LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. => Discussione aperta da: Admin - Giugno 15, 2007, 10:16:11 pm



Titolo: Antonio PADELLARO -
Inserito da: Admin - Giugno 15, 2007, 10:16:11 pm
Presidente non li riceva

Antonio Padellaro


Non ci permetteremo certo di suggerire al capo dello Stato ciò che egli deve o non deve fare. Ma la presenza al Quirinale, mercoledì prossimo, di quegli stessi leghisti che ieri, e in quale modo, hanno oltraggiato il Parlamento sembra quasi un’ingiuria reiterata nei confronti delle istituzioni. Qui non si tratta più del volgare disprezzo che costoro non hanno mai smesso di rovesciare sui simboli della Repubblica italiana. Quella che, del resto, non hanno mai riconosciuto (continuando però a occupare poltrone e a mungere privilegi), sentendosi cittadini della fantomatica Padania.

Gli è stato consentito di tutto. Il tricolore che il loro capo voleva usare come carta igienica. I cappi da forca mostrati nell’aula di Montecitorio. Gli insulti irriferibili lanciati ai senatori a vita, colpevoli di non farsi intimidire dai mazzieri con il fazzoletto verde. Sempre considerati (i mazzieri) con benevolenza da quasi tutta la stampa. Dei simpatici casinisti ma in fondo innocui anche quando sguinzagliavano le ronde padane per buttare a fiume gli immigrati. La stessa comprensione che oggi mostra Silvio Berlusconi, e non a caso visto che lui i leghisti li ha spesso utilizzati come massa di manovra.

Anche adesso che si tratta di salire al Quirinale con la scusa delle elezioni che la destra non otterrà ma sempre con l’idea fissa della spallata contro il governo legittimo del Paese. I cui banchi, appunto, vengono assaliti, tanto per cominciare. Sappiamo che Giorgio Napolitano non si è mai tirato indietro quando le circostanze lo hanno richiesto.

Lo sa il governo del maxiemendamento alla Finanziaria, richiamato a un più corretto uso della legislazione. Lo sanno ministri, sindaci e presidenti di regione ammoniti nei giorni dell’emergenza rifiuti a Napoli. Non gliela faccia passare liscia, presidente. Li lasci fuori della porta.

Pubblicato il: 15.06.07
Modificato il: 15.06.07 alle ore 9.01   
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Titolo: Antonio PADELLARO -
Inserito da: Admin - Giugno 16, 2007, 06:24:12 pm
La belva e i lettori

Antonio Padellaro


Strano, ma nella scoppiettante lite a distanza tra il primo ministro britannico in uscita e il direttore di The Independent sui difficili rapporti tra politica e stampa, non si parla mai dei lettori. I quali pur essendo quelli che pagano, per essere governati e per essere informati, restano sullo sfondo come i curiosi che si affollano intorno a un incidente stradale. Riassumiamo per chi si fosse perso le puntate precedenti. Tony Blair accusa: sulla base della mia decennale esperienza a Downing Street vi dico che i giornali sono belve selvagge e disoneste attirate solo dagli scandali e dai contrasti di opinione, e interessate a fare a brandelli le persone e la loro reputazione. La replica di Andreas Whittam Smith potrebbe essere condensata nella celebre battuta di Humphrey Bogart: Tony non te la prendere, è la stampa bellezza. Naturalmente il discorso- sfogo di Blair (peraltro scritto divinamente) ha riscosso ampi consensi nel mondo politico italiano, soprattutto in quello di sinistra dove i morsi della belva sulle intercettazioni risultano particolarmente dolorosi.

Certo, il momento è quello che è, ma in generale si può realmente sostenere che nel nostro Paese l’informazione sia nemica della politica? Ai nostri cari leader può accadere che non tutte le mattine abbiano l’oro in bocca e che lo sfoglio dei quotidiani riservi qualche amara lettura. Messa in pagina dalla belva dattilografa per assecondare, direbbe Blair, la propria natura selvaggia (vedi le succulente telefonate). Capita però che nei restanti 350 giorni dell’anno giornali e televisioni si mostrino molto più mansueti e disponibili. Stiamo parlando non della qualità e indipendenza dell’informazione, da valutare caso per caso, ma della quantità smisurata di spazio che ogni giorno quella stessa informazione messa sotto accusa riserva alle presunte vittime.

Chi scrive ricorda che, all’inizio degli anni 70, di regola, il Corriere della sera dedicava giornalmente all’attività di governo e dei partiti la sola (esauriente, chiarissima) nota politica di Luigi Bianchi, più qualche notizia di contorno. Rare le interviste, riservate ai grandi protagonisti. Eccezionalmente, in occasione dei grandi eventi (congressi, crisi di governo) scendevano in campo le grandi firme con le loro inchieste. Oggi, tutti in giornali di peso (l’Unità compresa) dedicano pagine e pagine alla politica e ai politici e lo fanno senza particolari istinti ferini. Anzi, nello sfogliare i quotidiani sembra di assistere al miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pezzi. A parte i fatti del giorno squadernati e sezionati in più titoli, è un profluvio di retroscena, ritratti, aneddoti, dettagli, curiosità. Perfino se il ministro ha cambiato modello di camicia o di cravatta, si andrà a scandagliare il sarto da cui si serve onde ragguagliare sul girocollo e la tinta preferita. Le interviste, s’intende, non si negano a nessuno. È sufficiente che lo sconosciuto peone sia disposto a dichiarare qualcosa di piccante o sconveniente, e avrà le sue quindici righe di celebrità.

Inutile spiegare che i maggiori leader di partito e di governo sono stampati e illustrati dappertutto. Di loro conosciamo i sospiri e i più riposti pensieri. Fatica, del resto a cui essi si sottopongono volentieri in base alla regola prima della politica universale: se non sei sui media, non esisti. È il cast fisso che dai tg dell’ora di cena tracima nei salotti televisivi. Con le star che si scambiano di posto in un girotondo incessante e ipnotico. Luoghi dove non ci viene mai detto nulla che non sapessimo prima mentre i soliti rumori di sottofondo accompagnano l’ultimo sbadiglio: ti ho fatto parlare senza interrompere ora fai parlare me... Uno spettacolo forse unico al mondo quello dei politici chiamati a discutere di se stessi con altri politici, a farsi le domande e a darsi le risposte. Altrove, in Europa, un compito che è dei giornalisti e che nessuno si sognerebbe di sottrarre loro. E allora non si capisce più chi è la belva e chi l’agnello. E come mai chi fa la parte del leone se ne lamenta pure.

Torniamo infine al convitato di pietra: i lettori. È lecito dubitare che siano contenti di giornali (e telegiornali) siffatti. Ed è facile prevedere che lo saranno ancora di meno se una politica in crisi depressivo-aggressiva deciderà lei cosa gli italiani devono e non devono leggere, cosa devono e non devono sapere o vedere. Tony Blair ha tutte le ragioni quando denuncia i vizi della stampa. Forse ce ne sono anche di più e di peggio (il più grave: il troppo spazio che diamo a chi non se lo merita). Ma senza i giornali Tony Blair sarebbe diventato il premier Tony Blair? Ed è un caso che se la prenda con i giornali ora che premier non lo è ormai più?

apadellaro@unita.it

Pubblicato il: 16.06.07
Modificato il: 16.06.07 alle ore 10.45   
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Titolo: Antonio Padellaro La vita reale di Prodi
Inserito da: Admin - Luglio 22, 2007, 12:03:12 am
La vita reale di Prodi
Antonio Padellaro


Romano Prodi, all’alba di ieri, che annuncia l’accordo sulle pensioni ai pochi, assonnati giornalisti presenti nella sala stampa di Palazzo Chigi. Gli siedono accanto i ministri Padoa Schioppa e Damiano e il portavoce Sircana. Tutti hanno trascorso la notte in bianco a trattare con i leader sindacali Epifani, Bonanni e Angeletti. Tutti ritengono di avere ottenuto il migliore risultato possibile. Il presidente del Consiglio dichiara: «Ora l’Italia è un paese più giusto». Fermiamoci qui. Non sapremo dire quanto sia reale e quanto celebrativa la frase del premier. E lasciamo agli esperti il giudizio sui contenuti economici dell’intesa raggiunta e sugli immediatii contraccolpi politici. Riprenderemo invece il discorso da un bell’articolo di Giuseppe De Rita, pubblicato sul Corriere della sera di giovedì 12 luglio. Il titolo è di quelli che invitano avidamente alla lettura: «Come opporsi allo sconforto collettivo». Come, infatti, è proprio quello che tutti sempre più spesso ci chiediamo leggendo (e facendo) i giornali o quando siamo alle prese con i nostri affanni quotidiani.

Nelle ultime righe del suo scritto (che non si può riassumere senza il rischio di banalizzarlo), De Rita usa espressioni ormai desuete nel dizionario isterico del nostro scontento. Parole come «pazienza», «giorno per giorno», «lavoro difficile e faticoso». Parole che ci permettiamo di estrapolare dal contesto per il valore in sè che esse hanno. Parole a cui vorremmo aggiungerne altre dal suono gradevole: «ragionevolezza», «buona volontà», «sforzo comune».

Nella rappresentazione mediatica della politica termini considerati ingenui, sempliciotti, banali e quindi messi fuori corso come certi francobolli troppo esotici e colorati. Parole tuttavia che stanno sicuramente nella borsa degli utensili di milioni di italiani quando escono di casa la mattina per affrontare la vita quotidiana. Persone che messe di fronte a complicati e noiosi problemi di lavoro vi si applicheranno con pazienza e buona volontà cercando di trovare non la soluzione perfetta ma quella possibile. Persone che se investite di una qualche responsabilità ascolteranno le diverse opinioni soppesandole con competenza e buon senso. Cercando di ascoltare chi va ascoltato, di non fare torto a nessuno e decidendo alla fine nell’interesse di tutti. Persone sottoposte a pressioni, a minacce e, qualche volta, costrette a giocarsi il tutto per tutto. Persone a cui succederà di sentirsi ingiustamente criticare, accusare e perfino insolentire per le decisioni prese. Persone che (come tutti) sbagliano, e (come tutti) pagano le conseguenze dei propri errori. Persone che si mangeranno il fegato e che nei momenti di più acuta solitudine si chiederanno (come a tutti noi capita di chiederci): ma chi me l’ha fatto fare? Persone che tornano a casa la sera così sfibrate e con un senso tale di fallimento da non riuscire neppure a confidarsi con la propria famiglia. Persone che una volta consegnato il compito, giusto o sbagliato che sia, si sentiranno crescere dentro quella strana calma che parla e che dice: comunque la mia parte l’ho fatta.

Accade nella vita reale delle persone reali. Non nella vita irreale delle persone mediatiche. Quelle strane figurine che oggi sera compaiono ossessivamente nei pastoni politici dei tg. Sempre le stesse recite a soggetto dove tutto reso in termini di «distorsiva confusione» (De Rita) risulta amplificato e distorto. E in buona sostanza, inutile. Le figurine hanno sempre ragione e non sbagliano mai. Le figurine possiedono la verità rivelata ma non si saprà mai quale perché esistono in una strana dimensione che è una seconda vita perfetta e immaginaria dove non si suda e non si soffre perché tutto è perfetto e tutto è già risolto.

Pensavamo a questo, chissà perché osservando Prodi e i suoi ministri, esausti, all’alba di ieri nella sala stampa di Palazzo Chigi.

apadellaro@unita.it

Pubblicato il: 21.07.07
Modificato il: 21.07.07 alle ore 9.14   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Se Fini è sempre Fini
Inserito da: Admin - Luglio 28, 2007, 04:25:33 pm
Unipol la scelta migliore
Antonio Padellaro


È la terza volta che i giornali pubblicano quelle intercettazioni, sempre le stesse, ricordava Massimo D’Alema, lunedì sera a Firenze, ospite di un’affollata festa dell’Unità. Diceva amaramente il vicepremier che dopo due anni ininterrotti sulla graticola del caso Unipol ormai tutto il danno mediatico possibile lo aveva ricevuto, e con gli interessi. Anzi, a questo punto le conversazioni con Consorte erano lì a dimostrare che né lui, né Fassino, né Latorre erano partecipi di atti illeciti.

Nasce probabilmente da questa riflessione (o se vogliamo da questo calcolo politico) la saggia decisione di condividere il responso del Parlamento sull’uso giudiziario di quelle telefonate. C’è chi ha interpretato le lettere di D’Alema e Fassino al presidente della giunta per le autorizzazioni della Camera Carlo Giovanardi come un invito esplicito ad accogliere le richieste del gip di Milano Clementina Forleo sull’acquisizione agli atti delle intercettazioni. Questo anche se le sue argomentazioni sul «progetto criminoso di vasta portata» vengono considerate dagli interessati senza fondamento. Si sa che tra gli stessi ds (ramo avvocati) c’è chi avrebbe preferito l’adozione di una linea conflittuale per contrastare, così è stato detto, un inaccettabile abuso d’ufficio da parte del gip. Ma questo, ci permettiamo di dirlo, sarebbe stato (o sarebbe) un imperdonabile errore, e cercheremo di spiegarne il perché.

Il primo motivo lo ha già detto D’Alema. La politica vive quasi esclusivamente d’immagine e i processi più pericolosi per chi ricopre importanti incarichi di governo e di partito sono quelli che avvengono sui giornali più che nelle aule giudiziarie. È un prezzo salatissimo che il ministro degli Esteri e il segretario della Quercia hanno pagato con settimane di titoloni e valanghe di paginate in cui erano trascritti perfino i loro sospiri.

Forse non ha tutti i torti Giampaolo Pansa quando sull’ultimo numero de l’Espresso osserva che perfino la corsa per la guida del Partito democratico è stata influenzata dalla bufera arrivata da Milano. E dunque, se tutto ciò che i leader diessini hanno detto e fatto a favore della scalata Unipol-Bnl è sotto gli occhi di tutti, tanto vale invocare la massima trasparenza in tutte le sedi. Anche a costo di affrontare un poco piacevole iter giudiziario.

Ciò che ulteriormente avvalora la scelta di D’Alema, Fassino e Latorre riguarda appunto le eventuali conseguenze sul piano penale. Qui gli scenari possono essere diversi, ma in nessun caso mettono al sicuro i leader ds da una convocazione in procura. Nella prima ipotesi le Camere danno l’autorizzazione dopodiché la Procura di Milano iscrive i politici nel registro degli indagati e verifica le ipotesi accusatorie. Ma, con o senza autorizzazione parlamentare i pm possono lo stesso ascoltare i politici convocandoli in qualità di testimoni. Con tutti gli obblighi che comporta la deposizione: innanzitutto dire la verità. Se, per esempio, da testimoni riferissero il contenuto delle telefonate il pm potrebbe direttamente iscriverli nel registro degli indagati. E nello stesso registro gli stessi politici potrebbero finire se oltre alle telefonate gli inquirenti fossero in grado di acquisire altri elementi di prova. Come si vede l’autorizzazione parlamentare rappresenta uno scudo piuttosto debole. Tanto varrebbe farne a meno.

Ma, soprattutto, esiste una questione di decoro politico, la più importante. Gli esponenti ds sono portatori di una cultura politica e di una moralità che ha sempre messo al primo posto la difesa della legalità e il rispetto per l’operato della magistratura, anche quando non se ne approvano le decisioni. Chi è cresciuto a quella scuola considera la propria reputazione un valore irrinunciabile, figuriamoci un avviso di garanzia. Dover dare spiegazioni alla propria gente diventa una tortura anche se poi, come l’altra sera a Firenze, la gente ti resta vicina. È un problema sconosciuto a chi la propria reputazione se l’è giocata molto tempo addietro. Quando, tanto per non fare nomi, Silvio Berlusconi enuncia orgogliosamente il principio secondo il quale il Parlamento deve negarsi a qualunque richiesta della magistratura, descrive ciò per cui si è sempre battuto. E cioè una casta politica arrogante e arroccata nella propria beata impunità. Un esercizio del potere disprezzato dai cittadini e da cui è meglio stare lontani. Per questi motivi i primi ad essere danneggiati se il Parlamento negasse l’autorizzazione richiesta dal gip Forleo sarebbero proprio D’Alema, Fassino e Latorre.

Pubblicato il: 28.07.07
Modificato il: 28.07.07 alle ore 11.56   
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Titolo: Antonio Padellaro ragazzi del Pd
Inserito da: Admin - Agosto 11, 2007, 08:47:44 pm
Politica

 
I ragazzi del Pd

Antonio Padellaro


Chissà se Walter Veltroni, in vacanza lontano dall’Italia, avrà modo di leggere le «speranze» dei ragazzi raccolte da Osvaldo Sabato alla Festa dell’Unità di Firenze e pubblicate ieri su queste colonne. Glielo consigliamo vivamente, e lo stesso facciamo con Rosy Bindi ed Enrico Letta perché troveranno dentro quelle semplici frasi colme di aspettative molta più «politica» di quanto ne circoli in giro a proposito del Partito Democratico. La più bella: «Vorrei tornare ad innamorarmi della politica». La più vera: «Fino ad ora abbiamo assistito a qualche scaramuccia sulle liste e a qualche sgambetto sottobanco». Sono il polo positivo e il polo negativo di un’attesa. Il sogno e la realtà. In mezzo c’è una distanza da colmare. Non breve e non semplice. È lì che il Pd si gioca successo e futuro. Se lo gioca con la generazione intorno ai vent’anni ma che parla anche a nome di chi avrà vent’anni tra dieci anni. Rappresentano la prossima Italia e sono quelli che adesso non hanno voce (o ne hanno troppo poca) ma che la politica non può più deludere se non vuole perderli definitivamente. E ciò vale, a maggior ragione, per un partito che si presenta come nuovo. Un partito che tra dieci anni potrebbe essere il solido pilastro di una democrazia rinnovata. Oppure la sigla di un tentativo presto dimenticato.
Veltroni sindaco di Roma quei ragazzi li conosce. Li incontra. Li ascolta. Li accompagna ad Auschwitz perché sappiano cosa è stato l’orrore del Novecento. Cerca di convincerli che esiste una «bella politica»: quella dei Kennedy, dei Gandhi, dei Martin Luther King in cui vale la pena confidare. Ma allora perché il nascente Pd si occupa così poco di loro?
Si dirà che nei programmi e nei discorsi ampio spazio è sempre dedicato al problema del precariato e della condizione materiale dei giovani. Ma del precariato e della condizione «spirituale» che questa politica porta con sé, forse non si parla abbastanza.
Quando Claudia o Maria Grazia vorrebbero «innamorarsi di nuovo» danno un preciso significato alle parole. Innamorarsi di qualcosa o di qualcuno significa scambiare energia, passione, vitalità. Significa farsi coinvolgere, entusiasmarsi, e anche soffrire se ne vale la pena. Lo chiediamo a Veltroni, alla Bindi, a Letta che sanno certamente quanto valgono i sentimenti in politica.
Francamente, vi sembra che un giovane di sana e robusta costituzione possa «innamorarsi» del Pd che hanno visto all’opera fino a questo momento? Che possa se non entusiasmarsi, almeno interessarsi a delle primarie organizzate come un capitolato d’impresa? Che possa appassionarsi e vibrare davanti al duello tra candidati diversi, ma la cui effettiva diversità, diciamolo, per molti resta ancora un mistero? Attenzione che l’antipolitica si nutre anche di noia.
Sono gli stessi ragazzi che Massimo D’Alema sprona «a farsi avanti e a combattere per il loro futuro» a somiglianza dei loro coetanei del ’68. Analogia interessante ma rischiosa perché anche quarant’anni fa si produsse una profonda rottura tra le istituzioni politiche tradizionali e la generazione appena uscita dalle scuole. E anche allora fu una questione di linguaggio. Da una parte si predicava il numero chiuso e l’immobilismo. Dall’altra si rispondeva: uguaglianza e immaginazione al potere. Anche oggi la politica appare bloccata nell’autoconservazione e assai poco creativa. E sarebbe un imperdonabile errore se l’unico e per molti aspetti coraggioso tentativo di rinnovamento, il Pd, non prestasse orecchio e non desse voce ai più giovani. Che rispetto ai sessantottini di allora parlano molto meno di eguaglianza e molto più di giustizia. Nel senso di ciò che ai loro occhi appare insopportabilmente ingiusto. Perché, chiedono, si deve morire a sedici anni di lavoro cadendo da un’impalcatura? Perché di fronte alla gigantesca truffa di chi non paga le tasse gli onesti che le pagano fanno la figura dei fessi? Che razza di Paese è questo nel quale ci prepariamo a cercare un lavoro e a crearci una famiglia? Sono domande a cui il vecchio linguaggio della politica risponde scartabellando i programmi alle voci fisco e infortuni sul lavoro. L’altro linguaggio invece è quello che cerca di parlare direttamente al cuore della gente. Che trasforma le piccole e grandi ingiustizie (nei cantieri e in ogni altro luogo della società) in una grande questione nazionale. Che fa un gran casino sui giornali e in televisione, chiedendo magari a Valentino Rossi come abbia potuto tradire i tanti, giovani e meno giovani, che stravedevano per lui. Se un partito nuovo non fa questo, a cosa serve?

Pubblicato il: 11.08.07
Modificato il: 11.08.07 alle ore 13.16   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Viaggio Italiano
Inserito da: Admin - Settembre 02, 2007, 12:15:49 pm
Viaggio Italiano

Antonio Padellaro


In piazza, alla Festa dell'Unità di Pesaro, si parla della casta e c'è una folla strabocchevole. La Casta, è il titolo del libro notissimo e vendutissimo che parla della spese pazze della politica. O meglio (come si legge in copertina) di una certa politica «obesa e ingorda diventata un'oligarchia insaziabile che ha allagato l'intera società italiana». Oltre a chi scrive ne discutono Gian Antonio Stella, uno degli autori (l'altro è Sergio Rizzo) e Roberto Cuillo, responsabile dell'informazione dei Ds. Colui che ha voluto fortemente questo dibattito anche se, dice, alcuni nel suo partito considerano questo libro come il manifesto dell'antipolitica più qualunquista. Insomma, un po' come mescolare il diavolo e l'acquasanta. Combinazione invece graditissima dal pubblico in larga prevalenza diessino che ascolterà e applaudirà per quasi due ore, non facendosi distogliere neppure dal trasferimento forzato causa pioggia dalla piazza alla sala del consiglio comunale gentilmente concessa. Prima constatazione: capita che vertice e base manifestino indici di gradimento (e di sgradimento) del tutto opposti. Siccome è con la base che si vincono le elezioni il vertice farebbe bene a tenerne in debito conto le opinioni e soprattutto i malumori.

Si parla delle comunità montane a livello del mare, trovata truffaldina per arraffare qualche poltrona. Delle Province da quarant'anni cosiderate enti inutili ancorché dispendiosi; e che infatti invece di sparire aumentano di numero. Si parla di auto blu e di aerei di Stato pronti al decollo per portare le loro eccellenze in vacanza. Non si parla invece (la notizia non è ancora sui giornali) degli appartamenti che ministri, parlamentari e sindacalisti hanno comprato a prezzi stracciati dagli enti pubblici. Si parla dei costi legittimi della politica (che nessuno nega) per evitare che la democrazia si trasformi nel governo soltanto dei ricchi. Esperienza che questo paese ha già ampiamente pagato sulla sua pelle e che non vorrebbe ripetere.

Il nome di Silvio Berlusconi aleggia finché qualcuno si azzarda a domandare che fine ha fatto la famosa legge sul conflitto d'interessi. Quella solennemente promessa dall'Unione, e senza la quale rischiamo di ritrovarci di nuovo il cavaliere a palazzo Chigi, esattamente come ce lo avevamo lasciato. Si parla delle altre caste a cominciare da quella degli imprenditori: sempre pronti a fare il predicozzo alla politica. Dimenticando le gigantesche risorse spese da quella stessa politica, tramite incentivi, sgravi e regalie varie per tenere in piedi le loro fabbrichette e fabbricone.

La temperatura sale quando si parla di tasse. Di chi allegramente evade e di chi pagando fino all'ultimo euro rischia di finire strangolato. Chi ascolta è un campione significativo di quell'Italia onesta che non ne può più di essere presa per il naso dall'Italia furba e privilegiata. Sono persone che come noi si chiedono e chiedono a chi ci governa: dove diavolo vanno a finire i soldi che diamo allo Stato? In opere pubbliche? Nella sanità? Nella scuola? Oppure servono a finanziare il pozzo senza fondo della spese di rappresentanza di questa o quella istituzione? O le consulenze d'oro? O le baby pensioni che la casta spesso e volentieri si concede? È bene che lo sappiamo tutti. Quella folla della Festa dell'Unità, cosi come gli ottocentomila e passa accorsi ad acquistare il libro di Stella e Rizzo, cominciano ad averne le tasche piene. Soprattutto quelli che hanno votato a sinistra sono i più delusi, perché nel cambiamento ci credevano e adesso ci credono un po' meno. Guai all'ira dei mansueti, lo dice anche il Vangelo.

Basta una giornata e di italiani così ne incontri tanti. Mangi una pizza al tavolo con chi la politica la vive e la fa ogni giorno in silenzio, spesso in solitudine e mai sul palcoscenico televisivo. Giovani e giovanissimi dirigenti ds che rinunciano alle ferie spinti da un'idea (organizzare in città una notte bianca della pace) o da uno slancio che li mette a prendere ordinazioni ai tavoli di quella straordinaria scuola politica e umana che sono le Feste dell'Unità e che qualche stizzito povero di spirito vorrebbe abrogare. Come molti credono nel Partito Democratico con un atto di fede. Si preparano a contrattare con quelli della Margherita liste e candidature delle primarie. Confessano che di aria nuova se ne respira poca.

Incontri i lettori del tuo giornale (il loro giornale) e ti chiedono come sarà l'Italia di domani sentendosi abbastanza smarriti in quella di oggi. Bravi cittadini che non chiedono la luna e non si preoccupano dei lavavetri. Stufi, questo sì, di viaggiare in treni (sporchi) che impiegano 26 ore da Siracusa a Torino. E che si accontenterebbero di aerei che li portassero semplicemente da Catania ad Ancona come da biglietto regolarmente pagato. E non da Catania ad Ancona passando per Milano e poi per Roma, come raccontava in aeroporto una coppia di anziani ad altri passeggeri che molto meno sfortunati lamentavano soltanto tre ore di ritardo sul loro volo.

Poi, ecco altri giovani italiani con la stessa storia precaria da raccontare. Lo steward Alitalia a cui rinnovano il contratto ogni quattro mesi e sono ormai tre anni. Che si ritiene «uno fortunato» anche se, aggiunge, pensare a sposarsi in queste condizioni sarebbe folle. Il conducente di taxi da soli due giorni: una delle nuove licenze che scatenarono la furia dei colleghi più anziani. Il matrimonio? Certo, sempre che la banca gli faccia un prestito. Comunque, è un ragazzo contento. Se ne incontrano.


Pubblicato il: 01.09.07
Modificato il: 01.09.07 alle ore 10.18   
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Titolo: Antonio PADELLARO Se il Pd guarda a destra
Inserito da: Admin - Settembre 08, 2007, 07:57:16 pm
Se il Pd guarda a destra

Antonio Padellaro


Chi imbratta i muri delle città va punito ai sensi del regolamento di polizia urbana e a mandarlo in carcere non è il sindaco ma il codice penale. Così, l´altra sera, alla Festa dell´Unità di Bologna Sergio Cofferati ha ricondotto sui binari del più banale buon senso la discussione su legalità e microcriminalità sottraendola (speriamo non solo per qualche ora) al marasma politico e mentale in cui era rapidamente precipitata. Sicché a dieci giorni dall´ormai celebre ordinanza sui lavavetri di Firenze dell´assessore diessino Cioni forse è giunto il momento di isolare le poche questioni serie emerse dal vasto parlare del nulla.

1. Alla domanda sull´origine di tutto questo can can ha già onestamente risposto il sindaco di Firenze Leonardo Domenici: «Nessuno di noi, quando abbiamo scritto l´ordinanza, si aspettava una reazione così» (Corriere della Sera, 3 settembre). Si è cioè toccato un nervo scoperto senza valutarne tutte le conseguenze. L´impressione è che, complice il vuoto ferragostano, si sia pensato che un provvedimento severo ma che toccava uno dei tanti interstizi illegali, e neppure il più eclatante, potesse in fondo rientrare nell´ordinaria amministrazione cittadina. Dimenticando che provenendo non da un´autorità prefettizia o di polizia ma da un´autorità politica e di sinistra e trattandosi di questioni che toccano comunque la sensibilità di quella stessa sinistra meglio sarebbe stato se l´ordinanza fosse stata accompagnata da una gestione politica e da una comunicazione adeguate. Cosa che il sindaco Domenici ha cercato di fare ma quando il fuoco già divampava.

2. Adesso Giuliano Amato si dice stupefatto per i «toni e gli argomenti» che gli sono piovuti addosso solo per avere egli richiamato il rispetto della legalità; e invita tutti a una maggiore pacatezza smentendo qualsiasi ricorso a misure liberticide e autoritarie. Alla buon´ora. Non serve a nessuno cercare chi ha cominciato per primo.

Ma non sarebbe stato meglio se il ministro dell´Interno avesse da subito usato questi toni e questi argomenti? Invece di accusare di atteggiamenti «burattineschi» e di «sociologia d´accatto» (intervista a Repubblica del 5 settembre) chi aveva osato dubitare che lavavetri, questuanti e graffitari fossero un´emergenza nazionale. Detto ciò Amato ha ragione a dolersi quando si vede raffigurato dal manifesto come il «bandito Giuliano» o quando si vede arruolato da Liberazione tra i «fascio-democratici». E al posto suo saremmo anche noi arrabbiati se ci vedessimo dipinti sui giornali come degli opportunisti che attraverso le pose gladiatorie cercano di ritagliarsi «uno spazio politico per il dopo Prodi o per trovare un ruolo nel futuro Pd»(Gennaro Migliore, capogruppo di Rifondazione). Sì, ci vorrebbe una bella calmata da parte di tutti.

3. Veniamo al problema di fondo, al Partito Democratico. Sempre nella contestata intervista e a proposito della irresponsabilità di una certa sinistra di fonte all´illegalità diffusa, Amato dice: «noi riformisti con il Partito Democratico dobbiamo sapere essere chiari anche su questi temi». Una frase indicativa che, diciamo così, alza il livello dello scontro ben oltre il problema di come coniugare accoglienza e rispetto della legge. Non è un caso che sulla questione della sicurezza il Pd si trovi al centro di una manovra a tenaglia. Da una parte la sinistra cosiddetta radicale e dall´altra la destra. Ed è una curiosa coincidenza che due leader lontanissimi come Giordano del Prc e Fini di An dicano le stesse cose su Pd, legge e ordine: che cioè al momento giusto gli elettori preferiscono sempre l´originale (la destra) alla fotocopia.

Poi però ecco le preoccupazioni espresse da Pisanu (predecessore di Amato al Viminale) secondo il quale se Berlusconi non si sbriga a fare una proposta seria il centro-destra rischia di lasciare al nascente Pd «gran parte dell´elettorato moderato». Che Cioni avesse visto giusto?

4. Non sarebbe affatto scandaloso se un partito che punta al primato dell´intero schieramento parlamentare guardasse anche ai voti della destra. La conquista del consenso, si sa, è il primo comandamento della politica e vince chi ha più filo da tessere. Il vero problema dunque non è "se" ma "come". Forse non tutti i voti della destra sono di destra. Forse da quella parte c´è davvero un serbatoio più moderato da cui attingere. Temiamo tuttavia che per convincere quei bravi cittadini Dio patria e famiglia a passare da questa parte non sarebbe sufficiente il giusto rigore di sindaci volenterosi nei confronti di chi molesta gli automobilisti o di chi attenta al decoro urbano. Ci vuole altro per un elettore generalmente strutturato su precise convinzioni repressive, anche quando non è tra i frequentatori di Libero o della Padania. Il voto non te lo dà gratis nessuno.

5. Questo non significa che la sinistra e a maggior ragione il Pd non debbano porsi il problema di come garantire la legalità. Di come non lasciarla impunita. Ma anche di come «organizzare una presenza civile in Italia a favore di chi non fa male a nessuno» (Amato). È questo il cuore del problema per la cui soluzione non esiste una ricetta unica ed infallibile. Nel momento più alto di Tony Blair, per esempio, la politica neolaburista in tema di criminalità è stata una combinazione di paternalismo, populismo democratico e moralismo comunitario. Ma ciò che conta «non è la repressione della microcriminalità per amore del buon ordine sociale, ma la tutela dei luoghi più deboli della socialità dalle minacce della disgregazione» (Andrea Romano).

6. Due considerazioni conclusive. Non è vero che la legalità non è di destra né di sinistra. Invece la legalità è soprattutto di sinistra e soprattutto in Italia dove portiamo ancora i segni di cosa è stata la legalità berlusconiana. È un valore della sinistra ma a patto che sia difesa complessivamente. Dai lavavetri aggressivi e dagli imbrattatori. Dagli scippatori e dai rapinatori sanguinari. Dai mafiosi e dai responsabili di piccoli e grandi crimini finanziari. Possiamo dire che su questo ultimo punto l´elaborazione del Pd appare piuttosto carente? Perché, per esempio, sull´abolizione delle famose leggi vergogna è calato il silenzio? E quanto alla tutela fisica dei cittadini non sarebbe il caso di avviare una seria e pacata riflessione sulle conseguenze dell´indulto? Sull´aumento dei crimini che va di pari passo con il numero degli scarcerati? E ancora. Ci hanno sempre spiegato che, a differenza della destra, la sinistra combatte i reati individuandone le cause all´origine. La polizia viene dopo. Non è sociologismo d´accatto. Quando si è trattato di arginare la criminalità romena molto attiva nella capitale Veltroni è andato a parlarne con il sindaco di Bucarest per concordare un piano di rimpatrio accompagnato da occasioni di lavoro. È una strada difficile ma è una strada civile.

Infine. Un Pd che vuole essere davvero forte non dovrebbe prima di tutto pensare al recupero di quegli elettori che stando ai sondaggi si sono allontanati dal centrosinistra in misura cospicua? A causa non dei lavavetri, ma delle tasse (troppo alte) e dei salari (troppo bassi). Non è anche questa sicurezza?

Pubblicato il: 08.09.07
Modificato il: 08.09.07 alle ore 12.39   
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Titolo: Antonio Padellaro Genova per noi
Inserito da: Admin - Settembre 15, 2007, 10:51:02 pm
Genova per noi

Antonio Padellaro


Sembra che l’opinione della gente comune torni a fare notizia (e non solo nelle piazze di Grillo), e quindi segnaliamo l’ovazione da parte di migliaia di persone alla Festa dell’Unità di Bologna quando, mercoledì sera è stata chiesta l’istituzione urgente della commissione parlamentare d’indagine per i fatti del G8 di Genova. Vero che lo scorso 30 luglio la commissione Affari Costituzionali della Camera ha adottato un testo base (relatore Gianclaudio Bressa della Margherita), ma adesso viene il difficile. Prima di partire realmente con l’accertamento dei fatti sui giorni della vergogna l’indagine dovrà superare una tale quantità di ostacoli procedurali e parlamentari che senza una energica e condivisa volontà politica la commissione è destinata a restare nel libro delle buone intenzioni del governo Prodi. Sarà utile perciò prevenire le principali obiezioni che verranno frapposte allo scopo di far naufragare tutto.

Primo: le commissioni parlamentari d’indagine non hanno mai scoperto alcunché di nuovo e rappresentano solo una perdita di tempo e di pubblico denaro. Secondo: l’iniziativa parlamentare potrebbe anzi danneggiare i processi in corso contro i poliziotti violenti della Diaz e di Bolzaneto (avvocati del Legal Forum). Terzo: varare la commissione sarà comunque una fatica inutile poiché al Senato la destra non permetterà mai un processo politico sulla «macelleria messicana» (confessione del vicequestore di polizia Fournier) messa in opera sotto il governo Berlusconi. Quarto: ma a noi della sinistra chi ce lo fa fare di riaprire una pagina certo dolorosa ma che servirà solo a inasprire i rapporti con l’opposizione e farci una cattiva stampa negli ambienti delle forze dell’ordine? Quinto: e allora non è meglio farla finita con il solito, vecchio antiberlusconismo e guardare avanti?

Torniamo alla Festa dell’Unità. Chi scrive intervista da più di un’ora il presidente della Camera Fausto Bertinotti.

Nella sala «14 ottobre» la gente non sembra stanca ma bisogna chiudere con l’ultima domanda. Questa. Presidente, molti hanno visto l’altra sera su Raitre la trasmissione di Carlo Lucarelli sul tragico G8 di Genova. Una trasmissione molto bella e molto forte sulla nostra memoria e sulla nostra mancanza di memoria. Quelle scene in televisione sembravano non appartenere al nostro Paese. Mentre mi picchiavano, raccontava ancora smarrita una delle vittime del pestaggio, dicevo a me stessa: io non sono in Italia ma nel Cile di Pinochet, non è possibile che tutto ciò avvenga nel paese che conosco, da noi c’è la democrazia non una dittatura sanguinaria. Sei anni dopo è una ferita che ancora sanguina e non soltanto nel cuore dei genitori di Carlo Giuliani, ucciso senza un colpevole. I processi vanno avanti, ma sarà la verità giudiziaria. Importante ma non sufficiente a comprendere le vere e forse inconfessabili ragioni di una ferita più profonda, quella inferta alla democrazia. Occorre cercare la verità sulle responsabilità più alte, quelle della politica e delle istituzioni. Il Paese ne ha diritto. Senza questa verità nessuno potrà mai sentirsi veramente al sicuro. Perché nessuno potrà mai essere certo che quei fatti non si ripeteranno.

Ed ecco la risposta di Bertinotti. La Commissione parlamentare è una necessità imprescindibile. La verità processuale è importante ma un Paese degno di questo nome deve potersi dare delle verità storiche acquisite. Questo è un Paese dalle troppe pagine ancora oscure e dirlo qui a Bologna, nella città della più tremenda strage è perfino pleonastico. La costruzione di una verità storica su Genova sarebbe prima di tutto un elemento di igiene mentale per il Paese. Ho visto la trasmissione di Lucarelli e sono rimasto molto colpito soprattutto dal fatto che nessuno era in condizione di prendere le difese di quei carabinieri, di quei poliziotti e di chi li dirigeva. Si poteva oscillare solo tra il riconoscimento di colpa e l’impreparazione, ma lì c’era ben altro da indagare. Non soltanto il dispositivo chiuso della zona rossa che ha innescato la repressione. Non soltanto il dispiegamento delle forze militari, di come sono stati perseguitati i tanti manifestanti pacifici chiusi negli angoli da una sorta di istinto di distruzione. In quelle immagini c’è molto di più. Come si può accettare che anche un solo rappresentante delle forze dell’ordine di fronte a un ragazzo ucciso dica: «Meno uno»? Come è possibile che l’anticomunismo sia coltivato così intensamento da certi settori dello Stato? Come è possibile che una ragazza incolpevole prelevata dalla manifestazione e trascinata via venga continuamente umiliata con atroci riferimenti a pratiche sessuali sentendosi dire che dovrebbe prepararsi a soccombere, perché comunista e puttana, o si potrebbe dire puttana perché comunista o viceversa? Come è possibile che le massime gerarchie delle forze dell’ordine non chiedano loro per prime una commissione d’inchiesta su questi fatti, perché ne va della loro onorabilità, della loro credibilità democratica? La dedizione delle forze dell’ordine, il loro fondamentale contributo alla sicurezza dello stato democratico non è certo in discussione. Ma va sradicato il germe di una violenza incompatibile con lo Stato democratico e con la civiltà di questo Paese.

Una commissione, concludiamo noi, per sapere altro ancora. Come mai non è stato mai né arrestato né identificato nessuno dei black bloc che preceduti da eleganti bandiere nere misero a ferro e fuoco il centro della citta? E quali furono gli ordini impartiti dal premier Berlusconi? E cosa ci faceva il ministro Fini nel quartier generale della polizia? Infine: nel nascente Partito Democratico i fatti di Genova riscuoteranno la stessa attenzione civile dimostrata da quel lungo, duro, appassionato applauso esploso l’altra sera alla Festa dell’Unità di Bologna?

apadellaro@unita.it



Pubblicato il: 15.09.07
Modificato il: 15.09.07 alle ore 13.10   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Trecentomila
Inserito da: Admin - Settembre 22, 2007, 10:04:28 pm
Trecentomila
Antonio Padellaro


Anche se Grillo scomparisse per incanto (come in tanti sperano) resterebbe pur sempre una domanda, anzi tre. Quanti di quei trecentomila che hanno firmato con lui per cambiare la politica ritorneranno a votare per il centrosinistra? E quanti di essi, malgrado tutto, saranno in fila il prossimo 14 ottobre davanti ai gazebo delle primarie, pronti a dare fiducia ai candidati del Pd? E quanti invece al governo e ai partiti dell’Unione hanno già smesso di credere?

C’è un altro interrogativo, tratto dal lungo monologo urlato e riproposto ossessivamente da tutte le tv. Possibile che il premier Prodi, unitamente al ministro del Lavoro Damiano e a quello delle Comunicazioni Gentiloni, avvertiti a tempo debito dal comico predicatore sulla protesta che bolliva nella pancia del paese non abbiano battuto ciglio? Chi dando l’impressione di essersi assopito e chi limitandosi a dire che lui era lì di passaggio? Certo che Grillo esagera per amore di battuta, per il gusto di mettere alla berlina l’odiata casta davanti alle piazze gremite e sbeffeggianti.

Però se conosciamo i politici, e non solo quelli nostrani, non ce n’è uno che messo di fronte alla possibilità di perdere o guadagnare un solo voto reagirebbe sbadigliando o allargando le braccia in segno di resa. Figuriamoci poi se si trattasse non di uno ma, appunto, dei trecentomila voti almeno. Corrispondenti alle trecentomila firme apposte in un giorno solo dalla gente del V-day sotto le tre leggi d’iniziativa popolare.
Siamo convinti, tuttavia, che dopo lo choc grillesco tutto il centrosinistra abbia finalmente deciso di correre ai ripari. Ma come?

Intanto, siamo davvero sicuri che le piazze del malessere siano soprattutto di centrosinistra? Sì, perché ce lo dicono i sondaggi. Sì, perché ce lo dicono le cronache: «Fino a un anno fa Grillo alla festa dell’Unità sarebbe stato subissato dai fischi; invece è stato subissato da applausi», ha scritto Giovanni Sartori sul Corriere della sera. Sì, infine, perché a sentirli parlare nelle interviste quelle voci, prevalentemente giovani, esprimono concetti e giudizi familiari a chi qualche anno fa frequentava altre piazze. Parliamo del Palavobis, di San Giovanni a Roma, dei tre milioni che sfilarono sempre nella capitale contro l’abolizione dell’articolo 18 e i licenziamenti indiscriminati. Parliamo del clima di appassionata partecipazione che tra il 2002 e il 2005 preparò la spallata al governo Berlusconi, anticipata da una serie di elezioni tutte vinte. Sui giornali (non tutti) si era persa perfino la memoria storica di quei raduni che avevano concentrato folle imponenti in tutto il paese. Si preferiva alludere ai «girotondi», come se un fenomeno di mobilitazione anche culturale e mediatica senza precedenti fosse stato in realtà circoscritto a un gruppetto di intellettuali in vena di stravaganze.

L’8 settembre scorso una parte di quelle piazze che si erano inabissate con tutta la loro energia è riemersa nel centro di Bologna. Mentre frammenti di quel mondo scomparso sono riapparsi in centinaia di altri luoghi italiani come i pezzi di un caleidoscopio rotto. Andato in frantumi perché le principali richieste espresse da quel mondo assai sensibile ai temi della legalità e della lotta ai privilegi sono purtroppo rimaste nel programma dell’Unione. Oggi chi si ricorda più dell’abolizione delle leggi vergogna o della legge sul conflitto d’interessi?

Può essere comprensibile che un anno fa quando il grillismo emanava i primi vagiti, o meglio i primi decisi strilli, i dirigenti del centrosinistra, a cominciare da quelli dell’Ulivo, non abbiano capito che si trattava della spia di un malessere crescente. Ancora adesso c’è chi cerca di demonizzare questa nuova protesta con richiami dotti ma sterili all’origine del fascismo o al qualunquismo di Guglielmo Giannini, meteora politica del primo dopoguerra. Ma liquidare i cinquantamila di Bologna come la massa di manovra di un nuovo populismo serve solo a far finta di non vedere e a continuare a farsi del male.

Forse però non tutto è perduto, ha scritto, Mario Pirani sulla Repubblica di giovedì scorso. Potrebbe essere proprio il Pd di Veltroni con la carica di novità e di cambiamento che porta con sé a cercare di recuperare alla politica vera questa massa disorientata e arrabbiata. Per tentare quest’ultimo aggancio Pirani ha fatto un elenco di cinque cose da fare subito che sottoscriviamo.
1) Un governo snello ed efficiente di 15 ministri e 45 sottosegretari, non di più;
2) Un taglio drastico dei privilegi e degli stipendi del pletorico ceto che vive sulla politica;
3) Un disboscamento delle migliaia e migliaia di società a partecipazione pubblica, degli assessorati inutili, delle sovvenzioni clientelari;
4) La fine della lottizzazione delle cariche negli enti pubblici, nelle Asl, nei ministeri;
5) L’estromissione dei partiti dalla Rai.
L’ennesimo libro dei sogni? Forse. Sempre meglio però dell’incubo in cui siamo tutti piombati.
apadellaro@unita.it

Pubblicato il: 22.09.07
Modificato il: 22.09.07 alle ore 10.18   
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Titolo: Antonio PADELLARO - I coriandoli di AnnoZero
Inserito da: Admin - Ottobre 06, 2007, 10:41:34 pm
I coriandoli di AnnoZero

Antonio Padellaro


Romano Prodi si è trasformato in critico televisivo giudicando poco seria e non equilibrata la puntata di AnnoZero sul pm di Catanzaro De Magistris «trasferito» dal ministro Mastella. Comprensibile l’esigenza di rassicurare il leader dell’Udeur senza i cui voti addio governo. Da apprezzare comunque lo sforzo di una recensione fatta dal premier sui resoconti dei giornali. Insomma, quella trasmissione Prodi non l’ha vista e non gli piace (così come del resto dichiarano Veltroni e varie istituzioni). E invece pensiamo che farebbero bene a vederla. Nel suo genere, infatti, la trasmissione di Santoro è un documento spettacolare (e a tratti horror) su quell’Italia (o Italie) frantumata in mille coriandoli e l’un contro l’altra armata, oggetto di una recente lettera del presidente del Consiglio al professor De Rita. Sarebbe utile se Prodi gli desse un’occhiata perché pensiamo che quanto andato in onda giovedì sera abbia profondamente intristito quella metà del Paese che non molto tempo fa aveva appassionatamente votato per lui e per la sua coalizione. E pensiamo anche al godimento dell’altra metà nel vedere come se le suonavano magistrati e politici dell’Unione tra piazze ribollenti d’indignazione e questa volta non contro Previti o Dell’Utri. Il tutto sotto la conduzione di Michele Santoro, un dì epurato dall’editto di Sofia e icona della sinistra. Spietato nel mostrare e nel congegnare ma lo scontro tra la Forleo, De Magistris e Mastella non se l’è certo inventato lui.

Per il suo ritorno in tv avevo firmato anch’io, confessa adesso un amareggiato Mastella che tuttavia di ben altro dovrebbe dolersi.

Di aver confuso, per esempio, le cause con gli effetti. Per cominciare il Guardasigilli sostiene di essere stato l’altra sera vittima di un linciaggio mediatico. Ma poi ci dice che neppure lui ha visionato il criminale AnnoZero avendo nel frattempo pasteggiato con moglie e amici al ristorante «Lo Sgobbone» di cui ha magnificato la cucina. Quanto all’origine dei fatti un ministro della Giustizia ha il diritto-dovere di chiedere al Csm il trasferimento di un magistrato sulla base delle relazioni di ispettori ministeriali appositamente spediti. Ma se il magistrato è proprio “quel” magistrato che sta indagando su una vicenda non piccola di superloggie massoniche, truffe sui fondi comunitari e sfruttamento del lavoro interinale coinvolgente boss politici calabresi e pezzi grossi della locale procura, che poi dal provvedimento punitivo nasca un qualche problema il ministro se lo dovrebbe aspettare. E quando il nome dello stesso ministro, insieme a quello del premier in carica finisce di striscio in alcune intercettazioni, Mastella non può gridare al complotto se poi qualcuno sospetta che si voglia togliere da un’inchiesta scottante un magistrato scomodissimo per chi esercita il potere. O no?

Fossimo nei panni del ministro invece di raccogliere solidarietà strumentali e che lasciano il tempo che trovano, e invece di pretendere odiose censure preventive e successive minacciando di far saltare in aria la Rai, fossimo in lui andremmo alla fonte del problema. Mastella trovi il modo che preferisce, ma dovrebbe per favore cancellare al più presto dalla testa di tanti cittadini anche il più piccolo dubbio che un ministro possa agire per ritorsione nell’esercizio delle sue funzioni. Sono cose che non si vedono più neppure al cinema.

Sul dottor De Magistris si pronuncerà il Csm che certamente saprà valutare tutti i rilievi mossi dagli ispettori. Facendo per esempio chiarezza sull’esistenza, peraltro già smentita, delle migliaia di tabulati telefonici con le utenze di ministri, leader politici, giudici, funzionari dei servizi che il magistrato avrebbe acquisito attraverso Gioacchino Genchi. Un vicequestore in aspettativa, a cui a detta del ministro, sarebbero state pagati per consulenze sulle trascrizioni un milione di euro nel solo 2005, e che altrettanto dovrebbe ricevere per il lavoro svolto nel 2006. Somme cospicue su cui è meglio diradare ogni ombra. Detto questo non è possibile che nella inevitabile polemica politica del giorno dopo si discetti con voluttà sul presunto protagonismo dei giudici che vogliono sostituirsi alla politica fregandosene altamente di ciò che questi stessi giudici hanno denunciato visti e ascoltati da milioni di persone. De Magistris e la Forleo hanno parlato di attacchi, intimidazioni, pressioni esercitate da coloro che non vogliono che le pentole siano scoperchiate. Forse a Milano meno, ma in Calabria a servire lo Stato spesso si rischia la pelle. Possibile che tutta la solidarietà che c’era a disposizione sia andata a Mastella?

P.S. Sempre ad AnnoZero nella sua consueta lettera Marco Travaglio ha immaginato un Licio Gelli soddisfatto per aver visto finalmente attuato il capitolo giustizia del suo Piano di rinascita nazionale. Regalo che si aspettava dal governo Berlusconi e che invece ha ricevuto dal governo Prodi. Marco lavora spesso sui tasti dell’ironia e del paradosso. Ho paura, però, che questa volta dicesse sul serio. Se è così non sono d’accordo. Per quanti errori possano commettere certi partiti e certi ministri, Prodi non è Berlusconi, Padoa-Schioppa non è Tremonti e che Mastella non sia Castelli lo dicono le stesse associazioni dei magistrati.

Un governo è fatto di persone, di comportamenti, di leggi ma anche di ciò che non vediamo. Di fili invisibili, manovre occulte, interessi innominabili la democrazia di questo paese ha rischiato più volte di perire. Ma sono convinto che tutto il bene e tutto il male del governo Prodi lo abbiamo sotto gli occhi. Ci arrabbiamo di più ma è meglio così. Non è vero che tutto è fango e che in politica non si salva nessuno, e so che anche Travaglio ne sia convinto. Ma se mettiamo il cappuccio piduista a questi come a quelli non facciamo altro che frantumare la nostra fiducia e le nostre speranze (e non solo le nostre) in tanti coriandoli avvelenati.
apadellaro@unita.it

Pubblicato il: 06.10.07
Modificato il: 06.10.07 alle ore 9.49   
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Titolo: Antonio PADELLARO - I giorni della libertà
Inserito da: Admin - Ottobre 14, 2007, 12:00:36 am
I giorni della libertà

Antonio Padellaro


Sto per scrivere un articolo rischioso, e me ne scuso in anticipo con i lettori. Rischioso perché professare un po’ di ottimismo e un po’ di fiducia nell’Italia in cui viviamo, oltre a sembrare un vano esercizio di stile buonistico (e pazienza), può farti fare delle brutte figure, giornalisticamente parlando. Siamo un paese che naviga a vista e un bravo cronista farebbe bene a scrutare il mare giorno per giorno, onda dopo onda, invece di avventurarsi in previsioni speranzose e azzardate. Correrò comunque il rischio partendo da uno splendido testo di George Lakoff (pubblicato sul primo numero di «PD», il bimestrale del Partito Democratico) e da una sua frase. Questa: «perdere la libertà è una cosa terribile, ma perdere il concetto di libertà è ancora peggio». Lakoff, docente a Berkeley e linguista di fama mondiale, parte dal concetto di perdita per descriverci tutto ciò che l’America ha perso o sta perdendo per colpa del conservatorismo radicale di cui si è nutrita l’amministrazione Bush. Laddove, scrive Lakoff, nell’ultimo secolo la maggior parte degli americani ha assistito a un’estensione delle libertà, questi conservatori vedono in ciò che è avvenuto una riduzione di ciò che essi considerano come “libertà”. Ciò che li rende “conservatori” non è il fatto che essi vogliono conservare le conquiste di coloro che hanno lottato per consolidare la democrazia americana, ma al contrario: essi vogliono tornare indietro, a prima che queste libertà progressiste fossero stabilite. «Essi vogliono ritornare a prima della grande estensione dei diritti di voto, a prima della istituzione dei sindacati, della tutela dei lavoratori e delle pensioni, a prima della creazione di un sistema di sanità pubblica e della tutela dell’ambiente, a prima delle scoperte scientifiche che hanno contraddetto i dogmi religiosi fondamentali».

Poi Lakoff ci spiega una cosa fondamentale e cioè che la costante ripetizione della parola “libertà” da parte della cassa di risonanza mediatica della destra è uno di quei meccanismi di quel “furto” che si sta facendo dell’idea di libertà. «Quando questa parola è usata dalla destra il suo significato muta, gradualmente, quasi impercettibilmente ma muta».

Noi italiani ne sappiamo qualcosa con Silvio Berlusconi che costruisce tutti i suoi discorsi, assai poveri in termini di linguaggio e di idee, attorno all’uso continuo, insistente, ossessivo della parola “libertà” (il polo delle libertà, la casa delle libertà, il partito delle libertà).

Libertà di cui lui si dichiara santo protettore contro i perfidi tentativi di limitarla e cancellarla operati dalla sinistra criptocomunista. Non a caso, ricorda Lakoff, George W. Bush, nel suo secondo discorso di insediamento, utilizzò le parole “libertà” e “libero” 49 volte nel tempo di 20 minuti, cioè ogni 43 parole (chissà se Berlusconi è il maestro o l’allievo). Poiché nel linguaggio la ripetizione ha un potere enorme, quello di riuscire a cambiare il modo steso di pensare, «Bush»,conclude lo studioso, «sta operando per contraddire l’idea progressista di mia libertà, la mia idea di libertà». Insomma, se la destra ha confiscato le nostre parole e ne ha cambiato il significato la sfida che hanno davanti la sinistra e i suoi alleati è quella di riprendersi l’idea di libertà.

Cosa c’entri tutto questo con la fiducia e l’ottimismo cautamente dichiarati all’inizio di questo articolo è presto detto. Mentre in America manipolando la parola libertà il conservatorismo radicale minaccia di bloccare la tradizionali tendenze progressiste, qui da noi accadono eventi che restituiscono a quella parola (da coniugare sempre con democrazia) il suo reale e imprescindibile valore. Tre esempi.

1. Proprio in queste ore il sindacato confederale registra uno «storico successo» (Epifani). C’è qualcosa che conta ancora di più della pur straordinaria valanga di sì che ha approvato il difficile protocollo sul welfare concordato da Cgil-Cisl-Uil. Questo qualcosa di più sono gli oltre cinque milioni di lavoratori che hanno partecipato al referendum. Mai una partecipazione così ampia. E siamo l’unico paese dove il sindacato chiama non solo i propri iscritti ma tutti coloro in possesso di una busta paga ad esprimersi sugli accordi raggiunti. Una prova di democrazia di massa trasparente e corretta.

Questa è la libertà che si esprime nelle cose, nei fatti. Altro che la vuota, ingannevole espressione berlusconiana.

2. Poi c’è l’intesa raggiunta dentro il governo sul welfare. Che segue quella realizzata sulla pensioni e quella sulla finanziaria. Ogni volta i profeti di sciagura hanno sentenziato, dai loro partiti e dai loro giornali, che sarebbe stata l’ultima. Che nell’Unione le contraddizioni tra le varie componenti (moderati, radicali, riformisti) sarebbero fatalmente esplose. Che il re travicello Prodi non ce l’avrebbe fatta a mettere d’accordo i suoi litigiosi alleati. E invece ancora una volta, con qualche malumore, con qualche distinguo, il premier porta a casa un accordo fondamentale. Ma soprattutto ripristina quella concertazione governo-parti sociali che ha già salvato il paese in momenti difficili. Concertazione affossata dalla destra con quella idea taroccata di libertà che persegue come obiettivo primario l’emarginazione del sindacato. Vero che adesso la Confindustria chiede un nuovo confronto e che la tela rischia nuovamente di strapparsi. Ma anche questa volta Prodi conta di farcela lo stesso. Vedremo come finirà ma il metodo del passo dopo passo finora ha funzionato. Ascoltare le ragioni di tutti, mediare, ricomporre e alla fine decidere. Questo il difficile esercizio della libertà praticato ogni giorno dal presidente del Consiglio e dalla sua maggioranza. A qualcuno farà storcere la bocca ma sempre meglio che stare agli ordini di un presidente-padrone.

3. Domenica, infine, ci saranno le primarie del Pd. Il leader eletto direttamente dal popolo. Non ci sono precedenti del genere in Europa. Si prevede che vadano a votare centinaia di migliaia di persone. Forse un milione. Forse molti di più. Liberamente. Sarebbe un risultato straordinario per la democrazia italiana tutta. Uno spartiacque anche per l’altra parte politica, ha detto Veltroni. La sinistra che insegna alla destra a diventare più libera. C’è da esserne orgogliosi. Ricordiamocelo nei nostri momenti cupi.

apadellaro@unita.it


Pubblicato il: 13.10.07
Modificato il: 13.10.07 alle ore 10.43   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Non diamogliela vinta
Inserito da: Admin - Ottobre 20, 2007, 11:52:16 pm
Non diamogliela vinta

Antonio Padellaro


Stanno cercando di toglierci il governo. Di toglierlo ai 19 milioni di cittadini che il 9 aprile 2006 votarono per l’Unione. Di toglierlo ai 3 milioni e mezzo del Partito Democratico che domenica scorsa si sono messi in fila per eleggere Walter Veltroni e per sostenere Romano Prodi. Il premier parla di «complottone» ed è convinto di sventarlo con l’aiuto del leader del Pd. Noi pensiamo, più semplicemente, che è tornata in azione la solita, vecchia, fangosa politica italiana. È la palude di sempre che, lasciata libera di fare, non ci metterà molto a inghiottire i diritti e le speranze tra miasmi e compravendite di voti. Basta guardare giornali e telegiornali per capirlo. Non è trascorsa neppure una settimana e di quell’enorme capitale di rinnovata fiducia e passione chi ne parla più? E perfino il tentativo di tenere viva la fiamma di un evento democratico senza precedenti, come l’Unità continuerà a fare, può apparire patetico davanti al niagara di intrighi, manovre e ricatti che di nuovo rischia di sommergere la maggioranza. Eccone una cronaca sommaria.

1. Domenica sera si sono appena conosciuti i numeri del plebiscito per Veltroni e nelle compagnie di giro televisive già ferve il dibattito sulla ineluttabilità dello scontro tra i diarchi. Sempre nel teatrino, assodato che Veltroni e Prodi cercheranno di farsi le scarpe l’uno con l’altro, resta sospeso il dubbio sul quando. Invano i diretti interessati si affannano a spiegare che chi è andato a votare lo ha fatto per dare una guida al nuovo partito, non per fare cadere il governo.

Intanto, i tre milioni e mezzo di elettori sfumano nei titoli di coda.

2. Per dare una significativa risposta alla così energica richiesta di unità e di sostegno al governo venuta dalla base, una decina di senatori del centrosinistra, quasi tutti centristi eletti nelle liste dell’Ulivo dichiarano a vario titolo di non volersi più attenere alla disciplina di maggioranza. Il partito flessibile del «decideremo di volta in volta», guidato dall’ex ministro Dini, ha ovviamente vivacizzato lo shopping del leader miliardario. Che messo il cartello “comprasi”, offre una «collocazione politica agli esclusi del Pd». Avanti c’è posto.

3. Vengono presentati gli emendamenti alla legge finanziaria il cui numero rappresenta un altro tangibile e incoraggiante segno della compattezza che regna nell’Unione. Le richieste di modifica avanzate dai parlamentari della maggioranza (oltre 900) rischiano di superare persino le correzioni proposte dall’opposizione. Che non ha tutti i torti a ironizzare: ormai si fanno opposizione da soli.

4. Tocco farsesco: un deputato dell’Udeur abbandona ieri pomeriggio una riunione della maggioranza accusando Veltroni di aver mandato in tv un suo uomo che debitamente camuffato (?) attribuisce al sindaco di Roma la volontà di elezioni anticipate subito poiché «andare avanti con il governo Prodi sarebbe un suicidio».

5. Dopo che il presidente del Consiglio ha parlato del complottone da sventare, il ministro della Giustizia Mastella forse anche per l’amarezza di sapersi indagato a Catanzaro dal “nemico”, il pm de Magistris, si lascia andare a cupi presagi: la maggioranza non esiste quasi più e dunque meglio votare a primavera.

6. Strano, ma in questo clima plumbeo la manifestazione di oggi a Roma della sinistra radicale potrebbe assumere per il governo un significato positivo. È vero che si protesta contro l’accordo sul welfare ma, a questo punto, dubitiamo che l’interesse di Rifondazione e dei Comunisti italiani sia quello di dare la spallata definitiva a Prodi. L’assenza dei ministri nel corteo e una gestione accorta della piazza e degli slogan potrebbero, anzi, creare una situazione non troppo sfavorevole per Prodi. Speriamo bene.

I boatos di palazzo preannunciano che per il governo la trappola dovrebbe scattare mercoledì, al Senato, sul decreto fiscale. Dopodiché il Quirinale prenderebbe atto della situazione aprendo la strada a un governo istituzionale, con il mandato di portare a compimento la Finanziaria e di concordare una nuova legge elettorale. Nel frattempo, insieme al governo eletto dagli italiani, rischierebbe di scivolare nella palude lo stesso Partito Democratico, e proprio nella sua fase costituente. Quei tre milioni e mezzo, a quanto si sa, hanno allarmato i tanti nemici vicini e lontani del nuovo partito, pronti a lanciare i loro siluri. Prodi però intende vendere cara la pelle. E Veltroni non ha certo interesse che si sfasci tutto proprio adesso. La pensano come loro milioni e milioni di cittadini. Non permettiamo agli scippatori di averla vinta.

apadellaro@unita.it



Pubblicato il: 20.10.07
Modificato il: 20.10.07 alle ore 8.38   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Il boomerang
Inserito da: Admin - Ottobre 22, 2007, 06:26:15 pm
Il boomerang

Antonio Padellaro


Non sappiamo se e come si possa porvi rimedio, ma l’aver tolto al pm di Catanzaro Luigi de Magistris l’inchiesta «Why not» rischia di trasformarsi in un disastroso boomerang politico e istituzionale.

Una decisione che si ripercuote prima di tutto sul governo che da ieri ha aggiunto ai suoi non pochi problemi la richiesta di sostituzione del ministro Mastella rivolta a Prodi dall’altro ministro Di Pietro. Lo scontro tra i due dura da tempo ma questa volta l’ex magistrato di Mani Pulite va giù dritto contro il rivale sostenendo che quell’avocazione è stata provocata proprio da chi era o poteva essere messo sotto indagine dal magistrato destituito. Si parla ovviamente del titolare della Giustizia iscritto nel registro degli indagati nell’inchiesta sul comitato d’affari che in Calabria si spartisce da anni la gigantesca torta dei finanziamenti pubblici e privati. Vedremo se anche questa volta il premier riuscirà a trovare una soluzione di compromesso. Sarà dura.

Ma il danno peggiore che scaturisce da tutta questa storia è quello inferto alla credibilità della classe politica e all’immagine stessa della giustizia. Lo si voglia o no colpendo De Magistris si conferma l’idea, già abbastanza diffusa tra i cittadini, che di fronte alla legge i potenti di turno hanno un trattamento privilegiato. E se qualche magistrato prova a mettersi in mezzo, allora peggio per lui. Se nel migliore dei casi è un atto intempestivo, nell’ipotesi peggiore il caso Catanzaro dimostra che purché non sia toccato «l’intreccio perverso tra politica malata, dipendenti pubblici corrotti e massoneria deviata» («Il Sole 24Ore») perfino un governo può andare in frantumi. Si può permettere che tutto questo accada in uno Stato di diritto?

Pubblicato il: 22.10.07
Modificato il: 22.10.07 alle ore 17.21   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Come in un suk
Inserito da: Admin - Ottobre 25, 2007, 10:29:11 pm
Come in un suk

Antonio Padellaro


Senza nulla togliere al ribaltino che ha sfiduciato Petruccioli in commissione di vigilanza Rai, quanto accaduto nella commissione Diritti umani rende al meglio (anzi al peggio) il clima farsesco della politica italiana in questo malinconico ottobre. Qui dovendosi eleggere il presidente, alcuni dell’Unione hanno pensato bene di impallinare il candidato della sinistra votando l’uomo della destra, e il tutto condito dall’imbroglio di chi ha votato due volte. Per gente che dovrebbe occuparsi del rispetto delle persone, non c’è male. Intrighi e tranelli fanno parte del gioco politico nella sua versione meno nobile, ma se nelle aule parlamentari si fa ogni tipo di mercato significa che la situazione è fuori controllo.

Parliamo ovviamente del governo Prodi che ogni giorno deve fronteggiare un problema nuovo, dai litigi tra ministri alle tensioni sul pacchetto sicurezza. Un governo, ed è qui la rabbia, che per quanto gli è consentito dai numeri al Senato molte cose buone le ha fatte migliorando i conti, aiutando i più deboli, combattendo sul serio l’evasione fiscale. Un governo composto soprattutto da uomini competenti e per bene, e che non passano il tempo negli studi televisivi a distruggersi l’uno con l’altro. Tutto questo rischia però di scomparire sotto i colpi di una opposizione a cui del paese importa nulla, capace solo di seminare zizzania e che ha come unico obiettivo quello di andare alle elezioni subito per riprendersi il bottino. Questa corsa disordinata verso le urne, che con il pessimo sistema elettorale che ci ritroviamo non farà che perpetuare l’ingovernabilità, sembra aver contagiato pezzi della maggioranza. Che immemori delle risse del giorno prima (vedi i mastelliani e i dipietristi) il giorno dopo si alleano per destabilizzare la Rai sperando in chissà quali vantaggi nella campagna elettorale che si annuncia. Come in un suk.

apadellaro@unita.it

Pubblicato il: 25.10.07
Modificato il: 25.10.07 alle ore 8.52   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Se Fini è sempre Fini
Inserito da: Admin - Novembre 04, 2007, 11:30:02 pm
Se Fini è sempre Fini

Antonio Padellaro


Prima istantanea. Gianfranco Fini in trench chiaro davanti alla stazione di Tor di Quinto, a pochi passi dal viottolo dove è stata massacrata Giovanna Reggiani. In una giornata come questa, in un luogo come questo lui tiene una conferenza stampa per attaccare frontalmente il governo Prodi non risparmiando accuse a Veltroni e Rutelli. La pietà sottomessa al gioco politico. I giornali già accreditano la voce di una sua candidatura al Campidoglio. Usa frasi secche che sembrano disposizioni in vista di un qualcosa a cui bisogna prepararsi. Intorno al presidente di An tacciono i luogotenenti. Un po’ più dietro facce giovani e cupe. Non troppo lontano, famiglie di romeni e di rom si preparano a scappare da baracche e roulotte.

Seconda istantanea. C’è il ministro degli Interni Giuliano Amato che si dichiara «sorpreso e amareggiato» per le espressioni di Fini. Qualcuno ricorda che Amato aveva un tempo ottimi rapporti con il leader di An, tanto da avergli scritto la prefazione di un libro sull’Europa.

Terza istantanea. In realtà vediamo soltanto il testo di un foglio volantinato in molte zone della Capitale. Con la sigla di Forza Nuova chiama alla mobilitazione tutti i romani per domenica 4 novembre. C’è scritto:« Se dagli orribili avvenimenti di Tor di Quinto non scaturirà una rivoluzione nella maniera di regolamentare l’immigrazione, i nostri militanti e tutti gli italiani sono moralmente autorizzati ad usare metodi che vadano al di là di semplici proteste per difendere i propri compatrioti».

Nell’eterno linguaggio fascista vuol dire: siamo pronti a tutto. E infatti passano poche ore e a Tor Bella Monaca, profonda periferia romana uomini incappuciati, nel più classico stile Ku Klux Klan aggrediscono un gruppo di cittadini rumeni, colpevoli solo di questo.

Se proviamo a mettere insieme questi tre scatti ne esce fuori un’immagine scura, minacciosa, malvagia che ne richiama altre di simili del nostro passato più triste. C’è un problema reale e drammatico: in questo caso l’esplodere di episodi criminali ad opera di sbandati appartenenti a comunità straniere. C’è una destra sempre uguale a se stessa che alimenta e cavalca le pulsioni xenofobe e razziste ma anche le paure irrazionali del suo mondo. Ai lati compaiono frange squadriste di irregolari pronte a mettere in atto azioni violente, convinte che questa volta la gente approverà. Sullo sfondo c’è anche una élite politica di governo che mentre sta coltivando l’idea di intraprendere una qualche forma di dialogo con l’opposizione «più ragionevole» si vede improvvisamente aggredire proprio da quell’esponente della destra «moderna» di cui si fidava di più.

I voltafaccia di Gianfranco Fini non dovrebbero sorprendere più di tanto essendo egli l’allievo prediletto di quel Giorgio Almirante che già nei torbidi anni ‘70 teorizzava l’uso tattico alternato del manganello e del doppiopetto. O meglio del manganello da tenere sotto il doppiopetto. L’amara sorpresa di Giuliano Amato è quella di un autorevole professionista della politica abituato a colloquiare nelle stanze riservate dei palazzi o nel clima mondano delle presentazioni dei libri o nelle finte baruffe dei talk show. È probabile che Amato consideri Fini membro di uno stesso, ristretto club di potere. Quello degli uomini che hanno o che hanno avuto grosse responsabilità di governo e che dunque perfino nella polemica non possono venir meno a un loro codice d’onore. A Fini che gli grida vergogna, il titolare del Viminale risponde meravigliandosi della mancanza di stile di un uomo di governo che tra l’altro si è trovato a gestire l’ingresso della Romania nell’Unione Europea. Una frase velenosa che può mandare in sollucchero i cronisti parlamentari ma del tutto inadeguata a sostenere lo scontro mediatico se intanto l’altro usa l’artiglieria.

Se Fini ha messo il trench non è solo perché alla periferia nord di Roma piove e fa freddo. La grisaglia (il doppiopetto) vanno benone per convincere o tranquillizzare i pavidi borghesi. O per strappare l’approvazione compiaciuta di lobbies e salotti. O per gettare un po’ di fumo negli occhi della sinistra speranzosa. Quando, per esempio, si dice che gli immigrati hanno dignità e diritto anche di voto. O si lascia libertà di coscienza nel referendum sulla fecondazione assistita. O si dichiara di voler garantire soluzioni normative a diritti individuali non riconosciuti in assenza di matrimonio. O si chiede perdono agli ebrei per le infami leggi razziali volute dal fascismo. O se si intrecciano con la parte avversa costruttivi (per le tv) dialoghi sulla legge elettorale o sui costi della politica (Di Pietro).

Ma se il gioco si fa duro ecco che rispunta l’altro Fini, quello di lotta e del governo di polizia (da vicepremier è lui che a Genova segue minuto per minuto fatti e misfatti del G8, accanto ai vertici di polizia e carabinieri). Adesso sulla questione sicurezza si gioca due partite. Una contro il governo ma soprattutto contro Veltroni, leader del Pd che cresce troppo nei sondaggi e va fermato. E l’altra tutta interna alla Cdl. Per dare una botta al rintronato Berlusconi, beccato al «Bagaglino» la sera della morte di Giovanna Reggiani mentre racconta barzellette nello spettacolo dal titolo illuminante: «Vieni avanti cretino». E per tenere a bada Storace, che se Fini non sta attento gli porta via un’altra fetta di quelli che vogliono farsi giustizia da sé, col supporto di ben motivati bastonatori. Fini col trench ne ha assoluto bisogno se vuole fare un altro scatto di carriera. Camerati si è per sempre, abbiamo letto un giorno su un manifesto. Nella maggioranza dialogante e aperta al nuovo se ne facciano tutti una ragione.

apadellaro@unita.it



Pubblicato il: 03.11.07
Modificato il: 03.11.07 alle ore 10.20   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Gli indifferenti
Inserito da: Admin - Novembre 11, 2007, 03:51:58 pm
Gli indifferenti

Antonio Padellaro


Ieri mattina, guardando i giornali ci siamo chiesti per quale motivo soltanto l’Unità e nessun altro quotidiano nazionale aveva dato spazio alle dichiarazioni di Prodi e di Gentiloni, ai funerali di Enzo Biagi, sul perdurante e non più tollerabile conflitto d’interessi di Berlusconi. Abbiamo sfogliato le pagine interne, controllato le cronache dell’ultimo viaggio di Enzo verso Pianaccio. Ma, niente. Eppure, c’era un forte nesso tra quanto affermato dal premier e dal ministro delle Comunicazioni e il ricordo di Bice Biagi sulla sofferenza causata al padre dall’editto bulgaro del cavaliere. Testimonianza resa ancora più drammatica ad «AnnoZero» dal cardinale Ersilio Tonini con il suo veemente: «Lo hanno ucciso». Resta il fatto che siamo rimasti soli con il nostro partecipe titolo: «Conflitto d’interessi, la legge Enzo Biagi». Abbiamo sbagliato noi o ha sbagliato il resto della stampa italiana al completo? Mettiamola così: dipende dai punti di vista.

Prendiamo gli altri giornali. Hanno letto anche loro le frasi dei due uomini di governo ma le hanno probabilmente considerate una non notizia. Ovvero, parole di circostanza pronunciate più che altro per onorare la memoria di Biagi ma considerate prive di un reale valore politico. È vero, infatti, che esiste un disegno di legge sull’imcompatibilità tra incarichi di governo e possessori di patrimoni al di sopra dei 15 milioni di euro. Esiste, è stato approvato dal Consiglio dei ministri, ma tanto si sa che in Parlamento non passerà mai. Non lo vuole la Cdl, e si capisce.

Ma anche nell’Unione sono in molti a considerare la cosa o sbagliata (una provocazione verso il capo dell’opposizione) o irrealistica (al Senato non ci sono i voti). Conclusione dei nostri accorti colleghi: a che serve parlare del nulla?

Veniamo al nostro punto di vista. Che, tuttavia, va illustrato tenendo conto della teoria Parlato. Di che si tratta? Valentino Parlato, oltre che fondatore e firma prestigiosa del Manifesto è un giornalista che se deve dire una cosa non usa giri di parole, anche a costo di apparire provocatorio. L’altro giorno intervistato dal Corriere della sera ha sputato un rospo che conoscendolo aveva dentro chissà da quanto. Ha detto: «Meglio che torni Silvio, la sinistra è più a suo agio all’opposizione». Naturalmente Valentino non è impazzito o passato al nemico. Considera «fascismo di sostanza» il decreto «antiromeni», e pensa che sia preferibile un ritorno di Berlusconi a una berlusconizzazione del governo Prodi. Nella sua descrizione di una sinistra costretta a condividere tanto cose che con la sinistra fanno a pugni, Parlato segna dei punti. Non ha tutti i torti, per esempio, quando ricorda che con il vecchio Pci all’opposizione sono state fatte importanti riforme (quella agraria, quella della scuola). Anche l’argomento che con Berlusconi al potere il Manifesto vendeva di più ci trova (ahinoi) solidali.

Ma in questo, come dire, cinismo costruttivo, Parlato ce lo consentirà, si potrebbe leggere anche dell’altro. La sinistra impaziente che vuole tutto e subito. La sinistra volubile che si stufa presto. La sinistra combattiva che se torna Berlusconi torneremo a dare battaglia. La sinistra benaltrista perché il problema è sempre diverso da quello che si ha di fronte. La sinistra dura e pura che preferisce non sporcarsi le mani con il governo della quotidianità. Luoghi comuni sulla sinistra, certo, ma forse, proprio per questo, non del tutto infondati. E che dire della sinistra smemorata? Ma qui torniamo al punto di partenza: Biagi, Berlusconi e il conflitto di interessi. Già ci sembra di sentire lo sbuffo annoiato e sarcastico: basta con questa ossessione di Berlusconi, voi de l’Unità siete fissati...

È vero, continuiamo a considerare Berlusconi un pericolo pubblico e un suo eventuale ritorno al governo una tragedia. Adesso, però, il punto è un altro e si chiama credibilità. E si chiama mancanza di credibilità quando una coalizione si dimostra lontana e indifferente dagli impegni solenni presi con la propria gente, con il proprio elettorato. Per il centrosinistra sarebbe il guaio peggiore ritornare alle urne e sentirsi chiedere ragione di troppe omissioni. E le leggi vergogna? E le coppie di fatto? E il conflitto d’interessi? L’elettore ha la memoria buona. Può digerire una legge sbagliata. Ma evita di farsi prendere in giro due volte di seguito.

Nel suo ultimo libro, «Ahi serva Italia», Paolo Sylos Labini, un altro grande troppo presto dimenticato citava Giacomo Leopardi sul carattere immutabile degli italiani sostenendo che cinismo e carenza di spirito civico non possono che condurre ciascuno alla «indifferenza somma verso se stesso». Indifferenza che alla lunga può togliere a un popolo e agli individui l’amor proprio esponendolo al disprezzo degli avversari. Che possono dire: vedete, neanche loro credono più a quello che predicano. Perciò quel titolo forte e solitario era giusto.

apadellaro@unita.it

Pubblicato il: 10.11.07
Modificato il: 10.11.07 alle ore 8.20   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Walter e il lupo
Inserito da: Admin - Novembre 17, 2007, 07:56:57 pm
Walter e il lupo

Antonio Padellaro


Naturalmente, Walter Veltroni fa bene a cercare un dialogo diretto con Silvio Berlusconi sulle riforme. Ma visto il pessimo umore del cavaliere una domanda s’impone: ce la farà? Veltroni ha fatto la mossa giusta perché la sua offerta testimonia nei fatti la volontà di lavorare per il bene della Repubblica. È lo stesso linguaggio del presidente Napolitano, e gli italiani stufi di litigi e spallate sicuramente apprezzeranno. Poi, da buon politico il leader del Pd ha scelto il momento adatto per sferrare la sua offensiva della persuasione. Lo fa mentre nella Cdl, scompaginata dalla sonora sconfitta del Senato sulla Finanziaria si cerca di voltare pagina. Se il cavaliere non ci sta, ha dunque spiegato Enrico Letta, vorrà dire che ci confronteremo con Fini, Casini e la Lega. Ipotesi suggestiva quella di una destra che in tempi brevi possa fare a meno del presidente-proprietario, ma un po’ temeraria. Veltroni lo sa e, infatti, prima di parlare con i comprimari si è rivolto direttamente al principale. Non sapremmo immaginare questo ipotetico dialogo tra Berlusconi e Veltroni. Ma siamo convinti che il primo cercherebbe di conquistare il secondo. E il secondo cercherebbe di convertire il primo.

Ricordate San Francesco che chiedeva al lupo di fare la pace con i contadini che aveva terrorizzato, e il lupo che accettava agitando festosamente la coda? Scherziamo, ma mica tanto. Veltroni conosce le regole della lotta politica e, contrariamente alla leggenda buonista, non è affatto tenero con gli avversari. Ma sa che c’è un momento nel quale conviene a tutti deporre le armi e trovare un comune terreno d’intesa.

Secondo il sindaco di Roma l’ora è già scoccata e il paese sconta un drammatico ritardo di cui l’impopolarità della politica non è la sola conseguenza. Un paese costretto a vivere in un permanente scontro elettorale è destinato inevitabilmente non solo al declino ma all’autodistruzione. Un discorso responsabile che chiunque prenderebbe in considerazione. Ma Berlusconi? E il mondo di Berlusconi?

L’altra notte c’era qualcosa d’impressionante nella seduta di palazzo Madama. Erano le urla continue provenienti dai banchi della destra. Una colonna sonora cupa e schiamazzante che accompagnava gli interventi dei senatori della maggioranza inquadrati dalla telecamera fissa. Fuori campo, racconta chi era lì, è stato anche peggio. Pugni battuti sui leggii. Insulti a piovere. Carte scagliate in aria. Una ciurma isterica, tenuta a bada con ammirevole pazienza dal presidente Marini. Ma anche una moltitudine di individui stressati dall’attesa di una caporetto altrui che non arriva mai. Simbolo di queste esistenze spese per la maggior gloria del capo, e con il terrore di finire nel suo cono d’ombra, il povero senatore Antonione. Povero, perché preme il tasto sbagliato e, involontariamente, con il suo voto determina l’approvazione della odiata (dalla destra e dalla Confindustria) «class action». Disperazione. Lacrime. Propositi insani di dimissioni.

È la nemesi della spallata. A furia di evocarla invano adesso Berlusconi rischia di fare implodere i suoi. Si è spinto troppo in là per procedere a una ritirata strategica e non gli resta che rincuorare la truppa con un altro fantasmagorico spot. Si dia il via, dunque, all’operazione gazebo in tutta Italia. Il primo giorno l’affluenza sembra scarsa ma c’e da scommetterci che lunedì annuncerà trionfalmente di aver raccolto un mare di firme per tornare a votare subito (sicuramente più dei tre milioni e mezzo delle primarie del Pd). Plebiscito che mister B. scaricherà su Fini, Casini e Maroni affinché si diano una regolata su chi comanda.

C’è da fidarsi di Fini? Lo strappo con Berlusconi è davvero così profondo? Se si tratta di ordinare a Striscia la notizia di non dileggiare più la nuova compagna del leader di An, Confalonieri ci ha già pensato con tanto di comunicato ufficiale. Quanto al «nemico» Storace, Fini non ha mandato giù né la comparsata di Berlusconi alla costituente della Destra, e tantomeno il contributo versato nelle relative casse. Ma, come si dice, chi è senza bonifico scagli la prima pietra...

Fini è probabilmente sincero quando chiede all’alleato più forte di cambiare strategia. Sa però che messo di fronte a una scelta drastica tra il dialogo (con Veltroni) e le elezioni (con Berlusconi), il popolo di An non potrebbe avere incertezza alcuna. La strada intrapresa da Walter appare dunque coraggiosa perché piena di ostacoli. E perché il lupo in questione ha i denti ben affilati. Vero è, però, che anche a Gubbio, all’inizio, erano piuttosto scettici.

apadellaro@unita.it


Pubblicato il: 17.11.07
Modificato il: 17.11.07 alle ore 12.48   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Evviva, la destra s’è rotta
Inserito da: Admin - Novembre 21, 2007, 03:21:58 pm
Evviva, la destra s’è rotta

Antonio Padellaro


È andata così. Ronchi di An, a brutto muso, dice alla Brambilla, lady berlusconiana: «Io ti ho fatto parlare, ora tu fai parlare me». La Maria Vittoria reagisce inviperita. Buttiglione sembra un pugile suonato e mena cazzotti al vento. Maroni ride per non piangere e fa strane smorfie. I toni si alzano sulle macerie fumanti della Cdl appena picconata dal proprietario legittimo. Intanto Feltri sparge sale grosso sulle ferite. È una questione di gnocca, spiega con l’inconfondibile stile. Fini innamorato di una bella ragazza navigata. “Striscia la notizia” che fa dell’ironia pesantuccia su fanciulla e fidanzato. Il quale accusa il Berlusca di essere il regista della presa in giro. Silvio che nega. L’altro che minaccia di votare la Gentiloni assestando una bella piallata alla pubblicità di Mediaset. Insomma, un casino.

Manca poco alla mezzanotte di lunedì 19 novembre e a «Matrix», Canale 5, dopo un’attesa durata sette anni si realizza il mio (il nostro) sogno impossibile. Assistere al disfacimento della destra in diretta televisiva. Lo stridio irato di quelle voci. Quelle parole tirate addosso. Quella rabbia sulle vene del collo. E poi, (lode alla regia) quei primi piani, quelle facce tese, pallide, scosse, smarrite. Confesso che ho gioito, sentendomi in sintonia con l’esultanza di Romano Prodi che di fronte al crollo della Cdl ha giustamente detto ai suoi: godiamoci questo momento. Come dargli torto? Come Clay ha preso botte per sette round. Verso la fine dell’ottavo, bum, Foreman al tappeto e sogni d’oro.

Lo so che non è bello ridere sulla disgrazie altrui. Lo so che il dileggio dell’avversario non appartiene a chi si fa carico dei problemi del Paese.

Lo so che Veltroni non ne può più delle sterili contrapposizioni e che da molte parti si invoca la fine del «bipolarismo fazioso». Lo so, e capisco che questa strategia morbida della politica può essere la più efficace per disarticolare quel fronte opposto che un attacco frontale potrebbe altrimenti ricompattare. Ma io parlo (e scrivo) come giornalista dell’Unità, del giornale cioé che dal 2001 conduce una battaglia intransigente, non contro la destra ma contro questa destra del tutto anomala nel panorama europeo. Una coalizione fondata sull’interesse privato in atti pubblici di un miliardario che si crede Napoleone. Tenuta insieme dai benefici percepiti da una piramide infinita di vassalli, valvassori e valvassini. Per anni questa destra feudale e ad personam, ci ha gettato in faccia i suoi soldi, le sue televisioni e la sua strafottenza. Facendo strame di legalità e recintando prima il governo e poi l’opposizione come si fa con una proprietà personale. Filo spinato intorno e il cartello: vietato l’ingresso agli estranei.

Sì, il loro esercizio del potere è sempre stata soprattutto una faccenda molto privata e molto personale. Quando, ricordate?, filavano d’amore e d’accordo, riunendosi adoranti intorno alla cornucopia del capo, accuditi e nutriti dal cuoco Nicola o come si chiamava. Dei miracolati. Così dicevano gli spifferi di palazzo Grazioli. Ma anche questo faceva parte della cinica livella padronale che non riconosce meriti e qualità, devota solO alla regola: io vi ho creati e io vi distruggo. Molto di personale c’è anche nella diaspora di queste ore. Se il metro è quello dei «miracolati» Berlusconi ha qualche ragione nel lamentarsi di tutto il veleno e di tutte le accuse che gli (ex) alleati gli hanno riversato addosso. «Non hanno ripagato la mia pazienza, pensano solo alle loro carriere e al loro successo personale, mi sono rotto», ha confidato alla Stampa. Replica Fini: «Vuole metterci nell’angolo, cancellarci, crede di essere un re assoluto». Un linguaggio crudo, impietoso dove di politico non c’è proprio nulla. E il cui non detto lascia intravedere in una nuvola di cattivi pensieri, ruggini, contenziosi, favori fatti e non ricambiati, storielle assai poco edificanti (vedi Feltri).

Adesso si volta pagina, annuncia lui, ma il circo continua. Anzi raddoppia, triplica. In ventiquattr’ore chiude Forza Italia, s’inventa dieci milioni di firme, fonda il Partito del Popolo, sbaracca la Cdl, caccia Fini e Casini, rinnega il bipolarismo, abbraccia il proporzionale, riabilita il Pd, si converte al dialogo. Il tutto in un concerto di lecchini e sviolinate. Lo paragonano a Napoleone, Mao, Lenin. Lo definiscono geniale, magistrale, rivoluzionario. Fingono di non vedere che è solo un venditore che ha cambiato marchio alla ditta. Venghino signori venghino. Giusto controllargli le carte. Ci si può fidare di uno così?

apadellaro@unita.it

Pubblicato il: 21.11.07
Modificato il: 21.11.07 alle ore 9.16   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Il dialogo e l'imbroglio
Inserito da: Admin - Novembre 22, 2007, 11:06:42 pm
Il dialogo e l'imbroglio

Antonio Padellaro


Leggere le notizie su come è stata ridotta la Rai dalle quinte colonne di Berlusconi premier e apprendere che si tentò di oscurare perfino la morte di Papa Wojtyla pur di non togliere luce televisiva al padrone fa sorgere spontanea la domanda: si può dialogare con personaggi del genere? Non è in discussione, naturalmente, l’iniziativa di Veltroni sostenuta da Prodi per concordare una legge elettorale al posto dell’indecente porcellum. Non se ne poteva fare a meno eppure soltanto l’implosione della destra ha costretto a piegarsi Fini e Berlusconi, ormai a corto di arroganza e non restandogli molto altro da fare.

Poi, se ci sarà intesa si passerà a questioni ugualmente importanti per la governabilità: poteri del premier e regolamenti parlamentari. È giusto, le regole del gioco si cambiano con il consenso di tutti, a patto che lo spirito comune sia il bene del paese. Ora, con tutta la migliore buona volontà, è davvero difficile individuare tali virtù civili nell’uomo che, come adesso risulta in modo solare dalle indagini giudiziarie, stando a Palazzo Chigi si giovava di un’informazione del servizio pubblico (cioè pagata da noi) pilotata tutta a sua favore. Anche perché le devastanti intercettazioni apparse su «Repubblica» sono in qualche modo l’inevitabile e coerente completamento di un’attività politica dedita esclusivamente all’asservimento del bene pubblico all’interesse privato di uno solo.

La classica ciliegina sulla torta se non fosse che la torta se l’è già mangiata lui. Comprendiamo che le regole della democrazia costringono a parlare anche con chi non ci piace. Ci sia almeno risparmiata, però, l’ipocrita e pomposa favola del dialogo.

Qui prima di sedersi al tavolo bisognerà stare bene attenti che qualcuno non abbia truccato le carte. Come nel Far West.

Pubblicato il: 22.11.07
Modificato il: 22.11.07 alle ore 12.56   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Bastone e carota
Inserito da: Admin - Novembre 24, 2007, 05:02:08 pm
Bastone e carota

Antonio Padellaro


Geniale. Sublime. Subito dopo aver fondato il suo nuovo partito Silvio Berlusconi faceva una certa fatica a schivare gli aggettivi che gli piovevano addosso, non solo dai cortigiani a contratto ma anche da commentatori neutrali ma forse un po’ troppo suggestionati dall’alone di eterno vincente che illumina la tinta del cavaliere. Che qualche dubbio sulla effettiva genialità del blitz sul predellino dovrebbe pure cominciare a porselo. Esauriti gli effetti speciali, archiviati i pirotecnici sondaggi il ribaltone nel Polo comincia ad evidenziare qualche problemino non del tutto sublime per l’artefice massimo. Scrive l’Economist che siamo davanti a un tentativo del cavaliere di distrarre l’attenzione dal proprio fallimento causato dal ripetuto far leva sui colpi di scena piuttosto che su politiche alternative. L’ex premier, insomma, vuole cambiare le regole di un gioco che sente che sta perdendo. Però, più cambia più rischia grosso. Gli ex alleati Fini e Casini, ovviamente, non hanno preso affatto bene che mister B. stia cercando di lanciare un’opa sull’elettorato di An e dell’Udc. E la prospettiva di essere anch’essi massacrati dalle tv padronali, come accade da tredici anni alla sinistra li costringe ad auspicare (scherzi del destino) una riforma del sistema televisivo per tagliare le unghie di Mediaset. Senza contare che molti nella ex Forza Italia cominciano a chiedersi come farà il partito del popolo delle libertà, o come si chiama, a vincere le elezioni stando da solo. Attenzione però che Fini e Casini stanno ancora peggio di Berlusconi e che l’interesse comune (il potere) potrebbe alla fine portare i tre litiganti a firmare una sorta di armistizio. Prodi e Veltroni, perciò, fanno bene a non abbassare la guardia. L’intesa sulla legge elettorale e una seria offensiva sul conflitto d’interessi sono la carota e il bastone con cui tenere a bada la destra. Non sarà geniale ma è utile.

Pubblicato il: 24.11.07
Modificato il: 24.11.07 alle ore 12.58   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Patti chiari
Inserito da: Admin - Novembre 27, 2007, 06:01:44 pm
Patti chiari

Antonio Padellaro


Sarebbe bello che dopo l’incontro Veltroni-Fini di ieri la parola dialogo, troppo spesso usata a sproposito come sinonimo di accordo sottobanco o di manovra diversiva, riacquistasse il significato originario. Che tornasse ad essere cioè quel confronto di idee e programmi allo scopo di raggiungere un’intesa che, per esempio, nel dopoguerra consentì a forze diversissime, comunisti e democristiani, azionisti, socialisti e liberali di scrivere il testo mirabile della nostra Costituzione. Il leader del Pd osserva che dopo tempo immemorabile sinistra e destra sono tornate a parlarsi, ed è certo una novità importante. Come lo è che nella stessa destra si sia deciso di mettere da parte il triste linguaggio degli insulti e delle minacce, delle spallate e delle implosioni. Tutte cose buone e giuste che, tuttavia, a ben poco servirebbero se non portassero a compimento un’intesa effettiva sulle cose da fare. Intesa è la parola chiave che sottintende una volontà concreta e determinata per superare difficoltà e intralci pur di fare uscire il Paese dal tunnel dell’ingovernabilità.

La domanda allora è se questa intesa la vogliono davvero tutti. Su Veltroni non dovrebbero esserci dubbi, se non altro perché l’iniziativa l’ha presa lui e non si vede perché non debba desiderare di concluderla con un successo. Speriamo che uno spirito analogo animi Fini, a dispetto di chi lo immagina impegnato in una sorta di partita doppia alla fine della quale ci sarebbe il referendum sulla legge elettorale. Speriamo che il presidente di An e Casini e i leghisti, non pensino ad un uso momentaneo e strumentale del dialogo per difendersi dal nuovo partito personale di Berlusconi; e dopodiché grazie e arrivederci. Sarebbe un grave danno alla credibilità già scossa di tutto il sistema politico se una grande occasione venisse buttata al vento come una delle tante piccole manovre di palazzo.

Pubblicato il: 27.11.07
Modificato il: 27.11.07 alle ore 8.19   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Le prediche di Marini
Inserito da: Admin - Novembre 28, 2007, 05:23:00 pm
Le prediche di Marini

Antonio Padellaro


Ieri, nell’aula di palazzo Madama, il senatore berlusconiano Francesco Nitto Palma, nella cui carriera di magistrato a Roma rifulge la preziosa amicizia con Cesare Previti, ha aggredito Furio Colombo. Subito dopo il minuto di silenzio dedicato alla memoria dell’eroico maresciallo Daniele Paladini, egli ha preso la parola e ha onorato da par suo le istituzioni con una gragnuola di insulti. Mescolando brani di articoli diversi scritti da Colombo su l’Unità ha cercato di dimostrare che l’autore aveva offeso la dignità del Senato. Non è così ma il diritto di critica andrebbe riconosciuto perfino a uno come Nitto Palma se poi non diventasse il pretesto per attacchi volgari all’avversario politico, definito, tra gli altri complimenti, un «poveraccio».

Segue la reazione indignata del senatore Zanda che a nome del gruppo Pd solidarizza con Colombo. Il quale ottiene faticosamente la parola al fine di smascherare il falso. Si chiude con la predica del presidente Marini che, salomonicamente, rimprovera sia l’aggressore che l’aggredito deplorando i giudizi irrispettosi sul Senato, «con la parola e con gli scritti». Se non fosse che mentre la «parola» di Nitto Palma, ben supportato dal leghista Castelli, appariva di pura denigrazione, gli «scritti» di Colombo erano a difesa della senatrice Rita Levi Montalcini oggetto di incredibili offese da parte del Nitto Palma e dei suoi degni amici. Ci dispiace veramente che il presidente Marini non abbia colto questa non piccola differenza.

Pubblicato il: 28.11.07
Modificato il: 28.11.07 alle ore 13.19   
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Titolo: Antonio PADELLARO - La Repubblica delle mani libere
Inserito da: Admin - Novembre 30, 2007, 12:03:27 am
La Repubblica delle mani libere

Antonio Padellaro


Mani libere strilla Dini. Mani libere ripete Boselli. Mani libere conferma Diliberto. Mani libere ringhia Fini. La repubblica delle mani libere, ribelle e trasversale, è sicuramente figlia del sistema elettorale che potrebbe esserci ma non c’è ancora. Quel tedesco più o meno annacquato che prima del voto libera tutti dai vincoli di coalizione, e poi si vede. Forse però c’è dell’altro.

Drappelli di senatori sul mercato. Minuscole rendite di posizione da ottimizzare. Minacce cifrate. Ma anche insofferenze personali troppo a lungo sopite. Mani libere per fare cosa? Quelle dell’Unione, intendiamoci, sono sempre state legate dall’interesse comune a non farsi male. Scontri, polemiche, annunci di cataclismi ma poi al momento del voto in Parlamento tutti inquadrati e coperti. Mani libere adesso vuol dire: caro Prodi potremmo farti cadere ma non lo faremo se non esageri. È il preannuncio di qualcosa di sgradevole per il governo che solo un evento salvifico e alquanto nebuloso potrebbe impedire. È la cosiddetta verifica che il premier ha retrocesso a innocua riunione per fare il punto, e poi si ricomincia.

Più pericolose (per Berlusconi) le mani libere di Fini. Espresse con parole inconcepibili per le orecchie del cavaliere. Giustizia e tv ha sibilato gelido il leader di An, parlando con la stessa lingua dei perfidi comunisti quando attentano alla roba del sire di Arcore. Giustizia significa rinvangare le orribili leggi ad personam, l’epoca buia di quando la legge era uguale per tutti tranne che per uno. Ma evocare le tv vuol dire, orrore, che perfino il cuore Mediaset dell’impero non è più al sicuro. Televisioni che l’alleato tradito vuole disarmare prima che siano puntate contro di lui come lo furono contro la sinistra. Ci si chiederà: ma non è quello stesso Fini che allora approvò sottomesso tutte le schifezze richieste? Mani libere sì ma anche memoria corta.

Pubblicato il: 29.11.07
Modificato il: 29.11.07 alle ore 8.37   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Benigni e l'italica commedia
Inserito da: Admin - Dicembre 01, 2007, 11:03:44 pm
Benigni e l'italica commedia

Antonio Padellaro


Giovedì sera, Roberto Benigni ha reso un pessimo servizio a chi come noi cerca di raccontare la politica italiana sui giornali. Eppure sentiamo di doverlo ringraziare per le ragioni che spiegheremo.

Davanti a dieci milioni di spettatori (che si aggiungono alle folle che in questi mesi hanno riempito teatri e tendoni, da Torino a Reggio Calabria), Benigni ha mostrato una galleria dei personaggi che occupano ogni giorno le nostre pagine (per pagine e pagine), e che ogni sera tracimano implacabili da tutte le tv. E li ha ri-raccontati per ciò che realmente sono. Non si tratta di una recensione alla straordinaria interpretazione della commedia dantesca che su queste colonne ha già impegnato firme illustri. Per noi ancora più folgoranti sono stati quei trenta minuti iniziali sulla italica commedia del potenti. Certo, un bestiario tutto da ridere, fino alle lacrime, ma reso tragicamente irresistibile dall’autenticità dei fatti e delle facce. Sbeffeggiate, parodiate come giusto che sia ma tutta vera cronaca estratta, parola per parola, macchietta per macchietta dagli articoli che scriviamo e impaginiamo come se fosse roba seria.

Non è vero forse che Berlusconi ha creato un partito stando sul predellino di un auto? Che Prodi deve sperare, e pregare, che a nessuno degli augusti senatori a vita che tengono il governo in vita venga un raffreddore? Non è vero che Calderoli ha definito una porcata la legge elettorale da lui medesimo scritta? Che i Savoia hanno chiesto allo Stato italiano 260 milioni di euro come risarcimento per il loro esilio? E che una commissione parlamentare abbia indagato per anni su Prodi spia del Kgb è forse soltanto una barzelletta, neppure tanto spiritosa? E che un’altra solenne istituzione bicamerale abbia tenuto in piedi delle gravissime accuse di corruzione contro lo stesso Prodi, Dini e Fassino sulla base di un tale conte Igor noto imbroglione, è solo pura comicità demenziale? E il greve vernacolo di Storace e la maschera eterna di Andreotti sono per caso creazioni romanzesche?

E i vizi privati e le pubbliche virtù di onorati onorevoli che di giorno manifestano in favore della famiglia e la notte fanno quello che fanno, è roba riciclata da un avanspettacolo stantio o vita orribilmente vissuta? E il turpiloquio che nelle intercettazioni accompagna sempre la compravendita di banche, di ragazze e di partite di calcio è il frutto di una comicità estremista o si riferisce a fatti realmente accaduti?

Si dirà: da che mondo e mondo compito della satira è quello di svelare e svergognare la vera natura del potere; ed è compito dei buffoni sghignazzare sul re che è nudo. La differenza è che qui da noi tutto si svolge sotto gli occhi di tutti. Qualcuno ha scritto che Benigni si è divertito a mettere in mutande le classi dirigenti. No, lui quei signori li ha immortalati esattamente per come sono. Tali e quali. Lo ha fatto, moderno Charlie Chaplin, suonando l’intera tastiera della comicità politica. Concentrando storie ridicole e personaggi grotteschi in modo che l’effetto accumulo, tra una risata e l’altra, suscitasse un comune moto dell’animo. Ma come è stato possibile? Ma in che razza di Paese viviamo? Siamo convinti che tra i dieci milioni dell’altra sera, spento il televisore questo l’avranno pensato in tanti.

Il problema adesso è nostro. La regola sarebbe questa: ai giornali la realtà, ai comici la finzione. Ma se una certa realtà della politica è quella raccontata da Benigni, ciò che appare sui giornali non sarà in qualche misura una sorta di finzione? Un modo per rendere credibile ciò che non si presenta come tale? Per dare dignità a chi ne ha fatto un uso limitato? D’altra parte molti dei personaggi messi alla berlina detengono un enorme potere decisionale. Il Berlusconi che gira con la bandana e fonda partiti a ripetizione è lo stesso Berlusconi da cui dipende il futuro delle riforme, e con cui bisogna trattare. Il Calderoli delle porcate siede al vertice della Lega ed è vicepresidente del Senato. E se il Mastella degli aerei di Stato si arrabbia, addio governo. Per forza, la politica seria dovrà continuare a farci i conti.

Certo è che nel dopo Benigni sarà più difficile vagare tra mani libere, rimpasti, verifiche e aghi della bilancia senza scoppiare a ridere.

Pubblicato il: 01.11.07
Modificato il: 01.12.07 alle ore 9.02   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Perché basta
Inserito da: Admin - Dicembre 08, 2007, 03:24:06 pm
Perché basta

Antonio Padellaro


Non capita spesso che i lettori approvino un titolo del giornale come se lo avessero fatto loro. È successo ieri mattina davanti a quel «Basta!» de l’Unità stampato grande, quel grido di rabbia che sovrastava la foto degli operai dell’acciaieria ThyssenKrupp di Torino. Immagini di pianto e di paura dopo che il fuoco dell’incuria aveva bruciato i corpi di sette loro compagni, uccidendone quattro e lasciando che per gli altri poveri corpi ustionati non si sapesse bene cosa sperare. Ma sotto quel basta c’erano anche le notizie sulle divisioni nella maggioranza che avevano messo a serio rischio la fiducia chiesta dal governo sul decreto sicurezza. E ottenuta per un solo voto, grazie alla generosità del senatore Cossiga.

Enormemente diversi i due fatti. Incomparabile con la gravità di una strage che si unisce a centinaia di altre stragi sul lavoro è il consueto e meschino tira e molla di una politica che non cambia mai. Ma il non poterne più riguarda la soglia di sopportazione collettiva poiché ci sono notizie, parole e facce che noi per primi ci siamo stancati di pubblicare. Quando però la casualità dell’informazione mette in cortocircuito, la realtà della sofferenza umana con la irrealtà delle discussioni incomprensibili, allora è davvero troppo.

Ci dispiace per i bravi colleghi del Tg1, ma ieri sera un sommario probabilmente sbagliato rendeva insopportabile il collegamento tra il servizio Uno: apertura della Scala con un illustre critico musicale che parlava amabilmente di se stesso. Con il servizio Due: dichiarazioni stravolte di Mastella e Di Pietro sulla fine o sulla minaccia di fine della maggioranza politica. Con il servizio Tre: riprese della fabbrica con gli estintori scarichi, foto di Antonio Schiavone da vivo che lascia una moglie e tre figli, e altre mogli e di altri figli, immobili e disperati nel corridoio di un ospedale. Ora, qui non c’entra l’antipolitica ma è stato il peggior servizio che si potesse rendere a Mastella e a Di Pietro.

E con loro a tutto il vano agitarsi di figure e figurine teodem, postcom e neodc che indefessamente si dedicano alla demolizione di un governo e di una maggioranza votati da diciannove milioni di italiani (sulle sceneggiate di Berlusconi non sprecheremo parole). Perché nelle sequenza non c’era nesso alcuno tra le minacce dei leader e le sofferenze delle persone. Come se i primi agissero e si muovessero in una dimensione astratta, artificiale, lontana. In un luogo e in un tempo completamente avulsi dai problemi e dalla condizione dei comuni esseri umani. Basta è il minimo che si possa dire a parlamentari e ministri disposti a far cadere il governo su una giusta norma che prevede la punibilità di chi commette atti di discriminazione fondati sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere. Basta è la parola che rende il senso del fastidio di fronte a scelte misteriose ad opera di forze esterne ma incombenti (in questo caso il Vaticano). Basta è l’unico commento che ci sentiamo di fare di fronte alla non percezione del disastro in cui ci stanno precipitando.

Pubblicato il: 08.12.07
Modificato il: 08.12.07 alle ore 7.10   
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Titolo: Antonio PADELLARO - 19 milioni di ragioni
Inserito da: Admin - Dicembre 29, 2007, 06:04:37 pm
19 milioni di ragioni

Antonio Padellaro


Nel tentativo di riportare Lamberto Dini sulla retta via il comportamento di Prodi ci ricorda quella famosa scena del «Natale in casa Cupiello» quando al grande Eduardo, paziente e fiducioso artefice di capanne e bambinelli, il figlio viziato e malmostoso risponde sempre che no, il presepe non gli piace. Questa volta però la recita si svolge davanti a 19 milioni di italiani (per la precisione 19.002.598), quelli che dopo avere votato per il governo dell’Unione non possono certo sorridere alla prospettiva che la loro volontà valga zero davanti al voltafaccia dei cinque o sei senatori a cui il presepe prodiano non piace più. Qui siamo di fronte a un gigantesco problema di democrazia se per calcolo, impuntatura o per ragioni di coscienza anche le più nobili, cinque o sei persone possono decidere per tutti, sissignore anche per l’altra metà del Paese che ha votato Berlusconi. Il quale infatti sostiene di volere certamente la fine di Prodi ma poi le elezioni subito, e non la costituzione di quel governo istituzionale o tecnico o di transizione che i cinque o sei dicono di voler agevolare con il loro dietrofront. Si dirà che la storia della cosiddetta prima Repubblica è piena di governi fatti cadere con imboscate improvvise di franchi tiratori, e che non mancano i casi di presidenti del consiglio mandati a casa per un solo voto. Ma le regole erano diverse e la precarietà delle maggioranze, il loro farsi e disfarsi era quasi un male accettato. Così come il susseguirsi degli esecutivi assicurava un sistema in qualche modo redistributivo delle poltrone. Quanto al voto che nel 1998 affondò Prodi, tutt’altro che imprevisto fu la conseguenza ultima del lungo strappo con cui Rifondazione comunista mise fine a un appoggio esterno e poco caloroso.

Ma nel 2006 i patti furono altri. Solenni cerimonie sancirono l’adesione all’Unione di tutti i contraenti. Piuttosto che rischiare contestazioni successive sì preferì scrivere un programma esageratamente monumentale e minuzioso che tutti volontariamente sottoscrissero.

E a cementare l’insieme provvide quella porcata di sistema elettorale che mandando in Parlamento i deputati e i senatori indicati non dagli elettori ma dai partiti li vincolava per lo meno a una sorta di elementare codice di lealtà nei confronti delle coalizioni di appartenenza.

Ora, restando (come è giusto) il mandato parlamentare individuale e personale nessuno può impedire ai cinque o sei senatori, o a chiunque altro, di far cadere il governo Prodi. Di questo loro progetto conosciamo per filo e per segno motivazioni e insofferenze, illustrate in centinaia di interviste. Sicuramente avranno mille ragioni ma il punto non è questo. La domanda da rivolgere ai senatori Dini, Scalera, D’Amico, Bordon, Manzione, Fisichella e Pallaro è semplice: nel decidere il vostro definitivo no a Prodi avete pensato ai 19.002.598 elettori dell’Unione, a ciò che gli togliete e a come la prenderanno? Conosciamo già l’obiezione: quei milioni di voti si sono drasticamente ridotti a giudicare dai sondaggi che danno ai minimi la popolarità del governo (per colpa soprattutto delle liti tra i partiti). Posto che il confronto è tra voti reali e voti virtuali tutti da dimostrare, è strano che i suddetti senatori nell’approssimarsi dell’ora fatale non sembrano neppure sfiorati dal minimo problema di coscienza. Eppure abbandonare la maggioranza con cui si è stati eletti per causare la caduta del governo, non è questione da poco. Solo il senatore Fisichella, da quel galantuomo che è ammette: «Non so se ho sbagliato. Ma quel che è certo è che non l’ho fatto a cuor leggero» Corriere della sera). E, se non abbiamo letto male, il senatore Bordon, altro galantuomo, starebbe pensando alle dimissioni. Una scelta senza dubbio dignitosa. Non si condivide più la politica del governo? Si ammette di aver sbagliato a farsi eleggere con l’Unione? Si lasci il posto ad un altro. Non si tratta di augurarsi punizioni o vendette ma, lo ripetiamo, di porre una questione fondamentale di democrazia.

Auspichiamo come molti una legge elettorale meno iniqua ma sarà difficile escogitare un sistema che ci difenda tutti quanti dai veleni del trasformismo o dagli imbrogli dei voltagabbana se poi a chi fa politica e concorre alle cariche elettive manca un’assunzione piena di responsabilità. È prima di tutto una questione di rispetto nei confronti dei cittadini che molti continuano a trattare da popolo bue, da massa di manovra da ingannare a proprio piacimento. Così facendo l’antipolitica ci sommergerà. Perciò quando Prodi dice che un governo si abbatte con uno voto di sfiducia, alla luce del sole, ciascuno mettendoci la faccia, il nome e il cognome e l’indirizzo ha non una ma diciannove milioni di ragioni.

apadellaro@unita.it

Pubblicato il: 29.12.07
Modificato il: 29.12.07 alle ore 8.34   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Lettera di un elettore del Pd
Inserito da: Admin - Gennaio 05, 2008, 06:45:48 pm
Lettera di un elettore del Pd

Antonio Padellaro


Sono un elettore del Pd e non mi sento tanto bene. Avevo chiuso l’anno vecchio con Prodi ottimista sul futuro del governo e della nostra Italia (sono contento che il rapporto deficit-Pil sia sceso al 2 per cento anche se so che questo non cambierà la mia vita e neppure il prezzo della benzina). E mi ero addormentato con Veltroni sorridente che diceva quella bella frase sul Pd e sul governo che hanno gli stessi obiettivi (noi elettori del Pd desideriamo più di ogni cosa che Prodi e Veltroni vadano d’accordo e che il Pd e il governo si sostengano a vicenda). Però, quando mi sono svegliato con l’anno nuovo, accidenti, era cambiato tutto e al posto del sole ho visto solo neri nuvoloni. Prima ho visto in tv Prodi che sciava tranquillo con la signora Flavia e con in testa quel buffo casco nero (sempre meglio del cranio incatramato di quell’altro). Di Veltroni invece non si parlava ma ho pensato che stava giustamente ricaricando le batterie (noi elettori del Pd teniamo molto alla salute dei nostri leader).

Purtroppo era la quiete prima di una tempesta scatenata (l’ho scoperto poi) da un’intervista del numero due del Pd Dario Franceschini (sembra impossibile, una persona così posata) sul sistema elettorale francese. A questo punto devo fare una premessa. Noi elettori del Pd su questa storia dei sistemi elettorali non ci stiamo a capire più niente. Perfettamente d’accordo che l’attuale porcata di Calderoli, che moltiplica partiti e partitini, venga cancellata anche se ci ha fatto vincere le elezioni (noi elettori del Pd siamo persone responsabili e ci facciamo carico della governabilità del paese). Ogni giorno, tuttavia, spunta fuori un sistema diverso. Quelli che mi ricordo sono sei (e davvero si può pensare di appassionare la gente trasformando la politica in un frullato incomprensibile di soglie di sbarramento e premi di maggioranza)? Prima la bozza Chiti. Poi il modello tedesco. Poi quello spagnolo. Poi il Vassallum. Poi la bozza Bianco. Adesso rispunta l’elezione diretta sul modello francese che era quello che all’inizio volevano in molti (parlo dei nostro schieramento) perché riducendo le forze in campo garantirebbe la governabilità (di cui ci facciamo carico). Poi apprendiamo che il francese non si può fare perché, come ho letto da qualche parte, non si è mai visto un tacchino partecipare volentieri al pranzo di Natale.

Il tacchino sarebbero i partiti minori che non ci stanno (giustamente dal loro punto di vista) a farsi cucinare da Franceschini, ed eccoli infatti subito lì a minacciare la crisi di governo.

È vero che a queste ricorrenti bufere ci siamo abituati (vedi Mastella), ma questa volta noi fiduciosi elettori del Pd abbiamo tentennato quando abbiamo sentito D’Alema dire: siamo impazziti?, qui salta tutto. Ora, si sa che D’Alema fa il ministro degli Esteri a tempo pieno. E che alle prese con i grandi problemi internazionali non ha il tempo (e forse neppure la voglia) di occuparsi della politica di casa nostra. Ho pensato perciò che se D’Alema smette improvvisamente di occuparsi della gravissima situazione nel Pakistan e delle stragi in Kenya per dire che qui in Italia siamo impazziti e salta tutto (e dal tono doveva essere di umore nerissimo come i nuvoloni di cui sopra), beh allora significa che siamo messi proprio male. Sul momento ho pensato anche: ma è mai possibile che D’Alema smette improvvisamente di occuparsi del Pakistan e del Kenya (e della Cina e della Russia e delle primarie in America) per prendersela con Dario Franceschini (con tutto il rispetto per la persona e per il politico)? E infatti, a leggere bene, D’Alema si rivolge al numero due del Pd ma in realtà parla al numero uno (Veltroni) a cui in sostanza dice: caro Walter, qualcosa mi sfugge visto che sei un politico accorto che calcola sempre le sue mosse ma stai attento che Prodi non è per niente contento di questa trovata del sistema francese. E neppure io.

Da quel momento in poi ne abbiamo lette e sentite di tutti i colori. È (ri)scoppiata la guerra Veltroni-D’Alema. Veltroni vuole il referendum in modo che Prodi cade e si può fare il governo istituzionale con Berlusconi. No, al contrario Veltroni vuole sinceramente arrivare a una riforma elettorale il più possibile condivisa per evitare il referendum perché quello sì, costringendo i partiti minori a fare coalizione con i partiti maggiori farebbe saltare la maggioranza (per i vari Mastella & soci, insomma, meglio del referendum sarebbero le elezioni anticipate subito; la solita storia dei tacchini e del Natale).

Sono un elettore del Pd e non mi sento tanto bene perché comincio a temere che non sia poi così vero che governo e Pd si sostengono a vicenda. Ho come la sensazione che ci sia qualcosa che non ho capito o che non mi è stato spiegato bene. E vorrei che fosse Veltroni a chiarirmi le idee non solo perché di lui mi fido ma perché una volta ha detto (nel discorso del Lingotto credo) che nel Pd non troverà mai posto la vecchia politica dei trabocchetti e della doppia verità (di Veltroni mi fido anche se non ho capito come faccia lui a fidarsi di Berlusconi che mentre fa finta di dialogare fissa i tempi per la prossima spallata al governo, pronto a ricominciare con il mercato dei senatori).

Sono un elettore del Pd e mi sento tanto male quando vedo la spazzatura che sommerge Napoli e la Campania. Quando mi rendo conto che le responsabilità di tanto degrado sono soprattutto del centrosinistra visto che governa la Regione e la città da molti anni. Quando mi chiedo se può continuare ad interessarmi una politica concentrata sulle dispute bizantine e sommamente lontana dai problemi vitali della gente.

(Questo testo mette insieme e riassume i contenuti delle lettere e dei messaggi che pervengono all’«Unità» in questi giorni).



Pubblicato il: 05.01.08
Modificato il: 05.01.08 alle ore 14.00   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Mai più
Inserito da: Admin - Gennaio 10, 2008, 10:57:50 am
Mai più

Antonio Padellaro


Sulla reale efficacia delle misure annunciate da Prodi, si vedrà. Restano, accanto alle centomila e più tonnellate di spazzatura che qualcuno prima o poi raccoglierà, i danni incalcolabili che questo disastro ha causato alla credibilità dello Stato, della democrazia e del centrosinistra. Ci sarà tempo e modo per riflettere sulle cause più profonde di quanto accaduto, per accertare meglio colpe e responsabilità.

Ma c’è qualcosa che abbiano visto e sentito in queste orrende giornate che vorremmo comunque non vedere e non sentire più. Non vedere più, ministro Amato, quel poliziotto che a Pianura manganella e manganella sulla testa un dimostrante per farlo scendere da un bulldozer.

I violenti che distruggono e incendiano vanno presi e associati alle patrie galere. Quella gente però, come ha spiegato il parroco, non andava bastonata ma convinta (e lì non c’era nessuno a farlo). Non sentire più quelle frasi su camorristi, preti e ambientalisti fondamentalisti che brigando e intimidendo impediscono da sempre che allo smaltimento dei rifiuti venga data una soluzione da mondo civilizzato. Le crediamo, presidente Bassolino, ma doveva dirlo prima e saremmo stati tutti con lei se lo avesse gridato subito alto e forte.

Così come, sindaco Iervolino, che un anno fa aveva avvertito Prodi della catastrofe incombente, a che serve raccontarcelo adesso? E non vogliamo più, ministro Pecoraro Scanio, che i verdi si distinguano solo per i loro veti. Perché sarà pur vero che il crack dell’inceneritore di Acerra è colpa dell’Impregilo ma cosa abbiate fatto voi, concretamente, per evitare tutto questo sinceramente non lo abbiamo ancora capito. Insomma, cari amici, se davvero vogliamo fare punto e a capo finiamola di scaricare altrove (sulla destra che è quella che è) o sulla camorra (alimentata dalla cattiva politica) gli errori e i fallimenti che ci appartengono.

Pubblicato il: 09.01.08
Modificato il: 09.01.08 alle ore 14.29   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Parole sbagliate
Inserito da: Admin - Gennaio 11, 2008, 11:22:29 pm
Parole sbagliate

Antonio Padellaro


Se con la dura sgridata contro Veltroni voleva suscitare grande imbarazzo e sorpresa, papa Ratzinger ha indubbiamente ottenuto il suo scopo.

Non certo per la denuncia dei mali della capitale, esistenti e che il vescovo di Roma ha tutto il diritto di sottolineare. E neppure per le ormai consuete lamentazioni sulla famiglia insidiata, figuriamoci, da un registro delle unioni civili subito affossato in Campidoglio. E neanche per aver bussato cassa esclusivamente a favore degli ospedali cattolici, come se quelli pubblici nuotassero nell'oro.

L'imbarazzo e la sorpresa derivano semmai dal complesso di tutte queste cose esternate con lo stesso linguaggio, poco rispettoso dei rispettivi ambiti Stato-Chiesa, a cui ci aveva abituati il cardinale Ruini prima del suo pensionamento. Tanto più che l'occasione consisteva nell'annuale saluto che i vertici politici del Lazio hanno portato in Vaticano, con spirito di rispetto e di cortesia. E dunque che bisogno c'era di usare quel tono sprezzante in risposta al saluto del sindaco di Roma, accompagnato da numeri e fatti sulla crescita, malgrado tutto, della città e sull'impegno che non da oggi l'amministrazione dedica ai più deboli, a chi soffre, agli «invisibili»?

Possibile che il raffinato teologo tedesco non abbia pensato che di fronte, oltre che il politico quanto mai attento al dialogo tra laici e cattolici (forse troppo secondo alcuni), aveva il leader del Partito democratico, fulcro della maggioranza di governo? Confermare che la gerarchia vaticana, al più alto livello, persegue non il dialogo ma l'interferenza, e dare spago alle deprimenti speculazioni della destra più genuflessa: era questo il risultato che gli estensori del discorso papale si proponevano? È già accaduto (vedi Ratisbona) che le parole di Ratzinger fossero male interpretate. Seguirono precisazioni e chiarimenti. Restiamo in attesa. 

Pubblicato il: 11.01.08
Modificato il: 11.01.08 alle ore 8.21   
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Titolo: Antonio PADELLARO - La Chiesa e il fattore Pd
Inserito da: Admin - Gennaio 12, 2008, 10:30:24 pm
La Chiesa e il fattore Pd

Antonio Padellaro


Alla fine il Papa ha riconosciuto l’impegno del sindaco a rendere la Capitale «sempre più bella ed accogliente», Veltroni ha molto gradito mentre un comunicato della Sala stampa vaticana ha deplorato la «strumentalizzazione politica» seguita alle parole di Ratzinger aprendo a destra il festival della coda di paglia vinto da Casini. Dunque l’incidente formale può dirsi chiuso e non staremo a sottilizzare in forza di quale miracolo della fede Roma, che il giorno prima era luogo di «gravissimo degrado», il giorno dopo può diventare «bella ed accogliente». Ma la questione politico-religiosa resta più che mai aperta poiché al di là dei toni eccessivi e delle espressioni poco felici, successivamente corrette, il discorso di Benedetto XVI ai vertici amministrativi del Lazio (oltre a Veltroni, Marrazzo e Gasbarra, tutti del centrosinistra) appare coerente con le posizioni di fondo che la gerarchia cattolica ha già espresso al più alto livello. La dottrina Ruini, per intenderci, contrassegnata dalla sostanziale sfiducia nei confronti del Partito democratico.

Lo ha dichiarato «apertis verbis» a Famiglia Cristiana il cardinale Tarcisio Bertone esprimendo l’auspicio che «i cattolici non siano mortificati nel nascente Pd». Frase che nel linguaggio curiale equivale a un’accusa precisa, tanto più che qualche riga sotto il segretario di Stato vaticano afferma che la Chiesa era più rispettata ai tempi del vecchio Pci.

Qualche giorno dopo, il 4 gennaio, in una intervista al Corriere della sera il presidente della Cei Angelo Bagnasco, sempre molto attento sui giudizi politici ha chiesto la revisione della legge sull’aborto contrapponendosi di fatto alla posizione ufficiale del Pd.

Negli anni 70, Alberto Ronchey coniò la fortunata espressione «Fattore K», per dire che difficilmente ci si poteva fidare di un partito komunista che tardava a recidere i suoi legami con Mosca. C’è da chiedersi se oggi, per il Vaticano, non esista un analogo «Fattore Pd». Una sorta di sfiducia pregiudiziale nei confronti di un partito aperto al dialogo con il mondo cattolico ma che ritiene suo valore irrinunciabile la tenuta sulla laicità della politica, delle istituzioni e dello Stato.

Difficile ipotizzare dove voglia arrivare con questa strategia della diffidenza la gerarchia ecclesiastica. Secondo alcuni l’obiettivo è la costruzione del grande partito moderato dei cattolici, la cosiddetta «Cosa Bianca». E dunque la disarticolazione del Pd, partito a vocazione maggioritaria che da sinistra punta a occupare anche il centro. Ma la tesi prevalente che più si addice al carattere evangelico ed universale della Chiesa è quella della conversione. Convertire il Pd, costringerlo a ripiegare sui temi etici. Convincere il suo gruppo dirigente a ridiscutere le leggi già esistenti (quella sull’aborto) e ad accantonare quelle in cantiere. Come del resto sta accadendo con le unioni di fatto, il testamento biologico e la ricerca scientifica sulla staminali. Il pericolo ha scritto Riccardo Barenghi sulla Stampa è che a furia di cedimenti, retromarce e dialoghi si accetti la subalternità dei valori altrui. E in cambio di cosa?, chiediamo noi. Di un’opzione su quel voto cattolico che è una sorta di chimera elettorale: che ci sia ognun lo dice, dove sia nessun lo sa. Siamo così sicuri, per esempio, che le donne favorevoli all’attuale legge sull’aborto siano tutte a sinistra? Che agli occhi dei giovani che votano An o Forza Italia, i pacs siano il demonio? Che la questione omosessuale nelle sue implicazioni legali e affettive non sia trasversale alla destra e alla sinistra?

Resta da chiedersi (ma è la domanda più importante) come debba rispondere il Pd, sottoposto alle pressioni (e alle sgridate) di un potere che non è soltanto spirituale. Per Angelo Panebianco (Corriere della sera del 10 gennaio) una possibile via d’uscita «è un vero partito americano: nel quale abortisti e antiabortisti, mangiapreti e clericali, socialisti e liberali, cattolici conciliati con i cosiddetti tempi e cattolici contro possano combattersi, anche aspramente, senza che ciò minacci la sopravvivenza del partito». Soluzione suggestiva, anche se non risulta che i democratici americani abbiano dovuto mai affrontare problemi connessi alle reciproche sfere d’influenza stato-chiesa. Là non può accadere che qualche cardinale si metta a bacchettare Hillary Clinton o Barack Obama, e il massimo d’interferenza è di qualche telepredicatore.

Sbagliato però pensare che rispetto al passato la politica si mostri oggi più debole davanti alla Chiesa. È un problema che viene da molto lontano. Marco Revelli ha raccontato su «MicroMega» che tutto iniziò nel 1947, quando il Pci guidato da Togliatti (e oggi elogiato da Bertone) votò compatto per iper-realismo l’articolo 7 della Costituzione. Un testo implicitamente «confessionale», incardinato sui Patti lateranensi celebrati da Mussolini, fortemente voluto dalla Dc. Voto che molti anni dopo farà dire a Vittorio Foa: «Quello fu un giorno cupo, era la svolta del Pci che ci umiliava». Scoprire cioè, commenta Revelli, che di fronte a un tema decisivo come la concezione laica dello Stato la sinistra era divisa, che la principale forza politica su quel tema non era disposta ad impegnare il proprio peso; che i laici erano in Italia, politicamente, una fragile minoranza. Un destino che accomunò anche i democristiani meno genuflessi. Alcide De Gasperi che nel 1952 per non aver voluto avallare il fronte anticomunista di Luigi Gedda e padre Lombardi si vide rifiutare da Pio XII l’udienza privata. Senza contare il complotto ordito contro Fanfani dal partito dei monsignori e degli industriali per impedire la nascita del primo centrosinistra.

Come sempre, in questi casi, l’unica arma vera resta la difesa puntigliosa della propria identità e dei propri princìpi. Pensiamo che dopo la brutta udienza dell’altro ieri Veltroni si sia fatto sentire. Da questo punto di vista l’immediata correzione di rotta vaticana è una buon risultato.

apadellaro@unita.it


Pubblicato il: 12.01.08
Modificato il: 12.01.08 alle ore 8.25   
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Titolo: Antonio PADELLARO - A prescindere
Inserito da: Admin - Gennaio 17, 2008, 11:10:28 pm
A prescindere

Antonio Padellaro


In un paese normale se la moglie del ministro della Giustizia viene messa agli arresti domiciliari sulla base dell’accusa (tutta da provare) di concussione, il ministro della Giustizia presenta le dimissioni in Parlamento. Clemente Mastella lo ha fatto con sensibilità istituzionale e gliene va dato atto.

Qui però finisce la normalità italiana. Perché non è normale affatto che l’intervento, comprensibilmente accorato, del dimissionario venga accompagnato nell’aula di Montecitorio da applausi così appassionati e scroscianti come forse neppure Giovanni Paolo II ne ebbe il giorno della sua storica visita.

Non è normale che la seduta della Camera prosegua con una serie di attacchi frontali alla magistratura «politicizzata», in una sorta di assurda dichiarazione di guerra (o di correità) del potere legislativo contro quello giudiziario. Attacchi che non possono certo accrescere la già scossa fiducia dei cittadini nei confronti della «casta» politica. E non è normale soprattutto la lunga litania di solidarietà (non solo umana) che da quel momento in poi si alza dai banchi del governo e della maggioranza a favore del ministro.

Unita alla richiesta pressante di recedere dall’insano proposito e di tornare a via Arenula. Comprendiamo tutti l’importanza che hanno per l’esecutivo i voti dell’Udeur, ma prima di solidarizzare «a prescindere» non sarebbe stato meglio informarsi bene sui reali contenuti dell’inchiesta? E vagliare attentamente le accuse con le quali, si apprenderà più tardi, la procura di Santa Maria Capua Vetere coinvolge lo stesso Mastella ipotizzando l’esistenza di una sorta di associazione per delinquere che avrebbe agito ai danni perfino del presidente della Regione Bassolino? Ci auguriamo sinceramente che Mastella e i suoi familiari dimostrino la loro estraneità ai fatti contestati. Ma la presunzione di innocenza deve valere per tutti. Per chi subisce le indagini e per chi le fa.

Pubblicato il: 17.01.08
Modificato il: 17.01.08 alle ore 8.22   
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Titolo: Antonio PADELLARO - La legge sono loro
Inserito da: Admin - Gennaio 19, 2008, 11:11:24 pm
La legge sono loro

Antonio Padellaro


Condannato da un tribunale della Repubblica a cinque anni per favoreggiamento, il presidente della Regione Sicilia Totò Cuffaro comunica esultante: non mi dimetto. Uomo di parola, Totò lo aveva detto prima che senza l’aggravante di aver favorito Cosa Nostra sarebbe rimasto al suo posto. L’asticella l’ha fissata lui, e adesso non sente ragioni. Almeno un amico degli amici si è giovato di una sua soffiata su certe microspie messe dagli investigatori. Con il risultato di vanificare intercettazione e indagini. Negli Stati Uniti per molto meno ti sbattono in galera e buttano la chiave. Qui da noi ti dedicano una fiaccolata.

A quanto si è capito, secondo i giudici, favorire un mafioso non significa favorire la mafia. Siamo o no la patria del diritto? La condanna resta comunque grave, una macchia pesante per un uomo politico che dovrebbe difendere la propria immagine di onestà sopra ogni altra cosa. Non certo per “vasa vasa”, abituato a baciare sulle guance tanta di quella gente, ovviamente senza mai chiedergli la fedina penale. Lo abbiamo visto, raggiante, raccogliere il meritato successo a palazzo di giustizia. Dicono che nelle chiese palermitane i suoi fedeli abbiano pregato per l’assoluzione, e se anche il miracolo non c’è stato a Totò va benone lo stesso. Alleluja. Tra sconti di pena e indulto di quei cinque anni ne resterà ben poco. E quanto all’interdizione dei pubblici uffici, scatta a sentenza definitiva. Totò sorride e vasa e vasa. Immacolato è.

È un arroganza che lascia senza parole, ma scandalizzarsi serve poco. I tanti Cuffaro disseminati nel nostro bel paese della legge se ne fottono allegramente perché “loro” si considerano la legge. E quanto alle sentenze, dipende dal punto di vista. Infatti, Cuffaro festeggia la condanna che considera un’assoluzione e subito si crea una festosa processione di solidarietà guidata da Pierferdinando Casini. Il quale dimentico di aver ricoperto il ruolo di terza carica dello Stato, con una certa dignità, si congratula e approva con questo stravagante sillogismo: Totò non è colluso e quindi è giusto che resti presidente. Con questa logica potevano anche dargli dieci anni o venti e il leader Udc avrebbe ugualmente stappato lo spumante. Bravo Totò sei tutti loro, ma occhio alla prossima soffiata...

In questo venerdì di ordinaria giustizia spicca pure il rinvio a giudizio di Berlusconi chiesto dalla Procura di Napoli per corruzione. La storia è quella della famosa telefonata al prono Saccà con le aspiranti attrici tv “segnalate” in cambio di favori. Qui la tecnica è collaudatissima. Se Totò minimizza, Silvio s’indigna. E giù insulti contro il partito delle procure che i bravi berluscones rincarano in pieno delirio mistico accusando i magistrati di barbarie e altre nefandezze. Poi i due si congratulano vicendevolmente solidarizzando con Mastella. Il quale da Ceppaloni nel pieno rispetto dell’autonomia della magistratura definisce una «macchietta» il procuratore di Santa Maria Capua Vetere che lo ha inquisito con moglie e parenti.

Vendetta tremenda vendetta: il leader dell’Udeur pretende da tutta la maggioranza un voto di solidarietà, altrimenti addio governo. Probabilmente lo avrà. Alla fine l’unico, vero colpevole della giornata sarà il pm di Catanzaro De Magistris. Duramente sanzionato dal Csm viene trasferito da Catanzaro e non sarà più pm. Così impara a indagare sui politici.

P.S. L’altra sera in tv il sondaggista Renato Mannheimer calcolava in 7 su 100 gli italiani che nutrono ancora fiducia nella politica. Coraggio, lo zero è vicino.

apadellaro@unita.it

Pubblicato il: 19.01.08
Modificato il: 19.01.08 alle ore 11.38   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Ripicche e disastri
Inserito da: Admin - Gennaio 22, 2008, 04:31:54 pm
Ripicche e disastri

Antonio Padellaro


L’ex ministro della Giustizia Mastella indagato con moglie e consuocero da una procura campana si vendica dell’affronto uscendo dalla maggioranza. Lo fa nel giorno del drammatico tonfo delle borse mondiali, che l’economia italiana e dunque gli italiani rischiano di pagare a carissimo prezzo.

Nell’assurda e irresponsabile sproporzione tra motivi personali e conseguenze nazionali, tra ripicche e disastri c’è tutta la gravità della crisi italiana. Non solo quella di un singolo esecutivo, tutto sommato rimediabile, ma di un intero sistema politico e parlamentare a cui viene di fatto impedito di governare il paese da una serie di ricatti individuali.

A questo punto se come sembra Romano Prodi chiederà alle Camere di esprimersi subito con un voto di fiducia o di sfiducia, renderà al paese un grande servizio, anche se forse l’ultimo del suo governo. Noi, come lui, vogliamo guardare bene in faccia quei deputati e quei senatori che hanno deciso di tradire il patto sottoscritto con l’Unione mandando a casa il governo votato da 19 milioni di elettori. E vogliamo ascoltarli attentamente quando enunceranno le ragioni del loro improvviso passaggio all’opposizione, così profondo e motivato da valere una letterina di poche righe recapitata a Palazzo Chigi.

Ciò dopo che per un anno e mezzo il premier si è prodigato oltre ogni limite per tenere insieme pezzi e pezzettini della coalizione. Ciò mentre quello stesso governo, liquidato magari dopo una riunione nel tinello di famiglia cominciava a redistribuire reddito alle fasce più deboli, risanava i conti pubblici con risultati apprezzati dall’Europa e la cui mediazione era fondamentale per la soluzione di una grande questione sociale e salariale come il contratto dei metalmeccanici. Quale riforma elettorale potrà mai salvarci se poi i politici restano questi e con questo senso dello Stato?

Pubblicato il: 22.01.08
Modificato il: 22.01.08 alle ore 13.13   
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Titolo: Antonio PADELLARO - La prova della verità
Inserito da: Admin - Gennaio 23, 2008, 05:51:01 pm
La prova della verità

Antonio Padellaro


Può darsi che al Senato Prodi non ce la farà, come pronosticano molti scettici anche nell’Unione. E anche se la spuntasse per uno o due voti, osservano, che futuro potrebbe mai avere un governo con una maggioranza così striminzita? La destra si scaglia poi contro il ricorso ai senatori a vita come se il loro giudizio valesse di meno, ma a leggere la Costituzione così non è.

Eppure bisognerebbe dare atto al premier di avere scelto, andando in Parlamento, la via più lineare, trasparente e rispettosa dei cittadini elettori. I quali, a sinistra come a destra, si meritano tutta la verità su questa crisi nata chissà perché e che rischia di portare l’Italia chissà dove. Mastella potrà finalmente spiegare cosa lo ha spinto, una mattina, a buttare tutto per aria passando dalla maggioranza all’opposizione.

Capiremo meglio quanto in questa storia c’entri Berlusconi e quanto il cardinal Bagnasco che già fa campagna elettorale per conto di Dio. O forse il leader di Ceppaloni mollando Prodi ha semplicemente sbagliato tutto, condannando se stesso e l’Udeur alla marginalità politica come gli va dicendo il suo maestro Giulio Andreotti.

Anche la destra sarà costretta a dire ciò che è e ciò che vuole. Fini preannuncia il suo ritorno nell’ovile berlusconiano e dopo le roboanti accuse al cavaliere di qualche settimana fa, ci sarà da ridere.

E ascolteremo Casini per capire se davvero l’Udc, anche sotto la minaccia elettorale, tornerà o non tornerà ad essere una succursale di Forza Italia.

Vedremo il Partito democratico affrontare la prova più dura da quando è nato. E se malgrado tutti gli sforzi il governo non dovesse farcela, Prodi e Veltroni dovranno continuare a fare gioco di squadra mettendo da parte attriti e incomprensioni. Scegliendo ciò che è meglio ma cercando di evitare le elezioni anticipate. L’unica soluzione che il centrosinistra non può davvero augurarsi.

Pubblicato il: 23.01.08
Modificato il: 23.01.08 alle ore 8.19   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Caos calmo
Inserito da: Admin - Febbraio 02, 2008, 09:05:18 pm
Caos calmo

Antonio Padellaro


L’altro giorno abbiamo letto sulla Stampa che il direttore del Corriere della sera, Paolo Mieli aveva fatto «capolino» a palazzo Grazioli.
Circostanza che veniva interpretata come segnale esplicito di elezioni anticipate ad aprile. Sulla inevitabilità del voto non aveva dubbi quasi più nessuno. E, a quanto sembra, comincia a non averne anche il presidente del Senato Franco Marini incaricato da Napolitano di coltivare la più esile speranza. Molto più sorprendente, invece, la prima parte della notizia, soprattutto perché a palazzo Grazioli abita Silvio Berlusconi. I maligni si saranno subito interrogati sulle ragioni della visita del direttore del più importante giornale italiano al probabile vincitore (secondo i sondaggi) delle ormai imminenti elezioni. E si saranno subito risposti malignando, appunto, su un possibile nuovo endorsement (in inglese la pubblica dichiarazione di appoggio) da parte dello stesso Mieli. Che due anni fa, alla vigilia del voto, aveva schierato il Corrierone a favore di Romano Prodi, dato per sicuro vincitore. Noi che maligni non siamo abbiamo pensato ad altre ipotesi. Primo: il collega della Stampa pur se informatissimo su ciò che si muove intorno al cavaliere questa volta si è sbagliato poiché quello non era Mieli bensì il fratello di Bondi. Secondo: era Mieli ma si trovava a palazzo Grazioli per fare visita non a Berlusconi bensì a dei conoscenti che casualmente abitano al piano di sopra. Terzo. Mieli si è recato effettivamente a trovare Berlusconi ma per fargli tutt’altro discorso rispetto a quello che i soliti maligni immaginano.

È andato cioé a spiegargli che con questo suo ossessivo gridare al voto al voto senza prendere in considerazione le offerte di dialogo su legge elettorale e riforme avanzate dal centrosinistra, e incoraggiate dal Quirinale egli Berlusconi sta danneggiando non solo il Paese ma se stesso. Lei invoca lo scontro elettorale, è possibile che gli abbia detto Mieli, mentre tutte le più importanti categorie economiche e produttive pretendono stabilità. Lo chiedono dalla Confindustria alla Confocommercio che tradizionale bacino elettorale del centrodestra ha accolto con un’ovazione il leader del Pd Walter Veltroni. Che il fronte anti-urne comprenda oggi un mondo di industriali, commercianti e professionisti che nel 2006 votò a grande maggioranza per la Cdl dovrebbe far riflettere chi continua a presentarsi come il nuovo ma comincia ad essere accomunato alla politica più vecchia e megalomane. Se poi Berlusconi avesse letto l’ultimo numero dell’Economist ne ricaverebbe un giudizio ancora più severo sul suo essere del tutto inadatto a guidare l’Italia, concentrato com’è sul proprio ombelico.

Non stupisce perciò che preso dalla fregola del voto il personaggio non si renda conto che, come ha spiegato D’Alema, un Parlamento eletto con un sistema (il tragico Porcellum) che dopo pochi mesi potrebbe essere cancellato dai cittadini rischierebbe, in breve tempo una totale delegittimazione.

Temiamo tuttavia che se anche Mieli avesse fatto «capolino» a palazzo Grazioli con questi argomenti non avrebbe avuto granché ascolto perché a Berlusconi dell’interesse del Paese «non importa un fico secco» (lo ha scritto ieri Giovanni Sartori proprio sul «Corriere»). Pur di prendere un voto in più metterà insieme una compagnia che andrà da Salò a Ceppaloni, affiancato dagli «ectoplasmi» Fini e Casini subito accorsi a un fischio del capo. Ma prenderà un voto in più Berlusconi?

Tutte i cattivi propositi a carico del leader di Forza Italia possono infatti essere usati come buone ragioni a favore del Pd. Perché la gente dovrebbe dare fiducia a un imbonitore che da un quindicennio si presenta sempre con lo stesso spettacolo, e non invece all’unica vera novità della politica italiana? Perché il senso di responsabilità non dovrebbe essere apprezzato e invece sì l’assalto alla diligenza? Perché non pensare che il buongoverno del governo Prodi stia cominciando a sedimentare tra gli italiani l’apprezzamento che merita ora che la grancassa dell’opposizione fa meno chiasso?

Non sarebbe la prima volta che chi baldanzosamente invoca le elezioni ne finisce sepolto. Accadde alla Dc negli anni 50. Accadde, duole ricordarlo, alla gioiosa macchina da guerra progressista travolta nel ‘94 dall’uomo di Arcore appena sceso in politica. Chi vuole l’Italia confusa e agitata del caos permanente descritta ieri dal Capo dello Stato non può averla sempre vinta. apadellaro@unita.it


Pubblicato il: 02.02.08
Modificato il: 02.02.08 alle ore 8.37   
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Titolo: Antonio PADELLARO - L’arroganza del no
Inserito da: Admin - Febbraio 05, 2008, 06:43:42 pm
L’arroganza del no

Antonio Padellaro


Ha detto no al capo dello Stato. No al presidente del Senato. No al leader del Pd. No a un governo istituzionale. No a qualsiasi forma di dialogo. No a una modifica della legge elettorale (la porcata del leghista Calderoli) richiesta dalla maggioranza delle forze politiche. L’ha avuta vinta lui e non perché si andrà al voto, espressione comunque della volontà dei cittadini.

Intollerabile è la tracotanza dei modi, la mancanza di rispetto per qualsiasi istituzione, la sordità delle altrui ragioni da parte di un personaggio mosso esclusivamente da bramosia di rivincita, reso ebbro dai sondaggi che sventola come se bastassero ad assicurargli di nuovo Palazzo Chigi.

Parliamo di Silvio Berlusconi perché gli altri contano zero, ed è l’unica cosa sulla quale gli diamo ragione. La velocità di Fini e Casini nell’accodarsi al capo dopo averne detto peste e corna è una pagina deprimente ma non inattesa visto che il padrone delle loro carriere resta lui.

Mentre il signor no s’impuntava sul voto anticipato, che ci costerà la bellezza di trecento milioni di euro con il rischio di avere un nuovo parlamento ingovernabile, sulla stampa di famiglia («Giornale» e «Foglio») alcuni addetti facevano circolare false notizie su possibili accordi Berlusconi-Veltroni.
Ipotesi ridicole e utili soltanto a sviare l’attenzione dalle vere intenzioni del proprietario. Le solite: offrire al Pd un finto dialogo per il «dopo» e prepararsi per il subito a bastonare gli avversari accusandoli di qualunque nefandezza. Una trappola scontata che Veltroni ha liquidato affermando che il Pd è alternativo alla destra su valori e programmi. E a maggior ragione se l’altro si rifiuta perfino di scrivere insieme le regole. Per il centrosinistra sarà una campagna elettorale durissima. Ma cavalcando la politica più vecchia e arrogante forse Berlusconi prepara la sua sconfitta.



Pubblicato il: 05.02.08
Modificato il: 05.02.08 alle ore 12.34   
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Titolo: L’arroganza del no
Inserito da: Admin - Febbraio 06, 2008, 03:14:44 pm
L’arroganza del no

Antonio Padellaro


Ha detto no al capo dello Stato. No al presidente del Senato. No al leader del Pd. No a un governo istituzionale. No a qualsiasi forma di dialogo. No a una modifica della legge elettorale (la porcata del leghista Calderoli) richiesta dalla maggioranza delle forze politiche. L’ha avuta vinta lui e non perché si andrà al voto, espressione comunque della volontà dei cittadini.

Intollerabile è la tracotanza dei modi, la mancanza di rispetto per qualsiasi istituzione, la sordità delle altrui ragioni da parte di un personaggio mosso esclusivamente da bramosia di rivincita, reso ebbro dai sondaggi che sventola come se bastassero ad assicurargli di nuovo Palazzo Chigi.

Parliamo di Silvio Berlusconi perché gli altri contano zero, ed è l’unica cosa sulla quale gli diamo ragione. La velocità di Fini e Casini nell’accodarsi al capo dopo averne detto peste e corna è una pagina deprimente ma non inattesa visto che il padrone delle loro carriere resta lui.

Mentre il signor no s’impuntava sul voto anticipato, che ci costerà la bellezza di trecento milioni di euro con il rischio di avere un nuovo parlamento ingovernabile, sulla stampa di famiglia («Giornale» e «Foglio») alcuni addetti facevano circolare false notizie su possibili accordi Berlusconi-Veltroni.
Ipotesi ridicole e utili soltanto a sviare l’attenzione dalle vere intenzioni del proprietario. Le solite: offrire al Pd un finto dialogo per il «dopo» e prepararsi per il subito a bastonare gli avversari accusandoli di qualunque nefandezza. Una trappola scontata che Veltroni ha liquidato affermando che il Pd è alternativo alla destra su valori e programmi. E a maggior ragione se l’altro si rifiuta perfino di scrivere insieme le regole. Per il centrosinistra sarà una campagna elettorale durissima. Ma cavalcando la politica più vecchia e arrogante forse Berlusconi prepara la sua sconfitta.



Pubblicato il: 05.02.08
Modificato il: 05.02.08 alle ore 12.34   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Il fegato del Cavaliere
Inserito da: Admin - Febbraio 08, 2008, 11:12:53 pm
Il fegato del Cavaliere

Antonio Padellaro


Correre da solo: Berlusconi accetterà mai la sfida che gli sta lanciando Veltroni? Se desse retta a quello che diceva dovrebbe farlo. Ricordate quel premier che nei cinque anni a Palazzo Chigi non faceva altro che lamentarsi dei suoi alleati? Troppo avidi di potere e sempre pronti a piantare grane, diceva, non mi hanno fatto governare come avrei voluto. E chi era quel leader che una sera, in una piazza milanese, disse dall’alto di un predellino che avrebbe fondato un altro partito più grande e più splendente che pria per liberarsi da quei miracolati e ingrati di Fini, Casini e Bossi?

Ed è sempre lui quell’uomo che ci descrivono nuovamente assediato dalle pretese dei tre vassalli (ritornati a corte) e della quindicina di valvassini sparsi da Salò a Ceppaloni? Basterebbe quella foto al Quirinale, di lui quindici anni dopo e qualche chilo di cerone in più attorniato dalle solite cariatidi a farlo riflettere sul messaggio polveroso del già visto e già sentito che sta trasmettendo agli italiani. Per decidere di correre da solo Berlusconi dovrebbe essere lo stesso che ebbe la baldanza di creare Forza Italia. Per compiere una scelta così rischiosa dovrebbe averne, oltre che il fegato, la statura politica. Dovrebbe farsi carico dell’interesse nazionale, cosa che sarebbe davvero sorprendente in chi beatamente continua a galleggiare nel conflitto tra gli interessi privati e quelli pubblici.

Ma per accettare la sfida di Veltroni bisognerebbe essere anche diversi da colui che ha respinto ogni richiesta di avviare un dialogo su qualunque cosa, pur di seguire l’istinto della vendetta elettorale. Per correre da solo Berlusconi dovrebbe insomma smentire se stesso. Ma questo sarebbe davvero chiedergli troppo.

Pubblicato il: 07.02.08
Modificato il: 07.02.08 alle ore 8.05   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Effetto Pd
Inserito da: Admin - Febbraio 09, 2008, 05:48:10 pm
Effetto Pd

Antonio Padellaro


Oggi si commemora Pier Ferdinando Casini, che poteva sbancare Berlusconi e finì sbancato. Questa è la vera notizia, non l’annessione di Alleanza Nazionale nel Pdl, partito finto nuovo di cui l’annesso e giulivo Gianfranco Fini soltanto ieri diceva peste e corna. Soltanto una settimana fa Casini aveva in mano un poker d’assi: la riforma elettorale che Franco Marini gli offriva in cambio dell’appoggio al suo governo. Un sì e Casini avrebbe avuto quel sistema proporzionale che lo avrebbe emancipato forse per sempre dalla schiavitù del cavaliere. E invece l’astuto leader ha gettato il poker nel cestino. Giurando fedeltà a colui che adesso gli chiede di sparire con tutta l’Udc, in cambio di un posto in ditta. Casini sdegnosamente rifiuta. Ma adesso pover’uomo? Rallegriamoci comunque perché la destra si spacca sotto l’effetto Pd. Veltroni evoca Davide e Golia. Quella volta vinse il più piccolo perché giocava d’anticipo e aveva una buona mira. L’anticipo c’è stato ma ora comincia il difficile.

Per esempio: soli si vince o soli si perde? Al dilemma che più ci mette in ansia si potrebbe semplicemente rispondere: aspettiamo il 14 aprile e vedremo. Del resto, la decisione di correre con l’unico simbolo del Pd Walter Veltroni l’ha già presa senza ripensamento alcuno, e gli altri leader si sono adeguati non si sa quanto volentieri. L’incontro di ieri tra Pd e Sinistra Arcobaleno ha detto poi che la divergenza consensuale tra i due blocchi del centrosinistra è cosa fatta.

Anche vero però che l’ultima parola spetta ai cittadini e che sapere di che umore sono non è indifferente ai fini del risultato finale. Tra due mesi andranno alle urne speranzosi? O resteranno a casa bloccati dai più infausti presagi? Su questo giornale ottimisti e pessimisti si stanno confrontando con i loro argomenti, alcuni dei quali pur se di segno opposto ugualmente convincenti. Insomma, non tutto è chiaro da noi.

Chi pronostica la quasi sicura sconfitta si appoggia soprattutto alla forza intrinseca dei numeri. Come potrebbe mai il Pd accreditato si e no di un 30-35% dei voti battere il centrodestra segnalato da tutti i sondaggi al di sopra del 50%? Una considerazione per così dire tombale, ma non basta. Richiamandosi a Max Weber e all’etica della responsabilità, Gianfranco Pasquino ha osservato su queste colonne che l’insuccesso da «solitudine» del Pd porterebbe come conseguenza più grave «che numerosi ceti sociali già svantaggiati non otterranno adeguata rappresentanza in parlamento e non godranno più di sufficiente protezione». Sappiamo tutti che altri cinque anni di governo Berlusconi sarebbe una punizione troppo grande e immeritata. Né ci consolerebbe la serena convinzione di avere comunque contribuito alla semplificazione del sistema partitico ponendo nel contempo le basi per la rivincita quando sarà. Giusto sperare in un futuro migliore per i nostri figli ma alcuni di noi cominciano ad avere i capelli bianchi a furia di chiedersi cosa abbiamo fatto di male per meritarci un’altra abbondante porzione di Calderoli e Storace.

Davvero basterebbe includere nel Pd l’Italia dei Valori, radicali e socialisti per sperare di superare la feroce macchina da guerra della destra? È vero che nel 2001 alla coalizione che candidava Rutelli contro Berlusconi mancarono i voti (rifiutati) di Bertinotti e Di Pietro. Con essi il centrosinistra avrebbe avuto la maggioranza al Senato e dunque il pareggio. Ma non c’era il “porcellum” e il devastante premio di maggioranza.

Certo che con diciotto contro uno il Pd rischia di brutto ma che alternativa c’era? Rifare l’Unione sarebbe stato comunque impossibile perché a parte la fuga dei «pugnalatori» Dini e Mastella, con Rifondazione e gli altri pezzi della sinistra radicale non si poteva ricominciare con il tira e molla sulla politica estera o sulle scelte economiche. Per quei continui litigi molti elettori ci avevano già abbandonati e se avessimo ripreso quella vecchia strada in molti altri non ci avrebbero seguito, ha osservato su queste pagine Stefano Ceccanti. Avremmo perso comunque e allora perché non provare con un nuovo marchio e una nuova offerta? Primo, recuperare a sinistra gli incerti e i delusi. Secondo, scommettere su un’area di elettori di centro e provare a convincerli con un programma innovatore a cui sta lavorando il riformista Morando.

Belle parole e ottimi propositi a cui Veltroni dovrà dare credibilità e concretezza nel corso della sua lunga campagna d’Italia. Una predicazione che toccherà tutte e centodieci le province italiane con lo scopo di convincere quasi una per una le persone che vorranno ascoltarlo. Una strategia faticosissima ma che potrebbe dare risultati insperati. I sondaggi cominciano a cambiare in meglio. E anche gli strappi di Berlusconi non guastano. Comunque, non ci annoieremo.

apadellaro@unita.it

Pubblicato il: 09.02.08
Modificato il: 09.02.08 alle ore 9.37   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Una brutta storia
Inserito da: Admin - Febbraio 13, 2008, 11:12:41 pm
Una brutta storia

Antonio Padellaro


Siamo d’accordo con l’Osservatore Romano che invita ad evitare «strumentalizzazioni ad uso elettorale» sui temi etici, a cominciare dall’aborto. Siamo d’accordo perché il circo barnum che si sta organizzando contro la legge 194 specula sul dolore delle persone e supera i limiti dell’umana decenza solo per ottenere qualche voto in più. Una campagna cinica e strombazzante che ha già creato il clima adatto nel quale in una struttura pubblica una donna reduce da un intervento che è quanto c’è di più traumatico, fisicamente e psicologicamente viene sottoposta ad interrogatorio dalla polizia come una delinquente. Con relativa e agghiacciante esibizione del corpo del reato. Sì, delinquente perché è questo che si cerca di far passare nella campagna strombazzante dei nuovi savonarola, predicatori sulla pelle degli altri le cui fanatiche esibizioni cominciano a imbarazzare perfino il Vaticano. Si saprà poi che all’ospedale di Napoli tutto è avvenuto secondo la legge e che dietro l’irruzione delle forze dell’ordine c’è una denuncia anonima giunta alla procura. Mettiamoci nei panni di quei magistrati e di quei poliziotti martellati come tutti gli italiani dalla farneticante equiparazione aborto uguale omicidio e che, forse, già sentono l’aria (politica) che tira. Ecco infatti in tutti i tg Giuliano Ferrara che annuncia la sua lista per la vita, con la benedizione di Silvio Berlusconi. La brutta vicenda di Napoli finirà nel nulla ma il segnale è giunto forte e chiaro a tutte le donne. Che da ieri avranno capito una volta di più che la legge dello Stato conterà sempre di meno se non si porrà un deciso argine ai legionari dei diritti negati, a quelli che fanno campagna elettorale esibendo feti da rianimare. Una brutta Italia si avanza, pronta a calpestare la sofferenza degli altri per puro tornaconto politico. A Napoli ne abbiamo avuto un esempio.

Pubblicato il: 13.02.08
Modificato il: 13.02.08 alle ore 9.04   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Contro la Casta
Inserito da: Admin - Febbraio 16, 2008, 11:19:12 pm
Contro la Casta

Antonio Padellaro


Nella lunga tradizione partitica italiana è sempre toccato ai maggiori leader l'onore e l'onere del primo posto nelle liste elettorali delle grandi città. È sempre stato così per trainare voti e ribadire una precisa gerarchia di potere. Che Veltroni abbia deciso di candidarsi a Roma, a Milano e in una grande metropoli del Sud al secondo posto dietro tre giovani, sicuramente di qualità ma sconosciuti agli apparati, rappresenta un colpo d'immagine e un segnale forte.

Il rinnovamento delle candidature è una risposta alla rivolta silenziosa di massa contro la «casta» politica degli inamovibili, sempre gli stessi, avvinti come l'edera alle loro poltrone e ai loro privilegi. Catapultare dei trentenni fino alla tavola rotonda del Pd, non farà certo piacere ai vecchi cavalieri dei Ds e della Margherita. Che tuttavia lasceranno fare al candidato premier lanciato com'è in una rimonta elettorale che ogni giorno appare meno impossibile.

Il vento infatti ha smesso di soffiare nelle vele di Berlusconi appena ha messo mano, proprio per inseguire la novità del Pd, al suo partito unico. Quel Pdl che sembra però una versione ancora più confusa della Cdl visto che Casini non ne vuole sapere di farsi annettere. Se l'Udc manterrà il punto Berlusconi dovrà rinunciare a una consistente fetta di voti e ridimensionare i proclami di sicura vittoria.

Ma se il tormentato Pier dovesse al fine cedere al richiamo della foresta lo farà imponendo un prezzo salato al cavaliere. Che dunque si troverà di nuovo su quella graticola dei cedimenti e dei compromessi che sperava aver sotterrato per sempre. In questo clima di ottimismo Veltroni aprirà oggi la campagna elettorale del Pd annunciando sicuramente altre novità. Sarà difficile che tra i 2800 delegati qualcuno possa mettersi di traverso pur sapendo che ormai nulla o quasi nulla sarà più come prima.


Pubblicato il: 16.02.08
Modificato il: 16.02.08 alle ore 8.45   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Sì, si può
Inserito da: Admin - Febbraio 17, 2008, 09:20:01 pm
Sì, si può

Antonio Padellaro


Scenografia: la campagna toscana e sguardi celesti di giovani donne.

Protagonisti: il paziente Prodi, l’audace Finocchiaro (alla conquista della fatal Sicilia), l’abile D’Alema.

Soggetto: come trasformare una sicura sconfitta in una possibile vittoria. Se «Yes, we can» (Si può fare) di Walter Veltroni fosse un film avrebbe già incassato il favore della critica.

Per il pubblico occorre aspettare il 13 aprile ma l’inizio è incoraggiante.

La metafora filmica si addice al politico più cinefilo per l’intensità dell’immagine e la cura dei dettagli. Tutto il resto è vita, dura realtà quotidiana. Un paese da rimettere in moto. Una politica a cui restituire credibilità. Un programma di fatti, impegni, scadenze. Veltroni sa come non farsi incastrare nel copione delle solite promesse. Espone tutto il meglio che gli italiani si aspettano. Lo esprime con un linguaggio a forte contenuto simbolico.

Per esempio. Candidare il giovane imprenditore e l’operaio sopravvissuto della Thyssen come segno del ritrovato patto tra impresa e lavoro.

Deplorare l’egualitarismo sessantottino per rimarcare la rivincita del merito e del sacrificio.

Promuovere l’innovazione di massa attraverso lo sviluppo tecnologico della comunicazione.

Nei dodici punti, naturalmente, c’è molto di più. Un progetto economico che ha come stella polare la crescita, perché senza lo sviluppo non c’è giustizia sociale. Meno tasse, meno burocrazia, meno conservatorismo, meno ambientalismo del no. Più legalità, più trasparenza della politica, più sicurezza per tutti. E poi l’amor di patria e l’omaggio ai soldati-eroi delle missioni umanitarie. E il «ma anche» veltroniano pronto a dimostrare che “si può fare”.

E poi, il sollievo dell’andare da soli senza i condizionamenti della sinistra radicale. Che fa il paio con il punto tredici: Berlusconi non si nomina ma il disastro della destra sì.

Pubblicato il: 17.02.08
Modificato il: 17.02.08 alle ore 15.09   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Rifiuti e benzina il voto si avvicina
Inserito da: Admin - Febbraio 23, 2008, 11:28:03 pm
Rifiuti e benzina il voto si avvicina

Antonio Padellaro


Primo. L’altra sera guardando in tv «AnnoZero» tre milioni di italiani hanno appreso che tre mesi dopo l’esplosione della catastrofe rifiuti le strade dell’hinterland napoletano sono ancora disseminate di spazzatura.

Secondo. Molti di più sono i cittadini che nelle ultime settimane hanno deciso di non usare l’auto a causa del prezzo fuori controllo del carburante. Mentre è incalcolabile il numero delle persone costrette a tirare la cinghia a causa dei pesanti riflessi del caro petrolio sui generi di prima necessità come carne, latte e verdure.

Terzo. Aumentare i salari e meno tasse alle famiglie, altro che pensare a rivedere la legge sull’aborto. È quanto chiede il 75 per cento degli elettori cattolici interpellati da un sondaggio del gruppo editoriale San Paolo (opinione, riteniamo, condivisa anche dai non credenti).

Siamo convinti che Veltroni abbia ben presenti le priorità della campagna elettorale che lo vedono impegnato con tutto il Pd nel non impossibile recupero sull’armata di Berlusconi. Indubbiamente, i primi colpi messi a segno dal leader democratico stanno facendo guadagnare punti sull’avversario.

Dalla decisione di correre da solo (o quasi). Al profilo programmatico, riformista in economia e laico sui diritti. Al rinnovamento delle candidature, arricchite da nomi di prestigio. Una buona partenza che tuttavia potrebbe non bastare nel momento in cui, smessa la tattica attendista, Berlusconi comincia a scoprire le carte. A parte le solite promesse da paese di bengodi c’è lo slogan enunciato ieri sera a «Matrix»: «Rimedieremo ai danni fatti dal governo Prodi». Anzi, annuncia, i disastri sono tali che non ci sarà bisogno di campagna elettorale.

Fanfaronate certo ma dietro le quali ci sono i drammatici squarci di realtà di cui all’inizio di questo articolo. Prendiamo i rifiuti in Campania. Tutti apprezzano gli sforzi del supercommissario De Gennaro per eliminare una piaga che esaspera le popolazioni e offende la dignità del paese. Tutti sanno delle gigantesche difficoltà che si frappongono a soluzioni anche temporanee della maleodorante vicenda, a cominciare dalle tante rivolte che si accendono sul territorio ogniqualvolta si ipotizza l’apertura di una discarica. E tutti si chiedono come sia mai possibile che non si trovino altri sistemi per cancellare l’incredibile spettacolo del pattume debordante. O siamo di fronte all’impossibile, a un’emergenza che si è ormai cronicizzata in lesione permanente come succede con certe malattie troppo a lungo trascurate? Senza contare che il mandato di De Gennaro non è eterno e che andrebbe a scadere poche settimane dopo il 13 aprile, data delle elezioni. Come ben descritto nella trasmissione di Santoro la responsabilità politica di questo disastro viene da lontano ed è assolutamente trasversale. Non si può negare però che nell’ultimo tratto di strada, quello più lungo e tormentato hanno inciampato soprattutto le giunte di centrosinistra. E sarà difficile che gli elettori se lo dimentichino. Proprio ieri la regione governata da Bassolino ha annunciato un nuovo cospicuo stanziamento per il completamento della linea metropolitana di Napoli. Un’opera di grande impatti e utilità per i cittadini, ma chi ci farà caso se l’immagine prevalente resta quella della monnezza? Uno spot a costo zero che Berlusconi sfrutterà da par suo. A Veltroni il non facile compito di trovare le adeguate contromisure.

Capitolo prezzi, inflazione e impoverimento ulteriore dei ceti meno abbienti. Qui la tracotanza berlusconiana può essere facilmente tacitata visto che Veltroni continua a proporre inutilmente un accordo bipartisan in parlamento sull’aumento dei salari e delle detrazioni fiscali utlizzando l’extragettito di dieci miliardi. Il famoso tesoretto di cui Berlusconi e Tremonti riconoscono l’esistenza ma che non hanno nessuna intenzione di destinare ai redditi meno bassi riservandosi di metterci le mani sopra se dovessero andare al governo. Conseguente il comportamento di Forza Italia che nel comitato parlamentare dei nove chiamato a votare l’apposito emendamento su salari e fisco nel decreto Milleproroghe è stato l’unico partito ad opporsi mandando tutto all’aria. Un vero schifo. Rivolgiamo un accorato appello a Veltroni e a tutti gli esponenti del Pd ospiti in trasmissioni, dibattiti e salotti televisivi affinché ne informino compiutamente gli italiani.

Pubblicato il: 23.02.08
Modificato il: 23.02.08 alle ore 10.38   
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Titolo: Il Cavaliere dell'Italia ingiusta
Inserito da: Admin - Marzo 02, 2008, 09:16:46 am
Il Cavaliere dell'Italia ingiusta

Antonio Padellaro


Il figlio del capo di Cosa nostra, boss mafioso anch’egli scarcerato per decorrenza dei termini grazie a una burocrazia lenta e indifferente. La lista dei superevasori nascosti nel paradiso fiscale del Liechtenstein della cui reale identità forse non sapremo mai. Gli arbitraggi del calcio accusati di favorire sempre le società più potenti a scapito delle piccole. Sono tre titoli di stretta attualità che hanno in comune la stessa parola chiave. Ingiustizia. Che nel suo significato più ampio è qualcosa di più e diverso del contrario della parola giustizia, declinabile in molteplici modi. Non la mitica divinità provvista di equanime bilancia rappresentata nelle aule di tribunale o il potere dello Stato depositario del relativo esercizio, perché appartengono a una dimensione troppo elevata rispetto alle umane debolezze. E anche la giustizia come valore etico sociale in base al quale si riconoscono e si rispettano i diritti altrui come si vorrebbe fossero riconosciuti e rispettati i nostri resta un concetto nobile ma purtroppo astratto.

Di ben altro vocabolario avremmo bisogno per orientarci dentro la nuvola nera di risentimento, rabbia e cattivo umore che ci sentiamo gravare addosso soprattutto come italiani. Ingiustizia che è sì mancanza di giustizia ma nelle sue accezioni più minacciose e accidentate. Sopruso. Torto. Arbitrio. Prepotenza. Prevaricazione. Non sono forse sentimenti che frequentiamo ogni giorno, cattive compagnie che ci tirano fuori il peggio?

Gli uomini, ci è stato insegnato, hanno creato il diritto per difendersi dalla legge della giungla.

Per dissuadere attraverso pene e sanzioni adeguatamente severe l’agire dei violenti e dei disonesti. Poi un giorno un magistrato ti spiega che assassini, ladri, bancarottieri, mafiosi, più la fanno grossa, meglio è. Ammazzi la moglie? Con 5 anni te la cavi. Rubi miliardi? Prescrizione assicurata. La legge e i suoi cavilli sono dalla tua. Intanto in prigione ci vanno gli altri, tossicodipendenti e immigrati. Alla fine la stragrande maggioranza dei delitti resta impunita. Parola di Bruno Tinti, giudice e autore di «Toghe rotte» che è già un best-seller. Esagerazioni? Non si direbbe a vedere il giovane Giuseppe Salvatore Riina jr. mentre con un sorrisetto varca il portone del carcere di massima sicurezza di Sulmona. Sì, massima sicurezza. Ecco però che il ministro della Giustizia Scotti chiede molto tardive informazioni. E quello dell’Interno Amato assicura che pur di fronte a un fatto così grave le forze dell’ordine non si scoraggiano. Caute circonlocuzioni che rendono ancora più evidente lo stato d’animo dei funzionari di polizia e degli agenti che incastrarono il figlio di cotanto padre facendolo condannare a 14 anni e 6 mesi per estorsione e associazione mafiosa. Cosa penseranno nel vederlo oggi mostrarsi al mondo e agli amici degli amici di Corleone con il giubbotto moncler e il maglioncino rosa? Immagine che certamente non farà che avvalorare l’amara convinzione ormai radicata nel senso comune del paese. Che ormai in galera ci va soltanto chi è troppo povero o chi è troppo fesso. Come ben sa l’uomo delle leggi ad personam.

Chi paga le tasse invece è soltanto un fesso. Come non pensarlo mentre Berlusconi declama il suo eterno programma di sperperi. Musica per le orecchie degli evasori di cielo di terra e di mare resi di nuovo liberi, se egli tornerà al governo, «dall’atmosfera di minaccia e di terrore che Prodi e Visco hanno introdotto nel nostro Paese». Prendere nota: minaccia e terrore il semplice rispetto della legge. Lui che ha massacrato i conti pubblici si permette di insultare il governo del risanamento e della ritrovata credibilità in Europa. Se torna questa gente aspettiamoci che i furbi e i furbetti di Vaduz vengano additati a pubblico esempio e insigniti di cavalierati al merito. Di lotta all’evasione non se ne sentirà più parlare e nella testa delle giovani generazioni si inculcherà l’idea che i contribuenti onesti sono dei poveracci, dei deboli che il fisco fa bene a tartassare.

In un libro di recente pubblicazione, «Governare il mercato», Vincenzo Visco ha elencato i nemici di quell’Italia che il centrosinistra ha faticosamente rimesso in piedi. «L’incultura, la prepotenza, la ricchezza ostentata e di dubbia provenienza, la malavita, soprattutto quella in guanti bianchi, l’ignoranza, la volgarità, la disonestà intellettuale, l’evasione fiscale, l’assistenzialismo, la prevaricazione dei deboli, l’inconsapevolezza dei bisogni, la manipolazione delle masse, l’informazione addomesticata, il fascismo di ritorno, che invece dei manganelli e dell’olio di ricino usa l’attacco personale, le campagne mediatiche, le falsità costruite ad arte».

Veltroni ha ragione quando condanna la politica dell’odio e della divisione. Ma non può non tener conto dei danni che provoca un senso di ingiustizia diffuso e non placato. Certo non è giusto che ogni auto blu che passa per strada scateni scatti di antipolitica. O che ogni fuorigioco non fischiato allo stadio sia un complotto. Sono i riflessi condizionati di un paese abituato a pensar male per frustrazione, a cui occorre restituire il senso di una netta e rigorosa demarcazione tra il giusto e l’ingiusto, l’onesto e il disonesto. Se no il rischio è di assopirci tutti quanti, tra un taglio dell’Ici e un condono, nella misera rassegnazione del così fan tutti. E di domandarci una mattina: ma il conflitto d’interessi cos’era?

Pubblicato il: 01.03.08
Modificato il: 01.03.08 alle ore 14.22   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Nord e Sud. I nodi di Veltroni
Inserito da: Admin - Marzo 03, 2008, 06:06:37 pm
Nord e Sud. I nodi di Veltroni

Antonio Padellaro


Con Bassolino e Calearo, personaggi diversissimi tra loro, Veltroni sta giocando un round decisivo della partita elettorale del Pd. Non avrà le dimissioni del presidente campano, che richiesto di appellarsi alla propria coscienza ha risposto di non voler «disertare». Ma avrà come capolista nel Veneto l’industriale presidente di Federmeccanica, candidatura che per il leader democratico incarna il patto tra produttori e lavoratori (ma alla Fiom non la pensano così). Bassolino rappresenta nel bene e nel male la questione meridionale del centrosinistra. Per una lunga stagione e soprattutto da sindaco di Napoli ha consentito la mietitura di vasti consensi elettorali. Fino alle elezioni del 2006 quando il voto in Campania è risultato decisivo al risicato successo dell’Unione. Adesso però il governatore è diventato, forse ingiustamente, il parafulmine politico dell’emergenza rifiuti, immagine a cui Veltroni vorrebbe comprensibilmente sottrarsi. La scelta di Calearo, invece, punta direttamente al cuore della questione settentrionale del Pd. Un Nord-Est tradizionalmente inospitale per il centrosinistra e che ora si tenta di sottrarre alla tenaglia berlusconian-leghista con un nome che può avere effetti rassicuranti nel mondo della piccola e media industria. Subito Bertinotti e Diliberto ne approfittano per definire i “fratelli coltelli” del Pd un partito non più di sinistra e ormai distante dalla classe operaia. Ma per vincere le elezioni Veltroni persegue la strategia della discontinuità del Pd. Quella di un partito maggioritario che pur senza allontanarsi dal suo tradizionale blocco sociale deve saper raccogliere consensi in tutti ceti, in tutte le categorie e tra tutte le età. Si tratta di sommare i possibili voti nuovi (Calearo) ai voti che ci sono (Bassolino) ma che potrebbero non esserci più. Non sarà facile. Ma chi ha detto che battere Berlusconi lo è?

Pubblicato il: 03.03.08
Modificato il: 03.03.08 alle ore 9.06   
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Titolo: Antonio PADELLARO - La forza di Walter
Inserito da: Admin - Marzo 08, 2008, 04:45:09 pm
La forza di Walter

Antonio Padellaro


Credo di conoscere bene Paolo Bonaiuti, giornalista e portavoce di Berlusconi, e garantisco che è molto meglio di come appare nei tg di tutte le reti e a tutte le ore quando recita la dichiarazione del giorno modulando la voce a agitando le mani. Cito Bonaiuti perché è l'emblema della campagna elettorale del Pdl dove i candidati sono pezzi di una catena di montaggio. Con ciascuno che deve combaciare con l'altro e tutti contribuire all'apoteosi del capo. Come sempre nei giornali e nelle tv della destra opera una rigida divisione del lavoro. Dai reparti mistici di Libero che innalzano archi di trionfo al sommo leader solo perché non dà del tu a Veltroni. All'artiglieria pesante del Giornale che spara perfino se il Pd sospira e fomenta campagne di pubblica indignazione con titoli degni del Male («Prodi butta soldi per i Giochi gay»). Propaganda invasata di fronte alla quale perfino Veltroni ha perso la pazienza denunciando, l'altro giorno, a Massa quei giornali che «grondano odio e da cui esce veleno». Perfino Veltroni che si vede ogni giorno ricacciare addosso dalla destra a suon di cattiverie l'offerta di un confronto leale e civile.
Veltroni che purtuttavia resta convinto che ci sia una profonda differenza tra la vita reale dei cittadini e la rappresentazione mediatica del paese.

Questa è la sfida lanciata dal leader del Pd con il suo faticoso viaggio in pullman nelle 110 province italiane (32 già visitate). Parlare alle persone, che anche nelle cronache più neutrali riempiono di applausi piazze e teatri e il modo più autentico per spiegare cosa si è (e cosa no) e cosa si vuole. Perché se conti balle, se non sei sincero, se manchi di chiarezza chi ti sta di fronte se ne accorge. Le novità del Pd da raccontare sono tante: dal perché si va da soli senza la sinistra radicale al patto necessario tra impresa e lavoro. Ed è probabile che i sondaggi, già in netto progresso rispetto a un mese fa, non possano ancora registrare le conseguenze di questa minuziosa azione di convincimento. Sarebbe veramente straordinario se la sera del 14 aprile i risultati elettorali, oltre al compimento della difficilissima rimonta sulla destra registrassero l'affermarsi di un'opinione non omogeneizzata dal grande fratello televisivo ma restituita alla parola, al dialogo diretto dell'uomo politico con la gente.

Qui è la vera forza di Veltroni, quella che lo induce a sbilanciarsi sul possibile successo finale alla Camera, che è cosa diversa dal pareggio che gli analisti prefigurano nella lotteria-Senato. Dove, secondo gli analisti, tutto decidendosi in un paio di regioni (Liguria e Marche) è possibile che l'una o l'altra coalizione prevalgano per un pugno di voti, sanzionando di nuovo l'ingovernabilità del Parlamento. Insomma, a un mese dal voto la partita può considerarsi riaperta. Perché se anche il distacco tra centrodestra e centrosinistra fosse oggi i dieci punti proclamati dal cavaliere, per colmarlo il Pd dovrebbe recuperare qualcosa più cinque punti. Vale a dire circa due milioni di voti. Impresa non impossibile calcolando il numero ancora elevato di elettori che i sondaggi calcolano nella casella indecisi (tra il 20 e il 30 per cento del totale)

Tra pochi giorni il gioco comincerà a farsi duro. Sarà allora che evaporate alcune inevitabili polemiche sulle liste e recuperate, ci auguriamo, con un ultimo sforzo di pazienza alcune candidature di qualità (dopo Lumia, Nando Dalla Chiesa e Khaled Fouad Allam) tutto il Pd dovrà mobilitarsi per una battaglia all'ultimo voto. Che non può essere lasciata solo sulle spalle di Walter Veltroni o di Massimo D'Alema o di Pero Fassino. Vogliamo vedere ciò che ancora non vediamo abbastanza. Tutti i candidati del Pd, più o meno eccellenti sparsi per le strade italiane in un porta a porta capillare e appassionato.

Qualche numero fa su Internazionale il direttore Giovanni De Mauro ricordava che in un bellissimo film, «Ricomincio da capo», Bill Murray era un giornalista televisivo intrappolato in un incubo senza fine. Il tempo si era bloccato e ogni giorno si ripeteva uguale a quello precedente senza che il protagonista riuscisse a impedirlo. Con Berlusconi rischiamo di ricominciare da capo per la terza volta. Sarebbe imperdonabile se mancando al Pd solo un pugno di voti fossimo costretti a ripiombare in un incubo collettivo.


Pubblicato il: 08.03.08
Modificato il: 08.03.08 alle ore 12.57   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Fini, l'uomo del giorno dopo
Inserito da: Admin - Marzo 11, 2008, 05:56:12 pm
Fini, l'uomo del giorno dopo

Antonio Padellaro


Nella tragicomica vicenda del fascista reo confesso Ciarrapico nelle liste Pdl, rifulge ancora una volta la mezza figura dell’onorevole Gianfranco Fini la cui prontezza di riflessi a proposito delle iniziative del sommo leader si misura in giorni interi quando non in settimane. A Milano, mentre Silvio Berlusconi stracciava il programma del Pd il promettente numero due era lì impettito e silenzioso a fare da palo. Salvo accorgersi l’indomani, dalla lettura dei giornali del disastro mediatico che quel gesto violento e volgare avrebbe prodotto sull’ampia zona grigia di elettorato benpensante e ancora incerto sul da farsi. Eccolo allora l’uomo del giorno dopo arrampicarsi sugli specchi in frantumi e spiegare con voce inutilmente stentorea che in realtà Berlusconi strappando quei fogli voleva ma non voleva e insomma, forse, però. Ieri, quando si è accorto dei problemini sorti con la geniale candidatura del camerata Ciarrapico il brillante delfino ha avuto la solita reazione vispa e quanto mai illuminante sul peso decisionale da egli esercitato nel partito del predellino. Ha detto infatti che lui quello non lo voleva ma che l’ha scelto Berlusconi. Di questa sua spiccata personalità Fini aveva già dato memorabile dimostrazione ai tempi del famoso «kapò» quando seduto accanto all’allora premier fuori controllo l’intero mondo lo vide diventare verde e poi sbarrare gli occhi. Ma eroicamente dalla sua bocca non uscì neppure un gemito.

Tutto questo potrebbe essere catalogato sotto la voce miserie della politica se in gioco non ci fosse il futuro prossimo del nostro paese. Che si meriterebbe una destra moderna ed europea, come infatti esiste in Francia, in Spagna, in Inghilterra e in grado di andare al governo senza drammi, rispettata e rispettosa degli avversari. Poco a che vedere con la pantomima messa in scena dall’impresario unico, nevrotica, insultante e corredata da marce e retromarce su Roma a cui ci tocca assistere.

Pubblicato il: 11.03.08
Modificato il: 11.03.08 alle ore 11.54   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Con le peggiori intenzioni
Inserito da: Admin - Marzo 16, 2008, 12:34:20 am
Con le peggiori intenzioni

Antonio Padellaro


Con la preventiva dichiarazione dello stato di guerra nazionale, e con il preventivato numero di vite dei nostri soldati da sacrificare in Iraq, Afghanistan e Libano (per ora) il candidato premier della destra ha illustrato il suo programma di politica estera. Che viene di seguito al programma sul precariato femminile (cercatevi un buon partito o arrangiatevi) e al programma di riconciliazione nazionale: più fascismo per tutti.

Una cosa bisogna riconoscere a Berlusconi: che non sa nascondere le sue peggiori intenzioni. E quindi rispetto al più umiliante governo che si ricordi (da lui guidato dal 2001 al 2006) quello che ci sta anticipando nelle sue linee fondamentali è un incubo.

Che l’uomo si sia ulteriormente incattivito si era capito dal modo con cui ha stracciato pubblicamente il Programma del Pd. Un gesto violento da cui traspare come una volontà di rancorosa vendetta nei confronti degli avversari politici. La pagherete cara, la pagherete tutti sembra preannunciarci il piccolo duce.

La compagnia non lo aiuta certo.

Prima, almeno, era costretto ad ascoltare le pretese dei presunti alleati. Adesso Casini non c’è più. È rimasto Fini che giustamente si offende quando il camerata Ciarrapico lo definisce sguattero. Ma che faccia parte del personale di servizio (politico) è incontestabile.

Se questi qua ritorneranno per la terza volta al potere cosa altro ci aspetta già ce lo fanno capire. Fine dello Statuto dei Lavoratori. Uso della polizia stile Bolzaneto. Asservimento della giustizia all’esecutivo e vasta epurazione delle toghe considerate “rosse”.

Stop all’uso delle intercettazioni se non per indagini di terrorismo, e chi è terrorista lo decideranno loro. Omologazione dell’informazione Rai alle veline di Palazzo Chigi con trasformazione dell’azienda pubblica nella succursale di Mediaset. Bossi avrà la Padania tutta per sé mentre il presidente-padrone avrà mano libera su tutto il resto.

E non è detto che sia la parte peggiore del programma.

Pubblicato il: 15.03.08
Modificato il: 15.03.08 alle ore 8.51   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Una questione di civiltà
Inserito da: Admin - Marzo 21, 2008, 12:19:47 am
Una questione di civiltà

Antonio Padellaro


È comprensibile che Ignazio La Russa insorga quando Veltroni chiede che vengano accertate le responsabilità politiche della vergogna di Bolzaneto. Lui, come tutta An, sperava che nel paese fosse evaporata la memoria di quei giorni di inaudita violenza. Non aveva però fatto i conti con la sconvolgente requisitoria dei pubblici ministeri Petruzziello e Ranieri Miniati, pubblicata integralmente solo da «Unità» e «Repubblica». Perché adesso diventa impossibile non collegare le violenze disumane perpetrate dalle schegge impazzite della polizia di Stato al particolare clima politico di quell’estate del 2001.

Sicuramente vaneggiava quel torturatore in divisa che fu sentito esclamare «con Berlusconi facciamo quello che vogliamo». Ma nella Genova sconvolta del G8 restano agli atti due attive presenze di governo. Quella del vicepresidente del Consiglio Fini, ospite dalla sala operativa in Questura. E quella del ministro della Giustizia Castelli che visitò la caserma degli orrori non battendo ciglia davanti ai “prigionieri” sbattuti contro il muro, gambe divaricate e braccia alzate. Forse solo con una commissione parlamentare d’indagine, finora osteggiata anche da una parte del centrosinistra, si potrebbero riempire i buchi neri a cui l’inchiesta giudiziaria non può dare risposta.

È possibile cioè che gli agenti indegni abbiano agito solo mossi dalla loro brutalità? O sapevano di essere comunque protetti dall’alto? La destra usa come unico argomento difensivo la necessità di impedire il linciaggio delle forze dell’ordine. Sapendo benissimo che un completo accertamento della verità servirebbe proprio a separare dalle mele marce i tanti servitori dello Stato che fecero il loro dovere. Sbaglia la destra a non capire che Veltroni pone una questione di civiltà a tutela di tutti i cittadini. Quel «segnale di attenzione» che i magistrati chiedono affinché dopo i fatti di Bolzaneto e della Diaz un altro buio della democrazia non sia più permesso.

Pubblicato il: 20.03.08
Modificato il: 20.03.08 alle ore 13.28   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Niente di personale
Inserito da: Admin - Marzo 22, 2008, 09:38:47 pm
Niente di personale

Antonio Padellaro


Sere fa, su «La7», nel corso dell’interessante «Niente di personale», il conduttore Antonello Piroso e il direttore del «Corriere della sera» Paolo Mieli si sono trovati d’accordo nel deplorare «l’antiberlusconismo ottuso» di chi, così abbiamo capito, finirebbe per fare il gioco del Cavaliere enfatizzandone le battute e le provocazioni varie. È una polemica che si trascina fin dai tempi della discesa in campo dell’uomo di Arcore e che, come si ricorderà, proprio alla vigilia delle elezioni del 2006 finì per investire il «Caimano», film di Nanni Moretti dedicato alla irresistibile ascesa di un politico supermiliardario. Può darsi, ma non è provato, che a causa dei meccanismi sopra citati l’opera morettiana abbia finito per contribuire alla quasi sconfitta dell’Unione di Prodi, in partenza accreditata di un vantaggio più che cospicuo sulla Casa del caimano.

È certo invece che le sale furono prese d’assalto da un pubblico di antiberlusconisti ottusi con incassi da record al botteghino. Così come un’impennata di vendite in edicola ci fu, a metà degli anni 90, con l’«Espresso» di Claudio Rinaldi che una settimana sì e l’altra pure metteva in copertina Berlusconi e la sua corte. Senza parlare del giornale che state leggendo, più volte denunciato pubblicamente come strumento del demonio comunista dal presidente-padrone e per questo circondato dall’affetto dei lettori. Chi scrive, oltre ad avere molto apprezzato il film di Moretti era parte di quell’«Espresso» come lo è di questa «Unità». Perciò, sensibile all’antiberlusconismo più o meno ottuso chiede il diritto di replica.

La teoria compiuta del più lo tiri giù e più si tira su è di Filippo Ceccarelli che su «Repubblica » del 17 marzo ha spiegato che «al fine di mobilitare un certo tipo di elettorato disattento» e con l’obiettivo di «trasformare il voto nel solito referendum sull’unico vero suo programma, e cioè su se stesso, sulla sua persona pubblica e privata, il cavaliere diverte, si diverte e provoca, e chi ci casca è perduto». Poniamo che sia così, che chi dà corda a Berlusconi finisca con l’impiccarsi. Ma allora, per assurdo, il rimedio sarebbe uno solo: non parlarne mai. O meglio non parlarne mai male visto che stampa e magazine tracimano di copertine, ritratti e interviste dai quali il Cavaliere Patinato e la sua Dinasty rifulgono in tutto il loro splendore. Sia detto senza polemica ma leggendo sul «Corriere» di ieri titoli come «Don Verzé: l’Italia è al naufragio e il genio di Silvio può salvarci» oppure «Bennato e la cena con Silvio: mi piace, non è un’infezione», può venire il dubbio che all’antiberlusconismo ottuso si voglia contrapporre una sorta di berlusconismo acuto.

Quanto alla trappola che Berlusconi tende ai suoi avversari costringendoli a parlare di lui, sarebbe tale se la critica fosse limitata ai capelli catramati e al guardaroba da anziano gagà. Non depongono benissimo ma pazienza. Se però il capo della destra candida tranquillamente un fascista, il problema non è nella macchietta in camicia nera quanto nel palese disprezzo verso valori e sentimenti comuni alla stragrande maggioranza degli italiani, come del resto dimostrato dal suo costante rifiuto di celebrare il 25 aprile. E se costui propone a una giovane donna in cerca di lavoro di trovarsi un uomo ricco che è meglio, il problema non è la simpatica battuta ma la palese sottovalutazione della questione lavoro. Il dileggio rispetto ai drammi e alle umiliazioni di un mondo giovanile condannato al precariato (e il giorno dopo il suicidio di un uomo avvilito dall’assenza di futuro). Sarà pure vero che la sua linea è creare casi per tenersi in vita ma davanti alle continue allusioni sessuali, alle “gnocche” da mettere in lista o alle veline che servono soltanto a quella cosa lì, un giornalismo degno di questo nome deve limitarsi a dare di gomito? O meglio sarebbe, come fece la moglie Veronica nella famosa lettera, pretendere un briciolo di rispetto per il genere femminile e per la tanto conclamata famiglia, senza per questo essere tacciati di «ottusità»? E che dire della disinvolta cordata elettorale su Alitalia, presentata come se giocasse a monopoli invece che sulla pelle di migliaia di lavoratori?

Questo giornale, come altri del resto, non pretende di avere l’esclusiva delle virtù civili e non pratica l’indignazione come genere d’effetto. Rispettiamo le scelte degli altri ma di fronte a certe omissioni e insofferenze ci viene in mente la famosa metafora degli occhiali del sociologo Pierre Bordieu. Spiega che i giornalisti, spinti non solo dalle propensioni inerenti al mestiere, alla loro visione del mondo, alla loro formazione, ma anche dalla logica della professione selezionano la realtà decidendo che cosa è interessante e cosa invece non lo è. I giornalisti hanno, appunto, «occhiali» speciali attraverso i quali vedono certe cose e non altre; e vedono in un certo modo le cose che vedono. Operano, insomma, una selezione e una costruzione di ciò che poi sarà pubblicato. I giornalisti, dunque, si interessano solo a ciò che è importante, sorprendente, divertente. Per loro.

Questo può spiegare che cosa non troviamo nella maggior parte dei quotidiani italiani, e cioè quei fenomeni cosiddetti di «periferia» che trattano di povertà e di emarginazione, di malattie e disoccupazione, di pelli scure e morti bianche. Argomenti sfigati, come mi disse un giorno il collega di un importante quotidiano.

Mentre gli occhiali di Bordieu non possono spiegarci perché nell’informazione televisiva c’è sempre uno molto più uguale degli altri. Molto più presente, molto più parlante, molto più importante e non c’è par condicio che tenga. Chissà quale forza irresistibile e misteriosa spinge i direttori del Tg (con la lodevole eccezione del Tg3) a dedicargli tanto tempo e attenzione. Niente di personale, ne siamo certi.

Pubblicato il: 22.03.08
Modificato il: 22.03.08 alle ore 14.51   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Bufala bill
Inserito da: Admin - Marzo 28, 2008, 05:17:31 pm
Bufala bill

Antonio Padellaro


Non abbiamo il minimo dubbio: il collega della «Stampa» ha riportato fedelmente le parole di Berlusconi sulla presunta cordata per Alitalia, rivelatasi poi falsa. Il virgolettato è autentico non fosse altro perché quei nomi (Mediobanca, Benetton, Ligresti, l’Eni) non può averli immaginati che l’intervistato. Una cordata priva di fondamento, inventata a scopi elettorali e subito smentita dai soggetti incautamente coinvolti con inevitabile retromarcia dal nostro bufala bill.

Ci sarebbe da ridere se l’autore della facezia non stesse da giorni giocando sulla pelle di migliaia di lavoratori e con le quotazioni della Borsa.

E se tra qualche settimana l’Italia non rischiasse seriamente di ritrovarsi questo personaggio di nuovo assiso sulla poltrona di Palazzo Chigi. Il mondo ci guarda, scrivevamo ieri, e resta di stucco (come il Wall Street Journal) nell’apprendere che alla testa di una delle nazioni più progredite può ritornare insieme al caravanserraglio di leghisti e secessionisti del nord e del sud chi interpreta la lotta all’evasione fiscale come una forma mascherata di aumento delle tasse.

Chi coltiva l’idea che si possa vivere senza regole. Chi tratta le grandi scelte economiche come affari privati. Si era detto all’inizio della campagna elettorale che nel candidarsi per la quinta volta a premier (record eguagliato solo dal fascista Le Pen) forse il capo della destra aveva cambiato look mostrandosi più cauto nelle promesse, meno aggressivo nelle accuse. Pura illusione, come dimostra la foga iraconda con cui ha ripreso a dare del comunista a chiunque osi contraddirlo.

A settanta e più anni Berlusconi non può certo cambiare una natura «allergica alla verità e una propensione voluttuaria e voluttuosa alle menzogne» (Indro Montanelli). Con i problemi che abbiamo il pensiero di altri cinque anni di avanspettacolo e girandole lascia sgomenti.

Pubblicato il: 28.03.08
Modificato il: 28.03.08 alle ore 8.30   
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Titolo: Antonio PADELLARO - I voti di un povero cristiano
Inserito da: Admin - Marzo 29, 2008, 06:37:54 pm
I voti di un povero cristiano

Antonio Padellaro


Confessiamo di provare un confuso sentimento nel vedere tanti illustri atei devoti, oppure devoti ex atei, accolti festosamente nelle più maestose basiliche dalle più alte gerarchie. Se non addirittura battezzati per mano del sommo pontefice. Fastidio? Gelosia? Invidia? Senso di pochezza da parte di noi poveri cristiani o che altro? Per restare in tema prendiamo la parabola del fariseo e del publicano.

Forse la conosce anche chi non è andato a scuola di catechismo. In breve, due uomini salgono al tempio per pregare e il fariseo («stando eretto» dice il vangelo) ringrazia Dio per essere un uomo osservante della legge e non un peccatore come quel publicano lì. Costui, persona religiosamente contaminata, tenendosi a distanza si batte il petto e invoca la pietà divina. Come sappiamo, è lui che Gesù preferisce perché chiunque si innalza sarà abbassato, e chi si abbassa sarà innalzato.

Sentiamo già i rimbrotti dei nostri custodi della legge sul vangelo fai-da-te da cui non si può prendere solo ciò che fa comodo. Mentre monsignor Fisichella ci impone come giusta penitenza di leggere per dieci volte la parabola del figliol prodigo e gli ultimi editoriali del «Foglio». Ovviamente, di assistere alla messa vespertina nella cappella vip accanto alla principessa Borghese, Giuliano Ferrara e Magdi Allam non se ne parla.

C’è, probabilmente, in molti credenti un senso come di amarezza e dispiacere di cui la Chiesa dovrebbe tenere conto. Costoro che pure si sforzano tra mille debolezze di essere coerenti con la propria fede si sentono improvvisamente messi da parte, trascurati, sospinti in fondo alla navata. Forse ancora più che per le aperture conciliari Giovanni XXIII sarà ricordato come uno dei papi più amati per quella semplice e affettuosa carezza che la sera della sua elezione chiese di portare a tutti i bambini. Quel discorso della Luna lasciò un segno nei cuori e nella storia. Tutti seppero che la Chiesa cattolica da severa, fredda, distante ritornava a riscaldare con un messaggio di amore i deboli, gli umili e i soli.

Nel ricordarci sul «Corriere della sera» che il battesimo «è un atto di vita interiore, non di spettacolarità mediatica né di logica politica», Claudio Magris ha colto il punto di possibile frattura. Più dall’alto si usa la religione in senso spettacolare e politico. E più dal basso si cerca di proteggere le proprie scelte interiori dagli agitatori della fede. Sentimenti e tormenti di cui spesso il cristiano parla a stento perfino con il confessore, diventano manifesti elettorali. Mortificante lo spettacolo dei politici che si prosternano al verbo porporato. Dai credenti si pretendono precise scelte di campo su aborto, eutanasia, coppie di fatto. Questioni di coscienza che come dice la parola stessa riguardano solo ed esclusivamente la sfera morale di ciascuno. Se i sondaggi segnalano che il voto dei cattolici è orientato più a destra che a sinistra se ne compiacciono i leader pluridivorziati paladini della famiglia. C’è qualcosa che non va. Infatti, nella lista delle tematiche da affrontare quasi tutti parlano di soldi che non bastano, di tasse, sicurezza. Ma soltanto il 2,8% degli italiani cita la tutela della vita e ancora di meno sono quelli che si preoccupano della difesa dell’identità religiosa. Per non parlare della guerre di religione, con relativa condanna globale dell’Islam che vivono solo nella immaginazione dei neoconvertiti. O perché troppo abbagliati dalla nuova luce o perché troppo furbi. Insomma, come ha scritto Ilvo Diamanti su «Repubblica», tra i tanti problemi il paese non sembra attraversato da una nuova, lacerante «questione cattolica».

Ancora meno quindi si comprende come mai la somma gerarchia non si preoccupi di arginare questa sovraesposizione mediatico-mondana della religione. Che, altrimenti, rischia di oscurare la vera dimensione del cristianesimo che, come ha lasciato detto qualcuno, è soprattutto messaggio di speranza per i poveri, gli afflitti, gli assetati di giustizia, i misericordiosi, i portatori di pace e gli ultimi della terra. Era lo stesso che scacciò i mercanti dal tempio. Ma forse ciò che non capiamo è uno dei tanti misteri della fede. Inspiegabile come l’esistenza di uomini divisi su tutto ma che dicono di credere nello stesso Salvatore.

Pubblicato il: 29.03.08
Modificato il: 29.03.08 alle ore 10.10   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Crediamoci
Inserito da: Admin - Marzo 31, 2008, 12:38:52 am
Crediamoci

Antonio Padellaro


Nelle cento e più dichiarazioni di voto per il Pd raccolte dall’«Unità» c’è l’Italia che non si rassegna, l’Italia che ci crede, l’Italia che ce la può fare. Un paio di mesi fa, probabilmente, molti degli interpellati avrebbero preferito non rispondere per comprensibile sfiducia. Del resto, nelle ore dell’agguato a Prodi,- al governo del risanamento e dei conti in ordine -, nei giorni bui dei pugnalatori prezzolati, delle arroganti dichiarazioni del principale esponente del fronte opposto, dei sondaggi a picco, chi avrebbe mai scommesso sulla possibilità di una rimonta sul Pdl? Recupero, invece, che tra due settimane, il 13 di aprile, potrebbe diventare uno straordinario sorpasso sul filo di lana.

Sicuramente Walter Veltroni sta trasformando una sicura sconfitta in una possibile vittoria in tre mosse.

La decisione di far correre il Pd da solo accantonando l’alleanza con la sinistra radicale e sulla base di un programma riformista. Un grande cambiamento in un sistema stagnante che sta convincendo numerosi cittadini ad uscire da limbo dell’antipolitica.

Il pullman del leader che alla fine del viaggio avrà toccato da un capo all’altro della penisola 108 province italiane. Un rapporto diretto con le persone che ha invecchiato di colpo il solito copione delle campagne televisive restituendo agli elettori il diritto a una democrazia autentica e non taroccata.

La crescita non solo numerica del Pd che soltanto un anno dopo lo scioglimento di Ds e Margherita è ormai stabilmente un pilastro portante del sistema politico italiano. Mentre il futuro del centrodestra è sempre più nelle mani di un ultrasettantenne presidente-padrone.

Ma adesso il gioco si fa duro e lo sforzo della intera squadra Pd (D’Alema, Fassino, Franceschini, Bersani, Bindi, Rutelli, Finocchiaro e le altre centinaia di candidati) deve concentrarsi sugli indecisi (se votare) e sugli incerti (per chi votare) puntando a convincerne il maggior numero possibile. Sono, secondo gli ultimi sondaggi, il 10%: 3,8 milioni di elettori, la maggior parte dei quali orientati verso il Pd. Per superare Berlusconi basterebbe che Veltroni riuscisse ad assicurarsi un po’ più della metà degli indecisi-votanti: due milioni e mezzo di voti in due settimane. Certo che è difficile. Certo che si può fare e a questo serve la Domenica dei Democratici con 12mila gazebo sparsi nelle piazze di 6mila comuni italiani. Questa volta però dobbiamo crederci tutti e non solo chi è impegnato direttamente nella campagna elettorale. Mai come in queste elezioni diventa fondamentale la figura dell’elettore che si fa parte attiva, che si mobilita per spiegare qual è la posta in gioco e per convincere chi ancora non lo è.

In questa mobilitazione appassionata e capillare, fondamentale come sempre il ruolo dell’«Unità»: 750mila copie sono oggi in piazza con il Pd, tiratura che ricorda quella degli anni eroici e delle grandi vittorie. Un’altra dimostrazione della forza e della insostituibilità di un giornale che da 84 anni è parte della storia migliore del nostro paese. Il giornale del lavoro e della libertà.

Pubblicato il: 30.03.08
Modificato il: 30.03.08 alle ore 8.39   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Minacce e paura
Inserito da: Admin - Aprile 05, 2008, 05:06:39 pm
Minacce e paura

Antonio Padellaro


Poniamo che nella tarda serata di lunedì 14 aprile, a urne ormai chiuse né dai numeri del Viminale né tantomeno dagli exit-poll si riesca a capire chi ha vinto e chi ha perso le elezioni politiche del 2008. Mettiamo (ipotesi probabile) che al Senato, complici il sistema macchinoso e i voti ballerini degli italiani all’estero si prefiguri un sostanziale pareggio tra centrodestra e centrosinistra. E che alla Camera (ipotesi possibile) si verifichi un testa a testa Pdl-Pd sul filo dei voti e del premio di maggioranza. In una situazione del genere cosa farebbe Silvio Berlusconi? Resterebbe tranquillo ad aspettare la conclusione dello spoglio, disposto a riconoscere e a rispettare il risultato qualunque esso sia? Ne dubitiamo fortemente per il semplice fatto che egli già ora si proclama vincitore e con il più ampio margine. «Se non ci saranno brogli non ci sarà nessun pareggio», ha sentenziato ieri. E ha aggiunto: «Tutti i sondaggi ci danno avanti di 8-10 punti. Abbiamo messo in campo un esercito di 120mila volontari a difesa del voto degli italiani». Dichiarazioni che dovrebbero suscitare il più vivo allarme nelle altre forze politiche, a cominciare naturalmente dal Pd. Quella di Berlusconi, infatti, non è la consueta vanteria propagandistica o un troppo caloroso auspicio ma la rivendicazione di un diritto (la vittoria) a cui manca solo una formalità (le elezioni). Cosicché ogni altro diventa un imbroglio. Un atteggiamento tipicamente infantile. Di chi pensa è tutto mio.

Berlusconi procede per affermazioni apodittiche, quelle che non vanno dimostrate e non tollerano discussioni.

Sostiene di avere già vinto perché «tutti i sondaggi» gli danno un vantaggio incolmabile per quantità di voti e di parlamentari. Quegli stessi sondaggi elettorali che in passato si sono dimostrati assai fallibili, come nel 2006 quando vaticinarono il trionfo dell’Unione di Prodi però salvata solo da un pugno di voti. Previsioni che anche ultimamente hanno brillato per vaghezza segnalando un trenta per cento di indecisi che in campo statistico non sono proprio un dettaglio. Da una settimana, poi, chiunque può dare i numeri visto che i sondaggi dovrebbero restare riservati per legge. E dunque così come Berlusconi può vantare dieci punti di vantaggio, Veltroni potrebbe benissimo annunciare il sorpasso dell’avversario. Ma per il cavaliere tutto ciò non conta. Del resto, dieci anni fa, dopo la prima affermazione di Prodi contestò i voti degli elettori sostenendo che gli unici veritieri erano i voti dei suoi sondaggisti.

Brogli. Il sillogismo è d’acciaio. Vinco certamente io ma se dovessi perdere sarà per i maneggi dei soliti comunisti. Non è una barzelletta ma una minaccia ricorrente. Nel 2005, prima delle Regionali disse che a sinistra c’era «una vecchia professionalità nel cambiare i voti nelle schede». Nel ’96 giurò, «ce ne hanno tolti un milione e 705mila». Alla vigilia del voto del 2006 chiese nientemeno l’intervento degli osservatori dell’Onu per vigilare sui «professionisti dei brogli della sinistra». Dopo, non ha mai riconosciuto la vittoria di Prodi e ha continuato a denunciare colossali imbrogli ai danni della Cdl. Anche se resta il sospetto che i numeri li abbia falsificati qualcun altro ai danni del centrosinistra. L’esercito dei 120mila volontari nei seggi per conto di Silvio è probabilmente un’esagerazione. Che però serve a preparare un clima nel caso il Pdl dovesse perdere o anche solo pareggiare. Un brutto clima che Berlusconi surriscalda accusando le istituzioni di giocargli contro. A cominciare dal Quirinale, arbitro del confronto politico, che ha chiamato in causa con l’accusa poi rimangiata di parzialità.

Non c’è dubbio: le minacce di Berlusconi si spiegano con la paura per un esito elettorale all’inizio strombazzato come una tranquilla passeggiata e adesso non più così sicuro. Resta la sensazione, spiacevole, di una democrazia da un quindicennio tenuta costantemente in ansia da un capopopolo degno dello Zimbabwe.

Per questo fa bene il loft veltroniano a sposare, come abbiamo letto, la linea dura. Non un espediente momentaneo per motivare l’elettorato e smuovere gli incerti. E neppure un antiberlusconismo di maniera e fine a se stesso. Dura e rigorosa deve essere invece la posizione di chi pretende da ciascuno il rispetto delle regole non permettendo a nessuno di spaccare il Paese.

apadellaro@unita.it



Pubblicato il: 05.04.08
Modificato il: 05.04.08 alle ore 10.39   
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Titolo: L’Italia bella che si fida di Veltroni
Inserito da: Admin - Aprile 10, 2008, 10:59:12 pm
L’Italia bella che si fida di Veltroni

Antonio Padellaro


A Cosenza, 108esimo capoluogo visitato, sono le sette della sera di martedì 8 aprile e in piazza dei Bruzi ci sono dieci e forse anche dodicimila persone che sgomitano e spingono e premono quelli delle prime file e gridano Walter-Walter e lo afferrano e lo toccano e si aggrappano e lo abbracciano e provano a travolgerlo malgrado la scorta faccia robusto quadrato. Lui, allenato, riesce a lasciare un segno su mani, guance, quaderni, foglietti, cartelli tricolori del Pd mentre cammina veloce inseguito da un tumulto festoso che sta per accerchiarlo ma un attimo prima lo sportello del pullman si apre e si chiude e il candidato, al sicuro, saluta la folla e poi mostra le braccia ai suoi e dice contento: sono pieno di lividi mi hanno menato un’altra volta. Era andata così la mattina a Crotone e il giorno prima a Taranto, Matera, Potenza e domenica pomeriggio a Lecce, ma lì non c’eravamo però ci fidiamo della grande macchia di folla che riempie gli schermi dei pc del servizio stampa a imperituro ricordo. Non è solo il proverbiale calore del sud, spiega Veltroni, perché a Varese, baluardo dell’ostile nord-est, la sala scoppiava e la folla debordò nella piazza, come da fotocolor.

Testimoni più neutri i giornalisti al seguito dal 17 febbraio, cinquantuno giorni fa, concordano sul complessivo successo di pubblico anche se non sempre con la stessa fisicità travolgente. Una cosa straordinaria, pazzesca, mai vista, ripete lui ad ogni squillo di telefonino. Rassicura quelli che si sincerano: certo che sto bene, certo che possiamo farcela, tutta questa gente straordinaria qualcosa vorrà dire...

All’ora di pranzo tra chiazze di neve e sbuffi di vento mentre lo festeggiano alla Tavernetta di Spezzano Silano il pronostico di Marco Minniti viceministro calabrese è che in ogni caso il candidato può fare 1 X 2. Perché, spiega, se vince o pareggia Walter avrà compiuto un miracolo. Ma se pure si perdesse, a questo punto il Pd c’è e non lo ferma più nessuno.


La vita delle persone

Ascoltare tra la folla la campagna elettorale di Veltroni significa confrontarsi con un paio di interrogativi. Dov’è l’antipolitica? E dov’è la politica che noi raccontiamo sui giornali? La prima domanda riguarda le piazze di ogni colore e un grado di partecipazione tutt’altro che in calo. Ciò sembra indicare non il rifiuto della politica in quanto tale bensì «la critica costruttiva a una classe politica che sacrifica l’interesse collettivo a favore dei suoi fini autoreferenziali» (come si legge nel bel saggio di Carlo Carboni «La società cinica»). Sul modo di fare e dare informazione forse gli addetti ai lavori, a cominciare da chi scrive, dovrebbero interrogarsi sul rapporto tra realtà e finzione. Poiché certamente incontrando un giornalista l’elettore comune non gli chiederà delucidazioni sull’ultimo scambio di battute a Matrix o a Porta a Porta. Ma se ci fermano sulla pubblica via è perché si cominci a scrivere di rimborsi sanitari sulla malattie rare (a Taranto). O di collegamenti ferroviari decenti e della crisi dell’industria chimica (Matera). O di crisi dell’agricoltura (Crotone) e disoccupazione giovanile (Cosenza).


Cronache familiari

Veltroni questo deve averlo molto chiaro tanto è vero che in ogni suo comizio tipo della durata di poco più di un’ora soltanto pochi minuti sono dedicati all’ordinario scontro di dichiarazioni con «il principale leader dello schieramento avverso», pane per i denti di quotidiani e tg. Il resto è una conversazione sulla vita delle persone reali, sui loro bisogni e sulle loro attese, costruita con il linguaggio di quelle stesse persone. E che forse proprio per questo non leggeremo sui giornali. Nello stile diretto e didascalico troviamo echi della «Bella politica», la lezione-video sui grandi personaggi che hanno acceso la fantasia di intere generazioni, da Gandhi ai Kennedy a Martin Luther King. All’astrattezza del politichese si sostituisce il senso comune delle cose. Così il dramma del precariato diventa cronaca familiare. Una volta era la bottiglia del vino buono stappata per festeggiare l’assunzione di un figlio e una strada spianata per il futuro. E che oggi si trasforma in paura per un futuro che tempo sei mesi o un anno può svanire nel nulla.

Così il mostro burocratico è la giungla di ventimila leggi e centomila regolamenti che nella vita delle persone si traduce in sessanta diversi atti e documenti necessari per aprire un negozio di alimentari o una carrozzeria. Se andremo al governo, promette Veltroni, ai giovani sarà dato un salario minimo legale di 1000/1100 euro; mentre la strategia di lungo termine sarà quella di far pagare di più alle imprese i lavori atipici incentivando i lavori a tempo indeterminato. Con noi, annuncia, si potrà aprire un’attività commerciale nell’arco di una giornata e basterà un’autocertificazione. Le parole arrivano, le gente sente che si può fare e applaude.


Io mi fido di te

Ma perché credere a Veltroni? E chi ci dice che non siano le solite promesse elettorali tante volte ascoltate invano? Qui scatta la garanzia «Letizia». Letizia Scotta, la ragazza che ha salutato Veltroni sul palco di Crotone. Giovanissima come tutti i “testimoni” che accompagnano il candidato leader dalle Alpi alla Sicilia. Tosta e senza timidezze. «Caro Walter», comincia, «hai detto: “Combatteremo contro ogni mafia”, e questa è un'espressione che non può più essere uno slogan. Ricorda che queste parole sono pietre, e pronunciarle invano come troppo spesso è stato fatto qui da noi è un vero peccato. Tu hai sempre tenuto alle cose che hai detto, ti chiediamo di continuare a farlo, e te lo chiediamo col cuore, ma anche con la spietata consapevolezza che è l’unica possibilità che abbiamo di rimanere qui, per non dovere ancora una volta partire. Io ho fiducia in te, sento che pronunci queste parole con voce di verità,e ti crediamo».

Non è affatto un caso che la manifestazione si concluda, come sempre con l’Inno di Mameli e con Jovanotti che canta «Io mi fido di te». È un marchio che si stampa nel cuore delle persone. Si fidano di Veltroni ma è come se ciascuno stipulasse con lui un proprio contratto personale. Vogliono stringergli la mano, abbracciarlo, toccarlo per dirglielo direttamente affinché resti un messaggio indimenticabile.


La dura politica

Sono elezioni complicate e il pullman diventa il cuore operativo del Pd, l’ufficio dei colloqui riservati. In Puglia sale Nicola La Torre, braccio destro di D’Alema. Il sindaco di Bari Emiliano si spinge fino a Taranto. In Calabria ci sono Minniti e Rosa Calipari. Fino a qualche settimana fa il Mezzogiorno sembrava una partita disperata. Adesso non più. Improvvisamente sul viaggio spira un vento ottimista e un po’ folle. Prendiamo Napoli. Vigilia con l’ansia delle prove difficili. I rifiuti e tutto il resto. Poi, l’annuncio di Bassolino: un anno per non lasciare i problemi in mezzo alla strada e poi le elezioni regionali. Ieri a piazza Plebiscito erano in centomila, un delirio.

Veltroni è su di giri. I sondaggi? Bene, ma possiamo crescere ancora. Il meteo sembra preoccuparlo di più. Forse piove a Milano. Venerdì a Roma andrà meglio. Il candidato sforna idee per la comunicazione. La lettera a Berlusconi sulla lealtà repubblicana. Reagiscono con gli insulti? Ottimo, sono in difficoltà. La rimonta come fece l’Italia di Bearzot al Mundial dell’82. Loro hanno Paolo Rossi? E noi Tardelli. Pressing a centrocampo. Non diamogli tregua, chiede Veltroni. Politica e calcio. Manda un messaggio a Spalletti, a Manchester con la Roma. Sì, si può fare,

Ce la faremo?, è la domanda più frequente. Io ci credo, ho scommesso uno stipendio sulla nostra vittoria, sorride un signore a Cosenza. La carta segreta sono i giovani. Mai visti tanti. Trasmettono allegria, voglia di fare. Uno li guarda e pensa che il futuro è nostro. Quando Veltroni dice che avrà la stessa età che oggi ha Berlusconi nel lontano 2026, la gente si diverte. Verde è anche la squadra del pullman. Silvia, Luigi primo, Roberto, Tatiana, Domenico, Vittorio, Walter, Luigi secondo, Anna, Luciano, Valerio. Li ho citati tutti perché voterò anche per loro domenica 13 aprile.

Pubblicato il: 10.04.08
Modificato il: 10.04.08 alle ore 8.23   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Dichiarazione di voto
Inserito da: Admin - Aprile 12, 2008, 04:16:32 pm
Dichiarazione di voto

Antonio Padellaro


Voglio vivere in un Paese dove non si definiscono eroi i condannati per mafia e dove i politici non comprano i voti dalla ‘ndrangheta.

In un Paese dove non si stracciano i programmi degli avversari e dove chi la pensa diversamente non è definito un grullo o un fuori di testa o un antropologicamente diverso. In un Paese dove se un magistrato indaga sui reati dei potenti non viene sottoposto a visita psichiatrica.

Voglio vivere in un Paese dove i giornalisti non baciano la mano del leader proprietario e non sghignazzano alla sue battute da caserma. In un Paese dove per ottenere un lavoro non occorre piegarsi al padrino di turno. Dove chi rispetta la legge, e ne chiede il rispetto, non viene considerato un fallito o un invidioso. Dove non si giustifica chi evade il fisco dicendo che avrà le sue buone ragioni. In un Paese dove per un baratto elettorale non si permette ai vari capataz nordisti e sudisti di sputare sul tricolore auspicando fucili e cannoni. Dove comizianti in camicia nera non invocano la cacciata degli immigrati a calci nel sedere. Dove i ragazzi sono educati al rispetto della Costituzione e della legalità.

Voglio vivere in un Paese che non deve più vergognarsi dei propri governanti davanti al mondo che ci guarda e non sa se ridere o piangere. Un Paese che deve interrogarsi sulle ragioni profonde che periodicamente rischiano di trasformarlo in una repubblica delle banane.

Voglio vivere in un grande Paese che deve aprire le finestre e cambiare l’aria avvelenata dell’odio e della paura. Un Paese che ha bisogno di respirare fiducia, ottimismo, intelligenza, creatività. Per tornare subito a correre e a prosperare.

Spero, speriamo, che sia questa l’Italia nella quale da lunedì potremo continuare a vivere.


Pubblicato il: 12.04.08
Modificato il: 12.04.08 alle ore 12.36   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Le tante facce del voto
Inserito da: Admin - Aprile 16, 2008, 12:19:52 pm
Le tante facce del voto

Antonio Padellaro


È andata male perché Berlusconi ritorna a governare l’Italia. È andata male perché il Pd non è riuscito a vincere. Ma è andata bene perché il partito di Walter Veltroni esce da queste difficili elezioni come l’unico grande e, speriamo, compatto argine al potere della destra. Una forza del 34 per cento che in pochi mesi ha messo solide radici e che si candida a guidare il Paese in un futuro probabilmente non lontano, come spiegheremo tra un momento.

Ma i risultati del terremoto del 14 aprile ci dicono altro ancora. Che si è di fatto instaurato in Italia un sistema bipolare che rappresenta più dell’ottanta per cento degli elettori. Che a pagare l’amarissimo conto di questa chiamiamola semplificazione del sistema politico è stata soprattutto la Sinistra l’Arcobaleno che non avrà più alcuna rappresentanza in parlamento. Un evento, nella sua drammaticità, storico.

Il terzo ritorno di Berlusconi a palazzo Chigi ci spaventa per una serie infinita di motivi che proveremo a sintetizzare. Perché il vecchio-nuovo premier sarà scortato e controllato dall’esercito leghista che farà pesare ogni giorno sul tavolo delle decisioni la ricca messe di voti rastrellata in tutto il nord-est. Un successo addirittura travolgente in Lombardia e nel Veneto, accompagnato da uno sconfinamento davvero inatteso in Emilia-Romagna.

E infatti la guardia padana per bocca dei soliti Calderoli e Castelli ha subito annunciato un giro di vite sugli immigrati come primo punto di un programma ispirato come sempre alla xenofobia e all’esclusione. Predicatori della disunità nazionale i seguaci di Bossi hanno già trovato una degna sponda nella lega siciliana di Lombardo, l’autonomista eletto alla guida della Regione che propugna forme più o meno mascherate di separatismo. Chi si opporrà nel Pdl ai Bossi e ai Lombardo uniti nella lotta per sfasciare l’Italia? Non certo il povero Gianfranco Fini, un dì leader patriottico di An e oggi pallida comparsa del capo.

Quanto resisterà il cartello elettorale del Pdl alle spallate secessioniste del Carroccio? Pensiamo non a lungo anche perché al Senato i numeri della maggioranza non sono tali da garantire al governo sonni tranquilli. E non certo per cinque lunghi anni.

Il ritorno di Berlusconi ispira altre considerazioni, anche autocritiche. Possibile che dopo un quindicennio non riusciamo a liberarci di un personaggio che nel resto del mondo ispira incredulità e sarcasmo? E il centrosinistra, nelle sue varie forme, non ha qualcosa da rimproverarsi se il pericoloso miliardario e la sua minacciosa corte possono tornare a celebrarsi nei vari Porta a Porta come i salvatori della patria invocati dal popolo?

Nella partita politica che si apre tocca quindi al Partito Democratico giocarsi al meglio le sue carte. Diciamo subito che in queste ore la delusione è forte. Sapevamo tutti che si trattava di recuperare uno svantaggio notevole. Ma eravamo lo stesso convinti che il pullman di Veltroni, alla fine, avrebbe fatto il miracolo di riunificare il paese sotto le bandiere del Pd. Non è stato così forse perché i miracoli non appartengono a questa politica. O perché c’era ancora un tratto di strada da fare.

Comunque adesso che il Pd c’è pensiamo debba prepararsi ad affrontare una battaglia in tre mosse. Opposizione intransigente al governo Berlusconi. Dialogo sulle riforme, a cominciare da quella elettorale, solo se l’apertura di Berlusconi risulterà sincera. Rafforzamento del proprio blocco sociale guardando proprio a quella sinistra disintegrata dal voto o meglio dal non voto di ieri. Pensiamo che la litania dei risentimenti non giovi a nessuno. L’improvvisata alleanza tra Rifondazione, Verdi e Comunisti italiani paga probabilmente l’appoggio dato al governo Prodi e a quella politica dei sacrifici molto mal digerita dai ceti più deboli. Che adesso abbandonano il progetto bertinottiano per rifugiarsi probabilmente nell’astensionismo. Ma quel mondo di sinistra esiste ancora e il Pd deve tenerne conto. Sui modi migliori per dare ad esso una nuova rappresentanza ci sarà sicuramente tempo per riflettere.

Pubblicato il: 15.04.08
Modificato il: 15.04.08 alle ore 18.54   
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Titolo: Dismissioni
Inserito da: Admin - Aprile 16, 2008, 06:37:30 pm
Dismissioni

Antonio Padellaro


Dispiace sinceramente che il primo intervento pubblico del vincitore delle elezioni Silvio Berlusconi sia stato contro l’«Unità».

Dispiace che egli si dichiari offeso per accuse non meglio precisate. Forse non ha gradito il titolo su Bossi che comanda, ma è ciò che pensiamo sullo strapotere che avrà la Lega nel nuovo governo. Dispiace che il prossimo presidente del Consiglio chieda al Pd di «dismettere certe posizioni», ovvero di imbavagliare questo giornale come condizione per l’apertura di un dialogo con l’opposizione. Da uno che continuamente si proclama paladino dei valori liberali, non c’è male.

Dispiace che a «Uno Mattina», pregiata trasmissione del servizio pubblico, nessuno dei presenti abbia osato eccepire alcunché, visto che si attaccava chi non poteva difendersi. Il coraggio, come si sa, uno non se lo può dare; e poi, in Rai, con questi chiari di luna meglio obbedir tacendo.

Caro Presidente, stia pur certo che non sarà facile dismetterci. Anche perché l’ultima volta, se ben ricorda, siamo noi ad averla dismessa, e non disperiamo di poterci ripetere. Infine, poiché ce le suoniamo da tanti anni ci permetta di darle un consiglio. Non è meglio la nostra solida e aperta inimicizia dei tanti lustrascarpe che le si affollano intorno?

Pubblicato il: 16.04.08
Modificato il: 16.04.08 alle ore 8.18   
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Titolo: La lezione della sconfitta
Inserito da: Admin - Aprile 20, 2008, 12:00:19 pm
La lezione della sconfitta

Antonio Padellaro


Lo choc elettorale è comprensibile ma sarebbe ora che gli sconfitti mettessero da parte rabbia e scoraggiamento per ricavare una qualche lezione utile dagli errori commessi invece di continuare a scaricarli altrove. A cosa serve, per esempio, dare la colpa della propria sconfitta a un altro partito, ovvero al Pd di Veltroni, esercizio politicamente incongruo nel quale si esercitano gli esponenti della Sinistra l’Arcobaleno? Ciò che non abbiamo ancora letto e sentito da nessuna parte è piuttosto un’analisi completa dell’occasione storica persa prima e durante il governo Prodi.

Interrogarsi sui circa quattro milioni di voti che mancano complessivamente al centrosinistra significa soprattutto riflettere sul destino di un tesoro dilapidato. Dovremmo tutti rammentare infatti che dal 2001 in poi, nel quinquennio cioé del Berlusconi II, i partiti dell’allora opposizione inanellarono una brillante serie di successi consecutivi sbaragliando l’allora Cdl in ogni elezione comunale, regionale o europea che fosse. Fu così che nella primavera del 2006 all’Unione appena costituita tutti i sondaggi attribuirono un vantaggio pressoché incolmabile sull’armata allo sbando del centrodestra. Come fu che in poche settimane quella enorme distanza si ridusse ai famosi ventiquattromila voti non è un mistero doloroso.

Perché già in quella campagna elettorale la composita coalizione cominciò a mostrare tutte le crepe e le contraddizioni che avrebbero portato all’implosione di due anni dopo. Subito Berlusconi se ne accorse e scatenò lo scatenabile recuperando punti su punti. Eppure alla fine andò bene, il Porcellum di Calderoli giocò incredibilmente a nostro favore e nella indimenticabile notte del 10 aprile 2006 Romano Prodi potè annunciare una vittoria risicatissima ma pur sempre vittoria in una piazza romana che già temeva il disastro.

A quel punto il rischio sventato in extremis avrebbe dovuto suggerire a tutti gli otto o nove partiti una strategia d’emergenza. Trincerarsi, fare quadrato, prepararsi a resistere cinque anni e a qualunque costo. Per il bene del paese ma anche per quel naturale istinto di autodifesa che è l’abc della politica. Fin dall’inizio era chiaro a tutti che una anticipata fine del governo avrebbe trascinato nel baratro partiti e partitini. Su quei pochi voti di vantaggio reinvestiti con intelligenza e tenacia si sarebbe potuto cambiare a favore del centrosinistra il baricentro politico del paese. Poiché era chiaro che, da Mastella a Bertinotti ne avrebbero guadagnato tutti, a tutti ragionevolmente sarebbe convenuto concorrere ad aiutare Prodi, proteggendolo, rassicurandolo, portandogli la colazione a letto se necessario. Il calvario a cui è stato sottoposto il Professore dai suoi alleati veri e presunti, giorno dopo giorno, resta, lo sappiamo, un capolavoro di autolesionismo e di stupidità politica. E ha ragione Veltroni quando definisce Prodi uomo di stato, «uno dei più grandi che la storia repubblicana abbia conosciuto». Prodi, uomo capace e per bene, al quale non finiremo mai di dire grazie. Logorato, però, e alla fine abbattuto «da una conflittualità permanente dentro una coalizione paralizzata dalla cultura dei no».

Quel piccolo margine di maggioranza al Senato invece di essere difeso con le unghie e con i denti è stato continuamente giocato ai dadi per lucrarne, nel migliore dei casi, qualche straccio di visibilità sui giornali o in tv. Il possibile che Rifondazione, Comunisti italiani e Verdi dicono di aver fatto per tenere in piedi la baracca non poteva bastare. Ci siamo forse dimenticati dei Rossi e dei Turigliatto? Dei ricatti sulla politica estera? Dei ministri di lotta in piazza a manifestare contro il governo di cui facevano parte? E adesso, se tutti i responsabili di tanto insensato sperpero, a cominciare proprio da Mastella, non rientrano in Parlamento chi lo ha deciso? Il perfido Veltroni. O una massa di elettori furiosi dopo aver visto finire in fumo (e nell’immondizia) le proprie speranze? Via, siamo seri.

* * *

Il secondo pericolo che la sconfitta elettorale rischia di produrre nel campo a noi vicino è quello di una quasi resa morale. L’idea cioè che dal 14 aprile scorso la destra ha sempre ragione. Che gli italiani amano Berlusconi, come ci spiegano autorevoli colleghi. Che la Lega è l’unica forza autenticamente popolare, mentre il resto è solo casta approfittatrice. Perfino un personaggio notoriamente misurato come Montezemolo è pronto a sostenere, senza arrossire, che ormai gli operai sono più vicini alla Confindustria che al sindacato. Nelle inchieste televisive sulle ex Stalingrado in mano al Carroccio nessuno obietta se il bravo cittadino indica schifato uno spiazzo dove la moschea non si farà e dice: che vadano a pregare a casa loro. E se il Berlusconi che riceve Putin e tratta i destini di Alitalia è un premier che nessuno ancora ha nominato, meglio non parlare di rigore istituzionale altrimenti ti ridono appresso.

Calma però. È vero, hanno vinto ma non hanno vinto tutto. I voti della destra (compreso Storace) sono 17 milioni e 800mila. Quelli del centrosinistra 15 milioni, di cui 12 milioni del solo Pd. Due milioni ne ha l’Udc. Ovvero: nel paese reale maggioranza e opposizione quasi pari sono. Le principali città italiane sono ancora governate dal Pd e dalla Sinistra. E così la maggior parte delle regioni. Checché ne dica Luca Cordero, c’è ancora un’organizzazione democratica di massa (11 milioni e 700mila tesserati) che si chiama sindacato. I leghisti, sicuramente, hanno raccolto i frutti di un lavoro capillare sul territorio. Pd e sinistra devono prenderne atto e tornare a parlare con la gente. Le cittadine linde e pulite piacciono anche a noi. Se poi però il sindaco col manganello non toglie le panchine per non farci sedere gli immigrati. Del resto, di radiose comunità con i gerani sul balcone, e con l’orrore dietro l’uscio è piena la storia del Novecento.

A Veltroni diciamo quindi tenga la barra dritta. Con la sinistra, soprattutto con il popolo della sinistra, occorre ricostruire un rapporto perché siamo convinti che ciò può giovare molto al Pd e allargare la sua base di consenso. Bene l’opposizione senza sconti in Parlamento ma occorre sferrare una grande offensiva sui valori democratici. Quando ha detto alle mafie non vogliamo i vostri voti, è stato il momento più bello della sua campagna elettorale. Lo hanno preso in parola. Ne valeva la pena. Ma adesso ricordiamolo a tutti.
apadellaro@unita.it

Pubblicato il: 19.04.08
Modificato il: 19.04.08 alle ore 10.14   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Fascisti su Roma
Inserito da: Admin - Aprile 26, 2008, 05:23:05 pm
Fascisti su Roma

Antonio Padellaro


Nell’ultimo anno, e nella sola città di Roma, non si contano gli episodi violenti di matrice fascista denunciati alla magistratura. Aggressioni davanti alle scuole. Incursioni nelle sedi dei partiti di sinistra e contro chiunque venga giudicato «diverso» (l’assalto al circolo omosessuale Mario Mieli). Spedizioni punitive in manifestazioni ritenute «rosse», con relative bastonature (il concerto di Villa Ada). Sui muri la svastica è un simbolo così frequente che non ci si fa più caso. Ma i suoi seguaci non si limitano a lavorare di vernice e pennello. Non è passato molto tempo, infatti, dalla notte dell’11 novembre 2007 quando, in seguito alla tragica morte del tifoso laziale Gabriele Sandri, centinaia di estremisti neri in assetto da guerriglia devastarono il Foro Italico e diedero fuoco a una caserma di polizia. Con tecnica e spiegamento di forze tale da fare ipotizzare alla procura il reato di terrorismo. È uno stillicidio di notizie pubblicate nelle pagine di cronaca con un andamento abitudinario e dunque per niente allarmante. Cronaca un po’ troppo speciale e un po’ troppo frequente anche se a nessuno salterebbe in mente di paventare un ritorno del fascismo in una democrazia solida e collaudata come la nostra. Chissà se la pensa così l’attrice Daniela Poggi, minacciata al grido di «comunista schifosa» mentre distribuiva volantini pro-Rutelli nel quartiere bene di Vigna Clara?

Certo che non siamo alla vigilia di una nuova marcia su Roma ma diventa difficile negare che tutto ciò non abbia nulla a che fare con la candidatura di Gianni Alemanno e con la sua possibile elezioni a sindaco della capitale.

Non staremo qui a rinvangare la biografia politica dell’uomo, germogliata nel Fronte della gioventù di missina memoria, tra busti del duce e saluti romani, perché pensiamo che a ciascuno (soprattutto ai politici) vada chiesto non da dove viene ma chi è. E oggi Alemanno, come ha scritto Il Foglio, è tutto quello che fu e molto altro ancora. Sul passato i suoi silenzi sono tali da far pensare che valga per lui la vecchia massima del né rinnegare né aderire. Il che non vuol dire assenza di idee guida e di paletti ben piantati. Per esempio, ministro dell’Agricoltura nel secondo governo Berlusconi, Alemanno si era fatto apprezzare anche dall’opposizione per la competenza nel settore e per uno stile misurato e non cortigiano nei confronti del premier padrone. Fino a quando, durante una visita all’università di RomaTre alcuni studenti che lo contestavano furono mandati all’ospedale, e non si appurò mai se i picchiatori facessero parte, come alcuni sostenevano, del seguito ministeriale.

Ieri, il candidato della destra era presente alle celebrazioni del Vittoriano per il 25 aprile. Ma quando è stato il momento di dire qualcosa ha parlato di «Liberazione della nazione da ogni forma di totalitarismo sia di destra sia di sinistra». Un classico zero a zero: ovvero proprio quell’equiparazione che è svalutazione e denigrazione dell’antifascismo di cui ha parlato a Genova il presidente Napolitano. Il né rinnegare (il fascismo) e né aderire (all’antifascismo) non è solo un problema (grave) di chi si candida alla guida di una delle città più importanti del mondo. È molto di più. È un’ambiguità che genera un vuoto. Dentro il quale può facilmente addensarsi quel pulviscolo nero che aggredisce e insulta.

I fascistelli che danno fuoco alle caserme o bastonano i gay non sanno nulla del fascismo che nella loro feroce ignoranza rappresenta solo una parola d’ordine, un lasciapassare ribellistico. Se fino a ieri strisciavano nell’ombra perché oggi non dovrebbero sentirsi al sicuro in un paese nel quale il premier in pectore festeggia il 25 aprile con il fascista non pentito Ciarrapico? E dove il sindaco della capitale morale si rifiuta di scendere in piazza con i concittadini non avendo più bisogno di raccattare voti e di un padre partigiano da esibire sulla carrozzella degli invalidi. È l’antidemocrazia assecondata dalla tranquilla indifferenza di milioni di italiani per il mostruoso, l’ignobile, il delinquenziale di cui scrive Giorgio Bocca. E quella dilapidazione del valore della solidarietà e del rispetto degli individui, di cui parla Walter Veltroni nell’intervista di oggi a l’Unità. È il trionfo dell’Italietta che spaccia per bisogno di sicurezza le sue ossessioni contro gli zingari «che se ne devono anna’». Che come ricetta infallibile per lo sviluppo propone per bocca di Pino Rauti, fascistissimo suocero guarda caso di Alemanno, di affidare i terreni comunali «a tante cooperative per l’orto e il giardinaggio». Cosa ha a che fare tutto ciò con un grande paese e con una grande città?

Pubblicato il: 26.04.08
Modificato il: 26.04.08 alle ore 12.23   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Ricominciare da zero
Inserito da: Admin - Maggio 04, 2008, 11:34:34 am
Ricominciare da zero

Antonio Padellaro


Siete contenti? Alla gente che Berlusconi abbia il conflitto di interessi e che Alemanno sia stato fascista non gliene potrebbe fregare di meno. La destra ha vinto perché si é mostrata vicina ai veri bisogni del popolo. Il Pd ha perso per il motivo opposto. E anche voi dell’«Unità», invece di comportarvi come gli ultimi giapponesi nella giungla, dovreste fare autocritica, ripartire da zero, agevolare il dialogo tra le istituzioni di cui il paese ha estremo bisogno.

Quello che avete letto è la sintesi, forse prosaica ma abbastanza fedele, di quanto andiamo leggendo in questi giorni su tutta la grande stampa nazionale, più di qualche sentito consiglio pervenutoci in maniera molto amichevole. Poiché a causa della doppia sconfitta ci sentiamo anche noi gravati da un doppio complesso di colpa abbiamo deciso con uno sforzo di umiltà di accettare la sfida. Ripartire da zero per contribuire al clima di concordia istituzionale instauratosi dopo l’elezione di Schifani e Fini ai vertici del Parlamento italiano? Bene, però dobbiamo farlo tutti.

Non crede, per esempio, il nuovo presidente del Senato che il suo forte elogio di Falcone e di Borsellino e la sua sincera dichiarazione di guerra alla mafia sarebbero ancora più forti e più credibili se egli chiarisse definitivamente quella strana vicenda della Sicula Brokers, società nella quale, stando a quanto scrivono nel libro «I complici» Abbate e Gomez, Schifani sedeva insieme ad alcuni personaggi risultati vicini a Cosa Nostra? Una storia di trent’anni fa, certo, probabilmente accompagnata da sospetti immotivati. Ma se si vuole ricominciare da capo nei rapporti maggioranza-opposizione non è giusto pretendere che neppure un’ombra sfiori la seconda autorità della Repubblica? Per molto meno (l’acquisto di un appartamento da un ente a prezzo ritenuto troppo basso) il predecessore di Schifani, Franco Marini fu messo alla gogna come simbolo della odiata casta dai giornali dell’allora opposizione. Neppure un’ombra... si disse anche allora. Giustamente.

Sì, ripartiamo da zero, pronti perfino a dimenticare gli assalti squadristi nell’aula di palazzo Madama, gli insulti al Nobel Montalcini e al presidente Ciampi fomentati dai banchi della destra (dove sedeva il capogruppo di Forza Italia Schifani) contro i senatori a vita, rei di votare a favore del governo. Lo faremo con animo più sereno se il presidente Schifani si comporterà come ha detto, e come gli suggerisce la Costituzione da uomo effettivamente al di sopra delle parti. Da questo punto di vista, però, il suo esordio non è stato, diciamo così, molto promettente quando, subito dopo l’elezione, secondo quanto riportato dalle agenzie, «è stato ricevuto dal premier in pectore Silvio Berlusconi». Qualcuno ha già notato che il presidente del Senato viene «ricevuto» solo da Napolitano, tanto più che Berlusconi è per ora soltanto un semplice deputato. Ci rendiamo conto che la riconoscenza è una buona virtù, ma c’è un limite a tutto. Ecco, guarderemmo con più fiducia al dialogo istituzionale se Schifani cominciasse a comportarsi come Casini che (così ha raccontato) ebbe le prime ruggini con il premier-proprietario quando da presidente della Camera si rifiutò di andarlo ad omaggiare in quel di palazzo Grazioli.

Con Gianfranco Fini sarà più facile ricominciare da zero alla luce di un discorso di investitura certamente ispirato da autentico spirito repubblicano e dentro i principi fondamentali della Costituzione. Tuttavia, per il rispetto che gli e ci dobbiamo non sorvoleremo sulla sua interpretazione del 25 aprile, giustamente celebrata cone «festa di liberazione» ma senza accenno alcuno alla Resistenza e all’antifascismo. Ricordare i quali, dal nostro punto di vista, non significa «erigere steccati d’odio» ma semplicemente rispettare la verità e rendere omaggio ai tanti che hanno versato il loro sangue per la libertà di tutti, anche per quella di Gianfranco Fini.

Se il nuovo presidente della Camera ha comunque compiuto per intero il lungo percorso che lo ha portato dalle sezioni missine alla piena legittimazione democratica, lo stesso si può dire del nuovo sindaco di Roma Gianni Alemanno? Non discutiamo qui il suo passato di estremista. E siamo d’accordo: alle persone bisogna chiedere da dove vengono ma soprattutto dove vanno (anche se non dimentichiamo a quale trattamento la destra sottopose il parlamentare radicale Sergio D’Elia che venendo dagli anni di piombo aveva pagato per intero il debito con la giustizia e con la democrazia). E allora: dove va Alemanno? Ma soprattutto: con chi ci va?

In uno sforzo estremo di moderazione prenderemo per buona la spiegazione sui saluti fascisti in Campidoglio come gesti di alcuni isolati esibizionisti. E se Marcello De Angelis, tra i fondatori di Terza Posizione, condannato a cinque anni per cospirazione politica e oggi ascoltato consigliere di Alemanno annuncia che porterà il primo cittadino della capitale in un monastero dei Templari per dibattere sul «Ritorno delle élite», preferiremo non credere alla riesumazione di teorie nefaste sulla selezione e la gerarchizzazione. Resta però lo steso difficile ripartire da zero con Alemanno perché lui in pochi giorni ha già fatto strike. Con uno che vuole rimuovere la teca dell’Ara Pacis progettata da Meier come se fosse un manufatto abusivo. Che ha già deciso il trasferimento coatto di ventimila (20.000) tra extracomunitari, romeni e rom dal territorio comunale non si sa bene come e dove. Che ha già dato il benservito ai dirigenti nominati da Veltroni perché nominati da Veltroni. Che dovrà dare retta alle lobby scatenate dei tassisti e alla pressione dei borgatari antinomadi che gli hanno già presentato il conto. Con uno così per l’opposizione il dialogo rischia di trasformarsi in sottomissione e nella cogestione, casomai, delle misure più impopolari. Un problema, temiamo, che non si ferma a Roma.

apadellaro@unita.it

Pubblicato il: 03.05.08
Modificato il: 03.05.08 alle ore 16.20   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Assurdo paragone
Inserito da: Admin - Maggio 07, 2008, 01:05:47 am
Assurdo paragone

Antonio Padellaro


Non riusciamo a capire perché mai a Gianfranco Fini, presidente della Camera fresco d’investitura e di apprezzamenti per l’elogio del 25 aprile e del Primo maggio, siano uscite di bocca quelle assurde parole. Che cioè i neonazisti assassini di Verona «sono da punire» (ma guarda un po’). Che però «è più grave» quel che accade a Torino «con gli scontri anti-israeliani» in occasione della Fiera del Libro. Un paragone sommamente infelice di per sé poiché la vita di un giovane uomo distrutta a calci non ammette paragoni. Siamo convinti che la pensano così tutti coloro che giustamente avversano l’antisionismo.

Ancora più grave, se possibile, l’idea che in Fini sembra sottintesa: ovvero che in una lugubre scala delle priorità la sinistra è sempre più colpevole della destra anche quando questa uccide. Chi siede al vertice delle istituzioni dovrebbe sapere valutare i fatti per quello che sono e non attraverso lenti nere o rosse.
O peggio in base a un insopprimibile richiamo della foresta. C’è qualcosa di insincero nell’adesione ai valori democratici della destra al potere che però non riesce fare i conti con la nostra storia. Quel mettere sempre sullo stesso indistinto piano la lotta ai «totalitarismi».

Quel celebrare la Liberazione ad opera degli alleati, mai quella per la quale hanno versato il loro sangue le moltitudini di patrioti italiani. Quel parlare della Resistenza evitando accuratamente di citare l’antifascismo. Con questa visione di parte come si fa a proclamarsi nuovi pacificatori, ad auspicare la fine di ogni divisione?

C’è qualcos’altro che non riusciamo a capire in questa brutta giornata. Come sia possibile che il Tg1, dove lavorano colleghi bravi e sensibili, ieri sera abbia classificato come quarta notizia del sommario la morte del povero Nicola Tommasoli. Perché per avere subito un’informazione adeguata alla gravità del fatto abbiamo dovuto spostarci sul Tg5?

Pubblicato il: 06.05.08
Modificato il: 06.05.08 alle ore 11.38   
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Titolo: Antonio PADELLARO - La parola a Schifani
Inserito da: Admin - Maggio 12, 2008, 11:51:30 pm
La parola a Schifani

Antonio Padellaro


Tra le tante indignazioni, speculazioni, ritrattazioni dopo quanto detto da Marco Travaglio a «Che tempo che fa», non resta che dare la parola al presidente del Senato Schifani per un diritto di replica a questo punto quanto mai indispensabile.

Esiste, infatti, qualcosa di molto più importante delle solite beghe Rai e riguarda l’immagine stessa delle istituzioni visto che Schifani rappresenta la seconda autorità dello Stato. Qualche giorno fa c’eravamo permessi di ricordarlo da queste colonne apprezzando il forte elegio di Falcone e Borsellino contenuto nel discorso d’insediamento dell’esponente Pdl. Aggiungevamo però che queste affermazioni sarebbero apparse ancora più forti e credibili in presenza di un chiarimento definitivo sulla strana vicenda della Sicula Brokers, società di cui (stando a quanto scrivono nel libro «I complici» Abbate e Gomez) Schifani aveva fatto parte molti anni fa insieme a personaggi poi condannati per mafia.

Abbiamo ringraziato per le spiegazioni forniteci in via informale avvertendo tuttavia che data la delicatezza della questione, e forse anche nell’interesse dello stesso Schifani, meglio sarebbe stato affidarsi a pubbliche dichiarazioni con le quali chiarire ciò che c’era da chiarire. Ieri sera l’intervista riparatoria del Tg1 non ha aggiunto granché alla conoscenza dei fatti succitati visto che il presidente del Senato si è limitato a definirli «inconsistenti, manipolati e che non hanno dignità di generare sospetti».

Attendiamo comunque fiduciosi perché convinti che la verità dei fatti sia il modo migliore per rispondere a quei malintenzionati che, secondo Schifani, vogliono minare il confronto e il dialogo costruttivo tra maggioranza e opposizione. Il resto (comprese le scuse del conduttore e dell’azienda spiccicate a quelle che ascoltammo dopo un’intervista a Furio Colombo) è solo noia.

Pubblicato il: 12.05.08
Modificato il: 12.05.08 alle ore 9.33   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Dietro le parole
Inserito da: Admin - Maggio 15, 2008, 12:07:06 am
Dietro le parole

Antonio Padellaro


L’invito al dialogo con l’opposizione è un segno di buona educazione parlamentare, suscita giusti applausi e in fondo costa poco. Sarebbe stato strano del resto se Silvio Berlusconi, uomo che notoriamente aspira all’amore universale ne avesse fatto a meno presentandosi alle Camere sulle ali del voto popolare e alla guida di una maggioranza blindata. Hanno colpito i toni particolarmente misurati e rispettosi delle opinioni altrui forse perché rivolti ad avversari che nella campagna elettorale di qualche settimana fa egli definiva come dei comunisti antropologicamente diversi che avevano messo in ginocchio il Paese.
Su quale sia il Berlusconi autentico nutriamo qualche sospetto che tuttavia accantoneremo in attesa di vedere come si darà seguito a tanti lodevoli propositi e alle altrettante gravi omissioni. Se il premier non ha nulla da perdere a mostrarsi aperto e conciliante (magari in vista di più ambiziosi incarichi: il Colle) è altrettanto chiaro che avrebbe molto da guadagnare da un’opposizione intrappolata in uno zuccheroso spirito bipartisan. Si capisce che il premier non voglia ripetere l’esperienza dell’altra volta quando (dopo analoghe iniziali gentilezze) il suo governo «ad personam» suscitò la più ampia contestazione nel Paese. Anche questa volta le premesse non sembrano buone.

È facile infatti fare la faccia feroce con gli immigrati o annunciare rappresaglie contro gli impiegati pubblici o ipotizzare revisioni della 194 e poi sperare in una sorta di cogestione del malcontento con il governo ombra. È una confusione di ruoli da cui il Pd saprà certamente rifuggire sapendo bene che altre sono le priorità per un partito reduce da una pesante sconfitta elettorale. Ossia, rafforzare identità e radici ricominciando a parlare con quei dodici milioni di cittadini che lo hanno votato. Il primo dialogo è soprattutto con loro.


Pubblicato il: 14.05.08
Modificato il: 14.05.08 alle ore 10.47   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Scusate il disturbo
Inserito da: Admin - Maggio 18, 2008, 11:24:51 am
Scusate il disturbo

Antonio Padellaro


C’è una regola non scritta di buon giornalismo che invita a usare con parsimonia i punti interrogativi per il semplice motivo che il lettore spende un euro per conoscere le risposte e non solo le domande. Veniamo meno a questo principio dopo che Michele Serra, su Repubblica, ha descritto e fatta propria la condizione di spaesamento che molti vivono nell’opposizione dopo la pesante sconfitta elettorale. Sentendosi un po’ sfiancato e un po’ spiazzato dagli eventi, egli (riassumiamo) preferisce mettersi a osservare tranquillo, senza sbandierare alcunché, aspettando che i nodi vengano al pettine. Dopo lo choc elettorale, con quel che ne è seguito abbiamo anche noi accarezzato l’idea di restare serenamente alla finestra per vedere la destra all’opera. E, come cantava Jannacci, l’effetto che fa. Purtroppo dalle serrande spalancate hanno cominciato a pioverci addosso una quantità di voci sovrapposte e di rumori confusi che nella nostra testa hanno preso la forma di altrettanti punti di domanda. Il più impegnativo dei quali riguarda il dialogo con Silvio Berlusconi. Chiariamo subito: è cosa ottima che per iniziativa soprattutto del Pd e di Veltroni sia stato inaugurato un metodo che può svelenire il clima maggioranza-opposizione. A patto, come ha ribadito il leader democratico, che serva a trovare un’intesa reale sulle regole del gioco da riformare e non invece a creare indistinte melasse programmatiche. Bisogna riconoscere che sul piano delle parole anche Berlusconi è stato all’altezza (e non di un nano, per usare la sua stessa autoironia) prefigurando un clima nuovo in Parlamento, senza confusione di ruoli, senza ambiguità, alla luce del sole, senza sospetti e senza intrighi consociativi. Perfetto.

Ma (ed è la prima domanda) questo clima nuovo deve prevedere anche una nuova memoria? Come avviene nei computer quando si decide di resettare le operazioni ritornando allo stato iniziale, aprendo una pagina nuova (appunto) e immacolata.

Non lo chiediamo polemicamente ma solo per capire, per esempio, se da questo momento in poi si dovrà considerare Silvio Berlusconi una sorta di erede di Aldo Moro, come è stato scritto autorevolmente annunciando, tra gli altri prodigi, «l’era del neo-moroteismo berlusconiano» (la Repubblica). Si tratta di una sintesi giornalistica suggestiva che allude alle aperture coraggiose dello statista dc nei confronti prima dei socialisti poi del Pci e che introduce altri interrogativi ancora. Per esempio: questa visione neomorotea e dialogante era per caso connaturata in Berlusconi anche prima che egli stravincesse le ultime elezioni? O in lui si è accesa dopo il 13 aprile, come la fiammella dello Spirito Santo nelle immaginette sacre? Non vorremmo sbagliarci ma l’uomo che ancora un mese fa si riprometteva di spedire Veltroni in Africa non sembrava proprio la quintessenza del moroteismo. O c’inganna la memoria cattiva in quanto incancellabile?

Non tireremo in ballo, per carità, le leggi ad personam. E meno che mai, ci mancherebbe altro!, il conflitto di interessi. Acqua passata. Problemi più gravi premono. L’interesse nazionale prima di tutto. Restiamo però lo stesso affascinati da un quesito, diciamo così, filosofico. Può esistere una seconda (o una terza) vita in politica? Certo che sì. E l’ultimo tratto di strada, se percorso in gloria, può cancellare tutta la storia precedente? Nicolas Sarkozy, per citare un caso a noi vicino, ha conosciuto parecchi imbarazzanti rovesci prima di approdare triofalmente all’Eliseo. Ma nessun giornalista francese si sognerebbe di escludere dalla biografia presidenziale la parte più scomoda o meno edificante per potercelo presentare come l’erede di De Gaulle. Stiamo pure sicuri che l’opposizione della dolce Ségolène Royal non fa certo sconti quando si tratta di ricordare certi difficili trascorsi del consorte di Carla Bruni.

Da noi, viceversa, la rimozione della memoria diventa valore costituzionale se stende un velo compiacente sull’autobiografia del potere. Solo in Italia può accadere che il caso Schifani diventi il caso Travaglio. Che, cioé, il giornalista reo di avere rispescato una pagina imbarazzante della seconda autorità della Repubblica venga esposto al pubblico ludibrio. Mentre la seconda autorità continua a ricevere la più sentita solidarietà da amici e avversari per l’affronto subito. Quante le cose incautamente raccontate siano vere sembra invece non interessare nessuno.

Non vogliamo farla lunga. Se oggi Berlusconi è un uomo nuovo miracolosamente redento da tutti i peccati che questa stessa opposizione gli ha (giustamente) rinfacciato nel corso di un quindicennio, ne siamo sinceramente lieti. Nell’acclamarlo come il novello Moro non perdiamo però di vista un tratto fondamentale del personaggio. Nella sua lunga e sfolgorante carriera imprenditoriale e politica di accordi il presidente-padrone ne ha fatti tanti. Ma alla fine l’affare l’ha fatto sempre lui. Scusate il disturbo e buon dialogo a tutti.

Pubblicato il: 17.05.08
Modificato il: 17.05.08 alle ore 8.13   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Meno male che c’è l’Europa
Inserito da: Admin - Maggio 21, 2008, 12:06:37 am
Meno male che c’è l’Europa
Antonio Padellaro


Il cinismo del tanto peggio tanto meglio non ci appartiene e davanti alla vergogna senza fine dei rifiuti a Napoli anche noi speriamo che il governo Berlusconi riesca a combinare qualcosa prima che la città affondi. Ogni giorno che passa colpisce tuttavia il contrasto tra i festosi proclami elettorali della destra e la dura realtà dei problemi, che purtroppo non si governano a colpi di spot. Abbiamo ancora nelle orecchie le grida leghiste sui clandestini che su due piedi sarebbero stati accompagnati alla frontiera da apposite ronde. Poi però gli statisti del carroccio hanno appreso che gli irregolari da cacciare erano qualcosa come 700mila, di cui 300mila badanti indispensabili ad altrettante famiglie (anche padane), e si sono presi una pausa di riflessione.

Per non parlare di quel sindaco di Roma che si è fatto eleggere annunciando l’immediata evacuazione di una settantina di campi nomadi e di ventimila rom facendo finta di non sapere che per distinguere gli esseri umani dai pacchi esistono oltre ad apposite leggi, una Costituzione repubblicana e le direttive di una istituzione chiamata Europa. Come ha già notato sulla Stampa Carlo Bastasin mentre a Roma un nuovo spirito di armonia modera i toni, la verifica severa dell’azione di governo si sposta a Bruxelles. Dai ritardi sulla questione Alitalia ai rifiuti non c’è priorità su cui la Commissione europea non sia intervenuta.

Ma è sulla cosiddetta politica della sicurezza che l’Europa è in forte allarme tanto da costringere il Parlamento di Strasburgo a un dibattito straordinario sulle misure “antirom” di un’Italia sospettata di xenofobia. Vedremo se il governo sarà indotto a più miti consigli. Ma se nella destra dovesse farsi largo la mai sopita insofferenza antieuropea, il Pd non potrà restare a guardare. Meno male che c’è l’Europa.

Pubblicato il: 20.05.08
Modificato il: 20.05.08 alle ore 8.53   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Feste de l’Unità, il nome è tutto
Inserito da: Admin - Maggio 25, 2008, 11:10:09 pm
Feste de l’Unità, il nome è tutto

Antonio Padellaro


Le Feste dell’Unità sono le Feste dell’Unità e non basterebbe una intera biblioteca per raccontare, spiegare, esprimere la quantità di sentimenti, di passioni, di valori che questo nome suscita. Ma dire « Festa dell’Unità » è andare oltre il puro significato identitario o politico. È quella cosa li, e non c’è bisogno di aggiungere altro. Festa dell’Unità è la cosa e il luogo. Anzi, è stato scritto non un luogo fisico ma una dimensione dell’essere. Un nome che definisce se stesso, come avviene per tutti i marchi universalmente riconoscibili, evocativi, e che nessuno si sognerebbe di cambiare.

Per questo siamo sicuri di avere mal compreso le indiscrezioni che parlano di un addio alla «Festa dell’Unità», a partire dalla prossima edizione nazionale di Firenze. Ci viene spiegato che il nuovo logo (si parla di «Festa Democratica») e la conseguenza della nascita di un nuovo partito, il Pd, nel quale convivono storie politiche diverse e non più riconducibili ai vecchi ceppi.

Siamo altresì convinti che si troverà il modo giusto per far convivere questo e quello, il nuovo e l’antico evitando di cancellare qualcosa che resta comunque nel cuore di milioni di persone.

Lo diciamo sul giornale che si onora di avere dato il nome alle Feste dell’Unità. Ricordando una frase, se non sbagliamo, di Elias Canetti. Che dare un nome alle cose è la più grande e seria consolazione concessa agli umani.

Pubblicato il: 25.05.08
Modificato il: 25.05.08 alle ore 7.43   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Chi semina vento
Inserito da: Admin - Maggio 27, 2008, 10:04:07 am
Chi semina vento

Antonio Padellaro



A proposito del doppio pestaggio di un immigrato bengalese e di un cittadino italiano conduttore di una radio gay, il sindaco di Roma Alemanno parla di «xenofobia di quartiere ma senza movente politico». Un curioso gioco di parole visto che nulla è più politico del vento fetido della violenza di strada che si organizza in giustizieri della notte e bande di energumeni dediti alla pulizia etnica e di ogni altra diversità dalla pura razza ariana. Quanto alla dimensione territoriale, diamo tempo al tempo e presto i picchiatori di quartiere potranno confluire nella guardia nazionale targata Lega di governo, che provvederà ad armarli di pistole e fucili come da disegno di legge. La frase di Alemanno è un maldestro tentativo di salvare capra e cavoli perché se le svastiche del Pigneto non c’entrano niente con la croce celtica che egli porta al collo, esiste eccome un robusto nesso tra l’ondata di raid nazifascisti con morti (Verona) e feriti e l’incessante straparlare di fermezza da parte della destra. Ecco quindi, caro Alemanno, che la politica, la vostra politica della paura e della insicurezza, sparsa irresponsabilmente a piene mani sta producendo gli inevitabili effetti come i bacilli di un morbo ormai fuori controllo. È comprensibile che, vinte le elezioni, per gli apprendisti stregoni in doppiopetto comporti un qualche imbarazzo correre di qua e di là a constatare tra teste rotte e negozi devastati i risultati di tante parole fuori luogo. Invece di minimizzare o di scaricare sul presunto lassismo di chi c’era prima i vari Alemanno farebbero bene a fronteggiare con la massima urgenza questa offensiva dell’odio, immersa nella subcultura del menare le mani oltre che in nuvole di cocaina. Prima che il combinato disposto di teste rasate e bravi padri di famiglia bastonatori venga a presentare il conto anche a loro.

Pubblicato il: 26.05.08
Modificato il: 26.05.08 alle ore 8.34   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Com’è triste Chiaiano
Inserito da: Admin - Giugno 01, 2008, 04:11:30 pm
Com’è triste Chiaiano

Antonio Padellaro


Ora, onestamente, aprireste una discarica in un luogo dove si raccolgono le più belle ciliege di tutta la Campania? Potremmo chiudere qui prima ancora di cominciare, ma è giusto che il lettore sappia che all’inizio di questo nostro breve viaggio la domanda era un’altra, e cioé: come è possibile che la nostra repubblica rischi di morire soffocata dai rifiuti?

Lungo la via campana la rotonda Titanic con la prua di cemento scuro, decoro sgraziato di un indecoroso paesaggio ci pone davanti a un bivio. Di là Napoli. Di qua Chiaiano. Di qua i tronchi d’albero di traverso sull’asfalto (giusto lo spazio per i ceffi sui motorini che zigzagano guardinghi)suggeriscono che sarebbe meglio proseguire. Di là lo Stato, i gipponi della celere parcheggiati a debita distanza, le divise slacciate per il caldo polveroso, gli scudi e i manganelli non in vista, lo sguardo sui resti calcinati della sommossa sospesa (e il timore di una nuova azione di forza che vorrebbe dire infilarsi in un budello senza uscita). Sì, lo Stato che è finalmente tornato, come da giusto plauso degli autorevoli editorialisti per il decisionismo del nuovo governo. Ma che presto potrebbe ripensarci a sentire gli esperti nominati dalle amministrazioni comunali e dai comitati di lotta poiché «non ci sarebbero le condizioni per realizzare una discarica che rispetti le normative europee».

Se ci è concesso un punto di vista guardando le cose dal ponte sgarrupato del Titanic saremmo propensi a consigliare di lasciar perdere. Siamo anche noi con lo Stato, ci mancherebbe altro e il tanfo della monnezza fitta e uniforme, solida e umida che da ore ci accompagna verso sud accresce il senso interiore di catastrofe.

Cosa starà fermentando dentro i baccelli di plastica azzurrina? E la salute dei bambini? E quanto ancora a milioni di persone si potrà chiedere di sopportare una tragedia che non ha uguali tra le pur tante e significative brutture di questo mondo? Come non gridare basta? Come non pretendere che da qualche parte questo schifo venga ficcato? Poi però è come se un sentore più profondo dicesse: attenti che qui sotto il Titanic di Chiaiano, proprio sotto i nostri piedi forse c’è il grande buco nero dell’Italia. L’epicentro dell’abbandono e del rancore («vi accorgete di noi solo per scaricarci la vostra merda») pronto a inghiottire con le tonnelate di spazzatura la nostra buona e giusta voglia di legalità, sicurezza, normalità, pulizia, futuro, senso dello Stato. Perciò, arrivati qui, già a un primo sguardo temiamo che questo sia il posto sbagliato nel momento peggiore.

Un’ora e mezza dal centro di Roma. Uscita dell’autostrada Capua, «città d’arte e di studi». Verrebbe da dire: per ora tutto bene come quel tale caduto dal trentesimo piano giunto a metà del tragitto. Edifici sventrati tra ginestre e campi coltivati. Inevitabilmente, collinette di spazzatura ai crocevia. Sui muri i manifesti di Gomorra stasera al Drive-in. A Casal di Principe nenanche un sacchetto per strada (ma non penseremo per questo che nella camorra c’è qualcosa di buono). Poi Aversa, Giugliano, Marano. «Conurbazione ininterrotta nella regione più popolosa del mondo; megalopoli per la speculazione schifosa di una classe dirigente che non sapeva fare altro che costruire un palazzo dietro l’altro, senza servizi, senza strade; e che si aspettavano? che tutta questa gente buttata in vicoli e favelas schifose si mettesse a fare la raccolta differenziata, come bravi americani nelle loro casette ben costruite?» (Raffaele La Capria, «Il Foglio», 27 maggio).

A Giugliano in Campania, dieci chilometri di insegne nella più grande concentrazione dell’industria tessile parallela (clandestina) raccontata da Saviano. Colossale esposizione di abiti da sposa a cielo aperto. L’industria globale del matrimonio per tutte le tasche. In vendita perfino lo sfizio di un bianco cocchio nuziale. Poi i centri commerciali che non finiscono mai. Poi il mercato ortofrutticolo. Poi signore e signori 4 milioni di ecoballe che occupano un’area di 3 milioni e mezzo di metri cubi. Accatastate e ricoperte da minacciosi teloni neri. Intorno decine di tralicci e in alto i cavi dell’alta tensione. Una scintilla e qui prende fuoco tutto. Una spettacolare catastrofe di fumi scuri e diossina. Ma da queste parti parlarne è da iettatori.

Il quartiere di Chiaiano fa parte dell’ottava municipalità del Comune di Napoli. Con circa 23mila residenti confina a nord con il comune di Marano di Napoli, a ovest con il quartiere Pianura, a sud con il quartiere Arenella, a est con i quartieri Piscinola e San Carlo all’Arena. Da piazza Titanic comincia via Cupa del Cane. Tende dei comitati, una piccola folla. Troupe televisiva raccoglie dichiarazioni. Smontata la prima barricata di cassonetti saldati a catene e filo spinato restano sul percorso barricate come di avvertimento: carcasse di auto, cataste di legno, reti metalliche, materassi sfondati. È la strada di un quartiere a forte densità abitativa. Palazzine di sette piani. Panni stesi. Massaie con la sporta. Un bar. Un alimentari. Siamo a poche centinaia di metri dalla grande cava indicata come futura discarica, il quadrilatero di tufo che abbiamo visto infinte volte nei tg. Altra domanda: ve ne state tranquilli a casa vostra poi un giorno lo Stato ritorna decide che la monnezza è toccata a voi insieme al tanfo, al pericolo concreto di brutte malattie e allo sferragliare incessante, su e giù, giorno e notte dei camion dei rifiuti. Per caso non è che vi arrabbiate un po’?

I muri di Chiaiano mettono paura. Scritte su giornalisti venduti. E su politici condannati a morte. I nomi di Bassolino e Jervolino nel tazebao fatto col pennarello. Cupe profezie : «Non sarà il Vesuvio a distruggere Napoli ma Chiaiano». Viene in mente un articolo di Adriano Sofri, qualche giorno fa su «Repubblica», che collegava la sconfitta elettorale del 13 aprile con il «rigetto pressoché viscerale, esistenziale della classe dirigente di sinistra, che alla maggioranza degli italiani ha finito per apparire come un corpo estraneo, da espellere, sul quale sfogarsi e trarre vendetta». Se questa espulsione c’è stata quanto hanno pesato le immagini dello stupro di Napoli e della Campania?

Da via Cupa del Cane parte un sentiero che conduce alle tredici cave di un parco di 540 ettari, la Selva di Chiaiano, dieci dei quali per la discarica, altri trenta occupati dalle cave abusive (sembra) di alcuni camorristi. «La selva di Chiaiano», abbiamo letto ieri sul «Sole 24ore» organo non certo delle teste calde, «ti inghiotte inconsapevolmente. La boscaglia di castagni, vigne, ciliegi e pioppi è così fitta che si fatica a scorgere il cielo. È come un viaggio indietro nel tempo, un salto nella terra grassa della Campania borbonica». La Campania Felix, pianeggiante e fertilissima, ora un grande ventre butterato da cemento e discariche. Torniamo alla domanda iniziale. Come può venire in mente a qualcuno di lordare quel poco che si è salvato? Conosciamo l’obiezione. Tutte le popolazioni possono invocare gli stessi buoni motivi di questa gente. Se diamo retta a tutte le pur legittime proteste nel Napoletano non si potrà mai aprire una discarica? Conoscete la controbiezione. Come è stato possibile non pensarci prima?

Nel frattempo escono i verbali horror dell’inchiesta sulla cattiva gestione della crisi dei rifiuti («La discarica ormai è piena di liquido se quella roba sale sarà come un Vajont»). Nel fattempo anche Berlusconi, come lo Stato, torna a Napoli e poi riparte. Nel frattempo domenica a Chiaiano la sagra delle cerase si farà comunque.

(Tornando a Roma ripenso a un racconto di Dino Buzzati, «Il crollo della Baliverna». Un uomo si aggrappa alla finestra di una malridotta costruzione adibita a ricovero di zingari, senzatetto e vagabondi. Ma viene giù tutto).

Pubblicato il: 31.05.08
Modificato il: 31.05.08 alle ore 15.16   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Stranieri di governo
Inserito da: Admin - Giugno 04, 2008, 12:08:17 am
Stranieri di governo

Antonio Padellaro


Eravamo presenti con un nostro ambasciatore, dice Roberto Calderoli piccato per le polemiche sull’assenza dei ministri della Lega alle celebrazioni del 2 giugno. Dichiarazione che appare tremendamente onesta. Perché mai, infatti, l’unità nazionale e repubblicana dovrebbe essere celebrata da chi a quella stessa nazione e repubblica chiamata Italia non intende appartenere avendone fondata un’altra a cui ha dato il nome di Padania? Concetto fortissimamente ribadito con i giuramenti di fedeltà padana, le sessioni del parlamento padano, le scuole padane e adesso anche la proposta di un esercito padano munito di artiglieria. Senza contare le continue minacce di sollevazione armata (Bossi), i ripetuti oltraggi al tricolore e il rifiuto d’intonare l’inno di Mameli coperto da un allegro motivetto, sempre padano, dal titolo «chi non salta italiano è». In questo quadro di totale estraneità, ostilità e separazione appare del tutto conseguente l’invio alla parata dei Fori Imperiali di un ambasciatore padano, provvisoriamente vicepresidente del gruppo al Senato. Che sull’esempio delle altre rappresentanze diplomatiche, almeno, non ha cercato di fare della bandiera italiana un uso igienico corporale. A questo punto di qualcosa d’altro dovremmo sorprenderci. Come sia possibile che l’intero popolo italiano debba essere governato, unico caso che si conosca, da ministri appartenenti a un’entità che si considera straniera in patria. A cominciare da un ministro dell’Interno che considerando sconveniente passare in rassegna i reparti della Polizia di Stato a cui dovrebbe sovrintendere, preferisce restarsene con le camicie verdi a Varese. Un comportamento ingiurioso verso le istituzioni e proprio nei giorni in cui il presidente della Repubblica lancia l’allarme sui pericoli del ribellismo e della regressione civile. Ha ragione l’ex ministro Parisi: ecco cosa ne è stato dell’unita della nazione a furia di considerare la Lega un fenomeno goliardico con cui dialogare, a furia di chiudere gli occhi e di tapparsi le orecchie.

Pubblicato il: 03.06.08
Modificato il: 03.06.08 alle ore 12.54   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Piazza opposizione
Inserito da: Admin - Giugno 21, 2008, 11:23:05 pm
Piazza opposizione

Antonio Padellaro


Ci giungono congratulazioni insincere: sarete contenti, dicono, adesso anche Veltroni vuole portare l’opposizione in piazza. Come dire: i soliti girotondini. Senza dubbio dopo la sconfitta del 13 aprile e il ritorno di Berlusconi, come prima e peggio di prima, l’Unità non ha smesso di chiedere al Pd di tornare a parlare alla sua gente, per rincuorarla e farla sentire meno sola. Lo ha scritto tante volte Furio Colombo. Lo ha chiesto, proprio ieri, Paolo Flores d’Arcais con una lettera aperta a Walter Veltroni dal titolo (guarda caso): «Torniamo in piazza». Lo ha sostenuto pochi giorni fa il direttore di questo giornale proponendo al leader del Pd una grande offensiva nazionale sul lavoro negato, sullo scandalo dei salari più bassi d’Europa, sulla vergogna senza fine delle morti bianche. Ma già sentiamo la solita parodia preventiva ridurre tutto alle ubbie di qualche dissociato, incurante dell’invocazione «Silvio, Silvio» che inarrestabile si alza dal Paese.

Torneremo sull’argomento tra un attimo. Prima però una fotografia su questa assemblea nazionale del Pd preceduta da una vigilia movimentata. Si temevano tante cose. La guerra delle correnti. L’isolamento di Veltroni. E c’è chi ipotizzava che la resa dei conti interna avviasse un triste ritorno al passato, con gli ex diesse da una parte e gli ex margheriti dall’altra. Sullo sfondo, il disincanto della base e la fuga di massa nell’astensionismo (vedi elezioni siciliane). Non è andata così, fortunatamente.

E se anche l’umore complessivo della platea non era certo raggiante (come dimostra la presenza di meno della metà dei delegati) c’è da dire che Veltroni esce dalla Nuova Fiera di Roma più rinfrancato. E questo, a maggior ragione, vale per l’intero Pd. A parte le attese critiche di Arturo Parisi sulla «nave piena di falle», l’intero partito (D’Alema compreso) sembra avere alla fine condiviso la strategia veltroniana riassumibile in tre punti. Primo: sulla natura riformista del Pd e sull’andare da soli non si torna indietro. Secondo: basta col sentirsi ex di qualcosa anche se manca ancora quel famoso radicamento nel territorio che non significa aprire qualche nuova sede ma dare risposte vere, concrete ai tanti che dicono:”A voi non interessa niente di me, dei miei problemi”. Terzo: il Pd voleva competere con la maggioranza, scontrarsi a viso aperto sui programmi di governo e allo stesso tempo convergere sui valori costituzionali; ma per colpa di Berlusconi che cerca solo la rissa del tutto incapace di separare l’interesse personale da quello del Paese tutto rischia di precipitare nella conflittualità permanente.

Del resto, l’elenco degli strappi “ad personam” è impressionante. Emendamento salva Rete 4. Limiti alle intercettazioni e alla libertà di stampa. Norme per fermare il processo Mills. Ricusazione del magistrato che dovrebbe giudicare il premier. Norma blocca processi. Riproposizione del lodo Schifani. Guerra all’Europa. Guerra ai magistrati. Guerra all’opposizione. Questo in appena due mesi. E nei prossimi cinque anni questo signore come ridurrà la nostra povera democrazia?

Qui torniamo all’opposizione in piazza. E ritorniamo al 14 settembre 2002. Lo ha ricordato Piero Fassino che anche dopo la sconfitta del 2001 trascorse un anno prima che il centrosinistra riuscisse a reagire. E infatti quella opposizione si riprese a tal punto da vincere dal 2002 in poi tutte le elezioni amministrative ed europee fino alla risicata vittoria del 2006. Molti se ne sono dimenticati ma sei anni fa in quel sabato di un caldo settembre piazza San Giovanni a Roma straboccava di gente. I giornali parlarono di mezzo milione di persone. Una moltitudine di girotondini eccitati col superattico e l’ombrellone a Capalbio? No, cittadini normali, famiglie intere, persone reali con i problemi di tutti i giorni e una domanda irrisolta di giustizia. Protestare per una situazione subita come ingiusta, non è una scelta politica di destra o di sinistra. È una reazione umana, naturale anche se difficile da comprendere nella logica di un mondo capovolto, scrivemmo allora.

Sei anni dopo ci ritroviamo al punto di partenza. Forse non c’è paese al mondo che vive una simile coazione a ripetere. Ma questa volta, se possibile, è ancora peggio. Perché in più, oltre all’arbitrio, al sopruso e alla legge del più forte c’è qualcosa che la nostra pur tormentata storia repubblicana non aveva mai conosciuto: la militarizzazione del senso comune, la persecuzione degli immigrati, il carcere per i giornalisti.

Per le tante ragioni che sappiamo non sarà facile riempire di nuovo una piazza San Giovanni. Però bisognerà prepararla bene questa chiamata a raccolta degli italiani e il prossimo autunno appare il periodo giusto. Antonio Di Pietro dice che no, che va fatta subito e ci ricorda Achille Campanile e la surreale gara di matematica dove ad ogni numero iperbolico di un concorrente l’altro rispondeva sempre: più uno. La reazione scomposta di Berlusconi dimostra che l’opposizione più dura del Pd ha colto nel segno. È troppo chiedere di non dividersi anche quando si è d’accordo?
apadellaro@unita.it

Pubblicato il: 21.06.08
Modificato il: 21.06.08 alle ore 8.15   
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Titolo: Antonio PADELLARO - La favola del Cavaliere buono
Inserito da: Admin - Giugno 26, 2008, 03:38:11 pm
La favola del Cavaliere buono

Antonio Padellaro


Noi de l´Unità non abbiamo mai creduto alla favola del cavaliere diventato buono semplicemente perché conserviamo una certa memoria del passato mentre sulla redenzione della natura umana abbiamo le nostre opinioni.

Lo stesso giubilo per le mutate sembianze del lupo in agnello lo ascoltammo nel lontano ‘94 quando bastò che il novello premier rendesse omaggio alla statura politica di un esponente dell´opposizione come Napolitano perché si sciogliessero ditirambi sulla clemenza del vincitore e l´avvento di una nuova feconda stagione di riforme.

Di quanto aguzzi fossero i denti dell´agnello si rese poi conto l´allora presidente Scalfaro quando osò rifiutargli un nuovo incarico di governo dopo lo strappo di Bossi.

Nel 2001 trascorsero sei mesi buoni prima che il centrosinistra rintronato, tanto per cambiare, dalla batosta elettorale si accorgesse che l´uomo di Arcore era tornato a palazzo Chigi soprattutto per sistemare certe sue pendenze con la giustizia. E, infatti, quando l´opposizione si decise finalmente a farla, ricominciò a vincere le elezioni mentre le vedove del dialogo gemevano che oddio non si può dire sempre no. Per carità di patria meglio dimenticare le festose celebrazioni sulla miracolosa trasformazione del premier dai toni finalmente moderati e dallo stile finalmente da statista che negli ultimi due mesi hanno impreziosito le rassegne stampa. Lodi sperticate e paragoni arditi con De Gasperi, Moro e altri consimili padri della patria. Manifestazioni di giubilo sul nuovo clima politico fatte proprie perfino dal Papa. E, naturalmente, favorevoli presagi sulla nuova feconda stagione di dialogo. Guai a dissentire, e su chi in solitudine tentava di spiegare il rovescio della medaglia della presunta pacificazione, e cioé l´accettazione del peggio, poteva arrivare l´accusa più grave di questi tempi, quella di antiberlusconismo preconcetto e sorpassato.

Berlusconi resta Berlusconi, peggiorato se possibile dagli anni e dalla crescente sindrome da onnipotenza. E chi, malgrado tutto, continua a meravigliarsi per i suoi insulti sanguinosi alla magistratura, per le sue leggi personali e in barba alla costituzione scritte dai suoi famigli nominati ministri, per le sue crisi di rabbia da piccolo duce che non ammette obiezioni, dimostra una pervicace e insopprimibile vocazione alla sconfitta. Da qui all´eternità.

Pubblicato il: 26.06.08
Modificato il: 26.06.08 alle ore 12.13   
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Titolo: Antonio PADELLARO - La fine del Parlamento
Inserito da: Admin - Giugno 28, 2008, 06:04:19 pm
La fine del Parlamento

Antonio Padellaro


In un momento (quanto mai prezioso) di sincerità Silvio Berlusconi ha illustrato la funzione dei «suoi» parlamentari a Montecitorio e a palazzo Madama: quattro o cinque teste pensanti, e tutti gli altri addetti a premere i pulsanti. Si era in campagna elettorale e forse neppure da unto del signore egli avrebbe immaginato che il voto degli italiani, rinforzato dal porcellum, gli avrebbe consegnato una sontuosa maggioranza di 54 senatori e di 58 deputati. Tutti nominati dall’alto. Tutti riconoscenti. Tutti allineati e coperti. E infatti, adesso, il Parlamento funziona come un orologio svizzero.

Bastano pochi minuti e il Consiglio dei ministri approva per acclamazione i desiderata del presidente-proprietario, confezionati in forma di legge dagli avvocati e consulenti a libro paga. Dopodiché il ministro che recita la parte del proponente (in genere Alfano) illustra alla stampa riunita lo spirito della norma augurandosi che l’opposizione non faccia mancare il suo apporto (peraltro superfluo). E se invece l’opposizione sorda ai richiami del Paese rifiuta la generosa offerta di dialogo, pazienza. Poche settimane e con apposito calendario predisposto dalla maggioranza la legge desiderata diventa tale. Merito degli addetti alle pulsantiere, con il supporto dei «pianisti» che votano per due (non ce n’è bisogno ma è la forza dell’abitudine). Tutto questo con il controllo ferreo delle commissioni. Mentre vengono frapposti sempre nuovi ostacoli al diritto della minoranza di presiedere gli organismi di garanzia, a cominciare dalla vigilanza Rai.

È andata così per la legge cosiddetta sulla sicurezza e per il provvedimento blocca processi e salva-premier. Andrà così, siamone certi, per il lodo Schifani bis, per le impronte ai bambini rom, per la finanziaria di Robin Hood-Tremonti, per la controriforma Sacconi sulle morti bianche e per ogni altra esigenza o capriccio della real casa. Con la Lega può capitare qualche intoppo, come l’aiutino a «Rete4», tv di famiglia. Una telefonata tra Silvio e Umberto e il problema è risolto. Certo, non tutto può passare liscio trattandosi sovente di leggi incostituzionali o scritte con i piedi o contrarie, oltre che alla pubblica decenza alla normativa europea. Fortunatamente siamo ancora in una democrazia dove agiscono Corte costituzionale, Csm e tutte le altre istituzioni di salvaguardia. E c’è soprattutto la garanzia del Quirinale. Sono impedimenti che a loro naturalmente non piacciono ma avranno tutto il tempo per porvi rimedio. Già parlano di «riforma» del Csm. E cresce l’insofferenza dei ministri padani verso l’Europa che protesta sdegnata per le nuove leggi razziali.

Mai nella storia repubblicana si era assistito a una tale umiliazione del potere legislativo a cui si cerca di togliere ogni autonomia di giudizio.

L’opposizione, inutile dirlo, non si trova in una situazione semplice. All’inizio aveva sperato di contenere con la formula del dialogo l’aggressività dei vincitori. Molto presto (o troppo tardi) ha compreso però che per Berlusconi il dialogo è un altro modo per farsi gli affari suoi. E così mentre egli cerca di trasformare il Parlamento nella sua bottega l’opposizione si è fatta in tre. Quella del no (Di Pietro) e quella del forse (Casini) unite entrambe da una visione per così dire tattica. Spetta però al Pd, per dimensione e peso politico, elaborare una strategia della opposizione che determini una risposta forte alla dittatura della maggioranza. Non lo sterile aventinismo e neppure il lento sfibrarsi del giorno dopo giorno alla ricerca di accordi mediocri. La fine del Parlamento come luogo di mediazione e del bene comune deve diventare la questione nazionale su cui tornare a coinvolgere i tanti che non si sono arresi all’apatia politica del tanto non c’è più niente da fare e lasciamo che decidano loro. I giornali già parlano di una nuova stretta di vite, di un blitz guidato da Gianfranco Fini per ottenere alla Camera il contingentamento dei tempi di discussione, oggi possibile solo al Senato. Davvero non c’è più tempo da perdere.

apadellaro@unita.it

Pubblicato il: 28.06.08
Modificato il: 28.06.08 alle ore 8.25   
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Titolo: Antonio PADELLARO - La sfida
Inserito da: Admin - Luglio 02, 2008, 06:36:38 pm
La sfida


Antonio Padellaro


Classico dei regimi autoritari è il proclamare una situazione d’emergenza per meglio procedere a misure restrittive della libertà dei cittadini. «Situazione d’emergenza», sono non a caso le parole usate ieri da Berlusconi per motivare l’immediata adozione del decreto legge sulle intercettazioni, al posto del più lento disegno di legge appena varato dal governo. Significa che se il governo lo decidesse oggi, già da domani la legge studiata per imbavagliare la stampa italiana e per mandare in galera magistrati e giornalisti, sarebbe operativa. Tutto questo per impedire che il contenuto di altre conversazioni, a quanto si dice fortemente compromettenti per il premier, vengano pubblicate dai giornali che ne sarebbero già in possesso. I requisiti di necessità e di urgenza richiesti per questo genere di provvedimento funzioneranno ancora una volta «ad personam» ma con gravissimi ricaschi sulle stesse garanzie democratiche. Dopo la legge salva premier e il lodo impunità di Alfano, dunque un altro colpo di mano che appare come una sfida aperta a Giorgio Napolitano. In un clima di continua prevaricazione del potere esecutivo nei confronti del potere legislativo e di quello giudiziario, il capo dello Stato deve fronteggiare le iniziative spesso anticostituzionali del piccolo duce. Arrivato al punto di spedirgli i presidenti delle camere, usati come dipendenti, per cercare di estorcergli, inutilmente, una dichiarazione contro i presunti sconfinamenti del Csm. Adesso l’annuncio del decreto suona come un’altra provocazione visto che era stato proprio Napolitano a chiedere che su materie così delicate il Parlamento potesse esprimersi senza diktat. Ma Berlusconi è ormai talmente senza freni da far temere nuove forzature nel caso, come tutti speriamo, il Quirinale gli frapponesse un nuovo no. Il «messaggio agli italiani» che domani il premier lancerà da una delle sue tv si annuncia tutt’altro che rassicurante.




Pubblicato il: 02.07.08
Modificato il: 02.07.08 alle ore 8.18   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Chi getta fango
Inserito da: Admin - Luglio 05, 2008, 04:52:54 pm
Chi getta fango

Antonio Padellaro


Se ci fosse ancora Claudio Rinaldi, grande giornalista, avrebbe già tolto la pelle a tutti gli ipocriti in livrea e moralisti un tanto al chilo che si stracciano le vesti e invocano punizioni esemplari per la violata privacy di Silvio Berlusconi. Ma Claudio non c’è più, scomparso ingiustamente un anno fa togliendoci un approdo autorevole e robusto di verità nel marasma in cui annaspiamo. Proverò lo stesso a immaginare cosa mi avrebbe detto, oggi, nella nostra immancabile chiacchierata di fronte alla denuncia del premier sul «fango»» che i soliti magistrati gli avrebbero gettato addosso. Lasciando perdere il consueto sondaggio sulla fiducia plebiscitaria degli italiani, neppure scalfita e anzi accresciuta dalle voci sulle conversazioni pornopolitiche del premier (ma allora perché negargliene la lettura?), a Claudio non sarebbe certamente sfuggito il doppio salto mortale del cavaliere. Che, protagonista assoluto di fangose conversazioni accusa gli altri di infangarlo pronto a sbranarli, come accade al povero agnello nella favole di Fedro (superior stabat lupus). Ma se questo è il medesimo Berlusconi che conosciamo da quindici anni forse lo sarebbe di meno, o con qualche problema di più, se il suo redditizio autovittimismo non si trovasse sempre davanti il tappeto di fiori stesogli dalla pletora di azzeccagarbugli volontari o a contratto. Perché ha ragione l’Espresso (che ha meritoriamente pubblicato le trascrizioni della Procura di Napoli, poi saccheggiate dall’intera stampa italiana senza storcere tanto il naso) nel segnalare che secondo la magistratura in quei dialoghi tra Berlusconi e Saccà non ci sono solo gossip o innocue raccomandazioni. Ci sono trattative per convincere parlamentari del centrosinistra a togliere il sostegno a Romano Prodi, in cambio di benefici economici diretti e di opportune “segnalazioni” di veline per questa o quella fiction. Non roba da poco. E ci sono anche profili che attengono al conflitto d’interessi, con il top manager Rai che studia affari con l’azienda rivale Mediaset, il tutto bendetto da un componente dell’Autorità di controllo sulle comunicazioni. Di altre conversazioni privatissime nulla sappiamo se non ciò che il micidiale pettegolezzo collettivo ci va propinando perfino nei particolari più estremi. Noi non ci crediamo ma se, come ipotizza Di Pietro dando ascolto alle voci, da quelle intercettazioni risultasse che il presidente del consiglio avesse nominato ministro (o ministri) persona (o persone) per ragioni diverse da quelle politiche, la cosa potrebbe essere liquidata nella categoria del gossip? Anche Bill Clinton, nella torrida estate del ‘99, malgrado lo scandalo della giovane stagista Lewinsky, continuò ad essere considerato nei sondaggi come un buon presidente degli Stati Uniti. Ciononostante, una volta smascherato, non si sottrasse alla crocifissione quotidiana di media e avversari politici riconoscendo pubblicamente il suo errore e chiedendo scusa agli americani, oltre che alla sua famiglia. Ma in Italia, dove il mondo gira al rovescio è il premier impigliato in un’indagine sulla compravendita di senatori che pretende le pubbliche scuse. Mentre delle altre telefonate, vedrai caro Claudio, alla fine si farà un bel falò. Nessuno deve sapere.

Pubblicato il: 05.07.08
Modificato il: 05.07.08 alle ore 15.26   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Peccato!
Inserito da: Admin - Luglio 09, 2008, 11:40:52 pm
Peccato!

Antonio Padellaro


Se piazza Navona applaude Giorgio Napolitano e Beppe Grillo lo insulta, noi stiamo con la piazza e stiamo con il presidente della Repubblica.

Noi stiamo con Furio Colombo che ha dato una scossa a quella folla azzittita da troppe imbarazzanti volgarità ricordando quello che tutti volevamo sentire.
Che si era lì in tanti non per attaccare Veltroni o per deridere l’opposizione del Pd ma per protestare contro il governo dell’impunità e delle impronte digitali ai bambini rom.

Siamo con Moni Ovadia che ha detto: «noi stiamo qui per esserci», condensando in cinque parole un sentimento comune di non rassegnazione. Stiamo con Rita Borsellino, donna di ferro.

Stiamo con Andrea Camilleri e con le sue civilissime poesie incivili. È un vero peccato che Antonio Di Pietro non abbia capito che quella piazza chiedeva concordia e che l’aveva avuta nelle parole (anche sue) e nei toni e negli accenti, fino a quando una voce dall’aldilà non ha fatto piazza pulita di sentimenti e speranze sentenziando con un vaffanculo che era tutto inutile e che l’Italia era perduta per sempre.

Se inviti Grillo avrai Grillo.

Che non è il diavolo ma che persegue una sua personale profezia di sfascio e dissoluzione dalle cui rovine, figuriamoci, nascerà il nuovo e il giusto.

Cosa aveva a che fare questa apocalisse condita di oltraggi al Papa con una manifestazione di protesta contro il governo, resta un mistero.

Forse neanche Berlusconi aveva sperato in tanto: un girotondo che servisse alla causa del peggiore, la sua.

L’opposizione non è un pranzo di gala e forse ci voleva una piazza Navona per restituire la parola a una base lasciata troppo sola dopo la batosta elettorale. Ma l’opposizione non si costruisce né con le scorciatoie e né mettendo insieme tutto e il contrario di tutto, magari per togliere qualche voto al vicino di banco.

L’opposizione è soprattutto una scommessa sul futuro. Speriamo, ieri, di non averla perduta.

Pubblicato il: 09.07.08
Modificato il: 09.07.08 alle ore 13.12   
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Titolo: Europa contro L'Unità , Padellaro: attacco livoroso
Inserito da: Admin - Luglio 11, 2008, 04:21:43 pm
Europa contro L'Unità , Padellaro: attacco livoroso



Il direttore Antonio Padellaro «Un'altra offesa del tutto gratuita.

Questo triste compito se lo assume adesso il direttore di un quotidiano che reca sotto la testata la dicitura: Partito Democratico.
I tanti che in quello stesso Partito Democratico ricoprono incarichi di responsabilità scrivendo spesso sulle pagine di un giornale che stando alla prosa menichinesca spara idiozie e non ha il senso del nome che porta, non hanno nulla da dire?». È siglata con le inziali del direttore, Antonio Padellaro, la durissima nota dell'Unità che replica all'editoriale di oggi di 'Europà rilevando: «Ora, nessun organo di stampa mai, neppure tra quelli che a destra in questi anni più duramente ci hanno avversato, si era spinto a mettere sullo stesso piano i giornalisti dell'Unita» con i fiancheggiatori del terrorismo. Giornalisti dell'Unita« irrisi e descritti come 'rapiti dalla passione per i manifestanti».

«Stefano Menichini, il primo (e per ora unico) direttore al mondo che ha proposto la chiusura del giornale che dirige ('Europà) torna a fare parlare di sè sul giornale che ancora non è riuscito a chiudere. Purtroppo, questa volta, con la spericolatezza che gli è abituale - scrive Padellaro - supera i confini della satira per inoltrarsi sulle scivolose vie della diffamazione con un articolo di prima pagina anonimo e per questo a lui ascrivibile. Scriviamo queste righe con una certa riluttanza perchè conosciamo il suo abituale giochino di spararla grossa per raccattare qualche citazione qua e là.

Pazienza, ognuno fa quello che può. Ma non è possibile tacere di fronte a chi con un attacco livoroso e sconclusionato lungo 109 righe si perita di illustrare al nuovo proprietario dell»Unita« il suo personale piano editoriale per 'recuperarè alla testata fondata da Antonio Gramsci 'un senso di sè più consono al nome che si portà (e qui siamo di nuovo in piena satira)».

«Ma dove Menichini supera il limite - prosegue - è quando paragona l»Unita« 'ai giornali della sinistra extraparlamentare che negli anni '70, puntualmente, dopo ogni corteo finito a pistolettate per colpa dell'Autonomia, si rammaricavano per l'occasione persa dal movimento per colpa di pochì.
Per poi osservare, bontà sua, che 'oggi fortunatamente le pistole tacciono e ci sono solo i comici a sparare idiozie, ma il senso è lo stesso».

E le prese di posizione di esponenti del Pd, e non solo, sono arrivate.

Franco Monaco (Pd) esorta il direttore dell'Unità, Antonio Padellaro a tenere il punto e a cercare di aiutare il partito guidato da Walter Veltroni. «Tenga il punto, caro Padellaro. Non si faccia condizionare - dice Monaco - da chi l'accusa di flirtare con l'estremismo populista. Per quattro buone ragioni: 1) nell'antiberlusconismo non c'è nulla di ideologico perchè gli strappi alla legalità costituzionale sono purtroppo concretissimi e attuali; 2) la difesa della Costituzione e della dignità delle istituzioni è battaglia da moderati, liberali, riformisti: estremista e giacobino è semmai chi calpesta ogni regola; 3) abbiamo bisogno di un'opposizione energica e unitaria con e oltre il PD, peraltro in coerenza con gli impegni elettorali, non l'opposizione 'fighettà dei promiscui salotti romani o della spiaggia di Capalbio; 4) guai se anche l'Unità, in coerenza con la suam mtradizione popolare, rinunciasse ad avere un rapporto reale con le persone reali del nostro campo, senza puzza al naso. Già il PD - conclude Monaco - per dirla con un eufemismo, ha problemi di comunicazione. L'Unità lo può e lo deve aiutare».

Giuseppe Giulietti, portavoce di Articolo 21 e Vincenzo Vita, senatore del Pd, esprimono solidarietà ai giornalisti e al direttore dell'Unità Antonio Padellaro, «attaccati in maniera francamente incomprensibile dal direttore di Europa».

«Intendiamoci. Critiche, polemiche, dialettiche anche accese - dicono - sono sempre legittime. Tuttavia in questo caso pare essere valicata quella sottile linea d'ombra che separa tutto ciò dall'eccesso fazioso. Non è un bello spettacolo, tanto più che esiste una contiguità politica e culturale che costituisce un valore cui riferirsi».


Pubblicato il: 10.07.08
Modificato il: 10.07.08 alle ore 21.42   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Le Pistole di Menichini
Inserito da: Admin - Luglio 11, 2008, 10:26:21 pm
Le Pistole di Menichini

Antonio Padellaro


Stefano Menichini, il primo (e per ora unico) direttore al mondo che ha proposto la chiusura del giornale che dirige («Europa») torna a fare parlare di sé sul giornale che ancora non è riuscito a chiudere. Purtroppo, questa volta, con la spericolatezza che gli è abituale supera i confini della satira per inoltrarsi sulle scivolose vie della diffamazione con un articolo di prima pagina anonimo e per questo a lui ascrivibile. Scriviamo queste righe con una certa riluttanza perché conosciamo il suo abituale giochino di spararla grossa per raccattare qualche citazione qua e là. Pazienza, ognuno fa quello che può. Ma non è possibile tacere di fronte a chi, con un attacco livoroso e sconclusionato lungo 109 righe, si perita di illustrare al nuovo proprietario de «l’Unità» il suo personale piano editoriale per «recuperare» alla testata fondata da Antonio Gramsci «un senso di sé più consono al nome che si porta» (e qui siamo di nuovo in piena satira). Ma dove Menichini supera il limite è quando paragona «l’Unità» «ai giornali della sinistra extraparlamentare che negli anni 70, puntualmente, dopo ogni corteo finito a pistolettate per colpa dell’Autonomia, si rammaricavano per l’occasione persa dal movimento per colpa di pochi».

Per poi osservare, bontà sua, che «oggi fortunatamente le pistole tacciono e ci sono solo i comici a sparare idiozie, ma il senso è lo stesso». Ora, nessun organo di stampa mai, neppure tra quelli che a destra in questi anni più duramente ci hanno avversato, si era spinto a mettere sullo stesso piano i giornalisti de «l’Unità» con i fiancheggiatori del terrorismo. Giornalisti de «l’Unità» tra l’altro irrisi e descritti come «rapiti dalla passione per i manifestanti». Un’altra offesa del tutto gratuita. Questo triste compito se lo assume adesso il direttore di un quotidiano che reca sotto la testata la dicitura: Partito Democratico. I tanti che in quello stesso Partito Democratico ricoprono incarichi di responsabilità scrivendo spesso sulle pagine di un giornale che stando alla prosa menichinesca spara idiozie e non ha il senso del nome che porta, non hanno nulla da dire?

Pubblicato il: 11.07.08
Modificato il: 11.07.08 alle ore 13.19   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Il sistema
Inserito da: Admin - Luglio 15, 2008, 10:17:13 pm
Il sistema

Antonio Padellaro


Stupore e amarezza. Condividiamo i sentimenti espressi da Walter Veltroni alla notizia dell’arresto del presidente della Regione Abruzzo e di altri assessori e funzionari. Stupore perché si stenta a credere che Ottaviano Del Turco, esponente del Pd, nota figura del sindacato e della sinistra italiana abbia potuto intascare fior di mazzette, soldi della sanità pubblica, come il peggiore dei tangentari. Amarezza perché la procura pescarese, a cui il ministro ombra della giustizia Tenaglia ha riconosciuto massima attenzione e rispetto per i diritti delle persone coinvolte, parla di accuse fondate su prove schiaccianti. Mentre tutti restiamo in attesa di saperne di più e di saperlo in fretta, l’unico ad avere certezze in materia è Silvio Berlusconi, pronto a scagliarsi contro i teoremi della magistratura quasi sempre, a suo dire, infondati. Il premier agisce con la evidente finalità di gettare discredito sull’azione dei giudici e di coinvolgere l’opposizione nella sua personale ossessione: la disarticolazione del potere giudiziario e la sua sottomissione agli ordini del governo. Vedete, ora le toghe se la prendono con voi, è la sua velenosa solidarietà al Pd per la comune guerra santa. Messaggio subito respinto al mittente anche se resta intatto sul terreno il problema con il quale da oggi lo stesso Pd si trova drammaticamente a fare i conti. Bisognerà infatti prendere atto che, al di là del caso Del Turco, la corruzione della politica e della pubblica amministrazione è una metastasi trasversale, un sistema che lungi dall’essere stato debellato all’epoca di Mani Pulite si è sviluppato in profondità giovandosi di nuove tecniche criminali oltre che naturalmente della martellante guerra contro la legalità. Ora che il bubbone è scoppiato bisognerà parlarne seriamente, magari sottraendo un po’ di spazio alle dispute sul sistema tedesco o spagnolo.

Pubblicato il: 15.07.08
Modificato il: 15.07.08 alle ore 8.41   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Quindici anni dopo
Inserito da: Admin - Luglio 20, 2008, 08:12:24 am
Quindici anni dopo

Antonio Padellaro


Forse dovremmo essere sinceramente grati al senatore Gasparri che ha definito una «cloaca» il Csm. Perché proveremo a spiegarlo partendo da un articolo pubblicato su Internazionale a firma Salvatore Aloïse, corrispondente della tv franco-tedesca Arte. Opportunamente il collega ci ricorda che giusto quindici anni fa, quando Silvio Berlusconi annunciò alla Stampa estera, a Roma, la sua discesa in campo, «Bill Clinton stava per completare il suo primo anno alla Casa Bianca; l’Unione Sovietica era finita da poco e in Russia Putin era ancora il vicesindaco di San Pietroburgo; Tony Blair era un giovane deputato laburista rampante; Internet era agli albori, le videocassette erano in splendida forma e i telefoni cellulari erano aggeggi pesanti e molto esclusivi». Possibile, si chiede Aloïse, che tutto sia cambiato e che solo in Italia tutto sia rimasto fermo? Possibile che il dibattito politico debba, ancora, concentrarsi su come ottenere l’immunità del premier? E debba, ancora, lasciare il passo ai problemi che affliggono l’intero paese come i tempi biblici della giustizia o l’arrancare delle famiglie per arrivare a fine mese o la perdita di competitività dell’economia o l’arretratezza della scuola?

Purtroppo, aggiungiamo noi, se in questo quindicennio l’Italia è sembrata paralizzata dal maleficio lo stesso forse non può dirsi per i protagonisti di questa che assomiglia tanto a una brutta favola. Protagonisti che invece sono cambiati ma, temiamo, in peggio.

Non parleremo, però, del «caimano» dalla spessa corazza e dalla sorprendente vitalità ma di chi, come noi, a volte si sente come estenuato, sfibrato, scoraggiato nel dovere fronteggiare una presenza che, lustro dopo lustro, si presenta in forma sempre più aggressiva e sempre più ostile. Nessuno spirito di resa ma quindici anni dopo l’avvento di Berlusconi e del berlusconismo lo stare all’opposizione - soprattutto quella che abbiamo dentro come sentimento di reazione all’ingiustizia e prepotenza - ci porta invariabilmente a ripercorrere gli stessi passi, a dire le stesse parole e a pensare gli stessi pensieri di allora. Anche l’avversario, si dirà, vive la stessa coazione a ripetere. Con la non piccola differenza che loro è il potere e loro sono le leggi.

La cronaca di questi giorni può spiegare meglio questo strano stato d’animo. Chiediamoci, per esempio, se piazza Navona è andata come è andata per una sorta di overdose dell’indignazione. Dieci o anche cinque anni fa era sufficiente raccontare le leggi vergogna per quello che sono. Ma oggi solo l’insulto e la deriva verbale sembrano, per alcuni, l’unica reazione possibile al regime soffocante. Quindici anni fa, ai tempi di Mani Pulite, la carcerazione di uomini politici con l’accusa di corruzione veniva salutata dal plauso dell’opinione pubblica, perfino davanti all’uso eccessivo delle manette. Cinque anni fa di manette se ne vedevano fortunatamente di meno, ma nei sondaggi d’opinione la popolarità della magistratura era sempre elevata. Oggi può capitare che un arresto eccellente susciti subito dubbi e perplessità. E anche quando la procura parla di prove schiaccianti ciò non basta a togliere di mezzo il sospetto che dietro possa esserci un qualche complotto. Intendiamoci, meglio così se la molla è quella della prudenza visto che in gioco c’è la dignità delle persone e non si distrugge una vita per un’indagine sbagliata. Ma è anche possibile che questo diverso atteggiamento nasca da una specie di assuefazione o peggio di rassegnazione rispetto al moltiplicarsi dei reati e alla prevalente impunità di chi delinque.

Su questo rischio ha scritto pagine memorabili Paolo Sylos Labini, grande economista e paladino della società civile di cui sentiamo forte la mancanza. A proposito di un diffuso e deteriore senso comune egli scriveva non troppo tempo fa che spesso gli italiani giustificano la disonestà sostenendo che non pochi manigoldi sono simpatici. Supposto che sia così, è giusto che dei «simpatici» manigoldi rendano la vita sociale ripugnante? Lui stesso, del resto, aveva sentito persone considerate per bene giustificare le loro malefatte con l’atroce formula del «così fan tutti», che implica la perpetuazione del malaffare. A questo punto il professore ricordava che era la stessa dichiarazione fatta nel Parlamento inglese dal primo ministro Walpole intorno al 1730, «qui ogni uomo ha un prezzo», durante il lungo periodo in cui l’Inghilterra era una paese profondamente corrotto, pantano da cui uscì attraverso lacrime e sangue.

E allora è strano che non essendoci più un Sylos Labini, a scuoterci dal torpore che ogni tanto ci assale ci pensino uomini di tutt’altra pasta come il capo dei senatori del Pdl Gasparri. Costui, un eroe dei nostri giorni, ha saputo saldare mirabilmente la lusinga verso il capo con lo stile squadrista che gli è congeniale.

Il Csm «cloaca» (il Consiglio Superiore della Magistratura presieduto, ricordiamolo, dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano) è la traduzione in un linguaggio primitivo delle celebre invettiva mussoliniana del parlamento ridotto a un bivacco di manipoli. Ogni epoca ha il fascista che si merita. A noi è capitato Gasparri che tuttavia ringraziamo per averci bruscamente ricordato che in Italia si sta combattendo una battaglia decisiva per la difesa della democrazia.

E che non lasceremo a metà, dovessimo metterci altri quindici anni.

Pubblicato il: 19.07.08
Modificato il: 19.07.08 alle ore 10.22   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Lezioni di giornalismo
Inserito da: Admin - Luglio 27, 2008, 12:21:31 am
Lezioni di giornalismo

Antonio Padellaro


Piero Fassino è un galantuomo. A dirlo non sono certe solidarietà pelose che gli sono piovute addosso. Lo dimostra la storia della sua vita politica e la stima da cui è unanimemente circondato. Punto. Il conto estero «Oak Fund, dove avevano la firma Fassino e Nicola Rossi», approdo di non meglio precisate tangenti è una mascalzonata firmata Giuliano Tavaroli. L’ex spione Telecom. Quello che dichiara tranquillamente di avere due verità, una per le interviste e una per il pm. E non aggiungiamo altro. Lasciamo da parte la geniale trovata di due esponenti del partito della Quercia che sottoscrivono un conto segreto chiamato in inglese, guarda caso, oak, quercia. Come è possibile che una dichiarazione che puzza di falso un miglio finisca stampata, titolata e richiamata in prima pagina senza verificarne minimamente l’attendibilità? Come è possibile che si sputtani così l’onorabilità e la dignità delle persone? Questo ha scritto Piero Fassino a la Repubblica ponendo un problema che va ben oltre il caso in questione e che riguarda prima di tutto il modo di fare informazione, vista la brutta aria che tira in questo paese. Per carità, non intendiamo impartire lezioni di giornalismo a nessuno (a differenza del collega autore dell’intervista all’ex spione che di lezioni ne impartisce eccome, come ben sa Marco Travaglio). Né c’interessa la consueta dietrologia che si è scatenata tra i divani di Montecitorio, con ricostruzioni cervellotiche su complotti orditi dalla Spectre tavarolesca per destabilizzare quel partito o quel leader. Una sola cosa, invece, ci preme segnalare.

Che dati i tempi calamitosi di cui sopra il sacrosanto diritto di informare i lettori (soprattutto se lo scandalo riguarda la produzione di dossier ricattatori) se non accompagnato dalle necessarie verifiche sull’attendibilità delle fonti e delle notizie sparate, rischia di produrre gravi effetti indesiderati.

Restiamo al caso Fassino. Non v’è chi non veda come il coinvolgimento nella storiaccia di un ministro ombra del Pd, ed ex segretario Ds, non faccia altro che portare acqua all’idea, becera, di una politica dove “sono tutti uguali”. Destra e sinistra. Maggioranza e opposizione. La storiaccia è falsa ma intanto lascia il segno (calunniate, qualcosa resterà...). Nel migliore dei casi si dirà: ecco la solita casta che bada solo ad alimentare se stessa. Nel peggiore, ne uscirà convalidata la tesi, cara ai berluscones e a Beppe Grillo, di una sinistra che non può ammantarsi di alcuna superiorità morale stando dentro agli affari esattamente come la destra. Tesi, intendiamoci, alla cui attendibilità una certa sinistra sanitaria ha, per esempio, dato il suo fattivo contributo. Ma chi di queste cose ne scrive deve avvalersi dall’indispensabile capacità di distinguere fatti e responsabilità, interrogandosi sulla storia delle persone e dei personaggi. Certo, fare giornalismo significa lavorare a una continua approssimazione della verità. Ma se il risultato di questa ricerca è quello di mettere Tavaroli e Fassino sullo stesso piano, o peggio ancora di permettere a uno come Tavaroli di diffamare Fassino, allora c’è qualcosa che non funziona. La seconda domanda riguarda la Casta. Non quella dei politici. E neppure quella dei sindacalisti. O dei giornalisti. Come mai, ci si dovrebbe chiedere, visto che il genere editorialmente tira nessuno ha mai pensato di scrivere un bel volume sulla casta delle caste: quella degli imprenditori? Se restiamo alla questione Telecom e ai succulenti intrecci ad essa connessi, riguardo ai nomi e ai cognomi non c’è che l’imbarazzo della scelta. Oltre a Tronchetti, un bravo cronista che non si affidasse solo ai tavaroli di turno potrebbbe sicuramente trovare notizie assai interessanti, naturalmente tutte da verificare, sul gotha dell’industria e della finanza. Scoprirebbe però che i più eminenti rappresentanti di quest’altra casta o sono proprietari o siedono nei consigli di amministrazione di grandi giornali. O di potenti case editrici. O di famose emittenti televisive. Chissà, forse per questo non si è ancora trovato un autore pronto a scrivere un sicuro best-seller sulla casta degli imprenditori? Chissà, forse è complicato trovare un editore che ne curi la stampa? Chissà, forse il nome di Piero Fassino è stato buttato lì perché non possiede un giornale?

La terza questione parte da un episodio rivelatore. L’applauso convinto e bipartisan tributato, giovedì scorso, dalla Camera a Fassino. Un gesto di solidarietà per l’ingiuria subita a cui naturalmente ci associamo. Tra pochi giorni, però, giungerà all’esame di quella stessa aula il disegno di legge sulle intercettazioni. Che, come sappiamo, contiene pesanti e vistose limitazioni al diritto di cronaca dei giornali. Siamo convinti che il centrosinistra si batterà contro quelle norme liberticide. Ma in quell’applauso della maggioranza c’è parso anche di cogliere come un messaggio rivolto all’opposizione. Come dire: avete visto?, prima pubblicando le telefonate di Berlusconi hanno colpito noi e ora con i veleni di Tavaroli colpiscono voi; rendetevene conto, a questa stampa va messo un freno. Non sono solo parole che abbiamo immaginato. C’è chi sul serio ci vuole imbavagliare. Non rendiamogli il compito più facile.

P.S. Per aver osato rivolgere un rispettosissimo appello al presidente della Repubblica sul lodo Alfano sono stato duramente redarguito dal portavoce di Forza Italia, Capezzone, personaggio concitato ma simpatico. Gli sono sinceramente grato perché da radicale, libertario, liberale e liberista qual è ha evitato di denunciarmi per vilipendio al Capo dello Stato. La gentile senatrice del Pd Chiaromonte ha osservato che l’Unità non è più quella che dirigevano suo padre Gerardo o Emanuele Macaluso. Su Macaluso sono perfettamente d’accordo. Al collega Polito che sul Riformista intima: «lasciate in pace il Quirinale», chiediamo: perché altrimenti che succede? Infine, un particolare ringraziamento a due prestigiosi ex direttori de l’Unità per la severa ma giusta lezione di giornalismo che mi hanno voluto impartire. Il primo fu costretto alle dimissioni per aver pubblicato un falso documento dei servizi segreti sull’allora ministro Scotti. L’altro era direttore quando nel 2000 l’Unità ha cessato le pubblicazioni.

Pubblicato il: 26.07.08
Modificato il: 26.07.08 alle ore 9.53   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Parole di garanzia
Inserito da: Admin - Luglio 29, 2008, 06:44:42 pm
Parole di garanzia


Antonio Padellaro


Tutti coloro che hanno a cuore la libertà di stampa, oggi si sentono più garantiti dalle parole del presidente Napolitano. Lo scriviamo sicuri, questa volta, di non essere male interpretati anche perché il capo dello Stato non poteva essere più chiaro. Ai giornalisti che gli hanno consegnato il tradizionale Ventaglio e alle loro preoccupazioni sulle limitazioni della libertà d’informazione contenute nella legge Berlusconi sulle intercettazioni, Napolitano ha risposto in tre punti. Primo: citando la Corte Costituzionale ha ribadito che un corretto diritto di cronaca non può mirare a soddisfare «la mera curiosità voyeuristica» del pubblico ma deve occuparsi di fatti «oggettivamente rilevanti per la collettività». Secondo: che il rispetto di questo limite deve essere prima di tutto «liberamente» affidato alla sensibilità e deontologia degli organi di stampa. Terzo: che tali comportamenti corretti possono favorire l’adozione di leggi «misurate, equilibrate, rispettose di tutti i diritti in gioco». Dunque, un difficile ma indispensabile equilibrio tra diritto di cronaca e rispetto della dignità della persona. Entrambi principi scritti nella Costituzione che trovano nell’intervento del Quirinale la più autorevole difesa.

Pensiamo di non tirare la giacchetta presidenziale se notiamo, accanto all’appello contro il clima del muro contro muro (ma per colpa di chi?), due rilievi che la destra di governo farà bene a considerare seriamente. Troppi decreti e voti di fiducia (ma fu rimproverato anche al governo Prodi). Basta con le ingiurie contro i simboli della Repubblica. Difficilmente Bossi e la Lega potranno fare finta di non aver sentito. Infine, il Lodo Alfano. Napolitano ne rivendica la promulgazione. Ho agito, egli afferma, nel modo più meditato e motivato indipendentemente da sollecitazioni in qualsiasi senso. Ne prendiamo, rispettosamente, atto.

Pubblicato il: 29.07.08
Modificato il: 29.07.08 alle ore 8.16   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Una cena per Ingrid
Inserito da: Admin - Luglio 31, 2008, 03:08:16 pm
Una cena per Ingrid

Antonio Padellaro


Martedi sera ho potuto annunciare di persona a Jolanda e Astrid Betancourt che l’Unità intende proseguire la battaglia per l’assegnazione del premio Nobel per la pace alla loro figlia e sorella Ingrid Betancourt. Lo stesso impegno ribadito da Nicola Zingaretti e Mario Marazziti che, insieme ad altri amici, sulla terrazza di Palazzo Valentini hanno festeggiato le persone che più hanno sofferto e sperato per la vita di una donna diventata simbolo di coraggio e di giustizia. Zingaretti, presidente della Provincia di Roma e promotore dell’incontro, è un politico che crede sul serio al valore della testimonianza pubblica, soprattutto quando può sembrare inutile. È uno che con Veltroni sindaco di Roma di «fiaccolate» per la difesa dei diritti umani ne ha organizzate tante. Marazziti, che significa Comunità di Sant’Egidio, per la liberazione di Ingrid ha molto lavorato e molto pregato.

Ecco dunque che l’altra sera alcune strane persone che credono (sembra incredibile) alla politica come strumento di liberazione e di giustizia hanno fatto un altro sogno, anzi due. Nobel a Ingrid. Libertà per Aung San Suu Kyi. È sicuro: dalla Colombia alla Birmania ci sono degli italiani disposti a battersi per gli altri, e non a prendere le impronte ai bambini rom o a perseguitare gli immigrati. Ho consegnato a Jolanda e Astrid le copie de l’Unità con le interviste dei Nobel italiani per il Nobel a Ingrid, insieme alle centinaia di firme di adesione che ci sono giunte. «Grazie al vostro grande giornale», mi è stato detto.

Pubblicato il: 31.07.08
Modificato il: 31.07.08 alle ore 10.11   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Ve lo dà lui il dialogo
Inserito da: Admin - Agosto 03, 2008, 12:21:18 pm
Ve lo dà lui il dialogo


Antonio Padellaro


Bisogna dargliene atto. Silvio Berlusconi mantiene sempre le minacce che rivolge. Fresco di trionfo elettorale disse alla nostra Natalia Lombardo che era così arrabbiato con l’Unità che ci avrebbe fatto togliere il finanziamento pubblico. Ma no, stia tranquilla, era una battuta soggiunse poi con il sorriso da Caimano. Proprio in queste ore la promessa viene realizzata con un taglio micidiale, presupposto di certa chiusura per numerosi quotidiani quasi tutti di opposizione. Ai vertici del Pd aveva anche chiesto di darsi una regolata e che un giornale siffatto (il nostro) andava “dismesso”. Il Cavaliere non è stato ancora accontentato. Ma lui sa aspettare.

Sull’ultimo Espresso, Giampaolo Pansa sostiene, citando un D’Alema d’annata ’95 o ’96 che criminalizzare Berlusconi significa solo rafforzarlo. Pansa ricorda che sull’Espresso di allora lui, Rinaldi e il sottoscritto si divertivano a sbranare ogni settimana il Berlusca. Poi però aggiunge: «Con quale risultato? Berlusconi è più forte che mai ed è tornato per la terza volta a Palazzo Chigi». Osservazione interessante ma che ci sentiamo ripetere da una vita, da quando cioè l’uomo di Arcore ha cominciato a impadronirsi della politica italiana. La tesi è questa: contrastare Berlusconi e opporsi con decisione al suo uso privato del potere esecutivo e legislativo (a quello giudiziario ci penserà tra poco) è il modo migliore per non liberarcene mai. Come replicare? Forse solo invocando la controprova. Vorrei proporre a Pansa e ai tanti che nel Pd la pensano come lui qualche possibile titolo di una Unità finalmente non più faziosa.

Impronte ai bimbi Rom? «Luci e ombre dei provvedimenti sulla sicurezza». Il Lodo Alfano? «Una misura che può contribuire alla governabilità». La legge sulle intercettazioni che imbavaglia la libera stampa? «Un freno necessario alle continue violazioni della privacy».

Non è facile parodia. È l’intonazione usata dalla quasi totalità dei giornali italiani. È vero, noi, il manifesto e qualche altra voce isolata abbiamo invece calcato i toni. Accusato. Drammatizzato. E abbiamo fatto bene.

Caro Giampaolo, vorresti davvero farci credere che all’origine del quindicennio berlusconiano c’è la “criminalizzazione” operata da un paio di testate che fra poco, probabilmente, saranno messe nella condizione di non più nuocere? Noi, in combutta con la formidabile massa d’urto costituita da Rosy Bindi, Paolo Ferrero, Gianclaudio Bressa, Nichi Vendola? Vuoi davvero dirci che senza questo combinato disposto di insopportabile livore, Berlusconi da quel dì sarebbe tornato a occuparsi delle soubrette di Drive In?

Non viene il dubbio che sia esattamente il contrario, che l’eterno ritorno del Caimano si deve alla molle, incerta, indefinita strategia di molti suoi avversari che in tre lustri di storia nazionale, e mentre i nostri capelli (e le nostre speranze) imbiancavano non sono mai riusciti, per dirne una, a votargli contro uno straccio di legge sul conflitto di interessi? Non viene in mente che la causa delle nostre disgrazie non deriva da qualche titolo un po’ più strillato bensì dalla sottile tecnica suicida con la quale in soli diciotto mesi si è accoppato l’unico premier, Romano Prodi, che era riuscito per due volte di seguito a sloggiare da Palazzo Chigi quello di cui sopra? Non si è sfiorati dal dubbio che l’insopportabile nenia del dialogo immaginario abbia rappresentato per l’opposizione un pessimo freno a mano? Tanto più, e qui siamo davvero al paradosso, che lui il dialogo non lo vuole proprio perché non ne ha bisogno e, anzi, forse gli fa anche senso?

Tranquilli, ci penserà la sua maggioranza a sistemare questo povero Paese. Mentre altri passeranno il tempo ad almanaccare sui patti della crostata e della spigola. O a prendersela con gli ultimi giapponesi nella giungla perché non danno il loro fattivo contributo alla giusta pacificazione del Paese.

apadellaro@unita.it



Pubblicato il: 02.08.08
Modificato il: 02.08.08 alle ore 12.45   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Il Lodo Amato
Inserito da: Admin - Agosto 09, 2008, 06:28:05 pm
Il Lodo Amato

Antonio Padellaro


Per continuare a essere Giuliano Amato, il pluripremier e pluriministro Giuliano Amato non ha certo bisogno della presidenza della Commissione bipartisan voluta dal sindaco di Roma Alemanno per ridisegnare l’assetto istituzionale della capitale. Se ha accettato lo ha fatto sicuramente per dare un contributo alla soluzione dei problemi «nel segno del dialogo come chiede Napolitano».

Pochi sanno di riforma dello Stato come Franco Bassanini e ben si comprende che il ministro Calderoli lo abbia chiamato, accanto ad altri esperti del ramo, nel pensatoio sulla delegificazione che si riunisce il giovedì pomeriggio e a cui, dice il padrone di casa «non viene neppure pagato il caffè».

Il governatore della Campania Antonio Bassolino non firma l’iniziativa del Pd contro il governo Berlusconi perché, ha spiegato al «Riformista», «considera doverosa la collaborazione tra le diverse istituzioni della Repubblica italiana, al di là degli schieramenti politici che le governano». Anche lui va capito. Come potrebbe firmare un appello per salvare l’Italia dal governo con il quale collabora nell’interesse dei cittadini? E da quello stesso premier che, ramazza in mano, tanto si sta adoperando per occultare la vergogna dei rifiuti nelle strade di cui Bassolino è stato ritenuto (forse più dagli amici che dai nemici politici) il principale responsabile?

Questi esempi (ma altri se ne potrebbero fare) hanno il merito di rendere meno astratta, e meno stucchevole, la nota questione del dialogo. Ce la presentano nella realtà delle cose e dei comportamenti umani. Detto brutalmente: si può collaborare con l’avversario? Se cerchiamo una risposta politicamente corretta, eccola: si può e anzi si deve se l’obiettivo della collaborazione è il raggiungimento del bene comune. C’è però una seconda domanda. Collaborare con l’avversario non può comportare come spiacevole effetto collaterale il disorientamento del proprio elettorato di riferimento? Detto sempre brutalmente: che vi ho votato a fare se poi vi mettete d’accordo con quelli dello schieramento contrario?

Facciamo un altro esempio. Giovedì scorso, nelle stesse ore in cui Alemanno il bipartisan festeggiava il bipartisan Amato con un forbito: «Habemus presidentem», il capogruppo capitolino del Pd Marroni bocciava sonoramente i primi cento giorni dell’Alemanno sindaco della destra: «Molta demagogia, poche idee, niente cultura di governo, mobilità nel caos». Insomma, un vero disastro. Conosciamo l’obiezione. Un conto è il giudizio politico severo come è giusto che sia. Ma trovare un’identità di vedute su alcuni temi non è un male. Risparmiamo ai lettori gli altri sottilissimi distinguo escogitati per rendere più commestibile l’entente cordiale di Amato (non a caso universalmente conosciuto come il Dottor Sottile). Tralasciamo i sospetti di uno scambio di cortesie: l’accantonamento delle polemiche sul presunto buco di bilancio delle amministrazioni Rutelli e Veltroni come condizione per l’ingresso del prestigioso professore. E, forse, non servirà neppure ricordare come nella recente corsa al Campidoglio furono gli stessi vertici del Pd a rinfacciare il passato per così dire arrembante dello stesso Alemanno, e la croce celtica orgogliosamente esibita al collo ( non doveva essere un argomento decisivo se poi sindaco è diventato lui).

Vincono i messaggi semplificati e ciò che tutti avranno capito leggendo i giornali non sono le sottigliezze. Ma che Amato collabora con Alemanno. Bassanini con Calderoli. Bassolino con Berlusconi. Torniamo al punto: siamo sicuri che gli elettori del Pd la prenderanno bene? Si dirà: è il modello Sarkozy. Non è stato forse il tanto ammirato presidente francese a promuovere una commissione per modernizzare il paese con dentro il meglio della destra e della sinistra? Di là Sarkozy e Attali. Di qua Alemanno (quello che se la prende con i poveracci che frugano nei cassonetti) e Calderoli (quello della porcata elettorale e delle magliette anti-Islam). Bè, il suono non è proprio lo stesso.

Non siamo posseduti dalla paranoia di chi vede inciuci dappertutto. E non pensiamo affatto che la politica migliore sia quella del muro contro muro. C’interroghiamo piuttosto sull’uso strumentale del dialogo da parte di non ci crede e mira soltanto all’indebolimento delle ragioni altrui. Scrive Edmondo Berselli sull’ultimo numero dell’«Espresso» che il discorso sulle riforme ( federalismo, Costituzione, giustizia) non sono in questo momento la vera priorità del Pd. Mentre la priorità effettiva «è contrastare l’azione di una maggioranza politica che potrebbe costringere il Pd ha diventare effettivamente, come ha detto Massimo D’Alema, una minoranza strutturale nel Paese e ad aggregarsi alla maggioranza, secondo il lessico del Cavaliere». Temiamo che sia questo il vero problema.

apadellaro@unita.it




Pubblicato il: 09.08.08
Modificato il: 09.08.08 alle ore 9.44   
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Titolo: Antonio PADELLARO - Scrivo il mio ultimo articolo da direttore de l’Unità.
Inserito da: Admin - Agosto 23, 2008, 11:50:10 pm
Grazie Unità

Antonio Padellaro


Scrivo il mio ultimo articolo da direttore de l’Unità.



Da lunedì prossimo - così ha deciso la proprietà e così annuncia il comunicato dell’azienda - a dirigere questo giornale sarà Concita De Gregorio a cui rivolgo auguri sinceri di buon lavoro. Scrivo il mio articolo più difficile perché difficile è separare l’emozione che provo rivolgendomi per l’ultima volta a voi cari lettori dalla riflessione necessaria, nell’atto del commiato, su questi miei sette anni e mezzo qui a l’Unità.


* * *


Mi considero un giornalista fortunato. Ho lavorato in grandi testate e con grandi direttori da cui ho cercato di imparare tutto ciò che l’amore per questo mestiere, da solo, non poteva insegnarmi. Ma è stato l’ultimo mio direttore, Furio Colombo, a farmi comprendere quale e quanta straordinaria energia possa scaturire dall’eccellente uso della parola scritta quando essa si sposa alla limpida passione civile, al coraggio delle proprie idee, alla difesa delle ragioni dei lettori sopra ogni altra cosa.

Risorta il 28 marzo 2001 dalle proprie ceneri quando per tutti era ormai spacciata, l’Unità di questi anni è stata, ed è, assai più di un semplice quotidiano, frutto del contributo di molti. L’intuizione di Alessandro Dalai. Il coraggio di un pugno di imprenditori capitanati da Marialina Marcucci e Giancarlo Giglio. La dedizione dell’amministratore delegato Giorgio Poidomani. Intorno, un quadro economico precario caratterizzato dalla scarsezza di introiti pubblicitari, vera pietra al collo per un quotidiano costretto ogni giorno a misurarsi con dei colossi editoriali. Ma, sopra tutto, l’orgoglio e la tenacia di una redazione impegnata ogni giorno a difendere la storia e il prestigio del proprio giornale. Sì, il giornale fondato da Antonio Gramsci la cui direzione ha rappresentato per chi scrive un punto d’arrivo. Un privilegio. L’ho condiviso con tanti. Vorrei citarli tutti. Li rappresentano al meglio Pietro Spataro, vicedirettore vicario, e Rinaldo Gianola, vicedirettore a Milano. Con Luca Landò e Paolo Branca. Grandi professionisti e uomini veri.

Il risultato di questa felice combinazione umana e professionale è il giornale «politico» più venduto in Europa. Una media giornaliera di 48mila copie certificate nei primi sette mesi del 2008 (certo, meno delle 60mila vendute nel 2002; certo, più delle zero copie da cui eravamo ripartiti). Una platea giornaliera di 274mila lettori effettivi (dati Audipress 2008). Un giornale dalla forte identità e dall’innegabile peso politico. l’Unità si può amare o avversare ma tutti sanno che giornale è, quali idee esprime, quali valori difende, contro cosa e contro chi irriducibilmente si batte. È strano che, oggi, nel gran discutere che si fa sull’assenza di opinione pubblica in Italia e sul «vuoto di senso e di memoria» giustamente denunciato da eminenti leader democratici si dimentichi quanta opinione di un pubblico affezionato e appassionato abbia intorno a sé il giornale che state sfogliando.

Chi fa quotidianamente l’Unità, chi la impagina, chi la pubblica sa bene chi sono i suoi lettori.

Sono quelli che incontra alle Feste che io continuerò a chiamare dell’Unità. Quelli che ci stringono la mano e ci chiedono di andare avanti, di non lasciarli soli e di continuare a scrivere ciò che scriviamo.

Sono convinto che l’Unità che verrà sarà almeno altrettanto forte e almeno altrettanto apprezzata. Lo auguro di cuore ai colleghi e ai tanti amici che lascio e con i quali ho condiviso una straordinaria esperienza. E lo auguro a Renato Soru che ha il merito di aver creduto nel valore e nelle potenzialità di un giornale difficile e però unico.

Ma io ancora per un giorno sono il direttore di questa Unità, e ancora per un giorno ne canterò le lodi.


* * *


Tre fotografie porterò con me.

Nella prima, c’è il premier più ricco e più potente che mostra al suo pubblico e alle sue tv un giornale dalla inconfondibile striscia rossa e lo indica come il “nemico”. Un giornale perciò da «dismettere», come ha chiesto e preteso nella sua prima dichiarazione dopo il trionfo elettorale dello scorso 13 aprile. Che il premier più ricco e più potente, sul cui impero dell’informazione non tramonta mai il sole, non sia riuscito a domare questo piccolo grande giornale è motivo di orgoglio per tutti coloro che, ancora, sono riusciti a non farsi dismettere.

Ai tanti smemorati (anche nel campo a noi vicino) vorrei rammentare l’insostituibile funzione che l’Unità ha avuto, appena rinata, negli anni più duri dell’opposizione al secondo governo Berlusconi. Su queste colonne si è ritrovato un gruppo di firme coraggiose e autorevoli, provenienti dalle più diverse culture politiche. Dalle sponde più moderate a quelle più di sinistra ma che su questioni fondamentali, come la difesa della legalità e della Costituzione, hanno saputo parlare lo stesso linguaggio del lettorato ed elettorato riferimento naturale dell’Unità: quello dei Democratici di sinistra prima e del Pd poi. Il nome che li rappresenta tutti è quello di Paolo Sylos Labini, un grande uomo libero che aveva fatto suo, e nostro, il manifesto di Daniel Defoe: «Ho visto gente mettersi in combutta per distruggere la proprietà, corrompere le leggi, invadere il governo, traviare le persone e, per dirla in breve, schiavizzare e intrappolare la nazione; e allora ho gridato: “Al Fuoco”». Erede di questa cultura libera e liberale non a caso Marco Travaglio, con noi fin dall’inizio, è diventato un beniamino dei lettori.

Nell’aprile del 2006 pensammo che il fuoco fosse domato e la battaglia vinta. Salutando la vittoria di Romano Prodi titolammo: «Berlusconi addio». Ci sbagliavamo. Ma nessuno in quel momento poteva immaginare con quale grado di autolesionismo si sarebbe gettata alle ortiche l’occasione storica di sottrarre il nostro paese al dominio di una satrapia e restituirlo al novero delle democrazie occidentali. Per questo obiettivo continuerò, continueremo a fare i giornalisti.

l’Unità di questi anni ha cercato di mantenere un difficile punto di equilibrio nell’agitato mare del centrosinistra e ora del Pd. Rispetto e considerazione per l’appartenenza politica della maggior parte dei nostri lettori. Senza indulgenze o ammiccamenti. In piena libertà di stampa. Sempre pronti a castigare ridendo i nostri cari leader. Lo Staino quotidiano e il molto irriverente M sono lì a dimostrarlo.


* * *


La seconda istantanea è la prima pagina dell’Unità listata a lutto, con una moltitudine di nomi e di storie. I nomi e le storie dell’immensa e continua strage sul lavoro, vergogna nazionale.

Solo chi non ha mai letto veramente l’Unità può sostenere che il nostro sia stato, e sia il giornale di un antiberlusconismo pregiudiziale e fine a se stesso. Il pregiudizio è di chi ha preferito non vedere i danni prodotti dalla cultura padronale e reazionaria scaturita dai governi della destra. A questi attacchi, spesso di stampo fascista e razzista l’Unità, giornale del lavoro, dei diritti civili e dei diritti di libertà ha risposto, ogni giorno, colpo su colpo.


* * *


La terza immagine che porto con me è quella di Ingrid Betancourt finalmente libera. E non dimenticherò quanto mi hanno detto poche settimane fa a Roma la madre e la sorella della donna che l’Unità, raccogliendo migliaia di firme, ha proposto per il Nobel per la pace: «Grazie al vostro grande giornale».

Finisce qui. Il direttore di questo grande giornale si congeda. Grazie Unità.


Pubblicato il: 23.08.08
Modificato il: 23.08.08 alle ore 12.09   
© l'Unità.


Titolo: Antonio PADELLARO - La casta obesa e ingorda
Inserito da: Admin - Luglio 19, 2010, 11:18:29 am
 di Antonio Padellaro
 
17 luglio 2010


La casta obesa e ingorda

Come una certa politica, o meglio la sua caricatura obesa e ingorda, sia diventata un’oligarchia insaziabile e abbia allagato l’intera società italiana”. Così scrivevano Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella presentando il libro che avrebbe venduto milioni di copie e il cui titolo sarebbe suonato da quel momento in poi come qualcosa di indegno e di non più sopportabile. “La Casta” è del 2007. Tre anni dopo quell’oligarchia ancora più obesa, ingorda e insaziabile spadroneggia proterva e intoccabile. E guai a chi fiata.

Come purtroppo sanno i passeggeri del volo Alitalia, da Roma a Milano, strapieno ma che non decolla finché non arriva il presidente di una squadra di calcio a cui viene consentito di far partire gli aerei di linea secondo i suoi comodi. Chi vive a Roma ha esperienza diretta della massa di auto blu e scorte che impazzano per le strade del centro, rombanti e intimidatorie. L’altro giorno il ministro Brunetta ha confessato che l’ambaradan di lampeggianti e palette ci costa 4 miliardi l’anno (mezza Finanziaria); che diecimila sono le vetture usate dai politici; che lui stesso di auto blu ne ha sette, una naturalmente per la sua segretaria. Poi ci sono le scorte, il cui numero è un segreto custodito meglio di quello di Fatima. Adesso i sindacati di polizia esasperati dalla manovra tremontiana, che solo nella Capitale farà chiudere 19 commissariati su 38 (si chiama “ottimizzare le risorse”) qualcosa cominciano a far trapelare.

Secondo il segretario del Consap, Scajola si avvale di otto persone (a sua insaputa, probabilmente). Sono in cinque a non perdere d’occhio l’onorevole Baccini e solo quattro si dedicano all’onorevole Bricolo. Non trattandosi di autorevoli statisti il plotone di venti uomini al seguito del presidente del Senato Schifani appare in fondo proporzionato. Sono le insegne del potere che ad ogni sgommata sembrano dirci: noi siamo noi e voi dei poveri imbecilli che magari pagate pure le tasse. Poi c’è la casta di coloro che agiscono nell’ombra, ladri di legalità con destrezza. Chi l’avrebbe mai detto che dentro quell’incomprensibile terzo comma, lettera d dell’articolo 67 della manovra si nascondeva una losca impunità per manager bancarottieri? Magari gli stessi che si fanno superscortare, strafottenti e blindati: Rizzo e Stella si chiedevano: quand’è che gli italiani diranno basta? Bè, dall’aria che tira forse ci siamo quasi.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/07/17/come-una-certa-politica-o-meglio-la-sua/41019/


Titolo: Antonio Padellaro. L’aggressione di Repubblica
Inserito da: Admin - Agosto 28, 2012, 10:24:40 am
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L’aggressione di Repubblica

di Antonio Padellaro | 26 agosto 2012

Così fai il gioco della destra” era l’anatema scagliato nelle vecchie sezioni del Pci contro chi osava mettere in discussione la linea ufficiale del partito, l’unica autorizzata a difendere le masse lavoratrici dai “provocatori” (sempre appostati nell’ombra) e dunque da una visione dei problemi “oggettivamente fascista”.

Pensavamo che la parodia di quei dirigenti, un po’ sedotti dal mito dell’Urss e un po’ furbacchioni, immortalata dal sindaco Peppone di Gino Cervi, fosse ormai un reperto da cineforum. Invece, venerdì su la Repubblica, il direttore Ezio Mauro ce ne ha fornita una nuova versione rap: “Il fatto è che l’onda anomala del berlusconismo ha spinto nella nostra metà del campo (che noi chiamiamo sinistra) forze, linguaggi, comportamenti e pulsioni che sono oggettivamente di destra”. Di questa prosa anni Cinquanta si è già occupato Marco Travaglio e, sull’ingenuo tentativo di mettere d’accordo capra e cavoli a proposito dello scontro su Napolitano tra Scalfari e Zagrebelsky, non aggiungeremo altro. Qualcosa invece ci preme dire a proposito dell’attacco ai limiti della diffamazione che il direttore di quel giornale ha voluto sferrare contro il Fatto e i suoi lettori.

Certo, non siamo mai nominati, ma è l’abitudine della casa: ammantarsi di spocchiosa superiorità per meglio insultare l’avversario e poi nascondere la mano. È il giornalismo “de sinistra” che per quindici anni si è giovato dell’alibi Berlusconi per alzare le barricate e scendere nelle piazze con roboanti proclami e che adesso, soddisfatto, torna finalmente a riposarsi all’ombra del potere costituito. Notare il linguaggio da proprietari terrieri: “La nostra metà del campo”. Nostra di chi? Chi ve l’ha regalata? Cos’è, un lascito di Napolitano?

E in nome di cosa pensate di rappresentare “ciò che noi chiamiamo sinistra?” (Danno perfino il nome alle cose come la Bibbia).

Un fenomeno davvero bizzarro quello di un direttore e di un fondatore che si credono dei padre eterni. Verrebbe da chiedere in nome di quale autorità morale, di quale cattedra superiore decidono essi chi è di destra e chi di sinistra? E poi, visto che si parla di giornali esistono notizie di sinistra e notizie di destra? Di grazia, questa scelta per così dire salvifica avviene sulla base delle telefonate del Quirinale? Del gradimento dei vertici Pd (non a caso ieri Bersani scimmiottava Mauro contro Grillo e Di Pietro)? O degli interessi del padrone? E se per caso a Savona c’è una centrale con tassi di inquinamento tipo Ilva, a cui la proprietà del giornale tiene assai, non se ne parla perché trattasi di notizia “oggettivamente” di destra?

Noi rispettiamo i giornalisti e i lettori di Repubblica e non ci permetteremmo mai di scrivere che per loro “cultura è già una brutta parola”, come abbiamo letto nell’editoriale in puro stile Comintern. Comprendiamo anche l’irritazione che si respira in quelle stanze da quando Il Fatto esiste e prospera, e se alcune tra le migliori firme di quel gruppo hanno scelto di lavorare con noi se ne facciano una ragione. La polemica giornalistica anche quando è sopra le righe va accettata. Le aggressioni no.

Il Fatto Quotidiano, 26 Agosto 2012

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/08/26/laggressione-di-repubblica/334299/


Titolo: Antonio PADELLARO - La battaglia del Fatto
Inserito da: Admin - Gennaio 20, 2013, 10:42:52 pm
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La battaglia del Fatto

di Antonio Padellaro | 20 gennaio 2013


Non è stata una decisione facile, ma il comunicato con cui la commissione nazionale di Garanzia del Pd chiede di escludere quattro “impresentabili” dalle prossime elezioni politiche fa bene alla credibilità del Pd. E dimostra che la politica italiana, pur ridotta come è stata ridotta da caste e profittatori di ogni genere, può ancora avere un sussulto di dignità.

Non è stato facile perché personaggi come per esempio Mirello Crisafulli e Antonio Papania sono considerati dei veri signori delle tessere che in Sicilia muovono decine di migliaia di voti. Consensi che possono essere determinanti nell’isola di Cosa Nostra dove il centrosinistra deve competere con la destra dei Dell’Utri e del voto di scambio.

E mentre il Pdl di Berlusconi fa incetta (perché tutto fa brodo) di collusi e indagati per reati gravissimi, come l’ineffabile Nicola Cosentino ritenuto dai magistrati il referente politico della camorra in Campania, i garanti presieduti da Luigi Berlinguer spiegano che “in questo delicato frangente la scelta delle candidature non può prescindere da criteri di eticità da perseguire anche con valutazioni di opportunità” politica. Insomma, in nome della presunzione di innocenza, che resta certamente un caposaldo della civiltà giuridica, non si può passare sopra ai comportamenti poco chiari e alle amicizie poco specchiate che ledono l’immagine del partito.

Proprio ciò che il Fatto da giorni non ha smesso di scrivere (in quasi totale solitudine), raccontando le gesta di Crisafulli (rinviato a giudizio per abuso d’ufficio) contenute in un voluminoso rapporto dei Carabinieri, o illustrando i trascorsi di Papania, Luongo, Caputo e altri ancora. Le oltre 20 mila firme raccolte dal nostro giornale sottol’appello rivolto a Bersani da Franca Rame e poi anche da Adriano Celentano per non presentare gli impresentabili dimostrano che, soprattutto se si tratta di legalità, un’informazione veramente libera non deve essere considerata un intralcio da rimuovere, ma un’opportunità da cogliere. Cosa di cui oggi volentieri diamo atto al Pd.

Il Fatto Quotidiano, 19 Gennaio 2012

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/01/20/battaglia-del-fatto/475228/


Titolo: Antonio PADELLARO - Chi dice la verità agli italiani?
Inserito da: Admin - Febbraio 04, 2013, 12:37:51 am
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Chi dice la verità agli italiani?

di Antonio Padellaro | 3 febbraio 2013


“Mi impegno a ridurre le tasse”, dichiara Mario Monti ed è come se al posto del Professore parlasse il Cavaliere. Colpa delle promesse elettorali che alla fine, in nome del dio voto, livellano i bocconiani ai berlusconiani ai bersaniani e al resto della truppa partitica.
Sembra passato un secolo da quando giornaloni e giornalini si dedicarono all’incensamento del sobrio premier tecnico esaltandone il portamento sobrio ed elegante, il sobrio ed essenziale eloquio, le battute sobriamente spiritose. Marco Travaglio immaginò che il cane di cotanto prodigio alla vista di un osso evitasse sobriamente di addentarlo.

Al di là dei soffietti in quell’Italia di fine 2011 reduce dalle follie del sultano di Arcore c’era il desiderio profondo di una guida competente e autorevole che ci restituisse un po’ di rispetto e di credibilità internazionale. Una normalità che è costata i sacrifici che sappiamo anche se nessuno poteva immaginare che la quaresima seguita al carnevale ci avrebbe al tal punto dissanguati. Dissero alcuni studiosi che Monti incarnava quella figura paterna, severa ma giusta, che per troppo tempo era mancata al Paese (dai tempi di De Gasperi sostenne qualcuno).

Un padre, perché di padreterni ce ne sono stati anche troppi: dagli indottrinatori sessantottini passando per le stanze del vecchio Pci fino a Bettino Craxi, l’omone degli incubi psicanalitici della sinistra, per arrivare al Berlusconi non ancora ridicolizzato dal bunga bunga. Come padreterno Monti è durato fino a quando, per imperscrutabili motivi, ha deciso di scendere dall’olimpo dei senatori a vita per mescolarsi ai venditori urlanti di promesse un tanto al chilo.

Ma ora che anche lui parla come gli altri chi ci dirà la verità? Perché è la verità che sommamente manca in questa campagna elettorale. La dimensione della crisi e il tempo che ci vorrà per tornare alla normalità. Un tempo che non prevede impossibili abolizioni dell’Imu, ma un lungo e faticoso percorso di rigenerazione. Il tempo della disciplina, dei sacrifici, della perseveranza non tradisce ma gratifica e salva. Sapete chi ha espresso questo concetto?

Il presidente Obama, pochi giorni fa all’atto dell’insediamento del suo secondo mandato. Così parla un vero un uomo di Stato con una visione nel futuro. Mentre qui da noi si spaccia il fumo delle illusioni.

Il Fatto Quotidiano, 3 Febbraio 2012



Titolo: Antonio Padellaro. Tristi gare di burlesque: la politica che si diverte a ...
Inserito da: Admin - Marzo 10, 2013, 11:17:36 pm
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Tristi gare di burlesque: la politica che si diverte a perdere tempo mentre tutto crolla

di Antonio Padellaro | 10 marzo 2013


Mentre le agenzie di rating declassano l’Italia pronosticando scenari di “profonda” recessione, conseguenza del risultato “inconcludente” delle elezioni, la politica dà come sempre il suo fattivo contributo al bene del Paese e si porta avanti con il lavoro. Bersani, l’unico leader politico al mondo che è arrivato primo alle elezioni riuscendo a perderle (dopo un altro voto sfortunato parlò, con ardita litote, di non vittoria) vuole a tutti i costi farsi un giro da premier, ambizione legittima se non fosse che non ha la maggioranza al Senato e neppure, così si dice, il convinto sostegno di Napolitano. Egli avrebbe perciò escogitato un astuto stratagemma per aggirare il Colle e con ingegnosi artifici insediarsi a Palazzo Chigi alla guida di un governo a prevalenza Pd, ma zoppo e sfiduciato. Per farne cosa, mistero.

Intanto, plotoni di esimi giuristi, supportati nei grandi giornali dalle truppe speciali del dialogo, architettano un governo del Presidente in versione automatica poiché il Presidente a capo del governo del Presidente dovrebbe essere il Presidente medesimo. Semplice e geniale. Ma l’arma segreta per dare finalmente un governo all’Italia sta per essere perfezionata in una sorta di gabinetto del dottor Caligaris dove un’équipe di scienziati cerca di mettere a punto il premier Grillesco. Progettato per ottenere il prezioso gradimento di Beppe Grillo, questo portento riunisce il meglio della società civile e del primato professorale da Rodotà a Settis, a Zagrebelsky. Una soluzione di eccellenza che unisce competenza e onestà. Purtroppo il caro leader a 5Stelle persiste in un atteggiamento sarcastico (coerente, del resto, con la sua conclamata vena comica), cosicché circondato da alcuni simpatici picchiatelli si diverte un mondo a respingere al mittente i prototipi con pretestuose motivazioni.

A questo punto uno potrebbe chiedersi che fine abbia fatto Berlusconi, che resta pur sempre il potente capo della destra italiana. Ebbene, inseguito dalla implacabile pm Boccassini, egli ha trovato rifugio in un ospedale amico dove, tuttavia, il suo tentativo di darsi malato è stato smascherato da una impietosa visita fiscale. Una scena spassosa quella del miliardario simulatore che bene s’inserisce in un contesto burlesque, con la politica che si diverte a perdere tempo mentre tutto crolla. Certo, c’è sempre l’esempio del Belgio che senza governo è sopravvissuto benone per 500 giorni e più. In attesa delle prossime elezioni e del prossimo avanspettacolo.

Il Fatto Quotidiano, 10 marzo 2013

DA - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/03/10/tristi-gare-di-burlesque-la-politica-che-si-diverte-a-perdere-tempo-mentre-tutto-crolla/525813/


Titolo: Antonio Padellaro. A conclusione delle consultazioni: la supercazzola
Inserito da: Admin - Aprile 01, 2013, 06:23:56 pm
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A conclusione delle consultazioni: la supercazzola

di Antonio Padellaro | 31 marzo 2013


Nella repubblica specialista in tavoli, tavolini, comitati e commissioni perditempo era inevitabile che, a conclusione del più inutile giro di consultazioni che si ricordi, il capo dello Stato invece dell’incarico di governo abbia deciso di creare due bei gruppi di lavoro e di assegnare dieci incarichi ad altrettanti supposti esperti. Essi dovrebbero partorire, in un paio di settimane, quelle presunte riforme economiche e istituzionali con cui da un ventennio la peggiore classe politica dell’orbe terracqueo prende in giro gli italiani.

Intendiamoci, Giorgio Napolitano va capito: giunto all’epilogo del settennato, si ritrova a gestire una crisi politica ingestibile cosicché, stufo di perdere tempo con partiti che già pensano alle prossime elezioni e usano i microfoni del Quirinale per farsi propaganda, ha pensato di mollare la patata bollente al suo successore. C’era solo il problema di arrivare al 15 maggio. Prima ha fatto sapere che se ne sarebbe potuto andare in anticipo: niente di scandaloso trattandosi di poche settimane, ma abbastanza per gettare nel panico bipartisan quei politici che senza più la copertura di Re Giorgio, per circolare dovrebbero munirsi di giubbotto antiproiettile. Ed ecco i dieci “saggi”, parola che induce al sorriso, trattandosi (salvo un paio di nomi) perlopiù di vecchie cariatidi o di politicanti in disarmo. Spartiti secondo il più rigoroso manuale Cencelli, sembrano fatti apposta per preparare il terreno all’inciucione Pd-Pdl, che l’attuale inquilino del Colle considera come una sorta di premio alla carriera.

Subito da tutte le televisioni si sono levate grida di giubilo da parte di giornalisti convocati all’uopo: uno ha detto addirittura che quella di Napolitano era “una mossa da fuoriclasse”. Negli osanna si sono naturalmente distinti i leader di cui sopra: adesso, mentre i saggi saggiano, potranno dedicarsi serenamente alla campagna elettorale. Crisi e disoccupazione possono attendere. Una frase di circostanza giunta dal M5S ha fatto andare in un brodo di giuggiole qualche novello esperto: un caso psichiatrico, direbbe Grillo, visto che il movimento ha come scopo dichiarato la distruzione completa dell’attuale sistema dei partiti. Dopo la pausa pasquale vedremo come la supercazzola sarà accolta dai mercati, mentre già in Europa si stenta a credere che con i suoi giganteschi problemi l’Italia continui ad affidarsi al governo Monti, sfiduciato in tutti i sensi. Attenzione, gli italiani sono pazienti, ma se si arrabbiano sono guai.

Il Fatto Quotidiano, 31 marzo 2013

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/03/31/a-conclusione-delle-consultazioni-supercazzola/548005/


Titolo: Antonio PADELLARO - Pietro Grasso a Piazza Pulita, i veleni e citofoni
Inserito da: Admin - Aprile 01, 2013, 11:13:42 pm
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Pietro Grasso a Piazza Pulita, i veleni e citofoni

di Antonio Padellaro | 27 marzo 2013


A Piazza Pulita abbiamo ascoltato il presidente del Senato Grasso pronunciare la seguente frase: “La sera della trasmissione ho trovato mia moglie agitata come la trovai quando, ai tempi del maxi-processo, citofonarono da giù e le dissero: “I figli si sa quando escono, ma non si sa quando rientrano”. La trasmissione in questione è l’ormai famoso Servizio Pubblico di giovedì scorso e, se l’ex procuratore intendeva tracciare un’infame quanto ridicola analogia tra le minacce degli assassini mafiosi e le critiche legittime che gli ha rivolto Marco Travaglio, ci è riuscito perfettamente.

La frase, tuttavia, si presta ad alcune brevi considerazioni sullo stato mentale di certa classe politica di cui Grasso è un’eminente new entry. Prima di tutto lo sgomento che li assale ogniqualvolta il loro finissimo orecchio coglie qualche nota in dissonanza con il consueto concerto per flauti e archi che li accompagna su tutta la stampa nazionale. Chi osa esprimere un dubbio su cotanto cristalline carriere sarà certamente un manigoldo o un emissario di Cosa Nostra. Ed ecco la piagnucolosa litania infarcita di figli in pericolo e di mamme trepidanti.

L’eroe antimafia vive, si sa, un pericolo costante: “Mi crocifiggeranno, ci saranno dei video, sarà killeraggio mediatico”, nientedimeno. Ma intanto, a difesa della “nuova funzione istituzionale”, egli si porta avanti con il lavoro spargendo veleni. E se il bravissimo Formigli non ha ritenuto di interrompere l’augusto ospite per chiedergli conto e ragione dello spregevole insulto rivolto a un giornalista libero, lo faremo noi.

Si vergogni, signor presidente del Senato, e accetti un consiglio. Poiché continueremo a fare tranquillamente il nostro lavoro, la prossima volta che vorrà darci dei mafiosi, abbia il coraggio di farlo a viso aperto e non si nasconda dietro un citofono.

Il Fatto Quotidiano, 27 Marzo 2013

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/03/27/pietro-grasso-a-piazzapulita-veleni-e-citofoni/544076/


Titolo: Antonio PADELLARO - La vendetta di Kim il Giorgio
Inserito da: Admin - Aprile 04, 2013, 06:08:42 pm
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La vendetta di Kim il Giorgio

di Antonio Padellaro | 2 aprile 2013


Nel maggio del 2006 l’Unità decise di celebrare l’ascesa di Giorgio Napolitano al Quirinale con il titolo “Buongiorno Presidente”, che a me parve molto bello e augurale, anche perché all’epoca ero io a dirigere il giornale. Col senno di poi, forse avrei dovuto moderare l’entusiasmo. Del resto, poche settimane prima, nella notte dei famosi ventiquattromila voti di scarto fra l’Unione di Prodi e la destra, ne avevo combinata un’altra, sparando a tutta prima pagina: “Berlusconi Addio”, e si è visto poi come è finita.

Anche se altri titoli mi sono riusciti meglio, a quel ricordo giornalistico di sette anni fa è legato un episodio che, seppur minimo, aiuta a decifrare il personaggio Napolitano alla luce anche dei suoi ultimi atti di imperio che qualcuno paragona a un golpe bianco. Dunque, con i colleghi dell’Unità decidemmo di stampare quella pagina augurale su una lastra di zinco debitamente incorniciata a imperituro ricordo e di apporvi gli autografi di tutti i giornalisti e lavoratori del quotidiano fondato da Antonio Gramsci e di cui l’autorevole dirigente comunista era stato una firma apprezzata. Poi, presi dall’entusiasmo, chiedemmo al portavoce Pasquale Cascella di poter consegnare direttamente nelle mani del nuovo capo dello Stato il prezioso oggetto. Cortese, Cascella mi assicurò che si sarebbe fatto latore della richiesta.

Non ne sapemmo più nulla, ma non certo per responsabilità di Cascella. Qualche tempo dopo, nel congedarmi dall’Unità, feci recapitare lo sfortunato omaggio al Quirinale, dove penso giaccia ancora in qualche augusto ripostiglio. Tracce di Napolitano, prima dell’imprevista ascesa al Colle, ne avevo avute quando, sempre tramite Cascella, allora notista politico dell’Unità, egli mi recapitava suoi densi saggi di non facile lettura sui problemi dell’Europa, che io provvedevo a mettere in pagina per rispetto al grande leader di partito destinato all’oblio, com’era opinione comune.

Ecco, penso che lo straordinario sussiego con cui Napolitano ha interpretato il suo settennato sia anche frutto di quella marginalità a cui era stato condannato da personaggi che probabilmente considerava (e considera) dei nanerottoli, politicamente parlando e sui quali, successivamente, si è preso una lunga e gelida rivincita. Penso che non abbia tutti i torti, perché pur con le numerose colpe che il Fatto non ha mai smesso di rimproverargli, Napolitano appare come un gigante del pensiero, soprattutto se paragonato ai suoi ex compagni di partito.

A ben guardare, infatti, anche il mezzo incarico conferito a Pier Luigi Bersani appare come l’ultimo sgarbo nella lunga storia di sgarbi e di ruggini che ha diviso la sinistra italiana. Ma proprio come in molte storie di sinistra, questo rancore viene dissimulato dietro tonnellate di osanna e salamelecchi. Un culto della personalità che non ha paragoni nelle democrazie occidentali. Per esempio, l’ossessiva e piagnucolosa insistenza con la quale si chiede a Re Giorgio di restare sul Colle per un altro mandato fa venire in mente l’ode dedicata al dittatore nordcoreano Kim Jong-Il, erede di Kim Il-sung i cui versi cantano: “Non possiamo vivere senza di te / il nostro Paese non può esistere senza di te”. È incredibile, i politici italiani non sanno vivere senza Napolitano e, più lui si ritrae apparentemente infastidito, più essi si stracciano le vesti: resta con noi! Ma allora come si spiega questa adorazione con le ruggini di cui sopra? È semplice. In tutti questi anni Napolitano ha fatto da scudo a una classe politica tra le più screditate e impopolari.

È stato a causa di questa gigantesca coda di paglia che abbiamo dovuto sorbirci cori di giubilo e peana ogni volta che dal Quirinale giungevano tra tuoni e saette, i famosi moniti: lodi a cui invariabilmente seguivano gli identici comportamenti così inutilmente monitati. L’estasi è giunta al punto che nell’ultima consultazione abbiamo ascoltato il vicesegretario Pd Enrico Letta, esclamare (senza ridere) una frase del tipo: ci affidiamo completamente a Lei, Presidente, con lo stesso trasporto di Papa Francesco quando si rivolge all’Altissimo.

Tanta devozione non è però servita a impedire la suprema beffa dei cosiddetti Saggi che, con la stravagante non soluzione della crisi di governo, ha condannato il povero Bersani in un ridicolo limbo, visto che l’incarico Napolitano non glielo ha dato, ma neppure glielo ha tolto. Difficile che questa volta lo smacchiatore di giaguari la mandi giù: infatti tra i Democratici i mugugni si sprecano. È vero che anche Berlusconi e Grillo alzano la voce contro le commissioni che servono solo a prendere (e a perdere) tempo. Ma l’inquilino del Colle sembra intenzionato a non mollare “fino all’ultimo giorno”, poiché sembra assodato che fino all’ultimo giorno di Napolitano non ci sarà un governo Bersani. A meno che Bersani non mandi giù il disgustoso intruglio di un patto Pd-Pdl. A sinistra la vendetta è un piatto che va servito freddo, molto freddo.

il Fatto Quotidiano, 2 Aprile 2013

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/04/02/vendetta-di-kim-giorgio/549033/


Titolo: Antonio PADELLARO - Tutti contro il M5S: lei è onesto, come si permette?
Inserito da: Admin - Aprile 10, 2013, 06:45:24 pm
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Tutti contro il M5S: lei è onesto, come si permette?

di Antonio Padellaro | 10 aprile 2013


Ieri le aperture di quasi tutti i giornali italiani erano dedicate al presidente Napolitano che accusava i “fanatici della moralizzazione”. Monito assai curioso perché sarebbe come prendersela con i fanatici dell’acqua potabile o dei limiti di velocità. Poiché, secondo il Devoto-Oli, moralizzare significa “ricondurre all’osservanza dei criteri prescritti dalla onestà e dalla rettitudine”, viene il dubbio che onestà e rettitudine stiano diventando parole pericolose o comunque da non sbandierare troppo per non disturbare la quiete dei disonesti. Neanche a dirlo, il capo dello Stato ce l’aveva con quelli del M5S che sere fa in una bella puntata di Otto e mezzo erano anche il bersaglio dello psicanalista Massimo Recalcati, che sul tema si era già espresso su Repubblica. In una dotta lezione su come si sta al mondo, il movimento di Grillo veniva descritto come generatore di critiche sterili in quanto “dominato da quel fantasma di purezza che accompagna tutti i rivoluzionari più fondamentalisti”: fantasma, secondo lo studioso, presente al centro della vita psicologica degli adolescenti.

Insomma, “proclamando la sua diversità assoluta e continuando a stare fuori dal sistema, fuori dai circoli mediatici, fuori da ogni gestione partitocratica del potere”, il grillismo non potrà mai generare il cambiamento promesso. Un invito a diventare presto come gli altri, nominando i propri saggi, trattando posti di governo e di sottogoverno e magari facendosi vedere spesso a Ballarò. Colpisce la fretta con cui si chiede la mutazione dei troppo puri per liberarli dalle ubbie adolescenziali. Sono a Roma da appena un mese e già questi giovanotti, che girano con lo zainetto sulle spalle e pretendono che gli eletti in Parlamento lavorino invece di stravaccarsi in attesa del nulla, cominciano a stare sulle palle ai cultori della realpolitik.

Quasi vent’anni fa, in un magistrale “Elogio funebre della Dc”, Pietro Citati descrisse la tecnica dei democristiani di fronte al nemico.
Farlo spossare e sfinire, “e allora essi lo avvolgevano, lo penetravano, lo trasformavano a poco a poco in se stessi, con quell’arte dell’assimilazione nel quale erano maestri”. Perciò, professor Recalcati, non disperi. Quegli strani cittadini animati dal “fantasma della purezza” prima o poi saranno penetrati e assimilati. Basta trovargli dei tutor all’altezza. Per esempio, un ciclo di lezioni sulla “gestione partitocratica del potere” a cura dell’onorevole Giggino ‘a Purpetta, con dispense dell’ex sottosegretario emerito Nick Cosentino.
E così, con buona pace del Quirinale, avremo sconfitto anche questi pericolosi fanatici dell’onestà..

Il Fatto Quotidiano, 10 aprile 2013

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/04/10/lei-e-onesto-come-si-permette/558100/


Titolo: Antonio PADELLARO - Napolitano, era tutto studiato
Inserito da: Admin - Aprile 27, 2013, 05:30:41 pm
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Napolitano, era tutto studiato

di Antonio Padellaro | 21 aprile 2013


C’è un filo rosso che porta allo sconcertante bis di Giorgio Napolitano, parte da lontano e si chiama governo delle larghe intese con Berlusconi. È una lampante verità che sul Colle delle bugie e dei nastri cancellati nessuno può negare, scolpita sui moniti che d’ora in poi saranno legge. Quel filo del Quirinale, nel dicembre 2011 dopo la disastrosa caduta del governo B., impedisce le elezioni anticipate. Come mai? Forse era chiaro che, con il crollo annunciato della destra, il Pd vincitore avrebbe potuto imporre senza problemi il proprio capo dello Stato?
 
E perché quando, nel dicembre scorso, Monti si dimette, non viene rispedito alle Camere per verificare la fiducia? Forse perché il timing, perfetto, consentiva alla presidenza di gestire non solo le elezioni,ma anche il dopo? Il pareggio auspicato e raggiunto, il mezzo incarico a Bersani, lo stop a M5S che chiede un premier fuori dai partiti, la melina dei “saggi”. Tutto per arrivare paralizzati all’elezione del Presidente e quindi all’inevitabile rielezione?

Forse il piano non era così diabolico, forse l’encefalogramma piatto dei partiti ha permesso a Napolitano di orchestrare la crisi come meglio voleva. Ma è difficile credere che, dopo aver respinto fino alla noia ogni offerta per restare, il navigato politico abbia ceduto in un paio d’ore alle suppliche di alcuni presunti leader alla canna del gas. Si è fatto rieleggere,vogliamo credere, non per sete di potere (a 88 anni!), ma per governare l’inciucio che nella sua testa è l’unico strumento per controllare un Paese allo sfascio. E per tenere lontano quell’eversore di Grillo che crede addirittura nella democrazia dei cittadini. Non s’illuda, però: davanti ai problemi giganteschi degli italiani (e alle piazze in fermento), questa monarchia decrepita e grottesca è solo uno scudo di paglia. D’ora in poi questi politici inetti e disperati il conto lo faranno pagare a lui.

Il Fatto Quotidiano, 21 aprile 2013

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/04/21/napolitano-era-tutto-studiato/570837/


Titolo: Antonio PADELLARO - Ha stravinto la casta
Inserito da: Admin - Giugno 30, 2013, 04:38:56 pm
Ha stravinto la casta

di Antonio Padellaro | 30 giugno 2013


A Roma, in queste sere di inizio estate i ristoranti alla moda sono accerchiati da schiere di auto di grossa cilindrata, perlopiù tedesche che di blu conservano il lampeggiante, minaccioso anche spento come le insegne dei signorotti medievali. Per ore dietro i vetri scuri sonnecchiano incazzati gli autisti, in attesa di scarrozzare verso casa vassalli, valvassori e valvassini, finalmente satolli.
 
A questo punto il lettore si chiederà dove sia la notizia: le macchine dei potenti, statiche o sgommanti non fanno da sempre parte integrante della scenografia della città eterna, come le antiche fontane e i cassonetti maleodoranti? Appunto: la notizia è che nulla cambia e che probabilmente mai nulla cambierà. La Casta che solo quattro mesi fa sembrava soccombere, sotto la valanga delle astensioni e dei nove milioni di vaffanculo raccolti da Beppe Grillo, ha ripreso tranquillamente a fare i propri comodi. Qualche limatura a stipendi e prebende c’è stata, come annunciarono in una commovente comparsata a Ballarò i due nuovi presidenti delle Camere. Così come nei bilanci dei vari Palazzi sono state abolite alcune voci di spesa, francamente oscene. E il resto? Solo chiacchiere e prese in giro.

Le famose province sopravvivono benone a tutti i governi che dal secolo scorso ne annunciano regolarmente l’immediata abolizione: 107 enti dichiarati inutili che continuano a succhiare 12 miliardi l’anno. Per non parlare dei soldi ai partiti di cui il governo Letta aveva strombazzato la drastica riduzione: bene che vada, i 91 miliardi attuali diventeranno un’ottantina ma chissà quando (“ascolteremo i tesorieri di tutto il mondo”, è la simpatica trovata dei partiti perditempo). La crisi si sta mangiando questo paese, ma continuiamo a foraggiare i parlamentari e i manager pubblici più pagati d’Europa. Nessuno sembra più scandalizzarsi. La rinuncia del M5S a 42 milioni di finanziamento statale viene praticamente ignorata (anche per colpa loro, impegnati come sono a litigare su diarie ed espulsioni). Mentre provocano meraviglia le foto del nuovo sindaco della Capitale pedalante in bici, come se usare i mezzi di locomozione dei comuni mortali (taxi, metro o semplicemente i piedi) rappresentasse uno straordinario prodigio. Perciò, a cena in allegra compagnia, i signorotti si sentono in una botte di ferro e se qualcuno prova a scriverlo si arrabbiano pure. Ammettiamolo, hanno vinto loro. Anzi, hanno stravinto.

Il Fatto Quotidiano, 30 giugno 2013

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/06/30/ha-stravinto-casta/641979/


Titolo: Antonio PADELLARO - Caso Kazakistan, la tragedia e la farsa
Inserito da: Admin - Luglio 14, 2013, 11:41:37 pm
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Caso Kazakistan, la tragedia e la farsa

di Antonio Padellaro | 14 luglio 2013


Nell’estate del ’77, dopo la ridicola fuga in una valigia del criminale nazista Kappler dall’ospedale romano del Celio, il governo dell’epoca cercò di addossare la colpa a tal capitano Capozzella, prima delle inevitabili dimissioni dell’allora ministro della Difesa Lattanzio. Fu così che il carabiniere, in ragione anche di un cognome appropriato agli eventi, divenne sinonimo di scaricabarile all’italiana, di politici vili e inetti, di stracci fatti volare per coprire le loro eccellenze.
 
Oggi, mentre solo grazie ai giornali cominciano a emergere circostanze e particolari dello scandalo infamante che ha portato le autorità italiane a consegnare nella mani del dittatore del Kazakistan, Nazarbayev, moglie e figlia (di sei anni) del principale oppositore del regime (dove secondo Amnesty tortura e maltrattamenti sono di casa), si capisce solo che il premier Letta e i suoi ineffabili ministri Alfano, Bonino e Cancellieri stanno cercando solo i due o tre Capozzella di turno da incolpare: “Nessuno ci ha informato”. I dirigenti della Polizia avranno modo di spiegare le sconcertanti modalità di un’espulsione avvenuta con uno spiegamento di forze (50 uomini armati fino ai denti) come per Riina e Provenzano.

Una domanda ai solerti funzionari, però, sorge spontanea: una volta entrati nella villetta di Casal Palocco e constatata l’identità dei feroci criminali da catturare, una donna e una bimba terrorizzate, non gli è saltato in mente che qualcosa non tornava? Un controllo, una telefonata a qualche superiore gallonato per chiedere: che cazzo stiamo facendo, era troppo complicato? Perché a questo punto sorge il dubbio che tutta la vicenda, da molti interpretata in chiave complottista come un favore fatto all’amico personale di Berlusconi e al partner d’affari dell’Eni, nasconda una buona dose di ottusità e cialtroneria.

Insomma, più che James Bond, una gag dell’ispettore Clouseau, anche se non c’è niente da ridere. Forse neanche gli sceneggiatori di Peter Sellers avrebbero saputo creare una battuta come quella escogitata dai cervelli di Palazzo Chigi a proposito di Alma Shalabayeva: “Espulsione revocata, ora può tornare”. Naturalmente gli sgherri kazaki non aspettano altro che liberarla con tante scuse.

Pensavamo di aver toccato il fondo della credibilità internazionale con la pagliacciata dei due marò trattenuti in Italia malgrado la parola d’onore data al governo indiano e poi rispediti a Delhi. Ma ora è molto, molto peggio.

Il Fatto Quotidiano, 14 Luglio 2013

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/07/14/caso-kazakistan-la-tragedia-e-la-farsa/655721/


Titolo: Antonio PADELLARO - Il caso Ablyazov e lo Stato burlesque
Inserito da: Admin - Luglio 21, 2013, 05:37:40 pm
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Il caso Ablyazov e lo Stato burlesque

di Antonio Padellaro

21 luglio 2013


Un ministro degli Interni “inconsapevole” che fa la figura del fesso col botto mentre al Viminale, nella stanza accanto, i suoi funzionari prendono ordini dai kazaki, addirittura esilarante quando in Parlamento si lancia in una strampalata autodifesa intessuta di “apro le virgolette nelle virgolette” da teatro dell’assurdo.

Un ministro degli Esteri tenuta rigorosamente all’oscuro di tutto (perfino delle notizie Ansa), insolentita dall’ambasciatore kazako che convoca invano (“sono in ferie”). Ma che improvvisamente ritrova la parola onde farci sapere che Alma Shalabayeva, consegnata dalle autorità italiane con la figlia di sei anni direttamente nelle grinfie del peggior nemico “sta bene e ringrazia l’Italia” (nessuna riconoscenza, invece, da parte del cognato per il cazzotto preso in faccia durante la perquisizione di Casal Palocco).

Un presidente del Consiglio aggrappato tremebondo alla giacchetta di Napolitano, costretto a esibirsi nello sperticato elogio del fesso col botto per salvare la poltrona.

Un presidente della Repubblica tonitruante e che si crede un monarca assoluto, perfino innominabile secondo il presidente del Senato nelle vesti di gran ciambellano di corte.

Un Partito democratico (“Pd, partito defunto”, twittano i militanti in rivolta) i cui maggiorenti definiscono il ministro di polizia o un inetto o un bugiardo e subito dopo gli votano la fiducia.

Un vertice della Procura di Roma con due parti in commedia: prima vieta il rimpatrio delle due donne, poi lo concede pressato sulla base di un fax, quindi lamenta, accidenti, la beffa subita. Il tutto coronato da un’allegra brigata di prefetti, sottoprefetti e dignitari senza dignità, “a disposizione” degli arroganti emissari di Astana, usati e buttati via come stracci e che in sovrappiù devono masticare la versione ufficiale e menzognera che segna la fine delle loro carriere.

Il Fatto Quotidiano, 21 luglio 2013

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/07/21/il-caso-ablyazov-e-lo-stato-burlesque/662488/


Titolo: Antonio PADELLARO - L’eversore col cerone
Inserito da: Admin - Agosto 04, 2013, 09:24:06 am
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L’eversore col cerone

di Antonio Padellaro | 3 agosto 2013


Siamo ormai all’aperto ricatto nei confronti del presidente della Repubblica, alle minacce contro il moribondo governo Letta, all’eversione nei confronti di un potere dello Stato quale la magistratura.

Come definire altrimenti l’adunata di ieri pomeriggio dei parlamentari del Pdl, al termine della quale i capigruppo Schifani e Brunetta (uno indagato per mafia e l’altro noto soprattutto per l’imitazione di Crozza) hanno annunciato la salita al Quirinale per chiedere a Napolitano un provvedimento di grazia a favore del delinquente Silvio Berlusconi.

Che non è un insulto gratuito scagliato da questo giornale contro il miliardario di Arcore, bensì la definizione espressa, confermata e ribadita nei tre gradi di giudizio del processo Mediaset riguardo al soggetto in questione, di cui “va considerata – scrivono i giudici – la particolare capacità a delinquere dimostrata nel-l’esecuzione del disegno delittuoso”.

Dunque, deputati e senatori del Pdl rimettono nelle mani del loro datore di lavoro il mandato parlamentare, ricevuto del resto come una livrea da restituire ben stirata, affinché il condannato a quattro anni di reclusione per frode fiscale con sentenza definitiva ne faccio l’uso che più gli aggrada. Qui, per cupidigia di servilismo, la funzione parlamentare viene stesa ai piedi del delinquente, il quale mostrandosi alle folle con il cerone del martirio invita piagnucolando i sottoposti ad agire “non per me ma per il bene del Paese”.

Una recita di quart’ordine, se il prezzo del ricatto non fosse: o la grazia al delinquente o facciamo cadere il governo e trasciniamo l’Italia verso scenari da incubo.

Subito il Colle ha fatto sapere che il provvedimento di clemenza non può essere richiesto da due capigruppo. Una risposta si spera puramente sarcastica, come lo fu il comunicato del Quirinale quando il direttore di Libero, Belpietro, parlò di una trattativa per graziare B. nel caso di condanna definitiva. Fece rispondere Napolitano che “queste speculazioni su provvedimenti di competenza del capo dello Stato in un futuro indeterminato” erano “un segno di analfabetismo e sguaiatezza istituzionale”.

Ora che il futuro è diventato presente, possiamo solo aspettarci che ai ricatti eversivi si sappia dare la più adeguata risposta e si chiamino i carabinieri per l’esecuzione della sentenza.

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/08/03/leversore-col-cerone/675733/


Titolo: Antonio PADELLARO - intervista a Santoro: “Il successo e la televisione ...
Inserito da: Admin - Settembre 28, 2013, 04:53:39 pm
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Servizio Pubblico, intervista a Santoro: “Il successo e la televisione indipendente”

Il conduttore del programma alla vigilia della prima su La7: "Dicono che i talk show sono morti, ma i tg non sono vivi. Le notizie arrivano dagli approfondimenti". E nega che la sua fortuna dipenda dal Cavaliere

di Antonio Padellaro | 26 settembre 2013



Caro Michele, giovedì 26 settembre ricomincia Servizio Pubblico. Dimmi, in che anno siamo dell’era Santoro?
Ormai abbiamo raggiunto il quarto di secolo. Il primo Samarcanda risale all’87. Una trasmissione che ha accompagnato i grandi cambiamenti dalla Prima Repubblica ad oggi.

Ne sei stato il testimone diretto.
Testimone e coprotagonista perché non mi nascondo l’importanza che la tv ha conquistato e che conserva ancora oggi. La trasformazione subita dalla politica è stata determinata dall’evoluzione della televisione, quella generalista in particolare.

Più facile o più difficile per te condurre oggi un programma così seguito?
Più difficile: noi eravamo i pionieri di questo genere, potevamo amministrare le forze con meno assillo di concorrenza. Ora si assiste al moltiplicarsi dei contenitori informativi, non uso il termine talk perché molti programmi come il nostro fanno fatica ad essere inquadrati nella categoria talk. Non costruiamo solo parole ma anche immagini.

Fin dall’inizio hai imposto uno stile che i contenitori attuali non fanno che ripetere. L’ospite che diventa protagonista, il palco che dà voce alla protesta civile, gli scoop giornalistici.
Nel nostro caso, anche la scenografia costituisce un elemento fondamentale della narrazione che vogliamo svolgere nel corso della puntata; come lo è per un giornale, la grafica delle pagine. L’idea delle torri in studio, nata dopo l’evento sul web “Tuttinpiedi”, rappresenta la distanza tra la politica e l’indignazione che monta tra i cittadini. Vorrei aggiungere un elemento. Ci si concentra sulla crisi degli ascolti ma si parla poco del perché le reti non riescono più ad esercitare la funzione che avevano storicamente: ad esempio, Ballarò fa ottimi risultati se si considera che va in onda su Raitre, dove, in questo momento, gli ascolti faticano.

Perché le reti non svolgono più la loro funzione?
Oggi assistiamo alla malattia dell’industria televisiva che è stata sempre specchio del Paese, uno specchio che guarda avanti. Nelle tendenze della tv, si prefigurano i futuri spostamenti nell’opinione pubblica e nelle istituzioni. La causa di questa malattia è il conflitto di interessi: per un lunghissimo periodo la tv è stata sotto il controllo di una sola cultura, senza creare una vera concorrenza. E ciò è avvenuto anche quando governava la sinistra. Alla fine della Prima Repubblica, c’è stata un’omologazione profonda del sistema, senza più distinzioni tra servizio pubblico e privato, e un controllo verticale delle quote a cui la sinistra non si è opposta, accontentandosi di gestire spazi subalterni. Da allora c’è stato un lento deteriorarsi della struttura dei network tipica della vecchia tv: i direttori di rete e i capistruttura che autonomia hanno oggi? Si dà per scontato che la tv sia eterodiretta e non solo dalla politica. Colpisce per esempio che il banchiere Gotti Tedeschi chieda l’intervento del Vaticano sulle nomine Rai senza suscitare il minimo clamore.

Ombrelli protettivi che possono risultare comodi, a chi sta in questo recinto.
La crisi dei talk va in parallelo con quella del varietà. Oggi si basa tutto sulla logica dei format: l’equilibrio perverso che si è creato prevede che gli autori siano esterni al network e che le loro proposte siano attente soprattutto agli interessi del padrino di riferimento.

Nel sistema che tu descrivi agiscono però anche gli uomini. Voglio dire che un conduttore non vale l’altro e che il successo di un programma deriva anche dall’esperienza, dall’energia e dal carisma di chi lo dirige.
Storicamente i conduttori dei programmi di informazione sono personalità molto forti, espressione di un punto di vista preciso: penso a Giuliano Ferrara, a Gad Lerner, a Maurizio Costanzo e allo stesso Bruno Vespa. Di figure così ne abbiamo sempre di meno.

Spesso i conduttori non hanno le spalle abbastanza forti per opporsi ai padrini politici.
Con tutti i suoi difetti, lo star system è stato un elemento di ostacolo al controllo verticale del potere perché nessuno di questi protagonisti (uno per tutti Enrico Mentana) si è arreso al ruolo di mero esecutore.

Non hai l’impressione che agli spettatori piaccia sempre di meno il dibattito tra i soliti nomi e che maggior gradimento abbiano i reportage e le inchieste?
Si investe poco in queste produzioni perché, oltre ai costi piuttosto elevati, hanno un risultato incerto: l’inchiesta “funziona” solo quando è deflagrante e finisce sui giornali. Abbiamo chiuso la scorsa stagione di Servizio Pubblico producendo sei speciali di montaggio su temi caldissimi come la trattativa Stato-mafia e il peso della camorra sull’economia meridionale. Hanno avuto ottimi ascolti ma nessun editore è venuto a chiederci di investire su un prodotto del genere. La tv riflette l’atteggiamento della classe dirigente a cui manca la visione per ideare programmi nuovi. E in questo i talk sono elementi più dinamici rispetto ai telegiornali: le verità vengono sempre fuori dai programmi di approfondimento.
Se il talk è in crisi o addirittura morto, i tg sono forse vivi?

Servizio Pubblico fa paura a tanti leader politici. È vero che molti non vengono per paura di Marco Travaglio?
Per loro l’ingresso in quell’arena significa dare legittimità a chi li accusa e li critica. Lo stesso Berlusconi venendo in trasmissione ha segnato la sconfitta dell’editto bulgaro, questo era la grande novità che nessuno ha valorizzato.

Chi vi ha criticato non voleva celebrare il successo di B. quanto piuttosto attaccarvi: dimostrare che eravate come tutti gli altri.
In Italia vige la leggerezza della critica televisiva, vale a dire non riuscire a leggere la televisione dentro i processi sociali e istituzionali del Paese. Con il vecchio sistema elettorale maggioritario un politico non poteva permettersi di non andare in tv. Doveva per forza assumersi le sue responsabilità davanti all’elettorato. L’attuale classe dirigente, figlia del Porcellum e formata da nominati, è espressione chi di un padrone, chi di un partito. Personaggi che non devono rendere conto delle proprie azioni se non a chi li ha messi lì.

Oggi la tv somiglia a un “talent”: prima era un mezzo per far arrivare alla gente la voce dei partiti di massa o dei grandi leader. Ora, invece, a parte che di grandi leader non se ne vedono in giro, è la tv a fabbricarli.
L’immagine di Berlinguer colpito da ictus su quel palco di Padova rappresenta in maniera drammatica che cosa ha significato la sacralità del leader: lui stava morendo e parlava con sempre più fatica ma nessuno dei suoi osava avvicinarsi per non intaccarne il carisma. Oggi il leader non è più un intoccabile, una figura divina. E ciò vale anche per i più potenti. Prendiamo Silvio Berlusconi: la leggenda vuole che la sua forza discenda da un’eccellente capacità di comunicare. Non è così. Penso invece che lui abbia individuato un blocco sociale di interesse al quale far riferimento, dopodiché si è affidato ad un esercito di pasdaran e al blocco delle sue televisioni: senza le tv non avrebbe potuto incidere così tanto sul sistema.

Renzi e Grillo quanto possono essere considerati dei leader mediatici?
Renzi cerca il sostegno della gente puntando sulle capacità di comunicatore, vere o gonfiate che siano. Si torna quindi alla logica del talent: il sindaco di Firenze è come il vincitore di X-Factor e non importa che si confronti o meno con gli elettori. L’esperienza di Beppe Grillo, invece, assomiglia al modello Berlusconi: ha costruito una macchina capace di intercettare l’umore del web e di incanalarlo in una forza politica.
Gode di una posizione dominante anche perché l’estrema frammentazione della rete favorisce il più forte.

Torniamo a Servizio Pubblico, riuscirà a mantenere i livelli di ascolto e il forte impatto sull’opinione pubblica?
Veniamo da due stagioni pazzesche prima con l’esperimento sulla piattaforma delle tv locali, poi con l’arrivo su La7 dove in termini di ascolto siamo stati spesso la seconda o la terza rete e, in un paio di volte, la prima. Cosa faremo? Ci saranno delle novità, nuove sperimentazioni. Proveremo a rompere tutti i ritmi del talk. Sono convinto che il mondo che raccontiamo sia destinato ad essere sconvolto da cambiamenti precisi.
E a ciò dobbiamo essere preparati. E’ come fare surf sull’oceano cercando l’onda giusta.

Caro Michele, Servizio Pubblico è un po’ come il Fatto: chi non ci ama sostiene che il nostro successo solo dipende dall’esistenza di Berlusconi.
È un luogo comune, ma noi sappiamo che non è così.
Quando facevo Samarcanda Berlusconi non era ancora Berlusconi. Un punto di vista indipendente trova sempre degli argomenti per risultare interessante.

(a cura di Paola Maola)

da Il Fatto Quotidiano del 25 settembre 2013

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/09/26/servizio-pubblico-intervista-a-santoro-successo-e-televisione-indipendente/723972/


Titolo: Antonio PADELLARO - Pd, piove a catinelle
Inserito da: Admin - Novembre 03, 2013, 06:28:12 pm
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Pd, piove a catinelle

di Antonio Padellaro | 3 novembre 2013

Ai dirigenti Pd consigliamo la visione dell’ultimo film di Checco Zalone: si divertiranno e avranno modo di riflettere sul personaggio che lo stesso autore ha così descritto a Malcom Pagani: “Un disgraziato che si mostra più stronzo dei ricchi, ambisce solo ad assomigliargli e alla fine, diventa peggio di loro”. Non è in qualche modo la parabola del loro partito, nato per “cambiare l’Italia” e che invece fa combutta di governo con il nemico che doveva cacciare, rischiando di spappolarsi tra mille faide interne?

Prendete le ultime cronache congressuali: dalle Alpi al Lilibeo un’esplosione di tessere fasulle con i clan locali che arruolano seduta stante plotoni di immigrati e perfino gente del Pdl, per accaparrarsi quote di potere. Mentre i veri militanti disertano nauseati le vecchie sezioni ora chiamate circoli: dei ring dove i capatàz finiscono sovente per darsele di santa ragione. Senza contare i pugnali nell’ombra, che spiegano la scelta democratica e prudente di andare al voto palese, onde evitare gli agguati dei franchi tiratori, quando il Senato dovrà pronunciarsi sulla decadenza di Berlusconi. Come la peggiore Dc, dice qualcuno: paragone che l’esperto Cirino Pomicino respinge, non senza qualche ragione, ricordando che lo scudocrociato era un partito vero e non un marketing leaderistico senza prodotto.

A Matteo Renzi le orecchie dovrebbero fischiare anche per la transumanza di facce siciliane poco raccomandabili che sul carro del vincitore vogliono pasteggiare a champagne, altro che spingere. Il giovane sindaco può vincere tutte le primarie che vuole, ma costoro poi presentano il conto: questo il senso del pizzino.

Era inevitabile: per vent’anni il miliardario di Arcore è stato un perfetto alibi morale per i suoi presunti oppositori. Lui, per dire, frodava il fisco, comprava senatori, frequentava minorenni e loro buttavano la polvere sotto il tappeto. Stavano al gioco, con i Penati di turno, percettori di buste preparate da solerti segretarie e intanto scendevano in piazza contro il Caimano cattivone. Ma ora che a palazzo Grazioli stanno (forse) per spegnersi le luci, l’alibi vacilla e le magagne altrui spuntano come i funghi con le piogge autunnali.

E può succedere che, dopo la nipote di Mubarak, tocchi alla figlia di Ligresti. E che, scoperto il peccatuccio, vengano addotte, guarda un po’, identiche ragioni “umanitarie”. Certo, una Guardasigilli è più presentabile di un pregiudicato, ma la protesta dei berluscones – perché a lui non credete e a lei sì? – non sembra del tutto campata in aria. “Parola di ministro” è un buon titolo per il prossimo film comico di successo.

DA - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/11/03/pd-piove-a-catinelle/764833/


Titolo: Antonio PADELLARO - Decadenza Berlusconi, Caimano che abbaia non morde
Inserito da: Admin - Novembre 25, 2013, 04:25:06 pm
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Decadenza Berlusconi, Caimano che abbaia non morde

di Antonio Padellaro | 24 novembre 2013

Segnatevi questa data: mercoledì 27 novembre 2013 perché quel giorno, se solo volesse, Silvio Berlusconi avrebbe l’estrema e forse irripetibile occasione di rendere un servigio al Paese, per la prima volta dopo un ventennio di nefandezze. Lo ha preannunciato: prima del voto sulla decadenza da senatore pronuncerà nell’aula di palazzo Madama un discorso “per passare alla storia”, “per non fare la fine di Craxi”. Alla storia ci passerà comunque come l’uomo del bunga-bunga ma se ispirasse l’atteso commiato alle parole pronunciate alla Camera dal leader del Garofano il 29 aprile del 1993 dovrebbe avere il coraggio che Bettino non ebbe: fare nomi e cognomi e vuotare il sacco, per esempio, sulle promesse d’impunità ricevute.

Promesse per ora vane, altrimenti a  quale scopo nell’intervista dell’altro giorno al Mattino il condannato per frode fiscale si sarebbe vistosamente appellato a un “riconoscimento del mio ruolo” chiedendo “un’agibilità politica che ogni cittadino di buon senso e di buona fede concederebbe a un alleato?”. Richieste ribadite con veemenza ieri davanti ai giovani di Forza Italia e accompagnate da un’arrogante pretesa: altro che servizi sociali, Napolitano gli conceda la grazia motu proprio, “senza un attimo di esitazione e senza che io lo chieda”.

La domanda sorge spontanea : perché mai Berlusconi si attende un simile regalo dal Quirinale? Nella famosa chiamata di correo di vent’anni fa Craxi, in piena Tangentopoli, denunciò un “sistema criminale” e guardandosi intorno chiese se c’era qualcuno pronto a giurare il contrario. Nessuno fiatò. Egli, gli altri componenti di quel sistema fondato sulle mazzette li conosceva bene e forse pensò che quella allusione sarebbe bastata a garantirgli un qualche salvacondotto politico per non dover trascorrere il resto dei suoi anni da latitante ad Hammamet. Lo lasciarono solo. Di questo passo B. farà la stessa fine.

Alfano e gli altri “traditori” lo hanno mollato anche se a cagione della considerevole coda di paglia strepitano più degli altri sulla sua innocenza. Letta nipote lo ha già liquidato: non è più un pericolo per la tenuta della maggioranza. E quanto alla grazia motu proprio è difficile che sul Colle ci sia qualcuno disposto a sfracellarsi per il benefattore della nipote di Mubarak. Ma l’uomo è troppo avvezzo ai compromessi per brandire la vendetta e il palazzo in fiamme si vede solo nei film. Probabile che tutto finisca con la solita piazzata sotto palazzo Grazioli e la solita tirata contro le toghe rosse. Caimano che abbia non morde.

Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/11/24/decadenza-berlusconi-caimano-che-abbaia-non-morde/788813/


Titolo: Antonio PADELLARO - Berlusconi decaduto: è finita, non è finito
Inserito da: Admin - Novembre 29, 2013, 07:20:26 pm
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Berlusconi decaduto: è finita, non è finito

di Antonio Padellaro | 28 novembre 2013

È finita, ma non è finito. Ci sono voluti quattro lunghi mesi per cacciare Silvio Berlusconi dal Senato in forza della legge Severino, ma nessuna legge se non quella della decenza poteva impedirgli di mostrarsi per quello che è sul palco di palazzo Grazioli sferzato dalla tramontana: un vecchio imbonitore, stanco, malandato che recita sempre lo stesso copione e si ripropone per l’ennesima campagna elettorale.

Da vent’anni le solite balle. Vero è che, oltre le truppe infreddolite imbarcate e spedite a Roma per confortare il decaduto dai capataz pugliesi e campani, ci sono 7-8 milioni di elettori che continuano a sperare nella resurrezione dell’adorato Silvio, più per odio verso la sinistra “delle tasse e dell’euro che ci sta rovinando” che per amore di una destra che più sgangherata e rissosa non si può. Eppure i sondaggi oggi dicono che in caso di elezioni questa accozzaglia di forzitalioti, alfanidi e schifanidi, fratelli e cugini di La Russa più alcune rimanenze leghiste, se rimessa insieme dal federatore di Arcore, può battere il Pd di quel fenomeno di Renzi con gli annessi vendoliani, il che la dice lunga sullo stato in cui versa il centrosinistra.

Fa male, dunque, Letta nipote a sperare in una navigazione più tranquilla del suo governo liberato dalla zavorra azzurra, perché al Senato – con sei voti di margine e sotto la pressione dei berluscones avvelenati con i “traditori” del Nuovo centrodestra – può essere davvero il delirio quotidiano, come sperimentò il secondo governo Prodi. Ma neppure il condannato può dormire sonni tranquilli, privato com’è dello scudo immunitario che da ieri sera lo rende passibile di arresto immediato su richiesta delle tante procure che lo indagano, senza contare che potranno perquisirlo e intercettarlo come un qualunque cittadino.

Insomma, potrebbe ritornare premier oppure finire in galera. Da noi funziona così.

Il Fatto Quotidiano, 28 novembre 2013

Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/11/28/berlusconi-decaduto-e-finita-non-e-finito/794073/


Titolo: Antonio PADELLARO - Governo-Colle, la ‘Comédie italienne’
Inserito da: Admin - Dicembre 28, 2013, 11:34:52 pm
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Governo-Colle, la ‘Comédie italienne’
di Antonio Padellaro | 27 dicembre 2013

La comédie italienne più dignitosa è la protesta del regista Maggiulli contro i cancelli dell’Eliseo, mentre è solo indecorosa la ridicola commedia dei decreti natalizi affondati e resuscitati dal Colle per salvare il patetico governo del Letta nipote. SalvaRoma e Milleproroghe, nomi più che altro da cinepanettone, nascondono il solito marchettificio di Capodanno, pioggia di soldi per le fameliche clientele bianche, rosse, verdi, per dirla con l’affittaCamere Scarpellini che riscuote sontuose pigioni e precisa pignolo di aver “pagato tutti”.

Insomma, una partita di giro o se si preferisce, un nesso di causa ed effetto. SalvaRoma potrebbe essere anche un film pasoliniano, ma più adatto sarebbe Porcile, a osservare le foto con i rosei maialini che grufolano tra i rifiuti di una Capitale che così ridotta non la salva più nessuno. E cos’è il Milleproroghe se non l’autobiografia di una Repubblica fondata sul differire, dilazionare e protrarre? Ma questo è solo colore perché la sostanza è una maggioranza a tal punto sfibrata e spompata che non riesce neppure a farsi gli affari suoi.

C’è la fuga degli onorevoli verso il cenone e poi ci sono quei rompiscatole dei Cinquestelle che ficcano il naso dove non dovrebbero. È vilipendio se immaginiamo che Letta abbia portato al Quirinale il rischio della bocciatura in extremis del SalvaRoma e che l’augusto suggerimento sia stato di cambiare nome e qualche connotato al decreto (come il finto ambasciatore del Catonga spalmato di lucido nero in Tototruffa ’62) così da rosicchiare altri sessanta giorni di tempo?

La comédie italienne può continuare all’infinito tra mille imbrogli e sotterfugi se una mano pietosa e consapevole non provvederà a concordare rapidamente con chi ci sta uno straccio di legge elettorale per poi andare subito al voto. È chiaro che la mossa spetta a Matteo Renzi se non vuole finire nella palude stigia delle attese inutili. E se altri moniti si alzeranno, si turi le orecchie e proceda.

Il Fatto Quotidiano, 27 dicembre 2013

Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/12/27/governo-colle-la-comedie-italienne/825711/


Titolo: Antonio PADELLARO - Politici e buoni propositi: parole, parole, parole
Inserito da: Admin - Gennaio 06, 2014, 06:26:12 pm
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Politici e buoni propositi: parole, parole, parole
di Antonio Padellaro | 5 gennaio 2014


C’è un articolo che meriterebbe di essere incorniciato e posto sulla scrivania di Enrico Letta a Palazzo Chigi e poi riprodotto e distribuito a ministri, viceministri, sottosegretari, vassalli, valvassori e valvassini a imperitura memoria. Lo ha scritto Milena Gabanelli sul Corriere della Sera del 31 dicembre 2013 e ha come titolo: “Tutto quello che non ha fatto la politica del ‘noi faremo’”.

L’incipit è sublime: “A fine anno, nella vita come in tv si replica. Il capo dello Stato fa il suo discorso, quello del governo ricicla le dichiarazioni di sei mesi in occasione del decreto del fare, con l’enfasi di un brindisi: ‘Faremo’. Vorremmo un governo che a fine anno dica ‘abbiamo fatto’ senza dover essere smentito”. Seguono quattro capitoletti (ben argomentati come nello stile della conduttrice di Report) sul peso delle tasse, sulla giustizia lenta, sulle difficoltà di imprese e lavoratori, sui tagli della Rai. Quattro marmorei monumenti all’inettitudine che si ammanta di virtù.

Su un punto però, cara Milena, mi trovo in disaccordo, là dove scrivi: “Come contribuente e come cittadina non m’interessa un governo di giovani quarantenni. Pretendo di essere governata da persone competenti e responsabili, che blaterino meno e ci tirino fuori dai guai”. Stai scherzando? Vuoi la loro rovina? Nel blaterare o se vogliamo nella produzione incessante di promesse su mirabolanti piani, programmi, progetti, meritori propositi e solenni impegni (per non dire dei moniti e delle severe esortazioni) che naturalmente resteranno lettera morta, costoro trovano l’essenza stessa del loro essere, la ragione prima delle loro carriere e forse anche della loro esistenza in vita. Perciò l’impulso vitale che li distingue consiste nella ricerca spasmodica di un taccuino o meglio ancora di una telecamera a cui distillare cotanto nettare. Eh sì, agili e smemorati balzano da una balla all’altra come cercopitechi nella giungla. Esistono, è vero, rari esemplari seri e responsabili ma nulla contano e infatti non li vedremo mai in tv.

L’ultima trovata di questo circo degli illusionisti sono le unioni civili riesumate da Matteo Renzi dal secolo scorso e che immancabilmente suscitano sdegnate proteste, in nome dei valori della famiglia, di quei politici che non a caso di famiglie spesso ne hanno due o tre. Viviamo in un Paese che non riconosce le coppie di fatto, che mette al bando i matrimoni gay, che limita la fecondazione assistita, che permette l’adozione solo ai coniugi dal sacro vincolo del matrimonio, che considera i single persone di serie b, che osteggia il testamento biologico e che tratta gli immigrati come bestie. Sul piano dei diritti civili siamo al livello della Spagna franchista o giù di lì. Siamo la vergogna dell’Europa civile.

Vedrai, cara Milena, che tra qualche giorno anche le unioni di fatto ritorneranno mestamente nel cassetto sostituite da qualche altra trovata truffaldina. Parole, parole, parole. Non è la canzone di Mina ma Shakespeare, Amleto, atto II. Una tragedia.

Il Fatto Quotidiano, 5 gennaio 2014

Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/01/05/politici-e-buoni-propositi-parole-parole-parole/832413/


Titolo: Antonio PADELLARO - L'ideologia rende "politicamente invalidi".
Inserito da: Admin - Marzo 06, 2014, 12:26:42 pm
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Governo Renzi, impresentabile come il resto
di Antonio Padellaro

5 marzo 2014

L’accordo truffaldino tra un premier diventato tale con una manovra di Palazzo (privo com’è di consenso elettorale) con un partitino di scissionisti nominati dal precedente padrone realizza l’abusivismo perfetto in una democrazia ormai per modo di dire: ci prendiamo il governo e vi sequestriamo il voto, tiè. Non lo chiameremo golpe perché non c’è dramma, trattandosi di un misero gioco delle tre carte. Si strombazza l’Italicum per la Camera, ma da usare solo quando il Senato sarà abolito, forse tra 18 mesi o forse mai. Un obbrobrio mai visto, incostituzionale col botto.

Del resto, è il sogno a lungo cullato lassù sul Colle che pur di non far esprimere gli italiani ha preferito affidarsi a maggioranze artificiali (Monti, Letta) che infatti si sono autodissolte con imperdonabile spreco di tempo e di energie. Adesso tocca al fenomeno Renzi inventarsi un sistema elettorale ad personam che scandalizza perfino uno specialista come Berlusconi. Il turbo fiorentino ha la mania dei record. Cinque riforme in cinque mesi (se sono tutte così…). Due maggioranze, una per le riforme e una per i giorni feriali.

E a ben guardare, nel suo governo di governi ce ne sono tre, uno dentro l’altro come le matrioske. Il primo è quello della bella presenza: il più giovane, il più snello, il più rosa, buono per i titoli sui giornali. Il secondo è quello che conta e fa di conto. Guidato dal ministro dell’Economia Padoan, presidia via XX Settembre con un blocco di tecnici che dovranno piacere a Bruxelles e a Berlino. Il terzo è il sottogoverno degli affari e degli inciuci, quello dei sottosegretari così impresentabili che perfino Alfano è costretto a cacciarne uno (il prode Gentile). A Renzi avevamo creduto quando aveva letto il successo alle primarie del Pd come l’ultima spiaggia di un Paese giunto allo stremo. In molti abbiamo pensato: questo fa sul serio. Ora si sta giocando tutto il capitale tra pasticci e imbrogli vari. Non si dura nascondendo le elezioni in un cassetto. E per governare non basta qualche tweet.

Il Fatto Quotidiano, 5 marzo 2014

Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/03/05/governo-renzi-impresentabile-come-il-resto/902940/


Titolo: Neppure Padellaro si permetta di usare Scalfari come clava contro Renzi!
Inserito da: Admin - Agosto 23, 2014, 05:59:09 pm
Renzi, la solitudine di Eugenio S.

Di Antonio Padellaro | 22 agosto 2014

Forse non sbagliamo se, nel leggere l’ultimo Eugenio Scalfari, siamo portati a pensare che ogni tanto si sentirà un po’ solo. Non parliamo, per carità, dei suoi fans che sono ancora legioni, pronti a centellinare le omelie domenicali con religioso fervore. E neppure alludiamo ai colleghi giornalisti che non cessano di tributare al Fondatore il rispetto e la considerazione che merita. Del resto, se non ci fosse stato Scalfari, non ci sarebbe stata Repubblica. Ogni tanto però sorge il dubbio che, se oggi ci fosse ancora la Repubblica di Scalfari, su un punto soprattutto somiglierebbe poco alla Repubblica di Ezio Mauro: il giudizio sul governo di Matteo Renzi. Scalfari ha sicuramente una qualità (sui difetti noi del Fatto abbiamo già dato): dall’alto della barba bianca e della storia personale, può permettersi di non essere ipocrita. Se disistima qualcuno (o se non lo ritiene degno della sua attenzione), prima o poi glielo farà capire.

Rivelatore di questo stile è una piccola confidenza che mi fece Eugenio (quando ci chiamavamo per nome) a proposito dei tanti libri, spesso inutili, di autori altrettanto superflui, spesso giornalisti, che intasavano e ritengo ancora intasino gli scaffali del Fondatore, accompagnati da dediche anelanti benevolenza. Quando a Scalfari capitava di incrociare lo sguardo supplichevole di uno di questi presunti Hemingway, alla fatale domanda “direttore hai ricevuto il mio libro?”, al tapino era riservata la seguente formula standard: “Certamente, caro, e mi compiaccio con te”. Mi spiegò, se ben ricordo, che questo modo di congratularsi aveva il pregio di evitare un qualunque pronunciamento sul contenuto del tomo (che evidentemente neppure era stato sfogliato). Ma tutto col dovuto garbo e lasciando il resto alla libera interpretazione del romanziere o del saggista di turno, che infatti ringraziava riconoscente immaginando il meglio. Qualche tempo dopo mi capitò incautamente di far pervenire a Scalfari non ricordo più quale mio capolavoro editoriale e infatti di lì a poco la sua voce inconfondibile al telefono sentenziò: “Caro, mi è arrivato il tuo libro e mi compiaccio con te”.

Il motivo di questa digressione è presto detto. È immaginabile che, all’arrivo di Renzi a Palazzo Chigi, E. S. abbia nutrito più di una riserva sulla cultura governativa dello scout di Rignano, pur riconoscendogli, come tanti, quella vitalità caotica ma salutare degli uomini nuovi che irrompono in una situazione stagnante. La predilezione di Scalfari per Enrico Letta non era un mistero, come non lo fu il suo disappunto per l’improvvisa giubilazione del “nipote” preceduta da un mancato invito al Quirinale dove al posto dell’allora premier, considerato non certo un fulmine di guerra, ratto si presentò l’altro. Ecco, a noi piace pensare che per dare una mano al suo grande amico Giorgio Napolitano evitando sgradevoli finzioni, almeno all’inizio Scalfari abbia adottato nei confronti del nuovo arrivato l’infallibile metodo del “mi compiaccio”. Ovvero: garbo istituzionale con cauta sospensione di giudizio. Quando però Renzi ha cominciato sul serio a fare Renzi, Scalfari non si è trattenuto. Prima ha rispolverato la favola del Pifferaio di Hamelin che ammaliava le turbe conducendole dove più gli conveniva. Poi ha smontato alcuni dei capisaldi del renzismo, a cominciare dagli 80 euro e dal Senato.

Quindi, domenica scorsa, ha impartito una lezione al giovane presidente del Consiglio sulle differenze tra deflazione e depressione. Il tutto condito da un attacco finale alle riforme renziane, ipotizzando che esse mirino esclusivamente al rafforzamento del rottamatore attraverso forme rischiose di “democrazia individuale e sovranità popolare fittizia”. Definizione che ha lo stesso suono di quella “democrazia autoritaria” denunciata da questo giornale in una petizione che in un mese ha già raccolto più di 233 mila adesioni.

Non pretendiamo certo che Scalfari unisca la sua firma a quella di quei molti giuristi e personaggi della cultura che certamente stima o che gli sono amici. Non siamo ipocriti neppure noi. Si parla tuttavia di una crescente insofferenza del Fondatore per la sudditanza nei confronti di Renzi dimostrata dalla cosiddetta grande informazione, con frequenti cadute di stile e di gusto. Si dice anche che all’inizio di agosto, conversando amabilmente nella sede di Largo Fochetti sulla decadenza degli imperi nella storia, egli abbia ricordato come pur di assecondare le voglie dell’imperatore Tiberio, i cortigiani ricorressero a bassezze di ogni genere e tipo, descritte queste con dovizia di particolari. Chissà a quale giornale si riferiva. Ma, se avesse voluto dire che la libera stampa, se ancora libera, piuttosto che assecondare i governanti dovrebbe incalzarli con qualche salutare sferzata, ebbene su questo non potremmo che dichiararci d’accordo.

Il Fatto Quotidiano, 22 agosto 2014

Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/08/22/renzi-la-solitudine-di-eugenio-s/1096163/


Titolo: PADELLARO Alcune belle menti odiano più Renzi di altri più meritevoli di rancore
Inserito da: Admin - Settembre 01, 2014, 06:33:25 pm
Renzi, cono d’ombra

Di Antonio Padellaro | 30 agosto 2014

Con tutti i problemi che abbiamo non si sentiva proprio il bisogno di un replay di Berlusconi che fa il clown e passeggia per il cortile di Palazzo Chigi leccando un gelato. Anzi, duole dirlo, ma perfino l’ex Cavaliere avrebbe evitato di fare il pagliaccio con il governo nel bel mezzo di una crisi economica ogni giorno più devastante.

Ma, come il Pregiudicato (con il quale non a caso è culo e camicia e stringe patti segreti), Renzi pensa di fare fessi gli italiani con queste piccole armi di distrazione di massa. Non gira un euro, i negozi sono vuoti, le imprese chiudono, le famiglie affrontano il peggiore autunno dagli anni 50, ma il premier giovanotto viene immortalato mentre mangiucchia banane o si tira una secchiata d’acqua in testa.

Come dire: ragazzi va tutto benone, e se i gufi dell’Economist mi dipingono come un adolescente immaturo accanto a Hollande e alla Merkel mentre la barchetta dell’euro affonda, io ci rido sopra e fo il ganzo. Purtroppo, la bibbia della grande finanza voleva comunicargli che i grandi investitori non sanno che farsene del governo degli annunci ai quali quasi mai seguono i fatti. Dopo la figuraccia della riforma scolastica (con i centomila precari assunti da un giorno all’altro, secondo i giornali di corte) che aveva detto “vi stupirà” e che infatti molto ci ha stupito per la sua assenza, Renzi invece di chiudersi in un imbarazzato silenzio si è sparato la mirabolante riforma della giustizia civile che, venghino signori venghino, durerà la metà e mi voglio rovinare.

Se continua così, lo statista di Rignano non farà l’annunciato big bang, ma un grosso botto sì. Al gusto di limone.

Dal Fatto Quotidiano del 30 agosto 2014

Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/08/30/renzi-cono-dombra/1103238/


Titolo: Antonio PADELLARO - Anche Padellaro rancoroso sbaglia...
Inserito da: Admin - Settembre 24, 2014, 06:33:30 pm

Direttore de Il Fatto Quotidiano e scrittore
Articolo 18: Napolitano, metodi da Stato di Bananas

Di Antonio Padellaro | 23 settembre 2014

Chissà come saranno fischiate le orecchie ai vari Bersani, D’Alema, Civati, Fassina, Chiti, Bindi, Cuperlo, Cofferati e ai tanti altri che nel Pd non intendono piegarsi all’editto di Matteo Renzi sull’abolizione dell’articolo 18. E chissà come si comporterà adesso la minoranza formata dai 110 deputati e senatori democratici decisa a dare battaglia nelle aule parlamentari sul Jobs Act, ma anche sulla legge di Stabilità, quando ieri sera si è vista arrivare tra capo e collo il super editto di Giorgio Napolitano.

Perché se il Colle intima lo stop ai “corporativismi e conservatorismi” che impediscono l’avvio di “politiche nuove e coraggiose per la crescita e l’occupazione” c’è poco da fare. O si piega la testa e ci si ritira in buon ordine o si prosegue la battaglia in un clima di caccia alle streghe. Perché nella lunga storia repubblicana mai era accaduto che il confronto democratico nella stessa maggioranza e nello stesso partito subisse una pressione così prepotente e su materie sensibili come i diritti e il lavoro a opera del suo stesso leader e premier in combutta con il Quirinale.

Appena la sinistra Pd e la Cgil hanno provato a dire che sui licenziamenti senza garanzie non erano d’accordo, cosa del tutto naturale, è partita la katiuscia. Con tanto di videomessaggio alla nazione, Renzi si è scagliato contro la “vecchia guardia che vuole lo scontro ideologico”, mentre con metodi da prefetto di disciplina la Serracchiani ha ricordato ai reietti “di essere stati eletti con e grazie al Pd” quando peraltro segretario non era Renzi, ma Bersani. Poiché non era bastato a fermare la fronda, ecco che scende in campo il capo dello Stato, che da tempo ha smesso i panni del super partes per schierarsi con il patto del Nazareno. Gli è andata bene quando ha spinto per la riduzione del Senato a ente inutile. Meno quando ha preteso l’elezione dell’indagato Bruno e di Violante alla Consulta. Adesso entra a gamba tesa nel dibattito interno del Pd e sulle decisioni del Parlamento. Metodi non da democrazia costituzionale, ma da libero Stato di bananas.

Il Fatto Quotidiano, 23 settembre 2014

Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/09/23/articolo-18-napoltiano-metodi-da-stato-di-bananas/1130325/


Titolo: Antonio PADELLARO - Sergio Mattarella, l’avvocato dei misteri: “Il fratello ...
Inserito da: Admin - Febbraio 13, 2015, 02:50:19 pm
Sergio Mattarella, l’avvocato dei misteri: “Il fratello Piersanti sbagliò”

Politica
Nel gennaio 1980 a Palermo la mafia uccide il presidente della Regione siciliana. L'inviato di un giornale del nord incontra Vito Guarrasi, incarnazione del potere che scende a patti con tutti. Quel destino tragico legato a un'ingombrante storia familiare

Di Antonio Padellaro | 9 febbraio 2015

“Non ci si comporta così”. L’avvocato Vito Guarrasi accompagnò queste parole, mi sembra di ricordare, con un colpo di forchetta sulla tovaglia ricamata, i calici vibrarono e un cameriere in giacca bianca versò ancora del Rapitalà. Poi il mio ospite sentenziò: “Piersanti Mattarella non avrebbe mai dovuto dimenticare di essere il figlio di Bernardo Mattarella”. Era il 9 o il 10 gennaio del 1980, il Corriere della Sera mi aveva spedito a Palermo per raccontare i giorni successivi all’assassinio del presidente democristiano della Regione siciliana e non sapevo cosa scrivere. Guarrasi, detto anche l’avvocato dei misteri, mi offrì l’attacco del pezzo e un pranzo indimenticabile. Ne parleremo ancora.

La pista: quaderni ritrovati e l’uomo di Cassibile
Dopo l’elezione al Quirinale di Sergio Mattarella sono andato a ripescare dei vecchi appunti cercando un filo conduttore: come molti sono convinto che in fondo l’odierna apoteosi sul Colle sia cominciata con la tragedia di trentacinque anni fa. In questa storia, che come vedremo ne richiama altre, c’è qualcosa d’indivisibile e di profondamente complesso: c’è soprattutto il sangue versato e ci sono i vincoli di sangue che si agitano nel profondo di ciascun protagonista e che nessun altro è in grado di spiegare. Arrivare in Sicilia per chi ha un cognome come il mio sottoponeva sempre a un piccolo esame, sì anche questo del sangue. Dall’impiegato dell’autonoleggio alla concierge dell’Hotel delle Palme la registrazione del tesserino giornalistico comportava un’immancabile constatazione sulle origine sicule dei Padellaro. E dunque accogliendomi come figliol prodigo i siciliani si aspettavano che io naturalmente rifuggissi dai soliti luoghi comuni sui siciliani, mafia o non mafia. Eppure, sapevano benissimo che non era certo un luogo comune il killer che nella vicina via della Libertà, la mattina del 6 gennaio, festa dell’Epifania aveva ferito a morte Piersanti Mattarella, appena salito sull’auto per recarsi a messa con la famiglia. È lo stesso riflesso che ha ispirato la famosa gag di Roberto Benigni in Johnny Stecchino quando lo “zio” gli parla della piaga che “diffama la Sicilia e in particolare Palermo agli occhi del mondo, il traffico”. Molti siciliani hanno ben presente cos’è la mafia ma se ne parlano gli altri, e figuriamoci se “un giornale del nord” storcono il naso e si sentono, appunto, incompresi e anche un poco “diffamati”.

Andavo girando a vuoto per le stazioni obbligate dell’inviato a Palermo. La redazione del Giornale di Sicilia, dove colleghi assai cortesi mi fornivano ampi dettagli sul risaputo; e davanti all’ingenuità di certe domande avevano l’aria di pensare: “Ma chistu che ne vuole sapere…”. Stanze dei passi perduti dove sarei tornato il 30 aprile 1982, giorno dell’uccisione del segretario regionale del Pci, Pio La Torre. E allora mi sarei ricordato di una confidenza fattami dallo stesso La Torre. Il temutissimo Vito Ciancimino che lo incrocia nei corridoi di palazzo delle Aquile e mafiosamente gli chiede se ha bisogno di qualche favore e il collerico Pio che gli soffia in faccia: “Non ti devi permettere”. Ma questa è un’altra storia. Poi c’era il tour dai politici che accettavano di riceverti “ma naturalmente non lo scriva”: in genere mezze calzette che sui possibili mandanti dell’omicidio bofonchiavano ipotesi strampalate salvo poi rianimarsi quando finalmente il discorso cadeva sulla “politica”. Ah, la politica sospiravano con la stessa espressione trasognata di Benigni-Stecchino quando esclamava: ah mia matri. Da tempo l’Isola era considerata una specie di laboratorio di audaci strategie, tali da mettere in imbarazzo perfino Roma come, per esempio, le larghe intese Dc-Pci, formula sperimentata sotto varie forme e consacrata in Regione proprio nella giunta Mattarella. Orbene, le mezzecalzette politologhe m’intrattenevano sui marchingegni siciliani con pippe interminabili che facevo finta di trascrivere. Alla sera, esausto mi accasciavo al Delle Palme e lì tra divani e mobili liberty, nelle atmosfere di quei saloni teatro dei meeting di Joe Bonanno e dei bravi ragazzi cercavo inutilmente la trama smarrita chiedendomi: che ci faccio qui?

Avevo cercato di mettermi in contatto con Guarrasi ma con poche speranze. L’avvocato era come il Delle Palme: suggestivo ma sfuggente. Quel nome, del resto, veniva pronunciato sottovoce generalmente accompagnato da una discreta rotazione della mano destra come a dire: quello ne sa di cose… Giovanissimo aveva assistito alla firma dell’armistizio di Cassibile in qualità di aiutante del generale Castellano e si favoleggiava della sua attiva presenza in una riunione con alti ufficiali americani dove sarebbero state poste le basi del separatismo siciliano sotto la direzione ça va sans dire della mafia. Ritenuto di volta in volta riferimento della sinistra, della massoneria e di Cosa Nostra, presente nei consigli di amministrazione di 25 differenti società, anche pubbliche, consigliere di Enrico Mattei, si diceva che conoscesse la verità sul disastro aereo di Bascapè (secondo alcune ricostruzioni un attentato con bomba a bordo) dove perse la vita il fondatore dell’Eni, e che catapultò Eugenio Cefis al vertice dell’ente petrolifero. Bon vivant e accompagnato da donne bellissime, così ne scrisse nel 1976 il senatore Luigi Carraro, relatore della commissione parlamentare Antimafia: “Non c’è stato settore di qualche importanza della vita economica siciliana che non ha visto impegnato in prima persona l’avvocato Guarrasi. Non sempre però queste iniziative andarono a buon fine”. Si sussurrava che fosse più potente di Cuccia, più influente di Agnelli, più ricco di Berlusconi, più astuto di Andreotti, più segreto di Fatima. Mi chiamò una mattina, una voce cordiale: “Dottore Padellaro sono l’avvocato Guarrasi, so che mi sta cercando, sarei lieto di averla oggi a pranzo qui a Mondello”.

Il Potere: sulle tracce dei tre magnifici democristiani
Mi sentivo preparato sulle domande da fargli. Da anni seguivo le complicate traiettorie della Dc siciliana e avevo avuto modo di incontrare, oltre a Mattarella gli altri magnifici tre della giovane covata democristiana. Rosario Nicoletti, segretario del partito. Rino Nicolosi, che diventerà presidente della Regione nel 1985. Il più volte ministro Calogero Mannino, per decenni grande burattinaio della politica siciliana. Andavo da Nicoletti ogni volta che scendevo a Palermo. Uomo tormentato, non l’ho mai visto sorridere, e lacerato com’era tra intrighi e veleni di cui qualche volta mi parlava, avevo l’impressione che vivesse in una sorta di precarietà spirituale, come quei preti che hanno perso la fede ma continuano a dire messa. Di Piersanti Mattarella, infine, avevo seguito il percorso sorprendente. Una carriera cresciuta all’ombra del potente padre Bernardo, più volte ministro e grande collettore di voti e di amicizie anche compromettenti in quel di Castellammare del Golfo, nella Sicilia occidentale della mafia più spietata. Poi però, come scrive Alfio Caruso in Da Cosa nasce Cosa, “dall’oggi al domani, il figlio dell’avvocato Bernardo diventa inavvicinabile. Mattarella è dalla nascita immerso nella Sicilia del potere assoluto, eppure mostra di non avere compreso fino in fondo i meccanismi che la regolano. Ritiene che lì dove vige la legge del più forte possa essere instaurata senza contraccolpi la legge dello Stato. Gli sfuggono la portata del fenomeno, gli enormi interessi che muove, il vasto raggio delle complicità. Non capisce che lo stesso sostegno del Pci alla sua giunta, del quale lui si fa forte per sfidare i vecchi equilibri, è un chiodo in più sulla sua bara”.

Il pranzo: giri di parole, parenti e la “fedeltà” di Trinacria
“Qui a Mondello” era una bellissima dimora moresca con patio arabo e una grande terrazza con fontane e giochi d’acqua, oggi trasformata nella sede di un ristorante esclusivo. Di Guarrasi ricordo tre cose. Il tratto signorile. L’esibizione orgogliosa delle sue proprietà tra cui, amatissima, la tenuta dei vigneti di Rapitalà (dall’arabo Rabidh Allah, mi spiegò, il fiume di Allah che scorre tra i filari), adagiata là dove Camporeale declina verso Alcamo. Ma soprattutto mi colpì la particolare attenzione che riservò alla storia della mia famiglia paterna. È vero (chiese ma lo sapeva benissimo) che si era trasferita a Roma da Mazzarino, paesone vicino Caltanissetta tristemente noto per un convento di frati mafiosi che taglieggiavano i poveri contadini? Confermai. Ed ero forse parente di quel Grand commis dello Stato con cui aveva condiviso una sincera amicizia e alcune poltrone nei consigli di amministrazione? Sì, era mio zio. Poi s’informò sulla salute di mio padre, anch’egli alto funzionario. Cercava, amabilmente e malignamente, di mettere in contraddizione le mie origini avvolte, a suo dire, nella bambagia del potere con i miei articoli, sempre a suo dire, sinistrorsi, scritti per un giornale, il Corriere che non esitò a definire “comunista”. Stava rispondendo per così dire mafiosamente alla mia domanda iniziale sulle cause dell’uccisione di Piersanti Mattarella e lo faceva attraverso un ragionamento analogico e intriso di sottocultura patriarcale. Non si devono tradire le proprie origini se grazie a esse abbiamo ricevuto privilegi e benefici. E Piersanti aveva dimenticato, purtroppo, di essere il figlio primogenito di Bernardo e dei suoi voti. Così discorrendo l’avvocato dei misteri mi svelò parte del mistero.

I destini. Vite e morti misteriose: Nicolosi, Nicoletti e Mannino
Anche se sull’origine e i mandanti dell’omicidio Mattarella non tutto è stato chiarito con l’ergastolo a Totò Riina e agli altri boss della Cupola, è accertato che l’esecuzione fu decisa in seguito al tentativo del presidente di sottrarre alle grinfie degli amici degli amici gli appalti pubblici della Regione. A chi cercò di stargli accanto in quella tormentata Dc non è andata meglio.

Rosario Nicoletti, anch’egli rampollo di una potente famiglia siciliana, è morto suicida nel 1984 lanciandosi dal quarto piano della sua casa di Palermo per ragioni rimaste misteriose. Rino Nicolosi è morto divorato dal cancro nel 1998 dopo aver consegnato alla magistratura un memoriale che gettò lo scompiglio nella classe dirigente dell’epoca. Calogero Mannino è stato coinvolto in vari processi con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa ed è attualmente imputato nel processo sulla trattativa tra lo Stato e la mafia. Di Vito Guarrasi, morto nel 1999, è rimasta una frase sprezzante: “I siciliani sono più furbi che intelligenti”. Per la sua storia personale e per la dignità con cui in tutti questi anni ha protetto la memoria del fratello, Sergio Mattarella è la dimostrazione del contrario.

Da il Fatto Quotidiano di domenica 8 febbraio 2015

Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/02/09/sergio-mattarella-lavvocato-dei-misteri-fratello-piersanti-sbaglio/1411437/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=newsletter-2015-02-10


Titolo: Antonio PADELLARO - La sinistra che rischia di aiutare Salvini
Inserito da: Admin - Marzo 02, 2015, 12:13:13 pm
Politica
La sinistra che rischia di aiutare Salvini

Di Antonio Padellaro | 28 febbraio 2015
Giornalista e scrittore

Piazza del Popolo. Manifestazione della Lega "Renzi a Casa “Di quanti “agenti provocatori” può disporre Matteo Salvini nella cosiddetta sinistra antagonista, visto l’impegno profuso da centri sociali e comitati di lotta per imbottire di voti i suoi già pingui sondaggi? La domanda sorge spontanea di fronte al blitz di un gruppo di attivisti del “Movimento per la casa” che ieri, a Roma, hanno occupato una chiesa in Piazza del Popolo come prologo in vista della manifestazione leghista di oggi.

Naturalmente parliamo di agenti provocatori inconsapevoli, persone mosse dalla legittima convinzione che Salvini, con le sue intemerate contro rom e immigrati, rappresenti un pericolo. Argomenti che lo stesso Salvini rovescia per dimostrare che in realtà, qui da noi, clandestini e rom spadroneggiano grazie alla complicità o alla viltà di tutti gli altri partiti.

Una tecnica che il Matteo felpato ha già sperimentato presentandosi nei campi nomadi sperando, immaginiamo, che qualcuno non resistesse alla tentazione di dirgliene (e di dargliene) quattro. Cosa puntualmente accaduta a Bologna e a Milano con supremo scandalo dei malpensanti più che mai convinti che davanti all’invasione dei barbari l’unica salvezza sia Salvini.

Ieri, il nostro ha detto che “non possono essere quattro squadristi a decidere chi manifesta e chi no”, dimenticando che lui gli squadristi se li è messi in casa, anzi in Casa Pound. Intanto lo slogan del corteo “antifascista” sarà: “Mai con Salvini mai con Renzi”. Un’altra sponda alla strategia dei due Mattei divisi nella lotta ma uniti nella ricerca ossessiva di un nemico.

‘Stoccata e fuga’ – Il Fatto Quotidiano, 28 Febbraio 2015
E' online FQ Magazine, il rotocalco a modo nostro
Di Antonio Padellaro | 28 febbraio 2015

Da – ilfattoquotidiano.it


Titolo: Antonio Padellaro. Francesco, gli armeni e la politica a due velocità
Inserito da: Admin - Aprile 20, 2015, 06:06:08 pm
Francesco, gli armeni e la politica a due velocità

Politica

Di Antonio Padellaro | 16 aprile 2015

In udienza da Papa Francesco (e in generale con qualsiasi papa) i politici italiani tendono a mostrarsi in estasi, tanto che le loro foto ufficiali in Vaticano sembrano immaginette sacre e si resta impressionati da tanta devozione. Ogniqualvolta poi che il Parlamento italiano osa affrontare i cosiddetti temi sensibili – dalle coppie di fatto alla fecondazione eterologa, alle norme sul fine vita –, subito schiere di reverendi onorevoli si mobilitano nel nome di Santa Romana Chiesa per impedire l’adozione di elementari diritti civili e manca poco che dicano:

Gesù piange. Davanti a tanto fervore, meraviglia non poco il silenzio con cui questi crociati alle vongole hanno accolto le minacciose parole del presidente turco Erdogan (“non ripeta più l’errore”) contro il Pontefice che ha giustamente definito il genocidio degli armeni per mano turca “come una delle grandi tragedie insieme a nazismo e stalinismo”. Ora, immaginiamo cosa sarebbe successo nel mondo islamico, con relativi anatemi e moti di piazza, se un qualsiasi premier occidentale avesse osato attaccare con analoga violenza il Gran Muftì. Qui da noi, invece, il ministro degli Esteri Gentiloni ha espettorato timide rimostranze (“attacchi ingiustificati”: caspiterina!), mentre Renzi non ha proferito verbo.

Una frase, infine, del sottosegretario Gozi, secondo cui a giudicare sullo scontro Francesco-Erdogan saranno “gli storici e non i governi”, spiega perché i jihadisti sono così convinti di farci la pelle.

Da ‘Stoccata e Fuga’, il Fatto Quotidiano 16 aprile 2015
Di Antonio Padellaro | 16 aprile 2015

http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/04/16/francesco-gli-armeni-politica-velocita/1597477/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=newsletter-2015-04-17



Titolo: Antonio PADELLARO (Con rispetto ma ha le sue idee dell'essere sempre contro).
Inserito da: Arlecchino - Giugno 29, 2015, 05:42:41 pm
Scuola
Riforma scuola, il silenzio (del presidente Mattarella) genera mostri

Di Antonio Padellaro | 28 giugno 2015

Certe volte (e con molto rispetto) viene da chiedersi: ma dov’è il presidente Mattarella? Nel senso di un sommesso appello: perché resta in silenzio, perché non fa qualcosa? Attenzione, non siamo certo noi a rimpiangere i tempi del Quirinale interventista, quando Giorgio Napolitano faceva, disfaceva, suggeriva, orientava, accompagnato da una sinfonia di moniti. Ma c’è una misura in tutto e pensiamo che il pur flemmatico successore sarà saltato sulla sedia alla lettura del maxi-emendamento sulla Buona Scuola, imposto da Renzi all’approvazione del Senato con l’ennesimo voto di fiducia, prendere o lasciare.

Una legge in 25 mila parole, ha scritto Michele Ainis sul Corriere della Sera, denunciando il mostro legislativo in 209 commi e nove deleghe al governo, che in una concentrazione abnorme di poteri fa tutto lui: propone, emenda e approva. Ricordate come si stracciavano le vesti i mandarini di Re Giorgio, di fronte ai maxieccessi di Prodi, Berlusconi, Monti, Letta? Eppure, forse mai un governo aveva agito con tale prepotenza, umiliando il Parlamento ridotto a bottonificio e su una riforma che suscita timori in milioni di insegnanti, alunni, famiglie. La speranza è che Mattarella si prepari a un gesto forte che la Costituzione gli consente, quando riceverà sul tavolo questo maxisgorbio dopo il previsto sì di Montecitorio.

Non lo firmi Presidente, lo rimandi indietro. Il silenzio genera mostri.

il Fatto Quotidiano, 27 giugno 2015
di Antonio Padellaro | 28 giugno 2015


Titolo: Antonio Padellaro Patto del Nazareno: tutto inutile per Delrio, preferiscono Ver
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 28, 2015, 06:05:43 pm
Politica
Patto del Nazareno: tutto inutile per Delrio, preferiscono Verdini

Di Antonio Padellaro | 22 ottobre 2015

Acquisterei un’auto usata da Graziano Delrio per l’istintiva fiducia che mi suscita chi riesce a governare nove figli (anche se quasi tutto il merito è della signora Annamaria) e per una frase che mi disse appena nominato da Matteo Renzi sottosegretario e suo braccio destro a palazzo Chigi. Il Fatto aveva pubblicato un articolo su certi presunti favoritismi quando era sindaco di Reggio Emilia, lui mi telefonò per smentire l’episodio e prima di salutarci disse: “Guardi che io sono una persona per bene”. Parole niente affatto scontate perché se a pronunciarle fosse stato, poniamo, Denis Verdini sono convinto che saremmo scoppiati entrambi a ridere.

Ecco, appunto, quello stesso Verdini alleato di governo, che per Renzi non è il mostro di Loch Ness sta mettendo a dura prova la tempra di combattente di Delrio, e anche l’acquisto dell’auto usata. Giorni fa, in un’intervista, l’attuale ministro delle Infrastrutture aveva condiviso con l’altro diversamente renziano Matteo Richetti giudizi molto netti su certe aperture “incompatibili” per la storia del Pd e del suo progetto democratico “totalmente antitetico al berlusconismo”. Evviva, ci siamo detti, per essere leali con il premier non occorre per forza servirsi dalla premiata (non dalla magistratura) macelleria Denis e ci siamo predisposti fiduciosi alla visione di Otto e mezzo. Dove però di fronte alle puntuali domande di Lilli Gruber e Bianca Berlinguer, il ministro ha preferito dedicarsi a una sorta di prudente semiritrattazione sull’acquisto delle bistecche verdiniane (“se ne discuterà”: caspiterina!) che ci ha ricordato un classico della materia, il terzino della Roma Garzya: “Sono pienamente d’accordo a metà col mister”.

Dia retta Delrio, le pezze servono a poco, al Giglio magico pretendono obbedienza pronta, cieca e assoluta e vedrà che il Ponte sullo Stretto lo faranno fare a Verdini.

Il Fatto Quotidiano, 21 ottobre 2015
Di Antonio Padellaro | 22 ottobre 2015

Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/10/22/patto-del-nazareno-tutto-inutile-per-delrio-preferiscono-verdini/2148392/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=newsletter-2015-10-22


Titolo: PADELLARO: “Crisi informazione? Mai dare retta ai menagramo”
Inserito da: Arlecchino - Maggio 13, 2016, 05:57:31 pm
12 maggio 2016 | di F. Q.

Il Fatto Personale, Padellaro: “Crisi informazione? Mai dare retta ai menagramo”

‘Il Fatto Personale‘ (da giovedì 12 maggio in edicola e in libreria a 12 euro, per la collana Paper First) non è un libro di memorie: è il diario di una carriera, attraverso una serie di istantanee folgoranti, ma anche una visione del giornalismo e della vita democratica in questo Paese. Antonio Padellaro ha lavorato per vent’anni a il Corriere della Sera, ha vissuto i momenti migliori di quel grande giornale ma anche i peggiori (lo scandalo della Loggia P2), poi è stato vicedirettore di un battagliero ‘L’Espresso‘ e si è impegnato nell’avventura folle de l’Unità, a fianco di Furio Colombo l’ha riportata in edicola e poi l’ha trasformata da giornale di partito in coscienza critica e movimentista del centrosinistra. Quando la convivenza con il vero editore del giornale, cioè il Partito democratico, è diventata impossibile, Padellaro è stato allontanato. Quell’Unità ha chiuso dopo poco mentre lui fondava – con Marco Travaglio e altre grandi firme, incluso Furio Colombo – Il Fatto Quotidiano. Nel ‘Il Fatto Personale’ Padellaro racconta i retroscena di un fenomeno editoriale, gli aneddoti, gli scetticismi iniziali e poi l’improvviso successo. Il racconto del fondatore e primo direttore de Il Fatto Quotidiano, oggi presidente della società editoriale Il Fatto s.p.a., non è però rivolto al passato, ma proiettato in avanti. La lezione del “Fatto”, spiega Padellaro, è che una forte comunità di lettori che reclama un’informazione più indipendente, una politica più onesta e un Paese più democratico può ottenere tutto. E cambiare le cose. In tre video-interviste Padellaro presenta il suo libro, che racconterà ai lettori in molte presentazioni pubbliche. Il 18 giugno Padellaro sarà protagonista di uno dei corsi di giornalismo della scuola di formazione ‘Emiliano Liuzzi‘, nella redazione di Roma. Informazioni e iscrizioni suwww.ilfattosocialclub.it

Intervista di Stefano Feltri (vicedirettore de Il Fatto Quotidiano), riprese Paolo Dimalio e Mauro Episcopo, montaggio Paolo Dimalio

Da - http://tv.ilfattoquotidiano.it/2016/05/12/il-fatto-personale-padellaro-crisi-dellinformazione-mai-dare-retta-ai-menagramo/519922/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=newsletter-2016-05-12


Titolo: Antonio Padellaro. Dubbi da Covid: prima la salute o l’economia?
Inserito da: Admin - Ottobre 24, 2020, 07:38:32 pm
Dubbi da Covid: prima la salute o l’economia?

Di Antonio Padellaro | 21 Ottobre 2020

Agostino Miozzo si occupa a tempo pieno di Covid, ma non è personaggio da grande pubblico pur essendo medico e soprattutto il coordinatore del famoso (e famigerato) Comitato tecnico scientifico. Forse perché non fa parte del gruppo di virologi, immunologi e scienziati a vario titolo, costantemente sui giornali e in tv, si è potuto permettere l’attacco alzo zero contro “i terroristi della comunicazione, chi alimenta scenari inquietanti distribuiti a fini di speculazione più politica”. Terrorismo da respingere “perché se si cade in una pericolosa spirale depressiva si inibisce qualsiasi forma di reazione e resilienza” (intervista al Corriere della Sera).
Giusto, ma come si fa? Dal momento che (terrorismo a parte), in parallelo alla guerra contro il Covid un’altra guerra divampa, e non meno virulenta, tra chi dice prima la salute e chi risponde no, prima l’economia.

La prima categoria è ben rappresentata dal professore, assai autorevole e ascoltato, Massimo Galli, che con una frase ha detto tutto: “Non vedo morti di fame per le strade, ma morti di malattia negli ospedali”. Sicuramente non ha torto anche se la gente non muore di fame soltanto perché sostenuta dalle robuste iniezioni di denaro pubblico (cassa integrazione, blocco dei licenziamenti, reddito di cittadinanza), che gli economisti da divano e tastiera chiamano assistenzialismo. Sul fronte opposto spicca il manifesto del filosofo Massimo Cacciari: “Ci si ammala anche di disperazione, non solo di Covid. Se l’Italia si blocca siamo di nuovo fritti…”. Sicuramente neppure lui ha torto, anche se un contagio di massa nella forza lavoro non è il modo migliore per tenere aperte fabbriche e supermercati. In mezzo c’è un governo che naviga a vista, che si barcamena, che cerca di salvare capra e cavoli, che ogni giorno misura il proprio interventismo in base ai numeri dei contagi, dei morti e delle terapie intensive. Variabili indipendenti che rendono impossibile mettere in campo una strategia perfino da una settimana all’altra. Se poi allarghiamo la visuale al Paese tutti hanno le loro ragioni a protestare. A cominciare dai gestori di piscine e palestre che (con la testa già sulla mannaia) si sentono ingiustamente perseguitati. Come se, dicono, un settore che dà lavoro a decine di migliaia di persone fosse paragonato a un parco giochi da poter chiudere tranquillamente. Quanto al terrorismo psicologico e alle speculazioni politiche, in una situazione del genere è vero fanno schifo, ma si tratta degli inevitabili danni collaterali di quella cosa che si chiama democrazia. La forma di governo più imperfetta e infelice soprattutto se chiamata ad affrontare un nemico invisibile e implacabile. Non ci sta bene? L’alternativa esiste, è il modello cinese, quello che se non metti la mascherina ti vengono a prendere a casa.

Da - https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/10/21/dubbi-da-covid-prima-la-salute-o-leconomia/5973838/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=oggi-in-edicola&utm_term=2020-10-21