EZIO MAURO.
Arlecchino:
La scappatoia del funambolo
"Berlusconi, il creatore del 'campo', certifica che da oggi le destre in Italia sono due, una estremista e apertamente lepenista, anti europea, l'altra necessariamente più moderata"
Di EZIO MAURO
29 aprile 2016
LA NATURA una e trina di Silvio Berlusconi (estremista, moderato, populista) si è sciolta all’improvviso come il sangue di San Gennaro, davanti al sacro Graal del Campidoglio romano, inafferrabile per la destra. Dopo aver inventato dal nulla la candidatura a sindaco di Guido Bertolaso, incarnazione postuma dell’emergenzialismo berlusconiano spacciato per arte di governo, ieri il leader di Forza Italia ha ritirato d’urgenza dalla corsa l’ex capo della Protezione Civile per portare ciò che resta del suo partito a convergere sulla candidatura civica di Alfio Marchini, rifiutando in extremis l’alleanza con la destra estrema di Salvini e Meloni. Forza Italia, che ha dominato il panorama politico per vent’anni, non avrà dunque un suo uomo nella gara per il sindaco della capitale. E i manifesti strappati e inutili di Bertolaso sorridente sui muri di Roma sono la lapide alla memoria di un’avventura politica che non ha più ragioni per vivere ma non sa come morire. Naturalmente sono come sempre i sondaggi che hanno armato la scelta di Berlusconi.
Bertolaso non è mai decollato come candidato sindaco, e il rischio di mancare il ballottaggio avrebbe sottolineato ancora di più la perdita del tocco magico con cui l'ex premier trasferiva sui suoi prescelti l'unzione sacra di cui si riteneva investito per natura. Ma non c'è solo il calcolo delle percentuali, dietro la decisione di appoggiare Marchini: c'è anche un calcolo politico che per la prima volta porta Berlusconi a scegliere la ragione invece dell'istinto politico, l'identità piuttosto che la rendita di posizione, e infine soprattutto il moderatismo invece dell'estremismo, che pure l'ex presidente del Consiglio ha tollerato, frequentato e impersonato per anni. Vediamo perché.
L'avventura politica di Berlusconi, che lo ha portato per tre volte a guidare il governo, è stata possibile non soltanto perché il Capo di Forza Italia ha risvegliato l'istinto di destra dormiente nel Paese, ma perché ha saputo creare un "campo". Lo ha fatto nel 1994 costruendo un partito mediatico-aziendale capace di colmare l'alveo vuoto del Caf, l'alleanza moderata suicidatasi con Tangentopoli, e collegando in un blocco anticomunista gli ex fascisti di Alleanza Nazionale e i secessionisti della Lega di Umberto Bossi. Berlusconi non era soltanto la risultante geometrica di questo campo, ne era il collante, la ragion d'essere e quindi il leader indiscusso: fino a divenirne, come spesso gli capita negli affari, il padrone. Quando è venuta meno l'autorità del Capo, è finita anche la sua sovranità, semplicemente perché è finito il campo.
Bertolaso in questo senso era anche un esperimento dinastico, il primo vero trasferimento diretto di sovranità, per un berlusconismo senza Berlusconi. La ribellione di Meloni e Salvini sulla scena spettacolare di Roma dimostra per oggi e per domani che questo transfert non è possibile. Tanto che la scheggia leghista e post-fascista esce rumorosamente dal campo e pensa di potersi mettere in proprio abbandonando anche la mitologia del ventennio berlusconiano per cercare nuove stelle polari estreme in Marine Le Pen e oggi addirittura in Donald Trump: purché siano figure capaci di incarnare il nuovissimo populismo securitario, egoista e xenofobo.
Delfini e pesci minori di Forza Italia, interessati al loro personale futuro ben più che al Paese, hanno insistito per mesi con Berlusconi perché scegliesse Giorgia Meloni, ricostituendo d'incanto il campo che lo aveva portato a vincere per tre volte le elezioni nazionali. L'ex Cavaliere alla fine ha detto no, cosciente che il campo non esiste più dal momento in cui lui non ne è più padrone, anzi da quando due ex stallieri della destra hanno lanciato una vera e propria Opa ostile sui territori del loro Signore. Scegliere la Meloni a questo punto non significava sottoscrivere una candidatura, cosa che il cinismo berlusconiano è sempre stato ben pronto a fare in base a calcoli di convenienza: il significato era quello di una pubblica abdicazione, con l'ex sovrano che accetta di farsi paggio degli usurpatori, chinando il capo di fronte ad una religione non sua.
Marchini, incolore, è una scappatoia perfetta perché il funambolo di Arcore può lasciar credere addirittura che il civismo possa diventare l'esito senile del berlusconismo declinante. In realtà il sigillo berlusconiano di Forza Italia è talmente marcato che rompe l'equilibrio dell'equivoco politico su cui Marchini si è retto fin qui, e lo connota pesantemente a destra. Ma nello stesso tempo il creatore del "campo" certifica che da oggi le destre in Italia sono due, una estremista e apertamente lepenista, anti europea, l'altra necessariamente più moderata. Se fosse una scelta culturale convinta e consapevole, sarebbe una nuova semina nel territorio della destra, vent'anni dopo. Una semina finalmente moderata, da parte di un leader populista per vent'anni, e radicale: in colpevole ritardo, ma benvenuta. Molto più probabile che di consapevole, culturale e soprattutto moderato non ci sia niente, e che l'ex Cavaliere si limiti a inseguire i suoi elettori in libera uscita, incapace ormai di guidarli e senza una meta.
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29 aprile 2016
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Arlecchino:
I superstiti dell'Apocalisse
"I Cinque Stelle dovrebbero capire che pagano oggi le loro contraddizioni proprio perché non hanno fatto la scelta di responsabilità politica, che non comporta alcuna rinuncia alla radicalità della loro opposizione e della loro denuncia, ma la condivisione di un destino democratico del sistema"
Di EZIO MAURO
13 maggio 2016
È possibile provare a ragionare sul sistema politico italiano e i suoi rapporti con la giustizia senza scadere nel derby quotidiano e miserabile tra Pd e Cinque Stelle sugli indagati, le sospensioni dagli incarichi e le dimissioni? Diciamo subito che quel derby il Pd lo ha perso platealmente, perché il numero di amministratori di quel partito coinvolti in inchieste giudiziarie dovrebbe da solo far capire all'intero gruppo dirigente che c'è nella principale forza della sinistra un problema di selezione delle cosiddette élite grande come una casa, secondo solo al problema della nuova permeabilità clamorosa di quel mondo alla corruzione. I grillini, che pensavano di fischiare comodamente dagli spalti nella partita tra la politica e la magistratura, si trovano improvvisamente in campo mentre i fischi oggi sono per loro, impreparati e incapaci di gestire l'incoerenza patente tra i doveri pretesi dagli altri e le indulgenze domestiche. Ecco perché l'avviso di garanzia al sindaco di Parma Pizzarotti, dopo i casi di Livorno e di Quarto, offre l'occasione per una riflessione fuori da ogni polemica sul triangolo tra la legalità, la politica e l'antipolitica.
E' un triangolo che dovrebbe avere una base comune, e condivisa: la legalità. In un sistema democratico trasparente nelle procedure e nei controlli, la legalità dovrebbe essere una condizione preliminare dell'agire politico, insieme con l'onestà dei suoi attori. In questo Paese si è trasformata invece in un vero e proprio programma politico da parte del movimento grillino, assorbendone ogni identità, proprio a causa delle forme di illegalità diffusa che le inchieste giudiziarie hanno portato alla luce nei partiti tradizionali insieme con la disonestà di molti amministratori pubblici, generosamente distribuiti in tutto lo schieramento partitico. Questo fa sì che il triangolo entri in crisi: da un lato, la politica dei partiti si chiude sulla difensiva, maledice a bassa voce i magistrati ritenendoli intrusi abusivi, incredibilmente incapace di rispondere alla sfida del malcostume corruttivo con misure interne (forte pulizia, selezione rigorosa, guardia alta) e con provvedimenti di legge che raccolgano l'allarme sociale per la diffusione di pratiche illegali e stabiliscano subito contromisure efficaci. Dall'altro lato, l'antipolitica delega ai magistrati (che non devono e non vogliono esercitarlo) il compito di realizzare quel rinnovamento del sistema che è incapace di attuare in proprio. In più tende a identificarsi esclusivamente con la legalità considerandola un suo schema privato e non una pre-condizione di buon funzionamento dell'intero sistema, da rivendicare e pretendere per tutti. Il risultato è la spoliazione di ogni altro carattere "politico", come se la legalità fosse un programma, un progetto, una politica, e non il metodo indispensabile di ogni buon amministratore.
Si potrebbe dire che la bandiera dell'onestà rappresenta comunque un passo avanti e una buona garanzia di base, nelle attuali condizioni del Paese. In realtà è una condizione indispensabile, ma non sufficiente, in quanto rischia di ridurre la politica ad una sola dimensione, di non chiederle altro, di accontentarsi di ciò che è già dovuto ai cittadini e alla comunità che si governa. La modernità, insieme con la costituzionalizzazione dell'intero universo politico-culturale nei Paesi occidentali aveva superato la concezione della politica come scontro tra Bene e Male, usandola anzi come strumento di neutralizzazione dei conflitti. Oggi si rischia una neutralizzazione della politica perché il sistema viene additato dai nuovi populismi come interamente colpevole, completamente colluso, totalmente complice e dunque definitivamente perduto. Non resta che aspettare l'ora "x" in cui "Dio sputerà sulla candela" e si spegnerà la luce su questa Seconda Repubblica, in attesa dell'avvento politico del Redentore.
Ovviamente è uno schema che getta a mare (insieme con le responsabilità dei corrotti e con l'incapacità dei partiti storici di reagire all'ondata di corruzione che li sommerge, dopo aver sradicato il sistema) anche le speranze nella democrazia, la fiducia nelle sue risorse, la capacità soprattutto di distinguere e di graduare i giudizi, che dovrebbe essere il compito di chi fa politica, oltre che di chi fa informazione. Siamo ormai al fascio di ogni erba, purché sia o sembri erba cattiva: e se un po' di grano finisce in mezzo al loglio non importa, si fa buon peso. Lo prova il turbine mediatico di dichiarazioni che ha inseguito l'avviso di garanzia per un possibile abuso d'ufficio in una nomina al teatro al sindaco di Parma Pizzarotti, a cui si fa pagare tutto il conto del banchetto polemico imbastito per mesi su ogni apertura d'inchiesta e su ogni arresto, quasi senza distinzione. Seguono, da parte dei Cinque Stelle, dichiarazioni imbarazzate da vecchi sottosegretari democristiani, per prendere tempo nell'incapacità di garantire in proprio ciò che si pretende meccanicamente da ogni indagato degli altri partiti.
Tutto questo è inevitabile quando si scommette sulla crisi del sistema a fini di profitto politico: che succede quando la crisi coinvolge (sia pure in minima parte) chi la alimenta, soffiando sul peggior fuoco con quella che Croce chiamava la "feroce gioia" contro le istituzioni? Qual è il segno culturale che questo atteggiamento porta nelle istituzioni, e nel rapporto tra le istituzioni e i cittadini, già consumato dalla crisi di legalità che rischia ogni giorno di più di diventare crisi di legittimità? Cioran definisce il reazionario come "un profittatore del terribile, il cui pensiero irrigidito per calcolo calunnia il tempo". Certamente questa scommessa sul peggio avviene in un luogo politico che non appartiene alla storia della sinistra anche se ne mima i linguaggi e i codici, raschiandone efficacemente l'elettorato. Non c'è infatti nessuna rappresentanza sociale di interessi, nessuna tutela di diritti, nessuna attenzione di classe ai più deboli, nessuna costruzione culturale in questa delega della politica al disvelamento del malaffare altrui, che annulla ogni soggettività e qualsiasi autonomia dell'antipolitica, ridotta appunto ad accontentarsi di essere "anti".
Tutto si tiene in questo mondo chiuso della diversità che si mangia la politica: la cabala informatica spacciata come trasparenza, l'idolo blog venduto come partecipazione diffusa, il rifiuto degli "altri", anche quando propongono una buona legge. Com'è evidente, in questo schema il problema democratico non è la radicalità delle accuse che vengono rivolte al sistema dei partiti, e ancor più ai corrotti, che in alcuni casi meriterebbero giudizi ancora più severi: il problema è il sentimento di "alterità", che consente ai Cinque Stelle di vivere in un immaginario altrove dove non sono permesse contaminazioni, accordi, concorsi nelle decisioni utili al Paese e condivisioni di responsabilità, ma conta solo marcare la diversità sperando in questo modo di ereditare il sistema. Ereditieri del collasso del sistema, più che soggetti attivi del cambiamento: è la riduzione della politica alla sola dimensione di denuncia, tribunizia, nel senso degli antichi Tribuni che parlavano a nome di tutto il popolo, apostrofando il potere. Mentre nella concezione liberale dello Stato moderno il fondamento morale pubblico non risiede nel sentimento etico soggettivo (naturalmente necessario) ma nel rispetto di regole e procedure stabilite per tutti nell'interesse di tutti.
Distinguere (perché non è vero che "così fan tutti"), pretendere il rispetto della legge, lavorare perché il sistema politico salvi se stesso rientrando nel rispetto della legalità, invece di scommettere sul suo affondamento. Rispettare le istituzioni anche quando l'offerta politica è modesta e la disaffezione allo Stato è alta. I Cinque Stelle dovrebbero capire che pagano oggi le loro contraddizioni proprio perché non hanno fatto questa scelta di responsabilità politica, che non comporta alcuna rinuncia alla radicalità della loro opposizione e della loro denuncia, ma la condivisione di un destino democratico del sistema, che dovrebbe interessare a tutti gli attori, di maggioranza e di opposizione. L'alternativa è continuare a vivere nel presunto "altrove" aspettando l'Apocalisse prossima ventura, per delegarle la cancellazione del sistema invece di usare la politica per cambiarlo. Solo che l'Apocalisse è il libro "di coloro che si pensano come superstiti" e come tale è il rifiuto della politica, la rinuncia al cambiamento, un gesto di superbia. E poi, cosa succede quando i superstiti sono coinvolti?
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13 maggio 2016
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Arlecchino:
CRONACA
I superstiti della Thyssen un mese dopo il rogo "Per la politica e il Paese non siamo mai esistiti"
Gli operai di Torino diventati invisibili
Di EZIO MAURO
TORINO - "Turno di notte vuol dire che monti alle 22. Sono abituato. Quel mercoledì sera, il 5 dicembre, sono arrivato come sempre un quarto d'ora prima, ho posato la macchina, ho preso lo zainetto e sono entrato col mio tesserino: Pignalosa Giovanni, 37 anni, diplomato ragioniere, operaio alla Thyssen-Krupp, rimpiazzo, cioè jolly, reparto finitura. Salgo, guardo il lavoro che mi aspetta per la notte e vedo che ho solo un rotolo da fare".
"Allora vado prima a trovare quelli della linea 5, devo dire una cosa ad Antonio Boccuzzi, ma poi arrivano gli altri e si finisce per parlare tutti insieme del solito problema. Il 30 settembre la nostra fabbrica chiuderà, a febbraio si fermerà per prima proprio la 5, stiamo cercando lavoro e non sappiamo dove trovarlo. Duecento se ne sono già andati, i più esperti, i manutentori, molti alla Teksfor di Avigliana. Noi mandiamo il curriculum in giro, con le domande. L'azienda se ne frega, la città anche. Chiediamo agli amici, ai parenti operai che hanno un posto. Chi può cerca altre cose, Toni "Ragno" dice che ha la patente del camion e prova con le ditte di trasporti: gli piacerebbe, tanto ogni giorno fa già adesso 75 chilometri per arrivare all'acciaieria e 75 per tornare a casa. Bruno ha deciso, il 29 chiude con la fabbrica e apre un bar con Anna, Angelo ha provato a farsi trasferire alla Thyssen di Terni, la casa madre, ma poi è tornato indietro per la famiglia. Parliamo solo di questo, come tutte le notti, abbiamo il chiodo fisso. E' brutto essere giovani e arrivare per ultimi. La Thyssen qui in giro la chiamano la fabbrica dei ragazzi, perché dei 180 che siamo rimasti il 90 per cento ha meno di trent'anni. Ma questo vuol dire che quando tutt'attorno chiude la siderurgia e Torino non fa più un pezzo d'acciaio che è uno, chi ti prende se sai fare solo quello? Eppure siamo specializzati, superspecializzati, non puoi sostituirci con un operaio qualsiasi che non abbia fatto almeno 6 mesi di formazione per capire come si lavora l'acciaio. E infatti ci pagano di più, uno del quinto livello alla Fiat prende 1400 euro, qui con i turni disagiati, la maggiorazione festiva, il domenicale arrivi a 1700 anche 1800 senza straordinario. Non ti regalano niente, sia chiaro, perché lavori per sei giorni e ne fai due di riposo, quindi ti capitano un sabato e domenica liberi ogni sei settimane, non come a tutti i cristiani. Ma la siderurgia è così, lavoriamo divisi in squadre e quando smonta una monta l'altra perché le macchine non si fermano, 24 ore su 24, questo è l'acciaio. Che poi, se ci fermassimo noi si ferma l'Italia perché siamo i primi, senza l'acciaio non si vive, dai lavandini all'ascensore, alle monete, alle posate, siamo la base di tutta l'industria manifatturiera, dal tondino per l'edilizia alle lamiere per le fabbriche, agli acciai speciali. E quando parlo di acciaio intendo l'inox 18-10, cioè 18 di cromo e 10 di nichel, roba che a Torino si fa soltanto più qui da noi, che è come l'oro visto che il titanio viaggia a 35 euro al chilo e noi facciamo rotoli da sei, settemila chili. Eppure tutto questo finirà, sta proprio per finire, Torino resterà senza, siamo come le quote latte. E' chiaro che ne parliamo tutte le sere, come si fa? Comunque, a un certo punto, sarà mezzanotte e mezza, io saluto tutti, e dico che vado a fare quel rotolo che mi aspetta. Salgo, e lì sotto comincia l'inferno. E' una parola che si usa così, come un modo di dire. Ma avete un'idea di com'è davvero l'inferno"?
Se a Torino chiedi degli operai della Thyssen, ti indicano il cimitero. Bisogna prendere il viale centrale, passare davanti ai cubi con i nomi dei partigiani, andare oltre le tombe monumentali della "prima ampliazione", girare a sinistra dove ci sono i nuovi loculi. Lì in basso, come una catena di montaggio, hanno messo Antonio Schiavone, 36 anni (detto "Ragno" per un tatuaggio sul gomito), morto per primo la notte stessa, Angelo Laurino, 43 anni, morto il giorno dopo come Roberto Scola, 32 anni. Subito sotto, Rosario Rodinò, 26 anni, che è morto dopo 13 giorni con ustioni sul 95 per cento del corpo e Giuseppe Demasi, anche lui 26 anni, ultimo dei sette a morire il 30 dicembre dopo 4 interventi chirurgici, una tracheotomia, tre rimozioni di cute con innesti e una pelle nuova che doveva arrivare il 3 gennaio per il trapianto, ed era in coltura al Niguarda di Milano. Ci sono i biglietti dei bambini appesi con lo scotch, come quello di Noemi per Angelo, ci sono le sciarpe della Juve, mazzi di fiori piccoli col nailon appannato dall'umidità, un angelo azzurro disegnato da Sara per Roberto, quattro figure colorate di rosso da un bambino per Giuseppe, tre Gesù dorati, due lumini per terra. Attorno alle cinque tombe, una striscia azzurra tracciata dal Comune le separa dagli altri loculi. E' un'idea del sindaco Sergio Chiamparino e del suo vice Tom Dealessandri, una sera che ragionavano sulla tragedia della Thyssen. Se tra un anno, cinque, dieci, qualcuno vorrà ricordarla, parlarne, partire da quei morti per discutere sulla sicurezza nel lavoro, ci vuole un posto, e non ci sarà neppure più la fabbrica, non ci sarà più niente: mettiamoli insieme, quelli che non hanno una tomba di famiglia; hanno lavorato insieme e sono morti insieme. Quelle fotografie di ragazzi sono le uniche tra i loculi, le altre sono di vecchi e dove non c'è la foto c'è la data: 1923, 1925, 1935, 1919, anche 1912. Intorno, un telone nasconde lo scavo di una gru nel campo del cimitero, si sente solo il rumore in mezzo ai fiori, ma c'è lavoro in corso. Siamo a Torino, dice un guardiano, è la solita questione: lavoro, magari invisibile, ma lavoro.
"Dunque, ero da solo, con la gru in movimento. Il mio lavoro si può fare così. Alla linea 5 invece il turno montante era completo. Mancavano due operai, ma si sono fermati in straordinario Antonio Boccuzzi e Antonio Schiavone, anche se avevano già fatto il loro turno, dalle 14 alle 22. Quella tecnicamente è una linea tecnico-chimica per trattare l'acciaio, temprarlo e pulirlo per poi poterlo lavorare. Stiamo parlando di una bestia di forno a 1180 gradi, lungo 40-50 metri, alto come un vagone a due piani, e lì dentro l'acciaio viaggia a 25 metri al minuto se è spesso e a 60 metri se è sottile, per poi andare nella vasca dell'acido solforico e cloridrico che gli toglie l'ossido creato dalla cottura nel forno. La squadra di 5 operai sta nel pulpito, come lo chiamiamo noi, una stanzetta col vetro e i comandi. Ci sono anche il capoturno Rocco Marzo e Bruno Santino, addetto al trenino che porta il rullo da una campata dello stabilimento all'altra. Manca poco all'una. So com'è andata. Il nastro scorre a velocità bassa, sbanda, va contro la carpenteria, lancia scintille, l'olio e la carta fanno da innesco, c'è un principio di incendio. Loro pensano che sia controllabile, come altre volte. Escono dal pulpito, si avvicinano, provano con gli estintori, ma sono scarichi. Un flessibile pieno d'olio esplode in quel momento, passa sul fuoco come una lingua e sputa in avanti, orizzontale, è un lanciafiamme. Non li avvolge, li inghiotte. Boccuzzi è proprio dietro un carrello elevatore per prendere un manicotto, e quel muletto lo ripara salvandolo. Vede un'onda, sente la vampa di calore che lo brucia per irradiazione, ma si salva. Gli altri sono divorati mentre urlano e scappano. Piomba in finitura il gruista della terza campata, corri mi dice, corri, è scoppiata la 5, sono tutti morti. Non ci credo, ma si avvicina urlando, è bianco come uno straccio e sta piangendo. Corro, torno indietro, metto in sicurezza la gru, corro, non penso a niente, corro e li vedo".
I tre funerali sono diversi. Prima lo choc, il dolore, la paura. Poi la rabbia. Egla Scola, che ha vent'anni e due figli di 17 mesi e tre anni, in chiesa ha urlato verso la bara di Roberto: vieni a casa, adesso. La madre di Angelo Laurino gli ha detto: ora aspettami. Il padre di Bruno Santino, anche lui vecchio operaio Thyssen, l'abbiamo visto tutti in televisione gridare bastardi e assassini, con la foto del figlio in mano. Il giorno della sepoltura di Rocco Marzo, arriva la notizia che è morto Rosario Rodinò, dopo quasi due settimane di agonia. Ciro Argentino strappa la corona di fiori della Thyssen, i dirigenti dell'azienda entrano in chiesa dalla sacrestia, se ne vanno dalla stessa porta. Fuori ci sono soprattutto operai, in duomo come a Maria Regina della Pace in corso Giulio Cesare, come nella chiesa operaia del Santo Volto con la croce sopra la vecchia ciminiera trasformata in campanile.
Attorno, il fantasma della Torino operaia che fu. Qui dietro c'erano una volta la Michelin Dora, la Teksid, i 13 mila delle Ferriere Fiat dentro i capannoni della tragedia, poi venduti alla Finsider dell'Iri, che negli anni Novanta ha rivenduto alla Thyssen. Che adesso chiude. Sequestrata per la tragedia, con i cancelli chiusi e un albero trasformato in altare ("ciao, non siamo schiavi", ha scritto un operaio della carrozzeria Bertone), già adesso l'impianto della morte è uno scheletro vuoto, inutile, proprio dove la città finisce e comincia la tangenziale, con le montagne piene di neve dritte davanti. La gente conosce il posto perché lì c'è un autovelox famoso per sparare multe a raffica.
Ma non sa la storia della Thyssen. Ciro dice che un pezzo di Torino non sapeva nemmeno dei morti, e alla manifestazione c'erano trentamila persone, ma era la città operaia, e pochi altri. Come se fosse un lutto degli operai, non una tragedia nazionale. Anzi, uno scandalo della democrazia. Chi lavora l'acciaio sa di fare un mestiere pericoloso, dice Luciano Gallino, sociologo dell'industria, perché macchine e materiali che trasformano il metallo sovrastano ogni dimensione umana, con processi di fusione, forgiature a caldo, lamiere che scorrono, masse in movimento. C'è fatica, rumore, occhio, tecnica, esperienza, senso di rischio, concentrazione. E allora, spiega Gallino, proprio qui nell'acciaio non si possono lasciar invecchiare gli impianti e deperire le misure di sicurezza, non si può ricorrere allo straordinario con tre, quattro ore oltre le otto normali. Invece l'Asl dice oggi di aver accertato 116 violazioni alla Thyssen. Le assicurazioni Axa lo scorso anno avevano declassato la fabbrica proprio per mancanza di sicurezza, portando la franchigia da 30 a 100 milioni all'anno. Per tornare alla vecchia franchigia, bisognava fare interventi di prevenzione, tra cui un sistema antincendio automatico proprio sulla linea 5, dal costo di 800 milioni. From Turin, ha risposto l'azienda, dopo che Torino avrà chiuso.
"Il primo è Rocco Marzo, il capoturno, che aveva addosso la radio e il telefono interno, bruciati nel primo secondo. Appare all'improvviso, al passaggio tra la linea 4 e la 5. Non avevo mai visto un uomo così. Anzi sì: dal medico, quei tabelloni dov'è disegnato il corpo umano senza pelle, per mostrarti gli organi interni. La stessa cosa. Le fasce muscolari, i nervi, non so, tutto in vista. Occhi e orecchie, non parliamone. Non mi vede, non può vedere, ma sente la mia voce che lo chiama, si gira, barcolla, cerca la voce, mi riconosce. "Avvisa tu mia moglie, Giovanni, digli che mi hai visto, che sto in piedi, non li far preoccupare". Lo tocco, poi mi fermo, non devo. Ha la pelle, ma non è più pelle, come una cosa dura e sciolta. Un operatore di qualità continua a saltarmi attorno, cosa facciamo? Mando via tutti quelli che piangono, che urlano, che sono sotto choc e non servono, non aiutano. Dico di non toccare Rocco, di scortarlo con la voce fuori: gli chiedo se se la sente di seguire i compagni, di seguire la voce. Va via, lo guardo mentre dondola e sembra cadere a ogni passo, mi sembra di impazzire. Mi butto avanti, tutta la campata è piena di fumo nero, bruciano i cavi di gomma, i tubi con l'acido, i manicotti. Vedo Boccuzzi che corre in giro a cercare una pompa, mi vede e mi urla in faccia: "Li ho tirati fuori, li ho tirati fuori. Ma Antonio Schiavone è vivo e sta bruciando lì per terra". In quel momento Schiavone urla nel fuoco. Tre grida. E tutte e tre le volte Toni Boccuzzi cerca di gettarsi tra le fiamme e dobbiamo tenerlo, ma lui ripete come un matto: "Il fuoco lo sta mangiando". Dico di portarlo via, fuori. Mi volto, e mi sento chiamare: "Giovanni, Giovanni". Non ci credo, guardo meglio, non si vede niente. Sono Bruno Santino e Giuseppe Demasi, due fantasmi bruciati, consumati dal fuoco eppure in piedi. Non mi sentono più parlare, non sanno dove andare, in che direzione cercare, sono ciechi. Poi Demasi si muove, barcolla verso la linea 4 tenendosi le mani davanti, come se fosse preoccupato di essere nudo. Mi avvicino e lo chiamo, si volta, chiama Bruno. Guardo la loro pelle scivolata via, non so cosa dire e loro mi cercano: "Giovanni, sei qui vicino? Guardaci, guardaci la faccia: com'è? Cosa ci siamo fatti, Giovanni?"
Dicono gli operai che i sette, alla fine, sono morti perché da tempo erano diventati come invisibili. Si spiegano con le parole di Ciro Argentino e Peter Adamo, trent'anni: l'operaio ovviamente esiste, cazzo se esiste, manda avanti un pezzo di Paese, e soprattutto a Torino lo sanno tutti. Ma esiste in fabbrica e non fuori, nel lavoro e non nella testa della politica. Ma lo sapete voi, aggiunge Fabio Carletti della Fiom, che nell'assemblea del Pd appena eletta a Torino non c'è nemmeno un operaio? Che in tutto il Consiglio comunale ce n'è uno, perché il sindacato si è trasformato in lobby e ha minacciato di fare una lista operaia separata, supremo scandalo per la sinistra? Dice Peter che l'invisibilità la senti tutto il giorno, quando vai a comprare il pane, quando esci la sera. Per le storie veloci con le ragazze in discoteca, fai prima a dire che sei un rappresentante, vai più sul sicuro. Non è rifiuto o disprezzo, aggiunge Davide Provenzano, 26 anni, è che sei di un altro pianeta. Credono di poter fare a meno di te. Da bambino, spiega, vedevo con mio padre al telegiornale le notizie sul contratto dei metalmeccanici, "undici milioni di tute blu scendono in piazza", adesso, non si sa quanti siamo, un milione e sette, uno e otto? Il sindaco Chiamparino sa di chi è la colpa: quelli che pensano alla modernità come a una sostituzione, l'immateriale, l'effimero al posto del manifatturiero, mentre invece è moderno chi gestisce la complessità, la fine di una cosa con l'inizio dell'altra, sopravvivenze importanti e novità salutari. "Chiampa" dice che lui non potrebbe dimenticare gli operai, la sua famiglia viene dalla fabbrica, il figlio di suo fratello ha la stessa età e fa il lavoro dei ragazzi della Thyssen, però è vero che si lamenta perché i riformisti non usano più quella parola, operaio. E tuttavia non si può tornare agli anni Settanta.
E la città non è indifferente, non si può misurare il funerale operaio col metro del funerale dell'Avvocato, in quel caso la partecipazione era anche un modo di dire "io c'ero", mentre qui voleva dire "voi ci siete". E poi, pensiamo sempre a Mirafiori, dove cresceva l'erba sull'asfalto, tutto era abbandonato, e tutto è rinato. Il sindaco ha aiutato Marchionne, l'amministratore delegato Fiat ha aiutato Chiamparino. I due si vedono qualche sera per giocare a scopa col vicesindaco e un ufficiale dei carabinieri, ma in pubblico si danno del voi, perché questa è Torino. Anche se Marchionne voleva strappare, e andare al funerale operaio della Thyssen. Poi si è fermato, dice, per paura che la sua presenza diventasse una specie di comizio silenzioso. Ha radunato i suoi e ha detto: che non capiti mai qui. Un incidente può sempre scoppiare, ma non per incuria verso la tua gente e il suo lavoro. Mai, mettetemelo per scritto. Solo in Italia, spiega ancora Marchionne, operaio diventa una brutta parola, nel mondo indica quelli che fanno le cose, le producono.
E tuttavia, avverte il professor Marco Revelli, Torino è sempre più Moriana di Calvino, la città con un volto di marmo e di alabastro e uno di ferro e di cartone, e una faccia non vede più l'altra. Gli operai della Thyssen, anche per la loro età, non hanno riti separati, tradizioni private, fanno una vita perfettamente visibile nella sua normalità. Dopo la fabbrica si incontrano indifferentemente alla Fiom o al Mc Donald's di via Pianezza, Peter ha la moglie laureata e vede tutta gente del suo giro, ai funerali hanno messo musica dei Negramaro, hanno portato anche la maglia di Del Piero. Ma ti dicono che l'invisibilità sociale li rende deboli, la debolezza e la solitudine portano a scambiare straordinari per sicurezza, il Paese li convince di vivere in una geografia immaginaria, dove per dieci anni ha contato solo la cometa del Nordest, solo l'illusione del lavoro immateriale, solo il consumatore e non il produttore, e persino la parola lavoro è stata poco per volta sostituita da altre cose: saperi, competenze, professionalità. Questa fragilità - culturale? Politica? Sociale? - li espone. Il cardinal Poletto, che ha fatto l'operaio da ragazzo (il mattino in officina, il pomeriggio in canonica) ha detto ad ogni funerale cose semplici ma solide perché autentiche: la città ha reagito ma non basta, serve un sussulto, la ricerca sacrosanta del profitto non può danneggiare la sicurezza o addirittura la vita di chi lavora. La sinistra ha detto meno del cardinale.
"Nessuno sa cosa fare davanti a una cosa così. Due compagni di lavoro carbonizzati, e ancora vivi. Uno ha preso due giacconi, glieli ha buttati addosso. "Giovanni aiutaci - dicevano - portaci via". Ragazzi, ho provato a rassicurarli, l'importante è che siate in piedi, io non so se posso toccarvi, non posso prendervi per mano, ma vi portiamo fuori, vi facciamo da battistrada. Due passi, e trovo per terra Rosario Rodinò, Angelo Laurino e Roberto Scola. Statue di cera che si sciolgono, l'olio che frigge, non c'è più niente, i baffi di Rocco, i capelli di Robi, solo la voce. Mi accoccolo vicino a Laurino, gli parlo. Si volta: "Dimmi che starai vicino ai miei". Scola ripete che ha due figli piccoli, "non potete farmi morire". Rodinò sembra più calmo: "Non pensare a me, io sto meglio, occupati di loro". Poi, quando ritorno da lui mi chiede: "Come sono in faccia? Cosa vedi?" Arrivano i pompieri, poco per volta li portano via. Un vigile mi dice che stanno morendo, ma il fuoco gli ha mangiato le terminazioni nervose, per questo resistono al dolore. Non so se è vero, non capisco più niente, ho quei manichini davanti agli occhi. Prendo un pompiere per il bavero, e gli urlo che Schiavone è ancora a terra da qualche parte, devono salvarlo. Mi dice che lo hanno portato via e che devo andarmene, perché il fumo sta divorando anche me. Stacchiamo la tensione a tutta la linea, blocchiamo il flusso degli acidi, dei gas, dell'elettricità. Tutto si ferma alla ThyssenKrupp, probabilmente per sempre. Non ho più niente da fare".
Al cimitero hanno messo le sigarette sopra ogni tomba. Un pacchetto di Diana per Angelo, due sigarette sciolte vicino alla fotografia di Antonio, una sulla sciarpa di Roberto, le Marlboro per Giuseppe e per Rosario. Subito non capisco, poi sì. I ragazzi di oggi non comprano più le sigarette, ma i ragazzi operai sì, le hanno sempre in tasca. Metterle lì, tra i fiori dei morti, è un modo per riconoscerli, per renderli visibili.
…
(11 gennaio 2008)
Da - http://www.repubblica.it/2007/12/sezioni/cronaca/incendio-acciaieria-1/thyssen-mauro/thyssen-mauro.html?ref=HREC1-3
Arlecchino:
Referendum, Cacciari: "Riforma maldestra ma è una svolta. L'attacca chi ha fallito per 40 anni"
Il filosofo, ex deputato e sindaco, fa autocritica: "Anche noi volevamo dare più potere decisionale alla democrazia, il Pci frenò".
"Ora Renzi fa un errore capitale se personalizza il confronto"
Di EZIO MAURO
27 maggio 2016
Professor Cacciari, lei è una coscienza inquieta della sinistra italiana che ha visto anche all'opera da vicino, quando è stato parlamentare. Si aspettava questa battaglia all'ultimo sangue sul referendum?
"Devo essere sincero? C'erano tutti i segnali. Abbiamo provato a riformare le istituzioni per quarant'anni, e non ci siamo riusciti. La strada della grande riforma sembra un cimitero pieno di croci, i nostri fallimenti. Adesso Renzi forza, e vuole passare. Chi ha fallito si ribella".
Fuori i nomi, professore: chi ha fallito?
"Noi, la mia generazione, a destra come a sinistra. Sia i politici che noi intellettuali. Ci sono anch'io, infatti, insieme con Marramao, Barbera, Barcellona, Bolaffi, Flores, si ricorda? E dall'altra parte, a destra, il professor Miglio alla Cattolica, le idee di Urbani. Eravamo nella fase finale degli anni di piombo, la democrazia faticava. Ragionavamo sulla necessità e sulla possibilità di riformare una Costituzione senza scettro, come dicevamo allora, perché necessariamente era nata con la paura del tiranno. Di fronte alla crisi sociale di quegli anni, pensavamo fosse venuto il momento di rafforzare le capacità di decisione del sistema democratico".
Di cosa avevate timore?
"Si parlava molto del fantasma di Weimar. Ragionavamo su basi storiche, scientifiche, costituzionali. La crisi ci faceva capire come una Costituzione che ostacola un meccanismo di governo forte e sicuro sia debole, perché quando la politica e le istituzioni sono incerte decidono altri, da fuori".
Oggi diremmo la finanziarizzazione, la globalizzazione?
"Certo. Ma non dobbiamo pensare solo alle lobby e all'economia finanziaria o ai grandi monopoli, bensì anche alle tecnocrazie create democraticamente, come le strutture dell'Unione europea, che rischiano in certi momenti di soverchiare la politica".
Come mai quell'idea non ha funzionato?
"Per un ritardo culturale complessivo del sistema, evidentemente. Ma devo dire in particolare per il conservatorismo esasperato del Pci e del suo gruppo dirigente, che parlavano di riforme di struttura per il mondo economico-industriale, ma sulle istituzioni erano bloccati. Dibattiti tanti, convegni dell'istituto Gramsci, qualche apertura di interesse da Ingrao e Napolitano. Ma niente, rispetto alla nostra discussione sul potere e la democrazia".
Per la paura comunista, dall'opposizione, di rafforzare l'esecutivo?
"Un riflesso automatico. Ma vede, noi non parlavamo solo di rafforzare l'esecutivo, è una semplificazione banale. Il potere non è una torta di cui chi vince prende la fetta più grande e chi perde la più piccola, la somma non è zero. Noi volevamo rafforzare tutti i soggetti del sistema democratico. Più potere al governo, dunque, ma con un vero impianto federalista che articola il meccanismo decisionale, e un autentico Senato della Regioni con i rappresentanti più autorevoli eletti direttamente, e non scelti tra i gruppi dirigenti più sputtanati d'Italia, come oggi".
Ma un governo più forte significa un parlamento più debole?
"Non se lo dotiamo di strumenti di controllo e d'inchiesta all'americana, e se è capace di agire autonomamente, senza succhiare le notizie dai giornalisti o dai giudici: un'autorità quasi da tribunato".
Quindi un nuovo bilanciamento, tra poteri tutti più forti? E' questa la riforma che vorrebbe?
"Un potere rafforzato e ben suddiviso. Il potere non si indebolisce se è articolato razionalmente e democraticamente tra i soggetti giusti. E' quando si concentra in poche mani e si irrigidisce che diventa debole".
Non è quello che denuncia Zagrebelsky?
"E' quello che capisce chiunque, salvo chi è digiuno culturalmente. Il potere per funzionare deve essere efficace ma anche articolato come ogni organizzazione moderna. Chi può pensare in questo millennio che si ha più potere se lo si riassume in un pugno di uomini invece di regolarlo con una diffusione partecipata e democratica?".
E' esattamente l'accusa che viene rivolta dal fronte del "no" alla riforma del Senato, non le pare?
"Esattamente proprio no. Manca l'autocritica che sta dietro tutto il mio discorso: la presa d'atto che non siamo mai riusciti a riformare il sistema, pur sapendo che ce n'era bisogno. Diciamola tutta: la nostra idea di rispondere al bisogno di modernizzazione dell'Italia riformando le istituzioni ha contato in questi quarant'anni come il due di coppe quando si va a bastoni. Bisognerà pur prendere atto di questo, e trarne le conseguenze politiche".
Quali?
"Non abbiamo la faccia per dire no a una riforma dopo aver buttato via tutte le occasioni di questi quattro decenni. Non siamo riusciti a costruire nulla di positivo dal punto di vista della modernizzazione del sistema: niente di niente".
E dunque per questo - mi ci metto anch'io - dovremmo stare zitti?
"Dovremmo misurare i concetti, le parole, le proporzioni tra ciò che accade e come lo rappresentiamo. La riforma crea danni ed è autoritaria? Balle: è vero che punta sulla concentrazione del potere, ma la realtà è che si tratta di una riforma modesta e maldestra. La montagna ha partorito un brutto topolino. Erano meglio persino quei progetti delle varie Bicamerali guidate da Bozzi, De Mita e D'Alema, più organici e articolati, anche se centralisti e nient'affatto federalisti".
Ma la critica sulla concentrazione oligarchica del potere è la stessa di Zagrebelsky, no?
"Certo ma, ripeto, non condivido certi toni da golpe in arrivo, che non sono di Zagrebelsky. Il vero problema, secondo me, non è una riforma concepita male e scritta peggio, ma la legge elettorale. Qui sì che si punta a dare tutti i poteri al Capo. Anzi, le faccio una facile previsione: se si cambiasse la legge elettorale, correggendola, tutto filerebbe liscio, si abbasserebbe il clamore e la riforma passerebbe tranquillamente".
Lo chiede la minoranza Pd, lo propone Scalfari, ma Renzi finora ha risposto di no: dunque?
"La posta è stata alzata troppo, da una parte e dall'altra, anche se in verità ha cominciato Renzi, personalizzando il referendum e legandolo alla sua sorte. Un errore capitale. Penso che lo abbia capito ma ormai non possiamo far finta di non vedere che la partita si è spostata, e si gioca tutta su di lui, da una parte e dall'altra: se mandarlo a casa oppure no. Ci siamo chiesti cosa succede dopo?".
Anche lei prigioniero del "non c'è alternativa"?
"No, io so cosa c'è, è evidente. Renzi va da Mattarella, chiede le elezioni anticipate e le ottiene. Poi resetta il partito purgandolo e lancia una campagna all'insegna del sì o no al cambiamento, con quello che potremmo chiamare un populismo di governo. Votiamo col proporzionale, con questo Senato, e non otteniamo nulla, se non una lacerazione ancora più forte del campo: è davvero quello che vogliamo?".
Ma non le sembra che così lei si stia autoricattando?
"Perché quante volte lei e tante persone di sinistra non hanno fatto la stessa cosa in questi anni? Vuole fingere che non abbiamo votato spesso turandoci il naso? C'è una teoria della cosa, si chiama il "male minore". D'altra parte stiamo parlando della povera politica italiana, non di Aristotele".
E se si trovasse in emergenza una maggioranza per una diversa legge elettorale?
"Illusioni. Se mai, non escludo il contrario. E cioè che Renzi come extrema ratio punti lui a una rottura verticale per ottenere il voto anticipato. E in ogni caso, pensiamo all'effetto che avrebbe sull'opinione pubblica un nuovo fallimento, dopo i tanti che noi abbiamo collezionato. Significherebbe certificare che in Italia il sistema non è riformabile, per due ragioni opposte unite nel "no": chi vede un pericolo autoritario, chi solo dei dilettanti allo sbaraglio".
Sta dicendo che rifiuta il "no"?
"Come ho cercato di spiegare capisco molte delle ragioni del fronte del "no", non il tono e l'impianto generale. Dopo aver detto tutto quel che penso della riforma, considero che realizza per vie traverse e balzane alcuni cambiamenti che volevamo da anni".
Dunque?
"Voterò sì, per uno spirito di responsabilità nei confronti del sistema. Penso che si possa essere apertamente critici e sentire questa responsabilità repubblicana".
Lei è stato tre volte sindaco di una città come Venezia. Pensa che il voto amministrativo potrà modificare il quadro o i rapporti di forza?
"E' inutile girarci intorno, è Milano che decide l'intera partita. Se il Pd perde a Milano, il centrodestra capisce come deve muoversi, ricostruisce un campo, prova a sfondare sul referendum sfruttando la ferita aperta di Renzi".
E a sinistra?
"Nessun segno di vita pervenuto, dunque poche speranze".
Professore, non rischiamo così di incoraggiare un cinismo distruttivo che la sinistra già produce in abbondanza? E proprio mentre una nuova destra al quadrato bussa ai confini con l'Austria e con tutta l'Europa di mezzo?
"Di più. Stiamo coltivando una cultura della sconfitta, guardi com'è ridotta la socialdemocrazia che poco tempo fa governava l'Europa. Oggi è schiacciata da derive di sinistra, come Tsipras, e di destra magari anche al cubo, come Hofer".
E' colpa della crisi o della lettura che la sinistra fa della crisi?
"E' colpa della sua incertezza identitaria. Anche in politica l'identità è tutto, non ci sono solo gli interessi, sia
pure legittimi. La sinistra perde perché è identificata col sistema vigente, anzi con la sua élite, a cui viene imputata la crisi. Ma così perde la sua ragione di stare al mondo che è ancora e sempre una sola: cercare di cambiare lo stato di cose esistente".
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27 maggio 2016
Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/05/27/news/massimo_cacciari-140687187/?ref=HRER2-1
Arlecchino:
È andato a votare per il Pd il corpo stanco del partito, mobilitando ciò che resta dell’apparato e i gruppi d’interesse intorno ai candidati
Ezio MAURO
IL BUON VECCHIO "che fare?" dopo aver perseguitato la sinistra da più di cent'anni oggi dovrebbe modestamente essere aggiornato così: che fare del Pd? La domanda è sul tavolo del presidente del Consiglio o almeno ronza nelle sue orecchie, visto che è anche il segretario di quello che momentaneamente è il maggior partito italiano. Dire "non siamo soddisfatti del risultato" (usando per la sconfitta il plurale, dopo una vita vissuta al singolare) non basta più. Non basta oggi, soprattutto, quando in nessuna delle grandi città al voto il Pd è riuscito ad eleggere un suo sindaco al primo turno, quando a Napoli è addirittura fuori dal ballottaggio e a Roma è distanziato dai grillini che lo insidiano persino a Torino, mentre nella vera capitale politica del voto - Milano, dove si giocava l'esperimento renziano più ardito - la destra resuscita miracolosamente appaiando al primo turno il candidato cui è stata affidata l'eredità vincente di Pisapia cambiando base sociale, profilo culturale, paesaggio politico.
Ripetiamo oggi le cose che scriviamo da mesi: il corpo stanco del partito è andato a votare, mobilitando ciò che resta dell'apparato, i gruppi d'interesse che si muovono attorno ai candidati e quello strato di pubblica opinione che non si rassegna a rimanere spettatore della politica, e che continua a investire sulla tradizione della sinistra italiana, seguendola nelle sue varie trasformazioni, per un senso di appartenenza a una storia più che alla cronaca attuale e per una testimonianza di valori che hanno contribuito a costruire la civiltà europea e occidentale così come la conosciamo. Ma l'anima, come dicevamo il giorno dopo il flop delle primarie, è rimasta a casa, ed è difficile ritrovarla dopo averla smarrita per noncuranza. Come se un partito fosse soltanto un riflesso del governo e come se vivesse di performance invece che di interessi legittimi, di improvvisazioni estemporanee invece che di tradizioni e progetti, di ottimismo come ideologia invece che come promessa ragionevole in un discorso di verità rivolto al Paese.
Non è certo un deficit di leadership quello che oggi pesa sul risultato elettorale: Renzi è un leader molto attivo e presente ovunque, soprattutto sulle reti televisive, ha il coraggio della sfida in prima persona e dà ogni volta l'impressione di giocarsi l'intera posta sulle questioni che deve affrontare per cambiare un Paese bloccato da cautele democristiane per troppi anni, e ancor più irrigidito dalla ruggine di una crisi economico-finanziaria senza fine. Il deficit, evidentissimo e da lungo tempo, è di identità. Renzi ha scalato il partito non tanto per usarlo come un soggetto culturale e politico della trasformazione italiana, ma come uno strumento indispensabile per arrivare alla guida del governo. Giunto a palazzo Chigi, ha mantenuto la segreteria del Pd per controllare la sua massa politica di manovra e di voto, ma dando l'impressione di non saper più che farsene. Soprattutto, di non aver l'ambizione di guidarlo, ma soltanto di comandarlo. Ma i partiti, persino in questi anni liquidi, chiedono in primo luogo di essere rappresentati, e non soltanto indossati, perché non sono dei guanti.
Il problema della rappresentanza comporta prima di tutto un atto di responsabilità di fronte alla storia che ogni partito consegna al leader temporaneamente alla guida. Bisogna avere il sentimento delle generazioni che passano, dei lasciti e degli errori, per caricarsi del peso della memoria rispettandola, sapendo che una forza politica è un soggetto collettivo che raccoglie intelligenze ed esperienze diverse, fuse in una tradizione comune che tocca legittimamente al leader impersonare secondo la sua cultura, il suo carattere e la sua personalità. Tutto questo cozza contro l'aspirazione di Renzi a presentarsi come un uomo nuovo, una sorta di "papa straniero" della sinistra italiana? No se si ha il modello di Blair, di Valls, di Clinton, che innovano la politica rispettando storia, valori, tradizione. Diverso è se si pensa che la fonte battesimale del nuovo potere sia la rottamazione non della vecchia politica ma delle persone e delle loro storie, quasi come se una ruspa domestica (esclusivamente contro i tuoi compagni) potesse diventare il vero emblema della sinistra e l'avvento di un leader non fosse l'inizio di una delle tante stagioni politiche che si avvicendano ma un religioso, settario Anno Zero.
La domanda che ripetiamo da tempo è proprio questa: Renzi ha coscienza di far parte di una storia che ha tutto il diritto di innovare, anche a strappi e spintoni, ma che gli è stata consegnata come un patrimonio di testimonianza repubblicana, civile, democratica (insieme ad altre storie politiche concorrenti: e a molti errori) perché venga riconosciuto, aggiornato, arricchito e riconsegnato vitale a chi verrà dopo di lui? Questo è ciò che contraddistingue un partito rispetto ad un gruppo di potere e d'interesse, e distingue la leadership dal comando. Una forza come il Pd non si può amministrare nei giorni dispari e nei ritagli di tempo, né può essere affidata a funzionari delegati a funzioni da staff. Ha bisogno di vita vera, di uscire da quei tristi incunaboli televisivi del Nazareno, di prendersi qualche rischio di pensiero autonomo e di libera progettazione, per aiutare il governo e soprattutto se stesso, parlando al Paese. E' difficile capire, al contrario, perché un politico ambizioso come Renzi si accontenti di guidare metà partito, rinunciando a rappresentare l'intero universo del Pd, che unito potrebbe essere ancora - forse - la spina dorsale del sistema politico e istituzionale italiano. C'è in questo uno spirito minoritario da piccolo gruppo eternamente spaventato, una cultura da outsider che non riesce a diventare maggioranza nemmeno quando ne ha i numeri in mano, e preferisce affidarsi a un microsistema variopinto di intrecci locali e amicali che per ogni incarico lo spingono a cercare il più fedele dei suoi uomini piuttosto che il migliore d'Italia. Con un misto di localismo e velleitarismo che può portare all'imprevedibile, come quando il renziano Nardella proclama "la morte della socialdemocrazia": che ha tanti guai, naturalmente, ma ha anche il diritto di non finire in mano a diagnostici improvvisati e sproporzionati alla sua storia.
Questi limiti del renzismo sono fortemente ricambiati, a piene mani, dall'ostilità preconcetta, quasi ideologica della minoranza interna, che continua a considerare nei fatti il leader come un abusivo, anche se ha legittimamente vinto le primarie per la guida del partito, così come era stato legittimamente sconfitto in precedenza da Bersani. Una minoranza che se possibile ha il respiro ancora più corto. Perché non ha un'alternativa, non ha un leader e soprattutto non ha una proposta politica concorrente, in particolare sulle grandi questioni di cultura politica su cui Renzi è più debole: limitandosi ad un gioco meccanico di interdizione che apre continui trabocchetti parlamentari ma non porta un contributo d'idee capace di impegnare il Premier, di aiutarlo nel governo, parlando così alla base del partito e al Paese. Entrambi i soggetti - il leader, la minoranza - si muovono come se non avessero più un tetto in comune, un orizzonte di riferimento. Quella cosa che altrove in Europa, sotto nomi diversi (laburismo inglese, socialdemocrazia tedesca, socialismo mediterraneo) fa riferimento a un'identità politica riconoscibile e riconosciuta, che noi chiamiamo riformismo, cioè sinistra di governo.
E qui siamo alla questione finale. Il grande tema che potremmo intitolare "quale sinistra per il nuovo secolo" interessa a Renzi? Se si assume quell'identità, sia pure nella sua interpretazione più radicale e personale, bisogna sapere che questo comporta degli obblighi. L'obbligo di spiegare ad esempio che il cosiddetto "partito della nazione" non è non può essere un "partito della sostituzione", che taglia a sinistra per inglobare a destra, ma mantenendo ben salde ed evidenti le sue radici porta le fronde del suo albero a coprire anche il centro. L'obbligo di chiarire lo scambio oscuro con Verdini, quando dal concorso autonomo in Parlamento sulla riforma si passa ad una sorta di unione di fatto inconfessabile in pubblico. L'obbligo di tener conto della storia del sindacato italiano a tutela dei diritti nati dal lavoro, che la crisi sta riducendo a semplici "spettanze" comprimibili nei momenti di difficoltà. L'obbligo di usare talvolta con la destra le cattive maniere che si impiegano abitualmente con la sinistra interna: o, simmetricamente, di trattare la minoranza del Pd con il garbo che si riserva di solito a Berlusconi, senza mai dare una lettura pubblica del suo ventennio e della sua avventura politica. In proposito il pensiero di Renzi è sconosciuto.
C'è un patto sociale che il Pd può ancora tentare con il Paese, se unisce al racconto delle eccellenze italiane che il Premier fa ogni giorno la responsabilità nei confronti dei mondi più deboli, degli sconfitti e dei perdenti della globalizzazione, di cui nessuna cultura politica si fa carico, e che possono finire risucchiati negli opposti populismi del lepenismo padano di Salvini o dell'antipolitica grillina (che stanno già preparando le "nozze del caos" per il secondo turno). Perché con il disfacimento della destra di governo, il naufragio di ogni ipotesi centrista, civica o tecnica, ad una moderna sinistra toccherebbe il compito di difendere il sistema, cambiandolo. Opponendo il sentimento repubblicano al risentimento che divora ogni giorno la politica. Si può fare, vale la pena farlo. Ma il Pd, lo sa?
Da - http://m.repubblica.it/mobile/r/speciali/politica/elezioni-comunali-edizione2016/2016/06/07/news/alla_ricerca_del_pd_perduto_al_partito_serve_l_anima_non_l_uomo_solo_al_comando-141458412/?ref=HREC1-1&refresh_ce
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