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Autore Discussione: MARTA DASSU'. -  (Letto 44774 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Febbraio 06, 2012, 11:10:35 am »

6/2/2012

Indispensabile allargare l'Occidente

MARTA DASSÙ*

Caro direttore, l’Occidente è inevitabilmente in declino? A questo ormai annoso dibattito, acutizzato dalla crisi finanziaria, Zbigniew Brzezinski ha risposto di no, ieri sulla «Stampa». Ma l’anti-declino ha bisogno di due condizioni, per riuscire: la prima è domestica, l’America deve riscoprire le ragioni della propria «primazia» (l’innovazione, l’educazione, il dinamismo sociale); la seconda appartiene alla categoria delle «visioni strategiche». E la visione proposta dall’ex consigliere alla Sicurezza nazionale è semplice e lineare: l’Occidente deve allargarsi, per non perdere rilevanza e influenza nel secolo asiatico. Allargarsi in che direzione? In un libro appena uscito a Washington, Brzezinski sostiene che l’Occidente «plus» potrebbe essere immaginato così, fra un paio di decenni: una testa ancora americana (se anche l’America, appunto, farà i suoi compiti a casa), un cuore europeo (se l’Ue diventerà un’Unione politica vera), braccia e gambe allargate verso una Russia che scelga la democrazia compiuta, verso una Turchia più europea che neo-ottomana e verso vecchi e nuovi alleati asiatici intenzionati a bilanciare la Cina. Visione strategica o schema destinato a restare sulla carta?

In realtà, proprio mentre la crisi finanziaria sta mettendo a dura prova le democrazie liberali e proprio quando la combinazione fra capitalismo e autoritarismo comincia a proporsi come modello alternativo, un ripensamento dei contorni dell’Occidente è indispensabile. Per Brzezinski, è chiaro che la forza comparata degli Stati Uniti va ricostruita anzitutto dall’interno, così come quella degli europei richiede un’Unione più solida. Ma è chiaro anche che il vecchio rapporto transatlantico non è più sufficiente, di fronte allo spostamento del potere economico, demografico, finanziario, verso nuove potenze. La proiezione occidentale verso il continente euro-asiatico è, dal suo punto di vista, la priorità strategica di questo secolo.

La mappa mentale di Brzezinski è ancora «orizzontale», da Ovest verso Est. E continua a riflettere, assieme all’impatto dell’ascesa della Cina, i nodi rimasti irrisolti dal secolo scorso: integrare la Russia nella comunità occidentale è una delle speranze almeno in parte mancate del post 1991. Il veto russo all’Onu sulla Risoluzione di condanna della Siria conferma tutta la distanza che resta. Con conseguenze nefaste: in questo caso per la popolazione siriana, esposta da mesi a una repressione brutale.

Esiste anche, tuttavia, una mappa «verticale» da esplorare: la possibilità, cioè, di associare le sponde meridionali dell’Atlantico, dove grandi potenze economiche in pectore come il Brasile possiedono in teoria un «software» democratico occidentale, quelle radici storiche e culturali che ne costituiscono la base identitaria. In altri termini: l’Occidente più largo potrebbe avere una gamba importante non solo più a Est ma più a Sud. E la visione strategica potrebbe essere questa: una comunità «panatlantica» del XXI secolo, in grado di beneficiare di risorse tangibili (la spinta aggiuntiva di un’area emergente) e di fare leva su radici culturali comuni. Per gli europei, prima che per gli Stati Uniti, tenere in vita l’Atlantico è una condizione per continuare a contare, nel secolo del Pacifico. Anche per questa ragione, proposte come la creazione di qualcosa di simile a una free trade area transatlantica andrebbero valutate non solo in chiave economica (con i loro costi e benefici settoriali) ma anche per la loro importanza strategica.

La visione prescritta agli Stati Uniti da Brzezinski guarda peraltro correttamente all’Asia orientale come a una regione dove, economia globale o no, la geopolitica classica continua a contare. L’interdipendenza economica fra Washington e Pechino o l’importanza dei rapporti commerciali fra Cina e Germania non eliminano linee di faglia da ventesimo secolo, con dinamiche fatte di deterrenza e di equilibri militari. Alla luce di questo dato, il ruolo di «balancing» che Brzezinski raccomanda agli Stati Uniti in Asia resta necessario; la revisione della strategia di sicurezza americana va del resto in questo senso. Ragione di più perché gli europei assumano una quota crescente di responsabilità ai loro confini, nel Nord Africa e nei Balcani. L’Occidente, per restare influente sul piano globale, non deve solo allargarsi, quindi; deve anche specializzarsi.

Nulla di tutto questo funzionerà, evidentemente, se la prima prescrizione di Brzezinski agli Stati Uniti, che vale in genere per le democrazie occidentali - quella di rivitalizzare se stesse e la propria economia - non reggerà alla prova dei fatti.

Come ha sostenuto Niall Ferguson su Aspenia, una delle cause del relativo declino dell’Occidente è la tendenza a rinunciare alle proprie armi vincenti: la concorrenza, la ricerca scientifica, l’etica del lavoro, fino a dubbi nei propri sistemi politici. Negli ultimi due decenni, la rivoluzione delle aspettative «crescenti», che aveva garantito il successo del modello occidentale, si è trasformata nel suo opposto. Le conseguenze economiche, politiche e sociali sono ancora tutte da misurare.

È questa la ragione essenziale per cui ripensare, allargare, ma anche ritrovare l’Occidente, appare indispensabile.

*Sottosegretario agli Esteri

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9740
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« Risposta #31 inserito:: Marzo 03, 2012, 11:17:58 pm »

3/3/2012

La Serbia, test per l'Europa flessibile

MARTA DASSU'

Il 24 marzo del 1999 le prime bombe sganciate dagli aerei della Nato andavano a colpire le postazioni delle forze armate serbe schierate sul territorio del Kosovo. Tredici anni dopo, a Bruxelles, la Serbia ottiene lo status di candidato a membro dell’Unione Europea. La Storia ha in genere tempi più lunghi. L'ingresso a pieno titolo di Belgrado nel consesso delle nazioni europee avverrà alla fine di negoziati complessi.

Ma siamo già - con l'adesione della Croazia e lo status di candidato della Serbia - alla conclusione di un ciclo, quel ciclo di sanguinose guerre balcaniche che, a intervalli ricorrenti, hanno sconvolto gli equilibri europei. Per l'Italia, che vede nell'integrazione europea dei Paesi dei Balcani occidentali una condizione necessaria per la stabilità dell'intera regione adriatico-danubiana ai nostri confini, è un successo diplomatico rilevante. Europeizzare i Balcani o balcanizzare l'Europa? Questa vecchia domanda suona ormai superata. Allargare l'Ue ai Balcani significa avvicinarli alle nostre regole e ai nostri standard in tutti i settori in cui si esplica la vita della società civile europea quale la conosciamo: qualcosa di impensabile fino a poco più di una decina di anni fa.

Una parte degli osservatori europei danno a scadenze regolari l'allargamento per spacciato: per convinzione (la dilatazione dei confini diluisce l'Unione), per sfiducia (l'opinione pubblica pesa contro) o per scarsa immaginazione. Si è aggiunta un'ultima motivazione: l'Europa, a causa della crisi del debito sovrano, sarebbe ormai priva di potere di attrazione. Non è esattamente così. Se il Consiglio europeo è in grado di approvare insieme il «fiscal compact» e la decisione sul destino della Serbia, questo significa che l'Ue - per quanto affaticata e introversa possa essere giudicata - ha ancora un «soft power»: interno ed esterno. In un dibattito recente alla Brookings Institution di Washington, ho cercato di sottolineare questo punto. L'Europa verrà fuori dalla crisi dell'euro-zona più lentamente di quanto avrebbe dovuto e potuto; ma riuscirà a farlo.

E, facendolo, avrà anche contribuito in modo molto rilevante alla stabilità internazionale. Mentre l'Europa rafforza le regole fiscali - premessa necessaria ma non sufficiente per la crescita - e mentre si allarga ai Balcani, rischia d'altra parte di differenziarsi in livelli diversi: una struttura «multi-tier» è uno scenario realistico. Mario Monti lo considera negativo, e anche per questa ragione sta giustamente cercando di tenere agganciata Londra alla governance economica comune. Con una Gran Bretagna periferica, infatti, ne soffrirebbe la vitalità del mercato unico, lo strumento più efficace per riprendere a crescere. E' un rischio vero. E' vero anche, tuttavia, che un certo grado di flessibilità interna alla struttura europea potrebbe servire.

Proviamo ad immaginare, per esempio, che l'ingresso nell’Unione europea non preveda necessariamente un futuro ingresso nell'euro. In altri termini: restare al di fuori della moneta unica, essendo all'interno del mercato unico, non dovrebbe più essere un «opt out» (una sorta di auto-esclusione) ma una visione possibile e razionale del modo in cui stare in un'Europa che non deve più essere identificata solo con l'euro. Certo, così nascerà appunto un'Europa «multi-tier». Ma quest'esito, insieme a qualche rischio per le istituzioni comuni, potrebbe anche avere dei benefici. Non ultimo quello di rendere più semplice allargamenti ulteriori verso i Balcani e, in prospettiva, la Turchia. La logica economica e quella geopolitica non sempre coincidono perfettamente.

*Sottosegretario agli Affari Esteri

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9837
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« Risposta #32 inserito:: Marzo 13, 2012, 02:58:48 pm »

12/3/2012

Spendere di meno, contare di più

La quadratura (quasi) impossibile

MARTA DASSÙ*

Dopo le analoghe osservazioni di Lucia Annunziata su «La Stampa», ieri Angelo Panebianco apriva il suo editoriale sul Corriere della Sera con una frase significativa: «Puoi anche non curarti della politica internazionale. Sarà comunque lei a scovarti e ad occuparsi di te». Questa frase sottolinea, nel giorno in cui il nostro Paese si stringe attorno alla famiglia di Franco Lamolinara, vittima del terrorismo in Nigeria, le oggettive fragilità dell’Italia nel contesto globale di oggi.

Panebianco la utilizza per argomentare che un governo sprovvisto di un mandato elettorale esplicito potrebbe non avere lo stesso interesse di un governo pienamente politico a gestire le crisi internazionali extra-economiche. È una tesi che sarà anche interessante motivo di studio per i politologi. Ma che trascura il punto essenziale: sono decenni che l’Italia continua a ridurre gli strumenti che le permetterebbero di rispondere meglio alle crisi.

Lasciatemi prima chiarire due punti di contesto. Primo: le debolezze dell’Italia, di fronte ai rischi diffusi di oggi, sono le debolezze della Francia o della Spagna o di qualunque altro Paese che abbia una posizione geopolitica esposta e parecchi suoi connazionali che agiscono e lavorano nel mondo. Tutti i Paesi europei che si trovano in condizioni simili hanno subito rapimenti, hanno cercato alternative diverse per salvare gli ostaggi e hanno avuto, purtroppo, delle vittime. È una nostra pessima abitudine nazionale sentirci peggio degli altri sempre e comunque: è una specie di versione sfiduciata, pessimista, rovesciata, dell’«eccezionalismo» all’americana. In realtà, pirateria e rapimenti investono l’Italia esattamente come investono gran parte dei Paesi europei. Ed è pura mitologia che l’Italia abbia una sua «via» alla liberazione degli ostaggi. All’opposto, l’eccezione alla regola è che gli anglo-sassoni tentano ogni tanto un blitz militare: qualche volta riuscendo, altre, come purtroppo in questo ultimo caso, fallendo e sacrificando anche il loro connazionale.

Secondo punto: usare le difficoltà internazionali ai fini delle polemiche interne è sempre sbagliato, perché aumenta la vulnerabilità di un Paese proprio quando avremmo bisogno di ridurla. Certo: è giusto, è dovuto, che un governo spieghi i suoi comportamenti internazionali, informi il Parlamento e che si sentano i Servizi. È giusto e dovuto che il governo di Roma esiga da Londra tutti i chiarimenti necessari sul ritardo di comunicazione in Nigeria. E si interroghi sulle proprie responsabilità. Ma è sbagliato - nel senso che il danno aumenta per il Paese nel suo complesso trasformare una crisi internazionale in materia aprioristica di polemica interna. L’interesse nazionale è opposto. Ed è prematuro decidere che tutto dipende da errori comunque nostri: è un’altra pessima abitudine nazionale quella di oscillare fra il «noi non c’entriamo» al «è tutta colpa nostra».

E vengo così all’interrogativo di fondo del dibattito di questi giorni, che non voglio affatto eludere: le difficoltà in India, sommate alla tragedia in Nigeria, dimostrano che l’Italia ha perso peso internazionale? Sì, ma questa perdita relativa di influenza non dipende da incapacità politica; è il prodotto di due fattori, uno esterno e l’altro «soggettivo». Il fattore esterno lo conosciamo benissimo: la «diffusione» del potere economico e politico verso nuove potenze, come l’India appunto; e verso una quantità di nuovi attori in buona parte rivali dell’Occidente. In un mondo del genere («No one’s world» lo definisce lo storico americano Charlie Kupchan), un Paese come l’Italia risulta inevitabilmente ridimensionato. Il fattore soggettivo - e qui sono d’accordo con Panebianco, Annunziata e molti altri - è che l’Italia ha continuato ad illudersi, anche dopo la fine delle rendite di posizione del dopoguerra, di potere non occuparsi di sicurezza. Basta guardare ai tagli progressivi che hanno subito, negli ultimi dieci anni, tutti gli strumenti dell’azione esterna: dal bilancio della Farnesina, agli investimenti nella Difesa, al taglio brutale della cooperazione allo sviluppo.

È questa la discussione vera che dovremmo aprire. Se il risanamento del bilancio aumenta il nostro standing in Europa ma riduce il nostro standing nel mondo, quali sono le opzioni che restano? Una risposta possibile è: le economie di scala. Usare la credibilità riacquistata in Europa per spingere - finalmente - a qualcosa di più e di vero nella politica estera e di sicurezza europea. I casi dell’India e della Nigeria dimostrano, in modi diversi, che siamo ancora lontani da tutto ciò. Mentre è molto vicino il punto in cui la quadratura del cerchio sta diventando impossibile: tagliare via gli strumenti e gestire bene le crisi è impresa ardua. Per chiunque governi.

*Sottosegretario agli Esteri

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« Risposta #33 inserito:: Aprile 23, 2012, 05:52:30 pm »

23/4/2012

Siria, il piano Annan è l'ultima chance

MARTA DASSÙ*

Caro direttore, a più di un anno dall’inizio della tragedia siriana anche chi dubita sempre delle stime internazionali deve prendere atto che in questo caso i morti sono migliaia, non centinaia - la realtà ha fatto il suo ingresso rumoroso nelle stanze del Consiglio di sicurezza. E la realtà, tradotta in formule diplomatiche con la Risoluzione presentata dalla Russia e poi approvata all’unanimità, è semplice e frustrante: la fine di Assad non è ancora scritta. Il capo della minoranza alawita può ancora contare sulla copertura di Mosca. Gli Stati Uniti, d’altra parte, non intendono ripetere uno scenario «alla Libia», che del resto non sarebbe credibile nelle condizioni assai diverse della Siria. Mentre la Francia è in panne elettorale e gli altri grandi giocatori europei, Italia inclusa, oggi puntano soprattutto ad arrestare la crisi umanitaria. La missione di 300 osservatori deve servire a fermare le violenze e la repressione; non esistono compromessi possibili su questo punto. La pazienza, ha detto giustamente Susan Rice, l’ambasciatrice americana all’Onu, è finita: per Damasco, è l’ultima chance. Prendere o lasciare. Ma proprio per questo è difficile immaginare che la missione internazionale prepari un cambio di regime. Al massimo - la speranza è questa - potrà preparare un cambio di governo.

Se le cose stanno per ora così, la mediazione di Kofi Annan è la «meno peggiore» fra le opzioni a disposizione. Il Piano in sei punti dell’ex Segretario generale delle Nazioni Unite garantisce in teoria la fine della repressione interna e l’avvio di un processo politico «Syrian-led», negoziato fra le parti siriane stesse ma «sorvegliato» dall’esterno. Il fatto è che esiste, in materia, una buona dose di ambiguità. Per la Russia, la cui posizione politica sta evolvendo (il ministro Terzi ha potuto constatarlo nella sua recente visita a Mosca) il futuro a cui guardare deve basarsi su un compromesso fra il potere alawita e l’opposizione sunnita: se costretta dai fatti, Mosca potrà anche sacrificare Assad ma non il regime siriano, che resta comunque un suo alleato strategico nel mondo medio-orientale. Per Mosca, che cerca di recuperare sulla Siria l’influenza diplomatica persa altrove, questa partita è anche - forse soprattutto - una partita simbolica. Per i Paesi del Golfo - Arabia Saudita e Qatar - la soluzione deve essere più radicale: la Siria dovrà cambiare, decurtando così l’Iran di uno strumento importante per la propria influenza regionale (tagliamo via un braccio a Teheran, ha scritto senza tanti complimenti un giornale del Golfo). Per Israele, conviene indebolire il regime di Assad, e quindi l’Iran, ma non per consegnare la Siria all’influenza radicale sunnita. I precedenti delle «Primavere Arabe» dimostrano che, per Gerusalemme, la caduta dei dittatori non sempre è uno sviluppo favorevole. Per la Turchia, che aveva inizialmente scommesso su una relazione privilegiata con Assad, cambiare cavallo è poi diventato indispensabile. Soprattutto, sia la Turchia che la Giordania vogliono evitare che la crisi siriana diventi una crisi regionale: i segnali, pessimi per entrambe, sono le migliaia di rifugiati che già premono ai confini, l’aumento ulteriore di instabilità in Iraq (per Ankara, il nodo curdo si complica) e la vulnerabilità del Libano.

Per la Francia, reduce dal primo turno delle presidenziali, la Siria è la battaglia del passato, non del presente. Per l’Italia è una sfida umanitaria e un interesse diretto sostanziale: il nostro contingente in Libano è comunque esposto di riflesso alle onde della crisi siriana. Per queste due ragioni, l’Italia ha prospettato, nel gruppo ristretto degli «Amici della Siria», un tavolo regionale sull’emergenza umanitaria. E ha insistito sulla necessità che l’opposizione siriana sia davvero inclusiva, verso le minoranze curde, cristiane e verso quella parte degli alawiti che sarebbe forse disposta a sacrificare il passato se si sentisse garantita in un futuro politico diverso. Nella concezione dell’Italia, questa è una delle condizioni decisive, insieme al mantenimento di una forte pressione su Assad, per evitare una guerra civile a lungo termine. Uno scenario terribile ma probabile, se la via di una soluzione politica negoziata fallisse.

La Risoluzione unitaria appena approvata all’Onu è un passo avanti, vista la competizione strategica che si sta scaricando sulla Siria. Ma lo resterà solo se il Piano Annan farà come l’Italia spera insieme al resto d’Europa - progressi rapidi. Solo se, in altri termini, servirà a far cessare le violenze drammatiche di questi mesi, a permettere gli aiuti umanitari, a consentire l’avvio di una transizione politica, a garantire tutte le diverse componenti dell’opposizione. In assenza di queste condizioni, per cui l’Italia si è battuta al tavolo dei «Friends of Syria», il tentativo dell’Onu potrebbe trasformarsi, dall’unico progresso possibile, in una futura sconfitta. Per il popolo siriano, anzitutto. E per una comunità internazionale che si è unita attorno alla «opzione meno peggiore»; ma che - se i risultati non saranno tangibili - tornerà a dividersi.

Il Piano Annan è non solo l’opzione meno peggiore. È anche l’ultima chance per evitare una guerra civile a lungo termine. L’alternativa al processo politico previsto da Annan non potrà che essere militare. L’opposizione dovrà difendersi, con appoggi più o meno espliciti di gran parte degli «Amici della Siria». Uno scenario comunque costoso sul piano umanitario e molto rischioso dal punto di vista degli effetti sui paesi confinanti. Le conseguenze di una guerra civile a lungo termine finirebbero per non risparmiare il Libano, dove l’Italia ha ancora schierati più di mille soldati e guida Unifil.

In effetti, e dopo un anno di repressione violenta, Assad non è così indebolito da rinunciare. E l’opposizione non dà garanzie sufficienti alle minoranze, non solo a quella curda.

Insomma, la riuscita del Piano Annan è problematica e richiede la collaborazione e buona fede di tutti i membri della comunità internazionale, del regime siriano ed anche dell’opposizione, sebbene le responsabilità delle violenze ricadano di gran lunga sul regime.

*Sottosegretario agli Affari Esteri

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« Risposta #34 inserito:: Giugno 18, 2012, 04:58:36 pm »

18/6/2012

Sud America, la carica dei pre brics

MARTA DASSU' *

Caro Direttore, sappiamo ormai con certezza due cose, che incidono sull’agenda del G20 di Los Cabos. La prima è che i Brics stanno incontrando – in misura maggiore India e Brasile, in misura minore la Cina – i loro problemi: l’idea di una espansione economica praticamente ininterrotta di queste economie era poco fondata dall’inizio ma oggi è provata. E quindi torniamo alla realtà: nessuna economia può crescere a tassi così rapidi troppo a lungo. Siamo alla fine di un ciclo. Cina, India e Brasile sono e saranno comunque grandi economie globali, ma è bene mettere da parte aspettative irrazionali. La questione non è solo economica: dal punto di vista dei Brics, gran parte delle difficoltà sono il riflesso della crisi europea. Cosa vera soltanto in parte, naturalmente. Ma resta che l’Europa, al tavolo G20, è messa sotto accusa sia da Obama che dagli ex «emergenti».

Seconda cosa che sappiamo: esistono, accanto ai Brics, economie di taglia minore ma in fase di crescita rapida. Sono i «pre-Brics» (definizione forse più comoda di altre sigle generate a cadenza biennale dalle Agenzie internazionali): paesi come la Colombia e il Messico, il Vietnam o l’Indonesia. Per le capacità di esportazione e per l’internazionalizzazione delle imprese italiane, i pre-Brics stanno diventando, da mercati secondari, interlocutori primari.

Prendiamo il caso dell’America Latina. Nei giorni scorsi ho guidato quasi 60 imprenditori in una missione in Colombia, organizzata dal Ministero degli Esteri insieme a Unioncamere e all’Associazione Nazionale Costruttori. Con un prodotto interno lordo che cresce ad un ritmo di oltre il 5% annuo, con un’economia ricca di materie prime e aperta all’esterno, con un’inflazione sotto controllo e con un quadro politico finalmente stabile, la Colombia – anch’essa invitata al G20 - rientra sicuramente in questa definizione: è un «pre-Bric». Il Presidente Santos, esponente di una elite formata in America e coltivata in Europa, è stato molto convincente nell’illustrare la forza del modello economico colombiano, «business friendly» e tra i più aperti del Sud America agli investimenti diretti esteri. I problemi storici del paese – dal narcotraffico alle Farc – non sono scomparsi, naturalmente. Ma appaiono sotto controllo. Ed è il caso di liberarsi degli stereotipi: la Colombia, in realtà, combina «fortuna» geopolitica (all’incrocio fra Costa Pacifica e Caraibi) e «saggezza» delle classi dirigenti.

Il caso della Colombia è interessante anche perché Bogotà è uno dei Paesi latinoamericani che hanno scelto l’apertura commerciale quale leva del proprio sviluppo economico. In maggio, ha firmato un trattato di libero scambio con gli Stati Uniti, cui si aggiunge un accordo analogo con l’Unione Europea. Non solo, il 6 giugno scorso, nel deserto cileno di Atacama, la Colombia insieme al Perù, al Messico e al Cile, ha costituito la «Alianza del Pacifico», un’area di libero scambio aperta verso gli Stati Uniti e l’Asia.

L’Alianza del Pacifico è un grande mercato potenziale, che equivale a un terzo circa del Pil totale dell’America Latina e al 50% del suo commercio globale. Per non cadere ancora una volta nella sindrome delle aspettative irrazionali, è bene averne chiari i margini: le opportunità non saranno illimitate, visto che i paesi membri dell’area andina si basano soprattutto sull’export di materie prime e dato che solo il Messico, per ora, può fare leva su una base industriale realmente sviluppata.

Si tratta, tuttavia, di un’alleanza significativa anche perché altri gruppi regionali stanno incontrando non pochi problemi. Il Mercosur è diviso al suo interno, con tendenze neo-protezionistiche che non aiutano certo. L’asse «bolivariano», capeggiato dal Venezuela di Chavez, preoccupa gli investitori esterni anziché attirarli. In sostanza - e questo è un aspetto su cui l’osservatorio di Los Cabos aiuta a riflettere - la «Alianza del Pacifico» è in questo momento l’alternativa economicamente «liberale» forse più incoraggiante delle Americhe.

Nel momento in cui la sponda atlantica dell’America Latina si espande verso l’Africa e quella pacifica punta a proiettarsi verso l’Asia, l’Italia ha tutto l’interesse a consolidare la sua presenza politica e a potenziare quella economica su entrambe le coste del continente americano. Per l’Italia (e per un’Europa che riesca a superare la propria crisi), si tratta di adottare una visione «Pan-atlantica» aggiornata: che da una parte consentirà di sviluppare anche sull’asse verticale (dall’Atlantico del Nord verso Sud) le relazioni con le Americhe; dall’altra, permetterà di costruire, attraverso le Americhe, nuovi accessi anche ai mercati del Pacifico. Sono le geometrie del nuovo secolo. L’impresa italiana, più rapidamente della politica europea, sembra avere capito che derivano da qui le proprie possibilità di restare competitiva.

*Sottosegretario agli Affari Esteri

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10240
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« Risposta #35 inserito:: Agosto 14, 2012, 11:24:29 pm »

14/8/2012

Per la Siria ci vuole una terza via

MARTA DASSÙ *

Caro Direttore,
intervenire in Siria porrebbe rischi simili alla guerra in Iraq, più che alla guerra di Libia. Per chiunque guardi a Damasco, il punto di riferimento è Baghdad. Questo dato di fatto, unito al possesso di armi chimiche da parte dell’esercito di Bashar-Al Assad, spiega parte della prudenza americana. Certo, si potrebbe abbattere con la forza l’erede non designato del Leone di Damasco, ma sarebbe poi difficile stabilizzare un Paese spaccato da tensioni settarie, diviso fra sciiti (nel caso siriano, alawiti) e sunniti, appoggiati rispettivamente da Iran e Arabia Saudita. Non solo: l’opposizione siriana include, come quella irachena, fazioni legate ad Al Qaeda. In che modo appoggiare le componenti moderate della resistenza ad Assad, senza finire per «premiare» anche l’estremismo radicale?

Barack Obama esita da mesi a compiere una scelta netta: come ha dimostrato appunto il precedente dell’Iraq, intervenire con la forza militare in contesti del genere è una scelta difficile, che impegna a lungo termine sul terreno. Ed è una scelta politicamente costosa. Compierla nella situazione di oggi, a due mesi circa da elezioni americane dominate dall’economia, appare quasi impossibile. Tuttavia, come ha confermato un incontro ad Aspen fra americani, europei e cinesi, anche la linea del «non intervento» comincia a diventare insostenibile di fronte alla gravità della crisi umanitaria. Anche non intervenire ha dei costi. E la coperta usata fino ad oggi – la mancanza di un mandato da parte del Consiglio di sicurezza, dati i veti di Russia e Cina – sembra in qualche modo troppo corta.

«Sono a favore di un impegno più deciso e più diretto perché non possiamo restare inerti mentre la gente viene uccisa»: Madeleine Albright, segretario di Stato ai tempi di Clinton, ha espresso in questi termini, nel colloquio di Aspen, il disagio di gran parte dei democratici, non solo dei repubblicani, per l’impotenza occidentale di fronte ai bombardamenti di Aleppo. Dopo un anno di scontri brutali, le vittime della guerra civile stanno lievitando, sono ormai molto più numerose di quelle della guerra in Libia. Vanno aggiunti centinaia di migliaia di sfollati e rifugiati, in fuga verso Giordania, Turchia, Libano, Iraq. Rompendo il dilemma fra i due estremi - impotenza occidentale o intervento militare - è possibile immaginare una «terza opzione»?

Nessuno, nell’amministrazione americana e in quelle europee, prefigura un’azione militare sul terreno. Il precedente iracheno, si è visto, funziona potentemente da freno. Ma anche una politica di «sanzioni e basta», combinata a piani di pace affidati alla mediazione della Lega Araba e dell’Onu, sembra non funzionare: in mancanza di un accordo con la Russia, che difende attraverso Damasco i suoi residui interessi strategici in Medio Oriente, una soluzione negoziata appare lontana. E ci vorrà ancora tempo perché le defezioni al vertice del potere alawita segnino un vero sgretolamento del regime di Bashar. In questo contesto, l’amministrazione Obama si sta spostando verso una politica di sostegno attivo all’opposizione che combatte Assad sul terreno, in accordo con gli alleati regionali – Arabia Saudita e Qatar, anzitutto. Parallelamente, Hillary Clinton ha cominciato a discutere con Ankara la possibilità di istituire una no fly-zone sulla Siria e zone rifugio ai confini con la Giordania. Il calcolo è che, alterando gli equilibri militari sul terreno, un accordo politico sulla successione ad Assad diventerà meno arduo: anche Mosca, alla fine, lo prenderà in considerazione. Uno degli obiettivi essenziali è di arrestare un rischio già evidente di contagio regionale, l’allargamento del conflitto al Libano, alla Giordania e infine all’Iraq.

Il problema, hanno ricordato ad Aspen gli interlocutori cinesi, è che questo tipo di attivismo può finire per scivolare verso una sequenza «libica»: da un intervento iniziale limitato – e che Pechino non aveva ostacolato a New York – a una vera e propria guerra. Per la Cina, il precedente negativo è la Libia. Se oggi Pechino è iperprudente sul caso siriano, lo è per ragioni diverse da Mosca: non per esercitare una sua ultima chance di influenza in Medio Oriente, ma perché si è sentita in qualche modo «beffata», sul caso libico, in Consiglio di sicurezza. Vedremo. Intanto, con un’apertura inedita, uno dei partecipanti cinesi al dialogo di Aspen ha cominciato a parlare di «interferenza responsabile»: una sorta di diritto di ingerenza limitato, che escluda azioni militari dirette ma permetta di contenere la tragedia umanitaria.

E’ davvero realistico pensare che si possa aiutare una popolazione colpita e ferita senza farsi coinvolgere nella dinamica militare di un conflitto che non sembra avere (per ora) una soluzione diplomatica?

Il dilemma che la Siria pone alle diplomazie occidentali è questo. La risposta è tutt’altro che semplice: si tratta di capire fino a che punto e come appoggiare l’opposizione che combatte Assad sul terreno, tentando così di condizionarla e plasmarla. Solo con un impegno più attivo, verso cui l’Italia sta giocando le sue carte (umanitarie e politiche), americani ed europei avranno anche una voce sui futuri assetti della Siria. E potranno sperare di ottenere garanzie concrete sul rispetto delle minoranze, di tutte. Prima che sia troppo tardi.

* Sottosegretario agli Esteri

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10428
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« Risposta #36 inserito:: Ottobre 13, 2012, 03:58:58 pm »

Editoriali
13/10/2012

La migliore eredità

Marta Dassù*


Caro Direttore, 

il Nobel all’Unione europea è un premio alla carriera. Nel senso che riconosce giustamente il principale risultato storico dell’integrazione fra ex nazioni nemiche: rendere impensabile la guerra nel Vecchio Continente. Questo punto è spiegato con chiarezza nell’annuncio fatto a Oslo dal Presidente del Comitato, il segretario Generale del Consiglio d’Europa, Jagland. Il quale ha aggiunto, alla riconciliazione post-bellica, due altre motivazioni determinanti:

•Il consolidamento della democrazia e il rispetto dei diritti umani - richiamati in relazione sia all’adesione di Grecia, Spagna e Portogallo negli Anni 80, sia all’apertura ai Paesi dell’Europa centrorientale dopo la caduta del Muro di Berlino;

•La pacificazione della ex Jugoslavia, con il riferimento all’adesione della Croazia, ai negoziati col Montenegro e al riconoscimento dello status di candidato alla Serbia.

La pacificazione del Vecchio Continente dopo le guerre calde e fredde del secolo scorso; l’espansione dello spazio democratico europeo. Queste le motivazioni del Nobel per la pace all’Ue. Da parte della giuria di un Paese europeo, la Norvegia, che ha sempre preferito non entrare nell’Unione. Ma i paradossi, come sappiamo, non hanno mai spaventato i giudici di Oslo.

Il Comitato del Premio Nobel non ha d’altra parte ignorato la crisi economica e sociale dell’Europa. Ha tuttavia ribaltato il prisma attraverso cui si tendono ormai ad inquadrare le problematiche comunitarie, ricordando che le difficoltà attuali «non impediscono di mettere a fuoco quello che è stato il risultato più importante dell’Ue: il successo nella lotta per la pace, la riconciliazione, la democrazia e i diritti umani». Sembra proprio un omaggio alla carriera, quindi. Ma la realtà è che attraverso l’omaggio passa anche un forte messaggio politico, rivolto sia contro i sentimenti anti europei sia contro le rigidità economicistiche. In linea con le posizioni più lungimiranti di una parte dei leader europei – e con quanto il presidente Napolitano ha sempre detto, anche ultimamente a Madrid - «l’Europa è molto di più dell’euro». Il Nobel per la Pace lo ricorda. Proprio per questo invita implicitamente a trarne le conseguenze. 

Per non disperdere la sua migliore eredità, l’Europa deve diventare più solidale nella gestione dell’economia dell’euro. E deve riuscire a passare, dalla pace «interna», a una capacità di proiezione pacifica «esterna». Sono le due condizioni per salvare il futuro. Il monito che viene da Oslo è di non mettere a rischio, con le battaglie sull’euro, la pace europea. 

* Sottosegretario agli Esteri 

da - http://lastampa.it/2012/10/13/cultura/opinioni/editoriali/la-migliore-eredita-oQyD2Fmty1Em2eZyRrWRLJ/pagina.html
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« Risposta #37 inserito:: Gennaio 19, 2013, 04:17:16 pm »

Editoriali
19/01/2013

Bamako è più vicina di Kabul

Marta Dassù*


Quella in gioco in un pezzo di Africa solo a prima vista remoto è una questione di importanza vitale per il nostro Paese. È necessario che i partiti politici rendano i cittadini consapevoli di quali siano e dove si trovino i nostri interessi nazionali. 

Al di là di considerazioni pre-elettorali dal respiro corto.

 

Rispetto a una parte dei conflitti post-11 settembre, in Mali la posta in gioco non riguarda la difesa delle alleanze dell’Italia; riguarda direttamente i suoi interessi strategici. Nessuno si sognerebbe di considerare ininfluenti, per l’Italia, gli eventi che colpiscono la Libia o l’Algeria, da cui dipende un terzo delle nostre forniture energetiche. Eppure il Sahel è lì, appena dietro. La guerra interna al Mali è in parte figlia della disgregazione della Libia; in parte si riflette nella nuova e drammatica prova di forza, fra governo e terrorismo islamico, in Algeria. 

 

Gli uomini blu del deserto non riconoscono padroni, neanche africani. Tutta la fascia di Paesi che sono emersi dagli imperi coloniali – una fascia che grosso modo taglia l’Africa all’altezza del Sahara meridionale, dalla Mauritania al Sudan - soffre dello stesso problema: la difficile convivenza tra un Nord desertico, di cultura araba e nomade, ed un Sud abitato da agricoltori stanziali di stirpe africana. Rivolte e guerre civili, dagli inizi degli Anni Sessanta del secolo scorso, hanno avuto questo denominatore comune: in Ciad, Niger, Sudan - oggi diviso in due dopo un conflitto sanguinoso - e in Mali. 

 

L’incapacità internazionale di affrontare il «problema Tuareg» - come è sempre stato grossolanamente definito - e le deficienze delle classi dirigenti locali, hanno prodotto Stati fragili o falliti; con grandi sofferenze per le popolazioni. Il Mali è ancora più povero oggi di quanto non fosse due decenni fa.

Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur. 

 

La storia degli ultimi anni? Mentre a Bamako giunte golpiste guidate da giovani ufficiali deponevano primi ministri (colpo di Stato del 2012), nel Nord i tuareg storicamente laici e separatisti si alleavano con i fondamentalisti di Ansar Eddine e altri gruppi affiliati ad Al Qaeda nel Maghreb Islamico. Il Nord del Mali è stato così trasformato in uno stato rifugio di ogni traffico illecito e patria potenziale dei nemici del mondo occidentale. Le conseguenze della guerra di Libia hanno pesato in modo negativo, dando luogo ad una «doppia polveriera» Maghreb-Sahel. 

 

Ecco: tutto questo dovrebbe essere tenuto in considerazione da chi - parecchi in Italia e ancora di più in Europa - considera l’intervento in Mali come l’ennesimo sussulto antistorico e neo-colonialista di una Francia sempre uguale a se stessa. In questi interventi nel vicinato d’Europa, l’America di Obama resta in secondo piano: appoggia ma non guida. Lo spazio lasciato da Washington non è colmato tuttavia dall’Europa o da attori regionali che ancora non sono tali; vede in prima fila Parigi. Si può - lo abbiamo fatto - discutere sulle scelte compiute in Libia. Ciò non toglie che l’intervento in Mali non sia una scelta; è una necessità. Resa legittima, guardando al diritto internazionale, dalla Risoluzione 2085 dell’Onu e dalla diretta richiesta di assistenza da parte del Presidente maliano Traoré.

 

E’ abbastanza paradossale che altri grandi Paesi europei pensino di potere lasciare sola la Francia, quando il futuro del Sahel riguarda, insieme alla Francia, l’Europa nel suo insieme. E’ in particolare la sponda Sud del continente a dovere riprendere i fili di una vera e propria strategia europea per l’Africa, fatta di cooperazione economica e di soluzione politiche, non solo militari. Ma senza chiudere gli occhi di fronte a una crisi come questa: fra interventismo solitario di Parigi, e tentazioni attendiste di Berlino, l’Italia ha un ruolo importante da svolgere. Appoggio logistico e negoziato politico ne sono la condizione. La sicurezza nazionale deve spingerci a superare sia i calcoli elettorali che le insicurezze europee. 

* Sottosegretario agli Affari Esteri 

da - http://lastampa.it/2013/01/19/cultura/opinioni/editoriali/bamako-e-piu-vicina-di-kabul-Nov0QpIgcKpQoX9nshOzuK/pagina.html
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« Risposta #38 inserito:: Febbraio 06, 2013, 12:30:02 am »

Editoriali
05/02/2013

Usa-Europa nuovo patto atlantico

Marta Dassù*

Nel Secolo del Pacifico, l’America rilancia l’Atlantico. Mentre l’Europa si chiede se e in che modo Obama 2 effettuerà il fatidico «pivot to Asia», il vicepresidente Joe Biden, dalla Conferenza di Monaco, chiede agli europei di costruire un’area di libero scambio: un mercato unico fra le due sponde dell’Atlantico, non in nome dei vecchi tempi che furono ma di quelli che verranno. 

 

Va detto subito: non è un’idea nuova. Nuova è la convinzione con cui la sostiene un’amministrazione americana che vede ancora nell’Europa, non nella Cina, il partner economico decisivo. I dati sono lì a dimostrarlo. Europa e Stati Uniti generano insieme un flusso commerciale di 2 miliardi di euro al giorno, un terzo del totale mondiale. Un accordo di libero scambio - progetto sostenuto in questi anni soprattutto da Germania, Gran Bretagna e Italia - avrebbe benefici economici tangibili. Ma l’idea non è mai riuscita ad andare oltre le affermazioni di principio, data la complessità delle tematiche affrontate e la capacità di interdizione delle varie lobby che traggono profitto da mercati protetti. Oggi - fallito il negoziato di Doha sul commercio globale, passate le elezioni americane (fasi in cui qualunque apertura commerciale è un tabù) e constatato, da parte degli europei, che la domanda è «esterna» o non è - sono riunite finalmente le condizioni necessarie, economiche e politiche, per avviare il negoziato. Sulla carta, almeno. 

 

Partiamo allora dalla carta, ossia dal primo rapporto del Gruppo ad Alto livello fra Usa ed Ue che sta lavorando ad abbattere le barriere (un secondo rapporto dovrebbe uscire fra poco). L’obiettivo è un accordo non settoriale ma ampio, che includa i flussi commerciali, i servizi, gli investimenti, gli appalti pubblici, le disposizioni in materia di Pmi, l’accesso alle materie prime e all’energia. Un comprehensive free trade agreement (Fta) che finirebbe per fissare, considerate le dimensioni delle due economie, gli standard internazionali in moltissimi settori dell’attività economica. 

 

I benefici, per l’Europa e per gli Stati Uniti, sono stimati in una crescita del Pil di oltre mezzo punto all’anno, con un aumento degli scambi e soprattutto degli investimenti diretti, la cui importanza è spesso sottovalutata: gli investimenti americani in Europa (da cui dipendono numeri importanti di posti di lavoro) sono il triplo di quelli diretti in Asia; gli investimenti europei negli Usa sono otto volte superiori a quelli in India e Cina messi insieme. Come dire: l’economia atlantica esiste.

 

Un accordo del genere con l’America è un obiettivo molto rilevante per l’Italia, che ha attualmente con gli Stati Uniti un volume di scambi superiore ai 40 miliardi di dollari l’anno - volume in crescita. Non esiste un «sostituto» credibile per questo mercato; se c’è un punto chiarito da questi anni di crisi dell’eurozona, è che la crescita dei Paesi emergenti, per quanto rapida e importante in prospettiva, non è in grado di tirarci fuori dalle secche, non può ancora sostituirsi al consumatore americano e al suo potere d’acquisto. Tanto più per una economia come la nostra, dove solo la domanda estera compensa la durezza dello slow-down domestico. 

 

C’è un dato ulteriore: l’accordo commerciale consentirebbe all’Europa di agganciarsi alla ripresa economica che, con ogni probabilità, interesserà gli Stati Uniti. Welcome back, America: esistono pochi dubbi, a mio giudizio, che la locomotiva americana, considerata un relitto del passato, stia per ripartire, grazie ad una serie di vantaggi competitivi che gli Stati Uniti hanno ancora. Vediamoli. Prima di tutto, la disponibilità di energia a basso costo: la rivoluzione del tight oil and shale gas consentirà in pochi anni agli Usa di ridurre la dipendenza dall’estero e di diventare anzi un esportatore netto di idrocarburi, con grandi vantaggi per le imprese statunitensi. E’ un dato, meglio averlo chiaro da ora, che tenderà a ridurre l’interesse geopolitico americano per il Mediterraneo, richiamando l’Europa alle proprie responsabilità primarie di politica estera. Secondo vantaggio: il dominio globale delle tecnologie informatiche e dei nuovi media - come ricordava di recente Franco Bernabè al Foro imprenditoriale di Santiago del Cile. E infine il dollaro debole, che probabilmente rimarrà tale nel futuro prevedibile. In quest’ultimo caso, il vantaggio competitivo per l’America si trasforma in problema serio per l’Europa. Aggiungendo al dollaro debole la politica monetaria espansiva del nuovo governo giapponese, il risultato è infatti un euro comparativamente così forte da danneggiare gli interessi commerciali europei. Ma proprio per questo, un accordo di libero scambio aiuterebbe; aiuterebbe a limitare i danni di una guerra delle valute non dichiarata e già in corso. 

 

Conclusione: arrivare a un accordo transatlantico non sarà affatto facile. Il diavolo, come al solito, sta nei dettagli e qui i dettagli - le barriere non tariffarie - sono molto rilevanti. Ma i benefici sono evidenti. Con un vantaggio politico aggiuntivo, interno all’Ue questa volta: aiutarci a tenere Londra in Europa. Nel Secolo almeno in parte Atlantico, perdere la Gran Bretagna, dal punto di vista economico e della sicurezza, non converrebbe né agli Stati Uniti, né all’Ue, né agli inglesi. 

 

*Sottosegretario agli Affari Esteri 

da - http://lastampa.it/2013/02/05/cultura/opinioni/editoriali/usa-europa-nuovo-patto-atlantico-bAXSq3uTX8ejEDyJMWvFdL/pagina.html
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« Risposta #39 inserito:: Agosto 08, 2013, 04:41:00 pm »

Editoriali
08/08/2013

Dal Giappone una lezione per l’Europa

Marta Dassù*


Caro Direttore, l’economia giapponese sembrava non doversi risollevare più.
Eppure, non c’è nulla come una visita a Tokyo per dare l’idea di un Paese che ha ritrovato sicurezza, dopo quasi venti anni di stagnazione. 

 

L’Abenomics, insomma, è prima di tutto una iniezione di fiducia in sé: costruita sull’espansione monetaria e sul nazionalismo geopolitico. Funzionerà? 

 

Con la vittoria delle elezioni per la camera alta dello scorso 21 luglio, il Primo Ministro Shinzo Abe ha i numeri per mettere alla prova la propria ricetta. La formula dell’Abenomics è abbastanza semplice. Dal dicembre 2012, il Primo Ministro giapponese, con una strategia sostanzialmente keynesiana, ha dato il via ad un vasto programma di stimoli fiscali, accompagnati da politiche monetarie espansive. Il nuovo Governatore della Bank of Japan, Haruiko Kuroda, ha fissato un target di inflazione al 2%, per combattere il decennale apprezzamento dello Yen. Parallelamente, il governo giapponese ha avviato i negoziati per la Trans-Pacific Partnership, l’accordo di libero scambio con gli Stati Uniti e altri Paesi dell’arco del Pacifico.

 

I risultati sono stati rapidi, anche perché la psicologia è parte integrante dell’economia. Nel primo semestre del 2013 il Giappone è riuscito a rilanciare le proprie esportazioni e ad ottenere tassi di crescita del 4%, la performance migliore del G7. Prima ancora che economica, la rivoluzione di Abe è culturale. Il Giappone che ho visitato nelle scorse settimane per promuovere Expo 2015 è un Paese nuovamente dinamico, che cerca di scrollarsi di dosso il senso di declino, di un inevitabile tramonto. 

 

Certo, gli ostacoli più insidiosi non sono ancora stati affrontati. Per rendere sostenibile la sua strategia - senza che il debito pubblico, già molto alto, provochi un collasso dei conti - Abe dovrà introdurre una serie di riforme strutturali che ancora non si vedono. Le famose due «frecce» dell’Abenomics (espansione monetaria e stimoli fiscali) non reggeranno senza questa terza gamba: per il Fondo Monetario, esistono rischi consistenti che ciò non avvenga in tempi utili. Ma la due giorni di Policy Review della Bank of Japan si è chiusa con un bilancio incoraggiante - mentre l’indice Nikkei continua ad oscillare. 

 

Il governo giapponese sta solo comprando tempo? Per sfuggire alla trappola demografica di una popolazione che invecchia già da alcuni decenni, il sistema pensionistico dovrà essere radicalmente riformato. Il mercato del lavoro attende ancora di essere liberalizzato, soprattutto nel settore dei servizi, favorendo la partecipazione delle donne e investendo di più nell’educazione. Sembra, guardando dall’Italia, un gioco di specchi. 

 

Il rilancio economico del Paese è stato accompagnato da una crescente retorica nazionalista. Nella visione del premier nipponico, la ripresa economica dovrebbe procedere parallelamente al rafforzamento dell’apparato militare del Paese e ad una strategia diplomatica in grado di rilanciare il Giappone come grande attore asiatico. In più di un’occasione, Abe ha sostenuto di volere emendare la Costituzione pacifista, figlia della sconfitta nella Seconda guerra mondiale. Bisogna vedere dove si fermerà l’uso della carta nazionalista. Il rischio - questa volta geopolitico - è che il nazionalismo ritrovato del Giappone, combinandosi a tentazioni simili da parte di una Cina che sperimenta un primo (relativo) rallentamento dell’economia, destabilizzi lo scenario dell’Asia Orientale.

 

Se la performance economica consentirà ad Abe di tenere sotto controllo spinte eccessive in questo senso, il ritorno di Tokyo sulla scena internazionale - il «coming back» del Giappone - avrà conseguenze molto rilevanti e positive. I Brics, dopo aver trainato parte della crescita dalla crisi finanziaria in poi, stanno entrando in una fase di aggiustamento che ne smorzerà l’impatto; anche per questa ragione, le economie avanzate possono - anzi, debbono - tornare a svolgere il ruolo di volano dello sviluppo globale. Gli Stati Uniti, grazie a una serie di fattori fra cui la rivoluzione energetica, stanno di nuovo crescendo; e soprattutto cominciano a sperare che la crescita continui. Se anche il Giappone dovesse risollevarsi, il Primo Mondo potrebbe riacquistare la sicurezza necessaria per tornare a giocare da protagonista. L’Europa deve evitare di rimanere marginalizzata. Il problema è quello di agganciarsi al vecchio/nuovo Occidente: attraverso l’accordo commerciale con gli Stati Uniti ma soprattutto ritrovando strumenti e fiducia per uscire dalla trappola dell’austerità.


*Vice ministro degli Esteri 

da - http://lastampa.it/2013/08/08/cultura/opinioni/editoriali/dal-giappone-una-lezione-per-leuropa-02dW8yGqFIAoOKJnpHmHBK/pagina.html
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« Risposta #40 inserito:: Novembre 08, 2016, 10:57:36 am »

Hillary porterà la tenacia alla Casa Bianca

07/11/2016
Marta Dassù

Se Hillary Clinton diventerà Presidente degli Usa dovrà ringraziare Donald Trump. La sensazione netta, infatti, è che avrebbe perso contro un altro candidato. Un po’ perché il ciclo politico, dopo 8 anni di Obama, spinge in teoria verso i Repubblicani - se il loro partito continuasse ad esistere. 

Un po’ perché Clinton è poco amata dalla gente. Ma Trump ha sconvolto la normalità delle cose: coi toni estremi del suo appello populista e nativista alle classi medio/basse dell’America bianca e virile, si è tenuto stretto una parte molto rilevante dell’elettorato e al tempo stesso ne ha sacrificata un’altra, dai latinos alle donne. Queste ultime non guardano con particolare indulgenza a Hillary - lo si è visto nel 2008, quando hanno votato per Barack Obama. Tuttavia, di fronte al tasso di misoginia riemerso con Trump, hanno cominciato a spostarsi verso Hillary, inclusa una parte delle donne repubblicane. Qui, la candidata democratica deve ringraziare una seconda persona: Michelle Obama, che è riuscita a presentare una delle più brutte campagne elettorali della storia americana come una scelta di civiltà e dignità degli Stati Uniti, contro The Donald e nel nome delle donne. Attraverso le parole di Michelle, Hillary Clinton - la vecchia esponente della «casta», troppo amica della grande finanza e troppo poco trasparente - è tornata ad essere semplicemente una donna dedicata e competente: la guida giusta per un’America che possa ancora tenere in piedi la coalizione delle minoranze ereditata da Obama, liberandosi di troppi stereotipi, inclusi quelli sessisti. 

Hillary deve infine ringraziare se stessa. Solo una persona con una dose assolutamente straordinaria di «tenacia» (la sua prima dote è la resilienza dicono tutti quelli che l’hanno conosciuta in mezzo secolo di carriera politica) avrebbe retto alla sconfitta nelle primarie del 2008 e avrebbe poi usato quattro anni durissimi come Segretario di Stato per prepararsi di nuovo alla Casa Bianca. 

Ma se Hillary ce la facesse davvero, che Presidente sarà? Rispondere è meno semplice di quanto sembri. Hillary è un personaggio pubblico da una infinità di tempo ma ha sempre tenuto nascosti i suoi istinti. E per un Presidente l’istinto conta. Proviamo a fare qualche ipotesi, collegando scelte passate e sfide future.

 Hillary Clinton sarà - per vocazione - un Presidente domestico. Nel senso che la sua vera propensione sarà quella di lasciare il proprio segno sull’America, prima che sul sistema internazionale. Da questo punto di vista, avrà un peso decisivo la nomina del successore di Scalia alla Corte suprema. E conteranno le riforme interne. Dai tentativi di riforma sanitaria compiuti (e falliti) come First Lady negli Anni ’90 fino alle primarie contro Bernie Sanders, Hillary è consapevole che il tasso di disuguaglianza interna alla società americana sta superando limiti di guardia. Trump è il sintomo di una patologia. Che va curata per salvaguardare la democrazia. L’elenco degli impegni presi, anche per tenere a bordo i voti (giovanili) di Sanders, è lungo: dalla riforma fiscale, all’aumento del salario minimo, alla reintroduzione del Glass Steagall Act (la separazione fra banche di risparmio e di investimento), a fondi nelle infrastrutture, alla riforma dell’immigrazione. In breve, Hillary tenderà a distaccarsi almeno in parte dalla eredità economica di Bill: sarà meno clintoniana di quanto sia mai stata. Il problema di fondo è che, se i democratici non riusciranno a recuperare almeno il Senato, avrà ben poche leve per riuscire. L’America del dopo 2016 rischia di essere bloccata, oltre che drammaticamente polarizzata. 

Sul piano internazionale, il disimpegno parziale degli Stati Uniti è una tentazione potente. La realtà, tuttavia, è che i presidenti americani sono regolarmente risucchiati dalle crisi esterne. E Clinton, rispetto ad Obama, tenderà a non lasciare troppi vuoti. Nella sua famosa intervista a The Atlantic, Obama ha definito se stesso un «realista». Hillary, come formazione e come segretario di Stato, è considerata piuttosto una «wilsoniana», propensa all’interventismo. Si può prevedere che l’America cambi registro in Siria e che Hillary decida per un confronto più duro con Putin. Gli europei della Nato saranno messi sotto pressione. 

Tuttavia - questa la terza previsione possibile - la prima donna Presidente degli Stati Uniti guarderà verso il Pacifico, prima che verso l’Atlantico. L’errore che facciamo regolarmente, come europei, è di pensare che il «nostro» candidato sarà anche interessato a gestire le sorti del vecchio Continente. La tensione con la Russia costringerà l’America a non trascurare un’Europa che, vista da Washington, è poco vitale sul piano economico, sta perdendosi per strada Londra e non contribuisce abbastanza alla difesa comune. Ma Hillary è convinta della priorità del Pacifico. E dovrà decidere, come Presidente, se riportare in vita il Tpp (il trattato commerciale con i Paesi del Pacifico, concepito anche per contenere la Cina) o se confermare la linea di «nazionalismo economico» tenuta nella campagna elettorale. 

Questo sarà uno dei dilemmi principali per la presidenza Clinton. Paradossalmente Hillary si troverà a gestire, un paio di decenni dopo, i costi sociali e politici della globalizzazione economica promossa da Bill Clinton.

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Da - http://www.lastampa.it/2016/11/07/cultura/opinioni/editoriali/con-hillary-la-tenacia-alla-casa-bianca-9IiEdsJkyi5ddkH1x8YJdN/pagina.html
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« Risposta #41 inserito:: Febbraio 07, 2017, 04:11:52 pm »

Costi e benefici del dialogo con Donald

Pubblicato il 06/02/2017 -- Ultima modifica il 06/02/2017 alle ore 07:13
Marta Dassù

Dopo la prima telefonata fra Donald Trump e Paolo Gentiloni sappiamo che il presidente americano sarà a Taormina per il G7 italiano. Bene. Ma è anche bene discutere come impostare le relazioni con un Presidente rivoluzionario. In epoca di «deal» bilaterali, Roma non può più dare per scontato la vecchia regola aurea della propria diplomazia, secondo cui atlantismo ed europeismo si rafforzano a vicenda. E neanche la vecchia sub-regola, secondo cui l’appoggio di Washington è sempre servito a rafforzare il potere negoziale dell’Italia verso i grandi Paesi europei.

Se il passato è passato, l’Italia deve valutare in modo neutro, non ideologico, costi e benefici del rapporto con un’amministrazione americana che appare intenzionata - per ora a parole, poi si vedrà - a rilanciare il rapporto con una Gran Bretagna in uscita dall’Ue, ad appoggiare le forze politiche sovraniste rispetto a quelle europeiste e a vedere nella Germania un problema, piuttosto che la soluzione del problema. 

Guardiamo brevemente ai costi potenziali.
Primo: è particolarmente delicato, per l’Italia, il tema del «burden-sharing» nella Nato (la divisione degli oneri della difesa). Per un Paese ad alto debito pubblico, con una crescita anemica e già in seria difficoltà rispetto ai vincoli europei, è difficile immaginare un rapido aumento delle spese militari verso l’obiettivo del 2% del Pil (la spesa militare italiana è ancora di poco superiore all’1%, nonostante gli impegni che abbiamo assunto sui tavoli Nato).

Sempre nella colonna dei costi potenziali: se a Washington prevalesse davvero un orientamento protezionista, ne soffrirebbe non solo la Germania ma anche un Paese export-driven come l’Italia, che ha forti interessi economici sia nel mercato interno europeo che nel mercato americano. In genere, e come ha dimostrato il travagliato dibattito sul Ttip – l’accordo sul commercio e gli investimenti fra i due lati dell’Atlantico, ormai gettato alle ortiche -, l’Italia ha sempre qualcosa da perdere di fronte a una rottura aperta fra Berlino e Washington. È uno scenario che oggi non può essere escluso. 

Ai costi economici si sommano, per il governo attuale, costi politici potenziali, collegati al fatto che le forze «neo-sovraniste» italiane si ritengono rafforzate dall’ascesa di Trump - oltre che dalla politica di Putin. A torto o a ragione, si vedrà meglio dopo le elezioni francesi, gli anti-euro nostrani ritengono di potere contare su un contesto molto più favorevole.

Ma vediamo anche i possibili benefici. Una distensione americana con la Russia (in vista di una collaborazione sul fronte siriano e nella lotta all’Isis) va nella direzione a lungo auspicata dai governi italiani - in questo caso con un sostegno bipartisan e un ovvio interesse dei gruppi industriali. Non è scontato, tuttavia, che l’apertura di Trump a Putin funzioni davvero; l’Italia - senza immaginarsi in ruoli eccessivi - potrebbe favorire un dialogo con la Russia che non passi completamente sopra la testa dell’Europa.

Secondo beneficio potenziale, da valutare alla prova dei fatti: l’appoggio americano (confermato da Trump a Gentiloni) ai tentativi italiani di stabilizzazione della Libia, incluso l’ultimo accordo fra Roma e Tripoli per arginare i flussi migratori dal Mediterraneo. Il dossier Libia, in chiave di rapporto Italia/Stati Uniti, è in realtà più complesso di quanto non sembri. Come noto, l’Italia sostiene il premier Fayez al-Sarraj, al governo di Tripoli dal marzo scorso; e ha deciso, quale unico Paese europeo, di riaprire la propria ambasciata. Ma questo avviene in un contesto di persistente debolezza del governo Sarraj, in una Libia ancora fortemente segnata dalla lotta interna fra fazioni e dall’ascesa in Cirenaica del generale Khalifa Haftar, appoggiato dall’Egitto, da Mosca e meno apertamente dalla Francia. Come scriveva Maurizio Molinari su questo giornale, gli attori esterni si trovano quindi di fronte a un bivio: o appoggiare la spaccatura definitiva della Libia o favorire con Roma un tentativo di conciliazione fra Tripoli e Tobruk. Le nuove scelte di Washington, dopo la sponda che John Kerry, ex segretario di Stato, aveva offerto a Roma, saranno rilevanti: l’interesse strategico dell’Italia è che un accordo eventuale Stati Uniti-Russia sul fronte mediterraneo non spinga verso una spartizione di fatto della Libia ma in senso opposto. Lo richiedono sia le nostre priorità in campo migratorio che le nostre priorità energetiche (difesa dei terminali petroliferi in Libia e sfruttamento del giacimento di Zohr in Egitto, di cui Eni ha venduto una quota a Rosfnet).

Più problematica, per l’Italia, è la questione generale dei rapporti con l’Islam. Un aumento dell’impegno americano in chiave anti-Isis, e un accordo Stati Uniti-Russia nello stesso senso, rientrano nei nostri interessi di sicurezza; ma l’Italia, con le sue basi militari e la sua sovra-esposizione geografica, dovrà discuterne le modalità. Roma ha invece criticato, anche se in modo soft, il bando temporaneo deciso da Trump nei confronti dei rifugiati da sette Paesi islamici, fra cui Libia ed Iran. Sono posizioni che, al di là di qualunque considerazione di principio, riducono la possibilità che il governo italiano ottenga ciò che persegue da anni: accordi internazionali ed europei per la gestione dei flussi dal Mediterraneo.

La rivoluzione Trump travolge vecchi assunti su cui si è retta, dal 1945 in poi, la collocazione internazionale dell’Italia. Al tempo stesso, costringe il nostro Paese a scuotersi dalle sue vecchie pigrizie mentali, per ragionare - finalmente - in termini di costi e benefici. Letta in questa prospettiva, la relazione che è appena cominciata con l’amministrazione Trump è più ambivalente di quanto non sembri. E dovrà essere impostata con molta attenzione da parte di un Paese come il nostro: pesante e fragile sul piano economico, instabile e diviso su quello politico, con una posizione geopolitica cruciale sul fronte mediterraneo. La tenuta dell’Italia sarà decisiva per il destino dell’Europa post-Brexit; e la tenuta dell’Unione europea - con le riforme che appaiono ormai indispensabili, incluse le differenti velocità di cui ha appena parlato Angela Merkel - sarà decisiva per l’Italia, troppo vulnerabile per scegliere un destino solitario. Nella logica Trump del «deal-making», Roma dovrà argomentare molto chiaramente che il beneficio della relazione con Washington non può comportare dei costi sul lato europeo. È essenziale, per i nostri interessi nazionali, che la nuova amministrazione americana ne tenga conto: per pragmatismo, se non per convinzione.

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« Risposta #42 inserito:: Giugno 09, 2018, 06:14:32 pm »

Innovare senza strappi

Pubblicato il 09/06/2018
Ultima modifica il 09/06/2018 alle ore 07:54

MARTA DASSÙ

Il dibattito vero sul rapporto Italia-Europa riguarda le modalità con cui un Paese come il nostro - terza economia europea, in una posizione geopolitica delicata ai confini mediterranei dell’Ue - può riuscire ad esercitare la propria influenza sulle decisioni collettive. Minacciare l’uso di un’arma nucleare (Italexit) danneggerebbe l’Italia prima dell’Europa. 

La complicata formazione del governo Conte è servita a chiarire in anticipo questo punto. D’altra parte, un’Italia che voglia allentare in modo unilaterale i vincoli europei verrà colpita dai mercati prima che dall’Ue. Rimane in effetti una sola scelta sensata: concepire una politica europea degna di questo nome. Può sembrare una conclusione paradossale, in epoca sovranista. Ma la realtà è che contrapporre sovranismo ed europeismo falsa il problema: è dentro all’Ue, non fuori, che l’Italia deve riuscire a difendere i propri interessi nazionali. Come e con quale strategia negoziale è la decisione che la nuova coalizione di governo deve assumere rapidamente. 

Un atteggiamento di questo genere - consapevole dei rischi di una uscita unilaterale dall’euro ma rivolto a fare pesare le priorità dell’Italia più di quanto non sia avvenuto fino ad oggi - corrisponde alle inclinazioni dell’opinione pubblica, largamente contraria alla difesa dello status quo in Europa: l’Italia, indica Eurobarometro, è il Paese più insoddisfatto, dopo la Grecia, del modo in cui l’Ue sta gestendo le questioni economiche (il 60% circa) e soprattutto le questioni migratorie (l’80%). 

Come scrive il politologo Ivan Krastev (“After Europe”), questo secondo tema - più dell’euro - ha radicalmente cambiato le dinamiche politiche in Europa, alimentando pulsioni populiste e nazionaliste. E’ un trend che ha interessato prima la periferia orientale dell’Europa, il cosiddetto gruppo di Visegrad; ha poi investito la Gran Bretagna, dove il problema migratorio (vero o percepito) ha contribuito largamente alla vittoria di Brexit e sta adesso toccando l’Italia, ossia il cuore dell’Unione europea. Da questo punto di vista, un aumento della capacità europea di governare i processi migratori non corrisponde solo agli interessi nazionali di un Paese esposto come l’Italia; è indispensabile per prevenire una graduale implosione dell’Ue.

Esistono gli spazi perché l’Italia riesca ad ottenere dai partner europei qualcosa di più in questo settore? E quali sono le alleanze possibili? Funzionari italiani sostengono che anche il governo Gentiloni era pronto a bocciare una riforma del regolamento di Dublino che non risolve i problemi dell’Italia: gli oneri dell’accoglienza continuerebbero a pesare sui paesi di primo ingresso ed è esclusa qualunque forma di «ricollocazione». Il fattore nuovo è che Matteo Salvini, come ministro dell’Interno, sembra scambiare quella che è una convergenza tattica con i paesi di Visegrad - i più contrari in assoluto a qualunque solidarietà europea in materia di immigrazione - per un’intesa strategica.

 

Un’alleanza con Viktor Orban, se valutata in base agli interessi nazionali dell’Italia e non ad affinità ideologiche che lasciano sempre il tempo che trovano in politica estera, non ha davvero alcun senso. Lascerebbe l’Italia isolata, come rischia in parte di accadere sul dossier Russia. Può darsi che le dichiarazioni estemporanee di Trump sull’esigenza di riportare Putin al tavolo del G7/G8 offrano qualche margine in più all’Italia, che aspira da sempre a proporsi come canale di dialogo fra il mondo euro-atlantico e Mosca. Il punto è che per essere minimamente credibile, l’Italia non può giocarsi, con strappi unilaterali (sanzioni), l’aggancio occidentale - o ciò che ne rimane.

Tornando alle questioni migratorie, più che guardare a Visegrad l’Italia dovrebbe guardare con maggiore attenzione alla Germania. A giudicare dalla recente intervista di Angela Merkel alla «Frankfurter Allgemeine», Berlino sembra disposta a contemplare, nonostante la debolezza interna della coalizione, passi avanti importanti sul diritto d’asilo: l’armonizzazione europea e strumenti congiunti per garantire sia il controllo delle frontiere che la politica dei rimpatri. 

Le alleanze cambiano sulla gestione dell’euro-zona. Qui la Germania continua a difendere - l’intervista di Merkel lo conferma - aggiustamenti graduali che non modificano gli squilibri attuali, incluso il surplus tedesco; e che non scalfiscono la netta prevalenza dei grandi creditori sui grandi debitori. L’Italia, che avrebbe bisogno di misure di condivisione del rischio (a partire da un’Assicurazione comune sui depositi bancari) dovrà piuttosto cercare una convergenza con la Francia. Ma avendo chiaro che Parigi non sceglierà mai un’alleanza con Roma (o con la Madrid del dopo Rajoy) a scapito dei rapporti con Berlino. 

Come si vede, la politica europea è un affare maledettamente complicato. Si può anche sostenere che il nostro Paese abbia avuto per anni un peso contrattuale inferiore alle sue possibilità. La sfida tuttavia è di aumentarlo, non di distruggerlo. Il nuovo governo deve avere chiari i vincoli di un Paese ad alto debito pubblico: la credibilità nazionale è un requisito irrinunciabile. Deve essere consapevole che, per ottenere risultati concreti a Bruxelles, serve uno sforzo preciso e molto più consistente di tutti i livelli dell’amministrazione italiana: la sfida della sovranità si vince così, non con un ripiegamento domestico. E vanno perseguite appunto le alleanze corrette sui singoli dossier, tenendo conto che, nel dopo Brexit, gli allineamenti fra Paesi sono molto più mobili e l’asse tra Francia e Germania è meno solido del previsto. 

Mentre l’Italia vive un cambiamento politico radicale, il resto d’Europa deve trarre la lezione giusta dall’ascesa al governo, in un grande Paese fondatore, di partiti così distanti dall’europeismo tradizionale. L’Italia ha naturalmente una responsabilità primaria nella costruzione del proprio futuro, ma quel che avverrà del suo caso sarà, per l’Europa, più rilevante di Brexit: potrà segnare l’alternativa tra una riforma indispensabile dell’Unione e la sua graduale disgregazione.

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Da - http://www.lastampa.it/2018/06/09/cultura/innovare-senza-strappi-ffENXbDjpGVkbgbozQg4DK/pagina.html
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« Risposta #43 inserito:: Aprile 07, 2019, 11:46:51 pm »

G7, sulla Libia documento congiunto voluto da Francia e Italia.
"Haftar si fermi"G7, sulla Libia documento congiunto voluto da Francia e Italia.

Parigi e Roma mettono da parte le storiche divisioni grazie all'iniziativa del ministro degli Esteri Moavero.
Il titolare della Farnesina: "Ore drammatiche, cessino le ostilità"

Dalla nostra corrispondente ANAIS GINORI
06 aprile 2019

PARIGI - La nuova escalation in Libia, con il generale Haftar che continua a marciare verso Tripoli, ha in parte sconvolto la riunione dei ministri degli Esteri del G7 in corso a Saint-Malo, in Francia. Ed è stata l'Italia a premere perché la crisi in corso fosse messa subito al centro del vertice cominciato ieri in Bretagna. Su iniziativa del ministro Enzo Moavero, la discussione sulla Libia, prevista inizialmente solo stamattina, è stata affrontata già in serata, con la pubblicazione di un comunicato nel quale i ministri del G7 chiedono l'immediato cessate il fuoco e "la fine dei movimenti militari verso Tripoli".

Un chiaro avvertimento a Haftar, l'uomo forte della Cirenaica, considerato fino a poco tempo fa l'interlocutore privilegiato dalla Francia nello scenario libico. Non è un mistero che il generale abbia goduto dell'appoggio dei francesi, insieme a quello dell'Egitto. Ma forse qualcosa sta cambiando anche a Parigi. "Siamo fermamente convinti che non c'è soluzione militare al conflitto libico" recita il comunicato del G7, di cui la Francia è presidente di turno. E poi il riferimento esplicito ad Haftar e alla sua milizia: "Qualsiasi fazione o protagonista libico che alimenti il conflitto civile minaccia persone innocenti e diventa ostacolo alla pace che i libici si meritano".

"Abbiamo parlato di Libia proprio durante gli sviluppi drammatici di queste ore" ma, ha sottolineato il titolare della Farnesina "è molto importante che cessino le operazioni militari che possono contribuire ad accrescere il livello di destabilizzazione".

La dichiarazione dei ministri G7 ribadisce poi il sostegno al rappresentante dell'Onu e ai negoziati da lui avviati. E' un risultato diplomatico importante, sottolineano fonti italiane, visto che il testo è firmato da tre paesi membri del Consiglio di sicurezza, ovvero Stati Uniti, Francia e Regno Unito. E' da Londra che è partita la richiesta di convocare la riunione di emergenza del Consiglio di sicurezza dell'Onu. Mentre il fatto che la diplomazia francese abbia subito accolto l'idea del ministro Moavero di diffondere un comunicato congiunto e unitario sulla Libia è considerato un altro segnale importante. In questo momento, Emmanuel Macron non ha bisogno che la Libia precipiti nella guerra civile. E nonostante le antiche rivalità, Francia e Italia sono condannate a intendersi, almeno in questa fase.
© Riproduzione riservata - 06 aprile 2019

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