EZIO MAURO.

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Arlecchino:
Referendum, Zagrebelsky: "Il mio No per evitare una democrazia svuotata"
Per l'ex presidente della Consulta la riforma del Senato sommata all'Italicum "realizza il sogno di ogni oligarchia: umiliare la politica a favore delle tecnocrazie"

Di EZIO MAURO
26 maggio 2016

PROFESSOR Zagrebelsky, dunque più che a un referendum saremmo davanti a un golpe, come sostiene il fronte del "no" alla riforma che lei guida insieme a altri dieci ex presidenti della Consulta, e a molti costituzionalisti? Non lo avete mai sostenuto nemmeno davanti agli abusi di potere di Berlusconi e alle sue leggi ad personam: cos'è successo?
"Nel "fronte del no" convergono preoccupazioni diverse, come è naturale. Vorrei però che si lasciassero da parte le parole a effetto. L'atmosfera è già troppo surriscaldata. Contesto la parola golpe, non l'allarme. Come si fa a non vedere che il potere va concentrandosi e allontanandosi dai cittadini comuni? Non basta per preoccuparsi?".

Sono qui per sentire lei, e aiutare i lettori a capire. Dove vede questo disegno di esproprio del potere?
"Non penso a una "Spectre", per intenderci. Vedo un progressivo svuotamento della democrazia a vantaggio di ristrette oligarchie. Per ora le forme della democrazia reggono, ma si svuotano. Si parla di post-democrazia e, se subentra l'autoritarismo, di "democratura". Ripeto: non c'è da preoccuparsi?".

Tutto questo per il referendum sulla riforma del Senato?
"Il Senato è un dettaglio, o un'esca. Meglio se lo avessero abolito del tutto. È all'insieme che bisogna guardare. Rispetto ai mali che tutti denunciamo (rappresentanti che non rappresentano, partiti asfittici e verticistici e, dall'altro lato, cittadini esclusi e impotenti) che significa la riforma costituzionale unita a quella elettorale? A me pare di vedere il sogno di ogni oligarchia: l'umiliazione della politica a favore di un misto di interessi che trovano i loro equilibri non nei Parlamenti, ma nelle tecnocrazie burocratiche. La conseguenza è che viviamo in un continuo presente. Il motto è "non ci sono alternative", e così il pensiero è messo fuori gioco".

Lei ha avuto responsabilità istituzionali, è stato presidente della Consulta: non ha mai sollevato questo allarme coi vertici dello Stato?
"Con "i vertici" ho poche occasioni d'incontro. Ma ne ricordo uno, al Quirinale col presidente Napolitano. Gli parlai dell'alternativa che si prospetta sempre, quando le condizioni sociali si fanno strette e il malessere aumenta, tra chiusure autoritarie e aperture democratiche: o la ricerca di nuove strade o l'insistenza su quelle vecchie che pesano sui gruppi sociali più deboli".
Ad esempio?
"Pensi al modo abituale di tirare avanti esponendosi ai creditori. Il debitore finisce per cadere totalmente nelle loro mani. Nel diritto antico potevi finire schiavo. Oggi puoi essere spogliato. Si canta vittoria quando la finanza internazionale rifinanzia il debito pubblico e non si vede il nodo del cappio che si stringe. Eppure c'è l'esempio della Grecia che parla chiaro. Lo stato sociale è allo stremo e si sono chiesti in garanzia spiagge, isole e porti, se non anche il Partenone".

Io sono più preoccupato per questi problemi che per la riforma del Senato: il welfare state, quella che abbiamo chiamato l'economia sociale di mercato, la democrazia del lavoro fanno parte della civiltà europea, non le pare?
"Anche per me questa è la vera posta in gioco. Guardi però che tutto nel nostro discorso si tiene, dal welfare al referendum. Sennò non si capirebbe, di fronte all'enormità dei problemi che abbiamo, tanto accanimento nei confronti del povero Senato. Il "sì" spianerebbe una strada; il "no" farebbe resistenza".

Insomma, dalla crisi si può uscire con meno o più democrazia?
"Sì. La prima strada porta alla rottura dei vincoli sociali, diciamo pure alla distruzione della società, condannando i più deboli all'impotenza e all'irrilevanza. La seconda passa per un grande discorso democratico, franco, sincero, che non nasconda le difficoltà e chiami tutti a uno sforzo di responsabilità, ciascuno secondo le proprie possibilità, mobilitando le energie civili del Paese e recuperando sovranità".

Anche lei pensa che l'Europa sia un nemico, come dicono ogni giorno gli opposti populismi?
"Per nulla. Ma l'Europa è una scelta, non un guinzaglio. L'articolo 11 della Costituzione prevede la possibilità che l'Italia limiti la sua sovranità a favore di organismi internazionali, ma a condizione che ciò serva alla pace e alla giustizia tra le Nazioni. Che cosa vuol dire? Che non è un'abdicazione incondizionata alla finanza, entità immateriale con conseguenze molto concrete, ma una partecipazione consapevole e paritaria a istituzioni democratiche sovranazionali. L'Europa dovrebbe significare più, non meno democrazia".

Sta dicendo che l'Europa è un destino democratico da scegliere ogni giorno, non un vincolo di cui si smarrisce la legittimità?
"È l'opposto della semplificazione brutale dei nazionalisti. Anzi, un recupero dello spirito di Ventotene, un "plebiscito d'ogni giorno" dei popoli, non dei mercati. Invece si è pensato che unendo i mercati la politica avrebbe seguito. Ma gli interessi economici spesso sono ostili alla politica, e la riducono a intendenza. Speriamo che non sia troppo tardi".

Ma secondo lei la politica accetta consapevolmente questa diminuzione di ruolo e di peso, o decide il rapporto di forza?
"C'è un pensiero unico in campo, tra l'altro responsabile della crisi. Perfino un riformista come Keynes è considerato un eretico. La politica, dicevo, si è ridotta a una dimensione puramente esecutiva, con interventi tampone, incapace di un pensiero autonomo e prospettico. L'implosione è sempre in agguato".

Professore, non è troppo pessimista?
"Non parlerei di pessimismo, ma di prudenza, una virtù che nel governo delle società non è mai troppa. A parte tutto, la riforma è scritta malissimo, illeggibile, talora incomprensibile".

Sta facendo un problema di forma?
"Di sostanza, prego, perché una costituzione democratica ha innanzitutto l'obbligo della chiarezza. Il linguaggio dei riformatori rivela due difetti: semplificazione e radicalità, brutalità e ingenuità".

Si può essere brutali e ingenui al tempo stesso?
"Certo. Prenda lo slogan: la sera delle elezioni si saprà chi ha vinto. Non le sembra che riveli una mentalità al tempo stesso sbrigativa e ingenua? In quel giorno ci saranno vincitori e vinti e vae victis! ".

Ma lo slogan non indica anche un rimedio alla palude, all'eterna tentazione del consociativismo?
"A patto di non considerare la vittoria come un'unzione sacra che permette di insultare chi non è d'accordo: sindacati, professori, magistrati, pubblici amministratori, con l'idea che siano avversari da spegnere. Un governante saggio non dovrebbe crearsi il nemico perché, appena le cose incominceranno ad andare male, sarà chiamato a pagare un conto salato".

Ma nel Paese dell'eterno democristiano, non è meglio un legame diretto tra il voto e il governo?
"Perché "diretto" sarebbe "non democristiano"? A me pare che proprio l'idea del vincitore e dello sconfitto alimenti una vocazione tipica da noi: il timore d'essere lasciati nel campo della sconfitta. Così, c'è stata e c'è una vocazione potente a salire sul carro del vincitore. E questa non è forse la forma peggiore del consociativismo, addirittura preventiva?".

Lei teme l'abuso del vincitore?
"Si è parlato della Costituzione vigente come il frutto ormai superato della "paura del tiranno". Il tiranno, nel senso del fascismo, oggi non c'è più. Ma il vento che tira in Europa e nel mondo non ci rende avvertiti di altri, nuovi pericoli? Tanto più che le istituzioni che saranno sottoposte a referendum varranno per il futuro e non sappiamo chi potrà avvalersene".

Ma ci sono costituzionalisti, come il professor Cassese, che non vedono nella riforma un rafforzamento dell'esecutivo: è così?
"Nessuno può essere certo delle sue previsioni, ma il gioco combinato della "velocità" nella politica e dell'elezione come investitura trasformerà chi vince in arbitro indiscusso del sistema. Già ora il Capo del governo è anche Capo del suo partito, e la minoranza interna è schiacciata sotto il ricatto permanente del voto anticipato".

Anche De Mita per un breve periodo fu segretario della Dc e capo del governo: perché nessuno lo paragonò a un tiranno?
"Semplice: perché c'erano i partiti e una legge elettorale proporzionale con le preferenze. Oggi i partiti sono dei monoliti, col solo compito di sostenere il Capo. E, di nuovo, tutto si tiene: con la legge elettorale vigente in Parlamento siederanno i fedelissimi".

Lei ritiene Renzi capace di tutto questo?
"Non voglio personalizzare. Tra l'altro oggi c'è Renzi, domani può venire chiunque. I governi passano, le istituzioni restano".

Ma la società non vuole un superamento del bicameralismo perfetto?
"Lo voglio anch'io, ma non in questo modo. Ridurre procedure e costi è positivo. Ma tutto ciò non va cavalcato in termini antiparlamentari, perché saremmo all'antipolitica. Di un parlamento vitale si ha sempre bisogno. Anzi avremmo bisogno che rappresentasse il meglio del Paese, come si diceva una volta: ridotto nel numero e più competente".

Le ricordano sempre che Ingrao si schierò a favore di una sola Camera: cosa risponde?
"L'idea di Ingrao era la "centralità del Parlamento". Voleva una Camera sola per promuovere la politica in Parlamento, non per umiliarli entrambi".

E' questa la vera ragione del suo "no"?
"E' fondamentalmente questa, unita a ragioni specifiche. Il Senato è ridotto, ma non abolito. Il bicameralismo rimane per una serie di materie che possono innescare seri conflitti. È previsto che siano risolti dalla trattativa tra i due presidenti. Ma è lecito patteggiare sul rispetto delle regole? Le incongruenze tecniche sono molte. Non invidio chi dovrà scrivere la nuova legge elettorale del Senato. Non si capisce da chi saranno scelti i nuovi senatori: se sono "designati" dagli elettori non possono essere "eletti" dai Consigli regionali. Sa cosa le dico? Non mi dispiace non insegnare più il diritto costituzionale il prossimo anno, perché non saprei come spiegare ai miei studenti non una materia, ma un guazzabuglio".

Più facile spiegare la fiducia al governo da parte di una sola Camera, non crede?
"Questo è giusto, e utile. Non sono affatto contrario a un governo che governi. Ma dentro un sistema che respiri democraticamente a pieni polmoni".

Dal governo non può venire niente di buono?
"Perché? Sono buone le unioni civili, l'autonomia dai vescovi, la prudenza sulla Libia, il rifiuto della politica del "a casa nostra" verso i migranti. Vede che non ho pregiudizi? Ma non mi piace che una discussione sulla Costituzione si trasformi in un plebiscito sul governo. La Costituzione non è a favore né contro qualcuno, non si vince in questa materia e non si perde. Nessuno si gioca tutto sulla Carta, tutti ci giochiamo qualcosa e forse molto".

Professore, non l'ho mai sentita richiamare i grillini, come fa con il Pd, ad una responsabilità comune sul destino del sistema: come mai?
"Potrei dirle che l'antipolitica è figlia della cattiva politica. Ma è giunta l'ora che i Cinque Stelle si emancipino dalle idee elitistiche e accettino la logica parlamentare. La vera arte politica sta nel creare le condizioni dello stare insieme. Il che non vuol dire rinunciare alle proprie ragioni, ma cercare di diffonderle oltre i propri confini. Dire questo non significa nostalgia del vecchio ordine, ma desiderio di buona politica".

A proposito di vecchio, cosa risponde a chi usa questo termine come un insulto contro di voi?
"Anche noi siamo stati giovani, senza averne merito, e anche loro diventeranno vecchi, senza colpe per questo. Ma, non era la destra che polemizzava coi vecchi?".

Sì, ricorda gli attacchi a Spadolini, Rita Levi Montalcini sbeffeggiata in Senato: dunque?
"C'è traccia di futurismo nella rottamazione. I giovani hanno sempre ragione, i vecchi devono tacere. Sono battute, dice qualcuno. Ma vede: così si smarrisce
il sentimento del passaggio generazionale, la trasmissione dell'esperienza. Si vuole rompere la tradizione in nome di un presunto Anno Zero. Certo, l'eccesso di tradizione spegne. Ma tagliare ogni radice per il peso della memoria espone al vento. Vivi nell'oggi e improvvisa".

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26 maggio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/05/26/news/referendum_riforme_zagrebelsky-140616373/?ref=HREC1-2

Arlecchino:
La storia rottamata

Nei municipi delle città che si aprono alla vittoria dei Cinque Stelle, nasce così davvero la Terza Repubblica tanto spesso annunciata e ogni volta incapace di realizzare una vera svolta nel meccanismo politico-istituzionale

Di EZIO MAURO
21 giugno 2016

Con tutto il vento seminato in questi ultimi anni, il Pd non può certo stupirsi della tempesta che ha raccolto domenica sera nelle urne. Quando la sorte e le circostanze trasformano un partito da forza di maggioranza relativa in perno del sistema politico-istituzionale e questa occasione storica viene dissipata, la politica si vendica, l'opinione pubblica si ribella e il voto lo certifica. Da ieri il perno non c'è più, il sistema gira su se stesso, imballato, e l'energia politica residua prende l'unica via di fuga rimasta dopo il fallimento parallelo di destra e sinistra, trasformando il voto comunale in un certificato nazionale di protesta, e chiedendo alla protesta di governare, cambiando.

Nei municipi delle città che si aprono alla vittoria dei Cinque Stelle, nasce così davvero la Terza Repubblica tanto spesso annunciata e ogni volta incapace di realizzare una vera svolta nel meccanismo politico-istituzionale. In realtà dopo Tangentopoli, la morte dei grandi partiti storici e l'era berlusconiana durata vent'anni, abbiamo vissuto fino ad oggi nella palude finale della Seconda Repubblica, segnata da un confronto-scontro tra destra e sinistra che ha prodotto l'alternanza anche se non è riuscito in due decenni a riformare il sistema e a cambiare il Paese.

Tutto questo è finito domenica. La destra non ha più un'identità riconoscibile, è divisa tra lepenismo d'accatto e moderatismo improvvisato, non ha un leader capace di incassare l'eredità di Berlusconi, che come erede concepisce peraltro soltanto se stesso. La sinistra ha un leader, e nient'altro: l'eredità storico-politica, che fa parte della storia migliore del Paese, è stata derisa e svenduta a saldo, come se le idee e gli uomini si potessero rottamare al pari delle macchine. Ma dopo il salto nel cerchio di fuoco, spenti gli applausi, rimane solo la cenere.

Quando si destrutturano i valori e i fondamenti culturali di storie politiche che hanno attraversato il secolo, rimane un deserto politico da presunto Anno Zero: teatro solo di performance, come se la politica fosse pura rappresentazione e interpretazione di pièce improvvisate ed estemporanee, senza un ancoraggio nella carne della società, nei suoi interessi legittimi, nelle sue forze vive. La destra, come il talento di Berlusconi ha dimostrato troppo a lungo, può vivere di questo teatro dilatato ed estremo, nella ricerca titanica di una fisionomia culturale che il populismo camuffa secondo il bisogno. La sinistra no. Sganciata dal sociale e dalla storia, si perde nel gesto politico fine a se stesso, dove tutto è istintivo e istantaneo, fino a diventare isterico.

Desertificato di riferimenti culturali (che certo sono ingombranti, perché obbligano terribilmente) il campo della contesa disegnato dalla sinistra al potere diventa basico e nudo, con parole d'ordine elementari e radicali. Una su tutte: il cambiamento ma senza progetto, senza alleanze sociali, senza uno schema di trasformazione, cambiamento per il cambiamento, dunque soprattutto anagrafico, spesso con una donna al posto di un uomo. La rottamazione della storia si è portata via anche il deposito di significato, la traccia di senso che la storia lascia dietro di sé, comprese le competenze e naturalmente le esperienze, quel legame tra le generazioni che forma il divenire di una comunità e si chiama trasmissione della conoscenza, del sapere, delle emozioni condivise. Tutte cose che altrove fanno muovere le bandiere di un partito, consapevole di avere un popolo che in quelle insegne si riconosce. Solo da noi la bandiera della sinistra, ammesso che ci sia ancora, è floscia come se vivessimo sulla luna, dove non c'è vento.

È evidente che una forza nata dal nulla dunque geneticamente "nuova" come i Cinque Stelle, si è trovata il campo politico spalancato. Anzi di più: irrigato con la sua acqua, concimato col suo stesso fertilizzante. Prima Berlusconi ha preso a pugni le istituzioni, dal Capo dello Stato alla magistratura, alla Corte costituzionale, rifiutando ogni loro controllo. Poi la sinistra ha predicato per tre anni che nulla della sua storia civica e politica valeva la pena d'essere salvato e indicato come riferimento, solo la germinazione spontanea del nuovo meritava attenzione, mentre la classe dirigente non andava rinnovata ma sostituita, come si fa con una gomma bucata.

Ed ecco i nuovi gommisti all'opera. Non hanno storia, solo una feroce gioia per la crisi delle istituzioni, da combattere in attesa di comandarle. Soltanto un rifiuto senza distinzioni di tutto il sistema politico del Paese, come dice quella "V" incastonata nel simbolo per ricordare il "vaffa", supremo riassunto di un movimento e del suo programma. Infine, com'è ovvio, non scelgono tra destra e sinistra: sono la creatura perfetta del nuovo mondo. Una promessa facile e basica, che semplifica la politica riducendola appunto a un "vaffa". E alla prima resa dei conti, molti cittadini tra il "cambiamento di governo" di Renzi e il "cambiamento contro tutti" di Grillo hanno preferito la spallata. Perché governare e rottamare insieme è difficile, quasi impossibile. E soprattutto, governare senza una storia politica a far da cornice e dei valori di riferimento, diventa un'interpretazione autistica, staccata dal corpo sociale. Si irrideva alla competenza e all'esperienza, promuovendo ministro la famosa cuoca di Lenin? Bene, ecco gli apprendisti cuochi di Grillo, più nuovi del nuovo, digiuni delle cucine del potere, totalmente inesperti da sembrare ignoranti, così politicamente "ignoranti" da apparire innocenti, talmente innocenti da funzionare come garanzia non solo di novità ma molto di più: di alterità, come se venissero da un altrove ingenuo e incontaminato, per molti cittadini il mondo ideale residuo, dopo che della politica si è voluto coscientemente fare un deserto, chiamandolo partito della nazione.

Roma viene conquistata facilmente dai grillini, sia per la debolezza del candidato di sinistra (simbolo capitale della debolezza del Pd di pensare in grande su una platea internazionale come quella del Campidoglio) sia per la sciagurata gestione del surreale caso Marino. Milano viene vinta d'un soffio dal centrosinistra, bloccando per il momento l'emorragia sui due fianchi, destro e sinistro. Torino riserva la sorpresa più significativa, perché qui con Fassino battuto dalla rimonta grillina s'infrange una storia ventennale di guida della città da parte della sinistra, storia di competenza e di buongoverno, che improvvisamente non conta più nulla. Il Pd e il suo segretario dovrebbero riflettere su questa spinta "contro", che nel ballottaggio coaliziona chiunque comunque contro il candidato che rappresenta la sinistra al potere e il governo nazionale: oltre ad alcune lobby cittadine che si autogarantiscono sulle poltrone del potere da qualche decennio, come se a Torino ci fosse un "fordismo" politico superstite anche dopo che il fordismo di fabbrica non c'è più, come anche la fabbrica.

E qui, c'è l'ultima questione. Perché l'irruzione delle forze antisistema nel campo vuoto della politica è sicuramente una sirena d'allarme per Renzi, che forse ha esaurito il capitale politico della sua avventura, e oggi dopo aver svuotato il Pd fa i conti con la sua assenza. Ma è una campana a morto per il cosiddetto establishment, incapace di proiettare un'immagine civica di sé e di costruire una vera classe dirigente del Paese in grado di coniugare gli interessi particolari legittimi con l'interesse generale: più facile da domattina — scommettiamo? — lusingare il nuovo potere nascente, per mantenere una rendita di posizione, come sempre. Questa è la verità: gli antisistema vincono perché non c'è più il sistema. Ecco perché oggi la campana suona per tutti, suona per noi.

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21 giugno 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/06/21/news/mauro_elezioni-142473406/?ref=HRER2-1

Arlecchino:
Il rancore degli esclusi e la politica che abdica
Una clamorosa asimmetria sentimentale tra europeismo e antieuropeismo pesa sul voto

Di EZIO MAURO
25 giugno 2016

Cosa si muove nel sentimento profondo del popolo? Come se la vita fosse senza dubbi, e la vita pubblica senza sfumature, il referendum sembra costruito apposta per questi tempi radicali, radicalizzando i due corni dell'opinione pubblica nelle loro forme estreme, dove c'è spazio soltanto per essere totalmente a favore o definitivamente contro.

Sembra il massimo dell'espressione democratica, la parola al popolo, come la scelta tra Gesù e Barabba. E invece è l'espressione basica e universale della democrazia che cerca se stessa, quando i rappresentanti non sono in grado di elaborare una proposta politica convincente, si spogliano della loro responsabilità e delegano la scelta ai cittadini, saltando i parlamenti e i governi per raggiungere una vox populi dove fatalmente si mescola la ragione e l'istinto, l'emozione e la frustrazione, l'individuale e il collettivo. In questo senso, il pronunciamento popolare è il più ricco di contenuto e di ingredienti soggettivi. In un senso più generale, è un'altra prova di abdicazione della politica organizzata nella sua forma storica tradizionale, che oggi rinuncia ad assumersi i suoi rischi e ricorre al popolo per rincorrere in realtà il populismo che la sta mangiando a morsi e bocconi.

Quei due estremi oggi rivelano che la speranza britannica in un futuro capace di conciliare la storia dell'isola con la geografia del continente e con la politica dell'Occidente è minoritaria. Mentre la chiusura nella coscienza di sé, l'autocertificazione dell'orgoglio identitario e l'investimento esclusivo sul proprio destino prevalgono dirottando la politica del Paese. Tutto questo, come dicono gli istituti di ricerca, costerà caro alla Gran Bretagna e alla sua economia? Ma che importa, se è vero quel che diceva Nietzsche: "La decadenza è scegliere istintivamente ciò che è nocivo, lasciarsi sedurre da motivazioni non finalizzate". Ci sono momenti in cui l'istinto di dare una forma politica visibile alla decadenza in cui viviamo prevale su tutto, anche sulle convenienze. L'insularità storica e spirituale, orgogliosa, dei britannici è certo un elemento specifico decisivo di questa scelta. Ma il meccanismo politico e morale con cui si è costruito questo esito — l'istinto dei popoli, appunto — parla per tutti, parla per noi. Vale dunque la pena di cercare i caratteri generali di un fenomeno che è esploso a Londra, ma che sta covando come una febbre sotto la pelle di tutta l'Europa.

Prima di tutto sul voto ha pesato un'asimmetria sentimentale clamorosa. L'europeismo non è più un sentimento politico, in nessuno dei nostri Paesi. L'antieuropeismo è invece un risentimento robusto e potente, distribuito a piene mani dovunque. La radicalizzazione delle scelte senza mediazioni, come quella del referendum, realizza un processo alchemico strepitoso e inedito nel dopoguerra, trasformando immediatamente e definitivamente il risentimento in politica, quella politica in vincolo, quel vincolo in destino generale. Tutto ciò che un processo storico lento, prudente e tuttavia visionario ha costruito in decenni, si spezza così in una sola giornata, probabilmente per sempre. Minoritario sugli scranni del parlamento, il populismo anti-sistema e anti-istituzionale ha dunque portato a termine la sua vittoria nelle piazze, sommando le frustrazioni individuali, le separazioni e le solitudini, lo smarrimento delle comunità reali nella ricerca artificiale di una comunità di sicurezza e di rassicurazione che non è più territoriale e nazionale (nonostante lo slogan "Brexit") ma è spirituale e politica, una sorta di secessione dalla forma istituzionale organizzata che i popoli europei si erano costruiti nel lungo dopoguerra di pace, per crescere insieme cercando un futuro comune.

Il risentimento ha le sue ragioni, tutte visibili a occhio nudo. L'impotenza della politica prima di tutto, schiacciata dalla sproporzione tra problemi sovranazionali (la crisi, l'immigrazione, il terrorismo) e le sovranità nazionali a cui chiediamo protezione. Poi la lontananza burocratica dell'Unione Europea, che percepiamo come un'obbligazione disciplinare senza più rintracciare la legittimità di quella disciplina. Quindi il peso ingigantito delle disuguaglianze che diventano esclusioni, la nuova cifra dell'epoca. In più la sensazione tragica che la democrazia e i suoi principii valgano soltanto per i garantiti e non per i perdenti della globalizzazione. Ancora la rottura del vincolo di società che aveva fin qui unito — nelle differenze — il ricco e il povero in una sorta di comunità di destino, mentre il primo può ormai fare a meno del secondo. Infine e soprattutto il sentimento di precarietà diffusa e dominante, la mancanza di sicurezza, la scomparsa del futuro e non solo dell'avvenire, la sensazione di una perdita complessiva di controllo dei fenomeni in corso: di fronte ai quali l'individuo è solo, immerso nel moderno terrore di smarrire il filo di esperienze condivise, vale a dire ciò che gli resta della memoria, quel che sostituisce l'identità.

E' evidente come tutto questo favorisca un linguaggio di destra, una semplificazione demagogica, una banalizzazione antipolitica, uno sfogo nel politicamente scorretto e una via di fuga nell'estremismo, come mostrano i banchetti imbanditi coi cibi altrui da Le Pen e Salvini. In realtà, c'è uno spazio enorme per una riconquista della politica, se sapesse ritrovare una voce credibile e per la costruzione europea, se sapesse riscoprire l'ambizione di sé. Altrimenti varrà, a partire proprio dal Brexit, la profezia di George Steiner, secondo cui l'Europa ha sempre pensato di dover morire. Mentre ormai soltanto gli immigrati vedono nella nostra terra quel che noi non sappiamo più vedere: semplicemente "una dimora, e un nome".

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25 giugno 2016

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2016/06/25/news/la_politica_che_abdica-142765654/?ref=HRER2-2

Arlecchino:
Referendum, Cacciari: "Riforma maldestra ma è una svolta. L'attacca chi ha fallito per 40 anni"
Il filosofo, ex deputato e sindaco, fa autocritica: "Anche noi volevamo dare più potere decisionale alla democrazia, il Pci frenò". "Ora Renzi fa un errore capitale se personalizza il confronto"

Di EZIO MAURO
27 maggio 2016

Massimo Cacciari
Professor Cacciari, lei è una coscienza inquieta della sinistra italiana che ha visto anche all'opera da vicino, quando è stato parlamentare. Si aspettava questa battaglia all'ultimo sangue sul referendum?
"Devo essere sincero? C'erano tutti i segnali. Abbiamo provato a riformare le istituzioni per quarant'anni, e non ci siamo riusciti. La strada della grande riforma sembra un cimitero pieno di croci, i nostri fallimenti. Adesso Renzi forza, e vuole passare. Chi ha fallito si ribella".

Fuori i nomi, professore: chi ha fallito?
"Noi, la mia generazione, a destra come a sinistra. Sia i politici che noi intellettuali. Ci sono anch'io, infatti, insieme con Marramao, Barbera, Barcellona, Bolaffi, Flores, si ricorda? E dall'altra parte, a destra, il professor Miglio alla Cattolica, le idee di Urbani. Eravamo nella fase finale degli anni di piombo, la democrazia faticava. Ragionavamo sulla necessità e sulla possibilità di riformare una Costituzione senza scettro, come dicevamo allora, perché necessariamente era nata con la paura del tiranno. Di fronte alla crisi sociale di quegli anni, pensavamo fosse venuto il momento di rafforzare le capacità di decisione del sistema democratico".

Di cosa avevate timore?
"Si parlava molto del fantasma di Weimar. Ragionavamo su basi storiche, scientifiche, costituzionali. La crisi ci faceva capire come una Costituzione che ostacola un meccanismo di governo forte e sicuro sia debole, perché quando la politica e le istituzioni sono incerte decidono altri, da fuori".

Oggi diremmo la finanziarizzazione, la globalizzazione?
"Certo. Ma non dobbiamo pensare solo alle lobby e all'economia finanziaria o ai grandi monopoli, bensì anche alle tecnocrazie create democraticamente, come le strutture dell'Unione europea, che rischiano in certi momenti di soverchiare la politica".

Come mai quell'idea non ha funzionato?
"Per un ritardo culturale complessivo del sistema, evidentemente. Ma devo dire in particolare per il conservatorismo esasperato del Pci e del suo gruppo dirigente, che parlavano di riforme di struttura per il mondo economico-industriale, ma sulle istituzioni erano bloccati. Dibattiti tanti, convegni dell'istituto Gramsci, qualche apertura di interesse da Ingrao e Napolitano. Ma niente, rispetto alla nostra discussione sul potere e la democrazia".

Per la paura comunista, dall'opposizione, di rafforzare l'esecutivo?
"Un riflesso automatico. Ma vede, noi non parlavamo solo di rafforzare l'esecutivo, è una semplificazione banale. Il potere non è una torta di cui chi vince prende la fetta più grande e chi perde la più piccola, la somma non è zero. Noi volevamo rafforzare tutti i soggetti del sistema democratico. Più potere al governo, dunque, ma con un vero impianto federalista che articola il meccanismo decisionale, e un autentico Senato della Regioni con i rappresentanti più autorevoli eletti direttamente, e non scelti tra i gruppi dirigenti più sputtanati d'Italia, come oggi".

Ma un governo più forte significa un parlamento più debole?
"Non se lo dotiamo di strumenti di controllo e d'inchiesta all'americana, e se è capace di agire autonomamente, senza succhiare le notizie dai giornalisti o dai giudici: un'autorità quasi da tribunato".

Quindi un nuovo bilanciamento, tra poteri tutti più forti? E' questa la riforma che vorrebbe?
"Un potere rafforzato e ben suddiviso. Il potere non si indebolisce se è articolato razionalmente e democraticamente tra i soggetti giusti. E' quando si concentra in poche mani e si irrigidisce che diventa debole".

Non è quello che denuncia Zagrebelsky?
"E' quello che capisce chiunque, salvo chi è digiuno culturalmente. Il potere per funzionare deve essere efficace ma anche articolato come ogni organizzazione moderna. Chi può pensare in questo millennio che si ha più potere se lo si riassume in un pugno di uomini invece di regolarlo con una diffusione partecipata e democratica?".

E' esattamente l'accusa che viene rivolta dal fronte del "no" alla riforma del Senato, non le pare?
"Esattamente proprio no. Manca l'autocritica che sta dietro tutto il mio discorso: la presa d'atto che non siamo mai riusciti a riformare il sistema, pur sapendo che ce n'era bisogno. Diciamola tutta: la nostra idea di rispondere al bisogno di modernizzazione dell'Italia riformando le istituzioni ha contato in questi quarant'anni come il due di coppe quando si va a bastoni. Bisognerà pur prendere atto di questo, e trarne le conseguenze politiche".
Quali?
"Non abbiamo la faccia per dire no a una riforma dopo aver buttato via tutte le occasioni di questi quattro decenni. Non siamo riusciti a costruire nulla di positivo dal punto di vista della modernizzazione del sistema: niente di niente".

E dunque per questo - mi ci metto anch'io - dovremmo stare zitti?
"Dovremmo misurare i concetti, le parole, le proporzioni tra ciò che accade e come lo rappresentiamo. La riforma crea danni ed è autoritaria? Balle: è vero che punta sulla concentrazione del potere, ma la realtà è che si tratta di una riforma modesta e maldestra. La montagna ha partorito un brutto topolino. Erano meglio persino quei progetti delle varie Bicamerali guidate da Bozzi, De Mita e D'Alema, più organici e articolati, anche se centralisti e nient'affatto federalisti".

Ma la critica sulla concentrazione oligarchica del potere è la stessa di Zagrebelsky, no?
"Certo ma, ripeto, non condivido certi toni da golpe in arrivo, che non sono di Zagrebelsky. Il vero problema, secondo me, non è una riforma concepita male e scritta peggio, ma la legge elettorale. Qui sì che si punta a dare tutti i poteri al Capo. Anzi, le faccio una facile previsione: se si cambiasse la legge elettorale, correggendola, tutto filerebbe liscio, si abbasserebbe il clamore e la riforma passerebbe tranquillamente".

Lo chiede la minoranza Pd, lo propone Scalfari, ma Renzi finora ha risposto di no: dunque?
"La posta è stata alzata troppo, da una parte e dall'altra, anche se in verità ha cominciato Renzi, personalizzando il referendum e legandolo alla sua sorte. Un errore capitale. Penso che lo abbia capito ma ormai non possiamo far finta di non vedere che la partita si è spostata, e si gioca tutta su di lui, da una parte e dall'altra: se mandarlo a casa oppure no. Ci siamo chiesti cosa succede dopo?".

Anche lei prigioniero del "non c'è alternativa"?
"No, io so cosa c'è, è evidente. Renzi va da Mattarella, chiede le elezioni anticipate e le ottiene. Poi resetta il partito purgandolo e lancia una campagna all'insegna del sì o no al cambiamento, con quello che potremmo chiamare un populismo di governo. Votiamo col proporzionale, con questo Senato, e non otteniamo nulla, se non una lacerazione ancora più forte del campo: è davvero quello che vogliamo?".

Ma non le sembra che così lei si stia autoricattando?
"Perché quante volte lei e tante persone di sinistra non hanno fatto la stessa cosa in questi anni? Vuole fingere che non abbiamo votato spesso turandoci il naso? C'è una teoria della cosa, si chiama il "male minore". D'altra parte stiamo parlando della povera politica italiana, non di Aristotele".

E se si trovasse in emergenza una maggioranza per una diversa legge elettorale?
"Illusioni. Se mai, non escludo il contrario. E cioè che Renzi come extrema ratio punti lui a una rottura verticale per ottenere il voto anticipato. E in ogni caso, pensiamo all'effetto che avrebbe sull'opinione pubblica un nuovo fallimento, dopo i tanti che noi abbiamo collezionato. Significherebbe certificare che in Italia il sistema non è riformabile, per due ragioni opposte unite nel "no": chi vede un pericolo autoritario, chi solo dei dilettanti allo sbaraglio".

Sta dicendo che rifiuta il "no"?
"Come ho cercato di spiegare capisco molte delle ragioni del fronte del "no", non il tono e l'impianto generale. Dopo aver detto tutto quel che penso della riforma, considero che realizza per vie traverse e balzane alcuni cambiamenti che volevamo da anni".

Dunque?
"Voterò sì, per uno spirito di responsabilità nei confronti del sistema. Penso che si possa essere apertamente critici e sentire questa responsabilità repubblicana".

Lei è stato tre volte sindaco di una città come Venezia. Pensa che il voto amministrativo potrà modificare il quadro o i rapporti di forza?
"E' inutile girarci intorno, è Milano che decide l'intera partita. Se il Pd perde a Milano, il centrodestra capisce come deve muoversi, ricostruisce un campo, prova a sfondare sul referendum sfruttando la ferita aperta di Renzi".

E a sinistra?
"Nessun segno di vita pervenuto, dunque poche speranze".

Professore, non rischiamo così di incoraggiare un cinismo distruttivo che la sinistra già produce in abbondanza? E proprio mentre una nuova destra al quadrato bussa ai confini con l'Austria e con tutta l'Europa di mezzo?
"Di più. Stiamo coltivando una cultura della sconfitta, guardi com'è ridotta la socialdemocrazia che poco tempo fa governava l'Europa. Oggi è schiacciata da derive di sinistra, come Tsipras, e di destra magari anche al cubo, come Hofer".

E' colpa della crisi o della lettura che la sinistra fa della crisi?
"E' colpa della sua incertezza identitaria. Anche in politica l'identità è tutto, non ci sono solo gli interessi, sia pure legittimi. La sinistra perde perché è identificata col sistema vigente, anzi con la sua élite, a cui viene imputata la crisi. Ma così perde la sua ragione di stare al mondo che è ancora e sempre una sola: cercare di cambiare lo stato di cose esistente".

© Riproduzione riservata 27 maggio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/05/27/news/massimo_cacciari-140687187/

Arlecchino:
Le occasioni perdute
Il Pd è un soggetto politico dimezzato, in una guerra di posizioni.
E adesso rischia di consumarsi la funzione stessa della sinistra

Di EZIO MAURO
11 ottobre 2016

D'ACCORDO: prima sono finite le ideologie, che nella loro luce artificiale e meccanica recintavano un campo. Poi in quel campo si è arenata la politica, che non è più vista dai cittadini come lo strumento pubblico per la soluzione di problemi individuali. Infine si è smarrita la coscienza di sé, che è poi la ragione di esistere. E tuttavia resta un dubbio: era inevitabile questa deriva del Partito democratico, prosciugato di ogni sostanza identitaria come una conchiglia ormai vuota e abbandonata sulla spiaggia italiana del 2016, battuta da tutte le maree?

Probabilmente no, a patto di sapere che i partiti sono qualcosa di più di un'organizzazione di tutela di interessi legittimi che sempre li animano e di un apparato di sostegno per le leadership che temporaneamente li guidano. Hanno, soprattutto, due prolungamenti indispensabili in alto e in basso: da un lato le radici, che poggiano nella storia del Paese e nella vicenda di ceti, classi, soggetti sociali che chiedono rappresentanza ed espressione; e dall'altro lato un orizzonte che li proietta al di là del quotidiano e del contingente, soprattutto adesso che il mitico "avvenire" ha fortunatamente lasciato il posto a un più incerto ma più laico "futuro". Un'idea di Paese da difendere e da costruire, un'avventura collettiva in cui possa riconoscersi una comunità politica, ritrovando le ragioni per collegare la propria vita con la vita degli altri, riscoprendo ognuno il senso di responsabilità per un destino comune.

Questi semplici comandamenti valgono per tutti i partiti, e infatti le difficoltà sono distribuite equamente a destra e a sinistra. Ma è la crisi che non è neutrale, e nemmeno equidistante. Se è vero che accentua le disuguaglianze, che trasforma la povertà in esclusione sociale, che attacca il lavoro come strumento di crescita e di cittadinanza, che fa nascere un'inedita gelosia del welfare, che suscita paure primordiali, allora la sinistra dovrebbe capire che è investita direttamente e in pieno dalla più alta ondata del secolo e non le basta l'ordinaria manutenzione. In gioco infatti c'è lo stesso concetto di sinistra, un progetto cioè di riconoscimento, tutela ed emancipazione che unisca le opportunità e le necessità per un Paese più forte e più giusto.

Non è una sfida da poco. Si potrebbe scoprire che anche la sinistra è una creatura arenata nel Novecento, come le sue forme storiche, il comunismo, il socialismo e la socialdemocrazia. Che la caduta del muro l'ha risolta, segnando la sconfitta del comunismo, e insieme l'ha svuotata. Che la nuova solitudine repubblicana, lo smarrimento di cittadinanza, il sentimento d'impotenza democratica la stanno rinsecchendo, a vantaggio di nuove forme politiche mimetiche che eccitano la rabbia e il malcontento con un impianto culturale tipicamente di destra (una feroce gioia contro le istituzioni, una criminalizzazione dell'intera classe dirigente, un invito esplicito a non distinguere per fare di ogni erba un fascio da bruciare comunque) mascherato da linguaggi di pseudo-sinistra, in realtà da vecchio Borghese . In sostanza il rischio è uno scostamento di classi e soggetti sociali dal sistema all'anti-sistema, con un conseguente slittamento della rappresentanza del pensiero critico, da una politica di sinistra all'antipolitica.

In ritardo perenne con la storia (i conti col comunismo in Italia sono stati risolti per delega con il crollo del Muro, e manca ancora un pubblico bilancio) per una volta la sinistra del nostro Paese era in anticipo sulla cronaca. Il Pd, infatti, era nato prima che questi fenomeni di disgregazione del sistema politico e del meccanismo di rappresentanza si evidenziassero. Il profilo era l'unico possibile per un Paese che aveva nel Pci un partito che era durato troppo a lungo, senza saper risolvere il problema della sua identità autonoma, e nel Psi una forza che era durata troppo poco, suicidandosi con le tangenti e facendo mancare in Italia quel pesce pilota riformista che sotto nomi diversi concorre da decenni a governare le altre democrazie occidentali. Ecco dunque con il Pd la scelta di disegnare quel profilo riformista tipico di una sinistra di governo moderna e occidentale, innervata dalle due grandi tradizioni socialcomunista e cattolico-democratica.

Pochi anni dopo quel partito si trova senza radici e senza orizzonte, con le fonti inaridite e l'identità incerta: un capolavoro. Le tradizioni sono state cancellate dallo stesso segretario nella mistica dell'"anno zero" e della rottamazione, come se il renzismo fosse una forma politica nuova e non una legittima interpretazione della forma-partito che esisteva prima e che - almeno in teoria - dovrebbe continuare ad esistere anche dopo. Soprattutto, come se i partiti fossero modelli da indossare secondo le stagioni e le mode, e non realtà presenti e riconoscibili nella storia del Paese, purché il leader sappia rivestirsi della maestà di quella storia complessiva, interpretandola poi secondo il proprio carattere e la propria visione politica. L'orizzonte è stato invece tarpato dagli avversari interni di Renzi, disinteressati a usare il Pd come uno strumento comune per battaglie condivise, preferendo interpretarlo come un'arena permanente dove duellare ogni volta con il premier, affermando la propria identità nel duello e non nelle idee, perché l'idea di fondo è l'illegittimità di questa leadership.

Il risultato è evidente. Il Pd è un soggetto politico dimezzato con le due metà brandite l'una contro l'altra in una guerra di posizioni che l'elettore segue con scarso interesse. Anche perché il Pd nonostante tutto in Parlamento è ancora la forza di maggioranza relativa e come dimostra la vicenda dell'elezione di Sergio Mattarella al Quirinale avrebbe la possibilità (ma più ancora il dovere) di giocare ogni partita semplicemente come spina dorsale del sistema politico e istituzionale, soggetto del cambiamento. E invece il Pd ha rinunciato al privilegio di questa responsabilità, preferendo giocare ogni volta due partite contrapposte, come sul referendum. Ci voleva tanto a capire in tempo utile che bisognava partire dalla ricerca concreta e testarda di un'unità del partito su un'ipotesi di modifica della legge elettorale, da portare poi all'esame delle altre forze politiche, riducendo il conflitto sul referendum? Non si è nemmeno provato, fino ad oggi, perdendo tempo e accumulando ruggine interna, fino all'invalidità permanente del Pd. Sprecando così un'opportunità clamorosa, in questa fiera perenne delle occasioni perdute.

La destra che si riorganizza, i populismi arrembanti, non contano più e non fanno nemmeno suonare l'allarme: se non ciechi, Dio rende almeno sordi coloro che vuole perdere. Insieme con loro, perde il Paese che ha già visto consumarsi una tradizione politica e una lingua comune, in un deserto di cultura politica. Adesso rischia di consumarsi la funzione stessa della sinistra. Proprio mentre intorno tutto è destra, vecchia e nuova.

© Riproduzione riservata
11 ottobre 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/10/11/news/le_occasioni_perdute-149516963/?ref=HREA-1

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