter Veltroni esce da queste difficili elezioni come l’unico grande e, speriamo, compatto argine al potere della destra. Una forza del 34 per cento che in pochi mesi ha messo solide radici e che si candida a guidare il Paese in un futuro probabilmente non lontano, come spiegheremo tra un momento.

Ma i risultati del terremoto del 14 aprile ci dicono altro ancora. Che si è di fatto instaurato in Italia un sistema bipolare che rappresenta più dell’ottanta per cento degli elettori. Che a pagare l’amarissimo conto di questa chiamiamola semplificazione del sistema politico è stata soprattutto la Sinistra l’Arcobaleno che non avrà più alcuna rappresentanza in parlamento. Un evento, nella sua drammaticità, storico.

Il terzo ritorno di Berlusconi a palazzo Chigi ci spaventa per una serie infinita di motivi che proveremo a sintetizzare. Perché il vecchio-nuovo premier sarà scortato e controllato dall’esercito leghista che farà pesare ogni giorno sul tavolo delle decisioni la ricca messe di voti rastrellata in tutto il nord-est. Un successo addirittura travolgente in Lombardia e nel Veneto, accompagnato da uno sconfinamento davvero inatteso in Emilia-Romagna.

E infatti la guardia padana per bocca dei soliti Calderoli e Castelli ha subito annunciato un giro di vite sugli immigrati come primo punto di un programma ispirato come sempre alla xenofobia e all’esclusione. Predicatori della disunità nazionale i seguaci di Bossi hanno già trovato una degna sponda nella lega siciliana di Lombardo, l’autonomista eletto alla guida della Regione che propugna forme più o meno mascherate di separatismo. Chi si opporrà nel Pdl ai Bossi e ai Lombardo uniti nella lotta per sfasciare l’Italia? Non certo il povero Gianfranco Fini, un dì leader patriottico di An e oggi pallida comparsa del capo.

Quanto resisterà il cartello elettorale del Pdl alle spallate secessioniste del Carroccio? Pensiamo non a lungo anche perché al Senato i numeri della maggioranza non sono tali da garantire al governo sonni tranquilli. E non certo per cinque lunghi anni.

Il ritorno di Berlusconi ispira altre considerazioni, anche autocritiche. Possibile che dopo un quindicennio non riusciamo a liberarci di un personaggio che nel resto del mondo ispira incredulità e sarcasmo? E il centrosinistra, nelle sue varie forme, non ha qualcosa da rimproverarsi se il pericoloso miliardario e la sua minacciosa corte possono tornare a celebrarsi nei vari Porta a Porta come i salvatori della patria invocati dal popolo?

Nella partita politica che si apre tocca quindi al Partito Democratico giocarsi al meglio le sue carte. Diciamo subito che in queste ore la delusione è forte. Sapevamo tutti che si trattava di recuperare uno svantaggio notevole. Ma eravamo lo stesso convinti che il pullman di Veltroni, alla fine, avrebbe fatto il miracolo di riunificare il paese sotto le bandiere del Pd. Non è stato così forse perché i miracoli non appartengono a questa politica. O perché c’era ancora un tratto di strada da fare.

Comunque adesso che il Pd c’è pensiamo debba prepararsi ad affrontare una battaglia in tre mosse. Opposizione intransigente al governo Berlusconi. Dialogo sulle riforme, a cominciare da quella elettorale, solo se l’apertura di Berlusconi risulterà sincera. Rafforzamento del proprio blocco sociale guardando proprio a quella sinistra disintegrata dal voto o meglio dal non voto di ieri. Pensiamo che la litania dei risentimenti non giovi a nessuno. L’improvvisata alleanza tra Rifondazione, Verdi e Comunisti italiani paga probabilmente l’appoggio dato al governo Prodi e a quella politica dei sacrifici molto mal digerita dai ceti più deboli. Che adesso abbandonano il progetto bertinottiano per rifugiarsi probabilmente nell’astensionismo. Ma quel mondo di sinistra esiste ancora e il Pd deve tenerne conto. Sui modi migliori per dare ad esso una nuova rappresentanza ci sarà sicuramente tempo per riflettere.

Pubblicato il: 15.04.08
Modificato il: 15.04.08 alle ore 18.54   
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« Risposta #57 inserito:: Aprile 16, 2008, 06:37:30 pm »

Dismissioni

Antonio Padellaro


Dispiace sinceramente che il primo intervento pubblico del vincitore delle elezioni Silvio Berlusconi sia stato contro l’«Unità».

Dispiace che egli si dichiari offeso per accuse non meglio precisate. Forse non ha gradito il titolo su Bossi che comanda, ma è ciò che pensiamo sullo strapotere che avrà la Lega nel nuovo governo. Dispiace che il prossimo presidente del Consiglio chieda al Pd di «dismettere certe posizioni», ovvero di imbavagliare questo giornale come condizione per l’apertura di un dialogo con l’opposizione. Da uno che continuamente si proclama paladino dei valori liberali, non c’è male.

Dispiace che a «Uno Mattina», pregiata trasmissione del servizio pubblico, nessuno dei presenti abbia osato eccepire alcunché, visto che si attaccava chi non poteva difendersi. Il coraggio, come si sa, uno non se lo può dare; e poi, in Rai, con questi chiari di luna meglio obbedir tacendo.

Caro Presidente, stia pur certo che non sarà facile dismetterci. Anche perché l’ultima volta, se ben ricorda, siamo noi ad averla dismessa, e non disperiamo di poterci ripetere. Infine, poiché ce le suoniamo da tanti anni ci permetta di darle un consiglio. Non è meglio la nostra solida e aperta inimicizia dei tanti lustrascarpe che le si affollano intorno?

Pubblicato il: 16.04.08
Modificato il: 16.04.08 alle ore 8.18   
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« Risposta #58 inserito:: Aprile 20, 2008, 12:00:19 pm »

La lezione della sconfitta

Antonio Padellaro


Lo choc elettorale è comprensibile ma sarebbe ora che gli sconfitti mettessero da parte rabbia e scoraggiamento per ricavare una qualche lezione utile dagli errori commessi invece di continuare a scaricarli altrove. A cosa serve, per esempio, dare la colpa della propria sconfitta a un altro partito, ovvero al Pd di Veltroni, esercizio politicamente incongruo nel quale si esercitano gli esponenti della Sinistra l’Arcobaleno? Ciò che non abbiamo ancora letto e sentito da nessuna parte è piuttosto un’analisi completa dell’occasione storica persa prima e durante il governo Prodi.

Interrogarsi sui circa quattro milioni di voti che mancano complessivamente al centrosinistra significa soprattutto riflettere sul destino di un tesoro dilapidato. Dovremmo tutti rammentare infatti che dal 2001 in poi, nel quinquennio cioé del Berlusconi II, i partiti dell’allora opposizione inanellarono una brillante serie di successi consecutivi sbaragliando l’allora Cdl in ogni elezione comunale, regionale o europea che fosse. Fu così che nella primavera del 2006 all’Unione appena costituita tutti i sondaggi attribuirono un vantaggio pressoché incolmabile sull’armata allo sbando del centrodestra. Come fu che in poche settimane quella enorme distanza si ridusse ai famosi ventiquattromila voti non è un mistero doloroso.

Perché già in quella campagna elettorale la composita coalizione cominciò a mostrare tutte le crepe e le contraddizioni che avrebbero portato all’implosione di due anni dopo. Subito Berlusconi se ne accorse e scatenò lo scatenabile recuperando punti su punti. Eppure alla fine andò bene, il Porcellum di Calderoli giocò incredibilmente a nostro favore e nella indimenticabile notte del 10 aprile 2006 Romano Prodi potè annunciare una vittoria risicatissima ma pur sempre vittoria in una piazza romana che già temeva il disastro.

A quel punto il rischio sventato in extremis avrebbe dovuto suggerire a tutti gli otto o nove partiti una strategia d’emergenza. Trincerarsi, fare quadrato, prepararsi a resistere cinque anni e a qualunque costo. Per il bene del paese ma anche per quel naturale istinto di autodifesa che è l’abc della politica. Fin dall’inizio era chiaro a tutti che una anticipata fine del governo avrebbe trascinato nel baratro partiti e partitini. Su quei pochi voti di vantaggio reinvestiti con intelligenza e tenacia si sarebbe potuto cambiare a favore del centrosinistra il baricentro politico del paese. Poiché era chiaro che, da Mastella a Bertinotti ne avrebbero guadagnato tutti, a tutti ragionevolmente sarebbe convenuto concorrere ad aiutare Prodi, proteggendolo, rassicurandolo, portandogli la colazione a letto se necessario. Il calvario a cui è stato sottoposto il Professore dai suoi alleati veri e presunti, giorno dopo giorno, resta, lo sappiamo, un capolavoro di autolesionismo e di stupidità politica. E ha ragione Veltroni quando definisce Prodi uomo di stato, «uno dei più grandi che la storia repubblicana abbia conosciuto». Prodi, uomo capace e per bene, al quale non finiremo mai di dire grazie. Logorato, però, e alla fine abbattuto «da una conflittualità permanente dentro una coalizione paralizzata dalla cultura dei no».

Quel piccolo margine di maggioranza al Senato invece di essere difeso con le unghie e con i denti è stato continuamente giocato ai dadi per lucrarne, nel migliore dei casi, qualche straccio di visibilità sui giornali o in tv. Il possibile che Rifondazione, Comunisti italiani e Verdi dicono di aver fatto per tenere in piedi la baracca non poteva bastare. Ci siamo forse dimenticati dei Rossi e dei Turigliatto? Dei ricatti sulla politica estera? Dei ministri di lotta in piazza a manifestare contro il governo di cui facevano parte? E adesso, se tutti i responsabili di tanto insensato sperpero, a cominciare proprio da Mastella, non rientrano in Parlamento chi lo ha deciso? Il perfido Veltroni. O una massa di elettori furiosi dopo aver visto finire in fumo (e nell’immondizia) le proprie speranze? Via, siamo seri.

* * *

Il secondo pericolo che la sconfitta elettorale rischia di produrre nel campo a noi vicino è quello di una quasi resa morale. L’idea cioè che dal 14 aprile scorso la destra ha sempre ragione. Che gli italiani amano Berlusconi, come ci spiegano autorevoli colleghi. Che la Lega è l’unica forza autenticamente popolare, mentre il resto è solo casta approfittatrice. Perfino un personaggio notoriamente misurato come Montezemolo è pronto a sostenere, senza arrossire, che ormai gli operai sono più vicini alla Confindustria che al sindacato. Nelle inchieste televisive sulle ex Stalingrado in mano al Carroccio nessuno obietta se il bravo cittadino indica schifato uno spiazzo dove la moschea non si farà e dice: che vadano a pregare a casa loro. E se il Berlusconi che riceve Putin e tratta i destini di Alitalia è un premier che nessuno ancora ha nominato, meglio non parlare di rigore istituzionale altrimenti ti ridono appresso.

Calma però. È vero, hanno vinto ma non hanno vinto tutto. I voti della destra (compreso Storace) sono 17 milioni e 800mila. Quelli del centrosinistra 15 milioni, di cui 12 milioni del solo Pd. Due milioni ne ha l’Udc. Ovvero: nel paese reale maggioranza e opposizione quasi pari sono. Le principali città italiane sono ancora governate dal Pd e dalla Sinistra. E così la maggior parte delle regioni. Checché ne dica Luca Cordero, c’è ancora un’organizzazione democratica di massa (11 milioni e 700mila tesserati) che si chiama sindacato. I leghisti, sicuramente, hanno raccolto i frutti di un lavoro capillare sul territorio. Pd e sinistra devono prenderne atto e tornare a parlare con la gente. Le cittadine linde e pulite piacciono anche a noi. Se poi però il sindaco col manganello non toglie le panchine per non farci sedere gli immigrati. Del resto, di radiose comunità con i gerani sul balcone, e con l’orrore dietro l’uscio è piena la storia del Novecento.

A Veltroni diciamo quindi tenga la barra dritta. Con la sinistra, soprattutto con il popolo della sinistra, occorre ricostruire un rapporto perché siamo convinti che ciò può giovare molto al Pd e allargare la sua base di consenso. Bene l’opposizione senza sconti in Parlamento ma occorre sferrare una grande offensiva sui valori democratici. Quando ha detto alle mafie non vogliamo i vostri voti, è stato il momento più bello della sua campagna elettorale. Lo hanno preso in parola. Ne valeva la pena. Ma adesso ricordiamolo a tutti.
apadellaro@unita.it

Pubblicato il: 19.04.08
Modificato il: 19.04.08 alle ore 10.14   
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« Risposta #59 inserito:: Aprile 26, 2008, 05:23:05 pm »

Fascisti su Roma

Antonio Padellaro


Nell’ultimo anno, e nella sola città di Roma, non si contano gli episodi violenti di matrice fascista denunciati alla magistratura. Aggressioni davanti alle scuole. Incursioni nelle sedi dei partiti di sinistra e contro chiunque venga giudicato «diverso» (l’assalto al circolo omosessuale Mario Mieli). Spedizioni punitive in manifestazioni ritenute «rosse», con relative bastonature (il concerto di Villa Ada). Sui muri la svastica è un simbolo così frequente che non ci si fa più caso. Ma i suoi seguaci non si limitano a lavorare di vernice e pennello. Non è passato molto tempo, infatti, dalla notte dell’11 novembre 2007 quando, in seguito alla tragica morte del tifoso laziale Gabriele Sandri, centinaia di estremisti neri in assetto da guerriglia devastarono il Foro Italico e diedero fuoco a una caserma di polizia. Con tecnica e spiegamento di forze tale da fare ipotizzare alla procura il reato di terrorismo. È uno stillicidio di notizie pubblicate nelle pagine di cronaca con un andamento abitudinario e dunque per niente allarmante. Cronaca un po’ troppo speciale e un po’ troppo frequente anche se a nessuno salterebbe in mente di paventare un ritorno del fascismo in una democrazia solida e collaudata come la nostra. Chissà se la pensa così l’attrice Daniela Poggi, minacciata al grido di «comunista schifosa» mentre distribuiva volantini pro-Rutelli nel quartiere bene di Vigna Clara?

Certo che non siamo alla vigilia di una nuova marcia su Roma ma diventa difficile negare che tutto ciò non abbia nulla a che fare con la candidatura di Gianni Alemanno e con la sua possibile elezioni a sindaco della capitale.

Non staremo qui a rinvangare la biografia politica dell’uomo, germogliata nel Fronte della gioventù di missina memoria, tra busti del duce e saluti romani, perché pensiamo che a ciascuno (soprattutto ai politici) vada chiesto non da dove viene ma chi è. E oggi Alemanno, come ha scritto Il Foglio, è tutto quello che fu e molto altro ancora. Sul passato i suoi silenzi sono tali da far pensare che valga per lui la vecchia massima del né rinnegare né aderire. Il che non vuol dire assenza di idee guida e di paletti ben piantati. Per esempio, ministro dell’Agricoltura nel secondo governo Berlusconi, Alemanno si era fatto apprezzare anche dall’opposizione per la competenza nel settore e per uno stile misurato e non cortigiano nei confronti del premier padrone. Fino a quando, durante una visita all’università di RomaTre alcuni studenti che lo contestavano furono mandati all’ospedale, e non si appurò mai se i picchiatori facessero parte, come alcuni sostenevano, del seguito ministeriale.

Ieri, il candidato della destra era presente alle celebrazioni del Vittoriano per il 25 aprile. Ma quando è stato il momento di dire qualcosa ha parlato di «Liberazione della nazione da ogni forma di totalitarismo sia di destra sia di sinistra». Un classico zero a zero: ovvero proprio quell’equiparazione che è svalutazione e denigrazione dell’antifascismo di cui ha parlato a Genova il presidente Napolitano. Il né rinnegare (il fascismo) e né aderire (all’antifascismo) non è solo un problema (grave) di chi si candida alla guida di una delle città più importanti del mondo. È molto di più. È un’ambiguità che genera un vuoto. Dentro il quale può facilmente addensarsi quel pulviscolo nero che aggredisce e insulta.

I fascistelli che danno fuoco alle caserme o bastonano i gay non sanno nulla del fascismo che nella loro feroce ignoranza rappresenta solo una parola d’ordine, un lasciapassare ribellistico. Se fino a ieri strisciavano nell’ombra perché oggi non dovrebbero sentirsi al sicuro in un paese nel quale il premier in pectore festeggia il 25 aprile con il fascista non pentito Ciarrapico? E dove il sindaco della capitale morale si rifiuta di scendere in piazza con i concittadini non avendo più bisogno di raccattare voti e di un padre partigiano da esibire sulla carrozzella degli invalidi. È l’antidemocrazia assecondata dalla tranquilla indifferenza di milioni di italiani per il mostruoso, l’ignobile, il delinquenziale di cui scrive Giorgio Bocca. E quella dilapidazione del valore della solidarietà e del rispetto degli individui, di cui parla Walter Veltroni nell’intervista di oggi a l’Unità. È il trionfo dell’Italietta che spaccia per bisogno di sicurezza le sue ossessioni contro gli zingari «che se ne devono anna’». Che come ricetta infallibile per lo sviluppo propone per bocca di Pino Rauti, fascistissimo suocero guarda caso di Alemanno, di affidare i terreni comunali «a tante cooperative per l’orto e il giardinaggio». Cosa ha a che fare tutto ciò con un grande paese e con una grande città?

Pubblicato il: 26.04.08
Modificato il: 26.04.08 alle ore 12.23   
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