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Autore Discussione: STEFANO LEPRI.  (Letto 55775 volte)
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« Risposta #90 inserito:: Marzo 21, 2014, 11:57:06 pm »

Editoriali
20/03/2014

Conti pubblici, il rischio dell’autogol
Stefano Lepri

Nelle attuali condizioni in cui si trova l’Italia, il limite del 3% al deficit può essere definito «anacronistico» soltanto in un senso opposto a quello che intende Matteo Renzi. 

Non è troppo basso: è invece troppo alto per assicurare un calo duraturo del debito pubblico italiano. Cosicché continuare a proclamare che vorremmo oltrepassarlo rappresenta, all’estero, un vero autogol.

Nel breve termine, per uscire dal pantano in cui siamo, è ragionevole invocare sul deficit qualche spazio di manovra in più. Se si avviano riforme importanti, che all’inizio comportano anche effetti negativi, può essere legittimo derogare alle regole (assai più dure del 3% di deficit) stabilite sia dal nuovo articolo 81 della nostra Costituzione sia dal «Fiscal Compact» europeo.

Ma nel medio periodo occorre che il debito non continui ad aumentare. Basta una aritmetica elementare per arrivarci. Con un debito di 2070 miliardi e un prodotto lordo di 1560, se in un anno la prima delle due grandezze cresce di 46,8 miliardi (tre centesimi di 1560) per evitare che il rapporto salga la seconda deve salire di almeno il 2,3%.

Così com’è l’economia italiana ha, secondo i calcoli economici correnti, un potenziale di crescita tutt’al più dello 0,5% annuo. 

Sommando questa crescita reale e l’aumento dei prezzi, il prodotto lordo può dunque salire al massimo di circa 2,5 punti (0,5 più l’obiettivo Bce del 2% di inflazione) in una media pluriennale. In questo modo il debito tutt’al più scenderebbe di un’inezia.

Conteggi di questo tipo preoccupano gli altri Paesi e le istituzioni internazionali. Nel mondo c’è abbondanza di capitali, dunque in linea di principio spazio per finanziare i debiti; ma proprio questa abbondanza moltiplica l’instabilità, fa spostare gli investitori in modo volubile alla ricerca di maggiori rendimenti. Oggi l’Italia torna ad attirare, domani chissà.

E poi, in nome di che cosa si può rivendicare al nostro Stato la facoltà di fare più debiti, se è dilagata nel Paese la convinzione che i debiti precedenti li abbia accumulati spendendo male? Nelle proposte formulate dal commissario alla spesa Carlo Cottarelli c’è tutto il necessario per riesaminare come la nostra amministrazione pubblica impiega il denaro dei contribuenti.

 
Però, guarda caso, appena si arriva al concreto molti dei fautori dei tagli alle spese si dileguano. Appena si capisce che occorre togliere qualcosa a qualcuno, affrontare questioni impopolari, prendere di petto interessi consolidati e radicati nella nostra società, ecco si fa ricorso a ben noti espedienti retorici: «ci vuole ben altro», «sono tagli rozzi», «rinunceremmo all’indispensabile».

Naturalmente le scelte, nel vasto menu proposto, dovrà compierle la politica. Ma intanto occorre dire che, dietro il gergo tecnico del rapporto, alcuni dei problemi cruciali sono stati posti. Innanzitutto, quello della corruzione. No, la parola non compare, nel rapporto consegnato al Parlamento. Ma di questo si parla, in almeno tre casi importanti.

Si tratta di corruzione burocratica, oltre che di semplice spreco per inettitudine o frammentazione di acquisti, quando si propone una «drastica riduzione del numero di centrali appaltanti». Si tratta di clientelismo parlamentare, collegi elettorali o favori a lobbies, quando si suggerisce il «taglio dei micro stanziamenti». Si tratta del malcostume della politica locale quando si ipotizza di chiudere le società partecipate da Comuni e Regioni che non svolgono servizi pubblici. Di questo è bene discutere, ancor più che degli aerei e delle portaerei, o di altre spese di prestigio da rimandare a tempi migliori: così si può riconquistare la fiducia dei cittadini nella politica.

Da - http://lastampa.it/2014/03/20/cultura/opinioni/editoriali/conti-pubblici-il-rischio-dellautogol-MCpN2fD0WY0WvbioYqoxsO/pagina.html
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« Risposta #91 inserito:: Aprile 04, 2014, 04:51:28 pm »

Editoriali

02/04/2014 - l’europa e la crisi
Le riforme per superare l’emergenza

Stefano Lepri

Un così alto livello di disoccupazione in Italia può essere fatto risalire a tre diversi errori del recente passato. Il primo è il ritardo con cui l’Italia ha dato inizio al risanamento del bilancio, nella seconda metà del 2011. Il secondo è la cattiva gestione della crisi dell’euro, tra istituzioni comuni deboli, sfiducia reciproca tra nazioni, ritardi.

Il terzo errore lo commisero governi e istituzioni del mondo quando, a metà del 2010, si illusero che aggiustamenti di bilancio rapidi e contemporanei in molti Paesi avrebbero riportato la fiducia tra gli operatori economici, senza causare una seconda recessione. Quale sia il peso relativo di ciascuno dei fattori è materia di dibattito, e lo resterà a lungo.

È difficile evitare che i disoccupati continuino ad aumentare anche nella prima fase della ripresa, specie se è fievole come in Italia. Quello che si può fare subito è riformare il mercato del lavoro in modo che il peso non ricada tutto sui giovani, rendendoli disperati; è procedere con le riforme, anche politiche, per alzare il morale del Paese.

Ricette miracolose non ne esistono. Attendendo che la Bce si muova, la novità è che nella campagna per il voto europeo l’austerità appare senza genitori. Il candidato del centro-destra, Jean-Claude Juncker, rifiuta di lasciare al rivale socialista Martin Schulz lo slogan che innanzitutto occorre lavoro; se gli si obietta che vota per lui Angela Merkel, ribatte vantando il sostegno dei greci di Nea Dimokratia.

Le proposte politiche restano diverse, è ovvio. Un vasto numero di disoccupati in presenza – come siamo – di capitali abbondanti e inoperosi fa propendere verso soluzioni di tipo keynesiano, in cui lo Stato mobilita risorse per creare lavoro; soluzioni care alla sinistra quasi ovunque, anche alla destra nei Paesi latini e in Giappone.

Ma quando i capitali appartengono perlopiù ad alcuni Paesi (come la Germania), i disoccupati ad altri, non è facile organizzare l’incontro, specie se Stati indebitati e sistemi-Paese inefficienti non ispirano fiducia. In Europa, proprio il molto che resta di sovranità nazionale fa ostacolo; all’opposto dell’illusione di creare lavoro uscendo dall’euro.

Anche per il contrasto di interessi nazionali, nel Nord del continente la dottrina dell’austerità resta in voga. Lo prova la difficoltà dei socialdemocratici tedeschi, da cui Schulz proviene, a proporre agli elettori del loro Paese le politiche di investimento e di solidarietà che gli elettori di sinistra di altri Paesi sperano dal candidato Schulz.

A favore dell’austerità viene giocato ora l’argomento che i due Stati più inguaiati, Portogallo e Grecia, cominciano a uscire dal tunnel. Eppure, nel dirsi allo stesso tempo preoccupato di un lungo periodo di bassa inflazione, il commissario europeo Olli Rehn implicitamente riconosce che i piani di Bruxelles erano difettosi.

Ci sono poi differenze. In entrambi i Paesi, dato un forte sbilancio nei conti con l’estero come nei bilanci pubblici, un risanamento era inevitabile. La durezza è stata simile (2,2% di Pil all’anno per 5 anni in Portogallo, 2,4% in Grecia), il successo diverso: Lisbona può ora sottrarsi alla sorveglianza della «troika»; Atene, dove in mancanza di riforme le sofferenze sono ricadute sui più deboli, ha faticato ad ottenere la nuova rata di aiuti.

La politica ha fatto la differenza: misure più efficaci in Portogallo, dove gli elettori continuano a dividersi tra una coalizione di centro-destra e un partito socialista entrambi europeisti; mentre in Grecia crescono le estreme o forze del tutto nuove. Quando si è alle strette, va meglio ai governi che sanno riformare. È un esempio che può valere sia a Roma sia a Parigi.

Da - http://lastampa.it/2014/04/02/cultura/opinioni/editoriali/le-riforme-per-superare-lemergenza-4xCpMs7mqIz1kbLkDzRdEJ/pagina.html
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« Risposta #92 inserito:: Aprile 09, 2014, 06:13:54 pm »

Editoriali
09/04/2014
Ora serve la prova dei fatti

Stefano Lepri

Per cambiare l’Europa occorre la fiducia reciproca tra i Paesi, dunque intanto occorre che ciascuno rispetti gli impegni. Questa è la strada che il governo italiano dichiara di avere scelto dopo le iniziali dichiarazioni di sfida; ed è la più sensata. 

In realtà un allentamento dei traguardi per i prossimi anni c’è: in misura modesta, probabilmente accettabile agli altri governi.

Un’alleanza con la Francia per «battere il pugno sul tavolo» non è mai stata davvero possibile. Non conviene né a Parigi né a Roma unirsi, perché le urgenze sono diverse e gli effetti di un’offensiva comune sarebbero più che dubbi. Né deve illudere più di tanto la fase di «ritorno al rischio» in cui si trovano i mercati finanziari; al momento trovano buon credito anche Stati molto screditati.

Il documento approvato ieri, ovverosia il Def (un tempo Dpef), merita attenzione proprio perché tecnico: poiché deve risultare credibile ai tecnici, contiene sotto forma di gergo specialistico una dose maggiore di verità rispetto ai discorsi televisivi. Almeno per il futuro prossimo, si intende; perché più si va in là nel tempo e più anche agli economisti è permesso cullarsi nelle speranze.

Questa volta calcolare la dose di azzardo, la distanza delle promesse dalla realtà, è particolarmente importante. Il momento è favorevole, sia perché nell’economia del mondo – come ha detto ieri il Fmi – l’ottimismo sta prevalendo, sia per le attese positive di cui il governo italiano si trova a godere tra gli operatori economici, tra i governi, nelle organizzazioni internazionali.

Ma l’occasione può essere presto perduta. Per questo è essenziale che ci sia un nesso fra gli scopi elettorali a breve termine e le riforme vere che servono al futuro. Nelle parole pronunciate ieri nell’impianto del documento questo c’è; ma solo la sequenza effettiva delle decisioni potrà dare certezza che non si miri solo al 25 maggio per poi soffrire di amnesie dopo.

Nel concreto, quattro miliardi e mezzo di tagli alle spese pubbliche in otto mesi sono un traguardo ambiziosissimo. Ridurre le spese, tolta la parte facile delle auto blu e degli stipendi d’oro, comporta decisioni parecchio impopolari, ardue in campagna elettorale. Più si rinviano le scelte a dopo il 25 maggio più si rischia di non raggiungere l’obiettivo.

 Il Def giustamente riconosce che la misura di popolarità immediata, gli sgravi Irpef ai redditi bassi, non produrrà grandi risultati economici nei primi mesi. Occorre che si faccia anche tutto il resto, comprese le riforme politiche che, come ha detto Piercarlo Padoan, possono dare un impulso «molto più profondo di quanto si pensi» seppur impossibile da cifrare con gli strumenti dei tecnici.

La contraddizione tra il breve e il lungo periodo è visibile al massimo nella questione del lavoro. Il decreto che allarga le maglie dei contratti a termine è pensato in chiave di effetti immediati; ma per restituire speranze ai giovani ci si dovrà poi muovere in una direzione quasi opposta, quella del contratto unico.

Ovviamente le ambizioni del semestre italiano di presidenza dell’Unione cadrebbero miseramente se dopo l’estate ci si trovasse con i tagli alle spese in ritardo. Se tutto il paese capirà che si tratta dell’occasione di costruire uno Stato più efficace e meno corrotto, sarà possibile avanzare; altrimenti no.

A dispetto delle invettive contro la rigidità delle regole europee, il documento approvato ieri segna la quarta volta che gli obiettivi vengono revisionati, dal terribile autunno 2011. Il pareggio di bilancio «strutturale» che all’origine doveva essere raggiunto l’anno scorso, slitta ancora, al 2016. Meglio così. La rincorsa demagogica a dar la colpa all’Europa ha forse perso altro fiato.

Da - http://lastampa.it/2014/04/09/cultura/opinioni/editoriali/ora-serve-la-prova-dei-fatti-jkEsfEq8EOUS5YbGpprm4N/pagina.html
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« Risposta #93 inserito:: Maggio 08, 2014, 05:05:26 pm »

Editoriali
06/05/2014

Un utile richiamo alla realtà
Stefano Lepri

L’Europa ci ricorda che l’Italia soffre di guai annosi, scarsissima dinamica di crescita, alto debito pubblico. 

Nelle analisi uscite ieri da Bruxelles è vano cercare giudizi pro o contro l’ultimo mese di attività del nostro governo, come vorrebbe la nostra politica. Vi si legge invece un richiamo alla realtà, utile anche in altri Paesi dell’Unione.

A meno di tre settimane dal voto per il Parlamento di Strasburgo, gli stessi mercati finanziari che nel 2011-12 hanno spinto l’euro sull’orlo della rottura ora paiono sicuri che la costruzione reggerà. Anche il Portogallo si svincola dall’assistenza, d’ora in poi non dovrà più obbedire alla «troika». Perfino la Grecia tira il fiato, tanto che i sondaggi elettorali mostrano un calo delle estreme.

I tassi di interesse nel Sud dell’area euro scendono, esponendo a una nuova figuraccia le ormai screditatissime agenzie di «rating». 

Secondo loro, il debito italiano resta oggi meno affidabile di quello della Colombia o del Kazakhstan; il debito spagnolo, che gli investitori si contendono accettando di ricavarne meno del 3%, è addirittura classificato un gradino più in giù. 

Non a caso, nel procedere della campagna elettorale le forze anti-euro stanno perdendo un po’ dell’abbrivio datogli da due anni di austerità. Tuttavia, dei mercati finanziari non bisogna fidarsi nemmeno quando portano doni, perché si tratta di mandrie inquiete, prima tutti in una direzione, poi tutti nell’altra, non si sa fino a quando. Il Fmi già ammonisce contro eccessi di ottimismo.

Possiamo dire che l’euro è fuori pericolo; i profeti di catastrofe sono stati smentiti. Ma il futuro del continente resta molto incerto, non solo a causa delle tensioni con la Russia. Nel confermare che una ripresa economica è partita, e che investe anche i Paesi deboli, le previsioni pubblicate ieri dalla Commissione europea ne circoscrivono la portata rispetto alle speranze di diversi governi.
 
Nel quadro tracciato, il ritmo di aumento dei prezzi dovrebbe restare basso molto a lungo. Questo non giova a chi vuole intraprendere nuovi affari. Le previsioni di Bruxelles sull’inflazione si collocano al di sotto di quelle della Bce; rafforzano chi chiede a Mario Draghi di fare di più, mettendo moneta in circolo.

 
Da parte sua l’Italia vi trova la conferma di soffrire di mali indipendenti dall’euro, e preesistenti. Da oltre 15 anni la nostra economia mostra scarsa vitalità; il debito pubblico per la gran parte ce lo trasciniamo dagli Anni 80, e proprio in vani tentativi di rilanciare la crescita attraverso la spesa pubblica eravamo tornati ad appesantirlo nei primi anni del nuovo secolo.

I segni di miglioramento che vediamo attorno a noi, testimoniati dalla maggiore fiducia sia tra le famiglie, sia tra le imprese, sono appena sufficienti a iniziare una lenta risalita. Passato lo spettacolo elettorale, la politica dovrà produrre risultati significativi prima delle ferie, o gli umori torneranno a peggiorare.

La legge di stabilità 2015 richiederà sforzi ingenti; al momento i numeri non ci sono proprio. Inutile discettare ora su quanto si potrà ottenere negli oscuri spazi di interpretazione che le regole di bilancio europee consentono. Convinceremo gli interlocutori solo se davvero si comincerà a cambiare qualche pezzo di una macchina dello Stato che non funziona.

Il paradosso dell’Italia in questo momento è che quasi tutti proclamano «non se ne può più», eppure molti nel concreto fanno resistenza a ogni cambiamento che li riguardi. Il successo di Beppe Grillo si deve all’abilità di cogliere entrambi gli aspetti; il limite che ne consegue, di non proporre quasi mai nulla, diventerà evidente solo se chi governa realizza.

Da - http://lastampa.it/2014/05/06/cultura/opinioni/editoriali/un-utile-richiamo-alla-realt-zWzCBWXuo8mbD5weoDCL1H/pagina.html
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« Risposta #94 inserito:: Giugno 19, 2014, 12:23:41 am »

Editoriali
18/06/2014

Una ricetta che aiuti i giovani

Stefano Lepri

Più che dare suggerimenti dall’esterno, il Fondo monetario raccoglie tutte le promesse di Matteo Renzi, per invitarlo a mantenerle. Le critiche della Commissione europea al bilancio 2014 non vengono condivise; c’è solo un blando consiglio a mettere un po’ più a posto i conti nel 2015 nel caso la ripresa economica si consolidi.

Rispetto a un dibattito europeo imprigionato in formule oscure, rispetto alle ripetitive lezioncine della Germania benpensante, gli esperti di Washington sia pure nel loro gergo non chiarissimo pongono problemi seri. Traducendo in parole povere, dicono che l’Italia occorre soprattutto farla funzionare; nel nostro interesse, prima di tutto.

Parlano di leggi da cambiare, assai più che di numeri da far quadrare con sacrifici. Non si fanno bene gli affari se ci vogliono mille giorni per ottenere dal tribunale il rispetto di un contratto; né se è difficile liquidare una impresa in difficoltà quanto fondarne una nuova; né se normative varie frenano la concorrenza sul mercato. 

Né, ancora, se il falso in bilancio non è punito. 

Al primo posto c’è tuttavia il lavoro dei giovani. Più passa il tempo più diventa nociva la separazione tra precari e garantiti. Il Fmi giudica importante una promessa dell’attuale governo che si prospetta difficile da mantenere: il contratto unico di lavoro a tutele crescenti. Sarà molto utile, si afferma, se rimpiazzerà gli attuali contratti a tempo determinato.

Sarà questa una prova cruciale. Il contratto unico, soluzione proposta in diverse varianti da economisti come Pietro Ichino e Tito Boeri, lascia freddi sia i sindacati sia la Confindustria. Matteo Renzi come metodo non intende farsi vincolare dalle forze sociali organizzate, però qui di fatica ce n’è da fare davvero tanta. Non siamo l’unico Paese nella trappola di un mercato del lavoro duale, e nessuno riesce ancora a uscirne.

In concreto, la riforma resta ancora tutta da progettare. Occorreranno incentivi che rendano il contratto unico attraente per le imprese, come pure divieti da far rispettare. Altrimenti, si tratterà solo di una nuova tipologia contrattuale da affiancare alle molte già esistenti, con scarso vantaggio. Bisogna rompere un circolo vizioso che ormai si è radicato nelle abitudini e nelle attese di tutti.

La prospettiva di un lavoro a lungo precario fa calare lo stimolo a istruirsi, riduce la qualità del lavoro anche a danno delle imprese. E così com’è fatto il nostro Stato sociale non aiuta: l’Italia rispetto ad altri paesi spende poco in istruzione (specie ai livelli superiori) e molto in pensioni.

Qui il Fmi tocca una questione delicatissima, a cui Renzi aveva accennato nei primi giorni, ma che negli impegni del governo non è mai comparsa. Si tratta della proposta del suo consigliere Yoram Gutgeld, poi ripresa da altri economisti, di ricalcolare almeno in parte le pensioni «troppo alte»; ovvero quelle (superiori a una certa cifra) risultanti da calcoli troppo favorevoli vigenti in passato.

Molti pensionati attuali percepiscono trattamenti più alti rispetto ai contributi versati durante la vita lavorativa, perché fu troppo graduale l’attuazione della riforma Dini del 1995. In teoria, sarebbe equo chiedere loro un contributo a favore dei giovani, se visibilmente utilizzato, come suggerisce il Fmi, nell’istruzione o nelle politiche del lavoro.

Può darsi che si tratti di un’utopia da tecnici, politicamente inattuabile in un Paese dove gli elettori anziani sono più numerosi e più assidui alle urne rispetto ai giovani. Ma può valere come stimolo a rendersi conto che finora il peso del declino del nostro Paese è stato scaricato quasi tutto sui giovani.

Da - http://lastampa.it/2014/06/18/cultura/opinioni/editoriali/una-ricetta-che-aiuti-i-giovani-2jHQi6NuVIBgsu69mWBBSN/pagina.html
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« Risposta #95 inserito:: Giugno 28, 2014, 11:55:18 am »

Editoriali
27/06/2014

Le regole per superare l’austerity

Stefano Lepri

Giustissimo, che una svolta oltre l’austerità sia espressa in termini chiari. Paradossale, diranno in altri Paesi, che a chiederlo siano gli italiani, la cui fama è di essere intriganti e subdoli. Ma non sarà facile, per nulla. Da anni l’Europa va avanti a forza di intese a bella posta oscure, in modo che ciascun governo possa presentarle ai cittadini in una luce accettabile.

Angela Merkel e altri capi di governo nordici desiderano poter raccontare ai propri elettori che nulla di sostanziale è cambiato nelle regole di bilancio nell’area euro. Matteo Renzi vuole l’opposto. Una novità, dato che fin qui la controparte principale della Germania, la Francia, si era accontentata del permesso di fare eccezione in proprio a regole sulla carta dure per tutti.

Ovverosia, un modo di procedere molto italico – leggi severe sulle quali poi si chiude un occhio in alcuni casi – in Europa risultava finora dalla guida a due franco-tedesca. Quell’assetto si disgrega a causa della crescente debolezza della Francia; ma non si sa ancora come sostituirlo. L’Italia non può prevalere se chiede solo per sé: deve cercare di presentare un progetto per tutti.

I l fronte anti-austerità del resto è diviso: in nome di che rivendicare la svolta? Renzi non ha avuto ancora il tempo di attuare le sue promesse. Il premier spagnolo Mariano Rajoy in tre anni ha realizzato misure dolorose e anche molto controverse, è peraltro un alleato politico dei cristiano-democratici tedeschi. François Hollande guida un Paese già in crisi di rigetto quando l’azione di riforma è appena agli inizi. 

Un cambiamento sta maturando, lo si avverte da molti segni. Cominciano a mutare il loro linguaggio anche personaggi simbolo dell’austerità, come il commissario uscente agli Affari monetari Olli Rehn. Non si può evitarlo: la ripresa economica sperata è talmente fioca che quasi non si vede; nemmeno in Germania è esaltante.

Però, se si vuole chiarezza, occorre rendersi conto fino in fondo di quali sono i problemi. Non si può far finta che nel 2010-2011 non sia accaduto nulla, pur se ovunque sono cambiati i governi e nei nostri palazzi non si pratica più il «bunga bunga». I troppi debiti restano pericolosi. Né contrarne in quantità (da ultimo negli anni 2001-2004) ci ha salvati dal declino.

 La finanza globale sembra oggi più stabile. Ma proprio la presenza di risparmio in eccesso, facile a spostarsi in cerca di rendimenti più alti, rende necessario spendere bene, essere debitori credibili. L’Italia non ha buona fama; le crepe dell’area euro su cui potrebbero far leva gli speculatori sono state sanate solo in parte.

Finanziare i deficit è tornato possibile, sostengono gli economisti anche bravi promotori del referendum contro il «fiscal compact» europeo; trascurano che non è l’Italia a poterlo fare, e non perché i tedeschi sono razzisti contro i popoli meridionali. Non può, con l’eccesso di debito che si ritrova, frutto di ben noto malgoverno.

Per la ripresa, contro il rischio di deflazione si può, si deve investire di più; ma in progetti comuni sui quali governi e nazioni si controllino a vicenda, non con il ritorno all’arbitrio delle classi politiche nazionali (anche quella tedesca, che – come notava Mario Draghi giorni fa – ha speso moltissimo per salvare le banche, poco per tutto il resto).

Né si può sperare di giostrare a scopo tattico sui no britannici. Se Londra chiede per sue esigenze di annacquare un po’ l’Unione europea, darle retta potrebbe aiutare un suo ulteriore allargamento verso Est; ma nello stesso tempo, l’area euro ha bisogno di stringersi di più, creando o rafforzando istituzioni proprie capaci di accrescere la fiducia tra chi ne fa parte.

Da - http://lastampa.it/2014/06/27/cultura/opinioni/editoriali/le-regole-per-superare-lausterity-NEwEFrHYfh4nNyRoL0ZdnI/pagina.html
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« Risposta #96 inserito:: Ottobre 16, 2014, 11:19:24 pm »

Sulla spesa il fronte più difficile

16/10/2014
Stefano Lepri

la questione non è più tanto se la Commissione europea accetterà questi numeri, quanto se li considererà verosimili. Gli obiettivi che il governo si pone con la legge di stabilità approvata ieri sera appaiono validi. Le risorse per raggiungerli non è chiarissimo come saranno trovate; 3,8 miliardi dalla lotta dell’evasione fiscale e 15 da tagli alle spese sono cifre di grande ambizione.

Matteo Renzi l’ha definita una manovra di bilancio «anticiclica», ossia, in gergo economico, volta a rilanciare l’economia. 

Non è esattamente così. Nelle grandi cifre, è grosso modo neutrale; scelta corretta rispetto all’intervento ulteriormente recessivo che sarebbe risultato da una applicazione schematica delle regole europee.

Potrà essere espansiva se sarà costruita bene, sostituendo soldi ben spesi a soldi mal spesi. Al calo del prelievo fiscale, 8 miliardi aggiuntivi ai 10 già promessi, dovrebbe accompagnarsi una vera riduzione di spese poco utili. Potrà esserlo se le grandi riforme, come spera Piercarlo Padoan, avranno effetti pronti sulla fiducia di chi lavora e di chi investe.

Tre ipotesi sono possibili. Primo, gli interventi sulla spesa saranno maldestri; l’esperienza passata sui «tagli lineari» ci dice che cambiano poco e per di più non durano. Secondo, i tagli sono fittizi e il deficit 2015 oltrepasserà la soglia del 3%, con rialzo dei tassi sul debito e sanzioni europee. Terzo, i tagli saranno ben concepiti, e proprio per questo solleveranno una tempesta di resistenze.

Purtroppo incidere sulle cattive erogazioni di denaro pubblico per una cifra così grande, 12,3 miliardi aggiuntivi rispetto alle misure già in corso, richiede che si colpiscano interessi costituiti ben capaci di difendersi. E’ già partita al contrattacco la politica locale, dove gli sprechi sono assai diffusi. Vedremo nelle prossime ore chi altri alzerà le barricate.

Solo riforme efficaci e un uso migliore delle risorse possono azzittire chi in Europa vorrebbe costringerci a una regola – quella dell’«obiettivo di medio termine» – sorpassata dall’evolversi della crisi. L’Italia l’aveva fatta propria, inserendola anche nella Costituzione, dopo gli enormi rischi corsi nel 2011; rispettarla quest’anno significherebbe altri posti di lavoro in meno.

 

Tutta l’economia mondiale non riesce ad uscire appieno dalle difficoltà, come mostrano anche i dati giunti ieri dagli Stati Uniti; il ribasso del greggio segnala timori di recessione. E’ assurdo dare la colpa di tutto all’austerità nell’area euro, visto che anche Svezia e Svizzera sono in deflazione; varie sono le cause se anche la gran parte dei Paesi emergenti rallenta.

In passato, il vincolo delle regole esterne ha fatto solo bene all’Italia, ponendo freni alla cattiva politica. Ora una azione di rilancio spetterebbe alla Germania, che ha i bilanci in ordine. Non lo vuole fare, per una debolezza politica interna che ributtata all’esterno sembra forza; e allora il male di gran lunga minore è che l’Italia temporaneamente vi si sottragga.

I rischi ci sono. Lo mostra la Grecia, che nell’attuale fase di calma dei mercati finanziari progettava di sottrarsi in anticipo alla sorveglianza della troika (Commissione europea, Bce, Fmi). Meglio che non lo faccia – si vede in queste ore – soprattutto perché politicamente non è stabile, elezioni anticipate non possono essere escluse, con una vittoria dell’estrema sinistra.

L’Italia non è né fragile come la Grecia né altrettanto malmessa; però è anche otto volte più grande. Per questo gli altri Paesi dell’area euro diffidano di noi. Dobbiamo loro chiarezza di propositi; e, magari, anche la lucidità di indicare verso quali regole migliori potremmo muoverci tutti insieme.

Da - http://www.lastampa.it/2014/10/16/cultura/opinioni/editoriali/sulla-spesa-il-fronte-pi-difficile-7o24Uu17yd2IQLfzVNx9UP/pagina.html
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« Risposta #97 inserito:: Novembre 09, 2014, 11:34:02 am »

Per crescere tagliare più spese

04/11/2014
Stefano Lepri

No, la manovra di bilancio del governo Renzi non è «espansiva». Avrebbe potuto essere nettamene restrittiva se si fosse dato ascolto in pieno alle richieste della Commissione europea uscente, a José Barroso e a Jyrki Katainen.

E quando, a ragione, giudichiamo esagerati i loro timori, ricordiamoci che del tutto infondati purtroppo non sono.

La capacità dei governi italiani di contrastare la recessione con interventi di bilancio (meno tasse, o investimenti utili) è pesantemente limitata dal fardello di debito pubblico che ci portiamo addosso. Pesa l’eredità di scelte sbagliate dei governi passati; soprattutto negli anni dal 1981 al 1991 e dal 2000 al 2004.

Nel momento attuale, con tassi di interesse bassissimi in tutto il mondo, è lontano il pericolo che il debito italiano diventi instabile; più remoto, appunto, di quanto si ostinino a credere alcuni a Bruxelles e molti a Berlino. Inoltre è poco probabile che si ripeta una crisi interna all’area euro come quella del 2011-2012.

Tuttavia, l’Italia deve esercitare prudenza. Sarebbe eccessiva l’austerità impostaci dal «Fiscal Compact» europeo; la Banca d’Italia conferma che ritiene giustificato non rispettarla. Ma, come Ignazio Visco avvertiva venerdì scorso, una manovra apertamente espansiva adottata dalla sola Italia potrebbe «dar luogo a reazioni negative da parte dei mercati».

Così com’è all’esame del Parlamento, la legge di stabilità 2015 è espansiva solo nel senso improprio di accrescere il deficit rispetto alle leggi vigenti (riduce le tasse più di quanto riduca le spese, se si considerano gli 80 euro come sgravio). In senso proprio, si limita a «rallentare il processo di aggiustamento dei conti pubblici»; in assoluto il deficit continua a ridursi, su questo si fonda anche il giudizio dell’Istat.

All’interno dei vincoli dati, è possibile aiutare la crescita se si tagliano spese poco produttive sostituendole o con sgravi fiscali efficaci o con investimenti pubblici di qualità. Su questo è legittimo chiedersi se il governo abbia fatto abbastanza; specie dopo che ha accantonato proposte significative sulla spesa, quelle sulle partecipate locali e sulle stazioni appaltanti.




Dalla politica peraltro non vengono alternative valide. La destra, a cui il presidente del Consiglio ha sottratto uno dei cavalli di battaglia, il calo dell’Irap, si mobilita contro le tasse sulla casa: ma a parità di risorse è molto più efficace sulla crescita pagare meno Irap o altri tributi sul reddito. Movimento 5 stelle e Lega Nord vorrebbero uscire dall’euro: però oggi se fossimo fuori il costo del debito sarebbe quasi certamente più alto, non più basso.

L’opposizione di sinistra, ossia la Cgil, vorrebbe un piano massiccio di investimenti pubblici finanziato da una patrimoniale. A parte le ben note (anche a tecnici di sinistra) difficoltà di tassare patrimoni diversi dagli immobili, occorre riflettere su un recente sondaggio: in grande maggioranza gli italiani ritengono che per ridurre gli squilibri sociali sia meglio calare le tasse ai poveri che aumentarle ai ricchi.

Costruttive invece sono le obiezioni venute ieri dalla Banca d’Italia, sul limitato valore di alcune misure, sui possibili inconvenienti di altre. Indicano una urgenza di riforme più profonde, piena responsabilità tributaria degli enti locali, maggiori ambizioni di rinnovamento della scuola.

Più oltre, nel 2016 e 2017, i conti tornano solo grazie ad una «clausola di salvaguardia» che impone gravosi aumenti di tasse (Iva al 25% e oltre) qualora non si riesca a ridurre le spese. Quella distanza di tempo è il luogo dove si incrociano le grandi variabili del nostro futuro: se cambierà l’Italia, se si romperà la gabbia di sfiducia tra Stati che soffoca l’Europa.

Da - http://www.lastampa.it/2014/11/04/cultura/opinioni/editoriali/per-crescere-tagliare-pi-spese-J8KCbBEhBCEEDGktupQYBL/pagina.html
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« Risposta #98 inserito:: Dicembre 09, 2014, 03:11:22 pm »

Gli errori di Roma e di Berlino

09/12/2014
Stefano Lepri

In Germania, parlar male dell’Italia è un espediente efficace per nascondere il fiato corto del successo tedesco. In Italia, parlar male della Germania serve benissimo a sviare l’attenzione dai guai di casa, i giovani senza lavoro come lo scandalo romano. Purtroppo, dato che la politica francese rimane in stato confusionale, il dibattito nell’area euro rischia di ridursi a questo.

Volendo essere ottimisti, la reciproca diffidenza potrebbe diventare incentivo a comportarsi meglio. Però gli strumenti sono rozzi, se per pungolare il governo italiano alle riforme (cosa necessaria) si continua a minacciarlo, come ieri all’Eurogruppo, perché non adotta una ricetta in questo momento inadatta (le regole di bilancio del «Fiscal Compact»).

Con un passo avanti, il documento approvato a Bruxelles almeno condona all’Italia il mancato rispetto della regola del debito. 

Continua invece a insistere sull’«obiettivo di medio termine» di calo del deficit. Il limite delle regole per governare l’area euro è appunto che sono severe dove in questo momento meno serve, e lo sono poco nei campi dove è oggi urgente agire.

Magari avessimo strumenti più efficaci – come quelli sollecitati da Mario Draghi – per spingere sia la Germania a correggere ciò che il resto del mondo le rimprovera (eccesso di risparmio e carenza di investimenti) sia l’Italia a mettere ordine in casa propria. Non li abbiamo, e per evitare di infilarci in circoli viziosi occorre un sovrappiù di inventiva.

Da entrambe le parti è necessario resistere alla tentazione di indicare colpevoli di comodo. Nel nostro caso, significa non illudersi che senza regole europee, o addirittura senza euro, staremmo meglio. L’alto debito italiano resterebbe un fardello in qualsiasi situazione immaginabile, e se smettessimo di pagare il 60% del danno cadrebbe su noi stessi.

Può essere interessante guardare al Giappone, Paese diversissimo dal nostro ma che paradossalmente incarna alcuni sogni della politica italiana. Ha un debito pubblico ancora più elevato ma stabile perché in moneta nazionale e detenuto in grandissima parte all’interno. Dunque senza immediati rischi può spendere in deficit nel tentativo di rilanciare l’economia.

 

Eppure è da lunghi anni che la ricetta del deficit non funziona; continua a nutrire una classe politica – assicura chi conosce entrambi i Paesi – non migliore della nostra. Per di più, di questi tempi la Banca centrale acquista la gran parte dei nuovi titoli di Stato emessi, con una espansione monetaria assai più massiccia di quella che attendiamo dalla Bce.

Con un po’ di ironia, si potrebbe aggiungere che il Giappone è inoltre il sogno della Lega Nord, perché ha pochi immigrati, o degli imprenditori, perché i profitti sono alti. Di nuovo in recessione dopo lunghi anni di ristagno, ricorre ora a elezioni anticipate nella speranza che rafforzino il governo. Agli occhi dei tedeschi, dà la prova che le ricette opposte alle loro non funzionano.

D’altronde, nell’area euro almeno una parte dei mali va attribuita all’austerità a tempi stretti che ancor oggi è la prescrizione numero uno a Berlino. Senza cedere a certezze prefabbricate, sarebbe bene discutere insieme di rimedi nuovi, adatti a una crisi mai vista prima. Ciò che manca ovunque è la capacità di rinnovare strutture economiche e amministrative logore.

Sia nella Francia che non sa fare riforme, sia nella Spagna che ne ha fatte (non molte) alla tedesca, gli attuali governi non hanno più l’appoggio della maggioranza dei cittadini. Il governo italiano deve rimuovere ostacoli forse ancor più grandi, ma almeno un patrimonio di consenso lo ha ancora: non lo sprechi, è una speranza anche per gli altri.

twitter: @StefanoLepri1 

da - http://www.lastampa.it/2014/12/09/cultura/opinioni/editoriali/gli-errori-di-roma-e-di-berlino-0XuQVGyBUoKSoyugQqMfkJ/pagina.html
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« Risposta #99 inserito:: Dicembre 22, 2014, 05:53:29 pm »

Frenare la corsa delle lobby

21/12/2014
Stefano Lepri

Se il Congresso degli Stati Uniti esaminando la legge di spesa federale per il 2015 ha anche votato contro la protezione di un uccello noto come «gallo della salvia», e nella maxi-manovra anticrisi del drammatico febbraio 2009 aveva inserito incentivi ai produttori del gioco delle freccette, si capisce che qualche degenerazione si produce in tutte le grandi democrazie. 

Non per questo sono meno preoccupanti le traversie della legge di stabilità 2015 nel nostro Parlamento. Vanno esaminate per ciò che ci rivelano sullo stato del nostro sistema politico. Matteo Renzi si vanta di aver fermato in extremis il tradizionale assalto alla diligenza; ne ha solo ridimensionato gli effetti.

Il grosso della manovra, non troppo stravolto dalle aggiunte, mostra una limitata capacità di incidere. Un calo delle imposte c’è, seppur assai inferiore ai 18 miliardi di euro vantati dalla propaganda governativa. Le imprese pagheranno 4,5 miliardi in meno; gli 80 euro ai redditi più bassi sono resi duraturi.

Il carico fiscale complessivo dovrebbe ridursi di 8 miliardi netti nelle stime della Banca d’Italia; sarà meglio distribuito grazie a misure una volta tanto concrete contro l’evasione.

Quanto agli effetti sull’economia, «espansivi» secondo il governo, la maggior parte degli esperti valuta che saranno all’incirca neutrali. Le controverse regole di bilancio europee ci chiedono in realtà una manovra restrittiva: nei calcoli fatti a Bruxelles, questa lo sarà solo per lo 0,1% del prodotto lordo, poco o nulla.

L’interrogativo più importante concerne lo sgravio di contributi alle nuove assunzioni a tempo indeterminato. Se davvero i decreti di attuazione del «Jobs Act» convinceranno le imprese a creare nuovi posti fissi in buon numero, gli 1,7 miliardi stanziati finiranno prima di metà anno, e si creerà il problema di trovare altre risorse.

Su come fare di più e meglio, di voci se ne sono sentite tante. Sfidare le regole europee – come molti sono bravi a proporre dall’opposizione e non osano mai fare se al governo – poteva riuscire controproducente, come ha spiegato Piercarlo Padoan. Però un serio programma pluriennale di revisione delle spese avrebbe consentito di ottenere di più.

Una occasione è stata perduta per incidere su quanto gli scandali, a Roma e altrove, rivelano. Sono timide le norme approvate in Senato per iniziare la pulizia delle partecipate degli enti locali. Proprio alla responsabilità di Regioni e Comuni è affidata la speranza che i tagli ai loro fondi non si traducano in aggravi fiscali (magari dopo il voto amministrativo della primavera).

E poi c’è il pulviscolo di micro-misure che si ripete, nonostante le riforme della sessione di bilancio che promettevano di eliminarlo. Lo stesso ministro dell’Economia si sente tenuto a ricordare che sono ripristinate le agevolazioni al gasolio per l’autotrasporto: un incentivo a inquinare mantenuto dalla minaccia di sciopero dei Tir.

Un problema di fondo continua ad essere eluso. Non si tratta di decidere se sia giusto o meno, ad esempio, stanziare 50 milioni per la lotta alla ludopatia, ossia alla mania del gioco d’azzardo. Bisogna al contrario capire se le strutture pubbliche che abbiamo sono davvero capaci di fare qualcosa per combattere questo brutto vizio, oppure no. Solo così si può evitare di sprecare denaro.

Per inanellare promesse la politica chiede allo Stato di fare di tutto, senza mai preoccuparsi se ci riesca. E se vogliamo frenare la corsa a compiacere i lobbisti, non basta il monocameralismo: occorrono anche una più forte riduzione nel numero dei parlamentari, un legame stretto tra eletto e collegio, regolamenti della Camera che non consentano a pochi di rallentare i lavori.

twitter: @stefanolepri1

Da - http://www.lastampa.it/2014/12/21/cultura/opinioni/editoriali/frenare-la-corsa-delle-lobby-tXNa6gEjU2CbbFv5yekeqK/pagina.html
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« Risposta #100 inserito:: Aprile 12, 2015, 06:07:59 pm »

Sfruttare il poco tempo disponibile

12/04/2015
Stefano Lepri

È scarso il tempo per sfruttare le occasioni favorevoli che il governo si trova davanti. Tassi di interesse quasi a zero, euro debole, petrolio a buon mercato, maggiore fiducia nel futuro da parte di imprese e consumatori agevolano la politica economica. Per come muta la scena del mondo, il pericolo è che l’Italia ripiombi presto nel pantano.

Nemmeno negli Stati Uniti la ripresa sembra energica. La Cina dovrà fare i conti con gli investimenti in eccesso dei suoi anni di crescita al galoppo: grattacieli vuoti, acciaierie, e cementifici senza mercato. Tra pochi giorni il Fondo monetario internazionale ci spiegherà perché vede in prospettiva anni di crescita bassa nei Paesi avanzati, meno veloce negli emergenti.

In questo contesto, in cui i tassi di interesse pur risalendo non torneranno mai ai livelli di prima, l’ansia per il nostro gran debito accumulato si attenua. Tuttavia non funzioneranno ambedue le ricette fin qui applicate in Europa: puntare tutto sull’export imitando la Germania, tirare a campare all’italiana (o, con qualche eleganza in più, alla francese).

L’Europa dovrà trovare soprattutto dentro di sé le energie per muoversi con un ritmo più spedito. Non si tratta solo dell’area euro, perché la produttività langue anche fuori, nella Gran Bretagna. E per vendere bene ciò che si commercia oggi l’efficienza manifatturiera non basta, la qualità delle istituzioni di un Paese, perfino della sua vita sociale, conta di più.

In Italia certi mali comuni appaiono più gravi, con minacce di vero declino. Alcuni vantaggi esterni, come cambio e prezzo del greggio, possono durare poco. Far presto è importante per due motivi: perché toglie spazio alla rassegnazione e al qualunquismo, e perché un’Italia che si muova può rompere la sfiducia tra Stati che ha irrigidito l’area euro in scelte di austerità eccessiva.

Nelle 290 pagine del «Programma nazionale di riforma» approvato l’altra sera dal governo ci sono, oltre ad abbondanti sproloqui, propositi su cui insistere. Ad esempio già per settembre si promette di «mettere on-line le performance delle amministrazioni locali in termini di costo e livello di servizio in modo sintetico e leggibile da tutti». Magari! 

Legare a parametri precisi i bilanci degli enti locali, ridurre il numero delle centrali appaltanti, rivedere uno per uno i capitoli della spesa pubblica, sono provvedimenti utili sia a risparmiare sia a limitare la corruzione; tanto più necessari in una fase politica in cui l’alternanza fra schieramenti rivali non funziona bene, e comunque esistono centri di malaffare attrezzati per sopravviverle.

Sono queste le riforme da fare, più di altre. E se una nuova interpretazione delle regole europee davvero regalerà 1,6 miliardi in più da utilizzare sul bilancio di quest’anno, il «bonus» (altra parola ridicola) non sarà replicabile negli anni successivi. Non potrà finanziare sgravi permanenti o spese pluriennali, quindi gran parte delle richieste di queste ore sono da bocciare comunque.

Si discuta con serietà su che cosa conviene puntare. Già si è scoperto che un successo delle nuove norme per trasformare lavori precari in fissi potrebbe costare – in sgravi temporanei per il 2015 – più del previsto; quella intanto è una priorità. Un aiuto mirato ai più poveri andrebbe bene, una maniera convincente di investire sul futuro potrebbe andar meglio.

Twitter: @stefanolepri1 

Da - http://www.lastampa.it/2015/04/12/cultura/opinioni/editoriali/sfruttare-il-poco-tempodisponibile-gRmEsDjFzEubmdcHb8LFYO/pagina.html
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« Risposta #101 inserito:: Maggio 10, 2015, 04:46:19 pm »

Rifare i conti è un’occasione per il governo

08/05/2015
Stefano Lepri

Ci sono due ragioni che costringono il governo a rifare i conti. Una è la sentenza della Corte Costituzionale sulle pensioni, che sembra meno irresponsabile solo perché la nostra iniziatica giurisprudenza offre cavilli per ridimensionarla. 

L’altra è che il panorama economico appare più incerto rispetto alle previsioni scritte nel Documento di economia e finanza un mese fa. 

Combinando i due elementi sarebbe bene chiarire a quale scopo si è fatta una nuova legge elettorale. Per Matteo Renzi la maniera migliore di rispondere a chi lo accusa di voler soltanto imporre il suo comando è di esplicitare quale riforma dello Stato dovrà partire da un esecutivo più stabile e (una volta ridimensionato il Senato) da una attività legislativa più rapida.

Contrappesi robusti e organi di controllo servono sì, a fronte di un governo meno frenato dai patteggiamenti politici. Ma non vanno bene così come sono oggi, in un assetto che li spinge più che altro a contraddire le decisioni degli eletti dal popolo rispondendo a spinte corporative. Chi regge un Comune, ad esempio, trova spesso il primo nemico nel Tar piuttosto che nell’opposizione.

Servirebbe ad esempio una Corte dei Conti fatta di tecnici capaci di indagare sul campo se i soldi pubblici siano spesi bene, invece che di giuristi oscillanti tra controlli formali e prediche atte ad essere riprese da giornali e tv. E la Corte Costituzionale non dovrebbe poter esentare dai sacrifici una categoria di cittadini facendone ricadere il peso su altri, come rischia di avvenire ora.

Nei due anni in cui è stata in vigore la legge sulle pensioni ora abrogata, il prodotto lordo dell’Italia si è ridotto del 4,2%, i consumi delle famiglie di altrettanto. Se doveva essere tutelato il potere d’acquisto anche delle pensioni superiori a tre volte il minimo, quali altre categorie di cittadini dovevano contribuire con rinunce maggiori della media?

 

I pensionati di oggi (tra cui, per chiarezza, c’è anche chi scrive) sono perlopiù gli esentati dalle riforme di ieri. Hanno evitato rinunce accollate alle fasce di età successive. Parecchi tra loro, specie ai livelli alti, ricevono un trattamento superiore a quanto comporterebbero i contributi versati nel corso della vita lavorativa.

A questo tentava di rimediare in modo assai rozzo il provvedimento ora abrogato. Ma intervenire in modo equo con calcoli precisi, ad personam, (come hanno proposto in passato Tito Boeri, oggi presidente dell’Inps, o Yoram Gutgeld, consigliere del presidente del Consiglio) pone tremendi problemi di consenso politico.

La Costituzione comprende anche l’articolo 81, nella sua nuova formula fin troppo rigida, che prescrive «l’equilibrio di bilancio». L’onere impopolare di fare i conti con quello la Corte lo lascia a governo e Parlamento. Per giunta, la svolta imprevista nei tassi sul debito pubblico, ora in risalita, e il recupero dell’euro sul dollaro, complicano il quadro di insieme: altro che «bonus»!

Può ben darsi che il mutamento d’umore dei mercati sia passeggero, parte delle oscillazioni gregarie tipiche della finanza di oggi. Però per prudenza è meglio ipotizzare che i tre grandi fattori favorevoli per l’Italia – bassa spesa per interessi, più export con l’euro debole, greggio a buon mercato – possano nel 2015 dare una somma inferiore a quella fin qui sperata.

L’unica via di uscita è in avanti. Gran parte della scarsa competitività dell’Italia dipende dall’inefficienza delle sue strutture pubbliche. C’è una giungla di poteri che si erodono l’un l’altro a forza di veti, in una confusione in cui i cittadini non capiscono più a chi spetta di decidere, e a chi di controllare. Senza sciogliere questi nodi, oltretutto, resterà arduo ridurre le spese.

Da - http://www.lastampa.it/2015/05/08/cultura/opinioni/editoriali/rifare-i-conti-unoccasione-per-il-governo-DQs5uwv3ebzFUX2v1dwBdI/pagina.html
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« Risposta #102 inserito:: Giugno 29, 2015, 06:01:21 pm »

Il gioco d’azzardo di Tsipras fa perdere i greci

28/06/2015
Stefano Lepri

L’area dell’euro vive la sua ora più triste. Forse l’uscita della Grecia, ormai difficile da evitare, non sconvolgerà più di tanto i mercati, ma il suo strascico di veleni peserà a lungo nella politica del nostro continente. I 19 governi non sono riusciti, tutti, a prevenire una dolorosa frattura; ma la colpa di questo esito è del disperato gioco d’azzardo che Alexis Tsipras ha spinto troppo oltre.

Non ci si racconti che si tratta di difendere la dignità di un popolo contro creditori spietati. I documenti del negoziato, trapelati perlopiù per iniziativa dei greci stessi, lo smentiscono. Quale abisso c’è tra un aumento dell’Iva con gettito di 0,93 punti di prodotto lordo e un aumento dell’Iva per 1 punto di Pil? A questo, e a poco altro, si era ridotta la distanza tra le due parti.

Né si scorgono contrapposizioni che possano davvero catturare la simpatia delle sinistre di altri Paesi. In una fase precedente, quando il Fondo monetario internazionale si era stolidamente impuntato sulla deregolamentazione del mercato del lavoro, ce n’erano state.

Tsipras ai greci: “Votate no al referendum. La proposta dei creditori è un insulto” 

Nell’ultima fase, anche su questo punto la distanza non era grande. A una prima impressione, rivolgersi al popolo è parsa a molti una scelta giusta. Ma, guardando bene, la domanda che verrà posta è ingannevole. Tsipras ha deciso per il referendum quando ha constatato che il suo partito, Syriza, si sarebbe spaccato nel voto sul presumibile accordo. Ha cercato di usare l’annuncio come arma per ulteriori concessioni, gli altri governi hanno risposto no.

Buona idea sarebbe stato indire un referendum ponendo la questione vera. Nel voto dello scorso gennaio i greci hanno dato la maggioranza relativa a un partito che in realtà non è d’accordo su dove andare: dentro l’euro, o fuori. Occorreva quindi tornare a rivolgersi ai cittadini riconoscendo la divisione interna a Sýriza.

Tsipras rimane popolare; lo sostiene ancora la speranza («i elpida», parola d’ordine della campagna elettorale) di un nuovo modo di governare, diverso dal clientelismo dei vecchi partiti. Ben poco tuttavia si è visto, specie di impegno a ricostruire uno Stato corrotto e inefficiente; mentre interessi di categoria, di aree elettorali, di lobby sindacali, restano le vere «linee rosse invalicabili» a Bruxelles.

Il guaio è che la condotta del governo di Atene è stata disastrosa innanzitutto per i greci stessi. Una scelta tra euro e dracma sarebbe stata meno pericolosa quattro mesi fa, prima che l’economia rientrasse in recessione, che il bilancio dello Stato tornasse in passivo anche al netto degli interessi sul debito, che le banche si svuotassero di denaro.

Gli altri diciotto Paesi hanno fatto bene ieri a mostrare fermezza. Nelle ore che restano fino alla dichiarazione di insolvenza di martedì, occorrerà però che l’Europa sappia parlare ai cittadini greci, e spiegare che nessuno vuole opprimerli. I sacrifici su cui verteva il negoziato - per rimettere in sesto il bilancio - sarebbero necessari anche in caso di una totale cancellazione del debito.

Se la tragedia dell’uscita greca non potrà essere evitata, sarà urgente fare chiarezza tra chi rimane. Troppi in Germania si augurano che punire un Paese serva a educarne altri. Invece, per reggere all’urto, per evitare che i mercati si rivolgano contro altri Paesi deboli, occorrono misure immediate che rinsaldino l’edificio dell’euro. Quelle previste dal «Rapporto dei 5 presidenti» sono il minimo necessario.

Da - http://www.lastampa.it/2015/06/28/cultura/opinioni/editoriali/il-gioco-dazzardo-di-tsipras-fa-perdere-i-greci-XIZCEKlSR0sGAJY6GifkDL/pagina.html
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« Risposta #103 inserito:: Febbraio 14, 2017, 05:36:05 pm »

Sui conti le scorciatoie sono finte

Pubblicato il 14/02/2017
Ultima modifica il 14/02/2017 alle ore 06:57

Stefano Lepri

Tanto vale farla subito, la manovra aggiuntiva chiesta dalla Commissione europea. L’importo è modesto; gli effetti di freno sulla crescita saranno - secondo i calcoli dell’Ufficio parlamentare di bilancio - limitatissimi. Se si eviteranno visibili aumenti di tasse, come chiede Matteo Renzi, tanto meglio.

All’ex presidente del Consiglio si può casomai rimproverare che una migliore legge di bilancio 2017, meno legata a entrate aleatorie, avrebbe risparmiato all’Italia la nuova controversia con gli uffici di Bruxelles. Ma il principio che la pressione fiscale va ridotta, anche da un punto di vista di sinistra, è bene che resti. 

Un problema serio nella gestione dell’area euro c’è; l’Italia non può risolverlo da sola. Nelle previsioni economiche della Commissione uscite ieri si legge appunto che nel loro insieme i 19 Paesi per condurre una politica di bilancio appropriata, tale da creare più posti di lavoro, nel 2017 dovrebbero investire in aggiunta o tassare di meno per circa 40 miliardi. Non lo faranno.

L’effetto combinato delle politiche nazionali, del Patto di stabilità e dei compromessi per aggiustarlo, dà un risultato (una «fiscal stance» nell’inglese dei tecnici) insoddisfacente, da cui molti disoccupati ricavano un danno duraturo. Non c’è qui un disegno malefico di qualche Paese contro qualcun altro; anche una analisi del Fmi mostra soltanto una complessiva irrazionalità.

Germania e Olanda, che potrebbero far di più per il bene comune, hanno bilanci in attivo che agli altri sono dannosi. Al contrario l’Italia è già fin troppo in deficit rispetto a quanto la sua montagna di debiti potrebbe permettere, come conferma il recente rialzo dello «spread»; se tentasse di sfuggire alle regole metterebbe in pericolo se stessa e anche gli altri.

Tutto questo andrà cambiato. Sarà una battaglia politica lunga, da condurre trovando alleati. Potrebbe diventare meno ardua se le elezioni francesi di primavera e quelle tedesche di autunno andassero come fanno supporre i sondaggi correnti: vittoria del centrista ed europeista Emmanuel Macron a Parigi, rafforzamento dei socialdemocratici nella inevitabile grande coalizione a Berlino.

Non ci sono scorciatoie. Fino all’anno scorso, le intemperanze italiane trovavano simpatia dall’altro lato dell’Atlantico, e ci proteggeva il sostegno monetario della Bce al massimo della forza. Ora il panorama è cambiato; la Germania diventa nel mondo il principale pilastro del libero commercio, vitale per difendere quell’attivo con l’estero che è una delle poche forze dell’Italia.

Oltretutto il confronto con il resto d’Europa ci conferma che i guai del nostro Paese sono prodotti soprattutto all’interno. Quando finalmente la ripresa sembra consolidarsi, da noi resta più debole. Il divario non è recente, era già comparso negli Anni 90, prima dell’euro. Più passa il tempo, più diventa duro sostenerlo.

Sul nostro 2017 pesa inoltre l’incertezza politica, come rileva la Commissione (che il «no» al referendum abbia avuto conseguenze a questo punto è difficile negarlo). Pesa - sull’afflusso di credito alle imprese - il cattivo stato delle banche italiane: i 20 miliardi che lo Stato vi investirà sono purtroppo necessari, ma senza un progetto per riassestarle rischiano di essere persi.

In qualsiasi momento si vada al voto, speriamo che i partiti sappiano andare oltre i fantasiosi scambi di accusa mediante «fake news», ovvero false notizie. Non è male che intanto la Francia si applichi a considerare i rischi tremendi di un’uscita dall’euro, di fronte ai quali le tre settimane di banche chiuse, contante razionato, divieto di portar soldi all’estero in Grecia nel 2015 parrebbero un’inezia.

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« Risposta #104 inserito:: Aprile 13, 2017, 06:08:33 pm »

La sfida è la stabilità del debito

Pubblicato il 12/04/2017

STEFANO LEPRI

L’impressione della paralisi politica è stata piuttosto evidente nella conferenza stampa del governo ieri sera. Sapevamo già alla vigilia che le scelte economiche importanti per il 2018 sarebbero state rinviate a ottobre; c’erano anche motivi di politica europea per far così. Ma ha colpito la mancanza di dettagli sulle misure immediate, sulla «manovrina»: e qui il problema è tutto italiano.

 
Possiamo anche dar fiducia a Pier Carlo Padoan quando afferma che la manovrina non peserà sulla crescita e nello stesso tempo aggiusterà i bilanci in modo permanente («strutturale» nel gergo europeo), non effimero. Dato il suo modesto importo, i 3,4 miliardi già noti, non sarà difficile. La vaghezza di ieri fa tuttavia sospettare mercanteggiamenti politici in corso, e debolezza di progetto.
 
E’ anche vero che una parte rilevante delle risorse sarà raccolta con la lotta all’evasione. Però occorre ragionare su perché le uniche misure adottate contro l’evasione, come già dal governo Renzi, siano quelle («split payment» dell’Iva e simili) che non risultano immediatamente impopolari. Questo unico spiraglio rimane aperto a una politica debole.
 
Lo stesso ministro dell’Economia confessa un’altra difficoltà. 

Se da una parte si conferma l’obiettivo di ridurre la pressione fiscale, certi tagli di spesa (all’opposto di quanto propagandato negli anni scorsi da alcuni economisti) esercitano un freno alla crescita che nell’immediato è più sensibile. Il «no a nuove tasse» diventa arduo proprio quando un governo ha il fiato corto. 
 
Al momento abbiamo solo l’assicurazione che gli impegni europei saranno rispettati, e l’annuncio rassicurante di un deficit 2017 limitato al 2,1%. Si insiste che continua una politica di incisive riforme, mentre abbiamo un Parlamento che stenta ad approvare riforme dell’era Renzi, come quella della giustizia o la legge sulla concorrenza. Sulle riforme ulteriori, la maggioranza è divisa.
 
E’ possibile che un segnale importante al mondo, la stabilizzazione del debito in rapporto al Pil al temine del 2017, venga dato cedendo quote di aziende alla Cassa depositi e prestiti, ente che di fatto è pubblico ma formalmente no. Si prenderebbe tempo dato che la maggioranza anche qui è divisa.
 
Per contrastare le resistenze ideologiche della sinistra, e l’ostilità dei sindacati, sarebbe utile avere un progetto chiaro su perché e come privatizzare aziende come Ferrovie e Poste che in parte svolgono compiti sussidiati di servizio pubblico. In entrambi i casi, non è semplice decidere in quali campi è meglio operi la logica del profitto e in quali no; occorrerebbe riuscire a discuterne.
 
D’altra parte, questa maggioranza scompaginata non è certo spinta alla chiarezza da opposizioni che o ripetono vecchi espedienti retorici (buco, stangata, numeri truccati) o propongono alternative insostenibili. Sia la maxi-riduzione fiscale chiesta dalla Lega Nord sia il reddito di cittadinanza proposto dai 5 stelle costerebbero decine di miliardi. L’uscita dall’euro porterebbe alla bancarotta.
 
L’obiettivo sensato di calare fortemente le tasse (specie sul lavoro) si attua solo sapendo scontentare i tenaci interessi particolari che difendono ogni brandello della spesa pubblica. Non ci sono riusciti né Silvio Berlusconi all’apice della sua forza né Matteo Renzi nella sua battagliera fase iniziale. Tanto meno si può sperare in assetti politici fragili come quelli che ci troviamo di fronte.
 
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