LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. => Discussione aperta da: Admin - Febbraio 28, 2011, 03:21:51 pm



Titolo: Bruno MANFELLOTTO.
Inserito da: Admin - Febbraio 28, 2011, 03:21:51 pm
L'Italietta formato WikiLeaks

di Bruno Manfellotto

I ministri litigano e fanno la spia, il premier s'inchina a Gheddafi, ma il governo non riesce ad arginare l'immigrazione.

Così si legge nei durissimi dispacci dell'ambasciata Usa a Roma. Mentre il Maghreb bruciava...

(25 febbraio 2011)

Il problema non è tanto e non solo chiedersi fin dove si possa arrivare in nome della realpolitik, che pure è questione non secondaria. Piuttosto sarebbe opportuno interrogarsi sull'autorevolezza di un governo incapace di ripensare, e se necessario DIGNitosamente rivedere, accordi sottoscritti in ben altro contesto politico ed economico. E che ora sa solo far finta di niente. Quando il 30 agosto 2008, dopo quindici anni di trattative e cinque governi impegnatisi allo spasimo per l'obiettivo si arrivò, in nome appunto della realpolitik, al trattato con la Libia di Gheddafi, si chiuse una lunga stagione di tensioni durante la quale non si era riusciti a disfarsi né del complesso colonialista né dei debiti che avevamo con il regime. ma se ne aprì un'altra fatta di ammiccamenti e umiliazioni.

Su tutto, come disse con grande chiarezza Massimo D'Alema annunciando alla Camera il sì del Pd al trattato fra i due governi, prevalsero i gasdotti e i pozzi dell'Eni in Cirenaica; contarono gli impegni assunti dal comandante della Jamahiriya per controllare insieme a noi il flusso dei clandestini verso l'Italia, anche se già allora era facile immaginare che questo sarebbe avvenuto nel sangue, nei barconi affondati e nella cancellazione dei più elementari diritti dell'uomo; pesarono infine i ricchi affari promessi alle aziende italiane per la costruzione di importanti infrastrutture.

Pensando a tutto questo, insomma per realpolitik, si chiuse un occhio su una democrazia cancellata, si sorvolò sui ricatti di un dittatore, si smentirono politica e alleanze europee. Anche perché si era convinti che un tè nel deserto, un abbraccio sotto la tenda e uno show davanti alle telecamere sarebbero risultati vincenti, così come si era pensato in altre stagioni che lo sarebbero stati il freddo cinismo andreottiano, il razionale realismo dalemiano o la bonaria concretezza prodiana.
E però verrebbe da chiedersi come mai sorrisi e intimità, oltre ai servizi segreti amici, non siano poi valsi né a fermare l'immigrazione dalla Libia né a capire che cosa stesse succedendo laggiù. E come sia stato possibile che un rispetto guardingo e dignitoso sia diventato negli anni connivenza divertita, se non omertà. Ora la domanda è se cinici si debba restare anche davanti ai morti e alle bombe sui manifestanti; o meglio, se sia opportuno essere soli in Europa a sostenere il dittatore e i suoi cari.

Insomma, anche da questa tragica vicenda la povera Italietta esce devastata, ininfluente e periferica. Noi ce ne rendiamo conto solo adesso, come se uscissimo da un lungo torpore, e presto sarà apocalisse appena le coste della Sicilia e della Puglia saranno invase dai popoli in fuga dal Maghreb, come ai tempi dell'esodo dall'Albania. Ma chi per mestiere faceva le pulci alla Farnesina già lo sapeva, eccome se lo sapeva.

Basta scorrere i dispacci dell'ambasciata Usa nelle mani di WikiLeaks e che "l'Espresso" pubblica in esclusiva . Ne risultano un'azione diplomatica scioccamente al servizio degli Usa e ai danni dell'Ue; uno spettegolare di ministri in carica disposti perfino a farsi la spia l'un l'altro pur di farsi belli con l'amico americano; il fallimento di ogni politica per regolare i flussi di immigrazione; i rapporti con i dittatori africani del Mediterraneo ridotti ad affari personali. Nessuna traccia di discussione sulle politiche da adottare. Mai uno sprazzo di autorevole iniziativa.

E non è tutto. Mentre il sangue scorre nelle strade di Tripoli e di Bengasi, a Palazzo Chigi e a Palazzo Grazioli si ciacola di immunità parlamentare, di giusto processo, di conflitti di attribuzione, insomma dei modi opportuni per evitare che Silvio Berlusconi venga giudicato da un qualunque tribunale della repubblica. Eppure basterebbe questa triste miscela di miopia sul futuro nostro e di pervicacia sull'interesse suo da salvaguardare a tutti i costi a farsi un'idea del premier. Altro che bunga bunga.

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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Le prediche del governatore
Inserito da: Admin - Marzo 05, 2011, 04:47:13 pm
Le prediche del governatore

Bruno Manfellotto

Ecco perché il discorso di Draghi contiene molte verità. Sulle banche, sull'Italia, sui giovani

(04 marzo 2011)

Luigi Einaudi le chiamava, assai realisticamente, "prediche inutili". Sono passati più di sessant'anni da quella lontana stagione, ma ancora oggi le considerazioni finali del governatore della Banca d'Italia alla fine di maggio e i suoi sparuti interventi, due-tre durante l'anno, conservano pur sempre un vago sapore di inutilità. Nel senso che intendeva Einaudi, cioè di restare spesso prediche inascoltate, disattese, sottovalutate. Forse perché quasi sempre fastidiose, dissonanti, sgradite agli orecchi di ministri e potentati. del resto, com'è successo anche pochi giorni fa, è proprio dalle parole del governatore che è possibile capire come davvero vanno le cose.

Il perché è presto detto. L'Italia, come si sa, è percorsa da anni da una guerra sorda che agita partiti, cacicchi e lobby, più o meno gli stessi protagonisti che un altro banchiere centrale, Guido Carli, ribattezzò molti anni fa "le arciconfraternite del potere". Con un aggravante, oggi: venuto meno l'ultimo filtro costituito dai grandi partiti di massa, il potere si è trasferito sotto il controllo di un partito-azienda al quale un'opposizione divisa in mille rivoli fatica a presentarsi come alternativa concreta e immediata.

Non aiuta l'invincibile tensione tra i due fronti, che provano a mimare una parvenza di bipolarismo che però non riesce ad affermarsi. Ragion per cui è assai difficile ascoltare una voce che si distingua dalla polemichetta quotidiana e provi a rappresentare solo l'interesse generale, quello del Paese.

Così, se si tratta del necessario equilibrio tra i diversi poteri istituzionali contro ogni deriva, l'ultima garanzia è offerta dal presidente della Repubblica: e dunque non è un caso che Berlusconi perda le staffe tutte le volte che Napolitano lo richiami al rispetto delle regole del gioco; se è in ballo la verità sui conti pubblici e sulla salute dell'economia, il compito spetta invece al governatore della Banca d'Italia: e guarda un po', sulle sue parole cade presto il silenzio. Stavolta, per esempio cosa ha detto di così "inutile" Mario Draghi? Qualche verità.

La prima riguarda le banche italiane che - ce lo siamo sentito dire mille volte - hanno retto allo tsunami della finanza meglio di quelle straniere. Vero, verissimo. Ma, ha aggiunto il governatore, ciò è stato possibile soprattutto in virtù dei loro stessi vizi e ritardi. Che presto sconteremo, l'uno dopo l'altro: il credito è ancora troppo burocratico e costoso, e se non si lancia in spericolati azzardi finanziari, ama poco la scommessa imprenditoriale preferendo concentrarsi sulla massa dei piccoli clienti.

Non rischiando, il sistema s'è salvato. Ma finendo per creare profitto soprattutto dai tassi di interesse su conti, prestiti e mutui, le banche hanno visto ridursi al lumicino la loro redditività. Ora dovrebbero cercare di fare ciò che non hanno fatto finora: non aumentare le spese a carico dei cittadini e delle imprese, ma tagliare i costi eccessivi e migliorare i servizi. Sarebbe una rivoluzione. Si farà?
Seconda verità. Lo sviluppo economico è frenato da quindici anni e un 1,3 per cento in più invece di un 1 o di un 1,2 certo non cambia le cose. Si stenta. Per l'eccesso di burocrazia che frena le imprese, per l'inefficienza del sistema, una scuola poco competitiva e la continua umiliazione del merito (si legga Alessandro Penati a pag. 150). Lo choc petrolifero che deriverà dalla crisi libica costituirà un ulteriore freno alla crescita che il governatore calcola in mezzo punto di pil.

Anche i salari dei più giovani sono fermi dal 2000 al di sotto dei livelli degli anni Ottanta. Intanto la disoccupazione giovanile sfiora il trenta per cento e la dipendenza di tanti giovani dal reddito dei genitori, avverte Draghi, si trasforma inevitabilmente in una "forte iniquità sociale" alla quale contribuisce anche un mercato del lavoro dove a "un minimo di mobilità a un estremo" corrisponde "il massimo di precarietà all'altro". È la fotografia di un Paese vecchio, ingessato, fermo. L'impietosa fotografia dell'Italia 2011. Che però nessuno vuole vedere.

   
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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Tutto cominciò quando Geronzi...
Inserito da: Admin - Aprile 26, 2011, 05:28:21 pm
Editoriale

Tutto cominciò quando Geronzi...

di Bruno Manfellotto

Un giorno d'estate il banchiere disse: non possiamo lasciar fare a Maranghi.

Da allora sono passati undici anni e intorno a Mediobanca s'è consumata una lunga battaglia. Che forse non è ancora finita

(15 aprile 2011)


Non dare a Maranghi ciò che era di Cuccia. Era l'estate del 2000 e Cesare Geronzi spiegava al cronista che - scomparso l'uomo che per mezzo secolo era stato anima e mente di Mediobanca e da lì regista della finanza italiana - era arrivato il momento di un altro equilibrio: insomma, non era possibile consentire ad altri ciò che era stato permesso solo a Cuccia, sentenziò. Ci vorranno poi tre anni e l'occasione giusta - l'alleanza disperata di Vincenzo Maranghi con i francesi per difendere il fortino di via Filodrammatici e, in nome dell'italianità a rischio, la corrispondenza d'amorose convenienze tra Geronzi, il governatore Antonio Fazio e l'Unicredit del rampante Alessandro Profumo - per scalzare definitivamente il delfino di Enrico Cuccia.

Un vulnus. Che nel tempo si dimostrerà profondissimo, insopportabile. Occorreranno però altri otto anni per rimarginare l'antica ferita e ristabilire lo status quo ante che ora vede di nuovo Mediobanca e Generali al centro della galassia dell'economia e della finanza. Cioè del potere, dei soldi, delle nomine, delle alleanze. Proprio l'asse che Geronzi fin da allora aveva provato a spezzare: prima insediandosi alla presidenza di Mediobanca, poi saltando un anno fa sulla tolda delle Generali dalle quali avrebbe voluto fare ciò che non gli era riuscito per cinque anni da piazzetta Cuccia: dettare legge su Mediobanca e sulle sue partecipazioni (Telecom, Generali, Rcs). Invano, come s'è visto ora.

In effetti, in quel lontano inizio di secolo già moltissimo era cambiato. Non c'era più la Mediobanca di Cuccia, regista privato della finanza italiana con i soldi pubblici di Banca Commerciale, Credito Italiano e Banco di Roma, le tre banche di interesse nazionale di proprietà dell'Iri che ne foraggiavano alleanze, scalate, investimenti. Intanto la riforma Amato del credito e la nuova legge bancaria avevano stabilito principi inediti: come l'accesso delle banche al credito a medio termine, prima appannaggio esclusivo di Mediobanca; e la divisione in due del credito: di qua le aziende bancarie ormai privatizzate, di là le fondazioni pubbliche che avrebbero continuato a detenerne le leve di comando.

Tutto dunque era mutato, ma è in quella frase sussurrata tanti anni fa che forse va ricercata la chiave di quello che succederà dopo. Insomma Geronzi inseguiva un disegno esplicito, ma ha commesso due errori. Il primo di strategia: presumere che fosse possibile fare da Generali ciò che non era stato possibile da Mediobanca, cioè cercare nuovi equilibri tra gli azionisti, rovesciare i rapporti di forza e portare Milano sotto l'ala di Trieste (o di Roma, come sospettavano molti); il secondo di sensibilità politica: sottovalutare la diversità di intenti tra Berlusconi e Tremonti.

Così è successo ciò che molti ritenevano impossibile. Il tappo è saltato. Ma è ora che comincia la partita più difficile. Mediobanca ha ottenuto lo scopo che si prefiggeva: vinta la battaglia, mandato in pensione "l'arzillo vecchietto", cancellati gli ultimi alibi, i "giovani anziani" devono provare adesso a navigare da soli in mare aperto e a marcare la loro autonomia; Generali riconquista Trieste sperando che Mediobanca sia meno invadente di quanto sia stata finora; Diego Della Valle, stratega dell'assalto mediatico contro Geronzi e alleato importante della battaglia in consiglio, sogna di fare il socio forte della Rizzoli-Corriere della Sera; Unicredit punta infine a diventare, una volta fatti fuori i francesi, il nuovo punto di riferimento di Mediobanca e quindi di tutta la galassia. Naturalmente con l'aiuto delle Fondazioni pubbliche e legate ai territori.

Proprio così. E' come se, dieci anni dopo Cuccia, venisse rispolverata proprio la sua formula aurea: Mediobanca campione dei privati con i soldi pubblici, oggi non delle tre bin, ma delle Fondazioni. Ciò che Geronzi non voleva lasciar fare a Maranghi finirà forse per farlo Fabrizio Palenzona. Sapremo presto se è questo che vuole Mediobanca.

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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Ricomincio da Napolitano
Inserito da: Admin - Maggio 13, 2011, 10:24:44 pm
Editoriale

Ricomincio da Napolitano

di Bruno Manfellotto

Il capo dello Stato si commuove ricordando i magistrati uccisi dal terrorismo; il premier chiama i pm di Milano "cancro della democrazia".

Sono due facce dello stesso Paese. Inconciliabili. Ora c'è l'occasione per scegliere quella giusta

(13 maggio 2011)

Colpisce che nel giro di pochi giorni, e per iniziativa di testimoni diversi della vita italiana, siano state promosse a Roma e a Milano più occasioni per riflettere su come vadano le cose al tempo di Berlusconi. Cadendo poi alla vigilia di un appuntamento elettorale che per volontà dello stesso premier è stato presentato come decisivo - specie a Milano dove Letizia Moratti ha visto messa in discussione la possibilità del secondo mandato a sindaco - esse acquistano un sapore speciale. Soprattutto per un dettaglio: in tutte e tre le occasioni si è parlato non di oggi ma di ieri, di un passato che non c'è più e che non potrà tornare, ma che in sé conteneva qualcosa - forse molto - di cui oggi si sente maledettamente la mancanza.

A Roma, per esempio, Giuliano Amato ha chiesto a Giorgio Napolitano ed Eugenio Scalfari di commemorare Antonio Giolitti, che nel 1956 aveva lasciato il Pci per il Psi appena saputo che la rivolta del popolo ungherese era stata schiacciata dal tallone di ferro sovietico. Il presidente della Repubblica ha voluto ricordare che Giolitti implorava la sinistra di essere credibile e concreta, capace di soddisfare i bisogni e le speranze dei cittadini. Era il 1992, ma le stesse parole potrebbero essere pronunciate oggi.
Pochi giorni dopo, a Milano, una sala gremita e attenta ascoltava Carlo Tognoli parlare della sua città, quella che aveva guidato come sindaco dal 1976 per dieci anni. Prima che esplodesse la Milano da bere e, con essa, il craxismo rampante, e che debuttasse sulla scena il berlusconismo nascente. Stagione lontana. Nelle stesse ore a Montecitorio, un deputato dell'Udc, Enzo Carra, invitava molti capi della Dc che fu - De Mita, Forlani, Pisanu, Rognoni, Bodrato - a parlare di Aldo Moro trentatre anni dopo la sua morte. E a riflettere sulle regole di ieri che oggi non ci sono più: il gioco rispettoso tra maggioranza e opposizione, la centralità del Parlamento e le opinioni che lì si rappresentano, la politica della solidarietà per superare la crisi economica e preparare l'alternativa. Padroni di casa Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini, in prima fila Gianni Letta.


E' come se si fosse tornati indietro di qualche decennio. Già, ma perché? Nei momenti più difficili - e questo davvero lo è, tra crisi economica e declino politico del berlusconismo - è naturale e perfino utile ripensare a ciò che è stato per capire radici e genesi di ciò che è. Insomma, si può anche decidere di rottamare leader e dirigenti, e l'operazione può risultare salutare assai, ma almeno bisogna fare lo sforzo di capire da dove si viene e dove si vuole andare.

L'altra ragione è più profonda. Proprio con la fine degli anni Settanta, con la tragica uccisione di Aldo Moro, la Prima Repubblica si è andata sfarinando. Ma la Seconda che doveva nascere dalle sue ceneri non è mai sbocciata. Da allora si è avviata invece una lunga transizione di cui si fatica a vedere l'esito. La destra ha cercato nuove strade, ma ha trovato solo un leader-padrone, uscito di scena il quale tutto tornerà Babele; la sinistra ha provato a fondere esperienze e culture diverse, ma non ha raccolto l'appello di Giolitti. A poco è servita insomma la lunga stagione berlusconiana; questa, anzi, ha congelato il Paese rinviando le riforme, tralasciando la modernizzazione, contrapponendo lo scontro frontale a una naturale alternanza. Sono stati anni di paralisi caratterizzati solo dal continuo corpo a corpo di Berlusconi con le istituzioni, magistratura e Quirinale sopra tutte.

In fondo, il capo dello Stato che si commuove ricordando i magistrati caduti sotto le pallottole dei terroristi e il premier che definisce i pm di Milano "cancro della democrazia" sono le due facce inconciliabili di uno stesso Paese. Ora Berlusconi, esasperando i toni e chiedendo per se stesso i poteri costituzionali che ancora fanno da argine al suo tracimare, ha chiamato gli elettori a votare proprio contro l'Italia che Napolitano difende e rappresenta. Dunque è il momento di scegliere. E di ricominciare proprio da dove ci si era fermati tanti anni fa.

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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Milano, dove tutto è cominciato
Inserito da: Admin - Maggio 21, 2011, 10:25:23 am
Editoriale

Milano, dove tutto è cominciato

di Bruno Manfellotto

Il fascismo, la Prima Repubblica, la Seconda, il berlusconismo. Ogni decisiva svolta politica è nata e si è consumata all'ombra della Madunina. Bossi lo sa bene. Ma speriamo che ci riflettano su anche Bersani and friends...

(20 maggio 2011)

Gongola Pier luigi Bersani nella sua rotondità emiliana: "Una cosa è chiara: che abbiamo vinto noi e che hanno perso loro". impossibile negarlo di fronte ai risultati di Torino e di Bologna e ai ballottaggi di Napoli e Milano. E vabbè, ma tutto qui? A volte, per cogliere ciò che di nuovo si va manifestando e comprenderne il senso più profondo, è opportuno rivolgersi a un grande vecchio, meglio se fuori della mischia.

Sarà l'esperienza, il disincanto o forse il distacco dalla quotidianità incalzante, fatto sta che sono spesso questi testimoni del tempo a restituirci una lettura dei fatti più illuminante. Specie se essa riguarda Milano, odierna capitale della disfatta berlusconiana, la città del Cavaliere dimezzato. Seguiamo per esempio il ragionamento in tre punti di Piero Bassetti, 83 anni, famiglia di imprenditori tessili, nerbo del più tradizionale capitalismo lombardo, dc di lungo corso e primo presidente della Regione Lombardia, che per Giuliano Pisapia si è speso, perfino pronosticando una sua affermazione.

Primo punto. Ogni svolta della storia politica italiana è sempre maturata nella capitale del Nord operoso. Milano ha battezzato il nascente fascismo, che da qui ha marciato su Roma; e ancora Milano ha chiuso i conti con il Ventennio a piazzale Loreto. E' a Milano dunque che è nata la Prima Repubblica, ed è stata di nuovo Milano, con Tangentopoli e la "discesa in campo" di Berlusconi a celebrare l'avvento della Seconda e a chiudere nel 1993 la stagione dei partiti storici affidando Palazzo Marino a Marco Formentini, un ex socialista candidato dal nuovo movimento della Lega Nord. Dunque, lì dove nacque può anche finire il berlusconismo.

Secondo. La candidatura vincente di Pisapia, l'avvocato che si vuol far passare per estremista ma che incarna in realtà le virtù riformiste della moderazione e del garantismo giudiziario, nasce dall'investitura popolare delle primarie, e l'alleanza che lo sostiene si è formata intorno al suo nome, non viceversa. Da adesso in poi, insomma, solo chi non seguirà più le logiche di partito per seguire metodi nuovi fino a oggi a noi estranei, potrà sperare di competere e di vincere.

E infine. Anche Berlusconi, in fondo, aveva debuttato rifiutandosi di trasformare in un partito come gli altri il suo comitato elettorale-azienda. Così aveva conquistato chi, nel ceto moderato e non solo, sentiva esigenza di rinnovamento per cambiare e crescere. Poi, anno dopo anno, sposando il solo programma delle leggi ad personam, insultando i magistrati e sparando contro il Quirinale, ha trasformato la politica nel tifo che grida "arbitro venduto" e irride gli avversari, e sostituito l'immagine rassicurante di Mamma Rosa con quella bellicosa di Daniela Santanchè. La sbandierata moderazione è diventata insulto quotidiano ed estremismo programmato: nulla a che vedere con il razionale pragmatismo milanese e con l'Italia migliore che sfida la crisi economica. Basta, dunque.
Non ha forse ragione, Bassetti? Al cui ragionamento va però aggiunta una postilla importante. Nella sua smania onnivora Berlusconi ha trascinato con sé anche la Lega, che certo urla quando le sue bandiere verdi garriscono nei raduni lungo il Po, ma che ha sempre tenuto a cuore la politica concreta del giorno per giorno e i legami con la sua gente. Che ha retto finché è rimasta movimento estraneo a vizi di partito. E che ha accusato il colpo quando il prezzo pagato all'alleanza è diventato troppo alto: le leggi ad personam, il Parlamento ridotto a un esercito di yesmen, le bombe e la guerra, l'assenza di politica economica, un aumento delle tasse mascherato da federalismo. Fino a lanciare il suo avvertimento a Berlusconi: se non si vince a Milano...

Ma alla fine, Moratti o non Moratti, il centrodestra non reggerà così com'è ancora due anni, sperando che B. diventi ciò che non potrà diventare mai. Importante però è che anche la sinistra ascolti il lamento del Paese, molli gli ormeggi della conservazione e scommetta sul cambiamento. Mettendoci la faccia. Visto che B. non ce la potrà mettere più.

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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Forza Italia, ma quella vera
Inserito da: Admin - Giugno 06, 2011, 12:44:16 pm
Forza Italia, ma quella vera

di Bruno Manfellotto

Si respira un'aria nuova, come di liberazione: dai toni ossessivi, dalle bugie sulle tasse, dal governare ad personam.

Un Paese s'è svegliato, e non è quello che immaginano i partiti. Ora è un dovere ascoltarlo

(02 giugno 2011)

C'è un'immagine che riassume bene, l'aria che si respira. Martedì 31 maggio, il giorno dopo i ballottaggi choc della nuova primavera italiana, ore 19, Giardini del Quirinale. Una lunga fila composta ma confusa - gli italiani non sanno stare in fila... - attende di stringere la mano a Giorgio Napolitano, omaggio alla corona laica, all'uomo che simboleggia l'ultimo punto di equilibrio in un momento caotico e delicato del Paese.

Più in là, assistito dall'amorevole Gianni Letta, Silvio Berlusconi trascorre il suo day after in una solitudine appena temperata dal cauto avvicinarsi dei suoi cari, l'inner circle del Cavaliere. Sul suo volto, una passata eccessiva di fondotinta trascolora fino a degenerare sotto gli ultimi raggi di sole del caldo maggio romano.

Sfilano due Italie. Di là il Paese che vuole cambiare; di qua un esercito in rotta che confida nell'ennesima resurrezione, stavolta difficile se non impossibile.

E al seguito di un capo che ha perso lo smalto della travolgente discesa in campo. Qualcosa si è rotto per sempre, e sarebbe miope fare finta di niente.

Gli sconfitti, per esempio, ripetono che si è trattato pur sempre di elezioni locali, che in tempi di crisi chi governa viene punito e che dunque basta riprendere convinti la strada delle riforme per rimettere le cose a posto. I vincitori, invece, cercano di appropriarsi di una vittoria conquistata quasi a loro insaputa e inseguono ragionamenti sulle alleanze prossime venture che certo non sono state né la carta vincente né la motivazione che ha spinto gli italiani al voto contro Berlusconi.

Tanto per capirci, a Cagliari, lontano dai riflettori, la sinistra ha vinto con un certo Massimo Zedda, 35 anni, di professione precario, votato proprio perché non ha niente a che fare con le nomenklature dei partiti. Chi ci avrebbe scommesso due lire. Sorpresa che dovrebbe far riflettere un po' per la novità, l'azzardo, l'ironia. Ma anche Napoli e Milano, seppure con le diversità tipiche che distinguono la capitale della borghesia produttiva e illuminata del nord ricco dalla città del sud che si è sempre inchinata a ribellismo e capipopolo, sembrano marciare nella stessa direzione.

Qui e là, infatti, il voto ha premiato personaggi nuovi, pur se solidamente legati alla loro storia; che non si riconoscono nell'azionista di riferimento del centrosinistra, il Pd, ma nemmeno nelle forze che pure li hanno indicati: Pisapia non è certo un rifondatore comunista, e De Magistris non è un cacicco di Antonio Di Pietro. Ancora, a Napoli e a Milano i due trionfatori hanno portato ai seggi giovani e persone che altrimenti non sarebbero mai andate a votare.

Entrambi, poi, non possono essere catalogati secondo le categorie tradizionali del politichese all'italiana, ma nemmeno in quelle care a Berlusconi che divide gli elettori in amici e in comunisti stupidi: non si può dare del gruppettaro a un noto avvocato milanese cresciuto alla scuola del socialismo perbene e garantista di Aldo Aniasi o Carlo Tognoli; né definire Masaniello un magistrato figlio e nipote di magistrati. Senza contare, infine, che il comunista e il capopolo hanno conquistato per sé i consensi più diversi: giovani e anziani, tradizionalisti e grillini, moderati e indignati. E comunque è stato qualcosa di più di una corsa a sindaco se lo stesso vento ha soffiato a Mantova e a Torino, a Trieste e a Bologna, a Novara, a Varese, ad Arcore.

Ovunque si respira un'aria nuova, come di liberazione: dai toni ossessivi di un governo ad personam, dalle bugie urlate, dalle inconcludenze di una maggioranza che nacque gridando meno tasse per tutti, e ora lancia un federalismo fiscale che rischia di tradursi - avverte Mario Draghi - nella beffarda sommatoria tra nuove tasse locali e vecchie nazionali. Insomma, un'Italia s'è svegliata, convinta che sia possibile chiudere una lunga, pesante stagione di ansie e paure, di strepiti e risse, di minacce e di esagerazioni, di liti senza costrutto tra Berlusconi e Tremonti. Bisognerebbe capirla e ascoltarla. Forza Italia. Quella vera.

     
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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Che sfizio prenderli a sberle
Inserito da: Admin - Giugno 20, 2011, 08:36:17 am
Che sfizio prenderli a sberle

di Bruno Manfellotto

Domenica 12 giugno l'Italia si apprestava a cambiare. Lui no. Domenica 12 giugno l'Italia correva alle urne. Lui a Villa Certosa a occuparsi d'altro. Ancora una volta il Paese reale si è dimostrato migliore di chi lo rappresenta

(17 giugno 2011)

Tutti al mare, aveva ordinato Silvio Berlusconi alla vigilia del referendum. A cominciare da se stesso che domenica 12 giugno, a urne ancora calde, si è ritirato nella quiete di Villa Certosa, in Sardegna, per dedicarsi alle prove generali di una nuova estate da Papi. Naturalmente in compagnia, come mostrano la foto di copertina e il servizio nelle pagine seguenti, che sembrerebbero confermare le preoccupazioni di Daniela Santanchè e Flavio Briatore: insomma, dopo le botte che ha preso e le prove tecniche di regicidio in corso tra i suoi stessi alleati (il servizio di Marco Damilano è a pag. 36) non gli restano che le sue ville. E relativi passatempi. L'Italia cambia, lui no. E la lontananza tra l'una e l'altro si accentua.

Mentre il povero Silvio passeggiava nei viali profumati di mirto cingendo ora l'una ora l'altra ragazza, infatti, 27 milioni di italiani gli voltavano le spalle correndo a votare sì. Con il sottile sfizio di prenderlo finalmente a sberle. Proprio com'era avvenuto nel 1991 con Bettino Craxi. Con i referendum è così: ti svegli una mattina, guardi i risultati e d'improvviso tutto ti appare vecchio, consunto, fuori del tempo. Anche stavolta dalle urne è uscita un'altra Italia, più fresca, più pulita, non rappresentata dalla politica ufficiale, felice di tornare a credere in se stessa. Definitivamente deideologizzata, più affezionata al Web che alle sedi di partito, capace di unirsi sui grandi problemi al di là delle facili etichette. Decisa a mettere dei punti fermi.
Innanzitutto: gli italiani si sono riappropriati del referendum, istituto che per anni è stato di volta in volta annacquato, svuotato, negato. E di questo bisogna ringraziare Antonio Di Pietro che ha avuto fiuto, fiducia, tenacia organizzativa e ora, come i saggi vincitori, non si esalta per la vittoria. A votare, poi, gli italiani sono andati in massa, alla faccia di chi pensava che la politica fosse stata sepolta per sempre dagli urli e dalla demagogia: è invece il trionfo della buona politica esprimere un'opinione su argomenti che toccano la nostra vita quotidiana (nucleare, acqua) o riguardano valori di fondo che tengono insieme una comunità (no al legittimo impedimento perché la legge è uguale per tutti).

I numeri dimostrano poi che 7-10 milioni di elettori di centrodestra, leghisti compresi, hanno bocciato leggi approvate da un governo per il quale pure avevano votato solo due anni fa. Insomma basta a una concezione autoreferenziale, padronale della politica; a una maggioranza arrogante che non spiega nemmeno perché fa e disfa leggi e provvedimenti (a cominciare da quelli oggetto di referendum); a un governo che per anni ha scambiato l'attività legislativa per la cura del premier. E basta alle alchimìe di palazzo, ai cacicchi cooptati in Parlamento, alle deleghe in bianco.
Ancora due cose. L'esplosione di partecipazione e di gioia di queste ore esalta ancor più drammaticamente l'immobilismo di un Paese che in diciassette anni non ha conosciuto una sola vera riforma e non ha visto realizzata nessuna delle promesse per le quali aveva dato credito a Berlusconi. Tutto fermo, congelato, e ogni risorsa spesa solo per tenere il cavaliere al riparo dai tribunali. Finché milioni di sì hanno rotto l'incantesimo, e due settimane dopo che Milano, Napoli, Cagliari avevano deciso che il loro sindaco fosse un outsider osteggiato dai partiti della tradizione.

La seconda. Ancora una volta il Paese reale si è dimostrato molto più avanti dei politici che lo rappresentano, e i suoi interpreti lontani dalla verità, incapaci di prevedere non solo la conquista del quorum ma anche che cosa stesse succedendo (a molti è parso azzardato perfino il "Perché sì" che campeggiava la settimana scorsa sulla copertina de "l'Espresso"). E' come se il Paese ufficiale si fosse rifiutato per anni di accettare ciò che pure era sotto gli occhi di tutti e che alcuni pochi - come questo giornale - andavano tenacemente testimoniando e raccontando. Un ritardo colpevole. Che milioni di italiani si sono affrettati a denunciare.

 
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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Due o tre cose che so di Bisi
Inserito da: Admin - Giugno 25, 2011, 06:40:21 pm
Due o tre cose che so di Bisi

di Bruno Manfellotto

Tutto cominciò molti anni fa al ministero del Tesoro e alla Banca d'Italia.

Ma poi è continuato per trentacinque anni... Storia di un'anomalia: la lobby all'italiana.

Con la regìa di Luigi Bisignani

(23 giugno 2011)

Il primo ricordo, molto lontano, rimanda ai vasti corridoi del ministero del Tesoro in via XX Settembre, a Roma. All'epoca Luigi Bisignani, detto Bisi, 23 anni, si divideva tra il poco invidiabile turno di notte all'agenzia Ansa e l'influente incarico di portavoce di Gaetano Stammati, ministro del Tesoro nel terzo gabinetto Andreotti (1976-'78), monocolore dc passato alla storia come "governo della non sfiducia".
Tra marmi, vetri e specchi stile "L'anno scorso a Marienbad", quel ragazzo ironico e intelligentissimo si muoveva saltellando come un grillo; vederlo sussurrare all'orecchio del settantenne Stammati lo faceva apparire a suo agio più del canuto ministro, che pure vantava un passato di navigato grand commis, presidente della Banca commerciale e prima ancora Ragioniere generale dello Stato.

Si raccontava allora che ogni mattina Bisignani andasse a trovare prima Giulio Andreotti nello studio di piazza in Lucina e poi uno dei capi della massoneria, Licio Gelli, nel suo appartamento all'Excelsior: dava informazioni, ne riceveva in cambio, a sua volta le distribuiva altrove. E' sempre stato questo il suo mestiere, il suo potere. Un tesoro gestito con accortezza, furbizia e buona memoria. Nella Roma dei misteri e dei mille poteri, del Papa e della massoneria, degli apparati e delle aziende pubbliche, tanta abilità e tanto sotterraneo sgomitare venivano visti con stupore e ammirazione, ma anche con l'ironico, cinico disincanto che pervade la città eterna come il rosso dei suoi tramonti. Tutti sapevano cosa Bisi facesse, ma nessuno sapeva cosa facesse precisamente.
Il secondo ricordo è di pochi anni dopo e riguarda la nomina di Lamberto Dini a direttore generale della Banca d'Italia: buon amico di Andreotti, Lambertow arrivava a Roma da Washington, dal Fondo monetario, e da subito si cominciò a dire che presto avrebbe preso il posto di Carlo Azeglio Ciampi, che pure era stato appena nominato governatore...

Si capì subito che non se ne sarebbe stato chiuso a studiare grafici e tabelle. Ma di questa città e dei suoi segreti non sapeva niente, e così si affidò a due ragazzotti di buone speranze che da subito presero ad assisterlo, informarlo, curargli le relazioni esterne: uno era Bisignani, l'altro un giovane funzionario della Banca d'Italia, Mauro Masi (che poi seguirà Dini a Palazzo Chigi, e vi resterà con vari incarichi anche con D'Alema, Prodi, Berlusconi...).
Così tutto cominciò, e come si vede dura tutt'ora. Ciò che Bisignani diventerà dopo, risorgendo pure dalle macerie della maxitangente Enimont, è cronaca di questi giorni e oggetto delle clamorose indagini del pm Woodcock (i servizi, da pag. 36); ma ancora non possiamo dire se la vicenda debba essere letta con il codice penale alla mano o se rientri in quella terra di mezzo della politica che è il lobbying alla romana, reso ancora più indispensabile da quando l'intero ceto politico della Prima Repubblica è stato spazzato via da una corte padronale senza classe dirigente né memoria, spinta ad aprire il suo ufficio risorse umane in piazza Mignanelli.

Reati a parte - sui quali si pronunceranno Procure e Tribunali - sappiamo però fin d'ora che il sistema Bisignani nasconde un'anomalia, una magagna assai pericolosa. Certo, non c'è paese al mondo in cui le lobby non siano legalizzate e lo spoil system, insomma la lottizzazione, istituzionalizzato. Ma allo scadere di un'amministrazione, alla successiva tornata elettorale vanno a casa tutti, premier e ministri, leader di partito e capi azienda, giudici e grand commis. Via, si ricomincia, si cambia il motore, a garanzia (democratica) del buon funzionamento della macchina. In Italia, no.
In Italia - come dimostrano quei due episodietti di 35 anni fa - lobbisti e clienti non cambiano, si riciclano, mutano pelle e casacca, ma sono sempre gli stessi, garanti di un sistema che si vorrebbe perenne e immutabile. E che invece si va sfarinando. Più che le manette, dovrebbero scattare indignazione e voglia di cambiamento. Basta. Comunque vada a finire questa storia, certi nomi non vorremmo più sentirli, certe facce non più vederle.

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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Da Tremonti a Bini Smaghi
Inserito da: Admin - Luglio 01, 2011, 06:37:13 pm
Da Tremonti a Bini Smaghi

di Bruno Manfellotto


Alla fine tanto tuonò che piovve: la manovra ci sarà ma a rate, tagli e sacrifici rinviati al 2014, al governo che verrà.

Ma la guerra tra Silvio e Giulio non è finita, anzi.

Attenti però a non coinvolgere  la Banca d'Italia

(01 luglio 2011)

Non sono mai stati così tesi e difficili i rapporti tra Tremonti e Berlusconi come nell'ultimo mese, nelle ultime ore. L'Italietta è fatta così. Altrove, quando si parla di economia, gli esecutivi prendono forza e più intenso si fa il dialogo con le opposizioni; DA NOI, invece, ogni occasione è buona per sistemare i rapporti di forza. Si è arrivati talmente divisi al vertice che doveva trovare i 47 miliardi di tagli necessari a riequilibrare conti pubblici disastrati, che il ministro dell'Economia ha minacciato le dimissioni e il premier ha fatto intendere di avere già in tasca il nome del successore, ANZI UN PAIO: Lorenzo Bini Smaghi, che non voleva lasciare la Bce, o CORRADO PASSERA, che lascerebbe BANCA INTESA.

Così la guerra è rientrata (ma non è finita), e il piano Tremonti si è annacquato. E mentre la Grecia paventa il default e il "Financial Times" avverte che la finanza italiana è a rischio, i veri tagli di spesa sono stati rinviati al 2014, al governo che verrà. Altro che Responsabili!

Tremonti era sotto tiro da settimane. Aveva in mente una manovra che non piaceva al popolo delle partite Iva e a sindaci e assessori nerbo della Lega, ieri suoi grandi sostenitori, oggi freddi vicini di banco. Né lo ha aiutato lo strapotere costruito negli anni governando le entrate (fisco), le uscite (spesa pubblica) e, come lui stesso si vantò una volta, cinquemila nomine in enti, aziende, amministrazioni, poltrone. Strapotere che si è saldato con velleità politiche mai annunciate, forse coltivate in silenzio, certamente a lui attribuite da amici e nemici. Specie ora che Berlusconi volge al tramonto e la Lega cerca il leader di domani.

Ma nell'ansia di blindarsi, il prudente Tremonti ha commesso due errori, o come direbbe Bossi, ha tirato troppo la corda. Il primo passo falso è stato imporre alla Consob - un'authority che si vorrebbe estranea a logiche di palazzo - l'onorevole Giuseppe Vegas: economista competente, per carità, ma prima parlamentare di Forza Italia-Pdl e poi pure numero due di Tremonti all'Economia.

Il secondo errore, svelato da "Repubblica", è stato impuntarsi sul nome di Vittorio Grilli come successore di Mario Draghi alla Banca d'Italia, facendo filtrare addirittura l'esistenza di un accordo di ferro con Berlusconi per una nomina di lì a poche ore. Niente da dire sulle qualità del direttore generale del Tesoro: giovane, preparato, eccellente grand commis. Ma come non cogliere lo strappo rappresentato dall'ascesa di un alto funzionario di governo al vertice di un'autorità di garanzia? E l'arrogante disinteresse per le regole di nomina che tutelano la Banca d'Italia?

Non è dunque un caso che Draghi abbia suggerito la soluzione interna, il direttore generale Fabrizio Saccomanni. E non è un caso che Giorgio Napolitano abbia invitato Berlusconi al rispetto rigoroso delle procedure. Che sono chiare, pur se in apparenza macchinose: la nomina del governatore porta la firma del presidente della Repubblica, a proporla è il presidente del Consiglio, sentito il Consiglio superiore della Banca d'Italia al quale viene presentata una rosa di nomi in una riunione convocata ad hoc. Niente colpi di mano, dunque, ma accordo fra i diversi protagonisti della partita; non un atto imperioso, ma condiviso; non diritto di veto della Banca d'Italia, ma di scelta tra più candidati.

Tutto a garanzia di un organismo che deve essere non braccio del governo, ma "potere altro", autonomo e indipendente. Il perché è presto detto. Nessuno tra i grandi del mondo è gravato come l'Italia da un debito pubblico che supera di gran lunga la ricchezza prodotta e dunque condiziona ogni scelta di politica economica; e non c'è Paese al mondo in cui il sistema bancario sia sottoposto, come accade qui da noi, alle pressioni della politica, delle lobby, delle logge. All'organismo che vigila sul credito e dà la pagella all'economia vanno garantite autorevolezza e indipendenza. Salviamo dunque quest'ultima isola di professionalità e autonomia. A tutela del Paese.

   
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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Dottor Debito e Mister Crack
Inserito da: Admin - Luglio 21, 2011, 11:24:09 am
Dottor Debito e Mister Crack

Bruno Manfellotto

Mercati e governi non considerano credibile Berlusconi. Tanto che la speculazione ha rallentato la presa solo quando sono intervenuti Angela Merkel, Napolitano e la Bce. Quanto ancora possiamo durare così?

(14 luglio 2011)

Gli speculatori finanziari, si sa, annusano l'aria e colpiscono sfruttando le paure diffuse. A volte basta un minimo segnale. Quello còlto la mattina di venerdì 8 luglio era clamoroso: uno sfogo di Silvio Berlusconi a Claudio Tito di "Repubblica", devastante nella sua sincerità, inquietante nei contenuti, quasi l'annuncio di una resa incondizionata alla speculazione. Ma forse, per capirne fino in fondo le implicazioni, è necessario un passo indietro. Solo poche ore prima Giulio Tremonti era riuscito a far approvare la manovra finanziaria dal Consiglio dei ministri. A fatica, dopo polemiche, distinguo e perfino minacce di dimissioni. Senonché...

Senonché, nell'illustrare il documento in conferenza stampa, Tremonti dava del cretino a Renato Brunetta in diretta tv, e per una ragione precisa: il ministro della Pubblica amministrazione stava spiegando ai giornalisti che la manovra non sarebbe poi stata così dolorosa per gli italiani. Insomma, lanciava un messaggio di rassicurazione ai suoi elettori, non certo ai mercati. Per Tremonti, sale sulle ferite; per la speculazione, un primo pretesto.

L'indomani avremmo letto quelle clamorose confessioni del Cavaliere. Che provava fastidio per un Tremonti "che si crede un genio" e diceva di sentirsi più dalla parte di Brunetta perché - testuale - "in politica il fatturato è composto dal consenso e dai voti. A Tremonti il consenso non interessa, a noi sì". Altro che mercati. Per concludere, improvvido: "Noi la manovra la cambieremo in Parlamento". Amen. Quel giorno Piazza Affari perdeva il 3,47 per cento e i titoli delle principali banche dal 5 al 7. Un venerdì nero. E nei giorni successivi sarebbe andata peggio.

Il Paese non è mai stato così a rischio, e il paragone con il terribile biennio '92-'93 è legittimo, ma forse destinato a dimostrare che oggi stiamo peggio di allora. I problemi di fondo non sono stati aggrediti, a cominciare dal debito pubblico, che è il 20 per cento in più della ricchezza prodotta ogni anno dal Paese, e da una crescita vicina allo zero. Mali storici che si sono aggravati e ai quali si è aggiunto negli anni l'inarrestabile declino della politica.

Il Paese è affidato a un premier di cui i tribunali hanno accertato il più osceno dei reati, la corruzione di un giudice per conquistare un'azienda, la Mondadori, da cui sarebbe partita la sua "discesa in campo". Il ministero dell'Economia è guidato da un uomo che ai giudici confessa la paura di essere pedinato e di finire maciullato dal trattamento Boffo dopo che si sono scoperti vizi e Ferrari, case e barche, tic e mazzette del più stretto dei suoi collaboratori. Di cui era ospite in un appartamento da 8.500 euro al mese.

Ancora. Il governatore della Banca d'Italia è in partenza per la Bce di Francoforte, ma non è stato scelto il suo successore. Le inchieste giudiziarie rivelano un'Italia del malaffare a fronte della quale fa tenerezza l'appello alla "questione morale" lanciato da Enrico Berlinguer trent'anni fa; e mentre la maggioranza si sfilaccia pensando al dopo Cav, l'opposizione si dilania sul destino del Porcellum e la resurrezione del Mattarellum...

Se non ci fosse stata la pazienza tenace di Giorgio Napolitano, il Paese sarebbe da tempo alla deriva. La verità è che mercati e cancellerie non considerano credibile Berlusconi, lo vedono come il primo responsabile della debolezza del Paese, un pericoloso Mister Crack. Di conseguenza non si fidano più nemmeno di Tremonti. Prova ne sia che un primo freno alla speculazione c'è stato solo quando il capo dello Stato ha convinto all'accordo maggioranza e opposizione, quando Angela Merkel ha pubblicamente sostenuto la manovra economica del governo e soprattutto quando dalla Banca centrale europea sono trapelate voci di ingenti acquisti di titoli pubblici italiani.

Si temeva da tempo che alla fine del berlusconismo si potesse arrivare nel peggiore dei modi, cioè sull'onda della crisi economica. Speriamo solo che ora il buonsenso prevalga sull'emotività, che l'agonia duri poco e che la responsabilità nazionale contribuisca a chiudere una stagione che si è prolungata troppo.

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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Non è tempo di privilegi
Inserito da: Admin - Luglio 25, 2011, 11:40:45 am

Editoriale

Non è tempo di privilegi

di Bruno Manfellotto

I cacicchi del Cavaliere ci hanno accusato di "disfattismo" per la copertina su Mister Crack. Ma l'hanno vista la stampa straniera?

In realtà l'unica loro preoccupazione è difendere la casta

(21 luglio 2011)

L'Espresso con l'inequivocabile copertina dedicata a Silvio Berlusconi - "Mister Crack" era in edicola da poche ore e già le truppe cammellate del Cavaliere facevano a gara nel Transatlantico di Montecitorio a difendere il Capo, ancora una volta preoccupati non di guardare la luna - economia e finanza in bilico e tanta cattiva politica - ma il dito che la indica raffigurandola con il volto dell'uomo che da diciassette anni condiziona ogni momento della nostra vita. Si sono sentite risuonare perfino parole che credevo uscite per sempre dal dizionario dopo la caduta del fascismo, come "disfattismo". Altro paravento assai utile a nascondere la realtà. Chissà cosa diranno questa settimana...

Evidentemente i cacicchi del Cav., abituati a scambiare il proprio Paese per il mondo, non avevano dato un'occhiata ai giornali stranieri, esperienza utile. L'"Economist", per esempio, che coltiva da tempo una passione malsana per Berlusconi, lo ha giudicato "unfit", inadatto a governare l'Italia (2001); dieci anni dopo lo ha chiamato "L'uomo che ha fottuto un intero Paese"; per poi concludere la settimana scorsa disegnando quello stesso Paese, il nostro, sull'orlo di un precipizio. I soliti inglesi, si dirà, perfida Albione.

Ecco allora lo "Spiegel", settimanale di punta nella Germania di Angela Merkel. Copertina con lo Stivale e Silvio con un paio di ragazzotte; testo fin troppo esplicito in uno speciale di 11 pagine che ripete un titolo recente - "Basta!" - del più snob dei settimanali americani, il "New Yorker", e descrive così "il declino del Paese più bello del mondo": "I mercati finanziari internazionali hanno perso la fiducia nell'Italia. Dopo 17 anni di Berlusconi, il Paese è pesantemente indebitato e maturo per un cambio di governo. Uno dei Paesi fondatori dell'Unione europea appare paralizzato dall'incapacità del suo premier, che è occupato innanzitutto dai suoi affari personali". Chiaro, no?

E si potrebbe continuare con il "Financial Times", il "Wall Street Journal", il "Guardian", o ascoltare le parole di Nouriel Roubini a "Repubblica": "Il governo italiano è assolutamente inadeguato alla gravità della situazione. Non potete scherzare con il fuoco: è impensabile che così si arrivi al 2013. Non siete ridotti come la Grecia o il Portogallo. Ma le vostre serissime vulnerabilità si combinano con l'inadeguatezza del governo. A parte i comportamenti privati e i conflitti d'interessi del presidente del Consiglio, che sono inaccettabili, le misure pubbliche in economia sono inefficaci". Insomma, il mondo si augura un'uscita di scena di Berlusconi come segno della svolta. Poi dicono che "l'Espresso" esagera...

Del resto, il quadro è chiaro anche a un bambino. Le liti tra un premier condizionato dalla Lega e un Tremonti visto con sospetto hanno paralizzato il governo. Solo l'appello di Napolitano ha convinto l'opposizione a una "prova di responsabilità", in sostanza a chiudere gli occhi e ad approvare la manovra finanziaria in tempi miracolosi. E' la conferma che il premier non c'è più e - ha ragione Tremonti - che il vuoto politico aggrava il quadro generale assai più, che so?, della bassa capitalizzazione delle banche italiane. E però Berlusconi non demorde, non è disposto a fare un passo indietro e intanto l'idea di un governo incerto, instabile e inefficiente imbriglia i listini tra crolli e rimbalzi: le Borse sono incerte, dubitano che B. ce la possa fare a governare la crisi.

Càpita, quando una stagione politica volge al termine, che i suoi protagonisti non se ne rendano conto: immaginano un futuro che non ci sarà, si tengono stretto il presente che hanno, progettano cose che non faranno. Per un Berlusconi che non se ne vuole andare, ecco mille parlamentari e decine di migliaia di professionisti della politica che si rifiutano di ridurre costi, stipendi, privilegi della loro casta, si sentono insomma estranei perfino a una manovra da ultima spiaggia. Intoccabili: metafora di una politica che cerca di conservarsi mentre il Paese che l'ha prodotta sprofonda. E' la copertina di questa settimana, ideale seguito di "Mister Crack": chissà che diranno nel Transatlantico...

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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. La chiamavano questione morale
Inserito da: Admin - Agosto 02, 2011, 06:35:15 pm
La chiamavano questione morale

di Bruno Manfellotto

Al di là delle vicende giudiziarie è su una questione che la sinistra deve interrogarsi: se non sia stato sbagliato qualcosa nei rapporti tra partiti, affari e istituzioni. E di conseguenza cambiare profondamente

(28 luglio 2011)

Come sembra lontana l'Italia di Enrico Berlinguer e della questione morale, di Tangentopoli e delle mazzette, della diversità che i comunisti rivendicavano orgogliosamente a simbolo della loro estraneità a un sistema e che i loro nemici negavano per dimostrare invece che nella notte buia della commistione consociativa tra affari e politica tutti i gatti sono bigi.

Oggi che i sospetti si abbattono di nuovo sui post comunisti e sul Pd e le inchieste toccano non solo qualche cacicco di periferia - i Pronzato, i Morichini, le Katiuscia Marini - e un parlamentare di peso come Tedesco, ma anche un pezzo da novanta come Filippo Penati, ras del milanese ed ex braccio destro del segretario, Pier Luigi Bersani sbandiera ancora una diversità ("Corriere della Sera", martedì 26 luglio), ma è costretto ad aggiungerci un aggettivo: diversità sì, ma "politica". Del resto, chi se la sentirebbe ora di giurare sull'estraneità di uomini del Pd ad affari, impicci, pastette? Nemmeno il leader, che infatti s'impegna a tenere aperti quattro occhi sulle possibili zone grigie dell'apparato.

Potrebbe essere l'occasione per una svolta. Vera. All'insegna del "tutto ciò che non è vietato è legittimo", l'Italia di Berlusconi ci ha assuefatti a tollerare comportamenti altrimenti inammissibili. Sotto i nostri occhi sono sfilati cricche, escort, conflitti d'interessi, leggi ad personam, parlamentari comprati e venduti, giudici corrotti, logge segrete. Siamo venuti a sapere perfino di generali della Finanza che fanno pedinare il ministro dell'Economia, il loro ministro, e comunque lo braccano, lo controllano, ne fanno oggetto di pressione per la vittoria di questa o quella lobby interna al Corpo. Altro che tintinnar di sciabole: Finanza corrotta, Nazione infetta, verrebbe da dire citando i padri fondatori.

In questo mare di corruzione evidente o strisciante, siamo stati indotti a pensare che si possa parlare di questione morale solo in presenza di reati e codice penale, e che dunque sia già qualcosa schivare gli strali della magistratura. E sì, ma non basta, e qui non ci si riferisce solo al fatto che per chi si candidi a governare domani in alternativa a chi governa oggi, i comandamenti dovrebbero essere rigore, efficienza e severità in ogni atto, in ogni gesto: piuttosto, evocare oggi la questione morale dovrebbe significare una profonda riflessione sul rapporto che si è consolidato in questi anni tra partiti, economia, istituzioni e che ha scandito, nel peggiore dei modi, la trasformazione della società italiana.

Gli anni Novanta furono quelli delle privatizzazioni imposte dall'incoercibile deficit di bilancio: passavano di mano banche, aziende, holding pubbliche. I Duemila hanno visto completare lo smantellamento di interi settori industriali e la vendita di immensi patrimoni immobiliari. Nell'uno e nell'altro caso, c'è stato chi a sinistra ha pensato che la politica - dall'opposizione o dal governo - volesse dire partecipare da protagonisti alla distribuzione dei pani e dei pesci.

Intorno a proprietà da conquistare e poteri da riequilibrare si è raffinato un sistema che ha visto in azione imprenditori vogliosi di vendere o di comprare; politici pronti a studiare leggi, varare piani regolatori e sponsorizzare cordate; istituti bancari, appena privatizzati e fusi, pronti a finanziare operazioni o a raccoglierne poi le spoglie sotto forma di partecipazione. Non è dunque un caso che a sinistra quella prima stagione abbia coinciso con l'affare Bnl-Unipol ("Abbiamo una banca"); e la seconda porti il nome di Filippo Penati e lo leghi alla dismissione dell'area degli ex stabilimenti Falck di Sesto San Giovanni.

Al di là delle vicende giudiziarie, dunque, è su una questione che dovrebbe comunque misurarsi oggi tutta la sinistra: se certificare la propria esistenza in vita (politica) significhi solo essere invitati al gran ballo della partecipazione al potere, rischiando di assumere vizi e tic che non le dovrebbero appartenere, e non piuttosto immaginare e preparare - finalmente - un Paese diverso.

 
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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Ah, le belle crisi di governo...
Inserito da: Admin - Agosto 11, 2011, 12:31:36 pm
Ah, le belle crisi di governo...

di Bruno Manfellotto

Stabilità e durata dell'esecutivo non si traducono automaticamente in efficienza.

E poi ci sono momenti in cui è salutare disfarsi di un capo che ha perso ogni credibilità. Come il caso Berlusconi insegna

(04 agosto 2011)

Alle 10 di mattina di lunedì 1 agosto, digerita la notizia dell'accordo sul debito americano, Piazza Affari marciava con il segno più. Un'illusione. Intorno alle 13 il vento già cambiava: giù le banche, su il differenziale tra titoli pubblici italiani e tedeschi verso un nuovo record. Pochi minuti prima le agenzie avevano battuto la notizia che, messo da parte l'ingombrante Tremonti, sarebbe stato Berlusconi in persona a parlare alla Camera sullo stato della finanza e dell'economia. C'è bisogno d'altro ancora per convincersi che il Cav, come dice Enrico Letta, è stato sfiduciato anche dai mercati, oltre che dagli elettori, e da banchieri, sindacati e imprenditori che invocano una "discontinuità" nella politica economica?

In effetti, il governo fino all'intervento di Berlusconi in Parlamento, era parso indeciso a tutto, inadatto a sostenere il peso della crisi. E mentre il ministro dell'Economia confessava a "Repubblica" il timore di essere spiato dalla Guardia di Finanza (perché? per conto di chi?), e sul capo del suo più fidato collaboratore si abbatteva una richiesta d'arresto da parte della magistratura, la debole manovra finanziaria di luglio che avrebbe avuto qualche effetto sostanziale solo nel 2013-14, veniva bruciata in pochi giorni dagli stessi mercati che avrebbe dovuto tranquillizzare: costretti ad aumentare i tassi d'interesse su Bot e Btp per renderli appetibili, ci già siamo mangiati i primi 4 miliardi di maggiori entrate. Insomma, operatori e cittadini si disfano dei titoli pubblici italiani in portafoglio. Così è stato perso un mese. E ora si teme che si faccia avanti anche la speculazione. Quella vera.

In altri tempi, e per molto meno, il presidente del Consiglio sarebbe stato costretto dal suo stesso partito (do you remember la Dc?) a un passo indietro, si sarebbe aperta una crisi che avrebbe eliminato l'ostacolo e dato vita a un altro governo. I mercati finanziari avrebbero apprezzato la novità confidando nel fatto che il nuovo esecutivo sarebbe riuscito a fare ciò che non aveva potuto il precedente (magari una svalutazione della lira...). Da quando, invece, si evoca l'inesistente Seconda Repubblica, si è fatto strada un malinteso presidenzialismo che scambia la durata di un governo e del suo premier con la sua efficienza. Berlusconi, anzi, ha costruito il suo consenso denunciando il male dell'instabilità incarnato da quei cinquanta e più governi che hanno scandito i primi cinquanta e più anni di vita repubblicana.

Eppure quei governi, nonostante il ripetersi delle crisi, hanno costruito l'Italia, portato a termine fondamentali infrastrutture (basta leggere "La strada dritta" di Francesco Pinto, storia dell'Autostrada del Sole, per capire quanto sia lontana la temperie di quegli anni), favorito lo sviluppo di una grande industria. I deprecati governi balneari aiutavano a preparare la ripresa d'autunno o le elezioni e impostavano il bilancio dello Stato. Cose che Berlusconi, forte per anni di una vasta maggioranza, non è riuscito a fare. Nemmeno - lui, imprenditore lanciatosi in politica - ad aiutare l'Ikea ad aprire uno stabilimento a qualche chilometro da Pisa. E oggi, governo balneare che attende di sapere che cosa succederà in autunno, rischia di vanificare un credibile pacchetto di misure anti crisi.

Non c'è alcuna nostalgia per quegli anni; solo la constatazione che quando un'esperienza politica si va spegnendo bisogna avere il coraggio di troncarla per evitare che danneggi il Paese, specie se imperversa la tempesta perfetta della finanza. Ammantato poi del sogno di impossibili riforme, è cresciuto anche il mito dell'imamovibilità del premier. E così, tutte le volte che il governo Berlusconi inciampava - ieri i casi Ruggiero, Mancuso, Siniscalco, Fini, Scajola; domani Tremonti - tutto si è risolto sostituendo il ministro dissidente o impresentabile e confermando il premier. E invece ci sono momenti in cui è necessario disfarsi di un Capo incapace o inaffidabile. O, come nel nostro caso, ormai privo di ogni credibilità. In Italia e non solo.

 
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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Pagare non è bello eppur si deve
Inserito da: Admin - Agosto 22, 2011, 04:12:20 pm
Pagare non è bello eppur si deve

di Bruno Manfellotto

Tra i regali del berlusconismo c'è un patto non scritto con gli evasori.

Ma finché non si dichiara guerra al sommerso il Paese non ha speranze

(19 agosto 2011)

L'idea "che Visco diventi ministro delle Finanze equivale a quella di fare Dracula presidente dell'Avis...". Copyright Giulio Tremonti, la data è quella dell'8 settembre 1995, fine del primo gabinetto Berlusconi, una vita fa. E ancora, 7 agosto 2002, Tremonti è di nuovo Super Giulio, ma non dimentica i nemici e il linguaggio di sempre: "Visco-Dracula non è in pensione e continua a succhiare il sangue delle piccole e medie imprese e dei lavoratori". Evidentemente la fatwa aveva funzionato fino a convincere gli italiani a riprendersi il Cav.

Ora però la legge del contrappasso redistribuisce pesi e misure e si abbatte stavolta sul governo Berlusconi, di cui Tremonti è di nuovo super ministro - pur se sotto tutela e pro tempore - dell'economia, costretto dalla tempesta finanziaria e da un debito pubblico incontrollabile a una manovra lacrime e sangue. Dove il sangue è quello succhiato agli stessi italiani di sempre. Riecco Dracula, stavolta con le sembianze del premier. Il cui cuore, parole sue, "sanguina" all'idea di spremere i cittadini. Poverino.

Nessuno può dire oggi che cosa resterà della manovra frettolosamente varata venerdì 12 agosto, prontamente corretta e smentita dagli stessi boss della maggioranza che l'hanno approvata; ma certo essa mostra fin dall'impianto tutta la sua pervicace iniquità, la sua debolezza, la tenacia di chi si ostina a colpire solo alcuni e a lasciare indenni gli altri. Anno dopo anno il memorabile "meno tasse per tutti" si è trasformato in un più prosaico "più tasse per alcuni".

Dove nel caso specifico gli alcuni sono il mezzo milione di italiani, poco più dell'un per cento dei contribuenti totali, costretti dal cedolino della pensione o dalla busta paga dell'azienda a dichiarare almeno 90mila euro lordi l'anno. Sono quelli che, anche volendo, non possono evadere e quindi brillano in testa alle statistiche come i più ricchi di tutti. Più di commercianti, imprenditori, dentisti, gioiellieri. In altre parole, chi già paga, pagherà più tasse ordinarie, straordinarie, una tantum, di emergenza, stavolta un contributo di solidarietà... E soprattutto pagherà anche per chi non paga.

Forse vale la pena ricordarlo ancora, ma il 90,2 per cento dei contribuenti Irpef dichiara meno di 35 mila euro lordi l'anno e mezza Italia meno di 15 mila. Insomma, fatti due conti, venti milioni di italiani vivono più o meno con 700 euro netti al mese: possibile? Non solo. Presto, possiamo starne certi, tornerà sotto altro nome l'Ici frettolosamente e demagogicamente cancellata; poi toccherà alle tasse locali, se Comuni e Regioni non vogliono chiudere baracca e burattini; e poi la sanità e l'università, il blocco del tfr e della tredicesima. Colpendo dove si è sempre colpito.

Intendiamoci, tutti vorrebbero meno tasse; ma su un punto si dovrebbe concordare: che l'evasione va comunque combattuta, contenuta, ridotta. Ogni coalizione politica premierà poi il blocco sociale che l'ha portata al governo, ma senza smentire quel principio fondante della democrazia.

E invece qui, dove solo la lotta all'evasione potrebbe salvarci da un debito pubblico che sta mangiando noi e i nostri figli, non è così. Negli ultimi quindici anni, nell'Italia che rinuncia a circa 120 miliardi che gli evasori ci negano ogni anno - come tre manovre d'emergenza - il berlusconismo ha operato la più massiccia redistribuzione del reddito del dopoguerra, affondando i denti nella carne dei lavoratori dipendenti pubblici e privati e firmando di fatto un armistizio con i piccoli e grandi evasori.

L'ultima prova? Alla fine il governo ha pensato di mettere le mani anche sui capitali indebitamente esportati e riportati in Italia nel 2009 con una mini multa del 5 per cento. Ma ha ipotizzato un prelievo minimo, quasi simbolico, un 1-2 per cento. Poco conta che sugli interessi maturati sui bot si paghi il 12,5 per cento e sui fondi di investimento, secondo le proposte, l'imposta sia stata aumentata al 20. L'Italia è sempre divisa in due. Anche quella fiscale.

 
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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Libera Casta in libero Stato
Inserito da: Admin - Agosto 26, 2011, 06:37:42 pm
Libera Casta in libero Stato

di Bruno Manfellotto

D'improvviso ci siamo ricordati che il Vaticano non paga l'Ici sul suo patrimonio immobiliare: grida, polemiche, accuse di lesa Santità.

E però qui non si parla di religione, ma di equità. E di un'altra solidarietà

(25 agosto 2011)

Il diavolo a volte ci mette la coda, e pure lo sterco. E così accade che la supertassa sui redditi oltre i 90mila euro sia chiamata "contributo di solidarietà", che sa di chiesa più che di fisco; e succede pure che si scateni sui giornali e in rete una dura polemica contro il Vaticano che la sua "solidarietà" alla manovra potrebbe anche darla, magari accettando finalmente di pagare l'Ici almeno su una parte dell'ingentissimo patrimonio immobiliare di vescovadi e ordini religiosi, pii sodalizi e congregazioni, comunità e arciconfraternite.
Tanto più che venerdì 19 agosto, dai microfoni di "Radio Anch'io", il numero uno dei vescovi Angelo Bagnasco, predicava con grande efficacia mediatica contro l'evasione fiscale ("cifre impressionanti"), e anzi s'augurava che "il dovere di pagare le tasse possa essere assolto da tutti per la propria giusta parte". Bravo. Ma l'invito dovrebbe valere pure per l'elusione, in cui la Santa Sede storicamente (e legalmente) brilla: se tutti hanno da fare la loro parte...

Scavando nella memoria, poi, ci si è ricordati anche di altri aiuti, sconti e agevolazioni di cui gode la Chiesa, e di tutte le volte che il tentativo di modificare in Parlamento qualche regalìa, concordataria e non, si sia infranto contro un solido muro di "no" rigorosamente bipartisan. E Dio ci perdoni se questo rosario di piccoli e grandi privilegi ci ha dettato l'irriverente copertina "La santa evasione" e il titolo qui sopra che rimanda a un'altra casta ben più celebre e processata.

La verità è che anche in questo caso, come in tanti altri della vicenda italica, concessioni sacrosante e limitate sono divenute quando non arbitrio, certo altro da sé. Si pensi all'8 per mille, introdotto nel 1985 dal governo Craxi con l'impegno che se ne sarebbe via via valutata l'entità: è passato un quarto di secolo, il gettito si è moltiplicato, ma di quella correzione non s'è più parlato. E certo pesa che l'istituto sostituisca l'assegno di congrua, lo stipendio che lo Stato pagava ai sacerdoti a mo' di risarcimento dopo la breccia di Porta Pia e la caduta del Papa re. Il Tevere non è più largo di centoquaranta anni fa.

Si pensi poi agli immobili vaticani, esclusi da tassazione o per ragioni di extraterritorialità o perché destinati al culto, all'assistenza, al volontariato. Giusto. Ma negli anni, dal primo al secondo Concordato a oggi, quel patrimonio immobiliare è cresciuto a dismisura e spesso la destinazione è cambiata: ville trasformate in case di cura; appartamenti nei centri storici delle città ieri destinati alle famiglie bisognose e oggi ambìti da manager, politici, ministri; immobili diventati asili e scuole a pagamento; negozi e botteghe, garage e capannoni.

La beneficenza, è vero, nasce sovente dallo sterco del diavolo. Ma che c'entrano queste attività imprenditoriali con il culto e l'assistenza? E a quanto ammonta questo patrimonio parcheggiato in un'indefinibile zona grigia? Basterebbe un'operazione trasparenza, avviare almeno un censimento di beni e proprietà, se non altro per capire come davvero stanno le cose. Facile a dirsi, impossibile finora a farsi: non ne ha sentito l'esigenza il Parlamento, figuriamoci il Vaticano. E così si preferisce urlare e blaterare di cose di cui si sa poco o nulla.

Forse all'origine di tutto c'è un patto non scritto tra Stato e Chiesa in virtù del quale le mille braccia del mondo cattolico provvedono lì dove lo Stato non può arrivare: sanità, assistenza, istruzione. Prestazioni in qualche modo ripagate con vaste regalìe di elusione (e di evasione). Se così stanno le cose, forse è arrivato il momento di chiedersi, complice la straordinaria e inedita crisi che viviamo, se un equilibrio di tal fatta sia ancora equo e sostenibile. E se non sia opportuno cominciare a vivere la solidarietà in forme nuove. Parlando al meeting di Cl, il socialista Giuliano Amato si è chiesto come mai "abbiamo perduto la fiducia in un futuro comune". Noi più modestamente ci chiediamo perché questa fiducia mostri di averla persa perfino la Chiesa di Pietro.


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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Ma il compagno P non è il compagno G
Inserito da: Admin - Settembre 06, 2011, 03:15:23 pm
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Editoriale

Ma il compagno P non è il compagno G

di Bruno Manfellotto


L'inchiesta di Monza non tira in ballo un oscuro militante di provincia.

Bersani fa bene a difendere l'onorabilità del Pd, ma deve capire che si chiede molto di più al partito che sbandierò la sua "diversità"

(01 settembre 2011)

Tanto per cominciare, il compagno P. non è il compagno G. Nel senso che Filippo Penati non è l'oscuro militante Primo Greganti incaricato di qualche lavoretto sporco: lì eravamo alla periferia del vecchio Pci del centralismo democratico, qui siamo nel cuore del partito moderno, leggero e riformista. E certo non è la sola differenza con la devastante Tangentopoli degli anni Novanta; ma verrebbe da dire che vent'anni sono passati invano a giudicare da questioni di fondo mai affrontate né risolte: i costi della politica, il finanziamento dei partiti, la loro capacità di rigenerarsi, gli intrecci col mondo degli affari...

Penati, dunque, non è Greganti. E sì che nel partito l'ex presidente della Provincia di Milano già sindaco di Sesto San Giovanni pesava eccome, lui e la sua cospicua lobby interna. Non da ieri. E con una spiccata predilezione per ferro e cemento. Luigi Vimercati, per esempio, fratello del suo capo di gabinetto Giordano, fu sottosegretario nel governo Prodi, e non alla Cultura o all'Ambiente, ma alle Infrastrutture, e oggi è segretario della commissione Lavori pubblici di Palazzo Madama. Il suo giovane pupillo Pierfrancesco Maran, a 31 anni è già assessore comunale a Milano. Ai trasporti. Non basta. Matteo Mauri, altro collaboratore strettissimo di Penati, è atterrato direttamente alla segreteria nazionale del Pd con la responsabilità della sezione Infrastrutture, Casa, Trasporti ed Expo. Evviva la chiarezza. Nella quale sezione, nel suo piccolo e per occuparsi di trasporto aereo, militava anche Franco Pronzato, gratificato con una tangente di 40 mila euro per aver favorito la nascita della linea aerea Elba-Pisa-Firenze.

Non basterà per parlare di un "sistema Penati", o per applicare al leader del Pd il teorema del "non poteva non sapere"; ma è evidente che i condizionamenti dell'uomo forte del Pd milanese, e le sue tentazioni infrastrutturali e autostradali, devono essere stati tali da determinare perfino i delicati equilibri della segreteria del partito dove sono stati cooptati sia lui sia il suo fedelissimo, e per di più non nel suo momento di fulgore ma dopo due sconfitte elettorali. Sesto caput mundi.

Più passano i giorni, poi, più i particolari dell'inchiesta giudiziaria suonano inquietanti. Ma è evidente come, per paradosso, la politica pesi ormai più della Procura di Monza. La vicenda mostra infatti la fatica che fa il Pd a produrre anticorpi e a restare in sintonia con il paese reale: è vero infatti che alla fine Penati ha abbandonato gli incarichi, e annunciato che non si nasconderà dietro la prescrizione, ma per arrivarci ci sono voluti sei mesi. A dimostrazione pure della miopia con la quale il partito guarda agli umori del Paese.
Chiarezza inoltre andrebbe fatta sul finanziamento dei partiti, e pulizia soprattutto in periferia visto che non c'è amministrazione locale che non brilli per conflitti d'interessi di assessori e consiglieri, per appalti alle imprese di riferimento o agli amici degli amici, e quando ciò non avvenga in cambio di mazzette ecco favori, assunzioni di comodo, contratti e consulenze così border line da rischiare di finire sotto la lente di qualche magistrato. Del resto, da quando non c'è più il Gran Partito centralista e organizzato, al posto dell'apparatniki spiccano i cacicchi.

Siamo meglio di Berlusconi e della destra, si difende Bersani. E ha ragione. Ma non si rende conto che a un partito come il suo si chiede molto di più che agli altri. Non solo perché i suoi sono elettori generalmente più rigorosi ed esigenti; ma perché è giusto pretendere di più da chi ha fatto della propria diversità vera o presunta un'arma di consenso e di propaganda: contro la Dc, contro Craxi, contro Berlusconi, infine nelle grandi battaglie - ingaggiate quasi controvoglia - di Napoli, di Milano e dei referendum.

Ancora di più pesano i comportamenti ineccepibili quando questi finiscano per supplire alla mancanza di idee forti e di proposte convincenti. Perché se lo schermo viene giù, può anche accadere che resti poco, molto meno di ciò che occorrerebbe in un momento di crisi e di confusione. Come quello che stiamo vivendo.

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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Quell'anti italiano di Berlusconi
Inserito da: Admin - Settembre 13, 2011, 10:56:11 am
Quell'anti italiano di Berlusconi

di Bruno Manfellotto

Criticati da Draghi, messi in guardia da Trichet, condannati dalla Merkel, irrisi perfino dalla Spagna.

Governo e ministri escono pessimamente dalla crisi d'agosto.

Mentre il premier abbandona il Paese e ne ignora i guai

(08 settembre 2011)

Ci vuole una bella faccia tosta a dare dell'anti italiano a chi racconti come davvero stanno le cose in questo paese e indaghi su economia, manovra e dintorni. Evidentemente Berlusconi confonde l'informazione con il disfattismo, parola che rimanda a tempi bui, ma a lui assai cara. Del resto, sentirsi dare del disfattista da chi annuncia ai suoi cari di apprestarsi a lasciare questo "paese di merda" (magari lo facesse davvero!) fa parte di quei tragici paradossi ai quali il cavaliere ci ha abituato nel suo triste ventennio. Perché ormai, come i fatti di questi giorni hanno dimostrato e come dovrebbe essere chiaro a tutti, il vero anti italiano è lui.

Una conferma? La settimana più drammatica della Grande Crisi si è aperta lunedì 5 settembre con quattro autorevolissimi allarmi lanciati all'indirizzo dell'Italia e del governo. Il primo porta la firma dell'agenzia di rating Moody's che proprio all'indomani della manovra finanziaria versione tre o quattro, appena annunciata e non ancora approvata, ha dichiarato di tenere sotto osservazione il debito italiano: insomma - ci hanno detto - non pensiamo che queste misure siano tali da ridurne lo stock. Ora, piacciano o no le agenzie di rating, esse sono oggi gli arbitri della partita ai quali guardano i mercati di tutto il mondo.

Il secondo grido d'allarme lo ha lanciato Mario Draghi che presto lascerà la Banca d'Italia per la Bce e che certo non si può scambiare per un acceso militante dell'opposizione: non è detto che la Banca centrale europea continui a comprare i titoli di Stato italiani all'infinito, ha messo in guardia. Subito dopo, terzo avvertimento da Jean Claude Trichet: ogni governo trovi le risorse necessarie a casa sua e adotti gli strumenti indispensabili.

Del resto pochi giorni prima era bastato che la Bce annunciasse l'acquisto di titoli di Stato italiani per spingere Berlusconi & C. ad annacquare la manovra, quasi che il pericolo fosse passato, e a cancellare tutti quei provvedimenti che poi sono stati precipitosamente recuperati, se pur in parte, solo in zona Cesarini. Nel frattempo, però, le Borse avevano divorato un altro pacco di miliardi di euro mentre il differenziale tra titoli italiani e tedeschi toccava nuovi record.

Moody's, Draghi, Trichet. E infine Angela Merkel che è arrivata a dire ciò che pensava da mesi e ancora non aveva detto: Italia e Grecia per me pari sono. Certo, il senso dell'affermazione è tutto politico, perché ognuno sa che così non è, e che le due economie e i due debiti non sono assolutamente paragonabili; verrebbe piuttosto da riflettere su quello che l'Italia ha fatto (o non ha fatto) per meritarsi un simile giudizio. Del resto la stessa domanda dovremmo farcela ripensando a quel che ha spinto perfino la Spagna a vedere nelle debolezze e nelle incertezze del governo italiano l'origine delle turbolenze sui mercati. Il bue dà del cornuto all'asino. Ce lo siamo meritato.

Claudio Lindner ricostruisce bene   limiti, contraddizioni e insufficienze della manovra. Leggendone l'una dopo l'altra le tante diverse versioni appare evidente come Berlusconi & C. abbiano colpevolmente tardato a varare misure utili ad arginare la crisi e non abbiano ancora aggredito il cuore del debito pubblico e le sue fonti. Così come non sapranno avviare subito le riforme necessarie a invertire il senso di marcia.

Arrivati a questo punto, cioè "sull'orlo del baratro" (frase di Emma Marcegaglia), bisognerebbe forse fare uno sforzo di fantasia, immaginare per esempio che Berlusconi sia a Palazzo Chigi solo da un paio di annetti, e dimenticare gli altri quindici costellati di conflitti d'interessi, leggi ad personam, bunga bunga, corruzione di giudici, favori, cricche, Tarantini e Lavitola, telefonate in Questura e telefonate ai latitanti, lavorìo ad personam per non pagare 300 milioni di tasse, e dunque giudicarlo solo per quello che ha fatto per arginare la crisi. Poco, tardi e male. E non lo diciamo noi, ma Moody's, Draghi, Trichet, Merkel, i governi e i mercati d'Europa. Capito ora perché il vero anti italiano è lui?

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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Oltre la patonza
Inserito da: Admin - Settembre 23, 2011, 05:10:15 pm
Editoriale

Oltre la patonza

di Bruno Manfellotto

Lasciate da parte intercettazioni, lenoni ed escort qual è l'eredità di B.? Un fallimento politico, un deserto di riforme, una manovra economica debole. Per non parlare della credibilità dell'Italia all'estero

(22 settembre 2011)

Si fa una gran fatica a non parlare di patonza (sic!) visto che, gira e rigira, tale questione pare assorbire tutto il tempo che il premier non considera perso, e cioè di fatto la gran parte della sua vita pubblica e privata. E però lo sforzo va fatto. Se non altro per non cadere nella stessa trappola del Cav. che è quella di ridurre intercettazioni, filmati e fotografie a questioni personali e vizietti innocenti. E allora, pur consapevoli del paradosso di un uomo che volutamente scambia pubblico e privato e piega l'uno al servizio dell'altro, andiamo a scoprire l'altra faccia di B. Quella del tempo perso.

Quando si sarà chiusa questa lunga parentesi, Berlusconi lascerà dietro di sé un'eredità oscura e pesante. Innanzitutto, il caos politico. Nel senso che la maggioranza di centrodestra, nata fin dalla sua "discesa in campo" diciassette anni fa, si è via via sfarinata fino a diventare qualcosa di molto diverso da quello che fu. Prima se n'è andato Pier Ferdinando Casini, poi ha mollato con clamore Gianfranco Fini, e perfino la granitica fede leghista si è incrinata sulle conseguenze politiche del Cav, vedi Flavio Tosi e Roberto Maroni. Per non dire del lungo elenco di scontenti dichiarati: Roberto Formigoni e Claudio Scajola, Gianni Alemanno e Antonio Martino e addirittura l'ex fido avvocato Gaetano Pecorella; e di dubbiosi silenti: come Gianni Letta e Fedele Confalonieri. Certo, Scilipoti responsabilmente tiene ancora...

Dietro di sé l'Amor loro lascerà pure il deserto delle riforme, dove ha pesato ancora di più la confusione costante tra vizi privati e pubbliche realtà. Pressato dalle sue esigenze processuali, Berlusconi ha sprecato tutte le occasioni che la sua larga maggioranza pure gli ha offerto. La riscrittura della Costituzione, per esempio, che sessant'anni dopo certo esigerebbe adattamenti, è stata immaginata solo perché fosse piegata alle proprie personali esigenze. E la riforma della giustizia - c'è bisogno di spiegare perché ci si debba arrivare? - pensata solo per dilazionare processi, cancellare reati, spuntare le unghie ai magistrati.

Il fallimento di B. passa anche per la sua efficienza di cartapesta e per le sue contraddizioni. Il politico che aveva conquistato il potere sull'onda di Tangentopoli e del fallimento dei partiti, è inseguito oggi da scandali sessuali, e va bene, ma pure da inchieste per mazzette e condanne per corruzione. L'imprenditore che aveva sognato di trasformare Palazzo Chigi in un'azienda privata e il Consiglio dei ministri in un board non ci lascia nulla che non sia stato ordinaria amministrazione.

Ha faticato perfino dinanzi a una crisi epocale come quella che stiamo vivendo, che pure aveva pervicacemente negato, costretto dai veti della Lega a fare e a disfare più volte la manovra economica d'emergenza. Ora l'uomo che avrebbe voluto farsi Reagan si ritrova inchiodato da un debito pubblico fuori controllo e dall'incapacità politica di tagliare la spesa. Se non ci fosse stato Giorgio Napolitano a ricordargli doveri e necessità forse non avrebbe fatto nemmeno quel poco che ha fatto. Insomma, sono venute meno le ragioni per le quali tanti italiani avevano scommesso su di lui.

Nel frattempo, il governo che avrebbe dovuto fare del merito e della concorrenza il suo fiore all'occhiello ha premiato gli amici degli amici, distribuito appalti e patonze in cambio di favori, umiliato apparati dello Stato come la Protezione civile, cooptato fedelissimi nei posti di potere con lo spirito di setta, di lobby, di cricca. E' questa palese incapacità ad agire a minare la scarsa credibilità internazionale sua e dell'Italia fino a cancellarla; a farci accusare di essere noi all'origine dei mali dell'euro. E a trascinarci in serie B.

Su una cosa in verità Berlusconi ha ragione: l'Italia non è la Grecia, e dispone tuttora di risorse straordinarie. Purché sia capace di impegnarsi in un progetto serio e rigoroso di risanamento e di rilancio dell'economia. Cioè a patto che Berlusconi e i suoi cari vadano a casa. Molto presto.

 
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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Cercasi Lega disperatamente
Inserito da: Admin - Ottobre 07, 2011, 04:47:11 pm
Editoriale

Cercasi Lega disperatamente

di Bruno Manfellotto

Anni fa, dopo un po' di strada insieme, Bossi mollò B. dandogli del mafioso e del Pinochet.

Oggi sopporta tutto, salva Romano e abbraccia il Cav.

Perché? Non ha paura di buttare via il suo movimento?

(29 settembre 2011)

Aperte virgolette: "Berlusconi è l'uomo della mafia. E' un palermitano che parla meneghino, un palermitano nato nella terra sbagliata e mandato su per fregare il Nord. La Fininvest è nata da Cosa Nostra. da dove vengono i suoi soldi? Dalle finanziarie della mafia?". Testuale. Chi sarà mai questo estremista della dietrologia? Un'incallita toga rossa della Procura di Palermo? Macché, qui parla un combattivo Umberto Bossi d'antan. Ben diverso da quello che mercoledì 28 settembre dell'anno di grazia 2011 dà mandato ai suoi deputati di votare contro la sfiducia al ministro dell'Agricoltura Saverio Romano. sì, quello inquisito per associazione mafiosa.
Ancora dagli archivi degli anni Novanta: "Con questa gente, niente accordi politici: Forza Italia è un partito in cui milita Dell'Utri, inquisito per mafia". E a proposito del Capo: "Berlusconi mostra le stesse caratteristiche dei dittatori. E' molto peggio di Pinochet. Ha qualcosa di nazistoide, di mafioso. Il piduista è una volpe infida pronta a fare razzia nel mio pollaio". Non è ancora chiaro? Allora leggete qua: "Se quello va a Palazzo Chigi vince un uomo solo, il Tecnocrate, l'Autocrate. Io dico quel che penso, lui fa quel che incassa. Ma vi pare possibile che uno che possiede 140 aziende possa fare gli interessi dei cittadini?". Implacabile. Efficace.

L'amarcord potrebbe continuare. Una volta consumata la rottura tra il '94 e il '95, sancita dal ribaltone che scalzò Berlusconi e portò Dini a Palazzo Chigi, Bossi riscopre la durezza degli esordi. E non solo dinanzi al popolo di Pontida. S'è accorto che l'abbraccio con il tycoon di Arcore lo indebolisce, limita gli argomenti di propaganda tipici della Lega, ne raffredda gli empiti populistici. Silvio invade gli schermi, tracima nelle piazze, deborda nel governo. Nel frattempo l'onda lunga di Mani pulite svela il volto nascosto dell'alleanza di centro destra. E Bossi decide di rompere, e di dire a B. tutto quello che le camicie verdi pensano di lui: "Mentre la Lega faceva cadere il regime, lui stava nel Mulino Bianco, col parrucchino e la plastica facciale. Lui è un tubo vuoto qualunquista. Ma non l'avete visto, oggi, tutto impomatato fra le nuvole azzurre?". E quindi giurava: "Non c'è marchingegno stregato che oggi ci possa far rientrare nel cerchio del berlusconismo".
Ma in politica, mai dire mai. E infatti nel 1999, dopo insulti sanguinosi e affondi micidiali, B. & B. ritrovano la via dell'amore politico. Da allora, nonostante mal di pancia e furori che esplodono a Pontida e si reprimono a Roma, l'Umberto stoicamene sopporta tutto quello che aborriva fino al giorno prima: i processi per mafia e per corruzione, le notti svelate dalle intercettazioni, le leggi ad personam, i conflitti d'interessi. Fino al salvataggio degli inquisiti Marco Milanese e Saverio Romano. Dov'è finita la Lega dura e pura? Com'è possibile disperdere al vento un capitale conquistato in anni e anni di lavoro politico? Cosa c'è dietro il nuovo patto di sangue Bossi-Berlusconi?

I minimalisti giurano che all'inizio fu il salvataggio della "Padania", il giornale della Lega travolto dai debiti, generosamente finanziato dal Cavaliere, a commuovere il senatùr fino all'abbraccio finale. I politologi ricordano invece la scommessa federalista, la più profonda ragion d'essere della Lega, sulla quale s'era impegnato il Cavaliere in persona. E chi guarda ai rapporti di forza sottolinea infine il nodo Tremonti (vedi il braccio di ferro su Bankitalia), forza e dannazione della Lega negli anni della Grande Crisi, che Bossi non può sacrificare, pena il proprio drastico ridimensionamento, ma nemmeno difendere fino in fondo.
Spiegazioni convincenti? Chissà. Nei lontani anni Novanta, quelli della rabbia e del rigore, Bossi diceva: "Se cade Berlusconi, cade tutto il Polo, e al Nord si prende tutto la Lega". Oggi, evidentemente, non è più così, e se cade Berlusconi non è detto che il Nord torni leghista. Intanto, però, a rotolare è il Paese, costretto senza un governo efficiente e con un premier privo di ogni credibilità internazionale. Un Bossi più giovane e in forze avrebbe già staccato la spina.

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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Per chi suona l'Agenzia
Inserito da: Admin - Ottobre 13, 2011, 04:42:04 pm
Per chi suona l'Agenzia

di Bruno Manfellotto

Lui dice che non molla, e ti pareva. Ma intanto gli industriali lo abbandonano, la Chiesa lo sconfessa, S&P's e Moody's lo bocciano. E Prodi taglia corto: meglio di lui chiunque altro. Vorrà pur dire qualcosa

(07 ottobre 2011)

Accade che gli imprenditori, versione italiana degli indignados, si siano decisi a licenziare Berlusconi e il suo governo. Compresi i fan di una volta, quelli che abbracciandolo a Parma dieci anni fa e poi applaudendolo a Vicenza cinque anni dopo ne sancirono la prima e la seconda resurrezione, due volte nella polvere eccetera eccetera. Proprio come hanno fatto Standard & Poor's e Moody's, capi di Stato di mezzo mondo e il cardinal Bagnasco ("C'è da purificare l'aria"), compagni di partito e di governo. Come Giulio Tremonti che non perde occasione per smarcarsi dal suo stesso premier. Stavolta, salvo correggersi in extremis, per augurarsi le elezioni, come in Spagna. Cartellino rosso, espulso, squalificato.

Ammorbata o no che sia, l'aria di questa fine stagione soffia su un governo imbelle. Almeno così lo giudicano le agenzie di rating e i mercati finanziari (la cosiddetta "speculazione") che chiedono una cosa prima di ogni altra: l'uscita di scena del Cavaliere. Che non mollerà, dicono lui e i suoi cari. Nella lunga agonia di un sistema, il paese - che pure ha mezzi e risorse per risollevare la testa - appare spappolato, confuso, sbandato. Romano Prodi, che a luglio aveva giudicato rischioso mandare a casa Berlusconi nel pieno di una crisi economica e finanziaria, confessa a "l'Espresso" che a questo punto qualsiasi governo, qualsiasi, sarebbe meglio di quello attuale, paralizzato e screditato.

E se gli industriali si ribellano al papà che li ha blanditi e coccolati accade pure che il più noto di essi, il manager per eccellenza, l'uomo che ha salvato la Fiat dal crac, licenzi addirittura il capo della sua organizzazione di riferimento. La Fabbrica Italiana Automobili Detroit, come parafrasava "l'Espresso" sulla copertina della settimana scorsa, molla la Confindustria (e piano piano l'Italia). Come se l'Arcidiocesi di Milano, che so?, abbandonasse la Conferenza episcopale. Clamoroso.

Il gesto si presta anche, come ogni altro pubblico evento in questo paese, a una lettura politichese. Non del tutto campata per aria visto che i rapporti tra Fiat e Confindustria, pur tesi, hanno retto fino al giorno in cui Emma Marcegaglia ha preferito Susanna Camusso e Raffaele Bonanni a Sergio Marchionne e la rottura si è consumata sul famigerato articolo 8, cioè sulla possibilità di concordare licenziamenti con le organizzazioni sindacali, proprio quando un protocollo Confindustria-sindacati ne vanificava poteri e contenuti. Come lo vogliamo definire, un incidente tecnico o un gesto politico?

Eppure in quell'atto estremo c'è qualcosa di più, e che corre parallelo all'inevitabile decisione della Fiat di ridurre la sua presenza industriale in Italia. Lungo tutto il secolo passato, Fiat & Confindustria hanno determinato il modello di sviluppo del Paese, ne sono stati l'immagine e lo strumento. Il potere politico forniva la rete infrastrutturale, frenava la concorrenza (Ferrovie dello Stato, Alitalia), regolava il mercato (valga per tutti il caso Alfa Romeo); intorno alla fabbrica cresceva l'indotto delle piccole imprese; viale dell'Astronomia, infine, curava i rapporti sindacali e conteneva la contrattazione nazionale, e del resto nella Confindustria la Fiat si specchiava, dando il suo determinante gradimento a presidente e direttore generale.
Ora che anche questo muro è caduto (dopo Tangentopoli, dopo la globalizzazione) e si è spezzato l'equilibrio che teneva insieme poteri forti e deboli, ci accorgiamo che dietro non c'è più nulla.

Basta visitare i capannoni del nord est o le piccole imprese dell'Emilia, fare i conti con i contratti territoriali, locali, aziendali per capire quanto siano lontani da lì la Confindustria e i suoi riti. Ma ancora più preoccupante è riflettere sull'assenza di una qualunque idea di futuro, e sull'anarchia che regna sovrana nel Paese. Sorprende anzi che questo vuoto che ci avvolge non venga occupato, come a Londra o ad Atene, dalla protesta popolare. Anche per questo bisogna fare presto.

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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Come s'esce da questo caos?
Inserito da: Admin - Ottobre 16, 2011, 10:11:30 am
Editoriale

Come s'esce da questo caos?

di Bruno Manfellotto

In zona Cesarini il governo ottiene la fiducia: 316 sì contro 301 no.

Ma il problema politico è evidente: la maggioranza si sfarina, la Seconda Repubblica si dissolve, l'agonia di un intero sistema è lunga e rovinosa.

Sarebbe ora di cominciare a pensare a ciò che possiamo fare per il dopo. Che prima o poi arriverà

(13 ottobre 2011)

Anche se di stretta misura e in zona Cesarini, Silvio Berlusconi e il suo governo hanno ottenuto alla Camera il voto di fiducia: ostacolo superato con 316 voti a favore. E' fallito dunque il tentativo dell'opposizione di far mancare il numero legale per la decisione del piccolo drappello di radicali - cinque deputati - di non abbandonare l'aula.

Se la strategia dell'opposizione avesse fatto centro, la mancanza del numero legale avrebbe costituito un chiarissimo messaggio politico al Cavaliere e comunque costretto il presidente della Camera a rinviare la seduta. Così non è andata, ma la fiducia conquistata oggi si limita a spostare nel tempo un problema politico evidente: la maggioranza si è ormai sfarinata, il governo è paralizzato. E ricomincerà la ricerca di un sistema per sbalzare di sella Berlusconi, magari ricominciando a premere sui dissidenti e congiurati della maggioranza guidati da Scajola e Pisanu. Ma non sarà così facile.

"Lo spirito è forte, ma la carne è debole", si lascia scappare Beppe Pisanu in un empito di sconsolata sincerità. E se lo dice lui, democristiano di lungo corso, poi berlusconiano critico, dubbioso e dissidente, uomo navigato che sa di antimafia e di servizi segreti, e che ne ha viste e sentite di cotte e di crude, non solo bisogna credergli ma anche rifletterci su. La Seconda Repubblica si dissolve, la maggioranza si sfarina e decine di parlamentari della maggioranza non vedono l'ora di disfarsi del Cavaliere, forse perché ne hanno finalmente compreso limiti e pericoli.

E però per mesi non decidono l'affondo finale, dubitano, frenano, chiedono garanzie sul loro personale futuro. Comincia così una paziente opera di convincimento, misero atto finale di un'agonia politica tanto lunga da sembrare eterna... Il Transatlantico di Montecitorio, vetrina della crisi, si trasforma in un grande suk dove le speranze degli uni cercano concretezza nelle paure degli altri: offerte, richieste, concessioni. In quest'ottica, il voto sull'assestamento di Bilancio 2010 che martedì 11 ottobre ha umiliato Berlusconi - e per la prima volta l'agguato viene dalla stessa maggioranza - e aperto la strada all'ultima spiaggia della fiducia al governo, è stato allo stesso tempo mossa d'assaggio e tentativo di alzare la posta, prova tecnica di affondamento e termometro della temperatura politica dentro la maggioranza.

Fortunatamente non è tutto così. A Milano, per esempio, un avvocato-sindaco sta facendo il suo nuovo mestiere seguendo stile, regole e passione indicando anche una strada possibile. Un'altra Italia c'è e ci crede ancora.
Certo, si fatica assai. Per ora regna il caos, le Borse bruciano miliardi e chi riesce a guadagnare un sacco di soldi lo fa scommettendo sul fatto che i titoli scivolino sempre più giù. Si punta sul peggio. Chi dovrebbe rassicurare non ha più parole, chi dovrebbe intervenire vacilla. Jean Claude Trichet, in procinto di lasciare Francoforte e la Bce, mette in guardia: è rimasto poco tempo per agire, la crisi s'aggrava; nel giorno più caldo, Giulio Tremonti dimentica di andare a votare alla Camera per sostenere un provvedimento che pure ricade sotto la sua personale responsabilità; Angela Merkel e Nicolas Sarkozy commissariano l'Europa rinnovando l'antico patto di ferro e Franco Frattini rompe un lungo silenzio balbettando la tardiva protesta del più debole.

E mentre i mercati confermano che le misure adottate non bastano a frenare la crisi economica e finanziaria, primari banchieri e operatori di Borsa si chiedono quanti punti di spread in meno varrebbe il semplice annuncio di una crisi di governo e l'uscita di scena di Silvio Berlusconi.
Nel giorno in cui s'arenava alla Camera il rendiconto generale dello Stato, mancavano solo due settimane al trasloco di Mario Draghi da Roma alla Bce di Francoforte, ma ancora non era stato possibile avviare la procedura di nomina del governatore della Banca d'Italia, che il legislatore volle complessa e rigorosa proprio per difendere l'autonomia dell'istituto dal potere politico. Peggio della paralisi e dell'inazione, è stato da parte del governo mettere l'uno contro l'altro candidati che non s'erano candidati facendo apparire la Banca d'Italia non la parte lesa, quale è stata in queste ore, ma una fortezza da conquistare. Suicida. La caduta di un intero sistema prova a trascinare con sé tutto ciò che incontra.

Anzi, si è riusciti a fare anche di peggio facendo balenare la candidatura di Lamberto Dini, una trovata che a qualcuno dev'essere apparsa furba assai nelle ore della conta di fedeli e congiurati del Cavaliere. Oddio, Dini, ancora? Diciott'anni dopo che Ciampi, pur di impedirne l'ascesa a Palazzo Koch, propose a Scalfaro la nomina a governatore di Antonio Fazio.

Paralisi. Crisi. Degrado. Potremmo adattare al caos italico le sincere parole del premio Nobel Christopher Sims sull'avvitarsi dell'economia: "Non ho assolutamente idea di come si possa venire fuori da questo macello". Amen.

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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. E poi dice che uno parla di declino
Inserito da: Admin - Ottobre 26, 2011, 04:52:59 pm
Editoriale

E poi dice che uno parla di declino

di Bruno Manfellotto

Da una parte un ministro accusato di collusioni con la mafia, anzi peggio. Dall'altra una vicenda di sprechi e localismi.

Sono due storie che racconta "l'Espresso", dando la grigia fotografia di un Paese bloccato e ricattato

(21 ottobre 2011)

Questa settimana mi sarebbe piaciuto avere a disposizione non una ma due copertine. Addirittura avrei provato a combinarle insieme, cioè a impaginarle nello stesso spazio, per esaltare il filo che in fondo le lega. quindi E' stato difficile scegliere, e mettere l'una prima e l'altra dopo. Perché in un colpo solo "l'Espresso" è riuscito a fotografare due aspetti particolarmente inquietanti dell'Italietta 2011 e a mostrare - forse meglio di tante analisi e statistiche - il tasso di degrado civile, di irresponsabilità politica e di inquinamento istituzionale con i quali siamo costretti a coabitare in ogni momento della nostra vita quotidiana. Da nord a sud.

Da qualche tempo in qua, specie dopo che la crisi economica si è avvitata su se stessa e il governo sopravvive per il rotto della cuffia a un voto di fiducia dopo l'altro (siamo arrivati a quota 54), Berlusconi e i suoi cari conducono un'aspra battaglia polemica contro quelli che chiamano i "declinisti", cioè contro chi si permette di dire - giornalisti, politici, mercato - che le cose non vanno e che senza una svolta decisa non se n'esce. Chi avesse ancora qualche dubbio, legga dunque le due storie principali di questo numero. L'una dopo l'altra.
Lirio Abbate è riuscito a vedere prima degli altri le carte che la Procura di Palermo ha inviato alla Camera per avere l'autorizzazione ad usare le intercettazioni dell'onorevole Saverio Romano, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e corruzione "aggravata dall'aver avvantaggiato Cosa Nostra".  Accuse pesantissime. Certo, fino a quando non ci sarà una sentenza definitiva, nessuno potrà trarre conclusioni, ma dagli atti e dalle intercettazioni emerge un quadro assai fosco, tanto che lo scorso marzo lo stesso presidente della Repubblica chiese a Berlusconi una pausa di riflessione quando questi gli propose la nomina di Romano a ministro delle Politiche agricole per ripagarlo della defezione dall'Udc e il passaggio tra i sostenitori del governo, arruolati personalmente dal Cavaliere, che mesi prima gli avevano permesso di resistere all'assalto di Fini.

Consiglio inascoltato, come si sa e, secondo una prassi senza precedenti, "nomina con riserva" del suddetto sospettato. In un solo episodio, ecco dunque sgarbi istituzionali, collusioni con la mafia, mercimonio del Parlamento. Non è degrado, questo?
Ma lasciamo stare Roma ladrona e il sud criminale e spostiamoci nel nord padano che si vorrebbe efficiente, produttivo, libero da condizionamenti politici. Bene, si legga allora il diario di Fabrizio Gatti dall'aeroporto fantasma di Brescia, e si dia un'occhiata alle tabelle che riassumono sprechi, costi e malfunzionamenti di uno scalo che conta 63 dipendenti ma nessun passeggero e che ha accumulato in pochi anni perdite per 40 milioni. E non è certo l'unico con queste prerogative, perché si sono costruite piste inutili e improduttive anche a Parma, Albenga, Cuneo, Forlì, Bolzano e giù giù fino a Tortolì, solo perché qui o là ha alzato la voce una lobby, un potentato, un boss. Anche questa è casta, anche questo è spreco di denaro pubblico. Anche questo è declino.

Silenzio o collusione con la criminalità organizzata. Resa al federalismo della lottizzazione e degli interessi territoriali, di categoria, personali. Due mali che hanno radici antiche, ma che sembrano aver conquistato se non legittimità almeno assuefazione generale. Sarebbe cosa buona e giusta se queste brutte abitudini fossero tra quelle che hanno fatto nascere nel cardinal Bagnasco l'esigenza di "purificare l'aria". Insomma, chissà se il fermento che si fa strada nel mondo cattolico abbia in animo di spazzare via tutte i cattivi costumi divenuti regola, compresi l'omertà e l'arroganza localistica che come zavorra bloccano e avviliscono il Paese. Perché se così non fosse e si stesse facendo solo politichetta, disperderemmo anche l'ultimo sussulto di impegno etico, di ricerca del bene comune e di solidarietà, di appello a un'emergenza da ricostruzione post bellica.


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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Berlusconi: l'ultimo pastrocchio
Inserito da: Admin - Ottobre 30, 2011, 05:43:57 pm

Editoriale

Berlusconi: l'ultimo pastrocchio

di Bruno Manfellotto

Il premier ha fatto il piazzista a Bruxelles ma ha ottenuto solo di prolungare l'agonia di un esecutivo già morto.

Perché le sue misure finanziarie non sono credibili e in Parlamento resta aggrappato a due-tre voti di scarto

(28 ottobre 2011)

Dell'ennesimo pastrocchio si ebbe notizia, sotto forma di flash dell'agenzia Ansa, alle 14,00 di martedì 25 ottobre, quando Silvano Moffa, deputato della ossequiente pattuglia dei Responsabili, annunciò una lettera di Silvio Berlusconi ai leader europei sulla contestatissima riforma delle pensioni. Questa non avrebbe aiutato più di tanto a risolvere i guai della crisi, ma certo sarebbe servita a prolungare di un po' l'agonia di un governo tecnicamente già morto, il cui certificato di non esistenza in vita era stato appena stilato dal vertice europeo di Bruxelles e vidimato dal sorrisetto sardonico in diretta tv di Angela Merkel e Nicolas Sarkozy.

Mai era stato raggiunto un livello così basso nella credibilità internazionale della povera Italietta. In passato, e non solo in vista della nascita dell'euro, il cosiddetto "vincolo esterno", insomma i richiami degli altri condòmini di Casa Europa a una più rigorosa politica economica e di bilancio, aveva funzionato da collante: alla fine, pur se controvoglia, tutti si piegavano sempre alle ragioni dei numeri e della convivenza. Stavolta no: resistenze, distinguo, obiezioni sia nella maggioranza sia nell'opposizione hanno sfilacciato gli ultimi brandelli di affidabilità. Forse anche per questo l'irrisione riservata al premier dai due azionisti di riferimento della Ue è andata molto al di là delle colpe e dei conti dell'Italia, che pure sono imperdonabili le prime e scassati i secondi. E proprio per questo l'umiliazione dovrebbe farci riflettere.

La virtuosa Germania, per esempio, ha nascosto i suoi guai dietro la crisi greca e le inadempienze italiane. Che però non cancellano del tutto un sistema del credito da cui tracimano titoli tossici, greci e non solo, e un sistema politico che ha ingabbiato Merkel dentro i condizionamenti del Parlamento tedesco, senza il cui via libera la Cancelliera nulla può. Meglio non sta la Francia di Sarkozy che non brilla per deficit e debito, trema all'idea di perdere una delle sue tre A (ah, la grandeur!), e che se fosse costretta a ricapitalizzare da sola le sue banche, anch'esse zeppe di titoli pubblici di Paesi a rischio, vedrebbe il rapporto debito-Pil schizzare a quota 130: più o meno come la maltrattata Italia di Silvio & Giulio.

Allora, perché ce l'hanno proprio con noi? Perché siamo l'anello più debole della catena e perché un governo capace di assumere decisioni non c'è più da mesi: vive appeso al filo di un paio di voti; annuncia riforme che non farà mai; abbandona il Mezzogiorno alla disoccupazione e alla criminalità; rischia di trasformare la nomina del governatore della Banca d'Italia in una squallida lottizzazione; sopporta che un suo rappresentante dentro la Bce, Lorenzo Bini Smaghi, nascondendosi dietro cavilli giuridici, decida se, come e quando lasciare un posto sul quale siede solo perché il suo governo ce l'ha messo; urla ai quattro venti (Umberto Bossi) che il nuovo presidente della Bce trama contro il premier e il governo che a quella carica lo hanno designato; non riesce a studiare misure finanziarie credibili per chi ci tratta come una repubblica delle banane. Per non dire di escort, corna e barzellette. Insomma, il contrario di ciò che dovrebbe fare per non apparire ciò che appare.

Quanto ancora dobbiamo andare avanti così? Nel loro spettacolo "Anestesia totale", Marco Travaglio e Isabella Ferrari rileggono un illuminante Montanelli che nel '94 saluta la caduta del primo governo Berlusconi: "Finalmente! Finalmente ci siamo liberati di questa ossessione... Finalmente potremo ricominciare a discutere della pubblica amministrazione e della pubblica finanza senza il timore che qualsiasi proposta venga propugnata o combattuta secondo gli interessi di Berlusconi... Finalmente potremo occuparci di problemi che non siano soltanto la Fininvest di Berlusconi... Finalmente la Corte di Cassazione potrà avallare o bocciare sentenze che non siano in odore di favoreggiamento o di danneggiamento di Berlusconi... Finalmente potremo rialzare la testa...". Finalmente. Aspettando di dirlo anche noi. Presto.

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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Un Big Bang per evitarne un altro
Inserito da: Admin - Novembre 04, 2011, 02:48:59 pm
Un Big Bang per evitarne un altro

di Bruno Manfellotto

Se non ci fosse stato Napolitano a spingere perché il governo si desse da fare, forse B. se ne sarebbe rimasto in Sardegna... Come dice Guido Rossi, peggio del debito c'è solo il debitore.

Bisognerebbe finalmente prenderne atto

(03 novembre 2011)

La mattina di martedì primo novembre, mentre Piazza Affari buttava al vento una ventina di miliardi, il divario tra titoli italiani e tedeschi si avvicinava al punto di rottura e insieme alla Grecia l'Europa intera ballava sul ciglio del default, un ineffabile Silvio Berlusconi si rilassava in una delle sue ville in Sardegna. Non essendo sul posto il fotografo Antonello Zappadu, non siamo in grado di documentare come il premier abbia speso il suo tempo, però possiamo dire che fino a sera le agenzie di stampa lo segnalavano lontano da Palazzo Chigi. E due giorni dopo si sarebbe aperto il G20 di Cannes...

In quelle stesse ore Renato Brunetta era in missione a Shanghai, Paolo Romani in India, Raffaele Fitto a Londra e Giulio Tremonti boh, forse con Bossi alla festa della zucca. Del resto, quando il superministro dell'Economia c'è, i suoi colleghi fanno a gara per contraddirlo; e se invece non c'è, gli scaricano addosso ogni responsabilità: e infatti ci sono voluti tre giorni perché il ministro dello Sviluppo ci rivelasse - udite udite - che il suo collega dell'Economia aveva visto la lettera d'impegni spedita alla Ue. Non l'ha scritta, però l'ha letta. Chissà se l'ha approvata. Evviva. Subito dopo sono ricominciate le manovre per farlo fuori, e magari trovare finalmente un posto per l'ingombro internazionale Lorenzo Bini Smaghi. C'è bisogno di altre conferme per dire che l'Italia è senza governo?

Finalmente, la sera del martedì nerissimo, solo l'estremo appello di un preoccupatissimo Giorgio Napolitano a varare subito le misure economiche che da mesi il governo annuncia e non fa, pena la sostituzione di questa maggioranza sbrindellata con un'altra, ha spinto Berlusconi a rientrare a Roma e a convocare un vertice d'emergenza. Eppure, come molti temevano, le Borse avevano aperto con il segno meno anche prima dell'annuncio choc di Papandreu di un referendum popolare sulle misure anticrisi. Non servono commenti.
Ormai c'è poco tempo. Per evitare il Big Bang evocato in copertina - che non è quello sognato da Matteo Renzi
, ma l'implosione dagli esiti imprevedibili di un Paese senza guida - ci sono poche cose da fare e subito. E poiché si è lasciato senza reagire che la speculazione ci aggredisse, ogni giorno che passa le misure necessarie si fanno più drastiche e pesanti. La verità è che abbiamo lasciato, senza fare nulla per impedirlo, che la crisi greca raggiungesse anche l'Italia mettendo a repentaglio la moneta e l'Europa stessa. Big Bang. Non ancora scongiurato. Anche perché per mesi il governo di B. ha fatto finta di non accorgersene.

Eppure perfino un uomo generalmente moderato e abituato a pesare le parole, come il presidente di Intesa Sanpaolo Giovanni Bazoli, è arrivato al punto di lanciare pubblicamente un grido di dolore sulla salute delle banche, motore di ogni crescita economica, oggi impossibilitate a fornire credito sufficiente alle imprese, e che per sopravvivere domani potrebbero chiedere aiuto alla mano pubblica o subire scalate straniere. E studiosi di scuole diverse come Prodi, Amato, Quadrio Curzio e Savona scrivono che "il momento è drammatico ed esige provvedimenti immediati" e avvertono che "ogni ritardo può avere conseguenze irreversibili per l'intero Paese". Sull'orlo del Big Bang. Che solo il governo di B. finge di non vedere.

Non è più tempo di nascondersi dietro il facile paravento dei filo e degli anti berlusconiani, dei disfattisti e dei soddisfatti, dei pessimisti e degli ottimisti. Dovrebbero prevalere solo il realismo e la responsabilità utili a giudicare se questo governo sia capace di portare il Paese fuori delle secche in cui è precipitato e da cui nessuno finora lo ha tirato fuori. E se goda ancora di quella credibilità minima necessaria a farci accettare nel club europeo: come ha ricordato Guido Rossi sul "Corriere della Sera", peggio del debito c'è solo la cattiva fama del debitore. Appunto. Forse un Big Bang politico ci aiuterebbe a evitare l'altro Big Bang, quello economico e finanziario.

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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Non chiamatelo Super Mario
Inserito da: Admin - Novembre 20, 2011, 04:59:03 pm
Editoriale

Non chiamatelo Super Mario

di Bruno Manfellotto

Ora però mettiamo da parte eccessi e personalizzazioni.

E cerchiamo di capire che una stagione si è chiusa, che ci sono decisioni fondamentali da prendere e che ora c'è la possibilità di tornare a essere un paese normale

(17 novembre 2011)

Il primo nemico da cui Mario Monti dovrà guardarsi sarà proprio Super Mario. Vale a dire quell'insieme di enfasi, personalizzazioni esasperate e aspettative irrazionali evocate da un soprannome che ha accompagnato da subito il tentativo del senatore-professore e la nascita del suo governo tecnico-politico. Per paradosso, i sentimenti più estranei al carattere dell'uomo, ma che si sono inevitabilmente scatenati - con i freni inibitori saltati e tutti gli eccessi del caso - allo spegnersi della lunga stagione berlusconiana vissuta dall'Italia con il debito pubblico più alto, la crescita più lenta e il governo più ingessato d'Europa.

E invece occorrerebbero freddezza, realismo, comprensione piena di ciò che sta accadendo. Per trarne qualche doveroso insegnamento. Guai, per esempio, a non capire che è inutile abbaiare contro i "poteri forti", perché essi si manifestano quando la politica è debole e lontana, e che questa diventa tale solo per colpa di se stessa, non di forze oscure. Del resto, mai come in questo frangente la politica ha latitato: non s'è visto né un governo capace di imbrigliare la crisi, né un'opposizione coesa che si mostrasse pronta a sostituire una maggioranza sfilacciata. Perché meravigliarsi dunque se questa distanza rigorosamente bipartisan ha generato un vasto e diffuso rifiuto della politica? Tanto che se il Paese precipitasse nelle elezioni anticipate e i partiti vi si presentassero con le facce di sempre, il rifiuto sarebbe ancora più vasto e generalizzato, ci scommetterei.

Guai a non rendersi conto, poi, che la crisi economica - di una gravità mai manifestatasi prima, e con la povera Italia costretta sull'orlo del baratro - ha allargato i confini dell'angusto ring della politica facendo saltare regolamenti e rituali che non erano certo stati pensati per l'emergenza. Proprio l'eccezionalità, cioè la constatazione che governo e maggioranza non avevano i numeri e il consenso necessari per navigare nella tempesta, ha consentito a Giorgio Napolitano di tirare la corda più di quanto gli suggerisca il suo modo d'essere, di osare lo strappo della candidatura preventiva di Monti alla guida del governo con quella trovata della nomina a senatore a vita, e ben prima di avviare le canoniche consultazioni con partiti e forze politiche (trentaquattro delegazioni, sì, 34...).

E guai infine a non prendere atto che anche il più tecnico dei governi tecnici, in una situazione estrema come questa, deve trovare forza e sostegno nel Parlamento. A spingere in questa direzione è la convinzione ormai diffusa nel Paese della gravità della crisi e della necessità di adottare misure decise, anche impopolari. Forse è stato anche questo a far crescere il consenso che Monti si è conquistato in pochi giorni nell'opinione pubblica, a favore del quale ha giocato sì l'autorevolezza dell'uomo, ma soprattutto la sua totale estraneità a un certo modo di intendere la politica nel quale gli italiani non si riconoscono più. In questo senso l'esperimento fortemente voluto da Napolitano può davvero sconvolgere nel profondo un sistema ormai logorato, immobile, inquinato e indicare una strada di stili e comportamenti che pensavamo di aver smarrito per sempre.

Del resto, questa è l'ultima possibilità concreta che abbiamo per arrestare la crisi e rimettere in moto la macchina produttiva; e anche per superare il falso bipolarismo all'italiana che ha prodotto un antiberlusconismo di maniera i cui eccessi hanno impoverito la politica tradizionale, reso monca la Seconda Repubblica e sepolto ogni riforma sotto una valanga di veti contrapposti e di principio. I partiti politici, infine, apparentemente messi in secondo piano da un governo tecnico, hanno ora l'occasione di mostrare senso dello Stato anteponendo l'interesse generale a quello proprio e di bottega. Se così faranno, potranno poi ripresentarsi alle elezioni dopo un bagno di responsabilità, maturità, sobrietà, voglia di ricominciare. Magari convincendo gli italiani che stiamo finalmente diventando un paese normale. D'Europa.

 
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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Ricomincio da Guarguaglini
Inserito da: Admin - Novembre 25, 2011, 10:57:58 pm
Ricomincio da Guarguaglini

di Bruno Manfellotto

Vent'anni fa Mario Chiesa il mariuolo; oggi la grande azienda pubblica madre di tutte le mazzette.

Ieri la seconda Repubblica, oggi la terza?

Di certo la possibilità di fare finalmente piazza pulita di un sistema corrotto

(24 novembre 2011)

E' il 17 febbraio del 1992 quando un giovane imprenditore, Luca Magni, consegna a Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio, una valigetta con 7 milioni di lire, metà di una mazzetta concordata per ottenere in cambio l'appalto delle pulizie dell'istituto. Il dieci per cento. Stavolta, però, Magni non è solo: d'accordo con un tenace pm della Procura di Milano, Antonio Di Pietro, si è fatto accompagnare dai carabinieri, e nasconde addosso microfono e telecamera. Preso con le mani nella bustarella, Chiesa corre al bagno per far scomparire nello sciacquone il corpo del reato, i bigliettoni. "Tutto Chiesa e Wc", titolerà Marco Travaglio.

Richiesto di commentare la vicenda - il primo caso clamorosamente svelato di corruzione nel suo partito - il leader socialista Bettino Craxi definì il suo sodale "un mariuolo". Una piccola cosa. E invece stava per deflagrare l'inchiesta Mani Pulite che partendo da quei miseri 7 milioni arriverà fino alla maxitangente Enimont travolgendo tutti i vecchi partiti, a cominciare da Psi e Dc, lanciando sulla scena Berlusconi & Bossi e calando il sipario sulla Prima Repubblica.

Da allora sono passati quasi vent'anni, ma la corruzione diffusa ai confini della politica e degli affari che si voleva estirpare non è affatto scomparsa. Anzi, ha percorso l'intera Seconda Repubblica in un tracimare di cricche, dossier e appalti di favore agli amici degli amici opportunamente oliati: Protezione civile, G8, P4 e via smazzettando. Ora tocca alla Finmeccanica di Guarguaglini e signora inchiodati dalle rivelazioni del pentito di turno.

E' il ritorno di Tangentopoli? E aprirà la strada alla Terza Repubblica così come l'altra la spianò alla seconda?
A prima vista il meccanismo sembra quello di sempre. L'azienda presa d'assalto da corrotti e corruttori è pubblica, cioè controllata dallo Stato, e pubblici sono i soldi che essa spende per appalti e investimenti. I suoi manager sono dunque nominati dal potere politico che poi in cambio pretenderà favori, aiuti, attenzioni. Per sé, per la corrente, per i familiari. E soldi, tanti soldi. E' dunque necessario costituire un'ingente provvista di denaro in nero, obiettivo che generalmente si raggiunge creando società collegate con la casa madre abili nel gioco delle sovrafatturazioni. Così oggi in Finmeccanica, Enav e Digint; così come in Enac, a Bari e a Sesto San Giovanni ieri. Per non dire di Fininvest l'altro ieri.

Tutto come vent'anni fa, dunque? Più o meno, ma con qualche significativa differenza. Tanto per cominciare, qui non si sta parlando di un qualsiasi Credito fiorentino di Denis Verdini o di una scatola vuota a disposizione di una cricca. La Finmeccanica che ora appare come lo squallido snodo di ogni maneggio, è una grande azienda dal passato illustre, una delle massime in Italia, forse la sola con l'Eni il cui nome e la cui fama siano intimamente legati all'immagine stessa del Paese, leader nei settori chiave della difesa e dell'alta tecnologia. Insomma, ha sempre rappresentato all'estero il volto positivo dell'Italia che nonostante tutto funziona. Fino alla scoperta di mazzette e corruzione. Che, altro dettaglio che colpisce, hanno rivelato una preoccupante pochezza delle persone e dei comportamenti che si faticava a immaginare. Almeno i tangentisti potessero rivendicare una loro censurabile grandezza...

Stavolta, poi, la tempesta è scoppiata nelle ore in cui ha preso forma e sostanza un governo che ha fatto della rinascita etica ed economica del Paese - "rimontiamo" - la sua carta d'identità. Tanto più che l'azionista di riferimento della Finmeccanica finita nelle carte dei pm è il ministero dell'Economia retto in prima persona dallo stesso presidente del Consiglio. Che, se dio vuole, non ha da fare i conti con Mokbel o con Marco Milanese. Se per una volta si riuscisse a fare davvero piazza pulita sarebbe un altro bel segnale per i cittadini stanchi di arroganza e malcostume. E poi, in casi come questi non valgono né immunità parlamentare né articolo 18...

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DA - l'espresso


Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Pochi giorni, poche settimane
Inserito da: Admin - Dicembre 02, 2011, 06:06:59 pm
Pochi giorni, poche settimane

di Bruno Manfellotto

Non c'è molto tempo per approvare le misure economiche e mettere un po' di benzina nel motore dell'economia. Già si sentono arrivare campagna elettorale e semestre bianco. E quando succederà, tutto si fermerà e sarà di nuovo guerra

(01 dicembre 2011)

"Non può durare molto" titolava minaccioso "Il Giornale" di mercoledì 16 novembre, giorno in cui Mario Monti saliva al Quirinale per sciogliere la riserva. Sogno di una morte annunciata. Da allora è stato un continuo accusare il governo di inefficienza e incapacità, di lentezza e non decisione, e non è mancato nemmeno l'antipasto di macchina del fango sotto forma di appartenenze a massonerie di ministri e sottosegretari. E del resto, nel Pdl è già tutto un agitarsi per una campagna elettorale che si vorrebbe prossima e che fin d'ora si può immaginare centrata sul no all'euro e sul ritorno alla liretta, e su populismo, nazionalismo e anticomunismo riemergente.

Perfide Gallia e Germania.

Nel frattempo, però, è anche tutto un salamelecco al tecnogoverno e un trionfo di responsabilità ostentata: la situazione è grave, sosterremo ma vigileremo ("Con opposizione dura e maschia", copyright Angelino Alfano). Pdl partito di lotta e di governo. Secondo l'arte raffinata del chiagni e fotti nella quale B. eccelle e i suoi gli corrono appresso.

Ora, intendiamoci, il governo Monti è nato in fretta e a fatica, così come a fatica è stata stilata la lista dei ministri e poi ancora di più quella di sottosegretari e vice, soprattutto per resistere alle indicibili pressioni, ma guarda un po', di Berlusconi & C. E certo, bisogna dirlo, questo governo segna un passo indietro della politica tradizionale sospendendo per qualche tempo la democrazia della rappresentanza diretta, due questioni non solo nostre che preoccupano assai anche il filosofo Habermas. Ma nel fare queste valutazioni sul governo Monti non si può dimenticare quale caos lo abbia generato e quale abisso di incapacità, di paralisi e di sospensione di ogni minima decisione abbia caratterizzato i due anni di non governo che ci siamo lasciati alle spalle.

E poi conflitti, come dire?, di relazioni certo potrebbero esplodere se il socio forte di questo governo, oggi superministro dello Sviluppo, fino all'altro ieri sfogliava da ultimo banchiere di sistema dopo l'uscita di scena di Cesare Geronzi i più importanti dossier economico-industriali del Paese; e se tra sottosegretari e vice ministri abbondano capi di gabinetto, consiglieri e collaboratori del governo che fu. E però vedere questi ditini alzati dopo che per vent'anni si è bellamente ignorato che il capo di un partito poi capo del governo sia proprietario di quotidiani, periodici e della massima impresa televisiva privata e politicamente controlli - tuttora - la sua concorrente pubblica, che ex magistrati siano diventati ministri della Giustizia ed ex avvocati di casa Berlusconi firmatari di progetti di legge ad personam, fa lo stesso effetto che leggere di poteri forti e massonerie su giornali i cui azionisti di riferimento, dall'ex premier in giù, s'erano rapidamente messi in tasca la tessera della P2.

Vicende, comunque, che scivolano sulla maggior parte degli italiani come acqua sul vetro perché moltissimi pensano che solo questo governo possa (e sia costretto a) portare a termine ciò che i predecessori avevano rinunciato a fare prolungando così la loro agonia politica e aggravando la malattia finanziaria ed economica dell'Italia. Tanto è vero che finora nessuno, tantomeno un gabinetto di tecnici, aveva goduto di così alti indici di gradimento come quello di Mario Monti nato sull'onda di una definitiva disillusione nei partiti tradizionali.

Ora, però, non c'è più tempo. Ora ci sono solo pochi giorni per definire un pacchetto di misure da economia di guerra; e subito dopo solo poche settimane per avviare le pratiche più importanti, mettere un po' di benzina nel motore, distribuire meglio carico fiscale e sacrifici. Poi, probabilmente, la pressione dei partiti, la temperatura della campagna elettorale imminente e l'avvicinarsi del semestre bianco che porterà all'elezione del presidente della Repubblica, spazzerà via i sogni, le residue possibilità di fare e la sospensione delle ostilità. Speriamo che a quel punto l'Italia ce l'abbia fatta.

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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Il Passera finto e quello vero
Inserito da: Admin - Dicembre 10, 2011, 10:32:26 am
Editoriale

Il Passera finto e quello vero

di Bruno Manfellotto

Gira su Twitter un falso superministro che annuncia le cose giuste che il vero dovrebbe fare e invece non fa

(08 dicembre 2011)

Gira sul web un clone di Passera, nel senso di Corrado. Da qualche giorno infatti un anonimo navigante burlone e provocatorio invade Twitter con messaggi firmati dal superministro dello Sviluppo economico che però del ministro non sono. A mezzanotte di lunedì 5 dicembre, per esempio, è andato in rete il seguente messaggio: "Non escludo un'asta per le frequenze tv". Purtroppo non era vero. Peccato, ci sarebbe piaciuto assai il contrario. Del resto, presentando il giorno prima la manovra, a una precisa domanda Passera - quello vero - aveva risposto: "Non abbiamo ancora esaminato il problema delle frequenze tv". Amen.

Insomma, se ne parlerà presto o non se ne parlerà mai più? Beata ambiguità. Durata poco, però. Martedì 6, una nota d'agenzia ufficiosa ma che sembrava bene informata spiegava che di frequenze all'asta non era il caso di parlare. Eppure si tratta di una questione maledettamente importante, per forma e sostanza. E che quindi merita proprio per questo di essere brevemente riassunta.

Il passaggio al sistema televisivo digitale ha liberato un certo numero di frequenze. Metterle in vendita all'asta sarebbe stata la cosa più saggia, utile e finanziariamente conveniente; e invece, quand'è stato il momento, il governo Berlusconi ha deciso di distribuirle gratuitamente tra chi già occupa il mercato ma - dopo le pressioni dell'Unione Europea - attraverso una sorta di gara, di concorso di bellezza (chiamato, appunto, "beauty contest"). Solo che a questo si partecipa, come dire?, solo per titoli e specifiche tecniche. E c'è bisogno di dire che il bando è stato scritto su misura per Rai e Mediaset? E in modo tale da garantire proprio a Rai e Mediaset le frequenze migliori? Proprio così, tanto è vero che Sky, visti i requisiti richiesti che la davano per sconfitta in partenza, ha preferito rinunciare. Non senza aver annunciato ricorsi legali.

Ora però i tempi stringono, entro fine mese tutto potrebbe essere concluso proprio con un regalo mascherato da concorso per titoli. Il governo Monti, però, non è il governo Berlusconi e il premier che c'è oggi non è per fortuna quello che c'era tre settimane fa: all'ex Commissario europeo alla concorrenza non può non piacere la soluzione dell'asta a pagamento, e se fosse ancora a Bruxelles spingerebbe l'Italia su quella strada. Un'asta, per di più, che consentirebbe allo Stato di ricavare dalla vendita una bella somma, 4-5 miliardi, più o meno quanto incasserà con la stretta sulle pensioni e molto di più di quanto renderanno tasse sul lusso e patrimonialine mascherate.

Senza contare poi il profondo, innovativo significato che avrebbe una decisione del genere. L'avvio della liberalizzazione del mercato televisivo metterebbe finalmente in discussione lo storico duopolio Rai-Mediaset, sorretto finora - nel silenzio generale - dal patto politico-istituzionale-aziendale stipulato tra i due maggiori partiti e le due maggiori aziende televisive all'atto della discesa in campo di Berlusconi; avvierebbe alla fine la lunga stagione di lottizzazione esasperata e di mala gestione di cui la vicenda Minzolini è solo il triste epilogo. Senza contare che basterebbe un gesto altamente simbolico come questo per spazzare via d'un colpo i mille sospetti di inciuci, di accordi sotterranei, di concessioni all'ex premier che hanno accompagnato l'uscita di scena di Berlusconi e la nascita del governo Monti.

Sarebbe una scelta tutta tecnica, perché giustificata dai fatti e dalle esigenze di mercato, per niente condizionata - finalmente - da vincoli politici: non è questo che si chiede a un governo tecnico?
Qualche giorno fa, durante "Otto e mezzo" di Lilli Gruber, mi interrogavo sul perché il governo Monti non avesse ancora aperto questa benedetta asta di frequenze tv. "Chiedilo a Passera", sbottava Vittorio Feltri con un sorrisetto malizioso. Al netto di quell'arrière-pensée: caro ministro Passera, perché la manovra ha dimenticato per settimane la vendita delle frequenze? E ripensamenti?

 
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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Che fine hanno fatto i partiti
Inserito da: Admin - Dicembre 17, 2011, 11:25:00 am
Editoriale

Che fine hanno fatto i partiti

di Bruno Manfellotto

Dicono i sondaggi che se si andasse alle elezioni oggi la metà degli italiani rimarrebbe a casa o non saprebbe per chi votare.

Problema da affrontare subito. Perché quando sarà finito il lavoro dei professori...

(16 dicembre 2011)

Dicono i sondaggi, per quel che possono valere a così grande distanza dal voto, che il partito di Silvio Berlusconi continua a perdere consensi e quello di Pier luigi Bersani a guadagnarne. Cosicché, se si andasse oggi alle elezioni il Pdl non raggiungerebbe il 25 per cento e il Pd sarebbe vicino al 30. quanto poi ai quattro leader del Centro - Casini, Fini, Rutelli e Lombardo - tutti insieme non arriverebbero al 13. E però senza di loro non raggiungerebbe la maggioranza né il centrosinistra né il centrodestra, fermo il primo al 41,5 per cento dei consensi e al 35,2 il secondo.

Vabbè, d'accordo. Ma dal momento che ora c'è ben altro a cui pensare, perché star dietro a voti e a percentuali? Perché in fondo, pur se indirettamente, questi orientamenti potrebbero anche essere letti come un giudizio sul governo Monti e sulla sua manovra, e soprattutto come un voto di fiducia o di sfiducia sui partiti che quella soluzione tecnica hanno voluto e che per consentirla hanno fatto, per così dire, un passo indietro.

Lette così, le indagini dei sondaggisti offrono spunti interessanti. Perde peso il Pdl che ha dato tiepido appoggio a un governo subìto più che voluto. Scendono, se pur di poco, i partiti di centro ad eccezione dell'Udc di Pier Ferdinando Casini che più di ogni altro si è speso per una maggioranza molto ampia, per la soluzione Monti e nel difendere il suo pacchetto di misure. A differenza di quanto si possa pensare scorrendo l'elenco di provvedimenti dolorosi e impopolari - pensioni, tasse, Ici - non vengono premiate le forze politiche che più di altre osteggiano il governo, né da destra né da sinistra: giù Di Pietro, giù Vendola, giù la Lega. Al contrario, gli unici segni più li conquistano, appunto, Casini e Bersani che ha spinto il Pd nella maggioranza che sostiene Monti e che alla fine ne approverà la manovra finanziaria.

Tutto bene, dunque? Come spesso accade in politica e non solo, le cose non sono così semplici. C'è un altro dato illuminante nelle rilevazioni di questi giorni, forse il più importante: il numero degli indecisi è ancora molto alto: oltre il 17 per cento; per non dire di quanti annunciano la loro astensione dal voto i quali, uniti a chi voterebbe scheda bianca, sfiorano il 34 per cento. Contati i primi e i secondi, a conquistare la maggioranza del 51 per cento sarebbe dunque il partito degli sfiduciati, degli scettici, dei disincantati. Con un'espressione ormai consunta, il partito dell'antipolitica. Che cresce sempre di più.

Segnale allarmante. Si ha insomma l'impressione - leggendo i giornali, scorrendo i sondaggi e seguendo i talk show - che i partiti rivolgano ormai le loro attenzioni solo a chi già sia nella loro agenda politica tralasciando, dimenticando, comunque sottovalutando quella fetta sempre più numerosa di italiani, specialmente i più giovani, che non si vedono affatto rappresentati e anzi si sentono sempre più emarginati dalla politica.

Non è un fenomeno del tutto nuovo, ma certo si è aggravato quando dinanzi all'esplodere della crisi "i partiti politici hanno semplicemente alzato bandiera bianca" (Gustavo Zagrebelsky, "la Repubblica") e lasciato che fosse Monti a fare ciò che loro stessi riconoscevano di non poter fare. Quando poi si è trattato di correggere la manovra, di renderla più equa e di rivendicare stimoli alla crescita dopo tanta pioggia di tasse e paure di recessione, s'è sentita più la voce dei sindacati - e, d'altra parte, delle lobby e delle corporazioni - di quella dei partiti. Afoni. A meno che all'ordine del giorno non ci fosse la destituzione di Minzolini dal Tg1 e la scelta di un successore.

Durante il suo intervento alla Camera, martedì 13, rivolto ai suoi critici Monti ha osservato: "E' vero che non occorrevano dei professori per questa manovra, ma mi chiedo perché non l'avete fatta prima voi? Ci avete chiamato perché eravate paralizzati da blocchi incrociati, spero che torniate voi a guardare al futuro". E sì, a un certo punto i partiti torneranno sulla scena politica. Ma rischiano di trovare un deserto.

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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/che-fine-hanno-fatto-i-partiti/2168652/18


Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Che fine hanno fatto i partiti
Inserito da: Admin - Dicembre 21, 2011, 06:32:49 pm
Editoriale

Che fine hanno fatto i partiti

di Bruno Manfellotto

Dicono i sondaggi che se si andasse alle elezioni oggi la metà degli italiani rimarrebbe a casa o non saprebbe per chi votare.

Problema da affrontare subito. Perché quando sarà finito il lavoro dei professori...

(16 dicembre 2011)

Dicono i sondaggi, per quel che possono valere a così grande distanza dal voto, che il partito di Silvio Berlusconi continua a perdere consensi e quello di Pier luigi Bersani a guadagnarne. Cosicché, se si andasse oggi alle elezioni il Pdl non raggiungerebbe il 25 per cento e il Pd sarebbe vicino al 30. quanto poi ai quattro leader del Centro - Casini, Fini, Rutelli e Lombardo - tutti insieme non arriverebbero al 13. E però senza di loro non raggiungerebbe la maggioranza né il centrosinistra né il centrodestra, fermo il primo al 41,5 per cento dei consensi e al 35,2 il secondo.

Vabbè, d'accordo. Ma dal momento che ora c'è ben altro a cui pensare, perché star dietro a voti e a percentuali? Perché in fondo, pur se indirettamente, questi orientamenti potrebbero anche essere letti come un giudizio sul governo Monti e sulla sua manovra, e soprattutto come un voto di fiducia o di sfiducia sui partiti che quella soluzione tecnica hanno voluto e che per consentirla hanno fatto, per così dire, un passo indietro.

Lette così, le indagini dei sondaggisti offrono spunti interessanti. Perde peso il Pdl che ha dato tiepido appoggio a un governo subìto più che voluto. Scendono, se pur di poco, i partiti di centro ad eccezione dell'Udc di Pier Ferdinando Casini che più di ogni altro si è speso per una maggioranza molto ampia, per la soluzione Monti e nel difendere il suo pacchetto di misure. A differenza di quanto si possa pensare scorrendo l'elenco di provvedimenti dolorosi e impopolari - pensioni, tasse, Ici - non vengono premiate le forze politiche che più di altre osteggiano il governo, né da destra né da sinistra: giù Di Pietro, giù Vendola, giù la Lega. Al contrario, gli unici segni più li conquistano, appunto, Casini e Bersani che ha spinto il Pd nella maggioranza che sostiene Monti e che alla fine ne approverà la manovra finanziaria.

Tutto bene, dunque? Come spesso accade in politica e non solo, le cose non sono così semplici. C'è un altro dato illuminante nelle rilevazioni di questi giorni, forse il più importante: il numero degli indecisi è ancora molto alto: oltre il 17 per cento; per non dire di quanti annunciano la loro astensione dal voto i quali, uniti a chi voterebbe scheda bianca, sfiorano il 34 per cento. Contati i primi e i secondi, a conquistare la maggioranza del 51 per cento sarebbe dunque il partito degli sfiduciati, degli scettici, dei disincantati. Con un'espressione ormai consunta, il partito dell'antipolitica. Che cresce sempre di più.

Segnale allarmante. Si ha insomma l'impressione - leggendo i giornali, scorrendo i sondaggi e seguendo i talk show - che i partiti rivolgano ormai le loro attenzioni solo a chi già sia nella loro agenda politica tralasciando, dimenticando, comunque sottovalutando quella fetta sempre più numerosa di italiani, specialmente i più giovani, che non si vedono affatto rappresentati e anzi si sentono sempre più emarginati dalla politica.

Non è un fenomeno del tutto nuovo, ma certo si è aggravato quando dinanzi all'esplodere della crisi "i partiti politici hanno semplicemente alzato bandiera bianca" (Gustavo Zagrebelsky, "la Repubblica") e lasciato che fosse Monti a fare ciò che loro stessi riconoscevano di non poter fare. Quando poi si è trattato di correggere la manovra, di renderla più equa e di rivendicare stimoli alla crescita dopo tanta pioggia di tasse e paure di recessione, s'è sentita più la voce dei sindacati - e, d'altra parte, delle lobby e delle corporazioni - di quella dei partiti. Afoni. A meno che all'ordine del giorno non ci fosse la destituzione di Minzolini dal Tg1 e la scelta di un successore.

Durante il suo intervento alla Camera, martedì 13, rivolto ai suoi critici Monti ha osservato: "E' vero che non occorrevano dei professori per questa manovra, ma mi chiedo perché non l'avete fatta prima voi? Ci avete chiamato perché eravate paralizzati da blocchi incrociati, spero che torniate voi a guardare al futuro". E sì, a un certo punto i partiti torneranno sulla scena politica. Ma rischiano di trovare un deserto.

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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. La rivoluzione soft di Napolitano
Inserito da: Admin - Dicembre 27, 2011, 07:05:45 pm
La rivoluzione soft di Napolitano

di Bruno Manfellotto

Ha atteso, e tessuto per mesi la sua tela fino a convincere i partiti a entrare in una camera di decompressione.

E lasciar fare ai prof. Senza traumi. Per salvare l'Italia. Ecco perché l'Espresso lo ha eletto uomo dell'anno

(22 dicembre 2011)

Non è stato difficile per "l'Espresso" eleggere Giorgio Napolitano uomo dell'anno. Del resto, sul palcoscenico della politica italiana l'evento chiave del 2011 è stato senza dubbio la resa di Silvio Berlusconi - dopo diciassette anni di tensioni continue, immoralità legislativa e incapacità di affrontare la crisi economica - cui ha fatto da pendant l'arrivo a Palazzo Chigi di Mario Monti e del suo governo di professori: l'uno e l'altro evento non si sarebbero manifestati nei modi soffici e concordati e nei tempi rapidi che abbiamo visto se dietro le quinte non si fosse mosso un regista accorto e prudente, ma deciso.

Nel luglio scorso "l'Espresso" dedicava la copertina a Re Giorgio, individuando nel suo attivismo la necessaria supplenza di un sistema politico incapace di sostituire un governo paralizzato dalla sua stessa maggioranza. E' probabile che già allora Napolitano avesse maturato la convinzione che per far uscire l'Italia dall'impasse sarebbe stato necessario un passaggio intermedio: basta rileggere ciò che il presidente ha detto nell'ultimo anno per convincersi che un robusto filo rosso ha accompagnato ogni mossa del Quirinale.

Forse tutto è cominciato addirittura un anno fa quando, in quel fatidico novembre 2010, si consumò l'insanabile rottura tra Fini e Berlusconi e cominciò la lunga fase che "l'Espresso" chiamò "finale di partita". Allora Napolitano fu accusato da alcuni di non aver affondato il coltello, da altri del suo contrario, cioè di smanie presidenzialiste per aver concordato con i presidenti delle Camere il calendario della mozione di sfiducia, di fatto concedendo a Berlusconi un mese di tempo per la compravendita di voti che gli consentiranno di sopravvivere ancora un po'.
Se e quando Napolitano scriverà le sue memorie sapremo che cosa lo mosse, ma molto probabilmente fu la convinzione che una maggioranza alternativa non ci fosse, che l'opposizione non fosse ancora pronta a sostituirsi alle truppe del Cav., che tutto doveva avvenire in Parlamento e che comunque sarebbe stato assai rischioso spingere il Paese al voto nel pieno di una drammatica crisi economica.

Accuse sono piovute sul Colle anche per la nomina di Monti a senatore a vita subito prima dell'incarico a formare un nuovo governo con una maggioranza più ampia e diversa da quella uscita dalle ultime elezioni, e per il ruolo giocato dal capo dello Stato nella formazione della nuova maggioranza e nella puntigliosa supervisione delle misure economiche. Ma i costituzionalisti piu attenti - Ugo De Siervo, "La Stampa"; Gustavo Zagrebelsky, "la Repubblica" - concordano sul fatto che l'emergenza imponeva un diverso protagonismo del Colle: l'alternativa sarebbe stata la paralisi politico istituzionale, l'isolamento dell'Italia. A Napolitano va dunque il merito di aver sbloccato il sistema, riportato il Paese nel club europeo e consentito l'adozione di una manovra finanziaria che nessuna forza politica avrebbe avuto il coraggio di proporre.

Ma c'è dell'altro. La rivoluzione soft promossa da Napolitano dimostra che esistono altri stili e altri linguaggi possibili ai quali si può ricorrere quando, come oggi, sia necessario rimettere in moto la normale vita politica sospesa da un malinteso bipolarismo diventato improduttiva contrapposizione frontale. Per i partiti politici è una grande occasione: spinti dal presidente della Repubblica in una camera di decompressione, dovrebbero approfittarne per rinnovarsi liberandosi di vecchie scorie, affinando programmi e alleanze, cambiando classe dirigente.

E invece eccoli che già scalpitano, si agitano, annunciano populistiche campagne elettorali mentre serietà e realismo dovrebbero convincerli a sostenere questo governo fino a quando la cura Monti non avrà sortito i suoi effetti. Per paradosso, ora che si inizia l'ultimo anno di mandato che culminerà a novembre nell'apertura del semestre bianco, si apre per Napolitano la fase più difficile e complessa del suo settennato: portare a conclusione piena l'opera faticosamente costruita giorno dopo giorno. Auguri di cuore.

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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/la-rivoluzione-soft-di-napolitano/2169075/18


Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Non si vive di solo taxi
Inserito da: Admin - Gennaio 06, 2012, 09:58:50 am
Editoriale

Non si vive di solo taxi

di Bruno Manfellotto

Tutti se la prendono con i tassisti, alle cui spalle è nata una lobby legata ai ras locali. Ma liberalizzazioni significa aeroporti, autostrade, trasporti. Molto più difficili. Come dimostra un episodio recente...

(04 gennaio 2012)

Si racconta il seguente episodio. Alquanto illuminante. Un pomeriggio, ultimi giorni del quarto governo Berlusconi, Gianni Letta aveva convocato a Palazzo Chigi l'ennesima riunione nella speranza di chiudere uno di quei contenziosi che ciclicamente affliggono i governi e toccano da vicino le tasche dei cittadini: l'aumento delle tariffe aeroportuali, cioè la royalty che le compagnie aeree pagano alle società che gestiscono gli scali. Tariffe che sono basse nei piccoli aeroporti che hanno aperto ai voli low cost (e che per questo hanno fatto la fortuna loro e degli operatori); e più alte in quelli maggiori, con le inevitabili conseguenze sul prezzo dei biglietti.

La questione era delicata assai perché vedeva di fronte la compagnia di bandiera, l'Alitalia - alle prese con il difficile tentativo di rimettere i conti a posto e che dunque mal sopportava l'idea dell'ennesimo aumento - e gli Aeroporti di Roma, gestori dello scalo di Fiumicino. Per risolvere finalmente la faccenda, Letta aveva chiamato nel suo studio un po' di ministri, gli azionisti degli Aeroporti (Benetton in testa) e gli amministratori della Compagnia. Questi contestavano il meccanismo degli aumenti che indicizza le entrate del gestore e penalizza i bilanci delle compagnie, ma non si traduce in investimenti adeguati per migliorare il servizio; gli altri invece giustificavano gli aumenti proprio per finanziare gli investimenti che, promettevano, sarebbero arrivati solo più avanti.

La bilancia sembrava pendere a favore degli Aeroporti. Per chiudere la partita serviva solo una firma, quella del ministro dell'Economia. Che si presentò al vertice all'ultimo momento, ma per bocciare senza appello la richiesta: niente soldi. Punto e a capo. Fermissimo. Con la Sea, però, la società che controlla Linate e Malpensa, assai cari alla Lega, Giulio Tremonti non s'è comportato allo stesso modo: lì le tariffe sono aumentate...

Morale? Il principio della concessione con la quale lo Stato affida a privati la gestione di alcuni servizi vincolandoli a precise clausole contrattuali - come l'obbligo degli investimenti per migliorare l'offerta - fa acqua da tutte le parti: o non si riesce a pretendere il rispetto degli accordi o si concedono aumenti di tariffe a seconda della stagione politica, dei governi che la interpretano, dei destinatari del beneficio. E così si oscilla eternamente tra l'invocare la liberalizzazione, che dovrebbe stimolare la concorrenza e dunque portare a prestazioni migliori e più efficienti capaci di favorire la crescita, e uno stanco dirigismo senza criteri né controlli.

Nei giorni scorsi, per esempio, sono aumentati di nuovo i pedaggi autostradali, ma la rete che dovrebbe essere ammodernata dalla concessionaria è la stessa da decenni; c'è stato un abbozzo di liberalizzazione nel settore dei trasporti che ha concesso alla Ntv di Montezemolo e Della Valle di sfidare i Frecciarossa delle Ferrovie dello Stato, ma nessuno ha pensato a vincolare gli investimenti fortemente remunerativi dell'alta velocità a un impegno contemporaneo su linee meno ricche ma socialmente strategiche come quelle del trasporto locale; i capitali privati sono entrati nei colossi dell'energia, ma la rete di distribuzione del gas è ancora in mano a un solo operatore, l'Eni, lo stesso che il gas lo vende, e che su questo fonda un quarto dei suoi proventi. In quanto ai tassisti, i soli con i quali tutti se la prendono, l'inchiesta svela che alle loro spalle è cresciuta una lobby potente e diffusa legata ai mille cacicchi locali: alleanze politico-elettorali strette perché tutto resti com'è.

Il sistema così regolato è di fatto bloccato e tutto si riproduce uguale a se stesso da anni. Pochi giorni fa gli azionisti di Aeroporti di Roma sono tornati alla carica: il dossier è lì, uguale a come l'avevano lasciato quel pomeriggio a Palazzo Chigi. Solo che ora Tremonti, Letta e Berlusconi non ci sono più, e governa il gabinetto Monti-Passera. Vedremo presto se qualcosa è cambiato davvero.

Twitter @bmanfellotto

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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. L'antitaliano che è in noi
Inserito da: Admin - Gennaio 07, 2012, 11:09:17 am
L'antitaliano che è in noi

di Bruno Manfellotto

Bocca era come il titolo della sua rubrica su l'Espresso, duro e tenace, rigoroso e moralista, esigente e incontentabile. Era un modo di essere, ma anche un metodo di lavoro che ci lascia: scavare, dubitare, indignarsi. Per capire

(29 dicembre 2011)

Bisognerebbe prendere l'abitudine di celebrare gli uomini in vita. Specie quando sono destinati a lasciare un segno del loro passaggio. Non necessariamente, celebrare: magari chiedere loro conto delle scelte fatte, contestarle, farsi spiegare perché abbiano imboccato una strada e non un'altra. Farebbe bene a loro e a noi. Ed eviterebbe il ripetersi di quello stanco rituale che immancabilmente rischia, alla fine, o la retorica dell'addio o la retorica dell'antiretorica dell'addio. Due atteggiamenti che Giorgio Bocca già non sopportava quando era vivo e vegeto, figuriamoci se avesse immaginato che non gli sarebbero stati risparmiati da morto né l'uno né l'altro. E da parte di chi nemmeno lo conosceva, poi.

Bocca non era retorico né si sforzava di essere il suo contrario. Era così com'era, duro e tenace, e così bisognava prenderlo, con le sue contraddizioni e i suoi nodi irrisolti. Era tutto nel titolo che aveva voluto per la sua rubrica, L'antitaliano, la prima pagina de "l'Espresso". Livio Zanetti, molti anni prima, gli aveva affidato "Il cittadino e il potere" e lui, fedele come sempre all'incarico e al dovere professionale della scrittura, aveva onorato l'impegno per anni. Fino al momento di diventare antitaliano, una definizione di sé che forse cercava una qualche assonanza con l'arcitaliano di Malaparte, un uomo politicamente e intellettualmente inquieto che, come lui, aveva vissuto grandi delusioni dopo grandi illusioni e che non si faceva affascinare dai quadretti di maniera: certe pagine malapartiane di "La pelle" oscurano la facile solarità di Napoli proprio come le analisi urticanti sul sud e sui meridionali che hanno reso Bocca indigesto a tanti.

Ma a chi come lui temeva il pensiero unico più di ogni altra cosa, suggerire argomenti di moderazione non poteva fare né caldo né freddo. Enrico Arosio che tante volte lo ha intervistato per "l'Espresso" e che oggi ne traccia un ritratto, ricorda che una volta, nel pieno delle polemiche sul suo antimeridionalismo, gli chiese: "Non ti dispiacciono queste accuse di razzismo?". La risposta fu secca: "No". Lo metteva nel conto e non se ne preoccupava più di tanto.

Durezza? Cinismo? Forse solo metodo di lavoro e di indagine. Il giornalista di razza sapeva che il suo compito principale era cercare la verità, a tutti i costi. Ed era convinto che tanto più ci si vuole avvicinare a essa tanto più bisogna essere estremi, provocatòri, insolenti, non accontentarsi mai di quello che abbiamo visto e sentito, cercare ancora, interrogarsi, capire. Il buon giornalismo d'opinione non distilla certezze, ma alimenta domande proprio con l'arte del pregiudizio. "Il pregiudizio è ferro acuminato del mestiere", come ha scritto Giuliano Ferrara che proprio per questo amava e odiava Bocca. Anche perché di intelligente pregiudizio si nutre lui stesso.

Un metodo. Proprio nell'anno in cui l'Italia celebrava 150 anni di unità, l'Antitaliano ne sottolineava invece gli elementi di disunità. Nell'anno in cui si esultava alla resa di Berlusconi e al debutto del governo dei tecnici, Giorgio prendeva parte contro le banche e la finanza che mettono in secondo piano la politica e riducono gli spazi di democrazia. Nell'anno della primavera araba e delle piazze in tumulto, Bocca stava dalla parte degli indignati senza se e senza ma, ma ormai con poche, pochissime residue speranze.
Si può non essere d'accordo con lui, amare o coltivare altre forme di giornalismo, ma come si fa a non ringraziarlo per averci spinto anno dopo anni sulla strada del dubbio? Per averci distillato ogni settimana il suo spirito di antitaliano rigoroso e moralista? Lo serberemo con noi, assieme al racconto dell'uomo che, lasciate le montagne, scende a valle e racconta la sua Torino liberata. E' un ideale passaggio di testimone dal partigiano, che si era battuto contro il nazifascismo, al grandissimo cronista - il miglior Bocca - che da allora racconterà la nuova Italia della libertà e della rinascita. Senza mai venir meno al suo impegno combattente.

Un'Italia che non c'è più, un italiano che se ne va proprio ora che sembra aprirsi una nuova stagione di ricostruzione.

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http://espresso.repubblica.it/dettaglio/lantitaliano-che-e-in-noi/2170619/18


Titolo: Bruno MANFELLOTTO. I Gattopardi non vogliono capire
Inserito da: Admin - Gennaio 13, 2012, 05:06:09 pm
I Gattopardi non vogliono capire

di Bruno Manfellotto

A Palazzo Chigi c'è un "governo strano" il cui stile comincia a piacere e che fa apparire vecchi e superati i partiti.

I quali però sembrano non accorgersene, convinti che tutto tornerà come prima

(12 gennaio 2012)

"Il mio è un governo strano", sillabava Mario Monti chez Fabio Fazio con quel suo tono apparentemente distaccato, lontano dai comuni mortali. E Intanto, si sarebbe detto una volta, sorrideva sotto i baffi pensando probabilmente ai vecchi partiti spompati che lo appoggiano in silenzio, un po' per dovere, non certo per piacere. Magari controvoglia. "L'E'lite si è ripresa il potere", spiegava l'indomani Carlo Freccero, uno che se ne intende. Insomma, un governo strano al potere, in nome di un'E'lite. è proprio così? E quali effetti avrà tutto questo sulla politica made in Italy?

Intanto una conseguenza già si registra, i giornali riempiono pagine e pagine non più di bunga bunga ma di spread, di Merkel e non di Minetti, di liberalizzazioni e non di alibi per gli evasori. Già questo conta. E perché Carlo Malinconico si decidesse al gesto saggio di lasciare la carica di sottosegretario dopo che s'era saputo ogni dettaglio dei suoi sontuosi week-end al Pellicano a spese della Cricca ci sono volute poche ore e nessuna scusa, non mesi di arrogante resistenza. Impensabile solo pochi mesi fa.

Però nel profondo certe cose non cambiano, proprio nel comportamento delle forze politiche costrette a subìre la soluzione Monti. In realtà il loro piano era più o meno questo: lasciamo fare al professore ciò che serve e che noi non riusciremmo a fare mai, se non a costi politici ed elettorali altissimi. Ma a un patto: che non si mettano in discussione gli assetti di fondo del potere, l'ossatura della politica politicante, perché - dicono - quella è competenza dei politici, non di un governo tecnico a tempo.

Guai dunque a toccare le nomenklature (anzi, eccone un bel po' da piazzare tra vice ministri e sottosegretari e di cui si conoscono le gesta da anni), e niente spoil system anche se una bella ventata di professori e tecnici e non di deboli figliocci della politica nelle aziende e nell'amministrazione pubblica ci vorrebbe proprio. Giù le mani dai tg Rai, dalle tv del Cavaliere e da quelle che, opportunamente rinvigorite, al Cavaliere potrebbero dare ombra e dispiacere. Calma anche sulle liberalizzazioni, e sui tagli alla spesa, e sulla lotta all'evasione. Insomma, è come se dicessero: questa è tutta cosa nostra. Sono Gattopardi - come dice la nostra copertina - disponibili a cambiare tutto purché nel profondo non cambi nulla. Proprio ora che l'Europa ci chiede una svolta.

Per fortuna, però, la realtà si preoccupa di smentire tanti progetti politici apparentemente logici e perfetti ma preparati a tavolino. Il fatto è che il premier Monti ha cominciato a lavorare mostrando che è possibile governare senza tante mediazioni e perdite di tempo. Che esistono altri comportamenti e stili di vita: lo dimostra l'uscita di scena di Malinconico il cui rapido esito potrebbe servire da apripista, in nome della trasparenza, per altri casi. Che si può decidere senza dover sottostare agli interessi di categoria o di corporazione difesi dal partito di riferimento. E questo agli italiani piace, come dimostrano i sondaggi che danno in crescita il non voto (quasi la metà degli elettori) e premiano quelle forze politiche, come il Pd, che hanno più sinceramente voluto la nascita del governo Monti. Italiani che hanno accettato duri sacrifici, ma che in cambio di questo non tollereranno più la malapolitica che ci siamo lasciati alle spalle.

Gli unici che sembrano non accorgersene sono proprio loro, i partiti, i Gattopardi convinti che quando questo governo sarà passato tutto tornerà nelle loro mani come prima. Non vedono, invece, che i tecnici stanno facendo breccia nell'opinione pubblica e sarebbe molto più saggio da parte loro prenderne atto e assorbire dentro di sé tutto ciò che di positivo c'è nell'esperimento Monti. "Provo pena per questi politici così maltrattati", ha detto ammiccante Monti. Giusto, ma potrebbero prenderne atto, comprenderne le ragioni e intanto prepararsi al futuro che verrà. Con altre facce, altri comportamenti, altre priorità.

Twitter @bmanfellotto

 
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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Rigore non fa rima con evasore
Inserito da: Admin - Gennaio 28, 2012, 12:04:20 am
Editoriale

Rigore non fa rima con evasore

di Bruno Manfellotto

C'è chi dice che Monti ha esagerato con le tasse. Ed è vero. Ma i dati del fisco mostrano ancora molte zone d'ombra e disparità.

E invece quando si parla di sacrifici non possono esserci sconti e aree franche per nessuno

(19 gennaio 2012)

Bruno Manfellotto Bruno ManfellottoIl rigore ha debuttato il 16 novembre scorso, giorno in cui ha giurato il governo tecnico-politico del professore-senatore a vita Mario Monti. Ma fatica assai a imporsi. Il muro degli interessi di categoria, dei grandi potentati come delle piccole corporazioni è sempre lì, assai arduo da abbattere, perfino da scalare. In queste ore i taxisti urlano dinanzi a Palazzo Chigi minacciando - testuale - "l'inferno" (ma i pensionati cui è stata tolta l'indicizzazione non hanno automobili per bloccare le strade delle grandi città...); commercialisti, avvocati e notai protestano; benzinai e petrolieri minacciano la serrata.

E mentre i Tir paralizzano la Sicilia contro gli aumenti dei carburanti, i parafarmacisti s'incatenano in piazza contro le liberalizzazioni dalle quali essi stessi sono nati tre anni e mezzo fa con le lenzuolate di Pier Luigi Bersani ministro. A me sì, a te no. Intanto, di ramazzate che riguardino la prima delle lobby, quella politica, non si vede traccia, nemmeno di quelle simboliche, di facciata, tanto per fare, ma utili a dire che siamo tutti nella stessa barca. In quanto ai tagli della spesa pubblica improduttiva, agli sprechi di Stato, alla cancellazione degli oneri impropri derivati da antichi appalti inciucisti c'è tanta strada da fare.

Insomma il rigore, quello vero duro e puro, non c'è ancora e però già se ne denunciano fondamentalismi ed esagerazioni. Contro l'eccesso di rigore, del resto, sono state scritte intere biblioteche e una scuola economica, premiata poi con un Nobel, ne ha teorizzato i pericoli e gli effetti controproducenti. Giusto, vero: il caso Irlanda, ridotta alla recessione e alla disoccupazione da una troppo rigida cura fiscale, sta lì a confermarlo. E però la questione, al tempo di Monti & C., andrebbe vista anche da un'altra angolazione.

Un eccesso di rigore, è vero, può dare spazio a forme di populismo pericoloso e incontrollabile, come dimostrano in questi giorni le piazze corporative delle grandi città sulle quali si è stesa l'ala protettrice dei partiti del "governo precedente" (fateci caso, ormai nessuno più, chissà perché, lo chiama "governo Berlusconi"). L'eccesso di populismo, a sua volta, rischia di far passare in secondo piano la necessità di nuove regole e di una riduzione di privilegi piccoli e grandi che suonano iniqui e risultano poco produttivi.

E così, tra chi alza la voce contro i piccoli ma non riesce a colpire contemporaneamente anche i grandi e chi se la cava dicendo che il problema è ben altro, si rischia che non partecipino alla generale chiamata alle armi né tassisti, parafarmacisti e benzinai, né assicurazioni, banche, l'Eni e il suo gas, le Ferrovie dello Stato e la sua rete ferroviaria. Del resto, per anni, sono stati lasciati in pace gli uni per non dover affrontare gli altri, e viceversa. Il risultato è stato l'immobilismo totale dell'ultimo ventennio: non ce lo possiamo più permettere.

Certo, gli economisti hanno ragione quando ricordano che troppe tasse gelano l'economia. Ma, davanti alle ultime cifre dell'Agenzia delle entrate, anche il più attento alle ragioni della crescita vacilla: gioiellieri e pellicciai denunciano più o meno quanto il giovane co.co.co di un call center; un farmacista incassa il doppio di un medico; una discoteca 400 euro al mese; un dentista, un tabaccaio, un avvocato quanto il dipendente di un ministero. Se fossero vere queste denunce dei redditi, il tassista di una grande città incasserebbe 14 mila euro l'anno, molto meno di un operaio, e impiegherebbe una decina d'anni solo per ripagare la licenza (di concessione pubblica) che ha comprato a caro prezzo non dal Comune ma da un altro tassista.

Qualcosa non torna. Non torna l'equità, che si richiede e si pretende quando il Paese è chiamato a sacrifici durissimi. Da qui la necessità di affinare gli strumenti per la lotta all'evasione (inchiesta a pag. 38). Del resto la sfida è proprio quella di far convivere quel principio con le necessità della crescita. Ma è una sfida che riguarda tutti, non solo alcuni.
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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. A essere maligni ci si azzecca
Inserito da: Admin - Gennaio 30, 2012, 12:05:53 pm
A essere maligni ci si azzecca

di Bruno Manfellotto

Dinanzi alle rivolte di piazza, i partiti tacciono o fanno finta di non vedere.

Per ora. Intanto un Berlusconi di nuovo pimpante annuncia che si batterà per cambiare in meglio il decreto sulle liberalizzazioni.

È la verità? Diceva Giulio Andreotti...

(26 gennaio 2012)

Alla fine ha sorriso amaro, però un po' si è seccato Pier Luigi Bersani quando "l'Espresso" lo ha sbattuto in copertina assieme ad Alfano, Casini e Berlusconi in una galleria di gattopardi in frac, leader di partito imbarcati nella stessa maggioranza, che però sembrano pronti ad annacquare le decisioni del governo Monti e ad allontanare le riforme elettorale e del lavoro che l'Europa invoca. E che soprattutto guardano a tecnici e professori come a una parentesi d'emergenza, chiusa la quale tutto ricomincerà più o meno come prima.

Esagerazioni? Provocazioni? Per definizione una copertina enfatizza gli avvenimenti cercando di coglierne il senso profondo. E però il dubbio che sia proprio lo spirito del gattopardo a incombere dalle parti di Montecitorio e di Palazzo Madama, viene forte. Del resto lo stesso capo dello Stato non perde occasione per chiedere alle forze politiche che sostengono questo "governo strano" di impegnarsi a non fare passi indietro e a proporre rapidamente una nuova legge elettorale che sostituisca il famigerato Porcellum. Se Giorgio Napolitano insiste e insiste, vuol dire che sul colle più alto le risposte ancora arrivano fioche e lontane.

I sospetti si sono poi rafforzati da quando è stato approvato il decreto sulle liberalizzazioni che sta provocando la rivolta dei tassisti e degli autotrasportatori, e la protesta di notai, farmacisti, avvocati, benzinai, parafarmacisti... Forse per la prima volta, però, l'insurrezione è caduta in un ufficiale silenzio della politica. Per ora. Si sono distinti la Lega, Raffaele Lombardo e singoli esponenti del Pdl (Gasparri, Cicchitto) a sostegno di questo o quello, ma per il resto i partiti che hanno dato il via all'esperimento Monti hanno quasi fatto finta di non vedere. Finora non hanno alzato la voce per sposare le rivendicazioni della piazza, è vero, ma nemmeno si sono sgolati per dare ragione al premier. E questa è una significativa novità che non lascia intravedere per ora nulla di chiaro e definito. Anzi.

Per anni i politici si sono contesi il consenso di lobby e corporazioni, professionisti e categorie. Difendevano i loro interessi particolari e si davano da fare solo per impedire che venissero intaccati. Sindaci, parlamentari e sottosegretari si sono visti chiamare al loro ufficio solo in virtù del consenso conquistato. All'insegna di un diffuso benaltrismo, essi scacciavano dai propri protetti ogni minaccia denunciando "un ben altro problema", che quasi sempre portava a un'altra categoria. Il gioco dei veti incrociati faceva sì che tutto restasse com'era.
In verità, il primo a rompere l'equilibrio consolidato di interessi di parte è stato proprio Bersani ministro dell'Industria del governo Prodi facendo risuonare per la prima volta in Italia la parola "liberalizzazioni". Negli anni successivi, però, la corsa a vanificare quasi tutto quello che era stato fatto è ricominciata e gli interessi particolari sono tornati a prevalere su quelli generali. La politica ha lasciato il passo alla tutela.

Adesso, però, alibi non ce ne sono più. Un pacchetto di liberalizzazioni è stato approvato - in pochi giorni, cosa che non era riuscita finora a nessun governo - e presto tutti dovranno pronunciarsi in Parlamento, a cominciare da Bersani che quell'antica pratica di lenzuolate liberalizzatrici ha rivendicato. Con una responsabilità in più.
Il rischio che i partiti facciano quel passo indietro che il Quirinale teme, diventa ogni giorno più concreto. Se da una parte, infatti, la protesta dilaga, dall'altra un Silvio Berlusconi di nuovo scalpitante annuncia battaglia in Parlamento, ufficialmente per rendere ancora più incisive le misure del governo: a voler essere maligni, la si potrebbe definire una versione aggiornata del benaltrismo, e proprio non saprei se in questo caso - come si chiederebbe Andreotti - ci si azzecca o si commette peccato. Lo sapremo molto presto.
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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Se Voltaire entrasse in carcere
Inserito da: Admin - Febbraio 10, 2012, 12:01:09 am
Editoriale

Se Voltaire entrasse in carcere

di Bruno Manfellotto

Privilegi, auto blu, sprechi, consulenze agli amici degli amici. L'ennesima casta di apparato cresce a spese nostre e di detenuti che vivono in cella stipati come polli. Se da questo si misura il tasso di civiltà di un paese...

(02 febbraio 2012)

Scrive un lettore a "l'Espresso" che governi e parlamento non si occupano dello scandalo di carceri disumane per una semplice ragione: delle patrie galere, in fondo, non interessa a nessuno anche perché, sotto sotto, molti italiani, molti elettori - spiega quel lettore - si augurano che il carcerato resti dietro le sbarre e sia trattato male, magari peggio, perché altro non merita. Di fronte a un così agghiacciante sospetto viene alla mente quello che disse due anni fa il deputato leghista Gianluca Buonanno dopo il suicidio di un detenuto, e cioè che se altri avessero seguito il suo esempio non sarebbe poi stato tanto male...

Se le cose stessero davvero così, è ancora più encomiabile l'impegno di chi si batte contro carceri stipate come pollai da detenuti in attesa di giudizio, immigrati e tossicodipendenti. Il pensiero corre a Marco Pannella che con i suoi ripetuti scioperi della fame e della sete - sfidando il suo corpo e allo stesso tempo la reiterazione di un gesto radicale che può diventare malsopportata routine - mette la sua vita a disposizione di una battaglia di civiltà. E naturalmente il pensiero va anche a Giorgio Napolitano che in questi anni non ha perso occasione per spingere governi e parlamento ad affrontare una realtà divenuta insostenibile con parole come queste: "Una situazione che ci umilia in Europa e ci allarma per la sofferenza quotidiana".

Del resto, venerdì 27 gennaio, inaugurando l'anno giudiziario a Catania, è stato lo stesso ministro della Giustizia Paola Severino a ricordare - evocando Voltaire senza citarlo - che è proprio dallo stato delle carceri che si misura il tasso di civiltà e democrazia di un paese. Se prendessimo questo principio alla lettera, l'Italia precipiterebbe nel fondo di ogni classifica, appunto, di civiltà e democrazia. Lo dicono i numeri e ciò che può vedere chiunque visiti un penitenziario.

Mentre il Parlamento ignorava il problema e si occupava di leggi ad personam e di cancellare il falso in bilancio, le carceri si sovraffollavano anche in conseguenza della nuova legislazione sugli immigrati, sul possesso di stupefacenti e sui termini di prescrizione. Così, secondo un rapporto dell'associazione Antigone, le prigioni italiane rinchiudono oggi almeno 26 mila persone in più di quante ne potrebbero sopportare; più prudente, ma poi non tanto, il ministero della Giustizia che ha calcolato in 44 mila 218 il numero accettabile di detenuti e in 67 mila 593 quelli che realmente vi sono ospitati: almeno 23 mila di troppo. Evidenti condizioni di invivibilità provocano morti precoci - quasi 600 dal 2009 a oggi - e un'ondata di suicidi: 72 nel 2009, 66 sia nel 2010 che nel 2011, quattro già nel primo mese del 2012.

E neppure questo basta. "L'Espresso" ha svolto una sua inchiesta  e, a fronte della realtà che abbiamo appena riassunto, ha anche scoperto un'incredibile voragine di sprechi, privilegi, investimenti mancati, auto blu, consulenze e appartamenti a ministri, politici e amici degli amici. Roba anche qui da casta e da cricca - che sembra aver avuto come unico scopo quello della propria comoda conservazione e non lo svolgimento del proprio dovere - per di più in un ambito che esigerebbe per mandato non solo quella sobrietà divenuta proverbiale al tempo di Monti, ma soprattutto un quotidiano impegno morale e civile.

Niente di tutto questo. Qui l'inefficienza sfocia nella mala amministrazione se non nel malaffare, il dovere sociale nel tornaconto personale, l'impegno nella negligenza. Mentre le carceri esplodono. Questo governo - come spiega  Ignazio Marino che tanto si è battuto per questa storica conquista - ha avuto il coraggio di chiudere finalmente gli ospedali psichiatrici giudiziari, quelli che una volta si chiamavano più crudamente manicomi criminali. Speriamo che ora trovi la forza e le risorse per affrontare finalmente lo scandalo delle carceri. Che umilia questo paese e lo regredisce al grado zero della civiltà.

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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Le mazzette non finiscono mai
Inserito da: Admin - Febbraio 12, 2012, 07:37:38 pm
Editoriale

Le mazzette non finiscono mai

di Bruno Manfellotto

Esplode di nuovo il problema del finanziamento dei partiti, dei troppi soldi alla politica, delle spese fuori controllo.

Come vent'anni fa quando nacque Mani pulite. Ma allora non è cambiato niente?

(09 febbraio 2012)

Il paradosso vuole - ma sarà poi un paradosso? - che mentre si celebra il ventesimo anniversario di Mani pulite, di nuovo calda si faccia la questione morale. Con al centro, ancora, il finanziamento dei partiti - con i suoi illeciti e, se va bene, con i suoi intrallazzi - trasformato nel meccanismo arrogante dei rimborsi elettorali che fa perfino di Giuseppe Scopelliti un uomo da un milione di euro e del tesoriere dell'ex Margherita il dominus di un tesoretto di 20 milioni di euro destinati a un partito che non c'è più e finiti chissà dove e chissà a chi.

Tutto cominciò convenzionalmente il 17 febbraio del 1992, quando il socialista Mario Chiesa, durante una perquisizione, fece scivolare banconote per sette milioni di lire in uno sciacquone del Pio Alberto Trivulzio di cui era presidente lottizzato, frutto della prima tangentina rivelata del secondo millennio. Bettino Craxi minimizzò definendo il suo uomo "un mariuolo", ma ciò non fermò la valanga scatenata dal pool di pm della Procura di Milano: l'intero panorama politico ne sarà devastato, la storia degli anni a venire condizionata. In carcere, come aveva profetizzato Mario Zamorani, finiranno migliaia di piccoli e grandi mariuoli.

Vent'anni dopo la faccenda è ancora lì, con l'aggravante di un generale imbarbarimento della lotta politica e di un avvilente decadimento delle truppe in campo: "Da Citaristi a Lusi", sintetizza amaramente Bruno Tabacci. Del resto basta leggere Claudio Rinaldi, un rigoroso testimone del tempo che ci manca assai, per rendersi conto di quanto tutto si ripeta uguale a se stesso: basta cambiare nomi e circostanze ed ecco la violenta mazzettopoli degli anni Novanta trasformarsi nella squallida e generalizzata "accettazione di un sistema" (Gherardo Colombo) degli anni Duemila.

Del resto, la combattiva Lega di Bossi, che nacque e si impose sulle macerie dei partiti in agonia, che sostenne Di Pietro nella sua battaglia, ruppe l'alleanza con Berlusconi, poi urlò "Roma ladrona" e agitò cappi nell'aula della Camera, oggi investe in Tanzania i soldi del finanziamento pubblico, vota contro l'abolizione del vitalizio dei parlamentari e a favore della responsabilità civile dei magistrati.

Si legga dunque con questo spirito il dossier dell'"Espresso", con i documenti originali che fotografano ciò che accadde, le testimonianze di chi c'era e capì, e le proposte per battere un mostro che tuttora ci perseguita. Certo, Tangentopoli non è stata esente da demagogie e forzature, ma la sacrosanta denuncia degli errori non deve cancellare il mare di corruzione e concussione che dilagò allora e, a quanto pare, sopravvive alla grande anche oggi. E tanto più spazio ha avuto la magistratura quanto più la politica s'è mostrata incapace di frenare le ruberie.
In vent'anni è stato fatto poco o nulla in direzione della moralizzazione della vita pubblica, anzi le uniche leggi approvate hanno aumentato i fondi ai partiti e diminuito i controlli, fino alla follia di escludere il finanziamento pubblico dall'orbita della Corte dei conti. Le forze politiche si sono ulteriormente blindate con una legge elettorale fatta apposta per perpetuare l'esistenza di ristrette oligarchie. Una blanda lotta all'evasione fiscale ha fornito la cornice in cui far crescere il malaffare. All'emergere di scandali (da Penati a Lusi) anche i meglio intenzionati non sono andati oltre generiche invettive moralistiche un po' patetiche. E prova ne siano i sondaggi che fissano in un misero 9 per cento la fiducia nei partiti.

Francamente non si comprende questo suicidio di casta se non come un miope tentativo di personale sopravvivenza. Eppure la parentesi benefica del governo Monti - l'abbiamo scritto e scritto - darebbe la possibilità di approfittare per rigenerarsi, cambiare volti, linguaggi e contenuti. Così non è, e l'unica novità che si vede all'orizzonte è il tentativo di alcuni - Montezemolo, Tremonti, Passera - di sostituire l'organizzazione partito con la candidatura ad personam. E la guerra alle mazzette? Se si vuole davvero voltare pagina è da lì che si deve ricominciare.
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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Aiuto, ho il mal di primarie
Inserito da: Admin - Febbraio 25, 2012, 04:32:56 pm
Editoriale

Aiuto, ho il mal di primarie

di Bruno Manfellotto

Milano, Cagliari, Napoli. E ora Genova. Ogni volta il candidato del Pd viene smentito dal voto della sua base.

Tutta colpa di un meccanismo che non funziona, si spiega.

E se invece sbagliati fossero i nomi e i motivi per cui sono stati scelti?

(16 febbraio 2012)

A pensarci bene, sembrerebbe proprio che le primarie all'italiana siano state inventate per mettere nei guai il Pd. E magari chi qualche anno fa aveva cominciato a parlarne e a sollecitarle, aveva in mente proprio questo, uno strumento per far saltare l'alleanza, che a molti appariva fasulla e innaturale, intorno alla quale era nato il partito democratico e mettere in difficoltà un gruppo dirigente che non ne vuol sentire di cambiare. E vabbè, forse è andata proprio così, ma allora è ancora più sorprendente che non se ne siano resi conto i big del partito e non siano corsi ai ripari.

E' stata fin dall'inizio una maledizione. A Milano la maldigerita candidatura di Stefano Boeri ha favorito il trionfo di Giuliano Pisapia; a Cagliari la pallida figura indicata dal Pd ha lasciato spazio al giovane Massimo Zedda, pupillo di Nichi Vendola; a Napoli è stato affidato alle primarie un compito improprio, quello di risolvere decennali beghe di partito e di coalizione. La telenovela si è conclusa con una denuncia di brogli e con la vittoria dell'outsider Luigi De Magistris.

Il caso Genova che oggi chiude il cerchio - in attesa dei prossimi appuntamenti, Palermo in testa - è da manuale. La sindaca in carica Marta Vincenzi non piaceva allo stato maggiore del Pd che non ha avuto il coraggio di non ricandidarla, ma la sfrontatezza di metterle contro un'altra Pd, Roberta Pinotti, cara alle segreterie ma non al popolo genovese di sinistra. Il quale alle due che s'accapigliavano ha preferito il giovane Marco Doria, trovata di Don Gallo e Vendola che, come quel cinese, sta sulla riva del fiume e aspetta. Più che primarie, un suicidio.

Poiché anche un bambino capisce che presentandosi divisi si va incontro a sicura sconfitta, vengono alla mente domande e sospetti. Ci si chiede per esempio se il Pd sappia che cosa sono davvero le primarie, a cosa servano e come funzionino, visto che anche dopo la sconfitta di Genova è continuato il dibattito su come farle, se di partito o di coalizione, senza che nessuno si chiedesse se per caso fossero sbagliate non le primarie ma le candidature. Il sospetto, eccone uno, è che non si vogliano quelle di partito per evitare che esplodano divisioni, correnti, punti di vista diversi. Proprio quello che certa sinistra, unitaria nei sogni e a parole, non sopporta. E però cosa sono le primarie se non l'occasione di mettere a confronto idee, programmi, atteggiamenti necessariamente diversi?

Forse si teme anche - ecco un altro sospetto - che i giochi di un congresso o di un qualunque vertice di partito possano bocciare il candidato della nomenklatura. O magari c'è il timore che il nome proposto possa perdere nel confronto con altri del centrosinistra, con le inevitabili conseguenze politiche che investirebbero lo stesso vertice che quella proposta ha fatto. Così ragionando si può arrivare all'assurdo di preferire, nel primo caso, una sconfitta con Vendola a una resa dei conti con pezzi del proprio partito; oppure di accomodarsi nella posizione un po' masochista di chi può dire di essere stato battuto dalle eterne divisioni della sinistra e non dal voto di chi si è stufato di giochini e divisioni incomprensibili ai più. Amen.

E questo poi è alla fine ciò che più stupisce. Se il gruppo dirigente di un partito, spinto dall'opinione pubblica, è costretto a misurarsi in una sfida che ama poco come quella delle primarie, allora tanto vale che si impegni nel tentativo di voltarle a proprio vantaggio e farne davvero uno strumento di selezione della classe dirigente e di trasparente lotta interna. Ma evidentemente è proprio questo che non si vuole o che non si riesce a imporre a un gruppo dirigente riottoso a ogni novità al punto di preferire una sconfitta che non porta responsabilità a una vittoria che può significare alti costi.

Ci auguriamo, naturalmente, che le nostre supposizioni siano fantasiose e i sospetti del tutto infondati. Perché se le cose stessero davvero come le abbiamo raccontate, e temiamo sia così, allora questa più che politica è roba da psicanalisi.

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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Ma ormai non si parla più di Tav
Inserito da: Admin - Marzo 07, 2012, 05:10:28 pm
Ma ormai non si parla più di Tav

di Bruno Manfellotto

Non si può tornare indietro, quel treno si farà. E vabbè. Però le proteste continuano e continueranno.

Perché quella valle in fermento è diventata il simbolo di ogni dissenso. Per questo la politica dovrebbe occuparsene

(01 marzo 2012)

Dicono le analisi dei servizi segreti che i no Tav della Val di Susa sono "determinati a resistere a oltranza" e che hanno in cantiere altre azioni clamorose. E non solo in Piemonte, come le diffuse proteste di questi giorni confermano. Ma soprattutto, aggiungono, la battaglia contro l'alta velocità per alcuni sta diventando il simbolo di un più generale mal di vivere indotto dalla crisi e dalle sue conseguenze: disoccupazione, precarietà del lavoro, degrado ambientale, aumento di prezzi e tariffe, riduzione dei servizi sociali. Così ogni occasione è buona per far esplodere la rabbia: l'apertura di una discarica, il tracciato di un'autostrada, un impianto di rigassificazione, la chiusura di una fabbrica (il Nimby Forum calcola che siano oggi 331 i progetti contestati). Si legge ancora: "La crisi può favorire la nascita di un articolato fronte di lotta capace di unire anime storicamente diverse". Non c'è da stare tranquilli.

IL CASO HA VOLUTO CHE QUESTE note siano state diffuse nelle stesse ore in cui l'alta tensione folgorava Luca Abbà su un traliccio in Val di Susa, e ciò spingeva i manifestanti a un'ulteriore escalation di proteste: autostrade invase, treni bloccati a Pisa a Roma a Lecce, leader politici contestati in piazza evocando Gandhi e lasciando immaginare domani altri manifestanti sdraiati in strada e sui binari.

Nel corso dei mesi la contestazione ha cambiato di qualità. I locali comitati anti Tav si sono assottigliati lasciando il posto a gruppi di diversa natura: dagli anarchici ai quali faceva riferimento Abbà, alle frange più estremiste protagoniste delle tristi minacce a Giancarlo Caselli. Le ragioni del mutamento di pelle? Dopo lunghe e pazienti trattative si è deciso che quella striscia di Val di Susa fosse attraversata quasi tutta in galleria: il treno non si vedrà e non si sentirà. E questo ha rassicurato molti valligiani facendoli desistere dalla protesta. Altri invece hanno abbandonato la battaglia perché, pur condividendone motivazioni e finalità, ne contestano violenze e minacce.

In realtà ormai si parla di Tav per parlare d'altro, anche perché - com'è noto - non si può fare più niente per fermare un progetto che impegna due Stati, Italia e Francia, e i rispettivi Parlamenti, e per il quale dall'altra parte della frontiera già si scava da tempo. La contestazione insomma non riguarda più solo un treno, ma ciò che quel treno rappresenta, un certo modello di sviluppo che si rifiuta alla radice e di cui la crisi ha evidenziato limiti e conseguenze: eccesso di finanza, bolla immobiliare, inaccettabili disparità sociali e retributive, invidia sociale, disoccupazione. Non solo. L'avvento di un governo tecnico sorretto dalla quasi totalità del Parlamento, ha messo nell'angolo le forze politiche, specie quelle ieri impegnate nel duro lavoro dell'opposizione. Con qualche conseguenza.

La prima è il rischio di confondere in un unico pentolone Monti e la sinistra, i tecnici di governo e i politici che li sostengono, dando l'impressione che dinanzi alla crisi il necessario diventi ineluttabile. Così aumentano sfiducia nella politica e voglia di astensionismo: se non posso fare niente che voto a fare? La seconda riguarda la sinistra messa ovviamente in difficoltà. Le fasi di massimo antagonismo si sono manifestate, nelle forme più diverse, proprio quando questa ha fatto i conti con i suoi radicalismi. L'acme fu toccato negli anni Settanta quando l'avvicinamento del Pci a maggioranze di governo provocò la radicalizzazione di frange estreme politiche e sindacali. E oggi i servizi segreti segnalano il ritorno sulla scena di ex Br.

CERTO, PARAGONI CON QUELLA lontana stagione sono improponibili, né la sinistra può fare marce indietro e rinunciare a un ruolo conquistato anche in anni di governo. Ma non si può nemmeno pensare che l'opposizione abbia i connotati della piazza, che il dissenso non meriti di essere ascoltato, che le proteste servano solo a ingaggiare continui bracci di ferro. Che insomma non si eserciti quotidianamente la faticosa ricerca del consenso. Che poi è l'arte della politica.
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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Un Bersani, anzi due
Inserito da: Admin - Marzo 24, 2012, 03:06:50 pm
Editoriale

Un Bersani, anzi due

di Bruno Manfellotto

C'è il responsabile uomo di governo che appoggia Monti e spiega le misure economiche alle sue truppe.

E c'è l'uomo di partito che subisce veti, condizionamenti e primarie beffa.

Certo, se i due si incontrassero...

(08 marzo 2012)

Dunque c'è un Bersani di governo e un Bersani di partito. Un leader responsabile che non ha paura di esporsi in Parlamento o sulle piazze e di portare le sue truppe a condividere sacrifici indigesti, e il paziente amministratore di un condominio rissoso sul quale non riesce a imporsi. Un Bersani pragmatico e attento alla crisi economica, e un Bersani magmatico costretto a subìre controvoglia divisioni, lacerazioni, mediazioni. Quale dei due prevarrà?
Quando Berlusconi è stato costretto dalla sua stessa paralisi a lasciare Palazzo Chigi, il segretario del Pd è stato tra i più sinceri sostenitori di un governo di decantazione, strano o tecnico che fosse. E da allora non c'è stato giorno in cui non abbia sinceramente appoggiato Mario Monti nella convinzione che una crisi politica avrebbe trascinato l'Italia verso precipizi greci. E' vero, anche il Cavaliere ha fatto un passo indietro, ma ci è stato costretto dai sondaggi che in caso di elezioni anticipate davano perdente lui e vincente il Pd.

Non solo. Con determinazione il compagno Bersani ha spiegato ai suoi che bisognava di nuovo mettere mano alle pensioni; ha resistito alla carica delle corporazioni e appoggiato le liberalizzazioni del professor Monti, ricordando che quelle che aveva firmato lui da ministro dell'Industria erano state ancora più incisive; sta abilmente mediando sulle questioni del lavoro senza farsi trascinare dall'ala più estrema della Cgil; e nel momento più caldo, mentre Luca Abbà cadeva folgorato da un traliccio in Val di Susa, ammetteva coraggiosamente che il progetto Tav non può essere rimesso in discussione. Atti di governo che lasciavano via via ingiallire la foto di Vasto con Di Pietro di qua e Vendola di là.

Ma quando si tratta del partito tutto cambia e il Bersani che attraversa le sale di via Sant'Andrea delle Fratte non è lo stesso che sale al Quirinale. L'uomo di governo deve lasciare il passo all'uomo di apparato. Che nulla ha potuto fare per accelerare il rinnovamento dei gruppi dirigenti, o per aggredire le questioni di fondo, politiche e di potere, che minano il matrimonio con l'ala cattolica del Pd. Per non dire della beffa delle primarie, trasformate ogni volta da momento di rilancio e di democrazia, in occasione di scontro. Ultimo caso, Palermo.

Bersani ricorda giustamente che le primarie non sono la soluzione dei problemi, lo è la politica; ma proprio la debolezza della politica che, incapace di appianare prima i contrasti tra le diverse anime di una coalizione, ha condotto alla farsa di candidare non due concorrenti, come insegnano gli Usa che usano le primarie da centosettant'anni, e in più di insistere con personaggi logori, scontati, vecchi favorendo così il fiorire di altri competitor che spesso hanno dalla loro solo la freschezza dell'età e la possibilità di presentarsi alternativi ai nomi di apparato. E che per questo vincono.

Da una parte, dunque, l'amministratore cresciuto alla scuola concreta del socialismo riformista in salsa emiliana e poi maturatosi nell'esperienza di governo; dall'altra l'uomo di partito che invoca un'unità fittizia e non si rende conto che una politica di mera gestione dell'esistente non basta più e rischia anzi di diventare controproducente. O meglio, se ne rende conto eccome, ma le resistenze che incontra sono ancora tante.

E invece nella società qualcosa di profondo si muove, come le stesse primarie dimostrano: fare politica significa proprio intercettare questi umori e riuscire a trasformarli in proposta convincente. Del resto, mai occasione fu più propizia. La "sospensione" del governo Monti offrirebbe al Pd l'occasione per fare il salto decisivo, rompere regole stanche, cancellare vecchi riti, prepararsi al dopo con fatti e volti nuovi. Bersani dovrebbe farlo subito, agire prima delle elezioni, soprattutto ora che dissidenti interni ed esterni cercano di condizionarlo, indebolirlo, metterlo in difficoltà. Sono i suoi stessi elettori a chiederglielo.

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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Un governo "strano" può fare a meno del Parlamento?
Inserito da: Admin - Aprile 09, 2012, 05:23:29 pm
Cosa c'è dietro l'articolo 18

di Bruno Manfellotto

Un governo "strano" può fare a meno del Parlamento?

E i partiti possono già fare a meno di Mario Monti?

La risposta giusta è no. A entrambe le domande.

Vediamo perché

(29 marzo 2012)


Temo un incidente di percorso", lamentava Mario Monti addirittura il 16 dicembre scorso. Era passato appena un mese dal suo arrivo a Palazzo Chigi e nella maggioranza già cominciavano i primi mal di pancia per le misure anti crisi. E sì, da quando questo governo è in carica c'è sempre stato il rischio dell'agguato, dello sgambetto, della palude parlamentare. Figuriamoci poi se la discussione riguarda il lavoro e lo spinoso articolo 18 e fuori del palazzo soffiano sindacati insoddisfatti per un'intesa che non c'è stata. Due totem travolti insieme, lo statuto dei lavoratori e l'imprescindibilità di un accordo tra le parti: inevitabile che sul governo s'addensassero nere nubi. Fino a spingere Mario Monti all'insolito affondo di Seul. Che merita qualche riflessione.

Innanzitutto, che cosa ha detto il premier? Che la riforma del lavoro, per usare le parole di Elsa Fornero alla "Repubblica", non può essere "ridotta in polpette" dal Parlamento; che lui, a differenza di Giulio Andreotti, non vuole tirare a campare e dunque "se il paese non è pronto" molla tutto e se ne torna alla Bocconi. Amen. Il fatto che la cruda dichiarazione sia stata rilasciata nel pieno di un viaggio all'estero, che Monti abbia sentito la necessità di parafrasare Belzebù, che i partiti fibrillino in attesa che la riforma approdi in Parlamento e qualcuno evochi addirittura improbabili elezioni anticipate, ha diffuso sulla scena un vago sentore del tempo che fu, insomma degli anni in cui non c'era premier in missione che non fosse costretto a parare qualche colpo sparatogli contro nella patria lontana.

E però le cose stanno in modo assai diverso perché la stagione Monti non ha niente a che vedere con quanto è successo prima. A lui si è ricorsi per fare ciò che i partiti non potevano, incapaci com'erano di trovare un accordo e di decidere alcunché. E lo si è fatto accogliendo quelle che sono state da sempre le condizioni poste a chiunque gli proponesse un impegno di governo: arrivarci non attraverso una campagna elettorale, ma su indicazione del Capo dello Stato e sostenuto da un'ampia maggioranza. E così è andata: senatore a vita e poi premier per volontà di Giorgio Napolitano e con il sostegno forte dei maggiori leader di destra, di centro e di sinistra.

Un governo "strano", ha riconosciuto subito lo stesso premier. Strano sì, ma al punto di sottrarsi del tutto al vaglio di Camera e Senato? Anche se si è interrotta una difficile trattativa sul lavoro e si è rimandata la palla al Parlamento? Ma se la manovra economica è passata a colpi di decreti legge e di fiducia, non si può certo fare lo stesso con una riforma che mette in discussione diritti fondamentali, e dunque Monti deve accettare che deputati e senatori dicano la loro.

Ecco, la vera partita è tutta qui, nei rapporti tra un Parlamento voglioso di recuperare a tutti i costi - anche spendendosi per un post Porcellum un po' affrettato e pasticciato - un ruolo incrinato dai veleni dell'antipolitica e indebolito da un governo nato fuori di esso, ma cui deve la sopravvivenza e di cui non opuò ancora fare a meno, e un premier deciso ad andare avanti e per questo accusato dal Parlamento di chiedere solo un timbro su provvedimenti già presi. E così va dunque letta quella frase: "Se il Paese non è pronto", e cioè se i partiti che lo rappresentano non se la sentono di decidere, sono pronto a passare la mano. Ciascuno si assuma le sue responsabilità.

Messaggio, pare di capire, indirizzato sia di qua che di là. A quel pezzo di politica e di sindacato che vorrebbe l'intangibilità delle attuali regole sul lavoro e a quel Pdl che con sinistra gioia alza la bandiera dei licenziamenti a go-go. Se è così, non sarà impossibile trovare in Parlamento un accordo che non smentisca l'intesa che, articolo 18 escluso, fin qui c'è stata, e non stravolga l'impianto costruito in un mese di trattativa. In nome della responsabilità e di una concertazione non paralizzante Bersani ci sta, Camusso pure. Non buttiamo tutto all'aria per una questione di principio. O per la campagna elettorale.

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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Chi non taglia è perduto
Inserito da: Admin - Aprile 18, 2012, 04:15:08 pm
Chi non taglia è perduto

di Bruno Manfellotto

Nuove tasse, era inevitabile. Assalto alle pensioni, e vabbè. Ma di tagli alla spesa pubblica (e dei costi della politica) non si parla.

Meglio darsi da fare subito da soli che costretti dallo spread e dall'incubo default

(12 aprile 2012)

Le ultime illusioni le hanno cancellate un ministro e un vice ministro del governo Monti, subito prima che lo spread ricominciasse a far ballare le Borse. Ecco il numero due dell'Economia, Vittorio Grilli, a Cernobbio: "Dal processo di spending review non dobbiamo aspettarci un taglio della spesa di decine di miliardi". Amen. Qualche giorno dopo, alla "Stampa", Piero Giarda, ministro per i rapporti con il Parlamento incaricato di radiografare la spesa pubblica, ha messo le mani avanti: "Dalla spending review non c'è da attendersi nessun tesoretto da destinare a riduzione delle tasse, ma una razionalizzazione degli apparati dello Stato per non far crescere la spesa". E per chi non avesse ancora capito l'antifona ha aggiunto: "Finora il governo non ha annunciato progetti di riduzione della spesa". Ecco, appunto.

E però, ora che il fantasma greco svolazza di nuovo sulle capitali europee, il guaio di una spesa incomprimibile dovrebbe tornare al primo posto dell'agenda economica, non solo per ragioni di equità, ma - come osserva Massimo Riva - anche per trovare risorse utili a finanziare uno straccio di crescita. Finora, però, nulla è stato fatto. Nella prime settimane di vita, è vero, Monti ha dovuto affrontare una drammatica emergenza: il baratro era lì a un passo, e bisognava trovare subito 80 miliardi. Sappiamo com'è andata: aumenti di tasse e tariffe e assalto alle pensioni (compresa la figuraccia degli esodati). In quanto alle vittime dei sacrifici, basta consultare l'ombrellometro costruito prendendo a prestito da Altan l'irridente metafora di copertina. Di tagli, e meno che mai dei costi della politica (vedrete che aumenteranno i controlli, ma non ridurranno i rimborsi), invece non si parla.

Del resto per anni così si è ragionato: bloccare, non tagliare la spesa pubblica. Che adesso tocca gli 800 miliardi, più o meno la metà della ricchezza prodotta in Italia. Ma soprattutto, il doppio di vent'anni fa. Anche il debito non si è fermato, arrivando alla cifra record di 1.830 miliardi di euro. E se non tagli, tocca inventare nuove tasse. Tanto che la pressione fiscale supera oggi il 46 per cento (contro il 38 di vent'anni fa).

Tasse molte, risparmi pochi. E invece da qualche parte bisognerebbe pur cominciare. In tempi di crisi e di recessione, non c'è famiglia che non stringa la cinghia, e non c'è impresa che non si adatti a tagliare almeno il 10-20 per cento delle spese. Inevitabile. Ebbene, ogni anno, per l'acquisto di beni e servizi - dalla benzina alla cancelleria, dalle auto blu all'acqua minerale - la pubblica amministrazione sborsa 130 miliardi di euro. Possibile che non si possa ridurre qualcosa? Per esempio sprechi e imbrogli? Dieci per cento significherebbe 13 miliardi; il venti per cento 26. Ventisei!

E la sanità? Nel 2010 il sistema sanitario nazionale è costato quasi 150 miliardi di euro dei quali, per esempio, 26 per i farmaci e 80 per forniture sanitarie. Lungi da noi l'idea di "smontare la sanità pubblica" (come teme Giarda), ma possibile che non ci sia modo di tagliare, risparmiare il 10-20 per cento? Cioè 15-30 miliardi di euro. E ancora. Dinanzi all'ennesima richiesta di abolire le Province, Antonio Saitta, combattivo presidente della Provincia di Torino, sventola l'elenco di enti, istituzioni, authority che fanno capo alla pubblica amministrazione: una decina di fogli dattiloscritti, un elenco fitto in cui non è difficile trovare sovrapposizioni, duplicazioni, orpelli. Niente da tagliare nemmeno qui?

Il premier inglese Cameron ha annunciato la riduzione della spesa pubblica dal 45,8 al 40,3 per cento entro il 2015; data entro la quale i dipendenti pubblici passeranno da 700 mila a 500 mila. Certo, l'Italia non è la Gran Bretagna, e la filosofia delle lacrime e sangue poco si attaglia al nostro costume, ma all'idea di un piano pluriennale di rientro potremmo arrivarci perfino noi. Cominciando a lavorarci subito. Magari approfittando di Mario Monti e del suo governo.
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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. E la chiamano antipolitica
Inserito da: Admin - Aprile 28, 2012, 05:28:00 pm
E la chiamano antipolitica


di Bruno Manfellotto

D'Alema sente nell'aria che tira un feroce attacco ai partiti, specie a quelli di sinistra.

È vero. Ma si chieda anche perché, e quel che potrebbe fare lui per ridare vita a una cosa che non c'è più

(19 aprile 2012)

Negli ultimi giorni, complice la campagna elettorale e l'aria che tira, quella dell'antipolitica dilagante, Massimo D'Alema ha ritrovato lo spirito di un tempo: parla, sferza, denuncia. E mette in guardia. "L'antipolitica è più pericolosa della destra. C'è in atto un'operazione ideologica che non vuole la sinistra al governo e mette i tecnici contro i partiti" (16 aprile, Palermo). "Il dramma non è stata l'invadenza dei partiti, ma la loro disgregazione" (14 aprile, Catanzaro). Ancora: "E' preoccupante l'atteggiamento di certe élites del "basta con i politici" che in epoche recenti hanno dato spazio a Berlusconi: non vorrei che la storia si ripresentasse sotto forma di farsa" (12 aprile, Roma). E infine, dedicato al papa dell'antipolitica: "Grillo è un mix tra il primo Bossi e il Gabibbo". Amen.
E sì, c'è poco da fare, è questa l'aria che tira. Ma Baffino, che pure l'ha colta bene, non la racconta giusta. Pensa ancora una volta all'attacco dei soliti poteri forti e finge di non vedere che se oggi la metà degli italiani non andrebbe a votare è perché rifiuta la politica di chi intasca mazzette, compra ville a Genzano o investe in lingotti i soldi del finanziamento pubblico. E davvero sorprende che i partiti non se ne rendano conto e non corrano subito ai ripari, magari approfittando dello scudo del governo tecnico.

Già, ma per fare cosa? Solo qualche esempio. Cominciamo dai rimborsi elettorali, che tali non sono visto che durano un'intera legislatura. Sì, una qualche forma di finanziamento pubblico è sacrosanta, ed è vero pure che i partiti se lo sono già autoridotto: 189,2 milioni di euro nel 2011, cioè 100 in meno dell'anno precedente, che scenderanno a 165 l'anno prossimo per arrivare a 143 milioni nel 2015. Bene, bravi. Ma la trasparenza? Fino a quando non potremo sapere come sono stati spesi quei soldi pubblici, cioè di tutti i cittadini, si lascerà spazio ai Lusi e ai Belsito, i migliori attori a disposizione nel teatrino dell'antipolitica. Che ha toccato l'acme in questi mesi in cui tracimano le inchieste sui partiti e i loro tesorieri.

Certo, perfino nella notte della politica non tutti i gatti sono bigi, ma a pagare il prezzo più alto sono proprio quei partiti, specie a sinistra, che hanno fatto della questione morale e della buona amministrazione le loro carte vincenti: perché più forte è la delusione di chi li ha votati e perché da loro, che non dovrebbero essere gattopardi ma innovatori, ci si aspetta di più. E dunque si diano da fare.

E' dall'antipolitica, ripete per esempio D'Alema, che nascono i Grillo, le mille liste civiche (pag. 36), la personalizzazione della politica. Bene, bravo. Ma allora si cambi la legge lì dove consente rimborsi elettorali per cinque anni anche a chi raggiunge solo l'1 per cento dei voti e non conquista seggi: è un meccanismo che favorisce la nascita di piccole liste e l'arrembaggio di un ceto politico acchiappasoldi.
Secondo, occorre una nuova legge elettorale. Subito e di qualità. Sono almeno quattro mesi che ci sentiamo dire che la riforma arriverà "entro quindici giorni", ma nessuno ancora l'ha vista e quella di cui si parla sembra fatta apposta - come dice Romano Prodi - per non far vincere nessuno, premessa a una stagione in cui si rischia di spendere tempo e risorse non per governare, ma alla sfibrante ricerca di accordi di coalizione e di sopravvivenza: non è questo che si chiede alla politica.

Ancora. Fondamentale sarebbe la rinuncia a piccoli e grandi privilegi, visto che la sfiducia nella Casta è cresciuta a mano a mano che i cittadini elettori venivano scoprendo auto blu, doppi stipendi e assenteismi lautamente retribuiti. Dunque ridurre, tagliare, cedere. E infine, mollare un po' la presa abbandonando la pratica della lottizzazione becera in favore della scelta di ineccepibili curriculum.

Insomma, se è vero come dice perfino Napolitano che "il partito e la politica non sono il regno del male, del calcolo particolaristico e della corruzione" chi si sente fuori da questo girone di dannati si svegli e faccia qualcosa. Per salvare dalla demonizzazione i partiti e la vera politica .

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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Casta non morde Casta
Inserito da: Admin - Maggio 07, 2012, 10:48:33 pm
Casta non morde Casta

di Bruno Manfellotto

Il governo dei tecnici commissaria il governo dei tecnici con un commissario tecnico.

Non è uno scioglilingua, ma attenzione: è l'ultima chance. Perché il problema della spesa è prima di tutto politico

(04 maggio 2012)

Proprio quando sembrava che le mollezze romane stessero stremando perfino un esercito di freddi tecnici e rigorosi bocconiani; mentre il premier vedeva assottigliarsi tassi di fiducia bulgari e dietro di lui si agitava il partito del voto anticipato; bene, proprio a quel punto Monti ha tirato fuori del cappello Enrico Bondi - ieri risanatore di Montedison e Parmalat e domani, si spera, della scassatissima Azienda Italia - affidandogli la mission impossible di tagliare la spesa pubblica. Insomma, il governo dei tecnici commissaria il governo dei ministri tecnici. Con un commissario tecnico. Al tecnico non c'è mai fine.

E però bene, bravo, applausi. Del resto a novembre "l'Espresso" salutava l'esordio di Monti con una copertina che lo trasformava in Mario mani di forbice invitandolo ("Taglia qua") ad abbattere sprechi e privilegi; ma tre settimane fa segnalavamo ("Chi non taglia è perduto") le difficoltà, se non l'impossibilità, del governo di disboscare la giungla pubblica, e la settimana scorsa paventavamo in copertina che non ce la facesse neanche lui, il premier-tecnico, augurandoci che l'irriconoscibile Mister Mario degli ultimi giorni tornasse a essere il Dottor Monti della prima ora. Del resto, senza un drastico taglio di spesa non ci potranno mai essere risorse sufficienti per abbassare le tasse o spingere sugli investimenti. Tutto bene, dunque? Un momento.

Berlusconi & C. non hanno accolto Bondi con un coro di evviva, anzi. Hanno temuto da subito di perdere ulteriormente terreno e centralità e guardato all'appuntamento elettorale di domenica 6 maggio con timori crescenti. Dunque se hanno frenato ieri, al punto da costringere il premier a un colpo di teatro, a maggior ragione freneranno domani.

Il Pd di Pier Luigi Bersani, invece, sostenitore sincero dell'esperimento Monti, ha sempre puntato sul buon esito delle amministrative, e scommesso perfino sulla vittoria di Hollande in Francia per spezzare il tradizionale asse franco-tedesco, offrire all'Italia un ruolo più centrale in Europa e spianare la strada ai sostenitori della crescita. E dunque il Pd favorirà Monti & Bondi, ma - c'è da giurarci - fino a quando il loro lavoro non andrà a toccare delicate aree di consenso.

Fin qui i partiti. Ma evidentemente perfino i tecnici - liberi sì da vincoli elettorali, ma pur sempre legati a doppio filo alla maggioranza politica che li sostiene in Parlamento - non possono più di tanto se alla fine, pur di affondare il coltello dopo mesi di spending review e di appelli al rigore, sono stati costretti ad affidarsi ad altri tecnici, stavolta garantiti non direttamente dai partiti politici ma dagli stessi tecnici che li hanno prescelti.

La spiegazione di tanta evanescenza è semplice e amara, e la sottolinea bene anche Gian Giacomo Migone  ricordando altre stagioni, altre speranze, altre velleità - ma con lo stesso spending reviewer, Piero Giarda - finite nel nulla. Semplicemente, è difficile tagliare perché spesa pubblica e politica sono troppo contigue e ogni intervento drastico può colpire amici, sodàli e poteri vicini, e dunque ogni volta non se ne fa nulla. Casta non morde casta, verrebbe da dire.

Ora tocca al tecnico dei tecnici. Attenzione, però. Questa è davvero l'ultima chance, l'esperimento non potrà conoscere un bis. E se non dovesse riuscire nell'impresa nemmeno Bondi, il Paese verrebbe risucchiato dalle cattive abitudini di sempre con tragica rapidità. Perché il problema della spesa, come tutti sanno, è politico, non tecnico. Di conseguenza, non si può pensare di vivere in eterno di soli tecnici o di affidare a loro il lavoro sporco o difficile, e non per una questione di democrazia e rappresentatività, che pure esiste; ma perché è necessario che le forze politiche si rendano conto che questa operazione di tagli, razionalizzazioni e abolizione di sprechi e privilegi è argomento che deve entrare subito e al primo posto nella loro agenda. Altrimenti i partiti continueranno a perdere consensi e il Paese scivolerà sempre più lontano dall'Europa.

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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Ma i partiti l'hanno capita?
Inserito da: Admin - Maggio 11, 2012, 12:04:57 am
Ma i partiti l'hanno capita?

di Bruno Manfellotto

Tutto il sistema si sta decomponendo. In modo sempre più veloce. Il voto delle amministrative ne è l'ultima prova. Ma nel Palazzo prevale ancora l'immobilismo. E non si riesce a prendere atto di quello che sta accadendo

(10 maggio 2012)

Speriamo che l'abbiano capita. E non pensino che per ricominciare basta scattare una nuova foto a Vasto o saltare su un predellino. Perché ora - proprio come vuole il luogo comune - per i partiti politici nulla più sarà come prima. Davvero. La velocità di decomposizione del sistema è tale che in poche ore sono saltate anche le poche illusioni svogliatamente inseguite per sei mesi. Il quadro che emerge dal voto di maggio è desolante ed è sciocco ripetere che si è trattato di elezioni parziali e poco significative, perché questo vuol dire ostinarsi a non prendere atto della realtà. Questa.

Senza Silvio Berlusconi il Pdl non c'è più: la rivoluzione azzurra del 1994 ha esaurito la sua spinta propulsiva. Senza Umberto Bossi, e senza la sua alleanza politico-finanziaria con il Cavaliere, non c'è più nemmeno la Lega Nord costretta ora a ricominciare dalla roccaforte veronese e sotto la bandiera di Tosi & Maroni. Ed è scomparso perfino il polo di centro, chi l'ha visto?, come riconosce con apprezzabile sincerità il suo stesso azionista di riferimento, Pier Ferdinando Casini, che a questo progetto pensava come alla chiave di volta di ogni futura architettura politica e istituzionale.

In compenso resiste il Pd di Pier Luigi Bersani, perfino a sua insaputa, visto che da qualche parte va ai ballottaggi con il vincitore delle primarie che l'apparato non voleva. A differenza degli altri, insomma, il Pd può ancora vantare uno zoccoluccio duro via via eroso, però, da una sempre più diffusa voglia di astensione anche nelle regioni rosse (in Toscana non hanno votato quattro elettori su dieci). Difficile dire se è stato premiato con il voto il sostegno leale al governo Monti; o bocciata con l'astensione la sua pesante manovra economica.

La sorpresa - se così si può dire per una protesta nata nel 2005 e strutturatasi in movimento nel 2009 - si chiama Beppe Grillo, e a poco serve demonizzarlo senza sforzarsi di capire che cosa comunque segnali. Semplicistico anche catalogarlo tra i frutti amari dell'antipolitica visto che i grillini hanno messo in lista la voglia di amministrare bene; ramazzato consensi a due cifre e si preparano a dare l'assalto al Parlamento: se questa è antipolitica, come chiamare allora l'esercito degli astensionisti?

Per capire davvero, non bastano nemmeno il gioco delle percentuali e l'ingegneria dei flussi elettorali. Uno tsunami sta spazzando via la Prima e la Seconda Repubblica senza che una delle due sia stata opportunamente riformata o ne sia stata immaginata una Terza nuova di zecca. Che i suoi protagonisti non se ne rendano conto e non corrano ai ripari è sorprendente e suicida. Tutto è ormai paralisi e immobilismo. In più, anno dopo anno, grazie a leggi corporative e autoreferenziali e a rimborsi elettorali senza riferimento con la realtà, lo Stato ha via via ceduto spazi e poteri alle forze politiche e alle loro nomenklature. Così, se dovessimo assistere ora al dissolvimento di partiti sempre più deboli e frammentati, la macchina statale faticherebbe a recuperare poteri, capacità, credibilità.

Forse conscio di questa situazione, e magari condividendo la stessa lettura dei fatti, Giorgio Napolitano ha cercato di rimediare tentando l'ultima carta, lanciando in campo l'ultima risorsa: la tecnocrazia matura, credibile, preparata. E non è un caso che ora il fenomeno Grillo sia riuscito a far inquietare perfino lui mettendo alla prova la sua flemma anglo-napoletana.

Come tutti i movimenti di protesta, il grillismo porta con sé un salutare vento di rinnovamento, ma interpreta anche lo spirito demagogico di chi sogna di abbattere Monti, il suo governo, le sue tasse e il suo rigore senza crescita. Solo che spazzata via anche quest'ultima zattera, non resterebbe più niente. E anche al netto dei guai economici e finanziari il nostro destino assomiglierebbe molto di più al caos greco che all'orgogliosa rivendicazione della politica celebrata con le bandiere e i cori nelle strade di Parigi.

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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Ma i partiti l'hanno capita?
Inserito da: Admin - Maggio 19, 2012, 10:45:35 am
Politica

Ma i partiti l'hanno capita?

di Bruno Manfellotto

Tutto il sistema si sta decomponendo. In modo sempre più veloce.

Il voto delle amministrative ne è l'ultima prova. Ma nel Palazzo prevale ancora l'immobilismo.

E non si riesce a prendere atto di quello che sta accadendo

(10 maggio 2012)

Speriamo che l'abbiano capita. E non pensino che per ricominciare basta scattare una nuova foto a Vasto o saltare su un predellino. Perché ora - proprio come vuole il luogo comune - per i partiti politici nulla più sarà come prima. Davvero. La velocità di decomposizione del sistema è tale che in poche ore sono saltate anche le poche illusioni svogliatamente inseguite per sei mesi. Il quadro che emerge dal voto di maggio è desolante ed è sciocco ripetere che si è trattato di elezioni parziali e poco significative, perché questo vuol dire ostinarsi a non prendere atto della realtà. Questa.

Senza Silvio Berlusconi il Pdl non c'è più: la rivoluzione azzurra del 1994 ha esaurito la sua spinta propulsiva. Senza Umberto Bossi, e senza la sua alleanza politico-finanziaria con il Cavaliere, non c'è più nemmeno la Lega Nord costretta ora a ricominciare dalla roccaforte veronese e sotto la bandiera di Tosi & Maroni. Ed è scomparso perfino il polo di centro, chi l'ha visto?, come riconosce con apprezzabile sincerità il suo stesso azionista di riferimento, Pier Ferdinando Casini, che a questo progetto pensava come alla chiave di volta di ogni futura architettura politica e istituzionale.

In compenso resiste il Pd di Pier Luigi Bersani, perfino a sua insaputa, visto che da qualche parte va ai ballottaggi con il vincitore delle primarie che l'apparato non voleva. A differenza degli altri, insomma, il Pd può ancora vantare uno zoccoluccio duro via via eroso, però, da una sempre più diffusa voglia di astensione anche nelle regioni rosse (in Toscana non hanno votato quattro elettori su dieci). Difficile dire se è stato premiato con il voto il sostegno leale al governo Monti; o bocciata con l'astensione la sua pesante manovra economica.

La sorpresa - se così si può dire per una protesta nata nel 2005 e strutturatasi in movimento nel 2009 - si chiama Beppe Grillo, e a poco serve demonizzarlo senza sforzarsi di capire che cosa comunque segnali. Semplicistico anche catalogarlo tra i frutti amari dell'antipolitica visto che i grillini hanno messo in lista la voglia di amministrare bene; ramazzato consensi a due cifre e si preparano a dare l'assalto al Parlamento: se questa è antipolitica, come chiamare allora l'esercito degli astensionisti?

Per capire davvero, non bastano nemmeno il gioco delle percentuali e l'ingegneria dei flussi elettorali. Uno tsunami sta spazzando via la Prima e la Seconda Repubblica senza che una delle due sia stata opportunamente riformata o ne sia stata immaginata una Terza nuova di zecca. Che i suoi protagonisti non se ne rendano conto e non corrano ai ripari è sorprendente e suicida. Tutto è ormai paralisi e immobilismo. In più, anno dopo anno, grazie a leggi corporative e autoreferenziali e a rimborsi elettorali senza riferimento con la realtà, lo Stato ha via via ceduto spazi e poteri alle forze politiche e alle loro nomenklature. Così, se dovessimo assistere ora al dissolvimento di partiti sempre più deboli e frammentati, la macchina statale faticherebbe a recuperare poteri, capacità, credibilità.

Forse conscio di questa situazione, e magari condividendo la stessa lettura dei fatti, Giorgio Napolitano ha cercato di rimediare tentando l'ultima carta, lanciando in campo l'ultima risorsa: la tecnocrazia matura, credibile, preparata. E non è un caso che ora il fenomeno Grillo sia riuscito a far inquietare perfino lui mettendo alla prova la sua flemma anglo-napoletana.

Come tutti i movimenti di protesta, il grillismo porta con sé un salutare vento di rinnovamento, ma interpreta anche lo spirito demagogico di chi sogna di abbattere Monti, il suo governo, le sue tasse e il suo rigore senza crescita. Solo che spazzata via anche quest'ultima zattera, non resterebbe più niente. E anche al netto dei guai economici e finanziari il nostro destino assomiglierebbe molto di più al caos greco che all'orgogliosa rivendicazione della politica celebrata con le bandiere e i cori nelle strade di Parigi.

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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Stavolta non ha vinto nessuno
Inserito da: Admin - Maggio 27, 2012, 04:54:34 pm
Editoriale

Stavolta non ha vinto nessuno

di Bruno Manfellotto

Il Pdl è svanito, la Lega non c'è più, il centro chi l'ha visto? Mentre il Pd non riesce a intercettare grillini e astensionisti.

Invece sopravviverà e vincerà solo chi saprà offrire un'alternativa al deserto che c'è

(24 maggio 2012)

Per una volta si può dire che le elezioni non le ha vinte nessuno, anzi che le hanno perse tutti. A destra, a sinistra, al centro. E il fatto che ora i contendenti non ne vogliano prendere atto e si muovano sulla scena come pugili suonati rende tutto ancora più surreale. Il Pdl, lanciato da Berlusconi una sera di novembre del 2007 dall'alto di un predellino, non esiste più. Frantumato, dissolto, spazzato via: a Parma, dove aveva governato per dodici anni; in Sicilia, dove solo quattro anni fa aveva fatto cappotto; perfino a Lucca, bianca dal dopoguerra, e berlusconiana da vent'anni. Una Waterloo. Della Lega, poi, rotta l'alleanza con il cavaliere che aveva garantito soldi e poltrone, resta solo il ricordo di laute paghette e lauree albanesi. In quanto a Casini, il sogno inseguito da anni di un nuovo Centro lo ha dato per sfumato lui stesso. Via Twitter.

Si dirà che un vincitore c'è e si chiama Beppe Grillo, e certo non gli si può negare l'onore della scena. Ma forse alla fine ha trionfato più per il messaggio che manda ai vecchi partiti che per aver strappato al centro destra una città simbolo come Parma. Osservazione che si potrebbe fare anche a proposito dell'astensione, di gran lunga la forza più consistente del dopo elezioni: a Genova sei elettori su dieci sono rimasti a casa.

Ed è certo sincero Pierluigi Bersani quando guarda i numeri e si dichiara vincitore "senza se e senza ma", ma altrettanto miope visto che fa finta di ignorare ciò che accade intorno a lui. Il Pd mostra ancora vitalità, capacità di alleanze e una dose di realpolitik tale da vincere qua e là appoggiando un candidato che non voleva; ma il suo zoccolo duro è diventato uno zoccolino che conta sempre meno elettori, da Alessandria a Palermo. Mentre non riesce a intercettare i voti persi da un avversario alla disfatta. Alla faccia dello sfondamento al centro...

Ma fin qui siamo ancora alle alchimìe politiche. Ben più grave, specie per una forza che voglia interpretare il paese, è non essersi accorti che i Pizzarotti arrivano da lontano. Beppe Grillo sbarca su "Time" nel 2005 presentato come un eroe che lotta contro ingiustizie e violazioni di diritti. L'anno dopo, lo stesso in cui "La Casta" batte ogni record di vendite, percorre l'Italia da cima a fondo; nel 2008 lancia il "Vaffa day"; nel 2009 fonda il Movimento 5 Stelle. Intanto molti guardavano non la luna ma il dito che l'indicava, chiedendosi se Grillo fosse di destra o di sinistra e non perché migliaia di uomini e donne affollavano le piazze, indignandosi per gli insulti sparati a raffica e non investigando su ciò che di più profondo percorreva la società italiana.

Possibile che in questo fenomeno di inizio millennio non ci sia proprio niente che allarmi i partiti? Eppure dovrebbero coglierne i segni. Il suo, per esempio, non è un partito ma un movimento; non dispone di apparati costosi né ha bisogno di faraoniche campagne elettorali; parla via Twitter e non in tv; usa linguaggi diretti ed espliciti; non ha un leader ma un profeta che si guarda bene dal correre a festeggiare la vittoria a Parma; non pensa che la politica sia una professione, e se deve candidare qualcuno, non dà la caccia a un banchiere ma a un bancario.

Non è furba demagogia, non è solo forma. Interpreta piuttosto, pur se a modo suo, la diffusa esigenza dei cittadini di riappropriarsi della politica, dello spazio occupato da partiti diventati ai loro occhi macchine mangiasoldi, lobby per lottizzazioni al di là del merito, comitati elettorali strutturati solo per conservare il potere di chi già ce l'ha, lontani dal fare un passo indietro. E nel momento chiave, quello della nascita del governo Monti, essi sono apparsi deboli, costretti a farsi da parte e incapaci di spiegare il senso del sacrificio che pure si apprestavano a sostenere né di far intravedere un futuro vivibile per tutti. Se così stanno le cose, scomparirà chi non saprà prendere atto; sopravviverà stancamente chi cercherà di capire; vincerà chi sarà in grado di offrire a protestatari e astensionisti un'alternativa valida al deserto che vedono dinanzi a sé.
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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Magari è tornato solo per la Rai
Inserito da: Admin - Luglio 11, 2012, 10:05:07 am
Magari è tornato solo per la Rai

di Bruno Manfellotto

Berlusconi c'è ancora, nonostante la profezia di Montanelli. Anzi è tornato, forse solo per un affare di tv, o per qualcosa di più.

E c'è il berlusconismo che ha seminato. Del quale la politica dovrebbe liberarsi

(02 luglio 2012)

Ogni tanto torna alla mente Indro Montanelli. Sovviene, per esempio, la sua profezia su Silvio Berlusconi - che aveva conosciuto assai bene come editore del suo "Giornale" - quando lo paragonò a una fastidiosa malattia dalla quale l'Italia sarebbe guarita solo quando avesse accettato la sua formidabile presa di potere come una cura necessaria. Per agire, però, il vaccino ci ha messo una ventina d'anni, diciassette per la precisione, e vai a sapere se davvero è riuscito a debellare del tutto il virus...

E si ripensa a Indro anche perché rivedere Silvio in blu-nero che scende dal suo bireattore atterrato in Costa Smeralda con giovani fanciulle in fiore al seguito, e poi entrare a Palazzo Chigi per un vertice con Monti, e poi ricandidarsi - modello Putin-Medvedev - a fare non il premier ma il ministro dell'Economia di un ipotetico governo Alfano  e magari a qualcosa di più alto ancora, fa ricordare la definizione che Montanelli coniò per Amintore Fanfani e che ha ispirato la copertina de "l'Espresso": il Rieccolo.

C'è da dire che rivedere quel faccione ghignante ci ripiomba indietro di dieci anni, o forse di un secolo: davvero sembra il simbolo di una farsa lontana che non può ripetersi di nuovo se non in forma di tragedia.

Ombre lontane. Come quella di Mario Chiesa che, si scopre ora, non ha mai smesso di fare quello che faceva agli albori di Tangentopoli 

E allora, potrebbe chiedere qualcuno, perché mai avete sbattuto Berlusconi in prima pagina? Perché se c'è (ancora) lui - tornato in pista magari solo per bloccare le nomine Rai e lasciarla com'è, provincia del suo impero - c'è pure un berlusconismo strisciante che l'uomo ha seminato, e che nemmeno i sette mesi di Monti sono riusciti a eliminare. Per liberarsene davvero ce ne vorrà di tempo. E dunque è giusto mettere in guardia dal pericolo. Che della voglia di elezioni anticipate e di crisi economica si alimenta.

Il neoberlusconismo agisce sotto forma di populismo demagogico in più modi. C'è quello doc che fa chiedere a B. di abolire l'euro, cancellare i debiti con l'Europa e rompere definitivamente con Merkel (magari per abbracciare Putin). Aiuto.

C'è quello antiberlusconiano nella sostanza e invece berlusconiano nella forma di Beppe Grillo che interpreta un sacco di aspirazioni condivisibili, ma poi sogna di abolire d'un colpo i partiti, la moneta unica e le banche. Ma come si fa!

C'è il populismo dipietrista costretto ora, dopo brillanti esordi, a inseguire e scavalcare il grillismo.

C'è il populismo nuovista, più sottile e certo meno dannoso, di Matteo Renzi, abilissimo a intercettare i segnali della base moderata e di sinistra che invoca parole d'ordine e facce nuove, ma che poi, come gli altri, fatica a entrare nel merito delle proposte concrete, delle cose da fare, dei nemici da combattere (quando non siano i notabili del suo stesso partito, il Pd).

E c'è infine il populismo post Monti, al quale non sono estranei gli stessi partiti tradizionali, delle mille liste, delle facce nuove come che sia, dei personaggi a sorpresa.

Ed è questo che colpisce davvero. Che chi fa politica di professione non abbia compreso fino in fondo, nonostante i mille segnali che vengono dal profondo del Paese, come e perché sia montata una generalizzata sfiducia nei loro confronti e provi a rispondere proprio con quello stile e quei comportamenti che avevano seppellito la politica sostituendola con il vuoto. Talvolta con l'inutile e vana arroganza. Come quella che ha spinto il Parlamento a rinviare ancora una volta la norma che metteva in discussione le altissime pensioni degli alti dirigenti della pubblica amministrazione, pochi mesi dopo che il governo aveva tagliato quelle dai mille euro in su.

Pochi giorni fa, su "Repubblica", Miguel Gotor ha ricordato le centinaia di giovani del Pd che cercano di ridare vigore a una politica ingrigita e che invocano non cascami del populismo berlusconista, ma aria fresca e idee nuove. Chi porterà l'una e sfornerà le altre, vince.

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da lespresso.it


Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Eppure ancora non si fidano
Inserito da: Admin - Luglio 11, 2012, 10:06:03 am
Eppure ancora non si fidano

di Bruno Manfellotto

Concluso il vertice di Bruxelles, si ricomincia dai tagli alla spesa pubblica, alcuni coraggiosi, altri meno.

Ma intanto l'Europa già si chiede che cosa succederà tra un anno e se chi verrà dopo Monti si comporterà come Monti oppure no...

(06 luglio 2012)

Sono state sufficienti poche ore perché la retorica dei Supermario si squagliasse come neve al sole di luglio e le ardite metafore sull'Italia capace di battere la Germania sia a Varsavia sia a Bruxelles lasciassero spazio agli strepiti sindacali per gli annunci di tagli alla spesa pubblica, alle convulsioni dei partiti incerti perfino se cancellare il Porcellum e alle velleità parlamentari, svelate da "Repubblica", di convocare un'assemblea costituente per improbabili riforme costituzionali. Un modo per buttare la palla in tribuna. Tornano alla mente, incubi mai rimossi della prima Repubblica, la bicamerale di Massimo D'Alema e le pompose commissioni Iotti-De Mita e Bozzi, tutte immancabilmente risoltesi in nobili chiacchiere e in un penoso nulla di fatto. Da non credere. Spenti i riflettori ucraini, insomma, si torna ai numeri del Pil e del debito pubblico sperando che gli accordi raggiunti tra squilli di fanfare segnino davvero un passo avanti e non solo l'ennesimo round dell'eterno braccio di ferro con la signora Merkel e con i riluttanti Paesi del nord Europa. Nell'attesa, è d'obbligo fare i conti con gli impegni presi. Il primo dei quali, firmato da Giulio Tremonti un anno fa e orgogliosamente sottoscritto da Mario Monti al momento del suo arrivo a Palazzo Chigi, riguarda il raggiungimento del pareggio di bilancio in anticipo: entro il 2013.

SOLO CHE LA RECESSIONE s'è dimostrata nel frattempo più dura del previsto, per non dire dei nuovi impegni di spesa imposti dal terremoto in Emilia. Insomma, già mancano all'appello 6 miliardi di euro per quest'anno (e per il prossimo chissà). Da recuperare o con un aumento dell'Iva (i cui effetti depressivi sui consumi sono facilmente immaginabili) o con la cura Bondi di tagli alla spesa pubblica che va sotto il nome di spending review. Ed è su questo dilemma che si sono dissolti i sogni di gloria nati sui campi di calcio e trasferiti sul terreno della politica dalla facile metafora di una generale palingenesi. Perché rinviata la decisione sull'Iva è stata scelta la strada impervia dei tagli di spesa. E quando si vanno a toccare - con la facile accetta o con il coraggio del bisturi - farmaci, sanità e burocrazia statale, o province e comuni, il dissenso esplode.

PER NON DIRE DEL ROBUSTO capitolo "acquisto di beni e servizi", che si traduce per la pubblica amministrazione in una spesa di 140 miliardi di euro l'anno, e che non a caso compare nel decreto di nomina del super consulente Bondi a spiegarne missione e finalità: è proprio lì, in quella oscura voce di bilancio, che si nascondono da sempre sprechi, appalti di favore, malaffare, piccola e grande corruzione. Tutti ingredienti che, come si sa, alimentano e moltiplicano la spesa pubblica improduttiva. Ma a toccare i quali si scatenano ribellioni, lobby, difese corporative. Insomma, come titola "l'Espresso", non è finita qui. Ora Monti dovrà fare i conti con i mal di pancia - espressione che non ama, ma che non può cancellare - dei suoi alleati di governo e con i dubbi dei partner europei. Da Berlino ad Amsterdam, infatti, guardano ogni mossa, scrutano presente e futuro, ascoltano la rabbia sindacale e già si chiedono che cosa potrà succedere domani, dopo le elezioni, ad aprile nel 2013, quando governo e premier non ci saranno più (e non ci sarà più nemmeno il suo mentore Giorgio Napolitano) e bisognerà trovare un'altra maggioranza, che dovrà confermare le misure di Monti, e magari tagliare ancora, affrontare rischi di impopolarità, scongiurare dissensi sociali e recessione economica... Viene da pensare che la facile metafora che ci ha perseguitato per tre giorni potrebbe anche essere letta alla rovescia e rivelare, per esempio, che alla finale l'Italia di Cesare Prandelli c'è sì sorprendentemente arrivata, con i suoi giovani vogliosi e i suoi esperti riciclati, solo che a quel punto, come ha sussurrato il mister a Daniele De Rossi dopo un umiliante quattro a zero, «eravamo cotti».

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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Quando D'Alema chiese a Monti...
Inserito da: Admin - Agosto 10, 2012, 07:52:00 pm
Editoriale

Quando D'Alema chiese a Monti...

di Bruno Manfellotto

Qui si racconta una storia inedita che ha per protagonisti un professore e un politico di lungo corso e per scena un Paese irrisolto e in crisi.
Però il finale ancora non c'è, perché ad alcune domande non è stata data finora risposta

(02 agosto 2012)

La vicenda che qui si racconta si snoda lungo tre capitoli, il primo finora inedito, l'ultimo che si scriverà solo nelle prossime ore. Ricostruirla ora che già siamo in campagna elettorale - che si voti ad aprile o prima - e si tenta un primo bilancio del lavoro del governo, una "Monti review", come l'abbiamo chiamata in copertina, è assai istruttivo. Specie pensando alla speranza coltivata da molti, e soprattutto nelle cancellerie d'Europa, che a succedere a Monti sia lo stesso Monti.

La storia comincia a Milano, più o meno nell'autunno del 2010, a casa di un noto professionista. Approfittando della sua amicizia, Massimo D'Alema gli aveva chiesto di incontrare riservatamente Mario Monti, allora presidente dell'Università Bocconi ed editorialista del "Corriere della Sera" dalle cui colonne non risparmiava critiche al governo Berlusconi. Accusandolo per esempio di «illusionismo»: «... di fronte al magnetismo comunicativo del premier, molti credono che l'Italia - oltre ad avere, anche per merito del governo, riportato indubbiamente meno danni di altri Paesi dalla crisi finanziaria - davvero non abbia gravi problemi strutturali irrisolti, anche per insufficienze di questo e dei precedenti governi. Ma, come ha detto il presidente Napolitano, «non possiamo consentirci il lusso di discorsi rassicuranti, di rappresentazioni convenzionali del nostro lieto vivere collettivo». Appunto.

PERCHE', DUNQUE, QUELLA CENA? D'Alema spiegò al suo interlocutore che il governo Berlusconi si stava avviando alla fine, che la crisi finanziaria, il caso bunga-bunga e il discredito che ne era derivato nel mondo ne avrebbero accelerato la consunzione e che la rottura con Fini sarebbe stato il grimaldello per rompere un equilibrio ventennale. E quindi fine dell'era berlusconiana, nascita di un nuovo governo. Fu a questo punto che D'Alema pose la domanda che gli stava più a cuore: «Sarebbe disponibile ad assumere responsabilità politiche e di governo?». Un altro professore, com'era già stato con Romano Prodi.

La risposta fu immediata ed esplicita. La disponibilità ci sarebbe stata, certo che sì, argomentò Monti, ma a tre condizioni: che l'ingresso in politica non avvenisse attraverso una campagna elettorale; che a chiamarlo all'eventuale incarico fosse il presidente della Repubblica; e, in quel caso, che a sostenere il suo sforzo fosse poi una maggioranza molto ampia, che andasse al di là delle tradizionali coalizioni di centro destra e centro sinistra. Chiarissimo.

NON SAPPIAMO se le avances di D'Alema nascessero da iniziativa personale o la sua fosse piuttosto una missione per conto terzi; sappiamo invece che le cose non sarebbero precipitate così rapidamente e che il ciclone Fini sarebbe stato vanificato dalla compravendita di deputati da parte di Berlusconi, il cui governo si sarebbe trascinato ancora per mesi. Ma quando nel novembre 2011 sarà Giorgio Napolitano a chiudere la parentesi berlusconiana e ad avere l'intuizione di un governo tecnico-politico - secondo capitolo della nostra storia - ecco quelle tre condizioni rispuntare: per Mario Monti non ci sarebbe stata campagna elettorale, né ora né mai, grazie all'accorta trovata della nomina a senatore a vita; una settimana dopo, l'incarico di formare il governo gli sarebbe stato offerto non su indicazione dei partiti, ma su proposta del Capo dello Stato; e a sostenerlo sarebbe accorsa una maggioranza ampia, "strana": centro, sinistra e destra. ABC.

Perché dunque una vicenda "istruttiva"? Perché ora che si riparla di elezioni, anticipate o no, ecco avvicinarsi la terza puntata del romanzo, che però ricomincia più o meno da due anni fa: i partiti sono pronti o no a spendere il nome di Monti per il governo che verrà? E il professore accetterebbe di comparire come candidato premier in una lista a suo sostegno? Il Capo dello Stato che sceglierà il premier incaricato agirà di sua iniziativa o su indicazione dei partiti? E a farlo sarà Napolitano o il suo successore, insomma si voterà ad aprile o prima? Sono le stesse domande che Hollande, Obama, Merkel, Putin, Katainen rivolgono a Monti appena lo vedono. E alle quali non è ancora possibile rispondere.

 
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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. L'Italia, una fidanzata in coma
Inserito da: Admin - Settembre 15, 2012, 11:03:04 am
Editoriale

L'Italia, una fidanzata in coma

di Bruno Manfellotto

Si intitola così il nuovo film-documentario firmato da Bill Emmott. Un'analisi impietosa del nostro Paese tra politica, mafie, burocrazia e casta. Tutto vero, purtroppo. E nessuno sembra volerne uscire

(03 settembre 2012)

Italia, agosto 2012. Cristina Odone, giornalista anglo-piemontese, racconta sul "Sunday telegraph" le sue vacanze nella terra natìa. Il rituale si ripete da anni, alla ricerca delle antiche radici della famiglia, ma a differenza del passato, stavolta - ha scritto - ha trovato i banchi delle salumerie tristemente spogli di delizie locali, le case sfitte, le sagre disertate e nelle fresche serate in piazza le costose bande di paese sostituite da un più sobrio quanto squallido karaoke. Crisi. Quando, dopo sette giorni, Cristina è tornata a Londra e ha rivisto il Terminal 5 dell'aeroporto le è apparso come la porta d'ingresso alla dolce vita. Da via Veneto a Heatrow.

QUALCHE SETTIMANA PRIMA, "El Pais", brillante quotidiano di Madrid, capitale di un paese che certo non se la passa meglio di noi, aveva mandato un inviato in Italia, anzi in Sicilia, nella convinzione di trovare lì, pur se esagerati, tutti i mali di casa nostra. Leggiamo qua e là: «La Sicilia deve ai suoi creditori sette miliardi di euro e non ha soldi per continuare a pagare dipendenti e pensionati. La sua crisi di liquidità è come un promemoria delle fragilità nazionali, mentre il presidente del Consiglio Monti lotta per evitare un'operazione salvataggio da parte dell'Europa che finirebbe imponendo condizioni durissime, le stesse che hanno messo in ginocchio Grecia e Portogallo». Difficile smentire.

E più avanti: «Se l'Isola è metafora esasperata di uno Stato piegato dal suo immenso debito (123 per cento del prodotto interno lordo), ragione per la quale Monti si appresta a tagliare il settore pubblico, la Sicilia che si prepara a votare a ottobre riflette il caos che regna nella politica nazionale: il Pd, di centro sinistra, si è alleato con i cattolici del centro. E il berlusconiano Pdl, che qui ha superato il 53 per cento alle ultime elezioni politiche, appare lacerato da decine di correnti e incapace di scegliere un candidato». Qualcosa da obiettare?

Devo poi alla cortesia di Bill Emmott, professionista ineccepibile e indipendente, ex direttore dell'"Economist" (sua la celebre copertina su Berlusconi "Unfit to lead Italy", inadatto a governare l'Italia,), collaboratore de "l'Espresso", se ho potuto vedere in anteprima la copia di lavoro di un film-inchiesta sull'Italia del dopo Berlusconi, girato da Annalisa Piras, in cui Bill fa da Virgilio alla scoperta della Buona e della Mala Italia in un ideale seguito cinematografico del suo libro "Forza, Italia". Inutile nascondere che il racconto, ricco di interviste di qualità e di documenti originali, preciso quanto violento, fa gelare il sangue nelle vene: forse deve sentirsi così un avvocato di Chicago quando gli proiettano "Scarface".

L'analisi è fredda, implacabile, impietosa fin dal titolo, lo stesso di una canzone famosa negli anni Ottanta - "A girlfriend in a coma" , una fidanzata in coma, l'Italia ovviamente - e mette in mostra senza remore le sue contraddizioni laceranti: mafie e capolavori del paesaggio e della cultura, successi industriali e fallimenti burocratici, eccellenze intellettuali e miopi privilegi di casta.

LA RESIDUA SPERANZA FINALE è affidata alla storia di alcuni giovani italiani costretti, come i loro nonni, a emigrare all'estero per trovare lavoro e al loro appello perché il Paese dove sono nati cambi al punto da farli tornare a casa. Esca miracolosamente dal coma. Da vedere, quale che sia la reazione che procurerà in ciascuno di voi. Anche solo per sapere come ci giudicano dall'estero, cosa pensano lontano da qui di un paese eternamente in bilico, tuttora incerto tra la cura drastica affidata a Mario Monti e un ritorno ai rituali politici del secolo che fu.

Poi, spento il dvd sono partite le immagini della tv accompagnate dalle parole che hanno contrappuntato l'agosto più caldo del secolo: stalinisti e lombrosiani, fascisti e vaffa, falliti e piduisti, comunisti e zombie, porcellum sì porcellum no, elezioni anticipate a novembre o a marzo. E Berlusconi che torna in campo per sfuggire ai suoi processi. Cinquanta sfumature di noia. O di incoscienza.

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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Dite tutta la verità ai minatori
Inserito da: Admin - Settembre 16, 2012, 04:29:33 pm
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Editoriale

Dite tutta la verità ai minatori

di Bruno Manfellotto

E pure ai lavoratori dell'Alcoa. Spiegare per esempio che una cosa è la difesa sacrosanta del lavoro, altra tenere in vita imprese obsolete. Ma per farlo bisognerebbe avviare una seria politica industriale. Che inseguiamo da anni. Invano

(13 settembre 2012)

Bisognerebbe raccontare la verità ai lavoratori dell'Alcoa e ai minatori della Carbosulcis. Dire loro che le possibilità di evitare un giorno la chiusura degli impianti per l'acciaio e delle miniere di carbone, o di convincere qualche imprenditore a subentrare nel primo caso agli americani e nell'altro alla Regione Sardegna (che invano cerca compratori da quando, nel 1996, l'Eni mollò la patata bollente) sono ridotte al lumicino. E spiegare, come ha già fatto Giorgio Napolitano, che una cosa è difendere i posti di lavoro, altra è tenere in vita artificialmente imprese antieconomiche e obsolete. Sarebbe ora, insomma, che si inseguissero soluzioni possibili, compatibili, capaci di creare posti di lavoro stabili e duraturi. L'unico modo serio di rispondere alla rabbia operaia.

Come già nel caso dell'Ilva di Taranto, anche queste due storie così italiane scompaiono e ricompaiono come fiumi carsici, figlie di anni di colpevole inazione. Nell'illusione che tirar fuori soldi (pubblici) e trasmettere il problema ai posteri bastasse a risolverlo. Gli americani dell'Alcoa, per esempio, si accollarono la gestione degli impianti di Portovesme solo con l'impegno che l'Enel avrebbe fornito loro energia elettrica con un maxi sconto totale del 65 per cento (e per aggirare il no dell'Europa ad aiuti di Stato c'è voluta nel 2010 una "legge ad Alcoam"). Naturalmente la differenza è stata pagata dagli italiani con le bollette: due miliardi e mezzo di euro dal 1996 a oggi, insomma 200mila euro l'anno per ogni lavoratore, diretto e dell'indotto.

PER NON DIRE DEL MERCATO. Alluminio e acciaio risentono della congiuntura, tanto che i prezzi di vendita si sono già ridotti del 30 per cento. Per questo l'Alcoa ha deciso di chiudere lo stabilimento sardo e di spostare la produzione dove costa meno. Come impedirglielo? Negli anni passati, però, quando i prezzi erano alle stelle, gli stessi americani di soldi in Sardegna ne hanno fatti a palate, ma nessuno ha preteso, che so?, che in cambio investissero parte di quei profitti per rinnovare gli impianti e aumentarne così competitività e produttività. Tutti zitti. Come ora nessuno chiede loro di bonificare l'area che vogliono abbandonare. Sulla quale sorge un impianto ormai superato e dunque difficile da vendere. Se qualcuno dovesse subentrare, il problema si ripresenterebbe presto tale e quale.

ANCORA PIU' PARADOSSALE il caso delle miniere di carbone, antieconomiche da sempre (e comunque destinate per decisione Ue, come tutte le altre miniere d'Europa, a chiudere entro il 2018 qualora non si sostengano da sole). Dal 1996 a oggi la Regione Sardegna, che ne è proprietaria, ha speso oltre 600 milioni di euro per conservare il posto a circa 500 lavoratori (solo nel 2011 sono state registrate perdite per 28 milioni, nonostante aiuti pubblici per 35 milioni) e far estrarre un carbone che non può essere esportato perché troppo inquinante e dunque da tutti bandìto (tranne che nella Sardegna pur cara agli ambientalisti), che produce meno energia di quello cinese che costa meno della metà e contiene molto meno zolfo.

L'unico ad acquistarlo, obbligato dal governo, è l'Enel che per inquinare di meno lo brucia nella centrale di Portovesme dopo averlo mescolato a carbone meno solforoso di importazione. Stando così le cose, sperare che qualche privato compri è arduo, né sembra praticabile la strada di una nuova centrale a carbone pulito (strada alla quale pensano in Francia dove vorrebbero riaprire miniere chiuse da anni) visto che, come spiegano i tecnici, grazie a investimenti milionari si possono ridurre le emissioni di anidride carbonica, ma non lo zolfo, che è il vero male del carbone sardo.

Insomma, tra superficialità, illusioni e false promesse sono stati gettati al vento milioni di euro, circostanza che ha spinto Alessandro Penati a scrivere su "Repubblica" che, per paradosso, sarebbe stato meglio chiudere tutto e dare un milione di euro a ogni minatore: che avrebbe potuto comprarsi una casa e magari investire il resto in una nuova attività. Rimediando a ciò che né lo Stato né la Regione hanno mai saputo fare: studiare una politica industriale e preparare un'alternativa per il futuro.

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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. La responsabilità di Marchionne
Inserito da: Admin - Settembre 29, 2012, 10:56:17 am

Opinioni

La responsabilità di Marchionne

di Bruno Manfellotto

Sergio l'Americano fa di mestiere il manager, ma non può dimenticare che la Fiat è stata foraggiata per anni con soldi pubblici.
Una sorta di welfare. Che ora impone a lui e allo Stato il rispetto di alcuni impegni

(20 settembre 2012)

Basterebbe, e naturalmente lo si dice con un sorriso, aver letto "l'Espresso". Giusto due anni fa in copertina, sotto il faccione di un Marchionne sornione assai, campeggiava la scritta "Il sovversivo": gli si dava cioè atto di aver preso in cura un'azienda decotta, tecnicamente fallita da anni, e di battersi non solo per vincere una scommessa industriale più o meno impossibile, ma per stabilire nuove regole del gioco sindacali e politiche. L'uomo, proprio come càpita ai sovversivi, già allora suscitava plauso incondizionato o incontenibile rigetto.

Un anno dopo, quando il progetto Fabbrica Italia si andò chiarendo, "l'Espresso" mise di nuovo Marchionne in copertina titolando però "Fabbrica Italiana Automobili Detroit". Dal Lingotto alla Chrysler, qui le perdite lì i guadagni. E di conseguenza il fantasma della chiusura di un paio di stabilimenti italiani. Insomma, tutto era già scritto, annunciato, comprensibile.

EPPURE NULLA ACCADDE, tutto si lasciò fare, tra chi esaltava il manager e chi si chiedeva più prudentemente quale fosse il piano industriale della Fiat finanziariamente risanata, ma vittima di un inarrestabile calo delle vendite in Italia e in Europa, e perché mai essa tardasse a tirar fuori nuovi modelli capaci di competere con Volkswagen, Audi, Peugeot, Toyota...

E dunque sorprende, e un po' fa rabbia, che la questione riemerga solo ora, perché per due anni se ne sono bellamente disinteressati sia Berlusconi sia il suo fido ministro Romani; e non hanno mosso un dito in dieci mesi di governo tecnico - fino all'annuncio di un incontro in extremis per sabato 22 settembre - né l'economista Fornero, né il post banchiere Passera e nemmeno il professor Monti, ex consigliere d'amministrazione della Fiat. In nome del libero mercato, I suppose, o perché presi da cose più urgenti.

Stupisce insomma che il problema Fiat esploda solo dopo l'affondo di Della Valle e che in tanti si accontentino di spiegarlo guardando altrove: forse anche Diego, ironizzano, condivide l'appello di Alessandro Penati dalle colonne di "Repubblica" perché la Fiat si disfi delle partecipazioni non strategiche, come quelle nella "Stampa" e soprattutto nel "Corriere della Sera"...

ALLA FINE, E' PLAUSIBILE, la Fiat resterà in Italia, ma soffrendo e a fatica perché la palla al piede del mercato locale vincola i conti del gruppo molto più di quanto accada per tutte le altre case automobilistiche concorrenti: vado all'estero perché i profitti che faccio laggiù servono a ripagare le perdite in Italia, ha spiegato Marchionne al direttore di "Repubblica" Ezio Mauro. E su questo poco si può fare perché, come ha ricordato il premier: «Non posso certo essere io a dire a un manager dove allocare le risorse della sua azienda». Vabbè, però dovrebbe sapere almeno dove vanno quelle risorse, e quali siano le prospettive del gruppo visto che questo presidia l'ultimo grande settore industriale del Paese che ha già visto trasmigrare siderurgia e informatica, chimica e alimentare.

Per lasciarsi le mani libere, Marchionne ha rifiutato nuovi aiuti di Stato, ma non può certo dimenticare che il suo gruppo ne ha incassati per anni. E' stata una forma di welfare industriale, pratica che peraltro Marchionne conosce assai bene. Prima di cedere alla Fiat la Chrysler, decotta e immobile da anni, e di affidarla alle sue cure, infatti, l'amministrazione Obama ha impegnato nell'operazione milioni di dollari e poi ne ha seguito conti e andamento, fino a consigliare a Sergio l'americano di chiudere un paio di stabilimenti Fiat in Italia...

In nome del welfare industriale entrambe le parti sono chiamate al massimo di responsabilità sociale, visti i tanti denari pubblici spesi finora. Con responsabilità lo Stato crea le condizioni, il manager decide. E se il compito dell'uno è produrre ricchezza per la sua azienda, il dovere dell'altro è sapere che cosa veramente vuole fare la Fiat per salvaguardare il tessuto industriale del Paese. Che significa lavoro, ricerca, futuro.

   
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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. È che in politica girano troppi soldi
Inserito da: Admin - Ottobre 05, 2012, 03:45:28 pm
Editoriale

È che in politica girano troppi soldi

di Bruno Manfellotto

Finanziamenti, vitalizi, rimborsi, auto blu... Un diluvio di soldi pubblici nelle tasche dei partiti. Così l'attività politica è diventata una ricca rendita per i più forti e spregiudicati. E la sinistra ha taciuto troppo a lungo

(01 ottobre 2012)

Ci sarebbero dunque ostriche di destra e di sinistra, come lascia intendere l'ineffabile Renata Polverini vestendo all'improvviso i panni della torquemada un tanto al chilo. Ci avevate mai pensato? Le prime sarebbero simboleggiate in menu dai gessati di Fiorito e dalle teste di porco di De Romanis; le seconde sapremo, vedremo, chissà, ma apparterrebbero pure al centrosinistra che fece finta di non vedere, tacque e approfittò. E magari, Polverini dixit, mangiò. Ostriche?

Che brutto finale. La prima Repubblica si frantumò in un tintinnar di manette, cioè smascherata nei suoi traffici dalle inchieste di Tangentopoli suggerite da costruttori stufi di pagare mazzette senza ottenere niente in cambio, né favori né appalti. La seconda Repubblica che fu berlusconiana rovina ora nel peggiore dei modi, misera replica della caduta dell'impero romano ormai romanesco, tra festini in costume, arroganti Suv, cene generose, trionfo delle clientele. E corruzione diffusa. Denunciata anche stavolta non per empito moralizzatore, ma dall'interno dello stesso sistema politico da chi si lamentava di non partecipare a sufficienza al banchetto.

PROTAGONISTA ASSOLUTA , al Pirellone di Formigoni e alla Pisana di Polverini, una destra sfilacciata che senza il suo capo, ridimensionato nei sondaggi e nella realtà, appare ancora più volgare, incapace, inadatta. Torna alla mente lo storico titolo "Capitale corrotta nazione infetta", ma l'Italia di oggi, ahinoi, è molto peggio di cinquant'anni fa quando questo giornale denunciava lo scandalo edilizio dell'Immobiliare: roba da educande a fronte di ciò che stiamo vedendo. Com'è stato possibile arrivare così in basso?

Sarà pure banale, ma viene da pensare innanzitutto che intorno alla politica girino troppi soldi, naturalmente pubblici: per rimborsi elettorali, finanziamenti ai gruppi parlamentari, note spese, vitalizi, auto blu, portaborse in nero e privilegi, tutto in misura tale da trasformare l'attività politica in una ricca rendita vitalizia senza numero chiuso né selezione, aperta all'appetito di tutti, e quindi destinata a finire nelle mani dei più forti e spregiudicati. Le 23 mila preferenze a Fiorito parlano da sole.

IL FATTO E' CHE SOPRAVVISSUTI a Tangentopoli, vecchi e nuovi partiti si sono illusi di resistere allo tsunami scimmiottando il berlusconismo trionfante, cioè puntando sulla forza del denaro e sull'illusione che apparire (magari in tv) fosse meglio che essere. L'inarrestabile corsa al denaro, e una sorda guerra reciproca per impedire che l'avversario ne avesse a disposizione di più, ha generato un'omertosa legislazione erga omnes, generosamente finanziata con soldi pubblici.

Anche se stili, feste e note spese non sono necessariamente bipartisan, nessuno è più disposto a tollerare nemmeno centinaia di migliaia di euro per manifesti, portaborse e convegni utili quasi sempre solo alla fama di chi li ha voluti, e tanto meno a passare sopra al lungo silenzio del centrosinistra che troppo spesso ha visto lo sfascio e taciuto. Eppure bastava leggere le inchieste del "Corriere della Sera" o de "l'Espresso" sulla sanità scandalo di Formigoni e sugli apparati clientelari di Polverini per sapere come andavano le cose e capire quale fosse il sentimento degli italiani.

E ora, ci risolleveremo mai? Sì, anche se ci vorranno anni. E a patto che la politica smetta di essere corsa sfrenata a trovare soldi, meccanismo suicida che ha generato e rinvigorito antipolitica, facili populismi e strapotere finanziario. Nella sua bella e sconsolata intervista, Giuseppe De Rita dice, tra l'altro, pensando al tempo che fu e che più non è: «De Gasperi volava a Washington, il cuore dell'impero, stava lì, poi rientrava a Roma e costruiva consenso. I dirigenti del Pci andavano a Mosca, ma poi tornavano nella sezione di via dei Giubbonari a fare l'assemblea con i compagni». Già, c'era una volta la politica. Chi nei partiti ancora ci crede, ricominci da lì.

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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Senza Berlusconi Yes, we can
Inserito da: Admin - Ottobre 12, 2012, 10:19:45 pm
Editoriale

Senza Berlusconi Yes, we can

di Bruno Manfellotto

Dice Silvio, ohibò, che farà un passo indietro. Chissà se è vero, ma certo deve prendere atto che non è quello di ?una volta, che non vincerà mai più e che il suo partito si è sfarinato come un castello di sabbia. Ce ne faremo presto una ragione...

(11 ottobre 2012)

Umiliato dalla diaspora di Fini, lasciato solo al sud da Casini e orfano al nord delle truppe di Bossi, il Popolo della libertà – nato da una costola di Forza Italia una sera di cinque anni fa a Milano in piazza San Babila, ma timbrato e vidimato due anni dopo – è andato via via sfarinandosi, come un castello di sabbia travolto da un'onda. Ora, ohibò, sarebbe pronto a fare un passo indietro perfino il leader, il Cavaliere, Berlusconi in persona. E anche se nessuno ci scommetterebbe un euro, la circostanza chiude comunque un ventennio e suggella l'addio al partito carismatico, aziendale, padronale con sede ad Arcore e a Palazzo Grazioli. Perché stavolta è lui – il guru, il patron, l'azionista di riferimento – a mollare. O a far finta di togliersi di mezzo.

B. motiva il passo indietro con l'altruismo politico, atto necessario per la salvezza del suo esercito in rotta e per l'arruolamento di quei "moderati" che sembrano ormai l'araba fenice. Ma in realtà è solo la conferma di un fallimento.

L'UOMO E' INVECCHIATO , spompato, non più brillante come una volta, e sembra perfino che se ne renda conto. Rivederlo in azione dagli anni della discesa in campo a quelli della decadenza – come nel film-documento di prossima uscita "Silvio Berlusconi, io lo conoscevo bene", scritto da Giovanni Fasanella con Giacomo Durzi raccogliendo le testimonianze rivelatrici e inedite di chi lo ha amato e sostenuto e poi ne è rimasto scottato e deluso – mette addosso un senso di mestizia e di incredulità: ci si chiede come sia stato possibile assistere impotenti a una così sfacciata presa di potere.

E ora è davvero disposto a sedere in panchina? Gli scettici scommettono sull'ennesima mossa diversiva: sia per arginare la fuga dalla nave che affonda; sia per costringere Casini a scegliere tra il centrodestra e l'alleanza con il centrosinistra di Bersani e Vendola; sia per mettere in imbarazzo Monti augurandogli un bis. Altri invece lo prendono sul serio e leggono i suoi viaggi in Russia come l'occasione per sistemare con l'amico Putin i suoi affari privati odierni e futuri. Altri ancora, e "la Repubblica" lo ha scritto, lo immaginano solo alla ricerca di un salvacondotto che, bilanciando la rinuncia al protagonismo politico, lo metta al riparo da grane giudiziarie e crisi aziendali. Qualcosa di simile a quello che anni fa aveva proposto, inascoltato, l'ex capo dello Stato Francesco Cossiga.

FORSE, COM'E' GIA' ACCADUTO nella storia del Cavaliere, sono vere un po' tutte le ipotesi. L'uomo si lascia guidare dai sondaggi, e questi lo danno sprofondato a quota 15-17 per cento: niente per chi come lui goca per vincere, non per partecipare. Rinuncia perché non ce la farebbe mai. Ma questo non significa abbandonare l'impegno. Chi lo frequenta dice che ora ama vestire i panni del rottamatore, un Matteo Renzi con quarant'anni in più. Gli piacerebbe far piazza pulita, liberarsi dei Pisanu e dei Cicchitto, dei La Russa e dei Sacconi per rivitalizzare quel pochissimo che resta di una destra lontana da mazzette e corruzione. Premessa per lanciare poi la candidatura a sorpresa di un qualche outsider. Prospettiva che ovviamente piace assai poco ai colonnelli del partito, e che non esclude l'ennesima scissione, stavolta a opera degli ex camerati di An.

Mai la destra fu così incerta, divisa, dilaniata. E mai come stavolta l'ardito disegno federatore di Berlusconi si mostra per quello che è sempre stato, un patto elettorale tenuto insieme solo dalla personalità del capo e dai suoi soldi ma, in assenza del boss, privo di idee forti. Tutto da rifare, insomma, specie ora che vecchi e nuovi capetti presidiano quell'area di centro che per vent'anni ha fatto da cemento prima a Forza Italia e poi al Pdl. Resta da vedere che cosa decideranno della loro vita (politica) Casini e Passera, Marcegaglia e Fini e Montezemolo. In quanto a B., verrebbe da pensare che la storia si ripete sempre due volte, la prima volta sotto forma di tragedia, la seconda di farsa. Ma noi abbiamo già visto sia l'una sia l'altra...

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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Senza Berlusconi Yes, we can
Inserito da: Admin - Ottobre 17, 2012, 04:21:39 pm
Editoriale

Senza Berlusconi Yes, we can

di Bruno Manfellotto

Dice Silvio, ohibò, che farà un passo indietro. Chissà se è vero, ma certo deve prendere atto che non è quello di una volta, che non vincerà mai più e che il suo partito si è sfarinato come un castello di sabbia. Ce ne faremo presto una ragione...

(11 ottobre 2012)

Umiliato dalla diaspora di Fini, lasciato solo al sud da Casini e orfano al nord delle truppe di Bossi, il Popolo della libertà – nato da una costola di Forza Italia una sera di cinque anni fa a Milano in piazza San Babila, ma timbrato e vidimato due anni dopo – è andato via via sfarinandosi, come un castello di sabbia travolto da un'onda. Ora, ohibò, sarebbe pronto a fare un passo indietro perfino il leader, il Cavaliere, Berlusconi in persona. E anche se nessuno ci scommetterebbe un euro, la circostanza chiude comunque un ventennio e suggella l'addio al partito carismatico, aziendale, padronale con sede ad Arcore e a Palazzo Grazioli. Perché stavolta è lui – il guru, il patron, l'azionista di riferimento – a mollare. O a far finta di togliersi di mezzo.

B. motiva il passo indietro con l'altruismo politico, atto necessario per la salvezza del suo esercito in rotta e per l'arruolamento di quei "moderati" che sembrano ormai l'araba fenice. Ma in realtà è solo la conferma di un fallimento.

L'UOMO E' INVECCHIATO , spompato, non più brillante come una volta, e sembra perfino che se ne renda conto. Rivederlo in azione dagli anni della discesa in campo a quelli della decadenza – come nel film-documento di prossima uscita "Silvio Berlusconi, io lo conoscevo bene", scritto da Giovanni Fasanella con Giacomo Durzi raccogliendo le testimonianze rivelatrici e inedite di chi lo ha amato e sostenuto e poi ne è rimasto scottato e deluso – mette addosso un senso di mestizia e di incredulità: ci si chiede come sia stato possibile assistere impotenti a una così sfacciata presa di potere.

E ora è davvero disposto a sedere in panchina? Gli scettici scommettono sull'ennesima mossa diversiva: sia per arginare la fuga dalla nave che affonda; sia per costringere Casini a scegliere tra il centrodestra e l'alleanza con il centrosinistra di Bersani e Vendola; sia per mettere in imbarazzo Monti augurandogli un bis. Altri invece lo prendono sul serio e leggono i suoi viaggi in Russia come l'occasione per sistemare con l'amico Putin i suoi affari privati odierni e futuri. Altri ancora, e "la Repubblica" lo ha scritto, lo immaginano solo alla ricerca di un salvacondotto che, bilanciando la rinuncia al protagonismo politico, lo metta al riparo da grane giudiziarie e crisi aziendali. Qualcosa di simile a quello che anni fa aveva proposto, inascoltato, l'ex capo dello Stato Francesco Cossiga.

FORSE, COM'E' GIA' ACCADUTO nella storia del Cavaliere, sono vere un po' tutte le ipotesi. L'uomo si lascia guidare dai sondaggi, e questi lo danno sprofondato a quota 15-17 per cento: niente per chi come lui goca per vincere, non per partecipare. Rinuncia perché non ce la farebbe mai. Ma questo non significa abbandonare l'impegno. Chi lo frequenta dice che ora ama vestire i panni del rottamatore, un Matteo Renzi con quarant'anni in più. Gli piacerebbe far piazza pulita, liberarsi dei Pisanu e dei Cicchitto, dei La Russa e dei Sacconi per rivitalizzare quel pochissimo che resta di una destra lontana da mazzette e corruzione. Premessa per lanciare poi la candidatura a sorpresa di un qualche outsider. Prospettiva che ovviamente piace assai poco ai colonnelli del partito, e che non esclude l'ennesima scissione, stavolta a opera degli ex camerati di An.

Mai la destra fu così incerta, divisa, dilaniata. E mai come stavolta l'ardito disegno federatore di Berlusconi si mostra per quello che è sempre stato, un patto elettorale tenuto insieme solo dalla personalità del capo e dai suoi soldi ma, in assenza del boss, privo di idee forti. Tutto da rifare, insomma, specie ora che vecchi e nuovi capetti presidiano quell'area di centro che per vent'anni ha fatto da cemento prima a Forza Italia e poi al Pdl. Resta da vedere che cosa decideranno della loro vita (politica) Casini e Passera, Marcegaglia e Fini e Montezemolo. In quanto a B., verrebbe da pensare che la storia si ripete sempre due volte, la prima volta sotto forma di tragedia, la seconda di farsa. Ma noi abbiamo già visto sia l'una sia l'altra...

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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Non sono tutti Formigoni
Inserito da: Admin - Ottobre 26, 2012, 09:39:21 am
Editoriale

Non sono tutti Formigoni

di Bruno Manfellotto

Sono passati già vent'anni da Mani pulite e trenta dalle parole di Berlinguer sulla questione morale. Ma anche se non è ancora finito il tempo delle mazzette e del malaffare, sarebbe utile ragionare e distinguere. Senza urlare "tutti ladri"

(18 ottobre 2012)

Ogni giorno ha la sua pena, la sua mazzetta, le sue ostriche a go-go. Da Milano a Palermo. Vent'anni dopo, Tangentopoli si è trasformata in Regionopoli rivelando un malaffare diffuso nella più lontana provincia dell'impero. Ciò che ieri era eccezione - come il lontano scandalo Eni-Petromin, mazzette per conquistare il potere in casa Psi - è ormai sistema che si autoalimenta: si fa politica per incassare denaro da distribuire al fine di accrescere un potere che porterà altro denaro.

Commuove rileggere Enrico Berlinguer a colloquio con Eugenio Scalfari, e da allora di anni ne sono passati trenta, e vedere come la «questione morale» sia rimasta drammaticamente al centro della vicenda italiana pur se la sua qualità è andata, se possibile, ancora peggiorando: «La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell'amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell'Italia d'oggi, fa tutt'uno con l'occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt'uno con la guerra per bande, fa tutt'uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati». Sacrosanto.

OSSERVAVA ANCORA IL LEADER del Pci: «Molti italiani si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi (magari dovuti, ma ottenuti solo attraverso i canali dei partiti e delle loro correnti) o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più»...

Da allora il sistema si è esteso, si sono imposti cacicchi capaci di dettare legge ai loro stessi partiti, e gli italiani sono sempre sotto ricatto. Nel frattempo si è diffusa una sorta di concertazione della malapolitica e troppo spesso chi ha visto e avrebbe potuto ribellarsi - Lazio docet - ha chiuso un occhio o tutti e due. Il sogno spezzato di Mani Pulite è diventato l'antipolitica che tutto travolge. Riecheggiano slogan qualunquisti degli anni Cinquanta. E invece sarebbe il momento di fermarsi, di ragionare, di distinguere. Perché non sono tutti uguali, non sono tutti Formigoni.

LE PESANTI ACCUSE A CARICO di Filippo Penati - corruzione, concussione, illecito finanziamento - offendono, oltre che gli italiani, la memoria di Berlinguer leader del partito dai cui lombi discende un pezzo di Pd. Ma quella di Nichi Vendola che si dà da fare per dare il posto al primario amico è una storia squallidotta di malcostume e di illegalità e come tale va stigmatizzata.

Il caso di Vasco Errani accusato di brigare per un finanziamento a una cooperativa vicina al fratello ci riporta in quella zona grigia tra politica e affari che non vorremmo vedere più, ma non è paragonabile al sistema Lombardia raccontato dai suoi stessi protagonisti Simone & Daccò che con un gruppetto di altri amici e grazie ai buoni uffici del Celeste hanno lucrato un tesoretto di 700 milioni tra appalti, finanziamenti e regalìe. Così come ci inquietano il consiglio regionale del Lazio e il suo Batman, il tesoriere leghista amico di amici calabresi, l'assessore della Regione Lombardia sotto il dominio pieno e incontrollato della 'ndrangheta.

Insomma, questo urlare indistinto che non risparmia niente e nessuno non aiuta a individuare responsabilità, non distingue persona da persona, il favore dall'associazione per delinquere: finisce per condannare un intero sistema politico, strumento chiave per l'esercizio della democrazia.

E per questo insospettisce che a suonare la grancassa della moralizzazione, proprio quando si scopre che quindici delle diciotto regioni all'attenzione dei pm sono governate dal centrodestra, siano ora e improvvisamente, udite udite, gli stessi che per vent'anni hanno giustificato la banca di Verdini, la casa di Scajola, la nipote di Mubarak, le leggi ad personam, la corte di Bossi e del Trota e le opere pubbliche formato P3. Forse nella speranza che gridando "tutti ladri" ci si dimentichi dei ladri veri e delle persone oneste.

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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Addio Berlusconi, per oggi si festeggia
Inserito da: Admin - Ottobre 26, 2012, 09:40:05 am
1994-2012

Addio Berlusconi, per oggi si festeggia

di Bruno Manfellotto

I sondaggi lo davano al 15 per cento. E lui non è certo tipo che corre solo per partecipare. Così ha detto basta, sperando di mettere al sicuro se stesso e le sue aziende. In fondo, era entrato in politica per quello.

Ma intanto la destra, che era tenuta insieme solo dal capo e dai suoi soldi,  è dilaniata come non era mai stata

(25 ottobre 2012)

Umiliato dalla diaspora di Fini, lasciato solo al sud da Casini e orfano al nord delle truppe di Bossi, il Popolo della libertà – nato da una costola di Forza Italia una sera di cinque anni fa a Milano in piazza San Babila, ma timbrato e vidimato due anni dopo – è andato via via sfarinandosi, come un castello di sabbia travolto da un'onda. Ora, ohibò, sarebbe pronto a fare un passo indietro perfino il leader, il Cavaliere, Berlusconi in persona. E anche se nessuno ci scommetterebbe un euro, la circostanza chiude comunque un ventennio e suggella l'addio al partito carismatico, aziendale, padronale con sede ad Arcore e a Palazzo Grazioli. Perché stavolta è lui – il guru, il patron, l'azionista di riferimento – a mollare. O a far finta di togliersi di mezzo.

B. motiva il passo indietro con l'altruismo politico, atto necessario per la salvezza del suo esercito in rotta e per l'arruolamento di quei "moderati" che sembrano ormai l'araba fenice. Ma in realtà è solo la conferma di un fallimento.

L'UOMO E' INVECCHIATO , spompato, non più brillante come una volta, e sembra perfino che se ne renda conto. Rivederlo in azione dagli anni della discesa in campo a quelli della decadenza – come nel film-documento di prossima uscita "Silvio Berlusconi, io lo conoscevo bene", scritto da Giovanni Fasanella con Giacomo Durzi raccogliendo le testimonianze rivelatrici e inedite di chi lo ha amato e sostenuto e poi ne è rimasto scottato e deluso – mette addosso un senso di mestizia e di incredulità: ci si chiede come sia stato possibile assistere impotenti a una così sfacciata presa di potere.

E ora è davvero disposto a sedere in panchina? Gli scettici scommettono sull'ennesima mossa diversiva: sia per arginare la fuga dalla nave che affonda; sia per costringere Casini a scegliere tra il centrodestra e l'alleanza con il centrosinistra di Bersani e Vendola; sia per mettere in imbarazzo Monti augurandogli un bis. Altri invece lo prendono sul serio e leggono i suoi viaggi in Russia come l'occasione per sistemare con l'amico Putin i suoi affari privati odierni e futuri. Altri ancora, e "la Repubblica" lo ha scritto, lo immaginano solo alla ricerca di un salvacondotto che, bilanciando la rinuncia al protagonismo politico, lo metta al riparo da grane giudiziarie e crisi aziendali. Qualcosa di simile a quello che anni fa aveva proposto, inascoltato, l'ex capo dello Stato Francesco Cossiga.

FORSE, COM'E' GIA' ACCADUTO nella storia del Cavaliere, sono vere un po' tutte le ipotesi. L'uomo si lascia guidare dai sondaggi, e questi lo danno sprofondato a quota 15-17 per cento: niente per chi come lui goca per vincere, non per partecipare. Rinuncia perché non ce la farebbe mai. Ma questo non significa abbandonare l'impegno. Chi lo frequenta dice che ora ama vestire i panni del rottamatore, un Matteo Renzi con quarant'anni in più. Gli piacerebbe far piazza pulita, liberarsi dei Pisanu e dei Cicchitto, dei La Russa e dei Sacconi per rivitalizzare quel pochissimo che resta di una destra lontana da mazzette e corruzione. Premessa per lanciare poi la candidatura a sorpresa di un qualche outsider. Prospettiva che ovviamente piace assai poco ai colonnelli del partito, e che non esclude l'ennesima scissione, stavolta a opera degli ex camerati di An.

Mai la destra fu così incerta, divisa, dilaniata. E mai come stavolta l'ardito disegno federatore di Berlusconi si mostra per quello che è sempre stato, un patto elettorale tenuto insieme solo dalla personalità del capo e dai suoi soldi ma, in assenza del boss, privo di idee forti. Tutto da rifare, insomma, specie ora che vecchi e nuovi capetti presidiano quell'area di centro che per vent'anni ha fatto da cemento prima a Forza Italia e poi al Pdl. Resta da vedere che cosa decideranno della loro vita (politica) Casini e Passera, Marcegaglia e Fini e Montezemolo.

In quanto a B., verrebbe da pensare che la storia si ripete sempre due volte, la prima volta sotto forma di tragedia, la seconda di farsa. Ma noi abbiamo già visto sia l'una sia l'altra...

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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Diamo a Nichi quel ch'è di Nichi
Inserito da: Admin - Novembre 02, 2012, 05:03:10 pm
Editoriale

Diamo a Nichi quel ch'è di Nichi

di Bruno Manfellotto

Il governatore della Puglia è stato assolto: non ha fatto pressioni per favorire un amico, dice il giudice. A conferma che nel valutare i politici non bisogna mai generalizzare. E ora anche "l'Espresso" deve rivedere un suo giudizio. Su Vendola e non solo. Con sollievo
(01 novembre 2012)
E dunque alla fine Nicki Vendola è stato assolto «perché il fatto non sussiste». Secondo il giudice dell'udienza preliminare Susanna De Felice, infatti, il governatore della Regione Puglia non avrebbe costretto la direttrice generale della Asl di Bari Lea Cosentino a riaprire il concorso a direttore della struttura di chirurgia toracica del San Paolo di Bari solo per favorire un amico, come voleva l'accusa dei pm Desiré Digeronimo e Francesco Bretone, ma solo perché vi potesse partecipare un medico di valore, Paolo Sardelli, che poi quel concorso ha vinto.

Del resto, è stata la stessa Cosentino a smentire al giudice ciò che aveva dichiarato prima ai pubblici ministeri: quelle di Vendola non furono né pressioni né costrizioni. Niente condanna, niente carcere, si torna alla politica. Amen. Però il fatto resta e bene illumina più questioni. Tralascio qui quelle relative a una magistratura talvolta superficiale, precipitosa, incline alla spettacolarizzazione (specie quando abbia a che fare con politici di primo piano) per pensare invece ai problemi di casa nostra, alle difficoltà e alle contraddizioni con le quali si misura ogni giorno chi faccia il mestiere di giornalista nel quale responsabilità personale e dovere di informare si fondono. Specie ora che si vorrebbero sinonimi intercambiabili le parole "politica" e "casta".

Due settimane fa, per esempio, scrivendo proprio di questo sotto il titolo "Non sono tutti Formigoni" lanciavo un appello a non generalizzare, a distinguere tra caso e caso, tra reati penali e comportamenti disdicevoli, tra la vicenda di Filippo Penati, sul cui capo gravano le accuse pesantissime di corruzione, concussione e finanziamento illecito, e quella di Vendola che – scrivevo – «si dà da fare per dare il posto al primario amico» definendola cosa diversa, «una storia squallidotta di malcostume e di illegalità che come tale va stigmatizzata». Al momento in cui scrivevo il giudizio non poteva che essere quello perché le notizie a disposizione tali erano. Che fare, ignorarle del tutto? No di certo. Rinunciare a esprimere la propria opinione? Niente affatto. Farcire il giudizio di condizionali e di avvertenze, tipo "sempre che le accuse risultino fondate"? Lo si fa quasi sempre, ed è un bene, ma non cambia la sostanza delle cose.

Meglio dare ogni notizia con responsabilità, non nascondere il proprio punto di vista, ricordare cioè a chi amministra per nostro conto la cosa pubblica che ogni piccolo errore verrà controllato, sanzionato, giudicato dai giornali, cioè dai cittadini. E poi in caso di errore o di sentenze ribaltate chiarire, precisare, rettificare. E, come in questo caso, dare a Nicki quel che è di Nicki. E' ciò che stiamo facendo. Con un certo sollievo.

Ps.
C'è un'altra persona che ha pagato, finora in silenzio,  per l'inchiesta giudiziaria di Bari: il dottor Paolo Sardelli, un medico affermato, il vincitore del concorso. Per chi sia un comune cittadino, finire ingiustamente nell'elenco dei sospettati e degli amici degli amici è per certi versi ancora più grave e doloroso. E dunque diamo a Sardelli ciò che è di Sardelli.

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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Parlamento, il peggiore dei finali
Inserito da: Admin - Novembre 17, 2012, 09:06:26 pm
Editoriale

Parlamento, il peggiore dei finali

di Bruno Manfellotto

Con il voto segreto per mandare i giornalisti in carcere, questa classe politica ha offerto il suo ultimo spettacolo miserabile.

Mettendo a verbale il suo rancore e il suo disprezzo per la libertà di stampa

(16 novembre 2012)

Martedì 13 novembre, nell'aula di Palazzo Madama, è stata scritta una delle pagine più tristi del Parlamento italiano con l'approvazione a voto segreto, insomma senza nemmeno firmarsi con nome e cognome, di un emendamento proposto dalla Lega e dall'Api di Francesco Rutelli in virtù del quale, a certe condizioni e in certi casi, è previsto il carcere per i giornalisti colpevoli del reato di diffamazione. Se diventasse legge, la maggior parte dei cronisti e quasi tutti i direttori di giornale finirebbero in galera dovendo rispondere i primi di ciò che hanno scritto, anche sulla base di documenti e atti della magistratura, e i secondi per ciascuno dei propri giornalisti essendo per definizione responsabili e diventando per necessità recidivi. Tutto era nato, si ricorderà, sulla scorta della vicenda Sallusti: la pubblicazione di un corsivo su "Libero" firmato con un nome di penna - Dreyfus - dietro il quale si nascondeva Renato Farina, l'agente Betulla di altre squallide vicende spionistiche e ricattatorie, e basato su notizie del tutto false che coinvolgevano l'onorabilità di un magistrato.

IL DIRETTORE ALLORA ERA, appunto, Alessandro Sallusti e avrebbe dovuto rettificare, smentire o chiedere scusa, ma non lo fece, e sbagliò.
Il giudice intervenne con mano pesante condannando il responsabile all'arresto: trasformò così il colpevole in eroe e una punizione che pure sarebbe stata necessaria in una minaccia estrema a tutta la categoria per l'oggi e per il domani. Una volta si sarebbe detto, lo si legga a mo' di metafora, colpirne uno per educarne cento.

Apriti cielo. Mercoledì 24 ottobre scorso, sull'onda del caso eclatante amplificato da giornali e tv e dunque dell'emergenza - senza la quale in questo paese non c'è argomento che meriti di entrare nelle aule parlamentari, dalla disoccupazione giovanile all'esondazione dell'Ombrone - il 24 ottobre scorso un Senato farcito di espertissimi avvocati e dotti legulei cominciava a discutere del reato di diffamazione a mezzo stampa con l'obiettivo di evitare le manette a Sallusti. Attenzione: non ci fu intervento in aula che non confermasse la netta opposizione di tutti i gruppi parlamentari alla pena del carcere.

TUTTI. MA TANT'E', LE PAROLE sono una cosa e i fatti un'altra. Venti giorni dopo un gruppetto di falchi della Lega e dell'Api di Rutelli, ai quali si sono aggiunti senatori del Pdl e pure qualcuno del Pd, coperti dal comodo paravento del voto segreto hanno violato un patto già raggiunto, ribaltato la legge e ripristinato la pena del carcere. Misera imboscata. E, con l'eccezione di Rutelli che ha spinto per il voto segreto ma ha ammesso di voler vedere i cronisti in galera, senza nemmeno metterci la faccia.

Dopo i fuochi d'artificio è assai probabile che ora non se ne faccia più nulla, insomma che il provvedimento finisca, come s'usa dire, su un binario morto. E però le domande restano e, al di là della questione in sé e della valutazione dei fatti che hanno portato all'agguato in Senato, resta anche la constatazione dell'inquietante degrado cui è giunto il modo di fare politica e di affrontare qui da noi anche questioni serissime come quella dei confini della libertà di stampa e del rispetto delle persone, siano esse cittadini o giornalisti.

I senatori che hanno votato in segreto per il carcere sono gli stessi che meno di un mese fa avevano dichiarato in pubblico la loro netta contrarietà. Non potevano non sapere che il loro gesto avrebbe finito per allontanare l'approvazione di un provvedimento serio ed equilibrato e avevano pure messo nel conto la figuraccia. Eppure l'hanno fatto. Perché? Probabilmente per lasciare che la legge sulla diffamazione resti quella che è dal 1948; o far sì che a questo punto ad assumersi l'eventuale responsabilità di evitare il carcere a Sallusti sia il governo e non il Parlamento; o forse solo per mettere a verbale il loro rancore nei confronti dei giornalisti e il loro disprezzo per la libertà di stampa. Che brutta fine di stagione.

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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Parlamento, il peggiore dei finali
Inserito da: Admin - Novembre 27, 2012, 05:41:46 pm
Editoriale

Parlamento, il peggiore dei finali

di Bruno Manfellotto

Con il voto segreto per mandare i giornalisti in carcere, questa classe politica ha offerto il suo ultimo spettacolo miserabile.

Mettendo a verbale il suo rancore e il suo disprezzo per la libertà di stampa

(16 novembre 2012)

Martedì 13 novembre, nell'aula di Palazzo Madama, è stata scritta una delle pagine più tristi del Parlamento italiano con l'approvazione a voto segreto, insomma senza nemmeno firmarsi con nome e cognome, di un emendamento proposto dalla Lega e dall'Api di Francesco Rutelli in virtù del quale, a certe condizioni e in certi casi, è previsto il carcere per i giornalisti colpevoli del reato di diffamazione. Se diventasse legge, la maggior parte dei cronisti e quasi tutti i direttori di giornale finirebbero in galera dovendo rispondere i primi di ciò che hanno scritto, anche sulla base di documenti e atti della magistratura, e i secondi per ciascuno dei propri giornalisti essendo per definizione responsabili e diventando per necessità recidivi. Tutto era nato, si ricorderà, sulla scorta della vicenda Sallusti: la pubblicazione di un corsivo su "Libero" firmato con un nome di penna - Dreyfus - dietro il quale si nascondeva Renato Farina, l'agente Betulla di altre squallide vicende spionistiche e ricattatorie, e basato su notizie del tutto false che coinvolgevano l'onorabilità di un magistrato.

IL DIRETTORE ALLORA ERA, appunto, Alessandro Sallusti e avrebbe dovuto rettificare, smentire o chiedere scusa, ma non lo fece, e sbagliò. Il giudice intervenne con mano pesante condannando il responsabile all'arresto: trasformò così il colpevole in eroe e una punizione che pure sarebbe stata necessaria in una minaccia estrema a tutta la categoria per l'oggi e per il domani. Una volta si sarebbe detto, lo si legga a mo' di metafora, colpirne uno per educarne cento.

Apriti cielo. Mercoledì 24 ottobre scorso, sull'onda del caso eclatante amplificato da giornali e tv e dunque dell'emergenza - senza la quale in questo paese non c'è argomento che meriti di entrare nelle aule parlamentari, dalla disoccupazione giovanile all'esondazione dell'Ombrone - il 24 ottobre scorso un Senato farcito di espertissimi avvocati e dotti legulei cominciava a discutere del reato di diffamazione a mezzo stampa con l'obiettivo di evitare le manette a Sallusti. Attenzione: non ci fu intervento in aula che non confermasse la netta opposizione di tutti i gruppi parlamentari alla pena del carcere.

TUTTI. MA TANT'E', LE PAROLE sono una cosa e i fatti un'altra. Venti giorni dopo un gruppetto di falchi della Lega e dell'Api di Rutelli, ai quali si sono aggiunti senatori del Pdl e pure qualcuno del Pd, coperti dal comodo paravento del voto segreto hanno violato un patto già raggiunto, ribaltato la legge e ripristinato la pena del carcere. Misera imboscata. E, con l'eccezione di Rutelli che ha spinto per il voto segreto ma ha ammesso di voler vedere i cronisti in galera, senza nemmeno metterci la faccia.

Dopo i fuochi d'artificio è assai probabile che ora non se ne faccia più nulla, insomma che il provvedimento finisca, come s'usa dire, su un binario morto. E però le domande restano e, al di là della questione in sé e della valutazione dei fatti che hanno portato all'agguato in Senato, resta anche la constatazione dell'inquietante degrado cui è giunto il modo di fare politica e di affrontare qui da noi anche questioni serissime come quella dei confini della libertà di stampa e del rispetto delle persone, siano esse cittadini o giornalisti.

I senatori che hanno votato in segreto per il carcere sono gli stessi che meno di un mese fa avevano dichiarato in pubblico la loro netta contrarietà. Non potevano non sapere che il loro gesto avrebbe finito per allontanare l'approvazione di un provvedimento serio ed equilibrato e avevano pure messo nel conto la figuraccia. Eppure l'hanno fatto. Perché? Probabilmente per lasciare che la legge sulla diffamazione resti quella che è dal 1948; o far sì che a questo punto ad assumersi l'eventuale responsabilità di evitare il carcere a Sallusti sia il governo e non il Parlamento; o forse solo per mettere a verbale il loro rancore nei confronti dei giornalisti e il loro disprezzo per la libertà di stampa. Che brutta fine di stagione.

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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. E Monti studia come fare il bis
Inserito da: Admin - Dicembre 01, 2012, 06:40:02 pm
Editoriale

E Monti studia come fare il bis

di Bruno Manfellotto

Inutile girarci intorno, il Professore ha una gran voglia di restare a Palazzo Chigi anche dopo il voto. Ma è stretto fra la crescita del Pd e la pochezza del centro. Quindi...

(29 novembre 2012)

C'è un premier in carica, il professor Mario Monti, dal profilo sempre meno tecnico e sempre più politico. E c'è un programma che ha salvato l'Italia dal baratro, ma le cui conseguenze sociali ed economiche si fanno sempre più dure, fino a mettere a rischio non solo la fabbrica e il lavoro, ma anche conquiste irrinunciabili come la sanità pubblica.

Intorno all'uomo e a quel programma si giocherà la campagna per le politiche 2013. Ma sia l'uno che l'altro tema hanno percorso sotterraneamente anche le primarie del centrosinistra. Al cui esito lo stesso Monti deve ora guardare con attenzione, perché il suo destino ne sarà condizionato molto di più di quanto appaia.

Che abbia una gran voglia di restare a Palazzo Chigi, il prof ce lo ricorda ogni volta che può: all'adunata dei manager a Milano e con Hollande all'Eliseo, in viaggio negli Emirati Arabi e all'uscita dalla Casa Bianca, al convegno sulla famiglia e dalla poltroncina di "Che tempo che fa" dove è andato a presentare un suo libro (se ce l'avessero detto un anno fa non ci avremmo creduto). Lo ha fatto perfino in risposta a Giorgio Napolitano che, nel gran rumore di fondo che accompagna ogni uscita di Monti, gli ha dovuto ricordare alcuni punti fermi: il premier è senatore a vita, e dunque non può correre per un seggio parlamentare se non dimettendosi da Palazzo Madama e presentandosi alla Camera, un bel pasticcio; meglio poi che durante la campagna elettorale si mantenga neutrale; comunque, chiunque può indicarlo al presidente della Repubblica alla guida del governo che verrà, certo, ma solo dopo il voto, non prima.

LUNGI DAL TIRARSI INDIETRO , Monti ha replicato che deciderà da solo. Giusto, ovvio, naturale. Ma come farlo senza violare il mandato super partes confezionatogli su misura da Napolitano e la sua stessa indole? E' questo che lo tormenta. Al centro dello schieramento politico si va faticosamente formando un movimento che ambisce a federarsi intorno a lui e che si riconosce nella sua Agenda. Le ambizioni, però, sono lontane dalla realtà: la pattuglia è ancora informe e sfilacciata, e in quanto al leader corteggiato è ancora preda del "vorrei ma non posso".

Deciso a non schierarsi né con Bersani né con Berlusconi o con ciò che resta del Pdl, Monti sta pensando al modo in cui ufficializzare sia la sua disponibilità, sia la decisione di accettare l'offerta che gli viene da Montezemolo & C. Trovare la formula corretta non è facile. E comunque, presa la decisione, è opportuno ora misurarla con ciò che sta accadendo intorno a lui. A cominciare dalle molte cose che le primarie del centrosinistra hanno smosso.

NEI MESI SCORSI L'IDEA di un Monti bis correva parallela all'ipotesi di un Parlamento frantumato, parcellizzato, incapace di esprimere una maggioranza forte e dunque costretto a una coalizione di salute pubblica. Giusta giusta per il tecnico-politico Monti. La lunga marcia delle primarie, invece, ha messo alle corde il Pdl e mostrato un Pd che sembra aver ritrovato la voglia di far politica, tanto che i sondaggi stanno premiando la scommessa coraggiosa di Bersani e la novità Renzi.

Nelle piazze e in tv, poi, dietro la parola d'ordine della rottamazione da una parte e la forza dell'usato sicuro dall'altra, pur con le cinquanta e più sfumature del caso, si sono scontrate fin dall'inizio diverse strategie politiche ed economiche: Renzi si è affidato a Luigi Zingales, dietro Bersani faceva capolino Stefano Fassina. Bocconiani tutti e due, ma di approdi finali assai diversi: Chicago e Roma. Senza contare che entrambi i contendenti hanno dovuto chiedere aiuto a Nichi Vendola, che al momento opportuno certo farà pesare i suoi voti e il suo appoggio.

Se il voto di marzo dovesse davvero consegnare al Pd una vittoria netta, sarà ben difficile chiedere al suo leader - per di più santificato dal voto popolare delle primarie - di farsi da parte o di giocare un ruolo da gregario in un governo Monti bis. Forse anche questo rende incerto il premier e ardua la sua scelta. Magari, se ne parlasse un po' con Bersani...


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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Cercasi lavoro disperatamente
Inserito da: Admin - Febbraio 01, 2013, 12:04:13 am
Editoriale

Cercasi lavoro disperatamente

di Bruno Manfellotto

Oggi solo il 60 per cento degli italiani dichiarano di avere un'occupazione, e quattro giovani su dieci confessano di non avere un posto e di non chiederlo nemmeno. Questa è la vera emergenza, ma in campagna elettorale se ne parla ancora poco

(24 gennaio 2013)

Un commento del "Financial Times" - "Monti non è l'uomo giusto per guidare l'Italia" - ha fatto saltare i nervi al premier-candidato premier. Lettere, polemiche, marce indietro. Del resto accadde più o meno lo stesso quando Silvio Berlusconi fu bollato come "inadatto a governare" sulla copertina dell'"Economist", un altro giornale inglese. Perfida Albione. Piuttosto sorprende la deriva dietrologica alla quale s'è lasciato andare Mario Monti nel decrittare la vicenda: «L'editorialista di FT non ama Angela Merkel e attacca me per attaccare lei», lettura più consona alla Seconda Repubblica che alla stagione del prof bocconiano aspirante premier della Terza. Peccato, perché poteva essere l'occasione per entrare nel vivo delle critiche. Giuste o esagerate che fossero.

Parlare un po' di più del lavoro, per esempio, non farebbe male. Il tema percorre l'editoriale del "Financial Times", semplicemente perché a questo sono legati tutti gli altri, e dunque resterà a lungo al centro dell'agenda politica. Secondo i più recenti dati Istat, infatti, nel 2011 risultavano ufficialmente al lavoro solo sei italiani su dieci tra i 20 e i 64 anni; mentre la percentuale di chi non ha un posto né lo cerca (il cosiddetto tasso di inattività che colpisce soprattutto i più giovani) ha toccato quota 37,8. Peggio di noi solo Grecia e Malta.

IL DRAMMA E' RIMOSSO in campagna elettorale e ignorato dal sindacato, più attento alla difesa del posto di chi ce l'ha che alla creazione di nuovo lavoro per chi non ce l'ha. Il tutto aggravato dal cronico immobilismo delle imprese e della pubblica amministrazione, al punto che in questi anni nulla si è mosso sul piano dell'innovazione, e dunque della competitività. Risultato, i ragazzi disoccupati sono stretti tra l'incubo di un eterno precariato, la voglia o la necessità di cercare lavoro o di studiare all'estero (e lì abbandonati e dimenticati, al punto di non poter votare!) e l'ineluttabile destino di accontentarsi di lavori assai peggio retribuiti di quelli dei loro fratelli maggiori o genitori.

In materia le agende di Monti e Bersani, concorrenti oggi ma molto probabilmente destinati a camminare insieme domani, non divergono più di tanto. Entrambi pensano per esempio che sia opportuno ridurre e riequilibrare i carichi fiscali per favorire i consumi; e tutti e due sono convinti che si debba cominciare proprio abbattendo la tassazione sul lavoro e sull'impresa, con forme di defiscalizzazione o magari legando le retribuzioni all'andamento della produttività. Ed entrambi, ancora, concordano su indennità di disoccupazione o simili (Bersani ha rispolverato il reddito di cittadinanza, un salario minimo per tutti, al di là di meriti e bisogni). In quanto alla riforma del mercato del lavoro firmata Fornero, in campagna elettorale i due si sono già trovati d'accordo sulla possibilità di rimettervi mano, nonostante nell'agenda Monti sia perentoriamente scritto che «non si può fare marcia indietro».

VEDREMO. PER?’ è proprio l'amara constatazione che il governo Monti abbia fatto poco sul tema del lavoro ad aver attirato gli strali del "Financial Times" che contesta in nuce la scelta: nell'anno ideale del governo tecnico che tutto avrebbe consentito, il professore ha preferito il rigore di bilancio alle riforme, l'austerità allo stimolo all'economia, l'aumento delle tasse alla defiscalizzazione del lavoro e delle imprese.

Scuole di pensiero diverse? Anche. L'esigenza di un intervento d'emergenza per mettere in sicurezza i bilanci del Paese e la sua credibilità internazionale? Certo che sì. Ma è interessante notare che non solo il "Financial Times", ma lo stesso Monti osservano ora che se alcune riforme incisive non sono state fatte è solo perché anche il governo tecnico è rimasto ostaggio di partiti, lobby, corporazioni. Ci risiamo. Forse il primo punto di ogni agenda dovrebbe essere proprio l'impegno a condizionare ogni alleanza futura alla scomparsa di certe vecchie, brutte abitudini.

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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Eppure tutti sapevano
Inserito da: Admin - Febbraio 01, 2013, 11:55:56 pm

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Editoriale

Eppure tutti sapevano

di Bruno Manfellotto


La Banca d'Italia dice di conoscere la situazione a rischio di Mps dal 2009. Però bisognerà aspettare due anni perché si chieda di cambiare i vertici, tre perché succeda, quattro perché si faccia pulizia. Come si spiega tanta lentezza? Vediamo

(31 gennaio 2013)

Designato alla presidenza del Monte dei Paschi dal ministro del Tesoro Ciampi con il mandato di portare la pace nella più antica e rissosa banca del mondo, il professor Luigi Spaventa, che purtroppo non c'è più, diceva agli amici con la sua consueta ironia: «Vado a sedermi tra Nano e Berisha...». Insomma, Siena come Tirana; la Toscana Felix come l'Albania post comunista; Luigi Berlinguer e Franco Bassanini - in lite sulla governance e sulle sorti dell'istituto - come il primo ministro e il leader del partito albanese. Mission impossible. Era il 1997, Spaventa durò in carica pochi mesi.

Da allora i protagonisti (non tutti) sono cambiati, ma i mali storici del Mps si sono aggravati fino a esplodere rivelando azzardi finanziari, manager spregiudicati con conti correnti in milioni, sospetti di mazzette. La terza banca italiana paga la sua bulimìa di potere, e trema. Eppure la Banca d'Italia dice che è tutto sotto controllo; Grilli conferma che il sistema del credito gode ottima salute e annuncia un prestito a Mps di 3,9 miliardi; i correntisti non temano rischi e la stampa estera, sempre pronta a fare le bucce all'Italietta, non se n'occupa più di tanto: roba da poco. Ma allora, se tutto va ben madama la marchesa, perché tanto clamore?

SIAMO IN CAMPAGNA ELETTORALE , si risponde. Certo, chiaro, ma se questo crescendo di strumentalizzazioni è possibile è proprio perché qui, a differenza che altrove, l'intreccio tra politica e credito è così forte da far apparire ogni normale intervento come una mossa sulla scacchiera del potere, tale - come scrive Luigi Zingales - da rendere di fatto complici tutti i protagonisti.

Del resto, si è lasciato che le sorti di una grande banca si decidessero nella ridotta senese dove Comune e Provincia detengono il potere di nomina di tutti i consiglieri d'amministrazione. Se il (fallito) salvataggio dell'Alitalia è stato invocato sventolando l'italianità, la storia ultracentenaria del Mps è scandita dall'orgogliosa rivendicazione della senesità. Il radicamento nel territorio, parola abusata, veniva esaltato come chiave di volta della robustezza della banca e della sua estraneità ai venti della globalizzazione finanziaria. Nascondeva invece manovre di potere, titoli tossici, forse tangenti.

Sorprende, poi, il tempo che c'è voluto per avviare la pulizia. La Banca d'Italia ammette di conoscere la situazione di rischio fin dal 2009-10, governatore Mario Draghi. Ma perché si chieda la sostituzione dei vertici bisognerà aspettare il novembre 2011, governatore Ignazio Visco. Passano però tre mesi perché arrivi il nuovo direttore generale, cinque perché si insedi il presidente Alessandro Profumo, e altri sette, fino all'ottobre 2012, perché dalla cassaforte di Rocca Salimbeni spuntino i veleni del carteggio con Nomura. Altre banche in crisi hanno svelato i loro conti e sfidato il mercato, Mps no.

PER TUTELARE LA BANCA , i risparmiatori e il sistema - che arriva a eleggere Mussari a rappresentare nell'Abi tutte le banche - la prudenza ha finito però per salvare le responsabilità della Fondazione e degli enti locali, cioè dei veri padroni di Mps. Chetare e sopire, però, non è servito: il caso è esploso con fragore massimo seminando dubbi e sospetti anche su chi non li merita e regalando a Berlusconi una straordinaria carta elettorale che non avrebbe mai giocato, se non altro perché l'Mps dell'ambiziosissimo Mussari ha generosamente finanziato pure lui, e fatto affari perfino con Denis Verdini.

Ma forse altro non si poteva fare proprio perché in quella singolare enclave i poteri decisionali sono strategicamente parcellizzati tra istituzioni, governo, partiti. E' questo che dovrebbe allarmare e far riflettere.

Ci sono stagioni in cui finanza e banche dettano legge ai politici, e non viceversa. Quand'è così, è facile che emergano cacicchi locali e banchieri per caso capaci di condizionare ogni scelta. La storia stessa di Mps lo dimostra: dall'acquisto di Antonveneta all'ultimo aumento di capitale a debito, voluto dai boss locali e autorizzato da Tremonti (che oggi moraleggia e cerca di infilzare l'odiato Draghi), fino al derivato monstre, ogni decisione serviva a lasciare a Siena il controllo della banca e a impedire a chiunque di metterci becco. Tutti sapevano e tacevano: e ciascuno si coccolava la sua fondazione bancaria di riferimento...

Lo si voglia o no, è questo che molti pensano ed è questo che mina alle fondamenta le istituzioni. Qualcosa cambierà solo quando chi fa politica capirà che è più importante investire sulla credibilità del Paese che sulla sua personale fetta di potere.

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Titolo: Re: Bruno MANFELLOTTO. Ma ora fateci sognare un po'
Inserito da: Admin - Febbraio 09, 2013, 10:52:55 am
Editoriale

Ma ora fateci sognare un po'

di Bruno Manfellotto

Torna l'incubo Berlusconi, terrore dei mercati e dei cittadini che non ne possono più di facili promesse. Però per isolarlo non bastano annunci di nuove alleanze. Ci vorrebbe una méta comune, un'idea forte, un progetto per il futuro...

(08 febbraio 2013)

In Borsa non c'è niente di peggio dell'incertezza: alimenta la paura, dipinge i peggiori scenari, allontana gli investitori dai mercati. In politica, invece, la confusione diventa astensione, o al contrario spinge gli indecisi nelle braccia di improbabili sirene o di populisti inconcludenti. Silvio Berlusconi conosce bene questi meccanismi e cinicamente li sfrutta. Sa che è difficilissimo se non impossibile vincere la partita, perché troppo ampio è il gap con il Pd di Bersani e il brand del Caimano non tira più come prima, ma non si fermerà, perché in queste elezioni è in gioco la stessa esistenza del Pdl insidiato dal nuovo centro di Mario Monti.

Una lotta per la sopravvivenza politica. Su questo altare il Cavaliere è disposto a sacrificare tutto, anche la governabilità del Paese, la salute dell'economia, la credibilità internazionale. Muoia Sansone con tutti i filistei. Le sue proposte-choc non sono segno di forza, eppure il suo ritorno sulla scena è bastato perché prepotente si riaffacciasse "l'anomalia italiana" descritta dal report della banca d'affari J.P. Morgan (il testo integrale è sul sito espressonline.it): lì si teme che la vittoria del Pd non sia schiacciante; che il cammino per un'alleanza post elettorale con Monti sia zeppo di ostacoli; e tale è l'incertezza da chiedersi con terrore: e se Berlusconi dovesse vincere? Risposta chiara: destino greco.

In una campagna elettorale mediatica, i sondaggi possono servire non solo a fotografare un'intenzione di voto, ma anche a trasmettere l'idea di consensi crescenti. In quanto alle proposte estreme, spesso non sono altro che mosse per mettere in difficoltà l'avversario. Annunciare l'abolizione dell'Imu o la riduzione delle tasse e farsi rispondere che non è possibile, equivale a spuntare qualsiasi altra arma anti tasse: se non lo può fare l'uno, non lo può fare nemmeno l'altro.

A fronte di una spregiudicatezza che forse non si aspettava, Pier Luigi Bersani ha scelto la serietà, la forza dell'usato sicuro contro l'azzardo della provocazione continua, e questo ha tranquillizzato il suo popolo. E' come se dicesse agli elettori: prima fateci vincere, poi governeremo bene. Strategia simile a quella adottata per le primarie: votate me, poi penseremo agli accordi con Matteo Renzi. Gli è andata bene, ma da allora a oggi una parte del popolo delle primarie che si era avvicinata al Pd perché aveva colto la forza della partecipazione, la novità delle candidature e la schiettezza del confronto si è disperso assieme alla tensione del cambiamento.

Nei pochi giorni che ci separano dalle urne, poi, il clima non è più lo stesso e la lunga rincorsa di Berlusconi dovrebbe spingere il Pd a un colpo di reni per conquistare gli indecisi, convincere gli astensionisti di ritorno, acciuffare chi si era avvicinato ai banchi delle primarie per poi richiudersi nel tunnel dell'indifferenza. Certo, il pericolo Berlusconi almeno un effetto lo ha avuto: spingere Monti e Bersani a riannodare il filo del dialogo e ad annunciare di nuovo la loro alleanza post elettorale (pur se con un Vendola ancora riluttante). Sembra quasi una risposta ai timori della J.P. Morgan. E il fatto che qualcuno (Monti, Fini) torni ancora a invocare un Napolitano bis che finora Napolitano ha escluso, serve non tanto a indicare una soluzione realmente praticabile per il Quirinale, quanto a segnalare una gran voglia di certezze e di stabilità.

E però non basta. Ora non è più il momento di annunciare alleanze, ma di dare agli elettori il segno forte di un vincolo irrinunciabile. L'ha detto bene sulla "Stampa" Luca Ricolfi citando Nichi Vendola: «Per cambiare le cose, per portare la gente a sperare e a credere di nuovo nel futuro non bastano le promesse di marinaio degli imbonitori di destra, di sinistra e di centro, né le tabelle dei loro uffici studi, ma una méta comune verso cui tendere, un sogno che valga la pena di essere sognato, o forse un ricordo che alimenti quel sogno».

Un sogno concreto. Nel 1996 fu l'euro, stavolta potrebbe essere l'impegno forte a cambiare e ad ammodernare un Paese frenato da privilegi, corporazioni, vecchiume. A fare le cose che finora nessuno è riuscito a fare. Se non ora, quando?

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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Benedetto lascia l'Italia si sfascia
Inserito da: Admin - Febbraio 20, 2013, 11:14:16 pm
 
Editoriale

Benedetto lascia l'Italia si sfascia

di Bruno Manfellotto

La Finmeccanica decapitata, l'Eni sotto inchiesta, il Mps costretto a rinascere dopo anni di mala gestione, il malcostume diffuso di Formigoni & C... I pm indagano e il sistema è incapace di rigenerarsi. E di comprendere la lezione del Papa

(14 febbraio 2013)

Non è mancato, naturalmente, il tentativo di buttarla in politica. Insomma l'idea di trasferire il gesto straordinario di Joseph Ratzinger nella quotidianità della campagna elettorale. Forse perché tutti i concorrenti temevano, come ha confessato candidamente il solito Berlusconi, che l'eccezionalità della vicenda oscurasse per qualche giorno il chiacchiericcio pre-elettorale. Ciò che non poté Sanremo poté Benedetto XVI: allora via, tutti a commentare. Ciascuno a modo suo.

Beppe Grillo è stato il più rapido: che sia nero il nuovo papa, e naturalmente eletto via Internet. Trovando un'insolita consonanza con il Cavaliere, non sull'opportunità del Web ma sul colore. Vendola, invece, vorrebbe che il successore di papa Benedetto non lanciasse fulmini contro i gay, «che vogliono vivere alla luce del sole». Renato Schifani è rimasto ammirato dall'impegno papale contro la mafia. Se lo dice lui. Silvana Carcano, e merita citarla, candidata della lista Grillo alla Regione Lombardia, ha chiesto lo scioglimento dello Stato pontificio. Amen.

Mai stridore fu così acuto. Colui che era stato definito il più conservatore dei papi si è fatto protagonista del più rivoluzionario degli atti: i politici lo ripagano facendo finta di non capire; colui che era stato giudicato poco comunicativo, diventa sottile stratega mediatico (l'annuncio delle dimissioni, l'elezione programmata del successore in coincidenza con la Pasqua di resurrezione): ma non si vede l'ora di tornare alla febbre elettorale.

Si dirà che ogni accostamento tra una vicenda e l'altra è improprio e forse perfino strumentale, ma certamente legittimo, e comunque istintivo. Non si può infatti pensare alla forza del gesto voluto in nome del rinnovamento della Chiesa, senza guardare all'incapacità di cambiare degli uomini che fanno politica da questa parte del Tevere. Né è possibile pensare agli scandali e ai veleni che hanno afflitto il Vaticano e a questo estremo tentativo di rigenerazione offerto da Ratzinger senza che vengano alla mente altri scandali e altri veleni accolti di qua dal fiume da paralisi e indifferenza.

Dei rischi che correva la Finmeccanica, una delle prime dieci imprese italiane, si sapeva da anni, certamente già da quando al posto di Guarguaglini, indagato con la moglie per storie di mazzette e riciclaggio, fu scelto Giuseppe Orsi nonostante fosse già aperta l'inchiesta della magistratura che lo avrebbe portato fino all'arresto. Ma in due anni né Berlusconi, cui era stato imposto dalla Lega, né Monti che lo ha riconfermato hanno trovato il modo di liberare una grande impresa da un handicap che pesava come un macigno.

E' appena partita un'indagine a carico di Paolo Scaroni, amministratore delegato dell'Eni, tangenti pure qua, dopo che altri sospetti avevano accompagnato le attività della compagnia nella Russia di Putin. E altri due scandali agitano l'area grigia che unisce politica e affari: il Monte dei Paschi di Siena sta riemergendo dalla lunga stagione in cui impazzava, parola dei pm, "la banda del cinque per cento"; la Regione Lombardia va al voto dopo il decennio di Roberto Formigoni vissuto all'insegna di favori, regalìe, mazzette, malcostume diffuso. E pensare che al posto del Celeste vorrebbe sedersi proprio Bobo Maroni, lo sponsor di Orsi...

Ma c'è un aspetto che colpisce perfino di più delle mazzette a go-go: è questa incapacità del sistema di difendersi, di autorigenerarsi. Nessuna di queste vicende - Eni, Finmeccanica, Mps, Formigoni - è nuova e gli esiti non stupiscono più di tanto. Eppure non c'è stato collegio dei revisori, autorità di vigilanza, azionista, commissione parlamentare o ministro che sia riuscito a mettere le mani in questi verminai nazionali, a ripulirli, a proteggere dagli assalti banche, imprese e amministrazioni.
No, ogni volta è stato necessario aspettare il magistrato. Quando ormai l'immagine dell'azienda era distrutta, il manager compromesso, il business allontanato. L'impressione è che il Paese, fuori controllo, si vada sfaldando. La speranza, appunto, è che arrivi l'ora dei gesti forti.

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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Aiuto, mi è caduto un Grillo nel piatto
Inserito da: Admin - Febbraio 28, 2013, 11:58:28 pm
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Aiuto, mi è caduto un Grillo nel piatto

di Bruno Manfellotto

Ieri sottovalutato e demonizzato, oggi ingombrante per i partiti. È l'esercito a cinque stelle, destinato a essere determinante in Parlamento e guidato da un leader che non è candidato. Ora tutti dovranno farci i conti. Bersani per primo

(21 febbraio 2013)

Ce l'abbiamo fatta, è finita. La campagna elettorale è ormai alle spalle, e non si può nascondere un certo sollievo. Che fatica, quante parole, che caos. E che ansia. Resta un po' di tempo per le ultime riflessioni, per sciogliere i dubbi che ancora attanagliano - pare - un italiano su tre e scegliere per chi votare, o magari decidere di restarsene a casa - e non andarci proprio al seggio, estremo gesto di personale testimonianza, ma in realtà di rinuncia. Perché stavolta ogni voto può davvero contribuire ad aprire una stagione nuova. Valga per tutti il caso Lombardia, determinante per la vittoria del Pd anche al Senato, ma anche simbolo dell'Italia che verrà: per la Regione c'è da una parte il volto nuovo e pulito di Umberto Ambrosoli; dall'altra quello della Lega secessionista che appoggiò Berlusconi e Formigoni, che ieri naufragò nelle note spese del Trota e di Rosi Mauro e oggi sprofonda negli scandali.

Un mese di fuoco. Che ripercorriamo in trentotto pagine attraverso le foto firmate per l'occasione, e solo per "l'Espresso", da due giovani fotoreporter: Simone Donati (agenzia Terraproject) ha coperto il nord in medio formato colore; Gianni Cipriano (On-Off) ha invece lavorato da Roma in giù, rigorosamente in bianco e nero. Entrambi svelando il volto nascosto di una campagna elettorale che ha privilegiato la tv, da parte di chi c'è andato e di chi ostentatamente l'ha disertata. Ecco dunque i leader, gli staff, gli uomini della sicurezza, gli studi televisivi, le piazze...

In queste stesse pagine , "l'Espresso" fa le pulci alla lista elettorale di Roberto Maroni in Lombardia piena zeppa di impresentabili e di imbarazzanti; lascia a Roberto Saviano il compito di indagare sul voto di scambio, che purtroppo ancora c'è, e su quanto costa; e guarda avanti raccontando sì le ultime ore del tour elettorale del probabile vincitore, Pier Luigi Bersani, ma soprattutto riflettendo sull'incomodo che gli è capitato tra i piedi, ieri sottovalutato, oggi ingombrante: Beppe Grillo.

Diciamo la verità, non sono stati giorni di gloria. Abbiamo visto e sentito di tutto. Insulti e bugie, false promesse e colpi bassi, truffe elettorali e bufale un tanto al chilo. L'ipocrisia italica ha vietato negli ultimi giorni la diffusione dei sondaggi, ma in Rete e sui siti impazzavano percentuali e previsioni, e non c'era incontro pubblico e privato in cui non ci si scambiasse informazioni su rilevazioni che comunque allegramente continuavano. Passavano di bocca in bocca di nascosto, come il wkisky nell'America del proibizionismo.

Alla farsa dei sondaggi si è aggiunta quella dei confronti televisivi, una guerra insulsa tra radio, tv e siti Internet senza regole, senza tempi, a volte sotto forma di comizi informatici senza contraddittorio. Il resto lo ha fatto una legge elettorale assurda e poco democratica che impone liste prefabbricate dagli apparatchik di partiti e movimenti, oscura gli aspiranti parlamentari ed esalta solo i candidati premier, in un sistema che però non è né presidenzialista né bipolare.

In questa terra di mezzo, in questa stagione-ponte tra Seconda e Terza Repubblica, la vera sorpresa politica porta il nome di Beppe Grillo che ha riempito le piazze d'Italia, che non si è nemmeno candidato e dunque non siederà in Parlamento, ma che ha imposto agli altri molte parole d'ordine tratte dalla sua agenda - primarie, uso della Rete, tagli della politica, dimezzamento dei parlamentari - e soprattutto guiderà, se pur a distanza, un esercito di deputati e senatori che risulterà determinante fin dai primi appuntamenti: la nuova maggioranza, l'elezione del Capo dello Stato, la legge finanziaria...

Che succederà? Che ne sarà delle truppe grilline? Resterà una falange compatta o diventerà un esercito di guerriglia? Comunque, sarà ribaltone, come profetizza Dario Fo, se non altro di molte regole del gioco consolidate. Noi, nell'attesa, come recita il titolo dell'altra copertina, ci limitiamo a gridare Forza Italia, quella giusta, quella sana, quella buona. Che è esattamente l'opposto di quella di Berlusconi.

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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Prima il Pd deve cambiare
Inserito da: Admin - Marzo 04, 2013, 06:28:57 pm
Prima il Pd deve cambiare

di Bruno Manfellotto

Non ha senso che, dopo la mancata vittoria, il partito di Bersani cerchi alleanze senza aver capito la lezione: la conservazione e le logiche che valevano fino a ieri, oggi non valgono più

(04 marzo 2013)

A desso è fin troppo facile dire: ha vinto il populismo miope, ha trionfato la protesta inutile. Sarebbe più onesto dire che ha perso la politica, perché a che cosa altro dovrebbe mai servire la politica se non a cogliere ciò che populismo e protesta significano e a tradurli in proposte, idee, soluzioni? Bene, non c'è riuscita e lo dimostra la fuga dal voto o dai partiti che di questo ventennio sono stati i protagonisti: nell'anno del Signore 2013 non hanno votato undici milioni di italiani; e se 3,4 milioni di consensi hanno abbandonato il Pd, ben 6,3 hanno voltato le spalle a Berlusconi e la metà di quelli della Lega (passata da 3,2 a 1,4 milioni) se ne sono andati a casa o altrove. Una scioccante dichiarazione di sfiducia.

Ora sarà assai difficile districare la matassa e dare un governo al Paese. Obiettivo essenziale, che però non attenuerà né risolverà lo choc di febbraio. Come sintetizza Bill Emmott, infatti, Beppe Grillo ha vinto perché è stato l'unico leader che si è schierato dalla parte del cambiamento e della rabbia. Dimostrando di aver capito ciò che gli elettori stavano vivendo. Per la sinistra dovrebbe essere pane quotidiano, e invece no. Così vince ma non convince, come dicevano una volta i cronisti sportivi, ed è costretta a fare i conti con Grillo in grave ritardo e in condizioni di maggior debolezza. Eppure di occasioni ne ha avute. Almeno tre.

Come ha ammeso lo stesso Bersani il centrosinistra non ha saputo elaborare una proposta all'altezza della crisi. In campagna elettorale ha puntato su serietà e affidabilità, e cioè sulla conservazione e non sul rinnovamento. E durante i tredici mesi di governo tecnico non era riuscito a imporre la sua agenda nemmeno sulle voci "costi della politica" e "legge elettorale". E' apparsa una miope difesa di se stessi.

Nonostante lo stimolo degli osservatori (solo "l'Espresso" gli ha dedicato tre copertine in un anno), il fenomeno Grillo è stato sottovalutato, poco studiato, demonizzato. Eppure il Movimento 5 Stelle è nato quattro anni anni fa, non ieri, e già incubava da tempo, almeno da quando, due anni prima, "La Casta" aveva fatto boom. Senza contare che molte di quelle parole d'ordine - e di quelle stelle - appartenevano di diritto al Dna della stessa sinistra. Prova ne sia un voto grillino omogeneo, trasversale, nazionale, senza gap territoriali: dalla Sicilia al Veneto, passando per la Livorno che fu dei portuali e la Piombino operaia e medaglia d'oro della Resistenza. Fino al nord dove Grillo, non la sinistra, ha intercettato il voto di operai e piccoli imprenditori in fuga dalla Lega dove erano approdati negli anni Novanta delusi dal Pds.

In questo Annus Horribilis c'è stato poi un terzo avviso, di altro segno e intensità, ma portato dalla stessa ondata: l'irruzione di Matteo Renzi. Certo, la cronaca politica non si scrive con i se, e dunque non staremmo a chiederci che cosa sarebbe successo se al posto di Bersani ci fosse stato lui; ma almeno il Pd avrebbe dovuto fare tesoro del significato di quella sfida, del consenso che l'accompagnava, dell'esistenza di un conflitto generazionale che preannunciava. Capire che il capitale delle primarie doveva essere tutelato e investito. E invece si è rapidamente tradotto in conservazione dell'esistente, e per questo si è dissolto. La politica si richiudeva dentro le sue stanze senza interrogarsi sul mondo che fuori tumultuava e rapidamente cambiava. Per un partito nato per essere nuovo, un suicidio.

Un'analisi impietosa? Forse sì. Ma comunque vada a finire nelle prossime settimane, governo o nuove elezioni, all'ordine del giorno c'è un cambio di rotta nei comportamenti, nel rifiuto di inutili privilegi, nell'attenzione alle esigenze dei cittadini: lavoro e moralità innanzitutto. Anche se il fenomeno Grillo dovesse svanire; anche se i suoi si dimostrassero pronti a collaborare; anche, e a maggior ragione, se scoprissimo che 163 ragazzi hanno occupato le Camere per scardinare il sistema e rifiutare l'Europa, c'è una sola strada: prendere atto della sconfitta e pensare diverso. Per governare. E per evitare che i 163 diventino 500.

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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Sia Grillo a tentare di fare un governo.
Inserito da: Admin - Marzo 19, 2013, 05:47:10 pm
Editoriale

Verrebbe voglia di dargli l'incarico...

di Bruno Manfellotto

Sia Grillo a tentare di fare un governo. È una provocazione ma servirebbe a capire cosa vuol fare davvero: guidare il Paese o sfasciare tutto. Mentre il Pd deve cogliere il senso della sconfitta e cambiare pelle

(07 marzo 2013)

Suggerisco caldamente ai lettori di non perdersi la "Bustina di Minerva" nella quale Umberto Eco spiega e smonta la campagna elettorale di Pier Luigi Bersani: in un Paese moderato come l'Italia, scrive, se la sinistra ostenta la sicurezza di vincere e di governare, perde. Non accadde forse lo stesso con la «gioiosa macchina da guerra» di Achille Occhetto? E poi, non dimentichiamo che almeno la metà degli italiani non ha mai votato né mai voterà a sinistra. Amen.

Lo stesso Eco, qualche giorno fa, ha rivolto la sua attenzione anche a Grillo, e a "Repubblica" ha ricordato che «se è impossibile riunire a legiferare i cittadini su una piazza, si crea la piazza informatica e mediante Internet, in cui tutti parlano con tutti, si ricrea l'agorà ateniese per cui il Sovrano è on line. Ma l'idea non tiene conto del fatto che gli utenti del Web non sono tutti i cittadini, e pertanto le decisioni vengono prese da una aristocrazia di blogghisti». E da qui nasce l'impasse del grillismo, il dover ora «scegliere tra democrazia parlamentare (che esiste e che lui ha accettato partecipando alle elezioni) e l'agorà che non esiste più o non ancora».

Giusto, Beppe e i suoi 163 deputati e senatori devono decidersi a fare una scelta di campo, sempre che non abbiano in testa non di favorire una maggioranza e di legiferare alla Camera e al Senato, ma di far saltare tutto e tornare a votare con l'intento di cancellare partiti e democrazia parlamentare. Per amor di paradosso e con il gusto della provocazione (politica e costituzionale) verrebbe da dire: che si dia l'incarico di formare il governo proprio a Grillo - leader riconosciuto oggi da Monti e domani da Giorgio Napolitano che consulterà anche lui - capo del movimento che ha preso più voti alla Camera: almeno sapremmo che cosa ha in mente, che cosa farebbe e con i voti di chi.

Capiremmo - noi, i suoi elettori e i suoi parlamentari - se intende governare o sfasciare tutto. Magari potrebbe approfittare dell'occasione anche per fare un po' più di trasparenza - lui che ha invaso piazze e Web di questa parola d'ordine - su certi investimenti di famiglia in un lontano paradiso fiscale.

Deve scegliere, e torniamo alla politica, anche il Pd. Perché se è vero che non si è ancora conclusa la lunga transizione dalla Prima alla Seconda Repubblica annunciata dall'avvento di Berlusconi vent'anni fa, è vero anche che il Pd non ha compiuto fino in fondo la sua traversata. La nascita del partito nuovo si è arenata una prima volta quando Walter Veltroni, perse le elezioni del 2008 (con il 33 per cento dei voti) e poi del 2009, lasciò la segreteria. La seconda volta quando pochi mesi fa è stata gettata al vento l'occasione delle primarie, e la sfida di Renzi è diventata solo occasione di scontro interno senza essere compresa, al di là della persona, per quello che essa significava per una parte consistente del popolo delle primarie e degli elettori.

La spinta propulsiva si è infine esaurita negli ultimi mesi del governo Monti, quando si è rinunciato a una nuova legge elettorale, non si è più parlato di costi della politica e si è varata una legge anticorruzione che ha regalato la prescrizione per odiosi reati legati a tangenti, come quelli che vedevano sul banco degli imputati e Berlusconi e Penati. L'esito finale è stato quello di pagare al momento del voto sia il prezzo dell'appoggio al governo Monti, sia la ripulsa di quell'intera esperienza. Risultato, per dirla con Renzi, un calcio di rigore sprecato.

Anche per il Pd, dunque, il momento è decisivo se davvero vuole rinnovarsi, osare, scommettere. Che non significa inseguire infantilmente le sirene di Beppe Grillo sul cui carro ora tutti allegramente e italicamente saltano; piuttosto capire cosa ha spinto tanti elettori di centrosinistra a votare per lui. E' davvero l'ultima occasione per prendere atto della sconfitta, cogliere il vento del rinnovamento, cambiare pelle. Prima di affrontare una nuova campagna elettorale. Prima che sia solo il millenaristico profeta Casaleggio a dettare l'agenda politica.

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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. C'è del metodo in questo caos
Inserito da: Admin - Marzo 22, 2013, 06:21:27 pm
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Editoriale

C'è del metodo in questo caos

di Bruno Manfellotto

Bersani è obbligato a continuare sulla strada intrapresa con la scelta di Grasso e Boldrini per le presidenze delle Camere. Perché risulti credibile la sua volontà di cambiamento. E perché si riesca a formare un nuovo governo

(21 marzo 2013)

Aveva detto: decideremo caso per caso, come nella Sicilia di Rosario Crocetta. E vabbè. Però, sottolinea il senatore Luigi Zanda che da giorni tenta di lanciare un ponte tra il gruppo del Pd e le truppe a cinque stelle, quando è stato il caso di scegliere tra l'antimafia di Piero Grasso e il Sistema di Renato Schifani, Grillo ha preferito la scheda bianca. Ha deciso di non decidere. Di non aiutare Grasso. E ha commesso un errore madornale che peserà sul futuro immediato e sulle stesse sorti del movimento perché ha finito per smentire un principio fondamentale che predica da anni: basta con gli apparati, più spazio alla società civile, e facce nuove. Proprio con queste caratteristiche si presentavano Laura Boldrini e Piero Grasso, ma non hanno ricevuto il placet del subcomandante Beppe.

Contraddizione talmente clamorosa che alcuni dei suoi, gli eletti in Sicilia, si sono sentiti in dovere di ribellarsi in virtù di una politicissima considerazione: «Se passa Schifani, quando torniamo a casa ci fanno un mazzo così». Testuale. Poi, votato Grasso, i dodici dissidenti hanno affidato alla Rete il giudizio sul loro operato. Ribaltando in tal modo il paradigma Grillo per il quale prima viene la democrazia telematica, poi il suo personale timbro finale; per molti dei suoi parlamentari no, ogni direttiva può essere contestata e la ribellione può essere poi legittimata dal sì della rete. Web boomerang. E il capo che voleva espellere i dissidenti ha dovuto fare marcia indietro.

In questo senso, Bersani può dirsi soddisfatto per com'è finito il primo round. Con un colpo di teatro, si è liberato delle pressioni del gotha di partito e delle ambizioni di molti big su Camera e Senato, ha messo in imbarazzo le truppe di Grillo & Casaleggio e mostrato al Paese che il Pd è pronto, se vuole, a rinnovarsi perché dispone ancora di personalità di tutto rispetto pronte ad assumersi responsabilità di governo delle istituzioni. Soprattutto ha fatto capire di aver cominciato a riflettere sull'esito del voto e sulle sue motivazioni più profonde.

Ma non basta, non è tutto. Ora Bersani deve stare molto attento. Nel suo partito covano rancori e voglie di vendetta che non lasciano intravedere un futuro roseo se è bastata l'elezione del capogruppo alla Camera per far emergere dal nulla un centinaio di dissidenti. Un altolà, un chiaro avvertimento che peserà su ogni scenario successivo, a cominciare dal tentativo di formare il governo.

Non solo. Il mezzo vincitore delle elezioni di fine febbraio deve anche sgombrare il campo dal sospetto che Grasso e Boldrini siano - come dice Grillo - solo una foglia di fico, che la sua non sia stata un'operazione di facciata. Insoma, se è vero che con la scelta delle presidenze di Camera e Senato è stato inaugurato un criterio del tutto nuovo, allora il "metodo Grasso" non potrà più essere contraddetto, pena l'incomprensione dei cittadini e il rischio di un ulteriore calo di consensi al prossimo appuntamento elettorale.

La formula non potrà restare una felice eccezione buona solo per frenare l'ondata crescente di polemica e di antipolitica e arginare il fenomeno Grillo, ma dovrà diventare necessariamente l'architrave sulla quale il Pd dovrà tentare di costruire un governo. E' l'unica vera carta che Bersani può giocare, quale che sia l'ipotesi di alleanza che insegue per sopravvivere alle incognite di un Senato oggi senza maggioranza né opposizione.

Ma non potrà essere abbandonato nemmeno se il tentativo dovesse fallire: suicida tornare subito alle urne chiedendo al capo dello Stato che verrà dopo Napolitano di sciogliere le Camere che lo avranno appena eletto; impensabile la riedizione riveduta e corretta di un governo tecnico; e assurdo un governo che affidasse la sua sopravvivenza al benestare degli apparati invece che a personalità tecnico-politiche. Non possiamo sapere che cosa ci riservi il domani, ma di certo sappiamo che non potrà più assomigliare a quello che abbiamo visto fino a oggi.

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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Chissà se i partiti servono ancora
Inserito da: Admin - Aprile 30, 2013, 04:45:09 pm
Editoriale

Chissà se i partiti servono ancora

di Bruno Manfellotto

Che fare di questi vecchi arnesi? Buttarli via o ripensarli? Dare ascolto a Grillo  o ricominciare daccapo? Nel Pd  se lo chiedono gli scalpitanti Renzi e Barca. Con due ricette diverse.? Ma forse con un intento comune...

(18 aprile 2013)

Prima strisciante, poi invasiva, la questione "partito" corre parallela al romanzo politico. Ovvero, che fare di questo vecchio arnese, buttarlo o trasformarlo? Tenerselo così com'è, no. Oggi, solo a evocarlo, il pensiero corre a casta e a ruberie, bizantinismi e risse da cortile, divisioni e spaccature: capo dello Stato e governo, che calvario. Più che una parola, una parolaccia. Di qui l'astensione crescente o la fuga verso chiunque si dichiari contro la politica e ne smentisca regole, parole d'ordine, comportamenti.

Del resto, oggi i partiti sono macchine fuori controllo. Può farci poco il cittadino-elettore, impossibilitato a partecipare alle scelte e costretto a subire le liste elettorali, sorta di hit parade stilate dagli apparati. A poco serve pure il doveroso check istituzionale, vedi lo scandalo dei bilanci dei partiti, oscuri anche per i sindaci revisori della Camera. E spesso è impotente perfino la nomenklatura che si arrende ai mille cacicchi locali.

Nella lotta per la sopravvivenza, inoltre, i partiti hanno scambiato la ricerca del consenso con l'occupazione di ogni possibile luogo della politica: Parlamento, pubblica amministrazione, banche, pezzi della magistratura. Provocando in questi anni un corto circuito istituzionale di cui le inchieste su politica, affari e tangenti sono l'esempio più evidente: pensando di rafforzarsi radicandosi nel potere, hanno accelerato la loro agonia.

Il vero mistero di questa tragedia che si muta in farsa, o viceversa, è perché quasi nessuno si sia reso conto di ciò che stava succedendo e non sia corso ai ripari lasciando così che dilagassero antipolitica e facili populismi. Le inchieste sulla casta, cioè sui costi della politica, sugli sprechi e sui privilegi garantiti a pochi a spese di tutti, lungi dal convincere i vecchi partiti all'autocritica e all'autoriforma, li hanno invece spinti a una patetica autoconservazione. E la metà degli elettori a rifugiarsi nell'astensione o nelle braccia di Beppe Grillo. Che ormai detta l'agenda politica.

Il risultato è stato devastante: in assenza del benché minimo segnale di ripensamento, nelle liste di proscrizione della casta sono finiti tutti, senza distinzioni di sorta, buoni e cattivi, onesti e disonesti, spreconi e rigorosi. Inoltre, l'alternativa ai partiti si è materializzata in un'esplosione di protesta - trasversale per età, appartenenze e aree di provenienza - che ha raccolto il consenso di quasi nove milioni di italiani, ma che ora non trova altro modo per esprimersi che parlare per bocca di un capo che non siede in Parlamento, che non si confronta con nessuno e non concorda ciò che dirà o farà con i suoi dirigenti e militanti, figli peraltro di un partito che non c'è. E che per ora sembra intenzionato solo a paralizzare il sistema nella speranza di una palingenesi totale. Affidata a se stesso e ai suoi.

E' singolare che anche questa crisi abbia generato una soluzione tutta leaderistica che fa il paio con quella del dopo Tangentopoli: ieri il partito padronale di Silvio Berlusconi, oggi il movimento con un solo capo; ieri la tv, oggi il web; ieri il predellino, oggi lo Stretto di Messina a nuoto. Ma entrambi legati alla sorte del leader: se viene meno lui, crolla tutto.

Con queste premesse , inevitabile che a pagare di più fosse il Pd, rimasto orgogliosamente legato alla forma partito e tenacemente deciso a preservarne i connotati. Perfino quando si è lanciato nelle primarie. E dunque non è un caso che di questo si parli proprio nel Pd e che a farlo siano i dioscuri del partito, i fratelli Miliband de' noantri: Matteo Renzi e la new entry Fabrizio Barca, figli delle culture politiche democratiche unite e mai conciliate, plastica rappresentazione delle due strategie che si contrappongono e si contrapporranno: dialoganti e isolazionisti, inciucisti e filo grillini, partito liquido e partito partecipato.

Divisi su tutto, ma entrambi decisi a ripensare il futuro. E magari a evitare che dallo scontro nasca l'ennesima scissione. Al di là di come vada a finire, questa sembra l'unica buona notizia in questi tempi confusi e bui.

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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Nel Pd la tregua è armata
Inserito da: Admin - Maggio 05, 2013, 04:16:17 pm
Editoriale

Nel Pd la tregua è armata

di Bruno Manfellotto

Dopo lo scoglio della fiducia, la guerra interna riprenderà. Tra giovani e vecchi, anti radicali e centristi, ex Dc ed ex Pci. Finché non si creeranno nuovi equilibri: se si creeranno

(26 aprile 2013)

La tregua, vedrete, durerà poco, più o meno fino a quando il governo prenderà corpo e vita. Poi, votata la fiducia (e già qui qualche mal di pancia si manifesterà), il problema esploderà di nuovo. Stavolta sotto forma di scontro generazionale palese e drammatico, ma più ancora come confronto tra le diverse anime del Pd, post Dc e post Pci, e tra il fronte disposto al dialogo con la destra e chi lo bolla come inciucio, tra chi insegue le larghe intese e chi guarda a Grillo, tra chi pensa alla scissione e chi vorrebbe evitarla a ogni costo. Niente di nuovo sotto il sole: convivere o no con il Caimano?

Incapace di sciogliere nodi antichi, il Pd ha bruciato, come da tradizione, quelli che considerava i "mejo fichi del bigoncio" impallinandoli nell'urna che avrebbe dovuto consacrarli presidenti della Repubblica o premier: Anna Finocchiaro, Franco Marini, Romano Prodi, Stefano Rodotà, Giuliano Amato... Grazie al voto segreto che copre, mettendoli al riparo, vigliacchi, traditori, cacicchi e irresponsabili. E inanellando errori e contraddizioni che hanno alimentato la confusione già dilagante.

Ricordarli tutti? Verso il voto ci si è incamminati in gioiosa compagnia di Nichi Vendola, ma annunciando per il dopo un'improbabile alleanza con Mario Monti dipinto come capo di un governo affamatore al quale il Pd aveva però dato leale e responsabile appoggio per più di un anno. Con il risultato di perdere e la prima e la seconda. Tutta la campagna elettorale è stata poi condotta mettendo la sordina allo sconfitto delle primarie Matteo Renzi e demonizzando il redivivo Berlusconi.

Alla faccia di sondaggi ed exit poll, poi, le elezioni di febbraio hanno cancellato il bipolarismo e regalato a una rumorosa new entry il 25 per cento dei consensi. E qui sono cominciati i guai veri. Preso atto che da soli non avrebbero potuto governare i democratici, al grido di "con Berlusconi mai" hanno inseguito un'impossibile alleanza con Beppe Grillo e battezzato la scelta con quel metodo Grasso che ha portato al Senato un presidente votato oltre che dal Pd anche da un pattuglia di grillini dissidenti.
Metodo abbandonato però subito dopo per il Quirinale per la cui presidenza si è cercato un campione delle larghe intese, Marini, salvo scoprire che la dissidenza era tale da impedire l'operazione; e dunque rinculare rifiutandosi di votare Rodotà solo perché suggerito da Grillo, ma proponendo di convergere da soli sul nome di Prodi, miopemente bocciato da Grillo & C. e perfino da una consistente pattuglia di franchi tiratori del Pd. E andare poi a chiedere aiuto a Napolitano, che da sempre invoca un accordo destra-sinistra per le riforme e per l'economia. Chi ci capisce è bravo. Nessuno comunque si è preoccupato di spiegare al Paese, né in piazza né in streaming, perché si passava in poche ore da una strategia all'altra e che differenza c'è tra un voto per il capo dello Stato e un voto per far nascere un governo.

La verità è che mezzo Pd non avrebbe mai votato Rodotà e un altro mezzo avrebbe bocciato, come ha fatto, sia Marini che Prodi. Due anime, due visioni del mondo, due strategie. Che potrebbe tenere insieme solo una leadership molto forte, noncurante dei mugugni e dei tweet: se chiamata a un referendum, la base avrebbe mai sancito la rottura con Mosca, o sottoscritto il compromesso storico o cambiato nome al glorioso partito comunista?

Oggi la disoccupazione sembra non quella di trovare la strada giusta per risollevare il Pd dalla crisi, ma cosa fare per tenere in piedi quel poco che c'è. Fino all'ultimo è sembrato che il candidato premier del Pd fosse Renzi, bocciato - ma guarda un po' - proprio da Berlusconi e sponsorizzato da quei giovani turchi che un mese fa ne parlavano come di un bugiardo traditore venduto al nemico. Del resto il suo nome unisce sia chi pensa a lui come all'unico leader capace di tirare il partito fuori dai guai, sia chi spera in cuor suo che affidargli una missione impossibile sia il miglior modo per bruciarlo. Anche lui. Si vedrà dopo la tregua. E tutto ricomincerà da dove eravamo rimasti.

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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Grillo non ha sempre ragione
Inserito da: Admin - Maggio 16, 2013, 11:21:09 pm
 
Editoriale

Grillo non ha sempre ragione

di Bruno Manfellotto

Pensava di essere il Pannella degli anni Duemila. Ma il suo boom ha bloccato il Parlamento. Ora vuole disarticolare il sistema. Il Pd lo ha inseguito e poi cambiato strategia, senza spiegare perché. Intanto si cerca di mettere in soffitta l'anomalia berlusconiana...

(02 maggio 2013)

Azzardo una scommessa: Beppe Grillo non accetterà patti, alleanze, accordi, almeno in questo parlamento e con questi partiti. Inciuci, no? Del resto, come potrebbe essere altrimenti dopo anni di vaffa contro il Pdl e "il Pd senza elle"? E dopo che le urne gli hanno consegnato 8,5 milioni di voti che vengono da delusi e incazzati di destra e di sinistra.

Grillo non si aspettava il trionfo: pensava di riuscire sì e no a condizionare la vecchia Casta, novello Pannella degli anni Duemila, ma il suo boom ha contribuito a rendere ingovernabile il Paese. Pensava che i suoi parlamentari sarebbero stati un'agguerrita pattuglia, sono invece un esercito (che lui comanda con piglio militare). Avrebbe voluto che si sedessero alle spalle dei vecchi politici per controllarli e, quando necessario, additarli al pubblico disprezzo, oggi sono tanti da occupare un'ampia fetta degli emicicli di Camera e Senato.

Ora che è arrivato molto più in là di dove immaginava, Grillo vorrebbe non più solo pungolare il sistema, ma disarticolarlo. Anche al prezzo di concedere a Berlusconi una vittoria inattesa e di far risorgere un balenottero bianco. Del resto il governo Letta-Monti-Alfano è pane per i denti grillini: le inciucissime larghe intese!

E però alla fine questo governo strano potrebbe perfino mettere in crisi il disegno grillino, o affondare per sempre il sogno di rivincita dei partiti. Magari i parlamentari M5S non si "scongeleranno", come Enrico Letta auspica, ma presto conosceranno l'imbarazzo quando si troveranno di fronte alla legge che cancella le Province, o a quella che riduce l'Imu e l'Iva, o al provvedimento che manda in soffitta il finanziamento pubblico. E dovranno votare sì o no. A loro volta i politici della Terza Repubblica sprofonderebbero di nuovo nella Prima se smentissero le promesse o cedessero ai richiami della Casta.

Tutto bene, dunque? Aspettiamo e qualcosa succederà? Macché. A pagare il prezzo più alto è il Pd che fu di Bersani, travolto da una lunga serie di errori. Il primo è stato non tanto sognare l'alleanza democratico-grillina: era doveroso prendere atto del voto e provarci; ma insistere pervicacemente anche quando ne era chiara l'impercorribilità. Ulteriore sbaglio è stato abbandonare il metodo Grasso dopo averlo imposto con successo e infine smentirsi e smentirsi nella battaglia per il Quirinale, senza dare conto di nulla e a nessuno: passando da Franco Marini (candidato delle larghe intese) a Romano Prodi (centrosinistra antiberlusconiano) a Giorgio Napolitano (larghissime intese) e per il no a Stefano Rodotà, mai spiegato né motivato.

Una confusione che viene da lontano. Prima l'alleanza elettorale con Vendola, che non escludeva il successivo abbraccio con Casini, poi il duro giudizio sul governo Monti al quale pure il Pd aveva donato sangue per oltre un anno; poi, per tutta la campagna elettorale, un antiberlusconismo di principio - «Mi ci vedete con Gasparri e La Russa?», rideva Bersani - praticato per vent'anni, ma che non ha portato né a severi criteri di ineleggibilità né a una legge sul conflitto di interessi.

A questo punto della storia, tutte le antiche contraddizioni restano irrisolte. I postcomunisti del Pd, stanca e isolata ridotta, si consegnano non a un governo tecnico ma politico, e senza averne la guida; non alla "non sfiducia", ma a una corresponsabilità piena e con ministri più democristiani che democratici; né sanno ancora se questo loro ennesimo atto di responsabilità porterà alla rinascita o alla fine del Pd, e nemmeno se il governo Letta-Alfano sancisce una tregua o intende cancellare d'un colpo, senza averla risolta, la pesante anomalia berlusconiana magari portando il Caimano trionfante alla presidenza della Bicamerale per le riforme.

Nell'attesa, ingoiato il calice amaro dell'unico governo possibile, il Pd non può fare altro che guardarsi dalla rassegnazione e dalle questioni di principio, e giudicare dai fatti. A cominciare, appunto, dalla giustizia e dalla riforma della Costituzione. Non perché Grillo sta lì a guardare e criticare, ma per la sopravvivenza sua e la dignità del Paese.

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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Ma la Bicamerale porta sfiga
Inserito da: Admin - Giugno 01, 2013, 04:21:29 pm
Editoriale

Ma la Bicamerale porta sfiga

di Bruno Manfellotto

Da Craxi a De Mita, fino a D'Alema: le super commissioni che vogliono riformare la Costituzione hanno sempre fulminato i loro ideatori. E consentito a Berlusconi di fare gli affari suoi. Ma ora vogliono riprovarci

(27 maggio 2013)

Sosteneva Claudio Rinaldi, che sapeva sorridere anche delle cose più serie, che le Grandi Riforme portano iella. A chi cerca di farle. In effetti... Il primo a coniare la formula magica fu Bettino Craxi che però, malato e ostracizzato, fu costretto esule in Tunisia; Aldo Bozzi, liberale e padre della patria, finì rapidamente nel dimenticatoio; Ciriaco De Mita, che ci provò anche lui, brillò e si spense come una meteora; Nilde Iotti, che ne raccolse il testimone, il cui lavoro restò inutilizzato; Mariotto Segni è uscito rapidamente di scena; di Gianfranco Fini, presidenzialista della prima ora, nessuno ha più notizie; e Massimo D'Alema ancora non si è ripreso dal fallimento della sua Bicamerale, tempio del sacro inciucio (e in suo onore Giampaolo Pansa inventò per "l'Espresso" il personaggio Dalemoni).

Già, la Bicamerale. Correva l'anno 1997 e Silvio Berlusconi prese in giro tutti proclamando di voler modernizzare il Paese. Compreso D'Alema, che pensava di portarlo sotto il suo dominio pieno e incontrollato impaniandolo nei riti parlamentari. Ma il Caimano voleva solo norme e leggi che lo mettessero al riparo dai pm, e poi la Repubblica presidenziale per diventare il nostro De Gaulle (alle vongole). Così, quando vide che le cose non andavano come voleva, mandò tutto all'aria. Amen. Sedici anni dopo siamo ancora lì: Berlusconi vuole sempre giustizia e presidenzialismo ad personam e s'annunciano di nuovo tempi di insopportabile bla bla. E di rischi crescenti.

Che nascessero da convenzioni o commissioni parlamentari o vattelapesca, tutte le riforme che hanno fin qui toccato la Costituzione hanno portato solo guai: il voto degli italiani all'estero è stato un flop; il "giusto processo", pensato in nome di una "ragionevole durata", s'è sciolto come neve al sole dinanzi alle bizantine impalcature procedurali e al contemporaneo accorciamento dei tempi di prescrizione; la riforma del titolo V della Costituzione, il federalismo pre-elettorale in zona Cesarini, ha aggravato i conflitti tra Stato e Regioni; il pareggio di bilancio in Costituzione ha ingabbiato la politica economica. E ogni volta il Grande Disegno si è infranto quando si è cominciato a parlare di giustizia e di presidenzialismo, i due chiodi fissi del Cavaliere, azionista di riferimento della politica italiana da un ventennio.

Non si capisce dunque, o meglio si capisce fin troppo bene, a chi diavolo serva l'ossessione di una riforma della Costituzione in attesa della quale passiamo i nostri giorni a scrutare ogni batter di ciglia pro o contro forme di presidenzialismo che dovrebbero fare di personaggi modesti o pericolosi dei supereroi.

Eppure i nostri premier, grazie alla Costituzione che c'è, hanno finora fatto e disfatto tutto ciò che hanno voluto: governato a colpi di decreti legge in barba al Parlamento; dato vita a maggioranze strette o larghe; provocato lo scioglimento delle Camere; nominato e licenziato ministri; cambiato la Costituzione (e abbiamo visto come); modificato a proprio uso e consumo il codice penale. Vogliamo dar loro ulteriori poteri? Quali? E proprio ora che i partiti politici, organizzazioni nate (sì, certo, poi degenerate) per organizzare il consenso e il dissenso e controllare il potere, appaiono sempre più deboli? Ora che il loro posto è occupato da partiti-azienda, galassie pupuliste e agglomerati confusi e inconcludenti? Oggi il vero problema è come far arrivare in Parlamento la voce di cittadini non più rappresentati, non dare più potere a chi già ne ha troppo.

Un paese che non ha risolto il conflitto di interessi - problema ignorato da politici, facilitatori, saggi, esperti e premier incaricati o in carica - non ha bisogno di concentrare nelle mani di uno solo ulteriori poteri, specie presidenziali. Anche perché questo è il Paese dei Berlusconi che manifestano davanti ai Palazzi di Giustizia, ma anche dei Grillo e Casaleggio che pretendono (sacrosanta) trasparenza da partiti e parlamentari ma, in spregio dei loro elettori, si rifiutano di mostrare i bilanci delle loro holding e società e di dire da chi prendono i soldi e come li spendono. Ieri la Casta, oggi il segreto bancario.

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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Chi si prenderà i voti della Lega
Inserito da: Admin - Giugno 23, 2013, 11:07:55 am


Editoriale

Chi si prenderà i voti della Lega

di Bruno Manfellotto

Uno tsunami ha sconvolto valli e pianure del Nord. Cancellando le camicie verdi che lì avevano dominato per un ventennio. Si è frantumato il blocco sociale della destra. E mentre Grillo affonda, il Pd non ne approfitta fino in fondo

(14 giugno 2013)

Il 6 giugno del 1993 Umberto Bossi festeggiava con Marco Formentini la storica conquista del Comune di Milano, suggello di un trionfo che aveva dato alla giovane Lega Nord il controllo delle ricche province del Nord. Il 10 giugno del 2013, la Lega di Roberto Maroni lascia liberi e dispersi nelle verdi praterie della Padania centinaia di migliaia di voti in cerca di una nuova casa. E' molto di più di una sconfitta elettorale, è una débâcle, una rotta, il fallimento di un progetto che certo non si ripeterà più nelle forme e nei modi in cui lo abbiamo conosciuto in questo interminabile ventennio. E' la fine della Seconda Repubblica, come ha scritto Ilvo Diamanti.

Giusto vent'anni fa, con un colpo di genio, Silvio Berlusconi dava vita alla più originale invenzione politica del millennio, la Casa della libertà, il patto che federava il Sud di Alleanza nazionale e della post Dc di Casini con il Nord delle camicie verdi, la destra sociale e padronale con quella moderata e postfascista. Oggi Fini è sepolto sotto i resti di casa Tulliani a Montecarlo, Pierferdi si lecca le ferite dopo la scommessa Monti finita in una bolla di sapone, e Bossi è solo il ricordo di un tempo che fu. Un blocco sociale si è dissolto.

Di Grillo e dei suoi sogni di gloria s'era già detto ("Grillo non ha sempre ragione", "l'Espresso" n. 18) e ridetto ("E ora Beppe dica cosa farà da grande", "l'Espresso" n. 23), ma con il voto di metà giugno si è andati oltre ogni previsione: uno tsunami alla rovescia lo ha come cancellato, irriso, umiliato. Da Sondrio a Ragusa. Del resto dei suoi otto milioni e mezzo di voti non ha saputo che farne. Oggi l'ipoteca su quel 25 per cento di voti resta, è come se li avesse congelati: fino a quando?

Se le cose stanno così, allora il Pd - per dirla con i cronisti sportivi d'un tempo - ha vinto ma non ha convinto. E' a dir poco strepitoso, per esempio, che dei 92 comuni in palio ne abbia conquistati 54 (e ne aveva 35), e che abbia costretto il Pdl di Berlusconi & C. a scendere da quota 50 a 17. Ma l'euforia della vittoria annunciata non deve far dimenticare che i sondaggi nazionali, anche dopo l'esito a sorpresa di Roma o di Treviso, danno sempre il Pdl in testa. La strada è ancora lunga e faticosa.
Dopo mesi di buio e di confusione, l'operazione rinascita potrebbe essere avviata. A patto che Epifani il traghettatore, e chi sta accanto a lui, non fingano di non vedere ciò che è successo. La vittoria c'è stata, indiscutibile: non si fa sedici a zero nelle città capoluogo solo per caso, ma per la sinistra il voto amministrativo è da sempre un vantaggio. Intanto, però, la base elettorale si restringe, i consensi diminuiscono e i voti che Lega e Pdl lasciano sul campo non vanno a ingrossare le file dei democratici, bensì quelle dell'astensione sempre più deluse da una politica elitaria e inconcludente. Il pugile ha vinto per abbandono.

Non sottovalutiamo poi che per imporsi il Pd abbia dovuto anche questa volta mascherarsi dietro liste civiche, outsider, alleanze originali. E infine che a Roma, la più clamorosa delle vittorie, abbia trionfato un democratico per caso, un chirurgo prestato alla politica che da senatore ha votato contro il governo delle larghe intese e che mostra distinguo e radicalità che lo allontanano assai dalla politica che conosciamo, anche quella del postcomunista Goffredo Bettini senza il cui aiuto e apparato Marino certo non ce l'avrebbe fatta.

Insomma, abbiamo già scritto ("Ma ora non dite che tutto va bene", "l'Espresso" n. 22) - e ci perdoni chi vorrebbe solo applaudire e festeggiare - che a sinistra i rischi non mancano. Nell'ordine: che i maggiorenti del Pd facciano spallucce e considerino passeggera la ventata di antipolitica, e Beppe Grillo un fenomeno evaporato (e i suoi otto milioni di fan, quasi tutti strappati all'astensione?); che Enrico Letta si convinca che i consensi al Pd, cioè i non consensi a Grillo e Pdl, significhino vita eterna al suo governo; e che Matteo Renzi sia costretto a una lunga attesa, a una permanente campagna elettorale che lo sfianchi al punto da bruciarlo o spingerlo allo strappo... In altre parole, anche se stavolta il vento ha soffiato nelle vele del Pd, non è finito ancora niente. La storia continua.

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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. E se tornassimo alla democrazia?
Inserito da: Admin - Luglio 05, 2013, 04:44:13 pm

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Editoriale

E se tornassimo alla democrazia?

di Bruno Manfellotto

Da vent'anni siamo costretti al gioco delle leggi ad personam, degli attacchi alla magistratura, delle ipotesi di salvacondotto e così via.
Tutto in nome del 'consenso nelle urne', che in un Paese liberale non c'entra proprio niente.
Così come non c'entra nulla la cosiddetta 'pacificazione'

(27 giugno 2013)

Non sbaglia chi dice che la decisione del tribunale di Milano di infliggere a Berlusconi ben sette anni di carcere per concussione e prostituzione minorile oltre all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, era attesa, perfino scontata. Nel senso che talmente esplicita era la volontà di occultare la verità sulle notti di Arcore anni dopo le dolenti denunce di Veronica Lario, i compleanni di Noemi e le Tarantino girls; talmente proterva la pressione sulla Questura; e talmente sfacciata, quella fatale notte, la decisione di affidare "la nipote di Mubarak" non a un riservato diplomatico egiziano ma alla fidata Nicole Minetti, che il processo non poteva che finire così, con una condanna. Il fatto poi che a decidere le sorti di B. siano state quattro donne, una pm e tre giudici, appartiene solo all'aurea legge del contrappasso.

Di questa sentenza s'è molto scritto, e pure della scelta del Tribunale di andare oltre le richieste di Ilda Boccassini trasformando in un boomerang la miniriforma Severino che ha diviso in due il vecchio reato di concussione e previsto pene più pesanti per chi non si limiti a indurre, bensì costringa, a violare la legge. La riscrittura avrebbe potuto aiutare il Cavaliere, come peraltro è stato per Filippo Penati, Pd; e ha finito invece per aggravargli la condanna. Alcuni aspetti della vicenda, però, meritano ancora attenzione e molti luoghi comuni di essere smontati.

Tutti i testimoni chiamati dalla difesa a sostenere le tesi del Cavaliere, la corte di Arcore, sono stati rinviati alla Procura con l'accusa di falsa testimonianza. Insomma, secondo il Tribunale, Apicella e Nicole, Licia Ronzulli e Marysthell Polanco, Ruby e Maria Rosaria Rossi hanno fatto finta di non sapere per coprire Silvio e le sue serate. Una sorta di associazione a mentire. Dunque quello all'ex premier si è trasformato nel processo all'intero sistema Berlusconi e al modo di intendere i rapporti tra potere, istituzioni e vita privata di un uomo e dei suoi cari (fino a candidare la figlia come nuovo leader Pdl) . Amara metafora di una stagione lunga un ventennio che ha di fatto paralizzato la politica italiana.

Anche gli argomenti utilizzati a difesa del Cavaliere non stanno in piedi. Qualcuno ha detto per esempio che le abitudini sessuali non erano mai state sfruttate a fini di lotta politica, mica siamo gli Stati Uniti puritani di Bill Clinton e Monica Lewinsky. Non è vero, e non c'è bisogno di scomodare Pecorelli e i servizi segreti: nella stagione in cui non c'erano né tv né Internet vigeva la sacra regola del "io so che tu sai che io so". E tanto bastava per agire di conseguenza. Ma è anche vero che stavolta, per la prima volta, è accaduto in un certo senso il contrario: la politica, il ruolo istituzionale, l'arroganza del potere sono stati messi in campo per consentire o coprire o favorire vizietti e feste in villa. E' questo che si sanziona, non il bunga bunga. E a norma di legge, non di morale.

Si ripete poi come uno stanco mantra la tesi dell'eliminazione politica di B. per via giudiziaria. Ma si sorvola sul suo tentativo costante di sottoporre la giustizia alle sue esigenze in una continua confusione, per taluni giocosa per altri tragica, di interessi privati e pubbliche virtù.
Ieri le leggi ad personam, oggi il sostegno al governo delle larghe intese, alla maggioranza Brunetta-Fassina in nome della "pacificazione" (ma chi ha dichiarato la guerra? E a chi?) che lui intende come controllo sulla Corte costituzionale, nomina a presidente di una commissione per le riforme o a senatore a vita, concessione di un salvacondotto che lo tuteli dai processi giudiziari e politici (ineleggibilità). Tutto in nome del consenso delle urne - peraltro in costante calo - che però non può significare giustificazione, eterna licenza, impunità.

Basterebbe questo per chiedere conto a Berlusconi della sua concezione della politica e delle istituzioni. Ma l'uomo è fatto così, non riesce a capire che nei sistemi liberali - aggettivo abusato e poco praticato - i poteri del governo, del parlamento e della magistratura devono godere di piena autonomia, e che è proprio il loro equilibrio a garantire l'esercizio della democrazia. Da vent'anni non è così.

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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Più che l'evasore poté la Santanchè
Inserito da: Admin - Luglio 28, 2013, 10:37:22 am
Editoriale

Più che l'evasore poté la Santanchè

di Bruno Manfellotto

"L'Espresso" dedica la copertina a un'inchiesta su uno scandalo nazionale: gli evasori tolgono allo Stato ogni anno 180 miliardi, mentre undici milioni di italiani non versano un euro. Ma la politica tace. Impegnata ad occuparsi d'altro...

(05 luglio 2013)

I venerdì dell'"Espresso" - i lettori di "Questa settimana" lo sanno - sono immancabilmente scanditi da lettere e telefonate di protesta, talvolta anche di insulti. Intendiamoci, gli apprezzamenti e gli inviti a insistere prevalgono, ma più rumorosi sono certamente i distinguo, le precisazioni, le smentite, comunque quasi mai fondate e sempre rigorosamente bipartisan: si dolgono da destra e da sinistra, imprenditori e grand commis, ministri e deputati, sindaci e governatori, outsider e grillini. Perché mal sopportano, tutti, che si dica come stanno le cose. Ma stavolta, anche se lamentele ci sono state, le cose non sono andate come si immaginava. E la stranezza merita qualche riflessione.

Credevamo, infatti, che la copertina dedicata all'evasione fiscale avrebbe scandalizzato, suscitato indignazione, provocato sensi di colpa. Invece niente: silenzio, freddezza, indifferenza. E dato l'argomento c'è di che preoccuparsi. Che cosa abbiamo svelato con la nostra inchiesta? Semplicemente come stanno le cose. Abbiamo documentato per esempio che ogni anno sfuggono al controllo del fisco ben 180 miliardi di euro: quarantacinque volte il gettito Imu prima casa; che per stanare gli evasori l'Agenzia delle entrate dispone di uno dei più sofisticati sistemi informatici del mondo, ma che nonostante questo non riesce a recuperare al netto che 7 miliardi su 180 stimati. Spiccioli.

E ancora: che gli italiani spendono più di quanto dicono di aver incassato: e la differenza? Che undici milioni di connazionali, pur presentando dichiarazione, alla fine pagano zero euro; che più di quattro milioni di famiglie firmano dichiarazioni a dir poco incongrue; e infine che i governi, compresi quello tecnico del professor Mario Monti, che in altri tempi aveva incastrato Microsoft, e quello delle larghe intese di Enrico Letta, e pure le maggioranze parlamentari che li sostengono, sembrano perseguire tutti il medesimo disegno assai poco virtuoso: cercare le tagliole disseminate qua e là per catturare qualche infedele dell'erario e subito allentarle. Per paura che spezzino le gambe di potenziali elettori. Ultimo esempio, minimo ma significativo, la decisione di riportare da mille a tremila euro il tetto massimo all'uso del contante. Via ogni traccia.

Abbiamo scritto insomma che il partito degli evasori gode ottima salute e può pure contare su amici cari nel governo e nei partiti. Reazioni? Il silenzio. Anche da parte di chi è appena entrato in Parlamento proprio criticando le tante caste e i loro privilegi. Come per esempio deputati e senatori cinque stelle il cui programma elettorale conta 2504 parole, ma nemmeno una sull'evasione fiscale. Perché?

Potrebbe trattarsi di progressiva assuefazione: se ne parla, se ne parla ma non se ne viene mai a capo, fino a perdere ogni speranza. Statistiche alla mano - ecco un'altra interpretazione - si potrebbe dire che in una famiglia sì e una no si annida un piccolo o grande evasore, o almeno un profeta dell'elusione. A questa affermazione potrebbe seguire la constatazione che evidentemente chi paga le tasse fino all'ultimo euro appartiene a una minoranza, e pure silenziosa. Parallela a questa è la convinzione che sia del tutto vano cercare di spingere gli italiani sulla via della redenzione fiscale né vincere l'atavica diffidenza per tutto ciò che viene, tassazione compresa, da uno Stato sentito come lontano, inefficiente e nemico. Nemmeno di fronte all'evidenza che un miliardo di Iva, il cui aumento si fatica a cancellare, o il miliardo e mezzo necessario a rifinanziare la cassa integrazione sono noccioline a fronte del mare di evasione e di lavoro nero.

Fin qui ci hanno soccorso psicologia, sociologia e storia del costume nazionale. Poi c'è la serena certezza che solo un'infima percentuale di evasori finiscono nelle maglie del fisco e, se beccàti, se la cavano con una multa risibile. E infine c'è il triste sospetto che di questi tempi chi fa politica pensi ad altro. Per esempio a trovare il modo di impedire a Matteo Renzi di candidarsi a qualunque cosa. O a prendere la storica, finale decisione sulla resistibile ascesa di Daniela Santanchè. Amen.

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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Il governo del durare ancora un po'
Inserito da: Admin - Agosto 06, 2013, 12:01:37 pm
Editoriale

Il governo del durare ancora un po'

di Bruno Manfellotto


Giorno dopo giorno è Napolitano a richiamare le forze politiche al senso di responsabilità e a spingerle a fare almeno una cosa, una legge elettorale che dia al Paese ciò che oggi non ha: una maggioranza e un'opposizione. Ma nessuno lo ascolta

(26 luglio 2013)

A lla fine, nel pieno della bagarre kazaka, per evitare il peggio e partire tranquillo per due settimane di riposo in Val Fiscalina, Giorgio Napolitano è dovuto intervenire ancora una volta. Gioved' 18 luglio ha trasformato la rituale cerimonia del ventaglio nell'ennesima esternazione con la quale ha messo in guardia i nemici del governo Letta da avventure e colpi di mano, cosa che ha fatto storcere il naso ai nemici delle larghe intese e a chi paventa forme striscianti di neopresidenzialismo. Ancora larghe intese, dunque. Già, ma a che prezzo?

Il primo e più importante in fondo lo sta pagando in fondo lo stesso Napolitano. Che si è accollato il peso non indifferente di un secondo mandato e si spende quotidianamente per tenere in piedi un governo ancora più "strano" del gabinetto tecnico di Mario Monti. Nella convinzione, fondata, che non esista oggi in Parlamento una maggioranza alternativa a quella Letta-Alfano e che anche sciogliendo le Camere e andando a votare – ipotesi che per ora il Capo dello Stato non prende nemmeno in considerazione – le cose non cambierebbero, anzi ne risulterebbe un panorama politico ancora più frammentato e confuso. Scenario preoccupante. Perfino inquietante se si guarda al pericolo sottovalutato o rimosso: un'economia in piena recessione che, ripete Napolitano, non può permettersi vuoti di potere.

Al senso di responsabilità del Presidente – i cui atti sembrano andare perfino al di là delle sue più intime convinzioni – non fa però eco un'altrettanto convinta prova di maturità da parte delle forze politiche. Anzi. Di strappo in strappo, dunque, è messa a dura prova la figura stessa di Napolitano, continuamente costretto a rattoppare una tela sfilacciata. Alla crisi politica e a quella economica rischia di assommarsene ora anche una istituzionale. Ne è plastico esempio l'imbarazzante vicenda kazaka che offre lo spettacolo di un apparato statale che brilla per inefficienza, incomunicabilità con il governo e con la politica, sottomissione a poteri locali e internazionali.

Eppur bisogna andar. Governo blindato? E per quanto tempo? Finora il grosso dell'attività di governo - se si esclude il lungo lavorìo diplomatico sui tavoli europei - se ne va ormai non per "fare", ma per mediare, cioè per accordarsi su compromessi o su rinvii (Imu, Iva, omofobia, anticorruzione) che consentano al governo Letta di durare ancora un po'. Probabilmente l'atto di grande responsabilità di Napolitano ha come obiettivo minimo essenziale quello di una riforma elettorale, o almeno la resurrezione del Mattarellum, insomma la garanzia di un meccanisnmo in grado di dare comunque una maggioranza capace di eleggere un nuovo Capo dello Stato e poi dar vita a un governo. Ci vorrebbe l'impegno di tutti. E invece, irresponsabilmente, nessuno lo ascolta.

P.s. Sabato scorso Giuliano Ferrara ha dedicato la sua attenzione all'ultima copertina dell'"Espresso" accusandoci, con la consueta puntuta acutezza, di "laica inquisizione". Ma come, ha scritto l'Elefantino, il libertario "Espresso" che invoca il rinnovamento della Chiesa scavando nelle abitudini sessuali di un monsignore? Troppo facile. Ferrara sa bene che se abbiamo indagato sulla "lobby gay" è solo perché a denunciarne l'invasiva presenza nelle stanze del potere vaticano era stato papa Francesco, forse pensando proprio al caso Ior. E che lo scandalo, com'è ovvio e come abbiamo scritto, non sta certo nelle abitudini sessuali del monsignore, ma nelle programmate omertà sul caso riservate al pontefice alla vigilia di una nomina importante.

Poi però, due giorni dopo, nel suo reader's digest del lunedì, "il Foglio" stesso ha riprodotto integralmente il pezzo di Sandro Magister uscito sull'"Espresso" e lo ha titolato: "Il passato imbarazzante di monsignor Ricca: che fosse gay lo sapevano tutti tranne il Papa". Appunto. Arrigo Benedetti pregava i suoi redattori di «fare più giornalismo e meno ideologia». Ecco, a noi il "Foglio" piace moltissimo quando fa, e bene, intelligente giornalismo.

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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Non si vive di sola Kyenge
Inserito da: Admin - Agosto 09, 2013, 04:45:25 pm
Non si vive di sola Kyenge

di Bruno Manfellotto

La nomina di una ministra di colore è stato un atto forte e rivoluzionario. Lo provano gli insulti e i rigurgiti razzisti: la medicina fa effetto. E però non basta. Di crisi, disoccupazione e tasse si parla ancora poco. Invece non tace Marchionne...

(01 agosto 2013)

A pensarci bene, il governo Letta potrebbe passare alla storia solo per aver nominato ministro della Repubblica la dottoressa Cécile Kashetu Kyenge, 49 anni, congolese, medico oculista. Pensare a lei, affidarle il dicastero delicato e fortemente simbolico dell'integrazione - e poi sopportare lazzi e volgarità, insulti e sorrisini beceri (anche in questo Cécile dimostra intelligenza e classe) - è stata un'idea forte. Un attoquasi simile per importanza a quello di papa Francesco che sull'aereo da Rio a Roma distingue tra gay e lobby gay, grazia separati e divorziati e per lo Ior chiede onestà e trasparenza.

In quanto ai rigurgiti razzisti ai quali siamo costretti ad assistere, non devono preoccupare più di tanto: sono il segno che la medicina fa effetto, il prezzo che è necessario pagare per fare un passo avanti e accettare che, sì, ohibò, una nera può diventare ministro. Come negli Stati Uniti di Abramo Lincoln e del Ku-Klux-Klan che pure ci hanno messo centocinquant'anni per eleggere Barack Obama e prendere atto che l'America è diventata grande proprio grazie agli immigrati.

Ma certo non è tutto, e non basta la rivoluzione Kyenge a dare una missione a un governo. Non serve per esempio consultare indici e statistiche - che pure annunciano che quattro giovani su dieci cercano invano un lavoro - per capire di quale malattia di consunzione soffra il Paese. Non c'è bisogno di ascoltare Stefano Fassina, che giustifica le sofferenze degli evasori fiscali - e dunque ne arruola di nuovi - né di leggere le minacce di Dolce & Gabbana, pronti a chiudere baracca e burattini, per capire che la pressione fiscale, e la relativa evasione, sono diventate intollerabili. Né leggere l'ennesimo ukase di Marchionne, ormai pronto a fare ciò che ha in testa da sempre, lasciare l'Italia, per accorgersi che qualcosa frena o paralizza l'apparato industriale. Per capire basta entrare nei negozi vuoti, contare le saracinesche abbassate, guardare ingialliti cartelli di affittasi nei luoghi di vacanza, osservare gli scheletri dei palazzi in costruzione e mai finiti, nuovi monumenti della contemporaneità.

Certo, poi c'è l'Italia che lavora e che resiste. Ma che rischia di diventare minoranza. E permane un tessuto di solidarietà sociali e familiari che funge da rete di protezione, e ci sono anche tesoretti di risparmi, che però non sono eterni. Eppure, a fronte di questa realtà di misure incisive per l'economia non se ne sono ancora viste, se si escludono annunci smozzicati e contraddittori su Imu e Iva e qualche bonus fiscale. E invece si moltiplicano commissioni di esperti, saggi e volenterosi dediti a studiare l'unica cosa che andrebbe saggiamente messa da parte per inconsistenza, inutilità, pericolosità e rischi di superficialità e faciloneria: una riforma della Costituzione. Mentre l'unica cosa che tutti chiedono, una legge elettorale tale da garantire l'esito di una consultazione, resta tuttora avvolta in una nebbia di parole, proposte e tecnicalità istituzionali. Perché?
Forse perché approvare una nuova legge elettorale significherebbe andare a votare subito dopo, e gli stati maggiori dei partiti per ora non vogliono. Per non dire dei 945 parlamentari eletti da poco, molti dei quali sanno che per loro un altro treno potrebbe non passare mai più. E forse perché una nuova legge dovrebbe stabilire quel principio sacrosanto secondo il quale a urne chiuse c'è chi governa e chi va all'opposizione, e invece non c'è leader di partito che accetti di rinunciare a un qualche potere di interdizione.

Ora lo stato di necessità ha imposto un governo di larghe intese, sia per l'assenza di una maggioranza quale che fosse - anche per scelta dichiarata della premiata ditta Grillo & Casaleggio - sia perché si provasse a fare ciò che sarebbe davvero indispensabile fare: una vera legge lettorale, appunto, e misure capaci di rimettere in moto l'economia. Della prima s'è detto, e ci si augura pur sempre un generale rinsavimento. In quanto alle seconde, ci ostiniamo a sperare che il governo Letta faccia presto. Se non un'altra rivoluzione alla Kyenge, almeno qualcosa.

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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Alla ripresa fa paura B.
Inserito da: Admin - Settembre 06, 2013, 11:39:38 pm
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Alla ripresa fa paura B.

di Bruno Manfellotto

Qualche segnale di ripresa sta arrivando: dal nordest e dai conti con l'estero. Ma per l'Italia non c'è nessuna speranza di uscire veramente dalla crisi finché la politica è sotto ricatto del Cavaliere e dei suoi guai giudiziari

(29 agosto 2013)

Se vuoi mi spoglio, mi spalmo addosso la Nutella e mi sdraio sul cofano della macchina. Così poi mi fotografi, metti le immagini su Facebook e diventi famoso. Sei già famoso? Allora con me lo sarai ancora di più». Sotto il sole rovente, il siparietto in piazza San Pietro ha un sapore surreale: protagonisti un'estroversa signora brasiliana in short, t-shirt e visiera da baseball che di mestiere fa la guida turistica, e Martin Parr, la star britannica della fotografia di passaggio a Roma per realizzare le immagini per la mostra "Urban storytellers", alla Fondazione Forma di Milano dal 7 settembre al 6 ottobre (qui una selezione di immagini), che "l'Espresso" pubblica in anteprima. Di fronte alla donna alla ricerca (inconsapevole) di un quarto d'ora di celebrità, Parr non fa una piega: del resto, fin dai tempi di "The Last Resort" (1986) - il libro in cui immortalò con arguzia feroce le vacanze pop della middle class inglese e che lo rese famoso - i luoghi del turismo di massa sono il suo habitat naturale. A tal punto che se lo incontri per strada, con la camicia a scacchi gialla e celeste, i pantaloni sgualciti, il berretto blu, gli occhiali scuri, i sandali e la macchina fotografica a tracolla, potresti scambiarlo per un allegro spilungone in vacanza.

TRA COLOSSEO E MACHU PICCHU. E' uno spettacolo seguirlo in scooter - rigorosamente in incognito, detesta avere intorno giornalisti - attraverso le tappe di questo tour su e giù per i sette colli. Quando con una falcata raggiunge le comitive di turisti cinesi sulla scalinata di piazza di Spagna oppure in fila sotto il solleone lungo il colonnato del Bernini, con gli ombrelli spalancati dai colori sgargianti, si avvicina ai gladiatori accalappia-visitatori nei dintorni del Colosseo, osserva i venditori di souvenir e paccottiglia intorno alla Fontana di Trevi e in piazza Navona, irrompe in uno stabilimento balneare a Ostia mescolandosi ai coatti "palestrati", si aggira tra le bancarelle del mercato di Campo de' Fiori stipate di confezioni di pasta "Italian sounding" dai nomi improbabili, dalle "minchiette sei sapori" alle variopinte "farfalline arlecchino". Davanti al flash, che il fotografo spara in pieno giorno per amplificare l'effetto acido dei colori, le strade e le piazze sono un set a cielo aperto, nel quale gli attori involontari si materializzano come per magia.

In una città sempre in bilico tra la grande bellezza e la vera bruttezza. A proposito, ha visto il film di Paolo Sorrentino? «No», taglia corto Parr mentre sorseggia un cappuccino nel giardino dell'Hotel Locarno, durante una pausa, e sfoglia il suo volume "TuttaRoma" (Contrasto), uscito qualche anno fa. «Per me Roma è interessante perché è sempre piena di turisti. E poi ha un paesaggio urbano straordinario, con tracce ancora molto evidenti dell'antico impero romano. Per le mie foto scelgo le tappe obbligate, luoghi dove la gente ritiene di dover andare per sentirsi parte del mondo. Questo è un posto dove torno volentieri». Che il fotografo britannico senta il richiamo costante della città eterna, tuttavia, non è necessariamente una buona notizia.

Se da un lato, infatti, è la riprova del boom del turismo - circa 12 milioni di arrivi nel 2012 e quasi 30 milioni di presenze, sette su dieci stranieri, con un incremento di un milione e duecentomila rispetto all'anno precedente, secondo i dati dell'Ente bilaterale per il Turismo nel Lazio (Ebtl) - dall'altro evidenzia i rischi connessi al successo: il degrado anche estetico di un sito, la deriva consumistica, l'impatto sull'ambiente e sul paesaggio. «Il turismo moderno è sia un male sia un bene», continua il fotografo: «A volte i luoghi vengono distrutti dalla loro popolarità, come dimostra il caso di Venezia o quello di Machu Picchu, in Perù. Il problema, in questa località così remota, è che continua ad affluire una massa indescrivibile di visitatori. Come proteggerla? Il caso di Roma per fortuna è diverso: qui c'è gente che lavora normalmente, i turisti non hanno preso il sopravvento. Al tempo stesso, tuttavia, il turismo è la più grande industria del pianeta. L'Italia, ad esempio, senza di esso probabilmente sarebbe in bancarotta. E pensare che finora ha sottoutilizzato i propri beni culturali». S egnalano le cronache che qualcosa si muove: in Veneto le fabbriche registrano nuove ordinazioni, qua e là è stata sospesa la cassa integrazione, qualcuno ha tenuto al lavoro gli operai a Ferragosto ("l'Espresso" n. 34). Eppure la Borsa, che aveva ripreso a correre, registra sempre nuovi tonfi e va in altalena mentre ricominciano a salire lo spread e soprattutto i rendimenti su bot e bpt, insomma il costo del debito: non è poco ora che stanno per andare all'asta 20 miliardi di titoli pubblici, buona parte a cinque-dieci anni. E mentre si registrano segnali di ripresa più forti negli Usa e più deboli in Europa, si continua a dire che la crisi è ancora di là da risolversi. Allora, a chi dobbiamo credere, a chi annuncia la svolta o a chi continua a vedere il bicchiere mezzo vuoto? E perché se le cose vanno meglio i mercati continuano a dare segni di nervosismo?

 
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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Renzi sta facendo come Craxi
Inserito da: Admin - Settembre 13, 2013, 04:30:19 pm
Editoriale

Renzi sta facendo come Craxi

di Bruno Manfellotto

Nel 1976 Bettino riuscì a scardinare la segreteria del Psi con un patto generazionale.

Adesso Matteo può imitarlo, rivolgendosi prima di tutto al 'rivale' Enrico Letta. Per far fuori i 'mostri sacri' che ancora gli si oppongono

(05 settembre 2013)

Tra tensioni e veleni comincia nel Pd la stagione più delicata della sua breve storia. Non sarà facile, non sarà piacevole. E metterà a dura prova la tenuta del partito, la sua stessa identità. Gli appuntamenti in agenda sono decisivi. Da una parte si avvia inesorabilmente al tramonto, e certo non senza pesanti colpi di coda, il ventennio berlusconiano che ha congelato la sinistra concentrandola su un'unica missione: liberarsi di B. Ora bisognerà ricominciare daccapo parlando non più di lui, ma di contenuti e obiettivi. Dall'altra Matteo Renzi si appresta a conquistare la leadership del partito come trampolino per la candidatura a premier ("Il fattore R"). Un'epoca si chiude, una si apre.

I due eventi si intrecciano, si condizionano, dall'uno possono derivare i tempi e i contenuti dell'altro. Si comincia con l'impegno più gravoso, la riunione della giunta delle immunità chiamata a pronunciarsi sulla decadenza di Berlusconi da senatore dopo la definitiva condanna per frode fiscale. Alla scadenza il Pd arriva sull'orlo di una crisi di nervi. Del resto Berlusconi e i suoi cari stanno facendo di tutto per stressare i parlamentari, aprire crepe nel fronte del sì, giocare sulle contraddizioni interne al partito.

Basta che B. parli perché tutti perdano la testa; basta che annunci richieste di grazia o lanci ultimatum per la sorte del governo per scatenare i dubbi di stuoli di giuristi e il terrore dei peones. E però il Pd sa bene che non sono possibili ripensamenti di sorta, scappatoie, exit strategy: un no alla richiesta di decadenza suonerebbe incomprensibile per il popolo democratico e forse sancirebbe perfino la fine del partito; ma lo stesso sapore avrebbe anche un rinvio a tempo indeterminato di ogni decisione.

Bruno Manfellotto Bruno Manfellotto Il nervosismo aumenta se si pensa che nel campo di battaglia c'è ora un altro contendente: il giovane Renzi. Sciolte le ultime riserve, il sindaco punta al bersaglio grosso con una strategia capace di tenerlo in prima linea sia che il governo duri a lungo sia che si vada a votare prima del tempo. Ha poi capito che per vincere non può presentarsi alla sfida da outsider e per questo non si perde una festa del Pd (le primarie sono cominciate in Emilia) e rassicura il suo popolo: «Sono uno di voi». Solo un anno fa, nelle stesse feste, a chi chiedeva un giudizio sul rottamatore, big e leader rispondevano: «Non è uno di noi». Oggi molti di loro sostengono la sua corsa per la leadership.

Insomma la partita è cominciata, ma il risultato non è scontato. E' difficile per esempio che a Renzi riesca l'en plein, cioè conquistare segreteria e candidatura alla premiership: glielo impediranno, baratteranno una carica con l'altra. Perché, alla fine, su tutto sono disposti a chiudere un occhio i maggiorenti del Pd, tranne che sul controllo del partito. Ma non è l'unico ostacolo che lo sfidante incontrerà.

Il paradosso vuole che la sua vittoria passi per un'intesa con i big - Franceschini, Veltroni, Fassino, Bettini - che ora lo appoggiano forse solo nella speranza che ciò serva a scongiurare la fine delle larghe intese; ma passi anche per un tacito accordo con quella che potrebbe diventare domani la minoranza dura e pura che non lo vuole alla guida del partito, ma lo accetterebbe come candidato premier: Bersani, D'Alema, Rosy Bindi. Mostri sacri che un anno fa Renzi avrebbe rottamato e con i quali invece dovrà scendere a patti in vista della battaglia congressuale. Stando ben attento a non farsi travolgere.

A voler azzardare paragoni con la storia della Prima Repubblica verrebbe da pensare più alla congiura del Midas che nel 1976 portò Craxi alla segreteria del Psi che al Patto di San Ginesio che pochi anni prima aveva chiuso nella Dc la stagione dorotea grazie all'alleanza trasversale dei quarantenni (De Mita e Forlani). Allora fu un patto generazionale che oggi nel Pd potrebbero incarnare Letta e Renzi. Ma per ora i loro interessi contingenti divergono. E forse sarà questo a tardare oggi (e forse a favorire domani, chissà) la definitiva conquista postdemocristiana del Pd.

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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. B. non tratta, fa solo finta
Inserito da: Admin - Settembre 20, 2013, 05:06:19 pm
Decadenza

B. non tratta, fa solo finta

di Bruno Manfellotto

I rinvii e i cavilli sono parte di una strategia per riuscire, come sempre, a imporre le sue condizioni. In tutta la sua carriera, da imprenditore e da politico, si è sempre comportato così. E anche questa volta...

(12 settembre 2013)

Il lungo addio è cominciato il giorno in cui Giorgio Napolitano ha nominato Mario Monti senatore a vita per poi affidargli la guida di un governo tecnico. Quando arriverà a compimento però non si sa, e non solo per i rinvii, i cavilli, le trovate procedurali che la Giunta per le immunità, novella Bisanzio, si affanna a cercare e immancabilmente a trovare. Ma perché Silvio B. non sceglierà l'esilio, non volerà alle Bahamas, non chiederà perdono.

Invece venderà cara la pelle, cercherà protezioni e salvacondotti e anche se dovesse fare un passo indietro sarà solo a patto che gli siano garantite le condizioni che imporrà. Insomma, farà di tutto per restare leader del centrodestra. Perché ne è e ne sarà sempre il capo e l'azionista di riferimento. E' una scommessa azzardata, lo so, ma altrimenti che scommessa sarebbe? E però - pur senza escludere la remota possibilità che la vecchiaia, la stanchezza e la paura lo spingano a essere diverso da com'è - a giustificare il rischio ci sono fatti e precedenti dai quali è forse opportuno trarre una qualche morale.

Con B. non è possibile scendere a patti da pari a pari. Ragiona da grande imprenditore che badi all'utile di bilancio, obiettivo sul quale è possibile solo un accordo vantaggioso per lui. E infatti nel suo gruppo non ha soci ma dipendenti, pochi amici e molti consulenti ben pagati e dunque pronti a tutto (avvocati, esperti in offshore, procacciatori d'affari e anche d'altro). Nella vita e nel business è il tipico "one man show", e non a caso Enzo Biagi diceva che se B. avesse avuto le tette avrebbe fatto anche l'annunciatrice.

E in politica? Come in azienda. Anche perché ha avuto la fortuna che nessuno mai gli sbarrasse davvero la strada. Quando, come dice lui, è sceso in campo non è arrivata una legge vera sul conflitto di interessi, non sono state regolamentate le sue tv e la legge sulla incandidabilità che già c'era da quarant'anni e che lo rendeva - appunto - incandidabile fu bellamente ignorata dal Parlamento, allora e dopo. E quando poi Massimo D'Alema si illuse di irretirlo con la Bicamerale, lui accettò di parteciparvi solo a patto che si parlasse di riforma della giustizia. A suo vantaggio. Gherardo Colombo, ieri pm e oggi consigliere d'amministrazione della Rai, poté dire che la Bicamerale era figlia di un ricatto. Già allora. Correva l'anno 1997.

Pochi mesi dopo, era d'estate, D'Alema e Berlusconi siglarono a casa Letta (Gianni) il patto della crostata, offerta agli ospiti dalla padrona di casa, cioè l'intesa su legge elettorale a doppio turno e presidente di garanzia. Ma per arrivarci D'Alema fu costretto a stralciare il capitolo giustizia, impossibile da digerire perfino per il teorico dell'inciucio. Così, dopo un anno di melina, incertezze e traccheggiamenti, B. si rimangiò il patto e la crostata perché da quelle carte mancava l'unico argomento che gli stava davvero a cuore. E la sinistra pagava due volte il suo azzardo: per aver invitato la destra berlusconiana a riscrivere la Costituzione e poi per aver subìto le conseguenze del fallimento.

In fondo da allora non molto è cambiato. B. continua a dettare l'agenda, e perfino il calendario della Giunta chiamata a decretare la sua decadenza da senatore dopo una sentenza di colpevolezza passata in giudicato, e a minacciare di morte il governo. In quanto alla sinistra, non ha ancora superato lo choc di Tangentopoli né elaborato una strategia alternativa all'eterno oscillare tra antiberlusconismo becero e inconcludente, che talvolta si piega all'antipolitica, e dialogo di maniera per riforme che non si faranno mai. E adesso, anche se sa come votare in commissione, non sa che cosa farà un minuto dopo.

Tutto cambierà davvero non quando l'ex Cavaliere lascerà la scena politica, ma quando la sinistra comincerà a pensare a sé e ai suoi elettori, a volti nuovi, ai no che deve urlare, ai ricatti che non può accettare, a riconquistare un territorio abbandonato alle piazze e ai populismi, insomma a sfidare lui o chi per lui sulle proposte, sulle idee, sui progetti. Senza mai dimenticare che oggi metà del paese milita nel partito dell'astensione o corre a votare Grillo.

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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Tu chiamale se vuoi frantumazioni
Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2013, 10:32:47 am
Bruno Manfellotto
Questa settimana

Tu chiamale se vuoi frantumazioni

Vogliono separarsi Bossi e Maroni. Si sono lasciati Monti e Casini. Alfano cerca il modo di dividersi dai falchi di Berlusconi. E se vince Renzi... Qui e là è tutto un fiorire di scissioni piccole e grandi. Vitalità politica o egoismi di leader? Vediamo
   
Nella stagione delle larghe intese, tutti insieme nervosamente per obbligo o per convinzione, la cronaca politica registra una diffusa e irrefrenabile voglia di scissione. Meglio soli che male accompagnati. L’elenco è lungo. Come nei matrimoni di lunga data, ci si lascia magari per ragioni di orgoglio o di principio, vedi il vecchio e malandato Senatùr e l’eterno rampante Roberto Maroni, peraltro già insidiato dal giovane Tosi, veronese: così la Lega rischia di perdere il suo padre fondatore, e il patto lombardo-veneto - che fece grande il movimento - il suo trait d’union.

Ci si separa poi, il più delle volte, per divergenze di linea politica, come si diceva una volta, ma che oggi riguardano non tanto il che fare ma con chi. È il caso di Mario Monti che, inventato ieri senatore a vita da Giorgio Napolitano per avviare il tramonto del regime berlusconiano, deve oggi fare i conti con Casini e Mauro, suoi alleati nella sfortunata campagna elettorale 2013, diversamente democristiani che ora platealmente lo sfiduciano. Di nuovo sensibili alla sirena dell’ex Cav. o al soffio della balenina bianca, chissà.
Ancora. Perde per strada qualche stellina perfino il giovane movimento di Beppe Grillo, che pure dovrebbe essere scanzonato e libertario e invece è chiuso come una setta, dove scissione fa rima con censura di gesti, comportamenti, giudizi: nell’impossibilità di gestirlo, il dissidente si espelle. È già successo. Amen.

CI SI PUÒ DIVIDERE poi, o almeno si minaccia di farlo, anche per conflitti generazionali che intrecciano psiche e politica, Freud e Letta, altrimenti come spiegare la grande sofferenza che accompagna il tentativo di Alfano & Quagliariello di uccidere - politicamente, s’intende - papà Silvio e di farsi finalmente autonomi, se non nella vita almeno in un gruppetto parlamentare?

E si rischia una clamorosa separazione - come ha confessato Massimo D’Alema a Marco Damilano (“Chi ha sbagliato più forte”, Laterza, “l’Espresso” n. 42) - nel partito democratico nato sei anni fa da una fusione fredda e ora alle prese con il ciclone Renzi: dietro le primarie e la lotta per la leadership si scontrano visioni opposte sull’idea di partito, sul rinnovamento del gruppo dirigente, sulla legge elettorale, sulla necessità di guardare per le future alleanze o al centro o a sinistra. Se si forza la mano, si rischia la rottura; se si arriva a un compromesso, si butta via tutta la carica dirompente insita nella sfida. Non è scelta da poco.

SENZA PIÙ LA FORZA delle ideologie o di valori condivisi, le larghe frantumazioni sembrano l’unico elemento comune in una situazione politica eternamente sull’orlo di elezioni anticipate. L’italica tendenza alla divisione, al fiorire dei campanili, alla nascita di leaderini e relativi partitini (con annesso finanziamento pubblico) ha ritrovato forza e larghe giustificazioni nella stagione di Razzi & Scilipoti. L’assenza di partiti forti e strutturati ha fatto il resto, cosicché ciò che ieri era corrente interna è diventato oggi gruppo autonomo o minipartito. In questa temperie è impossibile perfino un accordo sul presidente della commissione parlamentare Antimafia. Se si pensa a un Capo dello Stato a tempo (per sua scelta) e alla necessità di eleggerne prima o poi un altro, brividi corrono lungo la schiena.

È come se, privo ormai dei grandi leader avversari che negli ultimi anni avevano creato e poi giustificato un bipolarismo di facciata, il sistema politico cercasse ora altre strade, di tornare magari a ciò che era prima del ventennio berlusconiano. La corsa al centro, dove si combatte la battaglia più aspra e dove si consumano sanguinose rotture e scissioni, è solo la ricerca di nuovi equilibri dopo che quelli vecchi sono saltati per sempre. In assenza di poteri forti è una missione che potrebbe riuscire più a una legge elettorale che alla politica. In stagioni normali tanta vitalità sarebbe segno di benessere politico; in tempi perigliosi si traduce solo in perdita di tempo, autoreferenzialità, impossibilità di governare.

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25 ottobre 2013 © Riproduzione riservata

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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Larghe intese, due anni di nulla
Inserito da: Admin - Novembre 17, 2013, 06:22:01 pm
Bruno Manfellotto

Questa settimana
Larghe intese, due anni di nulla
Le grandi coalizioni dovrebbero nascere intorno a un programma e per fare ciò che da soli sarebbe impossibile. Doveva essere così anche in Italia, e invece è come se destra e sinistra stiano insieme per fare poco o niente. Ora dopo ventiquattro mesi, serve una svolta

Tra pochi giorni, sabato 16 novembre, celebreremo - chi in pompa magna, chi in preda a una certa inquietudine - due anni di larghe intese e di vasti dissensi. Da ventiquattro mesi, insomma, stiamo percorrendo l’interminabile tunnel dei governi atipici, dei gabinetti tecnici, dei passi indietro (apparenti) dei partiti, delle Grosse Koalition all’amatriciana. Tutto è cominciato con l’arrivo a Palazzo Chigi di Mario Monti, fresco senatore a vita, ed è continuato con il governo a tempo di Enrico Letta. Che in nome della stabilità - definito dallo stesso premier proprio nel dibattito sulla fiducia «valore in sé» - dura tuttora. Quella che doveva essere una soluzione a tempo, un ponte gettato da Giorgio Napolitano per salvare il Paese dal baratro finanziario, avviare le riforme istituzionali (a cominciare da una nuova legge elettorale) e favorire una deberlusconizzazione guidata e controllata, è diventata invece una lunga e immobile condizione di status quo. Con preoccupanti parentesi di stagnante palude.

La parola d’ordine della “durata del governo”, questione dirimente al tempo dello spread, dovrebbe funzionare da stimolo, e invece diventa alibi per lasciare le cose come stanno. Dalla decadenza di Berlusconi allo stipendio di Fabio Fazio tutto viene valutato alla luce dell’aureo principio del “se non si fa così, tutti a casa”. Anche la vicenda Cancellieri - in cui si intrecciano amicizie, familismi e Italietta della raccomandazione - non è stata vista nel merito (chi è stato aiutato e perché, se in base alla legge o alle relazioni), ma solo come elemento destabilizzante delle larghe intese. Così, prima che giudicata la ministra è stata blindata. Dalla grande maggioranza.

Perfino l'impegno fissato in agenda dal capo dello Stato di superare il Porcellum - non si sciolgono le Camere finché non c’è una nuova legge - rischia di diventare comodo alibi per non centrare mai l’obiettivo. Parafrasando il famoso Comma 22, non si andrà a votare fino a quando non ci sarà una riforma elettorale, ma la riforma non si fa perché altrimenti subito dopo si andrebbe a votare…

Stabilità, dunque. E vabbè, di questi tempi possiamo anche ripetercelo come un rassicurante mantra. Ma l’obiettivo finale non può essere solo quello di durare. Nei paesi dove per necessità ci si adatta alle grandi coalizioni, l’atto di nascita si sigla intorno a un programma nella speranza di fare insieme ciò che da soli non sarebbe possibile. Nel paese del bipartitismo imperfetto le intese più o meno larghe sono organizzate a tavolino per ragioni superiori, la prima delle quali è non prendere alcun provvedimento che possa turbare equilibri, di qua o di là dello schieramento. In quanto al programma, forse seguirà, come l’intendenza. E sennò chissenefrega.

Nel frattempo non c'è dossier che sia affrontato con un minimo di strategia: l’Imu - provvedimento chiave del governo Monti con la riforma delle pensioni - è stato demagogicamente cancellato salvo riproporlo sotto altro nome; Alitalia si è sciolta come neve al sole e non se ne conosce il destino; Telecom vive di memorie e potrebbe finire in mano spagnola; si dà il benvenuto all’esperto di spending review numero quattro dopo Enrico Bondi, Francesco Giavazzi e Giuliano Amato, desaparecidos senza venire a capo di nulla; e perfino l’investimento per la banda larga, che costerebbe più o meno quello che ha buttato via l’agenzia Frontex è stato rimesso nel cassetto

Non possiamo più permettercelo. L’idea che possa trascorrere così tutto il 2014, anno di elezioni europee e di presidenza italiana del Consiglio dell’Unione, e magari pure il 2015, anno dell’Expo - fa notare sapidamente Massimo D’Alema - fa venire i brividi. Il Paese non ha bisogno solo di stabilità e di legge di stabilità, fondamentale atto dovuto, ma di una svolta, non solo in politica economica. Ciò che è incredibile è che non se ne rendano conto gli stessi partiti, o ciò che ne resta. La loro miopia è tale da scambiare per sopravvivenza un lento suicidio politico.

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07 novembre 2013 © Riproduzione riservata

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Titolo: Bruno MANFELLOTTO. Cristo si è fermato a Prato
Inserito da: Admin - Dicembre 08, 2013, 06:20:22 pm
Cristo si è fermato a Prato

L’Italia s’accorge che migliaia di immigrati ci fanno concorrenza vivendo e lavorando come due secoli fa. Che la Terra dei fuochi brucia ancora e che l’evasione fiscale continua... Forse ci vorrebbe un bagno di verità. E un po’ di Stato in più


Un giorno l’Italia s’è svegliata scoprendo una Manchester di due secoli fa a venti chilometri dalla Firenze del giovane Matteo Renzi. Non lo sapeva. O faceva finta di non sapere. Forse per non vergognarsi. Così, per rendersi conto che nella Prato 2013 l’immigrazione è diventata schiavitù, e il made in Italy in versione fabbrica clandestina la tomba di tutti i diritti essenziali, è stato necessario aspettare che sette cinesi di cui si fatica perfino a scoprire nome e cognome morissero in un capannone dove lavoravano, mangiavano, dormivano, vivevano.

Allo stesso modo l'Italia s’è ricordata all’improvviso che sotto la Terra dei fuochi sono sepolte tonnellate di veleni di mezza Europa solo perché dopo quindici anni di segreto di Stato sono state finalmente rese pubbliche le confessioni di un pentito dei casalesi, Carmine Schiavone: e prima, tutti all’oscuro? Così come d’un tratto si riparla di evasione fiscale solo perché è emerso ciò che si sa da sempre, e cioè che le famiglie di sei studenti su dieci dichiarano redditi falsi per non pagare le tasse universitarie. Ma va?

La tragedia di Prato, così assurda e così prevedibile, ci regala almeno due lezioni. Tristi. La prima è che un tessuto imprenditoriale destinato a crescere e a diventare virtuoso è invece andato via via sfilacciandosi fino a deperire irrimediabilmente. Qui era nato e s’era imposto uno dei tanti distretti all’italiana che avevano fatto di Prato la capitale del tessuto. Non che sfruttamento non ci fosse, prima. Ha raccontato al “Tirreno” l’attore Francesco Nuti, classe 1955, pratese doc: «Ho lavorato anch’io nelle tintorie di Prato, dove le macchine per la tintura andavano a centoquaranta gradi di pressione, c’era un calore esterno di settanta gradi, un tasso di umidità che raggiungeva il cento per cento e dove i colori, tipo il verde malachite, erano così volatili che ti si appiccicavano sulla pelle e li ingoiavi così facilmente che ti tingevano la faccia, il corpo, i polmoni... Sapete qual è la vita media di un tintore? Cinquant’anni».

Ma a differenza di altri distretti, Prato si è rifiutata di crescere nel modo giusto, né si sono imposti imprenditori leader capaci di guidare il sistema verso dimensioni competitive. No, i più hanno mollato macchine e capannoni ai cinesi che con costi di manodopera irrisori lavorano tessuti comprati non lì, ma in Cina. Il danno, la beffa. Oggi a Prato le imprese cinesi censite sono quasi 5mila, danno lavoro a 40mila cinesi,16mila dei quali residenti. Si calcola che il giro d’affari sfiori i due miliardi di euro, ma almeno la metà viaggia nella terza dimensione del nero e dell’illegalità.

Nella loro comunità blindata non si parla altro che il cinese, si osteggia l’integrazione e i documenti di identità passano di mano in mano, anche dai morti ai nuovi clandestini. Il tempo scorre davanti al tavolo da lavoro, alla macchina per cucire, alla pentola per colorare. Qui si vive e da qui si sparisce. Lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo ha lasciato il posto alla servitù della gleba, senza ribellione possibile.

Di fronte a quest’esercito straniero che non conosce regole né rispetto dei diritti elementari, a poco servono sindaco, vigili urbani, Finanza, che pure miracoli fanno e migliaia di baracche clandestine hanno già chiuso. Per fermare i nuovi schiavisti, per arginare il fenomeno - ecco la seconda lezione - ci vorrebbero controlli veri e assidui. Un’azione concordata che prevedesse irruzioni in capannoni fuorilegge, lotta all’evasione fiscale, accordi di governo con la casa madre, la Cina, che non ci sono.

Ci vorrebbe più stato, che invece è lontano, assente, cieco. Come, per anni, davanti alla vergogna della Terra dei Fuochi, o allo scandalo dell’evasione fiscale. Come lo era tre anni fa a Sarno quando si ribellarono centinaia di extracomunitari accampati in condizioni disumane in una fabbrica abbandonata; o due anni fa a Nardò quando gli immigrati si rivoltarono ai caporali. E come potrebbe succedere domani ovunque se, come ci ricorda il ministro Giovannini, l’inferno di Prato è niente di fronte a quello di Napoli o di certe enclave della Lombardia o del Veneto, della Puglia o della Calabria. C’è un’altra Italia, o forse è questa l’Italia che ci ostiniamo a non voler vedere.

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05 dicembre 2013 © Riproduzione riservata