Le favole politiche di Sciascia
di Domenico Scarpa
25 settembre 2011
Nel primo libro di Leonardo Sciascia, Favole della dittatura, le favole sono ventisette, tutte brevissime. La quinta si risolve in due frasi «Il cane abbaiava alla luna. Ma l'usignuolo per tutta la notte tacque di paura» sufficienti per mettere in moto una causalità trasversale: la paura nasce da un malinteso consentito a sua volta da un contesto che il testo ci tace.
«I topi, le talpe e le faine, tutti gli animali che rosicchiavano ai margini di quella che costituiva la legalità di una fattoria progettavano una rivoluzione. I topi erano accesissimi. Ma fu una talpa a preoccuparsi della data. «In inverno», disse. «Ci sono state cose favorevoli, in inverno». E qui diventò eloquente e precisa; fu acclamata. Nessuno dei topi pensò che, d'inverno, le talpe profondamente dormono».
Questa aspra barzelletta era la numero undici: nelle favole di Sciascia si avverte la presenza di un retropensiero: chi agisce nel testo la sa più lunga di chi legge e chi scrive la sa più lunga di tutti. Non sappiamo quando siano state scritte (il libro esce nel 1950), ma certo dopo la fine della guerra.
Chi invece compose apologhi antifascisti mentre Mussolini era tuttora al comando fu Italo Calvino che aveva due anni meno di Sciascia (classe 1923) e che a partire dal marzo 1943 produsse una ventina di brevi racconti. Subito dopo la guerra meditò di raccoglierli: «L'apologo nasce in tempi d'oppressione. Quando l'uomo non può più dar chiara forma al suo pensiero, lo esprime per mezzo di favole. Questi raccontini corrispondono a una serie d'esperienze politiche o sociali d'un giovane durante l'agonia del fascismo». Alla fine non si decise a pubblicare, ma se lo avesse fatto avrebbe accompagnato i testi con le date di stesura: «Si deve guardare a queste date, e per giustificare certi apologhi che oggi non avrebbero senso, e per seguire l'evolversi della concezione dello scrittore, come egli dallo scetticismo più pessimista riesce a poco a poco a trovare qualche punto fermo, l'avvio per una fede positiva».
A differenza di Calvino, Sciascia non dà informazioni sulla cronologia dei testi. Fa bene, perché le sue favole non perdono significato col mutare del quadro politico e perché non rispondono a una condizione di «scetticismo pessimista» da superare. Sono, semmai, un addio alla propria giovinezza e un rito di fondazione della propria scrittura.
Superior stabat lupus: e l'agnello lo vide nello specchio torbo dell'acqua. Lasciò di bere, e stette a fissare tremante quella terribile immagine specchiata. «Questa volta non ho tempo da perdere», disse il lupo. «Ed ho contro di te un argomento ben più valido dell'antico: so quel che pensi di me, e non provarti a negarlo». E d'un balzo gli fu sopra a lacerarlo.
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