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Autore Discussione: Antonio POLITO  (Letto 79558 volte)
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« Risposta #90 inserito:: Gennaio 15, 2015, 11:53:27 am »

IL COMMENTO

Napolitano, la critica davvero ingiusta

Di ANTONIO POLITO

È comprensibile l’ostilità che si riversa anche in queste ore contro Napolitano da parte dei propagandisti dell’antipolitica; cioè di tutti coloro i quali hanno sperato che la crisi economica, morale e politica dell’Italia sfociasse in un collasso del sistema istituzionale, per sostituirlo con qualcos’altro. Un’ondata così forte di rabbia e disprezzo per i partiti e il Parlamento in Italia non si vedeva da tempo. Napolitano l’ha affrontata di petto, senza indulgenze, con severità. Nella convinzione che l’unico modo di domarla fosse il rinnovamento delle istituzioni democratiche. Da questo punto di vista è stato il più formidabile nemico degli agitatori. Si spiegano dunque l’astio e la collera con cui ne salutano l’addio.

Meno comprensibile è l’ostilità che gli proviene da Berlusconi e dagli ambienti a lui vicini. Napolitano infatti, proprio per fronteggiare il rischio di collasso del sistema politico, ha avuto come stella polare della sua azione la stabilità di governo. Il che, in tutte le crisi politiche che si è trovato a gestire, lo ha portato sempre a favorire soluzioni che tenessero il centrodestra di Berlusconi dentro l’area di governo, o comunque agganciato. Al punto di irritare spesso gli oppositori dell’ex Cavaliere. Nel 2010, quando Fini spaccò la maggioranza di centrodestra, Napolitano si adoperò affinché la discussione della mozione di sfiducia a Berlusconi fosse posticipata a dopo la legge di Stabilità. Questo diede un mese di tempo al premier, che lo usò per conquistare e trasferire voti in Parlamento, e gli consentì di ribaltare a sorpresa il risultato e restare in sella.

Nel terribile autunno del 2011, quando il governo Berlusconi cadde al pari di tutti i governi dei Paesi travolti dalla crisi dei debiti sovrani, Napolitano non sciolse le Camere, indicendo elezioni che in quel momento avrebbe sicuramente vinto il centrosinistra guidato da Bersani, ma puntò sul governo Monti per uscire dalla emergenza finanziaria. Berlusconi gradì questa soluzione al punto che diede la fiducia al nuovo esecutivo, e per mesi lo sostenne; non a caso fu lui a proporre prima e a votare poi il bis di Napolitano.

All’indomani delle ultime elezioni, il presidente negò a Bersani la possibilità di dar vita a un governo senza maggioranza parlamentare e incaricò invece Letta alla guida di un esecutivo che comprendesse Berlusconi. E quando Renzi arrivò sulla scena, Napolitano diede via libera al suo tentativo, che consisteva nel riportare nel gioco politico Berlusconi con il patto del Nazareno, nonostante nel frattempo fosse stato condannato per frode fiscale e decaduto dal Senato, e per questo avesse rotto con la maggioranza e con Alfano.

Tutte queste scelte, peraltro pubblicamente motivate, ovviamente sono suscettibili di critiche; ma certo non per essere state di pregiudizio al centrodestra. I cui problemi politici di oggi hanno ben altre spiegazioni e radici.

15 gennaio 2015 | 08:25
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_gennaio_15/napolitano-critica-davvero-ingiusta-5c140ea4-9c7d-11e4-8bf6-694fc7ea2d25.shtml
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« Risposta #91 inserito:: Febbraio 07, 2015, 10:02:27 am »

Il caso del 3 per cento
La frusta e il dolce fiscale

Di ANTONIO POLITO

Meno male che oggi parla Mattarella. Innanzitutto perché sono sette anni che non parlava; e questo già la dice lunga su un sistema politico che ha dovuto cercarsi l’arbitro più lontano possibile dal suo chiacchiericcio quotidiano. E poi perché, parlando il garante dell’unità nazionale, forse taceranno per un giorno tutti gli altri che hanno già ricominciato a darsele di santa ragione.

I due gruppi più rumorosi sono composti da quelli che negano di aver venduto tappeti e da quelli che rifiutano di essere usati come tappeti. Nel primo gruppo spicca Verdini, il quale respinge le accuse di «fallimento» che gli piovono addosso dal cerchio magico di Berlusconi ricordando che nel Patto con Renzi c’era, altroché se c’era, la scelta comune del nuovo presidente. Testimonianza autentica, visto che viene da uno degli apostoli del Nazareno; ma ormai utile solo per gli storici poiché, come lui stesso ha ammesso, in politica chi ha i numeri fa quello che vuole, e Renzi ha fatto di Berlusconi ciò che voleva.

Ma lo scontro in cui è coinvolto l’ex falco berlusconiano diventato colomba renziana non va sopravvalutato, poiché ha risvolti più interni che esterni. Comunque finisca, che l’ex Cavaliere torni in sella o continui a fare il fante, ormai non conta molto ai fini delle sospirate riforme istituzionali. Il più, infatti, è fatto. E per la minoranza pd non sarebbe decoroso rimetterle in discussione dando una mano alla vendetta berlusconiana. D’ altra parte al capezzale del Nazareno è subito accorsa il ministro Boschi, vera e propria crocerossina delle riforme, a ricordare e ribadire che la norma per la depenalizzazione dei reati fiscali, nota ormai come decreto tre per cento, si farà. Anche se, visto che il tutto era stato rinviato al 20 febbraio, e non foss’altro che per una ragione di stile, forse era meglio aspettare un attimo di parlarne con il nuovo capo dello Stato, cui spetterà firmarla trattandosi di un Decreto del Presidente della Repubblica.

Più interessante, e sorprendentemente perfino più delicata per gli equilibri della legislatura, è la tempesta che si è scatenata nel partito di Alfano ad opera di coloro che non vogliono essere trattati come tappeti, anzi come tappetini per usare l’espressione del ministro Lupi. La crisi interna di quel gruppo non è solo frutto di rabbia passeggera per il trattamento ricevuto, ma richiama per così dire una questione ontologica mai risolta da Alfano e i suoi. E cioè come può un partito che si chiama Nuovo centrodestra stare in un governo organico di centrosinistra proponendosi di andare alle prossime elezioni con il centrodestra. Nello sfavillio di maggioranze che Renzi ha messo in mostra in questi mesi (una per il governo, una per le riforme, una per il Quirinale), si tende infatti a dimenticare che al Senato ne ha ogni giorno una risicatissima appesa proprio a quel «partitino» delle cui convulsioni il premier dichiara di non volersi curare. Se per caso Ncd non reggesse alla prova da sforzo cui è stata sottoposto nel fine settimana, qualche conseguenza politica potrebbe infatti prodursi. E per quanto sembri improbabile che gli alfaniani al governo siano disposti ad aprire una crisi, i non alfaniani non al governo potrebbero tagliare la corda prima di finirci impiccati.

A parte il tran tran quotidiano, c’è in particolare un futuro appuntamento parlamentare in cui ogni voto conterà di nuovo moltissimo: la seconda lettura al Senato della riforma costituzionale. In quella occasione, che si proporrà comunque tra non meno di tre mesi, sarà richiesta la maggioranza qualificata di 161 voti al Senato. Alla portata del governo, ma certo non sicura se una forza politica di maggioranza vi arrivasse in via di dissolvimento.

Le incognite del circo politico non si sono dunque tutte sciolte nell’ovazione che ha accolto Mattarella presidente. Anche se il domatore, Matteo Renzi, sembra oggi più in comando che mai, zuccherino in una mano e frusta nell’altra.

3 febbraio 2015 | 08:53
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_febbraio_03/frusta-dolce-fiscale-9affd646-ab6b-11e4-864d-5557babae2e2.shtml
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« Risposta #92 inserito:: Febbraio 18, 2015, 08:10:59 am »

Prepotenti e rissosi
Il sonno della ragione

Di ANTONIO POLITO

Non è stata una buona idea far lavorare il Parlamento di notte. Certo, si è offerto in pasto al pubblico il supplizio degli odiati onorevoli inflitto con la privazione del sonno. Ma si è anche prodotto il sonno della ragione. Lo spettacolo andato in scena a Montecitorio in queste ore è del genere che un tempo si sarebbe detto da Parlamento balcanico. Forse ha ragione chi dice che la Costituzione andrebbe riscritta alla luce del sole. Anche perché l’incursione notturna del premier è stata così tenebrosa che ora rischia di produrre effetti devastanti sul processo delle riforme. Almeno in questa materia il Parlamento non è infatti alle dipendenze del governo, né può esserne messo in mora.

D’altra parte, si tratta del Parlamento più disossato della storia della Repubblica, in cui sono uniti solo i partiti il cui obiettivo è spaccare gli altri, mentre i partiti che dovrebbero unire sono spaccati. Questa sorta di Dieta polacca, tenuta insieme esclusivamente dall’istinto di sopravvivenza, vede ancora in Matteo Renzi il suo deus ex machina, il domatore che la tiene in vita; ma ha appena perso il suo principio ordinatore, il motore primo che le aveva consentito di incamminarsi sull’impervio sentiero costituente. La morte del patto del Nazareno, a dispetto degli ingenui che ne hanno minimizzato gli effetti, è infatti qualcosa di più che un cambiamento numerico, non è solo la fine del banco di mutuo soccorso parlamentare Verdini-Lotti. Ha anche una conseguenza politica. Se l’obiettivo di cambiare la Costituzione smette di essere comune alle più grandi forze popolari, e diventa il progetto di un solo partito dominante, la conseguenza quasi inevitabile è che le opposizioni si coalizzino, e si radicalizzino.

Per questo il mantra di «andiamo avanti da soli» che ripetono i renziani non è convincente. Perché più si va avanti da soli più si dà un alibi agli estremismi di chi è rimasto fuori. E in circostanze come queste il giochetto dei due o tre forni non funziona: pur dopo aver litigato con Berlusconi, il Pd sta infatti litigando con M5S, ha fatto a botte con Sel, ed è di nuovo gravemente diviso al suo interno.
C’è poi un danno collaterale di questa bagarre. Ed è che il pubblico ne ricava l’impressione che la Carta comune sia diventata oggetto di scontro partigiano come qualsiasi altra cosa. Il che indebolisce le riforme prima ancora che escano dal Parlamento. Già due volte abbiamo commesso questo peccato, e ci è andata molto male: con la riforma del Titolo V pretesa a colpi di maggioranza dal centrosinistra del tempo, e con il famigerato Porcellum imposto dal centrodestra berlusconiano. Entrambe le leggi sono state percepite nel Paese come trofei di una guerra civile, e alla fine sono fallite.

La capacità di riformatore di Matteo Renzi non si misura con il numero di sedute notturne che è capace di imporre al Parlamento o per la efficacia delle minacce di scioglimento con cui tiene a bada i parlamentari. Bisogna che il premier ridia presto un senso a questa storia: costruendo un nuovo asse politico per le riforme e accettando le conseguenze, di metodo e di merito, che ne deriveranno. Altrimenti rischia di intestarsi il fallimento del progetto sulla cui base ha preteso e ottenuto la guida del governo .

14 febbraio 2015 | 08:27
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DA - http://www.corriere.it/editoriali/15_febbraio_14/sonno-ragione-64a6032a-b414-11e4-9e87-eea8b5ef37a3.shtml
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« Risposta #93 inserito:: Marzo 16, 2015, 11:45:00 pm »

Tutti gli usi impropri di un verdetto

Di ANTONIO POLITO

Si sa che le sentenze in Italia si rispettano a intermittenza, dipende da se ci piacciono o no.

Ma quella della Cassazione che ha confermato l'assoluzione di Berlusconi merita di essere protetta dai rischi di sfruttamento politico. Il primo consiste nell'atteggiamento di chi non l'accetta, cavilla, azzecca garbugli, si rifiuta di considerare chiusa, come invece è, la vicenda giudiziaria detta «caso Ruby». Curiosamente sono proprio i più inflessibili difensori della magistratura quelli che oggi faticano a riconoscere che il giudice supremo ha dichiarato Berlusconi definitivamente innocente delle due accuse che gli erano state mosse, senza se e senza ma. La Procura di Milano ha perso, la difesa ha vinto. Punto. Ed è aberrante invocare ora da altri processi, in cui pure resta coinvolto Berlusconi, una speranza di rivincita, come se fossero una partita di ritorno di Champions League. D'altra parte l'assoluzione in sede penale non assolve certo l'allora presidente del Consiglio dalla responsabilità politica e personale di aver ospitato «atti di prostituzione» a casa sua, cosa che anche la difesa ha riconosciuto in Cassazione.

L'altro uso improprio della sentenza è il tentativo in corso di convincere gli italiani che essa risolverà come d'incanto i problemi politici di Forza Italia e dell'intero centrodestra, con la semplice ed ennesima ridiscesa in campo del suo deus ex machina. Intendiamoci: è comprensibile l'euforia degli amici di Berlusconi e dei dirigenti del suo partito, anche di quelli che magari in segreto speravano di poter continuare a sfruttare la sua ansia giudiziaria per fargli fare ciò che volevano. Ed è positivo che, non per effetto di questa assoluzione ma per la fine della pena scontata ai servizi sociali a causa di un'altra condanna, il capo di un grande partito di opposizione possa tornare a far politica nelle piazze, a partire dalla campagna elettorale delle Regionali. Ma miracoli è meglio non aspettarsene.

Quello che sta accadendo nel centrodestra italiano non è infatti solo il frutto dell'indebolimento della leadership di Berlusconi, ne è semmai un'importante causa. Il sorgere di una destra nazionalista e anti europea non nasce dalle vicende giudiziarie dell'ex Cavaliere, ma dai traumi sociali dell'Italia di questi anni, e la nuova Lega è una forza così aggressiva che non esita ad amputarsi il braccio moderato di Tosi, figurarsi se può essere ricondotta all'ovile con le cene del lunedì ad Arcore. L'esplosione di Forza Italia non deriva dall'obbligo dei venerdì a Cesano Boscone, ma dalla inconsistenza di un partito privo allo stesso tempo di democrazia e di gerarchia interna. La rottura con Alfano non si risolve con la parabola del figliol prodigo, perché ha ormai portato un pezzo del centrodestra nel centrosinistra. Ammesso che i voti di questi spezzoni siano un giorno sommabili, sembrano comunque pochi per vincere le elezioni, almeno per come le ha congegnate l’Italicum di Renzi.

Del resto, nel modello che si sta costruendo, mettendo insieme la riforma del Senato e quella della legge elettorale, il rischio più elevato non è tanto la dittatura della maggioranza ma l'irrilevanza della minoranza: che rischia di essere frantumata, divisa, litigiosa, una palude pronta a ogni trasformismo. Proprio perché si va verso un governo più forte e un Parlamento più debole, è di vitale importanza per la nostra democrazia che la competizione resti vera, che nelle urne ci sia una reale alternativa, che esista un centrodestra electable, cioè credibile come possibile governo.
Ora che ha l'animo più lieve, dopo l'assoluzione, è a questo che deve porre mente Berlusconi. Se le sorti del centrodestra gli interessano oltre l'orizzonte delle sue aziende e dell'eredità dei figli, può ricostruirlo solo aprendo una via, ordinata e per quanto possibile democratica, alla sua successione.

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12 marzo 2015 | 08:32

Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_marzo_12/tutti-usi-impropri-un-verdetto-43cc9bde-c880-11e4-9fa6-f0539e9b2e9a.shtml
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« Risposta #94 inserito:: Aprile 04, 2015, 12:04:23 pm »

Potentati e cacicchi
Il renzismo si è fermato a Eboli

Di ANTONIO POLITO

I l nuovo Pd di Renzi si è fermato a Eboli. Anzi, non ha neanche varcato il Garigliano. Più che la minoranza interna, il rischio peggiore per il segretario è questa maggioranza esterna di notabili e cacicchi locali che, soprattutto da Roma in giù, controlla tuttora il partito: un ceto politico rimasto del tutto immune alla cosiddetta «rivoluzione» renziana.

Non si tratta solo della questione morale. Che pure conta. L’ultimo arrestato in Campania, il sindaco di Ischia, non è uno qualunque: è un capo locale, uno capace di prendere 70 mila preferenze in tutto il Sud alle Europee fallendo per un soffio l’ascesa a Strasburgo, uno che fino a dieci anni fa stava in Forza Italia, un Nazareno ante litteram nella sua isola, che governava in un patto di ferro con la destra. Più che una devianza, incarna cioè una filosofia politica molto diffusa nel Pd campano, spesso usato come un taxi da chi è a caccia di potere. Vedremo se con lui il segretario sarà inflessibile come con Lupi o flessibile come con De Luca. Conterà molto il clamore mediatico: che in questo caso è assicurato, perché le duemila bottiglie del vino di D’Alema non hanno niente da invidiare al Rolex di Lupi.

Ma prima ancora che morale, il problema è politico. Nel Mezzogiorno Renzi è un estraneo. Ci si fa vedere anche poco, per la verità. E comunque non c’è una regione meridionale dove si possa dire che abbia cambiato verso al suo partito. I governatori e gli aspiranti governatori del Pd sono tutti esponenti di un’altra epoca, che traggono la loro forza dal sistema di consenso costruito sul territorio e che sono al massimo tollerati, non certo scelti, dal centro. Crocetta in Sicilia, Emiliano in Puglia, Oliverio in Calabria, De Luca in Campania: niente di più lontano dalle camicie bianche, l’e-government e i talk show. E dietro di loro si agita il solito coacervo di potentati locali, neanche correnti si possono chiamare, che non fanno nulla per nulla, piccole aziende il cui core business sono i voti, meglio se con le preferenze. Il Partito democratico nel Sud è spesso un verminaio in cui è impossibile mettere le mani senza sporcarsi: e Renzi non ama sporcarsi.
Di conseguenza, hic sunt leones, ognuno si sbrana come può. Si spiega così l’impotenza dimostrata nella vicenda De Luca, quando Roma ha dovuto digerire la sua candidatura prima e la sua vittoria alle primarie dopo.

Non è del resto un caso se nel governo non c’è neanche un ministro meridionale, se la questione meridionale è stata ridotta all’utilizzo dei fondi Ue, se a gestirli c’è un signore di Reggio Emilia, se il Pd che va in televisione parla solo con l’accento toscano, o al massimo lodigiano come Guerini. Il Sud è rimasto un grande buco nero della politica italiana, uno spazio vuoto non più riempito né da una idea né da una classe dirigente di peso nazionale. Ed è un grande punto interrogativo sul nuovo Partito democratico di Renzi, ancora troppo diverso dal suo elettorato.

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31 marzo 2015 | 07:26

Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_marzo_31/renzismo-si-fermato-eboli-f4a80c8e-d764-11e4-82ff-02a5d56630ca.shtml
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« Risposta #95 inserito:: Aprile 16, 2015, 11:48:31 am »

Riforma elettorale
Un gigante con tanti cespugli

Di ANTONIO POLITO

Se tutto resterà com’è, non c’è da andar tanto fieri della riforma elettorale che Montecitorio si appresta a varare. Innanzitutto per un problema di metodo. Le leggi elettorali sono le regole del gioco politico, e dovrebbero perciò essere considerate imparziali dal maggior numero possibile di giocatori. Altrimenti nascono zoppe, con maggioranze risicate, e hanno vita breve, come accadde prima al Mattarellum e poi al Porcellum. L’Italicum sembrava partito bene. Renzi chiarì che per evitare quel rischio bisognava cercare un compromesso tra le maggiori forze politiche. Per questo fece un accordo con Berlusconi, e a chiunque chiedesse modifiche replicò che non poteva tradire quell’accordo. Per questo ne offrì uno, a un certo punto sembrò anche seriamente, ai Cinquestelle. E invece in dirittura finale l’Italicum arriva con un sostegno politico molto ristretto, perfino inferiore alla stessa maggioranza di governo, a causa della fronda interna al Pd; addirittura inferiore al consenso con cui fu approvato il Porcellum, che per lo meno ebbe i voti di tutti i sostenitori del governo dell’epoca, e cioè Forza Italia, An, Lega Nord e Udc.

C’è dunque un’elevata probabilità che gran parte dello schieramento politico consideri ostile la legge che sta per essere approvata, e ne contesti aspramente la legittimità anche in futuro, fino magari a sostituirla per l’ennesima volta quando le maggioranze muteranno. Non sarebbe una novità: da vent’anni cambiamo sistema elettorale ogni dieci anni. Ma se il risultato fosse eccellente, e cioè una legge elettorale di stampo europeo al di sopra di ogni sospetto, si potrebbe anche tollerare il modo in cui nasce. Purtroppo non è così.

Di stampo europeo certamente non è, perché il premio di maggioranza non esiste in nessuna delle grandi democrazie europee con l’eccezione della Grecia (anche se il premier garantisce che correranno a copiarcela tutti). Al di sopra di ogni sospetto nemmeno, perché introduce di fatto l’elezione diretta del capo del governo senza dargliene i poteri e senza prevedere i contrappesi che esistono nei sistemi presidenziali. Produrrà dunque uno pseudo presidente in uno pseudo Parlamento, quest’ultimo essendo ulteriormente indebolito dal declassamento del Senato a vacanze romane dei consiglieri regionali e dalla selezione per nomina di un elevato numero di deputati. Per di più, non prevedendo la possibilità di apparentamenti al secondo turno come invece è nelle città italiane e nel Parlamento francese, assegna il 55% dei seggi a uno solo e il restante da dividere tra tutti gli altri, che a questo punto saranno molti visto che lo sbarramento è al 3%. Il risultato non sarà una forte e responsabile opposizione, bensì un coacervo di sigle frammentato e impotente, inevitabilmente portato al chiasso mediatico e alla protesta demagogica.

Un gigante e tanti cespugli: non è esattamente questa la democrazia rappresentativa in Europa. Non stiamo infatti per approvare una legge maggioritaria, che moltiplica i voti in seggi per dare una maggioranza; ma una legge proporzionale, cui alla fine si sommano i seggi del premio. Della stessa famiglia, dunque, delle tre più contestate della nostra storia: la legge Acerbo del 1923, la cosiddetta legge-truffa del 1953 (su entrambe il governo mise la fiducia) e la legge Calderoli del 2005.

I difetti dell’Italicum sono tanti. Il pregio è unico, ma non da poco: risponde a uno stato di necessità, e riempie il vuoto aperto dalla sentenza della Consulta. Qualsiasi legge elettorale è meglio di nessuna legge elettorale. Però in sedici mesi si doveva (e si può ancora) fare di meglio.

8 aprile 2015 | 08:16
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_aprile_08/gigante-tanti-cespugli-italicum-riforma-elettorale-4ddcb02e-ddb0-11e4-9dd8-fa9f7811b549.shtml
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« Risposta #96 inserito:: Aprile 25, 2015, 04:49:13 pm »

Il corsivo del giorno
La traiettoria (traumatica) del treno dell’Italicum
Sostituire un parlamentare dissidente in Commissione è un problema per il dissidente.
Sostituirne 10 su 22 potrebbe diventare un problema anche per chi li sostituisce

Di ANTONIO POLITO

Sostituire un parlamentare dissidente in Commissione è un problema per il dissidente. Sostituirne una decina su 22, compreso l’ex leader del tuo partito (Bersani), due ex presidenti (Cuperlo e Bindi), dovendo già sostituire il capogruppo dei deputati che si è dimesso (Speranza), perché tutti dissentono dalla legge elettorale che stai per approvare, potrebbe diventare un problema anche per chi li sostituisce. È fuor di dubbio che con la procedura adottata (far convocare tutti i membri della Commissione affari costituzionali della Camera per chiedere loro, uno a uno, come in confessionale, se avrebbero peccato contro l’Italicum, e mandare via tutti gli sventurati che risposero) Renzi ha deciso di pagare un prezzo politico alto sia per l’unità del suo partito sia per la credibilità della sua stessa leadership in quel partito. E allora c’è da chiedersi perché l’abbia fatto.

Dietro la severità del premier c’è la decisione di tenersi la strada aperta per porre la fiducia sull’Italicum. Essa può essere infatti chiesta sul testo che esce dalla Commissione, e se questa cambiasse qualcosa nella legge, Renzi non potrebbe più blindare il vecchio testo in Aula. Ma se i deputati in Commissione rappresentano il gruppo ed è quindi legittimo, per quanto traumatico, sostituirli, in Aula i parlamentari, Costituzione alla mano, rappresentano la nazione, e sono dunque liberi da qualunque vincolo di mandato e di disciplina di gruppo. Il treno dell’Italicum sta dunque correndo verso questo snodo cruciale del sistema democratico. Forse si può ancora rallentarne la corsa o cambiarne la traiettoria, ma se continua così passerà per una raffica di voti di fiducia, per un Aventino con gazzarra delle opposizioni, per una ferita istituzionale mentre si fanno le riforme istituzionali, e per un’approvazione finale contestata come neanche col Porcellum avvenne. C’è da chiedersi: cui prodest?

21 aprile 2015 | 09:27
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_aprile_21/traiettoria-traumatica-treno-dell-italicum-d4bf01dc-e7f6-11e4-97a5-c3fccabca8f9.shtml
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« Risposta #97 inserito:: Maggio 01, 2015, 12:31:11 pm »

Italicum, in Parlamento la prova del potere

Di Antonio Polito

Dice Enrico Letta che mettendo la fiducia sull’Italicum il premier rischia di ottenere una «vittoria sulle macerie». Dimentica però che l’intero edificio del governo Renzi è costruito sulle macerie. Le macerie della seconda Repubblica, di una «non vittoria» elettorale della sinistra, e della sentenza della Consulta che rase al suolo il Porcellum. Il ricordo è invece acutamente presente all’opinione pubblica, ed è questo che spiana la strada a Renzi per spianare gli avversari.

A convincere gli italiani non sono infatti gli arzigogoli di esperti professori e inesperti politici, tutti aspiranti capilista bloccati, che magnificano il genio Italicum. La legge è quel che è, uno strano ibrido di proporzionale più premio di maggioranza più ballottaggio, un vero e proprio unicum in Europa. La gente l’ha capito, non applaude nei sondaggi. Ma è forte l’argomento politico di Renzi che suona pressappoco così: o con me o come prima. Mettersi contro questo vento fino a far cadere la legge o a far cadere il governo, richiederebbe un coraggio e un progetto che la minoranza del Pd oggi non ha, anche perché è essa stessa parte delle macerie di cui sopra. Perciò Renzi ricorre alla forzatura estrema del voto di fiducia: impedisce cambiamenti alla legge e mette i dissidenti con le spalle al muro, prendere tutto o perdere tutto. In attesa dunque di seguire gli sviluppi di una partita che pare già giocata, tranne l’incertezza su quanto umiliante e umiliata sarà l’Aula di Montecitorio, è lecito chiedersi che cosa potrà davvero essere questa nuova fase che si aprirà con l’Italicum, da molti commentatori già definita come l’era del «governo del premier».

In buona parte, sarà ciò che Renzi vorrà che sia. La sua condizione di dominus uscirà infatti rafforzata dall’arma carica di una legge elettorale, che può essere usata in qualsiasi momento, indipendentemente dalle promesse e dalle clausole di salvaguardia. Come nel Regno Unito, dove la Regina scioglie formalmente le Camere ma è il premier a decidere quando, Renzi disporrà della ghigliottina della legislatura. Però il leader dovrà prima o poi scegliere se approfittare delle macerie del sistema politico, regnando sui detriti di un’opposizione frantumata dal nuovo sistema elettorale. Oppure se provare a ricostruire su quelle macerie un sistema parlamentare equilibrato, e che riprenda a tendere verso il bipolarismo e l’alternanza. Renzi avrebbe potuto farlo già ieri, scommettendo su una maggioranza convinta, quella che ha respinto le pregiudiziali di costituzionalità, invece di coartarla con il voto di fiducia.

Vincere e convincere, come si direbbe nel gergo a lui caro del calcio, è obbligatorio per i grandi leader. D’altra parte nemmeno il rozzo meccanismo dell’Italicum potrà esentare del tutto dalla ricerca del consenso: nella futura Camera, dove la lista vincente godrà di 340 seggi, basteranno 25 dissidenti per mandarla sotto. Nemmeno il destino di De Gasperi fu messo al riparo da un premio di maggioranza approvato a colpi di voti di fiducia.

29 aprile 2015 | 07:50
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_aprile_29/italicum-matteo-renzi-prova-potere-polito-2ece17b2-ee32-11e4-b322-fe8a05b45a01.shtml
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« Risposta #98 inserito:: Maggio 19, 2015, 09:27:18 am »

Il commento
Il diritto di parola di Salvini e i quotidiani attentati alla democrazia
Nessun appello di intellettuali per difendere il diritto di parola del leader della Lega: sotto sotto molti pensano che se l’è cercata

Di Antonio Polito

Strano, non si è ancora visto un manifesto-appello di intellettuali per difendere il diritto di parola di Matteo Salvini nelle piazze della Repubblica. Non sono comparsi bavagli simbolici per ricordare che a nessuno si può tappare la bocca in questo Paese. La cultura democratica non sembra molto scossa da questo stillicidio ormai quotidiano di piccoli ma non banali attentati alla democrazia: ché tali sono i tentativi di impedire, interrompere, sabotare i comizi del leader di un partito politico regolarmente iscritto alla gara delle prossime elezioni regionali.

Perché dunque la condanna, anche quando è ferma e sincera, non va mai oltre le solite frasi di circostanza, e quasi sempre è preceduta da una presa di distanza, del tipo «premesso che tutto mi divide dalle idee di Salvini, difendo il suo diritto a manifestarle», come fa spesso lo stesso ministro dell’Interno, confondendo il suo ruolo istituzionale con quello di diretto concorrente elettorale della Lega? Perché, in realtà, sotto sotto, in fondo in fondo, molti di noi pensano che Salvini un po’ se l’è cercata, che il suo linguaggio è troppo provocatorio, che denigra e istiga, che è irresponsabile e politicamente scorrettissimo. E invece no. Anche se fosse tutte queste cose, bisogna che ci convinciamo che il discorso politico della Lega non è fuori dal perimetro dei valori di una democrazia, e dunque ha pari dignità con tutti gli altri, e dunque è nel solo potere degli elettori censurarlo.

Dobbiamo riconoscere che lui e i suoi seguaci hanno il diritto non solo di dire ciò che dicono, ma anche di pensare ciò che pensano. In molti altri paesi europei forze politiche nient’affatto eversive sostengono tesi non molto dissimili da quelle di Salvini sugli immigrati (il partito di Cameron per esempio) o sull’Europa (il movimento di Alternativa per la Germania) e a nessuno viene in testa di lanciargli contro uova e bottiglie, o di pensare che se la sono cercata. Se ragioneremo così, se consentiremo a Salvini una campagna elettorale non braccata da manipoli di agitatori sempre a caccia di presunti fascisti pur di sentirsi vivi, allora potremo anche respingere nel dibattito pubblico ciò che in Salvini non ci piace, ciò che ci preoccupa, ciò che lo rende geneticamente minoritario, per quanti voti possa prendere.

17 maggio 2015 | 12:09
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_maggio_17/diritto-parola-si-salvini-quotidiani-attentati-democrazia-4451da36-fc7b-11e4-9e3e-6f5f0dae9d63.shtml
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« Risposta #99 inserito:: Maggio 25, 2015, 11:15:51 am »

Aspirazioni
Il mito della giustizia sociale può essere un alibi ingannevole
A furia di parlare di equità, si alimentano aspettative difficili da soddisfare.
Per esempio quando a proposito di pensioni non si illustrano tutti gli aspetti dei metodi retributivo e contributivo
O quando nel mondo scolastico si creano divisioni fra i precari

Di Antonio Polito

Lo storytelling è l’ultimo grido della comunicazione politica. E pensare che ci scherzavamo su quando ce la raccontava Vendola e si chiamava «narrativa»; eppure già allora funzionava, visto che portò un giovane comunista con l’orecchino al governo della Puglia, e ce l’ha tenuto per dieci anni.

Ma l’arte di governare la realtà, per sua natura confusa e caotica, fingendo di seguire un preciso disegno di cambiamento della società, ha anche i suoi rischi. Soprattutto quando chi è al potere cede alla tentazione di presentarsi come un vendicatore dei torti del passato e il paladino di una nuova era di giustizia sociale. A furia di aizzare la sete di giustizia, infatti, si possono creare più aspirazioni di quante sia possibile realizzare, e anche meno giuste, e talvolta addirittura puramente egoistiche e vendicative. È per questo che le società più dinamiche sono quelle dove è il lavoro, non la spesa pubblica e la sua gestione da parte del potere politico, a fare la giustizia sociale.

Il dibattito in corso sulle pensioni ne è un ottimo esempio. Ormai chiunque ne parli dice di farlo in nome della «giustizia sociale». In tv si sente dire che il rimborso non è andato a tutti i pensionati perché non sarebbe stato «equo», mentre in realtà, e più semplicemente, non sarebbe stato possibile. Oppure si sostiene ormai abitualmente che il sistema «retributivo», quello dei padri e dei nonni già in pensione, è «iniquo», un furto al quale verrà presto posto rimedio con la restituzione del maltolto, mentre il sistema contributivo, quello dei figli, sarebbe «equo».

Si crea così una costante ansia nei destinatari delle prestazioni dello Stato sociale, un guardarsi l’un l’altro in cagnesco, tra categoria e categoria, e anche una pericolosa incertezza sul futuro: probabilmente anche per questo i consumi non ripartono come dovrebbero, perché in attesa di capire come va a finire questa «rivoluzione» molti preferiscono ricostituire il risparmio bruciato dalla crisi, non si sa mai. Si ingenerano oltretutto aspettative eccessive: non c’è gruppo sociale che prima o poi non avvertirà il suo sacrosanto diritto di ricevere anch’esso un bonus, o di vedersi destinato il famoso «tesoretto» (a proposito, il termine porta davvero male, basta evocarlo e sparisce nel giro di poche ore), o di essere stabilizzato (una delle ragioni della tensione sulla riforma della scuola sta nel fatto che si è distinto tra i precari meritevoli di assunzione e quelli che invece dovevano ritornare in purgatorio).

Ma soprattutto non sempre si fa davvero giustizia sociale. Due esempi. Per giudicare l’equità di un trattamento pensionistico si usa spesso il metro dell’entità dell’assegno: più alto è, più iniquo è. Ma in realtà il vituperato sistema retributivo penalizza le pensioni più alte, per redditi superiori ai 45 mila euro, cosa che con il contributivo non avverrà. Inoltre non si usa mai un altro criterio: e cioè per quanti anni si è versato contributi. Pensate che in Italia si pagano ancora 9 miliardi e mezzo l’anno ai baby pensionati che hanno lavorato 14 anni, 6 mesi e un giorno. Magari non sono pensioni alte, ma forse sono più inique di quelle alte però frutto di quaranta anni di lavoro. D’altra parte, questa accusa di iniqua generosità verso gli anziani mossa al retributivo non sempre ha fondamento. Ci sono quasi cinque milioni di pensionati col retributivo che non raggiungono nemmeno il minimo (intorno a 500 euro), tant’è che lo Stato versa ogni anno all’Inps 25 miliardi per integrare il loro assegno. Mentre a danneggiare i lavoratori giovani non è certo il contributivo, sistema che anzi consente di utilizzare tutti i contributi versati nella vita lavorativa, ma la precarietà occupazionale, le lunghe pause di disoccupazione o sottoccupazione, tutte cose con cui il regime pensionistico c’entra ben poco.

Sarebbe dunque consigliabile non usare con leggerezza l’argomento dell’equità. Accendere l’invidia sociale tra classi di età e categorie di lavoro può essere utile per dividere e imperare sull’opinione pubblica, ma danneggia gravemente la coesione nazionale. E Dio sa quanto un Paese in bilico tra uno scatto verso la crescita e una ricaduta nella depressione ne abbia bisogno.

20 maggio 2015 | 09:43
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_maggio_20/mito-giustizia-sociale-puo-essere-alibi-ingannevole-061a4fac-fec2-11e4-ab35-8ecb73a305fb.shtml
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« Risposta #100 inserito:: Giugno 02, 2015, 11:55:52 am »

Dopo le regionali
Gli alleati che servono a un leader

Di Antonio Polito

Anche dopo le Regionali, Renzi resta il dominus della politica italiana. Non era scontato. Nella notte elettorale è stato a soli sessantacinquemila voti dalla sconfitta. È la distanza che separa in Campania De Luca da Caldoro. Avesse perso anche a Napoli, oltre che a Genova e in Veneto, oggi racconteremmo un’altra storia. Forse adesso è più chiaro perché il premier ha sfidato la logica e la legge per sostenere il candidato-condannato: in realtà era lui ad aver bisogno di De Luca.

Così la partita è finita con un pareggio, una Regione persa e una presa, tutto sommato non male per uno che governa da un anno e mezzo. Renzi era abituato a levitare nei sondaggi come il guru del film di Sorrentino. Il voto di domenica lo ha riportato con i piedi per terra, ma senza farlo sbattere.

È scomparso invece nelle urne il Partito della Nazione, come era stato definito il Pd renziano, che un anno fa alle Europee prendeva il 40% e che ambiva a ereditare i voti berlusconiani in libera uscita. È stato sostituito dal solito Pd, fatto di baronie locali al Sud e di stagionati mandarini nelle regioni rosse. Più ancora che in Liguria, il progetto di sfondamento al centro esce sconfitto dal Veneto, dove il Pd torna all’irrilevanza dei tempi diessini, schiacciato dalla Lega e mangiucchiato dai centristi di Tosi. E lì non si può neanche dare la colpa alla minoranza interna. Se si fosse già chiusa la finestra di opportunità apertasi appena un anno fa nella Valle Padana, cuore politico e sociale del moderatismo italiano, il nuovo partito di Renzi sarebbe già vecchio.

Tutto ciò chiama in causa il problema delle alleanze, politiche e sociali. Il percorso di riforme avviato dal governo deve proseguire, non è certo meno necessario. Ma per riprendere il passo, forse il premier dovrà rinunciare a qualche tifoso per cominciare a farsi qualche alleato. La solitudine del leader è una condizione quasi inevitabile, ma il riformismo dall’alto è un errore già visto. La ricerca spesso deliberata dello scontro con i corpi intermedi non ha dato stavolta i frutti sperati. Così si rischia di pagare il prezzo più alto proprio quando si ha più ragione, come sulla scuola.

Paradossalmente Renzi potrebbe essere aiutato in questa maturazione da un altro effetto del voto regionale. Il secondo posto, il ruolo cioè di potenziale sfidante al ballottaggio dell’Italicum, non è andato ai Cinque Stelle, nonostante l’ottimo risultato, ma a un centrodestra che nessuno sa esattamente cosa sia e da chi possa essere guidato, ma tutti hanno capito che esiste e che quando è unito, anche alla bell’e meglio, è ancora in grado di vincere, come in Liguria. Per il premier è una buona notizia, può aiutarlo a evitare peccati di orgoglio. Un’opposizione competitiva fa bene ai governi. Sta a Renzi sfruttare al meglio il tempo, non breve, che ci vorrà prima che diventi una reale alternativa.

2 giugno 2015 | 09:04
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_giugno_02/gli-alleati-che-servono-un-leader-5d9c7a5a-08e7-11e5-8a3c-2c409b81767d.shtml
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« Risposta #101 inserito:: Giugno 21, 2015, 05:20:20 pm »

Le sconfitte socialdemocratiche
Sinistra di governo
Pensieri e parole da ritrovare
La caduta dei socialdemocratici in Danimarca e quel che significa

Di Antonio Polito

Come i dinosauri, anche il gigante della socialdemocrazia rischia l’estinzione? Le dimissioni presentate ieri alla regina di Danimarca da Helle Thorning-Schmidt, la più glamour dei leader della sinistra europea (Renzi escluso), sembrano l’ultimo segno di un destino crudele, e forse irreversibile, che si sta abbattendo sulla storia centenaria del riformismo. La vicenda danese è altamente simbolica. La giovane premier, sposata col figlio di Neil Kinnock, storico capo del laburismo britannico, non esce infatti di scena per una delle solite oscillazioni del pendolo elettorale; ma è stata travolta dal boom di quella destra anti-immigrati che dal circolo polare in Norvegia fino alla linea gotica in Italia sta rubando voti alla sinistra in nome di un «sacro egoismo» nazionale.

È il male oscuro che divora le radici di una storia ispirata all’uguaglianza e alla fraternità. Per tenere insieme i suoi valori la socialdemocrazia ha sempre avuto bisogno di molti soldi, di crescita economica e forte tassazione, per pagare un sistema di welfare che è diventato il vanto del Vecchio Continente, ma oggi ne è anche la soma. La spesa pubblica non può più essere la misura della giustizia sociale, e la sinistra riformista non ha ancora trovato un altro modo di finanziarla. A soffrirne di più sono proprio gli elettori del tradizionale blocco sociale progressista. Nei quartieri dove sono nati il sindacato e il movimento cooperativo ora si aggirano disoccupati, giovani maschi arrabbiati, ceti medi impoveriti ed esposti alla concorrenza dei nuovi arrivati per la casa, per il lavoro, per l’assistenza.

Nelle società senza poveri, in Svizzera o negli Emirati, i lavoratori stranieri fanno meno paura, anzi, sono accettati come i nuovi servi. Ma non è così a Rotterdam, ad Anversa, o a Dresda. La sinistra riformista ha finora trovato una sola risposta: l’appello alla tolleranza e al cosmopolitismo. Ripete l’antico mantra di Roosevelt, non dobbiamo aver paura che delle nostre paure. Ma la gente ha paura lo stesso. Anche quando non va a destra, è attratta da un nuovo populismo non meno nazionalista, come Syriza in Grecia, Podemos in Spagna, e Grillo in Italia. La socialdemocrazia sta perdendo la battaglia delle idee. E se un movimento politico smette di saper parlare al presente può anche estinguersi, come successe ai liberali inglesi in pochi anni dopo la Grande guerra, o come profetizza Houellebecq accadrà tra breve ai socialisti francesi. Per quanto Renzi non faccia parte, né per cultura né per stile, della storia della sinistra socialdemocratica, neanche il suo Pd può ritenersi immune da questo sommovimento continentale. Neanche la ripresa economica, di per sé, mette oggi al riparo dalla rabbia e dalla paura. Alla danese Helle, di certo, non è bastata.

20 giugno 2015 | 08:46
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DA - http://www.corriere.it/editoriali/15_giugno_20/sinistra-governo-pensieri-parole-ritrovare-dcf8a898-1709-11e5-86ef-d7e3d30aa75b.shtml

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« Risposta #102 inserito:: Giugno 25, 2015, 07:49:08 pm »

Un nuovo galateo delle dimissioni per distinguere tra sommersi e salvati
Castiglione e Marino: cosa spiega la disparità di trattamento?

Di Antonio Polito

Ci vorrebbe un Giovanni della Casa, che scrivesse un moderno galateo delle dimissioni. Perché, e non da oggi, non ci si capisce più niente. Mettete il caso Roma. Si sa che il premier vedrebbe di buon occhio le dimissioni del sindaco Marino, il che conferma il suo ottimo orecchio per gli umori popolari. Ma appena ieri lo stesso premier ha chiesto e ottenuto dalla Camera di respingere la richiesta di dimissioni del sottosegretario Castiglione. I due uomini politici sono accomunati dal fatto di essere finiti nella bufera dell’inchiesta giudiziaria di Mafia Capitale; solo che Marino non è indagato, e anzi molti giurano pubblicamente sulla sua onestà, mentre Castiglione è indagato per turbativa d’asta, a proposito degli affari di Odevaine nel centro di accoglienza di Mineo. Che cosa spiega questa disparità di trattamento?

Sembrerebbe chiaro che nella scelta tra i sommersi (Marino) e i salvati (Castiglione) sia prevalso un benemerito rifiuto del cosiddetto «giustizialismo»: la nuova politica non vuole più prendere ordini dalle procure. Ma qual è allora il criterio squisitamente politico che è stato seguito? Marino deve cadere perché fa perdere voti al suo partito (Pd), mentre Castiglione deve restare perché li fa prendere al suo (Ncd)? Oppure ancora, più brutalmente, Marino se ne deve andare perché ogni giorno in più alla guida del Comune di Roma in evidente stato di alterazione danneggia Renzi, mentre la cacciata di Castiglione danneggerebbe Alfano e di conseguenza il governo Renzi?

In entrambi i casi, comprendiamo le ragioni della politica. Del resto sono le stesse che hanno finora sconsigliato di far dimettere i sottosegretari a vario titolo indagati ma hanno consigliato di far dimettere il ministro Lupi non indagato. E che consigliano di sospendere al più presto - come ieri ha promesso Renzi - il governatore fantasma della Campania Vincenzo De Luca condannato in primo grado e ciononostante candidato ed eletto.

24 giugno 2015 | 09:30
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_giugno_24/marino-castiglione-sommersi-salvati-pd-ncd-aca15718-1a41-11e5-9695-9d78fe24c748.shtml
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« Risposta #103 inserito:: Luglio 09, 2015, 07:19:49 pm »

Una mossa per evitare il peggio

Di Antonio Polito

I leader europei, tra i quali bisogna comprendere fino a prova contraria anche Alexis Tsipras, si trovano di fronte a quello che Immanuel Kant avrebbe definito un imperativo categorico: salvare la Grecia senza dannare l’Europa. Salvare la Grecia è ciò che hanno chiesto a gran voce gli elettori nel referendum di Atene, una vera e propria irruzione della democrazia diretta nella sofisticata architettura inter-governativa dell’Unione.

Ma Merkel e Hollande hanno ragione quando ricordano che la democrazia esiste anche negli altri 18 Paesi dell’euro, e che nessuno di questi può essere costretto ad accettare una soluzione che spazzi via le regole su cui si regge il condominio, così mettendo l’Europa nelle mani di ogni demagogo che volesse agitare la bandiera del ricatto nazionalista.

Stretti in questo paradosso, mai così vicini all’abisso, barcollanti come novelli sonnambuli, i leader dell’Unione sembrano però essersi fermati ieri a un passo dall’irreparabile. Ha cominciato il governo Tsipras, offrendo al resto dell’Europa le dimissioni (o il licenziamento) dell’eroe simbolo della rivolta greca. L a notizia che Varoufakis non sarà più al tavolo del negoziato è talmente buona per i fautori di un compromesso che ha perfino rallentato la caduta dei mercati, evitando che si trasformasse in panico (ed è stata accolta con entusiasmo anche dall’agente letterario del ministro-star, il quale ha subito cominciato a far circolare estratti del suo ultimo libro). Alla notizia greca ha fatto seguito il pronunciamento dell’asse franco-tedesco che, pur essendo sempre più tedesco e meno franco, ha adottato la parola d’ordine delle «porte aperte». Considerando che l’ultima volta a sbattere la porta era stato il governo greco, lasciando la trattativa e convocando il referendum, è un passo avanti.

Infine è arrivato il segnale del Fondo Monetario, che si è dichiarato disposto ad «aiutare la Grecia» se gli sarà proposto un piano di rientro; una posizione che sembra fatta apposta per assecondare le pressioni dell’amministrazione Obama, ansiosa di mettere pace tra gli europei e di evitare una nuova turbolenza sull’economia globale. Ma il peggio non è affatto evitato. Il tempo scorre inesorabile. Le scelte del governo greco, seppure sostenute dall’elettorato, comportano che le banche resteranno chiuse per altri due giorni e chissà fino a quando, agli sgoccioli di liquidità. Tra tredici giorni appena scade la rata di 3 miliardi e mezzo che la Grecia deve alla Bce, e se non sarà rimborsata Draghi non potrà più prestare soldi a chi non ha garanzie da offrire. Resta poi intatto l’enorme problema del debito greco: tagliarlo, o anche ristrutturarlo, sarebbe vitale per Tsipras ma potrebbe essere letale per Merkel, che non saprebbe come spiegarlo ai tedeschi (anche loro votano).

In definitiva si è tornati, solo in condizioni un po’ peggiori, allo stallo di una settimana fa, che poi era lo stallo di una settimana prima e di quella prima ancora. La Grecia è stata nella sua storia la patria della razionalità classica, ma anche della tortuosità levantina. Sarà bene che prevalga la prima. L’onere della mossa iniziale tocca al suo governo, che se l’è conquistato con il plebiscito ottenuto da Tsipras. Speriamo che sia una mossa saggia.

7 luglio 2015 | 08:24
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_luglio_07/mossa-evitare-peggio-dd7dd33a-2468-11e5-8714-c38f22f7c1da.shtml
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« Risposta #104 inserito:: Luglio 30, 2015, 10:14:19 pm »

Il grande collasso di Roma
È importante capire, e sempre meno sembra capirlo l’opinione pubblica nazionale, che Roma non è così perché è Roma, ma perché è Italia

Di Antonio Polito

Si dice che la fortuna è cieca, ma la sfortuna ci vede benissimo. Deve esserci dunque una ragione se ha deciso di accanirsi con tanta sadica ostinazione su Roma, facendo della Capitale l’epicentro e il simbolo della crisi italiana.

Per quanto eterna, la città ricorderà a lungo questa estate nera, un vero e proprio groviglio di fallimenti tecnici, errori umani, sabotaggi e disfatte morali. Guardate che cosa è successo nella sola giornata di ieri. L’aeroporto di Fiumicino, porta d’ingresso e di uscita del turismo nazionale, è rimasto bloccato per la seconda volta in pochi mesi a causa di un incendio, stavolta pare doloso, al punto che Alitalia minaccia di lasciarlo, avendo già subito danni per 80 milioni di euro. Renzi ha chiamato Alfano e gli ha detto che è «impensabile» che un hub così importante sia bloccato da incidenti o peggio ancora da azioni criminali. Ma invece è pensabilissimo, sono mesi che Fiumicino è un inferno. A sei chilometri di distanza, a Ostia, le Fiamme gialle hanno sequestrato su ordine della procura il porto turistico della città, coinvolto nell’inchiesta su Mafia Capitale. E mentre in Campidoglio si cambiava la terza giunta in poco più di un anno e mezzo, il Viminale faceva sapere che l’inchiesta giudiziaria ha rivelato «gravissimi episodi» nell’attività dell’amministrazione Marino, che il sindaco ha sottovalutato. Tutto ciò mentre il presidente del Consiglio non manca di farci sapere ogni giorno che quel sindaco, per incidens del suo partito, non è all’altezza di Roma, ma che Roma è all’altezza delle Olimpiadi del 2024. Meno male che a ottobre comincia il Giubileo, una benedizione divina è a questo punto fortemente opportuna.

Il collasso capitale ha però una spiegazione umana, molto umana. L’intera struttura logistica e di servizi sta crollando sotto il peso di una manutenzione a lungo trascurata. Le società complesse sono vulnerabilissime, si fondano su meccanismi automatici e sulla fiducia nel fatto che funzionino, basta un filo elettrico scoperto o un mucchio di sterpaglia non rimossa per rovinare le vacanze di migliaia e migliaia di persone. La manutenzione è la chiave della modernità, e se smetti di farla, o non hai più i soldi per farla, o non hai più le competenze per farla, scivoli in un istante dal primo al secondo mondo, dall’Europa al Maghreb. Che è, più o meno, ciò che sta accadendo a Fiumicino, o alle strade di Roma minate dalle buche, o agli autobus dell’Atac perennemente guasti; ciò che ha denunciato il Corriere nella sua inchiesta sul Grande Degrado con gli articoli di Rizzo e Stella. Figurarsi poi se all’incuria si aggiunge il sabotaggio.

Ma anche la corruzione, la penetrazione dei poteri criminali, l’asservimento del denaro pubblico alla avidità privata, in fin dei conti è un problema di manutenzione. Politica ed etica. Anche in quel campo ci vogliono persone capaci e vigili al comando, a prevenire e a controllare che prevalga sempre l’interesse generale. Quello che la giunta Marino non è riuscita a garantire. Quando il sindaco si difende dalle accuse dicendo che il sistema Mafia Capitale non è stato prodotto da lui ha ragione. Ma la sua colpa non è ciò che ha fatto, è ciò che non ha fatto mentre era lui di guardia, ed è lecito dubitare riesca a farlo ora che ha scambiato un paio di assessori con un paio di deputati. È però importante capire, e sempre meno sembra capirlo l’opinione pubblica nazionale, che Roma non è così perché è Roma, ma perché è Italia.

Non si può passare in un anno dalla esaltazione planetaria per la sua grande bellezza alla denigrazione antropologica di una città e del suo popolo. Una celebre inchiesta giornalistica dell’Espresso degli anni Cinquanta titolava «Capitale corrotta, Nazione infetta». Temo che oggi la metafora si sia rovesciata, e che sia la Nazione infetta a mostrare la sua ferita più purulenta sul volto deturpato della Capitale. È il governo della Repubblica, in una parola, che si gioca su Roma una parte cospicua della sua credibilità internazionale e affidabilità interna. Il giochino dello scaricabarile tra Campidoglio e Palazzo Chigi deve insomma finire. Tra i due Palazzi ci sono poche centinaia di metri di distanza. Parlarsi non dovrebbe essere un problema, almeno finché reggono le linee telefoniche.

30 luglio 2015 (modifica il 30 luglio 2015 | 14:15)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_luglio_30/grande-collasso-roma-be050ee8-3678-11e5-99b2-a9bd80205abf.shtml
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