LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. => Discussione aperta da: Admin - Giugno 15, 2011, 06:48:08 pm



Titolo: Antonio POLITO
Inserito da: Admin - Giugno 15, 2011, 06:48:08 pm
REFERENDUM / 1

Una lunga stagione al tramonto

Se il voto delle Amministrative era stata una sberla, questo è un Ko per il centrodestra. Non solo per i numeri. I quali, però, sono imponenti. A Milano e a Napoli, vittoria e sconfitta si giocarono su poche decine di migliaia di voti. Qui si tratta di quasi ventisette milioni di italiani che sono andati alle urne o nel deliberato intento di colpire Berlusconi, oppure mettendo tranquillamente nel conto questo effetto politico (compresi Maroni e Zaia, Polverini e Alemanno). Ma c'è di più. Se alle Amministrative il centrodestra aveva perso per la diserzione di tanti suoi elettori che si erano astenuti, stavolta ha perso per la partecipazione attiva di milioni di suoi elettori in dissenso.

Curiosamente, ancora una volta tocca a un referendum suonare la campana finale di un'era politica. Quello sul divorzio del '74 chiuse l'epoca d'oro della Dc e ne avviò la lunga crisi; quello sulla preferenza unica nel '91 annunciò l'esplosione del regno di Craxi; questo del 2011 sarà molto probabilmente ricordato come il punto più basso dell'epopea berlusconiana.
Prima o poi, doveva accadere. Si compie oggi il decennio di governo del Cavaliere: se si esclude la breve parentesi del '94, è dal 2001 che Berlusconi governa l'Italia, per otto anni su dieci.

La Thatcher ha retto undici anni. Tony Blair dieci. Gli elettorati democratici sono pazienti e tolleranti, ma ogni tanto si alzano in piedi come giganti e si scrollano dalle spalle il passato. Il verdetto elettorale della primavera italiana è così inaspettatamente netto che non vale neanche più la pena di discettare sulle cause di questa crisi di rigetto, se sia più etica o estetica, politica o economica. Fosse il Pdl un partito vero come i Tories o il Labour inglese, oggi inviterebbe il suo leader storico a sacrificare se stesso per salvare la ditta. Ma qui non sembra esserci in giro un Major che possa prendere in corsa il testimone e magari resistere un'altra legislatura. La transizione dunque non sarà né ordinata né rapida. Ci aspettano mesi convulsi. Berlusconi proverà di certo a succedere a se stesso, ma ormai la Lega ha fretta di slegarsi, e l'opposizione sente l'odore del sangue, penserà solo a sfruttare il magic moment elettorale.

A differenza degli altri referendum «epocali», che modernizzarono l'Italia, in questo caso però il gorgo del berlusconismo trascina con sé anche quelle poche velleità di riforma che avevano percorso il governo. La valanga travolge certamente una delle cose peggiori del centrodestra, la legge ad personam per antonomasia; ma cancella anche due decisioni lungimiranti, e cioè la riapertura dell'opzione nucleare e l'introduzione di un po' di concorrenza nel settore dei servizi pubblici. Ogni volta che ci lamenteremo per la mancata crescita (0,25% di Pil all'anno per dieci anni, secondo l'impietoso calcolo dell'Economist) dovremo ricordarci che in Italia non solo non si possono abbassare le tasse, ma non si può nemmeno tagliare la bolletta dell'energia o ridurre i deficit delle municipalizzate. E così è davvero difficile crescere.

Bisogna dunque ammettere che il vero trionfatore di questa tornata elettorale è Antonio Di Pietro. È stato lui che ha avuto l'ardire di raccogliere le firme sul legittimo impedimento alle feste dell'Unità, scommettendo sulla spallata elettorale a Berlusconi quando il Pd temeva le urne come i bambini temono l'uomo nero. È stato lui ad avere la furbizia di «spoliticizzare» l'iniziativa quando il disastro di Fukushima gli ha dato la spinta insperata verso il quorum. Ed è stato lui a trascinarsi così dietro Bersani, in rincorsa per far dimenticare il suo passato da liberalizzatore scritto sull'acqua.
Così, se da una parte il referendum segna senza dubbio una sconfitta storica di Berlusconi, come Bossi apertamente schierato per l'astensione, rivelando una perdita di sintonia con il Paese che per un grande comunicatore è già una sentenza; dall'altra parte non si può davvero dire che la coalizione arcobaleno che lo ha stravinto rappresenti un'alternativa pronta e spendibile, gonfia com'è di sospetto anti mercato e di rifiuto del privato e della concorrenza. Come i radicali potrebbero testimoniare, una cosa è vincere i referendum e un'altra è vincere le elezioni per il governo del Paese.

Antonio Polito

14 giugno 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_giugno_14/


Titolo: Antonio Polito I Soliti Noti del Ceto Medio sotto torchio
Inserito da: Admin - Agosto 14, 2011, 11:07:50 am
Tartassati

I Soliti Noti del Ceto Medio sotto torchio


Il dito medio di Bossi è arrivato a segno: sul ceto medio. Una volta era Cipputi, l'operaio di Altan, la vittima predestinata del mitico trattamento con l'ombrello. Ma ormai gli operai sono pochi, e già molto spremuti. Quando si tratta di stangare non restano che loro, quelli della middle class , né troppo poveri da meritarsi l'esenzione né troppo ricchi da garantirsi l'evasione. Gente che è facile trovare, perché sai dove abita e quanto guadagna, e lo sai per una ragione molto semplice: perché paga le tasse.

Prendete il cosiddetto contributo di solidarietà: è stato concepito come una tassa sui benestanti, e per questo è puntato sul segmento medio-alto dei contribuenti italiani: chi dichiara da 90 mila euro in su. E però questi fortunati, che poi guadagnano meno di 4000 euro netti al mese e tanto ricchi dunque non sembrano, sono appena mezzo milione di persone: solo l'1,2% di tutti coloro che pagano l'Irpef, ma il 19,6% dell'intero gettito. Sono cioè, tecnicamente parlando, i «soliti noti». Gente che hai già nel mirino, quindi non ti costa nulla premere il grilletto. Gente che non ha tempo di fare una scappatina in Svizzera a comprarsi una cassetta di sicurezza prima della manovra o che non ha la barca intestata alla società perché la società non ce l'ha proprio.

Quando si tratta di far soldi e di farli in fretta, è essenziale colpire chi è indifeso. Ciò che conta non è il reddito vero di chi si vuole spremere, ma la sua rintracciabilità. Prova ne sia il mezzo pasticcio che è successo con il contributo di solidarietà per gli autonomi. Il consiglio dei ministri aveva deciso che per loro sarebbe partito da una soglia più bassa, 55 mila euro, perché la differenza doveva «incorporare» l'evasione. I 55 mila di un autonomo, insomma, in Italia corrispondono ai 90 mila di un dipendente. Ma la norma è saltata perché la disparità di trattamento sarebbe incostituzionale, con il risultato che nella rete di autonomi ne resteranno davvero pochini. Siamo alle solite: questa storia spiega bene come l'ingiustizia all'origine del male sociale italiano, quella fiscale, si riproduca e si amplifichi all'infinito: chi paga più tasse ordinarie pagherà anche più tasse straordinarie, più addizionali, più una tantum, due tantum, tre tantum, in una catena di «progressività» che ha portato questa fascia di ceto medio a una tassazione oscillante tra il 48% e il 53%, senza paragoni in Europa. E pensare che si tratta esattamente degli italiani ai quali nel 2001, in una storica puntata di Porta a Porta, Berlusconi aveva promesso un'aliquota del 33%.

I giornali vicini al centrodestra sono allibiti. Arrivano a rimpiangere la «patrimoniale», che al ceto medio avrebbe fatto certamente meno male. Oppure se la prendono con Bossi, per quel dito medio che ha chiuso ogni discorso sui risparmi ben più cospicui, e soprattutto duraturi, che sarebbero potuti derivare da una riforma delle pensioni di anzianità, scrivendo così l'ultimo capitolo di una parabola che cominciò quasi vent'anni fa con Cofferati che urlava «le pensioni non si toccano» a un Berlusconi astro nascente, e si conclude oggi con Bossi che urla la stessa cosa a un Berlusconi sul viale del tramonto. Oppure chiedono la testa del commercialista Tremonti, che un contributo di solidarietà poteva chiederlo, come suggerisce il Pd, anche agli evasori, visto che sa di chi sono i capitali rimpatriati con lo scudo.

Ma non è solo l'Irpef. Tutto nella manovra sembra congiurare contro quel ceto che è così «medio» da non avere nessuna rappresentanza, nessuna «Conf» che lo protegga: né una Confindustria se è un padrone che non vuole la patrimoniale, né una Confederazione sindacale se è un operaio che non vuole perdere la pensione di anzianità, né una Confcommercio se è un commerciante che non vuole l'aumento dell'Iva. Gente senza nome e senza volto come gli statali, che per decenni si sono goduti lo Stato come datore di lavoro e ora ne pagano il fio, e perdono il Tfr per due anni e forse anche la tredicesima. E perdono pure i «ponti», vera grande riforma di questa manovra se mai sopravviverà all'ira popolare e all'iter parlamentare: perché i veri poveri i ponti li fanno a casa, i veri ricchi li fanno quando vogliono, ma è il ministeriale che vive sui ponti.

Nelle moderne società dei due terzi, i due terzi sono loro, il ceto medio. Sembra inevitabile che a pagare siano loro, ogni volta che c'è da pagare. Del resto succedeva anche con Amato e con Prodi. Però la nuova destra berlusconiana era nata proprio per capovolgere questo assioma, tagliando le mani dello Stato invece che le tasche del suo elettorato. Per questo la manovra d'agosto segna l'inizio di un'era nuova nella politica italiana. Ora che è stato tradito, che cosa farà il ceto medio?

Antonio Polito

14 agosto 2011 09:46© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_agosto_14/Soliti-Noti-Ceto-Medio-sotto-torchio-polito_f0e7ad9e-c646-11e0-a5f4-4ef1b4babb4e.shtml


Titolo: Antonio POLITO LE INCOGNITE DEL DOPO CAVALIERE
Inserito da: Admin - Novembre 04, 2011, 02:24:45 pm
LE INCOGNITE DEL DOPO CAVALIERE

Una terra sconosciuta

Se anche Papandreou fosse costretto a lasciare, l'Italia resterebbe l'unico tra i Paesi a rischio a conservare il primo ministro di prima: Portogallo e Irlanda hanno infatti già cambiato governo e la Spagna sta per farlo. Sembra però ogni ora più impossibile che questa anomalia italiana sopravviva. Il premier ha assicurato ieri al G20 che il nostro debito pubblico è coperto dalla ricchezza privata. Ma i governi possono esaurire il loro capitale politico ben prima di esaurire i capitali e i patrimoni da tassare.

L'era Berlusconi sta dunque chiudendosi nel peggiore dei modi. Per un governo di centrodestra, infatti, perdere la fiducia dei mercati finanziari è il colmo, la misura di un fallimento. Resta da vedere chi saprà riconquistarla. L'impressione è che quegli stessi mercati se lo stiano già chiedendo; e, a giudicare dallo spread, senza risposta.

Tutto ruota intorno alla sinistra, intendendo per essa l'alleanza di Vasto, con il Pd al centro e Di Pietro e Vendola alle ali. Questa coalizione oggi dispone, secondo i sondaggi, del maggior numero di consensi in caso di elezioni. E la sua forza parlamentare sarebbe decisiva anche in caso di un governo d'emergenza. La domanda è: ci si può contare per un programma da lacrime e sangue, del genere che ci viene richiesto?

Già porsi questo interrogativo, che non a caso ha rivolto anche il capo dello Stato a Bersani, segnala l'esistenza di un problema. Se infatti il centrodestra italiano è così anomalo da aver spaventato i mercati, il centrosinistra, fin dai tempi del primo Prodi e del suo professore Andreatta, è stato sempre anomalo nel senso opposto, avendo privilegiato il rigore e l'austerità. Oggi non è più così. Quando Di Pietro definisce la lettera della Bce «macelleria sociale» e i «giovani turchi» della segreteria Bersani vorrebbero restituirla al mittente, c'è da dubitare del sostegno reale che questi partiti potrebbero dare a un governo di salute pubblica, quand'anche il nome del suo premier fosse da solo un programma. Ma c'è di più: un sentimento nuovo, che s'è diffuso nella cultura di questa parte politica, e che è ormai espresso con sempre maggior chiarezza dai suoi polemisti e maître à penser.

Questo nuovo senso comune, forse eccitato dal riapparire di un movimento di protesta anticapitalista globale, pretende di mettere in opposizione democrazia e mercato. Sostiene che se si obbedisce al mercato si disobbedisce inevitabilmente al popolo. Dimenticando che ogni democrazia, persino quella greca, può liberamente mandare a quel paese anche l'euro, purché ne accetti le conseguenze. I cosiddetti mercati non impongono nulla all'Italia: è l'Italia che con una certa frequenza va a chiedere loro i soldi per tenere in piedi lo Stato, compreso quello sociale. Il nuovo mood «indignato» che seduce la sinistra applaude i mercati se bocciano Berlusconi, ma li demonizza se ci chiedono sacrifici. Intima anzi di rinnegare le esperienze sprezzantemente definite «riformiste» di Clinton e Blair, perché troppo cedevoli ai mercati.

La crisi, insomma, ha cambiato anche la sinistra. Altre volte, nel corso di questa tormentata seconda repubblica, si sapeva con che cosa si sostituiva Berlusconi. Stavolta si ha l'impressione di avventurarsi in una terra sconosciuta. E anche se il cammino è obbligato, perché dietro di noi è rimasto solo il deserto, ciò non di meno bisogna riconoscere che, per ora, stiamo camminando al buio.

Antonio Polito

04 novembre 2011 08:27© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_novembre_04/polito-terra-sconosciuta_c011ed5e-06ad-11e1-b2db-bf661a45e1f2.shtml


Titolo: Antonio POLITO. Tirare dritto badare al sodo
Inserito da: Admin - Novembre 15, 2011, 11:48:55 am
LE SCELTE DEL PROFESSORE E I PARTITI

Tirare dritto badare al sodo

Le notizie secondo le quali il governo Monti equivarrebbe a una sospensione della politica democratica sono grandemente esagerate, come disse quel tale di cui era stata annunciata la morte mentre era vivo e vegeto. Sarà infatti la politica democratica, liberamente, a dargli o non dargli la vita nel solo modo che essa conosce: con il voto del Parlamento. Altrettanto esagerata, anche se più vicina al vero, è l'affermazione che il governo nasce per volere dei mercati. I quali, se così si può dire, hanno certamente votato la sfiducia a Berlusconi, anche se gli hanno dato tre mesi di tempo per salvarsi e quel tempo non è stato sfruttato. Però non votano loro la fiducia a Monti. Anzi, la giornata di ieri dimostra che la strada sarà lunga, la fatica sarà tanta, e che nemmeno Mario Monti è come il confetto Falqui di una celebre pubblicità, quel medicinale al quale per fare il suo effetto bastava che se ne pronunciasse il nome.

Più che della politica e dei mercati, il governo Monti, se e quando nascerà, sarà invece l'effetto di un vasto moto di opinione pubblica. Composto, per la prima volta insieme dopo tanti anni, da chi non ha mai votato Berlusconi e da tanti che l'hanno sempre votato ma ora chiedono a qualcun altro di tirarci fuori dai guai, perché il loro beniamino se n'è dimostrato incapace. Questo consenso non partisan, registrato dai sondaggi e non certo attribuibile né alla popolarità di Monti né al suo appeal mediatico, è un fatto nuovo e altamente positivo, anche se condizionato e a tempo. È una prova di maturità del Paese che offre una provvidenziale finestra di opportunità per fare le cose difficili e impopolari che vanno fatte. Il premier incaricato, nel comporre il suo dicastero, deve esserne consapevole e deve farsene forza. Oggi quella opinione pubblica gli chiede di non accettare veti dai partiti, e di fare così in fretta da non autorizzare neanche il sospetto che li stia accettando.

Qualsiasi governo in democrazia deve ricercare il sostegno popolare. Perfino un governo non generato dal lieto evento delle elezioni, bensì dall'infausto caso di un'emergenza nazionale. Ma è da dimostrare che oggi quel consenso sia rappresentato dagli stati maggiori di partiti esausti come la Lega, che si sottrae perfino ai doveri istituzionali e diserta l'incontro con il presidente incaricato pur di non rinunciare alla sua propaganda.

Monti può trovare lo strumento che gli serve nella Costituzione, in quell'articolo 92 che non è caduto in prescrizione solo perché nessuno lo usa mai. Si scelga i suoi ministri senza contrattarne i nomi. Chi non li gradirà potrà respingerli assumendosene la responsabilità in Parlamento. Il futuro premier deve permettersi, almeno adesso, di non comportarsi da politico pur senza diventare impolitico. Due esempi di veti incrociati cui ha tutte le ragioni di resistere: il Pdl non ha un diritto naturale a scegliere il ministro di Giustizia; e il Pd non ha il diritto di definire la eventuale nomina di un suo senatore, Pietro Ichino, come una «provocazione».

L'altro parametro con cui non i partiti né i mercati, ma gli elettori giudicheranno il governo, sta in quanto sarà diverso dai precedenti, e quanto invece assomiglierà all'Italia reale, quella che studia, lavora, produce. Questa Italia è fatta anche di donne e di giovani, non solo di maschi sopra i sessantacinque con una cattedra universitaria. Per un premier che ha come programma quello di battersi contro i «privilegi», il primo segnale da dare è di essere consapevole del privilegio dell'età e del sesso che vige in questo Paese. E ieri ha annunciato che ne terrà conto aprendo le consultazioni anche a giovani e donne. Da tifosi del suo tentativo, ci auguriamo dunque che il professor Monti sarà capace di stupirci nella scelta dei ministri. Per quanto questa sia probabilmente la prima volta nella sua vita in cui si debba preoccupare anche del consenso popolare, è necessario farlo. La durata e il successo del suo tentativo dipenderanno innanzitutto da quanto gli italiani sentiranno il suo governo come il loro governo. Oggi, dopo tanti nani e ballerine, sono pronti ad accettarne uno serio e sobrio. Ma, proprio perché quel governo dovrà chiedere loro tanti sacrifici, è meglio che non sia anche grigio e novecentesco, o che appaia lontano e remoto dal volto della nazione che si propone di guidare fuori dal baratro.

Antonio Polito
15 novembre 2011 09:21© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/editoriali/11_novembre_15/polito_tirare-dritto_0dd76356-0f51-11e1-a19b-d568c0d63dd6.shtml


Titolo: Antonio POLITO. Il nodo da tagliare
Inserito da: Admin - Dicembre 09, 2011, 10:57:48 pm
Il nodo da tagliare

Esattamente vent'anni fa, in un altro weekend di dicembre, l'Europa della moneta nasceva a Maastricht. Può morire oggi a Bruxelles.
Gli esperti dicono che l'ora più nera nei vertici dell'Unione è sempre un attimo prima dell'alba: i politici accettano compromessi solo sul ciglio del burrone. Speriamo che anche stavolta la luce del sole dissolva l'incubo. Ma a Maastricht c'erano solo 12 Paesi, adesso se ne contano 27. E stamattina, se l'edificio non sarà crollato prima, si dovrebbe solennemente aggiungere il ventottesimo, la Croazia. Solo per fare un giro di tavolo, ci si mette un paio d'ore. E i mercati asiatici riaprono prima dell'alba.

In questi vent'anni l'Europa è cresciuta di peso e di altezza, ma lo scheletro e la testa sono rimasti quelli di allora: lo imponeva l'ambiguità di fondo del progetto, nato per nascondere la forza della Germania e la debolezza della Francia. Ciò che è cambiato è l'euro: dotandosi di una moneta unica, l'Europa ha voluto giocare la sua partita tra i pesi massimi del mondo, e c'è riuscita. Però per combattere a quel livello bisogna avere riflessi pronti, movimenti agili, unità d'intenti. L'Europa di oggi non ce l'ha. Per questo traballa sotto i colpi del mercato, e non riesce a reagire.

Cosicché nel drammatico vertice apertosi ieri e destinato a finire chissà quando, il nodo è arrivato al pettine: per salvare l'euro potrebbe essere necessario sacrificare l'Europa, o viceversa. Germania e Francia dicono infatti di sapere che fare per spegnere l'incendio dell'Acropoli e i focolai del Colosseo: centralizzare il comando. Ma non sanno come imporlo agli altri. In particolare a Cameron, il premier inglese, che ieri sera ha detto chiaro e tondo di essere disposto a cambiare i Trattati secondo il volere franco-tedesco solo se in cambio gli ridanno il suo potere di veto sui regolamenti finanziari che danneggiano la City. Nordici e scandinavi, dal canto loro, farebbero volentieri a meno del tallone teutonico.

Berlino e Parigi hanno il loro piano B: lasciare il tavolo dell'Europa a 27 e riunirsi da soli con i 17 dell'euro. Riscrivere così le regole che possono estendere la disciplina di bilancio tedesca a tutta l'area e alzare i necessari muri anti-incendio che possono salvare la moneta. Ma sanno anche che così seppellirebbero, insieme al sogno dei padri fondatori, le istituzioni europee (Parlamento e Commissione) e numerosi elementi del mercato unico. Non sarebbe più un'Europa a due velocità, che nei fatti già c'è. Sarebbero due Europe. Cioè nessuna, perché non esiste il plurale di Europa.

Che fare? Scegliere la borsa, cioè l'euro, o la vita, cioè l'Europa? Si può star certi che i leader europei estenueranno la trattativa alla ricerca di una terza via. È sconsigliabile. Non c'è più trucco che possa convincere né i mercati in tempesta né gli elettori terrorizzati. Meglio tagliare finalmente il nodo. Qualunque sia la soluzione, due cose devono essere chiare entro lunedì: chi è al comando e di quanti soldi dispone.

Antonio Polito

9 dicembre 2011 | 7:47© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_dicembre_09/polito-nodo-da-tagliare_0b46d622-2229-11e1-90ea-cfb435819ac4.shtml


Titolo: Antonio POLITO. Echi dalla Palude
Inserito da: Admin - Dicembre 14, 2011, 06:56:15 pm
Echi dalla Palude

Bentornati in Italia. Se per un attimo vi siete illusi che sarebbe bastato un manipolo di tecnici a scacciare i mercanti dal tempio di Montecitorio, ricredetevi. Non è così. La manovra, concepita come un blitz anti -spread , ha già assunto le più classiche movenze da palombaro della politica italiana, immergendosi in una trattativa talmente caotica che perfino un governo con una schiacciante maggioranza parlamentare dovrà forse ricorrere al voto di fiducia.

Sintomatica la battaglia che è infuriata sulle misure di liberalizzazione. Prima rinviate tutte di un anno, evidentemente nella convinzione che la crescita potesse attendere fino al primo gennaio del 2013. Poi, in extremis , il ripescaggio. Per i taxi, invece, nessun rinvio, ma addirittura l'esenzione totale. E sulla vendita libera dei farmaci di fascia C una vera e propria lotta di classe tra farmacisti e parafarmacisti; con i primi, molto ascoltati in Parlamento, pronti alla serrata pur di non perdere il sacro monopolio del collirio.

L'Italia delle corporazioni ha mostrato ieri i muscoli anche a uno come Monti, che pure su libero mercato e concorrenza ha costruito il suo prestigio in Europa. Come al solito, ha tentato di usare i partiti, che saranno pure in panchina ma quando si tratta di approvare le leggi giocano eccome. Si sa come funziona: tassisti e farmacisti non telefonano né a Monti né a Passera, ma ai politici protettori. I quali, a loro volta, telefonano a Monti e a Passera, che hanno bisogno dei loro voti. Eppure, a ben vedere, è proprio questa sottomissione al particulare la debolezza che ha portato la nostra politica, unica in Europa, a dover cedere lo scettro a un governo di professori. Affidata ora ai tecnici la missione del bene comune, è paradossalmente cresciuto il rischio che i partiti si trasformino sempre più in sindacati dei loro elettori o in comitati d'affari della borghesia delle professioni.

Ma anche per il governo la giornata di ieri suona la campana. Si dice che ogni manovra in Parlamento è come una lucertola, disposta a perdere un po' di coda pur di salvare la testa. Dove la testa sarebbero i saldi, conservati finora grazie all'unanimità che si registra sempre quando si tratta di aumentare la pressione fiscale inventando nuovi balzelli (notevole la tassa su immobili e attività finanziarie all'estero: non c'era il mercato unico in Europa?). Si vede che il ceto medio non ha protettori né in Parlamento né nelle piazze. Eppure la metafora della lucertola si adatta male al gabinetto Monti. Perché in questo strano animale la testa è la sua credibilità. Il sostegno di cui ancora gode nell'opinione pubblica, nonostante i sacrifici imposti, è basato sulla presunzione che i tecnici non faranno favoritismi per motivi di consenso. Ieri le forze politiche hanno festeggiato quel poco che sono riuscite a strappare ciascuna per la propria constituency . Ma se la gente si dovesse convincere che chi è protetto da un partito o da un sindacato continua a vincere anche con i tecnici al governo, allora a che servirebbero più i tecnici?

Antonio Polito

14 dicembre 2011 | 8:41© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_dicembre_14/polito-echi-palude_46922226-261c-11e1-97ba-d937a4e61a87.shtml


Titolo: Antonio POLITO. TROPPI EQUIVOCI SULLA CRESCITA
Inserito da: Admin - Dicembre 29, 2011, 03:40:48 pm
TROPPI EQUIVOCI SULLA CRESCITA

Non è un gioco a somma zero

È stato un anno di grande angoscia. Non solo perché abbiamo visto in faccia due potenziali apocalissi, ma anche perché sembrano in rotta di collisione l'una con l'altra. L'ha notato la scrittrice Sarah Dunant su Bbc News : ci è stato detto che lo sviluppo si deve fermare per salvare il pianeta, esausto dal suo sfruttamento; e ci è stato detto che solo lo sviluppo può salvare il nostro benessere, oberato dai debiti. La contraddizione è bruciante, e qualcuno ci perde la testa. I media che fino a ieri ospitavano moralistiche giaculatorie contro il consumismo, moderno oppio dei popoli, ora denunciano inorriditi il calo dello shopping natalizio e chiedono al governo di fare qualcosa. Tra lo tsunami in Giappone di marzo e quello nei mercati di ottobre, abbiamo visto in faccia il dilemma della crescita economica che accompagna fin dalla sua nascita l' homo capitalisticus.

Qualche luogo comune, intanto, è bene che crolli. Solo la crescita economica può migliorare la vita materiale degli esseri umani. Se guardiamo il mondo dalla Cina, per esempio, vedremo centinaia di milioni di uomini che in questi anni sono usciti dal medioevo dei loro villaggi, e hanno conquistato un lavoro e una speranza. Processo storico, e altamente positivo; che molto probabilmente ha però contribuito a causare migliaia di cassintegrati qui da noi, cosa tutt'altro che piacevole. È così che funziona il capitalismo: distrugge, per creare. Naturalmente il potere pubblico in Europa può e deve agire perché, distruggendo ciò che va distrutto, non si distrugga anche la vita delle persone. Ma pure per garantire l'equità sociale c'è bisogno di risorse economiche, e pure quelle vengono dalla crescita. Non c'è scampo: senza crescita, non vince nessuno e perdiamo tutti.

Invece, quanti sospetti intorno a questa parola, se perfino i metalmeccanici della Fiom hanno preso a manifestare contro lo sviluppo. L' Economist ha notato che, tecnologia a parte, le tre industrie di maggior successo degli ultimi cinquant'anni sono state la finanza, la farmaceutica e l'energia. Ma, guarda caso, tutte e tre sono estremamente impopolari, e vengono normalmente additate, dai film di Hollywood ai cortei no global , come la causa principale delle diseguaglianze, del cinismo e dell'inquinamento. Il fatto è che nella nostra cultura troppi ancora concepiscono la crescita come un gioco a somma zero, dove, se qualcuno ci guadagna, sicuramente c'è chi ci perde. E invece sono bastati due salti tecnologici come il computer e l' information technology a ribaltare il pessimismo che prese la classe colta dell'Occidente alla fine degli anni Settanta, quando anche allora sembrava che l'energia fosse in esaurimento, i mercati saturi, i consumatori esausti e lo sviluppo finito. Da allora, che cavalcata ha fatto il mondo! Così inebriante da spingere i più ottimisti a credere che il tempo dei cicli economici fosse definitivamente concluso e che «recessione» fosse una parola destinata a non essere mai più pronunciata. Troppa hybris , cioè troppa tracotanza verso il destino, e troppi debiti. E la recessione, ovviamente, è tornata. Purché sia chiaro che ogni crisi non è la fine: è anzi un'opportunità perché, come è scritto in un appello di Comunione e liberazione, chiama al cambiamento, frutto di una libertà in azione: e «la libertà presuppone che nelle decisioni fondamentali ogni uomo, ogni generazione sia un nuovo inizio» (Benedetto XVI, Lettera enciclica Spe Salvi , «nella speranza siamo stati salvati», dice San Paolo ai Romani).

Ai catastrofisti e ai teorici della decrescita andrebbe ricordata la scommessa che nel 1980 fecero l'economista Julian Simon e il biologo Paul Ehrlich. Quest'ultimo, assumendo un punto di vista malthusiano, predisse che a causa della crescita industriale e demografica nel corso dei dieci anni seguenti il prezzo di cinque metalli fondamentali non poteva che aumentare e diventare insostenibile. Perse la sua scommessa perché accadde esattamente il contrario. Oggi che è nato il bambino numero sette miliardi, c'è di nuovo chi scommette che con l'aumento dei prezzi dei beni alimentari e con il degrado crescente dell'ambiente non ce la faremo. È probabile, ma solo se smetteremo di crescere, di innovare, di inventare nuovi modi di produrre, nuovi prodotti, nuove risorse da sfruttare, magari rinnovabili. Il telefonino, che ai fustigatori del consumismo è apparso come una delle più futili infatuazioni dell'Occidente, ha consentito all'Africa di recuperare il suo divario di reti telefoniche fisse, rappresentando così un formidabile fattore di sviluppo, di comunicazione, di informazione.

Vale lo stesso per la finanza, buona se ci presta i soldi per pagare stipendi e pensioni ogni volta che ci servono, ma cattiva se ogni tanto si permette di fare domande sulla loro restituzione. Fu in Italia che nacque il mestiere di prestare danaro, e fu in Italia che subito si scontrò con la condanna della Chiesa. Essa era basata sul principio che chi commercia in denaro commercia in tempo, il tempo intercorrente tra prestito e riscossione durante il quale matura l'interesse. E il tempo, per definizione, appartiene a Dio, come racconta una bella mostra a Firenze sul rapporto tra arte e denaro. Ma che appartenga al Creatore o al Mercato, è proprio il tempo la materia prima che serve disperatamente a noi italiani del 2012. Perché se tra dieci anni i nostri figli dovranno pagare gli interessi che stiamo sottoscrivendo oggi, state pur sicuri che avremo smesso di crescere.

Antonio Polito

29 dicembre 2011 | 7:33© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_dicembre_29/non-e-un-gioco-a-somma-zero-antonio-polito_82dba750-31e5-11e1-848c-416f55ac0aa7.shtml


Titolo: Antonio POLITO - La pagliuzza e la trave
Inserito da: Admin - Gennaio 11, 2012, 11:53:59 am
A PROPOSITO DI LIBERALIZZAZIONI

La pagliuzza e la trave

Come Fiorello, che ne ricava un divertente video quotidiano su Twitter , ognuno di noi alla mattina va dal giornalaio, scambia due chiacchiere col benzinaio, saluta la farmacista, salta su un taxi. Sono giornate di grandi discussioni. Noi consumatori sosteniamo che se questi mestieri si aprissero a un po' di concorrenza, spenderemmo qualche euro in meno e avremmo qualche occupato in più. Loro ci mostrano i volti di gente modesta e lavoratrice, che di certo non ha passato le vacanze a Cortina, e che comincia a soffrire di una sindrome da accerchiamento. Su un punto hanno ragione: non meritano di portare da soli la croce dei ritardi italiani in materia di libero mercato, né di essere additati come l'ostacolo principale alla crescita.


L'altra sera in tv Antonio Catricalà ha detto che il governo sarà «senza pietà» con chi evade, e analoga inflessibilità ha annunciato nei confronti delle categorie cosiddette protette. Ma lo stesso sottosegretario, a una domanda sui vantaggi che porterebbe la separazione proprietaria tra Eni e Snam rete gas, ha invece risposto che «non è una priorità» del governo. Ora, poiché noi italiani paghiamo il gas fino al 50% in più del Paese più liberalizzato d'Europa, la Gran Bretagna (fonte Istituto Bruno Leoni), e poiché negli ultimi dieci anni abbiamo pagato il gas il 43,3% in più (fonte Cgia di Mestre), e poiché una famiglia tipo pagava 1.050 euro nel 2010 e ora ne paga 1.209 (fonte senatore Morando e onorevole Testa), ci domandiamo perché mai non sia una priorità intervenire in questo settore. Quanti giornalai e tassisti e farmacisti liberalizzati ci vogliono per fare un mercato del gas liberalizzato?


L'equità, stella polare dichiarata di questo governo, deve valere anche per i lavoratori autonomi e i professionisti. Prima di cercare la pagliuzza nell'occhio dei «piccoli» e dei «privati», bisogna rimuovere la trave in quello dei «grandi» e dei «pubblici». Sono infatti i mercati in cui il soggetto dominante è pubblico quelli dove c'è più grasso da raschiare. Negli ultimi quattro anni l'impennata maggiore l'hanno registrata le bollette dell'acqua (+25,5%) e i biglietti dei trasporti ferroviari (+23,6%), a fronte di un'inflazione del 4,9%. Si parla tanto di concorrenza nell'Alta velocità, ma pochi sanno che un recente decreto legge del governo Berlusconi proibisce ai concorrenti delle Fs sulle tratte regionali di effettuare fermate tra una regione e un'altra, con l'esplicita finalità di... evitare la concorrenza alle Fs, i cui treni locali sono sussidiati con i soldi dei contribuenti.
Quanto ci costa tutto ciò? E quanto ci costa spostare un conto corrente da una banca a un'altra? E quanto pesa sulle nostre bollette il grande business degli incentivi che paghiamo non solo alle energie «rinnovabili» ma anche a quelle cosiddette «assimilate», al punto che in Italia in nome dell'ambiente diamo soldi perfino ai petrolieri? E perché le tariffe della raccolta dei rifiuti urbani sono cresciute del 60% in dieci anni, e quelle delle assicurazioni auto quattro volte più dell'inflazione dal '94 a oggi?
Di barriere da rimuovere per liberare la crescita il governo ne ha dunque a sufficienza. Siccome è tecnico, non può avere timore di cominciare da quelle che proteggono i santuari più ricchi e più inaccessibili.

Antonio Polito

11 gennaio 2012 | 9:09© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_gennaio_11/polito-pagliuzza-trave_237254e2-3c1e-11e1-9394-8a7170c83e07.shtml


Titolo: Antonio POLITO Più che i partiti va convinto il Paese
Inserito da: Admin - Gennaio 21, 2012, 12:13:42 pm
LIBERALIZZAZIONI

Più che i partiti va convinto il Paese

Sarà pur vero che «si poteva fare di più e meglio», come dice Bersani, o che «il governo tecnico non sta dando frutti», come dice Berlusconi; ma vien da chiedere ad entrambi perché più e meglio non sia stato fatto in questi quindici anni, e quali frutti i governi dell’uno e dell’altro abbiano dato in materia di crescita economica. Il maxi-decreto contiene certamente prudenze e rinvii. Per esempio: in materia di professioni e mestieri non si è eliminato nessun monopolio, al massimo si è allargato il numero dei monopolisti. Ma certamente appare come il primo tentativo organico di trasformare l’Italia da Paese in cui dettano legge i fornitori dei servizi, organizzati e ben collegati alla classe politica, a Paese in cui contano anche gli interessi dei fruitori dei servizi, che non hanno né sindacati né associazioni a proteggerli.

Se questo tentativo riuscirà è tutto da vedere. A cominciare da ciò che accadrà in Parlamento quando queste misure, per avere il voto dei partiti, dovranno scendere a patti con i loro emendamenti. Ma a decidere davvero sarà l’atteggiamento del Paese: sosterrà il cambiamento? Si ribellerà? O starà alla finestra ad aspettare l’esito dello scontro tra il governo dei tecnici e le corporazioni? Dovunque in Europa cambiare è difficile. Il «buon professore» Monti, come lo chiama l’Economist, ha però un indubbio vantaggio. Un celebre aneddoto di Bruxelles racconta che, alla fine di un difficile vertice, il premier lussemburghese Juncker confessò ai giornalisti: «Il guaio è che tutti sappiamo quali riforme servono ai nostri Paesi, ma nessuno di noi sa come vincere le elezioni dopo averle fatte».

Monti questo problema non ce l’ha, e non solo perché alle prossime elezioni dice che non ci sarà. Ma anche perché, almeno finora, gli elettori sembrano concordare sulla necessità delle riforme che sta facendo, anche quando non le gradiscono. Le categorie protestano, praticamente tutte; l’opinione pubblica, che non è mai la somma delle categorie, approva. Pur nel pieno di decine di mini- rivolte sociali (quella dei tassisti è al limite del codice penale), i sondaggi dicono ancora sì a Monti; ma ancor più dicono sì alle liberalizzazioni. Anzi: il partito che più è apparso frenarle, il Pdl, cala nei consensi; mentre il partito che più le invoca, il Pd, cresce. Sembra essersi creata una bolla di riformismo, se così si può dire, nell’opinione pubblica. Un tedesco direbbe che questo è il bello della frusta dei mercati, perché solo sotto minaccia di fallimento un Paese come l’Italia si dà il coraggio di cambiare.

Un italiano potrebbe invece vederci la convenienza, la speranza cioè che le liberalizzazioni diano alle famiglie un risparmio se non equivalente quanto meno risarcitorio dell’aumento delle tasse e della riduzione delle pensioni. Anche perché in tempi di crisi come questi non ci sono molti altri modi di incrementare il reddito. Essendo una bolla, questo stato d’animo va però maneggiato con un’intelligenza che si dovrebbe definire «politica», se a praticarla non fosse un governo «tecnico». Innanzitutto perché l’esperimento non avviene in vitro, ma nella carne di un corpo sociale già sotto i ferri di una durissima recessione. Bisogna dunque ricordare sempre che se si mettono in crisi categorie, professioni e settori che già sono in crisi, senza produrre vantaggi economici evidenti, si commette un errore di arroganza intellettuale. Il secondo punto cruciale è l’equità.

I «grandi» e i «pubblici» non devono ricevere un trattamento di favore rispetto ai «piccoli» e ai «privati». Anche per spuntare questa critica il governo ha deciso di avviare finalmente quella separazione proprietaria tra Eni e Snam rete gas che nessun governo politico ha mai avuto il fegato di fare. Ma è anche vero che la stessa cosa non è stata fatta per le Fs e la rete ferroviaria, rinviando ogni decisione a una mega-Authority che assomiglia sempre più a un ministero. C’è poi un’altra prova di equità da dare. Comincia lunedì la trattativa per la liberalizzazione del mercato del lavoro, che vale almeno quanto l’aumento del numero delle farmacie. In quella sede il governo deve dimostrare che i poteri forti non hanno diritti di precedenza nemmeno se si chiamano sindacati e Confindustria.

Antonio Polito

21 gennaio 2012 | 7:39© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_gennaio_21/ma-piu-che-i-partiti-va-convinto-il-paese-antonio-polito_c1fb3696-43f9-11e1-8141-fee37ca7fb8c.shtml


Titolo: Antonio POLITO Il male greco è anche tedesco
Inserito da: Admin - Febbraio 28, 2012, 05:34:24 pm
COALIZIONE PIÙ DEBOLE PER MERKEL

Il male greco è anche tedesco

Per la prima volta da quando è cominciata la crisi dell'euro, Angela Merkel ha perso la sua maggioranza politica al Bundestag. Dei 330 voti di cui dispone il centrodestra, solo 304 hanno votato sì al secondo salvataggio della Grecia, sette in meno dei 311 seggi che fanno la maggioranza assoluta. Solo grazie al voto favorevole, ma molto critico, dell'opposizione socialdemocratica, il Bundestag ha autorizzato comunque con un amplissimo margine il nuovo piano da 130 miliardi per Atene. Ma l'indebolimento politico della Merkel è evidente. Oggi il 62 per cento dei tedeschi pensa che versare ancora soldi nel «pozzo senza fondo» della Grecia sia una follia. Lo ha gridato in prima pagina a titoli cubitali anche la Bild con un perentorio «Stop». E il ministro dell'Interno di Berlino ha rotto la disciplina di governo per dichiarare che sarebbe meglio il default, anche per i greci.

In queste condizioni è più difficile che la Merkel possa accettare nel vertice di fine settimana ciò che gli altri capi di governo dell'Europa si augurano, e cioè di portare a 750 miliardi di euro la dotazione complessiva dei fondi salva-Stati. Proprio quando sembrava che i nervi dei tedeschi si potessero rilassare insieme a quelli dei mercati (la Bce da due settimane non ha più bisogno di comprare titoli italiani e spagnoli), la doccia fredda del Bundestag ricorda a tutti che la crisi dell'euro è politica, prima ancora che finanziaria. E dunque ben lungi dall'essere risolta.

Tre lezioni si possono trarre dall'incidente di Berlino. La prima è che tutti coloro che, anche in Italia, accusano la Merkel di egoismo nazionale e di scarsa generosità nel salvare Atene, devono sapere che le cose potrebbero andare anche peggio se a prevalere fossero i sentimenti maggioritari nel popolo e nel parlamento tedesco. Del resto il primo salvataggio greco risale ormai a quasi due anni fa, e nemmeno la Merkel può escludere che ne sarà necessario un terzo. Ma il numero di volte in cui un governo può giustificare davanti ai propri contribuenti il salvataggio di un altro Paese è limitato. Forse in Germania il limite è già stato toccato.

Seconda lezione: non è proprio il caso di rilassarsi nemmeno in Italia. I progressi del nostro Paese ormai sono uno dei pochi argomenti efficaci in mano a chi sta provando a far ragionare i tedeschi. Se la minore pressione dei mercati si traducesse da noi in un annacquamento del programma di riforme, il danno non sarebbe solo interno. Non c'è nulla da temere di più che la mancanza di paura, chiosa l' Economist .
Terza lezione: si sta creando una tensione molto forte tra ciò che va fatto e ciò che gli elettorati sono disposti ad accettare, e questa tensione «democratica» è da sempre il pericolo maggiore per l'Unione, progetto di élite e tecnocratico per eccellenza. La Merkel è nei guai che abbiamo visto, e deve conquistarsi un terzo mandato l'anno prossimo. Ma già tra poche settimane in Francia una vittoria del socialista Hollande potrebbe portare alla richiesta francese di rinegoziare il Trattato fiscale appena varato. Senza contare che i sondaggi in Grecia pronosticano un trionfo di estremisti di ogni colore, e che in Italia nessuno sa chi governerà tra un anno, e se per vincere dovrà promettere di fermare la marcia delle riforme.

Neanche ancora scampato ai mercati, l'euro è ora nelle mani degli elettorati.

Antonio Polito

28 febbraio 2012 | 8:37© RIPRODUZIONE RISERVATA


Titolo: Antonio POLITO LA LEZIONE DI MARCO BIAGI, 10 ANNI DOPO
Inserito da: Admin - Marzo 17, 2012, 11:40:14 am
LA LEZIONE DI MARCO BIAGI, 10 ANNI DOPO

Il costo reale di tanti ritardi

Scusate il ritardo.

Dieci anni dopo l'assassinio di Marco Biagi, forse si riforma il sistema di ammortizzatori sociali; che poi in Europa si chiama Welfare , perché da noi serve ad ammorbidire le cadute e lì a rimettere in piedi chi cade. Dieci anni fa il governo Berlusconi non trovò i soldi per finanziare la riforma, si prese la flessibilità e buttò la protezione: rimase una « flex » senza « security ». Il governo di adesso dice che invece troverà i soldi: si vede che i tempi sono migliori. Ma non stretti però, visto che si partirà, pare, dal 2017.

Scusate il ritardo. Dieci anni dopo l'assassinio di Marco Biagi, personalmente attaccato dal segretario della Cgil del tempo, Sergio Cofferati, il segretario di oggi, Susanna Camusso, ammette: «La Cgil può avere fatto errori di personalizzazione, la personalizzazione è sempre sbagliata... credo possa aver confuso lo studioso con il governo...». Non una vera autocritica, ma sempre meglio di niente. Anzi, da parte dei nemici di allora è in corso una rivalutazione un po' truffaldina di Biagi, quasi come se fosse sempre stato un oppositore della «legge Biagi».

Scusate il ritardo. Quarantadue anni dopo lo Statuto dei lavoratori, forse si riforma un articolo di quella legge: il celebre, sacro, intoccabile 18. Pare che nel frattempo il mercato del lavoro sia infatti un po' cambiato: allora non c'erano la globalizzazione, gli immigrati, il computer, il cellulare, i voli low cost , l'euro, eccetera eccetera. Infatti Gran Bretagna e Spagna con le loro riforme hanno fatto in tempo in questi dieci anni ad avere un boom e uno sboom dell'occupazione, e la Germania addirittura un boom, uno sboom e poi un ri-boom. Noi ci stiamo pensando. C'è pure chi è in ritardo sul ritardo: quelli che stavano nel Pci si astennero anche sullo Statuto, nel '70. La legge voluta dal socialista Brodolini e scritta dal socialista Giugni parve a loro troppo moderata, non citava i diritti politici oltre quelli sindacali. Giugni rispose che leggere il giornale è un diritto politico, ma leggerlo in fabbrica durante il lavoro, forse no.

Scusate il ritardo. Il ministro dell'Ambiente Corrado Clini dice che il rifiuto italiano degli Ogm è un «grave danno perché da sempre compromette la ricerca sull'ingegneria genetica applicata all'agricoltura, alla farmaceutica e anche a importanti questioni energetiche». Giusto. Peccato che negli ultimi dieci anni tutti i ministri dell'Agricoltura che si sono succeduti, da Pecoraro Scanio ad Alemanno, abbiano deliberatamente arrecato questo danno all'Italia. E Corrado Clini, che è stato direttore generale del ministero dell'Ambiente dal 1990 - avete capito bene: da 22 anni - forse poteva segnalarcelo prima, questo grave danno.

Scusate il ritardo. Tredici anni dopo il moto no global di Seattle, e undici anni dopo il moto e il morto di Genova, tutto in nome dei poveri del mondo, la Banca Mondiale ha accertato che la globalizzazione ha ridotto la povertà assoluta (cioè chi vive con meno di 1,25 dollari al giorno) in ogni parte della Terra. È la prima volta che accade. Abbiamo raggiunto l'obiettivo dell'Onu di dimezzare la povertà cinque anni prima del previsto: oggi è infatti la metà che nel 1990. Non c'è niente da festeggiare, perché sopra 1,25 dollari ma sotto i 2 dollari al giorno c'è più di un miliardo di esseri umani. Però, forse, con più globalizzazione si raggiungerà anche loro. È dunque certo che un altro mondo è possibile; ma non si capisce perché Bertinotti e Vendola volevano tenerne fuori i contadini dell'Asia.

Intendiamoci: come dice il detto, meglio tardi che mai. Non ho dubbi, per esempio, che tra una decina d'anni si riconosceranno anche i vantaggi dell'Alta velocità, come oggi del resto già accade a chi viaggia tra Roma e Milano, anche se nel tratto Firenze-Bologna - ha calcolato Salvatore Settis - essa «ha provocato la morte di 81 torrenti, 37 sorgenti, 30 pozzi e 5 acquedotti». Però per allora i treni potrebbero non viaggiare più su rotaie, come già accade a Shanghai. E sono sicuro che tra dieci anni si riconoscerà anche l'utilità dei rigassificatori e forse perfino degli inceneritori di immondizia. Bisogna solo vedere nel frattempo quanto ci costeranno il gas importato dalla Russia e la monnezza spedita in Olanda. D'altra parte, arrivare in ritardo è un lusso, signori si nasce. E noi, avrebbe detto Totò, modestamente lo nacquimo .

Antonio Polito

16 marzo 2012 | 7:36© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_marzo_16/costo-reale-di-tanti-svantaggi-polito_2e8f9f14-6f2d-11e1-8ee0-fb515f823613.shtml


Titolo: Antonio POLITO Le nuove partecipazioni statali
Inserito da: Admin - Aprile 17, 2012, 11:57:55 am
Le nuove partecipazioni statali

Roberto Formigoni e Nichi Vendola sono due star della politica regionale. Sono esperti, carismatici, dotati di un proprio seguito elettorale, animati da un progetto e ansiosi di proiettarlo sulla scena nazionale. Eppure sono finiti entrambi al centro del tornado di scandali abbattutosi sul sistema Sanità, una greppia di denaro pubblico che è ormai l'equivalente delle Partecipazioni statali di un tempo.

Formigoni e Vendola sono anche due personalità che più diverse non si può: uno proviene dalla Dc e cerca la liberazione nella Comunione; l'altro viene dal Pci e l'ha sempre cercata nel Comunismo. Roberto ha spinto al massimo la presenza del «privato» nel welfare, Nichi si è fatto paladino del «pubblico» senza se e senza ma. Eppure entrambi hanno reagito agli scandali nello stesso modo: da vergini offese, alludendo a trame ordite ai danni della loro persona e del loro rivoluzionario disegno, rifiutando ogni responsabilità politica. Formigoni, non essendo indagato, ha sempre rigettato con sdegno il parallelo con gli scandali della Puglia; ma ora è un intellettuale barese, Alessandro Laterza, a dire con sdegno che la «primavera pugliese» sta finendo come la Lombardia.

E in effetti la situazione politica alla Regione lombarda sembra al collasso. Quando hai dieci consiglieri indagati, tra i quali quattro membri su cinque dell'ufficio di presidenza del Consiglio, due assessori arrestati, altri due dimessi, e una Nicole Minetti eletta nel tuo listino personale, è difficile cavarsela come fa Formigoni, dicendo che dei reati rispondono le persone e lui risponde solo del buon governo. Perché una tale diffusione del malaffare o è frutto di un'impressionante serie di errori giudiziari o chiama in causa un sistema politico al cui vertice c'è lui. Qui non si tratta di responsabilità penali: anche se, per gli standard del Nord Europa che a Milano dovrebbero valere, andare in vacanza insieme a chi fa affari con la Regione, in un settore che assomma il 75% della spesa totale e vale 17 miliardi di euro, basterebbe per una condanna politica. Qui si tratta piuttosto della responsabilità oggettiva di chi da 17 anni è il leader incontrastato di un esperimento di governo indicato come esempio al Paese. Le falle che vi si sono aperte, la sua vulnerabilità alla corruzione, meriterebbero ben altra umiltà autocritica. L'ostinazione a minimizzare autorizza invece il sospetto che il «Celeste» abbia esaurito la sua spinta propulsiva, e punti ormai solo a sopravvivere.

La sanità lombarda ha scelto un modello di forte sussidiarietà e di ampio intervento del «privato», sia profit che non profit. Bisogna dire che non è questa la causa dei suoi guai attuali. Anzi, ha garantito alta qualità del servizio, efficienza ed equilibrio finanziario, certo più che in tante altre regioni, Puglia compresa, dove la retorica del «pubblico» copre sperperi e clientele. Però è proprio in un sistema misto che la neutralità del regolatore assume un'importanza decisiva. E invece anche l'ultima inchiesta sta portando alla luce un sistema di potere che condivide troppo col Governatore, a partire dalla comune militanza in Comunione e Liberazione. Vuol dire che l'amministrazione non è abbastanza separata dagli affari. Questa è la responsabilità politica di Formigoni. E di questa non può evitare di rispondere.

Antonio Polito

17 aprile 2012 | 8:46© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_aprile_17/nuove-partecipazioni-statali-editoriale-polito_084fada4-884a-11e1-989c-fd70877d52ac.shtml


Titolo: Antonio POLITO - SCENARI POLITICI E PRESSIONI SU BERLINO
Inserito da: Admin - Aprile 26, 2012, 06:20:36 pm
SCENARI POLITICI E PRESSIONI SU BERLINO

L'isolamento dei più forti


Sarà di nuovo maggio il mese fatale dell'Europa? Diremo anche dell'euro che «ei fu, siccome immobile/ dato il mortal sospiro»? La sera del sei maggio le urne potrebbero sancire che la maggioranza dei greci non vuole più restare nella moneta unica, premiando la galassia di partiti che sperano di liberarsi dei sacrifici mandando a quel paese la troika, la Bce e la Merkel. E nella stessa sera dovremo prendere atto che anche la maggioranza dei francesi non vuole più stare nell'Europa così come è oggi. Se vincerà Hollande, la sfida è chiara: rinegoziare il patto fiscale appena sottoscritto con la Germania. Ma anche se vincesse Sarkozy, ad ascoltare i suoi ultimi comizi a caccia di voti lepenisti, il futuro non sembra meno tempestoso: «Ora basta, cambiamo o non ci sarà più l'Europa».

Se si aggiunge che a maggio votano anche due Länder tedeschi in un turno che potrebbe affondare la coalizione tra la Merkel e i liberali; e che è in crisi di governo pure l'Olanda, fino a ieri il più arcigno guardiano del rigore teutonico, si capisce l'allarme, ma anche l'ansia e il senso di impotenza, che si sta impadronendo delle élite europee e italiane. Nessuna cura sembra funzionare. I mercati hanno prima punito il poco rigore dei Paesi debitori, poi hanno punito l'eccesso di rigore imposto ai Paesi debitori, e ora sembrano temere che gli elettori fermino la politica del rigore. In Italia stiamo facendo, più o meno bene, tutti i compiti a casa che ci sono stati richiesti, eppure lo spread resta sotto la sufficienza. Lo stesso spirito di salvezza nazionale che aveva spinto Monti al governo sembra smarrirsi: i partiti pensano ai loro nomi e ai loro soldi, i giornali pensano di nuovo a Ruby, e i sindacati pensano a far chiudere i supermercati il 25 Aprile.

Tutti si chiedono che fare. E tutti chiedono alla Merkel di fare qualcosa. È un coro che va da Washington a Madrid, dal Manzanarre al Reno.
Il governo tedesco sente la pressione e cerca l'azione. Si spiega così l'annuncio dato ieri dell'incontro svoltosi la settimana scorsa tra il consigliere europeo della Cancelliera e il nostro ministro Moavero. La Germania propone di scrivere un nuovo Patto, con vincoli e sanzioni, dopo quello sul rigore dei bilanci: un altro «Compact», che stavolta dovrebbe riguardare le riforme strutturali (non a caso rilanciate ieri da Draghi) e la competitività. Berlino vorrebbe cioè legare tutti i Paesi dell'area a una maggiore convergenza non solo delle finanze pubbliche ma anche delle economie, nella speranza che questo favorisca la crescita. L'Italia di Monti è ovviamente d'accordo, ma ha ripetuto a Berlino che non basta. Roma vuole due cose, e ora sa che le vuole anche Hollande: bond europei per finanziare grandi progetti (da non confondere con gli eurobond, cioè titoli comuni del debito, sui quali nessuno si illude di convincere oggi Berlino) e nuovi capitali per la Banca europea degli investimenti.

Anche se il governo italiano preferirebbe evitare scossoni politici in Francia, e dunque sui mercati, è evidente che ha già un piano per giocare la carta Hollande. Palazzo Chigi sa bene che non basterà cambiare presidente a Parigi per cambiare politica a Berlino: oggi la Francia non è in condizioni di dettare legge.

Perciò qualcuno dovrà per forza rimettere insieme le due ruote dell'asse carolingio, e quel qualcuno non può che essere Monti.
La strategia è: aiutare la Merkel a tenere a freno le bizze di Hollande sul rigore, in cambio di una seria apertura sulla crescita.
Cominciando con il chiedere a Berlino di non respingere al prossimo G8 un'interpretazione «dinamica» del rigore. Ne abbiamo bisogno: il nostro pareggio di bilancio nel 2013 sarà «strutturale», ma non «nominale»: verrà cioè corretto al rialzo in ragione del ciclo economico negativo.
 
D'altra parte la Germania, che pure lamenta gli squilibri dell'euro-zona, è essa stessa protagonista di uno squilibrio formidabile quando attrae ingenti capitali pagandoli con tassi di interesse negativi, cioè inferiori all'inflazione. Userà almeno una parte di queste risorse a basso costo per stimolare la sua domanda interna, e così anche le nostre esportazioni?

Finora l'Italia di Monti si è mossa per rendere la vita facile alla Merkel, nella convinzione che ciò la rendesse più facile anche a noi.
Ma se così non è, e se Sarkozy ne sarà la prima vittima, Roma dovrà chiedere qualcosa in cambio di una nuova alleanza.

Antonio Polito

26 aprile 2012 | 7:50
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da - http://www.corriere.it/editoriali/12_aprile_26/isolamento-dei-piu-forti-antonio-polito_894d52ee-8f61-11e1-b563-5183986f349a.shtml


Titolo: Antonio POLITO I tanti pesci in barile del caso Emiliano
Inserito da: Admin - Aprile 29, 2012, 03:42:09 pm
Sacerdoti della legalità

I tanti pesci in barile del caso Emiliano


Bisogna capire che Michele Emiliano era il Sol dell'Avvenire. L'altra gamba della lista civica nazionale che il collega de Magistris già pronosticava al 20%, una sorta di Ppm, Partito dei Procuratori Meridionali fattisi sindaci. L'uomo che Marco Travaglio aveva suggerito come potenziale candidato per Palazzo Chigi, e che Vendola aveva già scelto come suo successore alla Regione. Società civile allo stato più puro, un eroe delle mani pulite prestato alla politica, uno che si definisce così nel suo profilo su Twitter: «Magistrato antimafia in aspetta- tiva e casualmente sindaco di Bari da sette anni». Emiliano poteva guidare la rivolta contro la vecchia politica corrotta, e vincere.

Solo così si spiega ora il silenzio, l'imbarazzo, il fischiettare distratto di quel milieu politico-mediatico che avrebbe crocefisso qualsiasi altro uomo pubblico nelle condizioni di Emiliano. In fin dei conti, una vasca da bagno ricolma di pesce fresco non deve costare molto meno di una vacanza all'Argentario dell'ex sottosegretario Malinconico. Stavolta, invece, neanche un'imitazione della Guzzanti, nemmeno un docu-drama con le intercettazioni da Santoro, nemmeno una citazione tra i fatti quotidiani di cui bisognerebbe vergognarsi. E però, meglio dirlo subito, è un bene che da quel mondo non si levi il solito grido «dimissioni, dimissioni». È un bene perché un sindaco eletto direttamente dal popolo non può lasciare il suo incarico per un rapporto della Guardia di Finanza, senza nemmeno essere indagato, per un'indagine su fatti di cui i pm sapevano dal 2006 e che, se la Procura avesse agito a tempo debito, certamente avrebbero indotto il sindaco a scansare i fratelli Degennaro et dona ferentes .

Non c'era infatti bisogno di questa inchiesta per sapere che cosa non va in Emiliano e nell'emilianismo. Basterebbe pensare che la figlia del capofamiglia Degennaro era stata fatta da lui assessore, e neanche la dinastia Matarrese, quando pure comandava a Bari, si era mai sognata di mettere un familiare in giunta. Basterebbe dire che in un'intervista Emiliano aveva definito quel gruppo «un'impresa vicina all'amministrazione», senza falsi pudori. Ma soprattutto, per negare a Emiliano la patente di sacerdote del «controllo di legalità» che sempre più spesso, e senza alcun appiglio nel codice, viene regalata ai pm d'assalto, basterebbe dire che lui la legalità la viola dal 2009. Da quando una sentenza della Corte Costituzionale ha chiarito senza ombra di dubbio che un magistrato non può essere un dirigente di partito nemmeno se è fuori ruolo. Ed Emiliano, che non si è mai dimesso dalla magistratura, è stato segretario del Pd pugliese, ha partecipato alle primarie, le ha perse, ed è stato ricompensato con l'attuale carica di presidente regionale del partito.

Ma davvero c'era bisogno dei molluschi di Degennaro per capire quanto pericoloso sia questo leaderismo alle cozze? Appena pochi giorni fa il nuovo Petruzzelli è stato commissariato per un buco di sette milioni di euro, ed Emiliano è il presidente della fondazione. È volata una mosca? No, perché la voga di questi anni stabilisce che il pm che va in politica assolve, purifica e beatifica tutti quelli che gli si accompagnano; e invece gli interessi, gli affari, i soldi, gli appalti continuano ovviamente ad esistere, ed è tutto da dimostrare che il leader solitario sappia dominarli meglio. Così si fonda un «potere senza critica», che sfugge al principio liberale della trasparenza, cioè non se ne risponde all'opinione pubblica. Così può accadere che il pm che a Bari faceva le inchieste sulla sanità pugliese, Lorenzo Nicastro, venga nominato da Vendola assessore regionale nel bel mezzo dell'indagine, dopo essersi candidato con l'Idv. Così succede che la Regione finanzi lautamente un convegno del Procuratore che sta indagando il Governatore. Che cosa è più la politica democratica in una città in cui, da quando c'è l'elezione diretta del sindaco, la carica è sempre andata o a un immobiliarista o a un procuratore? Una città in cui Emiliano si presentò candidato dicendo: «Il programma sono io»; proprio come Berlusconi nelle elezioni del 2001, solo che a Berlusconi lo rinfacciò persino il New York Times , e a Emiliano arrivarono gli applausi del nuovismo che finalmente si disfaceva dei partiti.

Ps : non si può deplorare Emiliano senza dir niente del presidente leghista del consiglio della Lombardia, Davide Boni, lui sì indagato per corruzione e non per una polenta omaggio ma per tangenti, il quale ieri ha avuto la sfrontatezza di presiedere il dibattito sulla mozione di sfiducia contro di lui pur di non mollare la poltrona. Milano vicina all'Europa, cantava Lucio Dalla. Oggi più vicina a Bari.

Antonio Polito

21 marzo 2012 | 12:10© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_marzo_21/i-tanti-pesci-in-barile-del-caso-emiliano-antonio-polito_382ad118-7321-11e1-85e3-e872b0baf870.shtml


Titolo: Antonio POLITO Illusioni e ambiguità
Inserito da: Admin - Maggio 16, 2012, 04:59:22 pm
Illusioni e ambiguità

Quando un presidente francese affretta la cerimonia dell’insediamento per correre a Berlino, come accadrà oggi a Hollande, c’è poco da discutere su dove sia il centro del potere europeo anche dopo la vittoria socialista in Francia. La Merkel è certamente ferita dalle urne, ma gli elettori del Nord Reno- Westfalia non hanno votato contro l’austerità in Grecia o in Italia. Semmai hanno votato contro l’austerità nel loro Land, di gran lunga il più indebitato di Germania, preferendo restare nelle più generose mani della governatrice socialdemocratica Kraft.

L’incontro di oggi a Berlino non dovrebbe dunque suscitare troppe aspettative di una svolta nella crisi europea. Bisognerà fare attenzione alle ambiguità lessicali. Merkel ha ammorbidito il suo linguaggio, è pronta a dare a Hollande ciò che aveva già deciso di concedere presentandolo come un «protocollo per la crescita »; Hollande è pronto a incassare e a venderlo ai francesi come la riscrittura del «patto fiscale». Per lei la crescita sono le riforme strutturali di cui parla Draghi, per lui innanzitutto iniezioni di spesa pubblica. Troveranno un compromesso, magari sui project bond, usando i soldi già stanziati dei fondi strutturali e del bilancio della Ue, e lo chiameranno «patto per la crescita ». Ma quello che dovrebbe essere chiaro fin d’ora, soprattutto a noi italiani, è che più spinta alla crescita non vorrà dire meno rigore. Anzi: per poter investire, si dovrà risparmiare.

Nuove risorse pubbliche potrebbero infatti venire oggi soltanto da più tasse o da più debiti. Forse alla fine la Germania ci concederà, una tantum, di pagare i fornitori della Pubblica amministrazione senza che la spesa venga calcolata come nuovo debito; ma è molto improbabile che arrivi a breve la golden rule, e cioè la possibilità di mettere tutta la spesa per investimenti produttivi fuori dal calcolo del deficit. Al prossimo vertice europeo se ne comincerà al massimo a parlare, perché prima va deciso quali sono investimenti produttivi e quali invece sono spese travestite. La Germania non vuole aprire scorciatoie per i furbi nel patto appena scritto. E va notato che tra le proposte di Hollande mancano proprio quelle più radicali come la golden rule o gli «eurobond ». Il nuovo presidente francese è in realtà partito molto basso, e, come sempre avviene al suk europeo, rischia di avere anche meno di quanto chiede. E una ragione c’è: la crisi greca.

La tragedia nazionale in corso ad Atene può infatti aprire un gorgo capace di risucchiare molti altri Paesi. Se per Spagna e Italia il contagio rischia di venire da una crisi di fiducia sul debito, come dimostra l’impennata degli spread, per la Francia può avvenire attraverso il sistema bancario, molto esposto con la Grecia. Hollande scoprirà che c’è un solo modo per proteggersi dai mercati: stare attaccato alla Germania.

Come ha scritto ieri Franco Venturini, il voto tedesco non autorizza dunque a credere in una svolta keynesiana. In Germania non esiste un «partito della spesa». Anzi, si potrebbe aggiungere che l’ennesima batosta della sinistra radicale di Linke, nostalgica dell’assistenzialismo dell’Est, e la sorprendente tenuta dei liberali, alleati del cancelliere, dimostrano piuttosto il contrario. In Germania non è nato nessun partito anti-euro o anti-austerità, come nel resto d’Europa. I sondaggi dicono che il 70% dei tedeschi non darebbe un soldo ai greci se prima non eleggono un governo che rispetta i patti. E la Spd non è certo un partito sbarazzino. Nel 2005 Schröder perse le elezioni, a causa del successo della sinistra estrema, proprio perché aveva portato a compimento un duro programma di riforme del welfare che trasformarono la Germania da «malato d’Europa» in Paese del «secondo miracolo economico». Dopo di lui fu un ministro delle Finanze socialdemocratico, Steinbrück, a inserire il vincolo del pareggio di bilancio nella Grande Coalizione guidata dalla Merkel. I partiti popolari tedeschi sanno essere impopolari, quando serve. Se qualcuno si è dunque convinto che stia per tornare l’epoca dei pasti gratis, si sbaglia. Alexis Tsipras, il leader della nuova sinistra greca, li propone letteralmente per gli studenti e metaforicamente per tutti i concittadini. Ma la sua idea che si possa restare nell’euro senza rispettare le regole europee è il contagio greco che la Germania teme più di ogni cosa. E farà di tutto per impedirlo.

Antonio Polito

15 maggio 2012 | 7:42© RIPRODUZIONE RISERVATA

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Titolo: Antonio POLITO Una domanda senza risposta
Inserito da: Admin - Giugno 06, 2012, 04:49:56 pm
IL ROMPICAPO DELLA SOVRANITÀ

Una domanda senza risposta


Si fatica a tener dietro al valzer di vertici e incontri, piani segreti e intese pubbliche, fughe in avanti e fughe di notizie, che ogni giorno si balla in Europa. Le ultime spiagge si succedono l'una all'altra. Fino a ieri era prioritario salvare gli Stati (la Grecia). Ora bisogna salvare le banche (spagnole). Lo schema di gioco è sempre lo stesso: tutti vogliono che si tamponi la falla con i soldi tedeschi, tranne i tedeschi. La situazione si è incartata al punto tale che la Spagna rifiuta gli aiuti del fondo europeo con cui potrebbe salvare i suoi istituti di credito per non accrescere il proprio deficit pubblico. Il serpente si morde la coda. E, qui e là, cova il suo uovo, pronto a schiudersi in movimenti estremisti o fascisti.

Il senso di affanno è testimoniato dal susseguirsi di grand plan , mirabolanti ipotesi di architetture istituzionali che rischiano di arrivare quando l'edificio sarà già bruciato al fuoco dei mercati. Così, mentre la Francia, l'Italia e perfino la Germania tardano a ratificare quel Fiscal Compact che era stato indicato come la panacea, già si immaginano a Bruxelles disegni - fatti filtrare e subito smentiti - per trasformare questa claudicante Unione di 27 Stati in una sorta di Superstato sul modello degli Usa.

Eppure i termini del problema sono ormai chiari. I Paesi che hanno goduto per dieci anni di crediti con bassi tassi di interesse come se fossero la Germania, e che li hanno sperperati al contrario della Germania, non reggono più. A questo punto o saltano, e con essi salta l'euro; oppure la Germania, per salvare l'euro e se stessa, salva loro. A questo alludono tutti i tentativi di introdurre qualche forma di condivisione del debito, cioè strumenti che obblighino Berlino a garantire il debito degli altri.

Però questa strada, oggi preclusa, è percorribile solo se si comprende che nemmeno alla Germania si può imporre una deroga al principio cardine della democrazia: no taxation without representation . Lo ha notato Giancarlo Perasso su lavoce.info , e ha ragione: è impossibile chiedere ai contribuenti tedeschi di essere pronti a rimborsare gli eurobond senza che essi abbiano la possibilità di scegliere chi spende quei soldi.

È questo il rompicapo europeo. Finora è risultato inutile il tentativo di convincere i tedeschi con il ricatto o con l'appello alla solidarietà. Ma oggi, sotto la pressione perfino di Obama, si ha l'impressione che la Cancelliera Merkel stia lanciando segnali in questo senso: «Il mondo - ha detto ieri - vuole sapere come noi immaginiamo l'unione politica che va insieme all'unione monetaria». Parole analoghe aveva pronunciato qualche giorno fa Mario Draghi. Il punto è: tutti coloro che accusano la Germania di egoismo e miopia, compresa la nostra spendacciona classe politica, hanno ben chiaro che significa fare questo passo? Sono pronti a cedere cruciali poteri sovrani sul bilancio, sul welfare, sulle tasse?

Prima o poi, a questa domanda bisognerà dare risposta. E in quel momento scopriremo che non è affatto una risposta scontata, soprattutto in Francia, da sempre vero cronografo e limite del processo di integrazione. Non c'è bisogno di ricordare che fu il «sovranista» popolo francese ad affondare in un referendum la Costituzione europea. Un tempo si diceva che l'Europa è nata per nascondere la potenza tedesca e la debolezza francese. Per continuare a vivere, deve oggi riconoscerle entrambe.

Antonio Polito

5 giugno 2012 | 7:34© RIPRODUZIONE RISERVATA

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Titolo: Antonio POLITO I disfattisti in agguato
Inserito da: Admin - Giugno 17, 2012, 09:56:22 am
LEMANOVRE PER IL VOTO ANTICIPATO

I disfattisti in agguato

Mentre Sagunto brucia, a Roma si succedono riunioni di congiurati per decidere come buttare giù il governo prima dell’estate e provocare così le elezioni anticipate a ottobre.La voglia di far saltare tutto, si sa, serpeggia da tempo in entrambi i maggiori partiti. Ma se nel Pd Bersani ha l’autorità per zittire un Fassina, nel Pdl pare che Alfano non ne abbia abbastanza per mettere a tacere una folta schiera di sediziosi, ex ministri berlusconiani ed ex colonnelli finiani. Come dice sconfortato uno dei dirigenti più vicini alla segreteria, «qui è rimasto un piccolo gruppo di partigiani che rischia di finire appeso a testa in giù, questa volta dai fascisti».

I congiurati propongono di usare il vertice europeo di fine mese come un ultimatum per Monti: se da Bruxelles il premier non tornasse con una valigia carica di eurobond o con altre misure in grado di salvare miracolosamente l’Italia, allora verrebbe il momento di farlo cadere. Come? Sfruttando il casus belli preparato da Di Pietro e dalla Lega con la mozione di sfiducia contro Elsa Fornero. Così la destra silurerebbe il ministro più inviso alla sinistra, in una sorta di grande coalizione antieuropea che sembra un preludio perfetto del caos greco. Ma del resto ogni occasione è buona: luglio, si dice in Transatlantico, sarà il mese dei cecchini.

La tensione politica è dunque alta, anche se il piano è scombiccherato. Il vantaggio di andare alle urne per il Pdl infatti non è chiaro, visti i sondaggi. Ma lo svantaggio per il Paese è chiarissimo. Sarebbe come dire che se l’Europa non ci soccorre, ci lasciamo affogare. Ai guai della nostra economia aggiungeremmo lo sfacelo politico. I due argomenti che i congiurati usano per coprirsi col manto dell’interesse nazionale sono infatti entrambi infondati. Il primo, secondo il quale per fronteggiare l’emergenza è meglio eleggere un nuovo governo, è smentito dal caso della Spagna, Paese che con un premier nuovo di zecca sta già peggio di prima delle elezioni. Il secondo argomento, secondo il quale Monti non sbatterebbe abbastanza il pugno sul tavolo europeo come invece faceva Berlusconi, ha un che di onirico: da mesi Berlusconi in Europa non sbatteva proprio niente e le norme sulle banche che svalutarono i nostri titoli di Stato furono varate nell’ultimo vertice cui abbia partecipato.

Piuttosto, se c’è stata una parabola discendente della fiducia dei mercati nella capacità del governo Monti di affrontare i mali strutturali dell’Italia, essa è dipesa proprio dal condizionamento politico che ha mostrato di subire, per esempio sul mercato del lavoro. Né giova riparare infilando le dita negli occhi dei partiti, a sinistra con gli esodati e a destra con le norme sulla corruzione. Ma il binario morto su cui sembra essere finito il Parlamento è originato proprio dalla campagna elettorale strisciante di chi vorrebbe andare subito alle urne. È il clima politico a indebolire il governo, non il contrario; e a rendere più difficile che anche i provvedimenti sullo sviluppo possano dispiegare il loro effetto positivo sulla scena europea.

D’altra parte, se gli italiani pensassero che qualche nuovo leader politico farebbe oggi meglio di Monti, i sondaggi ce lo direbbero: invece dicono Grillo. Le elezioni a ottobre provocherebbero sullo spread lo stesso effetto thriller che stanno avendo quelle greche. Senza contare che i congiurati hanno già segnato sul calendario una data di pessimo auspicio per andare alle urne: quella del 28 ottobre, novantesimo anniversario della Marcia su Roma.

Antonio Polito

16 giugno 2012 | 9:34© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_giugno_16/polito-i-disfatti-in-agguato_0ee343d6-b772-11e1-a264-b99bbdd148d8.shtml


Titolo: Antonio POLITO I sotterranei della politica
Inserito da: Admin - Giugno 20, 2012, 11:18:49 pm
LO SPIRITO NAZIONALE CHE MANCA

I sotterranei della politica

Non solo agli Europei di calcio, ma anche nell'Europa della moneta e della politica siamo entrati nella fase a eliminazione diretta. Chi perde è fuori. Errori, egoismi, autogol, non sono più consentiti.

E invece in Parlamento continua la melina. Sono passati già quattro mesi, non quattro settimane, da quando Monti annunciò in conferenza stampa il varo della riforma del mercato del lavoro. E dopo quattro mesi il premier è ancora costretto a chiedere che sia trasformata in legge prima del vertice europeo del 28 e 29 giugno. Ma il Pd ha condizionato il suo sì a un conto più generoso degli aspiranti «esodati», e nel Pdl c'è chi dirà comunque no come l'ex ministro Brunetta, che non voterà nemmeno la fiducia. Non è l'unico indizio di un sistema-Paese che sembra incapace di reggere all'emergenza. Giace in Senato la ratifica del Fiscal Compact, il patto europeo sui bilanci. Si era pensato di farne l'atto simbolico con cui l'Italia lasciava l'inferno dei reprobi, approvandolo in contemporanea con la Germania. Non sarà così. La cancelliera Merkel otterrà anche il voto della Spd - che qualche illuso in Italia sperava pronta a far saltare la politica del rigore - e lo ratificherà con uno spettacolare blitz: la sera del 29, di ritorno dal vertice europeo, prima al Bundestag e poi al Bundesrat. Tutto in una notte.

Da noi, invece, questa coesione nazionale, sperimentata per un breve periodo nell'inverno dello spread, è solo un pallido ricordo. I partiti sono già in campagna elettorale. Il Pd lavora alla nuova coalizione, per sostituire Di Pietro con una lista di «società civile» (le prove generali si stanno facendo con il Cda Rai); il Pdl è in preda al panico per sondaggi che sembrano un conto alla rovescia verso la dissoluzione, in piena sindrome Pasok. La tentazione dell'atto di arditismo che porta alle urne, nata nei settori più estremisti, sta ormai contagiando anche il corpaccione moderato del partito: centinaia di parlamentari che sono sicuri di perdere il seggio e che dunque non hanno più niente da perdere.

Anche le riforme istituzionali, promesse dai partiti come occasione di riscatto e di responsabilità, rischiano di essere usate invece come occasione di rottura. Sta per arrivare al Senato la proposta di semipresidenzialismo del Pdl. La Lega dovrebbe votarla, ma l'approvazione potrebbe essere interpretata dal Pd come il casus belli che mette fine alla «strana maggioranza».
C'è chi dice che perfino Luigi Lusi possa essere usato come un'arma dai congiurati a caccia di elezioni. Se il voto di oggi al Senato sull'arresto del tesoriere fosse segreto, molti sarebbero tentati di salvare l'imputato al solo fine di condannare il governo. Così come accadde per Craxi, lo choc politico che ne deriverebbe potrebbe essere il canto del cigno della legislatura.
Chi ne ha il potere e la responsabilità deve mettere fine a questo clima. Un grande Paese si vede anche dalla tenuta, dalla disciplina, perfino dalla capacità di sorvegliare il linguaggio della sua classe dirigente. Quando il presidente di Confindustria cita Fantozzi e definisce la riforma del lavoro una «boiata», si capisce che la situazione italiana, pur rimanendo grave, può smettere di essere seria.

Troppi in Italia chiedono ogni giorno di essere salvati dalla Germania ma non si chiedono mai che cosa possano fare loro per salvare l'Italia. Pretendono miracoli da Monti al prossimo summit, ma vorrebbero mandarcelo a spalle scoperte. Giocano per se stessi, senza capire che se ci fanno perdere questa partita il campionato è finito per tutti.

Antonio Polito

20 giugno 2012 | 9:48© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_giugno_20/sotterranei-politica-Polito_5e8ebbb2-ba98-11e1-9945-4e6ccb7afcb5.shtml


Titolo: Antonio POLITO Domande scomode di un investitore
Inserito da: Admin - Luglio 05, 2012, 11:52:50 am
DOPO BRUXELLES PRIMA DEL 2013

Domande scomode di un investitore

A un certo punto dell'euro-notte, la premier danese ha chiesto a Monti se doveva considerarsi un ostaggio, insieme con gli altri capi di governo: il nostro presidente del Consiglio non li lasciava uscire se prima non si trovava una soluzione per l'Italia. Da domani ostaggi di Monti saranno anche tutti quei politici nostrani che avevano scommesso sul tanto peggio tanto meglio: dopo il voto di fiducia ottenuto dal governo a Bruxelles, la congiura per anticipare le elezioni può considerarsi fallita.
La legislatura dunque continua. Ma per fare che? Al governo spetta di tagliare la spesa dello Stato, dopo averla rincorsa con le tasse; e soprattutto di scalare la montagna del debito, valorizzando il patrimonio dello Stato. Ai partiti e al Parlamento, però, non si può chiedere solo di lasciare in pace il conducente: tocca a loro usare il dividendo staccato nel fine settimana da Monti.

Lo dimostra proprio il braccio di ferro di Bruxelles. L'Italia chiedeva un meccanismo per far scattare l'acquisto di titoli da parte del Fondo salva Stati a ogni impennata dello spread . Ma la Germania si opponeva all'automatismo, pur riconoscendo che l'Italia sta facendo i compiti a casa. Perché? L'ha confessato il ministro finlandese Alex Stubb, un pretoriano del rigore: l'intervento deve essere soggetto a precise condizioni - ha detto - per garantirci che le riforme in Italia continueranno una volta che Monti avrà lasciato il governo l'anno prossimo.

Ciò che allarma i governi è ciò che allarma anche i mercati. È bene infatti non sopravvalutare la giornata di euforia di venerdì: è già successo che un vertice europeo sorprendesse per un po' le Borse, e il regalo alla Spagna è stata una bella sorpresa. Per quanto ci riguarda, dobbiamo sperare che basti la minaccia di un intervento del Fondo europeo perché gli interessi sui nostri titoli calino drasticamente. I mercati adesso sanno quando si voterà; però non sanno ancora come, non sanno ancora per chi, e soprattutto non sanno che cosa intenda fare il vincitore.

Compito dei partiti è diradare in fretta queste nebbie. Dovrebbero innanzitutto varare una seria riforma elettorale (per quelle costituzionali il tempo della serietà è purtroppo già scaduto); dovrebbero indicare le alleanze, visto che al momento sembrano intercambiabili, e il Pd potrebbe andare con Casini o con Di Pietro come se fosse la stessa cosa; e dovrebbero chiarire i loro piani per il governo, visto che il Pdl oscilla tra la voglia di uscire dall'euro con la Lega e l'ipotesi di una Grande Coalizione per restarci. Chi comprerà alla prossima asta un Buono del Tesoro a un anno, a cinque anni, o a dieci anni, starà investendo i suoi soldi sull'Italia che verrà: meno ne saprà, e più cara ce la farà pagare.

Antonio Polito

1 luglio 2012 | 8:49© RIPRODUZIONE RISERVATA

http://www.corriere.it/editoriali/12_luglio_01/domande-scomode-investitore-antonio-polito_dc55bd56-c345-11e1-9a40-3a8342915771.shtml


Titolo: Antonio POLITO Italia che verrà, terra incognita
Inserito da: Admin - Luglio 11, 2012, 11:18:35 pm
GLI SCENARI E LE SCELTE DEL PD

Italia che verrà, terra incognita

Sotto la frusta implacabile dei mercati, sta venendo allo scoperto il vero nodo della politica italiana: che faranno quelli che andranno al governo dopo Monti? Proseguiranno le sue riforme o invertiranno la marcia? Dalla risposta dipende, tra le tante cose, anche lo spread. Eppure di come sarà governato il nostro Paese dalla prossima primavera in poi nessuno oggi sa niente. Nelle carte geografiche che orientano gli investitori stranieri, sull'Italia post 2013 c'è la scritta «hic sunt leones».

La verità è che dobbiamo dare garanzie anche sul futuro. Lo ha riconosciuto per la prima volta il premier, lo ha detto ieri esplicitamente Napolitano, ed è il cuore della lotta politica non solo nel Pdl ma anche nel Pd, soprattutto dopo che quindici esponenti di quel partito hanno apertamente chiesto, nella lettera pubblicata ieri dal Corriere , un impegno a proseguire nell'agenda Monti anche dopo il voto dell'anno prossimo.

Che questa discussione cominci nel Pd è particolarmente importante: perché si tratta del partito cui i sondaggi attribuiscono le maggiori probabilità di vittoria, e perché finora si è mosso su una linea di doppiezza togliattiana. Il Pd appoggia infatti il governo per senso di responsabilità (e gliene va dato atto, visto che avrebbe anche potuto cercare la pericolosa scorciatoia delle elezioni anticipate); però non sostiene veramente quasi nessuno dei suoi provvedimenti, li vota perché deve ma li critica appena può, mugugna e spesso annunzia che una volta al governo li cambierà. Non è solo Fassina, che pure è il ministro-ombra dell'Economia; né sono solo i titoli dell'Unità, che s'entusiasma perfino per il presidente di Confindustria purché attacchi Monti. E non è neanche solo il Pd. Non bisogna sottovalutare infatti la forza di condizionamento che una sinistra intellettuale e sindacale da sempre refrattaria alle responsabilità del governo ancora esercita su un partito dalle convinzioni programmatiche incerte, e che lo spinge a farla finita con Monti, con il rigore, con la Merkel e magari anche con il vincolo europeo, fino a giocare con il fuoco del default contrattato. Questo piccolo mondo antico eserciterà tutta la sua capacità di ricatto politico in caso di primarie, quando i candidati alla leadership del Pd avranno bisogno di voti. È per questo, credo, che i quindici «montiani» del Pd sono venuti allo scoperto proprio ora, temendo una deriva elettorale.

Naturalmente iniziative del genere portano con sé il sospetto di voler spianare la strada a un Monti bis o a una Grande Coalizione, e di sbarrarla dunque a un governo Bersani. È probabile che tra i firmatari ci sia chi lavori per questa prospettiva. In effetti, fare propria l'agenda Monti risolverebbe nel Pd anche il dilemma delle alleanze: sarebbe infatti impossibile realizzare quel programma con Vendola o con Di Pietro, e i compagni di strada andrebbero cercati altrove. Ma anche chi vuole un rapido ritorno a una normale fisiologia bipolare del nostro sistema politico deve sapere che non potrà in ogni caso trattarsi di un bipolarismo fatto di due opposizioni, e cioè composto da una destra e una sinistra entrambe contrarie alle politiche necessarie per salvare l'Italia dal baratro. L'illusione che si possa restare in Europa infischiandosene dell'Europa si è rivelata tale anche in Grecia. Se le forze politiche responsabili non saranno in grado di garantire loro, dopo il 2013, ciò che il governo Monti sta facendo, allora sì che il governo Monti potrebbe dimostrarsi l'unica proposta politica seria rimasta agli italiani.

Antonio Polito

11 luglio 2012 | 17:16© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_luglio_11/italia-che-verra-polito_bec8d3e0-cb1a-11e1-8cce-dd4226d6abe6.shtml


Titolo: Antonio POLITO Le risorse immaginarie
Inserito da: Admin - Luglio 19, 2012, 09:59:59 pm
IL DIBATTITO SULLA CRESCITA

Le risorse immaginarie


Quanti medici pietosi si affollano intorno al capezzale dell'Italia. La vedono emaciata, e se la prendono con le cure troppo aggressive. La trovano pallida, e vorrebbero ovviare con un po' di belletto. La scoprono sofferente, e propongono un forte analgesico. Sembrano tutti far finta di non sapere che la paziente sta lottando per la vita o per la morte: dopo il grave infarto di otto mesi fa non si è ripresa, e la prognosi resta riservata. Certo che le cure la debilitano, certo che è spossata e soffre, e fa male a tutti vederla così; ma interrompere la terapia può provocare un nuovo e fatale infarto. Non a caso i più pietosi suggeriscono una dolce morte: staccare la macchina che ci tiene legati all'euro e consegnarsi all'oblio.

Fuor di metafora, è diventato di moda condannare l'austerità e suggerire alternative keynesiane: iniezioni di denaro pubblico per battere la recessione. Ma mentre da noi le si invoca, in Germania sono convinti che l'Italia di oggi sia proprio il frutto di un lungo ciclo di politiche keynesiane. E in effetti è legittimo pensarlo di un Paese che ha accumulato la bellezza di duemila miliardi di euro di debiti. Si è trattato, a dire il vero, di una versione più casereccia del tax and spending dei socialismi scandinavi. Anche perché, duemila miliardi di debiti dopo, noi abbiamo ancora otto milioni di poveri e crescenti ineguaglianze. Alte tasse e alta spesa pubblica non hanno prodotto da noi la coesione sociale svedese o il tasso di occupazione danese. E, se è per questo, nemmeno l'innovazione tecnologica finlandese, l'assistenza sanitaria francese o l'industria tedesca. Quei duemila miliardi sono stati solo la risposta affannosa di una classe politica provinciale all'emergere della globalizzazione: altri risolsero con una Thatcher, noi indebitandoci.

Eppure i medici pietosi accusano il «neoliberismo selvaggio» per questi disastrosi vent'anni. Non è chiaro a quali selvaggi si riferiscano. Ai governi di Ciampi e di Prodi, al colbertista Tremonti? A un centrodestra che, caso unico in Europa, è riuscito a far crescere spesa pubblica e tassazione? Ma ammettiamo per un attimo che abbiano ragione, e che dai vizi conclamati del mercato si debba passare alle virtù della mano pubblica: con quali soldi? Dove intendono attingere le ingenti risorse che servono (perché uno stimolo keynesiano o è ingente o non è)?

Poiché in cassa non c'è un euro, e poiché non possiamo battere moneta per inflazionare il nostro debito, si presume che i keynesiani di ritorno pensino a un ricorso ai mercati. Vorrebbero cioè curare il debito con altro debito. Ai tassi di interesse attuali? Consegnando ai vituperati mercati una sovranità ancora maggiore sulle nostre scelte economiche? Perfino per fare una politica keynesiana bisognerebbe prima convincere i mercati che si possono fidare di noi, e prestarci soldi a bassi tassi. L'austerità di oggi è dunque la precondizione di qualsiasi politica di domani, anche di quella più illusoriamente espansiva.

I nostri medici pietosi, che si commuovono come coccodrilli davanti al capezzale dove hanno portato l'Italia, erano convinti di avercela fatta a scaricare i loro debiti sui nostri figli. Si capisce che ce l'abbiano con la Germania, che non glielo consente.

Antonio Polito

18 luglio 2012 | 7:28© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_luglio_18/risorse-immaginarie-polito-editoriali_971b2f02-d095-11e1-bab4-ef0963e166ba.shtml


Titolo: Antonio POLITO Forza, liberateci dal porcellum
Inserito da: Admin - Luglio 28, 2012, 03:32:53 pm
I PARTITI E LA LEGGE ELETTORALE

Forza, liberateci dal porcellum

C'è una sola cosa peggiore che tenersi il Porcellum : farne un altro. Fare cioè un'altra legge elettorale a furia di colpi di maggioranza, ritagliata sui bisogni del momento di chi la fa, considerata una truffa da chi la subisce, capace dunque di avvelenare per anni la lotta politica spingendo gli schieramenti alla reciproca delegittimazione. Cioè esattamente quanto è avvenuto dal 2006 a oggi col Porcellum .

Eppure il fantasma di un Porcellum bis ha ripreso a girare nel Palazzo. È bastato ad evocarlo il ritorno sulla scena del delitto di Calderoli, reo confesso della «porcata» e riciclato come esperto della Lega. Raccontano i bene informati che Berlusconi e Maroni stiano considerando di sacrificare anche la riforma elettorale, dopo quella costituzionale, sull'altare di una rinata Alleanza del Nord. L'idea sarebbe di sfruttare la maggioranza di cui ancora i due partiti dispongono al Senato per far approvare almeno in quel ramo del Parlamento una legge ad personas , gradita cioè solo a loro.

Il progetto, a dire il vero, sembra così suicida da far sperare che verrà abbandonato: rompere sulla riforma elettorale vorrebbe dire fornire un alibi formidabile a Bersani per mettere fine alla legislatura e tornare a votare con il Porcellum . Il Pd vuole cambiarlo, ed è sincero; però con la vecchia legge vincerebbe le elezioni in carrozza, e se proprio la destra gliene dà il destro, la tentazione di approfittarne diventerebbe irresistibile. Ma poiché tutti dicono che Berlusconi, fino a ieri accusato di puntare alle elezioni anticipate, ora le veda come il fumo negli occhi perché perderebbe malamente, almeno l'interesse di parte dovrebbe sconsigliare un disastro comune.

Sarebbe infatti bene ricordare ai partiti che toccare le leggi elettorali è la cosa più delicata che esista, e questa è la ragione per cui nelle democrazie mature lo si fa molto raramente. È infatti il momento in cui i giocatori della partita democratica se ne fanno arbitri, fissandone le regole, disponendo dunque del potere di danneggiare gli outsider . Per esempio: qualsiasi nuovo sistema deve oggi sottrarsi al sospetto di essere costruito contro il movimento di Grillo o quello di Vendola, entrambi non rappresentati in Parlamento. L'ideale sarebbe agire sotto il velo dell'ignoranza, cioè così tanto tempo prima del voto e così indipendentemente dai sondaggi da non potersi cucire la legge addosso come un abito su misura, al contrario di quanto avvenne col Porcellum.

E invece, paradossalmente, la ragione per cui i partiti oggi stanno facendo melina rinviando il più possibile la legge è proprio il velo dell'ignoranza in cui sono immersi: non sanno con che alleanze, con che proposte, e con quali candidati premier andranno al voto. Vogliono decidere dunque prima quello, e poi vedere quale sistema conviene di più.
In secondo luogo una legge elettorale deve scegliere il punto di equilibrio tra le esigenze di rappresentatività e quelle di governabilità. Per esempio: la legge tedesca garantisce di più la rappresentatività, quella francese di più la governabilità. La nostra legge attuale, unica in Europa, premia invece le coalizioni. Ma ora che le coalizioni non ci sono più non si può premiarle, se non per indurle a formarsi in modo fittizio e poi sciogliersi dopo il voto.

Infine, non in ordine di importanza, una nuova legge dovrebbe garantire la più elementare delle esigenze: la scelta degli eletti da parte degli elettori. Si può fare con le preferenze o con i collegi uninominali o con le liste bloccate su piccole circoscrizioni. O con un misto di tutti questi sistemi.

Voglio dire che è assolutamente impossibile, con il vasto repertorio di modelli che le democrazie di tutto il mondo offrono, non trovare quello giusto per l'Italia, o almeno quello meno sbagliato. E che dunque le titubanze, i giochetti e i ritardi finora messi in scena si spiegano esclusivamente con la ricerca esasperata del vantaggio di parte. Questa purtroppo è una delle cause per cui la nostra democrazia è oggi così debole e fragile. Mentre Monti si occupa dello spread dei Btp, sarebbe ora che i partiti si occupassero dello spread democratico che si sta accumulando.

Antonio Polito

28 luglio 2012 | 8:19© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_luglio_28/editoriale-liberateci-dal-porcellum_c2743494-d871-11e1-8473-092e303a3cd5.shtml


Titolo: Antonio POLITO Un’alleanza sottovoce
Inserito da: Admin - Agosto 03, 2012, 07:23:24 am
TATTICHE E INCERTEZZE A SINISTRA

Un’alleanza sottovoce

La «narrazione» di Nichi Vendola è sempre complessa, ma ieri lo è stata di più. Non era nemmeno uscito da un incontro con Bersani per concordare un’alleanza col Pd chiusa a Di Pietro e aperta all’Udc, che già convocava una conferenza stampa per smentire di aver aperto all’Udc e chiuso a Di Pietro. Nel mezzo, la rivolta in Rete dei suoi militanti, che di Casini non vogliono sentire nemmeno parlare. Ma la sinistra ha i suoi riti, e quella cui stiamo assistendo è un’elaborata danza di corteggiamento: Vendola non può fare a meno di Bersani, ma non può neanche fare a meno dei suoi elettori, regalandoli a Grillo o a Di Pietro. Così si tenta un avvicinamento graduale e progressivo, fatto di un’allusione e di una smentita, di un passo avanti e uno indietro.

Affabulazioni a parte, sembra però ormai chiaro quale è lo schema di gioco di questa parte politica che ormai apertamente, e incurante dell’infausto precedente del ’94, si definisce «progressista»: mettere insieme la più forte minoranza del Paese, profittando del vuoto che c’è a destra, e allearsi con i moderati dell’Udc dopo il voto, per fare una maggioranza parlamentare. Questo modulo a due punte dei progressisti ha il vantaggio non indifferente di introdurre un elemento di chiarezza: la terza punta, che appariva nella foto di Vasto, è stata tagliata via.
Di Pietro non farà parte della squadra perché di fatto ne ha già scelta un’altra, quella dell’opposizione antisistema. Gli interessano più i proclami di Grillo che i programmi di governo. Comparando Napolitano e Monti a Berlusconi ha tagliato definitivamente i ponti col Pd, e se Vendola vuole stare con il Pd non può stare con Di Pietro. La speranza comune è di sostituirlo con la terza ruota di una «lista arancione », capitanata dai sindaci- pm de Magistris ed Emiliano, nel tentativo di attrarre i voti «puritani» della cosiddetta società civile e dare una copertura «morale» alla rottura con Tonino.

Ma la manovra cominciata ieri a sinistra presenta anche lo svantaggio di dover far ricorso a una dose di ambiguità molto elevata, potenzialmente esplosiva. Vendola, per esempio, ha dovuto condire la svolta con la sua candidatura ufficiale alle primarie del centrosinistra, per dimostrare che entra dalla porta principale e non per annessione. Così facendo ha però creato qualche problema non da poco a Bersani, che con Renzi competitore a destra e Nichi competitore a sinistra forse uscirà comunque vincitore, ma difficilmente trionfatore da quella che doveva essere l’investitura alla leadership e dunque la candidatura a Palazzo Chigi.

In secondo luogo, gli «intenti» presentati dal Pd, e ancor più quelli enunciati da Vendola, non sono credibili come la base di un patto d’azione con i moderati, e dunque andranno ricontrattati dopo il voto. Nel lungo documento presentato da Bersani le uniche due proposte chiare sono la patrimoniale e le unioni gay. E se ci sono due cose per le quali ceti medi proprietari ed elettori cattolici sono preoccupati sono proprio il patrimonio e il matrimonio. L’incubo di una riedizione dei conflitti interni alla coalizione dell’ultimo Prodi non sembra dunque per niente scongiurato.

D’altra parte, la visione del conflitto sociale ribadita ieri da Vendola è più compatibile con la Fiom che con la Commissione europea, poiché nemmeno una Germania eventualmente governata dalla Spd ci consentirebbe di avviare un esperimento di keynesismo in un Paese solo e con i soldi degli altri, abbandonando le politiche di austerità.

La mossa a sinistra di ieri è dunque solo l’apertura della lunga partita a scacchi che si concluderà nella prossima primavera e che tiene in apprensione i mercati, in attesa di capire che cosa sarà dell’Italia dopo Monti. Vendola ha proposto di chiamare questa nuova alleanza il «Polo della speranza», e la speranza, si sa, è l’ultima a morire. Ma per fare pronostici sulla sua sorte bisognerà vedere come reagirà il centrodestra, il quale al momento sembra totalmente privo di uno schema di gioco, e però se ne trova uno torna immediatamente in gioco.
E, soprattutto, bisognerà vedere come si chiuderà la partita interna all’elettorato di sinistra, e quanti all’alleanza di governo di Bersani e Vendola preferiranno quella di non governo di Grillo e Di Pietro.

ANTONIO POLITO

2 agosto 2012 | 7:56© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_agosto_02/polito-un-alleanza-sottovoce_5c4d3ca4-dc60-11e1-8f5d-f5976b2b4869.shtml


Titolo: Antonio POLITO - Illazioni e Allusioni
Inserito da: Admin - Settembre 01, 2012, 11:20:40 am
TRATTATIVA STATO-MAFIA

Illazioni e Allusioni

Dal momento in cui sono state registrate era inesorabile arrivare a questo punto


«Autentici falsi». Questo ossimoro, contenuto nel comunicato del Quirinale, è una descrizione accurata del processo kafkiano in cui è stata trascinata la più alta istituzione dello Stato, l'unica rimasta in piedi tra le macerie della Seconda Repubblica.

Dal momento in cui sono state registrate, su mandato della Procura di Palermo, le telefonate del capo dello Stato con l'ex ministro Mancino (all'epoca non indagato), era inesorabile arrivare a questo punto: formalmente segrete, esse sono diventate oggetto di illazioni e allusioni, e ormai vengono apertamente usate come strumento di lotta politica. Esattamente il rischio dal quale la Costituzione voleva mettere al riparo la Presidenza, dichiarata irresponsabile politicamente per sottrarla a ogni condizionamento o ricatto. Ed esattamente ciò che il Quirinale, con il suo ricorso alla Consulta, chiede ora che venga risparmiato ai futuri presidenti.

Se infatti è falso il contenuto di quelle telefonate definito autentico da Panorama , siamo di fronte al grave tentativo di gettare discredito sul presidente usando un gossip privo di fonti; se invece è autentico il contenuto, è falsa la garanzia di riservatezza che aveva fornito la Procura di Palermo, e siamo di fronte al grave tentativo di gettare discredito sul presidente usando atti giudiziari. E tutto questo per conversazioni che l'accusa definisce del tutto prive di utilità per l'inchiesta sulla presunta trattativa tra pezzi dello Stato e pezzi della mafia.

I pm tendono ad escludere la «fuga di notizie». Secondo il procuratore capo Messineo, anche perché «il fatto che sia Panorama a pubblicare queste notizie esclude che possano essere uscite dalla Procura di Palermo»; dal che si deduce che anche le fughe di notizie «autentiche» sono politicamente selezionate. Il pm Ingroia però aggiunge che, oltre a un numero imprecisato di magistrati che le hanno ascoltate ma non trascritte, «anche gli indagati conoscono il contenuto delle telefonate»: che sia stato Mancino a parlare con Panorama ?

Come si vede la situazione, pur essendo così grave da giustificare l'appello di Napolitano «a chiunque abbia a cuore la difesa del corretto svolgimento della vita democratica», è tutt'altro che seria. Anzi, è il punto più basso raggiunto da un'agitazione politica che sta facendo strame dell'equilibrio dei poteri e del rispetto delle regole. Essa si basa sullo smercio di una concezione «trasparente» della democrazia il cui modello, nella migliore delle ipotesi, è un Grande Fratello con il telecomando in mano alle Procure; ma che nella realtà diventa uno squallido peep-show , perché qui c'è solo un buco nella parete da cui i guardoni vedono un particolare e pensano sia l'insieme.

Ancora ieri c'era chi invitava Napolitano a rendere pubblico il testo di quelle telefonate, di cui peraltro non dispone. In nome della legalità lo si invitava cioè a commettere un reato, visto che le telefonate sono secretate. Contro il capo dello Stato si leva un «discolpati» che più della democrazia è degno del «crucifige » della demagogia, così ben descritto in un suo libro da Gustavo Zagrebelsky.

Antonio Polito

31 agosto 2012 | 9:08© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_agosto_31/illazioni-e-allusioni-antonio-polito_5f33caf8-f32d-11e1-a75f-a4fc24328613.shtml


Titolo: Antonio POLITO Domande scomode per un candidato
Inserito da: Admin - Settembre 08, 2012, 09:57:02 pm
Renzi e la sfida nel Pd

Domande scomode per un candidato


Matteo Renzi va preso sul serio. Perché se lo merita, ma anche perché si è candidato a fare il presidente del Consiglio nei prossimi cinque anni. Chiedergli come intenderebbe governare, cosa che non si può ovviamente dedurre dalla sua breve esperienza alla Provincia e al Comune di Firenze, non è dunque provocatorio: è anzi il modo migliore di prenderlo sul serio. Finora infatti Renzi ci ha detto con chiarezza che farebbe del Pd: manderebbe a casa tutti i «vecchi», proposito che comprensibilmente riscuote parecchio successo. Ma non ci ha ancora detto che farebbe dell’Italia.

Le ultime proposte programmatiche, le Cento Idee della Leopolda, risalgono ormai a un anno fa. Molte sono buone, alcune sono scadute, tutte sono da precisare. Tra pochi giorni Renzi presenterà formalmente la sua candidatura. È dunque forse arrivato il momento per rivolgergli qualche domanda alla quale, se vorrà, potrà dare risposta.

1. Tra le Cento Idee non ce n’è una sull’Europa. Da capo del governo Renzi accetterà nuove cessioni di sovranità e maggiori controlli esterni sui nostri conti, in cambio di un’Unione politica e di bilancio più stretta? Sottoscriverebbe prima delle elezioni un memorandum di intese con l’Europa che vincoli anche il futuro governo, nel caso Monti sia costretto a chiedere un aiuto anti-spread?

2. Renzi si propone di «portare il rapporto debito/ Pil al 100% in tre anni». Si tratterebbe di un’impresa titanica: 400 miliardi di euro da restituire in 36 mesi, a un ritmo più che doppio rispetto a quello che ci impone il Fiscal Compact europeo. Quale parte del patrimonio dello Stato intende vendere e quale parte del patrimonio degli italiani intende tassare, per riuscirci?

3. Sull’articolo 18 Renzi dichiarò: «Non me ne può fregare di meno». Vuol dire che una volta al governo non cambierà la riforma Fornero o che la cambierà? Lascerebbe intatta anche la riforma delle pensioni o la modificherebbe, come propone il suo partito, a favore dei cosiddetti «esodati»?

4. Conferma la proposta di dare un bonus di 4.000 euro l’anno per due anni a tutte le famiglie che abbiano un secondo o un terzo figlio e un bonus di 2.000 euro a tutti i laureati con 110 e lode? Con quale copertura finanziaria?

5. Renzi promette di rivedere il piano delle infrastrutture «scegliendo le grandi opere che servono davvero». Vi è compresa la Tav Torino-Lione?

6. Mantiene la sua proposta di un’«amnistia condizionata » per i politici corrotti?

7. Da presidente del Consiglio Renzi favorirà una legge che limiti il ricorso alle intercettazioni e ne proibisca la pubblicazione quando riguardino soggetti non indagati?

8. Renzi si è dichiarato a favore di una «regolamentazione delle unioni civili». Più di recente ha parlato di «civil partnership» per gli omosessuali. Vuol dire che è contrario al matrimonio gay e alle adozioni?

9. Una domanda di «vecchia politica»: se vincerà le primarie, proporrà a Udc e Sel un governo comune, come fa Bersani, o ha altre idee?

Infine, dopo nove domande rivolte all’aspirante premier, una mezza domanda finale nell’ipotesi che invece Renzi non vinca le primarie: darà vita anche lui a un’altra «componente» del Pd, come hanno finora fatto tutti i candidati sconfitti, da Franceschini a Letta, da Bindi a Marino?

Antonio Polito

8 settembre 2012 | 8:38© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_settembre_08/domande-scomode-candidato-polito_d8758880-f97b-11e1-adf4-7366ac4f39ca.shtml


Titolo: Antonio POLITO Il sostenitore riluttante
Inserito da: Admin - Ottobre 01, 2012, 03:02:12 pm
IL DISTACCO TRA IL PD E MONTI

Il sostenitore riluttante

Il problema del Monti bis è il Pd. Di quella ipotesi, per cui spingono fortemente tutti i nostri partner internazionali, il partito di Bersani è insieme la causa e l'impedimento. Essa nasce infatti da una diffusa sfiducia nella capacità del vincitore delle elezioni di proseguire il risanamento; ma il maggior ostacolo alla sua realizzazione sta proprio nella resistenza del probabile vincitore delle elezioni, cioè il Pd.

Se sulla fede di Casini non si possono infatti aver dubbi, è facilmente prevedibile che anche un Berlusconi sconfitto alle elezioni aderirebbe senza esitare a un Monti bis pur di restare in gioco. È solo ipocrita agitazione, dunque, quella di oggi contro la Germania, Paese di cui il Cavaliere minaccia l'espulsione dall'euro con la stessa credibilità con cui Woody Allen si vantava di aver preso a nasate il ginocchio del rivale in una rissa.

Resta quindi il Pd. Nessuno ovviamente pretende che il candidato vincente alle primarie firmi oggi un atto di abdicazione a favore di Mario Monti: sia Bersani sia Renzi si rifiutano. Ma un netto e credibile impegno di continuità sì che si può pretendere, e non arriva. La promessa di Bersani di non fare passi indietro rispetto alla serietà e alla sobrietà del governo attuale davvero non basta. Nessuno infatti dubita della serietà e sobrietà di Bersani. Ciò di cui si dubita è che un governo da lui guidato abbia la forza e la volontà di andare nella stessa direzione del governo Monti. Per tre ragioni.

La prima è politica, e macroscopica: Bersani propone un'alleanza con Vendola, il quale si propone di ribaltare l'agenda Monti. La seconda ragione è programmatica: i responsabili Economia e Lavoro, Fassina e Damiano, assicurano che il Pd cambierà la riforma delle pensioni e quella del mercato del lavoro, una volta al governo, cioè il cuore dell'agenda Monti. E non sono chiacchiere: alla Camera c'è già un disegno di legge che reintroduce l'istituto della pensione di anzianità. D'altra parte, se il Pd dichiara di voler tornare indietro sull'articolo 18 per via legislativa, Vendola fa più uno e propone di cambiarlo per via referendaria. La terza ragione è sindacale: la Cgil ha appena bocciato, sconfessando il suo stesso leader di categoria, l'intesa innovativa che era stata raggiunta sul contratto dei chimici, orientata proprio a quel recupero di produttività su cui l'agenda Monti punta per curare il male italiano della bassa crescita.

È il riflesso quasi pavloviano di queste rincorse a sinistra, peraltro ben note ai governi Prodi, a far temere che un governo Bersani non si limiterà a correggere l'agenda Monti «mettendoci un po' di equità in più», ma possa smarrirla presto: per esempio nella primavera del 2014, quando dopo un solo anno di legislatura dovrà schierarsi sul referendum firmato dal ministro Vendola.

Se il Pd volesse davvero scongiurare un Monti bis, dovrebbe paradossalmente fare proprio il programma del Monti bis, proporsi esso stesso come il bis. E infatti c'è un'ala consistente di quel partito che lo chiede. Per risolvere un tale scontro di linea politica servirebbe un congresso. Nel Pd si faranno invece le primarie. Ma dietro la gara di personalità tra Bersani e Renzi si intravede il profilo del convitato di pietra. È su Mario Monti e sulla sua eredità che il Pd è in realtà chiamato a decidere.

Antonio Polito

29 settembre 2012 | 10:54© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_settembre_29/il-sostenitore-riluttante-polito_31957860-09f5-11e2-a442-48fbd27c0e44.shtml


Titolo: Antonio POLITO IL PD E IL DILEMMA PRIMARIE Psicodramma democratico
Inserito da: Admin - Ottobre 06, 2012, 11:52:37 am
IL PD E IL DILEMMA PRIMARIE

Psicodramma democratico


Al Pd non potrebbe andar meglio. È costantemente in testa nei sondaggi da un anno; il suo principale avversario è a pezzi; è l'unico partito ad avere non uno ma due potenziali candidati premier. Tutto fa presumere che possa vincere le prossime elezioni. Eppure i democratici sembrano in preda a una crisi di nervi. Le correnti sono in guerra; l'assemblea nazionale che si riunisce oggi è così temuta che già Rosy Bindi emana circolari disciplinari; si aggira addirittura lo spettro della scissione, evocato da Walter Veltroni. Perché?

La causa scatenante di questo psicodramma sono le primarie. Stavolta sono vere, nel senso che c'è uno sfidante indisciplinato che non si accontenta di arrivare secondo e passare all'incasso. La reazione degli oligarchi, quelli che perdono il loro status se la lotta politica esce dalle stanze fumose per andare all'aperto, è stata furibonda. Da loro viene la spinta per imporre un regolamento che faccia fuori Renzi. Ma l'unico modo sarebbe fissare norme che rendano più difficile la partecipazione popolare al voto, inventando filtri, check-point, preregistrazioni, divieti. Un vero controsenso per un partito che fa le primarie innanzitutto per incontrare i suoi elettori; quelli di sempre e, si spera, quelli che vuole conquistare. Secondo alcuni analisti, infatti, la sfida di Renzi sta allargando il bacino di voti potenziali, avvicinando cittadini che fino a ieri non consideravano il Pd un'opzione.

Vedremo oggi se Bersani fermerà la mano di chi preferirebbe buttare il bambino fiorentino e tenersi l'acqua sporca, e se firmerà un compromesso accettabile anche per lo sfidante. D'altra parte è già singolare che le regole siano decise a partita cominciata da tempo. Senza contare che andranno poi sottoposte al placet di Vendola, il concorrente esterno. E senza contare che tutto questo ambaradan potrebbe rivelarsi puramente virtuale se, come è probabile, la prossima legge elettorale svuoterà di senso la candidatura alla premiership, restituendo al Parlamento la scelta dopo il voto.

C'è però una ragione più profonda, e più politica, dietro tanta tensione. E la ragione è che, di nuovo, il Pd sembra un partito in fuga dal suo passato. La festa per la nascita del governo Monti, che mandava a casa l'avversario di sempre e portava i democratici nella maggioranza, sembra ormai lontana anni luce. Da tempo il Pd si sta preparando in tutti i modi a una campagna elettorale di opposizione. Si moltiplicano i dirigenti che cercano fortuna sparando contro il governo che sostengono. L'Unità tenta una mobilitazione a sinistra con il più astruso dei pretesti, quella Tobin Tax che, se realizzata solo in una parte del continente, allontanerebbe ancor più i capitali dal nostro Paese.

Ma fare una campagna elettorale di opposizione dopo un anno in maggioranza è schizofrenico, dunque pericoloso per sé e per gli altri. Il Pd, che potrebbe rivendicare con orgoglio di aver partecipato da protagonista allo sforzo per salvare l'Italia, sembra vergognarsene. Invece di prendersi il merito della popolarità di Monti in Europa, si accredita come chi lo manderà a casa dopo il voto. Rischiando così, nella migliore delle ipotesi, di consegnarsi alla contraddizione di sempre: dover poi agire, una volta al governo, a dispetto dei propri elettori, illusi e subito delusi, e dunque ben presto smarriti.

Antonio Polito

6 ottobre 2012 | 7:38© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/editoriali/12_ottobre_06/psicodramma-democratico-polito_64c1b96e-0f73-11e2-8a30-964199cb16b3.shtml


Titolo: Antonio POLITO - Rottamatori e agitatori
Inserito da: Admin - Ottobre 20, 2012, 03:59:29 pm
IL RINNOVAMENTO DEI PARTITI

Rottamatori e agitatori

Le primarie e gli ingredienti di un romanzo popolare che appassionano il grande pubblico


Lo psicodramma democratico delle primarie ha raggiunto l’acme, ma non la fine, con l’uscita di scena di D’Alema e Veltroni. Come in un romanzo popolare, ci sono tutti gli ingredienti che appassionano il grande pubblico: amicizia e odio, dolori e vendette, i figli che si ribellano ai padri, i tradimenti, le scenate di gelosia. È infatti uno show politico di grande successo: sarà un caso ma, da quando è cominciato, il Pd è perfino cresciuto nei sondaggi.

Si conferma il carattere dirompente che può avere la sfida delle primarie, se vere e aperte: del resto la democrazia è stata inventata proprio per cambiare periodicamente le classi dirigenti senza spargimenti di sangue. Ma chi l’avrebbe mai detto che a mandare in pensione i due eredi del comunismo berlingueriano sarebbe stato un ragazzino democristiano? Per quanto a entrambi vada reso l’onore delle armi, è infatti evidente che nessuno dei due si sarebbe fatto da parte se non ci fosse stato il ciclone Renzi. Il quale, a sua volta, non ci sarebbe mai stato se insieme con Berlusconi non fosse caduto il Muro della Seconda Repubblica, rendendo obsoleti tutti i suoi protagonisti, vincitori e vinti.

È dunque un fatto a suo modo storico ciò che sta accadendo nel Pd. Se ne uscirà un partito migliore, più attrezzato per il governo del Paese, è ancora presto per dirlo. Paradossalmente proprio il successo ottenuto può ora togliere a Renzi la sua arma migliore, secondo molti l’unica. Certo, restano altri mattoncini di quel Muro da buttar giù ma, con tutto il rispetto per Bindi o Finocchiaro, la loro sorte non è così politicamente rilevante. Il giochino della «deroga» è ormai segnato: chi la vuole non la chiede, chi la chiede non l’avrà. Cosa resta dunque a Renzi ora che Bersani, con mossa astuta, è saltato in groppa allo stesso cavallo, impugnando lo stesso articolo dello statuto che fissa il limite dei tre mandati e accompagnando alla porta finanche il suo mentore politico?

Non è un caso che il sindaco di Firenze, un attimo dopo il ritiro di D’Alema, abbia precipitosamente iniziato a rottamare la rottamazione, spiegando che è stato un espediente, anche un po’ «volgare», per conquistare credibilità, ma che ora basta, bisogna chiuderla lì e passare al confronto sui contenuti. Se questo avvenisse sarebbe certamente un bene, perché ciò che gli elettori meritano di sapere è dove i due intendano portare l’Italia, visto che sembrano entrambi credere, come ha detto di recente Renzi, che «l’incendio è finito » ed è ora dunque di disfarsi del «pompiere» Monti, per passare la mano a non meglio identificati «architetti».

Ma l’effetto della scossa che sta cambiando la faccia del Pd è destinato a riverberarsi su tutta la politica italiana, a cominciare dal Pdl. Anche in quel partito, infatti, infuria la lotta; ma essa non ha ancora trovato un canale come le primarie con il quale trasformare il calore della battaglia interna in carburante politico, e rischia dunque di implodere.

Prova ne sia che i rottamatori, e più ancora le rottamatrici, esistono anche nel Pdl, ma curiosamente si battono non per promuovere homines novi, bensì per resuscitare la leadership di Berlusconi, che sarà anche meno antica delle carriere parlamentari degli oligarchi democratici ma non è certo meno datata. Difficilmente lo «spirito del ’94», continuamente evocato come in una seduta spiritica, potrà risolvere i problemi del 2013. Mentre invece può eliminare, ad uno ad uno, tutti i potenziali eredi del berlusconismo. Invece del «parricidio» cui stiamo assistendo tra i democratici, un gigantesco «fratricidio». Del resto, come nel Ritratto di Dorian Gray, la lacerazione avvenuta nel Pd ha fatto d’improvviso invecchiare le facce di tanti altri politici della Seconda Repubblica. Sarà davvero difficile in campagna elettorale ascoltare ancora un Tremonti, o un Fini, o un Casini senza pensare a D’Alema e a Veltroni, e senza chiedersi dov’è la differenza.

Antonio Polito

19 ottobre 2012 | 8:18© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_ottobre_19/polito-rottamatori-agitatori_7ff7d172-19ab-11e2-86bd-001bc48b3328.shtml


Titolo: Antonio POLITO LA TENTAZIONE POPULISTA DEL CAVALIERE
Inserito da: Admin - Ottobre 29, 2012, 10:54:06 pm
LA TENTAZIONE POPULISTA DEL CAVALIERE

Chi ci guarda e chi ci teme

Con l’adesione di Silvio Berlusconi al No Monti Day, il Pdl si è virtualmente dimesso dal Partito popolare europeo. Vi potrà un giorno rientrare; ma, ormai è chiaro, dovrà farlo senza e forse anche contro il suo fondatore, che indica nei leader di quella famiglia politica i carnefici dell’Italia. Subisce così un altro duro colpo la speranza, esplicitata a settembre da Giorgio Napolitano, che la nostra politica possa trovare nella sua «europeizzazione » la via per risorgere dalle ceneri e risollevarsi dal fango. Al contrario, l’anomalia italiana si sta radicalizzando. Dei protagonisti delle prossime elezioni ben cinque ormai, Berlusconi, Maroni, Grillo, Vendola e Di Pietro, si propongono di spezzare le reni alla Germania e di rottamare l’agenda Monti. Che ci faccia il Pdl in tale compagnia, dopo un anno di sostegno al governo, se lo chiede anche lo stato maggiore di quel partito, che per la prima volta sta apertamente resistendo al suo leader.

Non è un caso che la legge contro cui i falchi stanno tentando la spallata si chiami «di Stabilità». È bastato che i mercati mettessero giù per un attimo la frusta dello spread perché ricominciasse la danza degli irresponsabili. Accadde anche nell’autunno del 2011: appena la Bce spense l’incendio comprando i nos t r i t i t o l i , Roma s i rimangiò le promesse. Diventò tristemente noto in Europa come the Berlusconi trick, il trucco di Berlusconi. Fu questa la causa della umiliante sghignazzata con cui Merkel e Sarkozy buttarono giù il governo italiano. Non si trattò di un «tentativo di assassinio della mia credibilità internazionale », come protesta un anno dopo l’ex premier, per la semplice ragione che quella credibilità era già esaurita fino all’ultima goccia. Fu piuttosto un tentativo di evitare che la crisi di credibilità dell’Italia trascinasse con sé l’euro.

Ma il contagio italiano può tornare ora a spaventare l’Europa e i mercati. Non perché qualcuno pensi che Berlusconi riesca davvero a vincere le elezioni e, insieme con Maroni, a staccare l’Italia dalle Alpi. Ma perché la sua ri-ri-discesa in campo può contribuire a fare della nostra campagna elettorale una specie di Halloween di tutti gli spettri antieuropei e xenofobi che si aggirano nel continente: un esperimento in grande stile, in una grande nazione fondatrice, di ripudio dell’Unione. Il significato delle prossime elezioni è dunque segnato: sarà una conta tra chi pensa che l’Europa sia la causa e chi pensa che l’Europa sia la soluzione dei nostri problemi. Da che parte starà il Pdl? Dove porterà i milioni di elettori moderati e conservatori che ancora rappresenta?

Dicono che intorno a Berlusconi agisca una specie di cordone sanitario composto da Letta, Confalonieri, Doris e Ferrara: il gruppo che l’aveva convinto al passo indietro riconoscendo al governo Monti, appena quattro giorni fa, «una direzione riformatrice e liberale». Sarebbero loro ad aver scongiurato in extremis l’apertura di una crisi per vendicarsi di una sentenza. Ma il partito? Alfano, chiuso in un silenzio che si spera siculo, e cioè in attesa del risultato del voto regionale, si lascerà rottamare a quarant’anni? O impugnerà le primarie già depotenziate per condurre un’aperta battaglia politica contro il partito di Villa Gernetto? Un deputato del Pdl ha detto ieri che «Berlusconi è in minoranza nel partito». Sarà il caso che si contino.

Antonio Polito

29 ottobre 2012 | 8:35© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_ottobre_29/polito-chi-ci-guarda-e-chi-ci-teme_718842b6-218f-11e2-867a-35e5030cc1c9.shtml


Titolo: Antonio POLITO L'estremismo che non paga
Inserito da: Admin - Novembre 10, 2012, 05:57:28 pm
LEZIONI AMERICANE

L'estremismo che non paga


Nel suo meritorio tentativo di far sopravvivere il Pdl alla fine del berlusconismo, Alfano potrebbe segnalare al riluttante Cavaliere qualche lezione americana, appena appresa dalla sconfitta di Romney. Berlusconi, che ha costruito prima le sue tv e poi la sua politica sul modello americano, dovrebbe capire.
La prima lezione è che l'estremismo non rende più. Per questo l'establishment del Partito repubblicano aveva scelto un candidato centrista.
Ma per vincere le primarie Romney ha dovuto prendersi sulle spalle tutti i radicalismi della destra; e questo è stato il suo più forte handicap, che gli è rimasto appiccicato addosso nonostante una tardiva svolta moderata. La riforma dell'assistenza sanitaria di Medicare, proposta dal suo vice Paul Ryan, ha spaventato gli elettori anziani; la faccia feroce sull'immigrazione ha spaventato gli elettori ispanici; l'impegno a licenziare Ben Bernanke, il Presidente della Fed, ha spaventato tutti. Quattro anni fa vinse la «speranza» di Obama, stavolta ha vinto la «paura» della Destra. «I Repubblicani sono diventati un partito di Torquemada», ha scritto l' Economist . E se l'ondata dei «Tea Party» ha perso la sua spinta propulsiva intellettuale e politica in America, è difficile che un «partito delle amazzoni» possa resuscitarla in Italia.
La seconda lezione è che la crisi economica si è inghiottita tutte le culture war e i conflitti etici che sembravano essere diventati il contenuto stesso della battaglia politica moderna. La conversione anti-abortista di Romney, che da governatore del Massachusetts era invece pro-choice , non ha portato voti. L'azzardo di Obama, che si è dichiarato favorevole alle nozze gay, non gli ha tolto voti. Nel generale disincanto, i vescovi cattolici si sono trovati schierati con un mormone, ma gli elettori hanno votato pensando al portafoglio. Il bipolarismo etico sembra in declino perfino nella sua terra d'origine.
La terza lezione è che non basta rinfacciare al governo un'economia stagnante per vincere le elezioni. Dalla Grande Depressione in poi mai nessun presidente era sopravvissuto a un primo mandato concluso con una disoccupazione così alta e una crescita così anemica.
Se Obama c'è riuscito, nonostante i modesti risultati e la grande delusione, è perché gli americani gli hanno riconosciuto di aver fermato il Paese sull'orlo del baratro e gli hanno concesso una seconda chance. È probabile che chi volesse condurre da noi un'analoga battaglia elettorale contro Monti, attribuendo a lui la recessione, risulterebbe altrettanto poco credibile presso gli elettori moderati, soprattutto se faceva il premier o il ministro del Tesoro fino a un anno fa.
La quarta lezione è che l'irresponsabilità fiscale non paga. Perfino in America, dove c'è una Banca centrale che può stampare moneta come piace a Berlusconi e lanciare banconote dagli elicotteri, si avvicina il baratro del fiscal cliff . Il debito non può crescere ad libitum per sempre, nel mondo reale nessuno ti rimette i debiti (questa lezione vale anche per i neo-keynesiani del Pd). Si deve dunque ridurre il deficit; non si può farlo solo con più tasse sui ricchi, ma non si può farlo nemmeno solo con tagli alla spesa sociale per i poveri. La Destra non è stata considerata credibile su questo punto in America, dove pure ha una tradizione di successo in economia; meglio non provarci in Italia dove questa tradizione, per usare un eufemismo, non c'è.
Se Alfano snocciolasse davvero queste 4 lezioni americane a un Berlusconi ancora convinto che basti un suo clone per risolvere il problema, potrebbe sentirsi rispondere più o meno così: ma Romney ha perso proprio perché non aveva il carisma e la personalità di un capo; dunque, caro Alfano, cura te ipsum . È un'obiezione efficace, con un forte contenuto di verità. Alla quale il segretario del Pdl potrebbe però replicare con la quinta lezione americana: la sconfitta di Romney dimostra anche che i miliardari non vanno più di moda, soprattutto se cambiano idea ogni giorno. Con i tempi che corrono, i capitani d'industria possono al massimo aiutare a vincere le elezioni, come Marchionne con Obama, se fanno bene il loro lavoro e danno lavoro. Ma è altamente improbabile che un altro Berlusconi, giovane gelataio o attempato billionaire che sia, possa ripetere il suo miracolo politico.

ANTONIO POLITO

10 novembre 2012 | 8:07© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_novembre_10/estremosmo-non-paga-polito_bea7a4ea-2b00-11e2-9d1b-8a6df7db52f7.shtml


Titolo: Antonio POLITO Due questioni non secondarie
Inserito da: Admin - Novembre 28, 2012, 11:21:04 pm
LO STRAVAGANTE BIPOLARISMO ITALICO

Due questioni non secondarie


Il rito democratico delle primarie ha funzionato. Non con lo stesso entusiasmo del passato, quando per Prodi andarono a votare quattro milioni e trecentomila persone nel 2005; o come nel 2007, quando per Veltroni si recarono alle urne tre milioni e mezzo di italiani. Però stavolta la gara era vera. Così vera che non è ancora finita.

Domenica avremo dunque il nome del primo candidato premier di queste elezioni in cui nient'altro è sicuro, neanche se ci saranno candidati premier o se il premier verrà scelto dopo il voto. Probabilmente il vincitore sarà Bersani: pur avendo ricevuto meno consensi di quattro anni fa, è stato ripagato della sua scelta di mettersi nelle mani degli elettori piuttosto che dei capi corrente. Renzi probabilmente perderà, ma la sua sarà una vittoria morale: il Davide fiorentino ha combattuto da solo contro tutti, e nonostante le accuse di deviazionismo di destra è andato forte proprio nel cuore rosso del popolo democratico. Il futuro, come si suol dire, è suo.
Però le primarie non servivano solo a esibire la passione e l'orgoglio dell'elettorato di centrosinistra, mai in discussione, o ad opporre una mobilitazione politica di massa al dilagare dell'antipolitica. Si sperava producessero anche un effetto benefico sull'intero sistema. E questo invece manca ancora, per due motivi.

Il primo non dipende dal Pd ed è la zoppìa evidente del bipolarismo che sembra profilarsi. Se domenica si presenterà infatti lo schieramento di sinistra, niente si sa di quello di destra, e notizie vaghe e contraddittorie provengono da quello di centro. Allo stato i due maggiori candidati alla vittoria sono l'alleanza di sinistra da una parte e Grillo dall'altra. È evidente che un bipolarismo così non può reggere. L'anomalia italiana si trasformerebbe in una vera e propria stravaganza in Europa. E però, se qualcosa di serio non accade nel campo dei moderati e dei conservatori, così sarà.

Il secondo motivo invece dipende esclusivamente dal Pd. Bersani si trova ora a un bivio. La sua vittoria finale dipende dal favore dei 485 mila elettori più radicali della coalizione, quelli che al primo turno hanno votato Vendola. Una minoranza, che però può ora influire in modo decisivo su carattere, programma e persino composizione del futuro governo. Vendola ha già detto che in cambio del suo appoggio vuole sentire «profumo di sinistra». Eppure quell'aroma già sembrava troppo forte a coloro che, in Italia e all'estero, temono che una maggioranza così non regga alla prova del terzo debito pubblico del mondo.

Nasce dunque qui un problema: la sconfitta di Vendola alle primarie sconfigge anche le sue posizioni contrarie al pareggio di bilancio, al relativo Trattato europeo e alle riforme varate dal governo Monti, come dovrebbe e come pensavamo che fosse? O paradossalmente le rafforza, consegnandogli già da subito un potere di veto? Trattandosi di scelte che riguardano tutti gli italiani, è perciò indispensabile che ogni intesa che da qui a domenica verrà siglata a sinistra sia pubblica e trasparente, nei programmi come negli organigrammi.

Antonio Polito

27 novembre 2012 (modifica il 28 novembre 2012)© RIPRODUZIONE RISERVATA

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Titolo: Antonio POLITO Le Favole da rottamare
Inserito da: Admin - Dicembre 04, 2012, 05:12:08 pm
LE ILLUSIONI DA SFATARE DIETRO IL SUCCESSO DI BERSANI

Le Favole da rottamare


«Dobbiamo vincere ma senza raccontare favole, perché poi non si governa». Questa frase, pronunciata da Pier Luigi Bersani subito dopo la vittoria, è forse il risultato più importante delle primarie del centrosinistra. Se il candidato premier ha sentito il bisogno di dirlo nel momento del successo, vuol dire che è consapevole che di favole ne sono state raccontate in questi mesi, e che è giunta l'ora di smetterla.

Nella favola più in voga si narra che l'arrivo della sinistra al governo libererà ingenti somme di denaro pubblico da investire in grandi opere (le «migliaia di cantieri» di cui parla Vendola), o in ritorni alle pensioni di anzianità (il progetto Damiano, poi bloccato dalla Ragioneria dello Stato perché costava 17 miliardi), o in «stimoli alla crescita» e «politiche industriali» (il keynesismo alla Fassina).

Questa favola si basa su due illusioni. La prima è che una sinistra vincente in Italia possa, in alleanza con i socialisti francesi e i socialdemocratici tedeschi, ribaltare il tavolo europeo e mettere fine al rigore. Ma pure in Francia la sinistra vinse promettendo di riscrivere il Trattato europeo che impone la disciplina di bilancio, e una volta al governo si è precipitata a votarlo così com'era. E in Germania i socialdemocratici hanno approvato il Fiscal Compact, e non sembrano disposti a suicidarsi alle elezioni proponendo di spennare i tacchini tedeschi per i debiti dei passerotti italiani.

La seconda illusione è che Mr. Spread non sia più con noi. È vero, ieri è finalmente tornato, anche se per poco, sotto quota 300, la casa dei conti pubblici non brucia più, e questo si deve proprio a quelle politiche di rigore che nelle favole si sogna di rottamare. Però non è immaginabile alcuna crescita se le banche italiane continueranno a pagare interessi doppi di quelle tedesche e a farli pagare tripli alle imprese e alle famiglie. Lo spread ce lo abbiamo ancora sotto la pelle. E non si può nemmeno escludere che, se facciamo le mosse sbagliate, si debba ricorrere all'ombrello della Bce prima o dopo le elezioni.

Di favole ne sentiremo anche altre in campagna elettorale. Tipo quella che dice che possiamo risolvere i nostri problemi uscendo dall'euro (Grillo), o che potremmo risolverli tornando all'autorevolezza e alla credibilità di quando c'era lui (Berlusconi). Il Bersani che ha vinto le primarie ha dunque ora il dovere, oltre che il diritto datogli dal voto popolare, di agire da premier in pectore. Il suo Pd assomiglia oggi di più a un grande partito europeo, sia per le dimensioni elettorali fotografate dai sondaggi, sia per il pluralismo culturale che vi ha portato la sfida delle primarie. Il successo delle idee liberal, eretiche fino all'altro ieri e ora approvate da quattro elettori su dieci, può allargare il campo della sinistra. A patto che non si creda all'ultima favola che si racconta nel Pd: e cioè che le primarie le ha vinte il «profumo di sinistra» di Vendola, che ha preso quasi il 16%, e le ha perse il «profumo di destra» di Renzi, che ha preso il 40%.

Antonio Polito

4 dicembre 2012 | 7:44© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_dicembre_04/bersani-favole-da-rottamare-Polito_692375b8-3ddd-11e2-ab02-9e37f2f89044.shtml


Titolo: Antonio POLITO Le scelte del Professore
Inserito da: Admin - Dicembre 10, 2012, 07:33:17 pm
Le scelte del Professore

C’è un’Italia dietro Mario Monti? Questa è in definitiva la domanda cui il Professore dovrà rispondere nelle prossime ore, e non riguarda solo il suo futuro. Silvio Berlusconi, l’uomo che sull’orlo del fallimento nazionale gli girò tutte le cambiali che aveva firmato con l’Europa e che non era in grado di onorare, vuole tornare. Eccita quella parte del Paese convinta che le cambiali si possono non pagare. Sa che è un’idea popolare. A destra, dove Maroni chiede al Pdl di «andare avanti, fino in fondo », anche se non è chiaro dove sia il fondo. Ma anche a sinistra dove, dalla Fiom a Vendola, c’è chi considera l’Europa un club di banchieri da rovesciare a colpi di deficit.

Il guaio maggiore del discorso di Milanello sta proprio nel ridare legittimità a entrambi questi estremismi. Anche se Berlusconi non vincerà le elezioni, ha già cambiato il contenuto delle elezioni. Da domani ciò che conta è di nuovo da che parte si sta, non che cosa si fa; da domani non si fa più di conto con i soldi pubblici, ma si rifà la conta dei voti che possono portare i soldi pubblici. Si gioca a berlusconiani contro antiberlusconiani, per la sesta volta di seguito. L’armistizio è durato 13 mesi. La guerra continua. Il mondo ci guarda incredulo.

Mario Monti ha la possibilità di fermare questo infernale meccanismo? Dopo il gesto con cui ha lasciato, indicando con chiarezza il responsabile, ha davanti a sé tre strade. La prima è ritirarsi, come il de Gaulle isolato dai partiti della Quarta Repubblica, in attesa che una nuova emergenza lo richiami. La seconda è fare da garante di futuri governi di sinistra che abbiano bisogno di farsi garantire, poiché le loro credenziali in Europa e sui mercati non sono sufficienti: Bersani ci spera. La terza strada è scommettere che ci sia davvero un’Italia dietro di lui, un’Italia che considera quest’anno un inizio, non una parentesi, e chiederle di contarsi. Facendo dunque appello al popolo nell’unico modo conosciuto in democrazia: chiedendone il voto. Non in conto terzi.

Dal punto di vista personale, ognuna di queste scelte sarebbe legittima e dignitosa. Ma la terza cambierebbe lo scenario: invece che l’ennesimo referendum su Berlusconi, le elezioni diventerebbero un referendum sull’Europa. Si dice che Monti abbia avuto più applausi all’estero che in patria: ma è ciò che serviva a un Paese con il quarto debito del mondo, che dipende dunque dalla fiducia altrui per respirare oggi e prosperare un domani. Il governo ha certamente commesso errori, ma la direzione di marcia era chiara e lo stile nuovo. L’ultimo provvedimento varato è stato l’incandidabilità dei condannati; l’ultimo provvedimento impedito è stato il taglio delle Province. Può essere che l’Italia di Monti sia minoritaria, ma ovunque, perfino in Grecia, di fronte all’alternativa «o dentro o fuori» gli elettorati hanno scelto l’Europa. E, in ogni caso, di minoranze coraggiose c’è sempre bisogno in un Paese in cui le maggioranze elettorali si sciolgono di solito come neve al sole.

Antonio Polito

10 dicembre 2012 | 7:31© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_dicembre_10/polito-le-scelte-del-professore-monti_d62bd95a-428f-11e2-af33-9cafd633849d.shtml


Titolo: Antonio POLITO - La solitudine dei numeri primi
Inserito da: Admin - Dicembre 23, 2012, 02:23:54 pm
UNA SCELTA E IL QUADRO POLITICO

La solitudine dei numeri primi

È comprensibile l'incertezza che macera Mario Monti. Per quante e importanti siano le sue relazioni internazionali, nella politica italiana è un uomo solo. Il suo anno nelle istituzioni è stato «octroyé», cioè concesso dai partiti. Ora che ha messo le tasse e fatto le riforme che loro non avevano il coraggio di mettere e fare, non vogliono che contenda i loro voti. Dopo il servo encomio, è dunque l'ora del codardo oltraggio.
Gli avvertimenti di Berlusconi e D'Alema sono stati brutali ma univoci; si tratta di uomini potenti e i loro non sono consigli da prendere alla leggera. L'unico potere che l'ha protetto, il Quirinale, da oggi non può più farlo: con lo scioglimento delle Camere, si scioglie anche il governo del Presidente.
A Monti non resta che il Centro. Ma il Centro, come ha spiegato ieri Angelo Panebianco, è un luogo ambiguo nel bipolarismo infantile imposto dal Porcellum : perché i suoi voti contino, devono essere messi a disposizione del vincitore. Non il viatico migliore per prenderne molti.
Ecco spiegato perché a destra e a sinistra, dopo aver giurato per un anno di volersi disfare del sistema elettorale e di aspirare a un bipolarismo maturo, e c'era solo da decidere se tedesco o francese, alla fine siano tutti felici di restare italiani.
La sesta discesa in campo di Berlusconi ha poi fatto il resto. Ha radicalizzato in pochi giorni lo scontro elettorale, rimettendo tutti nelle posizioni di sempre, come al gioco delle belle statuine. Dopo un anno passato a occuparci di cose noiose come lo spread, siamo allegramente tornati al referendum sul Cavaliere, sui suoi minutaggi televisivi e sulle sue rodomontate. Tertium non datur . Bersani ne è così contento che è pronto perfino a concedere all'avversario di sempre la sfida tv. Aggiungiamoci un altro pm che scende in politica sfruttando la popolarità ottenuta con un'inchiesta, e il déjà-vu del ventennio è quasi completo: l'unica novità è un comico che apprezza gli ayatollah e vorrebbe uscire dall'euro.
Questa affannosa corsa alle estreme è certamente una delle cause che sconsigliano a Monti la competizione elettorale. Allo stesso tempo però è anche la prova della nostra mancata guarigione, e dunque consiglierebbe un'offerta politica nuova per non ricascare nei vizi di sempre.
Monti dirà oggi che cosa ritiene vada fatto dal prossimo Parlamento. Un memorandum da lasciare ai partiti è sempre utile, ma è bene sapere che i partiti sono ormai in fuga dall'agenda Monti, come hanno dimostrato le ultime convulse giornate parlamentari. Resta da capire chi si batterà per quel programma, sia che Monti torni Cincinnato, come appare più probabile, sia che si arrischi a fare il Cesare dei centristi. Perché ogni giorno di incertezza che passa indebolisce entrambe le opzioni, e rischia di trasformare la solitudine di Monti in ostracismo alle riforme.

ANTONIO POLITO

23 dicembre 2012 | 8:01© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_dicembre_23/la-solitudine-dei-numeri-primi-antonio-polito_a0db8568-4cce-11e2-83d8-cd3029dc7d61.shtml


Titolo: Antonio POLITO Un difficile equilibrio
Inserito da: Admin - Gennaio 10, 2013, 07:45:55 pm
LE DIVERSE COMPONENTI DEL PD

Un difficile equilibrio


Non deve stupire che perfino Matteo Renzi, un giorno dopo Stefano Fassina, abbia attaccato Mario Monti dandogli del demagogo. Quando si avvicinano le elezioni i politici cambiano pelle: anche chi voleva essere leone si fa volpe, e se necessario pure gazzella, pur di raggiungere l’obiettivo della conquista del potere, che in un partito è il fine ultimo dell’azione politica. E il partito di Bersani è ormai un partito disciplinato. Così come il New Labour di Blair «silenziò» la sua ala sinistra per vincere le elezioni dopo 18 anni di digiuno, nel Pd di Bersani si sta dunque «silenziando » l’ala destra, che a dire il vero spesso si autosilenzia da sola.

Ma più del comportamento del ceto politico, ciò che è importante valutare è che cosa stia accadendo nell’elettorato del Pd, perché sarà di grande importanza anche dopo il voto. Il nocciolo duro, quello dei circoli e dei militanti, ha impresso con le primarie una netta svolta a sinistra che ha indotto anche molti «moderati» ad adeguarsi, soprattutto quelli ricandidati. Ma alle primarie ha votato un decimo dell’elettorato del Pd. I restanti nove decimi stanno ricevendo segnali contraddittori sul tema del rapporto, passato e futuro, con Mario Monti.

Secondo autorevoli commentatori come Eugenio Scalfari, infatti, l’agenda di Monti è uguale all’agenda di Bersani: quindi il primo avrebbe dovuto evitare di fare la competizione al secondo, e anche per lui si sarebbe trovato un posto da «indipendente», al governo o al Quirinale. Secondo Bersani medesimo, però, la sua agenda differisce in maniera sostanziale, essendo identica per ciò che in quest’anno ha funzionato — il controllo dei conti e dello spread—ma diversa per ciò che è andato male: e dunque promette di trovare nei conti le risorse per metterci «un po’ di crescita e di equità ». Invece lungo l’asse Fassina- Vendola-Camusso l’agenda Monti è proprio da rottamare, perché è l’agenda della destra europea che sta portando al disastro il continente, anzi «thatcheriana e reaganiana» secondo il segretario della Cgil.

Bisognerà vedere a chi crederanno di più gli elettori, tra queste tre posizioni. Perché man mano che si allontanano da quella di Scalfari e si avvicinano a quella di Camusso, le sorti di un ipotetico governo di sinistra possono cambiare. Si tratta di un antico problema, un vero e proprio circolo vizioso della sinistra. Funziona così: negli anni dell’opposizione si creano aspettative esagerate (per esempio di riaprire il discorso sulle pensioni di anzianità); una volta al governo si deludono necessariamente e rapidamente quelle aspettative; l’elettorato deluso ben presto si stacca (vedi sondaggi sulla presidenza Hollande); la componente interna di sinistra comincia ad inseguire l’elettorato deluso; nella rincorsa prima o poi la corda si spezza; il governo cade.

Renzi è oggi sicuro che Vendola farà il bravo ragazzo, e che non si assumerà la stessa responsabilità che si prese insieme con Bertinotti nel 1998, facendo cadere il primo governo Prodi. È possibile. Ma pure Bertinotti era diventato un bravo ragazzo nel 2006, al secondo tentativo di Prodi, eppure il governo cadde lo stesso, anche quella volta in soli due anni. Più delle personalità e dei patti preelettorali, contano infatti le logiche politiche. Se si fa credere ai propri elettori che Monti è l’inferno e poi non li si porta in paradiso, si può star certi che prima o poi un Turigliatto salta fuori; e per mandare al diavolo i ricchi finisce per mandarci la sinistra, per la terza volta in vent’anni.

Antonio Polito

9 gennaio 2013 | 7:28© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_gennaio_09/un-difficile-equilibrio-antonio-polito_0fd121a2-5a22-11e2-b3af-cb49399e516b.shtml


Titolo: Antonio POLITO Sorprese, ricatti e buttafuori
Inserito da: Admin - Gennaio 23, 2013, 09:01:00 am
LA SCENEGGIATA DELLE LISTE CAMPANE

Sorprese, ricatti e buttafuori

Nicola Cosentino era impresentabile, e dunque non è stato presentato nelle liste del Pdl in Campania. Sembra un'ovvietà, ma è una novità. Si è alzata l'asticella della decenza pubblica: gli italiani hanno fissato nuovi limiti a ciò che è consentito in politica, e ora tutti ne devono tener conto. Quest'anno non è passato invano. Mentre pagavamo i debiti dello Stato, ci sono diventati intollerabili i predatori insediatisi nello Stato. E bisogna ammettere che i nuovi arrivati, da Grillo a Monti, seppure in modi molto diversi tra loro, hanno contribuito a rendere inaccettabile ciò che lo è.


Il trauma nel Pdl è grande, perché escludere un imputato è più difficile in un partito il cui leader è a sua volta imputato in tre processi e vive in una condizione di guerra perenne con la magistratura. E perché è difficile per tutti, non solo per dei garantisti, prendere una decisione che tra qualche settimana aprirà le porte del carcere preventivo all'ex deputato Cosentino, accusato di essere un «colletto bianco» della camorra (del resto un anno fa l'ex ministro dell'Interno Maroni, oggi principale alleato di Berlusconi, votò ostentatamente a Montecitorio per il suo arresto). Ci sono volute 72 ore di feroce battaglia politica e un epilogo tra il drammatico e il farsesco, con l'escluso accusato di fuggire con le liste, il caos per ricostruirle, il sospetto su chi tra i suoi sponsor gliele avesse date.

Eppure, sebbene la presunzione di innocenza valga anche per Cosentino, non c'era bisogno dei sondaggi per capire che quella candidatura avrebbe politicamente sfregiato la coalizione di centrodestra. Al Nord ma anche al Sud, dove perfino il governatore pdl della Campania, Stefano Caldoro, aveva posto il suo aut aut: «O lui o me». Spinto da un Alfano tornato a combattere una battaglia di rinnovamento del partito, alla fine Berlusconi ha detto no.


Purtroppo però non tutto è bene ciò che finisce bene. Intanto Cosentino ha dato una preoccupante dimostrazione di forza. Per il Cavaliere è stato più facile mettere da parte Dell'Utri, sodale di una vita, che il ras della Campania. Perché? Le minacce dell'escluso («Vi sfascio, vi rovino») fanno pensare che almeno in Campania il Pdl sia più una truppa di capitani di ventura che un partito, e che qualcuno di loro abbia accumulato abbastanza potere da ricattare il re. L'autoriforma di quel partito deve cominciare da lì: democrazia interna e collegialità.


Il secondo problema sta nel fatto che, ancora una volta, i partiti si sono dovuti far scrivere il copione dai giudici. Questo riguarda anche il Pd, che pure con ben altra decisione ha tolto dalle liste i suoi «chiacchierati». Alcuni di loro però avevano addirittura fatto e vinto le primarie. Ci vuole dunque una legge che regoli la vita dei partiti, del resto prevista dalla Costituzione. E ci vuole una riforma elettorale che dia agli elettori il potere di scegliere i parlamentari, invece che a un sinedrio o a un capo.
Infine bisogna ricordare che l'impresentabilità non è un aspetto solo penale. Di relitti di una politica arrogante e incapace, pur senza avvisi di garanzia, nelle liste ne sono rimasti parecchi.

Antonio Polito

22 gennaio 2013 | 8:18© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_gennaio_22/cosentino-ricatti-Polito_d80cff5e-645b-11e2-8ba8-1b7b190862db.shtml


Titolo: Antonio POLITO Non ci sono più pasti gratuiti
Inserito da: Admin - Febbraio 09, 2013, 10:42:42 am
LA COMPETITIVITÀ, TEMA DIMENTICATO

Non ci sono più pasti gratuiti


Forse stiamo avendo la campagna elettorale che ci meritiamo. Si avverte rassegnazione, assuefazione a un destino di impoverimento e di declino. Ognuno se ne lamenta, certo, e ognuno cerca di lenirne il disagio tirando la coperta dalla propria parte, magari preparandosi a votare per chi promette di proteggerlo di più; ma nessuno sembra davvero credere che esista il modo di allargare la coperta. L'essenza della crisi italiana resta nascosta, taciuta: produciamo troppa poca ricchezza rispetto a quanta ne consumiamo. Per questo ci siamo riempiti di debiti.
Se vent'anni fa si poteva credere allo slogan «meno tasse per tutti», ora il pessimismo consiglia un «meno tasse per me e più per gli altri».
Il tarlo del «gioco a somma zero», l'idea che se uno sta meglio un altro deve per forza stare peggio, si è insinuato nello spirito pubblico della nazione. In parte è l'effetto di una lunga depressione. Ma ne è anche la causa. Abbiamo avuto quindici anni di stagnazione e cinque di recessione; nessuno, neanche il Giappone, ha conosciuto un ventennio peggiore.

I partiti attizzano la guerra fratricida tra italiani per le risorse pubbliche, ingegnandosi a scovare sempre nuove tasse per sostituire quelle che pagano i propri elettori: accise sui tabacchi al posto di imposte sulla casa, condoni dei capitali in Svizzera invece che gettiti di Equitalia, patrimoniali sui ricchi per sconti sui poveri. Si illudono di usare il Fisco come strumento salvifico di giustizia sociale.
Di conseguenza si scagliano addosso devastanti sospetti di clientelismo fiscale: i quattro miliardi dell'Imu servono a salvare il Monte dei Paschi o a pagare le multe per le quote latte?

L'altra sera in tv c'era un servizio sulla crisi della storica Cartiera Burgo. Un operaio la spiegava semplicemente così: non siamo più competitivi, l'energia elettrica costa troppo, non conviene più produrre qui. Si potrebbe aggiungere che anche il costo del lavoro è troppo alto, nonostante i salari siano troppo bassi, perché dalla nascita dell'euro a oggi è cresciuto in Italia il 30% in più della media europea.
Si potrebbe aggiungere che non si investe in ricerca applicata, che il mercato del lavoro è ancora uno dei più rigidi del mondo, che i gradi di burocrazia necessari per avviare un'impresa sono cinquanta come le sfumature del grigio. Uno studio in circolazione a Francoforte mette il nostro Paese in fondo alle classifiche di tutti i fattori di competitività, compresi i livelli di corruzione e di educazione. Ma i politici in studio non hanno parlato di niente di tutto ciò. Hanno cominciato a snocciolare progetti, ovviamente finanziati con le tasse, per assistere le vittime di questo tsunami sociale o per disegnare «piani» per il lavoro, magari fantasmagorici come quello dei 4 milioni di posti evocato ieri da Berlusconi. Ma come si crea lavoro se non si producono più beni e servizi, e a costi minori?

Ha scritto Lorenzo Bini Smaghi sul Financial Times che la parola mancante di questa campagna elettorale è quella cruciale: competitività.
La nostra non è migliorata neanche dopo la crisi, nonostante la cura da cavallo della svalutazione interna: è infatti cresciuta meno che in Spagna e Irlanda, perfino meno che in Grecia. Per questo noi italiani stiamo soffrendo più di ogni altro in Europa, con l'eccezione dei poveri greci: dal 2008 il Pil è sceso di 7 punti, facendo fare al nostro reddito un balzo indietro agli anni 90. La crisi è così grande che non andrebbe sprecata. E invece la stiamo sprecando, con una campagna elettorale che somiglia sempre meno all'alba della Terza Repubblica, e sempre più a una reincarnazione della Seconda.

Antonio Polito

8 febbraio 2013 | 8:23© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_febbraio_08/no-pasti-gratuiti_3ce6e652-71b7-11e2-8d40-790077d2d105.shtml


Titolo: Antonio POLITO Il marcio e il caos
Inserito da: Admin - Febbraio 17, 2013, 09:15:53 pm
Il marcio e il caos

Forse il Consiglio superiore della Magistratura dovrebbe disporre un'indagine statistica per accertare se questa storia della giustizia a orologeria è vera o no. Se è vero, cioè, che in momenti politici particolarmente delicati, come una campagna elettorale, l'attivismo delle procure si intensifica e gli ordini di custodia cautelare fioccano. Certo è che negli ultimi giorni il tintinnar di manette si è sentito, eccome. Ma è provenuto da luoghi così distanti tra loro e per inchieste così diverse l'una dall'altra che è difficile credere all'ipotesi della «manona giudiziaria» di cui ha parlato Silvio Berlusconi. Più che al disegno intelligente di un deus ex machina che manovra dall'alto le inchieste, sembra piuttosto di assistere a un vero e proprio caos organizzato, all'incrociarsi casuale ma micidiale delle tre debolezze del sistema-Italia: una corruzione dilagante, una politica declinante, una giustizia debordante.

La corruzione dilagante è sotto gli occhi di tutti. C'è del marcio in Italia, e questo è un fattore killer per la nostra economia. I capitali esteri non arrivano anche perché sanno che da noi si paga il pizzo, la tangente, la mancia; che si può essere scavalcati da un concorrente solo perché gioca sporco; che la trasparenza nei confronti del mercato non è la Bibbia del nostro capitalismo di relazioni (è con l'accusa di comunicazioni truffaldine e aggiotaggio che è stato arrestato ieri il finanziere Alessandro Proto). Il coinvolgimento contemporaneo di tre grandi aziende come Monte dei Paschi, Eni e Finmeccanica in vicende nelle quali la governance è sotto accusa, depone male per il Paese non meno del debito pubblico. La domanda che circola nel mondo è: ci si può fidare di voi? È un costo in più del rischio-Italia. La corruzione è così dilagante che talvolta rischiamo di perseguire come tale anche ciò che altrove è considerato solo lobbismo, dandoci ulteriormente la zappa sui piedi. Il confine è molto sottile, ma i nostri magistrati dovrebbero seguire il criterio dell'applicazione «ragionevole» della norma, suggerito più volte dalla Consulta.

La politica declinante è invece lo sfondo di questo giudizio universale. Un regime politico al tramonto è la riserva di caccia ideale per gli inquirenti, perché le loro prede perdono protezione e spesso anche lucidità. Fu così anche nel crollo della Prima Repubblica: prima venne la vittoria elettorale della Lega, che mandò in tilt il sistema, e solo dopo le inchieste di Tangentopoli, che gli assestarono il colpo di grazia. Quel che oggi accade a Finmeccanica, il cui capo azienda è stato arrestato, allora toccò all'Eni con i quattro mesi di carcerazione preventiva per Gabriele Cagliari, finiti con un tragico suicidio. Se allora fu l'emergere della Lega a consentire ai magistrati di attaccare un feudo del potere socialista, oggi è il declinare della Lega a lasciare Orsi privo della protezione che l'aveva portato fino alla guida del gruppo.

In ogni caso, non c'è speranza di pulizia finché i vertici di grandi aziende con proiezione internazionale verranno scelti dalla politica per motivi politici. Si è visto a sinistra con il Monte dei Paschi di Siena, una banca gestita di fatto dal Pds-Ds-Pd. Si vede ora a destra con Finmeccanica, basta leggere come fu scelto il vertice secondo la testimonianza di uno dei papabili: «Letta e Berlusconi erano per la mia nomina, Tremonti non era in disaccordo, solo la Lega spingeva per Orsi...». Il quale Orsi, appena nominato, provvide subito a spostare la sede legale di Alenia Aermacchi da Pomigliano d'Arco al Varesotto, terra natale di Maroni.

Infine c'è la giustizia debordante, antico male italiano che non sembra essere stato in alcun modo curato in questi vent'anni in cui pure la politica ha molto strepitato contro la magistratura. Innanzitutto c'è un uso disinvolto, insistito e spesso spettacolare della custodia cautelare. È difficile non chiedersi perché per inchieste che duravano da mesi (Finmeccanica e Monte Paschi), o per personaggi noti come Massimo Cellino e Angelo Rizzoli, si sia resa improvvisamente indispensabile la privazione della libertà personale. L'impressione è che la lentezza del sistema giudiziario stia convincendo più di un magistrato che l'unica condanna ottenibile sia quella dell'opinione pubblica, e che il mandato di cattura venga talvolta usato come una sentenza. A questo si aggiunge un sistema mediatico che sempre meno fa differenza tra sospetti e prove, un pubblico eccitabile che chiede giustizieri invece che giustizia, e uno star system che sempre più proietta le toghe celebri in politica. È un corto circuito che innesca un populismo giudiziario non meno pernicioso del populismo politico. Il quale, a dieci giorni dalle elezioni, sentitamente ringrazia.

Antonio Polito

15 febbraio 2013 | 9:05© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_febbraio_15/il-marcio-e-il-caos-polito_b8e3a646-7743-11e2-a4c3-479aedd6327d.shtml


Titolo: Antonio POLITO Una soluzione ragionevole. - LA GESTIONE DELL'EMERGENZA
Inserito da: Admin - Marzo 02, 2013, 10:59:51 pm
LA GESTIONE DELL'EMERGENZA

Una soluzione ragionevole

La frettolosa offerta di Bersani a Grillo è il frutto di un vizio antico: inseguire ogni nuovo radicalismo come se fosse una «costola della sinistra», sperando così di riassorbirlo. Ma Grillo, nonostante abbia strappato molti elettori alla sinistra, non è un compagno che sbaglia.
È un'altra cosa. E per capire che cos'è andrebbe innanzitutto preso in parola. La sua risposta a Bersani è infatti un programma politico:

1) non voterò mai la fiducia a nessun governo;

2) non certo a chi è stato sconfitto e si sarebbe già dovuto dimettere;

3) se proprio volete, votate voi la fiducia a un governo 5 Stelle.

Tutto dice che non sta bluffando. Il suo movimento è nato per spazzare via il sistema dei partiti; perché mai dovrebbe accorrere a salvarlo proprio ora che è morente? Non sarà il senso di responsabilità a frenarlo, non ne ha: se la promessa di rimborsare l'Imu di Berlusconi è «voto di scambio», la sua proposta del reddito di cittadinanza è «aggiotaggio». E poi Grillo vuole cambiare il mondo, è portatore di una vera e propria ideologia: si batte per la decrescita felice, un'Italia in cui tutti siano più poveri ma più solidali ed ecocompatibili, «meno lavoro, meno energia, meno materiali». Non la svenderà per sedersi al tavolo di una trattativa politica.

Naturalmente possiamo sbagliarci. Ma, se non ci sbagliamo, il rompicapo italiano paradossalmente si semplifica. È infatti fuori discussione che bisogna formare un governo. Finché non ce n'è uno, nessuno investe, nessuno compra, nessuno presta: l'anno potrebbe finire con un altro crollo del due per cento di Pil. La decrescita è già tra noi, e non sembra affatto felice.

Serve dunque una maggioranza che voti la fiducia a un governo in entrambe le Camere. Se Grillo si escluderà, resteranno solo in tre: il Pd, il Pdl e Monti. La soluzione si trova lì, o non si trova.

È possibile? È molto difficile. Ma la comune rovina potrebbe diventare un'opportunità. Avendo perso insieme più di dieci milioni di voti, i due partiti maggiori dovrebbero cercare un nuovo inizio, piuttosto che sperare in un colpo di fortuna al casinò con un altro giro di Porcellum . Hanno entrambi bisogno di tempo per emendarsi, rigenerarsi, farsi perdonare. Il disastro politico che abbiamo di fronte è colpa loro.
Del resto il Paese ha bisogno di qualcosa che solo loro possono fare: la riforma di una democrazia parlamentare che non funziona più.
Da tempo il Pd chiede il modello elettorale a doppio turno; da tempo il Pdl aspira al presidenzialismo. Basterebbe sommare le due cose per darsi un sistema istituzionale forte come in Francia, che garantisce esiti elettorali certi e governi stabili.

A Grillo i partiti potrebbero rubare il programma di moralizzazione della vita politica semplicemente applicandolo, e nel modo più integrale: azzeramento del finanziamento pubblico, dimezzamento del numero dei parlamentari, eliminazione del Senato (diventerebbe una Camera dei rappresentanti delle Regioni), abolizione delle Province. In prima fila dovrebbero mandare la seconda generazione, accantonando i gruppi dirigenti attuali: quello del Pd perché ha perso troppe elezioni, quello del Pdl perché ha fallito in troppi governi. A Palazzo Chigi dovrebbe andare un homo novus , meglio se donna, e al Tesoro una personalità fuori dalla mischia che applichi gli impegni che abbiamo già preso con l'Europa. Un governo sostenuto dai due maggiori partiti avrebbe forse la forza di trattare con la Germania per un allentamento dell'austerità e con la Bce nell'eventualità di un paracadute; mentre ogni governicchio sarebbe un paria sulla scena internazionale e ogni avventura sarebbe un incubo.

Se fossimo in Germania un governo così sarebbe già nato, e non è escluso che un risultato elettorale ambiguo lo faccia nascere davvero anche lì a fine anno. In Italia ha davanti a sé due formidabili ostacoli: la guerra civile strisciante che dura da vent'anni e la posizione giudiziaria di Silvio Berlusconi, che a lui fa sognare lo scudo di una carica istituzionale e ai suoi nemici fa sperare in un nuovo esilio d'oltremare.
 
Ma il Pd e il Pdl devono sapere che quando i partiti non servono a governare vengono spazzati via. In Francia stavano per farlo i generali, prima che de Gaulle desse vita alla Quinta Repubblica. In Italia sta per farlo Grillo.

Antonio Polito

1 marzo 2013 | 8:20© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_marzo_01/soluzione-ragionevole_f3a901c4-8231-11e2-b4b6-da1dd6a709fc.shtml


Titolo: Antonio POLITO - LE DIFFICILI SCELTE DEL PD
Inserito da: Admin - Marzo 12, 2013, 06:40:38 pm
LE DIFFICILI SCELTE DEL PD

Tre ipotesi per un partito

Che cosa deve fare il Pd? Che cosa gli conviene fare? E ciò che gli conviene, coincide con ciò che conviene all'Italia? Sono domande alle quali è difficile rispondere: il giovane Partito democratico deve trovare in queste ore il senso della sua missione nazionale, o perdersi. Ne è dunque comprensibile il travaglio, e anche l'evidente stato di choc.

Con la ri-discesa in campo di Renzi, le linee possibili sono diventate tre. La prima è quella di Bersani: andare alle elezioni dopo aver corteggiato Grillo. La seconda è quella dello sfidante alle primarie: andare alle elezioni senza aver corteggiato Grillo. Il segretario e il suo gruppo dirigente si muovono infatti come se fossero convinti che i voti del Pd e quelli del Movimento 5 Stelle siano interscambiabili. Gli appelli degli intellettuali di area ne sono la prova. L'idea è che, in realtà, la sinistra ha vinto le elezioni, solo che si è divisa a causa dell'eccessiva timidezza del Pd. Basta dunque riunificarla sotto le bandiere di un maggiore radicalismo. E se Grillo non ci sta a mettersi nel corso della Storia, il popolo capirà, e i voti in libera uscita torneranno alla casa del padre.

Renzi la vede diversamente. Non solo non crede alla possibilità di un accordo con Grillo, e anzi bolla come «scilipotismo» il retropensiero di quei bersaniani che sperano di staccare qualche stellina dalle 5 Stelle (in realtà di senatori ne servirebbero almeno una quarantina). Ma Renzi crede anche che un accordo non sarebbe nell'interesse del suo partito, perché lo consegnerebbe a un movimento ambiguo, integralista, intriso di sentimenti anti-parlamentari e anti-europei, umiliando così la vocazione di forza di governo per cui il Pd fu fondato. Renzi pensa di poter battere Grillo sul suo stesso terreno, da solo e in campo aperto. Per questo spera che il dialogo fallisca e che si torni alle urne.

Queste due linee sono opposte: l'una tiene in sella Bersani, l'altra lo sostituisce a breve (anche se a Renzi non basterà giocare il secondo tempo della partita come se fosse il primo, perché la Storia non si ripete mai uguale a se stessa, e in natura il vuoto si riempie in fretta).

Però entrambe le strategie si muovono, per così dire, all'interno di un sistema Grillo-centrico: nella convinzione cioè che sarà lui il competitor della sinistra nel futuro bipolarismo italiano. Entrambe dunque sottovalutano la forza della destra, che pure ha appena preso alle elezioni gli stessi voti della sinistra, pur uscendo da un disastro di governo; e trascurano le ragioni profonde del suo elettorato, non meno interessanti da comprendere di quelle degli elettori 5 Stelle. La terza linea possibile del Pd sarebbe perciò quella di aprire un dialogo con questa parte del Paese e del Parlamento, nella quale ci sono forze interessate più di Grillo a un progetto di salvezza nazionale. Complice il solipsismo giudiziario in cui appare ormai avviluppato il leader della destra, questa terza linea per ora è in sonno nel Pd. Ma le prossime settimane potrebbero risvegliarla; e, con essa, le poche residue speranze di un compromesso istituzionale capace di evitare la rovina comune.

Antonio Polito

11 marzo 2013 | 10:24© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_marzo_11/tre-ipotesi-per-un-partito-antonio-polito_698fddf8-8a0d-11e2-8bbd-a922148077c6.shtml


Titolo: Antonio POLITO Le Camere non sono il ripostiglio della Rete
Inserito da: Admin - Marzo 17, 2013, 11:34:26 am
Il caso M5S

Le Camere non sono il ripostiglio della Rete


Benvenuti nel mondo dei franchi tiratori. I grillini erano entrati in Parlamento appena l'altro ieri compatti come una falange macedone, monolitici come una novella Compagnia di Gesù, giurando obbedienza perinde ac cadaver. E al primo voto vero, alla prima occasione in cui non hanno potuto evitare di scegliere, si sono clamorosamente divisi. La democrazia parlamentare non è un « meet up ». È fatta di voti e di regole. E senza vincolo di mandato.

Messi di fronte all'alternativa tra Grasso e Schifani, numerosi senatori grillini hanno dunque rifiutato una sdegnosa equidistanza, e cioè il mantra stesso di un movimento che considera i partiti tutti uguali e tutti da cancellare, per sostituirli con la democrazia diretta del 100 per cento in cui i cittadini si autogovernano. Non basta star seduti sugli spalti alle spalle di tutti gli altri per evitare di sporcarti nell'arena, quando ti chiamano a votare per appello nominale. Né viene in aiuto la tattica indicata ai suoi seguaci da Beppe Grillo, valutare «proposta per proposta» per evitare così di fare scelte «politiche». Quella di votare Grasso era infatti una «proposta», e un buon numero di senatori grillini l'ha accettata, facendo così una scelta altamente politica.

L'inflessibile logica del sistema parlamentare, nel quale alla fine di ogni discussione c'è sempre un ballottaggio in cui devi dire sì o no, non è d'altra parte aggirabile con i riti della democrazia online, perché sulla Rete non vale la regola «una testa un voto» ma votano solo le minoranze attive. Sarà sempre più difficile, emendamento per emendamento, stare in Parlamento aspettandosi che a decidere sia qualcuno che sta fuori. Ogni giorno si vota innumerevoli volte, e ogni voto può avere conseguenze sulla vita di tutti. Ecco perché l'assemblea parlamentare è diversa da un consiglio comunale o da un'assemblea condominiale: perché fa le leggi, la cosa più politica che ci sia.

D'altra parte i «grillini» non sembrano aver finora trovato nemmeno un modo accettabile per garantire quella trasparenza e pubblicità del dibattito che finché erano fuori del Parlamento sembrava la più innovativa delle soluzioni. Finora l'unica riunione dei gruppi cui abbiamo assistito in «streaming» è stata quella in cui i neoparlamentari si presentavano: più un happening che un'assemblea politica. Ieri, quando il gruppo del Senato ha dovuto decidere, lo ha fatto invece a porte chiuse, con i giornalisti che origliavano come ai bei tempi della Dc, e che riferivano di urla e di pugni sul tavolo poi sfociati in un'aperta contestazione del capogruppo (altra questione delicata: i leader sono essenziali in ogni consesso, e i grillini non ne hanno uno in Parlamento; senza un leader e una linea, il motto «uno vale uno» non può che trasformarsi in continua divisione).

Ma l'astuta mossa di Bersani, che a Schifani ha evitato di opporre un nome usurato della vecchia politica per preferirgli l'ex magistrato antimafia, non ha solo aperto una crepa tra i «grillini», ha anche svelato due punti deboli di quel movimento. Il primo è il rischio di irrilevanza. Se continua così, il 25 per cento dei voti degli italiani in Parlamento non conta nulla. Il Movimento 5 Stelle è completamente privo di potere coalizionale. Il partitino di Vendola, che ha preso poco più del 3 per cento alle elezioni, ha usato invece al massimo quel potere, prendendosi la presidenza della Camera.

La seconda debolezza del M5S è che, per quanto Grillo lo voglia sottrarre alla logica destra-sinistra, la sua élite parlamentare, come segnalava ieri Michele Salvati su questo giornale, pende notevolmente a sinistra e al momento decisivo lo dimostra, come ieri per impedire la vittoria di Schifani. Non basterà forse a risolvere il problema di Bersani, visto che anche con i franchi tiratori «conquistati» ieri gli mancano ancora una ventina di senatori per un voto di fiducia, oltretutto palese; ma può bastare per logorare rapidamente la presa di Grillo sui suoi eletti, forse meno manovrabili di come lui se li immaginava.

Antonio Polito

17 marzo 2013 | 9:57© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_marzo_17/camere-non-sono-ripostiglio-della-rete_6bf360c0-8edf-11e2-95d7-5288341dcc81.shtml


Titolo: Antonio POLITO - Abbiate pietà
Inserito da: Admin - Marzo 31, 2013, 07:47:16 pm
L'EDITORIALE

Abbiate pietà

di  ANTONIO POLITO


Il Venerdì Santo di quindici anni fa, nel gelo del Castello di Stormont a Belfast, le due fazioni irlandesi che si erano combattute per trent'anni e tremila morti fecero pace. Alla trattativa erano presenti uomini che, dal versante cattolico e da quello protestante, avevano guidato milizie armate e avevano personalmente ordinato uccisioni e stragi degli avversari. Eppure ne nacque un governo comune dell'Irlanda del Nord.
Nel Venerdì Santo del 2013 i partiti italiani, che non escono da una guerra civile e che dovrebbero avere nel loro Dna l'attitudine al compromesso su cui si basano le democrazie, non sono stati capaci di dire di sì al presidente Napolitano e di dar vita a un governo. Non c'è neanche un punto di contatto fra i tre maggiori partiti: Grillo non vuole fare niente, Berlusconi vuole fare solo un governissimo impossibile perché il Pd lo rifiuta, e il Pd accetterebbe solo un governicchio dopo il fallimento di Bersani.

La gravità della crisi che sta sconvolgendo la Repubblica è tutta qui. La legge elettorale non riesce più a dare una maggioranza al Parlamento. Il Parlamento non riesce più a dare un governo al Paese. Il presidente è chiamato costantemente a riempire i vuoti di una democrazia parlamentare che ormai cammina come un ubriaco sull'orlo della Costituzione. E meno male che si tratta di Giorgio Napolitano, uomo di cui nessuno, né Berlusconi che sette anni fa si rifiutò di votarlo, né Grillo che appena qualche mese fa lo insolentiva, osa più negare l'imparzialità e il senso patriottico.

Però neanche Napolitano può più fare miracoli. È in scadenza di mandato. Non dispone dell'arma dello scioglimento anticipato. Non può forzare la mano ai partiti costringendoli a un governo del presidente, perché tra qualche settimana il presidente sarà un altro.

Stavolta solo un accordo tra i partiti può risolvere il rebus. Solo se c'è un compromesso, Napolitano può dargli un nome e una forma. Se non ci sarà, se nessuno mollerà neanche un po' delle sue ambizioni elettorali, personali o processuali, i partiti aggraveranno la crisi di sistema fino a coinvolgervi la Presidenza stessa, costringendo quella attuale a rinunciare anzitempo al mandato. Sarebbe una scelta drammatica, più un atto di accusa che un atto di dimissione, soprattutto da parte di un uomo come Napolitano che al servizio delle istituzioni non ha mai rinunciato. E sarebbe un parto prematuro della Presidenza futura, esposta al rischio di nascere con la tara di una scelta partigiana che contrasta con la lettera e lo spirito della Costituzione.

Nella lunga notte della politica italiana che dura da due settennati, solo il Quirinale è finora uscito miracolosamente indenne dall'incendio delle istituzioni. Coloro che abbiamo eletto stanno per appiccare il fuoco anche all'ultimo Colle della Repubblica?

Antonio Polito

30 marzo 2013 | 7:59© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_marzo_30/abbiate-pieta-antonio-polito_bbbc4d08-98fb-11e2-be8a-88dcfd04ece6.shtml


Titolo: Antonio POLITO Virtù repubblicane
Inserito da: Admin - Aprile 30, 2013, 04:47:30 pm
Virtù repubblicane

Oggi che l'espressione «uomo del secolo scorso» suona quasi come un insulto, bisogna onorarla in Giorgio Napolitano, nato nel 1925, appena sette anni dopo la fine della Grande Guerra, e appena chiamato ad altri sette anni di servizio alla Repubblica, che gli auguriamo duri fino al 2020. Perché è vero che i giovani sono il nerbo di una nazione, ma ci sono momenti in cui anche loro hanno bisogno della lezione dei padri della patria.

Questo è stato, una lezione di virtù repubblicana, il discorso breve, severo, ma intriso di commozione personale, con cui Napolitano non ha parlato al Paese, ma in nome del Paese. Ai parlamentari ha detto: la politica non è uno stato di guerra di tutti contro tutti, è un modo di governare la cosa pubblica; come tutti gli italiani, sono stanco di ricordarvelo; voi non rappresentate qui le vostre fazioni, e nemmeno i vostri elettorati, ma la nazione intera.

Il presidente, pur sempre esplicito, non aveva mai parlato così fuori dai denti. Ha indicato le cause del misero stato attuale nella «lunga serie di omissioni e di guasti, di chiusure e di irresponsabilità» dei partiti. Ha indicato nella «imperdonabile» mancata riforma del Porcellum la causa dell'ingovernabilità, e nella gara per la conquista del suo «abnorme premio» il miraggio che ha incantato il Pd di Bersani, «vincitore che ha finito per non riuscire a governare una simile sovra-rappresentanza» (del resto anche il vincitore precedente, che nel 2008 aveva ottenuto una ben più solida maggioranza, se l'era vista evaporare nel giro di due anni). Ha poi ricordato al Movimento 5 Stelle che la via del cambiamento non è nella contrapposizione tra Parlamento e Paese, e che tutti i partiti e i movimenti politici sono comunque vincolati «all'imperativo costituzionale del metodo democratico» (frase, almeno quella, che i parlamentari grillini avrebbero fatto bene ad applaudire).
Soprattutto Napolitano ha spiegato a tutti, specialmente ai tanti nuovi deputati che in queste settimane hanno più volte dimostrato di non saperlo e a chi li aizza dall'esterno, che la politica democratica consiste nel fare i conti con la realtà del risultato elettorale, e che non se ne può più di questa «sorta di orrore per ogni ipotesi di intese, alleanze, mediazioni, convergenze»; perché nessun partito ha vinto le elezioni, e d'altra parte in tutti i Paesi d'Europa governano delle coalizioni, talvolta anche tra forze in competizione, o perfino avverse tra di loro. A meno di non voler «prendere atto della ingovernabilità». Ma, alzando la voce, a questo punto Giorgio Napolitano ha aggiunto la frase chiave del discorso: «Non è per prendere atto di questo che ho accolto l'invito a prestare di nuovo giuramento come presidente della Repubblica».

Napolitano formerà dunque un governo. Spetterà alle Camere dargli la fiducia. «Se mi troverò di nuovo davanti a sordità come quelle contro cui ho cozzato nel passato - ha concluso - non esiterò a trarne le conseguenze davanti al Paese». Stavolta dispone di un'arma più forte della moral suasion , e la userà.

Antonio Polito

23 aprile 2013 | 10:17© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_aprile_23/polito-virtu-repubblicane_ef7d6240-abd3-11e2-b753-2de04ad0a16e.shtml


Titolo: Antonio POLITO Una domanda di governo
Inserito da: Admin - Maggio 31, 2013, 04:13:43 pm
L'EDITORIALE

Una domanda di governo

Non sempre opporsi paga


Dire che il voto di domenica abbia premiato il governo è certamente esagerato, soprattutto con queste percentuali di astensione. Ma di sicuro ha premiato il governare. Si è diretto cioè verso forze politiche disposte ad assumersi la responsabilità del fare, dell'amministrare la cosa pubblica. Tra queste non c'è il Movimento 5 Stelle. In democrazia anche il voto di protesta contiene sempre una richiesta di governo, seppure di un governo diverso. In assenza di risposte, la protesta ritorna nel non voto. È quello che, più o meno, ha fatto la metà degli elettori di Grillo. Il Movimento è così rientrato in limiti elettorali più fisiologici. L'anomalia non è ciò che è accaduto domenica, ma ciò che era successo alle elezioni politiche. I miracoli non si ripetono. E la reazione del leader, che rispolvera la sciocchezza antropologica di una Italia «migliore» che sta con lui e di una «peggiore», composta da più di venti milioni di pensionati e impiegati pubblici, che lo osteggia per interesse, rende anche più difficile che si ripetano.

La notizia della morte del bipolarismo destra-sinistra era dunque lievemente esagerata. Né sembra imminente la sua trasformazione, auspicata da Grillo, in una sfida tra lui e Berlusconi. Perché il Pd resiste. Pur nella crisi, dimostra di essere fatto di un materiale che è facile da piegare ma difficile da spezzare: il radicamento territoriale, ereditato dal Pci e dalla Dc, e una rete di amministratori locali credibili o esperti. Una cosa sono i trecento dirigenti che ne combinano di tutti i colori a Roma. Un'altra i tre milioni di elettori che corrono alle urne qualsiasi cosa accada a Roma, lo zoccolo duro del partito. Questo spiega perché meno gente vota e meglio va il Pd: dispone degli elettori più militanti, fino al limite del masochismo, e degli eletti più attendibili. E spiega anche perché se tornassero i collegi uninominali ai «grillini» non basterebbe più Grillo per prendere voti.

Esce in ogni caso smentita da questa consultazione la tesi che solo l'opposizione paghi, purtroppo molto di moda negli ultimi anni. Quello di domenica non è stato infatti un voto antigovernativo. C'è materia di riflessione per il Pd. Proprio quando i suoi critici interni lo giudicavano destinato ad essere spazzato via dall'alleanza con il Pdl, ha ridato un segno di vita. Mentre quando ha imitato il movimentismo e la protesta, come in campagna elettorale e subito dopo, ne è uscito a pezzi. D'altra parte è stato il «governo dell'inciucio» di Letta a far sua l'abolizione del finanziamento pubblico dei partiti, non il «governo di cambiamento» promesso da Bersani. Né vale l'obiezione che a Roma è arrivato primo il più anti-governativo dei candidati del Pd, Ignazio Marino, perché nella capitale il successo porta ben impresso il marchio governativo antico del sistema di relazioni di Goffredo Bettini.

I «governativi», però, devono stare attenti a non farsi illudere dallo scampato pericolo. Il gigante dell'opinione pubblica non si è affatto placato. È in attesa. Della politica gliene importa fino a un certo punto. Vuole un governo, e vuole che faccia qualcosa. A Letta e ad Alfano ha dato tempo, non consenso. Non ha voluto che tirassero le cuoia prematuramente, ma non permetterà che tirino a campare.

Antonio Polito

29 maggio 2013 | 9:15© RIPRODUZIONE RISERVATA

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Titolo: Antonio POLITO Il sospetto indelebile
Inserito da: Admin - Giugno 04, 2013, 05:29:20 pm
DIETRO LE PROPOSTE SUL PRESIDENZIALISMO

Il sospetto indelebile


«Il presidenzialismo rompe», titola l'Unità . E in effetti tutte le riforme sono una gran rottura per chi non vuol cambiare. Bisogna però capire se ciò che rompono era già rotto. In casi del genere anche il più prudente dei conservatori dovrebbe accettare l'urgenza del cambiamento. Ebbene in Italia da due anni e mezzo il governo non è più espressione del voto dei cittadini: prima con il Berlusconi-Scilipoti, poi con il Monti-Passera e ora con il Letta-Alfano, si è dovuti ricorrere a soluzioni in vario grado extra-elettorali. Di conseguenza il capo dello Stato, figura non eletta direttamente dai cittadini, svolge di fatto da tempo il ruolo di primo piano nella formazione dei governi e del loro programma. La legge elettorale non riesce più a dar vita a una maggioranza in entrambe le Camere. La Corte costituzionale sta per sancirne la illegittimità. Il nostro sistema politico è già rotto, che altro ci vuole a capirlo? Chi dice che non è una priorità cambiarlo usa dunque lo stesso argomento di Grillo, per il quale non era una priorità nemmeno fare un governo.

Eppure è bastato un barlume di possibile accordo tra i partiti sulla riforma costituzionale per far scattare il riflesso pavloviano di chi da vent'anni crede che riforme e berlusconismo siano sinonimi: e giù allarmi di svolta autoritaria, pericoli di scorciatoie carismatiche, mobilitazioni in difesa della Costituzione più bella del mondo, che non si tocca perché non è cosa vostra (dunque è cosa nostra?). Siccome è impossibile dipingere la Francia semi-presidenziale come una Repubblica delle banane, allora si lascia intendere che lo sia l'Italia, malata cronica di autoritarismo e sempre in cerca di un nuovo duce. Gli stessi che sostenevano l'improbabile tentativo di Bersani di reclamare Palazzo Chigi con l'argomento che in Francia Hollande aveva ottenuto l'Eliseo con il 29% dei voti al primo turno, ora inorridiscono all'idea del secondo turno e dell'Eliseo. Chi ha speso anni a raccomandare una radicale rigenerazione della nostra democrazia rappresentativa, ora si accontenterebbe di una «manutenzione». Non è questione di sistemi. Hanno respinto a turno anche il modello americano perché dà troppi poteri al presidente, l'inglese perché ne dà troppi al premier e il tedesco perché ne dà troppi al cancelliere. Ora bocciano il francese per salvare l'unico potere cui tengono: il loro potere di veto.

Qualche giorno fa il governatore Visco ha detto che l'arretramento del nostro Paese dipende dal fatto che da 25 anni non riusciamo più a «rispondere agli straordinari cambiamenti geopolitici, tecnologici e demografici» del mondo. Più o meno la data a partire dalla quale la nostra politica ha cominciato a dividersi tra chi vorrebbe cambiare tutto per non cambiare nulla e chi pensa di fargli un dispetto non cambiando davvero mai nulla.
Sarebbe ora di accettare l'idea che anche una comunità, come tutti gli esseri viventi, può perire per paura di cambiare.

Antonio Polito

4 giugno 2013 | 7:44© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_giugno_04/presidenzialismo-politica-Polito_33aa0622-ccd5-11e2-9f50-c0f256ee2bf8.shtml


Titolo: Antonio POLITO - I PARTITI E LA SFIDA DELL'ASTENSIONISMO
Inserito da: Admin - Giugno 12, 2013, 05:50:03 pm
I PARTITI E LA SFIDA DELL'ASTENSIONISMO

L'altra Italia che non vota

Nel trionfo di Ignazio Marino ci sono dodicimila voti in meno di quanti ne ottenne Francesco Rutelli nel tonfo del 2008. I vincitori di questa tornata amministrativa faranno bene a tenerlo sempre a mente: i consensi ottenuti domenica e lunedì sono pochi. Non sarebbero bastati per vincere un anno fa e potrebbero non bastare tra un anno. L'improvvisa impennata dell'astensione meriterebbe anzi qualche riflessione un po' meno rozza di quelle che circolano. C'è chi l'attribuisce alla crisi economica, ma altrove l'apatia elettorale è cresciuta piuttosto in periodi di prosperità, quando cioè le cose andavano troppo bene per cambiare (Blair e Clinton ne approfittarono), e si è ridotta in tempi difficili (vedi Obama). Dire che è segno di sfiducia nella democrazia rappresentativa è d'altronde un truismo, se non si spiega perché.

È probabile che l'era del «deficit zero», la chiusura cioè dei rubinetti della spesa pubblica, abbia colpito al cuore la politica tradizionale basata sullo scambio tra consenso e risorse. Senza soldi, consiglieri e sindaci non possono fare niente che abbia davvero rilevanza nella vita della gente, e gli elettori lo sanno. Forse la sinistra regge meglio nei Comuni proprio perché lì si presenta come partito della spesa (mentre rende meno quando in ballo c'è il governo nazionale, dove è vista come partito delle tasse).

In ogni caso è evidente che meno gente vota e meglio va il Pd. Stavolta il fenomeno è più macroscopico, ma è sempre stato così nella storia di quel partito e dei predecessori. Si tratta ovviamente di un bel problema per i suoi dirigenti, perché quando si tornerà a votare per il governo nazionale le percentuali di affluenza saliranno e i voti del Pd si diluiranno. Ma, a saperla leggere, è anche una buona notizia.

La maggiore fedeltà dell'elettorato democratico, anche di fronte a quello che mestatori interni e nemici esterni avevano definito il «tradimento» delle larghe intese, dovrebbe infatti indurre a liberarsi dell'ossessione della «base». Quante volte, di fronte a scelte necessarie o semplicemente sagge, si è levata la voce di chi vi si opponeva minacciando: «Il nostro popolo non capirebbe». Invece il popolo del Pd capisce benissimo. Magari soffre, ma capisce. E al suo partito chiede di governare, di fare, anche a costo di compromessi; non di strillare dalla riva del fiume mentre il Paese naufraga. Per questo il governo Letta non ha provocato il previsto rigetto nella base democratica, mentre quella grillina s'è squagliata.

Se così stanno le cose, il futuro leader del Pd dovrebbe finalmente preoccuparsi un po' di più del resto degli elettori, di quelli da conquistare, di coloro che alle elezioni politiche hanno finora votato qualsiasi cosa pur di evitare la sinistra al governo e senza i quali non si vince quando l'affluenza sale. Alle ultime primarie, pur di fermare Renzi, questa operazione fu respinta dalla leadership del partito come una «contaminazione».

E invece solo identificandosi con gli interessi dell'intero Paese e non di una mitica «base», governando con pazienza e stabilità, producendo risultati e cambiamenti reali, il Pd può trasformare questo effimero successo (una non sconfitta, per dirla alla Bersani) in un radicamento elettorale finalmente più ampio. Le vie della vocazione maggioritaria sono infinite, ma il governo Letta al momento è la migliore di cui il Pd disponga.

Antonio Polito

12 giugno 2013 | 8:03© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_giugno_12/polito-altra-italia-che-non-vota_e0290b9a-d31b-11e2-b757-6b1a3e908365.shtml


Titolo: Antonio POLITO L'assurdo tiro al bersaglio
Inserito da: Admin - Luglio 03, 2013, 07:12:42 am
L'assurdo tiro al bersaglio

Il meglio è nemico del bene. E invece in Italia la maggioranza parlamentare, anche più dell'opposizione, pullula di autorevoli esponenti che pur di avere un governo migliore minacciano di eliminare l'unico governo che abbiamo. Non che abbiano torto, nel sostenere che si può fare di più. Si vede che il governo Letta ha seri limiti congeniti, non disponendo di un programma votato dagli elettori, bussola di ogni esecutivo che si rispetti. E si vede anche che finora ha pensato più a rinviare i nodi fiscali lasciatigli in eredità dai governi precedenti che ad affrontare l'azione di tagli alla spesa pubblica che nessun governo precedente gli ha purtroppo lasciato in eredità. E però anche nella polemica politica dovrebbe vigere il principio alla base dell'istituto tedesco della «sfiducia costruttiva»: chi dice che se Letta non cambia marcia se ne va, dovrebbe anche dire per andare dove, per fare quale governo, e perché sarebbe migliore. Al momento, le due ipotesi più probabili in caso di caduta dell'esecutivo sono infatti nuove elezioni con la vecchia legge, un bis in idem , o nuova maggioranza basata sui trasformisti in uscita dal Movimento di Grillo. Chi pensa che per l'Italia una delle due soluzioni sia migliore della condizione attuale, alzi la mano.

L'ultimo aut aut è venuto dal senatore Mario Monti, che pure conosce così bene il sistema tedesco da aver chiesto al governo un Koalitionsvertrag , e cioè un vero e proprio contratto scritto come quello che regge le grandi coalizioni a Berlino. La sua iniziativa ha sorpreso tutti perché proviene da un uomo che ha prestato il suo servizio allo Stato, anche pagando un prezzo personale in termini di popolarità, proprio per garantire la stabilità politica interna e la conseguente credibilità internazionale. Ciò non di meno ha prodotto un «vertice di maggioranza» convocato per giovedì, che in Italia è sinonimo solo di maggiore confusione. Sono infatti proprio le tensioni e le divisioni dei partiti l'elemento di maggiore fragilità del governo. È da lì che nascono surreali assi tra Brunetta e Fassina, o inedite convergenze tra i falchi del Pdl e Mario Monti, oppure ancora lo stillicidio di Matteo Renzi, aspirante leader del Pd, contro i «piccoli passi» del compagno di partito che sta a Palazzo Chigi.

È evidente che il governo non ha avuto una partenza sprint, e che deve ancora trovare la sua missione in politica economica. I governi di grande coalizione servono a moltiplicare le virtù dei due partiti maggiori consentendo loro di fare le scelte dolorose che da soli non potrebbero fare, non certo a sommare le promesse demagogiche di entrambi. Al presidente del Consiglio dunque spetta di indicare al più presto degli obiettivi di riforma della spesa che giustifichino l'ambizione di ridurre la pressione fiscale, unico vero volano di crescita. Ma è altrettanto evidente che chi lo giudica dopo 60 giorni con il metro su cui hanno fallito governi che sono stati in carica per anni, lo vorrebbe balneare proprio mentre fa mostra di preoccuparsene.

La durata non è tutto, per un governo. Ma senza durata non c'è niente, meno che mai le «grandi riforme» che tutti reclamano con urgenza dal governo.

Antonio Polito

2 luglio 2013 | 8:01© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_luglio_02/assurdo-tiro-al-bersaglio-antonio-polito_d4e6d82e-e2d0-11e2-a1f9-62e4ef08d60d.shtml


Titolo: Antonio POLITO - Il giorno nero della Repubblica
Inserito da: Admin - Luglio 11, 2013, 10:31:54 am
L'EFFETTO SU ISTITUZIONI E GOVERNO

Il giorno nero della Repubblica


Se la fissazione della data del processo a Silvio Berlusconi ha prodotto un giorno di stop dei lavori parlamentari, che accadrà il giorno della sentenza? Nonostante alla fine abbiano prevalso quelli con la testa sulle spalle, e l'Aventino minacciato da una parte del Pdl sia stato derubricato a semplice pausa di poche ore, ieri abbiamo assistito alla prova generale di ciò che può accadere al nostro Parlamento nelle prossime settimane. Ostaggio di vicende extraparlamentari, sulle quali né le Camere, né il governo e nemmeno il capo dello Stato possono alcunché. Eppure immediatamente investito, e potenzialmente dissolto, dallo tsunami politico che quelle vicende giudiziarie sono in grado di provocare.

Gli attori visti ieri in scena non rassicurano sull'esito. In troppi puntano a trarre un vantaggio di parte dalla rovina comune. Quelli che nel partito di Berlusconi sfruttano la drammaticità della sua ora per acquisire benemerenze e colpire l'ala governativa. Quelli che nel Pd, per lo piu renziani, non vedono l'ora di affondare Letta magari in nome di una riscoperta purezza antiberlusconiana. E quelli che, stando all'opposizione, pensano che il loro compito sia fomentare il tanto peggio tanto meglio.

Non si spiegano altrimenti la teatralità e al contempo l'incongruenza delle parole e dei gesti cui abbiamo assistito. Beppe Grillo, mentre urla che «l'Italia è un Paese in macerie» e che «non c'è più tempo», chiede come rimedio lo scioglimento del Parlamento e nuove elezioni, perché per un'altra rissa elettorale c'è sempre tempo. I suoi senatori, in un gesto forse inconsapevolmente peronista, si trasformano in descamisados togliendosi in aula la giacca e la cravatta e fischiando come allo stadio la squadra avversaria. I cosiddetti falchi del Pdl, nelle cui mani è rimasto il partito dopo che la sua parte migliore è emigrata al governo, confondono la Cassazione con un Tribunale speciale e invocano il ritorno alle urne come una nuova Resistenza.

Certo, la decisione presa ieri in Parlamento di sospendere i lavori per un giorno, piccolo surrogato concesso al Pdl in rivolta per l'imminenza della sentenza Berlusconi, è fuori dal comune (anche se è prassi per i congressi di partito). Ma purtroppo è l'intera situazione in cui ci troviamo ad essere fuori dal comune, come testimonia la visita serale di Enrico Letta al Quirinale. Comunque la si veda, se ne dia la responsabilità all'imputato Berlusconi che se l'è cercata o ai magistrati che lo perseguitano, la vita e l'operatività del Parlamento e del governo sono infatti costantemente in pericolo. E questo proprio mentre l'Italia arranca, è come schiacciata dal macigno della crisi, tenta disperatamente di rialzarsi, viene di nuovo declassata. Il resto del mondo ci guarda attonito, attendendo di capire se questo grande Paese ha deciso di suicidarsi.

Dal pasticcio in cui si è cacciata la politica c'è una sola via di uscita: assumersi ciascuno una responsabilità collettiva. E c'è solo una bussola: attenersi scrupolosamente alle regole dello Stato di diritto, inventate proprio per tenere separati i poteri. Stiamo camminando sul ciglio del burrone. Per favore, smettetela di spingere.

11 luglio 2013 | 7:44
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Antonio Polito


Titolo: Antonio POLITO Siate seri, tutti
Inserito da: Admin - Agosto 04, 2013, 08:11:11 am
L'EDITORIALE

Siate seri, tutti


La sentenza della Cassazione chiude un lungo ciclo di storia italiana, iniziato quasi diciannove anni fa con un mandato di comparizione della Procura di Milano. Ieri la Corte suprema, le cui decisioni sono definitive, ha sancito la prima condanna senza appello di Silvio Berlusconi: egli deve dunque essere da oggi considerato colpevole del reato di frode fiscale, oltre ogni ragionevole dubbio. È per lui un colpo molto duro, come dimostra il turbamento del suo messaggio di ieri sera; ma lo è anche per l'Italia e per la sua immagine internazionale, perché l'imputato è stato per tre volte capo del governo, e per il tempo restante capo dell'opposizione. Il conflitto di interessi dell'imprenditore che si è fatto politico ha pagato così il suo prezzo più alto: è infatti il suo agire di imprenditore che è stato sanzionato dai giudici, nella convinzione che sia proseguito anche mentre sedeva a Palazzo Chigi. Se è certamente possibile sostenere che nei confronti di Berlusconi ci sia stato in questi diciannove anni un accanimento da parte degli inquirenti, da lui ieri nuovamente lamentato, questa sentenza ci dice che stavolta le accuse sono state provate, e che dunque non erano infondate.

La Suprema corte ha però rinviato a Milano, per una nuova deliberazione in Appello, il calcolo degli anni di interdizione dai pubblici uffici. E questa decisione, seppure presa in punto di diritto, apre un dibattito in Parlamento chiamato a decidere della decadenza dal Senato del leader di uno dei partiti che sostengono il governo Letta. Per Berlusconi non cambia molto, perché l'interdizione comunque arriverà. Ma per l'Italia qualcosa cambia.

Se si escludono infatti le due troppo forti minoranze che si sono aspramente fronteggiate in questo ventennio (rendendo il Paese «aspramente diviso e impotente a riformarsi», come ha detto ieri Napolitano), la grande maggioranza degli italiani (e i mercati, e il resto d'Europa) guardano a queste vicende giudiziarie con un solo metro di giudizio: quanta instabilità porteranno, quanta influenza avranno sul governo, quali conseguenze produrranno sullo sforzo collettivo che stiamo facendo per tornare con la testa fuori dall'acqua, dopo anni di crisi durissima.

La condanna di Berlusconi non può essere certo considerata un fatto «privato». È anzi un fatto pubblico e politico al massimo livello. Produrrà dunque certamente conseguenze politiche. Per esempio metterà il Pdl di fronte alla realtà di una leadership menomata, impedita o agli arresti domiciliari, aizzando quelli che non aspettavano altro per rinchiudersi nel bunker e dare l'ultima battaglia e forse allontanando, invece di avvicinare, il tema della successione.

Per esempio obbligherà il Pd a fronteggiare un nuovo attacco del partito giustizialista, il quale pretende che sia Epifani a rendere esecutiva la sentenza aprendo una crisi di governo. Ma proprio chi ha strillato, da un lato e dall'altro, che la giustizia deve essere indipendente dalla politica e viceversa, dovrebbe oggi dimostrare coerenza accettando il principio della separazione dei poteri, l'invenzione su cui si basa lo Stato di diritto. Non sarà affatto facile. La sorte del governo resta precaria. L'unico modo di ammortizzare il colpo micidiale subìto ieri dal sistema politico italiano sarebbe quello di seguire l'invito rivoltogli dal capo dello Stato ad accettare la realtà, a tracciare una linea nella sabbia, a mettere un punto a capo e ripartire, anche affrontando finalmente il grande problema dell'amministrazione della giustizia. D'altra parte chi propone soluzioni diverse avrebbe il dovere di spiegare anche che cosa ci si guadagnerebbe a ricominciare oggi da dove partimmo 19 anni fa.
Avrebbe il dovere di spiegare a chi e a che cosa servirebbe una crisi di governo.

2 agosto 2013 | 7:42
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ANTONIO POLITO

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_agosto_02/siate-seri-tutti-antonio-polito_cb30974c-fb2c-11e2-be12-dc930f513713.shtml


Titolo: Antonio POLITO Una via ragionevole
Inserito da: Admin - Agosto 14, 2013, 11:18:25 pm
Una via ragionevole

Prendendo carta e penna, nel modo pubblico con cui ha finora sempre motivato ogni sua decisione, il capo dello Stato ha tratteggiato ieri una linea di divisione tra i poteri. Se i protagonisti di questa torrida estate politica, in primis Berlusconi, uniranno tutti i trattini come in quel gioco della Settimana Enigmistica, potranno trovare l'uscita dal labirinto, evitando all'Italia di «ricadere nell'instabilità e nell'incertezza» e di pagarne il salatissimo prezzo.

La prima cosa che deve essere chiara è che di «una sentenza definitiva, e del suo obbligo di applicarla, non può che prendersi atto».
Vale innanzitutto per il condannato. Non c'è nessun modo di sovvertirla in uno Stato di diritto, l'unico grado di giudizio superiore non è di questa Terra, dunque sarebbe saggio accettarla. Il che non implica rinunciare a criticarla o a dichiararsi innocente. Ma implica smetterla di minacciare ritorsioni sulla vita delle istituzioni, anche perché le ipotesi di scioglimento delle Camere che vengono agitate sono «arbitrarie e impraticabili», oltre che potenzialmente «fatali».

Dentro questa cornice, che respinge seccamente ogni pressione per un intervento al di fuori o al di là dei suoi poteri costituzionali, Napolitano indica la strada che può seguire la politica, nell'ambito della sua autonomia. La questione formalmente sollevata dai capigruppo del Pdl, l'«agibilità politica» del leader di un grande partito cruciale per la governabilità, è presa sul serio perché rilevante. Può essere affrontata in due modi: con misure di applicazione della pena che, essendo escluso il carcere, siano modulate sul caso specifico; e con la libertà di Berlusconi stesso e del suo partito di decidere sul futuro di quella leadership, che non è competenza di nessuna condanna penale (non è stato forse casuale che proprio ieri, poche ore prima della nota del Quirinale, Marina Berlusconi abbia nettamente escluso una successione).
Eventuali atti di clemenza non possono oggi neanche essere considerati dal capo dello Stato, visto che non sono stati neanche debitamente richiesti. Se e quando lo saranno, diventerà obbligatorio valutarli alla luce delle leggi e della prassi. Perché, per l'appunto, di clemenza si tratterebbe e non di impossibili riparazioni o di compensazioni. Non è insomma in corso alcuna trattativa Stato-Pdl.

Quelli che pretendevano che Napolitano si trasformasse in un deus ex machina per assolvere il condannato, o che al contrario volevano una nuova sentenza per estrometterlo dalla vita politica, oggi non saranno contenti. Ed è un bene. Rassicurati dovrebbero essere tutti quegli italiani, la maggioranza, i quali davvero non capiscono perché, proprio ora che lo spread e la recessione sembrano aver esaurito la loro spinta propulsiva, si debba ricominciare daccapo con atti di autolesionismo politico.
La necessità di una fase di «distensione» dopo vent'anni di lotta politica senza quartiere resta la stella polare di Napolitano. Deve esserlo anche di Berlusconi, nell'ora più difficile della sua vicenda, e del partito che esprime il capo del governo.

14 agosto 2013 | 7:21
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ANTONIO POLITO

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_agosto_14/una-via-ragionevole-antonio-polito_c4e81992-049a-11e3-a76b-5d1a59729335.shtml


Titolo: Antonio POLITO Il Cavaliere, Craxi e quel discorso da evitare
Inserito da: Admin - Agosto 21, 2013, 07:26:51 pm
Il precedente del '93

Il Cavaliere, Craxi e quel discorso da evitare

La tentazione di ripetere l'attacco ai giudici che portò alle monetine del Raphael


Se davvero Silvio Berlusconi pronuncerà il suo gran discorso contro i giudici al Senato, prima del voto che potrebbe espellerlo dal Parlamento, allora l'impressionante analogia tra la fine della Prima Repubblica e la crisi della Seconda sarà completa. E non sarà una buona notizia per l'Italia, perché la Storia non dovrebbe mai ripetersi. Una democrazia che vive per due volte in vent'anni il trauma di un collasso politico per via giudiziaria è infatti certamente malata.

Fu proprio un discorso alla Camera di Bettino Craxi a mettere una pietra tombale sull'assetto politico del Dopoguerra. E non mi riferisco a quello più celebre del 3 luglio del 1992, molto evocato in questi giorni, in cui il leader del Psi, ancora solo sfiorato dalle inchieste su Tangentopoli, usò il dibattito sulla fiducia al primo governo Amato per una formidabile chiamata di correo a tutti partiti sul finanziamento illegale: «Se gran parte di questa materia deve essere considerata puramente criminale, allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale. Non credo che ci sia nessuno in quest'Aula che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo». Nessuno si alzò. Ma nessuno ebbe neanche il coraggio di riconoscere che si trattava di un problema politico, da risolvere politicamente. Tutti sperarono che la campana suonasse solo per Craxi. E le cose andarono diversamente.

Dieci mesi dopo, il 29 aprile del 1993, il leader socialista fu infatti costretto a ripetere quelle frasi in un contesto ben diverso: non più per salvare il sistema ma per salvare se stesso, per chiedere all'aula di Montecitorio di respingere le richieste di autorizzazione a procedere della Procura di Milano contro di lui. Ed è a quell'intervento, l'ultimo mai pronunciato da Craxi in un'aula parlamentare, che il discorso cui starebbe lavorando Berlusconi pericolosamente si avvicina.

Fu infatti un attacco ad alzo zero contro i pm di Milano. Una requisitoria contro gli «arresti illeciti, facili, collettivi, spettacolari e perfino capricciosi... le detenzioni illegali che fanno impallidire la civiltà dell'habeas corpus... le violazioni sistematiche del segreto istruttorio... la giustizia che funziona ad orologeria politica... il teorema... le inchieste su di me, sulle mie proprietà, sui miei figli, sui miei amici... ». È difficile che , per quanto possa essere originale, Berlusconi riuscirà a fare di meglio: frasi e giudizi di quel discorso sono da allora diventati il canovaccio di ogni polemica sull'«uso politico della giustizia», per usare il titolo del libro di un altro socialista, Fabrizio Cicchitto, cui si dice che Berlusconi si stia ispirando in queste ore. Ma è anche impressionante che l'uomo che conquistò l'Italia sull'onda di Tangentopoli e della crisi del debito pubblico del '92, chiamandola alla rivolta contro i vecchi partiti incapaci e corrotti, rischi ora di uscire di scena sconfitto sugli stessi fronti, i processi e i mercati, come se in questo ventennio di dominio elettorale non fosse riuscito a cambiare neanche una virgola dell'equazione politica nostrana.

Quell'ultimo discorso di Craxi ebbe un effetto straordinario. Positivo per lui nell'Aula, dove la sera, a sorpresa, e forse con l'aiuto segreto dei leghisti che puntavano a far saltare tutto, la maggioranza dei deputati respinse la richiesta dei pm sotto gli occhi di Giorgio Napolitano, allora seduto sullo scranno più alto di Montecitorio. Ma ebbe un effetto catastrofico, per Craxi e per tutta la Prima Repubblica, fuori dall'Aula. La sera dopo, davanti all'Hotel Raphael a Roma, ci fu la orribile gogna delle monetine, che cambiò per sempre la cultura politica del nostro Paese; il governo Ciampi e l'intera legislatura ne uscirono irrimediabilmente azzoppati; Craxi fu costretto a dimettersi da segretario, perse nel '94 l'immunità parlamentare e prima che potesse essere arrestato fuggì ad Hammamet, da esule secondo i suoi sostenitori, da latitante secondo i suoi persecutori.

Un discorso analogo, non foss'altro che per scaramanzia, sembrerebbe dunque sconsigliabile oggi a Silvio Berlusconi, anche se bisogna ammettere che le differenze, tra tante analogie, non mancano. Craxi infatti, al momento in cui prese la parola in Aula, era già stato condannato dal tribunale dell'opinione pubblica, che aveva individuato in lui l'agnello sacrificale perfetto per liberarsi di una Repubblica da tempo sprofondata nella corruzione e nell'inefficienza, rivelate all'improvviso come all'alzarsi di un sipario dalla caduta del Muro di Berlino. Berlusconi ha invece ancora oggi una consistente parte dell'Italia dalla sua parte, e su quella evidentemente conta nell'ipotesi di un'ultima, forse disperata battaglia elettorale, nella speranza che l'Italia di oggi sia disposta a mettere per molti mesi da parte lo sforzo di ripresa economica per dedicarsi al duello finale tra giustizia e politica.

Soprattutto, la strategia di Berlusconi non può contemplare l'espatrio come extrema ratio. Non glielo consente la vastità degli interessi che sarebbe costretto a lasciarsi indietro, abbandonati a una sorte incerta: le aziende, i figli, le case, un partito. Senza contare che, a differenza di Craxi quando varcò il confine, Berlusconi non ha più il passaporto.

20 agosto 2013 | 9:11
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Antonio Polito

da - http://www.corriere.it/politica/13_agosto_20/il-cavaliere-craxi-e-il-discorso-da-evitare-antonio-polito_da18a916-095a-11e3-90e1-47a539d609c3.shtml


Titolo: Antonio POLITO La rivincita del Parlamento
Inserito da: Admin - Settembre 03, 2013, 09:47:37 am
LONDRA, WASHINGTON E I LEADER MORBIDI

La rivincita del Parlamento


I due più antichi Parlamenti del mondo si sono presi una storica rivincita. In Gran Bretagna e negli Stati Uniti il governo ha dovuto riconsegnare nelle loro mani il più sovrano dei poteri, quello sulla pace e sulla guerra.

Né Cameron né Obama vi erano obbligati. Londra dichiarò guerra alla Germania nazista dopo l'invasione della Polonia senza consultare la Camera dei Comuni. La guerra di Corea (Truman) e quella del Kosovo (Clinton) non furono mai autorizzate dal Congresso. Ci troviamo dunque di fronte a una svolta. La democrazia parlamentare, una delle più grandi invenzioni della civilizzazione anglosassone, sembrava ormai sopraffatta dall'emergere di un mondo nuovo, fatto di decisioni globalizzate e sovranazionali, o dettate dai sondaggi e incarnate da leader che ne rispondono solo al popolo. E invece, tra il popolo e il leader, ecco rispuntare il Parlamento.

È una lezione che parla anche a noi italiani, che il Parlamento l'abbiamo degradato oltre misura, trasformandolo in un sinedrio di nominati cui qualcuno vorrebbe ora togliere perfino la libertà dal vincolo di mandato. Democrazia vuol dire «governo del popolo, eletto dal popolo, per il popolo», come ha scandito Obama citando un celebre passo di Lincoln. Ma è un popolo ascoltato attraverso i suoi rappresentanti, secondo la legge, e non manipolato come un oracolo mediatico, nelle piazze o in tv.

Questa novità apre però anche enormi problemi. Il primo è l'indebolimento del potere esecutivo perfino lì dove è più forte. La democrazia americana non è infatti parlamentare, ma presidenziale; assegna al presidente il ruolo di «comandante in capo» delle forze armate proprio per permettergli di difendere la sicurezza nazionale con la rapidità e l'efficacia necessarie. L'affidarsi di Obama al Congresso - lo si capisce dai festeggiamenti dei carnefici siriani - è quindi anche segno di un tentennamento, di un'indecisione. Che cosa accadrebbe se si ripetesse in una crisi più grave? Che ne sarebbe della forza e della credibilità degli Usa, la «nazione indispensabile»? Una potenza smette di essere tale se subordina gli impegni internazionali assunti dal suo governo alle dinamiche del conflitto politico interno. Per questo Westminster da più di duecento anni non votava contro il premier in materia di guerra, e quasi sempre con l'accordo dell'opposizione: perché il Parlamento «speaks for Britain ».

La decisione politica sta certamente rimpatriando all'interno della sfera nazionale, l'unica dove possa esercitarsi il controllo democratico dei Parlamenti. Ma resta da vedere quanto questo processo sia compatibile con gli obblighi di una comunità globale sempre più interdipendente. Non è un caso se la crisi finanziaria, prima in America e poi in Europa, sia stata gestita dai governi, e più ancora dalle banche centrali, tenendo le decisioni il più possibile lontane dai Parlamenti. La stessa Unione Europea, così come è organizzata oggi, potrebbe non sopravvivere a una revanche della democrazia nazionale. Sappiamo tutti che fine farebbe l'euro se il Bundestag tedesco, appellandosi alla Corte costituzionale su ogni decisione europea, rendesse un po' alla volta i Trattati carta straccia.
Festeggiando il ritorno dei Parlamenti, sarà dunque bene non dimenticare che nella forza della democrazia risiedono anche le sue debolezze, e che su quelle hanno sempre contato tiranni come Assad e autocrati come Putin. Anche perché una democrazia indecisa e imbelle smette presto di essere una democrazia.

2 settembre 2013 | 8:08
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ANTONIO POLITO

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_settembre_02/rivincita-parlamento_d4435eb8-138d-11e3-b6d8-d9e68bde9db1.shtml


Titolo: Antonio POLITO Il buon senso virtù perduta
Inserito da: Admin - Settembre 06, 2013, 11:33:32 pm
IL CAVALIERE E LA MINACCIA DI CRISI

Il buon senso virtù perduta



C'è qualcosa di irrazionale nel comportamento di Silvio Berlusconi in queste ore, e che solo uno stato d'animo di grande tormento personale può spiegare. Chiuso nella sua villa di Arcore, il leader del Pdl insiste infatti nel pretendere ciò che non può avere, e nel non chiedere ciò che dovrebbe avere.

Berlusconi dice che la sua è una battaglia in difesa dello Stato di diritto, che nella giunta del Senato rischia di essere calpestato da chi vuole liberarsi di lui approfittando della condanna; ma per vincere quella battaglia minaccia continuamente il ricorso alla forza, e cioè la ritorsione sul governo e le dimissioni dei suoi ministri. Diritto e forza sono agli antipodi. Per evitare un giudizio sommario sulla sua decadenza dovrebbe invece chiedere di essere ascoltato, di addurre le sue ragioni, di sostenerle con pareri giuridici. Sfidare i commissari a comportarsi come tali, e non come agit-prop dell'antiberlusconismo. Dovrebbe chiedere di essere trattato come qualunque altro senatore, e avrebbe ragione (anche se Violante è stato quasi linciato per aver ricordato questo semplice principio di legalità). Invece sembra pretendere dal Pd di essere assolto in contumacia e sotto minaccia. D'altra parte i suoi giornali trattano il presidente della Repubblica come se fosse il capo del complotto inteso a farlo fuori, ma nello stesso tempo gli chiedono la grazia. Il che, francamente, non ha senso. Napolitano non può essere insieme l'aguzzino e il salvatore, da lui non ci si può aspettare niente di diverso da quello che ha pubblicamente annunciato nel messaggio di Ferragosto.

Ciò che manca nel comportamento dell'ex premier, ed è una mancanza grave anche per quella parte cospicua di italiani che non vogliono vederlo uscire di scena, è un atto di umiltà. Il tema delle dimissioni dal Senato si porrà comunque quando la Corte d'appello di Milano emetterà la sentenza sull'interdizione dai pubblici uffici, che non potrà essere oggetto di trattativa politica. Ma anche adesso, nel frattempo, ci sono molti altri modi in cui Berlusconi può cercare sul versante politico una riabilitazione che è impossibile sul piano giudiziario.

La minaccia di far pagare al Paese il prezzo della sua condanna non è tra questi. Era stato del resto proprio lui, il Cavaliere, a indicare subito dopo le elezioni questa formula e questo governo come condizione per evitare il collasso. La prima volta che salì al Quirinale propose addirittura di darne la guida a Pier Luigi Bersani, il suo avversario in campagna elettorale. Mandare tutto all'aria oggi non è nell'interesse degli italiani; non è dunque neanche negli interessi delle sue aziende, che del benessere degli italiani e della credibilità internazionale dell'Italia hanno bisogno come qualsiasi altra azienda. E non ha effetti sulla sua situazione processuale, che il giorno dopo le elezioni sarebbe identica.

Ammesso che riuscisse nell'intento di riportarci presto alle urne, una manovra del genere ci esporrebbe alla seguente stravaganza: votare il 24 novembre con una legge elettorale che il 3 dicembre la Corte costituzionale potrebbe dichiarare illegittima, e che in ogni caso non è in grado di dar vita a una maggioranza parlamentare. È vero che la storia politica recente del nostro Paese ha tratti di schizofrenia, ma questo sarebbe veramente troppo. Siamo fiduciosi che Berlusconi ce lo risparmi.

5 settembre 2013 | 7:51
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ANTONIO POLITO

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_settembre_05/il-buon-senso-virtu-perduta-antonio-polito_3e1c6e96-15ec-11e3-a860-3c3f9d080ef6.shtml


Titolo: Antonio POLITO Stabilità, solo da noi fa orrore
Inserito da: Admin - Settembre 20, 2013, 05:11:04 pm
Stabilità, solo da noi fa orrore


Il governo Letta si è appena salvato da una crisi che già ci si interroga sulla prossima. Berlusconi fa capire che la potrebbe aprire sulle tasse, Renzi che la potrebbe aprire per vincere le elezioni, e il premier fa capire che ha capito e che quindi «giocherà all'attacco». La politica all'italiana è l'opposto del calcio all'italiana: tutti all'attacco, e nessuno che pensa mai a difendere.

Ben diversa è quella tedesca. Nonostante l'incertezza sull'esito del voto di domenica, dal quale nessuno sa che maggioranza parlamentare uscirà, c'è infatti in Germania certezza di stabilità politica: tutti sanno che Angela Merkel sarà per la terza volta Cancelliera, e che la sua politica proseguirà grosso modo immutata.

Questo paradosso meriterebbe una riflessione, soprattutto da parte di chi in Italia lamenta che la stabilità è sì una buona cosa, ma poi non tanto, perché sospende la lotta politica, inceppa l'alternanza, offende i sentimenti identitari degli elettori. C'è invece in Europa un grande Paese dove la gente la pensa diversamente: viva il conflitto e l'identità, ma è più importante ciò che il governo fa, e se lo fa a vantaggio della nazione.
Così se i liberali, attuali alleati della Merkel, resteranno fuori dal Bundestag, la Cdu farà l'alleanza con i suoi avversari socialdemocratici, e sarebbe la terza volta nella storia; d'altro canto la Spd, se pure servisse per vincere, esclude di allearsi con la sinistra della Linke preferendole la Cdu; e nessuno si alleerà mai con il nuovo partito anti euro, qualsiasi sia il suo risultato.
Si può credere che i due maggiori partiti tedeschi siano più indecisi sulle loro radici, meno dotati di un retaggio ideale e culturale, e che per questo accettino di mescolarsi in modi innaturali, a differenza dei nostri, tetragoni, teutonici addirittura nel difendere le loro identità? Difficile: perché i partiti tedeschi esistono da sempre, si chiamano sempre allo stesso modo, e fanno parte delle famiglie politiche europee. Mentre quelli italiani hanno pochi anni di vita, cambiano nome di continuo e in Europa non sanno dove sedersi.

Dunque la peculiarità del sistema politico tedesco deve essere un'altra: e cioè che costringe i partiti a confrontarsi costantemente con il bene comune, e chi non riesce a servirlo paga un prezzo. È la prova che la stabilità, prima ancora che delle leggi elettorali, è frutto di cultura politica. In Germania il premio di maggioranza non c'è, e capita spesso che non ci sia una maggioranza dopo il voto. Ciò non impedisce al nostro sistema, col premio, di essere molto più instabile di quello tedesco.

Capisco che per noi italiani una politica così stabile debba sembrare noiosissima. Basti pensare che i tedeschi chiamano la Merkel mutti , la mamma, per riferirsi a quel suo stile «frugale, sobrio, volutamente sciatto». Un tipo così da noi non susciterebbe l'interesse di un Signorini o di un Briatore. Ma del resto non si può avere tutto nella vita: si vede che i tedeschi hanno rinunciato a un po' di divertimento in cambio di un po' di benessere.

20 settembre 2013 | 7:28
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ANTONIO POLITO

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_settembre_20/stabilita-governo-letta_f05a4926-21b2-11e3-897d-ba51c5bbc4c9.shtml


Titolo: Antonio POLITO Il falò della servitù
Inserito da: Admin - Settembre 28, 2013, 04:54:25 pm
Il falò della servitù

Pare che circolino dei moduli prestampati per consentire ai parlamentari del Pdl di presentare le loro dimissioni senza star lì a perder tempo. Ma poiché la Costituzione dice che il parlamentare è senza vincolo di mandato, e questa assomiglia molto a una servitù di mandato, si precisa che chi vuole può anche scriversela di suo pugno la lettera, con le motivazioni che preferisce, purché la firmi. A questo il Porcellum ha ridotto il Parlamento, e non solo a destra per la verità: a un bivacco di subordinati.

Ma del resto quasi tutto è senza precedenti in questa storia delle dimissioni di massa postdatate. Al punto che il presidente della Repubblica ha sentito il dovere di alzare la voce come non aveva mai fatto prima, condannandola con parole durissime, segnalandone la «gravità e assurdità». Napolitano l'ha interpretato come un atto che porta il gioco politico già estremo di queste settimane oltre il segno, oltre un punto di non ritorno. Le dimissioni dei ministri del Pdl avrebbero sì aperto una crisi di governo; ma le dimissioni dei parlamentari aprirebbero una crisi costituzionale, mettendo in conflitto tra di loro i poteri dello Stato. Esse minacciano, cioè, un atto al limite dell'eversione (la serrata del Parlamento) per protestare contro ciò che si definisce un «atto eversivo» (un voto del Parlamento sulla decadenza).

Berlusconi sembra dunque sperare che la decadenza dell'intero Parlamento possa rendere meno amara la inevitabile fine della sua vita parlamentare. Coinvolgendo le istituzioni nel proprio destino giudiziario, accetta però il teorema dei suoi nemici, che vorrebbero ridurre la sua storia politica ventennale a una vicenda di processi e di condanne. E toglie le castagne dal fuoco a chi nel Pd alimenta da mesi il falò dell'intransigenza, diventando lui il sicario di un governo in realtà mai digerito a sinistra.

Ma tant'è: da oggi si può davvero dire che l'esecutivo Letta è al capolinea. Non avrebbe senso assumere altri impegni di bilancio, per evitare l'aumento dell'Iva o il ritorno dell'Imu, quando non si sa chi potrà rispettarli. Il presidente del Consiglio deve dunque fare la cosa giusta e istituzionalmente corretta: andare alle Camere per verificare se ne ha ancora la fiducia. In questi mesi, anche per gli errori di un governo che ha sommato invece di selezionare le pretese dei partiti, Letta non è riuscito a domare il fronte di chi voleva le elezioni a febbraio e che ha sfruttato la vicenda giudiziaria di Berlusconi per averle. Ora non gli resta che l'ultima carta: rimettere al centro la ragione per cui è nato.

Il 15 di ottobre, infatti, non è solo la data in cui Berlusconi andrà agli arresti domiciliari o ai servizi sociali. È anche il termine per presentare la legge di Stabilità, e cioè il principale strumento di politica finanziaria dello Stato. Senza di quello, l'Italia può tornare nel gorgo dove stava affogando nel novembre del 2011. Due anni di lacrime e sangue vanificati in un istante. Vediamo chi vota per la rovina nazionale.

27 settembre 2013 | 8:08
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ANTONIO POLITO

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_settembre_27/falo-della-servitu-polito_59a34cd6-2733-11e3-94f0-92fd020945d8.shtml


Titolo: Antonio POLITO Lo strappo necessario
Inserito da: Admin - Ottobre 09, 2013, 04:40:28 pm
Lo strappo necessario

Non sappiamo ancora se i cinque ministri diversamente berlusconiani vinceranno oggi la sfida senza precedenti che hanno lanciato al loro fondatore. Berlusconi ha sette vite e non è escluso che se ne inventi un’ottava: conosce l’arte della seduzione dei senatori e ha ancora abbastanza agilità per una giravolta dell’ultimo istante. Però sappiamo che i cinque ministri stanno facendo la cosa giusta. Non solo perché, salvando il loro governo, salverebbero anche l’unico governo che abbiamo. È una cosa cui di solito le nazioni tengono. L’Inghilterra, per esempio, se ne tiene stretto uno debole, con una «strana» maggioranza e clamorosamente sconfitto a Westminster; ma nessuno dei maestri che dall’estero danno lezioni di democrazia all’Italia chiede le elezioni anticipate a Londra o storce il naso per una grande coalizione a Berlino.

Il governo Letta non ha fatto miracoli, e non migliorerebbe certo se per sopravvivere si consegnasse a una maggioranza raccogliticcia. Ma potrebbe rinascere su basi programmatiche e temporali nuove se fosse sorretto da una nuova maggioranza politica, temprata nel fuoco di una battaglia parlamentare aperta e senza rete. L’alternativa è del resto un caos cui nemmeno le elezioni potrebbero mettere riparo, perché la legge elettorale è già inservibile e presto sarà incostituzionale. Ma non è solo il governo la posta in gioco del quintetto Alfano. Forse ancor più importante è la riforma del sistema politico che la loro battaglia può favorire. Prima o poi doveva accadere: il declino di Berlusconi rendeva da tempo indispensabile, e urgente dopo la sentenza definitiva che lo priverà del seggio, la definizione di una nuova rappresentanza per il grande popolo dei moderati o, per meglio dire, di coloro che non voteranno mai a sinistra. Il futuro centrodestra avrà il volto di Santanchè e Verdini o le idee di Alfano e Quagliariello? Assomiglierà più alla Dc o al Msi? Si troverà a suo agio nel Partito popolare europeo o ne sarà trattato come il cugino pazzo? Sarà un partito carismatico senza più il carisma o democratico?

C’è chi non crede alla possibilità che uomini e donne nati e cresciuti sotto la stella di Berlusconi abbiano davvero la forza di compiere una simile svolta. È vero, è molto difficile. Ma la politica democratica è parricidio. Non ci sarebbe stato Fanfani senza quello di De Gasperi. Né Sarkozy senza quello di Chirac, o Merkel senza quello di Kohl. Piuttosto, se gli uomini nuovi del Pdl riusciranno ad arrivare fino in fondo sfidando lo strapotere economico e mediatico che già si abbatté su Fini, potrebbero affiancarsi ai giovanotti che stanno prendendo il potere nel Pd. Non è un caso che perfino Renzi, finora apparso ansioso solo di urne, abbia ieri dato via libera a Letta per quella che può diventare una vera e propria rivoluzione generazionale, a destra e a sinistra: quasi la nascita di una terza Repubblica. Tutto dipende dal Parlamento, e tutto ancora può finire male. Ma se questa crisi segnasse il superamento del berlusconismo sarebbe l’esito più imprevedibile del governo di larghe intese, dai miopi accusato di essere nato per salvare il berlusconismo.

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06 ottobre 2013 (modifica il 06 ottobre 2013)
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Antonio Polito
http://www.corriere.it/editoriali/13_ottobre_02/strappo-necessario-88ca3cc4-2b2d-11e3-93f8-88ca3cc4-2b2d-11e3-93f8-300eb3d838ac.shtml


Titolo: Antonio POLITO IL DOPO CAVALIERE E GLI ERRORI DELLA SINISTRA
Inserito da: Admin - Ottobre 13, 2013, 05:18:22 pm
IL DOPO CAVALIERE E GLI ERRORI DELLA SINISTRA

Come se niente fosse accaduto

I l rischio che una destra radicale conquisti la scena politica in Italia non è certo svanito con la vittoria dei «governativi» nel Pdl. Come dimostrano i Tea Party, capaci di prendere in ostaggio il Grand Old Party repubblicano spingendo l'America fino al limite del default, o i sondaggi di Marine Le Pen in Francia, o l'affermarsi di partiti antieuro in Austria e in Germania, il vento della storia non soffia certo oggi nelle vele dei moderati.
Farebbe bene a tenerlo a mente innanzitutto la sinistra italiana. Molti indizi segnalano infatti che sta ricadendo in un antico errore: quello di considerare Berlusconi un accidente storico, eliminato il quale il popolo tornerebbe a seguire la retta via progressista. È un'illusione perché, come dice il titolo di un bel libro di Roberto Chiarini, alle origini di questa nostra «strana Repubblica» c'è il fatto che «la cultura politica è di sinistra e il Paese è di destra». Ci sono dunque tendenze di fondo della nostra società destinate a sopravvivere al berlusconismo, magari dando vita a nuove e imprevedibili forme politiche (una di queste, già all'opera, è il grillismo).
Invece a sinistra è tutto un fiorire di propositi di rivincita. Dario Di Vico su questo giornale ha già segnalato quanto sventata fosse l'idea di ri-tassare piccoli appartamenti urbani presentandoli come abitazioni di lusso. Ma il contagio si estende. In una recente intervista a La Stampa , Matteo Renzi ha risposto così alla domanda su chi pagherà il costo della sua rivoluzione: «Bisogna toccare i diritti acquisiti. Chi percepisce pensioni d'oro su cui non ha versato tutti i contributi deve accettare che sulla parte regalata venga imposto un prelievo». Poiché in Italia sono state considerate «pensioni d'oro», colpite dal blocco delle indicizzazioni, anche quelle superiori ai millecinquecento euro al mese, potrebbe trattarsi dei «diritti acquisiti» di non pochi italiani. Nella stessa intervista Renzi ha riaperto le porte anche all'idea della patrimoniale: «Molti amici imprenditori si dicono pronti a pagarla». Gli amici imprenditori forse sì. Ma tutti gli altri, i piccoli proprietari di casa, gli artigiani, i commercianti? Domani il futuro leader del Pd presenterà il suo programma: sarà interessante capire se anche lui si propone di tosare i ceti medi per finanziare la spesa pubblica.
Ancor più emblematico è ciò che sta accadendo sul tema dell'immigrazione. È perfettamente lecito per la sinistra sostenere che la Bossi-Fini è da abrogare (non foss'altro perché è vecchia); ed è vero che il reato di clandestinità va superato perché ha prodotto solo dolore ai migranti e inutile superlavoro alle Procure. Ma bisognerebbe al contempo dire con che cosa si vuole sostituire la normativa che fu varata dal centrodestra. Altrimenti si dà al Paese l'impressione che, eliminato Berlusconi, la sinistra si prepari ad aprire le porte indiscriminatamente ai flussi migratori, magari fornendo traghetti e voli di linea. Il che non solo non avviene in nessun Paese europeo, a partire dai più civili; ma potrebbe anche essere foriero di nuove tragedie, perché richiamerebbe sulle coste africane folle di disperati più grandi di quelle che ogni notte consegnano la loro vita nelle mani degli schiavisti.
Non a caso Grillo, smentendo i suoi senatori, si è precipitato ieri a lasciar solo il Pd su questa strada, che giudica molto impopolare. A dimostrazione del fatto che i problemi della sinistra italiana non decadranno insieme con Berlusconi.
11 ottobre 2013
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ANTONIO POLITO

Da - http://www.corriere.it/politica/13_ottobre_11/come-se-niente-fosse-accaduto-editoriale-polito-3342c83a-3234-11e3-b846-b6f7405b68a1.shtml


Titolo: Antonio POLITO - Larghe intese, piccoli segni
Inserito da: Admin - Ottobre 17, 2013, 05:14:00 pm
LA STABILITÀ SENZA AMBIZIONI

Larghe intese, piccoli segni

Sembra che Letta e Alfano abbiano deciso di lasciare inserito il pilota automatico. Ricordate la metafora? La usò Mario Drag h i s u b i t o d o p o l e elezioni italiane. Non temete, disse ai mercati, i processi di risanamento messi in moto dal governo Monti andranno avanti col pilota automatico. In effetti sta accadendo. Mentre tutti in Italia protestano per il minimalismo della legge di Stabilità, i mercati tirano invece un sospiro di sollievo e buttano giù lo spread. Ormai meno si fa, e più i conti pubblici migliorano. La prova sta nella Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza: nel 2014, per la prima volta da molti anni, il deficit tendenziale (cioè come andrebbero le cose a legislazione invariata) è minore del deficit programmatico (cioè come andrebbero le cose dopo le misure del governo).

Hanno dunque ragione gli analisti di Barclays quando dicono che la direzione dell’aereo Italia è giusta. Il problema è che continua a perdere quota. E se Letta e Alfano, pilota e copilota, non riaccendono i motori, rischiamo di fare la fine dell’Alitalia. Non è infatti saggio traccheggiare in attesa che arrivi la ripresa. Potrebbe anche saltarci. Guardate che è successo alla Fiat nel mese di settembre: le sue vendite sono cresciute nei grandi Paesi europei tranne che in Italia (meno 12%). Avrebbe potuto fare di più il governo per stimolare la crescita, pur rispettando i vincoli europei? Certo che sì. Ma avrebbe dovuto trovare nel bilancio i soldi per finanziare vere riduzioni fiscali sul lavoro e sulle imprese. Invece siamo al punto che ci si congratula per l’inazione sulla spesa pubblica.

Il mancato intervento sulla Sanità, per esempio, è positivo se protegge i servizi essenziali, ma è negativo se conferma gli squilibri e gli sprechi di un settore dove dei costi standard si è persa memoria. Gli unici taglietti, quelli sugli straordinari degli statali, hanno già prodotto una minaccia di sciopero generale dei sindacati: vedrete che in Parlamento si dissolveranno. Perché Letta e Alfano hanno accettato di perdere un anno? Ci si sarebbe aspettato, dopo il voto di fiducia, che i due rinegoziassero da posizioni di forza il patto di governo con i partiti. Invece la legge di Stabilità è il frutto dei soliti compromessi. I due Dioscuri del governo non hanno utilizzato il bonus che avevano appena guadagnato battendo con una spettacolare manovra parlamentare i rispettivi falchi. Anzi, sembrano già tornati in minoranza nei loro partiti. Per usare un gioco di parole di Nino Andreatta, ripreso di recente proprio da Letta, si sono dimostrati bravissimi in «politica» e si sono inceppati sulle «politiche». Ma la politica non può bastare. La maggioranza degli italiani pensa ancora che questo governo sia meglio di nessun governo. Ci metterà però poco a cambiare idea se si convincerà che è un governo inutile perché le larghe intese lo ingabbiano, invece di dagli la libertà di fare ciò che serve. E infatti già ringalluzziscono i nemici di Letta e Alfano: metà Pdl e metà Pd. Se i due piloti non riprendono la cloche, il deficit di politiche si trasformerà inevitabilmente in debolezza politica. E allora anche la stabilità, bene supremo per la ripresa, tornerà a rischio.

17 ottobre 2013
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Antonio Polito
http://www.corriere.it/politica/13_ottobre_17/larghe-intese-piccoli-segni-f7b73826-36ef-11e3-ab57-6b6fcd48eb87.shtml


Titolo: Antonio POLITO PARTITI, CACICCHI E CANTORI Ognuno per sé senza vergogna
Inserito da: Admin - Novembre 19, 2013, 05:35:09 pm
PARTITI, CACICCHI E CANTORI

Ognuno per sé senza vergogna

Domani morirà il Pdl. Certo, per rinascere sotto le sembianze di Forza Italia. Ma la nuova-vecchia sigla rischia una scissione prima ancora di nascere. Dobbiamo dunque in ogni caso dare l’addio a un partito venuto alla luce esattamente sei anni fa, il 18 novembre del 2007, su un predellino a piazza San Babila, per diventare il grande partito conservatore che l’Italia non aveva mai avuto. L’idea di riunificare in un unico contenitore tutte le culture (e gli apparati) del centrodestra è miseramente fallita.

Del resto anche il Pd ha così tante volte fallito in questi sei anni di vita la sua missione fondatrice, portare al governo il riformismo italiano, che già è in cerca di un salvatore che lo rifondi, il prossimo 8 dicembre. L’unico partito non ad personam della Seconda Repubblica, ha scritto Mauro Calise nel suo libro Fuorigioco , è morto soffocato dal personalismo di decine di piccoli leader, capaci di dilaniarsi dall’elezione del presidente della Repubblica fino a quella del segretario di Asti, spesso facendo carte false. La rifondazione consiste in questo: diventare un partito personale, sperando che un vero Capo distrugga tutti i capetti.

Bisognerebbe a questo punto parlare di Scelta civica, il partito più giovane; ma lì non si parlano neanche più tra di loro, di che vogliamo parlare? Della Lega, certo, il partito più antico, che si avvia a un congresso fratricida? Oppure dei resti di Alleanza nazionale, il cui conto in banca è sopravvissuto al partito, al punto che forse rifanno il partito per recuperare il bottino?
Ovunque la lotta politica è aspra. Ma in nessun luogo del mondo civile è così intestina, squassa i partiti dall’interno, e produce una tale pletora di cacicchi, cassieri e cantori. I partiti italiani non sono tali perché sono divisi sull’essenziale. Tra le colombe e i falchi del Pdl, per esempio, non c’è una differenza marginale o transitoria: gli uni vogliono stare al governo e gli altri all’opposizione; i primi sognano la democrazia interna, i secondi invocano l’autocrazia. Sono così diversi che se resteranno insieme domani, ricominceranno a litigare dopodomani.

Ovunque la lotta politica non è un pranzo di gala. Ma in nessuna democrazia occidentale i leader non si siedono neanche a tavola. Tra poche settimane nessuno tra i capi dei maggiori partiti italiani starà in Parlamento. Chi volente, chi nolente, Berlusconi, Renzi e Grillo saranno tutti leader extraparlamentari.

Le parole di Giorgio Napolitano, che davanti a papa Francesco ha condannato le «esasperazioni di parte», il «clima avvelenato e destabilizzante», e si è rammaricato di quanto la nostra vita pubblica sia lontana da quella «cultura dell’incontro» che il Pontefice spesso invoca, sono dunque una rappresentazione moderata e perfino generosa dello stato della lotta politica in Italia, nel Parlamento e fuori. Essa in realtà ricorda molto da vicino lo stato di natura descritto da Hobbes, homo homini lupus . Ma si tratta di una danza macabra. Una nazione che perde di vista l’interesse comune prepara la rovina collettiva. L’Italia non ne è distante.

15 novembre 2013
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ANTONIO POLITO
Da - http://www.corriere.it/editoriali/13_novembre_15/ognuno-se-senza-vergogna-36d7f5e8-4dbd-11e3-a50b-09fe1c737ba4.shtml


Titolo: Antonio POLITO Gli standard della moralità
Inserito da: Admin - Novembre 22, 2013, 08:01:47 pm
Gli standard della moralità

Bisognerà mettersi d’accordo sugli standard di moralità pubblica, se vogliamo uscire dall’incubo di questo ventennio. Gli italiani non ne possono più dei livelli record di corruzione, favoritismo e nepotismo; ma il mondo politico è diviso sulle sanzioni. A un estremo ci sono quelli che perdonerebbero tutti per condonare se stessi; all’altro i Torquemada che condannerebbero chiunque pur di guadagnarsi il favore popolare. In mezzo c’è il Pd. Come dimostra il caso Cancellieri, la linea di frontiera passa di lì. E non è solo frutto di tatticismo, Renzi che vuole fare le scarpe a Letta, Cuperlo che vuole farle a Renzi, più una pletora di personaggi minori in cerca di fama. C’è qualcosa di più profondo.
Una deputata democratica confessava qualche giorno fa il suo imbarazzo: «Mia madre mi ha detto che se salviamo la Cancellieri non ci voterà mai più. Mio marito mi ha detto che non ci voterà più se l’abbandoniamo». È questa incertezza sui principi a spiegare perché il Pd assomigli sempre più a un’agorà e sempre meno a un partito, una piazza dove tutti votano a piacere e molti obbediscono a impulsi esterni. In quale altro partito il segretario avrebbe rinunciato a presentarsi con una sua proposta all’assemblea che doveva decidere sulla sfiducia? C’è dovuto andare il presidente del Consiglio, per ricordare a tutti che se un partito al governo vota con l’opposizione contro il governo, non c’è più il governo. Civati l’ha definito un «ricatto», ma è l’Abc della politica.
Bisogna dunque cercare criteri per giudizi rigorosi ma equanimi, sottratti alla faziosità di quella lotta politica che, anche in assenza di atti giudiziari, non esita a sfruttare brogliacci di polizia, fughe di notizie, voci.
La prima regola è che i fatti contano più delle parole. Dopo quella telefonata - durante la quale il ministro non ha parlato come un ministro - la Cancellieri compì atti contrari ai propri doveri d’ufficio? Secondo la Procura, secondo i vertici del sistema penitenziario, e da ieri secondo il Parlamento, non li ha compiuti. Si fanno spesso paragoni con Paesi più virtuosi ed esigenti, dove i ministri si dimettono per non aver regolarizzato una colf o per aver copiato a un esame. Ma in Paesi con telefoni meno intercettati, la sanzione politica riguarda pur sempre atti effettivi, accertati, gli unici su cui può giudicare l’opinione pubblica. Sui peccati compiuti con pensieri e parole si risponde solo in confessionale, o alla propria coscienza. Anche nel diritto penale le intercettazioni sono considerate uno strumento di ricerca della prova, non la prova.
Seconda regola aurea: l’indignazione non può essere a corrente alternata. Faceva ieri un certo effetto vedere Montecitorio che si dilaniava sulle telefonate della Cancellieri e non sulle responsabilità della tragedia in Sardegna. Nei famosi «Paesi civili» sempre invocati, ci si dimette per una mancata prevenzione o un tardivo soccorso. Da noi ormai si accetta un disastro ambientale all’anno come una fatalità. Non è anche questo uno standard inaccettabile di moralità pubblica? Coloro che imputano alla Cancellieri di aver trascurato gli altri detenuti per favorirne una, sono gli stessi che (Grillo e Renzi in testa) si opposero all’amnistia proposta dal ministro per alleviare la scandalosa condizione di tutti i detenuti italiani. Quando avrà finito con i tabulati telefonici, la politica discuterà con la stessa passione del piano-carceri?

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21 novembre 2013

ANTONIO POLITO

Da - http://www.corriere.it/editoriali/13_novembre_21/gli-standard-moralita-9df7ce12-5275-11e3-b1ef-e7370d1a3340.shtml


Titolo: Antonio POLITO La coda avvelenata
Inserito da: Admin - Novembre 28, 2013, 11:49:14 am
La coda avvelenata


Poteva finire meglio, questo lungo pezzo di storia d’Italia? Sì che poteva. E doveva. Forse non è neanche finito; e infatti già si ricomincia, berlusconiani contro antiberlusconiani. E poi il modo. Nella sede istituzionale di Palazzo Madama Berlusconi viene dichiarato decaduto in contumacia, mentre si asserraglia in quella privata di palazzo Grazioli con i suoi sostenitori, nella iterazione di un contrasto perenne tra piazza e Palazzo. E infine il clima. Surreale. Con gli sconfitti più loquaci dei vincitori, che si costringono a una compostezza quasi imbarazzata come i senatori del Pd, o appaiono smarriti, come i Cinquestelle, all’improvviso orfani del feticcio dell’ammucchiata contro cui scagliarsi e privati del monopolio dell’opposizione.

Si conferma la maledizione della vicenda italiana, nella quale sembra impossibile chiudere un’era politica senza un trauma e uno strascico di odio. Altri leader sono stati mandati a casa con l’aiuto di uno scandalo: Nixon, Kohl, Chirac. Ma in nessuno di questi casi si è detto che la democrazia era a lutto, perché in nessun luogo la democrazia si identifica con un uomo.

Di questo finale portano la responsabilità molti avversari di Berlusconi. C’erano vie per togliere alla inevitabile decadenza il sapore della vendetta, o addirittura il sospetto che serva per rendere il decaduto più vulnerabile alle Procure. Un voto segreto del Senato sarebbe stato rispettoso delle regole e politicamente più definitivo, avrebbe tolto al dibattito di ieri quell’aria di copione già scritto altrove.
Ma una forte responsabilità la porta proprio Berlusconi. La sua lunga militanza nelle istituzioni gli avrebbe dovuto suggerire comportamenti diversi. La condanna per un reato fiscale può considerarla ingiusta quanto vuole, e ad essa opporsi in tutti i modi. Ma che fosse incompatibile con una carica pubblica era evidente, anche se non ci fosse stata la legge Severino. Avrebbe dovuto prenderne atto. Innanzitutto per i suoi elettori, che sono ancora tanti, forse più di quanti gli avversari pensano. Avrebbe dovuto offrire loro un progetto per tenere unito il centrodestra anche dopo di lui, per farlo tornare a vincere. Non chiedere l’ennesima battaglia pretoriana in difesa del capo, costi quel che costi al Paese, infatti rifiutata dai ribelli di Alfano.

E avrebbe dovuto chiedere la grazia, non pretenderla come una sottomissione dello Stato di diritto alla sua persona.
Invece Berlusconi ha scelto un’altra strada, per la felicità dei falchi di qua e di là. Spera così di costruire sul risentimento del suo elettorato l’ennesima resurrezione politica. Non sappiamo se ce la farà. Ma così non ce la farà l’Italia a voltare finalmente pagina.

28 novembre 2013
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ANTONIO POLITO

Da - http://www.corriere.it/editoriali/13_novembre_28/coda-avvelenata-5db59940-57f4-11e3-8914-a908d6ffa3b0.shtml


Titolo: Antonio POLITO Primarie PD, dopo la vittoria di Renzi Il peso del successo
Inserito da: Admin - Dicembre 11, 2013, 10:38:30 am
Primarie PD, dopo la vittoria di Renzi
Il peso del successo

La vittoria a valanga di Matteo Renzi è una benedizione per il Pd. Appena otto mesi fa quel partito si era liquefatto nel voto sul capo dello Stato, dopo aver perso un’elezione che poteva solo vincere. Era insomma allo sbando. Il governo Letta l’ha tenuto in vita con l’ossigeno; un nuovo leader, scelto da una base elettorale ancora una volta molto ampia e con un grande distacco, può ora rimetterlo in piedi. Renzi ha cominciato a vincere quando ha perso le primarie di un anno fa, perché il disastro politico che ne è seguito ha persuaso anche i più scettici elettori del Pd che rischiare con lui è sempre meglio che perdere di sicuro con gli altri.

Il voto di ieri ha così dimostrato che il Pd è scalabile, anche da un uomo nuovo che viene dalla periferia, anche senza accordi preventivi, anche senza peli sulla lingua. Si tratta di una qualità democratica di cui oggi nessun altro partito dispone, e che speriamo contagi presto il futuro centrodestra (sul Movimento di Grillo, almeno da questo punto di vista, c’è poco da sperare).

Ma il successo di Renzi apre una pagina nuova anche nella storia della sinistra italiana. Se è vero infatti che il Pd aveva già avuto un segretario non ex comunista (Franceschini) e perfino un segretario ex socialista (Epifani), quello che è stato eletto ieri è il primo segretario che non è post di niente, nemmeno della Dc. È dunque l’incarnazione di una generazione X, giunta alla politica quando il Muro era già caduto e la Prima Repubblica già finita. La Bad Godesberg, che al riformismo italiano è sempre mancata sul piano dei programmi e delle idee, si è forse realizzata con un salto antropologico e una rottura genealogica.

Renzi ha insomma già cambiato il Pd. Cambierà anche l’Italia, come ripetutamente promette? Qui l’esperienza impone cautela, perché l’ultimo ventennio della sinistra italiana è lastricato di grandi speranze presto fallite.
Contro Renzi lavorano tre fattori. Il primo è il suo partito, nel quale operano ancora troppi nemici palesi e troppi finti amici, saltati sul carro del cambiamento all’ultimo istante solo per fare in modo che nulla cambi. Il secondo è Renzi stesso: finora ha dimostrato di avere molto scatto televisivo ma poca profondità di analisi, una notevole capacità immaginifica ma scarsa attenzione ai dettagli. Soprattutto è ancora troppo solo, perché intorno a lui non si è finora visto crescere l’abbozzo di una classe dirigente in grado di governare il Paese.

Ma il vero formidabile ostacolo che dovrà affrontare è la complessità quasi disperata del rebus italiano. Per risolverlo, a partire dal tassello centrale della legge elettorale, servirà una grande capacità di alleanze e di persuasione: la chiarezza della direzione di marcia non dovrà mai trasformarsi in arroganza. E bisognerà resistere alle sirene dell’opposizione, che lo spingono ad affrettare bottini elettorali destinati a risultare poi inutili per governare. Questa, soprattutto, è la svolta cui Renzi è chiamato. Fino a ieri la sua forza è consistita nell’essere all’opposizione di tutto: del passato, della nomenklatura, dell’establishment . Da stamattina è invece il capo del maggior partito di governo, chiamato a realizzare, e presto, le cose tanto predicate. Sarà capace il sindaco di Firenze, nei due giorni alla settimana che intende passare a Roma, di trasformarsi in un uomo di governo? Per come è messo il nostro Paese, bisogna augurarselo.


09 dicembre 2013
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ANTONIO POLITO 134

Da - http://www.corriere.it/politica/13_dicembre_09/peso-successo-2f7d469a-609b-11e3-afd4-40bf4f69b5f9.shtml


Titolo: Antonio POLITO La legge elettorale non basta La perenne debolezza del potere
Inserito da: Admin - Gennaio 16, 2014, 04:33:35 pm
La legge elettorale non basta
La perenne debolezza del potere

C’è oggi l’opportunità di intervenire per fare del capo dell’esecutivo si avrebbe un primo ministro padrone della sua maggioranza

Antonio POLITO

Una buona legge elettorale è ovviamente necessaria per la tanto agognata governabilità. Però credere che un sistema elettorale, qualsiasi sistema elettorale, sia anche sufficiente a risolvere il problema è una grande illusione, nella quale purtroppo stiamo cadendo di nuovo.
Si dice: se c’è un premio di maggioranza la sera delle elezioni si sa chi ha vinto, e chi ha vinto governa per cinque anni. Ma il premio di maggioranza c’era dal 2005, e nessuno di quelli che lo hanno vinto è poi riuscito a governare per cinque anni, nemmeno nell’epoca del bipolarismo pre-Grillo: Prodi ha resistito due anni, Berlusconi meno di tre (dall’uscita di Fini in poi il suo governo era finito).

Rivendichiamo giustamente una legge maggioritaria per un nuovo inizio, ma tendiamo a dimenticare che quella precedente non era certamente poco maggioritaria, è stata anzi giudicata incostituzionale proprio perché era iper-maggioritaria. Del resto in nessuna nazione democratica una buona legge elettorale basta di per sé a garantire maggioranze parlamentari omogenee. Ai fautori del sistema spagnolo andrebbe ricordato che Zapatero per due legislature ha governato senza avere la maggioranza assoluta alle Cortes; ai fautori del collegio uninominale che nemmeno in Gran Bretagna l’attuale premier ha ottenuto col voto una maggioranza a Westminster. E in Germania la Merkel ha stravinto le elezioni, e ciò nonostante ha dovuto fare la grande coalizione con gli avversari socialdemocratici.

Che cos’è allora che dà stabilità e governabilità alla Spagna, alla Gran Bretagna e alla Germania, se non basta la legge elettorale? Innanzitutto la cultura politica: partiti antichi, elettorati pragmatici, media responsabili. Poi il monocameralismo: una sola Camera dà la fiducia al governo (a questa anomalia italiana pare che finalmente si voglia porre rimedio, speriamo). Ma, forse più di tutto, contano l’investitura e i poteri del capo del governo. Che non a caso in Spagna si chiama presidente del governo, e in Gran Bretagna primo ministro, e in Germania cancelliere, e solo da noi presidente del Consiglio, cioè niente più che un primus inter pares , un’eredità che ci portiamo dietro dallo Statuto Albertino.

Da anni è chiaro che servirebbe invece un primo ministro padrone della sua maggioranza, in grado cioè di guidarla o di mandarla a casa se gli si ribella. Ma finora le necessarie modifiche costituzionali sono sempre state bloccate dalla diffidenza storica della sinistra nei confronti di ogni rafforzamento dei poteri del premier, nel timore che Berlusconi potesse ritagliare sulla sua figura i panni di un moderno tiranno. Adesso però Berlusconi è interdetto da Palazzo Chigi, e il nuovo capo della sinistra, Renzi, non sembra proprio uno che ha paura di un governo forte guidato da un leader forte.

Perché allora il tema è stato completamente abbandonato da tutte le forze politiche? Perché non si affronta adesso, insieme al bicameralismo, in questo anno di legislatura che forse ci resta? C’è un modo ambizioso di affrontarlo (forse troppo ambizioso per il Parlamento attuale) ed è quello di introdurre l’elezione diretta del capo dell’esecutivo. Ma c’è un modo più modesto, seppure di non di modesta efficacia, che consisterebbe nel dare al premier il potere di essere eletto dalla Camera ricevendo una fiducia individuale, e di sostituire o licenziare i suoi ministri (che non sarebbero investiti dello stesso rapporto fiduciario); nell’obbligare chi volesse votargli la sfiducia a raggiungere la maggioranza assoluta dei componenti dell’assemblea per farlo cadere, oppure nel dare a lui la possibilità di chiedere lo scioglimento del Parlamento se la sua maggioranza viene meno; e infine nel concedergli il tempo parlamentare necessario per far passare le sue proposte di legge e realizzare il programma cui si è impegnato con gli elettori, invece di diventare un fabbricante di decreti peraltro esposti al racket degli emendamenti.

C’è oggi una formidabile finestra di opportunità: accoppiata con una buona legge elettorale, una riforma del genere cambierebbe il volto della politica italiana. Letta, Renzi, Alfano, Toti o chi per lui, non dovrebbero lasciarsi scappare questa occasione. Chiunque di loro governerà l’Italia di domani sarebbe altrimenti costretto a passare sotto le stesse forche caudine di Prodi e Berlusconi, che pure erano stati entrambi eletti con leggi maggioritarie.

15 gennaio 2014
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_gennaio_15/debolezza-potere-962f2c42-7db4-11e3-80bb-80317d13811d.shtml


Titolo: Antonio POLITO Il motore si è riacceso
Inserito da: Admin - Gennaio 19, 2014, 06:06:11 pm
L’editoriale
Il motore si è riacceso

Era dunque prematuro quel game over che Matteo Renzi scandì, per sancire l’uscita di scena di Berlusconi dopo la condanna. Invece rieccolo il Cavaliere, tornato protagonista; eccolo riprendersi nella sede del Pd, in via del Nazareno, quell’«agibilità politica» che impropriamente pretendeva dal Quirinale. Sono i voti di cui dispone a ridargliela, non il segretario del Pd, il quale non ha fatto altro che ripercorrere le orme di D’Alema, di Veltroni e di Bersani, tutti obbligati a trattare con il capo della destra sulle materie istituzionali (anche se di solito senza successo). L’unica differenza è che stavolta nessuno grida all’inciucio.

È infatti un bene che Berlusconi partecipi alla scrittura delle regole del gioco. Male era quando se ne ritirò, tentando di affossare Letta e il suo programma di riforme; bene è che ora, fallita la prova di forza anche grazie ad Alfano, conceda un bis a Renzi. Bene è che concordi anche quei minimi cambiamenti costituzionali, abolizione del bicameralismo e degli eccessi del federalismo, senza i quali il sistema affonda.

Male sarebbe invece se i due pensassero di potersele scrivere da soli le nuove regole; perché pur essendo due dei tre soggetti più forti, insieme rappresentano in Parlamento meno del 50% degli italiani. Il sospetto ha dominato la vigilia. I due leader condividono una certa idea del comando, che ha guadagnato a entrambi l’ammirazione di Briatore, «il Boss» di un fortunato programma tv. La tentazione di un accordo di ferro su un sistema elettorale alla spagnola, punitivo per le forze minori, era e resta forte. Metterebbe a rischio non tanto la serenità di Letta, cui Renzi ha assicurato di non voler togliere la poltrona, ma l’agibilità politica dell’Italia, esposta a un’ennesima crisi causata dall’incapacità dei partiti di trovare intese. Alfano non aspetterebbe inerte la cancellazione del suo partito a tavolino, si aprirebbe una crisi; e l’Italia perderebbe così anche quest’anno, mentre perfino la Francia socialista annuncia un massiccio piano di tagli di tasse e spesa pubblica.

Ma Renzi ha mostrato ieri di aver capito che uno scenario di caos affonderebbe anche la sua riforma. Per questo ha promesso, così come Berlusconi, che la soluzione finale sarà accettabile anche per gli altri partiti della maggioranza. Con Alfano si sta trattando su un modello elettorale che assomiglia solo pallidamente allo spagnolo caro a Verdini: si tornerebbe cioè a un proporzionale con liste bloccate, seppur corte, e a un premio di maggioranza, seppur condizionato al superamento di una soglia. Non si può dire che sia il viatico di una Terza Repubblica, né che dia certezze di governabilità. Vedremo: la strada parlamentare è ancora lunga. Ma è fuor di dubbio che prima la pressione di Napolitano, poi la sentenza della Consulta e oggi la forte accelerazione di Renzi abbiano finalmente riacceso un motore che sembrava destinato a marcire per sempre nella palude della politica italiana.

19 gennaio 2014
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ANTONIO POLITO

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_gennaio_19/motore-si-riacceso-a26e11aa-80d7-11e3-a1c3-05b99f5e9b32.shtml


Titolo: Antonio POLITO - Quel filo ormai troppo sottile Si logora il patto sulle riforme
Inserito da: Admin - Marzo 06, 2014, 12:05:35 pm
Quel filo ormai troppo sottile
Si logora il patto sulle riforme

Il filo da acrobata su cui Renzi cammina ha resistito alla prima prova della legge elettorale, ma si è fatto molto più sottile. Ora che è al governo, il premier ha dovuto scegliere tra le due maggioranze, e ha ovviamente preferito quella di governo. Più ancora che Alfano, a imporlo è stato il Pd. Dal Pd non renziano, tuttora in maggioranza a Montecitorio, viene l’emendamento vincente che limiterà la riforma elettorale alla Camera, e da quel Pd Renzi rischiava, in caso contrario, una sonora bocciatura in Aula. Berlusconi, il contraente dell’altro patto, ha dovuto accettare, seppure con «grave disappunto». Per un po’ di tempo il Cavaliere non potrà fare molto altro. Da oggi le due maggioranze di cui disponeva Renzi si sono ridotte a una e mezza: quella con Alfano, che si allarga a Berlusconi sulle riforme. D’altra parte, l’ultima volta che una doppia maggioranza ha funzionato risale ai tempi di De Gasperi a Palazzo Chigi e Terracini alla Costituente. Altri uomini.

Il compromesso trovato ieri ha una sua logica. «Avremmo fatto ridere il mondo con una riforma elettorale inapplicabile per il Senato», ha detto ieri il senatore Quagliariello, e ha ragione. Però la soluzione escogitata non suscita minore ilarità: una riforma applicabile solo alla Camera. Il che vuol dire che se per caso o per scelta il Parlamento non eliminerà del tutto il Senato elettivo, alle prossime votazioni avremo un sistema che dà certamente una maggioranza a Montecitorio e altrettanto certamente non la dà a Palazzo Madama. Provate a spiegarlo a un marziano, o anche a un tedesco. Se si aggiungono le tre soglie diverse, un premio di soli sei seggi e la deroga alla Lega, si apprezza fino in fondo l’«esprit florentin» della riforma che sta nascendo.

Come tutte le soluzioni a metà anche quella trovata ieri contiene una buona opportunità ma anche un immenso rischio. Garantisce al Parlamento il tempo necessario, gliene servirà più di un anno, per cambiare la Costituzione. Ma il fallimento, o la dilazione alle calende greche, stavolta ci precipiterebbe in una situazione perfino peggiore di un pessimo passato.

Sospettare che qualcuno dei giocatori stia barando sotto il tavolo è del resto legittimo. Suona infatti strano che, mentre tutti la danno per scontata, non sia stata in realtà neanche presentata da Renzi una bozza di riforma del Senato. Eppure aveva indicato un cronoprogramma che ne prevedeva entro l’estate l’approvazione in prima lettura, e proprio al Senato.

È quello il vero ostacolo della corsa. E non è un caso se la proposta di legge non c’è ancora. Il fatto è che il progetto iniziale di Renzi non convince: in molti, pare di capire anche nella Consulta, hanno seri dubbi a trasformare la Camera Alta in una sorta di Cnel di sindaci piuttosto che in un Bundesrat alla tedesca. È giunto dunque il momento di scegliere. Ieri il premier ha salvato la velocità della macchina che ha messo in moto, ora deve indicare il traguardo.

05 marzo 2014
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ANTONIO POLITO

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_marzo_05/quel-filo-ormai-troppo-sottile-9bbf6098-a42c-11e3-9bdf-bc722bc1b030.shtml


Titolo: Antonio POLITO - Le acrobazie di una doppia maggioranza
Inserito da: Admin - Aprile 06, 2014, 05:45:29 pm
L’EDITORIALE
Le acrobazie di una doppia maggioranza
Il Berlusconi che ha minacciato di ritirarsi dal processo delle riforme è lo stesso che fece saltare le stesse riforme ai tempi del governo Letta

di ANTONIO POLITO

Prima o poi doveva accadere. La doppia maggioranza, una con Berlusconi e una senza, era insieme obbligata e spericolata, un filo di acrobata vertiginosamente teso sopra le vicende umane e giudiziarie di un leader a fine carriera. D’altra parte il Berlusconi che ieri ha minacciato di ritirarsi dal processo delle riforme è lo stesso che fece saltare le stesse riforme ai tempi del governo Letta, dopo la sua condanna in Cassazione.

Ciò nonostante un brivido di allarme ha percorso l’intero mondo politico quando il capo di Forza Italia, a pochi giorni dagli arresti domiciliari o dall’affidamento ai servizi sociali, ha annunciato che, cosi com’è, il suo partito non voterà la legge che trasforma il Senato. Perché quella legge è un po’ l’architrave di tutto l’attuale, e fragile, edificio politico: senza di quella, la legge elettorale approvata alla Camera non vale nulla, e dunque anche la legislatura vale poco.

È da vedere se Berlusconi fa sul serio. Potrebbe star solo tentando di riaccendere i riflettori su di sé e su Forza Italia, sempre più negletti dai sondaggi; o forse alza la voce per farsi sentire anche dal Tribunale di sorveglianza di Milano; o magari cerca di riportare un po’ d’ordine in un partito che sembra aver perso fiducia nel capo, e ne parla in privato nei termini ascoltati ieri nel fuori onda tra Toti e Gelmini.

In ogni caso, che faccia sul serio o no, vista la parziale retromarcia successiva, l’uscita di Berlusconi non va sottovalutata, e vanno approntate le contromisure necessarie per evitare che anche questa non sia la volta buona per cambiare legge elettorale e istituzioni invecchiate.

Bisogna innanzitutto districare la vicenda giudiziaria di Berlusconi da quella istituzionale. E questo può farlo solo lui. Non c’è niente, assolutamente niente che possa cambiare le cose nei prossimi dieci mesi, se non la serietà, la dignità e l’orgoglio del suo comportamento. Berlusconi ha davanti a sé una prova molto difficile, ma può superarla solo riconquistando nel servizio al Paese, e alle riforme di cui ha bisogno, l’onore politico ferito dalla sentenza.

Poi però bisogna districare le riforme dalla campagna elettorale, e questo spetta a Matteo Renzi. Non si può cambiare di corsa il sistema parlamentare solo perché tra due mesi ci sono le Europee e le riforme devono essere portate come uno scalpo sulle piazze. Renzi ha il dovere di ascoltare le critiche, quelle dei professoroni di sinistra alla Zagrebelsky e quelle dei professorini di destra alla Brunetta. Deve accettare il fatto che il suo progetto di Senato presenta molti limiti e contraddizioni, e che in queste materie gli errori di precipitazione non sono ammessi perché producono effetti per i prossimi cinquant’anni. Invece di cercare un accomodamento privato con Berlusconi, Renzi deve trovare in un libero e trasparente dibatto parlamentare le buone ragioni di una riforma cui l’opposizione non possa dire no per motivi strumentali o irrazionali.

È vero che il premier potrebbe anche sfidare Berlusconi: approvare la sua riforma a maggioranza semplice e poi farsela confermare con un referendum popolare. Ma senza la spalla di Forza Italia, Renzi dovrebbe in ogni caso consegnarsi alla volontà del corpaccione del suo partito e a quella che lui chiama «palude», dove si annidano gli istinti più conservatori in materia costituzionale. Forse gli conviene dismettere un po’ del suo arditismo elettorale per guadagnare un po’ di profondità politica. Non può insomma usare le riforme per prendere voti a Berlusconi, almeno non con i voti di Berlusconi. Ma non può perderle senza perdere il consenso degli italiani. Per il giovane e scapestrato fiorentino è giunta l’ora della maturità.

6 aprile 2014 | 09:28
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_aprile_06/acrobazie-una-doppia-maggioranza-b4889e26-bd5b-11e3-b2d0-9e36fa632dc6.shtml


Titolo: Antonio POLITO C’eravamo tanto uniti
Inserito da: Admin - Aprile 15, 2014, 05:48:33 pm
C’eravamo tanto uniti

Di ANTONIO POLITO

La sinistra che non cambia, dice Renzi, diventa destra. Ma che succede alla destra che non cambia? Difficile dirlo, in un Paese che dopo la caduta della Destra storica, nel 1876, ha dovuto aspettare 118 anni prima che un’altra destra democratica, risvegliata dal bacio di un Cavaliere, tornasse all’onor del mondo.

Oggi che la vicenda cominciata nel 1994 si avvia alla conclusione, sempre più il ruolo storico che vi ha svolto Berlusconi sembra simile a quello che Tito ha impersonato per la Jugoslavia: appena uscito di scena il fondatore, appena sollevato il velo di un’unità fittizia steso su divisioni profonde e irriducibili, tutto è tornato al passato, conflitti e scontri e odi, fino alla dissoluzione dell’effimera creatura. Diventa insomma sempre più difficile pronosticare per il centrodestra italiano l’esito felice che consentì al gollismo di sopravvivere al ritiro del suo fondatore; e sempre più probabile uno scenario di guerra civile interna, di stampo per l’appunto jugoslavo.

La ragione è facile da capire: in tutti questi anni non si è mai lavorato a costruire una cultura comune del centrodestra, un set di valori indipendenti dalle persone che di volta in volta li incarnavano. I dirigenti dei partiti di quell’area politica, da Forza Italia a Ncd, dalla Lega a Fratelli d’Italia, all’Udc, non sono d’accordo sull’essenziale. Che si tratti della fecondazione eterologa o della riforma del Senato, hanno opinioni diverse. Alcuni sono europeisti altri euroscettici, ci sono i putiniani e gli amerikani . Per due decenni queste culture politiche sono state sommate, non fuse. Oggi si vede. Ormai lottano l’una contro l’altra per sopravvivere.

Un tale vuoto è stato finora dissimulato e nascosto dalla forza primordiale dell’unico istinto comune al centrodestra e maggioritario nel Paese: la rivolta anti-tasse. Cosicché anche quando i governi Berlusconi non sono stati in grado di ridurle, sono pur sempre apparsi all’elettorato il più efficace baluardo contro chi le tasse le avrebbe certamente aumentate: il centrosinistra. Ma oggi questo collante, questo moltiplicatore automatico di voti, non è più utilizzabile; perché la sinistra ha rotto il tabù fiscale, e sulle tasse dice ormai - e vedremo se Renzi manterrà le promesse, i dubbi sono legittimi - le stesse cose della destra. Alla quale, dunque, tocca trovare un nuovo senso, oltre che un nuovo leader.

Senza questo sforzo sarà difficile ricomporre l’unità politica del centrodestra, rotta dalla sciagurata decisione di Berlusconi di mollare il governo Letta. Oggi, come ha detto Paolo Romani, «il centrodestra è debolissimo al governo e debolissimo all’opposizione». Berlusconi ha buttato a mare una maggioranza di cui deteneva la golden share ; e per riconquistare poi un minimo di influenza ha dovuto portare a Palazzo Chigi il suo più formidabile avversario, e consegnargli le chiavi del suo elettorato.

Non c’è più molto tempo. Se i vari tronconi del centrodestra arriveranno divisi e in funzione di ascari all’appuntamento fatale con un nuovo patto costituzionale, rischiano di scomparire dalla geografia della Terza Repubblica, dopo aver inventato e dominato la Seconda.
14 aprile 2014 | 07:24
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_aprile_14/c-eravamo-tanto-uniti-6806f126-c394-11e3-a057-b6a9966718ba.shtml


Titolo: Antonio POLITO Dietro la svolta di Berlusconi La tentazione elettorale
Inserito da: Admin - Aprile 28, 2014, 12:09:11 pm
Dietro la svolta di Berlusconi
La tentazione elettorale

di ANTONIO POLITO

Come se fosse uscito da un lungo letargo esistenzial-giudiziario, Silvio Berlusconi è tornato ieri a ruggire all’antica maniera. Con l’eccezione dei magistrati, verso i quali sono evidenti toni più evasivi, dovuti alla sua nuova condizione di condannato in prova ai servizi sociali, non ha risparmiato nessuno. Nemmeno il capo dello Stato, contro il quale ha scagliato vecchie accuse condite di nuove maldicenze, sempre nel tentativo di attribuire a oscuri «complotti» i guai che alla luce del sole costrinsero alle dimissioni il suo ultimo governo.

Ma il piatto forte della rentrée a Porta a Porta è stato senza dubbio il passaggio di Berlusconi all’opposizione di Renzi. Non solo e non tanto sui provvedimenti economici (gli 80 euro in busta paga li ha definiti una «mancia elettorale» che a lui non sarebbe stata mai permessa); quanto piuttosto sull’intero processo delle riforme. Pur senza dichiarare morto il suo patto con il premier, e anzi ribadendo che lui intende restarvi fedele, il leader di Forza Italia ne ha fatto a brandelli i prodotti legislativi. La riforma del Senato così com’è per lui non è votabile, e per quanto lo riguarda nemmeno sul mandato non più elettivo dei senatori c’è accordo. Ma Berlusconi ha aggiunto di aver scoperto all’improvviso, parlando con alcuni costituzionalisti, che l’Italicum stesso, la riforma elettorale che era il punto centrale dell’intesa del Nazareno, potrebbe essere incostituzionale. Dunque urge ulteriore riflessione. Dunque entro il 25 maggio, data delle Europee, non se ne farà niente.

Man mano che l’anziano leader parlava, e le forze di un tempo sembravano rianimarlo, abbiamo visto in azione una legge ferrea della politica: Berlusconi non può fare una campagna elettorale con un minimo di chance di successo tirando da un lato la volata a Renzi e pagandone dall’altro il prezzo a Grillo. I sondaggi si sono incaricati di confermare ciò che Toti sussurrava sottovoce e fuori onda alla Gelmini: l’abbraccio col giovane fiorentino può davvero rivelarsi mortale per Forza Italia. Stupisce piuttosto che qualcun altro possa aver sperato di condurre una vecchia volpe come Berlusconi in pellicceria senza che lui se ne accorgesse, e alla vigilia di un turno elettorale.

Intendiamoci: il tavolo delle riforme non è affatto saltato. E Berlusconi è stato attento a non farlo saltare. È ibernato. Semplicemente il leader di Forza Italia non intende concedere a Renzi di presentarsi alle urne come il salvatore della patria. Il futuro dell’accordo dipenderà ora dai risultati elettorali, e sarà sottoposto a nuove e imprevedibili condizioni, perché può intrecciarsi con la lotta interna al Pd e con l’opposizione sempre più manovriera dei grillini.

La lunga luna di miele di Renzi sembra finita ieri, e le riforme non sono più un pranzo di gala. Per salvarle, perché vanno salvate, perché l’Italia le aspetta, ci sarà bisogno di molta più pazienza, prudenza e trasparenza di quanta finora ne sia stata messa in campo, e di un risultato elettorale che consenta di rilanciarle. Renzi deve ora sperare non solo in un suo successo, ma anche in una tenuta di Forza Italia. Se Grillo la scavalcherà, infatti, nessuno può dire come andrà a finire.

25 aprile 2014 | 08:44
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_aprile_25/tentazione-elettorale-a99b85fa-cc42-11e3-bd55-1293c86c2534.shtml


Titolo: Antonio POLITO - L’errore (non lieve) del Premier polemista
Inserito da: Admin - Maggio 06, 2014, 04:48:21 pm
L’errore (non lieve) del Premier polemista

Di ANTONIO POLITO

Per molti italiani, e non da oggi, il sindacato è effettivamente un fattore di conservazione sociale e di freno al cambiamento. Solo per pochissimi italiani, invece, il signor Piero Pelù merita di essere preso sul serio quando si abbandona alle sue elucubrazioni storico-politiche, soprattutto quando ha un libro in uscita. Eppure, nonostante ciò, a nessuno dovrebbe piacere il modo in cui il presidente del Consiglio e i suoi infaticabili ventriloqui hanno di recente zittito l’uno e l’altro. C’è infatti nello stile polemico di Renzi qualcosa che inquieta perché travalica la questione di stile: un ricorso troppo frequente alla denigrazione. Fateci caso: chiunque muova critiche al governo viene additato come portatore di un interesse personale e poco nobile che spiegherebbe la vera ragione del suo dissenso. La Cgil parla contro il decreto sul lavoro perché gli è stato tagliato il monte ore dei permessi sindacali; il cantante dal palco del Primo Maggio rompe perché ha perso un incarico retribuito a Firenze; i funzionari del Senato, che per dovere d’ufficio devono dare un parere sui decreti, dichiarano i loro dubbi sul bonus di 80 euro solo per vendicarsi della imminente riforma del Senato. E via dicendo. A tutti viene di solito rinfacciato che per il loro lavoro ricevono un compenso, come se fosse un’aggravante.

C’è un’infinità di critiche politiche motivate e spesso giuste che possono essere rivolte ai critici di Renzi (basti pensare ai danni prodotti dal conservatorismo costituzionale). Ma invece di impegnarsi sul terreno della discussione trasparente e nel merito, che accetta la buona fede dell’avversario, sempre più spesso si ricorre a quella che gli americani chiamano character assassination , la denigrazione pubblica: in pratica una forma di gogna mediatica che offre a una piazza sempre più incattivita un capro espiatorio con cui prendersela.

E non è solo una questione di bon ton: il dilagare di questo stile, che a dire il vero non ha inventato Renzi ma che Renzi sta sublimando, rischia infatti di restringere quella che Habermas ha chiamato la «sfera pubblica», e cioè l’ambito in cui gli individui possono esercitare la loro critica contro il potere dello Stato. In un’epoca in cui i Parlamenti non contano più molto, e l’unico vero dibattito pubblico si svolge sui media, l’esito è un impoverimento della qualità della democrazia, che per essere tale ha bisogno di una cittadinanza attiva, informata e vociferante.

Se infatti chiunque dica la sua, magari anche in nome di interessi corporativi o di categoria (come è spesso nel caso dei sindacati, compresi quelli dei giudici e dei prefetti), viene dichiarato non attendibile perché sta solo difendendo un privilegio personale, il nuovo potere è legittimato a non ascoltare più il dissenso, ergendosi a unico e infastidito interprete della «volontà generale».

Non è proprio il modo in cui funzionano le società aperte e liberali. È piuttosto un corto circuito che abbiamo visto spesso all’opera nelle rivoluzioni. Ci auguriamo che non sia a questo che si riferisce il premier quando dice che sta facendo «una rivoluzione».

6 maggio 2014 | 07:54
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_maggio_06/errore-non-lieve-premier-polemista-16fc5186-d4e2-11e3-b55e-35440997414c.shtml


Titolo: Antonio POLITO - La ragnatela degli affaristi
Inserito da: Admin - Maggio 10, 2014, 07:03:17 pm
La ragnatela degli affaristi

Di ANTONIO POLITO

Puoi sciogliere il Pci, il Pds, i Ds, ma non puoi sciogliere Primo Greganti. Puoi sciogliere la Dc, ma non Gianstefano Frigerio. La lezione dell’inchiesta di Milano, anche se finisse con una raffica di assoluzioni, è che non basta abbattere i partiti o cambiargli nome per risanare la politica. Anzi: la malapolitica senza partiti può essere perfino peggio. I faccendieri, gli intrallazzatori e i tangentari esisteranno finché ce ne sarà richiesta sul mercato, cioè finché saranno necessari per fare incontrare «imprenditori a caccia di appalti e manager pubblici a caccia di carriere», come ha scritto ieri Luigi Ferrarella sul Corriere. E questo accadrà fin quando sarà la politica a distribuire appalti e carriere, gare e presidenze di enti.


Per moralismo, per non imitare gli americani, non abbiamo portato alla luce del sole il lavoro di lobbying, inevitabile quando più privati competono per ottenere commesse pubbliche. E dunque ci teniamo l’immoralità di scambi che avvengono al buio tra chi può e chi paga, intermediati da chi conosce. Non è cambiato infatti l’essenziale. Nascosta sotto una foresta di norme astruse e inefficaci che dovrebbero garantire la trasparenza, è rimasta intatta la discrezionalità del potere politico; il prezzo con cui ci si aggiudica una gara non conta niente perché tanto poi lo si può rialzare; imprese finte e imprese vere sono messe sullo stesso piano in un’economia di relazione dove conta non quello che sai fare, ma a chi sai arrivare.


C’è una differenza con vent’anni fa, ed è che allora i grandi partiti prendevano il 5%, e oggi al circolo Tommaso Moro di Milano, secondo l’accusa, bastava lo 0,80%. Ma attenzione a credere che Greganti e Frigerio siano due vecchi giapponesi rimasti a combattere da soli nella giungla di Tangentopoli: rappresentano tuttora la commistione tra affari e politica. Il Signor G, scrive il Gip, è ancora «persona legata al mondo delle società cooperative di area Pd», e nelle intercettazioni ne spuntano molte di coop rosse per cui si prodigava. E Frigerio poteva ancora promettere incontri ad Arcore e biglietti di raccomandazione a un ministro.


Per questo sembra un po’ semplicistico liquidare la questione, come ha fatto ieri Renzi, auspicando che «la politica non metta becco». Perché se la politica non cambia il modo in cui gestisce il denaro pubblico, a metterci il becco rimarrà di nuovo e soltanto l’opera di repressione dei magistrati, e tra vent’anni saremo ancora qui. C’è poi una seconda grande differenza con Tangentopoli: ed è che stavolta la Procura di Milano è divisa. Il coordinatore del pool per i reati contro la pubblica amministrazione, Alfredo Robledo, non ha firmato i provvedimenti. Il procuratore capo, Edmondo Bruti Liberati, ha spiegato che il suo collaboratore «non condivideva l’impostazione dell’inchiesta».

Questo vuol dire che era possibile un’altra impostazione? Che dietro lo scudo dell’obbligatorietà dell’azione penale esiste invece un margine cospicuo di discrezionalità, che si può scegliere un modo o un altro di esercitarla, e tempi diversi? E se sì, meglio affrettare gli arresti prima che sia troppo tardi per salvare l’Expo, o meglio evitare di farli in piena campagna elettorale? Questi dubbi sono oggi legittimi, e non giovano alla credibilità dell’azione dei magistrati. E anche di questo la politica non dovrebbe lavarsi le mani.

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10 maggio 2014 | 09:51

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_maggio_10/ragnatela-affaristi-d2539db2-d817-11e3-8ef6-8a4c34e6c0bb.shtml


Titolo: Antonio POLITO La Sinistra alle prese con tutti i suoi limiti
Inserito da: Admin - Maggio 18, 2014, 05:06:14 pm
Renzi-Grillo

La Sinistra alle prese con tutti i suoi limiti
Ogni elezione fa storia a sé. Come andranno le prossime Europee? Una riflessione


Di ANTONIO POLITO

Ogni elezione fa storia a sé. Ma per capire se le prossime Europee cambieranno davvero l’equazione politica

italiana, bisognerà considerare due elementi finora abbastanza trascurati. Il primo riguarda il risultato che

andrà ai Democratici. I sondaggi, finché sono stati pubblicati, pronosticavano un ottimo esito per il partito di

Renzi. Ma comunque dentro il limite storico della sinistra italiana. Come infatti racconta Claudio Cerasa nel suo

“Le catene della sinistra”, «che ci si creda o no il suo più grande partito, alla Camera, in tutte le elezioni

politiche ha sempre preso gli stessi voti». È la regola dei dodici milioni: quelli che ottenne Veltroni nel 2008,

l’Ulivo di Prodi nel 2006, Ds e Margherita sommati nel 2001, e perfino il Pci nel 1976.

Un terzo dell’elettorato. Quando è andata male, ne ha presi anche di meno. Ma quando è andata bene, anzi

benissimo, mai più di così.
La statistica è interessante perché Renzi sta compiendo un’operazione, di cui la sinistra aveva da tempo bisogno,

per spezzare queste catene cambiando il suo elettorato. Visto che l’Italia non si adegua alla sinistra, Renzi

prova ad adeguare la sinistra all’Italia. In realtà anche Veltroni e Berlinguer allargarono temporaneamente i

confini della sinistra, ma non ne cambiarono il DNA, dunque non riuscirono a insediarsi stabilmente tra coloro che

si sentono di non-sinistra.

Sembra che Renzi stia avendo successo nel raggiungere un elettorato nuovo, ma non è chiaro se riuscirà a sommarlo

al vecchio. Nel giudicarne il risultato bisognerà dunque capire se con lui la sinistra riuscirà finalmente a

superare il suo recinto storico.

Se così non fosse, infatti, l’intera strategia renziana zoppicherebbe. Il premier ha appena fatto approvare alla

Camera una legge elettorale che fissa al 37% l’asticella per prendere tutto al primo turno proprio nella

convinzione di poterci arrivare da solo o quasi. Ove mai questo si dimostrasse irrealistico, anche per il

progressivo allontanamento da quell’altro spezzone della sinistra che tifa ormai Tsipras e Camusso, allora anche

per il Pd l’Italicum non darebbe più garanzie. Ecco perché a Renzi non basta far meglio del suo predecessore; deve

fare meglio del meglio se vuole aprire un’era nuova.

Il secondo elemento da considerare sarà il risultato di Grillo. Se infatti il Movimento 5 Stelle confermasse o

addirittura superasse le percentuali di un anno fa ci troveremmo di fronte a un vero e proprio rebus politico.

Appena quest’inverno, dopo la condanna di Berlusconi e la sua uscita dal governo Letta, sondaggisti e commentatori

davano in grave crisi il movimento grillino, peraltro squassato da polemiche e defezioni interne.

Che cosa è successo, dopo di allora, per rivitalizzarlo? Come mai proprio il governo Renzi, nato per isolarlo,

l’avrebbe galvanizzato? Il ritorno in scena di Berlusconi come padre costituente, e di Primo Greganti come

archetipo delle tangenti, hanno certamente aiutato la rimonta dell’ex comico.

Ma una sua forte affermazione alle europee significherebbe qualcosa di più profondo e duraturo. Vorrebbe cioè dire

che l’impermeabilità di una parte maggioritaria dell’elettorato italiano al messaggio della sinistra si perpetua

anche in presenza di una sinistra molto rinnovata e in assenza di una destra competitiva. Un tale risultato può

cristallizzare l’anomalia politica italiana anche oltre il ventennio berlusconiano, negandoci ancora e chissà per

quanto tempo un bipolarismo di stampo europeo, tra una destra e una sinistra entrambe moderate.

17 maggio 2014 | 07:45
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_maggio_17/sinistra-prese-tutti-suoi-limiti-d43ad052-dd83-11e3-9bca-

c6f1cdc28cdd.shtml


Titolo: Antonio POLITO - Come farsi male (e tanto) da soli
Inserito da: Admin - Maggio 24, 2014, 06:18:06 pm
Come farsi male (e tanto) da soli
Di ANTONIO POLITO

Sarà forse una nuova macchinazione internazionale, questo ritorno dello spread tra i guai dell’Italia? Un altro «grande imbroglio», un nuovo «complotto» con il quale, complice al solito il capo dello Stato, entità straniere tentano di buttar giù anche Renzi, dopo averlo fatto con Berlusconi? In attesa di scoprirlo tra qualche anno dalle tardive memorie di un ex ministro o di un ex premier, per ora non si può dare che una spiegazione più prosaica: ci stiamo facendo male da soli, l’organismo debilitato e fiacco del nostro sistema politico sta avendo una ricaduta.

I fondamentali del Paese non sono del resto tanto cambiati. Il debito pubblico è immane come tre anni fa, anzi di più. Il segno davanti alla cifra del Pil è sempre negativo. Governo e Parlamento faticano a tenere sotto controllo la spesa più o meno come al solito. Ma a questa costante economica del caso italiano si sta di nuovo aggiungendo un rischio squisitamente politico. Gli inglesi lo chiamano «slippage », letteralmente scivolata, metaforicamente una situazione in cui un sistema non sembra più in grado di realizzare un obiettivo o di mantenere una scadenza, e quello che può accadere tra il momento in cui gli investitori comprano Italia e il momento in cui vendono diventa di nuovo incerto, imprevedibile, insicuro.

Nell’estate del 2011 esportammo, nel pieno della crisi dell’euro, ingovernabilità. L’esecutivo non aveva più maggioranza, era squassato al suo interno, il ministro del Tesoro non firmava i provvedimenti di Palazzo Chigi, le raccomandazioni della Bce restavano disattese, le promesse fatte a Bruxelles non venivano mantenute. Nessun governo dei Paesi travolti dalla crisi, dalla Spagna alla Grecia, resse alla tempesta.

Perché mai avrebbe dovuto sopravvivere il nostro, che già non c’era più?

Oggi invece, a poche ore dall’apertura delle urne europee, stiamo esportando instabilità. Non si tratta tanto del fatto che l’Italia può mandare la più numerosa pattuglia di parlamentari antieuro a Bruxelles: questa si chiama democrazia, se gli italiani sono diventati in pochi mesi i più euroscettici del Continente è nel loro diritto usare la scheda elettorale per farlo sapere, e del resto in forme e numeri più o meno analoghi accadrà anche in Francia o in Gran Bretagna (non in Germania). Se l’Europa esiste, sarà in grado di sopravvivere a un voto.

Quello che invece è anormale, perché non accade altrove, è che un tale risultato può far saltare l’intero fragilissimo equilibrio su cui si reggono come acrobati governo e Parlamento, togliendo valore e credibilità a tutti i nostri impegni, rendendoci di nuovo debitori inaffidabili.

Questa situazione è colpa di Grillo, che appicca incendi per prendere voti senza l’onere di proporre soluzioni. Ma è colpa anche di chi doveva fronteggiarlo e invece l’ha inseguito, nella speranza di contendergli quei voti. Da un’opposizione seria come quella che dice di incarnare Berlusconi, e da un governo responsabile come quello che Renzi vuole rappresentare, ci si doveva aspettare un’agenda diversa, e precisamente l’indicazione di ciò che l’Italia farà e sarà in Europa dopo il voto, qualche idea su come condividere la moneta con i tedeschi senza ridursi come i greci. Invece l’agenda l’ha fatta Grillo, da Dudù a Francantonio Genovese. Il resto d’Europa ha visto, e ha preso nota.

22 maggio 2014 | 09:37
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_maggio_22/come-farsi-male-tanto-soli-82a293ea-e172-11e3-8be9-3eb4fd26c19b.shtml


Titolo: Antonio POLITO - Fini, la politica come dipendenza
Inserito da: Admin - Giugno 01, 2014, 04:51:54 pm
Il commento

Fini, la politica come dipendenza
Quelli che non vogliono smettere
L’ex leader di An pensa a un nuovo movimento, ma non è il solo a volerci riprovare

Di ANTONIO POLITO

Più che esecrarli, dovremmo provare a capirli, e imparare a compiangerli, i politici che non vogliono mai smettere. In un Paese dove tutte le persone normali sognano di andare al più presto in pensione, loro in pensione non vorrebbero andarci mai. È una condanna, non una scelta. Come tossicodipendenti all’ultimo stadio, non riescono a porre fine al loro vizio, e se le inventano tutte pur di continuare.

C’è chi fonda un movimento, in mancanza di meglio, per «tornare a essere presente nel dibattito politico», come Gianfranco Fini ha annunciato appena qualche giorno fa. C’è chi non disdegna la carica di sindaco del suo paesino natale, come l’ultraottantenne Ciriaco De Mita, che pure è stato presidente del Consiglio, e segretario di partito, e pluriministro. C’è chi si infuria perché non è stato eletto alle Europee e se la prende non con gli elettori, ma con i capi bastone del suo partito che l’avrebbero tradito: è il caso di Clemente Mastella. E c’è chi, come Massimo D’Alema, sarebbe pronto perfino a trascurare il suo buen ritiro agreste nella campagna umbra, i suoi exploit enologici e il suo giuggiolo da 1.500 euro, pur di aver dall’ex odiato Renzi un qualche incarico in Europa.

Bisogna compatirli perché non tutti lo fanno per soldi o per sete di potere. Oddio, qualcuno sì. L’ineffabile Scajola, per esempio, raccontava alla sua amata amica monegasca che se avesse avuto la ricandidatura da Berlusconi, e con essa uno stipendio da europarlamentare, certe cosucce e certe casucce si sarebbero potute sistemare meglio e in fretta. E l’Italia in effetti pullula di ex politici di rango nazionale che, come la risacca, si ritirano in provincia ad occupare poltrone di presidente e consigliere di amministrazione di questo o di quello, nella proliferazione di società pubbliche inutili che non chiudono mai, e sopravvivono perfino alle Province.

Ma, nel complesso, si tratta di una malattia, più che di una bramosia.
L’ex politico finito avverte in maniera cocente l’umiliazione di non essere più ascoltato, soffre di non poter più indicare la via ai suoi seguaci, langue in un ozio non più vitalisticamente interrotto da telefonate, messaggi, richieste di aiuto, segnalazioni di problemi. È dunque disposto anche a una platea ridotta, di periferia, di seconda fila, pur di riavere l’ebbrezza di una leadership. Oppure tenta di ovviare alla mancanza di azione fingendo un pensiero, e giù libri, fondazioni, convegni, riviste.

In qualche caso, più semplicemente, non sa riadattarsi alla vita civile, come capitava ai soldati che tornavano dalla guerra, magari ha sempre girato senza uno spicciolo in tasca, chaperonato da una scorta o da una segretaria, non è neanche capace di sfogliare i giornali perché li ha sempre letti nella rassegna stampa della Camera, e non sa dove lasciare il cappotto e la borsa se non ha un’auto e un autista che lo aspetta.

È insomma un disadattato, ci vorrebbero degli ospedali appositi, per la riabilitazione psico-motoria. In Gran Bretagna ne hanno davvero inventato uno. Si chiama Camera dei Lord, ed è il luogo dove vanno a passare l’inverno della loro vita i politici che non contano più nulla. Renzi ci potrebbe pensare: un Senato così gli dovrebbe piacere.

1 giugno 2014 | 10:21
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DA - http://www.corriere.it/politica/14_giugno_01/fini-politica-come-dipendenza-quelli-che-non-vogliono-smettere-f7a55ade-e964-11e3-b53f-76c921903500.shtml


Titolo: Antonio POLITO LO SCARICABARILE DELLA POLITICA Troppa ipocrisia sulle inchieste.
Inserito da: Admin - Giugno 10, 2014, 11:30:32 am
LO SCARICABARILE DELLA POLITICA
Troppa ipocrisia sulle inchieste

Di ANTONIO POLITO

Giorgio Orsoni, sindaco di Venezia, «non è un iscritto al Pd». Del resto anche Walter Veltroni non era mai stato comunista e Primo Greganti era solo una mela marcia. La tentazione di rimuovere, vizio antico a sinistra, non ha però retto a lungo. Ieri Renzi ha dovuto smentire i suoi che avevano cominciato il giochino dello scaricabarile tra chi c’era prima e chi c’è adesso, e mettere in capo al suo partito le responsabilità che ha nel sistema delle tangenti, trasversale come poche altre cose in Italia. Del resto, la favoletta che il meccanismo della corruzione si interrompa automaticamente mettendo i nuovi al posto dei vecchi è la stessa che ci raccontammo dopo Tangentopoli. Sciogliemmo tre o quattro partiti, ne fondammo di nuovi, cambiammo tre quarti del Parlamento, e dopo vent’anni siamo di nuovo lì, anzi peggio. All’epoca, tanto per dire, Galan era uno dei nuovi, arrivati dalla società civile a ripulire il sistema dei politici di professione e per questo corrotti.

Ma il presidente del Consiglio ha fatto ieri anche un’altra importante virata. Dopo lo scandalo Mose aveva detto che «il problema sono i ladri, non le regole». Ieri, forse per giustificare le difficoltà che sta incontrando nel riscrivere le regole e definire i poteri del commissario Cantone, ha ammesso che «il problema non riguarda solo i ladri, ma anche le guardie». Sembra quest’ultimo l’approccio giusto.

Bisogna infatti uscire dall’ipocrisia cui stiamo assistendo anche di fronte a questa nuova, clamorosa conferma che l’Italia è una repubblica fondata sulla corruzione, seconda nel mondo sviluppato solo al Messico e alla Grecia: un Paese che pur avendo più di duemila miliardi di debito pubblico ne riesce a buttare 60 all’anno in mazzette. È l’ipocrisia di chi convive giorno e notte con la corruzione e la vede solo quando un procuratore la svela. L’ipocrisia di organizzazioni, dai partiti alla Lega Coop alla Confindustria, che potrebbero fare meno convegni sulla legalità e più verifiche interne sullo standard etico dei propri iscritti.

Prendiamo il caso della Mantovani, il cui ex presidente ha svelato ai giudici il sistema Mose. Ebbene, la stessa impresa dello scandalo di Venezia aveva vinto un mega appalto per l’Expo di Milano con il sistema del massimo ribasso, offrendo uno sconto, scandaloso perché fece scandalo, di 107 milioni su 272. Salvo poi chiedere proprio in questi giorni 120 milioni di aggiornamento perché i costi dell’opera sono cresciuti. Diritto penale a parte, è ancora in Confindustria, nonostante Squinzi si sia detto «un talebano» in materia ed abbia annunciato espulsioni. E anche per quella azienda vale il principio ribadito dal direttore generale di Confindustria, secondo il quale un’impresa non può essere commissariata? La verità - come ha scritto chi studia il fenomeno - è che «oggi sul mercato delle opere pubbliche se non sei corrotto o corruttibile o corruttore non sei competitivo». E questo fatto è accettato anche dagli onesti. Ma la novità e la gravità dello scandalo Mose sta nel fatto che il consorzio che corrompeva i politici non aveva neanche concorrenti; pagava dunque solo per tenere in funzione il sistema idraulico dei finanziamenti, ormai produceva tangenti più che dighe, e per questo i lavori non dovevano finire mai. E se i corrotti davvero intascavano milioni, vuol dire che il margine di profitto dei corruttori era enorme.

Il numero di persone che ha detto in questi giorni «qualcosa a Venezia si sapeva» è sorprendente. Nessuno però ha spifferato quello che «si sapeva» finché non è finito in manette; perché nel mondo anglosassone il wistle-blower, colui che dall’interno di un sistema canta, diventa un eroe; mentre qui la corruzione, in fin dei conti, non ha la stessa sanzione reputazionale. Altrimenti Greganti non avrebbe avuto accesso al Senato, e Frigerio non avrebbe presieduto una fondazione intitolata a San Tommaso Moro.

Anche nei proclami di lotta (futura) alla corruzione si avverte una nota falsa. L’altro giorno il presidente dei giovani industriali ha detto: «Fuori da Confindustria chi corrompe, ma anche chi abbandona l’Italia». Ecco, mettere sullo stesso piano un comportamento economico come delocalizzare e un comportamento illegale come rubare è la prova che il secondo è considerato più come un espediente che come un reato. Il patriottismo è una scelta, l’etica dovrebbe essere un obbligo.

Neanche la retorica del governo è rassicurante. È tutto un fiorire di paragoni col calcio, come se il pallone in Italia potesse essere portato a esempio di efficienza e onestà. Renzi vuole applicare una sorta di Daspo (il divieto di ingresso agli stadi) ai politici condannati in via definitiva. Ma non l’aveva già stabilito la legge Severino? Senza considerare che l’ultrà romanista che ha quasi ammazzato il tifoso napoletano il pomeriggio della finale di Coppa Italia il Daspo già ce l’aveva, e ciò nonostante girava armato nei pressi dello stadio.

8 giugno 2014 | 08:37
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_giugno_08/troppa-ipocrisia-inchieste-ebbf0a60-eed4-11e3-9927-6b692159cfdc.shtml


Titolo: Antonio POLITO LO SCANDALOSO BLOCCO SINDACALE Pompei, Italia ultima vergogna
Inserito da: Admin - Giugno 23, 2014, 10:40:32 pm
LO SCANDALOSO BLOCCO SINDACALE
Pompei, Italia ultima vergogna

Di ANTONIO POLITO

Ieri mattina erano «solo» cinquecento i turisti che, dopo aver solcato cieli e varcato mari, si sono trovati sbarrati gli Scavi di Pompei: «Chiusi per assemblea sindacale». Qualche giorno fa, quando «assemblea selvaggia» aveva colpito la prima volta, il sabotaggio a sorpresa era riuscito meglio, lasciando derelitti e sotto il sole migliaia di aspiranti visitatori provenienti da tutto il mondo. Fu proprio in seguito a quel «successo» che i sindacalisti di Cisl e Uil decisero di cavalcare l’onda, convocando le cinque assemblee consecutive, una alla mattina, che sono cominciate ieri. Per un’intricata vertenza di arretrati, incentivi e orari di lavoro, centocinquanta custodi tengono in ostaggio il sito archeologico più importante del mondo. Ciò che in qualsiasi azienda potrebbe essere risolto con un paio di incontri sindacali, si è trasformato qui in una serrata.

Eppure tra quelle rovine dell’Impero romano si sta combattendo una battaglia emblematica dell’Italia di oggi, in bilico tra decadenza e voglia di cambiare. Da un lato c’è il Grande Progetto, che con più di cento milioni finanziati dalla tanto bistrattata Unione Europea punta a un intervento straordinario per creare la Pompei di domani, all’altezza della sua bellezza. Dall’altro lato c’è il Grande Caos, l’ordinaria incuria, l’ignoranza, il corporativismo, il sindacalese, la burocrazia romana, le confusioni dei ruoli e dei poteri, tutti i tratti distintivi della nostra Pubblica amministrazione, che tentano di conservare la Pompei di oggi: un mondo in cui non si può assumere e non si può licenziare, non si può spostare o sostituire il personale che va in pensione, in cui non esistono più i giardinieri, i mosaicisti, i muratori, e le Domus vengono giù come case dirupate.

Il nuovo sovrintendente, che è lì da tre mesi, ci sta provando a rilanciare un’impresa che fa due milioni e mezzo di visitatori all’anno e 22 milioni di incassi. Proprio oggi annuncerà la riapertura agli spettacoli del Teatro Grande, la cui inagibilità è stata una delle vergogne di Pompei.

Ma è proprio quando le cose cominciano a muoversi che cresce la pressione per lasciarle come sono. E se uno insegue i grandi progetti senza cambiare i piccoli fatti, invece di andare avanti rischia di tornare indietro. È ciò che accade a Pompei. Finché la legge consente di sfruttare assemblee retribuite in orario di lavoro come armi di ricatto contro gli utenti, nessun grande progetto sarà mai realizzabile. E se i sindacati le coprono, e il ministero le subisce, chi potrà mai credere nella palingenesi della Pubblica amministrazione che il governo annuncia?

Agli occhi di un inglese o di un tedesco non c’è differenza tra Pompei e l’Italia. Questa è l’immagine che diamo di noi nei luoghi dove gli altri ci guardano. Per questo, perché Pompei è davvero una metafora dell’Italia, gli Scavi non possono restare ancora chiusi. C’è bisogno di gesti clamorosi, come quello annunciato ieri da Raffaele Bonanni, che vuole commissariare la Cisl del luogo. C’è bisogno che il ministro, che ne ha i poteri, metta fine a questa vertenza. Come molte altre cose, anche la partita di Pompei si decide a Roma.

23 giugno 2014 | 06:50
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_giugno_23/pompei-italia-ultima-vergogna-b14dc20e-fa91-11e3-a232-b010502f9865.shtml


Titolo: Antonio POLITO - Renzi, le nomine, la squadra Un uomo solo al comando
Inserito da: Admin - Luglio 03, 2014, 06:38:25 pm
Renzi, le nomine, la squadra
Un uomo solo al comando

Di ANTONIO POLITO

L’espressione «fare squadra» è caduta un po’ in disgrazia dopo l’uscita dell’Italia dal Mondiale. Ciò nonostante resta l’unico metodo per aver successo in qualsiasi confronto internazionale. E l’Europa è da ogni punto di vista una cooperazione basata sul confronto, quando non sulla competizione.

Desta perciò qualche legittimo dubbio il modo in cui il presidente Renzi sta affrontando la questione delle nomine. La più importante delle quali è il posto che ci spetta nella Commissione, perché sarà quell’organismo, sempre più politico, a decidere quanto tempo e quanta flessibilità ci verranno concessi per il risanamento dei conti pubblici.

In Europa lo stile di lavoro fin qui sperimentato con successo da Renzi, a Firenze come a Palazzo Chigi, potrebbe non essere il più indicato. Il premier è infatti abituato a ballare da solo. Per lui è diventato un elemento di forza, invece che di debolezza. Il suo rapporto diretto e carismatico con l’opinione pubblica prevede che non ci siano intermediari, né altri politici a fargli ombra. Dunque si contorna più di staff che di gruppi di pari, sceglie più in base alla lealtà che alla qualità. Ma a Bruxelles Renzi non ballerà da solo, dovrà agire di concerto con gli altri governi, peraltro in maggioranza di centrodestra. Né potrà minacciare i riottosi con l’arma delle elezioni anticipate, come fa in Italia.

Buon senso avrebbe suggerito dunque di puntare subito su nomi di prestigio in campo europeo, «pesi massimi» che siano in grado di influire sui dossier che ci riguardano. D’altro canto, una delle poche risorse di cui disponiamo in abbondanza sono proprio gli ex premier e gli ex ministri, grazie al forsennato turnover dei nostri governi. Anche altri Paesi si orientano verso figure di questo calibro. I finlandesi per esempio, da non prendere sotto gamba perché sono un po’ i cani da guardia del rigore tedesco (vedi Olli Rehn), hanno scelto come commissario il loro ex primo ministro Katainen. I francesi dovrebbero puntare su Moscovici, ex ministro dell’Economia. In passato gli inglesi, con Blair, non hanno esitato a nominare un uomo dell’opposizione purché di prima grandezza, come Chris Patten. Anche a noi è capitato di pensare più alla forza del nome che alla sua docilità politica: Berlusconi fece commissari Mario Monti ed Emma Bonino. E Mario Draghi è arrivato al vertice della Bce perché era il numero uno: se avessimo scelto un numero due o tre quella posizione oggi non sarebbe occupata da un italiano.

Puntare su Federica Mogherini e sulla posizione di Alto rappresentante della Politica estera presenta dunque due controindicazioni. La prima è il peso specifico che può avere nella Commissione, quando si discuterà dei dossier che ci riguardano, una persona alla sua prima esperienza europea e costantemente in viaggio per dovere d’ufficio. La seconda è che mentre aspettiamo il verdetto su di lei siamo costretti a nominare un supplente per i prossimi cruciali quattro mesi: l’ambasciatore Nelli Feroci.

Senza contare che potremmo non raggiungere l’obiettivo. A Bruxelles si dice che l’idea di affidare a un italiano la Politica estera comune non piaccia affatto ai nuovi membri dell’Est, i quali temono un eccesso di russofilia della nostra linea, dopo il caso ucraino. E se fallissimo la prima scelta, potrebbe poi essere troppo tardi per una seconda opzione più utile nella difesa degli interessi nazionali: magari quel commissariato per l’Immigrazione che Juncker pare intenzionato a istituire.

1 luglio 2014 | 07:32
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_luglio_01/uomo-solo-comando-98bcf21e-00e0-11e4-b768-bebbb8a7659d.shtml


Titolo: Antonio POLITO Doppio forno, doppio gioco
Inserito da: Admin - Luglio 13, 2014, 10:42:21 am
Editoriale
Doppio forno, doppio gioco

Di ANTONIO POLITO

Per quanto si possa essere impazienti, è la Costituzione stessa che impone una certa lentezza e ponderatezza a chi vuole cambiarla: doppia lettura di entrambe le Camere, almeno tre mesi tra l’una e l’altra, maggioranza dei due terzi per evitare il referendum. E con buone ragioni. Non sempre la fretta è stata buona consigliera in materia costituzionale. Delle tre grandi riforme varate durante la Seconda Repubblica, una è stata sonoramente bocciata da un referendum popolare (la devolution del centrodestra), un’altra è stata un disastro (il federalismo del centrosinistra) e la terza l’abbiamo già ripudiata in nome della flessibilità (il pareggio di bilancio). Sarà dunque bene ascoltare con il rispetto dovuto ciò che il Senato avrà da dire, dalla prossima settimana, sulla sua autoriforma. Tutto è perfettibile, perfino la bozza Boschi-Calderoli-Finocchiaro. Purché sia chiaro che c’è qualcosa di peggio di una riforma imperfetta: lasciare in piedi il bipolarismo perfetto.

Ciò che però i padri costituenti non potevano prevedere è che tra una lettura e l’altra arrivasse al Senato un’altra riforma inestricabilmente intrecciata: la nuova legge elettorale. Non a caso, nelle telefonate personali con le quali l’ex Cavaliere sta chiedendo ai suoi dissidenti di baciare il rospo del nuovo Senato, l’argomento principe è il seguente: se voi mollate Renzi, lui fa la legge elettorale con Grillo, e io sono finito.

I due forni aperti dal premier portano infatti a esiti molto diversi. Nell’accordo con Forza Italia, che premia le coalizioni, Berlusconi concede la prossima vittoria elettorale a Renzi in cambio del monopolio dell’opposizione, visto che le forze minori di centrodestra non potrebbero che conferirgli i loro voti. In un eventuale accordo con i nuovi Cinquestelle scongelati alla Di Maio, il ballottaggio sarebbe invece tra i due maggiori partiti, e questo rischierebbe davvero di escludere Berlusconi da tutti i giochi, compresi quelli sui quali nutre un interesse per così dire personale.

Uno dei due forni andrà dunque spento. Non foss’altro per ragioni europee. L’intesa con Berlusconi, magari corretta su soglie e collegi, porterebbe a un bipolarismo di stampo continentale, tra socialisti e popolari. Quella con Grillo potrebbe partorire invece un sistema anomalo basato sul dualismo tra il centrosinistra e un movimento che a Bruxelles è alleato con Nigel Farage. Per quanto tatticamente conveniente, il doppio gioco non è il modo migliore di fondare la Terza Repubblica.

9 luglio 2014 | 08:25
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_luglio_09/doppio-forno-doppio-gioco-8dfeab96-072b-11e4-99f4-bbf372cd3a67.shtml


Titolo: Antonio POLITO Governo, più concretezza meno marketing Crescono solo le promesse
Inserito da: Admin - Luglio 27, 2014, 11:31:39 pm
Governo, più concretezza meno marketing
Crescono solo le promesse

Di ANTONIO POLITO

Matteo Renzi è davvero unico. Nessun altro primo ministro avrebbe mai detto la frase riportata da Alan Friedman nell’intervista al Corriere di venerdì scorso: «Che la crescita sia 0,4 o 0,8 o 1,5%, non cambia niente dal punto di vista della vita quotidiana delle persone».

In realtà la differenza di un punto di crescita è la differenza tra la vita e la morte per l’economia italiana, e dunque anche per le famiglie. Un punto di crescita è 16 miliardi di ricchezza in più, posti di lavoro in più, più entrate fiscali, meno deficit e rientro dal debito, quindi meno spread e più credito. E così via. Avete presente l’effetto palla di neve? Ecco, un punto in più di Pil metterebbe l’economia italiana in un circolo virtuoso dal quale ogni sfida ci apparirebbe finalmente possibile. Un punto in meno, un altro anno a danzare intorno allo zero, e siamo nei guai neri: in autunno tutti i mostri del videogioco (deficit, fiscal compact, disoccupazione) ricomincerebbero a mangiarsi la speranza che il governo Renzi ha acceso negli italiani e in Europa.

Dunque speriamo che il presidente del Consiglio scherzasse con Friedman, contando sulla sua innegabile simpatia. Però speriamo anche che da ora in poi si faccia sul serio. Si ha infatti l’impressione di essere giunti a un tornante cruciale della vita di questo governo. L’inizio era stata una scommessa basata sul «tocco magico» del premier. L’idea era di accendere una scintilla di ottimismo in un Paese troppo depresso, che lo spingesse a ricominciare a investire e a consumare: una crescita autogenerata. Si trattava di una strategia possibile, le aspettative contano molto in economia; ma non sembra aver funzionato. Ne era parte integrante, al netto dei suoi vantaggi elettorali, lo sconto Irpef degli 80 euro. I dati sui consumi per ora dicono che il rimbalzo sulla domanda interna non c’è stato. E, nel frattempo, anche l’altro grande salvagente dell’economia italiana, l’export e la domanda esterna, sembra sgonfiarsi. Se questa fosse una corsa ciclistica, diremmo che ci siamo piantati sui pedali, e che non ci rimane che sperare in una spinta della Bce a settembre.

Ora ci sono due strade percorribili. La prima è rimettere la testa sulle carte e ripartire dal rompicapo di sempre: le riforme di struttura. La Spagna le ha fatte e ha ripreso a crescere e a creare occupazione. Ha messo a posto le sue banche e soprattutto ha fatto una vera riforma del mercato del lavoro, più facile licenziare e più facile assumere. Noi del Jobs Act sentiamo parlare da quando Renzi faceva la Leopolda e ancora non sappiamo se affronterà finalmente il nodo fatidico dell’articolo 18.

L’altra strada, inutile girarci intorno, sono le elezioni. Di fronte alle difficoltà dell’economia Renzi può decidere di sfruttare la riforma elettorale e costituzionale che riuscirà a portare a casa per rinviare la resa dei conti pubblici con l’Europa, rilanciandosi con una fase 2.0 e con un Parlamento più fedele.

La prima strada porta a fare un discorso di verità al Paese, la seconda ad annunciare sempre nuovi traguardi e cronoprogrammi che poi non possono essere rispettati. Per quanto entrambe legittime, la prima strada ci sembra quella più diritta.

27 luglio 2014 | 08:02
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_luglio_27/crescono-solo-promesse-acef9ff8-1552-11e4-bcb3-09a23244c28e.shtml


Titolo: Antonio POLITO IL LEGAME TRA PREMIER ED EX CAVALIERE Anatomia di un patto
Inserito da: Admin - Agosto 06, 2014, 04:46:01 pm
IL LEGAME TRA PREMIER ED EX CAVALIERE
Anatomia di un patto

di ANTONIO POLITO

È ragionevole chiedere a Renzi e Berlusconi di rendere pubblico il Patto del Nazareno. Poiché viene evocato costantemente quasi come una fonte normativa, le colonne d’Ercole oltre le quali il Parlamento non può andare, si capisce che qualcuno ne pretenda un testo olografo.

È ragionevole ma ingenuo. Perché il Patto del Nazareno non contiene nient’altro che il patto medesimo, politico e personale, tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi. I contenuti sono solo una variabile, e infatti cambiano in continuazione, ogni volta che i due contraenti, o loro delegati, vogliano. All’inizio l’Italicum era senza ballottaggio e con soglie rigidissime, poi entrò il ballottaggio, ora stanno per cambiare le soglie, possono rientrare le preferenze fino a ieri vietate, e neanche il Mattarellum può dirsi escluso. La condizione, più volte esplicitata da Renzi, è sempre e solo una: che i due contraenti siano d’accordo.

Dunque il Patto consiste in una promessa di mutuo sostegno tra i due leader: pensate che possano aver messo per iscritto, nero su bianco, «prometto di esserti fedele, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, finché elezione non ci separi»? Più che un patto è una Entente Cordiale: Matteo garantisce a Silvio di conservare agibilità politica e controllo del centrodestra; Silvio garantisce a Matteo lo strumento per disciplinare la maggioranza ogni volta che si agita. Le minoranze di ogni colore ne sono annichilite. Sulla riforma del Senato ha funzionato. Non è escluso che funzioni anche su altro.

Il Patto del Nazareno è - finora - il vero capolavoro politico di Matteo Renzi. È grazie a quell’accordo che riuscì a buttare giù il governo Letta, presentandosi legittimamente al Quirinale come colui che poteva ciò che al predecessore era negato. E finché l’accordo regge, il suo governo può navigare in un Parlamento a maggioranze variabili, che si formano e si sformano senza mai intaccare l’asse vero su cui si regge la legislatura.

Può certo apparire paradossale che Renzi, il quale si era fatto strada proprio criticando le larghe intese, possa oggi governare grazie a una larga intesa d’acciaio. Ma è un paradosso felice. Innanzitutto perché da troppi anni il bipolarismo di guerra impediva le riforme, e poi perché era l’unico modo di salvare una legislatura che sembrava nata morta.

C’è chi dice che il Patto del Nazareno contenga un accordo sul Quirinale. Ma se le cose stanno come le abbiamo descritte è ovvio che lo contenga. La nuova maggioranza istituzionale, composta da Renzi e Berlusconi, è ora abilitata a eleggere il nuovo capo dello Stato. Ed è altrettanto ovvio che, se così sarà, si tratterà di persona non sgradita all’ex Cavaliere: per lui una ricompensa che vale ogni sacrificio.

È dunque inutile cercare nel Patto clausole inconfessabili sulla sorte giudiziaria di Berlusconi, che Renzi non potrebbe e non vorrebbe siglare. Se poi ci fossero, di sicuro non sarebbero scritte. I contenuti del Patto sono inconfessabili solo perché sono sotto gli occhi di tutti. Come la lettera rubata di Edgar Allan Poe.

5 agosto 2014 | 07:36
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_agosto_05/anatomia-un-patto-fdf287cc-1c5e-11e4-af0c-e165f39759ba.shtml


Titolo: A. POLITO - Il perimetro della sovranità Ciò che c’è da fare lo decidiamo noi.
Inserito da: Admin - Agosto 23, 2014, 06:18:25 pm
Editoriale

Il perimetro della sovranità
Ciò che c’è da fare lo decidiamo noi.
L’Italia ha l’obbligo di farcela da sola, altrimenti qualcuno lo farà al nostro posto

di ANTONIO POLITO

Questa è la quarta estate d’ansia per la nostra sovranità. Ed è la quarta di seguito in cui ci accorgiamo che il governo ha sbagliato i conti, che la ripresa era un miraggio, e che non cresceremo affatto. Nella prima estate c’era Berlusconi, nella seconda Monti, poi Letta, ora Renzi. Cambiano vorticosamente i premier ma i problemi restano uguali, come la crisi in cui è piombato il nostro Paese. E alla fine del tunnel c’è sempre l’identica alternativa: o ce la facciamo da soli, o qualcuno lo farà al posto nostro. Perché l’Italia è troppo grande, e troppo intrecciata è la sua sorte con quella dell’intera Europa, per poter fallire.

Il tema della sovranità è tutto qui: meglio farlo noi o lasciarcelo imporre da altri? E la risposta sembra scontata: meglio farlo noi. È per questo che abbiamo cambiato quattro governi in quattro anni. Ma arrivati al punto in cui siamo, al debito in cui siamo, alla recessione in cui siamo, il dubbio che serpeggia in Europa è: ce la faranno mai, da soli?

Per far da soli ci siamo sottoposti a grandi sacrifici, che hanno reso ben presto impopolare chiunque abbia governato. Ma se avessimo chiesto aiuto avremmo pagato un prezzo molto più alto: in tutti i Paesi che l’hanno fatto, perfino gli stipendi degli statali sono stati tagliati. Spagna e Portogallo si stanno sì riprendendo, ma a costo di uno choc sociale che chi governa l’Italia ha il dovere di evitare.

Perciò ha ragione Renzi, come altri premier prima di lui, quando dice con orgoglio che ciò che c’è da fare lo decidiamo noi. È esattamente questo il perimetro della nostra sovranità. Essa infatti ci conserva la libertà di decidere su tasse, spese, pensioni, mercato del lavoro. Ma è limitata da due colonne d’Ercole oltre le quali non possiamo più andare: da un lato ci sono i Trattati, da noi liberamente firmati, che ci dicono di quanto possiamo indebitarci ogni anno; dall’altro ci sono i mercati, che ci dicono quanto costa indebitarci ogni anno.

Dunque la nostra sovranità non è limitata da Bruxelles, ma dal nostro debito. Anzi, per essere più precisi, dal credito che ci danno i risparmiatori di tutto il mondo e chi ne gestisce i capitali. Siccome il nostro debito è immane, la nostra sovranità è già molto limitata. Ogni volta che ci servono soldi, ne perdiamo un pezzo. Meno ne chiediamo e più liberi siamo. Ma se non ricominciamo a produrre ricchezza, ne dovremo chiedere sempre di più.

Per nostra fortuna stiamo vivendo un momento magico dei mercati. Nonostante le nubi nere che si aggirano per l’Europa, si mantengono calmi. Ma non c’è bisogno di essere un gufo per capire che questa bonaccia può finire da un momento all’altro.

Ecco dunque un’ottima ragione per correre, e sbrigarsi a fare ciò che va fatto. Questo non è un braccio di ferro con Juncker per avere uno sconticino, non è questione che si possa risolvere all’italiana, con un po’ di furbizia e qualche rodomontata. Se continuiamo ad aspettare passivamente una ripresa che poi resta zero, o sotto zero; se continuiamo ad eludere scelte difficili definendole inutili totem, non c’è alcuna speranza di reggere il nostro deficit sopra la linea di galleggiamento. In un mondo nel quale merci e capitali circolano liberamente e globalmente, è sovrano solo chi è forte. E noi stiamo diventando troppo deboli per vivere un’altra estate così.

13 agosto 2014 | 07:33
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_agosto_13/perimetro-sovranita-c435c4f8-22a9-11e4-9eb4-50fb62fb3913.shtml


Titolo: Antonio POLITO - I mille giorni e le scelte da non rinviare
Inserito da: Admin - Settembre 06, 2014, 05:33:07 pm
I mille giorni e le scelte da non rinviare
Il tramonto della fretta


Di ANTONIO POLITO

Il sogno di Filippo Turati era di cambiare la società come la neve trasforma un paesaggio: fiocco dopo fiocco. Il passo dopo passo di Matteo Renzi sembra dunque segnare la conversione del giovane leader «rivoluzionario» alla tradizione dei padri del riformismo: un’azione profonda e duratura, invece di una concitazione di hashtag su #lasvoltabuona.

Si tratta di una scelta saggia, oltre che obbligata. Saggia perché ristruttura il debito di promesse contratto con l’elettorato concedendosi più tempo per realizzarle, e insieme garantisce lunga vita ai parlamentari chiamati a votarle. Obbligata perché neanche Renzi sembra aver ancora trovato la bacchetta magica per cambiare i ritmi di produzione legislativa di un sistema lento, e non sempre per colpa del Senato. Un solo esempio: ieri pomeriggio non risultava pervenuto al Quirinale il testo del decreto legge sulla giustizia civile approvato al Consiglio dei ministri di venerdì 29 agosto. Se pure arrivasse oggi, 3 settembre, c’è da calcolare almeno un’altra settimana per la normale attività di verifica prima della firma del capo dello Stato. Eppure si tratta di materia così urgente da finire in un decreto. Figurarsi che accade ai disegni di legge, o ai decreti attuativi. Di questo passo, passo dopo passo, i mille giorni passano in fretta.

Ma se è logico e serio prendersi qualche anno per portare a regime le decisioni assunte oggi, ne consegue che sarebbe molto pericoloso rinviare decisioni che vanno prese oggi, perché in questo caso i mille giorni diventerebbero millecinquecento, o duemila, e né l’Italia né il governo Renzi sembrano avere a disposizione tutto questo tempo. Il rischio, che al premier certo non sfugge, è che questa nuova tattica «normalizzi» un governo nato col forcipe proprio per fare in fretta ciò che ad altri non riusciva, con ciò togliendogli senso e consenso.

In due campi in particolare le decisioni non possono aspettare: la spending review e il mercato del lavoro. Qui sarebbe sbagliato prender tempo, sperando come al solito in una provvidenziale ripresina che eviti scelte impopolari. Se si vuole tagliare sul serio la spesa pubblica, bisogna cominciare a decidere subito se accorpare le forze di polizia, chiudere gli uffici periferici dei ministeri, tagliare le prefetture, sciogliere le società municipali, e così via. Se non lo si fa subito, per poi vederne gli effetti nei prossimi mille giorni, si finirà con i soliti tagli lineari in Finanziaria. Da questo punto di vista il governo è già in ritardo.

Allo stesso modo la legge delega sul lavoro, chiamata Jobs act , non sembra contenere quello choc che Draghi avrebbe suggerito a Renzi per settembre; né arriverà a settembre, essendone prevista l’approvazione «entro la fine dell’anno» e l’applicazione entro la primavera del 2015 (dopo i decreti attuativi). La stessa svalutazione retorica dell’importanza dell’articolo 18 fa temere che si stia esitando di nuovo di fronte a un tabù della sinistra e del sindacato.

Chi fa oggi le riforme può contare su più flessibilità mentre producono i loro effetti: guardate la Spagna, ha un deficit del 7 per cento ma nessuno batte ciglio. Chi promette solo di farle, sarà trattato con più severità. Lo scambio proposto da Draghi in fondo è tutto qui: non premiare chi perde tempo, ma dare tempo a chi non ne perde più.

3 settembre 2014 | 08:18
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_settembre_03/tramonto-fretta-10d5f2ba-332b-11e4-9d48-ef4163c6635c.shtml


Titolo: Antonio POLITO - Tra indagini e garantismo Pd prigioniero di se stesso
Inserito da: Admin - Settembre 13, 2014, 06:40:37 pm
L’analisi
Tra indagini e garantismo Pd prigioniero di se stesso

Di ANTONIO POLITO

Forse, col senno di poi, sarebbe stato meglio per Renzi se i magistrati di Bologna avessero fatto qualche giorno di ferie in più. Invece «la Procura ha lavorato anche in agosto», ha spiegato implacabile il vicecapo dell’ufficio. Risultato: primarie emiliane nel caos, direzione del partito rinviata, festa dell’Unità rovinata. Per quanto di modesta entità giudiziaria, l’inchiesta di Bologna è una bella tegola per il Pd renziano. Innanzitutto perché ricorda che il nuovo gruppo dirigente non è così vergine da non avere un passato, in cui viaggiò in auto blu e fu esposto agli incerti del mestiere (soprattutto nei consigli regionali con «nota spese selvaggia»); né è così fraternamente unito da non conoscere le notti dei lunghi coltelli, come quella che si sta consumando nella roccaforte emiliana e che solo i nuovi cremlinologi del renzismo sanno spiegare. Una macchia fastidiosa, insomma, per la generazione Dash, con la camicia bianca che più bianco non si può.

Ma la cosa peggiore è che ripiomba il partito nuovo in una questione antica, tipica dell’era che sperava di essersi ormai gettata alle spalle: come dotarsi di una moderna cultura garantista dopo una così lunga pedagogia moralista e, dunque, che fare quando uno dei tuoi è sotto inchiesta.
Al momento, la situazione è kafkiana. Richetti si è ritirato dalle primarie perché è indagato, ma senza averlo detto. Bonaccini l’ha detto ma non si è ritirato, confida come al solito di dimostrare ecc. ecc. (ma già deve sfuggire ai militanti inferociti sul suo blog: quanto potrà resistere?). Il terzo candidato, che non è indagato, rischia invece di essere eliminato se saltano le primarie. Il problema è che il governatore che sono chiamati a sostituire, Errani, si era dimesso dopo una sentenza di primo grado nonostante Renzi gliel’avesse sconsigliato, poiché viene dal Pci e sta ancora elaborando il lutto della diversità come perfezione morale; mentre Enrico Rossi, anche lui ex Pci, si ricandida a governatore della Toscana nonostante sia indagato. Nel frattempo nessuno obietta che in Campania Vincenzo De Luca, due volte rinviato a giudizio, si prepari a correre per le primarie regionali. Né che al governo ci siano quattro sottosegretari a loro volta indagati, ma confermati.

Così il nuovo Pd si trova tra due fuochi. Se dice, come in molti sussurrano, che l’indagine è una vendetta della magistratura per le ferie tagliate, dà ragione in un solo colpo a vent’anni di agitazione berlusconiana contro le toghe rosse e la giustizia a orologeria. Se dice, come molti vorrebbero, che lascerà decidere ai suoi elettori e non alle Procure chi deve essere candidato e chi no, dà torto in un colpo solo a vent’anni di antiberlusconismo, che ha fatto strame di molti principi di garanzia e che è stato a lungo usato come un surrogato della politica per cibare il popolo di sinistra.

Bisognerebbe che il nuovo partito-guida avviasse dunque una riflessione: su come essere più severi, prima che arrivino le Procure, con chi sale sul taxi solo per arricchirsi, e meno bigotti con chi viene fatto scendere ogni volta che fischia un pm. Bisognerebbe che Renzi ci pensasse e ne parlasse, visto che è anche il segretario del partito e non ha mai pensato neanche per un nanosecondo di lasciare la carica. Ma Renzi, per altro loquace, per ora ne tace.

11 settembre 2014 | 08:29
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_settembre_11/tra-indagini-garantismo-pd-prigioniero-se-stesso-f35b0bf8-3979-11e4-99d9-a50cd0173d5f.shtml


Titolo: Antonio POLITO Gufi o allocchi? C’è una terza via
Inserito da: Admin - Ottobre 29, 2014, 06:46:55 pm
Gufi o allocchi? C’è una terza via
Il nostro sistema bancario era il più solido di tutti. Poi è arrivata la smentita dall’esame della Bce

Di ANTONIO POLITO

Per anni politici e banchieri ci hanno garantito che il nostro sistema bancario era il più solido di tutti. La smentita arrivata dall’esame della Bce si può dunque spiegare in due modi: o i problemi delle banche italiane sono stati sottovalutati qui, o sono stati sopravvalutati dall’Europa. Oppure tutte e due le cose insieme. Delle nostre colpe parlano i numeri: siamo la maglia nera, con due grandi istituti chiamati a rafforzare il loro capitale; un terzo dei miliardi che mancano sono addebitabili a noi; la più antica banca del mondo, Monte dei Paschi, è oggi la più debole d’Europa. Avessimo ricapitalizzato prima, invece di sbandierare ottimismo, forse avremmo anche avuto più credito disponibile in questi anni. E quando mai i governi italiani si sono occupati dei criteri di questi test di cui oggi ci lamentiamo?

D’altra parte è fuor di dubbio che l’esaminatore è stato particolarmente severo con noi. E non può trattarsi di un pregiudizio etnico, visto che il presidente della Bce è un italiano, alla guida della Banca d’Italia fino al 2011. Ma ogni volta che finisce in un sistema di valutazione internazionale, l’Italia sconta la debolezza intrinseca della sua economia e del suo sistema Paese. Giudicare la solidità di banche in una nazione che ha perso un decimo del suo Pil in sette anni è infatti cosa ben diversa che giudicare le banche tedesche. Contro di noi gioca sempre un sospetto in più. Come diceva l’apertura del Financial Times di ieri: «L’Italia finisce sotto pressione dopo che nove banche falliscono gli stress test».

Siamo sempre sotto pressione. È un po’ quello che accade anche ai nostri conti pubblici. Renzi ha dovuto strappare quasi con la forza a Bruxelles uno sconticino dello 0,2% (la Commissione voleva lo 0,5%, ieri il governo ha accettato lo 0,3%). Ma la vicenda delle banche ci ricorda che non è solo l’energia e neanche la statura del leader a fare il peso specifico di un Paese; che si calcola con altri criteri, crescita economica, credibilità internazionale, proiezione estera, forza militare. Ogni debolezza amplifica le altre: l’economia reale condiziona i test sulle banche, questi provocano il crollo della Borsa di ieri, che a sua volta influenza l’economia reale. È una lezione da tener presente. Per uscire dalla nostra crisi non basterà gettare il cuore oltre l’ostacolo: bisognerà farci passare l’intero corpo di un’Italia oggi molto gracile. Questo richiede un sistema Paese forte e coeso, dove non brilli solo la stella di un capo, tanto più forte quanto più solitario. E una classe dirigente consapevole della perdurante gravità dei nostri problemi: una terza via tra i gufi e gli allocchi, per i quali va sempre tutto bene.

28 ottobre 2014 | 08:10
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_ottobre_28/gufi-o-allocchi-c-terza-via-43bc921a-5e69-11e4-9933-2a5a253459da.shtml


Titolo: Antonio POLITO I neo dissidenti dell’euro Calcoli errati e vedute corte
Inserito da: Admin - Novembre 15, 2014, 05:57:00 pm
I neo dissidenti dell’euro
Calcoli errati e vedute corte

Di ANTONIO POLITO

Pare proprio che, come aveva minacciato D’Alema in tv, la sinistra pd abbia perso la pazienza. L’alzata di scudi di ieri notte contro il patto del Nazareno bis (o tris) avvia una fase in cui niente più può essere dato per scontato, nemmeno il voto sul Jobs act. È probabile che le piazze sindacali abbiano restituito coraggio e allo stesso tempo costretto a una accelerazione della lotta politica contro Renzi. Ma nel combatterla la minoranza che fa capo a Bersani e D’Alema deve stare attenta a non ripetere gli stessi clamorosi errori che già le costarono il controllo del partito.

Con l’aggravante che stavolta non rischierebbe solo in proprio, ma metterebbe a repentaglio la credibilità del governo Renzi in Europa, già in bilico di suo.

Il sospetto di una deriva politica è lecito. Appena qualche giorno fa, con un virtuosismo della litote certamente appreso alla scuola dei padri («Il vivente non umano» di Ingrao e «La non vittoria elettorale» di Bersani), Stefano Fassina è arrivato a proporre sul Foglio non l’uscita dall’euro, come un qualunque Grillo o Salvini, ma «il superamento cooperativo dell’euro», che poi è la stessa cosa, visto che non sembra esserci nessuno in giro disposto a cooperare con noi per farci uscire in modo indolore dalla moneta unica. Così più di vent’anni di zelante europeismo, nuova ideologia di una sinistra che trasferiva a Bruxelles il sol dell’avvenire tramontato all’Est, vengono buttati a mare in un sol colpo.

Al posto dell’integrazione europea, cui hanno dedicato la vita leader fino a ieri venerati come Spinelli, Prodi e Napolitano, ecco che si propone la «dis-integrazione ordinata» della moneta unica, così da farne due, o tre, o quindici, come se questo risolvesse il nostro problema cruciale: il costo di un enorme debito.

Il fatto è che il gruppo dei Fassina e dei Cuperlo ha letto fin dall’inizio male il segno politico della crisi economica mondiale, interpretandolo come una potente spinta a sinistra dell’elettorato. Su questa base ha indotto Bersani a fare una campagna elettorale perdente in stile Cgil, mentre il suo popolo se ne andava da tutt’altre parti. Ora è sotto choc per aver scoperto che quello stesso popolo segue Renzi, pur bollato come una Thatcher col lifting da Susanna Camusso. Non resta che l’ultimo populismo, quello antieuropeista. Pericoloso ovunque, ma molto di più quando alligna all’interno del partito di maggioranza e di governo di un Paese a rischio come l’Italia.

Non è certo così, facendo i proto-grillini o gli pseudo-leghisti solo un po’ più colti, che la sinistra pd può sperare non dico di riprendersi, ma nemmeno di correggere la barra del timone che ha perso.

13 novembre 2014 | 07:11
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_novembre_13/calcoli-errati-vedute-corte-9b137fb2-6afb-11e4-8c60-d3608edf065a.shtml


Titolo: Antonio POLITO Spiegazioni sbagliate Vie d’uscita consolatorie dalla crisi
Inserito da: Admin - Novembre 22, 2014, 05:23:53 pm
Spiegazioni sbagliate
Vie d’uscita consolatorie dalla crisi

Di ANTONIO POLITO

Matteo Renzi ha molti meriti che gli resteranno, comunque finisca la sua avventura politica. Ha mandato a casa una generazione di capi della sinistra mai veramente uscita dalla cultura del Pci, ha ringiovanito drasticamente e reso più femminile il governo, ha ristabilito il primato del consenso democratico dopo una stagione di paralisi e di soluzioni tecniche. Che cosa è allora che genera ancora diffidenza in lui da parte di molti che pure hanno sempre auspicato una tale svolta?

Questa domanda merita di essere approfondita, e non solo perché viene rivolta spesso da chi ha invece abbracciato con tale entusiasmo l’ennesimo nuovo corso da sacrificargli lo spirito critico. Ma anche perché la risposta contiene forse qualche indizio sul possibile esito dell’ardito tentativo renziano di cambiare l’Italia, dopo averne cambiato il ceto politico.

Ernesto Galli della Loggia (sul Corriere di giovedì 20 novembre), ha individuato una serie di difetti del leader, incentrati su un punto cruciale: la necessità di «trovare i toni di drammatica verità e di serietà che sarebbero necessari a indicare davvero un nuovo cammino al Paese». Vorrei aggiungere al suo elenco un altro peccato del renzismo, che forse è originale.

Il nostro premier offre infatti agli italiani una spiegazione un po’ troppo consolatoria della crisi grave in cui versiamo. Dalla sua retorica, e anche dal suo programma di riforme, si trae un’idea fuorviante. L’ idea di Renzi sembra essere che l’Italia, altrimenti grande Paese in grado di «guidare l’Europa», soffra esclusivamente per il fatto di essere stata rovinata da una élite incapace, vecchia e da cambiare. Che ci sia insomma un possibile capro espiatorio, sacrificato il quale si possa riprendere il cammino della dolce vita italiana, fatta di stile, bellezza e furbizia. Naturalmente l’errore non sta nel fatto che la nostra élite è effettivamente vecchia e da cambiare; sta nel lasciar credere agli italiani che non ne fanno parte che le cose siano così facili, e che loro non vi abbiano nessuna colpa e dunque nessuna necessità di cambiare. Esattamente ciò che vogliono sentirsi dire.

Dalla bocca di Renzi si sono sentite in questi mesi molte e dure invettive contro i politici da rottamare, contro i burocrati, contro i sindacati, contro i magistrati, contro i salotti buoni, contro il club delle tartine, contro Cernobbio e contro Bruxelles. Ma pochi ragionamenti su come intervenire nel profondo sul fenomeno dell’evasione fiscale, del sistema degli incentivi alle imprese, sui mercati chiusi dalle corporazioni professionali, sul sistema del socialismo municipale e delle migliaia di società partecipate, sui cacicchi locali che, anche nel suo partito, drenano risorse pubbliche solo per auto-riprodursi.

Ognuna di queste battaglie sarebbe difficile e dura, non meno di quella che il premier ha dovuto affrontare con i sindacati sull’articolo 18. Ma ognuno di questi problemi incide sulla capacità di ripresa dell’Italia molto più delle ferie dei magistrati e del sistema di elezione dei senatori. Ecco dove sono gli accenti di «drammatica verità» che dovrebbe trovare il leader: convincere gli italiani che votano per lui che devono cambiare anche loro. È un’operazione che può rivelarsi costosa in termini elettorali. Ma è l’unica che può alla lunga farci uscire dalla condizione in cui siamo, che non è passeggera ma strutturale, e per la quale non bastano iniezioni di ottimismo.

Il male italiano non è incurabile, su questo ha perfettamente ragione il premier e non è necessario essere allocchi per esserne convinti. Ma se fosse stato così facile guarirlo, oggi non ci sarebbe Renzi a Palazzo Chigi. E se non lo si cura come si dovrebbe per non perdere il consenso del malato, si rischia di esaurire il consenso ben prima che arrivi la guarigione.

22 novembre 2014 | 08:03
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_novembre_22/vie-d-uscita-consolatorie-crisi-4d59cc24-7210-11e4-9b29-78c5c2ace584.shtml


Titolo: Antonio POLITO Il presidente che verrà: al Quirinale uno che non avrà nulla...
Inserito da: Admin - Dicembre 09, 2014, 03:15:33 pm
Il presidente che verrà: al Quirinale uno che non avrà nulla da fare?

Di ANTONIO POLITO

I l prossimo presidente della Repubblica non avrà molto da fare. Almeno a dar fede al programma di riforme del governo Renzi. Stando alle promesse, avremo una sola Camera che vota la fiducia. Dunque nessun rischio di maggioranze diverse o addirittura inesistenti in un ramo del Parlamento, come è avvenuto all’inizio di questa legislatura. Dunque nessun bisogno di un capo dello Stato che ne cerchi una alternativa o più ampia.

D’altra parte, grazie all’ Italicum 2.0 con premio al partito, non ci saranno più coalizioni, né dunque crisi di coalizione, e perciò tutto il lavoro per rimetterne insieme i cocci sarà fatica inutile che il presidente potrà risparmiarsi.

Una volta che il primo ministro sarà scelto direttamente dal popolo con il ballottaggio, e non più dal Parlamento, che bisogno rimarrà delle consultazioni nello Studio alla Vetrata? E di quell’articolo della Costituzione secondo il quale il presidente della Repubblica nomina i ministri? Il premier potrà presentarsi al Quirinale con una lista prendere o lasciare, e il presidente prenderà. E quando il premier deciderà che la legislatura è finita, il capo dello Stato scioglierà. Tolta qualche inaugurazione e i discorsi di fine d’anno, per il resto il nuovo presidente potrà riposarsi ben più di quanto sia stato concesso al suo predecessore.

Ma se le cose stanno davvero così, perché mai politici e partiti si stanno già dannando per vincere la partita del Quirinale? Tutto sommato, un candidato varrebbe l’altro. A meno che la fondamentale importanza che tutti annettono alla scelta del futuro presidente non nasconda in realtà tre sospetti. Il primo è che la legislatura finisca prima delle riforme, e allora tutto il lavoro dovrebbe ricominciare daccapo nella prossima.

Il secondo sospetto è che, pur con le tanto attese riforme, il garante dell’unità nazionale continuerà ad avere un ruolo cruciale, perché come si può rompere una coalizione si può rompere anche un partito, e una crisi può nascere anche in una Camera sola, e allora meglio avere al Quirinale uno che risponde al telefono piuttosto che uno che risponde al Paese. Il terzo dubbio è che, con un debito senza freni, nei prossimi sette anni torni utile un presidente autorevole per garantire l’Europa.

In fin dei conti, il rebus è tutto qui: portare al Quirinale una o uno che non avrà niente da fare, un signor Nessuno, magari a tempo, con la data di scadenza incorporata nella legge elettorale? O qualcuno/qualcuna cui toccherà far rispettare il molto che resta della Costituzione, e che ne abbia la competenza, l’indipendenza e l’intelligenza? Optiamo senza dubbi per la seconda soluzione.

9 dicembre 2014 | 07:08
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_dicembre_09/presidente-che-verra-23bb33ec-7f69-11e4-92ce-497eb7f0f7a3.shtml


Titolo: Antonio POLITO Una lettura critica Lo sguardo del Colle
Inserito da: Admin - Dicembre 14, 2014, 11:08:36 pm
Una lettura critica
Lo sguardo del Colle

Di ANTONIO POLITO

Giorgio Napolitano ha dedicato gli anni della sua presidenza alla difesa della politica democratica. Si capisce dunque che, forse anche cominciando a trarne il bilancio, indichi oggi con toni accorati nell’antipolitica «la più grave delle patologie del nostro vivere civile», e la bolli addirittura come «eversiva». Non è un fenomeno di questi giorni, e non può essere nemmeno esclusivamente identificato con gli ultimi arrivati come Grillo, che se ne è adombrato, o come Salvini, che lo ha fuso in una miscela esplosiva con l’antieuropei-smo, esplicitamente condannata da Napolitano. E infatti il presidente ricorda correttamente come l’antipolitica alberghi tra noi almeno dal 1992, al punto che essa è stata tra le fondamenta su cui è stata edificata la Seconda Repubblica, una Repubblica senza partiti e contro i partiti, il cui frutto non è stato però una rigenerazione democratica ma la degenerazione di una politica che Napolitano ha definito «senza moralità», predatoria, personalistica, non meno ladra di quella che c’era prima, ma per di più scalabile dai poteri criminali, come i fatti di Roma dimostrano. È il punto che merita di essere approfondito nell’analisi del presidente: tra la degenerazione della politica e la degenerazione nell’antipolitica, quale viene prima? E, soprattutto, qual è oggi «la più grave delle patologie»? Napolitano mette l’accento sulla seconda; e sui media, rimproverando loro di essere stati corrivi con l’onda antipolitica, così alimentandola.

Ci prendiamo il rimbrotto: perfino in fisica è ormai accertato che l’osservatore modifica la realtà anche semplicemente descrivendola. Ma ci sono davanti a noi numerosi esempi in cui l’antipolitica si è affermata da sola, senza aiuti esterni, e per ottime ragioni, al punto tale da sfociare in una reazione squisitamente politica contro la decadenza morale, come è stato evidente nel voto che gli elettori emiliani hanno dato alla loro Regione, non votando. È difficile perciò sfuggire alla sensazione che Grillo e Salvini siano l’effetto, più che la causa, di quella patologia. L’unico sollievo è che finora l’antipolitica si è rivelata meno violenta di quanto non sia stata la violenza politica in anni non troppo lontani. Del resto perfino nei rimedi che la parte migliore del sistema sta cercando a questa grave crisi della rappresentanza si sentono gli echi di un senso comune antipolitico, che oggi chiede più delega e meno partecipazione, meno eletti e più nominati, più uomini soli al comando e meno minoranze fastidiose. Oggi il successo politico ha bisogno dell’antipolitica, al punto che anche per il prossimo inquilino del Quirinale va di moda fare nomi di non politici. L’allarme lanciato ieri da Napolitano avrebbe dunque bisogno di una discussione spietatamente autocritica da molti versanti per produrre gli effetti di rigenerazione che giustamente auspica. Dobbiamo augurarcela con l’ottimismo della volontà.

11 dicembre 2014 | 08:25
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_dicembre_11/sguardo-colle-9dae02d8-80f9-11e4-98b8-fc3cd6b38980.shtml


Titolo: Antonio POLITO Tentazione pericolosa Chi vuole il voto anticipato
Inserito da: Admin - Dicembre 17, 2014, 05:43:09 pm
Tentazione pericolosa
Chi vuole il voto anticipato

Di ANTONIO POLITO

Non ha certo la potenza mediatica del «Che fai, mi cacci?» urlato da Fini in faccia a Berlusconi. Però anche il «Se vuoi il voto, dillo» con cui Stefano Fassina ha apostrofato Renzi durante l’assemblea pd un posticino nella storia potrebbe conquistarselo. La sua originalità sta nel fatto che, a parti rovesciate, poche ore prima era stato Delrio, cioè Renzi, a rivolgere la stessa accusa alla minoranza pd, cioè a Fassina, sospettata di aver ordito un agguato parlamentare al governo. Cosicché ora due cose sono chiare: c’è qualcuno che vuole andare al voto, anche se non si sa chi, e quel qualcuno sta nel Pd.

Già questa è un’anomalia non da poco. Da che mondo è mondo è l’opposizione che vuole votare e il governo che vuole durare. Nell’Italia del 2015 avremo invece un’opposizione terrorizzata dal voto anticipato (che lo ammetta, come Forza Italia, o che lo nasconda, come il M5S). E un governo tentato dall’avventura elettorale: quasi come se, una volta esauriti tutti gli annunci possibili, non restasse che annunciare le urne.

Naturalmente le elezioni sono, se non l’igiene, l’alimento della democrazia. Guai a demonizzarle. Ancora oggi si discute del resto se sia stato meglio per l’Italia evitarle nel 2011, quando al culmine della crisi finanziaria collassò il governo Berlusconi. Però un’elezione all’anno non è sintomo di salute, casomai di asfissia. Anche ammesso che ci fosse una legge elettorale, che fosse costituzionale, e che valesse per entrambe le Camere, il vincitore dovrebbe comunque ricominciare daccapo a fare le stesse cose che ha annunciato, per di più buttando ciò che già è stato fatto in materia di riforme istituzionali. In assenza delle quali avrebbe un Parlamento forse più docile ma non più produttivo, e certamente non migliore.

Questo vizietto antico della politica italiana di giocare perennemente alle elezioni, di riempire con l’attesa delle urne il vuoto dell’azione, di promettere messianicamente ciò che non si riesce a realizzare, sembra poi oggi del tutto inconsapevole della gravità estrema della situazione europea in generale e di quella italiana in particolare. Il semplice evocare il rischio di elezioni in Grecia (anche lì, manco a farlo apposta, c’entra l’elezione del presidente della Repubblica), ha subito riacceso i timori di una tempesta sull’euro capace di spezzare la moneta unica. Un ritorno all’instabilità politica del Paese con più di duemila miliardi di debito potrebbe sollevare uno tsunami, e costarci il ritiro del credito che è stato concesso a Renzi proprio perché sembrava in grado di tenerne il timone.

Già oggi l’Italia è un caso in Europa. I governi ci considerano una variabile indipendente che può far pendere da una parte o dall’altra la sorte dell’unione monetaria. La Bundesbank può usarci come pretesto per fermare le misure non convenzionali che prepara la Bce di Draghi.

I lavoratori belgi scioperavano ieri contro i tagli anti-deficit accusando l’Europa di aver usato due pesi e due misure con italiani e francesi.

Giocare con le elezioni è dunque, almeno in questa fase, giocare col fuoco. E il gioco non varrebbe la candela. Confermerebbe anzi tutti i dubbi sull’Italia proprio quando più abbiamo bisogno di ispirare fiducia. Speriamo che nel Pd lo capiscano, e si mettano a litigare su altro.

16 dicembre 2014 | 07:48
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Titolo: Antonio POLITO Brogli e sospetti affondano le primarie
Inserito da: Admin - Gennaio 13, 2015, 04:44:40 pm
Lo scontro nel Pd
Brogli e sospetti affondano le primarie

di ANTONIO POLITO 200


La storia delle primarie regionali del Pd sembrava destinata a fermarsi a Eboli, e invece è finita a La Spezia. C’è infatti un punto oltre il quale il simbolo della riconquistata freschezza giovanile e democratica del Pd si trasforma nello specchio di Dorian Gray. Lo specchio delle primarie all’improvviso restituisce l’immagine, piena di rughe e anche un po’ ripugnante, della politica più vecchia e decrepita: quella dei capibastone, delle correnti, dei brogli e dei sospetti.

Questo limite è stato varcato domenica in Liguria, dove la vincitrice Raffaella Paita, «quarantenne renziana che promette anni rock», come la descrivono le cronache del nuovismo, viene accusata dall’attempato, grigio e antirenziano Sergio Cofferati di aver vinto anche grazie a numerose irregolarità: roba da Procura a suo dire, contro le quali ha presentato ricorso. Come al solito, il sospetto si appunta sul voto «cammellato»: non perché troppo multietnico (sarebbe paradossale prendersela con i numerosi elettori cinesi per non aver votato il «cinese»; né di questi tempi si può criticare l’entusiasmo democratico di marocchini e rom, pure loro accorsi alle urne in numero abnorme); ma perché suscettibile di essere stato organizzato e fors’anche retribuito.

In più, in Liguria è di nuovo esplosa la polemica che fu al centro dello scontro tra Pier Luigi Bersani e Matteo Renzi nelle primarie per la scelta del segretario: gli elettori di centrodestra, e addirittura i sindaci e i dirigenti del centrodestra, possono partecipare alla scelta del candidato del Pd? Sì per la vincitrice, che ha ricevuto il sostegno esplicito di pezzi di Forza Italia ormai orfani di padrini; no per lo sfidante Cofferati, perché avrebbero «inquinato» il voto.

Ora la gatta da pelare è direttamente sul tavolo di Renzi: la commissione di garanzia dovrà decidere se annullare o confermare un risultato così contestato. Ma non è l’unica grana. Un’altra, potenzialmente più grossa, sta scoppiando in Campania. Dove, a dire il vero, detengono il copyright delle primarie finite in Procura. Quelle per scegliere il candidato sindaco di Napoli, nel 2011, furono annullate per brogli aprendo la strada al suicidio del Pd e al trionfo di de Magistris: su di esse è aperta un’inchiesta della Procura antimafia, così come per il voto nel salernitano in occasione della vittoria di Renzi nel 2013. Roma vorrebbe evitare ad ogni costo un nuovo armageddon in Campania, anche perché non si fida dei due maggiori concorrenti, Vincenzo De Luca e Andrea Cozzolino, stagionati e discussi dirigenti in prima linea fin dai tempi del Pci, entrambi già candidati cinque anni fa (De Luca è anche in attesa di sentenza per peculato). Ma i plenipotenziari del segretario, che pure hanno imposto già per due volte il rinvio del voto, non sono ancora riusciti a farlo saltare regalando una candidatura octroyée a Gennaro Migliore, transfuga vendoliano. Cosicché se ora le primarie si fanno, Renzi ci fa una brutta figura; e se le impedisce, ce la fa lo stesso.

Una cosa sembra ormai chiara: il sistema delle primarie locali è giunto al capolinea. Per una ragione giuridica e una politica. La prima è che nessuna consultazione può dirsi democratica se prima di iniziare non c’è un elenco di chi ha diritto al voto. Anzi, diventa un raggiro della democrazia, e in quanto tale non è più un affare interno al Pd. Il fatto che in molti casi le primarie siano andate bene (in Veneto e Puglia, per esempio) non assolve il metodo, perché se può fallire anche una sola volta vuol dire che non ci si può mai fidare dei risultati. Sono ormai in molti, anche nel Pd, a dire che senza una legge dello Stato non si possono più fare.

La ragione politica è che lì dove il partito è spaccato in correnti e gruppi di potere le primarie rischiano addirittura di peggiorare le cose, offrendo l’occasione per una lotta nel fango senza esclusione di colpi. Comprare gli elettori non è infatti meglio che comprare le tessere.

13 gennaio 2015 | 09:14
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_gennaio_13/brogli-sospetti-affondano-primarie-7fa4c9c2-9afb-11e4-bf95-3f0a8339dd35.shtml


Titolo: Antonio POLITO Svegliamoci: troppi silenzi e amnesie
Inserito da: Admin - Gennaio 13, 2015, 05:01:31 pm
Gli indifferenti
Svegliamoci: troppi silenzi e amnesie

Di ANTONIO POLITO

N on c’è da meravigliarsi se l’Aula di Montecitorio era semivuota, mentre il ministro Alfano riferiva sulla nuova guerra santa scatenata in Europa. Tutto sommato è lo stesso Parlamento che, rinunciando agli F35, sarebbe pronto a disfarsi dell’arma aereonavale nel Paese che è geograficamente una portaerei nel Mediterraneo. E la politica non è l’unico pezzo della nostra classe dirigente che appare indifferente ai limiti della diserzione di fronte a una svolta così radicale della storia. È certo un ritardo antico: abbiamo sempre inteso la politica estera come una paziente attesa di ciò che avrebbero fatto gli Usa o la Francia. N on basta un upgrading nella prima classe di Bruxelles per colmare il ritardo di una classe dirigente: prova ne sia lo scarso interesse che suscita in questo frangente, perfino sulla stampa italiana, l’azione della nostra Federica Mogherini, Alto Rappresentante per la politica estera dell’Ue. Ma bisogna dire che la fine dei partiti, un tempo capaci di formare un’intellettualità diffusa, informata sui fatti del mondo anche se partigiana, colta per quanto faziosa, ha peggiorato le cose. Il nostro dibattito politico è rimasto così avvitato sull’asse Est-Ovest, pulluliamo ancora di antiamericani e di filorussi; ma nel frattempo il mondo è girato, e sull’asse Nord-Sud, Europa-Islam, non sappiamo che dire.


Non tace solo la politica. Da quanto tempo in Italia non si pubblica un best-seller come Le suicide français di Eric Zemmour, o un romanzo come Sottomissione di Michel Houellebecq? Chi, dopo la Fallaci, ha provato a «profetizzare il presente» nel Paese più esposto d’Europa all’ondata migratoria, sollevata proprio dallo tsunami dell’Islam? E in quante università italiane si studia e si legge l’arabo? Sono di fronte a noi, a pochi chilometri da noi, ma non sappiamo niente di loro (con rare eccezioni: un politico come la Bonino, saggisti come Cardini e Buttafuoco).
Poiché nulla accade per caso nella storia delle nazioni, è possibile che questa indifferenza nasca in realtà da una rimozione. I nostri ceti intellettuali, quelli che formano l’opinione pubblica dalla scuola ai talk show, sono infatti molto più a loro agio con l’appeasement che con la guerra, se la cavano meglio con la retorica del dialogo che con quella dello scontro di civiltà. Sanno apprezzare un «ritiro» e deprecare una battaglia.


Quando la storia si incarica di smentirne il sogno irenista, e scoprono che il mondo è pieno di cattivi, restano senza parole. Nasce da qui l’ostracismo a ogni serio dibattito sull’identità nazionale, subito tacciato di razzismo (e perciò regalato al furbo Salvini, che ne fa un uso stupefacente). Nasce così la orribile confusione tra interesse nazionale e scambio commerciale, che consente di dire pubblicamente «chi se ne frega dell’Ucraina, pensiamo al nostro export con la Russia». Siamo pur sempre il Paese del colonnello Giovannone, pronto a stringere negli Anni 70 un patto di non belligeranza col terrorismo palestinese, purché non colpisse in casa nostra. In più, da noi il dibattito pubblico è di solito egemonizzato da un’opinione militante, pronta a scendere in piazza per difendere la satira quando attacca Berlusconi, ma molto più prudente quando se la prende con Maometto.
Nel suo ultimo romanzo Houellebecq ipotizza che l’Europa sia esausta proprio perché stanca della sua libertà, e sempre più disposta a barattarla con un po’ di benessere e di quieto vivere. È una tentazione che in Italia ben conosciamo. Ma è anche l’ennesima illusione: il nemico che abbiamo di fronte non fa prigionieri.

10 gennaio 2015 | 08:14
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_gennaio_10/svegliamoci-troppi-silenzi-amnesie-d7640858-988f-11e4-8d78-4120bf431cb5.shtml


Titolo: Antonio POLITO Napolitano, la critica davvero ingiusta
Inserito da: Admin - Gennaio 15, 2015, 11:53:27 am
IL COMMENTO

Napolitano, la critica davvero ingiusta

Di ANTONIO POLITO

È comprensibile l’ostilità che si riversa anche in queste ore contro Napolitano da parte dei propagandisti dell’antipolitica; cioè di tutti coloro i quali hanno sperato che la crisi economica, morale e politica dell’Italia sfociasse in un collasso del sistema istituzionale, per sostituirlo con qualcos’altro. Un’ondata così forte di rabbia e disprezzo per i partiti e il Parlamento in Italia non si vedeva da tempo. Napolitano l’ha affrontata di petto, senza indulgenze, con severità. Nella convinzione che l’unico modo di domarla fosse il rinnovamento delle istituzioni democratiche. Da questo punto di vista è stato il più formidabile nemico degli agitatori. Si spiegano dunque l’astio e la collera con cui ne salutano l’addio.

Meno comprensibile è l’ostilità che gli proviene da Berlusconi e dagli ambienti a lui vicini. Napolitano infatti, proprio per fronteggiare il rischio di collasso del sistema politico, ha avuto come stella polare della sua azione la stabilità di governo. Il che, in tutte le crisi politiche che si è trovato a gestire, lo ha portato sempre a favorire soluzioni che tenessero il centrodestra di Berlusconi dentro l’area di governo, o comunque agganciato. Al punto di irritare spesso gli oppositori dell’ex Cavaliere. Nel 2010, quando Fini spaccò la maggioranza di centrodestra, Napolitano si adoperò affinché la discussione della mozione di sfiducia a Berlusconi fosse posticipata a dopo la legge di Stabilità. Questo diede un mese di tempo al premier, che lo usò per conquistare e trasferire voti in Parlamento, e gli consentì di ribaltare a sorpresa il risultato e restare in sella.

Nel terribile autunno del 2011, quando il governo Berlusconi cadde al pari di tutti i governi dei Paesi travolti dalla crisi dei debiti sovrani, Napolitano non sciolse le Camere, indicendo elezioni che in quel momento avrebbe sicuramente vinto il centrosinistra guidato da Bersani, ma puntò sul governo Monti per uscire dalla emergenza finanziaria. Berlusconi gradì questa soluzione al punto che diede la fiducia al nuovo esecutivo, e per mesi lo sostenne; non a caso fu lui a proporre prima e a votare poi il bis di Napolitano.

All’indomani delle ultime elezioni, il presidente negò a Bersani la possibilità di dar vita a un governo senza maggioranza parlamentare e incaricò invece Letta alla guida di un esecutivo che comprendesse Berlusconi. E quando Renzi arrivò sulla scena, Napolitano diede via libera al suo tentativo, che consisteva nel riportare nel gioco politico Berlusconi con il patto del Nazareno, nonostante nel frattempo fosse stato condannato per frode fiscale e decaduto dal Senato, e per questo avesse rotto con la maggioranza e con Alfano.

Tutte queste scelte, peraltro pubblicamente motivate, ovviamente sono suscettibili di critiche; ma certo non per essere state di pregiudizio al centrodestra. I cui problemi politici di oggi hanno ben altre spiegazioni e radici.

15 gennaio 2015 | 08:25
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_gennaio_15/napolitano-critica-davvero-ingiusta-5c140ea4-9c7d-11e4-8bf6-694fc7ea2d25.shtml


Titolo: Antonio POLITO Il caso del 3 per cento La frusta e il dolce fiscale
Inserito da: Admin - Febbraio 07, 2015, 10:02:27 am
Il caso del 3 per cento
La frusta e il dolce fiscale

Di ANTONIO POLITO

Meno male che oggi parla Mattarella. Innanzitutto perché sono sette anni che non parlava; e questo già la dice lunga su un sistema politico che ha dovuto cercarsi l’arbitro più lontano possibile dal suo chiacchiericcio quotidiano. E poi perché, parlando il garante dell’unità nazionale, forse taceranno per un giorno tutti gli altri che hanno già ricominciato a darsele di santa ragione.

I due gruppi più rumorosi sono composti da quelli che negano di aver venduto tappeti e da quelli che rifiutano di essere usati come tappeti. Nel primo gruppo spicca Verdini, il quale respinge le accuse di «fallimento» che gli piovono addosso dal cerchio magico di Berlusconi ricordando che nel Patto con Renzi c’era, altroché se c’era, la scelta comune del nuovo presidente. Testimonianza autentica, visto che viene da uno degli apostoli del Nazareno; ma ormai utile solo per gli storici poiché, come lui stesso ha ammesso, in politica chi ha i numeri fa quello che vuole, e Renzi ha fatto di Berlusconi ciò che voleva.

Ma lo scontro in cui è coinvolto l’ex falco berlusconiano diventato colomba renziana non va sopravvalutato, poiché ha risvolti più interni che esterni. Comunque finisca, che l’ex Cavaliere torni in sella o continui a fare il fante, ormai non conta molto ai fini delle sospirate riforme istituzionali. Il più, infatti, è fatto. E per la minoranza pd non sarebbe decoroso rimetterle in discussione dando una mano alla vendetta berlusconiana. D’ altra parte al capezzale del Nazareno è subito accorsa il ministro Boschi, vera e propria crocerossina delle riforme, a ricordare e ribadire che la norma per la depenalizzazione dei reati fiscali, nota ormai come decreto tre per cento, si farà. Anche se, visto che il tutto era stato rinviato al 20 febbraio, e non foss’altro che per una ragione di stile, forse era meglio aspettare un attimo di parlarne con il nuovo capo dello Stato, cui spetterà firmarla trattandosi di un Decreto del Presidente della Repubblica.

Più interessante, e sorprendentemente perfino più delicata per gli equilibri della legislatura, è la tempesta che si è scatenata nel partito di Alfano ad opera di coloro che non vogliono essere trattati come tappeti, anzi come tappetini per usare l’espressione del ministro Lupi. La crisi interna di quel gruppo non è solo frutto di rabbia passeggera per il trattamento ricevuto, ma richiama per così dire una questione ontologica mai risolta da Alfano e i suoi. E cioè come può un partito che si chiama Nuovo centrodestra stare in un governo organico di centrosinistra proponendosi di andare alle prossime elezioni con il centrodestra. Nello sfavillio di maggioranze che Renzi ha messo in mostra in questi mesi (una per il governo, una per le riforme, una per il Quirinale), si tende infatti a dimenticare che al Senato ne ha ogni giorno una risicatissima appesa proprio a quel «partitino» delle cui convulsioni il premier dichiara di non volersi curare. Se per caso Ncd non reggesse alla prova da sforzo cui è stata sottoposto nel fine settimana, qualche conseguenza politica potrebbe infatti prodursi. E per quanto sembri improbabile che gli alfaniani al governo siano disposti ad aprire una crisi, i non alfaniani non al governo potrebbero tagliare la corda prima di finirci impiccati.

A parte il tran tran quotidiano, c’è in particolare un futuro appuntamento parlamentare in cui ogni voto conterà di nuovo moltissimo: la seconda lettura al Senato della riforma costituzionale. In quella occasione, che si proporrà comunque tra non meno di tre mesi, sarà richiesta la maggioranza qualificata di 161 voti al Senato. Alla portata del governo, ma certo non sicura se una forza politica di maggioranza vi arrivasse in via di dissolvimento.

Le incognite del circo politico non si sono dunque tutte sciolte nell’ovazione che ha accolto Mattarella presidente. Anche se il domatore, Matteo Renzi, sembra oggi più in comando che mai, zuccherino in una mano e frusta nell’altra.

3 febbraio 2015 | 08:53
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Titolo: Antonio POLITO Prepotenti e rissosi Il sonno della ragione
Inserito da: Admin - Febbraio 18, 2015, 08:10:59 am
Prepotenti e rissosi
Il sonno della ragione

Di ANTONIO POLITO

Non è stata una buona idea far lavorare il Parlamento di notte. Certo, si è offerto in pasto al pubblico il supplizio degli odiati onorevoli inflitto con la privazione del sonno. Ma si è anche prodotto il sonno della ragione. Lo spettacolo andato in scena a Montecitorio in queste ore è del genere che un tempo si sarebbe detto da Parlamento balcanico. Forse ha ragione chi dice che la Costituzione andrebbe riscritta alla luce del sole. Anche perché l’incursione notturna del premier è stata così tenebrosa che ora rischia di produrre effetti devastanti sul processo delle riforme. Almeno in questa materia il Parlamento non è infatti alle dipendenze del governo, né può esserne messo in mora.

D’altra parte, si tratta del Parlamento più disossato della storia della Repubblica, in cui sono uniti solo i partiti il cui obiettivo è spaccare gli altri, mentre i partiti che dovrebbero unire sono spaccati. Questa sorta di Dieta polacca, tenuta insieme esclusivamente dall’istinto di sopravvivenza, vede ancora in Matteo Renzi il suo deus ex machina, il domatore che la tiene in vita; ma ha appena perso il suo principio ordinatore, il motore primo che le aveva consentito di incamminarsi sull’impervio sentiero costituente. La morte del patto del Nazareno, a dispetto degli ingenui che ne hanno minimizzato gli effetti, è infatti qualcosa di più che un cambiamento numerico, non è solo la fine del banco di mutuo soccorso parlamentare Verdini-Lotti. Ha anche una conseguenza politica. Se l’obiettivo di cambiare la Costituzione smette di essere comune alle più grandi forze popolari, e diventa il progetto di un solo partito dominante, la conseguenza quasi inevitabile è che le opposizioni si coalizzino, e si radicalizzino.

Per questo il mantra di «andiamo avanti da soli» che ripetono i renziani non è convincente. Perché più si va avanti da soli più si dà un alibi agli estremismi di chi è rimasto fuori. E in circostanze come queste il giochetto dei due o tre forni non funziona: pur dopo aver litigato con Berlusconi, il Pd sta infatti litigando con M5S, ha fatto a botte con Sel, ed è di nuovo gravemente diviso al suo interno.
C’è poi un danno collaterale di questa bagarre. Ed è che il pubblico ne ricava l’impressione che la Carta comune sia diventata oggetto di scontro partigiano come qualsiasi altra cosa. Il che indebolisce le riforme prima ancora che escano dal Parlamento. Già due volte abbiamo commesso questo peccato, e ci è andata molto male: con la riforma del Titolo V pretesa a colpi di maggioranza dal centrosinistra del tempo, e con il famigerato Porcellum imposto dal centrodestra berlusconiano. Entrambe le leggi sono state percepite nel Paese come trofei di una guerra civile, e alla fine sono fallite.

La capacità di riformatore di Matteo Renzi non si misura con il numero di sedute notturne che è capace di imporre al Parlamento o per la efficacia delle minacce di scioglimento con cui tiene a bada i parlamentari. Bisogna che il premier ridia presto un senso a questa storia: costruendo un nuovo asse politico per le riforme e accettando le conseguenze, di metodo e di merito, che ne deriveranno. Altrimenti rischia di intestarsi il fallimento del progetto sulla cui base ha preteso e ottenuto la guida del governo .

14 febbraio 2015 | 08:27
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DA - http://www.corriere.it/editoriali/15_febbraio_14/sonno-ragione-64a6032a-b414-11e4-9e87-eea8b5ef37a3.shtml


Titolo: Antonio POLITO Tutti gli usi impropri di un verdetto
Inserito da: Admin - Marzo 16, 2015, 11:45:00 pm
Tutti gli usi impropri di un verdetto

Di ANTONIO POLITO

Si sa che le sentenze in Italia si rispettano a intermittenza, dipende da se ci piacciono o no.

Ma quella della Cassazione che ha confermato l'assoluzione di Berlusconi merita di essere protetta dai rischi di sfruttamento politico. Il primo consiste nell'atteggiamento di chi non l'accetta, cavilla, azzecca garbugli, si rifiuta di considerare chiusa, come invece è, la vicenda giudiziaria detta «caso Ruby». Curiosamente sono proprio i più inflessibili difensori della magistratura quelli che oggi faticano a riconoscere che il giudice supremo ha dichiarato Berlusconi definitivamente innocente delle due accuse che gli erano state mosse, senza se e senza ma. La Procura di Milano ha perso, la difesa ha vinto. Punto. Ed è aberrante invocare ora da altri processi, in cui pure resta coinvolto Berlusconi, una speranza di rivincita, come se fossero una partita di ritorno di Champions League. D'altra parte l'assoluzione in sede penale non assolve certo l'allora presidente del Consiglio dalla responsabilità politica e personale di aver ospitato «atti di prostituzione» a casa sua, cosa che anche la difesa ha riconosciuto in Cassazione.

L'altro uso improprio della sentenza è il tentativo in corso di convincere gli italiani che essa risolverà come d'incanto i problemi politici di Forza Italia e dell'intero centrodestra, con la semplice ed ennesima ridiscesa in campo del suo deus ex machina. Intendiamoci: è comprensibile l'euforia degli amici di Berlusconi e dei dirigenti del suo partito, anche di quelli che magari in segreto speravano di poter continuare a sfruttare la sua ansia giudiziaria per fargli fare ciò che volevano. Ed è positivo che, non per effetto di questa assoluzione ma per la fine della pena scontata ai servizi sociali a causa di un'altra condanna, il capo di un grande partito di opposizione possa tornare a far politica nelle piazze, a partire dalla campagna elettorale delle Regionali. Ma miracoli è meglio non aspettarsene.

Quello che sta accadendo nel centrodestra italiano non è infatti solo il frutto dell'indebolimento della leadership di Berlusconi, ne è semmai un'importante causa. Il sorgere di una destra nazionalista e anti europea non nasce dalle vicende giudiziarie dell'ex Cavaliere, ma dai traumi sociali dell'Italia di questi anni, e la nuova Lega è una forza così aggressiva che non esita ad amputarsi il braccio moderato di Tosi, figurarsi se può essere ricondotta all'ovile con le cene del lunedì ad Arcore. L'esplosione di Forza Italia non deriva dall'obbligo dei venerdì a Cesano Boscone, ma dalla inconsistenza di un partito privo allo stesso tempo di democrazia e di gerarchia interna. La rottura con Alfano non si risolve con la parabola del figliol prodigo, perché ha ormai portato un pezzo del centrodestra nel centrosinistra. Ammesso che i voti di questi spezzoni siano un giorno sommabili, sembrano comunque pochi per vincere le elezioni, almeno per come le ha congegnate l’Italicum di Renzi.

Del resto, nel modello che si sta costruendo, mettendo insieme la riforma del Senato e quella della legge elettorale, il rischio più elevato non è tanto la dittatura della maggioranza ma l'irrilevanza della minoranza: che rischia di essere frantumata, divisa, litigiosa, una palude pronta a ogni trasformismo. Proprio perché si va verso un governo più forte e un Parlamento più debole, è di vitale importanza per la nostra democrazia che la competizione resti vera, che nelle urne ci sia una reale alternativa, che esista un centrodestra electable, cioè credibile come possibile governo.
Ora che ha l'animo più lieve, dopo l'assoluzione, è a questo che deve porre mente Berlusconi. Se le sorti del centrodestra gli interessano oltre l'orizzonte delle sue aziende e dell'eredità dei figli, può ricostruirlo solo aprendo una via, ordinata e per quanto possibile democratica, alla sua successione.

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12 marzo 2015 | 08:32

Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_marzo_12/tutti-usi-impropri-un-verdetto-43cc9bde-c880-11e4-9fa6-f0539e9b2e9a.shtml


Titolo: Antonio POLITO - Potentati e cacicchi Il renzismo si è fermato a Eboli
Inserito da: Admin - Aprile 04, 2015, 12:04:23 pm
Potentati e cacicchi
Il renzismo si è fermato a Eboli

Di ANTONIO POLITO

I l nuovo Pd di Renzi si è fermato a Eboli. Anzi, non ha neanche varcato il Garigliano. Più che la minoranza interna, il rischio peggiore per il segretario è questa maggioranza esterna di notabili e cacicchi locali che, soprattutto da Roma in giù, controlla tuttora il partito: un ceto politico rimasto del tutto immune alla cosiddetta «rivoluzione» renziana.

Non si tratta solo della questione morale. Che pure conta. L’ultimo arrestato in Campania, il sindaco di Ischia, non è uno qualunque: è un capo locale, uno capace di prendere 70 mila preferenze in tutto il Sud alle Europee fallendo per un soffio l’ascesa a Strasburgo, uno che fino a dieci anni fa stava in Forza Italia, un Nazareno ante litteram nella sua isola, che governava in un patto di ferro con la destra. Più che una devianza, incarna cioè una filosofia politica molto diffusa nel Pd campano, spesso usato come un taxi da chi è a caccia di potere. Vedremo se con lui il segretario sarà inflessibile come con Lupi o flessibile come con De Luca. Conterà molto il clamore mediatico: che in questo caso è assicurato, perché le duemila bottiglie del vino di D’Alema non hanno niente da invidiare al Rolex di Lupi.

Ma prima ancora che morale, il problema è politico. Nel Mezzogiorno Renzi è un estraneo. Ci si fa vedere anche poco, per la verità. E comunque non c’è una regione meridionale dove si possa dire che abbia cambiato verso al suo partito. I governatori e gli aspiranti governatori del Pd sono tutti esponenti di un’altra epoca, che traggono la loro forza dal sistema di consenso costruito sul territorio e che sono al massimo tollerati, non certo scelti, dal centro. Crocetta in Sicilia, Emiliano in Puglia, Oliverio in Calabria, De Luca in Campania: niente di più lontano dalle camicie bianche, l’e-government e i talk show. E dietro di loro si agita il solito coacervo di potentati locali, neanche correnti si possono chiamare, che non fanno nulla per nulla, piccole aziende il cui core business sono i voti, meglio se con le preferenze. Il Partito democratico nel Sud è spesso un verminaio in cui è impossibile mettere le mani senza sporcarsi: e Renzi non ama sporcarsi.
Di conseguenza, hic sunt leones, ognuno si sbrana come può. Si spiega così l’impotenza dimostrata nella vicenda De Luca, quando Roma ha dovuto digerire la sua candidatura prima e la sua vittoria alle primarie dopo.

Non è del resto un caso se nel governo non c’è neanche un ministro meridionale, se la questione meridionale è stata ridotta all’utilizzo dei fondi Ue, se a gestirli c’è un signore di Reggio Emilia, se il Pd che va in televisione parla solo con l’accento toscano, o al massimo lodigiano come Guerini. Il Sud è rimasto un grande buco nero della politica italiana, uno spazio vuoto non più riempito né da una idea né da una classe dirigente di peso nazionale. Ed è un grande punto interrogativo sul nuovo Partito democratico di Renzi, ancora troppo diverso dal suo elettorato.

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31 marzo 2015 | 07:26

Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_marzo_31/renzismo-si-fermato-eboli-f4a80c8e-d764-11e4-82ff-02a5d56630ca.shtml


Titolo: Antonio POLITO Un gigante con tanti cespugli
Inserito da: Admin - Aprile 16, 2015, 11:48:31 am
Riforma elettorale
Un gigante con tanti cespugli

Di ANTONIO POLITO

Se tutto resterà com’è, non c’è da andar tanto fieri della riforma elettorale che Montecitorio si appresta a varare. Innanzitutto per un problema di metodo. Le leggi elettorali sono le regole del gioco politico, e dovrebbero perciò essere considerate imparziali dal maggior numero possibile di giocatori. Altrimenti nascono zoppe, con maggioranze risicate, e hanno vita breve, come accadde prima al Mattarellum e poi al Porcellum. L’Italicum sembrava partito bene. Renzi chiarì che per evitare quel rischio bisognava cercare un compromesso tra le maggiori forze politiche. Per questo fece un accordo con Berlusconi, e a chiunque chiedesse modifiche replicò che non poteva tradire quell’accordo. Per questo ne offrì uno, a un certo punto sembrò anche seriamente, ai Cinquestelle. E invece in dirittura finale l’Italicum arriva con un sostegno politico molto ristretto, perfino inferiore alla stessa maggioranza di governo, a causa della fronda interna al Pd; addirittura inferiore al consenso con cui fu approvato il Porcellum, che per lo meno ebbe i voti di tutti i sostenitori del governo dell’epoca, e cioè Forza Italia, An, Lega Nord e Udc.

C’è dunque un’elevata probabilità che gran parte dello schieramento politico consideri ostile la legge che sta per essere approvata, e ne contesti aspramente la legittimità anche in futuro, fino magari a sostituirla per l’ennesima volta quando le maggioranze muteranno. Non sarebbe una novità: da vent’anni cambiamo sistema elettorale ogni dieci anni. Ma se il risultato fosse eccellente, e cioè una legge elettorale di stampo europeo al di sopra di ogni sospetto, si potrebbe anche tollerare il modo in cui nasce. Purtroppo non è così.

Di stampo europeo certamente non è, perché il premio di maggioranza non esiste in nessuna delle grandi democrazie europee con l’eccezione della Grecia (anche se il premier garantisce che correranno a copiarcela tutti). Al di sopra di ogni sospetto nemmeno, perché introduce di fatto l’elezione diretta del capo del governo senza dargliene i poteri e senza prevedere i contrappesi che esistono nei sistemi presidenziali. Produrrà dunque uno pseudo presidente in uno pseudo Parlamento, quest’ultimo essendo ulteriormente indebolito dal declassamento del Senato a vacanze romane dei consiglieri regionali e dalla selezione per nomina di un elevato numero di deputati. Per di più, non prevedendo la possibilità di apparentamenti al secondo turno come invece è nelle città italiane e nel Parlamento francese, assegna il 55% dei seggi a uno solo e il restante da dividere tra tutti gli altri, che a questo punto saranno molti visto che lo sbarramento è al 3%. Il risultato non sarà una forte e responsabile opposizione, bensì un coacervo di sigle frammentato e impotente, inevitabilmente portato al chiasso mediatico e alla protesta demagogica.

Un gigante e tanti cespugli: non è esattamente questa la democrazia rappresentativa in Europa. Non stiamo infatti per approvare una legge maggioritaria, che moltiplica i voti in seggi per dare una maggioranza; ma una legge proporzionale, cui alla fine si sommano i seggi del premio. Della stessa famiglia, dunque, delle tre più contestate della nostra storia: la legge Acerbo del 1923, la cosiddetta legge-truffa del 1953 (su entrambe il governo mise la fiducia) e la legge Calderoli del 2005.

I difetti dell’Italicum sono tanti. Il pregio è unico, ma non da poco: risponde a uno stato di necessità, e riempie il vuoto aperto dalla sentenza della Consulta. Qualsiasi legge elettorale è meglio di nessuna legge elettorale. Però in sedici mesi si doveva (e si può ancora) fare di meglio.

8 aprile 2015 | 08:16
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_aprile_08/gigante-tanti-cespugli-italicum-riforma-elettorale-4ddcb02e-ddb0-11e4-9dd8-fa9f7811b549.shtml


Titolo: Antonio POLITO La traiettoria (traumatica) del treno dell’Italicum
Inserito da: Admin - Aprile 25, 2015, 04:49:13 pm
Il corsivo del giorno
La traiettoria (traumatica) del treno dell’Italicum
Sostituire un parlamentare dissidente in Commissione è un problema per il dissidente.
Sostituirne 10 su 22 potrebbe diventare un problema anche per chi li sostituisce

Di ANTONIO POLITO

Sostituire un parlamentare dissidente in Commissione è un problema per il dissidente. Sostituirne una decina su 22, compreso l’ex leader del tuo partito (Bersani), due ex presidenti (Cuperlo e Bindi), dovendo già sostituire il capogruppo dei deputati che si è dimesso (Speranza), perché tutti dissentono dalla legge elettorale che stai per approvare, potrebbe diventare un problema anche per chi li sostituisce. È fuor di dubbio che con la procedura adottata (far convocare tutti i membri della Commissione affari costituzionali della Camera per chiedere loro, uno a uno, come in confessionale, se avrebbero peccato contro l’Italicum, e mandare via tutti gli sventurati che risposero) Renzi ha deciso di pagare un prezzo politico alto sia per l’unità del suo partito sia per la credibilità della sua stessa leadership in quel partito. E allora c’è da chiedersi perché l’abbia fatto.

Dietro la severità del premier c’è la decisione di tenersi la strada aperta per porre la fiducia sull’Italicum. Essa può essere infatti chiesta sul testo che esce dalla Commissione, e se questa cambiasse qualcosa nella legge, Renzi non potrebbe più blindare il vecchio testo in Aula. Ma se i deputati in Commissione rappresentano il gruppo ed è quindi legittimo, per quanto traumatico, sostituirli, in Aula i parlamentari, Costituzione alla mano, rappresentano la nazione, e sono dunque liberi da qualunque vincolo di mandato e di disciplina di gruppo. Il treno dell’Italicum sta dunque correndo verso questo snodo cruciale del sistema democratico. Forse si può ancora rallentarne la corsa o cambiarne la traiettoria, ma se continua così passerà per una raffica di voti di fiducia, per un Aventino con gazzarra delle opposizioni, per una ferita istituzionale mentre si fanno le riforme istituzionali, e per un’approvazione finale contestata come neanche col Porcellum avvenne. C’è da chiedersi: cui prodest?

21 aprile 2015 | 09:27
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_aprile_21/traiettoria-traumatica-treno-dell-italicum-d4bf01dc-e7f6-11e4-97a5-c3fccabca8f9.shtml


Titolo: Antonio POLITO Italicum, in Parlamento la prova del potere
Inserito da: Admin - Maggio 01, 2015, 12:31:11 pm
Italicum, in Parlamento la prova del potere

Di Antonio Polito

Dice Enrico Letta che mettendo la fiducia sull’Italicum il premier rischia di ottenere una «vittoria sulle macerie». Dimentica però che l’intero edificio del governo Renzi è costruito sulle macerie. Le macerie della seconda Repubblica, di una «non vittoria» elettorale della sinistra, e della sentenza della Consulta che rase al suolo il Porcellum. Il ricordo è invece acutamente presente all’opinione pubblica, ed è questo che spiana la strada a Renzi per spianare gli avversari.

A convincere gli italiani non sono infatti gli arzigogoli di esperti professori e inesperti politici, tutti aspiranti capilista bloccati, che magnificano il genio Italicum. La legge è quel che è, uno strano ibrido di proporzionale più premio di maggioranza più ballottaggio, un vero e proprio unicum in Europa. La gente l’ha capito, non applaude nei sondaggi. Ma è forte l’argomento politico di Renzi che suona pressappoco così: o con me o come prima. Mettersi contro questo vento fino a far cadere la legge o a far cadere il governo, richiederebbe un coraggio e un progetto che la minoranza del Pd oggi non ha, anche perché è essa stessa parte delle macerie di cui sopra. Perciò Renzi ricorre alla forzatura estrema del voto di fiducia: impedisce cambiamenti alla legge e mette i dissidenti con le spalle al muro, prendere tutto o perdere tutto. In attesa dunque di seguire gli sviluppi di una partita che pare già giocata, tranne l’incertezza su quanto umiliante e umiliata sarà l’Aula di Montecitorio, è lecito chiedersi che cosa potrà davvero essere questa nuova fase che si aprirà con l’Italicum, da molti commentatori già definita come l’era del «governo del premier».

In buona parte, sarà ciò che Renzi vorrà che sia. La sua condizione di dominus uscirà infatti rafforzata dall’arma carica di una legge elettorale, che può essere usata in qualsiasi momento, indipendentemente dalle promesse e dalle clausole di salvaguardia. Come nel Regno Unito, dove la Regina scioglie formalmente le Camere ma è il premier a decidere quando, Renzi disporrà della ghigliottina della legislatura. Però il leader dovrà prima o poi scegliere se approfittare delle macerie del sistema politico, regnando sui detriti di un’opposizione frantumata dal nuovo sistema elettorale. Oppure se provare a ricostruire su quelle macerie un sistema parlamentare equilibrato, e che riprenda a tendere verso il bipolarismo e l’alternanza. Renzi avrebbe potuto farlo già ieri, scommettendo su una maggioranza convinta, quella che ha respinto le pregiudiziali di costituzionalità, invece di coartarla con il voto di fiducia.

Vincere e convincere, come si direbbe nel gergo a lui caro del calcio, è obbligatorio per i grandi leader. D’altra parte nemmeno il rozzo meccanismo dell’Italicum potrà esentare del tutto dalla ricerca del consenso: nella futura Camera, dove la lista vincente godrà di 340 seggi, basteranno 25 dissidenti per mandarla sotto. Nemmeno il destino di De Gasperi fu messo al riparo da un premio di maggioranza approvato a colpi di voti di fiducia.

29 aprile 2015 | 07:50
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_aprile_29/italicum-matteo-renzi-prova-potere-polito-2ece17b2-ee32-11e4-b322-fe8a05b45a01.shtml


Titolo: Antonio POLITO Il diritto di parola di Salvini e i quotidiani attentati alla ...
Inserito da: Admin - Maggio 19, 2015, 09:27:18 am
Il commento
Il diritto di parola di Salvini e i quotidiani attentati alla democrazia
Nessun appello di intellettuali per difendere il diritto di parola del leader della Lega: sotto sotto molti pensano che se l’è cercata

Di Antonio Polito

Strano, non si è ancora visto un manifesto-appello di intellettuali per difendere il diritto di parola di Matteo Salvini nelle piazze della Repubblica. Non sono comparsi bavagli simbolici per ricordare che a nessuno si può tappare la bocca in questo Paese. La cultura democratica non sembra molto scossa da questo stillicidio ormai quotidiano di piccoli ma non banali attentati alla democrazia: ché tali sono i tentativi di impedire, interrompere, sabotare i comizi del leader di un partito politico regolarmente iscritto alla gara delle prossime elezioni regionali.

Perché dunque la condanna, anche quando è ferma e sincera, non va mai oltre le solite frasi di circostanza, e quasi sempre è preceduta da una presa di distanza, del tipo «premesso che tutto mi divide dalle idee di Salvini, difendo il suo diritto a manifestarle», come fa spesso lo stesso ministro dell’Interno, confondendo il suo ruolo istituzionale con quello di diretto concorrente elettorale della Lega? Perché, in realtà, sotto sotto, in fondo in fondo, molti di noi pensano che Salvini un po’ se l’è cercata, che il suo linguaggio è troppo provocatorio, che denigra e istiga, che è irresponsabile e politicamente scorrettissimo. E invece no. Anche se fosse tutte queste cose, bisogna che ci convinciamo che il discorso politico della Lega non è fuori dal perimetro dei valori di una democrazia, e dunque ha pari dignità con tutti gli altri, e dunque è nel solo potere degli elettori censurarlo.

Dobbiamo riconoscere che lui e i suoi seguaci hanno il diritto non solo di dire ciò che dicono, ma anche di pensare ciò che pensano. In molti altri paesi europei forze politiche nient’affatto eversive sostengono tesi non molto dissimili da quelle di Salvini sugli immigrati (il partito di Cameron per esempio) o sull’Europa (il movimento di Alternativa per la Germania) e a nessuno viene in testa di lanciargli contro uova e bottiglie, o di pensare che se la sono cercata. Se ragioneremo così, se consentiremo a Salvini una campagna elettorale non braccata da manipoli di agitatori sempre a caccia di presunti fascisti pur di sentirsi vivi, allora potremo anche respingere nel dibattito pubblico ciò che in Salvini non ci piace, ciò che ci preoccupa, ciò che lo rende geneticamente minoritario, per quanti voti possa prendere.

17 maggio 2015 | 12:09
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_maggio_17/diritto-parola-si-salvini-quotidiani-attentati-democrazia-4451da36-fc7b-11e4-9e3e-6f5f0dae9d63.shtml


Titolo: Antonio POLITO Il mito della giustizia sociale può essere un alibi ingannevole
Inserito da: Admin - Maggio 25, 2015, 11:15:51 am
Aspirazioni
Il mito della giustizia sociale può essere un alibi ingannevole
A furia di parlare di equità, si alimentano aspettative difficili da soddisfare.
Per esempio quando a proposito di pensioni non si illustrano tutti gli aspetti dei metodi retributivo e contributivo
O quando nel mondo scolastico si creano divisioni fra i precari

Di Antonio Polito

Lo storytelling è l’ultimo grido della comunicazione politica. E pensare che ci scherzavamo su quando ce la raccontava Vendola e si chiamava «narrativa»; eppure già allora funzionava, visto che portò un giovane comunista con l’orecchino al governo della Puglia, e ce l’ha tenuto per dieci anni.

Ma l’arte di governare la realtà, per sua natura confusa e caotica, fingendo di seguire un preciso disegno di cambiamento della società, ha anche i suoi rischi. Soprattutto quando chi è al potere cede alla tentazione di presentarsi come un vendicatore dei torti del passato e il paladino di una nuova era di giustizia sociale. A furia di aizzare la sete di giustizia, infatti, si possono creare più aspirazioni di quante sia possibile realizzare, e anche meno giuste, e talvolta addirittura puramente egoistiche e vendicative. È per questo che le società più dinamiche sono quelle dove è il lavoro, non la spesa pubblica e la sua gestione da parte del potere politico, a fare la giustizia sociale.

Il dibattito in corso sulle pensioni ne è un ottimo esempio. Ormai chiunque ne parli dice di farlo in nome della «giustizia sociale». In tv si sente dire che il rimborso non è andato a tutti i pensionati perché non sarebbe stato «equo», mentre in realtà, e più semplicemente, non sarebbe stato possibile. Oppure si sostiene ormai abitualmente che il sistema «retributivo», quello dei padri e dei nonni già in pensione, è «iniquo», un furto al quale verrà presto posto rimedio con la restituzione del maltolto, mentre il sistema contributivo, quello dei figli, sarebbe «equo».

Si crea così una costante ansia nei destinatari delle prestazioni dello Stato sociale, un guardarsi l’un l’altro in cagnesco, tra categoria e categoria, e anche una pericolosa incertezza sul futuro: probabilmente anche per questo i consumi non ripartono come dovrebbero, perché in attesa di capire come va a finire questa «rivoluzione» molti preferiscono ricostituire il risparmio bruciato dalla crisi, non si sa mai. Si ingenerano oltretutto aspettative eccessive: non c’è gruppo sociale che prima o poi non avvertirà il suo sacrosanto diritto di ricevere anch’esso un bonus, o di vedersi destinato il famoso «tesoretto» (a proposito, il termine porta davvero male, basta evocarlo e sparisce nel giro di poche ore), o di essere stabilizzato (una delle ragioni della tensione sulla riforma della scuola sta nel fatto che si è distinto tra i precari meritevoli di assunzione e quelli che invece dovevano ritornare in purgatorio).

Ma soprattutto non sempre si fa davvero giustizia sociale. Due esempi. Per giudicare l’equità di un trattamento pensionistico si usa spesso il metro dell’entità dell’assegno: più alto è, più iniquo è. Ma in realtà il vituperato sistema retributivo penalizza le pensioni più alte, per redditi superiori ai 45 mila euro, cosa che con il contributivo non avverrà. Inoltre non si usa mai un altro criterio: e cioè per quanti anni si è versato contributi. Pensate che in Italia si pagano ancora 9 miliardi e mezzo l’anno ai baby pensionati che hanno lavorato 14 anni, 6 mesi e un giorno. Magari non sono pensioni alte, ma forse sono più inique di quelle alte però frutto di quaranta anni di lavoro. D’altra parte, questa accusa di iniqua generosità verso gli anziani mossa al retributivo non sempre ha fondamento. Ci sono quasi cinque milioni di pensionati col retributivo che non raggiungono nemmeno il minimo (intorno a 500 euro), tant’è che lo Stato versa ogni anno all’Inps 25 miliardi per integrare il loro assegno. Mentre a danneggiare i lavoratori giovani non è certo il contributivo, sistema che anzi consente di utilizzare tutti i contributi versati nella vita lavorativa, ma la precarietà occupazionale, le lunghe pause di disoccupazione o sottoccupazione, tutte cose con cui il regime pensionistico c’entra ben poco.

Sarebbe dunque consigliabile non usare con leggerezza l’argomento dell’equità. Accendere l’invidia sociale tra classi di età e categorie di lavoro può essere utile per dividere e imperare sull’opinione pubblica, ma danneggia gravemente la coesione nazionale. E Dio sa quanto un Paese in bilico tra uno scatto verso la crescita e una ricaduta nella depressione ne abbia bisogno.

20 maggio 2015 | 09:43
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_maggio_20/mito-giustizia-sociale-puo-essere-alibi-ingannevole-061a4fac-fec2-11e4-ab35-8ecb73a305fb.shtml


Titolo: Antonio POLITO - Dopo le regionali Gli alleati che servono a un leader
Inserito da: Admin - Giugno 02, 2015, 11:55:52 am
Dopo le regionali
Gli alleati che servono a un leader

Di Antonio Polito

Anche dopo le Regionali, Renzi resta il dominus della politica italiana. Non era scontato. Nella notte elettorale è stato a soli sessantacinquemila voti dalla sconfitta. È la distanza che separa in Campania De Luca da Caldoro. Avesse perso anche a Napoli, oltre che a Genova e in Veneto, oggi racconteremmo un’altra storia. Forse adesso è più chiaro perché il premier ha sfidato la logica e la legge per sostenere il candidato-condannato: in realtà era lui ad aver bisogno di De Luca.

Così la partita è finita con un pareggio, una Regione persa e una presa, tutto sommato non male per uno che governa da un anno e mezzo. Renzi era abituato a levitare nei sondaggi come il guru del film di Sorrentino. Il voto di domenica lo ha riportato con i piedi per terra, ma senza farlo sbattere.

È scomparso invece nelle urne il Partito della Nazione, come era stato definito il Pd renziano, che un anno fa alle Europee prendeva il 40% e che ambiva a ereditare i voti berlusconiani in libera uscita. È stato sostituito dal solito Pd, fatto di baronie locali al Sud e di stagionati mandarini nelle regioni rosse. Più ancora che in Liguria, il progetto di sfondamento al centro esce sconfitto dal Veneto, dove il Pd torna all’irrilevanza dei tempi diessini, schiacciato dalla Lega e mangiucchiato dai centristi di Tosi. E lì non si può neanche dare la colpa alla minoranza interna. Se si fosse già chiusa la finestra di opportunità apertasi appena un anno fa nella Valle Padana, cuore politico e sociale del moderatismo italiano, il nuovo partito di Renzi sarebbe già vecchio.

Tutto ciò chiama in causa il problema delle alleanze, politiche e sociali. Il percorso di riforme avviato dal governo deve proseguire, non è certo meno necessario. Ma per riprendere il passo, forse il premier dovrà rinunciare a qualche tifoso per cominciare a farsi qualche alleato. La solitudine del leader è una condizione quasi inevitabile, ma il riformismo dall’alto è un errore già visto. La ricerca spesso deliberata dello scontro con i corpi intermedi non ha dato stavolta i frutti sperati. Così si rischia di pagare il prezzo più alto proprio quando si ha più ragione, come sulla scuola.

Paradossalmente Renzi potrebbe essere aiutato in questa maturazione da un altro effetto del voto regionale. Il secondo posto, il ruolo cioè di potenziale sfidante al ballottaggio dell’Italicum, non è andato ai Cinque Stelle, nonostante l’ottimo risultato, ma a un centrodestra che nessuno sa esattamente cosa sia e da chi possa essere guidato, ma tutti hanno capito che esiste e che quando è unito, anche alla bell’e meglio, è ancora in grado di vincere, come in Liguria. Per il premier è una buona notizia, può aiutarlo a evitare peccati di orgoglio. Un’opposizione competitiva fa bene ai governi. Sta a Renzi sfruttare al meglio il tempo, non breve, che ci vorrà prima che diventi una reale alternativa.

2 giugno 2015 | 09:04
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_giugno_02/gli-alleati-che-servono-un-leader-5d9c7a5a-08e7-11e5-8a3c-2c409b81767d.shtml


Titolo: Antonio POLITO - Sinistra di governo Pensieri e parole da ritrovare
Inserito da: Admin - Giugno 21, 2015, 05:20:20 pm
Le sconfitte socialdemocratiche
Sinistra di governo
Pensieri e parole da ritrovare
La caduta dei socialdemocratici in Danimarca e quel che significa

Di Antonio Polito

Come i dinosauri, anche il gigante della socialdemocrazia rischia l’estinzione? Le dimissioni presentate ieri alla regina di Danimarca da Helle Thorning-Schmidt, la più glamour dei leader della sinistra europea (Renzi escluso), sembrano l’ultimo segno di un destino crudele, e forse irreversibile, che si sta abbattendo sulla storia centenaria del riformismo. La vicenda danese è altamente simbolica. La giovane premier, sposata col figlio di Neil Kinnock, storico capo del laburismo britannico, non esce infatti di scena per una delle solite oscillazioni del pendolo elettorale; ma è stata travolta dal boom di quella destra anti-immigrati che dal circolo polare in Norvegia fino alla linea gotica in Italia sta rubando voti alla sinistra in nome di un «sacro egoismo» nazionale.

È il male oscuro che divora le radici di una storia ispirata all’uguaglianza e alla fraternità. Per tenere insieme i suoi valori la socialdemocrazia ha sempre avuto bisogno di molti soldi, di crescita economica e forte tassazione, per pagare un sistema di welfare che è diventato il vanto del Vecchio Continente, ma oggi ne è anche la soma. La spesa pubblica non può più essere la misura della giustizia sociale, e la sinistra riformista non ha ancora trovato un altro modo di finanziarla. A soffrirne di più sono proprio gli elettori del tradizionale blocco sociale progressista. Nei quartieri dove sono nati il sindacato e il movimento cooperativo ora si aggirano disoccupati, giovani maschi arrabbiati, ceti medi impoveriti ed esposti alla concorrenza dei nuovi arrivati per la casa, per il lavoro, per l’assistenza.

Nelle società senza poveri, in Svizzera o negli Emirati, i lavoratori stranieri fanno meno paura, anzi, sono accettati come i nuovi servi. Ma non è così a Rotterdam, ad Anversa, o a Dresda. La sinistra riformista ha finora trovato una sola risposta: l’appello alla tolleranza e al cosmopolitismo. Ripete l’antico mantra di Roosevelt, non dobbiamo aver paura che delle nostre paure. Ma la gente ha paura lo stesso. Anche quando non va a destra, è attratta da un nuovo populismo non meno nazionalista, come Syriza in Grecia, Podemos in Spagna, e Grillo in Italia. La socialdemocrazia sta perdendo la battaglia delle idee. E se un movimento politico smette di saper parlare al presente può anche estinguersi, come successe ai liberali inglesi in pochi anni dopo la Grande guerra, o come profetizza Houellebecq accadrà tra breve ai socialisti francesi. Per quanto Renzi non faccia parte, né per cultura né per stile, della storia della sinistra socialdemocratica, neanche il suo Pd può ritenersi immune da questo sommovimento continentale. Neanche la ripresa economica, di per sé, mette oggi al riparo dalla rabbia e dalla paura. Alla danese Helle, di certo, non è bastata.

20 giugno 2015 | 08:46
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DA - http://www.corriere.it/editoriali/15_giugno_20/sinistra-governo-pensieri-parole-ritrovare-dcf8a898-1709-11e5-86ef-d7e3d30aa75b.shtml



Titolo: Antonio POLITO Castiglione e Marino: cosa spiega la disparità di trattamento?
Inserito da: Admin - Giugno 25, 2015, 07:49:08 pm
Un nuovo galateo delle dimissioni per distinguere tra sommersi e salvati
Castiglione e Marino: cosa spiega la disparità di trattamento?

Di Antonio Polito

Ci vorrebbe un Giovanni della Casa, che scrivesse un moderno galateo delle dimissioni. Perché, e non da oggi, non ci si capisce più niente. Mettete il caso Roma. Si sa che il premier vedrebbe di buon occhio le dimissioni del sindaco Marino, il che conferma il suo ottimo orecchio per gli umori popolari. Ma appena ieri lo stesso premier ha chiesto e ottenuto dalla Camera di respingere la richiesta di dimissioni del sottosegretario Castiglione. I due uomini politici sono accomunati dal fatto di essere finiti nella bufera dell’inchiesta giudiziaria di Mafia Capitale; solo che Marino non è indagato, e anzi molti giurano pubblicamente sulla sua onestà, mentre Castiglione è indagato per turbativa d’asta, a proposito degli affari di Odevaine nel centro di accoglienza di Mineo. Che cosa spiega questa disparità di trattamento?

Sembrerebbe chiaro che nella scelta tra i sommersi (Marino) e i salvati (Castiglione) sia prevalso un benemerito rifiuto del cosiddetto «giustizialismo»: la nuova politica non vuole più prendere ordini dalle procure. Ma qual è allora il criterio squisitamente politico che è stato seguito? Marino deve cadere perché fa perdere voti al suo partito (Pd), mentre Castiglione deve restare perché li fa prendere al suo (Ncd)? Oppure ancora, più brutalmente, Marino se ne deve andare perché ogni giorno in più alla guida del Comune di Roma in evidente stato di alterazione danneggia Renzi, mentre la cacciata di Castiglione danneggerebbe Alfano e di conseguenza il governo Renzi?

In entrambi i casi, comprendiamo le ragioni della politica. Del resto sono le stesse che hanno finora sconsigliato di far dimettere i sottosegretari a vario titolo indagati ma hanno consigliato di far dimettere il ministro Lupi non indagato. E che consigliano di sospendere al più presto - come ieri ha promesso Renzi - il governatore fantasma della Campania Vincenzo De Luca condannato in primo grado e ciononostante candidato ed eletto.

24 giugno 2015 | 09:30
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_giugno_24/marino-castiglione-sommersi-salvati-pd-ncd-aca15718-1a41-11e5-9695-9d78fe24c748.shtml


Titolo: Antonio POLITO Una mossa per evitare il peggio
Inserito da: Admin - Luglio 09, 2015, 07:19:49 pm
Una mossa per evitare il peggio

Di Antonio Polito

I leader europei, tra i quali bisogna comprendere fino a prova contraria anche Alexis Tsipras, si trovano di fronte a quello che Immanuel Kant avrebbe definito un imperativo categorico: salvare la Grecia senza dannare l’Europa. Salvare la Grecia è ciò che hanno chiesto a gran voce gli elettori nel referendum di Atene, una vera e propria irruzione della democrazia diretta nella sofisticata architettura inter-governativa dell’Unione.

Ma Merkel e Hollande hanno ragione quando ricordano che la democrazia esiste anche negli altri 18 Paesi dell’euro, e che nessuno di questi può essere costretto ad accettare una soluzione che spazzi via le regole su cui si regge il condominio, così mettendo l’Europa nelle mani di ogni demagogo che volesse agitare la bandiera del ricatto nazionalista.

Stretti in questo paradosso, mai così vicini all’abisso, barcollanti come novelli sonnambuli, i leader dell’Unione sembrano però essersi fermati ieri a un passo dall’irreparabile. Ha cominciato il governo Tsipras, offrendo al resto dell’Europa le dimissioni (o il licenziamento) dell’eroe simbolo della rivolta greca. L a notizia che Varoufakis non sarà più al tavolo del negoziato è talmente buona per i fautori di un compromesso che ha perfino rallentato la caduta dei mercati, evitando che si trasformasse in panico (ed è stata accolta con entusiasmo anche dall’agente letterario del ministro-star, il quale ha subito cominciato a far circolare estratti del suo ultimo libro). Alla notizia greca ha fatto seguito il pronunciamento dell’asse franco-tedesco che, pur essendo sempre più tedesco e meno franco, ha adottato la parola d’ordine delle «porte aperte». Considerando che l’ultima volta a sbattere la porta era stato il governo greco, lasciando la trattativa e convocando il referendum, è un passo avanti.

Infine è arrivato il segnale del Fondo Monetario, che si è dichiarato disposto ad «aiutare la Grecia» se gli sarà proposto un piano di rientro; una posizione che sembra fatta apposta per assecondare le pressioni dell’amministrazione Obama, ansiosa di mettere pace tra gli europei e di evitare una nuova turbolenza sull’economia globale. Ma il peggio non è affatto evitato. Il tempo scorre inesorabile. Le scelte del governo greco, seppure sostenute dall’elettorato, comportano che le banche resteranno chiuse per altri due giorni e chissà fino a quando, agli sgoccioli di liquidità. Tra tredici giorni appena scade la rata di 3 miliardi e mezzo che la Grecia deve alla Bce, e se non sarà rimborsata Draghi non potrà più prestare soldi a chi non ha garanzie da offrire. Resta poi intatto l’enorme problema del debito greco: tagliarlo, o anche ristrutturarlo, sarebbe vitale per Tsipras ma potrebbe essere letale per Merkel, che non saprebbe come spiegarlo ai tedeschi (anche loro votano).

In definitiva si è tornati, solo in condizioni un po’ peggiori, allo stallo di una settimana fa, che poi era lo stallo di una settimana prima e di quella prima ancora. La Grecia è stata nella sua storia la patria della razionalità classica, ma anche della tortuosità levantina. Sarà bene che prevalga la prima. L’onere della mossa iniziale tocca al suo governo, che se l’è conquistato con il plebiscito ottenuto da Tsipras. Speriamo che sia una mossa saggia.

7 luglio 2015 | 08:24
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_luglio_07/mossa-evitare-peggio-dd7dd33a-2468-11e5-8714-c38f22f7c1da.shtml


Titolo: Antonio POLITO Il grande collasso di Roma
Inserito da: Admin - Luglio 30, 2015, 10:14:19 pm
Il grande collasso di Roma
È importante capire, e sempre meno sembra capirlo l’opinione pubblica nazionale, che Roma non è così perché è Roma, ma perché è Italia

Di Antonio Polito

Si dice che la fortuna è cieca, ma la sfortuna ci vede benissimo. Deve esserci dunque una ragione se ha deciso di accanirsi con tanta sadica ostinazione su Roma, facendo della Capitale l’epicentro e il simbolo della crisi italiana.

Per quanto eterna, la città ricorderà a lungo questa estate nera, un vero e proprio groviglio di fallimenti tecnici, errori umani, sabotaggi e disfatte morali. Guardate che cosa è successo nella sola giornata di ieri. L’aeroporto di Fiumicino, porta d’ingresso e di uscita del turismo nazionale, è rimasto bloccato per la seconda volta in pochi mesi a causa di un incendio, stavolta pare doloso, al punto che Alitalia minaccia di lasciarlo, avendo già subito danni per 80 milioni di euro. Renzi ha chiamato Alfano e gli ha detto che è «impensabile» che un hub così importante sia bloccato da incidenti o peggio ancora da azioni criminali. Ma invece è pensabilissimo, sono mesi che Fiumicino è un inferno. A sei chilometri di distanza, a Ostia, le Fiamme gialle hanno sequestrato su ordine della procura il porto turistico della città, coinvolto nell’inchiesta su Mafia Capitale. E mentre in Campidoglio si cambiava la terza giunta in poco più di un anno e mezzo, il Viminale faceva sapere che l’inchiesta giudiziaria ha rivelato «gravissimi episodi» nell’attività dell’amministrazione Marino, che il sindaco ha sottovalutato. Tutto ciò mentre il presidente del Consiglio non manca di farci sapere ogni giorno che quel sindaco, per incidens del suo partito, non è all’altezza di Roma, ma che Roma è all’altezza delle Olimpiadi del 2024. Meno male che a ottobre comincia il Giubileo, una benedizione divina è a questo punto fortemente opportuna.

Il collasso capitale ha però una spiegazione umana, molto umana. L’intera struttura logistica e di servizi sta crollando sotto il peso di una manutenzione a lungo trascurata. Le società complesse sono vulnerabilissime, si fondano su meccanismi automatici e sulla fiducia nel fatto che funzionino, basta un filo elettrico scoperto o un mucchio di sterpaglia non rimossa per rovinare le vacanze di migliaia e migliaia di persone. La manutenzione è la chiave della modernità, e se smetti di farla, o non hai più i soldi per farla, o non hai più le competenze per farla, scivoli in un istante dal primo al secondo mondo, dall’Europa al Maghreb. Che è, più o meno, ciò che sta accadendo a Fiumicino, o alle strade di Roma minate dalle buche, o agli autobus dell’Atac perennemente guasti; ciò che ha denunciato il Corriere nella sua inchiesta sul Grande Degrado con gli articoli di Rizzo e Stella. Figurarsi poi se all’incuria si aggiunge il sabotaggio.

Ma anche la corruzione, la penetrazione dei poteri criminali, l’asservimento del denaro pubblico alla avidità privata, in fin dei conti è un problema di manutenzione. Politica ed etica. Anche in quel campo ci vogliono persone capaci e vigili al comando, a prevenire e a controllare che prevalga sempre l’interesse generale. Quello che la giunta Marino non è riuscita a garantire. Quando il sindaco si difende dalle accuse dicendo che il sistema Mafia Capitale non è stato prodotto da lui ha ragione. Ma la sua colpa non è ciò che ha fatto, è ciò che non ha fatto mentre era lui di guardia, ed è lecito dubitare riesca a farlo ora che ha scambiato un paio di assessori con un paio di deputati. È però importante capire, e sempre meno sembra capirlo l’opinione pubblica nazionale, che Roma non è così perché è Roma, ma perché è Italia.

Non si può passare in un anno dalla esaltazione planetaria per la sua grande bellezza alla denigrazione antropologica di una città e del suo popolo. Una celebre inchiesta giornalistica dell’Espresso degli anni Cinquanta titolava «Capitale corrotta, Nazione infetta». Temo che oggi la metafora si sia rovesciata, e che sia la Nazione infetta a mostrare la sua ferita più purulenta sul volto deturpato della Capitale. È il governo della Repubblica, in una parola, che si gioca su Roma una parte cospicua della sua credibilità internazionale e affidabilità interna. Il giochino dello scaricabarile tra Campidoglio e Palazzo Chigi deve insomma finire. Tra i due Palazzi ci sono poche centinaia di metri di distanza. Parlarsi non dovrebbe essere un problema, almeno finché reggono le linee telefoniche.

30 luglio 2015 (modifica il 30 luglio 2015 | 14:15)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_luglio_30/grande-collasso-roma-be050ee8-3678-11e5-99b2-a9bd80205abf.shtml


Titolo: Antonio POLITO La nuova anomalia Se i politici usano la giustizia
Inserito da: Admin - Agosto 02, 2015, 04:31:02 pm
La nuova anomalia
Se i politici usano la giustizia

Di Antonio Polito

Un magistrato che accusa i politici di uso politico della giustizia è un’autentica novità, dopo vent’anni passati a discutere fino allo sfinimento dell’opposto, e cioè dell’invasione di campo dei giudici nella lotta politica. Eppure è proprio ciò che ha detto il procuratore capo di Palermo, Lo Voi, con la coraggiosa intervista rilasciata ieri a Giovanni Bianconi: «È un’anomalia italiana la tentazione di agganciare ogni tentativo di ribaltamento degli equilibri politici a qualche iniziativa della magistratura, come se la politica avesse sempre bisogno di un appiglio giudiziario a cui attaccarsi, prima di muoversi».

Lo Voi si riferisce alla kafkiana vicenda di Palermo, dove il Pd sembra approfittare, per liberarsi del suo presidente di Regione, di una molto presunta intercettazione, che il povero procuratore si affanna a giurare inesistente, ma tutti continuano a far finta che ci sia, pur di costruire un «contesto» sciasciano che condanni Crocetta e promuova Faraone, il sostituto designato. Ma Palermo non è l’unico caso di questa nouvelle vague. Roma è l’altro. Anche lì un’inchiesta, Mafia Capitale, è usata come detonatore di una campagna contro il sindaco Marino, le cui dimissioni meritavano di esser chieste per le buche e la sporcizia della città forse più che per il suo (scarso) ruolo nei fatti penali: politica a orologeria si potrebbe chiamarla, parafrasando la vecchia polemica contro la giustizia a orologeria. E anche lì un procuratore, Pignatone, è stato chiamato a districare nodi politici non suoi, dovendo esprimersi sull’ipotesi di scioglimento del Comune per mafia.

Aggiungerei all’elenco anche il giudice di Napoli cui è stato chiesto di risolvere il pasticcio De Luca, creato dal Pd candidandolo nonostante la legge Severino, e che ha rinviato ad altri giudici, stavolta costituzionali, il verdetto finale sull’intricata storia. Sono tutte vicende che segnalano una fase nuova, ma non meno malata, del rapporto giustizia-politica. Stavolta i magistrati ne sono incolpevoli, hanno anzi spesso il merito di tirarsi fuori come Lo Voi e Pignatone, precisando che il loro compito «è fare indagini e processi, senza doppi fini e senza intenti pedagogici». Si vede che non intendono comportarsi, passando direttamente dalle inchieste sui politici allo scranno del politico, come hanno fatto Emiliano in Puglia e de Magistris a Napoli, o come ha provato a fare Ingroia. Ciò che denunciano è il frutto marcio di una lunga stagione in cui una vera e propria dipendenza dalle inchieste è entrata nelle vene della nostra democrazia, assuefacendola. Ora sul palcoscenico ci sono politici più giovani e più smaliziati perché nati nel post-tangentopoli, che hanno imparato a usare questa patologia nazionale, invece che esserne usati. Ma siamo ben lontani dalla guarigione. Anzi. Se proprio le inchieste devono avere un «uso politico», verrebbe da dire, meglio fidarsi della giustizia, che almeno ha tre gradi di giudizio, piuttosto che del giudizio politico, per sua natura interessato, volubile e fazioso.

23 luglio 2015 (modifica il 23 luglio 2015 | 07:19)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_luglio_23/se-politici-usano-giustizia-voi-crocetta-de-luca-bdd178f0-30f9-11e5-baf0-7fcacd4a9aca.shtml


Titolo: Antonio POLITO Renzi, lo stallo e tre vie d’uscita
Inserito da: Admin - Agosto 16, 2015, 04:43:05 pm
La fragilità della maggioranza
Renzi, lo stallo e tre vie d’uscita
Per quanto il governo dica di avere i numeri, la realtà è che oggi i numeri a Palazzo Madama non li ha. Dunque il premier ha un problema, e deve risolverlo

Di Antonio Polito

Chi nasce tondo non può morire quadrato, dice il proverbio. Nessuna meraviglia quindi se il Senato, privo fin dall’inizio di una maggioranza politica, sembra tornato a essere la Fossa delle Marianne della legislatura. Per quanto il governo dica di avere i numeri, la realtà è che oggi i numeri a Palazzo Madama non li ha. Non li ha per la riforma costituzionale che abolirebbe il Senato elettivo (prima o poi devono essere 161, ed è risaputo che i capponi non votano per il Natale); ma potrebbero mancargli anche ogni volta che la minoranza pd decide di scavarsi una trincea identitaria. Dunque il premier ha un problema, e deve risolverlo. Finora ha praticato il divide et impera, ha assecondato la frantumazione delle forze parlamentari, ha osservato benevolmente il via vai di fuoriusciti e scissionisti, convinto che più nani ci sono in giro più lui giganteggia. La nuova legge elettorale, l’Italicum, codifica anche per il futuro questa aritmetica, togliendo valore alle coalizioni. Ma ora Renzi, al giro di boa della legislatura, deve provare a riattaccare qualche coccio, a coalizzare un arco di forze che vada oltre la sua maggioranza; perché questa, da sola, è oggi minoranza al Senato.

Le vie che Renzi può seguire sono tre. La prima è la più pragmatica. Consiste nello strappare un numero consistente di senatori pd al fronte del dissenso. Ma devono essere molti. Se Renzi non riesce almeno a dimezzare il gruppo Gotor-Chiti, gli «aiutini» esterni su cui conta potrebbero non essere sufficienti. La scissione di Verdini, che è sembrata più concessa che subita da Berlusconi, può essere un veicolo per nuovi soccorsi sottobanco, ma entro certi limiti. Pareggiare così 24/26 voti contrari nel Pd non è possibile. Staccarne 10/12 non è affatto facile. In più l’operazione si baserebbe troppo sui trasformisti, base fragile per governare.

La seconda via è quella di uno scambio politico alla luce del sole. La minoranza pd voterebbe anche domattina il Senato non elettivo se fosse garantita da una legge elettorale con il premio alla coalizione invece che alla lista. Sarebbe la sua assicurazione sulla vita, in caso di scissione. Forza Italia ne ha a sua volta bisogno per allearsi con Salvini. E ai centristi, se vogliono davvero andare alle elezioni col Pd, servirà comunque una lista, non potendo confluirvi. Molti renziani la considererebbero una resa senza condizioni; ma se Renzi accettasse pubblicamente di ritoccare l’Italicum la partita politica cambierebbe in un istante. Non è escluso che nel prossimo dibattito in Senato sulla riforma costituzionale spunti qualche ordine del giorno che chieda al governo di farlo.



La terza via, la più impervia ma anche la più ambiziosa, sarebbe tornare al punto da cui è partita la legislatura, e cioè a un patto tra il Pd e Berlusconi. Non potrebbe essere una riedizione del Nazareno, accordo troppo oscuro e ambiguo, e comunque fallito con l’elezione di Mattarella, uomo che non l’avrebbe garantito. Oggi molti ne parlano, sia nel Pd che in Forza Italia, come di un accordo di coalizione che dia stabilità al governo; anche se nessuno sa che cosa esattamente sia, e ognuno aggiunge sempre nuovi ingredienti alla trattativa, come la giustizia. È perfino riapparso Gianni Letta, con un mezzo mandato a trattare, di cui ha fatto ampio uso nella vicenda Rai.

Si tratterebbe in ogni caso di un vero e proprio riallineamento del sistema politico, perché staccherebbe Berlusconi dalla destra di Salvini e porterebbe il Pd a una scissione con la sinistra. Forse una rotta troppo ambiziosa per chi naviga a vista. Ma Renzi è incline alla mossa del cavallo, e qualcosa dovrà pure tentarla. Non è un caso se si è tenuto finora nel manico la carta del rimpasto di governo, atteso da mesi. Non si sa mai.

13 agosto 2015 (modifica il 13 agosto 2015 | 07:44)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_agosto_13/renzi-stallo-tre-vie-d-uscita-5c966a7e-4179-11e5-b414-c15278464aa4.shtml


Titolo: Antonio POLITO Noi e le crisi in Asia I meriti che ha l’Europa
Inserito da: Admin - Settembre 02, 2015, 04:35:54 pm
Noi e le crisi in Asia
I meriti che ha l’Europa

Di Antonio Polito

Questa estate del settantesimo anniversario dalla fine della guerra l’Europa l’ha trascorsa a litigare sull’euro, ma l’Asia la sta passando a parlare di guerra. Domani la Cina comunista celebrerà per la prima volta, ascrivendosela, la vittoria contro il Giappone, con un’esibizione di potenza militare tanto più minacciosa perché inscenata in quella piazza Tienanmen dove l’Esercito Popolare fu usato contro il suo popolo (tra parentesi: era proprio necessario mandarci il nostro ministro degli Esteri? Non bastava un ambasciatore, come hanno fatto Usa e Germania?). Né è meno surriscaldato il clima nel Paese sconfitto: in Giappone infuria il dibattito sul riarmo, il governo reinterpreta e forse emenda l’articolo 9 della Costituzione, caposaldo del pacifismo nipponico post Hiroshima, con l’ambizione di riappropriarsi del diritto di usare le forze armate; e gli studenti protestano riempiendo la piazza di Tokyo come se fossero gli anni 60, insieme alle star della musica e della tv si schierano contro il premier Abe.

Territori restano contesi, tra il Giappone e la Russia, tra il Giappone e la Cina. La Corea del Nord è uno Stato canaglia che gioca col nucleare. Tokyo si sente accerchiata, sempre meno protetta da un’America stanca di guerra, teme di non potersi più permettere il pacifismo e appare sempre più stufa di dover chiedere continuamente perdono ai suoi ex nemici (per l’agenzia di stampa ufficiale di Pechino l’attuale imperatore Akihito dovrebbe scusarsi con la Cina a nome del padre defunto Hirohito, riaprendo così la questione imperiale). Il Giappone riscopre il nazionalismo e lo nutre di un revisionismo storico che celebra, insieme alle vittime della guerra, anche i criminali di guerra sepolti con loro, e sempre più spesso tenta di ridimensionarne i crimini, a partire dallo stupro di Nanchino del 1937.

Per un europeo è sorprendente assistere al perdurare, e addirittura all’incrudelirsi di un così forte rancore per vicende storiche da cui ci dividono tre o quattro generazioni. I regimi asiatici sfruttano il patriottismo fino al punto di inventare tradizioni, per controllare il passato e far dimenticare i guai dell’oggi. È come se in Europa la Francia dedicasse una parata militare e una settimana di ferie dal lavoro a celebrare la sconfitta della Germania, o un giornale tedesco pretendesse le scuse di Elisabetta II per il bombardamento a tappeto di Dresda del 1945.

Ma la ragione per cui tutto ciò ci sembra assurdo e anacronistico non è perché la storia non si possa ripetere se non come farsa: basta guardare a ciò che sta accadendo in queste ore in Ungheria per capire che gli esseri umani sono capacissimi di ripetere anche la tragedia. Ciò che in Europa è diverso è l’atto di volontà politica con cui ci siamo buttati alle spalle il nostro tragico Novecento dando vita a una Unione tra gli Stati che si erano combattuti, trasformando cioè la fine della guerra in vera pacificazione, e l’antagonismo militare in cooperazione economica. I venti che soffiano in Asia, continente in cui questo processo non è mai nemmeno cominciato, dovrebbero ricordarcelo.

Aver messo fine alle guerre non è un merito obsoleto dell’Europa buono solo per la cerimonia del Nobel per la pace, qualcosa di così scontato e di così lontano dalle nuove generazioni da non giustificare più la fatica, le pecche e gli errori dell’Unione. Tutto sommato, è molto meglio litigare sull’euro che sul riarmo. Perfino la crisi dei migranti è una conseguenza di questo successo storico. L’Europa è un’oasi di pace circondata da un mare di guerre, attrae chi ama la vita come una calamita. O, se vogliamo, come un faro di civiltà nella notte infinita dell’odio tra i popoli.

2 settembre 2015 (modifica il 2 settembre 2015 | 07:04)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_settembre_02/i-meriti-che-ha-europa-crisi-asia-904b70c4-512f-11e5-addb-96266eadb506.shtml


Titolo: Antonio POLITO Test di maturità per i Cinque Stelle
Inserito da: Arlecchino - Settembre 11, 2015, 11:00:48 am
Di Maio e la selezione dei leader
Test di maturità per i Cinque Stelle
Nel movimento più carismatico di tutti, scaturito da un’ondata di anti-politica senza paragoni, si affermerebbe un processo di selezione del leader squisitamente politico

Di Antonio Polito

Se fosse vera anche solo metà delle chiacchiere che si fanno su Luigi Di Maio, e che lo danno lanciato come candidato premier del Movimento Cinque Stelle alle prossime elezioni, ci troveremmo di fronte a un fatto nuovo della nostra vita democratica, a una sua maturazione. Nel movimento più carismatico di tutti, sorto come d’incanto intorno alla verve oratoria di un comico, nel pieno di un’ondata anti-politica senza paragoni in Europa, si affermerebbe infatti un processo di selezione e di formazione della classe dirigente squisitamente politico. E nel senso buono: basato cioè sulle competenze e sulla capacità di creare consenso, non sulla lotta tra correnti e i lunghi coltelli delle preferenze.

Di Maio ha l’aria di un bravo ragazzo, con i capelli più corti e gli occhi meno indemoniati di un Grillo o di un Casaleggio; eppure sembra al contempo capace di garantire anche l’elettorato tradizionale grillino, col sostegno del fondatore. Ma anche se a prevalere fosse un altro dei tre cavalli di razza del M5S, ci troveremmo ugualmente davanti a una svolta. P er chiunque di loro la promozione a leader e portabandiera sarebbe infatti un premio assegnato alla attività parlamentare: dunque un sigillo al processo di transizione da un movimento gravido di pulsioni anti-parlamentari, e perfino sfiorato da qualche tentazione extraparlamentare, a una forza politica certamente originale e anomala, ma pienamente inserita nel gioco della democrazia rappresentativa.

Non è cosa da poco, trattandosi di un polo che attrae tuttora un quarto degli elettori italiani, e che ha dimostrato nel tempo di non essere un fuoco di paglia, radicandosi in maniera perfino sorprendente nelle abitudini di voto degli italiani. Il che vuol dire che interpreta un’esigenza e riempie un vuoto non colmato anche nell’epoca di Renzi (e la leggina con cui i partiti si sono appena condonati i bilanci spiega bene di che natura sia). A livello del governo locale poi, dove non sono impacciati dal peso di proposte economiche ancora un po’ naïf, i grillini possono contare su una immagine di forza moralizzatrice, da guardian angels della cosa pubblica, che li rende elettoralmente competitivi anche a prescindere da Grillo (la ragione per cui non si vota subito a Roma, o in Sicilia, è proprio la concreta probabilità di vittoria dei Cinque Stelle).
Il Movimento ha insomma bisogno di compiere il salto di qualità di una leadership per così dire laica, e credibile. Ma non basta mettersi la cravatta e buttare le scie chimiche: perché funzioni questa operazione deve essere vera, sincera. Di Maio, o chi per lui verrà scelto per correre alle prossime elezioni, non può essere un puro prestanome, al quale è impedito in partenza di introdurre le necessarie innovazioni. La prima delle quali, condizione indispensabile per fare davvero politica, è la possibilità di stringere alleanze senza dannarsi l’anima, per strappare così risultati concreti. È questa infatti l’essenza stessa della democrazia parlamentare: nella quale uno vale uno, ma non vale niente finché non conquista una maggioranza.

11 settembre 2015 (modifica il 11 settembre 2015 | 07:15)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_settembre_11/test-maturita-cinque-stelle-f88da78c-5842-11e5-8460-7c6ee4ec1a13.shtml


Titolo: Antonio POLITO Con Corbyn si amplia il fronte populista
Inserito da: Arlecchino - Settembre 15, 2015, 04:44:14 pm
Con Corbyn si amplia il fronte populista
Il nuovo leader del partito laburista britannico ha simpatie per il greco Syriza e lo spagnolo Podemos, ma il suo programma ha punti in comune con le formazioni antisistema di destra, compreso il francese Front National

Di Antonio Polito

Ora la Gran Bretagna non ha solo il Regno più vecchio, ma anche il Partito laburista più antico della sua storia. A dire il vero Jeremy Corbyn, leader di questa nuova era elisabettiana della sinistra inglese, fosse per lui licenzierebbe la monarchia; farebbe anche uscire il Regno Unito dalla Nato, nazionalizzerebbe ferrovie, gas ed energia, aumenterebbe le tasse, e si alleerebbe agli «amici» di Hamas ed Hezbollah. È difficile immaginare qualcosa di paragonabile nella pur variopinta sinistra italiana (anche se adesso diventeranno tutti corbyani). È come se Gino Strada fosse stato eletto leader del Pd. L’evento è così eccezionale che appena tre mesi fa i bookmaker lo davano 200 a 1. Blair aveva consigliato un trapianto di cuore ai militanti il cui cuore batteva per Corbyn. Detto fatto: da ieri il Labour si è davvero strappato dal petto il suo cuore blairiano.

Eppure, a pensarci bene, la svolta inglese è tutt’altro che sorprendente. Il voto dei circa quattrocentomila iscritti e simpatizzanti che a grande maggioranza hanno scelto Corbyn si iscrive anzi alla perfezione nella lunga serie di tsunami che ha scosso gli elettorati di tutto l’Occidente dopo il trauma della Grande Crisi. Lo stesso Corbyn si paragona a Bernie Sanders, il socialista del Vermont che sta dando nei sondaggi e nelle piazze filo da torcere alla moderata Hillary Clinton; o a Syriza, il rassemblement che ha letteralmente ucciso il partito socialista in Grecia e ha strappato il potere ai conservatori (anche se non è detto che lo conservi dopo le prossime elezioni); o a Podemos, il movimento che si candida in Spagna come discendente diretto delle piazze degli indignados. Vi si potrebbe aggiungere un altro formidabile fenomeno analogo, l’ascesa improvvisa dei Cinque Stelle in Italia da zero al 25 per cento (e forse, al momento, di più). Niente di tutto questo era prevedibile, eppure è successo.

Inutile scervellarsi su quale sia l’elemento programmatico comune alle forze che stanno letteralmente mandando in soffitta la tradizionale sinistra socialdemocratica, sbaragliata in Gran Bretagna, ansimante nei Paesi Nordici, minoritaria in Francia, gregaria in Germania. Non sono i programmi il forte dei nuovi populismi. Quello di Corbyn, poi, sembra del tutto irrealizzabile visto che dei 232 parlamentari laburisti il 90% lo considera un suicidio. Ciò che spinge questi movimenti è piuttosto la voglia di dar voce a un sentimento: la rivolta dei piccoli e deboli contro l’establishment, la rabbia contro l’uno per cento dei ricchi che l’hanno sempre vinta, l’insofferenza per una economia in cui, anche dopo la Crisi, c’è più ineguaglianza, meno lavori, e sempre più immigrati a contenderseli. Nessuno di questi nuovi demagoghi sa davvero dire come cambiare, ma tutti sanno dire molto bene che va tutto male.

È un problema davvero serio per il socialismo democratico. Ma attenzione, lo è anche per il capitalismo liberale. Non è che a destra, infatti, le cose vadano molto diversamente. Donald Trump tuona nel Partito Repubblicano contro i pescecani di Wall Street e gli sfruttatori degli hedge funds con argomenti non dissimili da quelli che usa Sanders nei Democratici. Il Front National in Francia o la Lega in Italia sono contro l’austerità quanto Corbyn in Gran Bretagna. E questo ampio fronte di nazionalisti e di socialisti (i due termini sommati possono diventare esplosivi, come la storia ci insegna) è unito da un forte ripudio dell’Unione europea e da una altrettanto forte simpatia per Putin e il suo autoritarismo.

Il Financial Times, che pure è la Bibbia della City, si è spinto a dire che se tutto questo accade è colpa del capitalismo finanziario, che mostra di voler proseguire sul cammino interrotto dalla Grande Crisi come se niente fosse accaduto e niente dovesse cambiare. Di certo la socialdemocrazia europea è uscita dalla recessione senza un’idea nuova: non a caso i leader di maggior successo elettorale in Europa sono Merkel e Renzi, due democristiani. E quando si apre un vuoto di futuro, la nostalgia dell’antico è uno sperimentato ed efficace balsamo.

13 settembre 2015 (modifica il 13 settembre 2015 | 07:26)
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_settembre_13/corbyn-fronte-populista-commento-52eaa0fa-59d7-11e5-b420-c9ba68e5c126.shtml


Titolo: Antonio Polito. Il rebus della sinistra televisiva
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 08, 2015, 11:37:37 am
Il rebus della sinistra televisiva

Di Antonio Polito

Annoiati dallo scontro sul Senato elettivo? Stufi dei primi piani di Gotor e Chiti? Niente paura. La prossima «guerra culturale» della sinistra si preannuncia molto più eccitante e fotogenica, quasi berlusconiana; perché si combatterà, come ai vecchi tempi, per la televisione e le sue star.

In gioco c’è il destino di Rai3, molto più di una rete, vera e propria chiave d’accesso al cuore e alle menti del popolo di sinistra, resistenza catodica di un mondo che fu, a metà strada tra Guccini e Ingrao, e ne fu orgoglioso.

Prima Renzi, col fioretto del sarcasmo sull’audience dei talk show, poi il suo uomo in Vigilanza Michele Anzaldi, con la mazza ferrata di un minieditto bulgaro, e infine l’ineffabile governatore della Campania De Luca, con il kalashnikov dell’accusa di «camorrismo giornalistico», hanno reso chiaro che il Pd ripudia la «sua» rete, della quale non si sente più amato e rispettato «editore di riferimento». L’accusa, esplicitata da Anzaldi, è molto chiara: a Rai3 e al Tg3 non hanno ancora capito chi è il nuovo padrone, cioè chi comanda nel partito che comanda.

E in effetti Rai3 è un bel rompicapo fin dai tempi del Pci. Va benissimo quando la sinistra è all’opposizione, e anzi ne diventa il simbolo: quante carriere, quanti martirologi, da Michele Santoro a Sabina Guzzanti, si sono costruiti in quegli studi cantando Bella Ciao contro il regime berlusconiano! Ma, non appena la sinistra va al governo, Rai3 diventa indigesta, perché alla fine i media sono fatti dai loro lettori prima ancora che dai loro direttori, e il telespettatore di Rai3 vuole sapere ciò che non va, non ciò che funziona; vuole la denuncia, non l’agiografia; affida all’inchiesta, al talk show, alla satira il compito esorbitante di vendicare i torti della società; sogna giornalisti che si tramutino in pubblici ministeri dell’informazione (e molti aderiscono di buon grado). Non per niente la chiamavano TeleKabul. Il mito della spina nel fianco del potere. E chi è al potere, comprensibilmente, non gradisce. E lo dice ad Anzaldi. Che non è certo Goebbels, come scrive Grillo, ma gli pare strano se un Tg critica il governo.

È una storia vecchia come il cavallo di via Mazzini. Solo che Renzi aveva promesso, con grande giubilo collettivo, di mettervi fine, annunciando una rivoluzione: «fuori i partiti dalla Rai», la «più grande azienda culturale del Paese» che si libera di tessere e padroni, che non prende più ordini, cari giornalisti e programmisti sentitevi liberi di pensare solo al pubblico, e all’interesse generale. Poi, si sa come è andata. La riforma si è arenata, il nuovo cda è stato eletto esattamente come ai tempi di Gasparri, gli uomini di partito sono tornati a fare i consiglieri, basta con questa bufala della società civile, e gli uomini di partito della Vigilanza sono tornati a comandare, un po’ meno urbanamente di un tempo.

L’unica differenza è che, stavolta, non si sente volare una mosca. Neanche un girotondo, un ottavo nano da salvare, un articolo 21 da invocare. Perfino la sinistra televisiva cambia. Solo la Rai, quella no, resta sempre la stessa.

30 settembre 2015 (modifica il 30 settembre 2015 | 09:43)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_settembre_30/rebus-sinistra-televisiva-03d966fc-673a-11e5-9bc4-2d55534839fc.shtml


Titolo: Antonio POLITO Roma e non solo La buona politica che ci manca
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 14, 2015, 03:22:06 pm
Roma e non solo
La buona politica che ci manca

Di Antonio Polito

Commentando il patatrac del sindaco Marino, il giovane presidente del Pd, Matteo Orfini, ha raccontato di averne individuato la causa già nello slogan della campagna elettorale del 2013 che diceva: «Non è politica, è Roma». Da lì, da quel rifiuto della politica intesa come arte del governo della polis, sarebbero nate la solitudine, l’arroganza, l’inefficienza della sua gestione, ben prima della pochade degli scontrini.

Se Orfini ce l’avesse detto prima, se non avesse aspettato che il gallo cantasse tre volte per rinnegare il sindaco, avrebbe forse risparmiato ai suoi concittadini e al suo partito molti mesi di caos, e oggi non sarebbero «rimaste solo le macerie» di cui parla L’Osservatore Romano. E però, seppur tardivamente, mette il dito nella piaga. La vera lezione dell’incredibile vicenda romana sta proprio in questo: è il fallimento finora più clamoroso dell’idea che l’amministrazione della cosa pubblica non debba essere affare della politica e dei partiti, ma anzi vada affidata a chi più è capace di presentarsi come nemico dei partiti e alieno alla politica.

Il passo da alieno a marziano è breve e, come sappiamo, Marino lo ha compiuto con tutta la sventatezza di cui era capace, al ritmo di una spensierata biciclettata, sempre «pronto a mettere il suo sorriso davanti all’aiuoletta pulita, a spumeggiare di felicità nella celebrazione del matrimonio tra gay, ad annunciare ora la pedonalizzazione, ora la moralizzazione, ora la bonifica», come ha notato con acuto sarcasmo Sabrina Ferilli sul Fatto. Ma la strada per riportare la politica alla funzione per cui è stata inventata è invece ancora lunga in Italia. In tutto l’Occidente sono i partiti i luoghi della selezione del ceto di governo, l’arena in cui studiano, fanno pratica, competono per il consenso, affinano idee, incontrano competenze, costruiscono un programma, imparano a non essere soli e a rispondere a una comunità, che li controlla e li vaglia a lungo prima di affidarsi a loro. Questi partiti in Italia non ci sono più. Il nostro Paese è una federazione di uomini soli al comando. Più sono soli, e più piacciono. Ma siccome non sono tutti bravi politici come Renzi, o come fu Berlusconi, in giro è un fiorire di pessime imitazioni destinate a fallire, perché nessuna organizzazione complessa, nel mondo di oggi, può essere retta da un uomo solo.

All’assenza di una gavetta e di una scuola si è tentato di sopperire con l’ordalia delle primarie, che nel sistema italiano finiscono spesso come il referendum tra Gesù e Barabba, e raramente fanno vincere il migliore. Il caso di Marino, catapultato in pochi anni dal governo di una sala operatoria hi-tech a quello di una macchina amministrativa enorme e fatiscente, è clamoroso ma non unico. L’ex procuratore de Magistris a Napoli o l’accademico Doria a Genova non sono sindaci meno improvvisati, e infatti non è meno sofferente lo stato delle loro città. Ora che le primarie non vanno più di moda, è ricominciata poi la caccia al tecnocrate, prefetti, manager e magistrati cui si vorrebbe affidare la salvezza della cosa pubblica: il povero Raffaele Cantone è costretto a rifiutare una candidatura alla settimana, e a un funzionario serio come Franco Gabrielli è stata attribuita la poco dignitosa funzione di badante del sindaco di Roma. Senza dire di Giuseppe Sala, il cui successo come commissario dell’Expo ingolosisce sinistra e destra allo stesso modo.

Non è dunque un caso se tutti gli schieramenti fatichino oggi così tanto a trovare un candidato nelle tre più grandi città d’Italia che votano in primavera - Roma, Milano e Napoli - e si affannano a scovare improbabili conigli nel cappello perché non dispongono di dirigenti politici affermati e credibili a livello locale (e i leader nazionali si danno alla fuga, temendo la prova della concretezza nel governo di una metropoli).

Ma mentre ricomincia la ricerca del non-politico, o dell’anti-politico, in grado di ingannare per l’ennesima volta il pubblico, non parte mai il lavoro per una riforma profonda dei partiti, per un rilancio della loro democrazia interna, per la rinascita di comunità locali che si occupino del bene comune, seppure nei modi nuovi che l’era della Rete consente e impone. Così si continuerà a passare di illusione in delusione, come è accaduto per Marino, e a ritmi sempre più frenetici. Perché non si conosce democrazia che possa fare a meno di partiti seri, organizzati e retti da regole, che si assumano la responsabilità di governare. In fondo, il loro mestiere.

11 ottobre 2015 (modifica il 11 ottobre 2015 | 07:44)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_ottobre_11/buona-politica-che-manca-marino-candidature-sindaci-pd-611f6880-6fd1-11e5-a08a-e76f18e62e8d.shtml


Titolo: Antonio POLITO Dall’Iraq alla Libia L’Occidente si pente troppo
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 28, 2015, 05:54:35 pm
Dall’Iraq alla Libia
L’Occidente si pente troppo

Di Antonio Polito

Un’onda di pentimento per le guerre in Medio Oriente percorre l’Occidente. Perfino un leader come Blair, che pure fece dell’interventismo democratico il cuore della sua dottrina internazionale, sembra ora ritirarsi con tante scuse, ammettendo errori, colpe, omissioni, bugie, sottovalutazioni. Che senza dubbio ci furono, specialmente dopo l’invasione angloamericana dell’Iraq, provocando un danno incalcolabile alla causa occidentale. Ma che forse non consentono di concludere, alla maniera di Donald Trump, che il mondo sarebbe migliore con Saddam e Gheddafi ancora al potere.

Come spesso gli accade quando cerca di liberarsi del «fardello dell’uomo bianco», l’Occidente si dà anche colpe non sue. Per esempio: è una vulgata che non diventa più vera solo perché viene ripetuta ogni sera in tv (lo dicono spesso anche il nostro premier Renzi e il nostro ex premier Berlusconi) l’idea che sia stato l’intervento militare dell’Europa ad aprire la strada all’islamismo e al caos in Libia. Bisognerebbe infatti ricordare che da Tripoli a Bengasi era già in corso una sanguinosa guerra civile quando Francia e Gran Bretagna decisero di aiutare i ribelli anti Gheddafi. L’Europa non provocò la guerra, ma di fronte a un conflitto già esploso ai suoi confini aveva solo due scelte possibili: aiutare il dittatore o aiutare i suoi nemici. Chi oggi critica quell’intervento avrebbe dunque preferito puntellare il tiranno con la forza delle armi?

La terza opzione in Libia, non fare niente, non era praticabile, perché ci stava già scaricando addosso caos, instabilità e profughi: esattamente come è accaduto dopo che noi occidentali ce ne siamo lavati le mani, in una seconda guerra civile.

L’alternativa del diavolo esce confermata dalla tragedia della Siria: lì l’Occidente ha scelto per anni di non intervenire (meglio: lo ha scelto Obama, l’unico che avrebbe potuto). È stato forse più fausto l’esito di quella guerra civile? Ci sono forse stati meno morti, meno profughi, meno terrorismo islamico perché ci siamo astenuti dall’azione? E chi può dire che cosa sarebbe diventata la Libia se avessimo scelto di comportarci come in Siria?

In realtà l’esperienza ci insegna che l’Occidente ha dovuto spesso pentirsi di essersi disimpegnato, o di non essersi impegnato abbastanza. Non a caso in Afghanistan Obama è stato costretto a restare, rinunciando alla sua ambizione di terminare il mandato senza più guerre in corso. Anzi, la lunga inazione gli suggerisce oggi addirittura di valutare l’invio di truppe in prima linea, tra l’Iraq e la Siria. I vuoti di potere prima o poi si riempiono sempre, e se li riempie Putin è un problema. D’altra parte gli unici due esempi di successo di un intervento militare occidentale, il Libano e l’ex Jugoslavia, dove i nostri soldati hanno veramente messo fine alla guerra e tuttora assicurano una pace seppure imperfetta, hanno richiesto un impegno molto lungo e dispendioso, che dura da decenni.

Spesso gli stessi che danno agli Stati Uniti e all’Europa tutte le colpe di ciò che non va nel mondo sono anche coloro che sventolano come una bandiera pacifista la terribile constatazione di papa Francesco, secondo il quale è in corso una «terza guerra mondiale». Ma se davvero c’è la terza guerra mondiale, qualcuno può pensare che l’Occidente se ne possa tener fuori, limitarsi a guardare, magari circondandosi di muri taglia fiamme e anti profughi per evitare che l’incendio ci lambisca?

La verità è che l’Occidente, con tutti gli errori che ha commesso, non è la causa di un conflitto che scaturisce da una vera e propria guerra civile interna all’Islam; ma non può disinteressarsene solo perché ne è la periferia. La presunzione di voler lasciare il mondo com’è, congelando la storia, solo perché così conviene al nostro quieto vivere, non è meno «imperialista» della presunzione di poterlo cambiare a piacimento, giocando alla guerra. Nella politica, come nella morale, non far niente può essere talvolta più pericoloso di far troppo.

28 ottobre 2015 (modifica il 28 ottobre 2015 | 07:31)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_ottobre_28/occidente-si-pente-troppo-08482ad2-7d3a-11e5-b7c2-dc3f32997c8b.shtml


Titolo: Antonio POLITO Il partito dei manager ha commissariato la politica
Inserito da: Arlecchino - Novembre 04, 2015, 05:44:14 pm
MODELLI
Il partito dei manager ha commissariato la politica
Da Milano a Roma.
La classe dirigente attuale rincorre personaggi che sono estranei agli schieramenti tradizionali. È una dichiarazione di impotenza Il centrodestra e il centrosinistra non riescono a fronteggiare l’ondata di sfiducia che è montata

Di Antonio Polito

Dal carisma al curriculum, dal popolo al fatturato. Il commissariamento della politica sembra essere il futuro delle grandi città italiane. Privi di una classe dirigente locale all’altezza, i partiti cercano manager per Milano e Roma. Giuseppe Sala, Alfio Marchini, Paolo Scaroni, Corrado Passera: non troverete un politico di primo piano tra i nomi più gettonati del momento. E le primarie fanno paura proprio perché rischiano di catapultare sulla sedia di sindaco un politico di secondo piano, con gli effetti stupefacenti già osservati nel caso Marino.

Non è solo una tendenza dei partiti tradizionali. Perfino i Cinque Stelle sembrano alla ricerca di un Papa straniero: dicono che Casaleggio se ne sia convinto quando ha assistito in tv alla povera performance dei quattro tenori grillini di Roma.

È una dichiarazione di impotenza della politica democratica. La quale, in teoria, dovrebbe essere non solo gestione ma anche organizzazione del consenso, idealità, sistema di valori, selezione di classe dirigente. Tutta merce che i partiti non sembrano più in grado di offrire. In fondo è una rivincita del primo berlusconismo, quello del kit del candidato e della mentina: via i «professionisti della politica» dalla gestione della cosa pubblica.

Ma la Nouvelle Vogue sta conquistando a sorpresa anche il PdR (il partito di Renzi), che pure si era presentato sulla scena annunciando il ritorno della politica nella cabina di regia. Un tempo spettava al dirigente di maggior peso candidarsi a sindaco nella sua città: fu il caso di Bassolino a Napoli, di Rutelli (e di Fini) a Roma, di Cacciari a Venezia, di Chiamparino a Torino; oggi nessuno penserebbe di candidare Orfini al Campidoglio, e d’altra parte di candidarsi a Milano Salvini non ci pensa proprio. Gli unici politici rimasti nelle città sono quelli di ritorno, a fine carriera, da Fassino a Torino, a Bianco e Orlando in Sicilia, fino al possibile bis di Bassolino a Napoli. È un vero e proprio divorzio tra le città e la politica dei partiti.

Cinque anni fa un’analoga crisi produsse primarie a sorpresa, che imposero gente nuova, uomini più radicali e meno compromessi con il passato, talvolta veri e propri populisti. Alcuni hanno fallito come a Roma e a Genova, altri esperimenti sono riusciti ma si sono dimostrati non ripetibili come Pisapia a Milano, altri ancora si sono sciolti nel movimento, come de Magistris a Napoli. Non a caso il pur ex sindaco di Firenze, Matteo Renzi, ha affrontato da Palazzo Chigi questo declino della democrazia dei sindaci con il «modello Expo». Il commissariamento di Roma con il prefetto di Milano, che passa direttamente dalla gestione della fiera alla gestione della capitale, dove troverà già commissariato il Giubileo, ne è l’emblema più perfetto. La nomina di Sala, commissario dell’Expo, a candidato sindaco del Pd per le prossime elezioni di Milano, ne può tra breve essere il completamento. E a Napoli quasi un terzo della città, l’enorme area di Bagnoli, è stata affidata a un commissario governativo, tra gli strepiti del sindaco che grida all’usurpazione.

Questa nuova formula di governo locale si appella a criteri di efficienza e rapidità, punta a semplificare le procedure della politica, dimette un sindaco eletto nell’ufficio di un notaio piuttosto che in Consiglio comunale, prescinde dall’appartenenza politica dei prescelti (Sala e Marchini sono votabili sia a destra che a sinistra). Ma è una formula che ha sempre bisogno di un Grande Progetto, un Grande Evento, un Giubileo o una Expo, un’azione parallela che consenta di riversare soldi pubblici su amministrazioni pubbliche altrimenti esangui. Perché il primo grande cambiamento che è avvenuto nella politica locale è proprio questo: quando vent’anni fa cominciò la stagione dei primi cittadini eletti direttamente dal popolo i Comuni erano pieni di soldi, e di conseguenza i sindaci erano pieni di voti anche dopo il primo mandato. Ora nei Comuni non c’è più una lira, e i sindaci diventano rapidamente impopolari.

Così è esplosa l’antipolitica. E ora la politica non sembra avere più le forze a livello locale per fronteggiarla in prima persona. Si è fatta troppo leaderistica, troppo affaristica, con partiti troppo leggeri, quasi inesistenti sul territorio, per produrre sindaci di valore in proprio. La terza via che si sta profilando è quella che Alfio Marchini chiama la «soluzione del civismo: uomini di buona volontà sorretti dalla politica per battere l’antipolitica». Stelle locali contro Cinque Stelle. Funzionerà?

2 novembre 2015 (modifica il 2 novembre 2015 | 09:27)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_novembre_02/partito-manager-che-commissaria-politica-56fdacf4-8129-11e5-8d6e-15298a7eb858.shtml


Titolo: Antonio POLITO Quelle idee appassite essere pacifisti in un mondo così bellicoso
Inserito da: Arlecchino - Novembre 17, 2015, 07:06:31 pm
Novecento
Quelle idee appassite: essere pacifisti in un mondo così bellicoso
La cultura progressista deve ripensare se stessa. Lo dice il Vangelo di porgere l’altra guancia, ma perfino Francesco ci ha informato che «se uno offende mia madre gli do’ un pugno»

Di Antonio Polito

Con le idee del Novecento non comprendiamo più ciò che sta accadendo, e non capiamo come reagire. Perfino la ragazza del secolo scorso per antonomasia, Rossana Rossanda, ha confessato al Corriere che stavolta «una linea non ce l’ho». Il problema è che gran parte delle idee democratiche, delle idee progressiste, delle idee di sinistra, sono del Novecento. E che gran parte della nostra élite si è formata su quelle idee, e oggi dispone di una cassetta degli attrezzi inutilizzabile, fatta di classi sociali e di divisione internazionale del lavoro, mentre il mondo di oggi sembra fatto apposta per stupirci, e si spacca su linee di frattura che avevamo date per spacciate, sepolte dalla Storia, come la religione. Sfogliamo il dizionario delle parole d’ordine che hanno rassicurato tante generazioni dal dopoguerra a oggi. Il pacifismo resta una nobile opzione morale, ma non è più una risposta realistica di fronte a chi ci dichiara guerra, o a chi ci chiede, come il socialista Hollande, di aiutarlo in guerra. Lo dice il Vangelo di porgere l’altra guancia, ma perfino Francesco ci ha informato che «se uno offende mia madre gli do’ un pugno». E se ammazzano i nostri cugini francesi? Essere pacifisti in un mondo così bellicoso, mentre sono in corso una cinquantina di conflitti e mentre le vittime di molti di quei conflitti sbarcano ogni giorno sulle nostre spiagge, non è una opzione politica. Quando la guerra era un metodo di risoluzione delle controversie internazionali, l’abbiamo ripudiata. Ma che facciamo se diventa una necessità di autodifesa, se abbiamo bisogno come oggi di qualcuno che contempli l’uso, proporzionato e legittimo quanto si vuole, della forza militare contro chi arma gli uomini-bomba?

Oppure prendiamo l’internazionalismo, vero discrimine tra sinistra e destra fin dal loro sorgere nel fuoco della Rivoluzione francese, valore poi sconfinato in un sogno irenico di cosmopolitismo, nell’utopia di società europee così multiculturali da non rendere più distinguibile la cultura degli indigeni. Onestamente, non è discorso proponibile a opinioni pubbliche sconvolte dalla paura, scioccate dalle proporzioni delle migrazioni, preoccupate di veder sparire le loro radici e il loro stile di vita in un magma indistinto di relativismo culturale, nel quale anche esporre un crocifisso può diventare offensivo. Emblematica, da questo punto di vista, è la polemica in corso sul Giubileo, che pure dovrebbe essere l’apoteosi dell’universalismo cattolico, ma che tanti vorrebbero rinviare per quieto vivere, anche se non penserebbero mai di rinviare una partita di calcio della Nazionale o un concerto di musica rock solo perché sono stati obiettivi dei terroristi a Parigi.
E infine soffre la retorica del ponte sul Mediterraneo, verso l’Africa e il Medio Oriente, tra Nord e Sud del mondo, del ruolo che tante volte ci è stato indicato come vocazione storica per il nostro Paese e tanto più per il nostro Mezzogiorno. Che fare, come scrive Paolo Macry sul Corriere del Mezzogiorno, quando invece «dal Sud del mondo viene la guerra», e non richieste di dialogo, di apertura culturale, di comprensione reciproca?

Di fronte alla vetustà di questo armamentario ideale, è facile gioco per le idee di destra apparire più moderne, più calzanti al mondo di oggi, e soprattutto più popolari. Anche quando non sono praticabili, o non sono accettabili, o non sono risolutive. Nazionalismo, nostalgia dei muri e delle frontiere, rifiuto del diverso, egoismo al posto del solidarismo; possono, di fronte alla doppia minaccia delle migrazioni di massa e del terrorismo islamista, provocare un vero e proprio riallineamento verso destra delle opinioni pubbliche europee, come accadde negli Usa dopo la frattura del Sessantotto. Il pensiero democratico che teme questo sviluppo non può dunque limitarsi a deplorarlo, quando non a irriderlo, o ad attribuirlo a pura ignoranza manipolata. È la cultura progressista che deve piuttosto ripensare se stessa, adeguarsi alla realtà del mondo così com’è; a partire dal binomio pace-guerra, perché pace non è lavarsene le mani, per continuare sul crinale laicità-religione, perché c’è religione e religione, fino alla riscoperta di un concetto di sovranità nazionale compatibile con un nuovo internazionalismo. Altrimenti avrà perso la guerra culturale scatenata nell’Occidente dall’offensiva islamista, dall’11 settembre del 2001 al 13 novembre del 2015.

17 novembre 2015 (modifica il 17 novembre 2015 | 08:04)
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Da - http://www.corriere.it/cultura/15_novembre_17/quelle-idee-appassite-essere-pacifisti-un-mondo-cosi-bellicoso-65386c3a-8cf2-11e5-a51e-5844305cc7f9.shtml


Titolo: Antonio POLITO Sicurezza e accordi di Schengen Il valore dei confini
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 02, 2015, 07:38:19 pm
Sicurezza e accordi di Schengen
Il valore dei confini

Di Antonio Polito

Quante volte avete sentito usare nei talk show il seguente interrogativo retorico: «Pensate forse che i terroristi arrivino in Europa sui barconi degli immigrati?». Ebbene sì, ormai sappiamo che qualche terrorista è effettivamente arrivato anche a bordo dei barconi. Vuol dire che dobbiamo rivedere tutti i tabù e tutti i luoghi comuni che anche per nobilissime ragioni (per esempio contrastare il razzismo contro i migranti) abbiamo accettato finora. Non possiamo più dare nulla per scontato, e del resto non sarebbe un atteggiamento liberale negare l’evidenza solo perché questa porta acqua al mulino di chi fomenta le campagne anti Europa.
L’evidenza è che l’attuale sistema Schengen non funziona. È perforabile. Talvolta appare addirittura un colabrodo. Abbiamo detto dei barconi. Ma quello dei clandestini non è il solo problema. Anche più pericoloso è lo scarso controllo di chi entra mostrando i documenti alle nostre frontiere. E quando dico «nostre» intendo quelle comuni dell’Europa, perché le frontiere interne, tra Stato e Stato, come è noto non esistono più.

A vendo eliminato i controlli nell’area Schengen, dovremmo avere infatti un sistema di verifiche a prova di bomba per chi ci arriva dall’esterno. E invece, come ha raccontato sul New York Times Roland K. Noble, che è stato per 14 anni a capo dell’Interpol, alle nostre frontiere, non dico sulle spiagge o nei porticcioli, ma perfino negli aeroporti, non è previsto un controllo sistematico incrociato con il database, in dotazione all’Interpol da dopo l’11 Settembre, di tutti i passaporti rubati, contraffatti o smarriti. Lì dentro ci sono 45 milioni di documenti, e un documento falsificato fa capolino in ogni grande azione terroristica sul suolo europeo, da Madrid a Londra fino a Parigi. La Gran Bretagna, che è fuori dall’area Schengen e che questi controlli li fa, ha fermato in un anno 10 mila persone che tentavano di entrare con documenti fasulli.

L’anno scorso tra le dieci nazioni del mondo con il più alto numero di denunce per passaporti rubati o smarriti otto erano dell’area Schengen. Secondo l’Economist anche i database disponibili su presunti criminali e terroristi contengono troppo pochi dati, e troppo gelosamente custoditi dalle polizie nazionali. Se poi per caso i computer identificano un sospetto, l’unica informazione che restituiscono è il nome e il telefono del funzionario di polizia da contattare. Sembra che la libertà di movimento valga per i ladri ma non per le guardie.

In questo modo, dice Noble, è come se avessimo appeso un cartello di benvenuto per i terroristi ai nostri confini. Senza contare i controlli sui cittadini europei con regolare e valido passaporto europeo. Essi hanno infatti diritto di entrare ed uscire quando vogliono, ma solo ora ci si è accorti che forse sarebbe meglio tenere traccia di quante volte escono e da dove rientrano, visto che tra loro ci sono anche i foreign fighters che fanno la spola tra l’Afghanistan, la Siria e le nostre città, importando il know how del terrore.

Ci sono ottime ragioni per difendere la libertà di movimento nell’area Schengen. Una delle quali è che i nostri Paesi sono così intrecciati, uniti in un tale reticolo di connessioni che districarlo è impossibile: ci sono più di 200 strade che collegano il Belgio alla Francia. Un’altra buona ragione è che questo è uno dei maggiori successi dell’Unione Europea, e forse il più popolare, e tornare indietro su questa strada sarebbe certamente una sconfitta storica. Ma se si vuole salvare l’Europa senza frontiere che i nostri figli hanno conosciuto bisogna garantire loro che l’Europa sa controllare le sue frontiere esterne, che non entra chi vuole e quando vuole. Non c’è posto al mondo dove questo sia consentito. Perfino il sogno più ardito di un’Europa unita ha bisogno, da qualche parte, di una frontiera.

26 novembre 2015 (modifica il 26 novembre 2015 | 09:01)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_novembre_26/sicurezza-schengen-editoriale-polito-valore-confini-f9760c72-9404-11e5-be1f-3c6d4fd51d99.shtml


Titolo: Antonio POLITO - Essere laici non significa negare la religione
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 04, 2015, 06:38:15 pm
Il corsivo del giorno
Essere laici non significa negare la religione

Di Antonio Polito

«Un concerto di canti religiosi a Natale, dopo quello che è successo a Parigi, sarebbe stata una provocazione pericolosa». Lo ha detto il preside dell’istituto Garofani di Rozzano, e meno male che la sua autorità si ferma alle porte della scuola, perché se fosse diventato sindaco (è stato candidato di una lista civica) chissà che altro avrebbe potuto proibire per evitare provocazioni: tutte queste donne a capo scoperto, per esempio; o il rock, musica satanica; o lo spudorato consumo di alcol in pubblico.

Pur essendo favorevoli all’idea di dare più poteri ai presidi nelle scuole, dobbiamo confessare che ieri abbiamo vacillato di fronte a questa performance. Purtroppo, spesso per pura ignoranza, c’è chi in Italia confonde l’obbligo alla laicità del nostro sistema educativo con la negazione della religione. Il nostro preside, che gestisce una scuola in cui il 20% degli studenti è straniero, ritiene che il suo compito sia quello di nascondere ai genitori musulmani che il restante 80% è fatto da cristiani.

Invece di promuovere un dialogo, per esempio spiegando ai bimbi cristiani in che cosa consista il credo dei loro compagni di banco islamici e viceversa, il preside promuove il silenzio, la censura, estesa fino al canto di Natale (c’è un istituto a Fonte Nuova, in provincia di Roma, dove hanno addirittura fatto sparire il bambinello dal presepe). In compenso la scuola di Rozzano trabocca di alberi di Natale e di Babbi Natale, quasi come a dire che far festa si può, ma senza religione.

Il guaio è che il 25 dicembre, per quanto multietnici vogliamo diventare, si celebra la nascita di un personaggio storico chiamato Gesù Cristo. Che tra l’altro, è rispettato e venerato anche dalla religione islamica, come potrebbero spiegare tutti i genitori musulmani che ieri, intervistati davanti alla scuola, hanno tenuto a precisare che non si sarebbero sentiti neanche lontanamente offesi da Tu scendi dalle stelle. Dunque, cari presidi italiani, sinite parvulos ...

28 novembre 2015 (modifica il 28 novembre 2015 | 10:51)
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Da - http://www.corriere.it/cronache/15_novembre_28/se-natale-ciene-cancellato-rozzano-77d6e084-9598-11e5-92c5-a69ccd937ac8.shtml


Titolo: Antonio POLITO Le religioni, i conflitti, le scuole Se abbiamo paura di dire ...
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 10, 2015, 07:12:57 pm
Le religioni, i conflitti, le scuole
Se abbiamo paura di dire chi siamo


Di Antonio Polito

È il silenzio degli innocenti, più ancora del frastuono dei mitragliatori, ciò che dobbiamo temere. Il silenzio di chi non sa più che cos’è giusto e che cos’è sbagliato, e dunque non riesce più a parlare con chi invece pretende orgogliosamente di saperlo. Sul Corriere di ieri Lorenzo Cremonesi e Mara Gergolet ci hanno raccontato l’incomunicabilità tra questi due mondi osservata in una scuola di Milano, l’Istituto tecnico commerciale Schiaparelli, dove erano stati chiamati a parlare dell’Isis e delle sue origini. Di fronte ai giovani studenti musulmani che rifiutavano di discutere qualsiasi verità sull’Islam che non fosse contenuta nel Corano, perché nel Corano c’è tutta la verità, i giovani italiani tacevano segregandosi a loro volta, magari perché ignari di ciò che è scritto nel Corano, ma forse anche perché dubbiosi su che cosa sia la verità.

Non si può biasimarli. La nostra cultura, i nostri intellettuali, i nostri media, hanno da tempo perso interesse alla verità. Siamo disposti ad accettarne molteplici, spesso contraddittorie, e sempre relative. Mentre a chi cresce in una famiglia islamica viene insegnato che la verità è una ed è rivelata, una volta e per sempre, nel Corano. Al bisogno di senso della vita rispondono con un Assoluto, qualcosa che mal si concilia col dibattito in classe. Rifiutano il terrorismo, ma rifiutano anche di parlarne con noi. I nostri ragazzi rifiutano l’Assoluto, ma non sanno spiegare loro perché.

Pensavamo che la Storia stesse marciando in direzione della secolarizzazione. Invece la modernità ci si presenta densa di un senso religioso che non siamo più in grado di comprendere. Abbiamo paura di affermare che questa è una guerra di religione e che è interna all’Islam, poiché ha ucciso un numero di musulmani incomparabile con quello delle vittime cristiane. Eppure se lo dicessimo riconosceremmo che questa è anche la nostra storia, perché anche noi abbiamo vissuto un secolo di sanguinose guerre di religione tra protestanti e cattolici, proprio come ora avviene tra sunniti e sciiti.

Sarebbe l’ora di parlar chiaro. Invece per timidezza, per timore, le élite culturali cercano goffamente dentro la nostra civiltà qualche buona ragione per cui ci sparano addosso. E del terrorismo islamista danno la colpa all’Occidente, al capitalismo, alla società dei consumi, all’ineguaglianza, alle bidonville, alla povertà (come se chi lotta per l’esistenza avesse tempo per uccidere e morire).




Chissà per quale di questi sensi di colpa, in nome di quale correttezza politica, i vicini di casa della coppia middle class di San Bernardino non hanno denunciato i movimenti sospetti dei musulmani della porta accanto.

Quelli tra noi meno disposti all’autoflagellazione reagiscono all’opposto con la collera, il sentimento che la farà da padrone nelle urne oggi in Francia, e che gonfia ovunque le vele dei movimenti xenofobi. Sognano di isolarli tutti (quaranta milioni di islamici in Europa), e di trasformare l’incomunicabilità in scontro di civiltà, sperando di vincerlo. C’è chi dice che i terroristi cerchino proprio questo effetto. Non ne sono sicuro, ma è meglio non rischiare.

Così, in Italia e in Europa, o taciamo timorosi o urliamo minacciosi. Non si è ancora formata un’opinione pubblica capace di un confronto sincero e dunque fecondo tra le civiltà, in cui si possano difendere le proprie convinzioni perché si conoscono quelle degli altri. Nelle nostre scuole del Dio del Corano non si sa nulla, e del Signore dei Vangeli sempre meno. Cosicché, se ci viene intimato di farci i fatti nostri, obbediamo.

Condizione indispensabile di ogni dialogo è che questo silenzio finisca, che riprendiamo la parola, perché non possiamo intimare quotidianamente alle comunità musulmane di parlare con noi se non siamo in grado di farlo noi stessi, se non abbiamo le certezze necessarie a definire i valori sui quali non siamo disposti a tacere. È questa la guerra culturale che dobbiamo combattere. E la prima trincea è la scuola, l’unico luogo nel quale si può combatterla disarmati.

6 dicembre 2015 (modifica il 6 dicembre 2015 | 09:03)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_dicembre_06/editroiale-corriere-polito-islam-se-abbiamo-paura-dire-chi-siamo-51e791dc-9be9-11e5-9b09-66958594e7c5.shtml


Titolo: Antonio POLITO Renzi, la partita più insidiosa inizia ora
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 30, 2015, 05:56:24 pm
UN BILANCIO
Renzi, la partita più insidiosa inizia ora

Di Antonio Polito

Nel 2015 hanno perso i gufi. È stato questo il messaggio centrale della conferenza di fine anno del premier, e nemmeno un allocco potrebbe dargli torto: il 2015 è veramente andato meglio del 2014. D’altra parte Renzi c’era pure nel 2014, e ci sarà pure nel 2016, e l’oggi in politica è sempre già domani. Dunque il problema del leader è lo stesso dell’Italia: migliorare, e non di poco, la performance nell’anno che viene.

Su questo Renzi è stato invece alquanto parco di indicazioni: sul timing della sua manovra di taglio fiscale, per esempio, o sull’urgentissima riforma del credito cooperativo, o su come risolvere il problema dei crediti incagliati nelle banche.

Ma gli elettori, saggiamente, tendono a giudicare i politici più sul futuro che sul passato (a Churchill non bastò aver vinto la guerra per vincere le elezioni del 1945). Nessun italiano può sottovalutare il fatto che nel 2015 siamo passati dal segno meno della recessione al segno più della crescita, ma ogni italiano sa che a questo ritmo (+0,8%) ci metteremmo più di dieci anni solo per riportare il Paese al livello di ricchezza che aveva prima della crisi.

L’anno prossimo dovrà andare dunque nettamente meglio: secondo le previsioni a un ritmo addirittura doppio (1,6%). È possibile? Sì. Ma c’è una montagna da scalare. L’anno che si chiude ha goduto infatti di circostanze favorevoli, dal quantitative easing della Bce al calo dei tassi e del cambio dell’euro, eppure è andato così e così. L’anno prossimo il clima esterno potrebbe peggiorare (rallentamento dell’economia globale, movimento dei tassi al rialzo in Usa). Crescere sarà più difficile, non più facile.

Pur essendo cresciuta poco, l’Italia spenderà però molto quest’anno. Lo stesso Renzi che si lamenta dell’austerità imposta da Bruxelles, si vanta poi — giustamente — di aver ottenuto la flessibilità: un punto di Pil pari a 16 miliardi. Il nostro deficit cala dunque poco rispetto all’anno scorso (-0,2) nonostante il Pil sia cresciuto. In Europa ci lasciano fare sperando che così imbocchiamo l’autostrada della ripresa. Ma se sprechiamo l’occasione, spendendo male i soldi, questo credito si esaurirà.

C’è poi una mina politica sulla strada del 2016. Il governo Renzi avrà ben due incontri ravvicinati con gli elettori. La sua stabilità, finora un vanto, verrà messa alla prova. Se il voto nelle grandi città premiasse troppo i movimenti anti-sistema cadrebbe anche un alibi che in Europa il premier ha finora utilizzato con successo: sarò pure un gianburrasca, ma sono anche l’unico in grado di fermare l’ascesa dei populisti. Perché l’incantesimo duri, Renzi ha dunque bisogno di nuove vittorie elettorali. Per non dire del referendum costituzionale, senza quorum, sul quale ha già detto tutto lui: «Se lo perdessi sarebbe il fallimento della mia esperienza in politica».

E, aggiungiamo noi, anche il fallimento della legislatura e delle speranze di cambiamento che ha acceso in tanti italiani.

30 dicembre 2015 (modifica il 30 dicembre 2015 | 08:53)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_dicembre_30/partita-piu-insidiosa-inizia-ora-1f794814-aec5-11e5-8a3c-8d66a63abc42.shtml


Titolo: Antonio POLITO Da soli mai, servono alleanze
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 20, 2016, 04:28:50 pm
EDITORIALE
Da soli mai, servono alleanze

Di Antonio Polito

Juncker si è offeso. Ha accusato il premier italiano di «vilipendere la Commissione». E, pur con tutto il rispetto per le istituzioni europee, ha esagerato. Ciò che divide Roma da Bruxelles non è infatti una questione di galateo, ma un episodio di lotta politica. E come tale va giudicato. Juncker non è uno sprovveduto, è un alto papavero europeo da un quarto di secolo, non può nascondersi dietro una questione di lesa maestà quando un governo attacca la Commissione. D’altra parte Renzi deve capire che lui non è l’unico leader baciato dal consenso popolare, perché tutti i premier dei 28 Paesi membri sono stati eletti (in elezioni nazionali) e perché lo stesso Juncker è un politico legittimato da un voto, essendo stato candidato come presidente della Commissione dai Popolari europei, vincitori nelle urne. Nessuno può dunque «intimidire» nessuno. Sgombrato il campo dagli inutili «lei non sa chi sono io», si possono individuare meglio origini e soluzioni di uno scontro politico tra Italia e Unione europea con pochi precedenti, e tutti riconducibili all’era Berlusconi. Era infatti prevedibile, e più volte previsto, che la vis polemica con cui il nostro premier ha preso a trattare i problemi europei non avrebbe prodotto partner più disponibili all’ascolto delle nostre ragioni, ma piuttosto il contrario.

Bisogna vedere se quella seguita è la miglior tattica per perseguire l’interesse nazionale italiano, che rimane inestricabilmente legato all’Europa, perché la soluzione di problemi come la gestione del nostro enorme e crescente debito pubblico, il flusso di migranti, la difesa dal terrorismo, o è comune o non è: nemmeno la nuova Italia di Renzi, così sicura di sé, può infatti farcela da sola. I punti forti delle critiche italiane all’Unione sono noti. Alcuni sono condivisi dallo stesso Juncker. Le chiusure nazionalistiche delle frontiere ai migranti, espediente cui il nostro Paese, pur così in prima linea, non ha mai ceduto, sono motivo di imbarazzo per l’Europa. Ma se a questa realtà si replicasse, da parte italiana, rifiutandosi di partecipare alla spesa comune per blindare in Turchia le frontiere esterne dell’Europa, si ingenererebbe il sospetto che chiediamo aiuto quando i migranti vengono da noi e lo neghiamo quando i migranti vanno in Germania o in Svezia. Questo indebolisce la nostra posizione.

Altra critica giusta che possiamo rivolgere a Bruxelles è il mezzo flop del piano degli investimenti che proprio Juncker aveva annunciato, sperando di moltiplicare i pochi soldi disponibili come i pani e i pesci della parabola. Però sulla flessibilità dei bilanci Juncker non mente quando dice che è stata la Commissione a vararla, seppur su spinta italiana e francese, superando le resistenze tedesche (come il quantitative easing di Draghi, che pure la Bundesbank non voleva). E Moscovici, non certo un falco tedesco, iscritto al Pse come Renzi, ci ha invitato a non abusarne: la flessibilità per definizione non può essere permanente, perché altrimenti diventa nuova regola, che per il momento non c’è. Il punto è che per averla vinta in Europa bisogna inevitabilmente costruirsi alleanze, e le nostre non si vedono. Renzi è abituato in Italia ad aver ragione dei suoi avversari sfruttando il favore dell’opinione pubblica. Anche questa lite con Juncker non può fargli che bene nei sondaggi. Ma il fatto è che pure gli altri 27 premier europei hanno un’opinione pubblica cui rispondere, e molti di loro guadagnano in popolarità ogni volta che fanno la faccia feroce con l’Italia. Di questo passo si va su una via che non ci conviene. Se la Commissione europea proponesse di aprire contro di noi una procedura di infrazione sul bilancio, le basterebbe trovare l’accordo di un terzo dei Paesi europei per averla vinta, e così l’Italia tornerebbe dove Renzi l’ha trovata, sotto esame e con più vincoli.

Il governo italiano deve dunque farsi alleati. Innanzitutto nella Commissione. Il nostro unico membro in quell’organismo, Federica Mogherini, ha detto ieri che è «stupido creare divisioni in seno all’Europa»: tocca anche a lei prevenire la stupidità. Inoltre Roma deve chiarire quale è la sua proposta per riformare la Ue, invece di infilarsi in una spirale di repliche e ripicche. E su questo le idee non sembrano ancora molto chiare. Il sottosegretario Gozi aveva infatti annunciato da parte di Roma una iniziativa per la revisione dei Trattati, ma il giorno dopo Renzi ha dichiarato che «nessuno sano di mente può imbarcarsi oggi a cambiare i Trattati». È arrivato il momento di scegliere una strada e percorrerla con l’autorevolezza e la serietà che un grande Paese fondatore dell’Europa può vantare: è per questo, come dice Renzi, che «merita rispetto».

16 gennaio 2016 (modifica il 16 gennaio 2016 | 07:21)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/16_gennaio_16/da-soli-mai-servono-alleanze-6fe71052-bc16-11e5-b206-2a6e9b3d9bfb.shtml


Titolo: Antonio POLITO La ricerca elettorale dell’identità
Inserito da: Arlecchino - Maggio 30, 2016, 06:14:10 pm
La ricerca elettorale dell’identità

 Di Antonio Polito

Cos’è la destra, cos’è la sinistra, si domandava stralunato Giorgio Gaber prima di lasciarci. Se lo sono chiesti l’altra sera anche alla redazione di Sky, quando è arrivato il momento di decidere che cosa scrivere nel sottopancia dei candidati romani durante il prossimo dibattito televisivo previsto per martedì. Giachetti non voleva «Pd» ma «centrosinistra», Meloni allora voleva pure lei «centrodestra», ma Marchini ha con sé metà centrodestra e dunque si è ribellato, e anche Fassina avrà obiettato che il «centrosinistra» non è tale perché manca Sel che la volta scorsa c’era eccome nelle vittorie di Milano, Roma, Napoli e Cagliari, e allora la Raggi ha accusato gli altri di vergognarsi del nome del loro partito mentre lei può scrivere con orgoglio «M5S», e a questo punto Giachetti le ha risposto che si dovrebbe aggiungere «Casaleggio associati», e alla fine Sky ha lasciato perdere: nei sottopancia non si scriverà niente. Solo la sfilza di sigle e simboli, spesso misteriosi o ignoti, che sostengono i candidati al Campidoglio.

Sembrerebbe un episodio del folklore politico romano, l’ultima puntata della saga «Chi viene dopo Marino?». M a l’incidente del sottopancia potrebbe invece anche essere il segno di un’epoca, l’epoca in cui i partiti sanno solo di non sapere chi sono e vogliono tutti essere qualcos’altro, possibilmente tutti «partiti della nazione». La crisi delle identità politiche, esplosa un quarto di secolo fa con l’irruzione sulla scena del berlusconismo, conoscerebbe così un nuovo inizio con il renzismo, ircocervo altrettanto difficile da definire. Intendiamoci, può anche darsi che si tratti dell’ennesima intuizione profetica partorita dall’anomalia italiana: tutto sommato siamo il Paese che ha inventato l’antipolitica negli anni 90, e ora che è esplosa ovunque forse saremo anche il primo Paese che la fronteggerà inventandosi nuove e inedite aggregazioni al posto di Popolari e Socialisti, centrodestra e centrosinistra, la norma nel resto d’Europa.

Non deve essere quindi un caso se lo stesso Renzi guarda con tanto distacco a queste elezioni comunali, al punto da aver lanciato nel pieno della campagna elettorale amministrativa la campagna elettorale per un referendum che si svolge tra cinque mesi. Si vede che più che come segretario del Pd, Renzi preferisce essere giudicato come leader di quel partito trasversale del Sì cui partecipano, a proposito di «centrosinistra», due partiti di centrodestra, il Nuovo Centrodestra di Alfano e l’Ala di Verdini. Mentre i candidati sindaci del Pd tutto vorrebbero tranne che nelle urne comunali si giocasse un anticipo del referendum costituzionale, perché così rischierebbero sicuramente di perdere degli elettori già schierati con il No (per esempio nella Torino di Fassino, patria putativa e intellettuale dei difensori della Costituzione a oltranza).

Il meno che si possa dire è che grande è la confusione sotto il cielo, ma ciò nonostante la situazione non è eccellente. Gli strumenti tradizionali della politica non sono più a disposizione dei cittadini, le alleanze future tra i partiti sono al momento un rebus avvolto in un enigma, e quindi gli elettori dovranno trovare dei nuovi e speriamo efficaci criteri per decidere chi votare la prossima settimana. «Una bella minestrina è di destra, il minestrone è sempre di sinistra», cantava Gaber. Oggi il menù elettorale si è decisamente arricchito. Purché non siano minestre riscaldate.

27 maggio 2016 (modifica il 27 maggio 2016 | 23:11)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/16_maggio_28/alla-ricerca-dell-identita-7010747c-243c-11e6-b229-67fb25338505.shtml


Titolo: Antonio Polito Lega e Cinque Stelle, gli alleati rivali e la piccola Yalta itali
Inserito da: Arlecchino - Settembre 12, 2018, 05:34:28 pm
Lega e Cinque Stelle, gli alleati rivali e la piccola Yalta italiana
L’esecutivo è stato definito una Grande coalizione dei populismi.

Ma in realtà si tratta di una specie di Grande somma dei due programmi e delle rispettive promesse

  Di Antonio Polito

Per spiegare gli stratosferici livelli di consenso che avrebbe raggiunto la Lega, così alti da far dire «non ci credo» perfino a Salvini, il sondaggista Nicola Piepoli ne ha attribuito la ragione «a due eventi negativi: Genova e la nave Diciotti». Svelando così il paradosso al cuore della situazione politica italiana. Di solito, infatti, i partiti al governo si avvantaggiano di ciò che in inglese si chiama «effetto feel good»: meglio vanno le cose, più soddisfatti sono gli elettori. Ma nell’Italia reduce dalla rivoluzione elettorale del 4 marzo stiamo vivendo, e forse vivremo ancora per un po’, una diversa stagione: gli eventi negativi ci rendono governativi, perché appaiono la conferma delle colpe di chi c’era prima e rafforzano la convinzione che abbiamo fatto bene a mandarli via. Ecco perché i nemici del governo farebbero un grosso errore a sperare nell’aiuto del «generale spread», e cioè in un aggravarsi della situazione economica e finanziaria del Paese che faccia rinsavire gli elettori. Le cattive notizie non portano bene all’opposizione. Almeno finché gli elettori si aspettano buone notizie dal governo.

Ma perché l’incantesimo duri, queste prima o poi devono arrivare. A Genova, per esempio, il crollo del ponte è stato addebitato a chi c’era prima. Ma sulla ricostruzione verrà presto giudicato chi c’è adesso, così come già comincia ad avvenire per la consegna delle case agli sfollati. Lo stesso discorso vale, su una scala più vasta e decisiva, per la manovra di bilancio.

Negli intendimenti di Cinque Stelle e Lega essa infatti dovrebbe contenere tutte le buone notizie di cui la maggioranza è capace. Lì dentro c’è il patto che Di Maio da una parte e Salvini dall’altra hanno firmato con i loro rispettivi elettori, come del resto avviene sempre in democrazia. La originalità della vicenda politica italiana fa sì però che non si tratti di un programma elettorale, ma di due programmi elettorali che si sommano, e talvolta si contraddicono, perché rivolti a gruppi sociali e a realtà territoriali spesso in competizione tra di loro. Il popolo, come si sa, non è unico; ce ne sono molti; e Cinque Stelle e Lega ne rappresentano due diversi e distinti, oltre che vasti.

Il governo che è nato dopo il voto, e solo perché le urne non avevano dato una maggioranza, è stato definito una Grande coalizione dei populismi, la prima di questo genere in Europa. Ma in realtà non si tratta nemmeno di una coalizione: come gli stessi esponenti dei due partiti si affannano a chiarire, è solo un’alleanza basata su un contratto. Una specie di Grande somma dei due programmi e delle rispettive promesse. E infatti finora il tandem Salvini-Di Maio ha funzionato alla perfezione grazie a una rigorosa spartizione delle rispettive aree di influenza: se tu non obietti sulla flat tax per le piccole imprese del Nord, io non obietto sul decreto dignità che danneggia le piccole imprese del Nord, e viceversa. È una sorta di nuova Yalta, un modello in scala minore dell’intesa che portò Roosevelt e Stalin, alleati in guerra ma concorrenti nel dopoguerra, a dividersi il mondo senza pestarsi i piedi. Quell’esperimento durò però poco, e si trasformò nel giro di pochi anni nella Guerra fredda tra le due superpotenze. Quanto resisterà la piccola Yalta italiana di cui l’avvocato Conte fa da notaio?

La manovra economica ce lo dirà. Se infatti in politica le somme sono possibili perché aritmetiche, cioè si può vincere in due e si può volare in due nei sondaggi, quando si arriva al bilancio dello Stato le somme si fanno inevitabilmente algebriche: perché ci sia un più ci deve essere anche un meno. L’istinto dei più scapestrati tra leghisti e pentastellati sarebbe di aggirare il problema prendendo in prestito tutti i soldi che servono. Ma i ministri più avvertiti — e c’è da sperare anche i due leader — sanno che anche così si produrrebbe un «meno», anzi un gigantesco «meno», e cioè la cifra a nove cifre degli interessi che i mercati ci farebbero pagare per quel debito.

Bisogna dunque augurarsi innanzitutto che il governo abbandoni ogni velleità di strategia della tensione con i vincoli europei di bilancio, evitando così di perdere insieme a Tria anche ogni credibilità. In questa materia il coltello dalla parte del manico non ce l’abbiamo noi. Ma se si rinuncia saggiamente a indebitarsi ancora, non resta che fare scelte. Non «compromessi» tra i due programmi elettorali, come li ha definiti Salvini, ma proprio scelte. Perché con le risorse limitate di cui dispone il bilancio dello Stato la cosa peggiore sarebbe disperderle per tener buoni i rispettivi elettorati, senza concentrarle dove possono essere utili per sostenere e accelerare la ripresa della nostra economia, dunque anche nella riduzione di un debito pubblico che per il nostro Paese e le future generazioni è un’autentica palla al piede.

Una coalizione di governo si distingue da una somma di interessi proprio perché ha un progetto, una direzione, e sa fare una sintesi. Se è troppo chiedere tutto ciò al presidente del Consiglio, che si trova a Palazzo Chigi un po’ per caso, non lo è pretenderlo dai suoi due vice. Durare è anche nel loro interesse. Con la legge di Bilancio possono dare la prova che davvero si ritengono un governo di legislatura: se così è, vuol dire infatti che hanno tutto il tempo per tradurre gradualmente gli impegni assunti con i loro elettori in una coerente e praticabile strategia di sviluppo al servizio del Paese. Meno tasse aiuta la crescita, sì, ma se corrisponde a meno spese. Più welfare aiuta la coesione sociale, ma se non produce meno occupazione. Lega e Cinque Stelle dovrebbero insomma sfruttare la luna di miele che stanno vivendo con l’elettorato per gettare le basi solide di un vero governo. Hanno il vantaggio di poter agire indisturbati: a questo giro non sarà certo un’opposizione evanescente e malmessa a poterli preoccupare.

4 settembre 2018 (modifica il 4 settembre 2018 | 21:09)
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Da - https://www.corriere.it/opinioni/18_settembre_05/gli-alleati-rivali-1360bf4c-b072-11e8-943d-6f0a93576229.shtml


Titolo: Antonio Polito POLITEIA - Adottate chiunque ma non un filosofo
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 14, 2019, 07:33:13 pm
POLITEIA
Adottate chiunque ma non un filosofo

L’ossequio alla filosofia come regina delle discipline umanistiche è anche il principale difetto della cultura partenopea

  Di Antonio Polito

Se dovessi spiegare l’Europa ai miei figli, sono onesto, non adotterei un filosofo. Non me ne vogliano i quattro accademici, Biagio de Giovanni, Aldo Masullo, Fulvio Tessitore e Vincenzo Vitiello, che si sono meritoriamente prestati a fare da testimonial di una campagna di educazione civica per sessanta scuole, promossa dalla Fondazione Campania dei Festival, e che dovrebbe servire a convincere i nostri giovani della bontà del progetto europeo. Per carità, si tratta di cattedratici di grande erudizione e sapienza. Ma l’idea che l’Europa sia qualcosa che ha a che fare principalmente con il mondo delle idee è forse una delle cause principali della sua crisi odierna.

E l’ossequio alla filosofia come regina delle discipline umanistiche è anche il principale difetto della cultura partenopea, così identificatasi nel tempo con i voli pindarici e l’empireo platonico da essersi progressivamente separata dalla realtà, finendo per venire percepita come estranea e aristocratica dalla gente comune, comunque inutile per le sorti collettive della nostra comunità, e infatti generalmente inascoltata. D’altra parte i quattro filosofi che si propongono per l’adozione sono da molto tempo tra i principali opinion makers, costruttori di opinione, nella nostra città. Hanno spiegato già a lungo sulle colonne dei giornali e nelle aule parlamentari il valore di emancipazione della cultura, il disvalore della demagogia populista, la necessità per Napoli di essere città europea, e non si può dire che la loro predicazione abbia dato fin qui grandi frutti, ahinoi.


Ci spieghiamo ogni giorno che all’origine del rifiuto dell’Europa c’è una frattura tra élite e popolo. Vogliamo provare a ricucirla mandando avanti la più sofisticata delle nostre élite, quelle accademica? Non ricomincerei dunque davvero dai filosofi, per rilanciare l’Europa. Magari dai botanici. Si tiene oggi a Monopoli, in Puglia, una manifestazione contro la Xylella. Ecco. Non c’è caso più chiaro per capire a che serve l’Europa. Se l’avessimo ascoltata, e avessimo ascoltati gli scienziati che a suo nome parlavano, avremmo già debellato un batterio che si sta mangiando gli ettari più belli e più ricchi della nostra campagna, producendo uno scempio che ci siamo procurati con le nostre mani, noi meridionali, rifiutandoci di fare ciò che andava fatto, e subito. Scuole, adottate un botanico, dunque. O adottate un ingegnere. Uno di quelli che con i fondi europei hanno costruito la metropolitana napoletana, una delle poche cose che distingue oggi la nostra città da quella che era alla fine dalla guerra.

Voglio dire che se vogliamo ridare un senso all’idea di Europa ci serve spiegare ai cittadini che cosa ha fatto per noi e che cosa può fare ancora: qualcosa di concreto, una convenienza, un fatto. Per quanto infatti le idee platoniche spiegate da Benedetto Croce alla cuoca siano paragonabili a caciocavalli appesi, purtroppo non si mangiano. E oggi nel sud non puoi proporre una qualsiasi opzione politica o etica che non sia in grado di sfamare anche il bisogno di sviluppo e di benessere che si mangia le nostre terre, e le ha incattivite al punto da consegnarsi ai demagoghi di ogni risma.

Adottate un economista, che possa spiegare ai nostri ragazzi perché se avessimo ancora la lira il reddito dei napoletani sarebbe anche più basso di quello che è oggi, e perché se non è cresciuto non è colpa dell’euro. Adottate un medico, che spieghi perché da quando esistono standard europei per l’igiene alimentare si muore meno (anche se a Napoli si muore più che a Milano, ma questa è colpa dell’Italia, che non è abbastanza europea). Adottate un calciatore, così che risulti chiaro che chiunque oggi voglia competere e vincere deve farlo in Europa, e per questo ci teniamo tanto alla Champions. Adottate un cantante, che ci racconti come il local oggi possa avere successo diventando global, che si può cantare in napoletano come Pino Daniele e sfondare in Inghilterra. Adottate un insegnante, che dica ai nostri studenti perché è importante che possano completare i loro studi in un altro paese europeo, fare un Erasmus, andare a Londra senza il visto che sarà richiesto dalla Brexit.

Adottate chiunque ma, per favore, non un filosofo. È dalla fine del Medioevo che altri saperi hanno prevalso sulla metafisica e sulla teologia, togliendo lo scettro alla filosofia e trasformandola in ancella. Il Rinascimento è stato scienza e arte, Leonardo e Cristoforo Colombo al posto di Aristotele e Tommaso d’Aquino. Per quanti sforzi la filosofia possa fare nel tentativo di spiegare la separazione del mondo intellegibile dal modo sensibile, è il mondo sensibile che interessa ai nostri ragazzi. Basta dunque filosofi. A Napoli ne abbiamo già avuti abbastanza.

13 gennaio 2019 | 09:03
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Da - https://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/cronaca/19_gennaio_13/adottate-chiunque-ma-non-filosofo-0fda2982-1709-11e9-b1b4-4e95b2102835.shtml?fbclid=IwAR2J83A1O5RIj10GDih-SjPK8fSIDzu-sIxQfGb-W860acBHeLtXZ5w56wc


Titolo: Antonio POLITO. La differenza tra popolo e cittadini
Inserito da: Arlecchino - Maggio 06, 2019, 06:48:58 pm
L’EDITORIALE

La differenza tra popolo e cittadini

  Di Antonio Polito

Ci avete fatto caso? I nostri politici, più che mai in questa campagna elettorale, parlano sempre di «popolo», si rivolgono al «popolo», si dichiarano dalla parte del «popolo». I «cittadini», protagonisti di un tempo della nostra democrazia, quando così vennero chiamati donne e uomini della nuova Italia repubblicana uscita dal referendum del 2 giugno di 70 anni fa, sono spariti. Siccome le parole contano, bisogna stare attenti a certi slittamenti semantici, domandarsi che cosa significano, perché non sono mai casuali. La parola «cittadini» faceva riferimento a una condizione di piena partecipazione al governo della cosa pubblica. Cittadini furono in principio quelli della Repubblica nata dalla Rivoluzione francese, per antonomasia sono individui liberi, informati ed esigenti, che si riuniscono in partiti e organizzazioni «per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale», come recita la nostra Costituzione, e che usano l’arma del voto per scegliere i propri rappresentanti. Ralf Dahrendorf, il grande sociologo liberale tedesco del Novecento, diceva che «non può esistere una democrazia senza i cittadini». Ma poi, a mano a mano che la Repubblica cresceva, i «cittadini» si assottigliavano, sia in termini di citazioni che di impegno nella vita pubblica del Paese, prova ne sia il costante declino della partecipazione al voto. E al posto dei cittadini, nella retorica dei politici, è comparsa la parola «elettori»: «cari elettori», «il volere degli elettori», «gli elettori hanno sempre ragione».

A differenza di «cittadini», che allude alla condizione civica della cittadinanza, «elettori» ha una connotazione più marcatamente commerciale, perché negli elettori ciò che rileva è il fatto che dispongono di voti, e i voti servono ai politici. E infatti nel linguaggio comune hanno fatto irruzione espressioni tipiche del marketing, quali «l’offerta elettorale», «i desideri degli elettori», e a poco a poco si è cominciato a sondare con metodi sempre più scientifici e sempre più di frequente lo stato d’animo degli elettori per scoprire che cosa i politici potevano vendere loro e come.

Ma già nel decennio passato appare prepotentemente una nuova parola che prende il posto dei «cittadini» e degli «elettori» di un tempo: il «popolo». Lo sdoganatore del termine, ovviamente, è il più grande innovatore della politica italiana del dopoguerra, Silvio Berlusconi, che a un certo punto decide, dopo lungo cogitare, di chiamare la sua nuova forza politica non «Partito della libertà» ma «Popolo della libertà». Partito, come si sa, suonava male dopo la crisi della Prima Repubblica e la sparizione di tutti i partiti tradizionali. Però la parola «partito» aveva, insieme a un carattere fazioso, anche una sua modestia. Un «partito» è infatti quella organizzazione che accetta e riconosce di rappresentare solo una «parte» del Paese, e dunque di doversi confrontare con le altre parti. Quando una parte politica si autodefinisce invece «popolo», vuol dire che ha una tentazione egemonica perché esclude dal popolo tutte le altre parti, e dunque fa un piccolo passo in direzione del «populismo»; che, per l’appunto, vuol dire identificarsi con un mitico «popolo», pretendendo cioè di rappresentarlo tutto, e relegando dunque nel ghetto dei «nemici del popolo» tutti quelli che non la pensano allo stesso modo.

«Popolo», inoltre, è un sostantivo singolare, a differenza di «cittadini» e di «elettori» che sono plurali, e quindi presuppongono il pluralismo, nel senso che ogni cittadino, ogni elettore, la pensa a modo suo. Nel «popolo», invece, non c’è tutta questa libertà, è un termine collettivo, tutti quelli che fanno parte del «popolo» sono considerati uguali, una massa indistinta. Ecco perché i regimi autoritari hanno sempre fatto riferimento al «popolo», mentre le democrazie ai «cittadini».

Quindi, cari cittadini di Napoli, ora che destra e sinistra sono sempre meno riconoscibili e distinte tra loro, ora che Valente e Verdini vanno a braccetto, che Lettieri si candida con Berlusconi ma tifa Renzi, che de Magistris fa il Peron e Brambilla il Brambilla, e tutti insieme vi chiamano «popolo» per chiedervi il voto, imparate a distinguere e ricordate l’aggettivo qualificativo che a questa parola appone la nostra Costituzione: domani non dobbiamo essere un generico «popolo», massa di manovra del demagogo di turno che vuole prendere o tenersi il potere, ma bensì «popolo sovrano», composto di cittadini adulti e consapevoli, e per questo depositario dello scettro in democrazia.

4 giugno 2016 | 10:53
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Da - https://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/amministrative-2016/notizie/differenza-popolo-cittadini-f6530258-2a30-11e6-9dad-95a4efefa57d.shtml