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Autore Discussione: Antonio PADELLARO -  (Letto 72060 volte)
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« inserito:: Giugno 15, 2007, 10:16:11 pm »

Presidente non li riceva

Antonio Padellaro


Non ci permetteremo certo di suggerire al capo dello Stato ciò che egli deve o non deve fare. Ma la presenza al Quirinale, mercoledì prossimo, di quegli stessi leghisti che ieri, e in quale modo, hanno oltraggiato il Parlamento sembra quasi un’ingiuria reiterata nei confronti delle istituzioni. Qui non si tratta più del volgare disprezzo che costoro non hanno mai smesso di rovesciare sui simboli della Repubblica italiana. Quella che, del resto, non hanno mai riconosciuto (continuando però a occupare poltrone e a mungere privilegi), sentendosi cittadini della fantomatica Padania.

Gli è stato consentito di tutto. Il tricolore che il loro capo voleva usare come carta igienica. I cappi da forca mostrati nell’aula di Montecitorio. Gli insulti irriferibili lanciati ai senatori a vita, colpevoli di non farsi intimidire dai mazzieri con il fazzoletto verde. Sempre considerati (i mazzieri) con benevolenza da quasi tutta la stampa. Dei simpatici casinisti ma in fondo innocui anche quando sguinzagliavano le ronde padane per buttare a fiume gli immigrati. La stessa comprensione che oggi mostra Silvio Berlusconi, e non a caso visto che lui i leghisti li ha spesso utilizzati come massa di manovra.

Anche adesso che si tratta di salire al Quirinale con la scusa delle elezioni che la destra non otterrà ma sempre con l’idea fissa della spallata contro il governo legittimo del Paese. I cui banchi, appunto, vengono assaliti, tanto per cominciare. Sappiamo che Giorgio Napolitano non si è mai tirato indietro quando le circostanze lo hanno richiesto.

Lo sa il governo del maxiemendamento alla Finanziaria, richiamato a un più corretto uso della legislazione. Lo sanno ministri, sindaci e presidenti di regione ammoniti nei giorni dell’emergenza rifiuti a Napoli. Non gliela faccia passare liscia, presidente. Li lasci fuori della porta.

Pubblicato il: 15.06.07
Modificato il: 15.06.07 alle ore 9.01   
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« Risposta #1 inserito:: Giugno 16, 2007, 06:24:12 pm »

La belva e i lettori

Antonio Padellaro


Strano, ma nella scoppiettante lite a distanza tra il primo ministro britannico in uscita e il direttore di The Independent sui difficili rapporti tra politica e stampa, non si parla mai dei lettori. I quali pur essendo quelli che pagano, per essere governati e per essere informati, restano sullo sfondo come i curiosi che si affollano intorno a un incidente stradale. Riassumiamo per chi si fosse perso le puntate precedenti. Tony Blair accusa: sulla base della mia decennale esperienza a Downing Street vi dico che i giornali sono belve selvagge e disoneste attirate solo dagli scandali e dai contrasti di opinione, e interessate a fare a brandelli le persone e la loro reputazione. La replica di Andreas Whittam Smith potrebbe essere condensata nella celebre battuta di Humphrey Bogart: Tony non te la prendere, è la stampa bellezza. Naturalmente il discorso- sfogo di Blair (peraltro scritto divinamente) ha riscosso ampi consensi nel mondo politico italiano, soprattutto in quello di sinistra dove i morsi della belva sulle intercettazioni risultano particolarmente dolorosi.

Certo, il momento è quello che è, ma in generale si può realmente sostenere che nel nostro Paese l’informazione sia nemica della politica? Ai nostri cari leader può accadere che non tutte le mattine abbiano l’oro in bocca e che lo sfoglio dei quotidiani riservi qualche amara lettura. Messa in pagina dalla belva dattilografa per assecondare, direbbe Blair, la propria natura selvaggia (vedi le succulente telefonate). Capita però che nei restanti 350 giorni dell’anno giornali e televisioni si mostrino molto più mansueti e disponibili. Stiamo parlando non della qualità e indipendenza dell’informazione, da valutare caso per caso, ma della quantità smisurata di spazio che ogni giorno quella stessa informazione messa sotto accusa riserva alle presunte vittime.

Chi scrive ricorda che, all’inizio degli anni 70, di regola, il Corriere della sera dedicava giornalmente all’attività di governo e dei partiti la sola (esauriente, chiarissima) nota politica di Luigi Bianchi, più qualche notizia di contorno. Rare le interviste, riservate ai grandi protagonisti. Eccezionalmente, in occasione dei grandi eventi (congressi, crisi di governo) scendevano in campo le grandi firme con le loro inchieste. Oggi, tutti in giornali di peso (l’Unità compresa) dedicano pagine e pagine alla politica e ai politici e lo fanno senza particolari istinti ferini. Anzi, nello sfogliare i quotidiani sembra di assistere al miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pezzi. A parte i fatti del giorno squadernati e sezionati in più titoli, è un profluvio di retroscena, ritratti, aneddoti, dettagli, curiosità. Perfino se il ministro ha cambiato modello di camicia o di cravatta, si andrà a scandagliare il sarto da cui si serve onde ragguagliare sul girocollo e la tinta preferita. Le interviste, s’intende, non si negano a nessuno. È sufficiente che lo sconosciuto peone sia disposto a dichiarare qualcosa di piccante o sconveniente, e avrà le sue quindici righe di celebrità.

Inutile spiegare che i maggiori leader di partito e di governo sono stampati e illustrati dappertutto. Di loro conosciamo i sospiri e i più riposti pensieri. Fatica, del resto a cui essi si sottopongono volentieri in base alla regola prima della politica universale: se non sei sui media, non esisti. È il cast fisso che dai tg dell’ora di cena tracima nei salotti televisivi. Con le star che si scambiano di posto in un girotondo incessante e ipnotico. Luoghi dove non ci viene mai detto nulla che non sapessimo prima mentre i soliti rumori di sottofondo accompagnano l’ultimo sbadiglio: ti ho fatto parlare senza interrompere ora fai parlare me... Uno spettacolo forse unico al mondo quello dei politici chiamati a discutere di se stessi con altri politici, a farsi le domande e a darsi le risposte. Altrove, in Europa, un compito che è dei giornalisti e che nessuno si sognerebbe di sottrarre loro. E allora non si capisce più chi è la belva e chi l’agnello. E come mai chi fa la parte del leone se ne lamenta pure.

Torniamo infine al convitato di pietra: i lettori. È lecito dubitare che siano contenti di giornali (e telegiornali) siffatti. Ed è facile prevedere che lo saranno ancora di meno se una politica in crisi depressivo-aggressiva deciderà lei cosa gli italiani devono e non devono leggere, cosa devono e non devono sapere o vedere. Tony Blair ha tutte le ragioni quando denuncia i vizi della stampa. Forse ce ne sono anche di più e di peggio (il più grave: il troppo spazio che diamo a chi non se lo merita). Ma senza i giornali Tony Blair sarebbe diventato il premier Tony Blair? Ed è un caso che se la prenda con i giornali ora che premier non lo è ormai più?

apadellaro@unita.it

Pubblicato il: 16.06.07
Modificato il: 16.06.07 alle ore 10.45   
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« Ultima modifica: Ottobre 06, 2007, 10:41:54 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #2 inserito:: Luglio 22, 2007, 12:03:12 am »

La vita reale di Prodi
Antonio Padellaro


Romano Prodi, all’alba di ieri, che annuncia l’accordo sulle pensioni ai pochi, assonnati giornalisti presenti nella sala stampa di Palazzo Chigi. Gli siedono accanto i ministri Padoa Schioppa e Damiano e il portavoce Sircana. Tutti hanno trascorso la notte in bianco a trattare con i leader sindacali Epifani, Bonanni e Angeletti. Tutti ritengono di avere ottenuto il migliore risultato possibile. Il presidente del Consiglio dichiara: «Ora l’Italia è un paese più giusto». Fermiamoci qui. Non sapremo dire quanto sia reale e quanto celebrativa la frase del premier. E lasciamo agli esperti il giudizio sui contenuti economici dell’intesa raggiunta e sugli immediatii contraccolpi politici. Riprenderemo invece il discorso da un bell’articolo di Giuseppe De Rita, pubblicato sul Corriere della sera di giovedì 12 luglio. Il titolo è di quelli che invitano avidamente alla lettura: «Come opporsi allo sconforto collettivo». Come, infatti, è proprio quello che tutti sempre più spesso ci chiediamo leggendo (e facendo) i giornali o quando siamo alle prese con i nostri affanni quotidiani.

Nelle ultime righe del suo scritto (che non si può riassumere senza il rischio di banalizzarlo), De Rita usa espressioni ormai desuete nel dizionario isterico del nostro scontento. Parole come «pazienza», «giorno per giorno», «lavoro difficile e faticoso». Parole che ci permettiamo di estrapolare dal contesto per il valore in sè che esse hanno. Parole a cui vorremmo aggiungerne altre dal suono gradevole: «ragionevolezza», «buona volontà», «sforzo comune».

Nella rappresentazione mediatica della politica termini considerati ingenui, sempliciotti, banali e quindi messi fuori corso come certi francobolli troppo esotici e colorati. Parole tuttavia che stanno sicuramente nella borsa degli utensili di milioni di italiani quando escono di casa la mattina per affrontare la vita quotidiana. Persone che messe di fronte a complicati e noiosi problemi di lavoro vi si applicheranno con pazienza e buona volontà cercando di trovare non la soluzione perfetta ma quella possibile. Persone che se investite di una qualche responsabilità ascolteranno le diverse opinioni soppesandole con competenza e buon senso. Cercando di ascoltare chi va ascoltato, di non fare torto a nessuno e decidendo alla fine nell’interesse di tutti. Persone sottoposte a pressioni, a minacce e, qualche volta, costrette a giocarsi il tutto per tutto. Persone a cui succederà di sentirsi ingiustamente criticare, accusare e perfino insolentire per le decisioni prese. Persone che (come tutti) sbagliano, e (come tutti) pagano le conseguenze dei propri errori. Persone che si mangeranno il fegato e che nei momenti di più acuta solitudine si chiederanno (come a tutti noi capita di chiederci): ma chi me l’ha fatto fare? Persone che tornano a casa la sera così sfibrate e con un senso tale di fallimento da non riuscire neppure a confidarsi con la propria famiglia. Persone che una volta consegnato il compito, giusto o sbagliato che sia, si sentiranno crescere dentro quella strana calma che parla e che dice: comunque la mia parte l’ho fatta.

Accade nella vita reale delle persone reali. Non nella vita irreale delle persone mediatiche. Quelle strane figurine che oggi sera compaiono ossessivamente nei pastoni politici dei tg. Sempre le stesse recite a soggetto dove tutto reso in termini di «distorsiva confusione» (De Rita) risulta amplificato e distorto. E in buona sostanza, inutile. Le figurine hanno sempre ragione e non sbagliano mai. Le figurine possiedono la verità rivelata ma non si saprà mai quale perché esistono in una strana dimensione che è una seconda vita perfetta e immaginaria dove non si suda e non si soffre perché tutto è perfetto e tutto è già risolto.

Pensavamo a questo, chissà perché osservando Prodi e i suoi ministri, esausti, all’alba di ieri nella sala stampa di Palazzo Chigi.

apadellaro@unita.it

Pubblicato il: 21.07.07
Modificato il: 21.07.07 alle ore 9.14   
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« Risposta #3 inserito:: Luglio 28, 2007, 04:25:33 pm »

Unipol la scelta migliore
Antonio Padellaro


È la terza volta che i giornali pubblicano quelle intercettazioni, sempre le stesse, ricordava Massimo D’Alema, lunedì sera a Firenze, ospite di un’affollata festa dell’Unità. Diceva amaramente il vicepremier che dopo due anni ininterrotti sulla graticola del caso Unipol ormai tutto il danno mediatico possibile lo aveva ricevuto, e con gli interessi. Anzi, a questo punto le conversazioni con Consorte erano lì a dimostrare che né lui, né Fassino, né Latorre erano partecipi di atti illeciti.

Nasce probabilmente da questa riflessione (o se vogliamo da questo calcolo politico) la saggia decisione di condividere il responso del Parlamento sull’uso giudiziario di quelle telefonate. C’è chi ha interpretato le lettere di D’Alema e Fassino al presidente della giunta per le autorizzazioni della Camera Carlo Giovanardi come un invito esplicito ad accogliere le richieste del gip di Milano Clementina Forleo sull’acquisizione agli atti delle intercettazioni. Questo anche se le sue argomentazioni sul «progetto criminoso di vasta portata» vengono considerate dagli interessati senza fondamento. Si sa che tra gli stessi ds (ramo avvocati) c’è chi avrebbe preferito l’adozione di una linea conflittuale per contrastare, così è stato detto, un inaccettabile abuso d’ufficio da parte del gip. Ma questo, ci permettiamo di dirlo, sarebbe stato (o sarebbe) un imperdonabile errore, e cercheremo di spiegarne il perché.

Il primo motivo lo ha già detto D’Alema. La politica vive quasi esclusivamente d’immagine e i processi più pericolosi per chi ricopre importanti incarichi di governo e di partito sono quelli che avvengono sui giornali più che nelle aule giudiziarie. È un prezzo salatissimo che il ministro degli Esteri e il segretario della Quercia hanno pagato con settimane di titoloni e valanghe di paginate in cui erano trascritti perfino i loro sospiri.

Forse non ha tutti i torti Giampaolo Pansa quando sull’ultimo numero de l’Espresso osserva che perfino la corsa per la guida del Partito democratico è stata influenzata dalla bufera arrivata da Milano. E dunque, se tutto ciò che i leader diessini hanno detto e fatto a favore della scalata Unipol-Bnl è sotto gli occhi di tutti, tanto vale invocare la massima trasparenza in tutte le sedi. Anche a costo di affrontare un poco piacevole iter giudiziario.

Ciò che ulteriormente avvalora la scelta di D’Alema, Fassino e Latorre riguarda appunto le eventuali conseguenze sul piano penale. Qui gli scenari possono essere diversi, ma in nessun caso mettono al sicuro i leader ds da una convocazione in procura. Nella prima ipotesi le Camere danno l’autorizzazione dopodiché la Procura di Milano iscrive i politici nel registro degli indagati e verifica le ipotesi accusatorie. Ma, con o senza autorizzazione parlamentare i pm possono lo stesso ascoltare i politici convocandoli in qualità di testimoni. Con tutti gli obblighi che comporta la deposizione: innanzitutto dire la verità. Se, per esempio, da testimoni riferissero il contenuto delle telefonate il pm potrebbe direttamente iscriverli nel registro degli indagati. E nello stesso registro gli stessi politici potrebbero finire se oltre alle telefonate gli inquirenti fossero in grado di acquisire altri elementi di prova. Come si vede l’autorizzazione parlamentare rappresenta uno scudo piuttosto debole. Tanto varrebbe farne a meno.

Ma, soprattutto, esiste una questione di decoro politico, la più importante. Gli esponenti ds sono portatori di una cultura politica e di una moralità che ha sempre messo al primo posto la difesa della legalità e il rispetto per l’operato della magistratura, anche quando non se ne approvano le decisioni. Chi è cresciuto a quella scuola considera la propria reputazione un valore irrinunciabile, figuriamoci un avviso di garanzia. Dover dare spiegazioni alla propria gente diventa una tortura anche se poi, come l’altra sera a Firenze, la gente ti resta vicina. È un problema sconosciuto a chi la propria reputazione se l’è giocata molto tempo addietro. Quando, tanto per non fare nomi, Silvio Berlusconi enuncia orgogliosamente il principio secondo il quale il Parlamento deve negarsi a qualunque richiesta della magistratura, descrive ciò per cui si è sempre battuto. E cioè una casta politica arrogante e arroccata nella propria beata impunità. Un esercizio del potere disprezzato dai cittadini e da cui è meglio stare lontani. Per questi motivi i primi ad essere danneggiati se il Parlamento negasse l’autorizzazione richiesta dal gip Forleo sarebbero proprio D’Alema, Fassino e Latorre.

Pubblicato il: 28.07.07
Modificato il: 28.07.07 alle ore 11.56   
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« Risposta #4 inserito:: Agosto 11, 2007, 08:47:44 pm »

Politica

 
I ragazzi del Pd

Antonio Padellaro


Chissà se Walter Veltroni, in vacanza lontano dall’Italia, avrà modo di leggere le «speranze» dei ragazzi raccolte da Osvaldo Sabato alla Festa dell’Unità di Firenze e pubblicate ieri su queste colonne. Glielo consigliamo vivamente, e lo stesso facciamo con Rosy Bindi ed Enrico Letta perché troveranno dentro quelle semplici frasi colme di aspettative molta più «politica» di quanto ne circoli in giro a proposito del Partito Democratico. La più bella: «Vorrei tornare ad innamorarmi della politica». La più vera: «Fino ad ora abbiamo assistito a qualche scaramuccia sulle liste e a qualche sgambetto sottobanco». Sono il polo positivo e il polo negativo di un’attesa. Il sogno e la realtà. In mezzo c’è una distanza da colmare. Non breve e non semplice. È lì che il Pd si gioca successo e futuro. Se lo gioca con la generazione intorno ai vent’anni ma che parla anche a nome di chi avrà vent’anni tra dieci anni. Rappresentano la prossima Italia e sono quelli che adesso non hanno voce (o ne hanno troppo poca) ma che la politica non può più deludere se non vuole perderli definitivamente. E ciò vale, a maggior ragione, per un partito che si presenta come nuovo. Un partito che tra dieci anni potrebbe essere il solido pilastro di una democrazia rinnovata. Oppure la sigla di un tentativo presto dimenticato.
Veltroni sindaco di Roma quei ragazzi li conosce. Li incontra. Li ascolta. Li accompagna ad Auschwitz perché sappiano cosa è stato l’orrore del Novecento. Cerca di convincerli che esiste una «bella politica»: quella dei Kennedy, dei Gandhi, dei Martin Luther King in cui vale la pena confidare. Ma allora perché il nascente Pd si occupa così poco di loro?
Si dirà che nei programmi e nei discorsi ampio spazio è sempre dedicato al problema del precariato e della condizione materiale dei giovani. Ma del precariato e della condizione «spirituale» che questa politica porta con sé, forse non si parla abbastanza.
Quando Claudia o Maria Grazia vorrebbero «innamorarsi di nuovo» danno un preciso significato alle parole. Innamorarsi di qualcosa o di qualcuno significa scambiare energia, passione, vitalità. Significa farsi coinvolgere, entusiasmarsi, e anche soffrire se ne vale la pena. Lo chiediamo a Veltroni, alla Bindi, a Letta che sanno certamente quanto valgono i sentimenti in politica.
Francamente, vi sembra che un giovane di sana e robusta costituzione possa «innamorarsi» del Pd che hanno visto all’opera fino a questo momento? Che possa se non entusiasmarsi, almeno interessarsi a delle primarie organizzate come un capitolato d’impresa? Che possa appassionarsi e vibrare davanti al duello tra candidati diversi, ma la cui effettiva diversità, diciamolo, per molti resta ancora un mistero? Attenzione che l’antipolitica si nutre anche di noia.
Sono gli stessi ragazzi che Massimo D’Alema sprona «a farsi avanti e a combattere per il loro futuro» a somiglianza dei loro coetanei del ’68. Analogia interessante ma rischiosa perché anche quarant’anni fa si produsse una profonda rottura tra le istituzioni politiche tradizionali e la generazione appena uscita dalle scuole. E anche allora fu una questione di linguaggio. Da una parte si predicava il numero chiuso e l’immobilismo. Dall’altra si rispondeva: uguaglianza e immaginazione al potere. Anche oggi la politica appare bloccata nell’autoconservazione e assai poco creativa. E sarebbe un imperdonabile errore se l’unico e per molti aspetti coraggioso tentativo di rinnovamento, il Pd, non prestasse orecchio e non desse voce ai più giovani. Che rispetto ai sessantottini di allora parlano molto meno di eguaglianza e molto più di giustizia. Nel senso di ciò che ai loro occhi appare insopportabilmente ingiusto. Perché, chiedono, si deve morire a sedici anni di lavoro cadendo da un’impalcatura? Perché di fronte alla gigantesca truffa di chi non paga le tasse gli onesti che le pagano fanno la figura dei fessi? Che razza di Paese è questo nel quale ci prepariamo a cercare un lavoro e a crearci una famiglia? Sono domande a cui il vecchio linguaggio della politica risponde scartabellando i programmi alle voci fisco e infortuni sul lavoro. L’altro linguaggio invece è quello che cerca di parlare direttamente al cuore della gente. Che trasforma le piccole e grandi ingiustizie (nei cantieri e in ogni altro luogo della società) in una grande questione nazionale. Che fa un gran casino sui giornali e in televisione, chiedendo magari a Valentino Rossi come abbia potuto tradire i tanti, giovani e meno giovani, che stravedevano per lui. Se un partito nuovo non fa questo, a cosa serve?

Pubblicato il: 11.08.07
Modificato il: 11.08.07 alle ore 13.16   
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« Risposta #5 inserito:: Settembre 02, 2007, 12:15:49 pm »

Viaggio Italiano

Antonio Padellaro


In piazza, alla Festa dell'Unità di Pesaro, si parla della casta e c'è una folla strabocchevole. La Casta, è il titolo del libro notissimo e vendutissimo che parla della spese pazze della politica. O meglio (come si legge in copertina) di una certa politica «obesa e ingorda diventata un'oligarchia insaziabile che ha allagato l'intera società italiana». Oltre a chi scrive ne discutono Gian Antonio Stella, uno degli autori (l'altro è Sergio Rizzo) e Roberto Cuillo, responsabile dell'informazione dei Ds. Colui che ha voluto fortemente questo dibattito anche se, dice, alcuni nel suo partito considerano questo libro come il manifesto dell'antipolitica più qualunquista. Insomma, un po' come mescolare il diavolo e l'acquasanta. Combinazione invece graditissima dal pubblico in larga prevalenza diessino che ascolterà e applaudirà per quasi due ore, non facendosi distogliere neppure dal trasferimento forzato causa pioggia dalla piazza alla sala del consiglio comunale gentilmente concessa. Prima constatazione: capita che vertice e base manifestino indici di gradimento (e di sgradimento) del tutto opposti. Siccome è con la base che si vincono le elezioni il vertice farebbe bene a tenerne in debito conto le opinioni e soprattutto i malumori.

Si parla delle comunità montane a livello del mare, trovata truffaldina per arraffare qualche poltrona. Delle Province da quarant'anni cosiderate enti inutili ancorché dispendiosi; e che infatti invece di sparire aumentano di numero. Si parla di auto blu e di aerei di Stato pronti al decollo per portare le loro eccellenze in vacanza. Non si parla invece (la notizia non è ancora sui giornali) degli appartamenti che ministri, parlamentari e sindacalisti hanno comprato a prezzi stracciati dagli enti pubblici. Si parla dei costi legittimi della politica (che nessuno nega) per evitare che la democrazia si trasformi nel governo soltanto dei ricchi. Esperienza che questo paese ha già ampiamente pagato sulla sua pelle e che non vorrebbe ripetere.

Il nome di Silvio Berlusconi aleggia finché qualcuno si azzarda a domandare che fine ha fatto la famosa legge sul conflitto d'interessi. Quella solennemente promessa dall'Unione, e senza la quale rischiamo di ritrovarci di nuovo il cavaliere a palazzo Chigi, esattamente come ce lo avevamo lasciato. Si parla delle altre caste a cominciare da quella degli imprenditori: sempre pronti a fare il predicozzo alla politica. Dimenticando le gigantesche risorse spese da quella stessa politica, tramite incentivi, sgravi e regalie varie per tenere in piedi le loro fabbrichette e fabbricone.

La temperatura sale quando si parla di tasse. Di chi allegramente evade e di chi pagando fino all'ultimo euro rischia di finire strangolato. Chi ascolta è un campione significativo di quell'Italia onesta che non ne può più di essere presa per il naso dall'Italia furba e privilegiata. Sono persone che come noi si chiedono e chiedono a chi ci governa: dove diavolo vanno a finire i soldi che diamo allo Stato? In opere pubbliche? Nella sanità? Nella scuola? Oppure servono a finanziare il pozzo senza fondo della spese di rappresentanza di questa o quella istituzione? O le consulenze d'oro? O le baby pensioni che la casta spesso e volentieri si concede? È bene che lo sappiamo tutti. Quella folla della Festa dell'Unità, cosi come gli ottocentomila e passa accorsi ad acquistare il libro di Stella e Rizzo, cominciano ad averne le tasche piene. Soprattutto quelli che hanno votato a sinistra sono i più delusi, perché nel cambiamento ci credevano e adesso ci credono un po' meno. Guai all'ira dei mansueti, lo dice anche il Vangelo.

Basta una giornata e di italiani così ne incontri tanti. Mangi una pizza al tavolo con chi la politica la vive e la fa ogni giorno in silenzio, spesso in solitudine e mai sul palcoscenico televisivo. Giovani e giovanissimi dirigenti ds che rinunciano alle ferie spinti da un'idea (organizzare in città una notte bianca della pace) o da uno slancio che li mette a prendere ordinazioni ai tavoli di quella straordinaria scuola politica e umana che sono le Feste dell'Unità e che qualche stizzito povero di spirito vorrebbe abrogare. Come molti credono nel Partito Democratico con un atto di fede. Si preparano a contrattare con quelli della Margherita liste e candidature delle primarie. Confessano che di aria nuova se ne respira poca.

Incontri i lettori del tuo giornale (il loro giornale) e ti chiedono come sarà l'Italia di domani sentendosi abbastanza smarriti in quella di oggi. Bravi cittadini che non chiedono la luna e non si preoccupano dei lavavetri. Stufi, questo sì, di viaggiare in treni (sporchi) che impiegano 26 ore da Siracusa a Torino. E che si accontenterebbero di aerei che li portassero semplicemente da Catania ad Ancona come da biglietto regolarmente pagato. E non da Catania ad Ancona passando per Milano e poi per Roma, come raccontava in aeroporto una coppia di anziani ad altri passeggeri che molto meno sfortunati lamentavano soltanto tre ore di ritardo sul loro volo.

Poi, ecco altri giovani italiani con la stessa storia precaria da raccontare. Lo steward Alitalia a cui rinnovano il contratto ogni quattro mesi e sono ormai tre anni. Che si ritiene «uno fortunato» anche se, aggiunge, pensare a sposarsi in queste condizioni sarebbe folle. Il conducente di taxi da soli due giorni: una delle nuove licenze che scatenarono la furia dei colleghi più anziani. Il matrimonio? Certo, sempre che la banca gli faccia un prestito. Comunque, è un ragazzo contento. Se ne incontrano.


Pubblicato il: 01.09.07
Modificato il: 01.09.07 alle ore 10.18   
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« Risposta #6 inserito:: Settembre 08, 2007, 07:57:16 pm »

Se il Pd guarda a destra

Antonio Padellaro


Chi imbratta i muri delle città va punito ai sensi del regolamento di polizia urbana e a mandarlo in carcere non è il sindaco ma il codice penale. Così, l´altra sera, alla Festa dell´Unità di Bologna Sergio Cofferati ha ricondotto sui binari del più banale buon senso la discussione su legalità e microcriminalità sottraendola (speriamo non solo per qualche ora) al marasma politico e mentale in cui era rapidamente precipitata. Sicché a dieci giorni dall´ormai celebre ordinanza sui lavavetri di Firenze dell´assessore diessino Cioni forse è giunto il momento di isolare le poche questioni serie emerse dal vasto parlare del nulla.

1. Alla domanda sull´origine di tutto questo can can ha già onestamente risposto il sindaco di Firenze Leonardo Domenici: «Nessuno di noi, quando abbiamo scritto l´ordinanza, si aspettava una reazione così» (Corriere della Sera, 3 settembre). Si è cioè toccato un nervo scoperto senza valutarne tutte le conseguenze. L´impressione è che, complice il vuoto ferragostano, si sia pensato che un provvedimento severo ma che toccava uno dei tanti interstizi illegali, e neppure il più eclatante, potesse in fondo rientrare nell´ordinaria amministrazione cittadina. Dimenticando che provenendo non da un´autorità prefettizia o di polizia ma da un´autorità politica e di sinistra e trattandosi di questioni che toccano comunque la sensibilità di quella stessa sinistra meglio sarebbe stato se l´ordinanza fosse stata accompagnata da una gestione politica e da una comunicazione adeguate. Cosa che il sindaco Domenici ha cercato di fare ma quando il fuoco già divampava.

2. Adesso Giuliano Amato si dice stupefatto per i «toni e gli argomenti» che gli sono piovuti addosso solo per avere egli richiamato il rispetto della legalità; e invita tutti a una maggiore pacatezza smentendo qualsiasi ricorso a misure liberticide e autoritarie. Alla buon´ora. Non serve a nessuno cercare chi ha cominciato per primo.

Ma non sarebbe stato meglio se il ministro dell´Interno avesse da subito usato questi toni e questi argomenti? Invece di accusare di atteggiamenti «burattineschi» e di «sociologia d´accatto» (intervista a Repubblica del 5 settembre) chi aveva osato dubitare che lavavetri, questuanti e graffitari fossero un´emergenza nazionale. Detto ciò Amato ha ragione a dolersi quando si vede raffigurato dal manifesto come il «bandito Giuliano» o quando si vede arruolato da Liberazione tra i «fascio-democratici». E al posto suo saremmo anche noi arrabbiati se ci vedessimo dipinti sui giornali come degli opportunisti che attraverso le pose gladiatorie cercano di ritagliarsi «uno spazio politico per il dopo Prodi o per trovare un ruolo nel futuro Pd»(Gennaro Migliore, capogruppo di Rifondazione). Sì, ci vorrebbe una bella calmata da parte di tutti.

3. Veniamo al problema di fondo, al Partito Democratico. Sempre nella contestata intervista e a proposito della irresponsabilità di una certa sinistra di fonte all´illegalità diffusa, Amato dice: «noi riformisti con il Partito Democratico dobbiamo sapere essere chiari anche su questi temi». Una frase indicativa che, diciamo così, alza il livello dello scontro ben oltre il problema di come coniugare accoglienza e rispetto della legge. Non è un caso che sulla questione della sicurezza il Pd si trovi al centro di una manovra a tenaglia. Da una parte la sinistra cosiddetta radicale e dall´altra la destra. Ed è una curiosa coincidenza che due leader lontanissimi come Giordano del Prc e Fini di An dicano le stesse cose su Pd, legge e ordine: che cioè al momento giusto gli elettori preferiscono sempre l´originale (la destra) alla fotocopia.

Poi però ecco le preoccupazioni espresse da Pisanu (predecessore di Amato al Viminale) secondo il quale se Berlusconi non si sbriga a fare una proposta seria il centro-destra rischia di lasciare al nascente Pd «gran parte dell´elettorato moderato». Che Cioni avesse visto giusto?

4. Non sarebbe affatto scandaloso se un partito che punta al primato dell´intero schieramento parlamentare guardasse anche ai voti della destra. La conquista del consenso, si sa, è il primo comandamento della politica e vince chi ha più filo da tessere. Il vero problema dunque non è "se" ma "come". Forse non tutti i voti della destra sono di destra. Forse da quella parte c´è davvero un serbatoio più moderato da cui attingere. Temiamo tuttavia che per convincere quei bravi cittadini Dio patria e famiglia a passare da questa parte non sarebbe sufficiente il giusto rigore di sindaci volenterosi nei confronti di chi molesta gli automobilisti o di chi attenta al decoro urbano. Ci vuole altro per un elettore generalmente strutturato su precise convinzioni repressive, anche quando non è tra i frequentatori di Libero o della Padania. Il voto non te lo dà gratis nessuno.

5. Questo non significa che la sinistra e a maggior ragione il Pd non debbano porsi il problema di come garantire la legalità. Di come non lasciarla impunita. Ma anche di come «organizzare una presenza civile in Italia a favore di chi non fa male a nessuno» (Amato). È questo il cuore del problema per la cui soluzione non esiste una ricetta unica ed infallibile. Nel momento più alto di Tony Blair, per esempio, la politica neolaburista in tema di criminalità è stata una combinazione di paternalismo, populismo democratico e moralismo comunitario. Ma ciò che conta «non è la repressione della microcriminalità per amore del buon ordine sociale, ma la tutela dei luoghi più deboli della socialità dalle minacce della disgregazione» (Andrea Romano).

6. Due considerazioni conclusive. Non è vero che la legalità non è di destra né di sinistra. Invece la legalità è soprattutto di sinistra e soprattutto in Italia dove portiamo ancora i segni di cosa è stata la legalità berlusconiana. È un valore della sinistra ma a patto che sia difesa complessivamente. Dai lavavetri aggressivi e dagli imbrattatori. Dagli scippatori e dai rapinatori sanguinari. Dai mafiosi e dai responsabili di piccoli e grandi crimini finanziari. Possiamo dire che su questo ultimo punto l´elaborazione del Pd appare piuttosto carente? Perché, per esempio, sull´abolizione delle famose leggi vergogna è calato il silenzio? E quanto alla tutela fisica dei cittadini non sarebbe il caso di avviare una seria e pacata riflessione sulle conseguenze dell´indulto? Sull´aumento dei crimini che va di pari passo con il numero degli scarcerati? E ancora. Ci hanno sempre spiegato che, a differenza della destra, la sinistra combatte i reati individuandone le cause all´origine. La polizia viene dopo. Non è sociologismo d´accatto. Quando si è trattato di arginare la criminalità romena molto attiva nella capitale Veltroni è andato a parlarne con il sindaco di Bucarest per concordare un piano di rimpatrio accompagnato da occasioni di lavoro. È una strada difficile ma è una strada civile.

Infine. Un Pd che vuole essere davvero forte non dovrebbe prima di tutto pensare al recupero di quegli elettori che stando ai sondaggi si sono allontanati dal centrosinistra in misura cospicua? A causa non dei lavavetri, ma delle tasse (troppo alte) e dei salari (troppo bassi). Non è anche questa sicurezza?

Pubblicato il: 08.09.07
Modificato il: 08.09.07 alle ore 12.39   
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« Risposta #7 inserito:: Settembre 15, 2007, 10:51:02 pm »

Genova per noi

Antonio Padellaro


Sembra che l’opinione della gente comune torni a fare notizia (e non solo nelle piazze di Grillo), e quindi segnaliamo l’ovazione da parte di migliaia di persone alla Festa dell’Unità di Bologna quando, mercoledì sera è stata chiesta l’istituzione urgente della commissione parlamentare d’indagine per i fatti del G8 di Genova. Vero che lo scorso 30 luglio la commissione Affari Costituzionali della Camera ha adottato un testo base (relatore Gianclaudio Bressa della Margherita), ma adesso viene il difficile. Prima di partire realmente con l’accertamento dei fatti sui giorni della vergogna l’indagine dovrà superare una tale quantità di ostacoli procedurali e parlamentari che senza una energica e condivisa volontà politica la commissione è destinata a restare nel libro delle buone intenzioni del governo Prodi. Sarà utile perciò prevenire le principali obiezioni che verranno frapposte allo scopo di far naufragare tutto.

Primo: le commissioni parlamentari d’indagine non hanno mai scoperto alcunché di nuovo e rappresentano solo una perdita di tempo e di pubblico denaro. Secondo: l’iniziativa parlamentare potrebbe anzi danneggiare i processi in corso contro i poliziotti violenti della Diaz e di Bolzaneto (avvocati del Legal Forum). Terzo: varare la commissione sarà comunque una fatica inutile poiché al Senato la destra non permetterà mai un processo politico sulla «macelleria messicana» (confessione del vicequestore di polizia Fournier) messa in opera sotto il governo Berlusconi. Quarto: ma a noi della sinistra chi ce lo fa fare di riaprire una pagina certo dolorosa ma che servirà solo a inasprire i rapporti con l’opposizione e farci una cattiva stampa negli ambienti delle forze dell’ordine? Quinto: e allora non è meglio farla finita con il solito, vecchio antiberlusconismo e guardare avanti?

Torniamo alla Festa dell’Unità. Chi scrive intervista da più di un’ora il presidente della Camera Fausto Bertinotti.

Nella sala «14 ottobre» la gente non sembra stanca ma bisogna chiudere con l’ultima domanda. Questa. Presidente, molti hanno visto l’altra sera su Raitre la trasmissione di Carlo Lucarelli sul tragico G8 di Genova. Una trasmissione molto bella e molto forte sulla nostra memoria e sulla nostra mancanza di memoria. Quelle scene in televisione sembravano non appartenere al nostro Paese. Mentre mi picchiavano, raccontava ancora smarrita una delle vittime del pestaggio, dicevo a me stessa: io non sono in Italia ma nel Cile di Pinochet, non è possibile che tutto ciò avvenga nel paese che conosco, da noi c’è la democrazia non una dittatura sanguinaria. Sei anni dopo è una ferita che ancora sanguina e non soltanto nel cuore dei genitori di Carlo Giuliani, ucciso senza un colpevole. I processi vanno avanti, ma sarà la verità giudiziaria. Importante ma non sufficiente a comprendere le vere e forse inconfessabili ragioni di una ferita più profonda, quella inferta alla democrazia. Occorre cercare la verità sulle responsabilità più alte, quelle della politica e delle istituzioni. Il Paese ne ha diritto. Senza questa verità nessuno potrà mai sentirsi veramente al sicuro. Perché nessuno potrà mai essere certo che quei fatti non si ripeteranno.

Ed ecco la risposta di Bertinotti. La Commissione parlamentare è una necessità imprescindibile. La verità processuale è importante ma un Paese degno di questo nome deve potersi dare delle verità storiche acquisite. Questo è un Paese dalle troppe pagine ancora oscure e dirlo qui a Bologna, nella città della più tremenda strage è perfino pleonastico. La costruzione di una verità storica su Genova sarebbe prima di tutto un elemento di igiene mentale per il Paese. Ho visto la trasmissione di Lucarelli e sono rimasto molto colpito soprattutto dal fatto che nessuno era in condizione di prendere le difese di quei carabinieri, di quei poliziotti e di chi li dirigeva. Si poteva oscillare solo tra il riconoscimento di colpa e l’impreparazione, ma lì c’era ben altro da indagare. Non soltanto il dispositivo chiuso della zona rossa che ha innescato la repressione. Non soltanto il dispiegamento delle forze militari, di come sono stati perseguitati i tanti manifestanti pacifici chiusi negli angoli da una sorta di istinto di distruzione. In quelle immagini c’è molto di più. Come si può accettare che anche un solo rappresentante delle forze dell’ordine di fronte a un ragazzo ucciso dica: «Meno uno»? Come è possibile che l’anticomunismo sia coltivato così intensamento da certi settori dello Stato? Come è possibile che una ragazza incolpevole prelevata dalla manifestazione e trascinata via venga continuamente umiliata con atroci riferimenti a pratiche sessuali sentendosi dire che dovrebbe prepararsi a soccombere, perché comunista e puttana, o si potrebbe dire puttana perché comunista o viceversa? Come è possibile che le massime gerarchie delle forze dell’ordine non chiedano loro per prime una commissione d’inchiesta su questi fatti, perché ne va della loro onorabilità, della loro credibilità democratica? La dedizione delle forze dell’ordine, il loro fondamentale contributo alla sicurezza dello stato democratico non è certo in discussione. Ma va sradicato il germe di una violenza incompatibile con lo Stato democratico e con la civiltà di questo Paese.

Una commissione, concludiamo noi, per sapere altro ancora. Come mai non è stato mai né arrestato né identificato nessuno dei black bloc che preceduti da eleganti bandiere nere misero a ferro e fuoco il centro della citta? E quali furono gli ordini impartiti dal premier Berlusconi? E cosa ci faceva il ministro Fini nel quartier generale della polizia? Infine: nel nascente Partito Democratico i fatti di Genova riscuoteranno la stessa attenzione civile dimostrata da quel lungo, duro, appassionato applauso esploso l’altra sera alla Festa dell’Unità di Bologna?

apadellaro@unita.it



Pubblicato il: 15.09.07
Modificato il: 15.09.07 alle ore 13.10   
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« Risposta #8 inserito:: Settembre 22, 2007, 10:04:28 pm »

Trecentomila
Antonio Padellaro


Anche se Grillo scomparisse per incanto (come in tanti sperano) resterebbe pur sempre una domanda, anzi tre. Quanti di quei trecentomila che hanno firmato con lui per cambiare la politica ritorneranno a votare per il centrosinistra? E quanti di essi, malgrado tutto, saranno in fila il prossimo 14 ottobre davanti ai gazebo delle primarie, pronti a dare fiducia ai candidati del Pd? E quanti invece al governo e ai partiti dell’Unione hanno già smesso di credere?

C’è un altro interrogativo, tratto dal lungo monologo urlato e riproposto ossessivamente da tutte le tv. Possibile che il premier Prodi, unitamente al ministro del Lavoro Damiano e a quello delle Comunicazioni Gentiloni, avvertiti a tempo debito dal comico predicatore sulla protesta che bolliva nella pancia del paese non abbiano battuto ciglio? Chi dando l’impressione di essersi assopito e chi limitandosi a dire che lui era lì di passaggio? Certo che Grillo esagera per amore di battuta, per il gusto di mettere alla berlina l’odiata casta davanti alle piazze gremite e sbeffeggianti.

Però se conosciamo i politici, e non solo quelli nostrani, non ce n’è uno che messo di fronte alla possibilità di perdere o guadagnare un solo voto reagirebbe sbadigliando o allargando le braccia in segno di resa. Figuriamoci poi se si trattasse non di uno ma, appunto, dei trecentomila voti almeno. Corrispondenti alle trecentomila firme apposte in un giorno solo dalla gente del V-day sotto le tre leggi d’iniziativa popolare.
Siamo convinti, tuttavia, che dopo lo choc grillesco tutto il centrosinistra abbia finalmente deciso di correre ai ripari. Ma come?

Intanto, siamo davvero sicuri che le piazze del malessere siano soprattutto di centrosinistra? Sì, perché ce lo dicono i sondaggi. Sì, perché ce lo dicono le cronache: «Fino a un anno fa Grillo alla festa dell’Unità sarebbe stato subissato dai fischi; invece è stato subissato da applausi», ha scritto Giovanni Sartori sul Corriere della sera. Sì, infine, perché a sentirli parlare nelle interviste quelle voci, prevalentemente giovani, esprimono concetti e giudizi familiari a chi qualche anno fa frequentava altre piazze. Parliamo del Palavobis, di San Giovanni a Roma, dei tre milioni che sfilarono sempre nella capitale contro l’abolizione dell’articolo 18 e i licenziamenti indiscriminati. Parliamo del clima di appassionata partecipazione che tra il 2002 e il 2005 preparò la spallata al governo Berlusconi, anticipata da una serie di elezioni tutte vinte. Sui giornali (non tutti) si era persa perfino la memoria storica di quei raduni che avevano concentrato folle imponenti in tutto il paese. Si preferiva alludere ai «girotondi», come se un fenomeno di mobilitazione anche culturale e mediatica senza precedenti fosse stato in realtà circoscritto a un gruppetto di intellettuali in vena di stravaganze.

L’8 settembre scorso una parte di quelle piazze che si erano inabissate con tutta la loro energia è riemersa nel centro di Bologna. Mentre frammenti di quel mondo scomparso sono riapparsi in centinaia di altri luoghi italiani come i pezzi di un caleidoscopio rotto. Andato in frantumi perché le principali richieste espresse da quel mondo assai sensibile ai temi della legalità e della lotta ai privilegi sono purtroppo rimaste nel programma dell’Unione. Oggi chi si ricorda più dell’abolizione delle leggi vergogna o della legge sul conflitto d’interessi?

Può essere comprensibile che un anno fa quando il grillismo emanava i primi vagiti, o meglio i primi decisi strilli, i dirigenti del centrosinistra, a cominciare da quelli dell’Ulivo, non abbiano capito che si trattava della spia di un malessere crescente. Ancora adesso c’è chi cerca di demonizzare questa nuova protesta con richiami dotti ma sterili all’origine del fascismo o al qualunquismo di Guglielmo Giannini, meteora politica del primo dopoguerra. Ma liquidare i cinquantamila di Bologna come la massa di manovra di un nuovo populismo serve solo a far finta di non vedere e a continuare a farsi del male.

Forse però non tutto è perduto, ha scritto, Mario Pirani sulla Repubblica di giovedì scorso. Potrebbe essere proprio il Pd di Veltroni con la carica di novità e di cambiamento che porta con sé a cercare di recuperare alla politica vera questa massa disorientata e arrabbiata. Per tentare quest’ultimo aggancio Pirani ha fatto un elenco di cinque cose da fare subito che sottoscriviamo.
1) Un governo snello ed efficiente di 15 ministri e 45 sottosegretari, non di più;
2) Un taglio drastico dei privilegi e degli stipendi del pletorico ceto che vive sulla politica;
3) Un disboscamento delle migliaia e migliaia di società a partecipazione pubblica, degli assessorati inutili, delle sovvenzioni clientelari;
4) La fine della lottizzazione delle cariche negli enti pubblici, nelle Asl, nei ministeri;
5) L’estromissione dei partiti dalla Rai.
L’ennesimo libro dei sogni? Forse. Sempre meglio però dell’incubo in cui siamo tutti piombati.
apadellaro@unita.it

Pubblicato il: 22.09.07
Modificato il: 22.09.07 alle ore 10.18   
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« Risposta #9 inserito:: Ottobre 06, 2007, 10:41:34 pm »

I coriandoli di AnnoZero

Antonio Padellaro


Romano Prodi si è trasformato in critico televisivo giudicando poco seria e non equilibrata la puntata di AnnoZero sul pm di Catanzaro De Magistris «trasferito» dal ministro Mastella. Comprensibile l’esigenza di rassicurare il leader dell’Udeur senza i cui voti addio governo. Da apprezzare comunque lo sforzo di una recensione fatta dal premier sui resoconti dei giornali. Insomma, quella trasmissione Prodi non l’ha vista e non gli piace (così come del resto dichiarano Veltroni e varie istituzioni). E invece pensiamo che farebbero bene a vederla. Nel suo genere, infatti, la trasmissione di Santoro è un documento spettacolare (e a tratti horror) su quell’Italia (o Italie) frantumata in mille coriandoli e l’un contro l’altra armata, oggetto di una recente lettera del presidente del Consiglio al professor De Rita. Sarebbe utile se Prodi gli desse un’occhiata perché pensiamo che quanto andato in onda giovedì sera abbia profondamente intristito quella metà del Paese che non molto tempo fa aveva appassionatamente votato per lui e per la sua coalizione. E pensiamo anche al godimento dell’altra metà nel vedere come se le suonavano magistrati e politici dell’Unione tra piazze ribollenti d’indignazione e questa volta non contro Previti o Dell’Utri. Il tutto sotto la conduzione di Michele Santoro, un dì epurato dall’editto di Sofia e icona della sinistra. Spietato nel mostrare e nel congegnare ma lo scontro tra la Forleo, De Magistris e Mastella non se l’è certo inventato lui.

Per il suo ritorno in tv avevo firmato anch’io, confessa adesso un amareggiato Mastella che tuttavia di ben altro dovrebbe dolersi.

Di aver confuso, per esempio, le cause con gli effetti. Per cominciare il Guardasigilli sostiene di essere stato l’altra sera vittima di un linciaggio mediatico. Ma poi ci dice che neppure lui ha visionato il criminale AnnoZero avendo nel frattempo pasteggiato con moglie e amici al ristorante «Lo Sgobbone» di cui ha magnificato la cucina. Quanto all’origine dei fatti un ministro della Giustizia ha il diritto-dovere di chiedere al Csm il trasferimento di un magistrato sulla base delle relazioni di ispettori ministeriali appositamente spediti. Ma se il magistrato è proprio “quel” magistrato che sta indagando su una vicenda non piccola di superloggie massoniche, truffe sui fondi comunitari e sfruttamento del lavoro interinale coinvolgente boss politici calabresi e pezzi grossi della locale procura, che poi dal provvedimento punitivo nasca un qualche problema il ministro se lo dovrebbe aspettare. E quando il nome dello stesso ministro, insieme a quello del premier in carica finisce di striscio in alcune intercettazioni, Mastella non può gridare al complotto se poi qualcuno sospetta che si voglia togliere da un’inchiesta scottante un magistrato scomodissimo per chi esercita il potere. O no?

Fossimo nei panni del ministro invece di raccogliere solidarietà strumentali e che lasciano il tempo che trovano, e invece di pretendere odiose censure preventive e successive minacciando di far saltare in aria la Rai, fossimo in lui andremmo alla fonte del problema. Mastella trovi il modo che preferisce, ma dovrebbe per favore cancellare al più presto dalla testa di tanti cittadini anche il più piccolo dubbio che un ministro possa agire per ritorsione nell’esercizio delle sue funzioni. Sono cose che non si vedono più neppure al cinema.

Sul dottor De Magistris si pronuncerà il Csm che certamente saprà valutare tutti i rilievi mossi dagli ispettori. Facendo per esempio chiarezza sull’esistenza, peraltro già smentita, delle migliaia di tabulati telefonici con le utenze di ministri, leader politici, giudici, funzionari dei servizi che il magistrato avrebbe acquisito attraverso Gioacchino Genchi. Un vicequestore in aspettativa, a cui a detta del ministro, sarebbero state pagati per consulenze sulle trascrizioni un milione di euro nel solo 2005, e che altrettanto dovrebbe ricevere per il lavoro svolto nel 2006. Somme cospicue su cui è meglio diradare ogni ombra. Detto questo non è possibile che nella inevitabile polemica politica del giorno dopo si discetti con voluttà sul presunto protagonismo dei giudici che vogliono sostituirsi alla politica fregandosene altamente di ciò che questi stessi giudici hanno denunciato visti e ascoltati da milioni di persone. De Magistris e la Forleo hanno parlato di attacchi, intimidazioni, pressioni esercitate da coloro che non vogliono che le pentole siano scoperchiate. Forse a Milano meno, ma in Calabria a servire lo Stato spesso si rischia la pelle. Possibile che tutta la solidarietà che c’era a disposizione sia andata a Mastella?

P.S. Sempre ad AnnoZero nella sua consueta lettera Marco Travaglio ha immaginato un Licio Gelli soddisfatto per aver visto finalmente attuato il capitolo giustizia del suo Piano di rinascita nazionale. Regalo che si aspettava dal governo Berlusconi e che invece ha ricevuto dal governo Prodi. Marco lavora spesso sui tasti dell’ironia e del paradosso. Ho paura, però, che questa volta dicesse sul serio. Se è così non sono d’accordo. Per quanti errori possano commettere certi partiti e certi ministri, Prodi non è Berlusconi, Padoa-Schioppa non è Tremonti e che Mastella non sia Castelli lo dicono le stesse associazioni dei magistrati.

Un governo è fatto di persone, di comportamenti, di leggi ma anche di ciò che non vediamo. Di fili invisibili, manovre occulte, interessi innominabili la democrazia di questo paese ha rischiato più volte di perire. Ma sono convinto che tutto il bene e tutto il male del governo Prodi lo abbiamo sotto gli occhi. Ci arrabbiamo di più ma è meglio così. Non è vero che tutto è fango e che in politica non si salva nessuno, e so che anche Travaglio ne sia convinto. Ma se mettiamo il cappuccio piduista a questi come a quelli non facciamo altro che frantumare la nostra fiducia e le nostre speranze (e non solo le nostre) in tanti coriandoli avvelenati.
apadellaro@unita.it

Pubblicato il: 06.10.07
Modificato il: 06.10.07 alle ore 9.49   
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« Risposta #10 inserito:: Ottobre 14, 2007, 12:00:36 am »

I giorni della libertà

Antonio Padellaro


Sto per scrivere un articolo rischioso, e me ne scuso in anticipo con i lettori. Rischioso perché professare un po’ di ottimismo e un po’ di fiducia nell’Italia in cui viviamo, oltre a sembrare un vano esercizio di stile buonistico (e pazienza), può farti fare delle brutte figure, giornalisticamente parlando. Siamo un paese che naviga a vista e un bravo cronista farebbe bene a scrutare il mare giorno per giorno, onda dopo onda, invece di avventurarsi in previsioni speranzose e azzardate. Correrò comunque il rischio partendo da uno splendido testo di George Lakoff (pubblicato sul primo numero di «PD», il bimestrale del Partito Democratico) e da una sua frase. Questa: «perdere la libertà è una cosa terribile, ma perdere il concetto di libertà è ancora peggio». Lakoff, docente a Berkeley e linguista di fama mondiale, parte dal concetto di perdita per descriverci tutto ciò che l’America ha perso o sta perdendo per colpa del conservatorismo radicale di cui si è nutrita l’amministrazione Bush. Laddove, scrive Lakoff, nell’ultimo secolo la maggior parte degli americani ha assistito a un’estensione delle libertà, questi conservatori vedono in ciò che è avvenuto una riduzione di ciò che essi considerano come “libertà”. Ciò che li rende “conservatori” non è il fatto che essi vogliono conservare le conquiste di coloro che hanno lottato per consolidare la democrazia americana, ma al contrario: essi vogliono tornare indietro, a prima che queste libertà progressiste fossero stabilite. «Essi vogliono ritornare a prima della grande estensione dei diritti di voto, a prima della istituzione dei sindacati, della tutela dei lavoratori e delle pensioni, a prima della creazione di un sistema di sanità pubblica e della tutela dell’ambiente, a prima delle scoperte scientifiche che hanno contraddetto i dogmi religiosi fondamentali».

Poi Lakoff ci spiega una cosa fondamentale e cioè che la costante ripetizione della parola “libertà” da parte della cassa di risonanza mediatica della destra è uno di quei meccanismi di quel “furto” che si sta facendo dell’idea di libertà. «Quando questa parola è usata dalla destra il suo significato muta, gradualmente, quasi impercettibilmente ma muta».

Noi italiani ne sappiamo qualcosa con Silvio Berlusconi che costruisce tutti i suoi discorsi, assai poveri in termini di linguaggio e di idee, attorno all’uso continuo, insistente, ossessivo della parola “libertà” (il polo delle libertà, la casa delle libertà, il partito delle libertà).

Libertà di cui lui si dichiara santo protettore contro i perfidi tentativi di limitarla e cancellarla operati dalla sinistra criptocomunista. Non a caso, ricorda Lakoff, George W. Bush, nel suo secondo discorso di insediamento, utilizzò le parole “libertà” e “libero” 49 volte nel tempo di 20 minuti, cioè ogni 43 parole (chissà se Berlusconi è il maestro o l’allievo). Poiché nel linguaggio la ripetizione ha un potere enorme, quello di riuscire a cambiare il modo steso di pensare, «Bush»,conclude lo studioso, «sta operando per contraddire l’idea progressista di mia libertà, la mia idea di libertà». Insomma, se la destra ha confiscato le nostre parole e ne ha cambiato il significato la sfida che hanno davanti la sinistra e i suoi alleati è quella di riprendersi l’idea di libertà.

Cosa c’entri tutto questo con la fiducia e l’ottimismo cautamente dichiarati all’inizio di questo articolo è presto detto. Mentre in America manipolando la parola libertà il conservatorismo radicale minaccia di bloccare la tradizionali tendenze progressiste, qui da noi accadono eventi che restituiscono a quella parola (da coniugare sempre con democrazia) il suo reale e imprescindibile valore. Tre esempi.

1. Proprio in queste ore il sindacato confederale registra uno «storico successo» (Epifani). C’è qualcosa che conta ancora di più della pur straordinaria valanga di sì che ha approvato il difficile protocollo sul welfare concordato da Cgil-Cisl-Uil. Questo qualcosa di più sono gli oltre cinque milioni di lavoratori che hanno partecipato al referendum. Mai una partecipazione così ampia. E siamo l’unico paese dove il sindacato chiama non solo i propri iscritti ma tutti coloro in possesso di una busta paga ad esprimersi sugli accordi raggiunti. Una prova di democrazia di massa trasparente e corretta.

Questa è la libertà che si esprime nelle cose, nei fatti. Altro che la vuota, ingannevole espressione berlusconiana.

2. Poi c’è l’intesa raggiunta dentro il governo sul welfare. Che segue quella realizzata sulla pensioni e quella sulla finanziaria. Ogni volta i profeti di sciagura hanno sentenziato, dai loro partiti e dai loro giornali, che sarebbe stata l’ultima. Che nell’Unione le contraddizioni tra le varie componenti (moderati, radicali, riformisti) sarebbero fatalmente esplose. Che il re travicello Prodi non ce l’avrebbe fatta a mettere d’accordo i suoi litigiosi alleati. E invece ancora una volta, con qualche malumore, con qualche distinguo, il premier porta a casa un accordo fondamentale. Ma soprattutto ripristina quella concertazione governo-parti sociali che ha già salvato il paese in momenti difficili. Concertazione affossata dalla destra con quella idea taroccata di libertà che persegue come obiettivo primario l’emarginazione del sindacato. Vero che adesso la Confindustria chiede un nuovo confronto e che la tela rischia nuovamente di strapparsi. Ma anche questa volta Prodi conta di farcela lo stesso. Vedremo come finirà ma il metodo del passo dopo passo finora ha funzionato. Ascoltare le ragioni di tutti, mediare, ricomporre e alla fine decidere. Questo il difficile esercizio della libertà praticato ogni giorno dal presidente del Consiglio e dalla sua maggioranza. A qualcuno farà storcere la bocca ma sempre meglio che stare agli ordini di un presidente-padrone.

3. Domenica, infine, ci saranno le primarie del Pd. Il leader eletto direttamente dal popolo. Non ci sono precedenti del genere in Europa. Si prevede che vadano a votare centinaia di migliaia di persone. Forse un milione. Forse molti di più. Liberamente. Sarebbe un risultato straordinario per la democrazia italiana tutta. Uno spartiacque anche per l’altra parte politica, ha detto Veltroni. La sinistra che insegna alla destra a diventare più libera. C’è da esserne orgogliosi. Ricordiamocelo nei nostri momenti cupi.

apadellaro@unita.it


Pubblicato il: 13.10.07
Modificato il: 13.10.07 alle ore 10.43   
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« Risposta #11 inserito:: Ottobre 20, 2007, 11:52:16 pm »

Non diamogliela vinta

Antonio Padellaro


Stanno cercando di toglierci il governo. Di toglierlo ai 19 milioni di cittadini che il 9 aprile 2006 votarono per l’Unione. Di toglierlo ai 3 milioni e mezzo del Partito Democratico che domenica scorsa si sono messi in fila per eleggere Walter Veltroni e per sostenere Romano Prodi. Il premier parla di «complottone» ed è convinto di sventarlo con l’aiuto del leader del Pd. Noi pensiamo, più semplicemente, che è tornata in azione la solita, vecchia, fangosa politica italiana. È la palude di sempre che, lasciata libera di fare, non ci metterà molto a inghiottire i diritti e le speranze tra miasmi e compravendite di voti. Basta guardare giornali e telegiornali per capirlo. Non è trascorsa neppure una settimana e di quell’enorme capitale di rinnovata fiducia e passione chi ne parla più? E perfino il tentativo di tenere viva la fiamma di un evento democratico senza precedenti, come l’Unità continuerà a fare, può apparire patetico davanti al niagara di intrighi, manovre e ricatti che di nuovo rischia di sommergere la maggioranza. Eccone una cronaca sommaria.

1. Domenica sera si sono appena conosciuti i numeri del plebiscito per Veltroni e nelle compagnie di giro televisive già ferve il dibattito sulla ineluttabilità dello scontro tra i diarchi. Sempre nel teatrino, assodato che Veltroni e Prodi cercheranno di farsi le scarpe l’uno con l’altro, resta sospeso il dubbio sul quando. Invano i diretti interessati si affannano a spiegare che chi è andato a votare lo ha fatto per dare una guida al nuovo partito, non per fare cadere il governo.

Intanto, i tre milioni e mezzo di elettori sfumano nei titoli di coda.

2. Per dare una significativa risposta alla così energica richiesta di unità e di sostegno al governo venuta dalla base, una decina di senatori del centrosinistra, quasi tutti centristi eletti nelle liste dell’Ulivo dichiarano a vario titolo di non volersi più attenere alla disciplina di maggioranza. Il partito flessibile del «decideremo di volta in volta», guidato dall’ex ministro Dini, ha ovviamente vivacizzato lo shopping del leader miliardario. Che messo il cartello “comprasi”, offre una «collocazione politica agli esclusi del Pd». Avanti c’è posto.

3. Vengono presentati gli emendamenti alla legge finanziaria il cui numero rappresenta un altro tangibile e incoraggiante segno della compattezza che regna nell’Unione. Le richieste di modifica avanzate dai parlamentari della maggioranza (oltre 900) rischiano di superare persino le correzioni proposte dall’opposizione. Che non ha tutti i torti a ironizzare: ormai si fanno opposizione da soli.

4. Tocco farsesco: un deputato dell’Udeur abbandona ieri pomeriggio una riunione della maggioranza accusando Veltroni di aver mandato in tv un suo uomo che debitamente camuffato (?) attribuisce al sindaco di Roma la volontà di elezioni anticipate subito poiché «andare avanti con il governo Prodi sarebbe un suicidio».

5. Dopo che il presidente del Consiglio ha parlato del complottone da sventare, il ministro della Giustizia Mastella forse anche per l’amarezza di sapersi indagato a Catanzaro dal “nemico”, il pm de Magistris, si lascia andare a cupi presagi: la maggioranza non esiste quasi più e dunque meglio votare a primavera.

6. Strano, ma in questo clima plumbeo la manifestazione di oggi a Roma della sinistra radicale potrebbe assumere per il governo un significato positivo. È vero che si protesta contro l’accordo sul welfare ma, a questo punto, dubitiamo che l’interesse di Rifondazione e dei Comunisti italiani sia quello di dare la spallata definitiva a Prodi. L’assenza dei ministri nel corteo e una gestione accorta della piazza e degli slogan potrebbero, anzi, creare una situazione non troppo sfavorevole per Prodi. Speriamo bene.

I boatos di palazzo preannunciano che per il governo la trappola dovrebbe scattare mercoledì, al Senato, sul decreto fiscale. Dopodiché il Quirinale prenderebbe atto della situazione aprendo la strada a un governo istituzionale, con il mandato di portare a compimento la Finanziaria e di concordare una nuova legge elettorale. Nel frattempo, insieme al governo eletto dagli italiani, rischierebbe di scivolare nella palude lo stesso Partito Democratico, e proprio nella sua fase costituente. Quei tre milioni e mezzo, a quanto si sa, hanno allarmato i tanti nemici vicini e lontani del nuovo partito, pronti a lanciare i loro siluri. Prodi però intende vendere cara la pelle. E Veltroni non ha certo interesse che si sfasci tutto proprio adesso. La pensano come loro milioni e milioni di cittadini. Non permettiamo agli scippatori di averla vinta.

apadellaro@unita.it



Pubblicato il: 20.10.07
Modificato il: 20.10.07 alle ore 8.38   
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« Risposta #12 inserito:: Ottobre 22, 2007, 06:26:15 pm »

Il boomerang

Antonio Padellaro


Non sappiamo se e come si possa porvi rimedio, ma l’aver tolto al pm di Catanzaro Luigi de Magistris l’inchiesta «Why not» rischia di trasformarsi in un disastroso boomerang politico e istituzionale.

Una decisione che si ripercuote prima di tutto sul governo che da ieri ha aggiunto ai suoi non pochi problemi la richiesta di sostituzione del ministro Mastella rivolta a Prodi dall’altro ministro Di Pietro. Lo scontro tra i due dura da tempo ma questa volta l’ex magistrato di Mani Pulite va giù dritto contro il rivale sostenendo che quell’avocazione è stata provocata proprio da chi era o poteva essere messo sotto indagine dal magistrato destituito. Si parla ovviamente del titolare della Giustizia iscritto nel registro degli indagati nell’inchiesta sul comitato d’affari che in Calabria si spartisce da anni la gigantesca torta dei finanziamenti pubblici e privati. Vedremo se anche questa volta il premier riuscirà a trovare una soluzione di compromesso. Sarà dura.

Ma il danno peggiore che scaturisce da tutta questa storia è quello inferto alla credibilità della classe politica e all’immagine stessa della giustizia. Lo si voglia o no colpendo De Magistris si conferma l’idea, già abbastanza diffusa tra i cittadini, che di fronte alla legge i potenti di turno hanno un trattamento privilegiato. E se qualche magistrato prova a mettersi in mezzo, allora peggio per lui. Se nel migliore dei casi è un atto intempestivo, nell’ipotesi peggiore il caso Catanzaro dimostra che purché non sia toccato «l’intreccio perverso tra politica malata, dipendenti pubblici corrotti e massoneria deviata» («Il Sole 24Ore») perfino un governo può andare in frantumi. Si può permettere che tutto questo accada in uno Stato di diritto?

Pubblicato il: 22.10.07
Modificato il: 22.10.07 alle ore 17.21   
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« Risposta #13 inserito:: Ottobre 25, 2007, 10:29:11 pm »

Come in un suk

Antonio Padellaro


Senza nulla togliere al ribaltino che ha sfiduciato Petruccioli in commissione di vigilanza Rai, quanto accaduto nella commissione Diritti umani rende al meglio (anzi al peggio) il clima farsesco della politica italiana in questo malinconico ottobre. Qui dovendosi eleggere il presidente, alcuni dell’Unione hanno pensato bene di impallinare il candidato della sinistra votando l’uomo della destra, e il tutto condito dall’imbroglio di chi ha votato due volte. Per gente che dovrebbe occuparsi del rispetto delle persone, non c’è male. Intrighi e tranelli fanno parte del gioco politico nella sua versione meno nobile, ma se nelle aule parlamentari si fa ogni tipo di mercato significa che la situazione è fuori controllo.

Parliamo ovviamente del governo Prodi che ogni giorno deve fronteggiare un problema nuovo, dai litigi tra ministri alle tensioni sul pacchetto sicurezza. Un governo, ed è qui la rabbia, che per quanto gli è consentito dai numeri al Senato molte cose buone le ha fatte migliorando i conti, aiutando i più deboli, combattendo sul serio l’evasione fiscale. Un governo composto soprattutto da uomini competenti e per bene, e che non passano il tempo negli studi televisivi a distruggersi l’uno con l’altro. Tutto questo rischia però di scomparire sotto i colpi di una opposizione a cui del paese importa nulla, capace solo di seminare zizzania e che ha come unico obiettivo quello di andare alle elezioni subito per riprendersi il bottino. Questa corsa disordinata verso le urne, che con il pessimo sistema elettorale che ci ritroviamo non farà che perpetuare l’ingovernabilità, sembra aver contagiato pezzi della maggioranza. Che immemori delle risse del giorno prima (vedi i mastelliani e i dipietristi) il giorno dopo si alleano per destabilizzare la Rai sperando in chissà quali vantaggi nella campagna elettorale che si annuncia. Come in un suk.

apadellaro@unita.it

Pubblicato il: 25.10.07
Modificato il: 25.10.07 alle ore 8.52   
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« Risposta #14 inserito:: Novembre 04, 2007, 11:30:02 pm »

Se Fini è sempre Fini

Antonio Padellaro


Prima istantanea. Gianfranco Fini in trench chiaro davanti alla stazione di Tor di Quinto, a pochi passi dal viottolo dove è stata massacrata Giovanna Reggiani. In una giornata come questa, in un luogo come questo lui tiene una conferenza stampa per attaccare frontalmente il governo Prodi non risparmiando accuse a Veltroni e Rutelli. La pietà sottomessa al gioco politico. I giornali già accreditano la voce di una sua candidatura al Campidoglio. Usa frasi secche che sembrano disposizioni in vista di un qualcosa a cui bisogna prepararsi. Intorno al presidente di An tacciono i luogotenenti. Un po’ più dietro facce giovani e cupe. Non troppo lontano, famiglie di romeni e di rom si preparano a scappare da baracche e roulotte.

Seconda istantanea. C’è il ministro degli Interni Giuliano Amato che si dichiara «sorpreso e amareggiato» per le espressioni di Fini. Qualcuno ricorda che Amato aveva un tempo ottimi rapporti con il leader di An, tanto da avergli scritto la prefazione di un libro sull’Europa.

Terza istantanea. In realtà vediamo soltanto il testo di un foglio volantinato in molte zone della Capitale. Con la sigla di Forza Nuova chiama alla mobilitazione tutti i romani per domenica 4 novembre. C’è scritto:« Se dagli orribili avvenimenti di Tor di Quinto non scaturirà una rivoluzione nella maniera di regolamentare l’immigrazione, i nostri militanti e tutti gli italiani sono moralmente autorizzati ad usare metodi che vadano al di là di semplici proteste per difendere i propri compatrioti».

Nell’eterno linguaggio fascista vuol dire: siamo pronti a tutto. E infatti passano poche ore e a Tor Bella Monaca, profonda periferia romana uomini incappuciati, nel più classico stile Ku Klux Klan aggrediscono un gruppo di cittadini rumeni, colpevoli solo di questo.

Se proviamo a mettere insieme questi tre scatti ne esce fuori un’immagine scura, minacciosa, malvagia che ne richiama altre di simili del nostro passato più triste. C’è un problema reale e drammatico: in questo caso l’esplodere di episodi criminali ad opera di sbandati appartenenti a comunità straniere. C’è una destra sempre uguale a se stessa che alimenta e cavalca le pulsioni xenofobe e razziste ma anche le paure irrazionali del suo mondo. Ai lati compaiono frange squadriste di irregolari pronte a mettere in atto azioni violente, convinte che questa volta la gente approverà. Sullo sfondo c’è anche una élite politica di governo che mentre sta coltivando l’idea di intraprendere una qualche forma di dialogo con l’opposizione «più ragionevole» si vede improvvisamente aggredire proprio da quell’esponente della destra «moderna» di cui si fidava di più.

I voltafaccia di Gianfranco Fini non dovrebbero sorprendere più di tanto essendo egli l’allievo prediletto di quel Giorgio Almirante che già nei torbidi anni ‘70 teorizzava l’uso tattico alternato del manganello e del doppiopetto. O meglio del manganello da tenere sotto il doppiopetto. L’amara sorpresa di Giuliano Amato è quella di un autorevole professionista della politica abituato a colloquiare nelle stanze riservate dei palazzi o nel clima mondano delle presentazioni dei libri o nelle finte baruffe dei talk show. È probabile che Amato consideri Fini membro di uno stesso, ristretto club di potere. Quello degli uomini che hanno o che hanno avuto grosse responsabilità di governo e che dunque perfino nella polemica non possono venir meno a un loro codice d’onore. A Fini che gli grida vergogna, il titolare del Viminale risponde meravigliandosi della mancanza di stile di un uomo di governo che tra l’altro si è trovato a gestire l’ingresso della Romania nell’Unione Europea. Una frase velenosa che può mandare in sollucchero i cronisti parlamentari ma del tutto inadeguata a sostenere lo scontro mediatico se intanto l’altro usa l’artiglieria.

Se Fini ha messo il trench non è solo perché alla periferia nord di Roma piove e fa freddo. La grisaglia (il doppiopetto) vanno benone per convincere o tranquillizzare i pavidi borghesi. O per strappare l’approvazione compiaciuta di lobbies e salotti. O per gettare un po’ di fumo negli occhi della sinistra speranzosa. Quando, per esempio, si dice che gli immigrati hanno dignità e diritto anche di voto. O si lascia libertà di coscienza nel referendum sulla fecondazione assistita. O si dichiara di voler garantire soluzioni normative a diritti individuali non riconosciuti in assenza di matrimonio. O si chiede perdono agli ebrei per le infami leggi razziali volute dal fascismo. O se si intrecciano con la parte avversa costruttivi (per le tv) dialoghi sulla legge elettorale o sui costi della politica (Di Pietro).

Ma se il gioco si fa duro ecco che rispunta l’altro Fini, quello di lotta e del governo di polizia (da vicepremier è lui che a Genova segue minuto per minuto fatti e misfatti del G8, accanto ai vertici di polizia e carabinieri). Adesso sulla questione sicurezza si gioca due partite. Una contro il governo ma soprattutto contro Veltroni, leader del Pd che cresce troppo nei sondaggi e va fermato. E l’altra tutta interna alla Cdl. Per dare una botta al rintronato Berlusconi, beccato al «Bagaglino» la sera della morte di Giovanna Reggiani mentre racconta barzellette nello spettacolo dal titolo illuminante: «Vieni avanti cretino». E per tenere a bada Storace, che se Fini non sta attento gli porta via un’altra fetta di quelli che vogliono farsi giustizia da sé, col supporto di ben motivati bastonatori. Fini col trench ne ha assoluto bisogno se vuole fare un altro scatto di carriera. Camerati si è per sempre, abbiamo letto un giorno su un manifesto. Nella maggioranza dialogante e aperta al nuovo se ne facciano tutti una ragione.

apadellaro@unita.it



Pubblicato il: 03.11.07
Modificato il: 03.11.07 alle ore 10.20   
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