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Autore Discussione: Bruno MANFELLOTTO.  (Letto 47655 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Novembre 17, 2012, 09:06:26 pm »

Editoriale

Parlamento, il peggiore dei finali

di Bruno Manfellotto

Con il voto segreto per mandare i giornalisti in carcere, questa classe politica ha offerto il suo ultimo spettacolo miserabile.

Mettendo a verbale il suo rancore e il suo disprezzo per la libertà di stampa

(16 novembre 2012)

Martedì 13 novembre, nell'aula di Palazzo Madama, è stata scritta una delle pagine più tristi del Parlamento italiano con l'approvazione a voto segreto, insomma senza nemmeno firmarsi con nome e cognome, di un emendamento proposto dalla Lega e dall'Api di Francesco Rutelli in virtù del quale, a certe condizioni e in certi casi, è previsto il carcere per i giornalisti colpevoli del reato di diffamazione. Se diventasse legge, la maggior parte dei cronisti e quasi tutti i direttori di giornale finirebbero in galera dovendo rispondere i primi di ciò che hanno scritto, anche sulla base di documenti e atti della magistratura, e i secondi per ciascuno dei propri giornalisti essendo per definizione responsabili e diventando per necessità recidivi. Tutto era nato, si ricorderà, sulla scorta della vicenda Sallusti: la pubblicazione di un corsivo su "Libero" firmato con un nome di penna - Dreyfus - dietro il quale si nascondeva Renato Farina, l'agente Betulla di altre squallide vicende spionistiche e ricattatorie, e basato su notizie del tutto false che coinvolgevano l'onorabilità di un magistrato.

IL DIRETTORE ALLORA ERA, appunto, Alessandro Sallusti e avrebbe dovuto rettificare, smentire o chiedere scusa, ma non lo fece, e sbagliò.
Il giudice intervenne con mano pesante condannando il responsabile all'arresto: trasformò così il colpevole in eroe e una punizione che pure sarebbe stata necessaria in una minaccia estrema a tutta la categoria per l'oggi e per il domani. Una volta si sarebbe detto, lo si legga a mo' di metafora, colpirne uno per educarne cento.

Apriti cielo. Mercoledì 24 ottobre scorso, sull'onda del caso eclatante amplificato da giornali e tv e dunque dell'emergenza - senza la quale in questo paese non c'è argomento che meriti di entrare nelle aule parlamentari, dalla disoccupazione giovanile all'esondazione dell'Ombrone - il 24 ottobre scorso un Senato farcito di espertissimi avvocati e dotti legulei cominciava a discutere del reato di diffamazione a mezzo stampa con l'obiettivo di evitare le manette a Sallusti. Attenzione: non ci fu intervento in aula che non confermasse la netta opposizione di tutti i gruppi parlamentari alla pena del carcere.

TUTTI. MA TANT'E', LE PAROLE sono una cosa e i fatti un'altra. Venti giorni dopo un gruppetto di falchi della Lega e dell'Api di Rutelli, ai quali si sono aggiunti senatori del Pdl e pure qualcuno del Pd, coperti dal comodo paravento del voto segreto hanno violato un patto già raggiunto, ribaltato la legge e ripristinato la pena del carcere. Misera imboscata. E, con l'eccezione di Rutelli che ha spinto per il voto segreto ma ha ammesso di voler vedere i cronisti in galera, senza nemmeno metterci la faccia.

Dopo i fuochi d'artificio è assai probabile che ora non se ne faccia più nulla, insomma che il provvedimento finisca, come s'usa dire, su un binario morto. E però le domande restano e, al di là della questione in sé e della valutazione dei fatti che hanno portato all'agguato in Senato, resta anche la constatazione dell'inquietante degrado cui è giunto il modo di fare politica e di affrontare qui da noi anche questioni serissime come quella dei confini della libertà di stampa e del rispetto delle persone, siano esse cittadini o giornalisti.

I senatori che hanno votato in segreto per il carcere sono gli stessi che meno di un mese fa avevano dichiarato in pubblico la loro netta contrarietà. Non potevano non sapere che il loro gesto avrebbe finito per allontanare l'approvazione di un provvedimento serio ed equilibrato e avevano pure messo nel conto la figuraccia. Eppure l'hanno fatto. Perché? Probabilmente per lasciare che la legge sulla diffamazione resti quella che è dal 1948; o far sì che a questo punto ad assumersi l'eventuale responsabilità di evitare il carcere a Sallusti sia il governo e non il Parlamento; o forse solo per mettere a verbale il loro rancore nei confronti dei giornalisti e il loro disprezzo per la libertà di stampa. Che brutta fine di stagione.

Twitter @bmanfellotto

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« Risposta #61 inserito:: Novembre 27, 2012, 05:41:46 pm »

Editoriale

Parlamento, il peggiore dei finali

di Bruno Manfellotto

Con il voto segreto per mandare i giornalisti in carcere, questa classe politica ha offerto il suo ultimo spettacolo miserabile.

Mettendo a verbale il suo rancore e il suo disprezzo per la libertà di stampa

(16 novembre 2012)

Martedì 13 novembre, nell'aula di Palazzo Madama, è stata scritta una delle pagine più tristi del Parlamento italiano con l'approvazione a voto segreto, insomma senza nemmeno firmarsi con nome e cognome, di un emendamento proposto dalla Lega e dall'Api di Francesco Rutelli in virtù del quale, a certe condizioni e in certi casi, è previsto il carcere per i giornalisti colpevoli del reato di diffamazione. Se diventasse legge, la maggior parte dei cronisti e quasi tutti i direttori di giornale finirebbero in galera dovendo rispondere i primi di ciò che hanno scritto, anche sulla base di documenti e atti della magistratura, e i secondi per ciascuno dei propri giornalisti essendo per definizione responsabili e diventando per necessità recidivi. Tutto era nato, si ricorderà, sulla scorta della vicenda Sallusti: la pubblicazione di un corsivo su "Libero" firmato con un nome di penna - Dreyfus - dietro il quale si nascondeva Renato Farina, l'agente Betulla di altre squallide vicende spionistiche e ricattatorie, e basato su notizie del tutto false che coinvolgevano l'onorabilità di un magistrato.

IL DIRETTORE ALLORA ERA, appunto, Alessandro Sallusti e avrebbe dovuto rettificare, smentire o chiedere scusa, ma non lo fece, e sbagliò. Il giudice intervenne con mano pesante condannando il responsabile all'arresto: trasformò così il colpevole in eroe e una punizione che pure sarebbe stata necessaria in una minaccia estrema a tutta la categoria per l'oggi e per il domani. Una volta si sarebbe detto, lo si legga a mo' di metafora, colpirne uno per educarne cento.

Apriti cielo. Mercoledì 24 ottobre scorso, sull'onda del caso eclatante amplificato da giornali e tv e dunque dell'emergenza - senza la quale in questo paese non c'è argomento che meriti di entrare nelle aule parlamentari, dalla disoccupazione giovanile all'esondazione dell'Ombrone - il 24 ottobre scorso un Senato farcito di espertissimi avvocati e dotti legulei cominciava a discutere del reato di diffamazione a mezzo stampa con l'obiettivo di evitare le manette a Sallusti. Attenzione: non ci fu intervento in aula che non confermasse la netta opposizione di tutti i gruppi parlamentari alla pena del carcere.

TUTTI. MA TANT'E', LE PAROLE sono una cosa e i fatti un'altra. Venti giorni dopo un gruppetto di falchi della Lega e dell'Api di Rutelli, ai quali si sono aggiunti senatori del Pdl e pure qualcuno del Pd, coperti dal comodo paravento del voto segreto hanno violato un patto già raggiunto, ribaltato la legge e ripristinato la pena del carcere. Misera imboscata. E, con l'eccezione di Rutelli che ha spinto per il voto segreto ma ha ammesso di voler vedere i cronisti in galera, senza nemmeno metterci la faccia.

Dopo i fuochi d'artificio è assai probabile che ora non se ne faccia più nulla, insomma che il provvedimento finisca, come s'usa dire, su un binario morto. E però le domande restano e, al di là della questione in sé e della valutazione dei fatti che hanno portato all'agguato in Senato, resta anche la constatazione dell'inquietante degrado cui è giunto il modo di fare politica e di affrontare qui da noi anche questioni serissime come quella dei confini della libertà di stampa e del rispetto delle persone, siano esse cittadini o giornalisti.

I senatori che hanno votato in segreto per il carcere sono gli stessi che meno di un mese fa avevano dichiarato in pubblico la loro netta contrarietà. Non potevano non sapere che il loro gesto avrebbe finito per allontanare l'approvazione di un provvedimento serio ed equilibrato e avevano pure messo nel conto la figuraccia. Eppure l'hanno fatto. Perché? Probabilmente per lasciare che la legge sulla diffamazione resti quella che è dal 1948; o far sì che a questo punto ad assumersi l'eventuale responsabilità di evitare il carcere a Sallusti sia il governo e non il Parlamento; o forse solo per mettere a verbale il loro rancore nei confronti dei giornalisti e il loro disprezzo per la libertà di stampa. Che brutta fine di stagione.

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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/parlamento-il-peggiore-dei-finali/2195021/18
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« Risposta #62 inserito:: Dicembre 01, 2012, 06:40:02 pm »

Editoriale

E Monti studia come fare il bis

di Bruno Manfellotto

Inutile girarci intorno, il Professore ha una gran voglia di restare a Palazzo Chigi anche dopo il voto. Ma è stretto fra la crescita del Pd e la pochezza del centro. Quindi...

(29 novembre 2012)

C'è un premier in carica, il professor Mario Monti, dal profilo sempre meno tecnico e sempre più politico. E c'è un programma che ha salvato l'Italia dal baratro, ma le cui conseguenze sociali ed economiche si fanno sempre più dure, fino a mettere a rischio non solo la fabbrica e il lavoro, ma anche conquiste irrinunciabili come la sanità pubblica.

Intorno all'uomo e a quel programma si giocherà la campagna per le politiche 2013. Ma sia l'uno che l'altro tema hanno percorso sotterraneamente anche le primarie del centrosinistra. Al cui esito lo stesso Monti deve ora guardare con attenzione, perché il suo destino ne sarà condizionato molto di più di quanto appaia.

Che abbia una gran voglia di restare a Palazzo Chigi, il prof ce lo ricorda ogni volta che può: all'adunata dei manager a Milano e con Hollande all'Eliseo, in viaggio negli Emirati Arabi e all'uscita dalla Casa Bianca, al convegno sulla famiglia e dalla poltroncina di "Che tempo che fa" dove è andato a presentare un suo libro (se ce l'avessero detto un anno fa non ci avremmo creduto). Lo ha fatto perfino in risposta a Giorgio Napolitano che, nel gran rumore di fondo che accompagna ogni uscita di Monti, gli ha dovuto ricordare alcuni punti fermi: il premier è senatore a vita, e dunque non può correre per un seggio parlamentare se non dimettendosi da Palazzo Madama e presentandosi alla Camera, un bel pasticcio; meglio poi che durante la campagna elettorale si mantenga neutrale; comunque, chiunque può indicarlo al presidente della Repubblica alla guida del governo che verrà, certo, ma solo dopo il voto, non prima.

LUNGI DAL TIRARSI INDIETRO , Monti ha replicato che deciderà da solo. Giusto, ovvio, naturale. Ma come farlo senza violare il mandato super partes confezionatogli su misura da Napolitano e la sua stessa indole? E' questo che lo tormenta. Al centro dello schieramento politico si va faticosamente formando un movimento che ambisce a federarsi intorno a lui e che si riconosce nella sua Agenda. Le ambizioni, però, sono lontane dalla realtà: la pattuglia è ancora informe e sfilacciata, e in quanto al leader corteggiato è ancora preda del "vorrei ma non posso".

Deciso a non schierarsi né con Bersani né con Berlusconi o con ciò che resta del Pdl, Monti sta pensando al modo in cui ufficializzare sia la sua disponibilità, sia la decisione di accettare l'offerta che gli viene da Montezemolo & C. Trovare la formula corretta non è facile. E comunque, presa la decisione, è opportuno ora misurarla con ciò che sta accadendo intorno a lui. A cominciare dalle molte cose che le primarie del centrosinistra hanno smosso.

NEI MESI SCORSI L'IDEA di un Monti bis correva parallela all'ipotesi di un Parlamento frantumato, parcellizzato, incapace di esprimere una maggioranza forte e dunque costretto a una coalizione di salute pubblica. Giusta giusta per il tecnico-politico Monti. La lunga marcia delle primarie, invece, ha messo alle corde il Pdl e mostrato un Pd che sembra aver ritrovato la voglia di far politica, tanto che i sondaggi stanno premiando la scommessa coraggiosa di Bersani e la novità Renzi.

Nelle piazze e in tv, poi, dietro la parola d'ordine della rottamazione da una parte e la forza dell'usato sicuro dall'altra, pur con le cinquanta e più sfumature del caso, si sono scontrate fin dall'inizio diverse strategie politiche ed economiche: Renzi si è affidato a Luigi Zingales, dietro Bersani faceva capolino Stefano Fassina. Bocconiani tutti e due, ma di approdi finali assai diversi: Chicago e Roma. Senza contare che entrambi i contendenti hanno dovuto chiedere aiuto a Nichi Vendola, che al momento opportuno certo farà pesare i suoi voti e il suo appoggio.

Se il voto di marzo dovesse davvero consegnare al Pd una vittoria netta, sarà ben difficile chiedere al suo leader - per di più santificato dal voto popolare delle primarie - di farsi da parte o di giocare un ruolo da gregario in un governo Monti bis. Forse anche questo rende incerto il premier e ardua la sua scelta. Magari, se ne parlasse un po' con Bersani...


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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/e-monti-studia-come-fare-il-bis/2195701/18
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« Risposta #63 inserito:: Febbraio 01, 2013, 12:04:13 am »

Editoriale

Cercasi lavoro disperatamente

di Bruno Manfellotto

Oggi solo il 60 per cento degli italiani dichiarano di avere un'occupazione, e quattro giovani su dieci confessano di non avere un posto e di non chiederlo nemmeno. Questa è la vera emergenza, ma in campagna elettorale se ne parla ancora poco

(24 gennaio 2013)

Un commento del "Financial Times" - "Monti non è l'uomo giusto per guidare l'Italia" - ha fatto saltare i nervi al premier-candidato premier. Lettere, polemiche, marce indietro. Del resto accadde più o meno lo stesso quando Silvio Berlusconi fu bollato come "inadatto a governare" sulla copertina dell'"Economist", un altro giornale inglese. Perfida Albione. Piuttosto sorprende la deriva dietrologica alla quale s'è lasciato andare Mario Monti nel decrittare la vicenda: «L'editorialista di FT non ama Angela Merkel e attacca me per attaccare lei», lettura più consona alla Seconda Repubblica che alla stagione del prof bocconiano aspirante premier della Terza. Peccato, perché poteva essere l'occasione per entrare nel vivo delle critiche. Giuste o esagerate che fossero.

Parlare un po' di più del lavoro, per esempio, non farebbe male. Il tema percorre l'editoriale del "Financial Times", semplicemente perché a questo sono legati tutti gli altri, e dunque resterà a lungo al centro dell'agenda politica. Secondo i più recenti dati Istat, infatti, nel 2011 risultavano ufficialmente al lavoro solo sei italiani su dieci tra i 20 e i 64 anni; mentre la percentuale di chi non ha un posto né lo cerca (il cosiddetto tasso di inattività che colpisce soprattutto i più giovani) ha toccato quota 37,8. Peggio di noi solo Grecia e Malta.

IL DRAMMA E' RIMOSSO in campagna elettorale e ignorato dal sindacato, più attento alla difesa del posto di chi ce l'ha che alla creazione di nuovo lavoro per chi non ce l'ha. Il tutto aggravato dal cronico immobilismo delle imprese e della pubblica amministrazione, al punto che in questi anni nulla si è mosso sul piano dell'innovazione, e dunque della competitività. Risultato, i ragazzi disoccupati sono stretti tra l'incubo di un eterno precariato, la voglia o la necessità di cercare lavoro o di studiare all'estero (e lì abbandonati e dimenticati, al punto di non poter votare!) e l'ineluttabile destino di accontentarsi di lavori assai peggio retribuiti di quelli dei loro fratelli maggiori o genitori.

In materia le agende di Monti e Bersani, concorrenti oggi ma molto probabilmente destinati a camminare insieme domani, non divergono più di tanto. Entrambi pensano per esempio che sia opportuno ridurre e riequilibrare i carichi fiscali per favorire i consumi; e tutti e due sono convinti che si debba cominciare proprio abbattendo la tassazione sul lavoro e sull'impresa, con forme di defiscalizzazione o magari legando le retribuzioni all'andamento della produttività. Ed entrambi, ancora, concordano su indennità di disoccupazione o simili (Bersani ha rispolverato il reddito di cittadinanza, un salario minimo per tutti, al di là di meriti e bisogni). In quanto alla riforma del mercato del lavoro firmata Fornero, in campagna elettorale i due si sono già trovati d'accordo sulla possibilità di rimettervi mano, nonostante nell'agenda Monti sia perentoriamente scritto che «non si può fare marcia indietro».

VEDREMO. PER?’ è proprio l'amara constatazione che il governo Monti abbia fatto poco sul tema del lavoro ad aver attirato gli strali del "Financial Times" che contesta in nuce la scelta: nell'anno ideale del governo tecnico che tutto avrebbe consentito, il professore ha preferito il rigore di bilancio alle riforme, l'austerità allo stimolo all'economia, l'aumento delle tasse alla defiscalizzazione del lavoro e delle imprese.

Scuole di pensiero diverse? Anche. L'esigenza di un intervento d'emergenza per mettere in sicurezza i bilanci del Paese e la sua credibilità internazionale? Certo che sì. Ma è interessante notare che non solo il "Financial Times", ma lo stesso Monti osservano ora che se alcune riforme incisive non sono state fatte è solo perché anche il governo tecnico è rimasto ostaggio di partiti, lobby, corporazioni. Ci risiamo. Forse il primo punto di ogni agenda dovrebbe essere proprio l'impegno a condizionare ogni alleanza futura alla scomparsa di certe vecchie, brutte abitudini.

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« Risposta #64 inserito:: Febbraio 01, 2013, 11:55:56 pm »


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Eppure tutti sapevano

di Bruno Manfellotto


La Banca d'Italia dice di conoscere la situazione a rischio di Mps dal 2009. Però bisognerà aspettare due anni perché si chieda di cambiare i vertici, tre perché succeda, quattro perché si faccia pulizia. Come si spiega tanta lentezza? Vediamo

(31 gennaio 2013)

Designato alla presidenza del Monte dei Paschi dal ministro del Tesoro Ciampi con il mandato di portare la pace nella più antica e rissosa banca del mondo, il professor Luigi Spaventa, che purtroppo non c'è più, diceva agli amici con la sua consueta ironia: «Vado a sedermi tra Nano e Berisha...». Insomma, Siena come Tirana; la Toscana Felix come l'Albania post comunista; Luigi Berlinguer e Franco Bassanini - in lite sulla governance e sulle sorti dell'istituto - come il primo ministro e il leader del partito albanese. Mission impossible. Era il 1997, Spaventa durò in carica pochi mesi.

Da allora i protagonisti (non tutti) sono cambiati, ma i mali storici del Mps si sono aggravati fino a esplodere rivelando azzardi finanziari, manager spregiudicati con conti correnti in milioni, sospetti di mazzette. La terza banca italiana paga la sua bulimìa di potere, e trema. Eppure la Banca d'Italia dice che è tutto sotto controllo; Grilli conferma che il sistema del credito gode ottima salute e annuncia un prestito a Mps di 3,9 miliardi; i correntisti non temano rischi e la stampa estera, sempre pronta a fare le bucce all'Italietta, non se n'occupa più di tanto: roba da poco. Ma allora, se tutto va ben madama la marchesa, perché tanto clamore?

SIAMO IN CAMPAGNA ELETTORALE , si risponde. Certo, chiaro, ma se questo crescendo di strumentalizzazioni è possibile è proprio perché qui, a differenza che altrove, l'intreccio tra politica e credito è così forte da far apparire ogni normale intervento come una mossa sulla scacchiera del potere, tale - come scrive Luigi Zingales - da rendere di fatto complici tutti i protagonisti.

Del resto, si è lasciato che le sorti di una grande banca si decidessero nella ridotta senese dove Comune e Provincia detengono il potere di nomina di tutti i consiglieri d'amministrazione. Se il (fallito) salvataggio dell'Alitalia è stato invocato sventolando l'italianità, la storia ultracentenaria del Mps è scandita dall'orgogliosa rivendicazione della senesità. Il radicamento nel territorio, parola abusata, veniva esaltato come chiave di volta della robustezza della banca e della sua estraneità ai venti della globalizzazione finanziaria. Nascondeva invece manovre di potere, titoli tossici, forse tangenti.

Sorprende, poi, il tempo che c'è voluto per avviare la pulizia. La Banca d'Italia ammette di conoscere la situazione di rischio fin dal 2009-10, governatore Mario Draghi. Ma perché si chieda la sostituzione dei vertici bisognerà aspettare il novembre 2011, governatore Ignazio Visco. Passano però tre mesi perché arrivi il nuovo direttore generale, cinque perché si insedi il presidente Alessandro Profumo, e altri sette, fino all'ottobre 2012, perché dalla cassaforte di Rocca Salimbeni spuntino i veleni del carteggio con Nomura. Altre banche in crisi hanno svelato i loro conti e sfidato il mercato, Mps no.

PER TUTELARE LA BANCA , i risparmiatori e il sistema - che arriva a eleggere Mussari a rappresentare nell'Abi tutte le banche - la prudenza ha finito però per salvare le responsabilità della Fondazione e degli enti locali, cioè dei veri padroni di Mps. Chetare e sopire, però, non è servito: il caso è esploso con fragore massimo seminando dubbi e sospetti anche su chi non li merita e regalando a Berlusconi una straordinaria carta elettorale che non avrebbe mai giocato, se non altro perché l'Mps dell'ambiziosissimo Mussari ha generosamente finanziato pure lui, e fatto affari perfino con Denis Verdini.

Ma forse altro non si poteva fare proprio perché in quella singolare enclave i poteri decisionali sono strategicamente parcellizzati tra istituzioni, governo, partiti. E' questo che dovrebbe allarmare e far riflettere.

Ci sono stagioni in cui finanza e banche dettano legge ai politici, e non viceversa. Quand'è così, è facile che emergano cacicchi locali e banchieri per caso capaci di condizionare ogni scelta. La storia stessa di Mps lo dimostra: dall'acquisto di Antonveneta all'ultimo aumento di capitale a debito, voluto dai boss locali e autorizzato da Tremonti (che oggi moraleggia e cerca di infilzare l'odiato Draghi), fino al derivato monstre, ogni decisione serviva a lasciare a Siena il controllo della banca e a impedire a chiunque di metterci becco. Tutti sapevano e tacevano: e ciascuno si coccolava la sua fondazione bancaria di riferimento...

Lo si voglia o no, è questo che molti pensano ed è questo che mina alle fondamenta le istituzioni. Qualcosa cambierà solo quando chi fa politica capirà che è più importante investire sulla credibilità del Paese che sulla sua personale fetta di potere.

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« Risposta #65 inserito:: Febbraio 09, 2013, 10:52:55 am »

Editoriale

Ma ora fateci sognare un po'

di Bruno Manfellotto

Torna l'incubo Berlusconi, terrore dei mercati e dei cittadini che non ne possono più di facili promesse. Però per isolarlo non bastano annunci di nuove alleanze. Ci vorrebbe una méta comune, un'idea forte, un progetto per il futuro...

(08 febbraio 2013)

In Borsa non c'è niente di peggio dell'incertezza: alimenta la paura, dipinge i peggiori scenari, allontana gli investitori dai mercati. In politica, invece, la confusione diventa astensione, o al contrario spinge gli indecisi nelle braccia di improbabili sirene o di populisti inconcludenti. Silvio Berlusconi conosce bene questi meccanismi e cinicamente li sfrutta. Sa che è difficilissimo se non impossibile vincere la partita, perché troppo ampio è il gap con il Pd di Bersani e il brand del Caimano non tira più come prima, ma non si fermerà, perché in queste elezioni è in gioco la stessa esistenza del Pdl insidiato dal nuovo centro di Mario Monti.

Una lotta per la sopravvivenza politica. Su questo altare il Cavaliere è disposto a sacrificare tutto, anche la governabilità del Paese, la salute dell'economia, la credibilità internazionale. Muoia Sansone con tutti i filistei. Le sue proposte-choc non sono segno di forza, eppure il suo ritorno sulla scena è bastato perché prepotente si riaffacciasse "l'anomalia italiana" descritta dal report della banca d'affari J.P. Morgan (il testo integrale è sul sito espressonline.it): lì si teme che la vittoria del Pd non sia schiacciante; che il cammino per un'alleanza post elettorale con Monti sia zeppo di ostacoli; e tale è l'incertezza da chiedersi con terrore: e se Berlusconi dovesse vincere? Risposta chiara: destino greco.

In una campagna elettorale mediatica, i sondaggi possono servire non solo a fotografare un'intenzione di voto, ma anche a trasmettere l'idea di consensi crescenti. In quanto alle proposte estreme, spesso non sono altro che mosse per mettere in difficoltà l'avversario. Annunciare l'abolizione dell'Imu o la riduzione delle tasse e farsi rispondere che non è possibile, equivale a spuntare qualsiasi altra arma anti tasse: se non lo può fare l'uno, non lo può fare nemmeno l'altro.

A fronte di una spregiudicatezza che forse non si aspettava, Pier Luigi Bersani ha scelto la serietà, la forza dell'usato sicuro contro l'azzardo della provocazione continua, e questo ha tranquillizzato il suo popolo. E' come se dicesse agli elettori: prima fateci vincere, poi governeremo bene. Strategia simile a quella adottata per le primarie: votate me, poi penseremo agli accordi con Matteo Renzi. Gli è andata bene, ma da allora a oggi una parte del popolo delle primarie che si era avvicinata al Pd perché aveva colto la forza della partecipazione, la novità delle candidature e la schiettezza del confronto si è disperso assieme alla tensione del cambiamento.

Nei pochi giorni che ci separano dalle urne, poi, il clima non è più lo stesso e la lunga rincorsa di Berlusconi dovrebbe spingere il Pd a un colpo di reni per conquistare gli indecisi, convincere gli astensionisti di ritorno, acciuffare chi si era avvicinato ai banchi delle primarie per poi richiudersi nel tunnel dell'indifferenza. Certo, il pericolo Berlusconi almeno un effetto lo ha avuto: spingere Monti e Bersani a riannodare il filo del dialogo e ad annunciare di nuovo la loro alleanza post elettorale (pur se con un Vendola ancora riluttante). Sembra quasi una risposta ai timori della J.P. Morgan. E il fatto che qualcuno (Monti, Fini) torni ancora a invocare un Napolitano bis che finora Napolitano ha escluso, serve non tanto a indicare una soluzione realmente praticabile per il Quirinale, quanto a segnalare una gran voglia di certezze e di stabilità.

E però non basta. Ora non è più il momento di annunciare alleanze, ma di dare agli elettori il segno forte di un vincolo irrinunciabile. L'ha detto bene sulla "Stampa" Luca Ricolfi citando Nichi Vendola: «Per cambiare le cose, per portare la gente a sperare e a credere di nuovo nel futuro non bastano le promesse di marinaio degli imbonitori di destra, di sinistra e di centro, né le tabelle dei loro uffici studi, ma una méta comune verso cui tendere, un sogno che valga la pena di essere sognato, o forse un ricordo che alimenti quel sogno».

Un sogno concreto. Nel 1996 fu l'euro, stavolta potrebbe essere l'impegno forte a cambiare e ad ammodernare un Paese frenato da privilegi, corporazioni, vecchiume. A fare le cose che finora nessuno è riuscito a fare. Se non ora, quando?

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« Risposta #66 inserito:: Febbraio 20, 2013, 11:14:16 pm »

 
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Benedetto lascia l'Italia si sfascia

di Bruno Manfellotto

La Finmeccanica decapitata, l'Eni sotto inchiesta, il Mps costretto a rinascere dopo anni di mala gestione, il malcostume diffuso di Formigoni & C... I pm indagano e il sistema è incapace di rigenerarsi. E di comprendere la lezione del Papa

(14 febbraio 2013)

Non è mancato, naturalmente, il tentativo di buttarla in politica. Insomma l'idea di trasferire il gesto straordinario di Joseph Ratzinger nella quotidianità della campagna elettorale. Forse perché tutti i concorrenti temevano, come ha confessato candidamente il solito Berlusconi, che l'eccezionalità della vicenda oscurasse per qualche giorno il chiacchiericcio pre-elettorale. Ciò che non poté Sanremo poté Benedetto XVI: allora via, tutti a commentare. Ciascuno a modo suo.

Beppe Grillo è stato il più rapido: che sia nero il nuovo papa, e naturalmente eletto via Internet. Trovando un'insolita consonanza con il Cavaliere, non sull'opportunità del Web ma sul colore. Vendola, invece, vorrebbe che il successore di papa Benedetto non lanciasse fulmini contro i gay, «che vogliono vivere alla luce del sole». Renato Schifani è rimasto ammirato dall'impegno papale contro la mafia. Se lo dice lui. Silvana Carcano, e merita citarla, candidata della lista Grillo alla Regione Lombardia, ha chiesto lo scioglimento dello Stato pontificio. Amen.

Mai stridore fu così acuto. Colui che era stato definito il più conservatore dei papi si è fatto protagonista del più rivoluzionario degli atti: i politici lo ripagano facendo finta di non capire; colui che era stato giudicato poco comunicativo, diventa sottile stratega mediatico (l'annuncio delle dimissioni, l'elezione programmata del successore in coincidenza con la Pasqua di resurrezione): ma non si vede l'ora di tornare alla febbre elettorale.

Si dirà che ogni accostamento tra una vicenda e l'altra è improprio e forse perfino strumentale, ma certamente legittimo, e comunque istintivo. Non si può infatti pensare alla forza del gesto voluto in nome del rinnovamento della Chiesa, senza guardare all'incapacità di cambiare degli uomini che fanno politica da questa parte del Tevere. Né è possibile pensare agli scandali e ai veleni che hanno afflitto il Vaticano e a questo estremo tentativo di rigenerazione offerto da Ratzinger senza che vengano alla mente altri scandali e altri veleni accolti di qua dal fiume da paralisi e indifferenza.

Dei rischi che correva la Finmeccanica, una delle prime dieci imprese italiane, si sapeva da anni, certamente già da quando al posto di Guarguaglini, indagato con la moglie per storie di mazzette e riciclaggio, fu scelto Giuseppe Orsi nonostante fosse già aperta l'inchiesta della magistratura che lo avrebbe portato fino all'arresto. Ma in due anni né Berlusconi, cui era stato imposto dalla Lega, né Monti che lo ha riconfermato hanno trovato il modo di liberare una grande impresa da un handicap che pesava come un macigno.

E' appena partita un'indagine a carico di Paolo Scaroni, amministratore delegato dell'Eni, tangenti pure qua, dopo che altri sospetti avevano accompagnato le attività della compagnia nella Russia di Putin. E altri due scandali agitano l'area grigia che unisce politica e affari: il Monte dei Paschi di Siena sta riemergendo dalla lunga stagione in cui impazzava, parola dei pm, "la banda del cinque per cento"; la Regione Lombardia va al voto dopo il decennio di Roberto Formigoni vissuto all'insegna di favori, regalìe, mazzette, malcostume diffuso. E pensare che al posto del Celeste vorrebbe sedersi proprio Bobo Maroni, lo sponsor di Orsi...

Ma c'è un aspetto che colpisce perfino di più delle mazzette a go-go: è questa incapacità del sistema di difendersi, di autorigenerarsi. Nessuna di queste vicende - Eni, Finmeccanica, Mps, Formigoni - è nuova e gli esiti non stupiscono più di tanto. Eppure non c'è stato collegio dei revisori, autorità di vigilanza, azionista, commissione parlamentare o ministro che sia riuscito a mettere le mani in questi verminai nazionali, a ripulirli, a proteggere dagli assalti banche, imprese e amministrazioni.
No, ogni volta è stato necessario aspettare il magistrato. Quando ormai l'immagine dell'azienda era distrutta, il manager compromesso, il business allontanato. L'impressione è che il Paese, fuori controllo, si vada sfaldando. La speranza, appunto, è che arrivi l'ora dei gesti forti.

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« Risposta #67 inserito:: Febbraio 28, 2013, 11:58:28 pm »

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Aiuto, mi è caduto un Grillo nel piatto

di Bruno Manfellotto

Ieri sottovalutato e demonizzato, oggi ingombrante per i partiti. È l'esercito a cinque stelle, destinato a essere determinante in Parlamento e guidato da un leader che non è candidato. Ora tutti dovranno farci i conti. Bersani per primo

(21 febbraio 2013)

Ce l'abbiamo fatta, è finita. La campagna elettorale è ormai alle spalle, e non si può nascondere un certo sollievo. Che fatica, quante parole, che caos. E che ansia. Resta un po' di tempo per le ultime riflessioni, per sciogliere i dubbi che ancora attanagliano - pare - un italiano su tre e scegliere per chi votare, o magari decidere di restarsene a casa - e non andarci proprio al seggio, estremo gesto di personale testimonianza, ma in realtà di rinuncia. Perché stavolta ogni voto può davvero contribuire ad aprire una stagione nuova. Valga per tutti il caso Lombardia, determinante per la vittoria del Pd anche al Senato, ma anche simbolo dell'Italia che verrà: per la Regione c'è da una parte il volto nuovo e pulito di Umberto Ambrosoli; dall'altra quello della Lega secessionista che appoggiò Berlusconi e Formigoni, che ieri naufragò nelle note spese del Trota e di Rosi Mauro e oggi sprofonda negli scandali.

Un mese di fuoco. Che ripercorriamo in trentotto pagine attraverso le foto firmate per l'occasione, e solo per "l'Espresso", da due giovani fotoreporter: Simone Donati (agenzia Terraproject) ha coperto il nord in medio formato colore; Gianni Cipriano (On-Off) ha invece lavorato da Roma in giù, rigorosamente in bianco e nero. Entrambi svelando il volto nascosto di una campagna elettorale che ha privilegiato la tv, da parte di chi c'è andato e di chi ostentatamente l'ha disertata. Ecco dunque i leader, gli staff, gli uomini della sicurezza, gli studi televisivi, le piazze...

In queste stesse pagine , "l'Espresso" fa le pulci alla lista elettorale di Roberto Maroni in Lombardia piena zeppa di impresentabili e di imbarazzanti; lascia a Roberto Saviano il compito di indagare sul voto di scambio, che purtroppo ancora c'è, e su quanto costa; e guarda avanti raccontando sì le ultime ore del tour elettorale del probabile vincitore, Pier Luigi Bersani, ma soprattutto riflettendo sull'incomodo che gli è capitato tra i piedi, ieri sottovalutato, oggi ingombrante: Beppe Grillo.

Diciamo la verità, non sono stati giorni di gloria. Abbiamo visto e sentito di tutto. Insulti e bugie, false promesse e colpi bassi, truffe elettorali e bufale un tanto al chilo. L'ipocrisia italica ha vietato negli ultimi giorni la diffusione dei sondaggi, ma in Rete e sui siti impazzavano percentuali e previsioni, e non c'era incontro pubblico e privato in cui non ci si scambiasse informazioni su rilevazioni che comunque allegramente continuavano. Passavano di bocca in bocca di nascosto, come il wkisky nell'America del proibizionismo.

Alla farsa dei sondaggi si è aggiunta quella dei confronti televisivi, una guerra insulsa tra radio, tv e siti Internet senza regole, senza tempi, a volte sotto forma di comizi informatici senza contraddittorio. Il resto lo ha fatto una legge elettorale assurda e poco democratica che impone liste prefabbricate dagli apparatchik di partiti e movimenti, oscura gli aspiranti parlamentari ed esalta solo i candidati premier, in un sistema che però non è né presidenzialista né bipolare.

In questa terra di mezzo, in questa stagione-ponte tra Seconda e Terza Repubblica, la vera sorpresa politica porta il nome di Beppe Grillo che ha riempito le piazze d'Italia, che non si è nemmeno candidato e dunque non siederà in Parlamento, ma che ha imposto agli altri molte parole d'ordine tratte dalla sua agenda - primarie, uso della Rete, tagli della politica, dimezzamento dei parlamentari - e soprattutto guiderà, se pur a distanza, un esercito di deputati e senatori che risulterà determinante fin dai primi appuntamenti: la nuova maggioranza, l'elezione del Capo dello Stato, la legge finanziaria...

Che succederà? Che ne sarà delle truppe grilline? Resterà una falange compatta o diventerà un esercito di guerriglia? Comunque, sarà ribaltone, come profetizza Dario Fo, se non altro di molte regole del gioco consolidate. Noi, nell'attesa, come recita il titolo dell'altra copertina, ci limitiamo a gridare Forza Italia, quella giusta, quella sana, quella buona. Che è esattamente l'opposto di quella di Berlusconi.

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« Risposta #68 inserito:: Marzo 04, 2013, 06:28:57 pm »

Prima il Pd deve cambiare

di Bruno Manfellotto

Non ha senso che, dopo la mancata vittoria, il partito di Bersani cerchi alleanze senza aver capito la lezione: la conservazione e le logiche che valevano fino a ieri, oggi non valgono più

(04 marzo 2013)

A desso è fin troppo facile dire: ha vinto il populismo miope, ha trionfato la protesta inutile. Sarebbe più onesto dire che ha perso la politica, perché a che cosa altro dovrebbe mai servire la politica se non a cogliere ciò che populismo e protesta significano e a tradurli in proposte, idee, soluzioni? Bene, non c'è riuscita e lo dimostra la fuga dal voto o dai partiti che di questo ventennio sono stati i protagonisti: nell'anno del Signore 2013 non hanno votato undici milioni di italiani; e se 3,4 milioni di consensi hanno abbandonato il Pd, ben 6,3 hanno voltato le spalle a Berlusconi e la metà di quelli della Lega (passata da 3,2 a 1,4 milioni) se ne sono andati a casa o altrove. Una scioccante dichiarazione di sfiducia.

Ora sarà assai difficile districare la matassa e dare un governo al Paese. Obiettivo essenziale, che però non attenuerà né risolverà lo choc di febbraio. Come sintetizza Bill Emmott, infatti, Beppe Grillo ha vinto perché è stato l'unico leader che si è schierato dalla parte del cambiamento e della rabbia. Dimostrando di aver capito ciò che gli elettori stavano vivendo. Per la sinistra dovrebbe essere pane quotidiano, e invece no. Così vince ma non convince, come dicevano una volta i cronisti sportivi, ed è costretta a fare i conti con Grillo in grave ritardo e in condizioni di maggior debolezza. Eppure di occasioni ne ha avute. Almeno tre.

Come ha ammeso lo stesso Bersani il centrosinistra non ha saputo elaborare una proposta all'altezza della crisi. In campagna elettorale ha puntato su serietà e affidabilità, e cioè sulla conservazione e non sul rinnovamento. E durante i tredici mesi di governo tecnico non era riuscito a imporre la sua agenda nemmeno sulle voci "costi della politica" e "legge elettorale". E' apparsa una miope difesa di se stessi.

Nonostante lo stimolo degli osservatori (solo "l'Espresso" gli ha dedicato tre copertine in un anno), il fenomeno Grillo è stato sottovalutato, poco studiato, demonizzato. Eppure il Movimento 5 Stelle è nato quattro anni anni fa, non ieri, e già incubava da tempo, almeno da quando, due anni prima, "La Casta" aveva fatto boom. Senza contare che molte di quelle parole d'ordine - e di quelle stelle - appartenevano di diritto al Dna della stessa sinistra. Prova ne sia un voto grillino omogeneo, trasversale, nazionale, senza gap territoriali: dalla Sicilia al Veneto, passando per la Livorno che fu dei portuali e la Piombino operaia e medaglia d'oro della Resistenza. Fino al nord dove Grillo, non la sinistra, ha intercettato il voto di operai e piccoli imprenditori in fuga dalla Lega dove erano approdati negli anni Novanta delusi dal Pds.

In questo Annus Horribilis c'è stato poi un terzo avviso, di altro segno e intensità, ma portato dalla stessa ondata: l'irruzione di Matteo Renzi. Certo, la cronaca politica non si scrive con i se, e dunque non staremmo a chiederci che cosa sarebbe successo se al posto di Bersani ci fosse stato lui; ma almeno il Pd avrebbe dovuto fare tesoro del significato di quella sfida, del consenso che l'accompagnava, dell'esistenza di un conflitto generazionale che preannunciava. Capire che il capitale delle primarie doveva essere tutelato e investito. E invece si è rapidamente tradotto in conservazione dell'esistente, e per questo si è dissolto. La politica si richiudeva dentro le sue stanze senza interrogarsi sul mondo che fuori tumultuava e rapidamente cambiava. Per un partito nato per essere nuovo, un suicidio.

Un'analisi impietosa? Forse sì. Ma comunque vada a finire nelle prossime settimane, governo o nuove elezioni, all'ordine del giorno c'è un cambio di rotta nei comportamenti, nel rifiuto di inutili privilegi, nell'attenzione alle esigenze dei cittadini: lavoro e moralità innanzitutto. Anche se il fenomeno Grillo dovesse svanire; anche se i suoi si dimostrassero pronti a collaborare; anche, e a maggior ragione, se scoprissimo che 163 ragazzi hanno occupato le Camere per scardinare il sistema e rifiutare l'Europa, c'è una sola strada: prendere atto della sconfitta e pensare diverso. Per governare. E per evitare che i 163 diventino 500.

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« Risposta #69 inserito:: Marzo 19, 2013, 05:47:10 pm »

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Verrebbe voglia di dargli l'incarico...

di Bruno Manfellotto

Sia Grillo a tentare di fare un governo. È una provocazione ma servirebbe a capire cosa vuol fare davvero: guidare il Paese o sfasciare tutto. Mentre il Pd deve cogliere il senso della sconfitta e cambiare pelle

(07 marzo 2013)

Suggerisco caldamente ai lettori di non perdersi la "Bustina di Minerva" nella quale Umberto Eco spiega e smonta la campagna elettorale di Pier Luigi Bersani: in un Paese moderato come l'Italia, scrive, se la sinistra ostenta la sicurezza di vincere e di governare, perde. Non accadde forse lo stesso con la «gioiosa macchina da guerra» di Achille Occhetto? E poi, non dimentichiamo che almeno la metà degli italiani non ha mai votato né mai voterà a sinistra. Amen.

Lo stesso Eco, qualche giorno fa, ha rivolto la sua attenzione anche a Grillo, e a "Repubblica" ha ricordato che «se è impossibile riunire a legiferare i cittadini su una piazza, si crea la piazza informatica e mediante Internet, in cui tutti parlano con tutti, si ricrea l'agorà ateniese per cui il Sovrano è on line. Ma l'idea non tiene conto del fatto che gli utenti del Web non sono tutti i cittadini, e pertanto le decisioni vengono prese da una aristocrazia di blogghisti». E da qui nasce l'impasse del grillismo, il dover ora «scegliere tra democrazia parlamentare (che esiste e che lui ha accettato partecipando alle elezioni) e l'agorà che non esiste più o non ancora».

Giusto, Beppe e i suoi 163 deputati e senatori devono decidersi a fare una scelta di campo, sempre che non abbiano in testa non di favorire una maggioranza e di legiferare alla Camera e al Senato, ma di far saltare tutto e tornare a votare con l'intento di cancellare partiti e democrazia parlamentare. Per amor di paradosso e con il gusto della provocazione (politica e costituzionale) verrebbe da dire: che si dia l'incarico di formare il governo proprio a Grillo - leader riconosciuto oggi da Monti e domani da Giorgio Napolitano che consulterà anche lui - capo del movimento che ha preso più voti alla Camera: almeno sapremmo che cosa ha in mente, che cosa farebbe e con i voti di chi.

Capiremmo - noi, i suoi elettori e i suoi parlamentari - se intende governare o sfasciare tutto. Magari potrebbe approfittare dell'occasione anche per fare un po' più di trasparenza - lui che ha invaso piazze e Web di questa parola d'ordine - su certi investimenti di famiglia in un lontano paradiso fiscale.

Deve scegliere, e torniamo alla politica, anche il Pd. Perché se è vero che non si è ancora conclusa la lunga transizione dalla Prima alla Seconda Repubblica annunciata dall'avvento di Berlusconi vent'anni fa, è vero anche che il Pd non ha compiuto fino in fondo la sua traversata. La nascita del partito nuovo si è arenata una prima volta quando Walter Veltroni, perse le elezioni del 2008 (con il 33 per cento dei voti) e poi del 2009, lasciò la segreteria. La seconda volta quando pochi mesi fa è stata gettata al vento l'occasione delle primarie, e la sfida di Renzi è diventata solo occasione di scontro interno senza essere compresa, al di là della persona, per quello che essa significava per una parte consistente del popolo delle primarie e degli elettori.

La spinta propulsiva si è infine esaurita negli ultimi mesi del governo Monti, quando si è rinunciato a una nuova legge elettorale, non si è più parlato di costi della politica e si è varata una legge anticorruzione che ha regalato la prescrizione per odiosi reati legati a tangenti, come quelli che vedevano sul banco degli imputati e Berlusconi e Penati. L'esito finale è stato quello di pagare al momento del voto sia il prezzo dell'appoggio al governo Monti, sia la ripulsa di quell'intera esperienza. Risultato, per dirla con Renzi, un calcio di rigore sprecato.

Anche per il Pd, dunque, il momento è decisivo se davvero vuole rinnovarsi, osare, scommettere. Che non significa inseguire infantilmente le sirene di Beppe Grillo sul cui carro ora tutti allegramente e italicamente saltano; piuttosto capire cosa ha spinto tanti elettori di centrosinistra a votare per lui. E' davvero l'ultima occasione per prendere atto della sconfitta, cogliere il vento del rinnovamento, cambiare pelle. Prima di affrontare una nuova campagna elettorale. Prima che sia solo il millenaristico profeta Casaleggio a dettare l'agenda politica.

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« Risposta #70 inserito:: Marzo 22, 2013, 06:21:27 pm »

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C'è del metodo in questo caos

di Bruno Manfellotto

Bersani è obbligato a continuare sulla strada intrapresa con la scelta di Grasso e Boldrini per le presidenze delle Camere. Perché risulti credibile la sua volontà di cambiamento. E perché si riesca a formare un nuovo governo

(21 marzo 2013)

Aveva detto: decideremo caso per caso, come nella Sicilia di Rosario Crocetta. E vabbè. Però, sottolinea il senatore Luigi Zanda che da giorni tenta di lanciare un ponte tra il gruppo del Pd e le truppe a cinque stelle, quando è stato il caso di scegliere tra l'antimafia di Piero Grasso e il Sistema di Renato Schifani, Grillo ha preferito la scheda bianca. Ha deciso di non decidere. Di non aiutare Grasso. E ha commesso un errore madornale che peserà sul futuro immediato e sulle stesse sorti del movimento perché ha finito per smentire un principio fondamentale che predica da anni: basta con gli apparati, più spazio alla società civile, e facce nuove. Proprio con queste caratteristiche si presentavano Laura Boldrini e Piero Grasso, ma non hanno ricevuto il placet del subcomandante Beppe.

Contraddizione talmente clamorosa che alcuni dei suoi, gli eletti in Sicilia, si sono sentiti in dovere di ribellarsi in virtù di una politicissima considerazione: «Se passa Schifani, quando torniamo a casa ci fanno un mazzo così». Testuale. Poi, votato Grasso, i dodici dissidenti hanno affidato alla Rete il giudizio sul loro operato. Ribaltando in tal modo il paradigma Grillo per il quale prima viene la democrazia telematica, poi il suo personale timbro finale; per molti dei suoi parlamentari no, ogni direttiva può essere contestata e la ribellione può essere poi legittimata dal sì della rete. Web boomerang. E il capo che voleva espellere i dissidenti ha dovuto fare marcia indietro.

In questo senso, Bersani può dirsi soddisfatto per com'è finito il primo round. Con un colpo di teatro, si è liberato delle pressioni del gotha di partito e delle ambizioni di molti big su Camera e Senato, ha messo in imbarazzo le truppe di Grillo & Casaleggio e mostrato al Paese che il Pd è pronto, se vuole, a rinnovarsi perché dispone ancora di personalità di tutto rispetto pronte ad assumersi responsabilità di governo delle istituzioni. Soprattutto ha fatto capire di aver cominciato a riflettere sull'esito del voto e sulle sue motivazioni più profonde.

Ma non basta, non è tutto. Ora Bersani deve stare molto attento. Nel suo partito covano rancori e voglie di vendetta che non lasciano intravedere un futuro roseo se è bastata l'elezione del capogruppo alla Camera per far emergere dal nulla un centinaio di dissidenti. Un altolà, un chiaro avvertimento che peserà su ogni scenario successivo, a cominciare dal tentativo di formare il governo.

Non solo. Il mezzo vincitore delle elezioni di fine febbraio deve anche sgombrare il campo dal sospetto che Grasso e Boldrini siano - come dice Grillo - solo una foglia di fico, che la sua non sia stata un'operazione di facciata. Insoma, se è vero che con la scelta delle presidenze di Camera e Senato è stato inaugurato un criterio del tutto nuovo, allora il "metodo Grasso" non potrà più essere contraddetto, pena l'incomprensione dei cittadini e il rischio di un ulteriore calo di consensi al prossimo appuntamento elettorale.

La formula non potrà restare una felice eccezione buona solo per frenare l'ondata crescente di polemica e di antipolitica e arginare il fenomeno Grillo, ma dovrà diventare necessariamente l'architrave sulla quale il Pd dovrà tentare di costruire un governo. E' l'unica vera carta che Bersani può giocare, quale che sia l'ipotesi di alleanza che insegue per sopravvivere alle incognite di un Senato oggi senza maggioranza né opposizione.

Ma non potrà essere abbandonato nemmeno se il tentativo dovesse fallire: suicida tornare subito alle urne chiedendo al capo dello Stato che verrà dopo Napolitano di sciogliere le Camere che lo avranno appena eletto; impensabile la riedizione riveduta e corretta di un governo tecnico; e assurdo un governo che affidasse la sua sopravvivenza al benestare degli apparati invece che a personalità tecnico-politiche. Non possiamo sapere che cosa ci riservi il domani, ma di certo sappiamo che non potrà più assomigliare a quello che abbiamo visto fino a oggi.

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« Risposta #71 inserito:: Aprile 30, 2013, 04:45:09 pm »

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Chissà se i partiti servono ancora

di Bruno Manfellotto

Che fare di questi vecchi arnesi? Buttarli via o ripensarli? Dare ascolto a Grillo  o ricominciare daccapo? Nel Pd  se lo chiedono gli scalpitanti Renzi e Barca. Con due ricette diverse.? Ma forse con un intento comune...

(18 aprile 2013)

Prima strisciante, poi invasiva, la questione "partito" corre parallela al romanzo politico. Ovvero, che fare di questo vecchio arnese, buttarlo o trasformarlo? Tenerselo così com'è, no. Oggi, solo a evocarlo, il pensiero corre a casta e a ruberie, bizantinismi e risse da cortile, divisioni e spaccature: capo dello Stato e governo, che calvario. Più che una parola, una parolaccia. Di qui l'astensione crescente o la fuga verso chiunque si dichiari contro la politica e ne smentisca regole, parole d'ordine, comportamenti.

Del resto, oggi i partiti sono macchine fuori controllo. Può farci poco il cittadino-elettore, impossibilitato a partecipare alle scelte e costretto a subire le liste elettorali, sorta di hit parade stilate dagli apparati. A poco serve pure il doveroso check istituzionale, vedi lo scandalo dei bilanci dei partiti, oscuri anche per i sindaci revisori della Camera. E spesso è impotente perfino la nomenklatura che si arrende ai mille cacicchi locali.

Nella lotta per la sopravvivenza, inoltre, i partiti hanno scambiato la ricerca del consenso con l'occupazione di ogni possibile luogo della politica: Parlamento, pubblica amministrazione, banche, pezzi della magistratura. Provocando in questi anni un corto circuito istituzionale di cui le inchieste su politica, affari e tangenti sono l'esempio più evidente: pensando di rafforzarsi radicandosi nel potere, hanno accelerato la loro agonia.

Il vero mistero di questa tragedia che si muta in farsa, o viceversa, è perché quasi nessuno si sia reso conto di ciò che stava succedendo e non sia corso ai ripari lasciando così che dilagassero antipolitica e facili populismi. Le inchieste sulla casta, cioè sui costi della politica, sugli sprechi e sui privilegi garantiti a pochi a spese di tutti, lungi dal convincere i vecchi partiti all'autocritica e all'autoriforma, li hanno invece spinti a una patetica autoconservazione. E la metà degli elettori a rifugiarsi nell'astensione o nelle braccia di Beppe Grillo. Che ormai detta l'agenda politica.

Il risultato è stato devastante: in assenza del benché minimo segnale di ripensamento, nelle liste di proscrizione della casta sono finiti tutti, senza distinzioni di sorta, buoni e cattivi, onesti e disonesti, spreconi e rigorosi. Inoltre, l'alternativa ai partiti si è materializzata in un'esplosione di protesta - trasversale per età, appartenenze e aree di provenienza - che ha raccolto il consenso di quasi nove milioni di italiani, ma che ora non trova altro modo per esprimersi che parlare per bocca di un capo che non siede in Parlamento, che non si confronta con nessuno e non concorda ciò che dirà o farà con i suoi dirigenti e militanti, figli peraltro di un partito che non c'è. E che per ora sembra intenzionato solo a paralizzare il sistema nella speranza di una palingenesi totale. Affidata a se stesso e ai suoi.

E' singolare che anche questa crisi abbia generato una soluzione tutta leaderistica che fa il paio con quella del dopo Tangentopoli: ieri il partito padronale di Silvio Berlusconi, oggi il movimento con un solo capo; ieri la tv, oggi il web; ieri il predellino, oggi lo Stretto di Messina a nuoto. Ma entrambi legati alla sorte del leader: se viene meno lui, crolla tutto.

Con queste premesse , inevitabile che a pagare di più fosse il Pd, rimasto orgogliosamente legato alla forma partito e tenacemente deciso a preservarne i connotati. Perfino quando si è lanciato nelle primarie. E dunque non è un caso che di questo si parli proprio nel Pd e che a farlo siano i dioscuri del partito, i fratelli Miliband de' noantri: Matteo Renzi e la new entry Fabrizio Barca, figli delle culture politiche democratiche unite e mai conciliate, plastica rappresentazione delle due strategie che si contrappongono e si contrapporranno: dialoganti e isolazionisti, inciucisti e filo grillini, partito liquido e partito partecipato.

Divisi su tutto, ma entrambi decisi a ripensare il futuro. E magari a evitare che dallo scontro nasca l'ennesima scissione. Al di là di come vada a finire, questa sembra l'unica buona notizia in questi tempi confusi e bui.

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« Risposta #72 inserito:: Maggio 05, 2013, 04:16:17 pm »

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Nel Pd la tregua è armata

di Bruno Manfellotto

Dopo lo scoglio della fiducia, la guerra interna riprenderà. Tra giovani e vecchi, anti radicali e centristi, ex Dc ed ex Pci. Finché non si creeranno nuovi equilibri: se si creeranno

(26 aprile 2013)

La tregua, vedrete, durerà poco, più o meno fino a quando il governo prenderà corpo e vita. Poi, votata la fiducia (e già qui qualche mal di pancia si manifesterà), il problema esploderà di nuovo. Stavolta sotto forma di scontro generazionale palese e drammatico, ma più ancora come confronto tra le diverse anime del Pd, post Dc e post Pci, e tra il fronte disposto al dialogo con la destra e chi lo bolla come inciucio, tra chi insegue le larghe intese e chi guarda a Grillo, tra chi pensa alla scissione e chi vorrebbe evitarla a ogni costo. Niente di nuovo sotto il sole: convivere o no con il Caimano?

Incapace di sciogliere nodi antichi, il Pd ha bruciato, come da tradizione, quelli che considerava i "mejo fichi del bigoncio" impallinandoli nell'urna che avrebbe dovuto consacrarli presidenti della Repubblica o premier: Anna Finocchiaro, Franco Marini, Romano Prodi, Stefano Rodotà, Giuliano Amato... Grazie al voto segreto che copre, mettendoli al riparo, vigliacchi, traditori, cacicchi e irresponsabili. E inanellando errori e contraddizioni che hanno alimentato la confusione già dilagante.

Ricordarli tutti? Verso il voto ci si è incamminati in gioiosa compagnia di Nichi Vendola, ma annunciando per il dopo un'improbabile alleanza con Mario Monti dipinto come capo di un governo affamatore al quale il Pd aveva però dato leale e responsabile appoggio per più di un anno. Con il risultato di perdere e la prima e la seconda. Tutta la campagna elettorale è stata poi condotta mettendo la sordina allo sconfitto delle primarie Matteo Renzi e demonizzando il redivivo Berlusconi.

Alla faccia di sondaggi ed exit poll, poi, le elezioni di febbraio hanno cancellato il bipolarismo e regalato a una rumorosa new entry il 25 per cento dei consensi. E qui sono cominciati i guai veri. Preso atto che da soli non avrebbero potuto governare i democratici, al grido di "con Berlusconi mai" hanno inseguito un'impossibile alleanza con Beppe Grillo e battezzato la scelta con quel metodo Grasso che ha portato al Senato un presidente votato oltre che dal Pd anche da un pattuglia di grillini dissidenti.
Metodo abbandonato però subito dopo per il Quirinale per la cui presidenza si è cercato un campione delle larghe intese, Marini, salvo scoprire che la dissidenza era tale da impedire l'operazione; e dunque rinculare rifiutandosi di votare Rodotà solo perché suggerito da Grillo, ma proponendo di convergere da soli sul nome di Prodi, miopemente bocciato da Grillo & C. e perfino da una consistente pattuglia di franchi tiratori del Pd. E andare poi a chiedere aiuto a Napolitano, che da sempre invoca un accordo destra-sinistra per le riforme e per l'economia. Chi ci capisce è bravo. Nessuno comunque si è preoccupato di spiegare al Paese, né in piazza né in streaming, perché si passava in poche ore da una strategia all'altra e che differenza c'è tra un voto per il capo dello Stato e un voto per far nascere un governo.

La verità è che mezzo Pd non avrebbe mai votato Rodotà e un altro mezzo avrebbe bocciato, come ha fatto, sia Marini che Prodi. Due anime, due visioni del mondo, due strategie. Che potrebbe tenere insieme solo una leadership molto forte, noncurante dei mugugni e dei tweet: se chiamata a un referendum, la base avrebbe mai sancito la rottura con Mosca, o sottoscritto il compromesso storico o cambiato nome al glorioso partito comunista?

Oggi la disoccupazione sembra non quella di trovare la strada giusta per risollevare il Pd dalla crisi, ma cosa fare per tenere in piedi quel poco che c'è. Fino all'ultimo è sembrato che il candidato premier del Pd fosse Renzi, bocciato - ma guarda un po' - proprio da Berlusconi e sponsorizzato da quei giovani turchi che un mese fa ne parlavano come di un bugiardo traditore venduto al nemico. Del resto il suo nome unisce sia chi pensa a lui come all'unico leader capace di tirare il partito fuori dai guai, sia chi spera in cuor suo che affidargli una missione impossibile sia il miglior modo per bruciarlo. Anche lui. Si vedrà dopo la tregua. E tutto ricomincerà da dove eravamo rimasti.

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« Risposta #73 inserito:: Maggio 16, 2013, 11:21:09 pm »

 
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Grillo non ha sempre ragione

di Bruno Manfellotto

Pensava di essere il Pannella degli anni Duemila. Ma il suo boom ha bloccato il Parlamento. Ora vuole disarticolare il sistema. Il Pd lo ha inseguito e poi cambiato strategia, senza spiegare perché. Intanto si cerca di mettere in soffitta l'anomalia berlusconiana...

(02 maggio 2013)

Azzardo una scommessa: Beppe Grillo non accetterà patti, alleanze, accordi, almeno in questo parlamento e con questi partiti. Inciuci, no? Del resto, come potrebbe essere altrimenti dopo anni di vaffa contro il Pdl e "il Pd senza elle"? E dopo che le urne gli hanno consegnato 8,5 milioni di voti che vengono da delusi e incazzati di destra e di sinistra.

Grillo non si aspettava il trionfo: pensava di riuscire sì e no a condizionare la vecchia Casta, novello Pannella degli anni Duemila, ma il suo boom ha contribuito a rendere ingovernabile il Paese. Pensava che i suoi parlamentari sarebbero stati un'agguerrita pattuglia, sono invece un esercito (che lui comanda con piglio militare). Avrebbe voluto che si sedessero alle spalle dei vecchi politici per controllarli e, quando necessario, additarli al pubblico disprezzo, oggi sono tanti da occupare un'ampia fetta degli emicicli di Camera e Senato.

Ora che è arrivato molto più in là di dove immaginava, Grillo vorrebbe non più solo pungolare il sistema, ma disarticolarlo. Anche al prezzo di concedere a Berlusconi una vittoria inattesa e di far risorgere un balenottero bianco. Del resto il governo Letta-Monti-Alfano è pane per i denti grillini: le inciucissime larghe intese!

E però alla fine questo governo strano potrebbe perfino mettere in crisi il disegno grillino, o affondare per sempre il sogno di rivincita dei partiti. Magari i parlamentari M5S non si "scongeleranno", come Enrico Letta auspica, ma presto conosceranno l'imbarazzo quando si troveranno di fronte alla legge che cancella le Province, o a quella che riduce l'Imu e l'Iva, o al provvedimento che manda in soffitta il finanziamento pubblico. E dovranno votare sì o no. A loro volta i politici della Terza Repubblica sprofonderebbero di nuovo nella Prima se smentissero le promesse o cedessero ai richiami della Casta.

Tutto bene, dunque? Aspettiamo e qualcosa succederà? Macché. A pagare il prezzo più alto è il Pd che fu di Bersani, travolto da una lunga serie di errori. Il primo è stato non tanto sognare l'alleanza democratico-grillina: era doveroso prendere atto del voto e provarci; ma insistere pervicacemente anche quando ne era chiara l'impercorribilità. Ulteriore sbaglio è stato abbandonare il metodo Grasso dopo averlo imposto con successo e infine smentirsi e smentirsi nella battaglia per il Quirinale, senza dare conto di nulla e a nessuno: passando da Franco Marini (candidato delle larghe intese) a Romano Prodi (centrosinistra antiberlusconiano) a Giorgio Napolitano (larghissime intese) e per il no a Stefano Rodotà, mai spiegato né motivato.

Una confusione che viene da lontano. Prima l'alleanza elettorale con Vendola, che non escludeva il successivo abbraccio con Casini, poi il duro giudizio sul governo Monti al quale pure il Pd aveva donato sangue per oltre un anno; poi, per tutta la campagna elettorale, un antiberlusconismo di principio - «Mi ci vedete con Gasparri e La Russa?», rideva Bersani - praticato per vent'anni, ma che non ha portato né a severi criteri di ineleggibilità né a una legge sul conflitto di interessi.

A questo punto della storia, tutte le antiche contraddizioni restano irrisolte. I postcomunisti del Pd, stanca e isolata ridotta, si consegnano non a un governo tecnico ma politico, e senza averne la guida; non alla "non sfiducia", ma a una corresponsabilità piena e con ministri più democristiani che democratici; né sanno ancora se questo loro ennesimo atto di responsabilità porterà alla rinascita o alla fine del Pd, e nemmeno se il governo Letta-Alfano sancisce una tregua o intende cancellare d'un colpo, senza averla risolta, la pesante anomalia berlusconiana magari portando il Caimano trionfante alla presidenza della Bicamerale per le riforme.

Nell'attesa, ingoiato il calice amaro dell'unico governo possibile, il Pd non può fare altro che guardarsi dalla rassegnazione e dalle questioni di principio, e giudicare dai fatti. A cominciare, appunto, dalla giustizia e dalla riforma della Costituzione. Non perché Grillo sta lì a guardare e criticare, ma per la sopravvivenza sua e la dignità del Paese.

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« Risposta #74 inserito:: Giugno 01, 2013, 04:21:29 pm »

Editoriale

Ma la Bicamerale porta sfiga

di Bruno Manfellotto

Da Craxi a De Mita, fino a D'Alema: le super commissioni che vogliono riformare la Costituzione hanno sempre fulminato i loro ideatori. E consentito a Berlusconi di fare gli affari suoi. Ma ora vogliono riprovarci

(27 maggio 2013)

Sosteneva Claudio Rinaldi, che sapeva sorridere anche delle cose più serie, che le Grandi Riforme portano iella. A chi cerca di farle. In effetti... Il primo a coniare la formula magica fu Bettino Craxi che però, malato e ostracizzato, fu costretto esule in Tunisia; Aldo Bozzi, liberale e padre della patria, finì rapidamente nel dimenticatoio; Ciriaco De Mita, che ci provò anche lui, brillò e si spense come una meteora; Nilde Iotti, che ne raccolse il testimone, il cui lavoro restò inutilizzato; Mariotto Segni è uscito rapidamente di scena; di Gianfranco Fini, presidenzialista della prima ora, nessuno ha più notizie; e Massimo D'Alema ancora non si è ripreso dal fallimento della sua Bicamerale, tempio del sacro inciucio (e in suo onore Giampaolo Pansa inventò per "l'Espresso" il personaggio Dalemoni).

Già, la Bicamerale. Correva l'anno 1997 e Silvio Berlusconi prese in giro tutti proclamando di voler modernizzare il Paese. Compreso D'Alema, che pensava di portarlo sotto il suo dominio pieno e incontrollato impaniandolo nei riti parlamentari. Ma il Caimano voleva solo norme e leggi che lo mettessero al riparo dai pm, e poi la Repubblica presidenziale per diventare il nostro De Gaulle (alle vongole). Così, quando vide che le cose non andavano come voleva, mandò tutto all'aria. Amen. Sedici anni dopo siamo ancora lì: Berlusconi vuole sempre giustizia e presidenzialismo ad personam e s'annunciano di nuovo tempi di insopportabile bla bla. E di rischi crescenti.

Che nascessero da convenzioni o commissioni parlamentari o vattelapesca, tutte le riforme che hanno fin qui toccato la Costituzione hanno portato solo guai: il voto degli italiani all'estero è stato un flop; il "giusto processo", pensato in nome di una "ragionevole durata", s'è sciolto come neve al sole dinanzi alle bizantine impalcature procedurali e al contemporaneo accorciamento dei tempi di prescrizione; la riforma del titolo V della Costituzione, il federalismo pre-elettorale in zona Cesarini, ha aggravato i conflitti tra Stato e Regioni; il pareggio di bilancio in Costituzione ha ingabbiato la politica economica. E ogni volta il Grande Disegno si è infranto quando si è cominciato a parlare di giustizia e di presidenzialismo, i due chiodi fissi del Cavaliere, azionista di riferimento della politica italiana da un ventennio.

Non si capisce dunque, o meglio si capisce fin troppo bene, a chi diavolo serva l'ossessione di una riforma della Costituzione in attesa della quale passiamo i nostri giorni a scrutare ogni batter di ciglia pro o contro forme di presidenzialismo che dovrebbero fare di personaggi modesti o pericolosi dei supereroi.

Eppure i nostri premier, grazie alla Costituzione che c'è, hanno finora fatto e disfatto tutto ciò che hanno voluto: governato a colpi di decreti legge in barba al Parlamento; dato vita a maggioranze strette o larghe; provocato lo scioglimento delle Camere; nominato e licenziato ministri; cambiato la Costituzione (e abbiamo visto come); modificato a proprio uso e consumo il codice penale. Vogliamo dar loro ulteriori poteri? Quali? E proprio ora che i partiti politici, organizzazioni nate (sì, certo, poi degenerate) per organizzare il consenso e il dissenso e controllare il potere, appaiono sempre più deboli? Ora che il loro posto è occupato da partiti-azienda, galassie pupuliste e agglomerati confusi e inconcludenti? Oggi il vero problema è come far arrivare in Parlamento la voce di cittadini non più rappresentati, non dare più potere a chi già ne ha troppo.

Un paese che non ha risolto il conflitto di interessi - problema ignorato da politici, facilitatori, saggi, esperti e premier incaricati o in carica - non ha bisogno di concentrare nelle mani di uno solo ulteriori poteri, specie presidenziali. Anche perché questo è il Paese dei Berlusconi che manifestano davanti ai Palazzi di Giustizia, ma anche dei Grillo e Casaleggio che pretendono (sacrosanta) trasparenza da partiti e parlamentari ma, in spregio dei loro elettori, si rifiutano di mostrare i bilanci delle loro holding e società e di dire da chi prendono i soldi e come li spendono. Ieri la Casta, oggi il segreto bancario.

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