LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => AUTRICI e OPINIONISTE. => Discussione aperta da: Admin - Novembre 21, 2010, 11:43:55 am



Titolo: MARTA DASSU'. -
Inserito da: Admin - Novembre 21, 2010, 11:43:55 am
21/11/2010

Il declino paradossale della politica estera
   
MARTA DASSU'

Perché la politica estera non interessa più? I giornalisti televisivi sostengono di perdere una quantità di ascolti quando parlano di problemi internazionali. Io vorrei evitare, scrivendo di politica estera, di fare perdere lettori alla Stampa.

E quindi cercherò di scrivere di cose internazionali come se fossero interne: in realtà lo sono. Prendiamo le scelte tedesche in Europa. Il modo in cui Angela Merkel - fino a ieri chiamata Mutter (mamma) dalla stampa popolare - sta gestendo la crisi del debito sovrano, non è per nulla materno. Perfino i tedeschi cominciano a lamentarsi: due giorni fa, Handelsblatt ha scritto che la Cancelliera sta imponendo condizioni così punitive ai Paesi in deficit da rischiare un effetto Versailles. Allo stesso modo della Germania, dopo la pace punitiva del 1919, i Paesi più deboli dell’euro potrebbero rispondere con un’ondata nazionalista. In questo caso rivolta contro Berlino.

Perché ci interessa - o ci deve interessare? La ragione, in questo caso, è ovvia: tutto ciò che riguarda l’euro è per definizione anche un nostro problema. Oggi guardiamo allo scarto fra titoli tedeschi e italiani come prima guardavamo al rischio di un attacco nucleare: è una questione di sicurezza essenziale.

La sicurezza, nell’epoca del dopo Guerra fredda, significa anzitutto solidità economica: ne accenna il nuovo Concetto Strategico della Nato, appena approvato a Lisbona. Al Consiglio europeo di dicembre, fra due settimane, verrà varata una riforma delle regole di gestione dell’euro che ci condizionerà fortemente. Ma che abbiamo in parte contribuito a scrivere e a modificare. A scriverle perché in fondo continuiamo a credere nell’antica regola aurea della politica europea dell’Italia: un vincolo esterno ci serve. A modificarle perché siamo riusciti a ottenere un’interpretazione complessiva di ciò che va inteso come sostenibilità di un Paese: non solo il criterio nudo e crudo del debito pubblico (il vincolo esterno sarebbe diventato suicida) ma anche il livello di risparmio privato, la salute del sistema bancario e così via.
Questo esempio, lo ammetto, è però troppo facile. Da parecchi decenni, infatti, la politica europea non è più una politica estera classica. E’ piuttosto, secondo una definizione ormai molto usata, una politica «intra-domestica».

Proviamo allora a guardare non all’Europa ma ai grandi equilibri - o meglio squilibri - globali. Nel giro di qualche giorno il G20 di Seul prima e il vertice di Lisbona poi hanno dato due messaggi opposti. A Seul, Cina e Germania, le grandi economie in surplus, si sono trovate dalla stessa parte nella loro critica agli Stati Uniti. A Lisbona, il patto Europa-America, da più di mezzo secolo imperniato sul rapporto fra Berlino e Washington, è stato rilanciato da un Obama reduce dal lungo viaggio asiatico. E il mondo euro-atlantico ha tentato di ancorare Mosca, capendo, con qualche ritardo, che l’altra pace punitiva del secolo scorso - quella che gli occidentali hanno somministrato all’Urss in fase terminale, dopo averla sconfitta nella Guerra fredda - non è convenuta granché.

Qual è il segno principale dei tempi, allora? La divergenza fra Berlino e Washington sul modo di lasciarsi alle spalle la crisi economica (la Germania come Cina d’Europa), la tentazione asiatica degli Stati Uniti (Obama come primo presidente dell’America Pacifica) o il rilancio atlantico ed europeo a Lisbona, con l’apertura alla Russia?

Posso certamente sbagliare, ma continuo a pensare che la relazione fra Paesi occidentali abbia ancora tempo davanti a sé. Per quanto decisivo sia il peso della Cina, è difficile credere che Pechino possa diventare l’interlocutore preferenziale: per la Germania o per l’America. Ma il «segno» dei tempi è che le alleanze internazionali sono comunque meno solide e meno cogenti di prima. Il gioco è diventato più libero.

Il punto è che si tratta di una libertà solo apparente: ai condizionamenti economici esterni si aggiungono nuovi tipi di pulsioni e condizionamenti interni. Che complicano la vecchia «foreign policy». Nel caso degli Stati Uniti, è la polarizzazione estrema della dinamica politica a pesare negativamente: il rapporto di Obama con la Russia è ostaggio di un Congresso che aborrisce accordi bipartitici. Nel caso della Germania, il peso di vincoli interni (dalle sentenze della Corte Costituzionale alla fragilità della coalizione di governo), o sentiti come tali, spiega molte delle scelte di Angela Merkel. Che da europee diventano nazionali.

E arrivo così alla conclusione a cui non avevo pensato. Che la politica estera interessi poco, dopo tutto, è normale. Perché quello che conta veramente è l’incontro/scontro, più veloce e diretto di quanto sia mai stato, fra i riflessi domestici di un numero crescente di attori. Il declino della politica estera è il paradosso dell’epoca globale.

Con questo articolo Marta Dassù, direttore della rivista Aspenia, comincia la sua collaborazione con «La Stampa».

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8113&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARTA DASSÙ - Usa e Cina le potenze riluttanti
Inserito da: Admin - Dicembre 14, 2010, 09:50:26 pm
14/12/2010 - LE IDEE

Usa e Cina le potenze riluttanti

MARTA DASSÙ

Roma, Pechino, New York e ritorno. La tentazione è quella che vi potete immaginare. Di scambiare dei terminal per degli equilibri internazionali: l’aeroporto di Norman Foster, nella capitale cinese, come simbolo del nuovo secolo asiatico; JFK, a New York, quale erede appannato del secolo scorso, il secolo occidentale.

E Fiumicino, ahi Fiumicino, come caotico ritorno al futuro: dall’Atlantico al Mare Nostrum. Se le cose fossero proprio come dicono gli aeroporti - la Cina trionfante, l’America declinante, l’Italia stagnante e simbolo della divisione Nord-Sud nel cuore dell’euro - dovremmo stare tutti molto attenti: i precedenti della storia, infatti, indicano che non è mai stato facile digerire simili rimescolamenti del potere internazionale. Se la Cina fosse la Germania guglielmina di fine Ottocento, e se gli Stati Uniti fossero l’Impero Britannico, rischieremmo una guerra. Ma le cose stanno proprio così? Organizzare un colloquio alla Scuola di Partito di Pechino è un’esperienza istruttiva. Perché la Cina trionfante di Norman Foster appare, in realtà, una potenza riluttante. Un Paese ancora concentrato su difficoltà domestiche che non saranno facili da superare - il problema della coesione sociale, il controllo dell’inflazione, l’invecchiamento demografico - e che non ha ancora deciso quanto e come esercitare le sue nuove responsabilità internazionali. Rispetto agli anni in cui Deng Xiaoping predicava il «basso profilo» in politica estera, l’atteggiamento della Cina è diventato più assertivo nel cortile di casa; ma non fino al punto di dichiarare una dottrina Monroe in Asia Orientale. Sul piano globale, Pechino vede la politica estera con le lenti della geo-economia: materie prime, energia, controllo di alcuni porti nodali per le vie commerciali. In Africa, in America Latina, nel Mediterraneo. Per una leadership confuciana, prima che comunista, la cui caratteristica primaria è comunque il pragmatismo, la politica estera è quello che appare: uno strumento essenziale per garantirsi le condizioni dello sviluppo economico. Di qui una visione globale in parte mercantilista e in parte opportunista. Poi si vedrà. Ma l’istinto, anche negli scenari più fiduciosi sulla potenza futura della Cina, non è quello dell’Impero estroverso, che estende il suo modello in giro per il mondo. L’istinto è l’Impero di Mezzo: è il mondo, semmai, che verrà attirato dalla Cina. Ammesso che la crescita economica non conosca gli intoppi che parecchi prevedono.

Prendiamo adesso l’America declinante: non esiste concetto più distante dalla percezione tradizionale che gli americani hanno del proprio destino. Come nazione dal «destino manifesto», l’America è abituata a credere nel progresso; la paura di non farcela è l’altra faccia di questa stessa medaglia. L’istinto, dai Padri Fondatori in poi, è di reagire. Sta cambiando qualcosa? Quando gli Stati Uniti parlano di un mondo «multi-polare», riconoscono i limiti del potere di un singolo Paese, il loro incluso; ma sono comunque convinti che sia l’America a dovere esercitare una leadership. L’ultimo numero di Foreign Affairs, la rivista storica dell’élite internazionalista, è costruito su un solo concetto: basta con questo dibattito sul declino, o finiremo per procurarcelo sul serio. Dopo la crisi finanziaria del 2008, la tesi è che il rilancio della leadership americana sarà possibile solo ricostruendone le basi interne, anzitutto economiche. Ridurre il debito pubblico oggi diventa così condizione di un nuovo primato domani. Un ripiegamento parziale dell’America, rispetto agli impegni internazionali degli ultimi decenni, è insomma prevedibile. Ma non va letto come una rinuncia. O come un ritorno, impensabile, all’isolazionismo delle origini.

Se la Cina è per ora una potenza riluttante e l’America lo è temporaneamente (ri)diventata, cosa ne sarà della famosa «governance» internazionale? Ammettiamo pure, ha detto un partecipante cinese al colloquio di Aspen a Pechino, che la crescita di potere di un Paese ne aumenti anche le responsabilità internazionali; la Cina non ha nessuna intenzione di pensarsi come «potenza irresponsabile». Ma chi definisce le responsabilità? Il rischio, con Cina e Stati Uniti entrambi ripiegati all’interno e al tempo stesso forzati a coesistere, è quello di un vuoto di potere conflittuale. Il rischio è l’incertezza: su di sé e sulle mosse reciproche.

E’ di fronte a una prospettiva del genere che l’Europa stagnante potrebbe trovare una sua ragione di essere. In teoria e nella pratica dell’ultimo anno, l’Europa appare ancora più risucchiata dalla crisi dell’euro; e quindi marginale rispetto alle tensioni o distensioni cino-americane. Che il cosiddetto G-2 decolli o si frantumi (si vedrà nel gennaio prossimo, con la visita di Hu Jintao negli Stati Uniti), l’Europa sembra destinata a rimanere alla finestra, più che sedersi allo stesso tavolo. Non è necessariamente così. Seduti al tavolo a tre della Scuola di Partito a Pechino, con cinesi e americani, gli europei hanno parlato e pesato.

Soprattutto, è stata la presenza degli europei a costringere Cina e Stati Uniti a uno scambio diverso: meno concentrato sulle rivalità bilaterali ma anche meno spiazzato dalla latitudine di un forum alla G-20. Certo, è stato soltanto un esperimento politico-intellettuale; ma per quello che può contare, l’impressione è che questo tipo di Europa, a condizione che risolva la propria crisi interna, servirebbe. L’Europa come network? Non sarà una grande teoria, su come governare il mondo di oggi. Ma è una convinzione possibile: l’Europa come fattore unificante, più che come forza a sé stante, troverebbe uno spazio nei terminal del XXI secolo.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8197&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARTA DASSU'. Tunisi lancia una sfida all'Europa
Inserito da: Admin - Gennaio 16, 2011, 11:05:55 am
16/1/2011
 
Tunisi lancia una sfida all'Europa
 
 
MARTA DASSU'
 
La tentazione è di leggere la fine di Ben Ali come un caso di ritorno al futuro: dopo tutto, anche il padre della Tunisia indipendente, Habib Bourghiba, era stato messo da parte attraverso una sorta di coup costituzionale, medico-militare. Questa volta, i militari che occupano le strade agiscono in nome di un presidente temporaneo, il presidente del Parlamento Mebazaa, come annunciato dalla Corte costituzionale; ma la sostanza, dicono molti mentre si moltiplicano le violenze, è che la Tunisia non sta diventando una democrazia.

La scommessa è che invece si stia andando in quella direzione: non solo un cambio di potere, garantito dall’esercito, ma un futuro cambio di regime, innescato dalla protesta di piazza di una generazione ventenne che ha i numeri dalla sua (è più del 40% della popolazione) ma che è senza lavoro e senza futuro.

Le prossime settimane diranno se la rivolta di Tunisi verrà ricordata come l’ennesima occasione perduta di giovani generazioni arabe (e persiane) che non mancano certo di coraggio; o se al contrario avrà cambiato le stelle sui cieli del Maghreb. La risposta farà tutta la differenza. Non solo per la Tunisia, anche per il potenziale contagio di regimi - dalla Libia fino all' Egitto - molto diversi fra loro, ma ugualmente incapaci di gestire una vera successione, questione-chiave dello Stato moderno.

La sfida che viene da Tunisi è anche una sfida per noi, gli europei. Da anni, facciamo finta di favorire la democrazia. Nei fatti, abbiamo puntato quasi tutte le nostre carte sulla stabilità, ritenendo che i vari Ben Ali, Mubarak, Gheddafi fossero il male minore rispetto alla minaccia integralista, garantissero buoni affari economici e ci aiutassero a controllare l'emigrazione. Questo approccio europeo e non solo italiano ha prodotto temporanei vantaggi; ma è stato un gioco al rinvio, che sta arrivando ai suoi limiti. Una politica considerata realista appare ormai un’illusione.

Il flop dell’Unione per il Mediterraneo, varata su iniziativa di Nicolas Sarkozy nel 2008, dimostra che anche l’Europa non può sfuggire al dilemma che si è già posta l’America. Un dilemma ben sintetizzato in questa affermazione: «Per sessant’anni, gli Stati Uniti hanno perseguito la stabilità a scapito della democrazia in Medio Oriente, e non abbiamo ottenuto né l’una né l’altra». La citazione è tratta da un discorso ufficiale americano fatto al Cairo: non da Barack Obama, bensì da Condoleezza Rice nel giugno del 2005. Il guaio è che anche la politica di promozione della democrazia tentata da Washington negli ultimi anni - con la forza o con i discorsi, con gli incentivi o con le sanzioni - non ha avuto successo.

Prova ne sia la dura frustrazione con cui Hillary Clinton ha parlato mercoledì scorso in Qatar, subito dopo l’esplosione di un’altra crisi politica, quella del governo libanese: «In troppi luoghi e in troppi modi - ha detto senza complimenti a una platea di diplomatici e businessmen arabi - le fondamenta della regione stanno andando a picco». Perché, ha continuato, senza offrire una speranza ai giovani, senza colpire la corruzione e senza vere riforme di sistemi politici autoritari, un nuovo Medio Oriente non ci sarà. Con questa sua lista ovvia e brutale - che si potrebbe senza sforzo applicare anche alla Tunisia -, il segretario di Stato americano ha messo i governi della regione di fronte alle loro responsabilità. Ma facendolo, ha anche evocato i limiti dell’influenza americana.

Quel che vale per l’America sul fronte orientale del mondo arabo, vale per l’Europa sul suo versante occidentale, fino al Nord Africa. La differenza, tuttavia, è che mentre gli Stati Uniti potrebbero in teoria contemplare un parziale disimpegno dal Medio Oriente e dal Golfo (e in parte ciò sta avvenendo, con il ritiro dall’Iraq), l’Europa non può certo permettersi di venire via dal Mediterraneo. Perché ne fa parte. Perché esiste un differenziale demografico che non farà certo diminuire il problema migratorio; per ragioni di dipendenza energetica che l’America comincia a sentire di meno nel Golfo (dove le importazioni americane sono attorno al 12%).

Fra tentazione e scommessa, violenza e speranze, la lezione che viene da Tunisi è comunque chiara, per l’Europa: la politica mediterranea non può restare una scatola vuota. Dal 1989 in poi, l’Ue si è concentrata essenzialmente verso Est; dal 2008 siamo stati interamente assorbiti dalla crisi economica. Dal 2011 converrà guardare di nuovo verso il Mediterraneo. Ma con occhi diversi: senza una posizione chiara e unitaria sulla Turchia - Paese che ha riscoperto la sua centralità in Medio Oriente e che rischiamo di «perdere» - e senza riuscire a parlare alle nuove generazioni, invece che ai vecchi autocrati, l’Europa sarà al tempo stesso vulnerabile e periferica. La peggiore combinazione possibile.
 
http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8299&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARTA DASSÙ. La crisi del regime Mubarak (e quella dei nostri politologi)
Inserito da: Admin - Gennaio 31, 2011, 11:31:27 am
31/1/2011

La crisi del regime Mubarak (e quella dei nostri politologi)


MARTA DASSÙ

La crisi dell'Egitto è, per i politologi, l'equivalente di ciò che il crollo di Lehman Brothers è stato per gli economisti. Nessuno l'aveva prevista, in un ambiente che vive di previsioni (sbagliate) sui «dieci scenari da evitare nel 2011». Naturalmente si dirà che non è così, perché in un numero speciale della rivista del Centro di Informazione sul Nulla, la successione a Hosni Mubarak era stata segnalata come una tappa critica. Ma la verità è esattamente questa: anche i politologi, come gli economisti, fanno una enorme fatica a immaginare i tempi e i modi in cui si manifesterà una crisi. Non è una novità, certo. Pochissimi avevano previsto il crollo dell’Urss. La cosa mi è tornata in mente quando Barack Obama ha evocato, nel suo Discorso sullo Stato dell’Unione, lo choc dello Sputnik. Per essere onesti, non mi è sembrata una grande trovata: mezzo secolo dopo, la sindrome Sputnik evoca soprattutto la fragilità dell’Urss, più che la solidità dell’America. In ogni caso, dal lancio dello Sputnik fino al crollo del Muro di Berlino, ben poche analisi avevano anticipato lo scenario dell’implosione del sistema sovietico. Anche il 1979 iraniano non era stato previsto da molti; soprattutto, non era stato previsto che le proteste del partito comunista e dell’élite borghese-intellettuale dell’Iran, combinate con la rabbia degli emarginati, producessero il trionfo degli ayatollah. Oggi, il precedente iraniano viene applicato all'Egitto; la previsione dominante, infatti, è che il crollo del regime di Mubarak preparerà l'avvento delle forze islamiche, travestite da Fratelli musulmani. Ma possiamo davvero leggere il futuro del maggiore Paese del mondo arabo con la testa rivolta al precedente persiano?

Questo è un altro bel guaio, in effetti: la tentazione, nelle analisi di politica internazionale, è sempre di ragionare sulla base della crisi precedente. La guerra in Iraq è stata gestita con in mano il manuale dell’intervento in Kosovo del 1999, cosa che certo non è stata di aiuto. La strategia di uscita dall’Afghanistan tiene conto del precedente iracheno, sebbene l'Afghanistan sia un teatro molto diverso dall’Iraq. E così via, con una coazione a ripetere che è l'altra faccia della medaglia della scarsa capacità di prevedere.

Si potrebbe obiettare, a questa visione pessimistica, che qualcuno che sa prevedere c'è, ma non ce ne accorgiamo: qualche professore che non viene invitato a Davos, qualche specialista che non pubblica mai sul Financial Times. E' vero. E qui si torna al famoso dibattito nato di fronte agli errori di valutazione compiuti sull’Iraq: esiste davvero la voglia di ascoltare una expertise che non confermi le scelte politiche? C'è anche il caso dei «dissidenti», i quali credono per definizione nel crollo del regime che li opprime. Peccato che venga data loro ragione solo quando il famoso crollo si verifica davvero. Fino a quando un regime viene sostenuto per ragioni di realpolitik - e nel caso dell’Egitto le ragioni erano e rimangono decisamente importanti: il Paese centrale del mondo arabo, in pace con Israele e alleato degli Stati Uniti - i dissidenti sono soprattutto gente scomoda.

Conclusione? Nello stesso modo in cui la crisi finanziaria del 2008 ha generato un dibattito fra gli economisti, la crisi mediorientale del 2011 dovrebbe generare una riflessione fra i politologi. E' indubbio che il problema del cambiamento politico e sociale sia in ogni caso difficile da leggere e da interpretare. Ma questa scarsa capacità di prevedere ha molto a che fare, io credo, con la nostra abitudine a studiare i regimi, più che i Paesi. Se decidessimo che anche i Paesi contano - la gente, non solo i potenti - le nostre analisi sarebbero migliori, probabilmente. E con loro, anche scelte di politica estera per troppi anni rivolte a sostenere regimi amici, ma nemici della loro gente.

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali


Titolo: MARTA DASSU'. - Una partita cruciale per tutti noi
Inserito da: Admin - Febbraio 05, 2011, 09:41:43 am
5/2/2011

Una partita cruciale per tutti noi


MARTA DASSU'

A giudicare dal Consiglio europeo, l’Ue sembra rimuovere la realtà: ciò che è in gioco, nella sollevazione delle piazze arabe, non è solo il futuro dell’Egitto e dei suoi cittadini. E’ anche il nostro futuro. Non perché Silvio Berlusconi sia l’ultimo Faraone Mediterraneo, come si ostina a sostenere qualcuno.

Né perché la protesta dei giovani arabi, come sostengono altri, «faccia parte» di un ciclo di tensioni connesse alla disoccupazione e alle frustrazioni delle nuove generazioni che si estenderà progressivamente in Europa. La ragione mi sembra un’altra, più netta: è un interesse vitale delle democrazie europee - in cui includo Israele - che la crisi delle vecchie satrapie arabe non prepari future dittature islamiche. Come ha scritto giustamente Tim Garton Ash, «se questo non è un interesse vitale europeo, non è chiaro cosa lo sia».
L’illusione, anche italiana, è che questo scenario possa essere evitato affidandosi a un passato che sta crollando: perché non tenersi Hosni Mubarak? Perché, risponde anche per noi l’amministrazione americana, il prezzo da pagare sarebbe di avallare una repressione sanguinosa e violenta nel nostro cortile di casa. Un’Europa che pretenda di fondarsi su principi e valori democratici non è più in grado di farlo, neanche se lo volesse.

Quali altri scenari restano, allora? Il primo è che l’esercito egiziano - l’unica vera forza organizzata del Paese - sia in grado di gestire il dopo Mubarak mettendo al potere un volto nuovo ma in sostanza controllato dalle Forze Armate. La rivolta d’Egitto, innescando una successione forzata, sfocerebbe così in una modernizzazione autoritaria, più accettabile di quella precedente. Se l’economia riprendesse e se ci fossero passi verso una redistribuzione sociale, la cosa potrebbe riuscire. Anche perché ciò che ha veramente motivato la protesta egiziana è l’emarginazione di larga parte della popolazione dai benefici della crescita: l’apartheid economico dell’Egitto, per riprendere il termine utilizzato da Hernando De Soto.
Il secondo scenario è che la protesta egiziana produca una democrazia di facciata, illiberale. Questa è la ragione per cui Israele avverte Barack Obama che l’analogia vera non è con le rivoluzioni democratiche europee ma con il 1979 iraniano: in Egitto, come in Iran, una protesta popolare con molte anime potrebbe essere alla fine scippata dalla sola struttura politica consistente nell’opposizione, i Fratelli Musulmani. Qui il dilemma, naturalmente, è di decidere cosa vogliano realmente i Fratelli Musulmani. Ha ragione chi sottolinea la loro netta distanza dagli ayatollah persiani o chi insiste sul rischio di una deriva iraniana? Io propenderei per la prima di queste due ipotesi; e ci sono molte ragioni per cui è difficile pensare che l’Egitto, Paese che si considera il «primo Stato arabo moderno», possa mai diventare uno Stato islamico. Ma è un’ipotesi da dimostrare. E va evitato un ragionamento troppo semplice: il fatto che il regime di Mubarak abbia usato strumentalmente la lotta al fondamentalismo islamico, non significa che un rischio del genere non esista.

Il terzo scenario è che il 2011 possa davvero segnare un primo passo verso le aspirazioni democratiche del principale Paese arabo. E’ una grande occasione per il Medio Oriente, che George W. Bush avrebbe voluto imporre dall’esterno partendo dall’Iraq; e che si verificherebbe, invece, come effetto della scossa interna egiziana. Ma come tutte le occasioni della storia, contiene dei rischi evidenti. Anche per Barack Obama. Il quale viene accusato, alternativamente, di essere un G. W. Bush riciclato (di puntare anche lui sull’esportazione della democrazia, rinunciando al realismo) o un Jimmy Carter di ritorno, con le stesse debolezze e con lo stesso problema di fondo: il rischio di perdere l’Egitto - alleato essenziale degli Stati Uniti e unico Paese in pace con Israele - come Carter perse l’Iran nel 1979.
Esiste un modo per sostenere le aspirazioni degli egiziani senza perdere l’Egitto? Questa è la partita essenziale: per i giovani egiziani, per l’America, per la sicurezza di Israele e per noi europei. L’Europa, se non riuscirà a parlare in nome del proprio interesse vitale, dovrebbe almeno aiutare Barack Obama a sottrarsi al dilemma di Carter: non per tornare a una «real-politica» fuori tempo massimo o per riciclarsi come nuovo Bush. Ma per riuscire, con un mix di realismo e idealismo, a vincere una partita cruciale e che riguarda anche noi.

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Titolo: MARTA DASSU'. - Per l'Europa la sfida è sui valori
Inserito da: Admin - Febbraio 15, 2011, 10:55:58 am
15/2/2011

Per l'Europa la sfida è sui valori


MARTA DASSÙ

Quando il ministro Maroni lamenta che l’Europa non sta aiutando l’Italia a fronteggiare il flusso di emigrati dalla Tunisia, dice una cosa vera. Una politica europea dell’immigrazione esiste, sulla carta. Così come esiste un’Agenzia, Frontex, incaricata di coordinare missioni congiunte degli Stati nazionali per il controllo delle frontiere esterne dell’Ue. Ma i meccanismi decisionali europei sono lenti. E ciò che definiamo una politica comune sono in realtà dei principi generali, cui dovrebbero ispirarsi gli Stati nazionali: una vera e propria politica europea, in materia di immigrazione, non c’è. Ogni Paese continua a scegliere quanti e quali emigranti ammettere, come e quando attribuire loro la cittadinanza e come controllare i flussi irregolari, pur rispettando regole comuni minime (a volte contestate dal governo italiano e da quello francese, peraltro) in materia di espulsioni.

Se guardiamo ai dati, l’Italia ospita un numero di rifugiati e di richiedenti asilo per abitante inferiore a quello dei Paesi del Nord Europa.

Tuttavia, per la sua posizione geografica, è molto più esposta della maggior parte dei suoi partner a shock migratori periodici (i flussi dai Balcani negli Anni 90, quelli da Tunisia, Egitto e Libia nell’ultimo decennio). In un’Europa che funzionasse, esisterebbero anche meccanismi concreti di burden sharing, di condivisione degli oneri. Così non è.

Va aggiunto un secondo punto importante: per riuscire a gestire i fenomeni migratori dal suo «estero vicino» - la riva Sud del Mediterraneo - l’Europa avrebbe bisogno, oltre che di Frontex, di una politica estera comune. Anche qui: in teoria, una politica estera comune dell’Ue esiste. Tanto più dopo che il Trattato di Lisbona ha portato alla creazione di un servizio diplomatico europeo e di un «quasi» ministro degli esteri dell’Ue, Catherine Ashton. Nei fatti, di fronte all’ondata di proteste che ha investito il Maghreb, sono state Francia, Germania e Gran Bretagna a produrre (in ritardo) un comunicato congiunto. Lady Ashton, che ha finalmente svolto ieri una missione in Tunisia, è più o meno sparita nella fase acuta della crisi.

Si potrebbe anche sostenere che questa preminenza degli Stati nazionali, rispetto alle istituzioni comuni, non è tipica solo della politica estera o della sicurezza interna. Negli ultimi anni, il Consiglio europeo (l’organismo in cui siedono gli Stati) si è rafforzato, così come il Parlamento di Strasburgo. Mentre la Commissione è molto indebolita, perfino nelle materie economiche che sono il cuore dell’Unione. Nel frattempo la Germania, come Paese più solido dell’area dell’euro, ha cominciato ad esercitare senza i vecchi imbarazzi la sua leadership continentale, con l’appoggio (subalterno) di una Francia che vede nel legame con Berlino l’unico modo per mantenere uno status di Grande in Europa. La risposta alla crisi dell’euro e le nuove forme di «governo» dell’economia che si stanno discutendo conducono, se viste in un’ottica politica, a questa conclusione: la Germania, per restare europea, ha bisogno di un’Europa tedesca. Il che, uscendo dalle formule, significa che Berlino ha messo sul tavolo uno scambio: la Germania salverà l’euro solo a condizione che i Paesi dell’area euro adottino a loro volta la filosofia economica tedesca. Giusto o sbagliato che sia.

Se applichiamo la stessa logica alle questioni dell’immigrazione, appellarsi all’Europa in quanto tale serve a poco. Così come scaricare su Bruxelles responsabilità cui non può assolvere senza il consenso degli Stati nazionali. Servirebbe di più chiedere a Germania e Francia (con l’aggiunta, in questo caso, di Spagna e Gran Bretagna) di definire insieme all’Italia un atteggiamento comune sulla stabilizzazione del Maghreb; inclusa la gestione dei flussi migratori. Anche perché, come nelle crisi passate, l’onda che arriva da Tunisi rifluirà in parte su altri Paesi europei, dopo avere investito l’Italia.

Qualche tempo fa, alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, David Cameron ha parlato della vulnerabilità delle società europee di fronte ai fenomeni migratori. Dopo gli sbarchi a Lampedusa, è un discorso da rileggere. Perché il giovane premier inglese ricorda fra l’altro una cosa importante, sebbene ovvia: la sfida dell’immigrazione è prima di tutto una sfida identitaria, per le nostre società. Obbliga insomma a interrogarci di nuovo sui valori che ci uniscono. E che uniscono gli europei fra di loro.

Siamo in una fase in cui la politica interna sembra impedirci di ragionare in questi termini; le sfide esterne ci costringeranno a farlo.

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali


Titolo: MARTA DASSU'. - Il pericolo è un altro Kosovo
Inserito da: Admin - Marzo 03, 2011, 03:11:22 pm
3/3/2011

Il pericolo è un altro Kosovo

MARTA DASSÙ

La discussione italiana sulla Libia appare sempre un po’ fuori tempo. Siamo partiti troppo lenti, sperando nello status quo. Si è detto che Gheddafi non era come Mubarak: infatti non lo è, è ben peggiore. Ci siamo poi concentrati sul cosiddetto esodo biblico dal Maghreb: e finalmente cominciamo a preoccuparci delle sue conseguenze umanitarie. Infine, mentre c’è aria di guerra civile e sono state firmate le prime sanzioni dell’Onu, abbiamo aperto un «grande dibattito» sul Trattato bilaterale italo-libico: un Trattato che non avrebbe dovuto essere firmato e che è stato ormai superato dagli eventi (qualunque sia l’artificio giuridico per sospenderne l’applicazione).

Insomma, stiamo perdendo di vista il punto cruciale. Il punto cruciale è che Gheddafi non sta mollando e non lo farà. Del resto, la prospettiva del ricorso al Tribunale internazionale rende più difficile di prima una via di uscita negoziata (esilio?) col raiss di Tripolitania. Nel frattempo, la Libia è spezzata in due: la Cirenaica da una parte, con il governo provvisorio di Bengasi, e Tripoli dall’altra. In mezzo, quei millecinquecento chilometri di costa sabbiosa su cui avrebbe dovuto essere costruita la famosa autostrada finanziata dall’Italia. E ai lati una folla di rifugiati, che preme verso la Tunisia e in parte verso l’Egitto. Una bomba umanitaria in piena regola, che si somma alle morti già avvenute con la repressione interna.

Uno stallo del genere, con tutti i pericoli che si porta dietro, era prevedibile. Il comportamento di Gheddafi non è poi molto diverso da quello di Milosevic, altro dittatore amico dell’Italia e che alla fine (1999) abbiamo bombardato, assieme agli impianti di Telecom a Belgrado. Il punto è che la gestione internazionale della crisi libica rischia di entrare in una spirale molto simile: dalle sanzioni economiche ai corridoi umanitari, fino ai bombardamenti militari. Siamo preparati a un esito del genere? La sensazione, guardando agli interventi occidentali degli ultimi due decenni, è che questo tipo di guerre moderne nascano appunto così: come guerre non dichiarate e forse neanche volute, ma che diventano inevitabili come ultimo anello di una catena di azioni-reazioni. Quale Paese in prima linea, molto più esposto di altri, l’Italia ha interesse a evitare che la risposta internazionale alla crisi libica ricalchi le stesse dinamiche. Perché l’esito sarebbe già scritto: finiremo per bombardare Tripoli.

Se americani ed europei decidessero di colpire sedi e strumenti del potere di Gheddafi, come si comincia a chiedere da Bengasi, le implicazioni sarebbero almeno tre. Primo: diventeremmo alleati di una parte in conflitto, così come lo diventammo a suo tempo dei guerriglieri kosovari-albanesi. E’ una scelta politica che siamo intenzionati a compiere? Non è facile rispondere, anche perché non è chiaro, in realtà, come sia composta la galassia assai frammentata dell’opposizione cirenaica. Secondo: l’appoggio cinese e russo alla prima risoluzione dell’Onu è stato essenziale; ma è escluso che Pechino (e forse Mosca) possano votare a favore di un’azione militare, che sarebbe quindi essenzialmente americana ed europea. Dopo aver bombardato, gli occidentali sarebbero comunque oggetto del risentimento della popolazione locale: la gratitudine dei popoli liberati è merce rara.

Terzo: l’uso della forza nei conflitti interni agli Stati non si esaurisce con il primo intervento. Crea anzi le premesse di una lunga presenza, militare e politica, trasformando nei fatti la «responsabilità di proteggere» - ossia un intervento motivato da ragioni umanitarie - in un semi-protettorato. A dodici anni dall’intervento in Kosovo siamo sempre lì, con i nostri soldati e i nostri soldi. E’ un onere che l’Italia e l’Europa sono pronte ad assumersi, in Libia?

Vista l’importanza di queste conseguenze, tentare prima strade diverse è ragionevole - ammesso che la violenza contro il popolo libico non torni a crescere rapidamente. Una parte della diaspora libica, ad esempio, sostiene che nella cerchia ristretta del Colonnello esistano ancora interlocutori possibili, pronti a fare uscire di scena Gheddafi e ad avviare trattative con il governo provvisorio. Un golpe interno, con appoggi internazionali, sarebbe in ogni caso preferibile - almeno come modo per liberarsi del raiss di Tripoli - a un intervento esterno. Nel frattempo, l’Italia dovrà comunque rafforzare gli sforzi umanitari, cercando di garantirsi un appoggio più concreto dell’Europa. Dovrà anche vagliare, con Stati Uniti e Lega Araba (che ha aperto all’Unione africana), l’opzione di una «no fly zone»: non come primo passo verso bombardamenti militari su più larga scala, ma per evitarli, impedendo una repressione tale da costringere a un vero e proprio intervento militare.

In conclusione: i costi e le implicazioni delle decisioni che stiamo prendendo devono essere chiari. Troppo spesso, di fronte alle crisi passate, l’Italia è stata trascinata - a volte nella giusta direzione, a volte meno - dalla spirale degli eventi. In questo caso l’Italia, viste le sue responsabilità particolari di fronte alla Libia, potrà tentare di influire sulle scelte collettive. Ricordando il punto sostanziale: a lungo termine, l’unica vera condizione per la stabilità della Libia è che sia retta dalla propria gente, invece che dai dittatori locali o dalle vecchie potenze coloniali.

da - lastampa.it


Titolo: MARTA DASSU'. - Doppia coppia contro l'Ue
Inserito da: Admin - Marzo 11, 2011, 04:31:51 pm
11/3/2011

Doppia coppia contro l'Ue

MARTA DASSÙ

C’è una doppia coppia al cuore dell’Europa di oggi. Sulla gestione economica della zona dell’euro, la coppia è fatta da Berlino e Parigi: ultimo esempio il «Patto di competitività», in discussione a Bruxelles.

Sulle questioni di politica estera la coppia è invece composta da Parigi e Londra: ultimo esempio la gestione della crisi libica, con l’accelerazione francese (e l’assenso tacito inglese) sul riconoscimento del governo di Bengasi. C’è chi dirà: so what? E allora? Dopo tutto - questa l’argomentazione degli amici della doppia coppia - l’Ue ha sempre avuto bisogno, per funzionare, dell’asse franco-tedesco. Quanto alla politica estera, c’è poco da scherzare: Francia e Gran Bretagna sono le uniche due potenze militari rimaste, con armi nucleari e un seggio all’Onu. E quindi prendere o lasciare. Anche da parte dell’Italia, Paese che ha poco da dire o da offrire - aggiungono in modo malevolo gli amici della doppia coppia - ma che soffre in compenso di un complesso storico di «esclusione».

L’Italia avrà anche un complesso di esclusione: gran parte della nostra politica estera, da Cavour in poi, è stata dominata dal tentativo di guadagnarsi una sedia al tavolo dei Grandi (la politica del sedere, nella definizione scherzosa dell’ambasciatore Quaroni). Ma il problema non è l’Italia, per una volta. Il problema è che la doppia coppia non funziona.

Guardiamo prima alla gestione dell’economia europea. Qui la coppia è solo di bandiera. Il Paese decisivo è la Germania. Dopo notevoli esitazioni di fronte alla crisi greca, Angela Merkel ha messo sul tavolo una sorta di grande trade-off: la Germania resterà europea (difenderà l’euro) solo se l’Europa diventerà tedesca, ossia accetterà la disciplina finanziaria e attuerà le riforme che hanno fatto la forza del modello Deutschland. In realtà, è escluso che il Patto di competitività produca per magia un’Europa tedesca; è molto dubbio che le ricette proposte (in assenza di strumenti come gli eurobonds) favoriscano il rilancio della crescita su scala continentale; e resta probabile una futura ristrutturazione del debito in Grecia o in Irlanda. Ma Angela Merkel, in un anno elettorale, ha bisogno di coprirsi le spalle con la propria opinione pubblica. Lo fa con l’appoggio di Parigi: Nicolas Sarkozy ha appunto deciso che spalleggiare la Germania è l’unico modo per tutelare la centralità della Francia in Europa, che tuttavia - così facendo - centralità non è più. Lo conferma la rilassatezza con cui Londra guarda alla nascita di un’Europa a due velocità, con un’eurozona più integrata a guida tedesca.

Per David Cameron, a differenza che per Tony Blair, il problema britannico non è di condizionare la zona euro; è di restarne, più semplicemente, out.

La Gran Bretagna vuole invece essere «in» sulla politica estera europea. Il problema è che sia Parigi che Londra vedono la politica estera comune come il risultato di accordi bilaterali (nella Difesa, anzitutto), di posizioni conquistate nel Servizio diplomatico creato dal Trattato di Lisbona (dove il peso di francesi e inglesi è preponderante), di decisioni nazionali precostituite. Prendiamo il caso limite di ieri. A poche ore dal vertice europeo sulla Libia, e mentre lady Ashton escludeva di potere assumere una posizione del genere a nome dell’Ue, la Francia ha deciso di riconoscere per conto suo il governo provvisorio di Bengasi quale unico legittimo rappresentante di un Paese spezzato a metà. Lasciamo un momento da parte il merito e guardiamo al metodo: il metodo è uno schiaffo a qualunque idea di concertazione europea. Arrivando «prima», e scommettendo sullo scenario del dopo-Gheddafi, Parigi ha puntato a garantirsi vantaggi politici ed economici: l’attivismo francese e inglese a Bengasi ha a che fare anche con le concessioni petrolifere, come l’Italia ha capito con qualche ritardo. La forzatura francese, d’altra parte, ha bruciato qualunque cautela sulla composizione del Consiglio provvisorio libico. Con il risultato di imporre una scelta secca al resto dell’Europa: la convergenza sulla posizione di Parigi o l’assenza di una posizione comune. Niente di nuovo, sembra un’ennesima variazione sul tema dei riconoscimenti (con il precedente, ad esempio, della Croazia).

Chi critica la lentezza con cui l’Europa ha reagito alla crisi del Nord Africa, può leggere in tutto questo un recupero di velocità. Ma è difficile fidarsi troppo dell’istinto di Nicolas Sarkozy in materia, dopo il flop dell’Unione per il Mediterraneo e dopo gli infortuni su Ben Ali. Per il momento, l’Italia ha deciso di fidarsi a metà di Parigi: ha deciso di riaprire il consolato a Bengasi; ha escluso, nelle dichiarazioni iniziali di Franco Frattini, di partecipare a bombardamenti aerei mirati in Libia, apparentemente contemplati dall’Eliseo. Vedremo nelle prossime ore con quale solidità.

Proprio mentre l’Europa stava faticosamente cercando di mettere la casa in ordine, ossia di gestire le conseguenze della crisi dell’euro, l’incendio del cortile di casa tende ancora una volta a dividere, invece che a unire. Difficile concludere, allora, che la doppia coppia funzioni. Troppo guidati da esigenze domestiche, troppo ripiegati su calcoli a breve termine, troppo oscillanti nelle loro reazioni, i Grandi d’Europa giocano una loro partita nazionale. Non riescono ancora a giocare una partita europea.

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Titolo: MARTA DASSU'. - Libia, conciliare valori e interessi
Inserito da: Admin - Marzo 19, 2011, 11:01:20 am
19/3/2011

Libia, conciliare valori e interessi

MARTA DASSU'

La partita è appena cominciata. Si svolge nel nostro cortile di casa. Coinvolge interessi essenziali del nostro Paese, dalle forniture energetiche al controllo dei flussi migratori. Non sarà una partita breve: come dice la sua storia personale, Muammar Gheddafi giocherà una serie di mosse e cercherà di farcela pagare, prima di cedere. Ha cominciato subito, a poche ore dalla Risoluzione con cui il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha autorizzato «tutte le misure necessarie per proteggere i civili sotto minaccia di attacco in Libia».

E’ la formula standard (tutte le misure necessarie) per il ricorso alla forza: il preludio ad attacchi mirati, non solo a quella «no fly zone» decisa quasi fuori tempo massimo. Come ha risposto il Raiss di Tripoli? Ha dichiarato, attraverso la voce del ministro degli Esteri libico, un cessate-il-fuoco unilaterale, invitando la comunità internazionale a verificarlo sul terreno. La scommessa di Gheddafi è che una mossa del genere complichi le scelte occidentali, gettando una manciata di sabbia nei motori, già accesi, dei bombardieri francesi e inglesi.

Facciamo - per capire meglio le regole della partita e i suoi giocatori - un passo indietro. La decisione di picchiare duro sulle forze del Raiss, prevenendo così un attacco finale a Bengasi, è stata trainata dalla Francia: Nicolas Sarkozy ha deciso di puntare tutte le sue carte sulla caduta del Raiss, per recuperare prestigio domestico e per fare dimenticare i legami fra il suo governo e il regime di Ben Ali in Tunisia. La foga di Parigi ha scosso anche Londra, rimasta su una posizione più cauta; accettata la linea interventista, David Cameron ha cercato a sua volta di smuovere Washington dall’attendismo delle ultime due settimane. Il resto lo hanno fatto le minacce di Gheddafi; quando il Raiss di Tripoli ha annunciato che avrebbe azzerato l’opposizione di Bengasi, Barack Obama ha capito di non potere più esitare. Pena una perdita secca della credibilità degli Stati Uniti, già messa duramente in discussione nel Golfo: l’intervento saudita in Bahrein, senza concertazione con Washington, è stato un campanello di allarme. E’ un’America riluttante, insomma, quella che ha appena deciso, contro il parere dei suoi militari, di intervenire di nuovo in un Paese arabo. Riluttante al punto da lasciare in modo esplicito la «guida» - così ha detto ieri Obama - ai due Paesi europei del Consiglio di sicurezza e a nazioni arabe.

La Germania, da parte sua, ha deciso di restare defilata: l’astensione in Consiglio di sicurezza, insieme a quella di Cina, Russia, India, Brasile, conferma le priorità tutte elettorali di Angela Merkel e dimostra che Berlino non sa o non vuole esercitare una leadership internazionale. Al di là della grande partita sull’euro, la visione tedesca del mondo sembra a tratti mercantilista, a tratti isolazionista. Vicina alla Cina nelle discussioni G-20 sugli equilibri commerciali e monetari; vicina alla Russia sui problemi della sicurezza europea, vicina ad entrambe sulla Libia: Berlino gioca in proprio. L'Italia ha, in questa vicenda, una posizione molto più delicata di quella tedesca. Ha alle spalle il peso della storia coloniale; ha interessi economici in gioco molto più sostanziali; è direttamente esposta alle ritorsioni di Gheddafi; ha molto da perdere, e poco da guadagnare, da una spaccatura fra Tripolitania e Cirenaica. E ha in casa le basi da cui partiranno i raid militari. Sono fattori che dovrebbero spingere il nostro Paese verso l’intervento attivo o verso una posizione passiva?

Una discussione onesta su questo punto - sui costi e benefici di una scelta cruciale di politica estera - sarebbe salutare. Per troppo tempo, siamo stati abituati a ragionare solo in termini di allineamenti: con l’America o contro, con la Nato o fuori, con la Germania o con la Francia, e così via. Oggi, il gioco internazionale è diventato più libero: una condizione che aumenta, con i rischi, anche le responsabilità nazionali. Se ragioniamo in questi termini - gli interessi dell’Italia e le sue responsabilità come Paese democratico - esiste una domanda essenziale a cui rispondere, di tipo real-politico; ed esiste un atteggiamento a cui tendere, di tipo idealistico. La domanda è sempre la stessa: la traiettoria politica di Gheddafi è finita? Ma la seconda risoluzione dell’Onu modifica la risposta: probabilmente sì. Potrà volerci tempo, come è stato nel caso di Milosevic o in quello di Saddam Hussein, ma la fine del Raiss è cominciata. E se è davvero così, l’Italia non ha nessun interesse a lasciare che siano la Francia e la Gran Bretagna a disegnare il futuro della Libia. Una linea di disimpegno alla tedesca, nel nostro cortile di casa, non sarebbe pagante. Del resto, lo scenario peggiore, per l’Italia, sarebbe un Gheddafi apertamente «nemico» ma ancora in sella, con i rischi e i costi (sanzioni petrolifere) della situazione. Anche lo scenario di una guerra protratta fra tribù, con la frantumazione della Libia, sarebbe pessimo per il nostro Paese: avremmo una Grande Somalia appena al di là del Mediterraneo. L’intervento internazionale, per essere utile, dovrà riuscire a evitare il primo scenario senza lasciarsi alle spalle il secondo.

L’atteggiamento a cui tendere è quello richiamato da Giorgio Napolitano, nelle sue parole di ieri a Torino: «Nelle prossime ore dovremo prendere decisioni difficili, impegnative, rispetto a ciò che sta accadendo in Libia… Se pensiamo a ciò che è stato il nostro Risorgimento, innanzitutto come movimento liberatore, non possiamo rimanere indifferenti rispetto alla sistematica repressione di fondamentali libertà e diritti». Per un caso della storia, il 150° anniversario dell’Unità d’Italia avviene nel pieno della crisi libica e 100 anni dopo la spedizione coloniale di Giolitti. Un’occasione giusta per cercare di conciliare, nella politica estera dell’Italia, interessi e valori.

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Titolo: MARTA DASSÙ. Due governi decidono per l'Europa
Inserito da: Admin - Marzo 31, 2011, 06:01:32 pm
31/3/2011

Due governi decidono per l'Europa

MARTA DASSÙ

Cosa resta dell’Unione europea dopo la crisi dell’euro e nel bel mezzo della crisi libica? Resta molto in campo economico e molto poco in politica estera. Jean Monnet osservava che l’Europa si è costruita grazie alle crisi. Questa legge è stata in fondo confermata dalla risposta all’esplosione del debito sovrano: dopo essere partita lenta di fronte al rischio default della Grecia, l’Europa è comunque arrivata a un nuovo Patto sull’euro. Con i suoi vantaggi e i suoi limiti. Ma si tratta di un passo in avanti.

L’intervento in Libia non sta invece producendo dei progressi nella politica estera comune; anzi, ha dimostrato che l’impianto stabilito con il Trattato di Lisbona - una specie di ministro degli Esteri, con un Servizio diplomatico - non funziona. O è irrilevante. C’è chi sostiene che sia tutta colpa di Catherine Ashton, ormai bersaglio delle accuse più disparate. In realtà, Catherine Ashton è stata scelta apposta dai governi nazionali: apposta per essere, quale Alto Rappresentante della politica estera europea, una «non-entity». La Baronessa inglese sta rispettando questa sua missione. Perché non funziona la politica estera comune? Perché gli Stati europei hanno interessi geopolitici divergenti - o meglio ritengono di averli. Perché i politici usano il terreno internazionale come uno strumento di immagine personale (la «ego-diplomacy», secondo la definizione di Riccardo Perissich). E perché, a differenza di quanto accade in campo economico, non esiste il collante di una moneta unica, non esistono le istituzioni comuni collegate al mercato interno e così via.

È chiaro che anche in economia gli interessi nazionali possono divergere: l’Europa è comunque un ambiente competitivo. Ma prevale - almeno per ora - la sensata convinzione che i benefici dell’appartenenza ad un’area economica integrata siano superiori ai costi. In politica estera non è così. Usiamo la Libia come cartina di tornasole. Per la Francia, colta impreparata dalle proteste in Tunisia e in Egitto, la guerre a Gheddafi è l’occasione per tentare di impostare su basi nuove la propria influenza nel Mediterraneo. Per la Germania, è un’impresa inutile e costosa. Quando la Germania pensa alla propria influenza la proietta verso Est, ha in testa una versione aggiornata della «Mitteleuropa». O la proietta sul piano globale, guardando agli interessi commerciali che la spingono verso l’India e la Cina. Non solo. Nicolas Sarkozy crede ancora - che la cosa sia fondata o meno - nell’uso risolutivo della forza come strumento della grandeur francese. Angela Merkel esprime invece la riluttanza tedesca, prodotto storico del secolo scorso, a usare la forza dove non siano in gioco interessi nazionali vitali o dove non sia in gioco il futuro della Nato (lo era in Afghanistan, non sembra esserlo - ancora - in Libia). La conseguenza è paradossale: è la prima crisi internazionale che vede due Paesi europei (Francia e Gran Bretagna) in prima fila; al tempo stesso, la politica estera e di sicurezza europea ne esce a pezzi.

La tesi di Parigi e Londra, naturalmente, è che non sia così. La loro idea è di agire «per conto» dell’Europa, come uniche potenze rimaste. La percezione degli altri, invece, è che Francia e Gran Bretagna agiscano «al posto» dell’Europa: il che fa una bella differenza. Difficile pensare, ad esempio, che l’accordo franco-inglese del novembre scorso sulla cooperazione militare abbia segnato un progresso dell’Europa della Difesa. È vero che i due Paesi coprono da soli più della metà dei bilanci militari europei; è vero che sono i soli a disporre ancora di armi nucleari e a sedere come membri permanenti nel Consiglio di sicurezza; ma è vero anche che non hanno nessuna intenzione di riversare la loro cooperazione bilaterale in una «istituzione» europea che non sia sotto il loro controllo. L’Agenzia per la difesa, peraltro affidata da pochi giorni a un nuovo direttore francese, non è mai decollata. E il caso della Libia è indicativo dei limiti delle capacità militari esistenti: per riuscire ad intervenire, francesi e inglesi hanno comunque bisogno dei Tomahawk americani. E utilizzano basi italiane.

Francia più Gran Bretagna, insomma, non fanno l’Europa, in politica estera e nella difesa. Sono indispensabili ma non sufficienti. Nel frattempo, i due Paesi hanno però occupato gran parte delle posizioni-chiave nel Servizio europeo di Azione Esterna: il segretario generale della Farnesina europea è un diplomatico francese, Pierre Vimont, il capo dell’Africa (o meglio il «managing director», termine in sé abbastanza curioso per indicare i vertici del Servizio Esterno) è un diplomatico inglese, Nicholas Westcott; il capo del Medio Oriente è di nuovo un francese che viene dalla Commissione, Hugues Mingarelli. Sul delicato fronte Sud dell’Europa (in altre posizioni, Cina inclusa, pesa invece la Germania), il Servizio di azione esterna è già franco-inglese: è quasi un’espressione diretta della coppia al comando. Cosa che secondo Charles Grant, direttore del Cer di Londra, permetterebbe uno schema molto semplice per far funzionare la politica estera europea: appaltarla in modo esplicito a Parigi e Londra, secondo un principio di «devoluzione» delle responsabilità compatibile con il Trattato di Lisbona.

Quando idee del genere cominciano a circolare, è bene preoccuparsi. I precedenti - da Suez a Ben Ali, attraverso l’Algeria - sconsigliano fortemente una scelta del genere. Italia e Spagna, in particolare, non hanno nessun interesse a una delega in bianco nel proprio cortile di casa. Come sta dimostrando la crisi libica, l’alternativa alla responsabilità diretta non è l’Unione europea ma la sua scomparsa.

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Titolo: MARTA DASSU'. - Ora potremo influire sugli alleati
Inserito da: Admin - Aprile 26, 2011, 05:35:52 pm
26/4/2011

Ora potremo influire sugli alleati

MARTA DASSÙ


L’Italia ha deciso ieri di partecipare ai bombardamenti della Nato in Libia. E’ una svolta netta per Silvio Berlusconi, presentata come risultato di una telefonata con il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama.

Nelle settimane scorse, il capo del governo italiano aveva escluso che il nostro Paese, per il suo passato di potenza coloniale, avrebbe mai potuto bombardare le terre della Jamahiriya. Ma questa posizione - già difficile in sé da tenere di fronte alle pressioni dell’Alleanza atlantica - era diventata insostenibile dopo il riconoscimento a Roma del Consiglio Transitorio di Bengasi quale unico legittimo rappresentante della Libia. Ci sono limiti oltre i quali, in sostanza, l’incoerenza in politica estera diventa un puro e semplice costo.

In teoria, l’Italia avrebbe potuto scegliere, di fronte allo scoppio della crisi libica, una posizione diversa.

Ma una volta scartata questa opzione - una linea defilata alla «tedesca», per capirci - una volta date le proprie basi, una volta premuto per il comando Nato, una volta accolto con tutti gli onori Jalil (il capo di Bengasi) a Roma, una volta deciso l’invio di alcuni consiglieri militari, il rifiuto di fornire bombardieri non aveva senso.

Perché? Perché l’Italia avrebbe comunque pagato i costi politici della guerra a Gheddafi e avrebbe comunque rischiato le ritorsioni già minacciate dal Colonnello; ma perdendo, al tempo stesso, credibilità nella Nato. E legittimando il ruolo preponderante di Francia e Gran Bretagna: oggi e domani, nei futuri assetti della Libia. In breve, questo passo era necessario anche solo per potere pretendere, dopo molte esitazioni e incertezze, di avere una linea di politica estera. E per evitare di restare ai margini di una crisi che ci vede particolarmente interessati e particolarmente esposti: con molto da perdere e poco da guadagnare. Ma diventerà un passo utile, oltre che necessario, se l’Italia lo utilizzerà per tentare davvero di influire su una strategia di intervento ancora confusa e poco efficace. Troppo spesso, in passato, la politica estera del nostro Paese è cominciata e finita nello sforzo di partecipare a decisioni prese altrove, più che a contare. Oggi l’Italia deve invece sollecitare una discussione vera su questioni essenziali ma ancora prive di risposte: che sostegno daremo al «governo» che è stato appena riconosciuto? Come evitare una spartizione della Libia? Come fare in modo che l’intensificazione della campagna militare favorisca la soluzione politica indispensabile per l’uscita di scena di Gheddafi?

La coerenza non sembra, in realtà, la cifra della risposta europea e americana alla grande scossa che sta vivendo il mondo arabo. Gli Stati Uniti oscillano: fra peso del debito, cautela del Pentagono, calcoli real-politici, l’America non ha ancora deciso fino a che punto appoggiare il risveglio arabo. Che ha per ora prodotto la caduta di regimi amici, piuttosto che di quelli avversari. L’Europa si è divisa di fronte ai flussi migratori: oggi, nell’incontro con Nicolas Sarkozy, Roma e Parigi dovranno chiudere la strana guerra franco-italiana in materia, figlia di errori reciproci e di calcoli elettorali, per puntare verso un accordo europeo.

Mentre l’America esita e l’Europa si frantuma, la primavera araba rischia il suo inverno in Siria: la violenta repressione del regime di Bashar al Assad e la debolezza delle reazioni occidentali dimostrano che l’attivismo di Parigi può spingere verso un intervento in Libia, Paese petrolifero ma laterale negli equilibri mediorientali. Ma non è bastato a salvare il potere degli Hariri in Libano o a ridurre davvero l’influenza della Siria, alleata di Teheran e di Hezbollah. Va ricordata, in proposito, la tesi secondo cui il risveglio arabo non sarebbe cominciato in Tunisia, nel dicembre scorso, ma proprio in Libano nel 2005. Quando l’assassinio di Rafiq Hariri, ex premier sunnita, portò migliaia di persone a chiedere il ritiro delle truppe siriane dal Paese. Cosa che avvenne, dopo una Risoluzione delle Nazioni Unite sponsorizzata da Francia e Stati Uniti. Anche allora, come oggi, Bashar Assad accusò da Damasco forze straniere di puntare alla destabilizzazione. Era l’anticipo dello showdown che si sta tragicamente consumando in terra siriana fra la minoranza alawita e la popolazione sunnita.

Questa tesi sposta il perno della primavera araba (o già inverno che sia) nel cuore del Medio Oriente: la prova di forza in Siria avrà effetti sul Libano e sulla sicurezza di Israele, sull’Iraq (attraverso la sorte della minoranza curda), sulla Turchia (che ha giocato negli ultimi anni una sua carta siriana), sulla sicurezza di Israele. Rispetto alla posta in gioco a Damasco, il futuro di Tripoli può quindi apparire marginale. Ma non lo è: l’esito della prova di forza con Gheddafi condizionerà anche le scelte di Bashar Assad.

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Titolo: MARTA DASSU'. - Il fragile successo di Barack
Inserito da: Admin - Maggio 06, 2011, 11:03:24 pm
5/5/2011

Il fragile successo di Barack

MARTA DASSÙ

La sensazione è che Barack Obama rischi di sciupare il principale successo della sua Presidenza. Il 2 maggio ha ottenuto una grande vittoria politica, con l'uccisione di Bin Laden in Pakistan. Tre giorni dopo soltanto, la scena si complica. Sul piano interno, la Casa Bianca ha dato troppi dettagli, finendo per entrare in contraddizione con le prime ricostruzioni del blitz ad Abbottabad.

Il rischio, di dettaglio in dettaglio, di contraddizione in contraddizione, è che il Presidente/Nobel per la pace, diventato di colpo Comandante in capo, si esponga all’accusa di non avere detto parte della verità. Anche perché la famosa immagine della «situation room» è un’arma a doppio taglio: farà ricordare che Obama ha voluto la testa di Bin Laden ed è riuscito ad ottenerla; ma lo coinvolge anche pienamente, direttamente, nel modo in cui questo risultato è stato ottenuto. Prevale, per ora, l'entusiasmo del pubblico americano; prevalgono le congratulazioni dei repubblicani, i quali sanno che Barack Obama giocherà la campagna elettorale sulla sicurezza nazionale - almeno fino a quando non aumenteranno i numeri dell'occupazione. Proprio per questo, tuttavia, ogni parola detta sul blitz pachistano conterà. E Obama, oggi molto più forte, potrà forse trovarsi in difficoltà.

Sul piano esterno, il rischio può essere sintetizzato così. Una volta ucciso Bin Laden, aumenta anche la pressione al ritiro dall'Afghanistan. In teoria, è un vantaggio ai fini della rielezione di Barack Obama, che farà più in fretta ciò che ha già promesso. Nei fatti, il rischio deriva dalla crisi di fiducia senza precedenti fra Washington e Islamabad, come effetto di tutti i contorni della vicenda Bin Laden. Se Obama perderà il Pakistan, mentre si ritira dall’Afghanistan, si lascerà alle spalle un vuoto strategico. E proprio in un'area che - come spiega Robert D. Kaplan nel suo libro più recente, «Monsoon» - è al centro della mappa di questo secolo, connettendo gli interessi energetici e geopolitici di India, Cina, Pakistan, Iran.

Il contro-argomento, e la speranza di Barack Obama, è che lo showdown nato sul caso Bin Laden costringa finalmente Islamabad ad uscire dall’ambiguità di questi anni: un’ambiguità tale da avere obbligato gli Stati Uniti - secondo le parole di Leon Panetta, capo della Cia e prossimo segretario alla Difesa americano - ad agire da soli in Pakistan, nel timore che i servizi segreti di Islamabad potessero mettere in forse il successo della missione, «avvertendo gli obiettivi».

Da parte americana, quindi, la tolleranza sul Pakistan è finita. La collusione dei servizi segreti pachistani con i gruppi qaedisti era nota da anni: in un messaggio pubblicato da Wikileaks nel 2001, i diplomatici americani descrivevano l'Isi (l’agenzia di sicurezza pachistana) come un braccio del terrorismo. Ma Washington, che bombarda con i droni i santuari qaedisti nel Waziristan, non aveva mai avuto la forza di imporre un chiarimento. La domanda è se, dopo anni di politica fallimentare verso il Pakistan, e dopo montagne di aiuti sprecati, l'uccisione di Bin Laden renda possibile una svolta favorevole agli interessi occidentali.

Nel breve termine, una fase di tensione estrema con Islamabad è probabilmente inevitabile, tensione che la Cina sta già cercando di sfruttare a suo favore. Ma se Washington riuscirà a giocare bene le sue carte, facendo leva sull'attuale debolezza dell'esercito pachistano, i rapporti con Islamabad potranno fondarsi su basi più «sane»: il Pakistan non sarà mai un vero alleato strategico dell’Occidente, inutile illudersi; ma può e deve diventare un partner più affidabile.

Va tenuto conto che Islamabad vede nell’Afghanistan un terreno storico di scontro con l’India; l’appoggio ai taleban, e i santuari di Al Qaeda in Pakistan, sono strumento di questa competizione geopolitica. L’uccisione di Bin Laden potrà forse spingere parte dei taleban a valutare un accordo con il governo di Kabul, facilitando un'intesa con il Pakistan e un ritiro rapido dall'Afghanistan.

Si gioca qui, in ogni caso, una grande e delicata partita: il futuro del Pakistan, politicamente ed economicamente fragile, esposto al terrorismo, con 190 milioni di persone, con armi nucleari, è una variabile decisiva della sicurezza internazionale. Questa partita ha dei rischi per Barack Obama, è il test vero di una politica estera che ha appena colto un grande ma provvisorio successo. E ha dei rischi per noi europei. Se aiutare l’America significa in questo caso aiutare noi stessi, dovremmo ricordarci, mentre l'accogliamo a Roma per il gruppo di contatto sulla Libia, che Hillary Clinton era seduta con Barack Obama, il 2 maggio, nella «Situation room». Quando gli americani dicono che per loro la Libia è un interesse meno centrale (eppure l’America c’è) è forse bene capirli. E trarne le uniche conseguenze possibili: dobbiamo assumerci le nostre responsabilità lì dove è più evidente, nel nostro cortile di casa.

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Titolo: MARTA DASSU'. - Lo scandalo penalizza l'Europa
Inserito da: Admin - Maggio 19, 2011, 06:06:11 pm
19/5/2011

Lo scandalo penalizza l'Europa

MARTA DASSÙ

La caduta di Strauss-Kahn è la fine simbolica di un’era per lo status dell’Europa nel mondo. In un’ennesima parabola del potere Strauss-Kahn ha prima rilanciato, con grande capacità, la guida europea sul Fmi. E poi l’ha bruciata. In mezz’ora.

Può anche darsi che una donna francese, Christine Lagarde, sia considerata la persona più adatta per rimediare a uno scandalo gallico in terra americana. In breve: è possibile, forse probabile, che la guida del Fmi resti per ora in mani europee. Ma se guardiamo al dibattito suscitato dal caso Strauss-Khan negli Stati Uniti e in Asia, l’impressione è che il giudizio di una Corte di New York verrà usato non contro un uomo soltanto ma contro ciò che ha rappresentato fin qui: l’influenza internazionale del Vecchio Continente.

Dalla metà del secolo scorso in poi, Stati Uniti ed Europa hanno guidato, rispettivamente, la Banca mondiale e il Fondo monetario. Quest’assetto, immaginato dopo la seconda guerra mondiale come cardine del sistema economico atlantico, non riflette da tempo gli equilibri di un mondo spostato verso il Pacifico. Per Paesi come la Cina o l’India, continua infatti a conferire un peso eccessivo all’Europa, a svantaggio delle economie emergenti. Non solo. Che la guida del Fondo spetti agli europei è posto ormai in discussione anche dagli Stati Uniti. Il disprezzo con cui Washington ha chiesto le dimissioni di Strauss-Kahn tradisce l’insofferenza diffusa per un Continente vecchio, troppo frammentato e in genere di poco aiuto. Si sta formando così una sorta di coalizione degli insoddisfatti: una coalizione ancora poco in grado di esprimere candidature unitarie ma che considera il peso degli europei nelle istituzioni internazionali come un’anomalia storica da superare. E come un ostacolo a istituzioni più rappresentative del secolo attuale.

Il problema è che l’Europa offre vari pretesti a tesi del genere. Dopo avere evocato per anni un «multilateralismo efficace», con la riforma delle istituzioni di Bretton Woods, la realtà è che il Vecchio Continente finisce per difendere lo status quo. Al di là di una revisione parziale delle quote e dei diritti di voto nel Fmi, approvata lo scorso anno, l’Europa non sembra disposta ad andare. Per due ragioni molto semplici. La prima è che l’assetto ereditato dal secolo scorso continua a convenirle, proprio perché ne sovrastima le posizioni. La seconda è che qualunque riforma seria delle istituzioni internazionali comporta una razionalizzazione della presenza degli europei. E cioè una diminuzione dei pesi nazionali in cambio di un’influenza complessiva: un trade-off che i Paesi grandi dell’Ue non sono disposti a contemplare e di cui quelli piccoli non si fidano. Lo conferma il dibattito ricorrente sulla riforma del Consiglio di sicurezza, con le divisioni fra la Germania - che rivendica un proprio seggio nazionale permanente - e il vasto fronte mobilitato dall’Italia, favorevole a un aumento dei soli membri non permanenti e in prospettiva a seggi regionali, fra cui un seggio Ue.

Questo sfondo spiega perché il caso Strauss-Khan venga visto come un’occasione possibile - dal partito degli euro-critici su entrambi i lati del Pacifico - per contestare vizi e difetti della rendita di posizione europea. E per scrollarsela di dosso alla guida del Fondo monetario.

Qui entra in gioco, tuttavia, il peso della crisi greca, o più largamente della periferia dell’euro. Dal 2009 in poi, il Fondo monetario si è in effetti quasi trasformato in un’Agenzia di salvataggio degli anelli deboli dell’euro, in accordo con la Bce e i governi nazionali. Ciò significa che, come europei, siamo ormai parte integrante del problema e non solo della sua soluzione. In teoria, una condizione del genere delegittima la guida europea del Fondo. Nei fatti, la rende necessaria ancora per qualche tempo: perché - questo l’argomento che potrebbe prevalere a Washington - una guida europea avrà migliori capacità di gestire quella che è vista come una crisi potenzialmente sistemica, con effetti globali. In sostanza: è la vulnerabilità dell’Europa ad aumentarne in questa fase il peso contrattuale.

In un momento già delicato per i rapporti transatlantici, con un presidente americano proiettato verso l’Asia, questa ricetta per salvaguardare l’influenza internazionale dell’Ue non potrà durare molto a lungo. La ricetta della «debolezza come forza» sta esaurendosi, anche nel campo della sicurezza: il dibattito americano sulla Libia, con le polemiche ricorrenti sull’aiuto all’Europa perfino nel proprio cortile di casa, lo dimostra.

Se gli europei fossero disposti a fare i conti con la realtà, il campanello d’allarme del caso Strauss-Kahn servirebbe a qualcosa. Le rendite di posizione ereditate dal secolo scorso sono agli sgoccioli. Non è affatto chiaro in che modo i Paesi europei potranno restare uno dei principali blocchi economici al mondo se non sapranno ripensare le forme di un’influenza politica collettiva. La tentazione tedesca è di immaginarsi come nuovo Paese «emergente» sul piano nazionale, una sorta di Bric europeo: la richiesta di un seggio alle Nazioni Unite, insieme a India e Brasile, è appunto simbolo di questo modo di pensare, per cui la Germania, da Paese sconfitto nella seconda guerra mondiale, diventa uno dei vincitori del secolo attuale. Senza l’Europa e i suoi vincoli. È una scommessa difficile da vincere per la Germania; e perdente per l’Ue nel suo insieme.

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Titolo: MARTA DASSU'. - Un discorso che sa di storia
Inserito da: Admin - Maggio 26, 2011, 05:52:04 pm
26/5/2011

Un discorso che sa di storia

MARTA DASSÙ

I discorsi sono soltanto discorsi e poi c’è bisogno che diventino politiche.

Ma questo address di Barack Obama a Westminster Hall, nella casa madre dei Parlamenti moderni, è stato un grande discorso. Come tono: Obama ha finalmente ritrovato il timbro ispirato dei primi tempi. Come sostanza: Obama ha finalmente detto a cosa serve la Nato, l’Alleanza fra le democrazie occidentali. E come messaggio: Obama ha finalmente deciso che il declino dell’America non c’è. Per quante Cine esistano al mondo. Perché, in un sistema internazionale che pure richiede cooperazione globale, sono comunque i valori e i principi che le democrazie occidentali rappresentano a catalizzare le possibilità di cambiamento.

Il tempo della nostra leadership - ha infatti affermato il Presidente americano, descrivendosi come l’erede della civiltà anglosassone - è oggi. Quando, dopo la sconfitta del nazismo, la ricostruzione post-bellica, la vittoria nella Guerra fredda, ci attende un nuovo compito comune: appoggiare quanti chiedono dignità e libertà in Medio Oriente e in Nord Africa. Agendo con umiltà; ma anche assumendosi le proprie responsabilità.

Poi certo: Obama ha ricordato un po’ troppe volte il rapporto fra Roosevelt e Churchill. Avrà fatto piacere a David Cameron. Con minore piacere, un premier britannico critico sul «multi-culturalismo» avrà ascoltato l’appassionata difesa della «diversità» quale fonte della grandezza di una nazione. Il «nipote di un nonno keniota che ha servito come cuoco nella British Army e che oggi sta di fronte a voi come Presidente degli Stati Uniti» non poteva dire altrimenti. Ma aveva forse bisogno della regina Elisabetta per sentirsi di nuovo alla guida dell’America.

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Titolo: MARTA DASSU'. - Tre ragioni che rendono utile il G8
Inserito da: Admin - Maggio 31, 2011, 03:55:08 pm
31/5/2011

Tre ragioni che rendono utile il G8

MARTA DASSÙ

Ha ancora senso l’Occidente nel mondo post-occidentale? Dopo il rilancio tentato da Barack Obama con il suo viaggio in Europa, non conteranno le parole. Conteranno i fatti. Conterà la capacità di chiudere una guerra lontana - l’intervento in Afghanistan, in corso da dieci anni - e di vincere la guerra vicina, in Libia.

Per errore o per forza, la Nato ha scommesso la propria credibilità su entrambe. Se cedesse oggi - all’attentato terroristico che ieri ha colpito ad Herat i soldati italiani dopo quelli tedeschi, o al colonnello Gheddafi, che ieri ha escluso ancora una volta di lasciare il potere - sarebbero le democrazie occidentali a subire una seria sconfitta. Cosa che non possiamo permetterci: nel mondo post-occidentale, fatto di grandi potenze in ascesa e di grandi rischi, mantenere una capacità collettiva di influenza non sarà facile.

Sul fronte afghano, la morte di bin Laden aumenta, prima di tutto negli Stati Uniti, gli argomenti a favore di un ritiro abbastanza rapido, dall’estate del 2011 in poi. Al G8 di Deauville, europei ed americani hanno confermato, con l’appoggio della Russia, che lo scenario a cui guardano è questo: passaggio graduale della sicurezza alle forze afghane, appoggio ai tentativi di riconciliazione interna da parte di Karzai e sostegno economico. Leggendo al di là delle formule scritte sulla carta: ridimensionate le attese nel «nation building», si dirà che il compito sta finendo e si accetterà di lasciare parte del potere nelle mani dei talebani che siano disposti a dissociarsi da Al Qaeda. Nel frattempo, l’America si concentrerà nel controllo del terrorismo alla frontiera pakistana, cercando di non mandare del tutto a picco i suoi rapporti con Islamabad. E tentando di evitare che il Pakistan diventi una provincia cinese. Vedere le cose con una certa crudezza non impedisce di cogliere un punto sostanziale, per i rapporti politici fra Europa e Stati Uniti: proprio in questa fase, di graduale e delicata costruzione della strategia di uscita della Nato, l’importanza della coesione occidentale aumenta. Il sacrificio dei soldati italiani è ancora essenziale.

In Libia, la sconfitta di Gheddafi è decisiva per rompere lo stallo militare, impedire una spartizione di fatto e incoraggiare i fautori della Primavera araba. Si vedrà nei prossimi giorni se le mediazioni dell’Unione africana o di Mosca renderanno più rapide le cose. Ma la caduta di Gheddafi non ha alternative.

Sembra abbastanza paradossale che, dopo la grande scossa della crisi finanziaria, la credibilità di Stati Uniti ed Europa sia oggi messa alla prova dalle modalità del ritiro dall’Afghanistan e dalla capacità di sconfiggere Gheddafi in tempi e modi accettabili. Ma è così. La settimana scorsa, il G8 ha difatti rilanciato il proprio ruolo non nella gestione delle crisi economiche internazionali - ormai materia di G-20 - ma sul fronte politico, come Alleanza fra democrazie.

Ha senso questo passaggio da un G8 economico ormai largamente superato a un G8 politico? O stiamo solo salvando, nel mondo post-occidentale, un foro inutile? La mia risposta è che ha senso, per almeno tre ragioni importanti. La prima è che Stati Uniti ed Europa escono finalmente dalla sindrome «declinista» degli ultimi anni, secondo cui la democrazia - come sistema politico competitivo - era ormai condannata al fallimento di fronte all’ascesa delle cosiddette «autocrazie sostenibili», a cominciare dalla Cina. Se la Primavera del mondo arabo ha funzionato da tonico, è essenziale che non fallisca: perlomeno là dove è cominciata, in Tunisia e in Egitto.

Seconda ragione: Stati Uniti ed Europa cominciano a riscoprire l’importanza della loro relazione reciproca. E’ evidente che, con lo spostamento verso il Pacifico dell’asse dell’economia globale, il vecchio rapporto atlantico non basta più a governare il mondo. Negli anni scorsi, tuttavia, si è passati un po’ troppo in fretta da questa premessa (l’Occidente non basta più) alla conclusione che il West fosse ormai superato, reso inutile, dall’ascesa del Rest. Così non è. Facciamo un esempio. La nomina di Christine Lagarde alla guida del Fondo monetario internazionale sarebbe sbagliata se esprimesse la stanca difesa di una tradizione vetusta o di un «diritto divino»; ma diventa giusta, per gli europei e per Washington (che votando insieme sono in grado di imporla), quando esprime la sensata affermazione di un interesse condiviso a guidare ancora per alcuni anni la complicata e difficile transizione che stiamo vivendo.

Conta infine - terza ragione - la questione Russia. Che Mosca sia parte di un’Alleanza fra democrazie mature è discutibile. Ma è indiscutibile che il G8 possa servire a tenere ancorata la Russia all’Occidente allargato. E a bilanciare i nuovi fori che si stanno costruendo fra i Brics (le potenze economiche in ascesa) - di cui Mosca fa parte assieme a Pechino.

Nell’insieme, mi sembrano ragioni solide. Che verranno svuotate, tuttavia, se la Nato non porterà a compimento la transizione in Afghanistan e non prevarrà rapidamente in Libia. E se alle dichiarazioni di intenti della settimana scorsa, sull’appoggio ad Egitto e Tunisia, non seguiranno politiche conseguenti. Che la Primavera araba non diventi un Inverno è decisivo per le aspirazioni di milioni di giovani. È una questione-chiave per il futuro del nostro continente, come anticipano le tensioni sul problema immigrazione. E sarà importante per la credibilità della democrazia, in una competizione globale che non è soltanto economica ma riguarda i modelli politici. Se le poste in gioco sono queste - lo sono - meglio che il G8 politico dimostri, nel mondo post-occidentale, la sua utilità.

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Titolo: MARTA DASSU'. - Non esistono scelte a rischio-zero
Inserito da: Admin - Giugno 11, 2011, 05:20:01 pm
11/6/2011

Non esistono scelte a rischio-zero

MARTA DASSÙ

L’unico referendum su cui andrei a votare volentieri è un referendum che abolisse l’attuale legge elettorale. È una legge elettorale del genere, infatti, che consente di raccontarci la solita storia di comodo: siccome il governo uscito dalle urne in modo democratico non rappresenta in ogni caso la volontà popolare, i referendum la devono ripristinare. Sulle materie più disparate: dalla distribuzione dell’acqua all’energia nucleare.

In realtà, questo mio referendum preferito c’è già stato due anni fa; ma è fallito per mancanza di quorum. E quindi continuiamo in questo modo. Con una legge elettorale che funziona da alibi per passare alle vie referendarie. Quando la democrazia rappresentativa fallisce, subentra la democrazia plebiscitaria. Cosa che non certifica affatto lo stato di salute dell’Italia (è il popolo che finalmente decide, dicono i referendari) ma ne certifica la patologia: quando il popolo decide sulle politiche, la politica non funziona.

Ci sono cose che non succedono a caso. Non è un caso che la Costituzione americana non preveda referendum federali. E quindi escluda dai referendum la politica estera e le tasse del governo centrale, come del resto la Costituzione italiana.

È evidente, infatti, che su questioni cruciali per la solidità di uno Stato (la ratifica dei trattati internazionali da cui dipende in parte la nostra sicurezza, la tutela del patto fiscale che sta alla base delle democrazie moderne), plebisciti popolari equivarrebbero a un suicidio.

La politica energetica deve o non deve essere parte di questo stesso ragionamento? In una dinamica democratica normale, chi fosse ostile al nucleare voterebbe contro la parte politica che lo contempla nel proprio programma elettorale; e a favore invece dei partiti anti-nuclearisti. Nella tanto decantata Germania, la decisione di chiudere le centrali nucleare di qui a dieci anni non avviene attraverso un referendum. È la decisione assunta da un governo che tiene conto dell’ascesa politica dei Verdi e che scommette sulla propria forza industriale nel settore delle energie rinnovabili.

Insomma: i referendum sul nucleare sono una prassi ricorrente in Italia. Non lo sono in America o nel resto d’Europa, con la parziale eccezione della Svizzera. In Francia, come negli Stati Uniti, in Gran Bretagna (e come in Finlandia, in Giappone stesso, etc) sono stati i governi, dopo Fukushima, a prendere la decisione opposta a quella tedesca: confermare la scelta nucleare, ma puntando a rafforzare la sicurezza. Il che intanto dimostra una cosa: l’evidenza scientifica sui rischi nucleari non è tale da giustificare decisioni univoche. Mentre è scontato che, se chiamate a pronunciarsi direttamente sui «rischi», le società moderne, avverse al rischio, sceglieranno sempre di azzerarlo. Specie dopo un incidente nucleare. Così facendo, tuttavia, un Paese non compirà necessariamente la scelta più razionale. Anche perché in campo energetico non esistono scelte «a rischio zero»: almeno per tutta una fase di transizione - i molti decenni che ci separano dalla prevalenza delle energie rinnovabili - diminuire la quota prodotta da energia nucleare significa fare leva sui combustili fossili. Aumentando così un altro rischio, quello ambientale. L’ultimo Rapporto dell’Agenzia internazionale dell’Energia prevede infatti, dopo Fukushima, l’Età d’oro del gas.

Il problema psicologico delle società contemporanee è sintetizzato in modo efficace dal Wall Street Journal, in un commento al disastro di Fukushima: «Il paradosso del progresso materiale e tecnologico è che sembriamo diventare tanto più avversi al rischio quanto più quello stesso progresso ci ha reso maggiormente sicuri». Il referendum sul nucleare è tipico di questo paradosso. Ed evoca - prescindendo dai commi specifici che dovremmo abrogare o confermare - la questione più generale: come gestire il rischio in società occidentali dominate dall’ansia e dall’incertezza. Senza rischi, lo ricordava Angelo Panebianco tempo fa sul Corriere della Sera, non avremmo mai avuto quel progresso scientifico che ha permesso di ridurre intere categorie di pericoli, a cominciare dai livelli di mortalità umana. Ma tendiamo a dimenticarlo quando ci illudiamo che esistano scelte a rischio-zero; e quando pensiamo che bandire un’intera categoria di tecnologie, precludendo così anche gli sviluppi futuri, sia una soluzione ottimale.

I dubbi sul nucleare sono naturalmente legittimi; tanto più i dubbi sul modo in cui è stato concepito in Italia il rientro in una tecnologia da cui ci siamo auto-espulsi venticinque anni fa. Il problema, tuttavia, è che avremmo bisogno di fondare le decisioni sul futuro energetico del Paese non su riflessi emotivi ma su sensati trade off fra benefici e costi, fra vantaggi e rischi. Altrimenti, l’illusione della sicurezza assoluta tenderà a trasformarci, da società del rischio, in società della proibizione. O della rinuncia. Con effetti paralizzanti.

Argomenti come questi non impediranno forse di votare. Right or wrong è il mio Paese, voterò anch’io. Nel clima che stiamo vivendo, le pulsioni dei referendari sono state «confiscate» dalla politica tradizionale: votare sul nucleare o sull’acqua è diventato un modo come un altro, dopo le elezioni amministrative, per regolare i conti a Roma. Quando i partiti al governo decidono di rinunciare a difendere le loro stesse politiche, dando libertà di coscienza sulla distribuzione dell’acqua, come se fosse l’eutanasia; e quando i partiti all’opposizione decidono di cavalcare i referendum, il sistema politico non fa più il suo dovere. L’ondata di politicizzazione è tale che perfino il mio referendum preferito rischierebbe di passare, questa volta. Peccato che si voti su altro, non sulla legge elettorale.

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Titolo: MARTA DASSU'. - L'America si chiude in se stessa
Inserito da: Admin - Giugno 21, 2011, 05:17:58 pm
21/6/2011

L'America si chiude in se stessa

MARTA DASSÙ

Il nostro Paese, per ragioni di bilancio, non può permettersi la missione in Libia. Sembra una dichiarazione di Umberto Bossi, che ha chiesto di nuovo, da Pontida, di ridurre i costi delle missioni internazionali. Ma non è una dichiarazione della Lega. E’ l’affermazione con cui Jon Huntsman - ex ambasciatore a Pechino e uno dei candidati repubblicani alla presidenza degli Stati Uniti - ha presentato la sua piattaforma di politica estera.

In cui rientra, insieme alla fine del mezzo impegno americano in Libia, il ritiro rapido dall’Afghanistan. In America, l’inizio della campagna elettorale per il 2012 coincide con un impulso quasi isolazionista. Sono sprezzantemente ripiegati sulle priorità domestiche i candidati dei «tea parties». Lunedì scorso, a un dibattito presidenziale nel New Hampshire, Ron Paul ha dichiarato che l’America risparmierebbe centinaia di milioni di dollari se riducesse drasticamente i suoi impegni internazionali; da parte sua, la stella in ascesa fra i repubblicani, Michele Bachmann, ha detto che Obama ha compiuto un errore gravissimo appoggiando la Francia in Libia. Perché lì, ha precisato, non sono in gioco interessi nazionali vitali degli Stati Uniti.

Per la prima volta da anni, il centro di gravità delle posizioni repubblicane si allontana dal neo-conservatorismo alla Bush junior ma anche dal realismo pragmatico. E torna verso una piattaforma nazionalista. Per lo storico Walter Russell Mead, l’istinto della destra populista americana combina una convinzione fideistica nella superiorità degli Stati Uniti, quale nazione «eletta», a uno scetticismo di fondo sulla possibilità di creare un ordine internazionale di tipo liberale. L’interventismo democratico non fa parte di una visione del genere.

Barack Obama dovrà tenerne conto. Anzi, ne tiene già conto: l’effetto incrociato del problema del debito e dell’uccisione di Bin Laden è di spingere la Casa Bianca verso un ritiro più veloce dall’Afghanistan. La trattativa in corso fra Washington, il governo Karzai e una parte dei taleban ne è la premessa. Dal punto di vista di un Presidente di fatto già in campagna elettorale, diventa essenziale cominciare a «estrarre» l’America dalle guerre degli ultimi dieci anni, per dedicarsi alle priorità dell’economia e alla sfida geopolitica del secolo, la competizione a distanza con la Cina.

E’ importante capire questa traiettoria degli Stati Uniti quando si riflette sulle missioni internazionali a cui partecipa l’Italia. Per inciso, non credo che discutere di missioni internazionali, e dei loro costi, debba essere un tabù: è giusto che un Paese, specie un Paese che ha forti vincoli di bilancio, si ponga interrogativi del genere. Ma la discussione deve essere seria: perché sono seri e coraggiosi i giovani soldati italiani impegnati da anni sul campo; e perché, attraverso le missioni internazionali, l’Italia ha difeso anche la sua credibilità nelle alleanze occidentali. Valore - la credibilità - che potrà interessare poco a chi non crede nello Stato nazionale; ma che resta una leva essenziale per difendere gli interessi dei cittadini italiani, come confermano le vicende economiche.

Il nuovo clima che si respira in America contiene, per chi condivide le posizioni alla Bossi, una buona notizia e una cattiva notizia. La buona notizia è che il ritiro dall’Afghanistan andrà più in fretta del previsto, dal luglio prossimo e nei due anni successivi. Quando la Lega chiede di ridurre i costi delle missioni, potrà contare su questa evoluzione. Sarebbe un errore fatale, tuttavia, se l’Italia prendesse decisioni unilaterali: ciò, infatti, vanificherebbe i costi e i rischi - inclusa la perdita di vite umane - che il nostro Paese ha già affrontato e pagato negli ultimi dieci anni. Come nel caso del Kosovo, altra missione che sta finalmente per concludersi, «uscire insieme» è la scelta più razionale: proprio per non sprecare anni di impegni.

La cattiva notizia è che l’America non sembra più disposta a reggere da sola gran parte degli oneri della Nato. L’operazione in Libia ha messo a nudo tutte le lacune delle capacità di difesa europea. Washington ha reagito con insofferenza: si è sentita trascinata in un conflitto da alleati europei che non sono poi in grado di combattere. A chi voglia capire l’aria che tira conviene leggere il discorso che Robert Gates, segretario alla Difesa in uscita, ha fatto a Bruxelles il 10 giugno scorso. Il messaggio, fin troppo brutale, è che i problemi fiscali valgono per tutti, anche per Washington; e che l’Europa, se vorrà salvare qualcosa dell’alleanza con gli Stati Uniti, dovrà mettere insieme le risorse nazionali e avere le capacità per cavarsela almeno nel proprio cortile di casa. Perché è una cattiva notizia, per una linea alla Bossi? Perché sfilarsi dalla Libia oggi, dopo esservi entrati, giusto o sbagliato che fosse, va in senso esattamente contrario; ed equivale nei fatti a lasciarsi alle spalle la Nato. Le alternative vagheggiate dalla Lega - una specie di semi-neutralismo - non sono credibili: l’Italia ha una collocazione geopolitica molto più esposta e molto più delicata di quella della Svizzera. La realtà è che una Nato più europea servirebbe agli europei stessi: che devono spendere meglio e spendere insieme se non possono spendere di più.

Una discussione seria sulle missioni internazionali dell’Italia dovrebbe partire di qui, se vorrà riguardare il futuro e non il passato. La strana guerra di Libia rischia di diventare il confine simbolico fra la vecchia sicurezza occidentale, garantita e anche pagata quasi interamente dagli Stati Uniti, e il nuovo vuoto di potere alle nostre frontiere meridionali: un vuoto rispetto a cui l’Europa che abbiamo non basta e l’America che avevamo non c’è più. Quando un candidato repubblicano sembra parlare come la Lega, c’è soltanto da preoccuparsi: con un’America percorsa da tentazioni isolazioniste, gli spazi per un isolazionismo all’italiana non aumentano di certo. Si riducono.

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Titolo: MARTA DASSU'. - Europa ostaggio delle regole non scritte
Inserito da: Admin - Giugno 26, 2011, 11:12:22 am
26/6/2011

Europa ostaggio delle regole non scritte

MARTA DASSU'


Pare che Nicolas Sarkozy, al Consiglio europeo di Bruxelles venerdì scorso, abbia detto qualcosa del genere: «E’ mai possibile che debba risolvere io i problemi fra voi italiani?». A parte il fatto che è stata Parigi a creare il problema iniziale pretendendo di barattare il via libera alla nomina di Mario Draghi con un posto francese nel Comitato esecutivo della Banca centrale europea - mettere la cosa in questi termini è un po’ riduttivo. Non si tratta solo dei noti pasticci italici, che naturalmente ci sono stati. Si tratta anche del fatto che la Banca centrale europea (Bce), unica istituzione realmente sovrannazionale creata dai governi dell’Ue negli ultimi quindici anni, riflette la tensione su cui è costruita l’Europa: gli Stati nazionali hanno delegato parte della loro sovranità a istituzioni comuni (la Commissione, la Corte di Giustizia, la Bce) ma diventa sempre più chiaro che non intendono perderne il controllo.

Da vari anni a questa parte il pendolo del potere reale ha continuato a spostarsi verso il Consiglio europeo, dove siedono appunto i governi nazionali. E verso il Parlamento di Strasburgo. La Commissione non è diventata il governo dell’Unione, come speravano i federalisti; al contrario, ha perso forza. E perdendo forza ha perso anche autorevolezza. O forse è l’opposto, come dicono i critici del suo presidente José Manuel Barroso. Il caso della Bce è ancora più delicato: perché la Banca centrale europea, costruita sul modello tedesco, è per definizione indipendente. Nessun governo della zona euro mette in discussione questo principio. Al tempo stesso, le economie maggiori dell’Ue cercano di mantenere una «super-rappresentanza» attraverso meccanismi facili da intuire: per esempio, attraverso la tesi di Sarkozy che un francese, data la gravità della crisi dell’euro, debba per forza sedere nel Comitato esecutivo della Bce, composto da sei membri (i Paesi della zona euro sono 17, quindi solo un governo su tre potrebbe permettersi un ragionamento del genere).

Corollario scontato di questa regola non scritta alla francese è che due italiani non possano sedere assieme nel Comitato esecutivo. In realtà, non esiste alcuna regola scritta sulla nazionalità dei membri del Comitato esecutivo: proprio perché, per Statuto, non sono rappresentanti dei rispettivi governi ma sono membri indipendenti, che rispondono alle istituzioni europee. In quanto tali, siedono nel «Governing Council» della Bce assieme ai 17 governatori delle Banche centrali nazionali, fra cui il prossimo governatore della Banca d’Italia. Uff, si dirà: che rompicapo, e che noia. Sì, ma bisogna fare uno sforzo per capire. Perché l’Europa funziona esattamente così, almeno per ora: funziona in base a intese fra governi che hanno ceduto parte della loro sovranità a Francoforte e Bruxelles; ma cercano di mantenere un’influenza. Ciò significa che le regole scritte sulla carta saranno sempre bilanciate da regole non scritte: da accordi informali fra i governi nazionali, che dopo tutto sono gli stakeholders dell’Europa, assieme ai suoi cittadini.

In questo caso specifico, Sarkozy e Berlusconi - rendendo pubblico un accordo informale di per sé comprensibile - hanno fatto finta di dimenticarsi le regole scritte. Da parte sua, Lorenzo Bini Smaghi ha fatto finta di non sapere come funziona realmente l’Europa di oggi. Si può trarre, da questo caso specifico, una conclusione abbastanza brutale: l’esistenza di regole scritte e non scritte, con le tensioni che ne derivano, è uno dei molti riflessi di un sistema di governo, quello dell’Europa, tutt’altro che ottimale. C’è chi dirà (la scuola «pragmatica» sull’Europa) che è l’unico sistema possibile, nelle condizioni date. C’è chi sostiene (gli euro-ottimisti) che l’Ue è in realtà un caso «unico», unico nel senso di migliore di altri. E c’è chi pensa (gli euro-scettici ma anche i federalisti, da poli opposti) che così non può più funzionare. Perché a furia di restare a metà - un’Unione fra Stati ma non una Federazione di Stati, un’unione monetaria ma non un’unione fiscale - l’Europa fallirà. I prossimi mesi saranno decisivi: come risultato della crisi del debito in Europa, l’euro si spaccherà o l’Unione europea farà un passo in avanti. In passato, le crisi hanno spesso rafforzato l’Europa - e le sue regole, scritte e non scritte. Questa volta, vista la situazione della Grecia e i rischi di contagio, sembra difficile credervi. Ma la posta in gioco è molto più alta - per le singole economie e per la tenuta dell’Ue - di quanto sia mai stata da vari decenni a questa parte.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8899&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARTA DASSU'. - Una pace credibile per la Libia
Inserito da: Admin - Luglio 05, 2011, 04:29:29 pm
5/7/2011

Una pace credibile per la Libia

MARTA DASSÙ

Sono passati più di 100 giorni dall’inizio della strana guerra di Libia: che ci stiamo dimenticando o vogliamo rimuovere. Intanto, il colonnello Gheddafi minaccia ancora da Tripoli di colpire l’Europa «le vostre case, i vostri uffici e le vostre famiglie» se i raid della Nato non cesseranno. Dichiarazioni del genere aiutano se non altro a chiarire il contesto: il Rais, colpito da un mandato di arresto della Corte Penale Internazionale, abbandonato da parte dei suoi e indebolito dalle sanzioni economiche, è alla ricerca di una soluzione politica. Minaccia perché è debole non perché sia forte. Minaccia per trattare.

Da parte loro, i Paesi della Nato che partecipano alla strana guerra di Libia combattono soprattutto contro se stessi. In America, Barack Obama fa fatica a difendere un impegno che, per gran parte del Congresso e dell’opinione pubblica, non rientra negli interessi vitali degli Stati Uniti. In Francia, la guerra voluta da Sarkozy sta diventando un boomerang per l’inquilino dell’Eliseo. Sopravvive il nemico esterno (Gheddafi) e risorge il nemico interno (Strauss-Kahn): sono giorni difficili per un Presidente debole e di fatto già in campagna elettorale. A Londra, costi e tempi della missione in Libia sono utilizzati dalle gerarchie militari per protestare, fin troppo apertamente, contro i tagli al bilancio della difesa. E a Roma si sa: l’impresa di Libia divide, anche se in modo un po’ finto, la maggioranza di governo. Per cui anche la Nato, allo stesso modo di Gheddafi, vorrebbe trattare. Ma vorrebbe trattare, anzi lo sta facendo, con tutti meno che con il Colonnello.

Il terzo attore - il Consiglio di Transizione creato a Bengasi e già riconosciuto quale governo legittimo della Libia da alcuni Paesi, inclusa l'Italia - sta arrivando alla stessa conclusione. Dopo 100 giorni di una guerra che gli oppositori di Gheddafi non sanno combattere sul terreno e che la Nato non può vincere solo dall’alto, il Consiglio ha circoscritto le sue ambizioni: sembra disposto a trattare con i potenti di Tripoli un accordo nazionale, un patto transitorio di governo, se Gheddafi e suo figlio Saif prenderanno la via dell’esilio forzato. Scenario che il mandato di arresto internazionale rende più difficile; ma non impossibile. L’Unione africana, che sta tentando da settimane una sua mediazione, va ancora più in là (o più vicino): la via di uscita vagheggiata è il ritiro di Gheddafi e della sua famiglia in un’oasi, controllata, della Libia stessa.

Mentre i raids della Nato continuano - e mentre continuano le proteste di Cina e Russia per il modo in cui gli occidentali hanno stiracchiato il mandato dell’Onu - gli occhi di tutti guardano qui: a una possibile trattativa politica che fermi la guerra tenendo in gioco larga parte del potere a Tripoli (il precedente dell’Iraq ha dimostrato i costi di epurazioni su vasta scala), salvando la faccia agli occidentali e salvaguardando l’unità del Paese. Insomma: una soluzione capace di evitare la spaccatura in due della Libia e la sua «somalizzazione». Il problema è che, per riuscire, dovrà essere una trattativa avallata dalle tribù che ancora appoggiano Gheddafi. Ma senza Gheddafi.

Un tipo come Gheddafi potrà mai trattare la propria buonuscita? Molti ne dubitano. Nonostante i primi incontri della settimana scorsa in Tunisia con gli emissari del Colonnello, una strategia di uscita concordata - si dice - non esiste. E non è realistico sperarvi, quando il Rais controlla ancora Tripoli e dintorni. C’è però una visione più ottimistica, secondo cui la campagna militare sta finalmente raccogliendo qualche frutto, rafforzato dall’ingresso in scena dei berberi nelle montagne di Nafusa, a cento chilometri da Tripoli. Soprattutto, l’anello dei fedeli a Gheddafi, anche nella capitale, si sta restringendo: aumentano le defezioni fra i militari. La speranza occidentale e del Consiglio di Bengasi è che il regime sia prossimo ad implodere. La speranza del Rais, naturalmente, è opposta: è di riuscire a tenere le proprie posizioni più di quanto riusciranno a fare gli Stati Uniti e i Paesi della Nato, indeboliti da divisioni politiche interne, dai vincoli dell’austerità e dalla stanchezza dell’opinione pubblica.

Il Colonnello sa che gli occidentali potranno essere sconfitti solo da loro stessi. Proprio per questo, è importante non dimenticare la guerra nel cortile di casa. E avere chiaro che il suo esito condizionerà la nostra sicurezza più di quanto non siamo pronti ad ammettere. Nell’immediato, una vera e propria implosione del potere di Gheddafi assomiglia a un miracolo o a una illusione. Ma se il terzo attore, il Consiglio transitorio di Bengasi, proporrà alla parte di Tripoli una condivisione credibile del potere per il «senza Gheddafi» - credibile anche perché garantita dalla coalizione internazionale - gli incentivi politici e non solo militari a liquidare il Rais aumenteranno. Se il Colonnello si persuadesse di questo, del fatto che il tempo non gioca in realtà a suo vantaggio, potrebbe anche cercare una via di uscita oggi per non perdere tutto, vita inclusa, domani.

Questo ragionamento sui rapporti di forza (o sulle debolezze rispettive, sarebbe forse meglio dire) porta a una conclusione rilevante, anche per la politica italiana sulla Libia. I Paesi che hanno deciso di intervenire, giusto o sbagliato che fosse, hanno ormai tutto l’interesse a non dare l’impressione di cedere, se vogliono aumentare le possibilità di una trattativa politica che ponga fine alla guerra. Dopo di che, lo indicano i piani in discussione alle Nazioni Unite, i compiti di peacekeeping passeranno a contingenti turchi, giordani, o africani.

Una pace comunque imperfetta non potrà includere in nessun caso la permanenza di Gheddafi al potere. Dovrà offrire un futuro alla gente della Cirenaica; ma anche rassicurare, sul proprio destino, i cittadini della Tripolitania. In assenza di queste condizioni, la spartizione violenta della Libia, con tutti i suoi rischi, diventerà inevitabile.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8935&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARTA DASSU'. - Impensabile un'Italia chiusa in casa
Inserito da: Admin - Luglio 11, 2011, 09:19:36 am
11/7/2011
 
Impensabile un'Italia chiusa in casa
 
 
MARTA DASSU'
 
La revisione delle decine di missioni militari a cui l’Italia partecipa nel mondo era dovuta da tempo.
E’ stata sollecitata dalla Lega per le ragioni sbagliate – populismo e provincialismo – che Vittorio Emanuele Parsi ha denunciato nel suo editoriale di alcuni giorni fa. Ma ciò non toglie che fosse giusto verificare gli impegni complessivi dell’Italia, che ha per anni schierato all’estero quasi 10.000 soldati. Esistono infatti, al di là delle ragioni strumentali, motivi razionali per una riflessione sulle missioni internazionali. Il primo è che alcune di queste missioni stanno esaurendo la loro funzione (Kosovo) o non stanno raggiungendo gli obiettivi iniziali (Afghanistan, dove peraltro non sono state decise riduzioni immediate): in linea di principio, è giusto che le missioni internazionali siano regolarmente riviste.

Secondo motivo: nessuna politica estera seria può continuare a fondarsi sull’uso – improprio - delle missioni internazionali come unico strumento per difendere il rango dell’Italia nel mondo. Un meccanismo del genere è utile? Non lo è. Le missioni internazionali hanno finito per diventare un surrogato di quello che non c’è ma dovrebbe esserci: una visione chiara e selettiva delle nostre priorità nel mondo e dei vari strumenti per difenderle. Terzo motivo: nell’epoca dell’austerità, il costo delle missioni internazionali non è trascurabile anche perché penalizza altri aspetti della politica estera.

Si impongono delle scelte su come distribuire risorse scarse. Facciamo un esempio: per il rango dell’Italia nel mondo è più importante mantenere seicento soldati in più in Libano o pagare gli impegni economici assunti al G-8? In realtà, quei seicento soldati avremmo dovuto ritirarli da tempo, visto che facevano parte di un ruolo di comando passato dall’Italia alla Spagna. Mentre è da tempo che Roma non paga la sua quota di un Fondo globale contro le malattie proposto proprio dall’Italia al G8 di Genova. Per le tesi leghiste, rispettare questo tipo di impegni è ancora più assurdo, probabilmente, che restare in Afghanistan. Per chi si preoccupa della credibilità internazionale dell’Italia - non in astratto ma come strumento essenziale per difenderne gli interessi – è una cattiva scelta.

Partirei quindi di qui: che l’Italia riesamini le missioni internazionali in cui è impegnata da anni è giusto. Almeno in teoria. Nei fatti, come ha sottolineato il Capo dello Stato, è giusto se l’Italia prenderà le decisioni operative che ne conseguono all’interno delle coalizioni internazionali di cui fa parte. Perché se invece decidesse in modo unilaterale, vanificherebbe gli sforzi degli ultimi due decenni, incluso il sacrificio di giovani vite umane.

Questo ragionamento vale anche per gli altri Paesi europei. Parlando all’Aspen Institute la settimana scorsa, il ministro degli esteri della Polonia, Radek Sikorski, ha spiegato in che modo una capitale super-atlantica come Varsavia intende rivedere nei prossimi mesi, in accordo con Washington e la Nato, i suoi impegni in Afghanistan. Una traiettoria di progressivo disimpegno occidentale è cominciata in Asia centrale. In Kosovo, la missione internazionale sta arrivando – dopo oltre un decennio – alla sua faticosa conclusione. In Libano, il ruolo dell’Italia, che è stato di primo piano nella fase iniziale, può essere un poco ridimensionato. L’Occidente nel suo insieme, a dieci anni dall’11 settembre, vive una fase di parziale ripiegamento. Sia perché esistono, anche per gli Stati Uniti, vincoli economici più rilevanti di prima; sia perché i risultati dell’interventismo democratico sono fino ad oggi deludenti.

Il problema è che tutto ciò non venga scambiato, in Italia, con l’illusione di potersi finalmente disinteressare della sicurezza internazionale. Più di altri Paesi, l’Italia resta vulnerabile ed esposta sul piano geopolitico: un’opzione «Svizzera» (per usare un’immagine stereotipata) non esiste per noi. Non solo: la riduzione della presenza americana in Europa ci obbligherà a fare di più per la stabilità regionale. Comunque vada a finire la strana guerra di Libia. La previsione è semplice: nell’arco dei prossimi due anni, taglieremo i costi dell’Afghanistan ma dovremo aumentarli nel Mediterraneo. Mentre si ripensano le vecchie missioni internazionali, è bene esserne consapevoli.

La concentrazione degli impegni nelle aree vicine all’Europa potrebbe diventare la scelta: una risposta razionale ai vincoli economici. Ma quali ne sarebbero i costi politici? Riducendo i suoi impegni militari globali, l’Italia perderà anche rango? Non è detto. Nel sistema internazionale di oggi, il rango di un Paese non dipende tanto o soltanto dagli impegni militari globali. Usando il linguaggio degli economisti, questi impegni offrono benefici marginali più bassi che in passato. Mentre aumenta il peso della credibilità economica di un Paese, sia interna sia nel gioco globale. Questo dato, naturalmente, costringe i governi occidentali a concentrarsi sulla solidità fiscale: perfino per l’America, il debito pubblico è diventata una questione di sicurezza nazionale. Tanto più lo è per l’Italia: non esiste fattore altrettanto importante per il rango del nostro Paese. Come si è appena visto, tuttavia, neanche l’Italia può permettersi un ripiegamento domestico. Dovrà quindi trovare un nuovo equilibrio fra priorità economiche e sicurezza. Un equilibrio possibile solo attraverso una divisione degli oneri. Ossia, una politica di alleanze.

Anche per questa ragione, l’Italia deve restare un partner credibile: per gli europei e per gli Stati Uniti. Un partner che, insieme agli altri, può anche ridurre impegni internazionali ereditati dal passato; ma non potrà sottrarsi ai nuovi impegni che si profilano, economici e militari. Che l’Italia possa chiudersi in casa è quanto di più lontano ci sia dalla realtà del XXI secolo.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8965&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARTA DASSU'. - Il passo che manca all'Unione
Inserito da: Admin - Luglio 22, 2011, 04:17:41 pm
22/7/2011

Il passo che manca all'Unione

MARTA DASSÙ

Diciamo la verità. Risolvere la crisi greca doveva essere abbastanza semplice: si tratta, dopo tutto, del 3% del Pil dell’area euro. E’ diventato un compito titanico non per ragioni economiche ma per ragioni politiche. La coppia Merkel-Sarkozy (una coppia asimmetrica, in cui è la Cancelliera a contare) continua a far finta di governare l’Europa. Ma la realtà è che, attorno alle sorti di Atene, si sono scontrate due visioni diverse: quella della Germania di Angela Merkel, che per ragioni di politica interna ha bisogno di dimostrare che il contribuente tedesco non pagherà il conto delle cicale mediterranee; e quella di chi vede nella crisi greca lo stimolo necessario per completare l’Unione monetaria imperfetta con un’Unione fiscale. La Francia con qualche esitazione e in modo più netto l’Italia hanno questa seconda posizione.

Da due visioni diverse può nascere un compromesso, più che una soluzione convincente. Se il Consiglio europeo straordinario di ieri avesse considerato la proposta di emettere «Eurobonds», la soluzione convincente ci sarebbe stata. L’emissione congiunta di titoli europei, infatti, significherebbe che tutti i governi dell’area dell’euro diventano garanti del debito di ciascuno - rendendolo, così, sostenibile.

Questo passo deciso verso un’Unione fiscale non è stato compiuto. Il Consiglio europeo ha fatto dei passi a metà: ha in parte coinvolto i privati, come voleva Berlino; ha in parte rafforzato e reso più flessibili le funzioni del nuovo strumento di stabilità finanziaria (Efsf), che potrà acquistare titoli greci (svalutati, si può prevedere) sul mercato secondario. Troppo poco? Per ora, i famosi mercati hanno deciso di crederci. La decisione della Bce di continuare comunque ad accettare titoli greci come collaterali ha agito da calmante. Una ristrutturazione del debito greco è nelle carte: si prevede forse un default selettivo. Ma il doppio spettro della vigilia - il tracollo della Grecia, seguito dal contagio verso Spagna e Italia - è stato allontanato. Basterà?

Quando la crisi economica di un Paese come la Grecia può portare l’euro sull’orlo dell’abisso, è chiaro che la costruzione europea non funziona. E in effetti, come sostenevano dall’inizio le voci critiche, un’unione monetaria priva di coordinamento fiscale e senza una politica di bilancio comune non può funzionare. O meglio: funziona fino a quando non viene messa alla prova. Quando è stata messa alla prova, da un paio d’anni a questa parte, si è scoperto che non esisteva - né alla periferia dell’euro né nel suo cuore tedesco - solidarietà politica sufficiente.

Guardiamo prima alla periferia. E’ vero che George Papandreou ha fatto il possibile, nei mesi scorsi, per mettere in piedi un programma economico credibile. Ma resta che la Grecia aveva truccato i suoi conti per entrare nell’euro; e resta che i suoi cittadini sembrano non avere ancora capito la posta in gioco. Di fatto, fare parte dell’euro significa perdere sovranità sulle decisioni di politica economica in modo molto più rilevante di quanto non si pensasse. Le classi politiche dei Paesi deboli dell’area euro usano il vincolo esterno per attuare (in ritardo) programmi di aggiustamento economico in ogni caso necessari. Ma l’austerità «nel nome dell’Europa» ha bisogno, per essere credibile e accettata all’interno, che l’Ue, come sistema di garanzia collettiva, esista davvero.

Dilemmi diversi - ma sempre relativi al rapporto fra economia e politica dell’euro - valgono per il Paese di centro, la Germania. Da alcuni anni a questa parte i cittadini tedeschi hanno cominciato a vedere nell’Europa un onere piuttosto che un vantaggio. Indicativo un sondaggio pubblicato nel gennaio scorso dall’Allensbach Institute: più del 70% degli intervistati non vede il futuro della Germania in Europa ma lo vede nel mondo. C’è chi dice che i tedeschi siano diventati euro-scettici. Probabilmente, sono diventati post-europei. Questo corrisponde, del resto, a uno spostamento sensibile delle proprie ragioni di scambio verso i Paesi emergenti, Cina e Russia anzitutto. La vecchia Europa conta ancora molto, nell’export tedesco; conta però meno di prima. E conterà ancora meno in futuro. Insomma, ragioni nuove si sommano all’antico problema: una cultura della stabilità molto lontana da quella mediterranea e ostile - per definizione e Costituzione - ai salvataggi. Tutto questo non elimina il noto argomento: la Germania, a cominciare dalle sue banche, avrebbe parecchio da perdere dall’affondamento dell’euro. Si può aggiungere un secondo argomento, in forma di domanda: la Germania avrebbe esportato così tanto nel mondo se invece di un euro debole avesse avuto in mano un marco forte? La risposta è no, chiaramente. Ma è una risposta che Angela Merkel sembra far fatica a spiegare. Esposta alla prima crisi dell’euro, la leadership tedesca stenta a dimostrarsi una leadership. Eppure la Germania sarebbe nelle condizioni di tentare un new deal per l’Europa: una maggiore solidarietà da parte del Paese più forte in cambio di una maggiore serietà da parte di quelli più deboli. Una Germania ancora europea in un’Europa più tedesca. Berlino non può pretendere di ottenere la seconda parte dell’equazione senza essere credibile sulla prima. Il messaggio della Bce, depurato dalle tecnicalità, è stato questo nelle ultime settimane.

Risolvere la crisi greca non è affatto una missione impossibile; se solo esistesse la volontà politica. O la capacità politica, merce rara nell’Europa di oggi, di affrontare il cuore del problema: l’Unione monetaria si spaccherà senza un coordinamento fiscale. Il Consiglio europeo di ieri ha fatto un mezzo passo. Ci vorrà un passo più deciso. Quando perfino il cancelliere dello Scacchiere inglese George Osborne consiglia ai governi dell’euro di andare verso un’unione più stretta, vuol dire che il rimedio è evidente. Anche ai Paesi che ne resteranno al di fuori, come appunto la Gran Bretagna. Che oggi guarda senza imbarazzi a un’Europa a due velocità. E che ormai teme una cosa sola: non il successo ma il fallimento di una moneta che non avrebbe mai voluto.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9007


Titolo: MARTA DASSU'. - Il virus europeo che paralizza gli Stati Uniti
Inserito da: Admin - Luglio 29, 2011, 05:57:40 pm
29/7/2011 - LE IDEE

Il virus europeo che paralizza gli Stati Uniti

MARTA DASSÙ

Entro il 2 agosto o pochi giorni dopo, il tira e molla fra democratici e repubblicani sull’aumento del tetto al bilancio si chiuderà con un accordo. Un accordo modesto e temporaneo. Ma comunque un accordo. So che sto sposando la Teoria del Compromesso Inevitabile. Lo faccio perché ci credo: è inevitabile che la maggioranza repubblicana alla Camera, per quanto strattonata dall’oltranzismo dei Tea Party, decida che ha ottenuto abbastanza e che non può permettersi, in odio a Barack Obama, di affondare anche il governo federale.

Resta il dato di fatto. La battaglia che si è scatenata sul bilancio dimostra che il sistema politico americano sta quasi arrivando al limite. Il limite oltre a cui la polarizzazione ideologica impedirà di prendere decisioni razionali sul modo di risolvere la crisi fiscale. E l’America, per restare una grande potenza, non potrà funzionare ancora a lungo come una potenza a debito. La storia del declino dell’Impero Britannico lo dimostra.

Noi europei abbiamo ben poche lezioni da dare su questo argomento. La lentezza decisionale del sistema Europa è stata tale, negli ultimi due anni, da avere permesso a una crisi periferica, come quella greca, di diventare una crisi sistemica. Finché l’Ue resterà uno «strano animale» - né una Federazione né una Confederazione - farà fatica a funzionare. Sul versante americano, le difficoltà di bilancio di singoli Stati, dalla California al Minnesota, contano meno. Forse meno di quanto dovrebbero, considerato che la California non è la Grecia, è una delle grandi economie mondiali (all’incirca all’undicesimo posto per il Pil). Ma è Washington ad essere più divisa di prima, per ragioni in parte strumentali e in parte reali.

Il risultato, su entrambe le sponde dell’Atlantico, è abbastanza simile: mentre diminuisce la fiducia nell’economia diminuisce anche la fiducia nella politica. Timothy Garton Ash ha parlato, da storico, di crisi strutturale del «capitalismo democratico liberale». Barack Obama ha detto, in uno di quei suoi discorsi troppo professorali per piacere davvero alla gente, che la Costituzione americana prevede un governo «diviso», non un governo «disfunctional»: che non funziona. Ad essere onesti, il Presidente democratico ha dato il suo contributo all’impasse sul bilancio; se non altro perché non ha messo per tempo sul tavolo un piano dettagliato e credibile di riduzione delle spese. Da parte loro, i repubblicani sanno benissimo che sarebbero necessari dei passi anche sul lato delle tasse. Ma li hanno resi impossibili. L’America ha perso così l’occasione di tentare una vera riforma del bilancio. Una riforma - dice chiunque guardi in modo spassionato alla situazione degli Stati Uniti che è indispensabile.

Sottolineando la polarizzazione senza precedenti nel Congresso americano, si rischia di esagerare. C’è sempre qualcuno pronto a ricordare che è stato così varie volte, nel 1969 con Richard Nixon per esempio e in modo continuativo dal primo mandato di Bill Clinton, nei primi Anni 90. Gli americani si lamentano volentieri del loro sistema di governo, esattamente come noi europei. Il problema è che oggi hanno probabilmente ragione. Perché, come spiega uno dei più brillanti politologi americani, Norman Ornstein, è quasi scomparso quello spazio di centro che permetteva decisioni nazionali (bipartisan) e razionali: nell’interesse comune, più che nell’interesse di parte. Il Congresso, dalla elezione di Barack Obama in poi, è teatro di una specie di campagna elettorale permanente. Ed entrambi gli schieramenti politici si comportano come «partiti parlamentari», divisi in blocchi ideologici contrapposti. Insomma come partiti europei. Quando invece l’impianto del sistema americano non è parlamentare ma è basato sulla separazione dei poteri e sulla logica dei checks and balances, dei pesi e dei contrappesi. Conclusione: partiti parlamentari, in un sistema non parlamentare, non possono funzionare. Il risultato è la paralisi. Da questo punto di vista, il tira e molla sul bilancio è solo una spia del problema più generale: dall’insediamento della nuova maggioranza repubblicana alla Camera, leggi più o meno importanti (tre accordi commerciali, la nuova legge sull’energia) sono rimaste congelate; nomine decisive non riescono ad essere confermate; e non è chiaro se sopravviveranno le riforme varate a fatica da Barack Obama nei primi due anni del suo mandato, con un Congresso ancora a maggioranza democratica.

Sembrerebbe che mentre i virus della crisi finanziaria migravano dall’America verso l’Europa, nel 2008, quelli del parlamentarismo malandato migravano in direzione opposta. Il dibattito politico americano sembra più familiare di quanto sia mai stato, a orecchie europee ed italiane; incluse le voci favorevoli ad un terzo partito, capace di occupare un mitico centro cui, dopotutto, continua a guardare una parte dell’elettorato degli Stati Uniti.

Abbiamo speso troppo (il debito) e non riusciamo a decidere granché (la polarizzazione politica). Se la vicinanza fra le due sponde dell’Atlantico è diventata questa, c’è poco da rallegrarsi. Il presente/futuro ci riserva un Paese, la Cina, che ha molte altre fragilità e svantaggi comparativi. Ma che ha risparmiato molto e riesce ancora a prendere decisioni strategiche. Come si è visto, il debito è una questione politica, non solo economica. Europa e Stati Uniti dovrebbero forse ripartire di qui: abbiamo bisogno di avere alle spalle sistemi politici che funzionano - il che significa: capaci di decidere nell’interesse comune - per salvare le sorti delle democrazie occidentali.



Titolo: MARTA DASSU'. Nye: Lo spostamento del potere verso l’Asia non c’è ancora stato
Inserito da: Admin - Agosto 08, 2011, 11:29:40 am
Economia

08/08/2011 - COLLOQUIO

"Gli Usa ancora dominanti ma pagano la paralisi politica"

Joseph Nye, politologo di Harvard, è stato vicesegretario alla Difesa con Clinton.

Studia le forme di potere esercitato con mezzi diversi dalla forza.

Il politologo Nye: "Lo spostamento del potere verso l’Asia non c’è ancora stato.

S&P non è fonte di tutte le verità, dopo il 2012 serve un vero piano di risanamento"

MARTA DASSÙ
ASPEN (COLORADO)

La bocciatura di Standard&Poor’s risuona come una frustrata di vento nei vialetti alberati del campus di Aspen, in Colorado. L’aria è tesa, al Board internazionale. La paura del contagio continua a migrare da una sponda all’altra dell’Atlantico. Fuori dalla grande vetrata, nubi veloci attraversano le Montagne Rocciose. Il meteo, sullo schermo degli iPad dei partecipanti, dà tempo bello. Ma l’opinione degli economisti e banchieri è che le nuvole, questa volta, non passeranno così in fretta. Forse, ci sarà un temporale.
L’accordo in extremis sul debito non ha convinto nessuno. E la diagnosi è di tipo europeo: la perdita della tripla A, nella patria del dollaro, non è solo una questione di debito. Quella che è crollata è la fiducia degli investitori nel sistema politico americano. Per ragioni politiche, non solo economiche, l’America sta perdendo credibilità. Quanta e con quale velocità?

I voti delle agenzie
Joseph Nye, vicesegretario alla Difesa nell’amministrazione Clinton e professore a Harvard, ha appena finito di scrivere un libro sul futuro del potere. È la persona ideale con cui discutere di questo: la perdita della Tripla A è un simbolo del declino della potenza americana? «Intanto mettiamo le cose nel loro giusto contesto» mi risponde Joe Nye. «Standard&Poor’s è una delle tre agenzie di rating; non è la fonte di tutte le verità. Il suo giudizio potrebbe anche essere relativizzato. Se non fosse che c’è alle spalle una questione molto più rilevante: la paralisi del sistema politico americano, la polarizzazione estrema, che impedisce di prendere decisioni a lungo termine, e razionali, sulla politica fiscale. La farsa al Congresso sul tetto al debito ha danneggiato la reputazione americana. E la reputazione è una componente essenziale del potere internazionale. Possiamo ringraziare i Tea Party. Insomma: il rischio vero, anche per i mercati, è la perdita di fiducia nella politica. Perché se invece guardiamo ai fondamentali dell’economia, l’America resta molto più solida di quanto la gente non pensi».

Il futuro del potere
Nel mio ultimo libro, “The Future of Power”, spiego perché il famoso spostamento verso l’Asia del potere internazionale non ha ancora sottratto agli Stati Uniti la loro posizione centrale e dominante. Se guardiamo a indicatori essenziali - come le capacità tecnologiche o imprenditoriali - l’America è ancora avanti. Certo, dieci anni di guerre costose e non vittoriose, combinazione pessima, hanno leso la nostra posizione fiscale. Ma con un sistema politico in grado di decidere, non avremmo vere difficoltà a rientrare dal debito. Lo abbiamo fatto in passato. L’America eviterà il declino se dopo le elezioni del 2012 adotterà un piano fiscale convincente».
Mi chiedo, ascoltando Nye, se l’America abbia quel tempo davanti a sé. La reazione della Cina al downgrading di Standard&Poor’s sembrerebbe indicare che il principale creditore degli Stati Uniti non ha particolare pazienza. «La reazione della Cina è stata durissima ma prevedibile» osserva Nye. «È ovvio che i cinesi intendano proteggere la quantità di risorse che hanno investito nei titoli del Tesoro americani. E vogliono anche prendersi una rivincita morale: per anni, siamo stati noi a impartire lezioni a Pechino. Ma la realtà è che la Cina non ha vere alternative. Non è chiaro se l’euro reggerà. E la Cina deve comunque investire gran parte dei 3000 miliardi di dollari e più che detiene in riserve. L’unica vera alternativa, per sottrarsi al dilemma del dollaro, sarebbe di rendere convertibile la moneta cinese, il renminbi. Ma la Cina non è ancora pronta a farlo, come sappiamo. E quindi il nostro problema diventa anche il loro».

La strategia della sicurezza
Mentre Aspen celebra i suoi riti estivi - nella grande Tenda Bianca si festeggia la carriera di un vecchio e commosso Brent Scowcroft, abbracciato da Condoleezza Rice chiedo a Joe Nye fino a che punto la «potenza a debito», tagliando risorse e impegni internazionali, potrà restare una superpotenza. «Abbiamo deciso dei tagli importanti al bilancio del Pentagono. Ma se l’America adotterà una strategia di sicurezza più coerente, io la definisco una strategia alla Eisenhower, non avrà problemi. Per esempio, rientra nei nostri interessi continuare ad avere una presenza avanzata in Asia orientale, e siamo in grado di permettercelo. Quando si parla di ripiegamento dell’America conviene essere chiari. Il ripiegamento è rispetto alle guerre di Bush, il post-11 settembre. Non è rispetto agli impegni globali che gli Stati Uniti comunque manterranno».

Quali impegni manterranno in Europa, chiedo a Nye? La guerra di Libia è la perdita della Tripla A per la Nato? «La guerra di Libia è un serissimo campanello di allarme. Gli europei devono darsi le capacità militari per intervenire nel loro vicinato. L’ex segretario alla Difesa Bob Gates l’ha detto in modo troppo rude ma nella sostanza aveva ragione. Se gli europei non riusciranno a fare di più, la Nato perderà senso, per l’America. Sul terreno, il rischio è una spartizione della Libia, o una guerra civile prolungata». Vista da un’America in difficoltà, l’Europa delude (sulla difesa) e preoccupa (sulla gestione della crisi dell’euro): la patologia del debito non funziona certo da collante. Anche se c’è chi prevede, ai tavoli di Aspen, che America ed Europa tenteranno insieme di ridurre l’influenza delle agenzie di credito. E punteranno sul G7 (le prime consultazioni sono state ieri notte), dopo averlo buttato via troppo in fretta a favore del G20. Nye è convinto, fra l’altro, che di fronte all’ascesa della Cina l’Occidente abbia ancora le sue carte da giocare. «La Cina ha molte più debolezze di quante ne abbiamo noi. Potrà anche prendere delle decisioni con più facilità. Ma non ha risolto il problema della partecipazione politica, non sa come gestire il dissenso ed è destinata a crescenti tensioni sociali».

L’attrattiva del sistema
«Tutti i sondaggi di opinione sull’Asia, indicano che l’America ha più “soft power”, più capacità di attrazione della Cina. Il capitalismocomunista cinese esce da una fase di straordinari successi, ma ha di fronte a sé enormi problemi da risolvere. È un futuro su cui si addensano forti nuvole. Noi siamo nel mezzo di una tempesta, ma abbiamo grandi capacità di ripresa. Tornerà il sole».
La meteorologia della politica internazionale è uno degli effetti di Aspen, a quanto pare. Il clima, nell’estate del Colorado, appare meno fosco che a Washington. Ma continua a cambiare. Con la decisione simbolica di Standard&Poor’s, una stagione è probabilmente finita. Quale sarà il futuro del dollaro? Joe Nye, il teorico del potere dell’America, appare più ottimista di quanto siano i mercati.

da - http://www3.lastampa.it/economia/sezioni/articolo/lstp/414936/


Titolo: MARTA DASSU'. - Euro e Libia, le due guerre d'Europa
Inserito da: Admin - Agosto 22, 2011, 04:18:33 pm
22/8/2011

Euro e Libia, le due guerre d'Europa

MARTA DASSU'

Non è chiaro quali saranno i costi, in vite umane, dell’ultimo atto: la presa di Tripoli. La battaglia finale nella notte, aperta dai ribelli venuti da Ovest, è comunque una battaglia cruenta, se Gheddafi sceglierà di combatterla fino in fondo, nonostante abbandoni e defezioni dei suoi. Ma è infine giunto il momento della verità, per il dittatore di Libia e per il suo regime. Dopo mesi di una guerra dimenticata nel cortile di casa dell’Europa, la sconfitta di Gheddafi salverà la faccia alla Nato. In teoria. Nei fatti, non sarà semplice da gestire. Se la Libia verrà lasciata a se stessa, da un’Europa alle prese con la propria crisi finanziaria, vittoria e fallimento potrebbero saldarsi. In un «successo catastrofico», secondo l’espressione pessimistica e cinica che sta circolando a Bruxelles.

I precedenti - dai Balcani all’Afghanistan - indicano costi e rischi dei dopo-guerra. Nel caso della Libia, il primo rischio è che la caduta di Gheddafi prepari un nuovo ciclo di violenze, lasciando esposti i civili e risucchiando il vasto fronte dei «vincitori» in un pesante regolamento di conti (passati e presenti). Come verrà garantita la sicurezza? È già chiaro che l’America intende sfilarsi dal gioco, dopo avere partecipato controvoglia alle operazioni militari. Obama non intende fornire né uomini (né aiuti economici rilevanti, probabilmente) alla gestione di un problema che considera parte delle responsabilità europee. L’Europa, che con Parigi e Londra ha trainato l’intervento militare - ma esponendo così tutti i limiti delle proprie capacità - passerà a sua volta la mano. L’intenzione è di avallare le ipotesi, in discussione all’Onu, di una missione di monitoraggio iniziale affidata a contingenti arabi ed africani. Risultato: nel dopo-Gheddafi, il ruolo di Paesi come la Turchia e le monarchie del Golfo aumenterà. Sul piano formale, le responsabilità di sicurezza saranno dei libici stessi. Con esiti incerti, naturalmente. Anche per gli interessi europei.

Sul piano politico, il rischio è ancora più evidente. Italia, Europa e Stati Uniti hanno scommesso su una ipotesi precisa: che il Consiglio di Transizione Nazionale creato a Bengasi riesca a garantire un processo di riconciliazione, tenendo sotto controllo le rivalità tribali e avviando la costruzione di istituzioni nazionali in un Paese che ne è privo da sempre. Questa scommessa, già difficile, è complicata dal ruolo decisivo assunto dai ribelli occidentali, dai berberi di Nafusa, nella offensiva militare su Tripoli. Quanta della Libia anti-Gheddafi sarà disposta a riconoscere la leadership di Bengasi? Gli europei non avranno più la stessa influenza una volta che i ribelli saranno al potere. Il momento di trattare le condizioni per il dopo-Gheddafi è oggi (era ieri), prima del «catastrofico successo» di cui si dice a Bruxelles.

Gli accordi economici possono servire da leva. È scontato e legittimo che i Paesi europei, Italia inclusa, puntino a garantire i propri interessi energetici. D’altra parte, sarebbe assurdo che l’Europa, dopo essersi divisa sulla guerra a Tripoli, si dividesse anche sulla gestione del dopo-guerra: lo scongelamento degli assets libici in Europa deve essere utilizzato per ottenere garanzie sul futuro della Libia.

Negli ultimi mesi, l’Europa ha combattuto due guerre. Una guerra interna con altri mezzi sul destino dell’euro; una guerra esterna tradizionale, sui destini di un Paese chiave del fronte Mediterraneo. Le tensioni interne sulla gestione dell’economia non hanno certo favorito le performance europee in politica estera. La posizione del paese centrale, la Germania, è quanto mai indicativa: economicista, si potrebbe in fondo dire così, sia in casa che nel vicino estero, come ha indicato la posizione distaccata di Berlino sulla guerra in Libia. La realtà, tuttavia, è che l’Europa vincerà o perderà queste due guerre insieme. Se l’Euro-zona si spaccasse su una linea Nord-Sud, la frattura economica e monetaria dell’Ue diventerebbe parte dell’instabilità geopolitica del Mediterraneo. Uno scenario catastrofico per un paese come l’Italia ma che non si fermerebbe certo ai confini dell’Europa renana. Per chiunque ragioni sugli interessi a lungo termine del Vecchio Continente, fermare il crollo della Borsa e gestire il crollo del regime di Gheddafi sono solo apparentemente compiti contrastanti e lontani. La sicurezza degli europei dipende da entrambi. E dipende da noi: con la fine della guerra di Libia, l’era della tutela americana è giunta al suo termine.

DA - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9112


Titolo: MARTA DASSU'. - Se Parigi vince Roma non perde
Inserito da: Admin - Agosto 31, 2011, 12:19:17 pm
31/8/2011

Se Parigi vince Roma non perde

MARTA DASSÙ

La lettura che prevale è questa: con la caduta di Gheddafi - poi si vedrà che fine farà il dittatore - l'Italia ha perso il suo rapporto privilegiato con Tripoli.

E’ vero che Roma, dopo alcune esitazioni iniziali, si è ricollocata dalla parte di Bengasi, ha dato le sue basi alle operazioni Nato, vi ha partecipato direttamente e così via. Ma la strana guerra di Libia è stata voluta essenzialmente da Parigi e in seconda battuta da Londra. Nicolas Sarkozy cercherà quindi di raccogliere i frutti del suo impegno, guidando la ricostruzione economica. La presenza dell'Italia in Libia ne uscirà fatalmente ridimensionata.

C’è un dato vero, di cui tenere conto. I capi della Cirenaica - i famosi «ribelli» dell'Est - non hanno mai amato particolarmente l'Italia. La storia è ben nota. Ma è sempre utile ricordare che l'area attorno a Bengasi faceva parte dell'Impero Ottomano, fino a quando l'Italia non estromise la Turchia dalla Libia e decise, quale potenza coloniale (1911), di unificare Cirenaica e Tripolitania. Da Bengasi, il futuro re Idris istigò la resistenza contro gli italiani durante la Seconda Guerra mondiale. C'è in proposito una nota interessante nei documenti diplomatici britannici. Nel gennaio del 1942, Anthony Eden, allora Foreign Secretary di Sua Maestà, promise a Idris che «alla fine della guerra i Senussi di Cirenaica non sarebbero in nessuna circostanza ricaduti sotto il dominio italiano». Ecco: per quanto l'Italia abbia riconosciuto e aiutato, nei mesi scorsi, il Consiglio di Bengasi, c'è una storia che pesa. E di cui Roma deve tenere conto, quando si propone ai vertici del Consiglio Nazionale di Transizione - che ha dentro di tutto un po': ex collaboratori di Gheddafi, capi di tribù rivali, islamisti - come un interlocutore preferenziale.

Quindi sì, l'Italia aveva molto da perdere dalla strana guerra di Libia. E tuttavia, particolare che sembra sfuggire, non ha perso. La visita di Paolo Scaroni a Bengasi conferma che l'Eni è in grado di salvaguardare i propri accordi energetici. Se la Libia non resterà unita, se non si stabilizzerà, avremo perso tutti, incluse Parigi e Londra. Gli europei, dopo essersi divisi sulla guerra - e la guerra dura ancora, fra resistenze a Sirte, combattimenti a Tripoli, aumento del numero delle vittime -, hanno interesse a promuovere insieme un accordo fra i successori di Gheddafi, evitando gli errori compiuti dagli Usa in Iraq dopo il 2003. So che questa idea che gli europei siano in realtà nella stessa barca sembra retorica pura. Ma è esattamente così. Non esiste una sola possibilità al mondo che in uno scenario negativo - una Grande Somalia al posto della Libia di Gheddafi, un nuovo «failed State» al di là del Mediterraneo - Parigi possa avere grandi benefici a scapito di Roma. Ugualmente, in uno scenario positivo - una transizione che riesca verso una Libia pacificata l'Italia avrà lo spazio per tutelare i propri interessi.

L'idea che l'Italia abbia già perso la guerra (non conclusa) di Libia sembra una delle tante variazioni sul tema «si stava meglio quando si stava peggio». Era più semplice avere a che fare con l'ex terrorista di Lockerbie, con le sue tende e le sue Amazzoni, le sue riparazioni di guerra, ecc. ecc., che non con il gruppo disparato dei successori. Forse, ma ricordiamo almeno i ricatti continui di Gheddafi in materia di emigrazione. E non dimentichiamo il punto di partenza: comunque vadano a finire le scosse arabe del 2011, lo status quo nel Nord Africa era giunto al suo esaurimento. Il che non garantisce niente sul futuro; ma ha reso insostenibile il passato, inclusa la lunga dittatura del colonnello di Tripoli.

Punto indubbio, invece, è che nei rapporti con la Libia post Gheddafi aumenterà il peso di altri interlocutori, anzitutto della regione: dalla Turchia, che riannoda i suoi fili storici con Bengasi, al Qatar, che ha dato un appoggio militare importante alla rivolta e sarà al centro di una possibile forza di stabilizzazione araba e africana. Dal punto di vista internazionale, i perdenti di oggi sono altri. Per esempio, una Russia che tenta ancora di mediare un accordo con l'ex Rais, mentre parte della sua famiglia è già in Algeria. E probabilmente la Cina, che ha toccato per la prima volta con mano i limiti della sua politica africana. Il ritiro dalla Libia di 36.000 lavoratori cinesi, nel marzo scorso, è stato la prima vera battuta d'arresto dell'espansione cinese in Africa. La caduta del regime di Tripoli è stata anche una sconfitta del «modello autoritario» proposto in questi anni da Pechino ai vari dittatori africani.

L'Europa, agli ultimi atti della guerra di Libia, ha un altro modello da proporre? La sfida del dopo Gheddafi - per un' Europa che ha assistito in posizione marginale ai moti di Tunisia e al «coup» militare in Egitto - sarà essenzialmente questa: l'occasione di un rientro europeo in Nord Africa dopo alcuni decenni di perdita di influenza. Quali che siano state le motivazioni della guerra voluta da Sarkozy (ma combattuta con l'appoggio americano, le forze speciali inglesi, i comandi Nato e le basi italiane), il futuro della Libia va visto a questo punto dalle capitali europee come parte della competizione globale del XXI Secolo. Non come una riedizione di vecchie rivalità coloniali.

Le illusioni di un condominio francobritannico sono già fallite in passato, nel Mediterraneo. Falliranno una seconda volta se gli europei, in Libia, si contenderanno una «torta» - termine pessimo che i libici stessi devono imparare a governare con altri mezzi. L'interesse comune degli europei, e delle genti di Libia, è di non dover rimpiangere Gheddafi. Dopo di che gli affari verranno, per chi sarà in grado di farli. Questa è l'unica competizione ammissibile fra le democrazie del Vecchio Continente.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9145


Titolo: MARTA DASSU'. - Palestina, il momento non è ancora venuto
Inserito da: Admin - Settembre 24, 2011, 11:49:30 am
24/9/2011

Palestina, il momento non è ancora venuto

MARTA DASSÙ

È venuto il momento»: nel suo discorso di ieri alle Nazioni Unite, fra applausi scroscianti, il Presidente dell’Autorità palestinese, Mahmoud Abbas, ha motivato la richiesta per l’ammissione all’Onu di uno Stato indipendente e sovrano, all’interno dei confini del 1967. È venuto il momento, ha ripetuto varie volte un vecchio leader, deciso a scrollarsi di dosso l’eredità di Yasser Arafat. È venuto il momento, anche se Barack Obama ha già annunciato che Washington metterebbe il suo veto in Consiglio di sicurezza. È venuto il momento, anche se il premier israeliano, Benyamin Netanyahu, ha ribadito a una gelida platea di New York - ma dove Israele può ancora contare su una «minoranza morale» - che l’unica soluzione possibile resta la pace, prima dello Stato. Ecco, il problema è che il momento non è ancora venuto. La richiesta di Mahmoud Abbas, è giusto saperlo, è soprattutto simbolica. Perché ci vorrà del tempo per andare ai voti. E l’esito è scontato in anticipo: senza un accordo negoziato con Israele, uno Stato palestinese sovrano non nascerà. Solo il Consiglio di sicurezza, infatti, può ammettere un nuovo Stato a pieno titolo; e non accadrà, in assenza di un accordo con Israele. Il massimo a cui Abbas può aspirare è il riconoscimento della Palestina, da parte dell’Assemblea generale, come Stato osservatore permanente senza diritto di voto. È la soluzione «vaticana» per lo Stato palestinese: secondo parte degli europei, a cominciare da Nicolas Sarkozy - il Presidente francese più filo-israeliano dal 1967 in poi ma anche il Presidente deciso a tentare il grande rilancio della Francia nelle terre d’Arabia - è la soluzione su cui puntare, insieme alla ripresa di un negoziato bilaterale in tempi certi e stretti. Il Quartetto (Stati Uniti, Ue, Un, Russia) ha proposto negoziati entro un mese, da New York. E si continua a discutere in che modo una Risoluzione «vaticana» potrebbe tranquillizzare Israele su uno dei punti principali: che la Palestina rinunci a usare la Corte criminale internazionale per perseguire le politiche dello Stato ebraico.

Gli scenari reali - fra discorsi, diplomazia e simboli - sono questi. Per Abbas è decisivo presentarli come una vittoria, almeno parziale; se perdesse, il vincitore sarebbe Hamas e l’Autorità palestinese si troverebbe con un’intifada in casa, prima che contro Israele. È un punto di cui Netanyahu deve essere consapevole. Per il premier israeliano, d’altra parte, il discorso di Barack Obama all’Assemblea di New York - con l’opposizione esplicita del Presidente americano, ormai in campagna elettorale, a uno Stato palestinese dichiarato per mezzo di Risoluzioni dell’Onu, invece che di negoziati con Gerusalemme - è già un mezzo successo. Israele, dopo avere perso l’alleanza privilegiata con Ankara e il pilastro dell’Egitto di Mubarak, ritrova almeno l’America. O quello che ne rimane sulla scena medio-orientale. Il principio sollevato da Abbas a New York non è controverso. È semplice e noto: come prevedono le Risoluzioni dell’Onu, dal 1947 in poi, i palestinesi hanno diritto al loro Stato, esattamente come gli israeliani. Gli Stati Uniti (da Clinton a Bush figlio a Barack Obama), l’Unione europea (al di là delle sue divisioni fra governi filo-israeliani e governi filo-arabi), l’élite politica israeliana (Netanyahu incluso, nonostante gli errori compiuti e gli insediamenti accumulati) sono d’accordo su questo, sono d’accordo che la soluzione al conflitto israelo-palestinese è fondata su due Stati. In discussione non è il principio, quindi. In discussione è se l’iniziativa diplomatica del Presidente palestinese, specchio delle frustrazioni della sua gente e del timore dell’Anp di perdere legittimità all’interno, aumenti o riduca le possibilità di un accordo con Israele che, con l’ultimo governo, ha fatto di tutto meno che negoziare sul serio.

Può insomma funzionare una «terza via alla Palestina» - per usare la definizione del Foreign Affairs? Dopo la fase della lotta armata e quella del negoziato senza fine promosso da Washington, il tentativo palestinese è di fare leva sui risultati ottenuti da Salam Fayyad (il premier tecnocratico, che per quattro anni ha puntato a costruire le condizioni economiche e le istituzioni del futuro Stato) e sulla legittimità del passaggio alle Nazioni Unite. Riuscirà? Il rischio vero è che, dopo New York, i negoziati per la riconciliazione con Hamas e le future elezioni premino paradossalmente il partito - Hamas, appunto - che ancora respinge la soluzione dei due Stati. E che è pronto a descrivere il passaggio all’Onu di Abbas come una sconfitta, più che una vittoria. Il che ci riporta al problema principale, scontato ma quasi dimenticato nei commenti di questi giorni. L’Anp sta chiedendo a New York il riconoscimento della propria sovranità su un territorio che non è in grado di controllare del tutto. Finché Hamas resterà al comando a Gaza, uno Stato palestinese unitario non sarà credibile. Anche per questo, non è così ovvio che l’iniziativa diplomatica palestinese, combinata alla pressione internazionale, riesca a far funzionare un negoziato con Israele. Al di là delle responsabilità negative del governo Netanyahu, la realtà è che lo Stato ebraico è in una situazione strategica difficilissima. Per la prima volta da decenni, il pericolo di un progressivo isolamento non è immaginato ma è reale. Una situazione che, si dice con troppa facilità dall’esterno, dovrebbe spingere gli israeliani a capire che la nascita di uno Stato palestinese è nei loro migliori interessi. Sì, ma se sarà uno Stato unitario e deciso a vivere in pace con lo Stato ebraico. Il timore di Israele è che la richiesta palestinese alle Nazioni Unite generi invece nuove violenze anche nella West Bank; in un contesto, quello dei rivolgimenti arabi, molto più delicato di prima. Difficile fare previsioni, quindi. Ma la sensazione è netta: l’alternativa a una soluzione negoziata non sarà la nascita per via unilaterale di uno Stato palestinese, poi sanzionata sul piano internazionale; sarà un nuovo conflitto, con ramificazioni regionali più rischiose che in passato.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9237


Titolo: MARTA DASSU'. - L'Europa che non vuole entrare nell'euro
Inserito da: Admin - Ottobre 08, 2011, 06:02:01 pm
8/10/2011

L'Europa che non vuole entrare nell'euro

MARTA DASSÙ

Praga è più bella ancora di quanto la ricordi, prima e dopo. E di quanto la rilegga, una volta di più, nelle pagine rosa di Angelo Maria Ripellino. In questo inizio d’ottobre, non sa di nebbia e di malinconia; il cielo su Malá Strana è azzurro, quasi romano. L’aria è secca, mentre camminiamo verso il Museo di Kampa, nel piccolo lembo oltre la Moldova. L’incontro è lì, in quelle sale dove l’ex segretario di Stato americano, Madeleine Albright, ritrova il suo nome da ragazza: Maria Korbel. Riannodando così il filo di una storia, anche sua. La prima donna ad avere guidato il Dipartimento di Stato, figlia di un diplomatico cecoslovacco rifugiatosi negli Stati Uniti, è a Kampa, con noi europei, per gettare le basi di un futuro Aspen Institute Prague.

Tenere insieme Praga e Washington, Boemia e Colorado, non è impresa difficile. Per la Repubblica Ceca, l’America è ancora la grande alleata nella battaglia per la libertà dal sistema sovietico. L’America, vista da Praga, non è controversa. L’Europa lo era e lo è. La gravità della crisi dell’euro ha rafforzato le tesi scettiche alla Vaclav Klaus. Il presidente della Repubblica Ceca, scrivendo sul Wall Street Journal pochi mesi fa, ha interpretato il rischio default della Grecia come una conferma plateale delle proprie idee di sempre: la moneta unica - ha ribadito Klaus l’euro-scettico - è un «progetto pericoloso» perché genera (al meglio) tensioni insostenibili e finisce (al peggio) per azzerare la sovranità democratica dei paesi membri. Atene può uscire o subire, fallendo comunque.

Il mio vicino di tavolo al Museo di Kampa, un diplomatico di carriera, dice che Klaus esagera un po’ ma non tanto. L’opinione pubblica, dopo gli sforzi compiuti per l’ingresso nell’Ue, nel 2004, è già molto delusa. La Repubblica Ceca ha tirato il freno, o di più, sull’adesione all’euro. In un suo recente documento, la Banca centrale ha messo nero su bianco che l’adozione dell’euro non dipenderà solo dalle riforme a casa; ma anche e soprattutto da «come l’area dell’euro affronterà le sfide che la riguardano e che ne mettono in discussione il funzionamento». Cosa ragionevole, mi pare; ma che, rispetto alla lettera dei Trattati europei, introduce una condizione non prevista, dal momento che per nulla previsto era stato lo scenario - la crisi, rapida e traumatica, della moneta unica. Con i suoi costi: l’esperienza dei fratelli separati slovacchi (nell’euro ma euro-scettici) si fa sentire.

Mentre cominciano i brindisi, una giovane economista attira la mia attenzione sul fatto che il governo ceco ha ormai deciso di rinunciare a fissare obiettivi temporali per un eventuale ingresso nell’euro. Prima si parlava del 2010, poi si è parlato del 2014; oggi non se ne parla proprio più, sottolinea con un fare fra il rassegnato e il divertito. Perché la realtà, chiude salutandomi, è che tenerci la Corona conviene: ci aiuta un po’ nelle esportazioni; e la nostra economia, per rallentata che sia, continua a vivere di questo.

Lo stesso sta accadendo in Polonia. Presidente di turno dell’Unione europea, Varsavia aveva inizialmente pensato di puntare le proprie carte su un’adesione all’euro attorno alla metà di questo decennio. Ancora a luglio di quest’anno, il primo ministro Donald Tusk aveva chiesto che la Polonia fosse ammessa ai vertici dell’Eurogruppo pur non essendo membro dell’euro. Il collasso della Grecia e i rischi di contagio hanno spazzato via istanze del genere: secondo Jan Vincent-Rostowski, ministro delle Finanze con studi e inclinazioni anglosassoni, l’adesione della Polonia alla moneta unica non va più data per scontata. Per ragioni economiche ovvie, rafforzate da ragioni politiche: per potere aderire all’euro, la Polonia dovrebbe modificare la Costituzione. Ma è un passaggio difficile da affrontare, quale che sia la maggioranza che uscirà dalle urne dopo le elezioni di domani. Nel frattempo, l’opinione interna si è raffreddata: meno di un terzo dell’elettorato, oggi, si dichiara disposto ad abbandonare lo zloty.

E’ rinata così, fra la Moldova e il Mar Baltico, una seconda Europa: nel senso che questa parte dell’Ue sta tornando a pensarsi come tale, come un pezzo a sé stante del Vecchio Continente, con un piede dentro e un piede fuori dall’euro. L’effetto centripeto messo in moto dall’allargamento è stato arrestato, spezzato, dall’implosione greca. E’ una seconda Europa che guarda ancora verso l’America di Maria Korbel, appunto; che crede (diffidandone) che la Germania sia tedesca, prima che europea; e che sta cercando di crearsi, per ragioni geopolitiche ed economiche, una propria area di influenza nella Mitteleuropa e verso Est, verso l’Ucraina e i suoi vicini. E’ il progetto della Polonia, in particolare, frustrata dagli scarsi risultati del «triangolo di Weimar» (il tavolo fra Varsavia, Berlino, Parigi) e preoccupata che il rapporto Germania-Russia tolga spazio alle proprie ambizioni.

A differenza di Londra, Praga e Varsavia mantengono però una buona dose di ambiguità sulla prospettiva di un’Europa «a più velocità». David Cameron può ormai invocare l’unione fiscale fra i Paesi dell’euro - come unica soluzione credibile a una crisi dannosa e rischiosa per tutte le economie occidentali - proprio perché nella sua concezione la Gran Bretagna resterà in ogni caso al di fuori di un «nucleo duro» quasi federale: l’Europa a più velocità, dal punto di vista dei conservatori inglesi, è un buon compromesso (non lo era per Tony Blair, che ancora puntava a condizionare da Londra l’Unione Europea nel suo insieme). Per Praga e Varsavia, accettare la nuova equazione britannica è assai meno semplice: in entrambi i Paesi, se la crisi dell’euro fosse superata, il problema di aderire alla moneta unica tornerebbe a proporsi. Ma in termini che, nel frattempo, saranno diventati molto più impegnativi di oggi.

La mia precisa sensazione, insomma, è che nella psicologia dell’Europa un tempo «sequestrata», poi ritrovata, poi allontanata dalla crisi dell’euro, non esista solo la tentazione a pensarsi come un mondo sé; ma sia sempre in agguato anche un complesso di esclusione. Un complesso che noi italiani ben conosciamo: il timore di essere lasciati fuori, «out in the cold». Ma a Kampa l’aria è ancora tiepida, quando il Museo chiude e torniamo verso Ponte Carlo.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9297


Titolo: MARTA DASSU'. - Primi passi di Unione a più livelli
Inserito da: Admin - Ottobre 24, 2011, 05:26:41 pm
24/10/2011

Primi passi di Unione a più livelli

MARTA DASSÙ

E’ il primo summit europeo che si chiude per aprirne un secondo, mercoledì prossimo. Nei tre giorni che restano, Angela Merkel dovrà vendere a casa - alla Commissione bilancio del Bundestag - il pacchetto di salvataggio dell’euro. Al vertice di Bruxelles, l’approccio tedesco ha prevalso sui punti cruciali in agenda: l’unica Europa possibile sembra essere questa.

Un’Europa che dipende dalla politica interna della Germania: il Paese di centro, economicamente più forte ma con una leadership che ha le mani legate, quando è in ballo l’Europa, dal proprio Parlamento.

Nell’Europa tedesca che sta nascendo dalla crisi del debito, la Francia è solo in apparenza un partner «uguale». In realtà, Berlino pesa troppo e Parigi troppo poco per produrre un direttorio efficace. Gli altri hanno un ruolo minore (i nordici), sono azzoppati dal debito (i mediterranei), hanno ormai scelto di stare fuori da tutto ciò (la Gran Bretagna) o di aspettare (la Polonia). L’Europa tedesca nasce, in senso proprio, «by default»: non tanto il default parziale di un Paese periferico come la Grecia, ma l’evaporazione politica di una serie di altri attori europei tradizionali, Italia inclusa. Nel «Comitato di Francoforte» che ha preso il posto dei sei vecchi Paesi fondatori, le istituzioni comuni siedono a fianco di Merkozy, la coppia ineguale. Ma la Commissione di Bruxelles comincia a sembrare un segretariato tecnico, più che il potenziale governo dell’Unione; il Consiglio europeo riflette l'esistenza di questa gerarchia, di cui il futuro Mr. Euro non potrà che tenere conto; e la Bce resta in posizione ambigua. La Banca di Francoforte è intervenuta per tamponare la crisi del debito ma non può assumere il ruolo - come vorrebbe chi crede in un’Unione fiscale - di «prestatore di ultima istanza».

Questa fotografia (un po’ cruda, lo ammetto) dei rapporti di forza non elimina il punto sostanziale: l'Unione monetaria potrà superare la crisi attuale solo se i Paesi che la guidano oggi, la Germania anzitutto, aumenteranno il loro tasso di solidarietà (troppo basso, anche secondo le parole di un «grande vecchio» tedesco come Helmut Schmidt); e solo se i Paesi in debito aumenteranno il loro tasso di credibilità (riforme) e la loro disciplina di bilancio. Da questo punto di vista, il doppio vertice di questi giorni segna un progresso potenziale, almeno sulla carta. Perché, con le soluzioni analizzate altrove da Marco Zatterin (la ricapitalizzazione delle Banche, il potenziamento del Fondo Salva-Stati, la ristrutturazione del debito greco, gli impegni delle economie vulnerabili, fra cui l’Italia), il compromesso alla base dell’Unione monetaria - fra solidarietà e disciplina - riacquista un qualche senso. Sono decisioni che basteranno a calmare i mercati? La risposta onesta è: solo in parte e solo per un po’. Per una soluzione strutturale ci vorrebbe altro. Ci vorrebbe probabilmente un salto di qualità verso il coordinamento fiscale, di cui l’emissione congiunta di titoli europei (i famosi Eurobonds) sarebbe il primo passo. La realtà, tuttavia, è che le condizioni politiche per uno sviluppo del genere non esistono ancora; esiste anzi una notevole sfiducia reciproca, come ha dimostrato il brutto clima di Bruxelles. Per ora, incapaci di risposte strutturali in casa loro, gli europei stanno cercando rimedi fuori, fra cui nuovi crediti da parte dei Paesi ricchi di riserve finanziarie, come la Cina e gli emirati del Golfo. È una soluzione che ha dei costi politici (poco discussi) per l’Ue; ma che sono considerati inferiori, evidentemente, agli oneri economici di una soluzione propriamente europea.

C’è chi ritiene, guardando alle esitazioni tedesche degli ultimi mesi, che la Germania abbia in tasca in realtà un Piano B. Punti cioè alla creazione di un «piccolo» Euro del Nord, depurato dai debiti mediterranei. È una tesi diffusa ma non convincente: è vero che una parte dell’élite tedesca ha sempre avuto obiettivi del genere (li aveva già negli anni ‘90, prima del varo della moneta unica); ma è vero anche che i costi di una frattura dell’euro sarebbero, per la Germania stessa, molto superiori ai vantaggi. Angela Merkel ne è consapevole. Il suo progetto non è di disfare l’eurozona; è di rifarla a condizioni tedesche. Il che vuol dire, in sintesi estrema: senza troppi oneri per i propri contribuenti; e imponendo regole più rigide ai Paesi in debito, con sanzioni automatiche e nuovi poteri di intervento nelle politiche interne. L’erosione della sovranità nazionale in materia di bilancio sta diventando una delle conseguenze del debito sovrano, come l’Italia ha avuto modo di constatare ieri a Bruxelles: ciò significa che le riforme mancate, nell’Europa di oggi, hanno un prezzo politico crescente e non solo un prezzo economico.

Il Piano A della Germania è di ancorare questa Europa «alla maniera tedesca» ad una riforma ulteriore dei Trattati. La sola idea, visti i precedenti e data l’urgenza di oggi, sembra assurda. Ma rispecchia assai bene, oltre che i vincoli interni e costituzionali di Berlino, la conclusione che Angela Merkel ha tratto dalla crisi di Grecia e dintorni: regole più stringenti e molto più vincolanti sono necessarie, per evitare che l’Unione monetaria passi di crisi in crisi. D’accordo. Ma se il prezzo della cura del debito sarà un decennio di austerità, è probabile che l’Europa tedesca non si dimostri nel tempo sostenibile.

Se sopravviverà a una crisi finanziaria che è una specie di guerra moderna, l’Unione europea avrà un volto diverso. E magari il suo «Trattato di pace». In teoria, nascerà un’Europa a più livelli, con un cuore interno fondato sull’euro e su istituzioni in parte separate da quelle dell’Europa a 27. In un cerchio esterno, resteranno i Paesi membri del mercato unico ma non della moneta unica. Per i federalisti, un «nucleo duro» dell’euro può anche essere un’occasione. In una visione diversa, esiste il rischio che la creazione di un’Unione del genere - così differenziata al suo interno - finisca per danneggiare il mercato unico, ledendo così uno dei punti di forza dell’economia europea. È una discussione importante per il futuro del Vecchio Continente: peccato che dopo essere stata fra i fondatori dell’Europa del secolo scorso, l’Italia sembri più che altro un oggetto dell’Europa che si sta disegnando.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9356


Titolo: MARTA DASSU'. - La soluzione indispensabile
Inserito da: Admin - Novembre 12, 2011, 12:14:14 pm
12/11/2011

La soluzione indispensabile

MARTA DASSU'

La crisi dell’euro-zona assomiglia a una guerra moderna, combattuta non con le armi convenzionali ma con i fucili dei mercati finanziari. La posta in gioco non è più soltanto economica, per i Paesi sotto attacco; è diventata direttamente politica, disfando e facendo i destini dei governi di una manciata di Paesi, dall’Irlanda, al Portogallo, alla Grecia. In questa guerra moderna fra Stati e mercati, l’Italia è il caso che farà la differenza. Dipende dalla tenuta dell’Italia se il contagio si fermerà o investirà anche la Francia: con banche vulnerabili ed elezioni alle porte, il governo francese è «next on the line», il prossimo in fila.
E quindi: dipende dalla tenuta dell’Italia, grande economia al centro e non certo alla periferia dell’Ue, se l’euro sopravviverà o si spezzerà. E ormai lo sanno anche i sassi: l’Italia è troppo grande per potere fallire senza guasti per l’insieme dell’economia occidentale; ma è anche troppo grande per un salvataggio solo esterno.

Per questi motivi - perché siamo appunto in una specie di guerra, perché il fronte italiano è decisivo e perché dobbiamo salvare noi stessi per salvarci con gli altri - una soluzione di emergenza è indispensabile. Per l’Italia e non solo. Di emergenza, certo. La stampa inglese non la smette mai di farci lezioni. Ha appena ottenuto la testa di Silvio Berlusconi, che chiedeva da anni, e ci ricorda subito che la tecnocrazia non può emarginare a lungo termine la democrazia; che la credibilità (rispetto ai mercati) non potrà soppiantare la legittimità (rispetto ai cittadini). Ok, lo sapevamo da soli. Una soluzione di emergenza, per funzionare, deve essere solida sul piano politico e rapida su quello temporale. Il suo sbocco dovrà essere quello di portare l’Italia ancora viva, invece che morta, a nuove elezioni.

Prima riflessione, allora: per i grandi debitori dell’area euro, l’Unione monetaria non ha più i caratteri di un puro «vincolo esterno», come si usava dire in passato. E’ diventata un vincolo esistenziale, cosa che impone maggiori responsabilità. Perché? Perché quanto più un Paese ha problemi di debito e di competitività, tanto più perde sovranità. E’ l’ammonimento di questi ultimi mesi. Sia i mercati finanziari che i governi creditori puniscono ormai senza tanti complimenti i comportamenti «devianti» rispetto alla regola scritta e non scritta dell’Europa tedesca: la stabilità finanziaria e il rigore di bilancio.

Qui si innesta, però, la seconda riflessione. I problemi dell’area dell’euro non dipendono certo soltanto dal maggiore debitore, l’Italia. Nascono anche dal principale creditore, la Germania. Ieri Angela Merkel ha dovuto smentire, ancora una volta, che Berlino sia interessata a costruire un’euro più piccolo o un’Unione monetaria a due velocità. E’ probabile che sia così; che cioè, al di là delle propensioni della Bundesbank per un euro forte del Nord, non esista un piano tedesco coerente per liberarsi dei debitori mediterranei.

Anche perché una serie di studi ha dimostrato che la Germania, in uno scenario del genere, avrebbe più costi che vantaggi. Resta il problema di fondo: la gestione tedesca della crisi del debito sovrano impone ai paesi in deficit maggiori vincoli (che Angela Merkel vorrebbe sanzionare nei Trattati, con sanzioni automatiche e forse criteri di uscita dall’Unione) senza offrire abbastanza quanto a solidarietà fiscale. La conseguenza è che la «dittatura del creditore», nell’area euro, finisce per essere una ricetta recessiva.

Cosa che non permetterà di ridurre il debito neanche con una overdose rigorista. Secondo le tesi ottimistiche, una volta rassicurata sulla credibilità di Grecia, Spagna e Italia, la Germania sarà più disponibile a fare dei passi verso un’Unione fiscale: quella di cui avremmo bisogno. Secondo voci che circolano sia a Berlino sia a Bruxelles, il governo tedesco potrà anche contemplare una politica di prestito più espansiva della Banca centrale europea, che dovrà prima o poi diventare, perché l’euro funzioni, il «creditore di ultima istanza». La Germania chiede però una modifica dei diritti di voto nel Board della Bce: di fatto, rivendica una sorta di potere di veto.

Vedremo nei prossimi mesi quanto spazio ci sarà per uno scambio vero fra responsabilità di bilancio e solidarietà fiscale. Se vogliamo che l’Europa non sia basata solo sul «Berliner consensus» e se vogliamo spezzare una lancia a favore di un’Unione fiscale, è indispensabile che l’Italia sia in grado di esercitare un suo peso; la Francia, lasciata sola, non ne ha abbastanza. Per sopravvivere come grande economia dell’euro, l’Italia deve fare comunque riforme troppo a lungo rimandate; e deve tornare a crescere. Il tempo dei rinvii è scaduto: non perché lo dicono Parigi, Francoforte, Berlino o Bruxelles ma perché lo dimostra la curva degli spread.

Curando se stessa, l’Italia ritroverebbe una voce in Europa. E sarebbe importante, per noi e per l’Europa, che la voce italiana pesasse. Un’Italia capace di riforme essenziali in casa, potrà influenzare il governo economico della zona euro e potrà porre sul tavolo di Bruxelles un punto dirimente. I Paesi europei hanno messo in comune quote della propria sovranità nazionale non per creare dei «direttori» informali ma perché credono in istituzioni comuni rispettate e in regole che valgano per tutti (è sempre utile non dimenticare che Francia e Germania hanno violato a loro tempo il Patto di Stabilità).

Che la guerra che stiamo combattendo, insomma, insegni qualcosa. Da quando facciamo parte dell’euro, la sovranità dell’Italia è per definizione limitata: si è trattato, per noi e per gli altri Paesi europei, di una cessione volontaria di sovranità, a favore di una sovranità condivisa (shared sovereignty). E’ questa caratteristica, ha scritto la Corte di giustizia europea in una famosa sentenza, a differenziare l’Unione europea da un normale Trattato internazionale. La crisi finanziaria sta erodendo ulteriormente la sovranità degli Stati europei, anzitutto per ciò che riguarda la politica di bilancio. Il volto dell’Ue si sta modificando, sotto lo shock della crisi: la sfida, per l’Italia, è di non restarne ai margini. Passa di qui la differenza fra la cessione/condivisione e la perdita pura e semplice di sovranità nazionale.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9425


Titolo: MARTA DASSU'. - Noi italiani dobbiamo dirci la verità
Inserito da: Admin - Novembre 16, 2011, 11:47:30 am
16/11/2011

Noi italiani dobbiamo dirci la verità

MARTA DASSÙ

Oggi viene voltata la pagina. Non è il momento, tuttavia, di tirare il fiato. E’ il momento di prendere atto della realtà: l’Italia ha reagito ma è un Paese che ha preso una sberla tremenda. Quando una delle grandi economie europee si trova nel ruolo di «sorvegliato speciale» della Commissione europea e del Fondo monetario, la sberla c’è stata.

E c’è stato, insieme alla sberla, un evidente declassamento politico: l’Italia conta meno in un’Europa che conta a sua volta fino a un certo punto, nel mondo spostato verso Est di questo inizio di Secolo Asiatico. Nei giorni scorsi avevamo la testa voltata - giustamente - verso il Quirinale. Ma intanto Barack Obama annunciava, dalle Hawaii, che l’America trasferirà interessi, risorse e soldati verso la sfida Pacifica con la Cina. L’Europa tutta, vista da Washington ma anche da Pechino, è oggi parte del problema globale; non della sua soluzione.

Questo per dire che è meglio non farsi troppe illusioni. Mario Monti, con il suo governo, verrà di certo accolto a braccia aperte da Parigi e da Berlino. L’avvio sarà fiducioso e incoraggiante. Ma così come i mercati finanziari non fanno degli sconti, neanche i governi li fanno: in questa fase di riassetto delle gerarchie internazionali, i rapporti fra europei, più che mai indispensabili, sono anche rapporti duri. L’ex commissario alla Concorrenza lo sa meglio di altri, del resto; e sa di non potere ricorrere a scorciatoie. L’agenda delle cose da fare è fin troppo nota, in Italia e in Europa. Il punto è che il governo riuscirà a farle se avrà dietro di sé non solo una maggioranza parlamentare decisa a giocare una partita onesta per salvare il Paese ma anche il Paese. Noi, gli italiani.

Noi, gli italiani, dobbiamo prima di tutto essere consapevoli che la crisi che stiamo vivendo è strutturale; avrà bisogno, per essere risolta, di uno sforzo costante e decennale. Parecchi economisti sottolineano giustamente che i «fondamentali» del Paese sono a posto: se guardiamo ai livelli di ricchezza delle famiglie, al risparmio privato, al settore manifatturiero e via dicendo, l’Italia ha indubbi punti di forza, che d’altra parte spiegano perché siamo riusciti a diventare una delle prime dieci economie occidentali. Il guaio è che questo argomento non è stato usato come un vantaggio comparativo, su cui costruire una capacità di adattamento a un contesto globale sempre più difficile. E’ stato usato spesso come un argomento consolatorio - o come un alibi. Ecco: la crisi del debito sovrano segna anche la fine degli alibi. Nel ventennio successivo al Crollo del Muro di Berlino, l’Italia ha perso prima la vecchia rendita di posizione geopolitica (la sua collocazione di frontiera avanzata - e protetta - dell’alleanza occidentale) e poi la vecchia rendita di posizione economica (lo strumento delle svalutazioni competitive). Ma non è mai riuscita a riprendersi. Al posto delle riforme indispensabili per competere nell’economia globale, ci siamo raccontati delle storie. E’ il momento di dirci la verità: abbiamo perso e continuiamo a perdere competitività. Le rendite di posizione sono finite da un pezzo. E se un Paese le perde, non possono mantenerle strati privilegiati dei suoi abitanti; se non ai costi, per l’Italia nel suo insieme, che oggi stiamo vedendo.

Se questo è vero, è vero anche che gli italiani hanno finalmente bisogno di capire di quale progetto nazionale fanno parte. Nessuna nazione riesce a vivere e sopravvivere a lungo senza un progetto ideale. Noi sembriamo oscillare fra un europeismo frustrato dalla crisi del debito (e da un costante complesso di inferiorità), un atlantismo che va e viene, una politica mediterranea di rimessa (Libia docet), le solite scelte pro-russe in nome dell’energia - e così via. Il governo Monti nasce in una logica emergenziale: l’interesse nazionale, oggi, sembra coincidere con l’interesse fiscale. Ma le scelte da compiere, con i loro costi, saranno più accettate e più condivise se faranno parte di un «discorso» convincente sul futuro dell’Italia e sul posto dell’Italia in Europa. Fra crisi del debito e vincoli esterni, l’Italia è certamente in posizioni di debolezza; ma può e deve ritrovare una voce. E deve farla pesare. La gestione della crisi europea, dal 2008 ad oggi, ha dimostrato i limiti di una coppia franco-tedesca lasciata a se stessa; in cui la Germania conta troppo, a favore di ricette economiche che funzionano poco. E in cui la Francia crede di contare molto ma in realtà non è così. Un’Italia che funzioni e abbia una visione serve, insomma: a noi e al Vecchio Continente.

Peccherò di idealismo. Ma se verrà detta la verità - al posto delle storie. E se l’Italia tornerà ad essere un progetto in cui vale la pena di investire, gli italiani sceglieranno l’Italia. Scegliere comporta delle responsabilità: responsabilità individuali, nell’interesse generale. Anche gli italiani, e non solo il sistema politico, devono dare l’addio ai vecchi alibi. Il destino del nostro Paese non è solo nelle mani di altri (la Casta), non è solo condizionato dall’estero (nel quadrilatero fra Parigi, Berlino, Francoforte o Bruxelles); e non è solo dettato dallo scontro fra governi e mercati. Riflette anche le responsabilità di ciascuno.

Lo so: suona retorico. Ma non lo è. Le riforme di cui l’Italia ha bisogno per riuscire a competere nel mondo di oggi presuppongono questa rivoluzione psicologica e culturale. E sarebbe un vero paradosso se il governo dei tecnici appoggiati dalla politica riuscisse là dove la politica non è riuscita di certo: riattivare, invece che alienare, le energie vitali della nostra società. Potremmo chiamarlo il Miracolo del Colle - se qualcosa del genere succedesse.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9441


Titolo: MARTA DASSU'. - Indispensabile allargare l'Occidente
Inserito da: Admin - Febbraio 06, 2012, 11:10:35 am
6/2/2012

Indispensabile allargare l'Occidente

MARTA DASSÙ*

Caro direttore, l’Occidente è inevitabilmente in declino? A questo ormai annoso dibattito, acutizzato dalla crisi finanziaria, Zbigniew Brzezinski ha risposto di no, ieri sulla «Stampa». Ma l’anti-declino ha bisogno di due condizioni, per riuscire: la prima è domestica, l’America deve riscoprire le ragioni della propria «primazia» (l’innovazione, l’educazione, il dinamismo sociale); la seconda appartiene alla categoria delle «visioni strategiche». E la visione proposta dall’ex consigliere alla Sicurezza nazionale è semplice e lineare: l’Occidente deve allargarsi, per non perdere rilevanza e influenza nel secolo asiatico. Allargarsi in che direzione? In un libro appena uscito a Washington, Brzezinski sostiene che l’Occidente «plus» potrebbe essere immaginato così, fra un paio di decenni: una testa ancora americana (se anche l’America, appunto, farà i suoi compiti a casa), un cuore europeo (se l’Ue diventerà un’Unione politica vera), braccia e gambe allargate verso una Russia che scelga la democrazia compiuta, verso una Turchia più europea che neo-ottomana e verso vecchi e nuovi alleati asiatici intenzionati a bilanciare la Cina. Visione strategica o schema destinato a restare sulla carta?

In realtà, proprio mentre la crisi finanziaria sta mettendo a dura prova le democrazie liberali e proprio quando la combinazione fra capitalismo e autoritarismo comincia a proporsi come modello alternativo, un ripensamento dei contorni dell’Occidente è indispensabile. Per Brzezinski, è chiaro che la forza comparata degli Stati Uniti va ricostruita anzitutto dall’interno, così come quella degli europei richiede un’Unione più solida. Ma è chiaro anche che il vecchio rapporto transatlantico non è più sufficiente, di fronte allo spostamento del potere economico, demografico, finanziario, verso nuove potenze. La proiezione occidentale verso il continente euro-asiatico è, dal suo punto di vista, la priorità strategica di questo secolo.

La mappa mentale di Brzezinski è ancora «orizzontale», da Ovest verso Est. E continua a riflettere, assieme all’impatto dell’ascesa della Cina, i nodi rimasti irrisolti dal secolo scorso: integrare la Russia nella comunità occidentale è una delle speranze almeno in parte mancate del post 1991. Il veto russo all’Onu sulla Risoluzione di condanna della Siria conferma tutta la distanza che resta. Con conseguenze nefaste: in questo caso per la popolazione siriana, esposta da mesi a una repressione brutale.

Esiste anche, tuttavia, una mappa «verticale» da esplorare: la possibilità, cioè, di associare le sponde meridionali dell’Atlantico, dove grandi potenze economiche in pectore come il Brasile possiedono in teoria un «software» democratico occidentale, quelle radici storiche e culturali che ne costituiscono la base identitaria. In altri termini: l’Occidente più largo potrebbe avere una gamba importante non solo più a Est ma più a Sud. E la visione strategica potrebbe essere questa: una comunità «panatlantica» del XXI secolo, in grado di beneficiare di risorse tangibili (la spinta aggiuntiva di un’area emergente) e di fare leva su radici culturali comuni. Per gli europei, prima che per gli Stati Uniti, tenere in vita l’Atlantico è una condizione per continuare a contare, nel secolo del Pacifico. Anche per questa ragione, proposte come la creazione di qualcosa di simile a una free trade area transatlantica andrebbero valutate non solo in chiave economica (con i loro costi e benefici settoriali) ma anche per la loro importanza strategica.

La visione prescritta agli Stati Uniti da Brzezinski guarda peraltro correttamente all’Asia orientale come a una regione dove, economia globale o no, la geopolitica classica continua a contare. L’interdipendenza economica fra Washington e Pechino o l’importanza dei rapporti commerciali fra Cina e Germania non eliminano linee di faglia da ventesimo secolo, con dinamiche fatte di deterrenza e di equilibri militari. Alla luce di questo dato, il ruolo di «balancing» che Brzezinski raccomanda agli Stati Uniti in Asia resta necessario; la revisione della strategia di sicurezza americana va del resto in questo senso. Ragione di più perché gli europei assumano una quota crescente di responsabilità ai loro confini, nel Nord Africa e nei Balcani. L’Occidente, per restare influente sul piano globale, non deve solo allargarsi, quindi; deve anche specializzarsi.

Nulla di tutto questo funzionerà, evidentemente, se la prima prescrizione di Brzezinski agli Stati Uniti, che vale in genere per le democrazie occidentali - quella di rivitalizzare se stesse e la propria economia - non reggerà alla prova dei fatti.

Come ha sostenuto Niall Ferguson su Aspenia, una delle cause del relativo declino dell’Occidente è la tendenza a rinunciare alle proprie armi vincenti: la concorrenza, la ricerca scientifica, l’etica del lavoro, fino a dubbi nei propri sistemi politici. Negli ultimi due decenni, la rivoluzione delle aspettative «crescenti», che aveva garantito il successo del modello occidentale, si è trasformata nel suo opposto. Le conseguenze economiche, politiche e sociali sono ancora tutte da misurare.

È questa la ragione essenziale per cui ripensare, allargare, ma anche ritrovare l’Occidente, appare indispensabile.

*Sottosegretario agli Esteri

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9740


Titolo: MARTA DASSU'. - La Serbia, test per l'Europa flessibile
Inserito da: Admin - Marzo 03, 2012, 11:17:58 pm
3/3/2012

La Serbia, test per l'Europa flessibile

MARTA DASSU'

Il 24 marzo del 1999 le prime bombe sganciate dagli aerei della Nato andavano a colpire le postazioni delle forze armate serbe schierate sul territorio del Kosovo. Tredici anni dopo, a Bruxelles, la Serbia ottiene lo status di candidato a membro dell’Unione Europea. La Storia ha in genere tempi più lunghi. L'ingresso a pieno titolo di Belgrado nel consesso delle nazioni europee avverrà alla fine di negoziati complessi.

Ma siamo già - con l'adesione della Croazia e lo status di candidato della Serbia - alla conclusione di un ciclo, quel ciclo di sanguinose guerre balcaniche che, a intervalli ricorrenti, hanno sconvolto gli equilibri europei. Per l'Italia, che vede nell'integrazione europea dei Paesi dei Balcani occidentali una condizione necessaria per la stabilità dell'intera regione adriatico-danubiana ai nostri confini, è un successo diplomatico rilevante. Europeizzare i Balcani o balcanizzare l'Europa? Questa vecchia domanda suona ormai superata. Allargare l'Ue ai Balcani significa avvicinarli alle nostre regole e ai nostri standard in tutti i settori in cui si esplica la vita della società civile europea quale la conosciamo: qualcosa di impensabile fino a poco più di una decina di anni fa.

Una parte degli osservatori europei danno a scadenze regolari l'allargamento per spacciato: per convinzione (la dilatazione dei confini diluisce l'Unione), per sfiducia (l'opinione pubblica pesa contro) o per scarsa immaginazione. Si è aggiunta un'ultima motivazione: l'Europa, a causa della crisi del debito sovrano, sarebbe ormai priva di potere di attrazione. Non è esattamente così. Se il Consiglio europeo è in grado di approvare insieme il «fiscal compact» e la decisione sul destino della Serbia, questo significa che l'Ue - per quanto affaticata e introversa possa essere giudicata - ha ancora un «soft power»: interno ed esterno. In un dibattito recente alla Brookings Institution di Washington, ho cercato di sottolineare questo punto. L'Europa verrà fuori dalla crisi dell'euro-zona più lentamente di quanto avrebbe dovuto e potuto; ma riuscirà a farlo.

E, facendolo, avrà anche contribuito in modo molto rilevante alla stabilità internazionale. Mentre l'Europa rafforza le regole fiscali - premessa necessaria ma non sufficiente per la crescita - e mentre si allarga ai Balcani, rischia d'altra parte di differenziarsi in livelli diversi: una struttura «multi-tier» è uno scenario realistico. Mario Monti lo considera negativo, e anche per questa ragione sta giustamente cercando di tenere agganciata Londra alla governance economica comune. Con una Gran Bretagna periferica, infatti, ne soffrirebbe la vitalità del mercato unico, lo strumento più efficace per riprendere a crescere. E' un rischio vero. E' vero anche, tuttavia, che un certo grado di flessibilità interna alla struttura europea potrebbe servire.

Proviamo ad immaginare, per esempio, che l'ingresso nell’Unione europea non preveda necessariamente un futuro ingresso nell'euro. In altri termini: restare al di fuori della moneta unica, essendo all'interno del mercato unico, non dovrebbe più essere un «opt out» (una sorta di auto-esclusione) ma una visione possibile e razionale del modo in cui stare in un'Europa che non deve più essere identificata solo con l'euro. Certo, così nascerà appunto un'Europa «multi-tier». Ma quest'esito, insieme a qualche rischio per le istituzioni comuni, potrebbe anche avere dei benefici. Non ultimo quello di rendere più semplice allargamenti ulteriori verso i Balcani e, in prospettiva, la Turchia. La logica economica e quella geopolitica non sempre coincidono perfettamente.

*Sottosegretario agli Affari Esteri

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9837


Titolo: MARTA DASSU'. - Spendere di meno, contare di più
Inserito da: Admin - Marzo 13, 2012, 02:58:48 pm
12/3/2012

Spendere di meno, contare di più

La quadratura (quasi) impossibile

MARTA DASSÙ*

Dopo le analoghe osservazioni di Lucia Annunziata su «La Stampa», ieri Angelo Panebianco apriva il suo editoriale sul Corriere della Sera con una frase significativa: «Puoi anche non curarti della politica internazionale. Sarà comunque lei a scovarti e ad occuparsi di te». Questa frase sottolinea, nel giorno in cui il nostro Paese si stringe attorno alla famiglia di Franco Lamolinara, vittima del terrorismo in Nigeria, le oggettive fragilità dell’Italia nel contesto globale di oggi.

Panebianco la utilizza per argomentare che un governo sprovvisto di un mandato elettorale esplicito potrebbe non avere lo stesso interesse di un governo pienamente politico a gestire le crisi internazionali extra-economiche. È una tesi che sarà anche interessante motivo di studio per i politologi. Ma che trascura il punto essenziale: sono decenni che l’Italia continua a ridurre gli strumenti che le permetterebbero di rispondere meglio alle crisi.

Lasciatemi prima chiarire due punti di contesto. Primo: le debolezze dell’Italia, di fronte ai rischi diffusi di oggi, sono le debolezze della Francia o della Spagna o di qualunque altro Paese che abbia una posizione geopolitica esposta e parecchi suoi connazionali che agiscono e lavorano nel mondo. Tutti i Paesi europei che si trovano in condizioni simili hanno subito rapimenti, hanno cercato alternative diverse per salvare gli ostaggi e hanno avuto, purtroppo, delle vittime. È una nostra pessima abitudine nazionale sentirci peggio degli altri sempre e comunque: è una specie di versione sfiduciata, pessimista, rovesciata, dell’«eccezionalismo» all’americana. In realtà, pirateria e rapimenti investono l’Italia esattamente come investono gran parte dei Paesi europei. Ed è pura mitologia che l’Italia abbia una sua «via» alla liberazione degli ostaggi. All’opposto, l’eccezione alla regola è che gli anglo-sassoni tentano ogni tanto un blitz militare: qualche volta riuscendo, altre, come purtroppo in questo ultimo caso, fallendo e sacrificando anche il loro connazionale.

Secondo punto: usare le difficoltà internazionali ai fini delle polemiche interne è sempre sbagliato, perché aumenta la vulnerabilità di un Paese proprio quando avremmo bisogno di ridurla. Certo: è giusto, è dovuto, che un governo spieghi i suoi comportamenti internazionali, informi il Parlamento e che si sentano i Servizi. È giusto e dovuto che il governo di Roma esiga da Londra tutti i chiarimenti necessari sul ritardo di comunicazione in Nigeria. E si interroghi sulle proprie responsabilità. Ma è sbagliato - nel senso che il danno aumenta per il Paese nel suo complesso trasformare una crisi internazionale in materia aprioristica di polemica interna. L’interesse nazionale è opposto. Ed è prematuro decidere che tutto dipende da errori comunque nostri: è un’altra pessima abitudine nazionale quella di oscillare fra il «noi non c’entriamo» al «è tutta colpa nostra».

E vengo così all’interrogativo di fondo del dibattito di questi giorni, che non voglio affatto eludere: le difficoltà in India, sommate alla tragedia in Nigeria, dimostrano che l’Italia ha perso peso internazionale? Sì, ma questa perdita relativa di influenza non dipende da incapacità politica; è il prodotto di due fattori, uno esterno e l’altro «soggettivo». Il fattore esterno lo conosciamo benissimo: la «diffusione» del potere economico e politico verso nuove potenze, come l’India appunto; e verso una quantità di nuovi attori in buona parte rivali dell’Occidente. In un mondo del genere («No one’s world» lo definisce lo storico americano Charlie Kupchan), un Paese come l’Italia risulta inevitabilmente ridimensionato. Il fattore soggettivo - e qui sono d’accordo con Panebianco, Annunziata e molti altri - è che l’Italia ha continuato ad illudersi, anche dopo la fine delle rendite di posizione del dopoguerra, di potere non occuparsi di sicurezza. Basta guardare ai tagli progressivi che hanno subito, negli ultimi dieci anni, tutti gli strumenti dell’azione esterna: dal bilancio della Farnesina, agli investimenti nella Difesa, al taglio brutale della cooperazione allo sviluppo.

È questa la discussione vera che dovremmo aprire. Se il risanamento del bilancio aumenta il nostro standing in Europa ma riduce il nostro standing nel mondo, quali sono le opzioni che restano? Una risposta possibile è: le economie di scala. Usare la credibilità riacquistata in Europa per spingere - finalmente - a qualcosa di più e di vero nella politica estera e di sicurezza europea. I casi dell’India e della Nigeria dimostrano, in modi diversi, che siamo ancora lontani da tutto ciò. Mentre è molto vicino il punto in cui la quadratura del cerchio sta diventando impossibile: tagliare via gli strumenti e gestire bene le crisi è impresa ardua. Per chiunque governi.

*Sottosegretario agli Esteri

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9877


Titolo: MARTA DASSU'. - Siria, il piano Annan è l'ultima chance
Inserito da: Admin - Aprile 23, 2012, 05:52:30 pm
23/4/2012

Siria, il piano Annan è l'ultima chance

MARTA DASSÙ*

Caro direttore, a più di un anno dall’inizio della tragedia siriana anche chi dubita sempre delle stime internazionali deve prendere atto che in questo caso i morti sono migliaia, non centinaia - la realtà ha fatto il suo ingresso rumoroso nelle stanze del Consiglio di sicurezza. E la realtà, tradotta in formule diplomatiche con la Risoluzione presentata dalla Russia e poi approvata all’unanimità, è semplice e frustrante: la fine di Assad non è ancora scritta. Il capo della minoranza alawita può ancora contare sulla copertura di Mosca. Gli Stati Uniti, d’altra parte, non intendono ripetere uno scenario «alla Libia», che del resto non sarebbe credibile nelle condizioni assai diverse della Siria. Mentre la Francia è in panne elettorale e gli altri grandi giocatori europei, Italia inclusa, oggi puntano soprattutto ad arrestare la crisi umanitaria. La missione di 300 osservatori deve servire a fermare le violenze e la repressione; non esistono compromessi possibili su questo punto. La pazienza, ha detto giustamente Susan Rice, l’ambasciatrice americana all’Onu, è finita: per Damasco, è l’ultima chance. Prendere o lasciare. Ma proprio per questo è difficile immaginare che la missione internazionale prepari un cambio di regime. Al massimo - la speranza è questa - potrà preparare un cambio di governo.

Se le cose stanno per ora così, la mediazione di Kofi Annan è la «meno peggiore» fra le opzioni a disposizione. Il Piano in sei punti dell’ex Segretario generale delle Nazioni Unite garantisce in teoria la fine della repressione interna e l’avvio di un processo politico «Syrian-led», negoziato fra le parti siriane stesse ma «sorvegliato» dall’esterno. Il fatto è che esiste, in materia, una buona dose di ambiguità. Per la Russia, la cui posizione politica sta evolvendo (il ministro Terzi ha potuto constatarlo nella sua recente visita a Mosca) il futuro a cui guardare deve basarsi su un compromesso fra il potere alawita e l’opposizione sunnita: se costretta dai fatti, Mosca potrà anche sacrificare Assad ma non il regime siriano, che resta comunque un suo alleato strategico nel mondo medio-orientale. Per Mosca, che cerca di recuperare sulla Siria l’influenza diplomatica persa altrove, questa partita è anche - forse soprattutto - una partita simbolica. Per i Paesi del Golfo - Arabia Saudita e Qatar - la soluzione deve essere più radicale: la Siria dovrà cambiare, decurtando così l’Iran di uno strumento importante per la propria influenza regionale (tagliamo via un braccio a Teheran, ha scritto senza tanti complimenti un giornale del Golfo). Per Israele, conviene indebolire il regime di Assad, e quindi l’Iran, ma non per consegnare la Siria all’influenza radicale sunnita. I precedenti delle «Primavere Arabe» dimostrano che, per Gerusalemme, la caduta dei dittatori non sempre è uno sviluppo favorevole. Per la Turchia, che aveva inizialmente scommesso su una relazione privilegiata con Assad, cambiare cavallo è poi diventato indispensabile. Soprattutto, sia la Turchia che la Giordania vogliono evitare che la crisi siriana diventi una crisi regionale: i segnali, pessimi per entrambe, sono le migliaia di rifugiati che già premono ai confini, l’aumento ulteriore di instabilità in Iraq (per Ankara, il nodo curdo si complica) e la vulnerabilità del Libano.

Per la Francia, reduce dal primo turno delle presidenziali, la Siria è la battaglia del passato, non del presente. Per l’Italia è una sfida umanitaria e un interesse diretto sostanziale: il nostro contingente in Libano è comunque esposto di riflesso alle onde della crisi siriana. Per queste due ragioni, l’Italia ha prospettato, nel gruppo ristretto degli «Amici della Siria», un tavolo regionale sull’emergenza umanitaria. E ha insistito sulla necessità che l’opposizione siriana sia davvero inclusiva, verso le minoranze curde, cristiane e verso quella parte degli alawiti che sarebbe forse disposta a sacrificare il passato se si sentisse garantita in un futuro politico diverso. Nella concezione dell’Italia, questa è una delle condizioni decisive, insieme al mantenimento di una forte pressione su Assad, per evitare una guerra civile a lungo termine. Uno scenario terribile ma probabile, se la via di una soluzione politica negoziata fallisse.

La Risoluzione unitaria appena approvata all’Onu è un passo avanti, vista la competizione strategica che si sta scaricando sulla Siria. Ma lo resterà solo se il Piano Annan farà come l’Italia spera insieme al resto d’Europa - progressi rapidi. Solo se, in altri termini, servirà a far cessare le violenze drammatiche di questi mesi, a permettere gli aiuti umanitari, a consentire l’avvio di una transizione politica, a garantire tutte le diverse componenti dell’opposizione. In assenza di queste condizioni, per cui l’Italia si è battuta al tavolo dei «Friends of Syria», il tentativo dell’Onu potrebbe trasformarsi, dall’unico progresso possibile, in una futura sconfitta. Per il popolo siriano, anzitutto. E per una comunità internazionale che si è unita attorno alla «opzione meno peggiore»; ma che - se i risultati non saranno tangibili - tornerà a dividersi.

Il Piano Annan è non solo l’opzione meno peggiore. È anche l’ultima chance per evitare una guerra civile a lungo termine. L’alternativa al processo politico previsto da Annan non potrà che essere militare. L’opposizione dovrà difendersi, con appoggi più o meno espliciti di gran parte degli «Amici della Siria». Uno scenario comunque costoso sul piano umanitario e molto rischioso dal punto di vista degli effetti sui paesi confinanti. Le conseguenze di una guerra civile a lungo termine finirebbero per non risparmiare il Libano, dove l’Italia ha ancora schierati più di mille soldati e guida Unifil.

In effetti, e dopo un anno di repressione violenta, Assad non è così indebolito da rinunciare. E l’opposizione non dà garanzie sufficienti alle minoranze, non solo a quella curda.

Insomma, la riuscita del Piano Annan è problematica e richiede la collaborazione e buona fede di tutti i membri della comunità internazionale, del regime siriano ed anche dell’opposizione, sebbene le responsabilità delle violenze ricadano di gran lunga sul regime.

*Sottosegretario agli Affari Esteri

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10026


Titolo: MARTA DASSU'. - Sud America, la carica dei pre brics
Inserito da: Admin - Giugno 18, 2012, 04:58:36 pm
18/6/2012

Sud America, la carica dei pre brics

MARTA DASSU' *

Caro Direttore, sappiamo ormai con certezza due cose, che incidono sull’agenda del G20 di Los Cabos. La prima è che i Brics stanno incontrando – in misura maggiore India e Brasile, in misura minore la Cina – i loro problemi: l’idea di una espansione economica praticamente ininterrotta di queste economie era poco fondata dall’inizio ma oggi è provata. E quindi torniamo alla realtà: nessuna economia può crescere a tassi così rapidi troppo a lungo. Siamo alla fine di un ciclo. Cina, India e Brasile sono e saranno comunque grandi economie globali, ma è bene mettere da parte aspettative irrazionali. La questione non è solo economica: dal punto di vista dei Brics, gran parte delle difficoltà sono il riflesso della crisi europea. Cosa vera soltanto in parte, naturalmente. Ma resta che l’Europa, al tavolo G20, è messa sotto accusa sia da Obama che dagli ex «emergenti».

Seconda cosa che sappiamo: esistono, accanto ai Brics, economie di taglia minore ma in fase di crescita rapida. Sono i «pre-Brics» (definizione forse più comoda di altre sigle generate a cadenza biennale dalle Agenzie internazionali): paesi come la Colombia e il Messico, il Vietnam o l’Indonesia. Per le capacità di esportazione e per l’internazionalizzazione delle imprese italiane, i pre-Brics stanno diventando, da mercati secondari, interlocutori primari.

Prendiamo il caso dell’America Latina. Nei giorni scorsi ho guidato quasi 60 imprenditori in una missione in Colombia, organizzata dal Ministero degli Esteri insieme a Unioncamere e all’Associazione Nazionale Costruttori. Con un prodotto interno lordo che cresce ad un ritmo di oltre il 5% annuo, con un’economia ricca di materie prime e aperta all’esterno, con un’inflazione sotto controllo e con un quadro politico finalmente stabile, la Colombia – anch’essa invitata al G20 - rientra sicuramente in questa definizione: è un «pre-Bric». Il Presidente Santos, esponente di una elite formata in America e coltivata in Europa, è stato molto convincente nell’illustrare la forza del modello economico colombiano, «business friendly» e tra i più aperti del Sud America agli investimenti diretti esteri. I problemi storici del paese – dal narcotraffico alle Farc – non sono scomparsi, naturalmente. Ma appaiono sotto controllo. Ed è il caso di liberarsi degli stereotipi: la Colombia, in realtà, combina «fortuna» geopolitica (all’incrocio fra Costa Pacifica e Caraibi) e «saggezza» delle classi dirigenti.

Il caso della Colombia è interessante anche perché Bogotà è uno dei Paesi latinoamericani che hanno scelto l’apertura commerciale quale leva del proprio sviluppo economico. In maggio, ha firmato un trattato di libero scambio con gli Stati Uniti, cui si aggiunge un accordo analogo con l’Unione Europea. Non solo, il 6 giugno scorso, nel deserto cileno di Atacama, la Colombia insieme al Perù, al Messico e al Cile, ha costituito la «Alianza del Pacifico», un’area di libero scambio aperta verso gli Stati Uniti e l’Asia.

L’Alianza del Pacifico è un grande mercato potenziale, che equivale a un terzo circa del Pil totale dell’America Latina e al 50% del suo commercio globale. Per non cadere ancora una volta nella sindrome delle aspettative irrazionali, è bene averne chiari i margini: le opportunità non saranno illimitate, visto che i paesi membri dell’area andina si basano soprattutto sull’export di materie prime e dato che solo il Messico, per ora, può fare leva su una base industriale realmente sviluppata.

Si tratta, tuttavia, di un’alleanza significativa anche perché altri gruppi regionali stanno incontrando non pochi problemi. Il Mercosur è diviso al suo interno, con tendenze neo-protezionistiche che non aiutano certo. L’asse «bolivariano», capeggiato dal Venezuela di Chavez, preoccupa gli investitori esterni anziché attirarli. In sostanza - e questo è un aspetto su cui l’osservatorio di Los Cabos aiuta a riflettere - la «Alianza del Pacifico» è in questo momento l’alternativa economicamente «liberale» forse più incoraggiante delle Americhe.

Nel momento in cui la sponda atlantica dell’America Latina si espande verso l’Africa e quella pacifica punta a proiettarsi verso l’Asia, l’Italia ha tutto l’interesse a consolidare la sua presenza politica e a potenziare quella economica su entrambe le coste del continente americano. Per l’Italia (e per un’Europa che riesca a superare la propria crisi), si tratta di adottare una visione «Pan-atlantica» aggiornata: che da una parte consentirà di sviluppare anche sull’asse verticale (dall’Atlantico del Nord verso Sud) le relazioni con le Americhe; dall’altra, permetterà di costruire, attraverso le Americhe, nuovi accessi anche ai mercati del Pacifico. Sono le geometrie del nuovo secolo. L’impresa italiana, più rapidamente della politica europea, sembra avere capito che derivano da qui le proprie possibilità di restare competitiva.

*Sottosegretario agli Affari Esteri

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10240


Titolo: MARTA DASSU'. - Per la Siria ci vuole una terza via
Inserito da: Admin - Agosto 14, 2012, 11:24:29 pm
14/8/2012

Per la Siria ci vuole una terza via

MARTA DASSÙ *

Caro Direttore,
intervenire in Siria porrebbe rischi simili alla guerra in Iraq, più che alla guerra di Libia. Per chiunque guardi a Damasco, il punto di riferimento è Baghdad. Questo dato di fatto, unito al possesso di armi chimiche da parte dell’esercito di Bashar-Al Assad, spiega parte della prudenza americana. Certo, si potrebbe abbattere con la forza l’erede non designato del Leone di Damasco, ma sarebbe poi difficile stabilizzare un Paese spaccato da tensioni settarie, diviso fra sciiti (nel caso siriano, alawiti) e sunniti, appoggiati rispettivamente da Iran e Arabia Saudita. Non solo: l’opposizione siriana include, come quella irachena, fazioni legate ad Al Qaeda. In che modo appoggiare le componenti moderate della resistenza ad Assad, senza finire per «premiare» anche l’estremismo radicale?

Barack Obama esita da mesi a compiere una scelta netta: come ha dimostrato appunto il precedente dell’Iraq, intervenire con la forza militare in contesti del genere è una scelta difficile, che impegna a lungo termine sul terreno. Ed è una scelta politicamente costosa. Compierla nella situazione di oggi, a due mesi circa da elezioni americane dominate dall’economia, appare quasi impossibile. Tuttavia, come ha confermato un incontro ad Aspen fra americani, europei e cinesi, anche la linea del «non intervento» comincia a diventare insostenibile di fronte alla gravità della crisi umanitaria. Anche non intervenire ha dei costi. E la coperta usata fino ad oggi – la mancanza di un mandato da parte del Consiglio di sicurezza, dati i veti di Russia e Cina – sembra in qualche modo troppo corta.

«Sono a favore di un impegno più deciso e più diretto perché non possiamo restare inerti mentre la gente viene uccisa»: Madeleine Albright, segretario di Stato ai tempi di Clinton, ha espresso in questi termini, nel colloquio di Aspen, il disagio di gran parte dei democratici, non solo dei repubblicani, per l’impotenza occidentale di fronte ai bombardamenti di Aleppo. Dopo un anno di scontri brutali, le vittime della guerra civile stanno lievitando, sono ormai molto più numerose di quelle della guerra in Libia. Vanno aggiunti centinaia di migliaia di sfollati e rifugiati, in fuga verso Giordania, Turchia, Libano, Iraq. Rompendo il dilemma fra i due estremi - impotenza occidentale o intervento militare - è possibile immaginare una «terza opzione»?

Nessuno, nell’amministrazione americana e in quelle europee, prefigura un’azione militare sul terreno. Il precedente iracheno, si è visto, funziona potentemente da freno. Ma anche una politica di «sanzioni e basta», combinata a piani di pace affidati alla mediazione della Lega Araba e dell’Onu, sembra non funzionare: in mancanza di un accordo con la Russia, che difende attraverso Damasco i suoi residui interessi strategici in Medio Oriente, una soluzione negoziata appare lontana. E ci vorrà ancora tempo perché le defezioni al vertice del potere alawita segnino un vero sgretolamento del regime di Bashar. In questo contesto, l’amministrazione Obama si sta spostando verso una politica di sostegno attivo all’opposizione che combatte Assad sul terreno, in accordo con gli alleati regionali – Arabia Saudita e Qatar, anzitutto. Parallelamente, Hillary Clinton ha cominciato a discutere con Ankara la possibilità di istituire una no fly-zone sulla Siria e zone rifugio ai confini con la Giordania. Il calcolo è che, alterando gli equilibri militari sul terreno, un accordo politico sulla successione ad Assad diventerà meno arduo: anche Mosca, alla fine, lo prenderà in considerazione. Uno degli obiettivi essenziali è di arrestare un rischio già evidente di contagio regionale, l’allargamento del conflitto al Libano, alla Giordania e infine all’Iraq.

Il problema, hanno ricordato ad Aspen gli interlocutori cinesi, è che questo tipo di attivismo può finire per scivolare verso una sequenza «libica»: da un intervento iniziale limitato – e che Pechino non aveva ostacolato a New York – a una vera e propria guerra. Per la Cina, il precedente negativo è la Libia. Se oggi Pechino è iperprudente sul caso siriano, lo è per ragioni diverse da Mosca: non per esercitare una sua ultima chance di influenza in Medio Oriente, ma perché si è sentita in qualche modo «beffata», sul caso libico, in Consiglio di sicurezza. Vedremo. Intanto, con un’apertura inedita, uno dei partecipanti cinesi al dialogo di Aspen ha cominciato a parlare di «interferenza responsabile»: una sorta di diritto di ingerenza limitato, che escluda azioni militari dirette ma permetta di contenere la tragedia umanitaria.

E’ davvero realistico pensare che si possa aiutare una popolazione colpita e ferita senza farsi coinvolgere nella dinamica militare di un conflitto che non sembra avere (per ora) una soluzione diplomatica?

Il dilemma che la Siria pone alle diplomazie occidentali è questo. La risposta è tutt’altro che semplice: si tratta di capire fino a che punto e come appoggiare l’opposizione che combatte Assad sul terreno, tentando così di condizionarla e plasmarla. Solo con un impegno più attivo, verso cui l’Italia sta giocando le sue carte (umanitarie e politiche), americani ed europei avranno anche una voce sui futuri assetti della Siria. E potranno sperare di ottenere garanzie concrete sul rispetto delle minoranze, di tutte. Prima che sia troppo tardi.

* Sottosegretario agli Esteri

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10428


Titolo: MARTA DASSU'. - La migliore eredità
Inserito da: Admin - Ottobre 13, 2012, 03:58:58 pm
Editoriali
13/10/2012

La migliore eredità

Marta Dassù*


Caro Direttore, 

il Nobel all’Unione europea è un premio alla carriera. Nel senso che riconosce giustamente il principale risultato storico dell’integrazione fra ex nazioni nemiche: rendere impensabile la guerra nel Vecchio Continente. Questo punto è spiegato con chiarezza nell’annuncio fatto a Oslo dal Presidente del Comitato, il segretario Generale del Consiglio d’Europa, Jagland. Il quale ha aggiunto, alla riconciliazione post-bellica, due altre motivazioni determinanti:

•Il consolidamento della democrazia e il rispetto dei diritti umani - richiamati in relazione sia all’adesione di Grecia, Spagna e Portogallo negli Anni 80, sia all’apertura ai Paesi dell’Europa centrorientale dopo la caduta del Muro di Berlino;

•La pacificazione della ex Jugoslavia, con il riferimento all’adesione della Croazia, ai negoziati col Montenegro e al riconoscimento dello status di candidato alla Serbia.

La pacificazione del Vecchio Continente dopo le guerre calde e fredde del secolo scorso; l’espansione dello spazio democratico europeo. Queste le motivazioni del Nobel per la pace all’Ue. Da parte della giuria di un Paese europeo, la Norvegia, che ha sempre preferito non entrare nell’Unione. Ma i paradossi, come sappiamo, non hanno mai spaventato i giudici di Oslo.

Il Comitato del Premio Nobel non ha d’altra parte ignorato la crisi economica e sociale dell’Europa. Ha tuttavia ribaltato il prisma attraverso cui si tendono ormai ad inquadrare le problematiche comunitarie, ricordando che le difficoltà attuali «non impediscono di mettere a fuoco quello che è stato il risultato più importante dell’Ue: il successo nella lotta per la pace, la riconciliazione, la democrazia e i diritti umani». Sembra proprio un omaggio alla carriera, quindi. Ma la realtà è che attraverso l’omaggio passa anche un forte messaggio politico, rivolto sia contro i sentimenti anti europei sia contro le rigidità economicistiche. In linea con le posizioni più lungimiranti di una parte dei leader europei – e con quanto il presidente Napolitano ha sempre detto, anche ultimamente a Madrid - «l’Europa è molto di più dell’euro». Il Nobel per la Pace lo ricorda. Proprio per questo invita implicitamente a trarne le conseguenze. 

Per non disperdere la sua migliore eredità, l’Europa deve diventare più solidale nella gestione dell’economia dell’euro. E deve riuscire a passare, dalla pace «interna», a una capacità di proiezione pacifica «esterna». Sono le due condizioni per salvare il futuro. Il monito che viene da Oslo è di non mettere a rischio, con le battaglie sull’euro, la pace europea. 

* Sottosegretario agli Esteri 

da - http://lastampa.it/2012/10/13/cultura/opinioni/editoriali/la-migliore-eredita-oQyD2Fmty1Em2eZyRrWRLJ/pagina.html


Titolo: MARTA DASSU'. - Bamako è più vicina di Kabul
Inserito da: Admin - Gennaio 19, 2013, 04:17:16 pm
Editoriali
19/01/2013

Bamako è più vicina di Kabul

Marta Dassù*


Quella in gioco in un pezzo di Africa solo a prima vista remoto è una questione di importanza vitale per il nostro Paese. È necessario che i partiti politici rendano i cittadini consapevoli di quali siano e dove si trovino i nostri interessi nazionali. 

Al di là di considerazioni pre-elettorali dal respiro corto.

 

Rispetto a una parte dei conflitti post-11 settembre, in Mali la posta in gioco non riguarda la difesa delle alleanze dell’Italia; riguarda direttamente i suoi interessi strategici. Nessuno si sognerebbe di considerare ininfluenti, per l’Italia, gli eventi che colpiscono la Libia o l’Algeria, da cui dipende un terzo delle nostre forniture energetiche. Eppure il Sahel è lì, appena dietro. La guerra interna al Mali è in parte figlia della disgregazione della Libia; in parte si riflette nella nuova e drammatica prova di forza, fra governo e terrorismo islamico, in Algeria. 

 

Gli uomini blu del deserto non riconoscono padroni, neanche africani. Tutta la fascia di Paesi che sono emersi dagli imperi coloniali – una fascia che grosso modo taglia l’Africa all’altezza del Sahara meridionale, dalla Mauritania al Sudan - soffre dello stesso problema: la difficile convivenza tra un Nord desertico, di cultura araba e nomade, ed un Sud abitato da agricoltori stanziali di stirpe africana. Rivolte e guerre civili, dagli inizi degli Anni Sessanta del secolo scorso, hanno avuto questo denominatore comune: in Ciad, Niger, Sudan - oggi diviso in due dopo un conflitto sanguinoso - e in Mali. 

 

L’incapacità internazionale di affrontare il «problema Tuareg» - come è sempre stato grossolanamente definito - e le deficienze delle classi dirigenti locali, hanno prodotto Stati fragili o falliti; con grandi sofferenze per le popolazioni. Il Mali è ancora più povero oggi di quanto non fosse due decenni fa.

Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur. 

 

La storia degli ultimi anni? Mentre a Bamako giunte golpiste guidate da giovani ufficiali deponevano primi ministri (colpo di Stato del 2012), nel Nord i tuareg storicamente laici e separatisti si alleavano con i fondamentalisti di Ansar Eddine e altri gruppi affiliati ad Al Qaeda nel Maghreb Islamico. Il Nord del Mali è stato così trasformato in uno stato rifugio di ogni traffico illecito e patria potenziale dei nemici del mondo occidentale. Le conseguenze della guerra di Libia hanno pesato in modo negativo, dando luogo ad una «doppia polveriera» Maghreb-Sahel. 

 

Ecco: tutto questo dovrebbe essere tenuto in considerazione da chi - parecchi in Italia e ancora di più in Europa - considera l’intervento in Mali come l’ennesimo sussulto antistorico e neo-colonialista di una Francia sempre uguale a se stessa. In questi interventi nel vicinato d’Europa, l’America di Obama resta in secondo piano: appoggia ma non guida. Lo spazio lasciato da Washington non è colmato tuttavia dall’Europa o da attori regionali che ancora non sono tali; vede in prima fila Parigi. Si può - lo abbiamo fatto - discutere sulle scelte compiute in Libia. Ciò non toglie che l’intervento in Mali non sia una scelta; è una necessità. Resa legittima, guardando al diritto internazionale, dalla Risoluzione 2085 dell’Onu e dalla diretta richiesta di assistenza da parte del Presidente maliano Traoré.

 

E’ abbastanza paradossale che altri grandi Paesi europei pensino di potere lasciare sola la Francia, quando il futuro del Sahel riguarda, insieme alla Francia, l’Europa nel suo insieme. E’ in particolare la sponda Sud del continente a dovere riprendere i fili di una vera e propria strategia europea per l’Africa, fatta di cooperazione economica e di soluzione politiche, non solo militari. Ma senza chiudere gli occhi di fronte a una crisi come questa: fra interventismo solitario di Parigi, e tentazioni attendiste di Berlino, l’Italia ha un ruolo importante da svolgere. Appoggio logistico e negoziato politico ne sono la condizione. La sicurezza nazionale deve spingerci a superare sia i calcoli elettorali che le insicurezze europee. 

* Sottosegretario agli Affari Esteri 

da - http://lastampa.it/2013/01/19/cultura/opinioni/editoriali/bamako-e-piu-vicina-di-kabul-Nov0QpIgcKpQoX9nshOzuK/pagina.html


Titolo: MARTA DASSU'. - Usa-Europa nuovo patto atlantico
Inserito da: Admin - Febbraio 06, 2013, 12:30:02 am
Editoriali
05/02/2013

Usa-Europa nuovo patto atlantico

Marta Dassù*

Nel Secolo del Pacifico, l’America rilancia l’Atlantico. Mentre l’Europa si chiede se e in che modo Obama 2 effettuerà il fatidico «pivot to Asia», il vicepresidente Joe Biden, dalla Conferenza di Monaco, chiede agli europei di costruire un’area di libero scambio: un mercato unico fra le due sponde dell’Atlantico, non in nome dei vecchi tempi che furono ma di quelli che verranno. 

 

Va detto subito: non è un’idea nuova. Nuova è la convinzione con cui la sostiene un’amministrazione americana che vede ancora nell’Europa, non nella Cina, il partner economico decisivo. I dati sono lì a dimostrarlo. Europa e Stati Uniti generano insieme un flusso commerciale di 2 miliardi di euro al giorno, un terzo del totale mondiale. Un accordo di libero scambio - progetto sostenuto in questi anni soprattutto da Germania, Gran Bretagna e Italia - avrebbe benefici economici tangibili. Ma l’idea non è mai riuscita ad andare oltre le affermazioni di principio, data la complessità delle tematiche affrontate e la capacità di interdizione delle varie lobby che traggono profitto da mercati protetti. Oggi - fallito il negoziato di Doha sul commercio globale, passate le elezioni americane (fasi in cui qualunque apertura commerciale è un tabù) e constatato, da parte degli europei, che la domanda è «esterna» o non è - sono riunite finalmente le condizioni necessarie, economiche e politiche, per avviare il negoziato. Sulla carta, almeno. 

 

Partiamo allora dalla carta, ossia dal primo rapporto del Gruppo ad Alto livello fra Usa ed Ue che sta lavorando ad abbattere le barriere (un secondo rapporto dovrebbe uscire fra poco). L’obiettivo è un accordo non settoriale ma ampio, che includa i flussi commerciali, i servizi, gli investimenti, gli appalti pubblici, le disposizioni in materia di Pmi, l’accesso alle materie prime e all’energia. Un comprehensive free trade agreement (Fta) che finirebbe per fissare, considerate le dimensioni delle due economie, gli standard internazionali in moltissimi settori dell’attività economica. 

 

I benefici, per l’Europa e per gli Stati Uniti, sono stimati in una crescita del Pil di oltre mezzo punto all’anno, con un aumento degli scambi e soprattutto degli investimenti diretti, la cui importanza è spesso sottovalutata: gli investimenti americani in Europa (da cui dipendono numeri importanti di posti di lavoro) sono il triplo di quelli diretti in Asia; gli investimenti europei negli Usa sono otto volte superiori a quelli in India e Cina messi insieme. Come dire: l’economia atlantica esiste.

 

Un accordo del genere con l’America è un obiettivo molto rilevante per l’Italia, che ha attualmente con gli Stati Uniti un volume di scambi superiore ai 40 miliardi di dollari l’anno - volume in crescita. Non esiste un «sostituto» credibile per questo mercato; se c’è un punto chiarito da questi anni di crisi dell’eurozona, è che la crescita dei Paesi emergenti, per quanto rapida e importante in prospettiva, non è in grado di tirarci fuori dalle secche, non può ancora sostituirsi al consumatore americano e al suo potere d’acquisto. Tanto più per una economia come la nostra, dove solo la domanda estera compensa la durezza dello slow-down domestico. 

 

C’è un dato ulteriore: l’accordo commerciale consentirebbe all’Europa di agganciarsi alla ripresa economica che, con ogni probabilità, interesserà gli Stati Uniti. Welcome back, America: esistono pochi dubbi, a mio giudizio, che la locomotiva americana, considerata un relitto del passato, stia per ripartire, grazie ad una serie di vantaggi competitivi che gli Stati Uniti hanno ancora. Vediamoli. Prima di tutto, la disponibilità di energia a basso costo: la rivoluzione del tight oil and shale gas consentirà in pochi anni agli Usa di ridurre la dipendenza dall’estero e di diventare anzi un esportatore netto di idrocarburi, con grandi vantaggi per le imprese statunitensi. E’ un dato, meglio averlo chiaro da ora, che tenderà a ridurre l’interesse geopolitico americano per il Mediterraneo, richiamando l’Europa alle proprie responsabilità primarie di politica estera. Secondo vantaggio: il dominio globale delle tecnologie informatiche e dei nuovi media - come ricordava di recente Franco Bernabè al Foro imprenditoriale di Santiago del Cile. E infine il dollaro debole, che probabilmente rimarrà tale nel futuro prevedibile. In quest’ultimo caso, il vantaggio competitivo per l’America si trasforma in problema serio per l’Europa. Aggiungendo al dollaro debole la politica monetaria espansiva del nuovo governo giapponese, il risultato è infatti un euro comparativamente così forte da danneggiare gli interessi commerciali europei. Ma proprio per questo, un accordo di libero scambio aiuterebbe; aiuterebbe a limitare i danni di una guerra delle valute non dichiarata e già in corso. 

 

Conclusione: arrivare a un accordo transatlantico non sarà affatto facile. Il diavolo, come al solito, sta nei dettagli e qui i dettagli - le barriere non tariffarie - sono molto rilevanti. Ma i benefici sono evidenti. Con un vantaggio politico aggiuntivo, interno all’Ue questa volta: aiutarci a tenere Londra in Europa. Nel Secolo almeno in parte Atlantico, perdere la Gran Bretagna, dal punto di vista economico e della sicurezza, non converrebbe né agli Stati Uniti, né all’Ue, né agli inglesi. 

 

*Sottosegretario agli Affari Esteri 

da - http://lastampa.it/2013/02/05/cultura/opinioni/editoriali/usa-europa-nuovo-patto-atlantico-bAXSq3uTX8ejEDyJMWvFdL/pagina.html


Titolo: MARTA DASSU'. - Dal Giappone una lezione per l’Europa
Inserito da: Admin - Agosto 08, 2013, 04:41:00 pm
Editoriali
08/08/2013

Dal Giappone una lezione per l’Europa

Marta Dassù*


Caro Direttore, l’economia giapponese sembrava non doversi risollevare più.
Eppure, non c’è nulla come una visita a Tokyo per dare l’idea di un Paese che ha ritrovato sicurezza, dopo quasi venti anni di stagnazione. 

 

L’Abenomics, insomma, è prima di tutto una iniezione di fiducia in sé: costruita sull’espansione monetaria e sul nazionalismo geopolitico. Funzionerà? 

 

Con la vittoria delle elezioni per la camera alta dello scorso 21 luglio, il Primo Ministro Shinzo Abe ha i numeri per mettere alla prova la propria ricetta. La formula dell’Abenomics è abbastanza semplice. Dal dicembre 2012, il Primo Ministro giapponese, con una strategia sostanzialmente keynesiana, ha dato il via ad un vasto programma di stimoli fiscali, accompagnati da politiche monetarie espansive. Il nuovo Governatore della Bank of Japan, Haruiko Kuroda, ha fissato un target di inflazione al 2%, per combattere il decennale apprezzamento dello Yen. Parallelamente, il governo giapponese ha avviato i negoziati per la Trans-Pacific Partnership, l’accordo di libero scambio con gli Stati Uniti e altri Paesi dell’arco del Pacifico.

 

I risultati sono stati rapidi, anche perché la psicologia è parte integrante dell’economia. Nel primo semestre del 2013 il Giappone è riuscito a rilanciare le proprie esportazioni e ad ottenere tassi di crescita del 4%, la performance migliore del G7. Prima ancora che economica, la rivoluzione di Abe è culturale. Il Giappone che ho visitato nelle scorse settimane per promuovere Expo 2015 è un Paese nuovamente dinamico, che cerca di scrollarsi di dosso il senso di declino, di un inevitabile tramonto. 

 

Certo, gli ostacoli più insidiosi non sono ancora stati affrontati. Per rendere sostenibile la sua strategia - senza che il debito pubblico, già molto alto, provochi un collasso dei conti - Abe dovrà introdurre una serie di riforme strutturali che ancora non si vedono. Le famose due «frecce» dell’Abenomics (espansione monetaria e stimoli fiscali) non reggeranno senza questa terza gamba: per il Fondo Monetario, esistono rischi consistenti che ciò non avvenga in tempi utili. Ma la due giorni di Policy Review della Bank of Japan si è chiusa con un bilancio incoraggiante - mentre l’indice Nikkei continua ad oscillare. 

 

Il governo giapponese sta solo comprando tempo? Per sfuggire alla trappola demografica di una popolazione che invecchia già da alcuni decenni, il sistema pensionistico dovrà essere radicalmente riformato. Il mercato del lavoro attende ancora di essere liberalizzato, soprattutto nel settore dei servizi, favorendo la partecipazione delle donne e investendo di più nell’educazione. Sembra, guardando dall’Italia, un gioco di specchi. 

 

Il rilancio economico del Paese è stato accompagnato da una crescente retorica nazionalista. Nella visione del premier nipponico, la ripresa economica dovrebbe procedere parallelamente al rafforzamento dell’apparato militare del Paese e ad una strategia diplomatica in grado di rilanciare il Giappone come grande attore asiatico. In più di un’occasione, Abe ha sostenuto di volere emendare la Costituzione pacifista, figlia della sconfitta nella Seconda guerra mondiale. Bisogna vedere dove si fermerà l’uso della carta nazionalista. Il rischio - questa volta geopolitico - è che il nazionalismo ritrovato del Giappone, combinandosi a tentazioni simili da parte di una Cina che sperimenta un primo (relativo) rallentamento dell’economia, destabilizzi lo scenario dell’Asia Orientale.

 

Se la performance economica consentirà ad Abe di tenere sotto controllo spinte eccessive in questo senso, il ritorno di Tokyo sulla scena internazionale - il «coming back» del Giappone - avrà conseguenze molto rilevanti e positive. I Brics, dopo aver trainato parte della crescita dalla crisi finanziaria in poi, stanno entrando in una fase di aggiustamento che ne smorzerà l’impatto; anche per questa ragione, le economie avanzate possono - anzi, debbono - tornare a svolgere il ruolo di volano dello sviluppo globale. Gli Stati Uniti, grazie a una serie di fattori fra cui la rivoluzione energetica, stanno di nuovo crescendo; e soprattutto cominciano a sperare che la crescita continui. Se anche il Giappone dovesse risollevarsi, il Primo Mondo potrebbe riacquistare la sicurezza necessaria per tornare a giocare da protagonista. L’Europa deve evitare di rimanere marginalizzata. Il problema è quello di agganciarsi al vecchio/nuovo Occidente: attraverso l’accordo commerciale con gli Stati Uniti ma soprattutto ritrovando strumenti e fiducia per uscire dalla trappola dell’austerità.


*Vice ministro degli Esteri 

da - http://lastampa.it/2013/08/08/cultura/opinioni/editoriali/dal-giappone-una-lezione-per-leuropa-02dW8yGqFIAoOKJnpHmHBK/pagina.html


Titolo: Marta Dassù - Hillary porterà la tenacia alla Casa Bianca
Inserito da: Arlecchino - Novembre 08, 2016, 10:57:36 am
Hillary porterà la tenacia alla Casa Bianca

07/11/2016
Marta Dassù

Se Hillary Clinton diventerà Presidente degli Usa dovrà ringraziare Donald Trump. La sensazione netta, infatti, è che avrebbe perso contro un altro candidato. Un po’ perché il ciclo politico, dopo 8 anni di Obama, spinge in teoria verso i Repubblicani - se il loro partito continuasse ad esistere. 

Un po’ perché Clinton è poco amata dalla gente. Ma Trump ha sconvolto la normalità delle cose: coi toni estremi del suo appello populista e nativista alle classi medio/basse dell’America bianca e virile, si è tenuto stretto una parte molto rilevante dell’elettorato e al tempo stesso ne ha sacrificata un’altra, dai latinos alle donne. Queste ultime non guardano con particolare indulgenza a Hillary - lo si è visto nel 2008, quando hanno votato per Barack Obama. Tuttavia, di fronte al tasso di misoginia riemerso con Trump, hanno cominciato a spostarsi verso Hillary, inclusa una parte delle donne repubblicane. Qui, la candidata democratica deve ringraziare una seconda persona: Michelle Obama, che è riuscita a presentare una delle più brutte campagne elettorali della storia americana come una scelta di civiltà e dignità degli Stati Uniti, contro The Donald e nel nome delle donne. Attraverso le parole di Michelle, Hillary Clinton - la vecchia esponente della «casta», troppo amica della grande finanza e troppo poco trasparente - è tornata ad essere semplicemente una donna dedicata e competente: la guida giusta per un’America che possa ancora tenere in piedi la coalizione delle minoranze ereditata da Obama, liberandosi di troppi stereotipi, inclusi quelli sessisti. 

Hillary deve infine ringraziare se stessa. Solo una persona con una dose assolutamente straordinaria di «tenacia» (la sua prima dote è la resilienza dicono tutti quelli che l’hanno conosciuta in mezzo secolo di carriera politica) avrebbe retto alla sconfitta nelle primarie del 2008 e avrebbe poi usato quattro anni durissimi come Segretario di Stato per prepararsi di nuovo alla Casa Bianca. 

Ma se Hillary ce la facesse davvero, che Presidente sarà? Rispondere è meno semplice di quanto sembri. Hillary è un personaggio pubblico da una infinità di tempo ma ha sempre tenuto nascosti i suoi istinti. E per un Presidente l’istinto conta. Proviamo a fare qualche ipotesi, collegando scelte passate e sfide future.

 Hillary Clinton sarà - per vocazione - un Presidente domestico. Nel senso che la sua vera propensione sarà quella di lasciare il proprio segno sull’America, prima che sul sistema internazionale. Da questo punto di vista, avrà un peso decisivo la nomina del successore di Scalia alla Corte suprema. E conteranno le riforme interne. Dai tentativi di riforma sanitaria compiuti (e falliti) come First Lady negli Anni ’90 fino alle primarie contro Bernie Sanders, Hillary è consapevole che il tasso di disuguaglianza interna alla società americana sta superando limiti di guardia. Trump è il sintomo di una patologia. Che va curata per salvaguardare la democrazia. L’elenco degli impegni presi, anche per tenere a bordo i voti (giovanili) di Sanders, è lungo: dalla riforma fiscale, all’aumento del salario minimo, alla reintroduzione del Glass Steagall Act (la separazione fra banche di risparmio e di investimento), a fondi nelle infrastrutture, alla riforma dell’immigrazione. In breve, Hillary tenderà a distaccarsi almeno in parte dalla eredità economica di Bill: sarà meno clintoniana di quanto sia mai stata. Il problema di fondo è che, se i democratici non riusciranno a recuperare almeno il Senato, avrà ben poche leve per riuscire. L’America del dopo 2016 rischia di essere bloccata, oltre che drammaticamente polarizzata. 

Sul piano internazionale, il disimpegno parziale degli Stati Uniti è una tentazione potente. La realtà, tuttavia, è che i presidenti americani sono regolarmente risucchiati dalle crisi esterne. E Clinton, rispetto ad Obama, tenderà a non lasciare troppi vuoti. Nella sua famosa intervista a The Atlantic, Obama ha definito se stesso un «realista». Hillary, come formazione e come segretario di Stato, è considerata piuttosto una «wilsoniana», propensa all’interventismo. Si può prevedere che l’America cambi registro in Siria e che Hillary decida per un confronto più duro con Putin. Gli europei della Nato saranno messi sotto pressione. 

Tuttavia - questa la terza previsione possibile - la prima donna Presidente degli Stati Uniti guarderà verso il Pacifico, prima che verso l’Atlantico. L’errore che facciamo regolarmente, come europei, è di pensare che il «nostro» candidato sarà anche interessato a gestire le sorti del vecchio Continente. La tensione con la Russia costringerà l’America a non trascurare un’Europa che, vista da Washington, è poco vitale sul piano economico, sta perdendosi per strada Londra e non contribuisce abbastanza alla difesa comune. Ma Hillary è convinta della priorità del Pacifico. E dovrà decidere, come Presidente, se riportare in vita il Tpp (il trattato commerciale con i Paesi del Pacifico, concepito anche per contenere la Cina) o se confermare la linea di «nazionalismo economico» tenuta nella campagna elettorale. 

Questo sarà uno dei dilemmi principali per la presidenza Clinton. Paradossalmente Hillary si troverà a gestire, un paio di decenni dopo, i costi sociali e politici della globalizzazione economica promossa da Bill Clinton.

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Titolo: Marta DASSU'. - Costi e benefici del dialogo con Donald
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 07, 2017, 04:11:52 pm
Costi e benefici del dialogo con Donald

Pubblicato il 06/02/2017 -- Ultima modifica il 06/02/2017 alle ore 07:13
Marta Dassù

Dopo la prima telefonata fra Donald Trump e Paolo Gentiloni sappiamo che il presidente americano sarà a Taormina per il G7 italiano. Bene. Ma è anche bene discutere come impostare le relazioni con un Presidente rivoluzionario. In epoca di «deal» bilaterali, Roma non può più dare per scontato la vecchia regola aurea della propria diplomazia, secondo cui atlantismo ed europeismo si rafforzano a vicenda. E neanche la vecchia sub-regola, secondo cui l’appoggio di Washington è sempre servito a rafforzare il potere negoziale dell’Italia verso i grandi Paesi europei.

Se il passato è passato, l’Italia deve valutare in modo neutro, non ideologico, costi e benefici del rapporto con un’amministrazione americana che appare intenzionata - per ora a parole, poi si vedrà - a rilanciare il rapporto con una Gran Bretagna in uscita dall’Ue, ad appoggiare le forze politiche sovraniste rispetto a quelle europeiste e a vedere nella Germania un problema, piuttosto che la soluzione del problema. 

Guardiamo brevemente ai costi potenziali.
Primo: è particolarmente delicato, per l’Italia, il tema del «burden-sharing» nella Nato (la divisione degli oneri della difesa). Per un Paese ad alto debito pubblico, con una crescita anemica e già in seria difficoltà rispetto ai vincoli europei, è difficile immaginare un rapido aumento delle spese militari verso l’obiettivo del 2% del Pil (la spesa militare italiana è ancora di poco superiore all’1%, nonostante gli impegni che abbiamo assunto sui tavoli Nato).

Sempre nella colonna dei costi potenziali: se a Washington prevalesse davvero un orientamento protezionista, ne soffrirebbe non solo la Germania ma anche un Paese export-driven come l’Italia, che ha forti interessi economici sia nel mercato interno europeo che nel mercato americano. In genere, e come ha dimostrato il travagliato dibattito sul Ttip – l’accordo sul commercio e gli investimenti fra i due lati dell’Atlantico, ormai gettato alle ortiche -, l’Italia ha sempre qualcosa da perdere di fronte a una rottura aperta fra Berlino e Washington. È uno scenario che oggi non può essere escluso. 

Ai costi economici si sommano, per il governo attuale, costi politici potenziali, collegati al fatto che le forze «neo-sovraniste» italiane si ritengono rafforzate dall’ascesa di Trump - oltre che dalla politica di Putin. A torto o a ragione, si vedrà meglio dopo le elezioni francesi, gli anti-euro nostrani ritengono di potere contare su un contesto molto più favorevole.

Ma vediamo anche i possibili benefici. Una distensione americana con la Russia (in vista di una collaborazione sul fronte siriano e nella lotta all’Isis) va nella direzione a lungo auspicata dai governi italiani - in questo caso con un sostegno bipartisan e un ovvio interesse dei gruppi industriali. Non è scontato, tuttavia, che l’apertura di Trump a Putin funzioni davvero; l’Italia - senza immaginarsi in ruoli eccessivi - potrebbe favorire un dialogo con la Russia che non passi completamente sopra la testa dell’Europa.

Secondo beneficio potenziale, da valutare alla prova dei fatti: l’appoggio americano (confermato da Trump a Gentiloni) ai tentativi italiani di stabilizzazione della Libia, incluso l’ultimo accordo fra Roma e Tripoli per arginare i flussi migratori dal Mediterraneo. Il dossier Libia, in chiave di rapporto Italia/Stati Uniti, è in realtà più complesso di quanto non sembri. Come noto, l’Italia sostiene il premier Fayez al-Sarraj, al governo di Tripoli dal marzo scorso; e ha deciso, quale unico Paese europeo, di riaprire la propria ambasciata. Ma questo avviene in un contesto di persistente debolezza del governo Sarraj, in una Libia ancora fortemente segnata dalla lotta interna fra fazioni e dall’ascesa in Cirenaica del generale Khalifa Haftar, appoggiato dall’Egitto, da Mosca e meno apertamente dalla Francia. Come scriveva Maurizio Molinari su questo giornale, gli attori esterni si trovano quindi di fronte a un bivio: o appoggiare la spaccatura definitiva della Libia o favorire con Roma un tentativo di conciliazione fra Tripoli e Tobruk. Le nuove scelte di Washington, dopo la sponda che John Kerry, ex segretario di Stato, aveva offerto a Roma, saranno rilevanti: l’interesse strategico dell’Italia è che un accordo eventuale Stati Uniti-Russia sul fronte mediterraneo non spinga verso una spartizione di fatto della Libia ma in senso opposto. Lo richiedono sia le nostre priorità in campo migratorio che le nostre priorità energetiche (difesa dei terminali petroliferi in Libia e sfruttamento del giacimento di Zohr in Egitto, di cui Eni ha venduto una quota a Rosfnet).

Più problematica, per l’Italia, è la questione generale dei rapporti con l’Islam. Un aumento dell’impegno americano in chiave anti-Isis, e un accordo Stati Uniti-Russia nello stesso senso, rientrano nei nostri interessi di sicurezza; ma l’Italia, con le sue basi militari e la sua sovra-esposizione geografica, dovrà discuterne le modalità. Roma ha invece criticato, anche se in modo soft, il bando temporaneo deciso da Trump nei confronti dei rifugiati da sette Paesi islamici, fra cui Libia ed Iran. Sono posizioni che, al di là di qualunque considerazione di principio, riducono la possibilità che il governo italiano ottenga ciò che persegue da anni: accordi internazionali ed europei per la gestione dei flussi dal Mediterraneo.

La rivoluzione Trump travolge vecchi assunti su cui si è retta, dal 1945 in poi, la collocazione internazionale dell’Italia. Al tempo stesso, costringe il nostro Paese a scuotersi dalle sue vecchie pigrizie mentali, per ragionare - finalmente - in termini di costi e benefici. Letta in questa prospettiva, la relazione che è appena cominciata con l’amministrazione Trump è più ambivalente di quanto non sembri. E dovrà essere impostata con molta attenzione da parte di un Paese come il nostro: pesante e fragile sul piano economico, instabile e diviso su quello politico, con una posizione geopolitica cruciale sul fronte mediterraneo. La tenuta dell’Italia sarà decisiva per il destino dell’Europa post-Brexit; e la tenuta dell’Unione europea - con le riforme che appaiono ormai indispensabili, incluse le differenti velocità di cui ha appena parlato Angela Merkel - sarà decisiva per l’Italia, troppo vulnerabile per scegliere un destino solitario. Nella logica Trump del «deal-making», Roma dovrà argomentare molto chiaramente che il beneficio della relazione con Washington non può comportare dei costi sul lato europeo. È essenziale, per i nostri interessi nazionali, che la nuova amministrazione americana ne tenga conto: per pragmatismo, se non per convinzione.

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Titolo: MARTA DASSÙ. Innovare senza strappi
Inserito da: Arlecchino - Giugno 09, 2018, 06:14:32 pm
Innovare senza strappi

Pubblicato il 09/06/2018
Ultima modifica il 09/06/2018 alle ore 07:54

MARTA DASSÙ

Il dibattito vero sul rapporto Italia-Europa riguarda le modalità con cui un Paese come il nostro - terza economia europea, in una posizione geopolitica delicata ai confini mediterranei dell’Ue - può riuscire ad esercitare la propria influenza sulle decisioni collettive. Minacciare l’uso di un’arma nucleare (Italexit) danneggerebbe l’Italia prima dell’Europa. 

La complicata formazione del governo Conte è servita a chiarire in anticipo questo punto. D’altra parte, un’Italia che voglia allentare in modo unilaterale i vincoli europei verrà colpita dai mercati prima che dall’Ue. Rimane in effetti una sola scelta sensata: concepire una politica europea degna di questo nome. Può sembrare una conclusione paradossale, in epoca sovranista. Ma la realtà è che contrapporre sovranismo ed europeismo falsa il problema: è dentro all’Ue, non fuori, che l’Italia deve riuscire a difendere i propri interessi nazionali. Come e con quale strategia negoziale è la decisione che la nuova coalizione di governo deve assumere rapidamente. 

Un atteggiamento di questo genere - consapevole dei rischi di una uscita unilaterale dall’euro ma rivolto a fare pesare le priorità dell’Italia più di quanto non sia avvenuto fino ad oggi - corrisponde alle inclinazioni dell’opinione pubblica, largamente contraria alla difesa dello status quo in Europa: l’Italia, indica Eurobarometro, è il Paese più insoddisfatto, dopo la Grecia, del modo in cui l’Ue sta gestendo le questioni economiche (il 60% circa) e soprattutto le questioni migratorie (l’80%). 

Come scrive il politologo Ivan Krastev (“After Europe”), questo secondo tema - più dell’euro - ha radicalmente cambiato le dinamiche politiche in Europa, alimentando pulsioni populiste e nazionaliste. E’ un trend che ha interessato prima la periferia orientale dell’Europa, il cosiddetto gruppo di Visegrad; ha poi investito la Gran Bretagna, dove il problema migratorio (vero o percepito) ha contribuito largamente alla vittoria di Brexit e sta adesso toccando l’Italia, ossia il cuore dell’Unione europea. Da questo punto di vista, un aumento della capacità europea di governare i processi migratori non corrisponde solo agli interessi nazionali di un Paese esposto come l’Italia; è indispensabile per prevenire una graduale implosione dell’Ue.

Esistono gli spazi perché l’Italia riesca ad ottenere dai partner europei qualcosa di più in questo settore? E quali sono le alleanze possibili? Funzionari italiani sostengono che anche il governo Gentiloni era pronto a bocciare una riforma del regolamento di Dublino che non risolve i problemi dell’Italia: gli oneri dell’accoglienza continuerebbero a pesare sui paesi di primo ingresso ed è esclusa qualunque forma di «ricollocazione». Il fattore nuovo è che Matteo Salvini, come ministro dell’Interno, sembra scambiare quella che è una convergenza tattica con i paesi di Visegrad - i più contrari in assoluto a qualunque solidarietà europea in materia di immigrazione - per un’intesa strategica.

 

Un’alleanza con Viktor Orban, se valutata in base agli interessi nazionali dell’Italia e non ad affinità ideologiche che lasciano sempre il tempo che trovano in politica estera, non ha davvero alcun senso. Lascerebbe l’Italia isolata, come rischia in parte di accadere sul dossier Russia. Può darsi che le dichiarazioni estemporanee di Trump sull’esigenza di riportare Putin al tavolo del G7/G8 offrano qualche margine in più all’Italia, che aspira da sempre a proporsi come canale di dialogo fra il mondo euro-atlantico e Mosca. Il punto è che per essere minimamente credibile, l’Italia non può giocarsi, con strappi unilaterali (sanzioni), l’aggancio occidentale - o ciò che ne rimane.

Tornando alle questioni migratorie, più che guardare a Visegrad l’Italia dovrebbe guardare con maggiore attenzione alla Germania. A giudicare dalla recente intervista di Angela Merkel alla «Frankfurter Allgemeine», Berlino sembra disposta a contemplare, nonostante la debolezza interna della coalizione, passi avanti importanti sul diritto d’asilo: l’armonizzazione europea e strumenti congiunti per garantire sia il controllo delle frontiere che la politica dei rimpatri. 

Le alleanze cambiano sulla gestione dell’euro-zona. Qui la Germania continua a difendere - l’intervista di Merkel lo conferma - aggiustamenti graduali che non modificano gli squilibri attuali, incluso il surplus tedesco; e che non scalfiscono la netta prevalenza dei grandi creditori sui grandi debitori. L’Italia, che avrebbe bisogno di misure di condivisione del rischio (a partire da un’Assicurazione comune sui depositi bancari) dovrà piuttosto cercare una convergenza con la Francia. Ma avendo chiaro che Parigi non sceglierà mai un’alleanza con Roma (o con la Madrid del dopo Rajoy) a scapito dei rapporti con Berlino. 

Come si vede, la politica europea è un affare maledettamente complicato. Si può anche sostenere che il nostro Paese abbia avuto per anni un peso contrattuale inferiore alle sue possibilità. La sfida tuttavia è di aumentarlo, non di distruggerlo. Il nuovo governo deve avere chiari i vincoli di un Paese ad alto debito pubblico: la credibilità nazionale è un requisito irrinunciabile. Deve essere consapevole che, per ottenere risultati concreti a Bruxelles, serve uno sforzo preciso e molto più consistente di tutti i livelli dell’amministrazione italiana: la sfida della sovranità si vince così, non con un ripiegamento domestico. E vanno perseguite appunto le alleanze corrette sui singoli dossier, tenendo conto che, nel dopo Brexit, gli allineamenti fra Paesi sono molto più mobili e l’asse tra Francia e Germania è meno solido del previsto. 

Mentre l’Italia vive un cambiamento politico radicale, il resto d’Europa deve trarre la lezione giusta dall’ascesa al governo, in un grande Paese fondatore, di partiti così distanti dall’europeismo tradizionale. L’Italia ha naturalmente una responsabilità primaria nella costruzione del proprio futuro, ma quel che avverrà del suo caso sarà, per l’Europa, più rilevante di Brexit: potrà segnare l’alternativa tra una riforma indispensabile dell’Unione e la sua graduale disgregazione.

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Titolo: ANAIS GINORI G7, sulla Libia documento congiunto voluto da Francia e Italia.
Inserito da: Arlecchino - Aprile 07, 2019, 11:46:51 pm
G7, sulla Libia documento congiunto voluto da Francia e Italia.
"Haftar si fermi"G7, sulla Libia documento congiunto voluto da Francia e Italia.

Parigi e Roma mettono da parte le storiche divisioni grazie all'iniziativa del ministro degli Esteri Moavero.
Il titolare della Farnesina: "Ore drammatiche, cessino le ostilità"

Dalla nostra corrispondente ANAIS GINORI
06 aprile 2019

PARIGI - La nuova escalation in Libia, con il generale Haftar che continua a marciare verso Tripoli, ha in parte sconvolto la riunione dei ministri degli Esteri del G7 in corso a Saint-Malo, in Francia. Ed è stata l'Italia a premere perché la crisi in corso fosse messa subito al centro del vertice cominciato ieri in Bretagna. Su iniziativa del ministro Enzo Moavero, la discussione sulla Libia, prevista inizialmente solo stamattina, è stata affrontata già in serata, con la pubblicazione di un comunicato nel quale i ministri del G7 chiedono l'immediato cessate il fuoco e "la fine dei movimenti militari verso Tripoli".

Un chiaro avvertimento a Haftar, l'uomo forte della Cirenaica, considerato fino a poco tempo fa l'interlocutore privilegiato dalla Francia nello scenario libico. Non è un mistero che il generale abbia goduto dell'appoggio dei francesi, insieme a quello dell'Egitto. Ma forse qualcosa sta cambiando anche a Parigi. "Siamo fermamente convinti che non c'è soluzione militare al conflitto libico" recita il comunicato del G7, di cui la Francia è presidente di turno. E poi il riferimento esplicito ad Haftar e alla sua milizia: "Qualsiasi fazione o protagonista libico che alimenti il conflitto civile minaccia persone innocenti e diventa ostacolo alla pace che i libici si meritano".

"Abbiamo parlato di Libia proprio durante gli sviluppi drammatici di queste ore" ma, ha sottolineato il titolare della Farnesina "è molto importante che cessino le operazioni militari che possono contribuire ad accrescere il livello di destabilizzazione".

La dichiarazione dei ministri G7 ribadisce poi il sostegno al rappresentante dell'Onu e ai negoziati da lui avviati. E' un risultato diplomatico importante, sottolineano fonti italiane, visto che il testo è firmato da tre paesi membri del Consiglio di sicurezza, ovvero Stati Uniti, Francia e Regno Unito. E' da Londra che è partita la richiesta di convocare la riunione di emergenza del Consiglio di sicurezza dell'Onu. Mentre il fatto che la diplomazia francese abbia subito accolto l'idea del ministro Moavero di diffondere un comunicato congiunto e unitario sulla Libia è considerato un altro segnale importante. In questo momento, Emmanuel Macron non ha bisogno che la Libia precipiti nella guerra civile. E nonostante le antiche rivalità, Francia e Italia sono condannate a intendersi, almeno in questa fase.
© Riproduzione riservata - 06 aprile 2019

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