PRODI

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Il piano del premier al consiglio dei ministri, si tratta sulle quote

Il ministro del Lavoro: i tempi per l'accordo sono maturi

Spiraglio sulle pensioni oggi il "patto" di Prodi

Previste finestre per chi lascia l'attività con 40 anni di contributi

Ieri sera lungo vertice tra Letta, Damiano e i leader sindacali
 
di ROBERTO PETRINI


ROMA - Sarà un "patto" quello che Romano Prodi illustrerà oggi al consiglio dei ministri. Una proposta rivolta alla maggioranza, alle parti sociali, ma soprattutto al paese e alle generazioni. La "sintesi" arriva dopo giorni di trattative e di telefonate riservate e dovrebbe ripercorrere i termini emersi negli ultimi giorni: due scalini crescenti da 18 e 24 mesi per portare l'età a 58 anni e poi a 59, l'arrivo delle quote (ma tra "96" e "97" c'è ancora un braccio di ferro), l'allargamento della platea dei lavori usuranti (recependo le richieste di Rifondazione) e il ritorno delle 4 finestre per consentire a chi ha 40 anni di lavoro di poter uscire senza attese snervanti. Novità dell'ultima ora: una "clausola di salvaguardia" che, se i risparmi non funzionassero, entrerebbe in vigore con intensità proporzionale alle necessità finanziarie (dunque senza automatismi o date capestro).

I contatti sono proseguiti fino alla tarda serata tra il sottosegretario Enrico Letta, i ministri Padoa Schioppa e Damiano e i tre leader sindacali, con l'obiettivo di rivedersi stamattina per arrivare all'accordo. Il premier si è mostrato ottimista: "I tempi sono maturi", ha detto. Ai suoi collaboratori ha aggiunto una battuta: "Vedrete che ce la faccio". Ai leader della Cisl Bonanni e della Cgil Epifani che gli hanno passato la palla chiedendo una proposta e una convocazione, ha replicato: "Gli assist di solito si raccolgono". Fiducioso anche il leader dei Ds Fassino: "Accordo vicino, ragionevole la proposta di Damiano (gli scalini, ndr)".

Il costo della soluzione-scalini andrebbe da 1,5 a 2 miliardi (molto meno dell'abolizione che arriva a 8) e i fondi sarebbero recuperati con una razionalizzazione degli enti previdenziali: sarebbero unificati i servizi ispettivi, snelliti gli organismi e costituita una unica centrale di acquisti. A fare da corollario alla difficile trattativa le cifre che cadono sul dibattito: positive quelle che arrivano dall'Inps che ha reso noto che nei primi cinque mesi del 2007 le entrate sono cresciute di 3,8 miliardi (per effetto dell'aumento dei contributi). Negative quelle che giungono dalla Banca d'Italia secondo cui il debito pubblico ha battuto un nuovo record toccando ad aprile quota 1.609,1 miliardi.

Resta aperta la questione della sinistra radicale che ieri ha continuato a dare segnali di nervosismo, ma con minore intensità: Rifondazione riunirà il comitato politico nel fine settimana, giusto in tempo per dare una valutazione del piano Prodi. Ieri il leader Giordano ha accennato all'eventualità della crisi e Rizzo (Pdci) ha ribadito che bisogna "abolire lo scalone".

Anche sull'eventuale percorso non si va oltre le ipotesi: se la mossa di Prodi avrà un tono squisitamente politico, pur recependo ipotesi gradite ai sindacati, potrebbe tradursi in un emendamento al decreto "tesoretto" o, molto più probabilmente, in una norma della prossima Finanziaria. I sindacati, che non hanno ancora firmato formalmente l'intesa sulle pensioni basse perché attendono il pacchetto complessivo, potrebbero dopo il confronto politico.

La possibile schiarita ha fatto alzare il tono della polemica della Cdl: "Prodi ha fatto un patto con il demonio, è stato eletto con l'impegno di eliminare lo scalone e lo deve eliminare altrimenti andrà a casa", ha detto Tremonti.

(13 luglio 2007)
 

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Il retroscena

Sulle pensioni Prodi si gioca il tutto per tutto

L'offensiva: risolvere i nodi di previdenza e legge elettorale   
 

ROMA - Prodi è convinto di chiudere oggi, «sono convinto di chiudere l'accordo sulle pensioni con i sindacati ». E certo il suo ottimismo stride con l'ennesimo bollettino di guerra, al termine di un'altra giornata in cui il governo non ha trovato un porto in cui riparare. Al Senato è andato sotto sulla riforma dell'ordinamento giudiziario. Alla Camera si appresta a mettere la fiducia sul «tesoretto » perché non c'è accordo nell'Unione, mentre la sinistra radicale è pronta ad astenersi sul Dpef nelle commissioni Ambiente e Trasporti, contro i progetti delle Grandi Opere.

Il Professore convive ormai da tempo con i fantasmi del '98, e per una volta concorda con il Cavaliere, secondo cui Prodi non cadrà per un incidente di percorso in Parlamento ma per una trama politica ordita dai suoi alleati. «Io però non mollo, andrò fino in fondo », ha ripetuto ieri il premier, sfidando lo sguardo dell'interlocutore di turno: «E dopo di me non c'è nulla. Ci sono solo le elezioni». Anche su questo punto è in sintonia con l'eterno rivale, sebbene nessuno al momento possa ipotecare il futuro, mentre impazza la lotteria sul prossimo capo di governo, e un potentissimo funzionario dello Stato - depositario di molti segreti e confidenze - scommette che «non saranno né Marini né Dini né Veltroni i successori di Prodi a palazzo Chigi, bensì Giuliano Amato, che porterà il Paese alle elezioni».

Il premier vuole smentire le profezie. Certo, sono molti i nodi politici che si sono aggrovigliati e che stanno togliendo il fiato al suo esecutivo. Anche se in realtà la crisi in cui versa è determinata da due problemi: «Le pensioni e la riforma della legge elettorale ». Perciò non si preoccupa più di tanto per quel che sta accadendo al Senato, dove il Guardasigilli ieri ha minacciato le dimissioni sull'ordinamento giudiziario, dopo aver subito «lo schiaffo» di un emendamento presentato da alcuni dissidenti dell'Ulivo, che è stato votato dal centrodestra per mettere in scacco il governo. Oggi si replica. E malgrado la preoccupazione sia palpabile, con Mastella che definisce le proposte di modifica annunciate da Manzione «un vero e proprio atto eversivo», con Mussi che annuncia ai suoi «il rischio molto alto di saltare», c'è la sensazione che si arriverà a un'intesa in extremis. «La verità è che abbiamo già evitato la trappola», spiegava infatti il ministro della Giustizia nei giorni scorsi, con il sorriso di chi la sa lunga: «La trappola era la fiducia. Se Prodi l'avesse messa, allora sì che sarebbe caduto. Magari ci sarebbe mancato un voto... Per fortuna mi ha dato retta e abbiamo sventato la minaccia». D'altronde Mastella sapeva in questi giorni di poter fare affidamento sui centristi dell'opposizione, che però oggi in Aula a palazzo Madama non potranno assentarsi.

Così ha ordinato Casini: «Tutti presenti o verremo additati come il soccorso bianco di Prodi. Stavolta non è come sul decreto per le missioni militari».
Resta da capire come possa Prodi continuare a lungo così, e se davvero c'è un piano per sostituirlo in autunno. L'altra sera l'argomento è stato al centro di una discussione tra Rutelli e i suoi fedelissimi: dai ministri Gentiloni e Lanzillotta, a Lusetti e Realacci, a Polito e Bobba. Il vicepremier ha allargato le braccia: «Qui si naviga a vista, ogni questione può diventare una buca ».

Certo Rutelli non sembra far nulla per impedire il passo falso, anzi nel documento che ha redatto per il Partito democratico, tratta l'esecutivo alla stregua di un «governo amico»: gli addebita «la delusione dei ceti popolari», «l'insofferenza dei ceti medi, dei piccoli imprenditori, dei professionisti, dei commercianti, degli artigiani». Praticamente di tutto il Paese. In più prospetta la rottura del Pd con l'ala massimalista dell'Unione per non restare «imprigionati dal minoritarismo e dal conservatorismo di sinistra». E nella chiosa sottolinea addirittura che Veltroni «a queste ragioni si ispira».

«Conoscendo il carattere di Prodi, starà fuori dalla grazia di Dio», ha commentato il segretario del Prc con i suoi: «Quella di Rutelli è una posizione da ribaltonista, da tradimento del mandato elettorale». Ma la «forzatura » del leader diellino — secondo Giordano — «può esserci di aiuto perché ci tira fuori dall'angolo, spinge il premier a proporsi nel ruolo di garante e magari può far ripartire il feeling tra noi e lui». Il pensiero, ovviamente, va alla trattativa sulle pensioni. Al momento restano le divergenze tra il capo del governo e gli alleati, né le mediazioni finora hanno ridotto la distanza. A dire il vero, hanno irritato persino gli esponenti dell'area riformista: «Io non sono mai stata femminista — diceva giorni fa la Lanzillotta — ma ipotizzare l'aumento dell'età pensionabile per le donne, così da consentire agli uomini di andare a riposo prima, mi pare una bestialità ».

È sulle pensioni che Prodi si gioca molto se non tutto.

Sulle pensioni e sulla legge elettorale, che è all'origine della instabilità della maggioranza. «Sono pronto a impegnare il governo sul sistema tedesco», ha sussurrato il premier ai dirigenti del Prc: «Però dovete convincere i partiti più piccoli ad accettare lo sbarramento al 4%». Verdi e Pdci non ne vogliono sapere, Mastella men che meno. Intanto il tempo passa, e senza accordo il tic-tac del referendum avvisa che la bomba ad orologeria si appresta a esplodere. Ieri il Cavaliere ha criticato il ricorso alla consultazione popolare, che in realtà sta segretamente sostenendo, come lascia intendere Rotondi, suo fedelissimo alleato democristiano: «Io sto raccogliendo le firme, e ho capito che può venire utile a Berlusconi. Lui non si può muovere perché altrimenti si scatena la Lega».

Sarà una coincidenza, ma è l'ennesima: i percorsi dei due rivali coincidono. Entrambi non vogliono concedere spazio agli alleati che puntano al cambio della guardia. Prodi deve contrastare il passo a Veltroni per restare a palazzo Chigi, mentre Berlusconi deve stroncare la resistenza di Casini per tornarci. Il resto è ammuina, tattica, annusamento. Basta pensare a quello che è avvenuto sere fa, alla festa in onore di Valentino, durante la quale il Cavaliere ha corteggiato Rutelli: «È ora di metterci d'accordo... Troviamo un'intesa anche sulla legge elettorale... Se voi abbandonate i comunisti noi tagliamo i nostri rami secchi...». Il giorno dopo il vicepremier l'ha raccontato ai suoi. Commento finale: «E mica crederete a Berlusconi?». Nessuno crede più a nessuno. Succede tra avversari, ma anche tra alleati.

Francesco Verderami
13 luglio 2007
 
da corriere.it

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13/7/2007 (7:36) - RETROSCENA

La crisi? Ora è caccia a chi la fa
 
Il segretario di Rifondazione Giordano: «Non escludo che il governo possa cadere anche se non è il nostro obiettivo»

Governo in bilico

FEDERICO GEREMICCA
ROMA


Lentamente e per progressione quasi impercettibile, la discussione tra i partiti dell’Unione sulla tenuta e sul futuro del governo ha fatto un salto di qualità che Romano Prodi sbaglierebbe a sottovalutare (ammesso e non concesso che l’abbia sottovalutato): il confronto, chiamiamolo così, si è infatti spostato dal «se» il governo incapperà prima o poi in una più che paventata crisi, al «chi» sta lavorando per quell’epilogo. In questo senso, la difficile giornata vissuta ieri dall’esecutivo (battuto al Senato su un emendamento alla riforma dell’ordinamento giudiziario e ancora stretto nelle spire mortali del confronto su scalini, scaloni e pensioni) è assai più che istruttiva, essendo stata una rappresentazione perfetta di come si prepara e poi si scivola verso una crisi. Gli elementi, infatti, sono stati messi in campo tutti. A cominciare dal più importante: l’accusa all’alleato di star lavorando per mandare tutto gambe all’aria. Vediamo.

Ha cominciato «Europa», aggressivo quotidiano della Margherita (e apripista per molte sortite rutelliane) che - a proposito di pensioni - deve aver mandato il caffè di traverso a Prodi con un titolo a tutta pagina di questo tenore: «Veltroni sta con i giovani, vediamo con chi sta Prodi». Ha subito risposto Giordano, leader di Rifondazione, con una battuta inutilmente sibillina: «Non escludo che il governo possa cadere sulle pensioni. Non è l’obiettivo per cui stiamo lavorando, piuttosto sono altri che lo stanno facendo». Dicevamo inutilmente sibillina perché bastava aver letto «Liberazione», quotidiano di Rifondazione, per sapere Giordano con chi ce l’aveva. Nel grande titolo d’apertura, infatti, spiegava in chiaro chi sarebbero gli «altri» che lavorano per la crisi: «Pensioni, il Pd non vuol trattare, nell’Unione tensione altissima». E lo scambio d’accuse intorno a chi lavora per la caduta del governo prendendo a pretesto la riforma della previdenza, sarebbe certamente continuato, se non si fosse improvvisamente aperto un nuovo e perfino più concreto scenario di crisi: l’Unione battuta al Senato su un emendamento alla legge di riforma dell’ordinamento giudiziario presentato da un suo senatore (governo contrario) e passato con i voti del centrodestra e di due altri parlamentari della maggioranza.

Immediata la polemica. E visto che il senatore in questione (Manzione) annuncia per oggi un altro emendamento non concordato con l’Unione, ecco lo scambio di accuse. Comincia il partito di Di Pietro: «Se passa l’emendamento, l’Italia dei valori non voterà la riforma». Continua Anna Finocchiaro: «Se accadesse l’irreparabile, le responsabilità saranno chiare». Conclude il ministro Mastella: «Non so se c’è più la maggioranza, voglio sapere se c’è o non c’è e ne prenderò atto». Si potrebbe continuare. Ma ieri, intanto, s’è capito che Rifondazione accusa il Pd di volere la crisi sulle pensioni, che il Pd accusa Rifondazione di voler far cadere il governo sempre sulle pensioni, che sulla giustizia il sospettato di volere la crisi è Di Pietro mentre il partito di Di Pietro sospetta che sia il Partito democratico a volere che Prodi cada su una riforma considerata troppo «tenera» con i magistrati.

E teniamo da parte, giusto per carità di patria, la mossa a sorpresa fatta ieri da Francesco Rutelli che ha lanciato il suo «manifesto dei coraggiosi» per il Partito democratico. Ci sarà infatti tempo per registrare le polemiche che determinerà. E che ne determinerà sembra abbastanza scontato: visto che si apre con l’annuncio che il Pd «deve aiutare il governo a cambiare rotta» (ne sarà felice Prodi...) e si conclude con l’avvertimento che «il Partito democratico dovrà proporre un’alleanza di centrosinistra di nuovo conio, per non riconsegnare l’Italia alle destre ma soprattutto per non essere imprigionato dal minoritarismo e dal conservatorismo di sinistra».

Questo ieri. E non è affatto detto che oggi andrà meglio. Infatti, al di là delle note divisioni che segnano dall’avvio il profilo della coalizione, sta cominciando a pesare il processo innescato dai primi passi del Partito democratico. In realtà, non era difficile prevedere che la sua nascita, con l’incoronazione di un nuovo leader (Veltroni) e l’acuirsi della polemica con la sinistra radicale, avrebbe potuto arrecare più danni che benefici al governo in carica. Anzi, la dinamica va facendosi così chiara, che perfino Berlusconi ha cambiato la sua analisi: «Questo governo non cadrà per una imboscata parlamentare ma per una operazione politica - ha annunciato ieri -. Per ora è a bagnomaria, ma i tempi vanno facendosi maturi: penso che cadrà in autunno...». In serata, però Cicchitto smentisce: «Berlusconi non ha mai detto quella frase».

da lastampa.it

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La Nota

Massimo Franco

Crisi in incubazione.

Tempi imprevedibili

La tesi di Berlusconi: cadrà per un incidente ma dietro c’è un’operazione politica 


Nella stessa maggioranza adesso comincia a circolare il termine «agonia ». E ci si chiede quanto potrà resistere il governo di Romano Prodi dopo l’ennesima bocciatura al Senato; e stavolta per iniziativa di tre parlamentari dissidenti dell’Ulivo. Gli appelli allarmati ad evitare «l’irreparabile» fanno pensare che anche nelle votazioni di oggi sull’ordinamento della giustizia la maggioranza rischi. Ma proprio perché ormai s’è capito che se la crisi si aprirà, almeno in apparenza sarà per un incidente legato ai numeri di palazzo Madama, qualunque previsione suona azzardata.

Un governo così debole potrebbe, proprio per questo, andare avanti per un po’. Il problema riguarda il costo che il centrosinistra sta pagando in termini di consensi. Il tramonto di Prodi avvicinerebbe drasticamente la fine della legislatura, seppure attraverso un passaggio intermedio. Ma il suo lungo logoramento si proietta sull’Unione, erodendone i margini di credibilità. L’indizio più vistoso della voglia di parlare al passato del premier è offerto dalla fioritura di scenari alternativi. Non si tratta soltanto della proposta di unità nazionale, rilanciata dal leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini e bocciata da Silvio Berlusconi con un lapidario: «troppo tardi».

L’archiviazione si coglie nel «manifesto » del vicepremier Francesco Rutelli, che non esclude un nuovo centrosinistra senza i partiti dell’antagonismo. E nella reazione iniziale del ministro della Giustizia, Clemente Mastella, dopo l’approvazione dell’emendamento di ieri con l’appoggio del centrodestra: «Ci rimettiamo alla sovranità del Parlamento». Formula obbligatoria per evitare la caduta; e ammissione di un Senato dove la maggioranza ha contorni volatili, soprattutto sul fronte moderato.

La tesi del Guardasigilli, tuttavia, rilanciata dalla capogruppo diessina Anna Finocchiaro, ha provocato l’altolà del partitino di Antonio Di Pietro. E Mastella ha dovuto dire che potrebbe dimettersi. Rispetto al passato, la novità sta in uno scontro non dovuto alle assenze o ad una trappola del fronte berlusconiano. La modifica sulla quale il governo è scivolato nasce nei meandri moderati della maggioranza. Fa affiorare i problemi di un’Unione che sente la pressione del’Associazione nazionale dei magistrati con la minaccia di sciopero. E allo stesso tempo deve fare i conti con i suoi settori meno inclini ad assecondarla.

Berlusconi accarezza «il disagio» di singoli esponenti di una coalizione appesa a «senatori che vanno alla toilette o ai senatori a vita». L’allusione è a Giulio Andreotti, decisivo mercoledì scorso per salvare il governo. Ma all’ex premier interessa soprattutto la polemica con la magistratura. Un’eventuale caduta di Prodi, tuttavia, sarebbe legata solo incidentalmente alla riforma della giustizia. Ormai, qualunque provvedimento diventa un’incognita quando approda nell’aula del Senato. E uno diventerà l’incidente fatale, che per Berlusconi servirà a mascherare «un’operazione politica».

Massimo Franco
13 luglio 2007
 
da corriere.it

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Le mosse di Dini

Spunta il «partito dei guastatori»

La Finocchiaro: vogliono far cadere il governo.

L'Udc: non saliremo su un carro funebre 

 
ROMA - «Ditelo a Prodi, è molto meglio andare alle feste che ai funerali...». Stravaccato su un divanetto del Senato, Clemente Mastella rilancia (a suo modo) l'invito al premier per la festa Udeur di Telese e, al tempo stesso, pronostica al governo del Professore un avvenire nient'affatto luminoso. Pochi metri più in là il presidente dei senatori udc Francesco D'Onofrio dedica un epitaffio all'inquilino di Palazzo Chigi: «Noi i guardaspalle di Mastella? E perché mai dovremmo salire sul carro funebre di Prodi?».

Matrimoni (mancati) e funerali, a Palazzo Madama. All'ora di pranzo sembrava quasi che il Guardasigilli, con quella frase «d'ora in avanti il governo si rimette all'Aula», avesse colpito con freccia di Cupido il cuore dei senatori di Casini prolungando così la vita della legislatura, ma a sera nessuno parla più di amorosi inciuci al centro. Il tema, tra i senatori stremati dalla maratona sull'ordinamento giudiziario, è un altro. É il partito dei guastatori, i soliti post—ulivisti e post—prodiani cui ancora una volta sono appesi i destini dell'intera Unione. Anna Finocchiaro, già inviperita senza darlo a vedere per l'uscita di Mastella, lo ha detto ai suoi con una frase secca, inequivocabile: «A che gioco giocano Bordon e Manzione? Semplice, stanno cercando di far cadere il governo ». E non da soli.
L'appuntamento col destino è per la tarda mattinata di oggi. Se l'emendamento Manzione sugli avvocati nei consigli giudiziari non sarà ritirato Prodi potrebbe davvero non avere scampo, tanto che ieri si è dato da fare di persona per scongiurare il peggio, ha chiamato e redarguito Mastella, rabbonito Di Pietro, schivato accuratamente le telefonate allarmate della Finocchiaro e perfino spronato a convocare i senatori a vita latitanti.

«L'emendamento Manzione è la buccia di banana su cui il governo può cadere» certifica il rischio il capogruppo di Rifondazione, Giovanni Russo Spena. Il quale si è convinto che dietro ai due pasdaran — che coltivano il sogno di tenere a battesimo un Pd alternativo e d.o.c., senza Prodi senza D'Alema e senza Veltroni — si muova l'ex presidente del Consiglio, Lamberto Dini: «Qualcuno dice che il burattinaio sia Marini, ma io non ci credo...». Che interesse avrebbe la seconda carica dello Stato a far da traghettatore a Veltroni al timone di una scialuppa delle larghe intese? Dini, invece. Ieri lo si è visto scivolare via a passi felpati tra le boiserie del Palazzo, elegantissimo e silente, la faccia di uno che aveva altro a cui pensare. E invece, nelle stanze ristrutturate di fresco della commissione Esteri, i suoi collaboratori lo descrivono «determinatissimo a far cadere il governo» e rivelano che del bellicoso proposito, covato «per il bene del Paese » e «per puro senso di responsabilità», Lamberto avrebbe «per correttezza» informato il presidente del suo partito, Francesco Rutelli.

Nei piani di Dini la pietra tombale dovrebbe calare sul governo Prodi col voto sulle pensioni, ma il presidente ha fretta, «i mercati non aspettano e l'Europa nemmeno». E così uno scivolone sull'ordinamento giudiziario non gli sarebbe sgradito, convinto com'è che un'area liberaldemocratica che va dai frondisti ex ulivisti a scampoli di Forza Italia, passando per i centristi di Casini, sia pronta a seguirlo col nobile intento di «liberare il Paese da un governo ostaggio delle sinistre».

Bordon si gode lo spettacolo. «Se voterò l'emendamento Manzione? C'è tutta la notte per pensare». Notte lunga e intensa, trascorsa a trattare e ancora trattare, con la speranza di convincere Manzione a ritirare il suo emendamento e Bordon e Barbieri, ex ds in avvicinamento a Enrico Boselli, a non votarlo. In cambio di cosa? Un seggio sicuro, sospettano i più. Un «aiutino» da parte di Marini per mettersi in proprio, con un gruppo che accolga anche Dini? La presidenza della commissione Giustizia, cui aspira Manzione? O ancora, come chiosa il capogruppo dell'Udeur Nuccio Cusumano, «sufficienti garanzie dentro il Partito democratico». Quello vero, però.

Monica Guerzoni
13 luglio 2007
 
da corriere.it

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