LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => MONDO DEL LAVORO, CAPITALISMO, SOCIALISMO, LIBERISMO. => Discussione aperta da: Admin - Maggio 06, 2010, 11:55:01 pm



Titolo: STEFANO LEPRI.
Inserito da: Admin - Maggio 06, 2010, 11:55:01 pm
6/5/2010

Economia dell'oroscopo
   
STEFANO LEPRI

Il dilemma è se i mercati stiano scommettendo sulle previsioni del tempo (che, pur con un margine di incertezza, hanno basi scientifiche) o sugli oroscopi. Si sono accorti in ritardo che il Portogallo e la Spagna non se la passano nemmeno loro tanto bene?

Oppure, al contrario, vanno dietro a emozioni di giornata, o a chiacchiere messe in giro da chi specula al ribasso? Certo l’Europa grazie alle sue incertezze paga per prima un problema mondiale, la fragilità dei bilanci pubblici dei Paesi ricchi. La costruzione dell’euro mostra falle non inventate, e la solidarietà tra i popoli che lo condividono si rivela debole. Ma sull’euro, minato dall’effettivo malgoverno greco, si scarica anche tutto il peso dei maxi-salvataggi delle banche accollati al contribuente nel mondo.

Se queste sono le cause, conta fino a un certo punto che Madrid e Lisbona abbiano difficoltà meno urgenti; che, a differenza della Grecia, abbiano di che pagare gli stipendi degli statali. Pare ormai cominciata, purtroppo, quella fase 2 della grande crisi che si sperava di evitare. I mercati hanno una loro logica, nel cercare di anticipare problemi futuri, incuneandosi nelle brecce che vedono aperte. Occorre capire se seguendo quella logica non rischino di fare gli apprendisti stregoni, riprecipitando il mondo nella recessione.

Proviamo a paragonare la finanza a un colossale mercato del pesce dove i pescatori vendono a supermercati, ristoranti o singoli. A controllare la qualità della merce non c’è un Ufficio di Igiene, ma tre «certificatori» in concorrenza (le agenzie di rating) con un imbarazzante passato in cui hanno dato per buone partite di pesce guasto (i «titoli tossici»). I certificatori fanno anche previsioni sui prezzi dei giorni successivi, che dipendono dal tempo sul mare. Oltre a scommettere sui prezzi futuri, su questo mercato si stipulano assicurazioni sulla mancata pesca causa burrasca. Si può guadagnare comprando e rivendendo assicurazioni e scommesse, se si ritiene di sapere qualcosa di più degli altri. Spesso i profitti su queste attività collaterali sono maggiori di quelli sulle vere compravendite. Mentre nessuno paga pesci mai catturati, si può guadagnare su voci che si sanno false, se si pensa che gli altri ci crederanno.

Insomma è un mercato che finisce per avere poco a che fare con la vera merce. Ad esempio - tornando alla realtà - che cosa era cambiato ieri in Portogallo per metterlo «sotto osservazione», quando invece dal 28 aprile governo e opposizione sono d’accordo sul risanamento? Al limite, un mercato così potrebbero influenzarlo perfino gli oroscopi, se si ritiene che la maggioranza degli operatori creda agli oroscopi.

Nell’immediato, l’unica via è rispondere alla follia dei mercati affrontando in fretta i problemi veri. A somiglianza della Grecia, e a differenza dell’Italia, Portogallo e Spagna vivono al di sopra dei propri mezzi (squilibrio forte dei conti con l’estero); hanno più tempo per rimediare, basta varare subito programmi pluriennali. Come è noto, se si sospetta di aver davanti dei pazzi è meglio reagire comportandosi in modo normale. Però non è detto che basti a evitare danni.

Corre voce che la Banca centrale europea, unica istituzione federale, sarà costretta a una drammatica supplenza politica. Potrebbe intervenire contro la speculazione al ribasso non nelle aste ufficiali dei titoli pubblici - i Trattati lo vietano - ma sul mercato «secondario», dove si scambiano i titoli già emessi, e annunciare che non terrà più conto dei rating. Per continuare il paragone, sarebbe come chiamare gli infermieri con la camicia di forza. Però certe volte ai matti riesce di convincere il pubblico che loro sono sani, e i matti sono gli altri.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7308&ID_sezione=&sezione=


Titolo: STEFANO LEPRI Se l'Europa ci controlla
Inserito da: Admin - Settembre 06, 2010, 05:57:45 pm
6/9/2010

Se l'Europa ci controlla

STEFANO LEPRI


Se il vero problema dell’Europa - come dice José Barroso - è che per i governi nazionali «quando le cose vanno bene è merito loro e quando vanno male è colpa di Bruxelles», allora qualche speranza c’è.

I ministri dell’Economia avviano con l’Ecofin straordinario di domani il processo per correggere una costruzione politica dove è facile per tutti sfuggire alle responsabilità. Sarà lungo e tortuoso, ma comincia.

La Grecia ha mostrato che dentro una unione monetaria gli errori di un governo nazionale possono diventare costosissimi, potenzialmente catastrofici, per tutti gli altri. Così l’area euro è stata presa di mira dai mercati benché, nell’insieme, i suoi conti pubblici fossero migliori di quelli degli Usa. Per fortuna che a «tenere la barra dritta» come ha detto il presidente della Repubblica, c’era l’unica istituzione davvero federale, la Bce.

L’ideale sarebbe dare più poteri a istituzioni sovrannazionali democraticamente legittimate, magari togliendo alla burocrazia europea altri poteri che si sono dimostrati superflui o sono stati esercitati in modo miope (pur se quella del regolamento sulla curvatura delle banane era una leggenda). Questo non avverrà; bisognerà accontentarsi di procedere a balzelloni, istruiti dall’aver sbattuto contro i muri.

Un impulso vero sembra di percepirlo; non solo perché la Germania vuole evitare di pagare il conto per gli altri. All’Ecofin si discuteranno le procedure per una «sessione di bilancio europea», ovvero un esame di obiettivi e vincoli delle politiche nazionali che si svolgerà ogni anno tra gennaio e aprile. E’ facile spiegare l’entusiasmo mostrato da ministri dell’Economia come Christine Lagarde e Giulio Tremonti. Con un quadro europeo alle spalle i responsabili del Tesoro potranno resistere meglio nei mesi successivi, quando i parlamenti esamineranno le leggi di bilancio, alle pressioni di spesa dei colleghi di governo o delle lobby.

Resta da vedere quanto sarà stringente il processo. Se lo si fosse condotto rigorosamente nei mesi scorsi, madame Lagarde avrebbe forse dovuto fondare il suo programma su previsioni meno rosee di crescita dell’economia francese, o il suo collega italiano chiarire perché è sicuro di recuperare dalla lotta all’evasione fiscale ben 13 miliardi nel biennio 2011-12; e così via per altri loro omologhi. Ma è ancora tutto da definire il limite entro cui i governi potranno «impicciarsi» delle decisioni altrui; e una Commissione europea debole come quella guidata da Barroso è parte del problema.

Più difficile appare un’altra innovazione. Per evitare nuovi casi come la Grecia, occorre rafforzare le sanzioni per chi viola le regole del Patto di stabilità europeo. Multe severe esistono già ma finora non sono mai state adottate: nei primi anni di questo decennio la Germania e la Francia sono state abbastanza forti da sottrarvisi, l’Italia è riuscita a prendere tempo con espedienti solo più tardi dichiarati scorretti; più tardi la debole Grecia ha trasgredito di nascosto, truccando i conti.

Per giunta, il Patto di stabilità reagisce solo ai numeri della finanza pubblica; è stato incapace di dare l’allarme per Irlanda e Spagna, dove gli Stati avevano i conti in ordine ma il settore privato si era caricato di debiti. Sui criteri per evitare ogni tipo di squilibrio lavora il presidente dell’Unione Herman Van Rompuy; non sarà facile mettere d’accordo tutti.
In presenza di un Patto europeo di efficacia ancora dubbia, non sarebbe male che ogni paese interiorizzasse alcune regole basilari. Per l’Italia, dove l’instabilità rimane nella finanza pubblica, Emma Marcegaglia nell’intervista a questo giornale ha fatto sua la proposta di inserire nella Costituzione (sul modello tedesco) un tetto al deficit. Chissà, forse sarebbe - più di altri - terreno appropriato per un’intesa fra maggioranza e opposizione.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7790&ID_sezione=&sezione=


Titolo: STEFANO LEPRI. Se l'euro si regge sul Comma 22
Inserito da: Admin - Ottobre 01, 2010, 03:54:01 pm
1/10/2010

Se l'euro si regge sul Comma 22
   
STEFANO LEPRI


Chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di guerra. Ma chi chiede di essere esentato dalle missioni di guerra non è pazzo».

La situazione attuale dell’area euro ricorda la ben nota trovata centrale del romanzo «Comma 22» di Joseph Heller, che nel 1961 provò a raccontare la Seconda guerra mondiale in chiave di umorismo nero, ed ebbe grande successo.

Ovvero: i mercati non smetteranno di speculare al ribasso sul debito della Grecia finché non saranno certi che la Grecia non farà bancarotta fra 3 anni, alla scadenza del fondo di salvataggio europeo (Efsf) creato nella primavera scorsa. Però se la Grecia, e altri Paesi in difficoltà, potessero contare su un meccanismo permanente di soccorso, forse se la prenderebbero comoda con i sacrifici necessari a risanarsi.

Entrambe le tesi hanno una valida logica interna. Nel dibattito dietro le quinte di questi giorni, la prima è sostenuta dalla Banca centrale europea, la seconda soprattutto dalla Germania (un altro preoccupante caso di divergenza fra l’unica istituzione davvero federale e il Paese più forte). Non è facile trovare il bandolo, come si usa dire; pur se Jacques Delors, Tommaso Padoa-Schioppa e altri sostengono che lo si può trovare. Il problema è centrale pur se l’Irlanda continua a ripetere che non chiederà il soccorso dell’Efsf, e il Portogallo tenta di evitarlo. Insomma, lo spauracchio dei mercati è in realtà utilissimo per costringere la politica a rigare dritto, oppure in una fase di crisi come questa mercati distorti dall’ansia, oltre che inebriati dal denaro facile, inducono disastri altrimenti evitabili?

Di fronte a misure davvero pesanti come quelle adottate dalla Grecia, e alla nuova stretta verso cui si avviano Irlanda e Portogallo, viene da domandarsi quali mai sacrifici potranno placare il Moloch che sottopone questi Paesi a tassi di interesse da strozzo (seppur calati nella giornata di ieri). Potrebbe aiutare la riforma del Patto di stabilità europeo che si sta discutendo; ma i negoziati stanno prendendo una strana piega.

E’ una buona notizia per l’Italia che le nuove regole non ci costringeranno a pesanti manovre correttive per accelerare la riduzione del debito pubblico. Ma non pare una buona notizia per l’Europa il modo con cui ci si sta arrivando, con un testo che all’apparenza stabilisce traguardi ambiziosissimi, poi grazie ai codicilli non cambia granché. Da italiani, capiamo bene di che si tratta: leggi falsamente severe consentono ampio arbitrio alle burocrazie per essere forti con i deboli e deboli con i forti.

Le regole attuali vanno abbandonate non solo perché la Grecia è riuscita a eluderle, ma perché non avevano fatto suonare nessun allarme per l’Irlanda e per la Spagna. Scrivere regole nuove non è facile, per seri motivi tecnici, e soprattutto se non si risponde a una domanda politica, se la Germania sia soltanto l’esempio da imitare o non anche l’altro piatto di una bilancia che non sta in equilibrio.

Soluzioni poco chiare saranno pagate da tutta l’Europa con una dose più elevata di austerità imposta dai mercati. E dopo il documento pubblicato dal Fondo monetario internazionale ieri, c’è poco da indorare la pillola. Inutile illudersi: non regge la tesi che una manovra ben fatta di tagli alla spesa possa in breve rilanciare l’economia, avanzata da alcuni economisti tra cui gli italiani Alesina, Giavazzi e Perotti, e fatta propria dal presidente della Bce Jean-Claude Trichet. L’Fmi dimostra che nelle condizioni attuali, tassi di interesse già quasi a zero e molti Paesi che risanano i bilanci allo stesso tempo, nei primi anni soffriremo assai. I vantaggi ci sono, ma si vedranno dopo.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7900&ID_sezione=&sezione=


Titolo: STEFANO LEPRI. Jean-Claude Trichet: "L'Italia riduca il debito in fretta"
Inserito da: Admin - Ottobre 17, 2010, 07:27:06 pm
17/10/2010 (7:33)  - INTERVISTA

Jean-Claude Trichet: "L'Italia riduca il debito in fretta"

Il numero uno della Bce: le dichiarazioni di Weber?

C’è una sola politica monetaria e un solo presidente

STEFANO LEPRI
INVIATO A FRANCOFORTE

Presidente Jean-Claude Trichet, è finita la crisi dell’euro?
«Interpreto la sua domanda come una domanda sulla stabilità finanziaria nell'area euro piuttosto che sull'euro in sé. Io non penso che ci sia stata una crisi. L'euro è la moneta comune di 330 milioni di persone e gode di un alto grado di fiducia da parte degli investitori e dei risparmiatori. Ciò che è accaduto è invece che un certo numero di paesi non ha rispettato il Patto di stabilità e crescita. Quei paesi ora si sono impegnati in politiche di risanamento dei loro bilanci che erano necessarie da tempo. Dovranno attuare con energia queste misure che sono decisive per preservare la stabilità finanziaria in Europa».

Per evitare che succeda di nuovo, quanto vanno rafforzate le regole del Patto? E come?
«Era necessario anche prima rispettare in pieno sia la lettera sia lo spirito del Patto. La Bce ha sempre insistito su questo negli anni passati. In più, ora il consiglio direttivo della Bce - di cui fa parte Mario Draghi, governatore della Banca d'Italia - chiede un "salto di qualità": ovvero un miglioramento molto, molto significativo, della sorveglianza sui bilanci pubblici nell'area euro. Occorre anche una sorveglianza sulle politiche di liberalizzazione e, soprattutto, sulla competitività relativa dei paesi e degli squilibri delle bilance correnti».

Cambiare i Trattati pare difficile.
«Occorre sfruttare al massimo tutti gli spazi normativi offerti dai Trattati in vigore».

Anche imponendo sanzioni automatiche ai paesi non in regola? Francia, Italia e altri non vogliono. Preferiscono decisioni politiche caso per caso; può darsi che prevalgano.
«A nostro parere, le proposte della Commissione europea muovono nella direzione giusta. Ma occorrono riforme ancora più ambiziose».

Ancora di più? Già i governi stentano a mettersi d’accordo su queste.
«L'esperienza ci mostra che è molto importante una quasi-automaticità delle sanzioni, e con una procedura accelerata, verso i paesi che infrangono le regole. Se vogliamo che l'area dell'euro sia meglio protetta dall'instabilità finanziaria, la discrezionalità nell'applicare le regole deve essere ridotta, senza che si possano invocare circostanze eccezionali. Sanzioni devono essere possibili già nelle prime fasi della sorveglianza».

E’ proprio necessario aggiungere una nuova regola sul livello del debito pubblico? In Italia molti temono che una rapida riduzione - 2,75 punti all'anno nel nostro caso - sarebbe troppo gravosa.
«Ma una regola sul debito c'è già nel Trattato di Maastricht! E l'esperienza ci dimostra che è necessario rispettarla, perché un debito eccessivo può causare instabilità. Un semplice calcolo mostra che, considerando un tasso di inflazione come nella definizione che la Bce dà di stabilità dei prezzi, e con una ragionevole crescita annua del prodotto lordo in termini reali - ad esempio, un po' sopra l'1% - un bilancio pubblico in pareggio, che a norma del Patto deve essere la condizione normale, potrebbe ridurre il debito accumulato di oltre tre punti all'anno nel caso, appunto, di un debito vicino al 120% del prodotto».

Il Patto prescrive bilanci in pareggio, ma diversi paesi dell'euro, non solo l’Italia, non ci si sono mai nemmeno avvicinati. Certo, prima o poi il debito diverrà più costoso. Il presidente della Bundesbank, Axel Weber, ha accennato che un aumento dei tassi di interesse da parte della Bce potrebbe non essere così lontano quanto i mercati pensano.
«Non commento mai le dichiarazioni di altri membri del consiglio direttivo della Bce. Ciò che è importante è che esiste una sola moneta unica, un solo consiglio direttivo, una sola decisione di politica monetaria, e un solo presidente della Bce, che è anche il portavoce del consiglio! Nell'ultima conferenza stampa, ho detto molto chiaramente che gli attuali tassi di interesse sono appropriati».

E da qui in poi?
«L'ago della nostra bussola è la stabilità dei prezzi - una inflazione annuale inferiore al 2% ma vicina al 2% - e su questo possiamo vantare un successo notevole: 1,97% di aumento annuale dei prezzi negli 11 anni e mezzo da che la Bce conduce la politica monetaria. Grazie alla credibilità che ci siamo conquistati, le attese di inflazione a 5 e a 10 anni restano saldamente ancorate».

Direbbe anche lei, come Weber, che l'acquisto sui mercati secondari di titoli pubblici dei paesi in difficoltà, deciso nel pieno della crisi, non ha funzionato e va sospeso prima possibile?
«No! Non è questa la posizione del consiglio direttivo, con una maggioranza schiacciante! Questa, come altre misure non convenzionali, aveva lo scopo di ripristinare un funzionamento normale del meccanismo di trasmissione della politica monetaria. Inoltre noi ritiriamo dal mercato tutta la liquidità creata da questo programma».

A proposito dei paesi in difficoltà, che propone di fare la Bce quando, in capo a tre anni, il fondo europeo speciale utilizzato per soccorrere la Grecia, l'Efsf, cesserà di esistere? Serve, al suo posto, un meccanismo permanente di risoluzione delle crisi?
«Abbiamo detto con chiarezza che una sorveglianza molto rafforzata sui bilanci e sulla competitività è lo strumento adatto per minimizzare il rischio di nuove crisi. Tuttavia, se a dispetto di queste innovazioni il rischio di crisi debitorie dovesse divenire rilevante, un meccanismo per gestire le crisi potrebbe essere utile. Dovrebbe poggiare su una condizionalità politica molto forte e rafforzare gli incentivi a una correzione preventiva degli squilibri di bilancio e macroeconomici».

Un periodo troppo lungo di bassi tassi di interesse può mettere di nuovo a rischio la stabilità finanziaria? Nuove bolle speculative si gonfiano nei mercati emergenti. Il ministro dell'Economia italiano Giulio Tremonti dice che la speculazione impazza di nuovo, forte come prima.
«Le considerazioni di Giulio Tremonti sono sempre stimolanti. Per quanto riguarda la Bce, abbiamo dimostrato nel passato che siamo molto attenti a non imbarcarci in politiche capaci di alimentare la volatilità e l'instabilità finanziaria. I paesi dell'euro possono contare su di noi: continueremo a garantire la stabilità dei prezzi e ad ancorare solidamente le attese di inflazione, condizione necessaria - seppur non sufficiente - per la stabilità finanziaria».

La Bce, sì. Ma gli altri che faranno?
«Credo che questa preoccupazione sia condivisa da tutte le banche centrali del mondo. Sono istituzioni, per loro natura, dedicate alla stabilità, orientate verso il medio e lungo termine; e sono indipendenti dai governi. Per questo i nuovi organismi incaricati di sorvegliare sulla stabilità dei sistemi finanziari, di qua e di là dall'Atlantico, sono assai vicini alle banche centrali».

Fidiamoci delle banche centrali, lei dice. Ed è sicuro che Ben Bernanke non permetterà un pesante deprezzamento del dollaro.
«Sui tassi di cambio mi limito a dire che eccessiva volatilità e movimenti disordinati causano sempre conseguenze sfavorevoli sulla stabilità economica e finanziaria. Inoltre, considero molto importante che le autorità americane abbiano confermato di recente che un dollaro forte è negli interessi degli Stati Uniti».

Ma la cooperazione nel G-20 è a un punto basso. Gli Usa creeranno più liquidità; la Cina rifiuta un significativo apprezzamento dello yuan. Tra le scelte unilaterali delle due potenze, l'euro rischia di diventare troppo forte...
«Sugli Stati Uniti ho già risposto. Sulle valute delle economie emergenti ricordo che al vertice di Toronto, in giugno, questi paesi si impegnarono ad adottare riforme per accrescere la flessibilità dei loro tassi di cambio. Questo sta avvenendo, incluso il caso della Cina, che ha di nuovo confermato la sua volontà di procedere».

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/economia/201010articoli/59516girata.asp


Titolo: STEFANO LEPRI La cinghia stretta di Berlino
Inserito da: Admin - Dicembre 17, 2010, 09:08:07 pm
17/12/2010

La cinghia stretta di Berlino


STEFANO LEPRI

Sì, l’economia della Germania procede a tutto vapore: ma perché i tedeschi non sono contenti? Non si tratta solo di uno spostamento forte dei consensi politici che minaccia di far perdere ai cristiano-democratici di Angela Merkel tutte le elezioni regionali in programma per il 2011, ad Amburgo in febbraio, a fine marzo nel Baden-Wuerttemberg. I sindacati, che nei Paesi deboli dell’euro scendono in piazza contro l’austerità, in Germania chiedono aumenti dei salari.

Dell’euro i tedeschi si sono disamorati perché pensano di averne sofferto. Non si tratta soltanto dell’opinione popolare, c’è chi lo teorizza. Secondo Hans-Werner Sinn, uno dei più stimati economisti, presidente dell’istituto di ricerca Ifo di Monaco, negli anni prima della crisi la Germania ha sofferto una «emorragia» di capitali. Una «emorragia» che ha depresso il Paese, tra l’altro abbattendone i valori immobiliari (il rovescio di quanto è accaduto in Irlanda e in Spagna); anche le imprese hanno investito pochissimo.

Secondo Sinn, i successi attuali nell’export sono l’effetto di aver stretto la cinghia fin troppo negli anni precedenti. Ma occorre osservare che alcuni l’hanno stretta più degli altri. Dal 2000 al 2007 i redditi da capitale sono saliti dal 36,1% al 39,9% del valore aggiunto, mentre il potere d’acquisto dei redditi da lavoro ristagnava. Il mugugno popolare contro l’euro nasce da un tenore di vita che è rimasto fermo. Ma la colpa sta assai più nell’accentuata concorrenza sul mercato globale, in un Paese con l’industria orientata sull’export.

Tutte le riforme di uno Stato sociale troppo generoso realizzate nell’ultimo decennio - in sostanziale continuità tra il governo rosso-verde (1998-2005), la grande coalizione fra cristiano-democratici e socialdemocratici (2005-2009) e l’attuale centro-destra - hanno avuto come bussola una maggiore efficienza dell’industria, insieme con il contenimento della spesa pubblica. Poco si è fatto per liberalizzare il settore dei servizi, frenato da leggi e da privilegi.

Se i capitali fuggivano all’estero, non era solo per gli alti profitti promessi dal boom immobiliare a Dublino, a Malaga o a Siviglia. La stretta ai salari - come spesso tutto quello che fanno i tedeschi - è andata oltre le necessità di ricostituire sani margini di profitto per le imprese; non c’erano abbastanza opportunità di investimento produttivo, in patria o nei Paesi dell’Est dove si delocalizza, per tutti quei capitali. E allora avanti con gli impieghi speculativi, ai tempi in cui a Wall Street si diceva che i più pronti a comprare ogni genere di titoli tossici erano i banchieri della Germania.

Già, le banche. Molte delle esitazioni e delle giravolte del governo Merkel durante la crisi dell’euro possono essere spiegate con la tenace volontà di lavare in casa, e con tempi lunghi, i panni sporchi delle banche tedesche. Non delle grandi, come Deutsche o Commerzbank, ma delle banche regionali fondate sulla raccolta delle Casse di risparmio, strettamente collegate al potere politico locale; che per compensare i bassi profitti della inefficiente gestione domestica si sono gettate sui titoli tossici americani prima e sui titoli di Stato dei Paesi deboli poi.

Dove invece non è giusto criticare la Germania - come hanno fatto gli americani al G20 - è per la politica di bilancio. Un Paese con i conti in ordine ha potuto fare le scelte giuste. Nei consuntivi tracciati dal Fmi e dall’Ocse, le misure anticrisi del 2009 sono state tra le più ampie ed efficaci nei Paesi avanzati. Anche questo, oltre alla forza dell’export, ha permesso alla Germania il record strabiliante di non aver accresciuto il numero dei disoccupati; mentre ora, addirittura, si cercano ingegneri e tecnici qualificati anche all’estero. E la successiva stretta ai conti pubblici nel 2011 non fermerà la ripresa.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8208&ID_sezione=&sezione=


Titolo: STEFANO LEPRI Parmalat e i rischi delle barriere
Inserito da: Admin - Marzo 25, 2011, 06:42:33 pm
25/3/2011

Parmalat e i rischi delle barriere

STEFANO LEPRI


Forse alla fine per la Parmalat si farà un condominio italo-francese. Intanto però sarebbe meglio riflettere sulla tesi della «reciprocità», condivisa da tutte o quasi le nostre forze politiche. Ovvero, siamo proprio sicuri che se la Francia dichiara «strategica» la produzione dello yogurt, noi dobbiamo fare tutto il possibile per conservare una guida italiana alla lavorazione del latte?

Si può al contrario sostenere, con vecchie ragioni liberali, che gli investimenti esteri sono un bene soprattutto per chi li riceve; peggio per la Francia se li limita. In altre occasioni, lo diciamo tutti: quando ci deprimiamo di fronte ai dati che mostrano quanto sia modesto l’afflusso di investimenti diretti stranieri in Italia.

Era proprio francese l’economista liberista Frédéric Bastiat (una delle bestie nere di Karl Marx) che per primo ridicolizzò il protezionismo. Vi parrebbe sensato, domandò, riempire di macigni i nostri porti commerciali con la scusa che altri paesi hanno inaccessibili coste rocciose? Se un Paese si isola, fa solo il proprio male. Fu lui, del resto - sulla base dell’esperienza di deputato - a immaginare una fantastica petizione al Parlamento dei fabbricanti di candele, per chiedere protezione contro la sleale concorrenza della luce solare.

In concreto, ci interessa che i posti di lavoro, specie qualificati, restino in Italia. Ma occorre misurare in concreto i vantaggi e gli svantaggi, che non riguardano solo Parma e dintorni. Quale segnale si dà all’estero, se si fa muro contro le acquisizioni di ogni azienda dal nome noto? I successi del manager Enrico Bondi, che ha risollevato la Parmalat dalle rovine, forse saranno meglio garantiti se l’azienda confluisce in una importante multinazionale (apprezzata da noi con marchi che parecchi consumatori credono italiani, anzi lombardi: Galbani, Invernizzi, Cademartori).

Di recente, il vessillo dell’italianità è stato sventolato per coprire affari non limpidi, come quando l’allora governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio fece di tutto - se ci siano reati lo sta valutando un tribunale - per assegnare l’Antonveneta alla Popolare di Lodi del suo amico Gianpiero Fiorani invece che agli olandesi della Ing. Ma già in quei mesi a Padova, sede dell’Antonveneta, molti ritenevano più rassicurante prendere ordini da Amsterdam piuttosto che da Lodi (e non c’era nulla di irreversibile, dato che ora l’Antonveneta è di nuovo italiana, controllata dal Monte dei Paschi).

La passione nazionale può ingannare. Nel settore dell’aerotrasporto, diversi esperti ritengono che se l’Alitalia fosse stata interamente ceduta nel 2008 ad Air France, e fosse stata integrata nel gruppo, oggi avrebbe più dipendenti e più fatturato di quanti ne ha; difficile esserne certi, ma il problema esiste. Con lo scopo di mantenere sotto controllo nazionale la Telecom Italia, governi di opposto colore hanno successivamente operato per assegnarla a capitalisti italiani con scarsi capitali, cosicché per lunghi anni l’azienda è stata frenata nel suo sviluppo dal pagamento dei debiti contratti per acquistarla. Entrambe le aziende 10-15 anni fa trattavano ancora quasi da pari con le loro consimili, Air France o Deutsche Telekom; restare solo italiane non ha giovato.

Nel mercato mondiale di oggi, la difesa di aziende che siano «campioni nazionali» è già miope per la più potente Francia, figuriamoci per noi. Per come vanno le cose del dopo-crisi, i prossimi acquirenti che batteranno alle nostre porte saranno assai più diversi da noi rispetto ai francesi: cinesi, indiani, o chissà che. Purtroppo, quasi ovunque in Europa i politici preferiscono aziende a controllo nazionale ritenendo di esercitare su di esse un maggior potere.

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali


Titolo: STEFANO LEPRI. La lezione dell'Irlanda
Inserito da: Admin - Aprile 01, 2011, 10:30:27 pm
1/4/2011

La lezione dell'Irlanda

STEFANO LEPRI

Il precedente governo di Dublino aveva garantito che tutto il costo delle malefatte delle banche irlandesi sarebbe stato accollato ai contribuenti. L’attuale governo, formato da altri partiti, ritiene che una parte delle perdite dovrebbe essere sostenuta da chi, a quelle banche, aveva incautamente prestato denaro. Se sarà così, si tratterà di una novità assoluta in Europa. In questa diversa scelta politica sta la ragione per cui le cifre di ieri sulle banche irlandesi - in sé, abbastanza previste - rappresentano un segnale minaccioso per tutta l’area dell’euro.

Nelle stesse ore a Berlino, la cancelliera Angela Merkel ha espresso idee affini, in un intervento assai severo davanti a un congresso di banchieri. «Il settore privato deve partecipare ai costi dei salvataggi dei Paesi in difficoltà» ha detto; e «i mercati hanno capito che questo in futuro dovrà avvenire». Anche questa è una scelta politica: la Germania insiste che, con il nuovo Fondo di stabilità europeo dal 2013, a pagare i debiti degli Stati spendaccioni sarà chi gli ha prestato soldi, non i contribuenti tedeschi.

Il problema è se dalla combinazione di queste due scelte politiche, entrambe comprensibili, non si possa creare, sui mercati, una miscela esplosiva. Esponenti della Bce come Juergen Stark e Lorenzo Bini Smaghi sconsigliano all’Irlanda di decidere da sola, ad esempio, un rimborso solo parziale delle obbligazioni non privilegiate di alcune banche di fatto fallite (che ammontano a circa 21 miliardi di euro); si rischierebbe una reazione a catena, con contagio ad altre parti del sistema creditizio dell’area dell’euro. Mentre i mercati, anticipando che i Paesi in difficoltà resteranno Grecia, Irlanda e Portogallo, fanno salire ancora i tassi d’interesse sui loro titoli; li spingono così da subito verso quell’insolvenza che si potrebbe verificare dal 2013 in poi.

Per fortuna un contagio diretto ad altri Paesi appare escluso. I mercati si sono finalmente accorti che la Spagna può tenersi in piedi da sola, e che l’Italia non ha problemi a pagare i suoi debiti. I Paesi in difficoltà sono quei tre soli, Grecia e Irlanda già soccorse da Ue e Fmi, il Portogallo che non chiederà aiuto prima delle elezioni anticipate, dunque non prima di giugno. Tuttavia, esiste il pericolo di un contagio per via bancaria, anche a banche di Paesi solidi.

E fino a ieri la Germania ha giocato una partita poco chiara, mostrandosi impaziente da una parte, temporeggiando dall’altra, dato che fra i maggiori creditori dei Paesi spendaccioni ci sono le sue banche. Se si ritiene, come ha detto il presidente dimissionario della Bundesbank Axel Weber, che gli altissimi tassi imposti dal mercato ai titoli di Grecia, Irlanda e Portogallo siano giustificati, «perché rispecchiano gli attuali livelli di rischio», poco manca ad affermare che quei Paesi sono insolventi. Dunque tanto varrebbe, come chiede The Economist, dichiararli subito tali senza indugi.

Ma si può farlo senza scatenare un terremoto? L’unica via possibile è cominciare dalle banche, facendo chiarezza sulla loro solidità una volta per tutte; purtroppo gli stress test cominciati dall’Irlanda avranno cadenze diverse in ciascun Paese. Anche molte banche sane vanno rafforzate, comprese quelle italiane come ha sottolineato Mario Draghi; e la Borsa è inquieta. Il buon senso suggerisce che a salvare le banche malate devono provvedere gli Stati, mentre per rafforzare le sane bastano i capitali privati, non importa se stranieri.

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Titolo: STEFANO LEPRI. Sul debito greco c'è qualcuno che gioca sporco
Inserito da: Admin - Maggio 08, 2011, 11:33:46 am
8/5/2011

Sul debito greco c'è qualcuno che gioca sporco

STEFANO LEPRI


Qualcuno ha giocato pesante, nella bruttissima giornata di venerdì che ha di nuovo fatto tremare l’euro. Non c’è bisogno di essere esperti di finanza per avvertire puzza di bruciato, quando un grande creditore sparge la voce che il debitore non pagherà. Ovvero, non converrebbe affatto alla Germania se la Grecia dichiarasse una parziale insolvenza (ristrutturazione) del proprio debito pubblico, perché tra i maggiori creditori vi sono banche tedesche.

Eppure le voci sul possibile default della Grecia sono state rilanciate proprio da lì. Da Atene alcuni hanno cercato di rispondere con le stesse armi, giocando il tutto per tutto. L’incontro di emergenza a Lussemburgo tra alcuni ministri europei ha rimesso le cose a posto, per il momento; ma la vicenda resta brutta, e carica di rischi politici ancora più che economici.
Occorre dunque capire perché i mercati per qualche ora si sono esercitati a scommettere su ipotesi estreme. Da una parte si è dato come imminente l’annuncio che la Grecia non avrebbe onorato una parte dei suoi debiti. Dall’altra si è risposto con l’ipotesi che la Grecia uscisse dall’euro, cosa piuttosto difficile da realizzare ma che se attuata porterebbe, di necessità, a una rottura traumatica con l’Unione europea in cui dei debiti non verrebbe saldato quasi nulla.

A chi giova? Certo, in qualche caso rinunciare ai propri crediti può risultare un male minore. Se abbiamo prestato soldi a un amico in difficoltà, piuttosto che ascoltare ogni mese le nuove scuse che inventa per non ripagare, possiamo condonargliene una parte in cambio della promessa di saldare con puntualità le rate che restano. Tutto sta nel valutare i pro e i contro. Non si può mostrare indulgenza verso chi continua a spendere più di quanto guadagna. Se abbiamo altri debitori, potrebbero trarne spunto per diventare morosi anche loro. E naturalmente la generosità può risultare troppo costosa anche per noi stessi. La Bce, la Commissione europea e molti governi tra cui quello italiano sono convinti che nella vicenda greca questi tre rischi compaiano tutti.

Il ragionamento che si fa a Berlino (non in tutto il governo, per fortuna) è però politico, e funziona come segue. Se la Grecia deve dichiarare bancarotta, meglio che lo faccia subito. Più si va in là, più i creditori privati riusciranno a liberarsi dei titoli di Stato ellenici, e il crack andrà invece a carico degli altri Stati europei che stanno sostenendo la Grecia; la resa dei conti si avvicinerebbe pericolosamente alle prossime elezioni politiche del 2013. Agli elettori - si ragiona - sarebbe più facile chiedere adesso soldi per sostenere le banche tedesche, piuttosto che a ridosso delle elezioni informarli degli ammanchi apertisi nel bilancio della Bundesrepublik.

I mercati finanziari di oggi hanno uno straordinario, inquietante potere di trasformare le fantasie in realtà: più si parla di collasso di un Paese, più l’ascesa dei tassi di interesse sui suoi titoli lo rende probabile. L’ipotesi di default, pur se rilanciata da Berlino, era nata nella politica di Atene; secondo un recente sondaggio è condivisa da una leggera maggioranza di greci, ignari che scaricherebbe su di loro sacrifici ancora più pesanti.

Solo se il governo greco si impegnerà di più i calcoli altrui non avranno spazio. Le difficoltà politiche più consistenti in questi giorni ad Atene riguardano le privatizzazioni di aziende pubbliche: non il tenore di vita dei cittadini, piuttosto il potere clientelare dei politici. La scelta giusta dell’Europa è di imporre tempi e garanzie sicure su quel programma. Altrimenti vinceranno la Grecia peggiore e la Germania peggiore.

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Titolo: STEFANO LEPRI Restiamo sotto osservazione
Inserito da: Admin - Luglio 14, 2011, 03:33:31 pm
14/7/2011

Restiamo sotto osservazione

STEFANO LEPRI

Con la manovra economica approvata dalle Camere in tutta fretta passerà la burrasca; ma l’Italia resterà sotto osservazione. Anche sui mercati finanziari, come nella vita di ogni giorno, la fiducia si perde in fretta, si riconquista a fatica. D’ora in poi, tutte le giravolte della nostra politica saranno tenute d’occhio; potranno costare care, ciascuna misurata sui tassi di interesse che lo Stato paga sui suoi debiti.

Ieri Mario Draghi, governatore della Banca d’Italia e futuro presidente della Banca centrale europea, ha notato che l’instabilità in Europa è frutto di errori che tutti i governi hanno compiuto, affrontando la crisi dei Paesi deboli «con interventi parziali e temporanei». Poi però ha aggiunto che se i mercati si sono mossi la settimana scorsa contro l’Italia, che ha problemi di lungo periodo - non immediati come quelli di Grecia, Irlanda, Portogallo - è a causa delle incertezze sulla politica di bilancio.

Lo si può dire in gergo tecnico, se si vuole, come fanno gli uffici studi: non c’è stato, nei giorni scorsi, alcun deterioramento dei dati fondamentali dell’economia italiana.

Solo nelle ore più agitate sono corse voci su una presunta fragilità delle nostre banche, che si sono presto rivelate prive di consistenza. Se le agenzie di rating si sono all’improvviso messe a disquisire su prospettive decennali o ventennali del nostro debito, è perché leggevano della nostra politica.

Draghi, ponendosi nella linea tracciata dal Capo dello Stato, ha invitato a trovare «un intento comune, al di là degli interessi particolari e di fazione». E’ questo spirito fazioso che si vede anche negli scandali scoperti dalla magistratura: alla propria parte politica si consente tutto, all’altra tutto si intralcia.

Ma se è così, quando giunge il momento di chiedere ai cittadini sacrifici, si rischia che ognuno risponda: perché a me e non agli altri? L’abitudine a rispettare le leggi si rivela un bene prezioso soprattutto nei momenti difficili. Tanto più se fino a ieri si era sostenuto che l’Italia usciva dalla crisi meglio degli altri Paesi; quando invece i dati ci dicono che anche prima della crisi mondiale stavamo cominciando a diventare più poveri, novità assoluta in tutto l’Occidente.

Nell’analisi della Banca d’Italia, si rischia ora che troppo del necessario risanamento di bilancio si faccia con le tasse, proprio con quelle tasse che l’attuale compagine politica aveva promesso, al contrario, di ridurre. E non si tratta solo di rafforzare le politiche di rigore che il ministro dell’Economia ha difeso nei giorni scorsi contro molti suoi colleghi. Vengono al pettine anche i nodi di una politica economica per così dire inerziale, del tipo «se non si può fare bene, meglio non fare nulla».

Mario Monti, personaggio del quale la nostra politica chiacchiera in questi giorni proprio perché si è costruito come figura al di sopra delle parti, rimprovera allo stesso Tremonti, scrivendo sul Financial Times, di non aver né privatizzato né liberalizzato, e inoltre di «non riconoscere il bisogno di accrescere la produttività e la competitività dell’Italia, e di abbassare le sue pronunciate disuguaglianze sociali».

Negli Anni 70, a soffocare la dinamica della nostra economia era stato un malinteso egualitarismo. Oggi, sostengono alcuni economisti, si rischia l’opposto, che a spegnere la voglia di intraprendere e di migliorare sia un eccesso di disuguaglianze di cui non si capisce la logica: tra giovani e vecchi, tra uomini e donne, tra stipendi d’oro e mille euro al mese con contratto a termine, tra i raccomandati e gli esclusi, chi si arricchisce con la politica e chi ne è fuori. A ben guardare, c’era disprezzo del merito allora, ce n’è oggi. Ed è premiare il merito il miglior incentivo a rispettare le leggi.

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Titolo: STEFANO LEPRI. Banche ok, ma resta il nodo Grecia
Inserito da: Admin - Luglio 16, 2011, 05:00:02 pm
16/7/2011

Banche ok, ma resta il nodo Grecia

STEFANO LEPRI


Da ieri sappiamo che la stragrande maggioranza delle banche europee, tra cui tutte e 5 le più importanti banche italiane, riuscirebbe a reggere a un’altra crisi come quella del 2007-2009.

Però la storia difficilmente si ripete. Così i mercati finanziari non si sono rassicurati gran che, dato che una possibile nuova crisi se la immaginano diversa, centrata questa volta sul debito degli Stati.

In sé è stato severo l’esame dei nuovi stress test a cui sono state sottoposte le banche europee. Due anni fa, nell’esame precedente, erano state promosse anche banche irlandesi rivelatesi poi dei pozzi senza fondo. Questa volta su 90 banche otto sono bocciate e 16, per così dire, rimandate; in più la tedesca Helaba si è ritirata per evitare un verdetto negativo. Senza gli aumenti di capitale degli ultimi mesi, i bocciati sarebbero stati più del doppio, calcola la Reuters.

Per quanto poteva, ha fatto sul serio la nuova autorità di vigilanza europea, l’Eba, diretta dall’italiano Andrea Enria; si è anche scontrata con l’ente tedesco, il Bafin. La quantità di dati rivelati realizza un forte aumento della trasparenza; benché si sospetti che alcune autorità nazionali siano riuscite ad essere più indulgenti delle altre. Nel caso dell’Italia, diventa chiaro che le banche non sono oggi tra i suoi punti deboli; si conferma che aveva ragione Mario Draghi nei mesi scorsi a sollecitare gli aumenti di capitale poi realizzati (salvo che da Unicredit).

Il grande limite di questi nuovi stress test era nelle cose. Una istituzione ufficiale non poteva simulare gli effetti più gravi di una crisi non ancora accaduta; il rischio sarebbe stato di renderli più verosimili, forse più probabili. Per questa ragione di responsabilità si è ipotizzato cosa accadrebbe se la Grecia non ripagasse una quota dei propri debiti che ora appare troppo limitata; si è studiato l’effetto sulle banche di un rialzo dei tassi sul debito pubblico italiano non molto superiore a quello realizzatosi negli ultimi giorni.

La Banca d’Italia ci assicura che anche nella sgradevole ipotesi di una nuova e più grave caduta della fiducia del debito pubblico italiano, le nostre grandi banche non correrebbero rischi. Ma poco ci tranquillizza che i nostri depositi siano al sicuro se tutto attorno succede il pandemonio. Visto che di debiti degli Stati si tratta, l’essenziale è capire quali strumenti appronteranno i governi; si spera in qualche risposta più chiara, soprattutto sulla Grecia, dal vertice europeo ora convocato per il 21 luglio.

Altrimenti, sarà inevitabile che i mercati continuino a infierire sui titoli bancari, così come sui titoli di Stato dei Paesi deboli. Da una parte, resta il sospetto che qualche Paese sia stato più tenero degli altri verso i suoi banchieri. Dall’altra, si teme che il comportamento di alcuni governi sia impacciato dalle complicità tra potere politico e potere finanziario. E’ stato così a lungo, purtroppo, nei due Paesi più importanti dell’euro, la Germania e la Francia; con l’inconveniente che i rispettivi banchieri premevano in direzioni diverse.

Per ritrovare sicurezza, occorre avere il coraggio di essere più solidali con i Paesi deboli, o il coraggio di essere più severi con i banchieri: finora, a Berlino soprattutto, sono mancati tutti e due. L’importanza degli stress test di ieri non si misura tanto sull’impressione immediata, quanto nello sgombrare il campo alle ipocrisie: ora che sappiamo più in dettaglio come stanno le banche, si dovrebbe poter discutere in modo più sensato sul che fare dei debiti della Grecia. Anche per evitare il contagio, come interessa a noi italiani.

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Titolo: STEFANO LEPRI. Ue e Italia due debolezze fanno una crisi
Inserito da: Admin - Luglio 19, 2011, 06:35:52 pm
19/7/2011

Ue e Italia due debolezze fanno una crisi

STEFANO LEPRI


L’ intreccio tra debolezza politica dell’Italia e debolezza politica dell’Europa rischia di provocare un cataclisma di portata storica. La speculazione al ribasso che ieri si è abbattuta di nuovo sui nostri titoli di Stato e sulla nostra Borsa non rappresenta tanto un giudizio negativo sulla manovra economica appena approvata, quanto una scommessa su questa nefasta combinazione di due crisi.

I mercati finanziari scatenano la loro inquietante potenza contro l’Italia perché ritengono che, indebolita abbastanza, possa causare una rottura dell’euro.

Certo la nostra manovra economica poteva essere migliore, meno fondata su aumenti di tasse e meno rimandata alla successiva legislatura. Ma in queste ore si tratta d’altro. Se è servita a poco perfino la novità assoluta di un voto del Parlamento a tempo di record, è perché l’Italia viene usata, per dirla in gergo, come proxy (sostituto) per puntare su una crisi generale dell’euro. L’Italia è un mercato grande, liquido; nei mesi scorsi era risultato difficile smuoverlo, ora che si agita la speculazione vi si getta in massa.

Così pure sono colpite in Borsa le nostre banche, benché gli stress test abbiano dimostrato che sono abbastanza solide e poco esposte - al contrario di quelle francesi e tedesche - verso la Grecia.

Certo nei guai ci siamo finiti per ragioni tutte nostre. Che l’Italia fosse un Paese poco dinamico, sull’orlo di un possibile declino storico, si sapeva già; ma i processi lenti, epocali, ai mercati finanziari interessano poco. A scatenare il pandemonio è stata la percezione che il nostro governo non fosse in grado di reagire con efficacia commisurata agli eventi; e che l’instabilità politica possa durare a lungo anche dopo una sua eventuale caduta. In una prima fase, le vendite di titoli italiani non si potevano definire speculative; era una reazione normale, di investitori normali, alla diminuita fiducia nel Paese.

Una volta che i tassi di interesse sul nostro debito hanno cominciato a salire, la speculazione si è allertata. Ha interagito la crisi dell’euro: la fragilità dimostrata dall’unione monetaria fa sì che una volta saliti i tassi è difficile che ridiscendano. E se il differenziale di tasso di interesse con la Germania rimanesse per anni sui livelli attuali, il debito pubblico italiano non riuscirebbe a scendere mai. A sua volta, la prova che l’Italia poteva essere contagiata ha cambiato gli scenari della crisi dell’euro. Grecia, Irlanda e Portogallo pesano solo per il 6% circa nel prodotto lordo dell’intera unione monetaria. Aggiungendo l’Italia e la Spagna, si arriva invece a un terzo.

In queste ore c’è da salvare l’Europa. I guai dell’Italia non sono certo risolti, ma necessitano di soluzioni solide e progettate con calma. Il tempo per affrontarli ce lo può dare solo una soluzione alla crisi europea. Occorre che l’area euro trovi strumenti in grado di dare fiducia che le crisi dei Paesi deboli saranno risolte. In vista del vertice di giovedì, diverse ipotesi circolano. Peccato che il problema principale non sia tanto stabilire chi paga, quanto che cosa si potrà dare a intendere agli elettori a proposito di chi paga.

Al di là delle soluzioni tecniche – soprattutto quel potenziamento del Fondo di salvataggio europeo, l’Efsf, che da mesi la Germania intralcia benché sia un tedesco a dirigerlo – occorre una prova di solidarietà. Le interdipendenze dentro l’area euro sono nei fatti. Se i cittadini di ogni Paese si sentono in balia delle scelte sbagliate fatte dalla politica di altri Paesi, a un certo punto sarà inevitabile che prevalga la voglia di tagliare i legami. Negli ultimi anni, si è preferito affidare l’Europa ai rapporti tra governi piuttosto che a organismi comuni (tranne la Bce, unica istituzione federale): il risultato è desolante, ma non possono essere che i governi stessi a rimediare. Speriamo che ce la facciano, e presto.

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Titolo: STEFANO LEPRI. Le riforme che si possono davvero fare
Inserito da: Admin - Agosto 03, 2011, 04:30:18 pm
3/8/2011

Le riforme che si possono davvero fare

STEFANO LEPRI

Forse l’Italia sta rischiando oggi più che nel 1992; pur se questi giudizi storici li dà solo il senno del poi. Allora, almeno, si poteva sperare nei partiti che fino a quel momento non avevano mai governato, o in forze nuove capaci di emergere dalla società civile. Per giunta, inseriti come siamo nell’unione monetaria europea, abbiamo lo sgradevole potere di coinvolgere in un disastro anche altri Paesi. Il 2011 offre meno speranze politiche e molto minori margini di manovra nell’economia.

Nelle ultime ore tutti sembrano essersi convinti che occorra uno sforzo nuovo. Al punto in cui siamo giunti, placare i mercati finanziari sarà arduo; quei mercati che ancora, a quattro anni dall’inizio della grande crisi, conservano l’inquietante forza di avverare sciagure che ritengono probabili. L’Italia deve risalire la china riconquistando una fiducia che i mesi scorsi le hanno fatto perdere. Non basta far meglio le stesse cose che si sono fatte finora.

Ad esempio, come misura per la crescita era stato gabellato a suo tempo lo «scudo fiscale», il cui fallimento sotto questo profilo viene ora riconosciuto perfino da esponenti della maggioranza. Occorre qualcosa che dia l’idea di una svolta netta, come hanno sollecitato, per una volta uniti, i rappresentanti delle imprese e dei lavoratori.

Tutti sono d’accordo che occorrono politiche per lo sviluppo. Non è detto che esistano ricette efficaci, pur se gli economisti gareggiano per dettarne. Al di là delle parole, delle molte scelte possibili non è facile sapere quali funzioneranno; e comunque occorrerà tempo per misurarlo. Nel breve termine, solo la novità e la radicalità possono aiutare. Purtroppo, quando le parti sociali si uniscono per chiedere, in genere sottintendono più spesa pubblica o meno tasse: ovvero ciò che non è possibile concedere adesso. Oggi, le parti sociali dovrebbero dare più che ricevere; possono farlo solo se la politica prende iniziative nuove.

Se pure la Commissione Europea dichiara «piena fiducia» nella manovra di bilancio 2011-2014 appena varata, questo vale per le grandi cifre del quadriennio; ai mercati è chiaro che il punto debole sta nel 2012, anno in cui risultano maggiori tasse per finanziare maggiori spese, mentre il rigore vero è rinviato all’anno dopo. Anticipare qualche misura non sarebbe male. In ogni caso, nell’immediato non c’è nulla da concedere; casomai, se si vuole, si può spostare il peso dei sacrifici dove incide meno sulla crescita.

Occorre dunque puntare su riforme che non costano. Riforme che possano dare speranza ai giovani, aprire nuovi spazi di iniziativa, rompere barriere. Il governo ora promette «una stagione di liberalizzazioni e di privatizzazioni», ovvero ciò che questo centro-destra non ha fatto né dal 2001 al 2006 né dal 2008 ad oggi; sarebbe un segnale ancor più significativo di fronte agli intrecci loschi tra politica ed economia che emergono in questi giorni. Meglio aprire nuovi spazi al mercato invece di continuare a scoprire scandali dove si fa mercato delle nomine negli enti pubblici in cambio di favori.

Perché un Paese vada avanti, occorre motivare i giovani. E’ difficile in una fase in cui i posti di lavoro continuano a calare, eppure sarebbe un’idea rivedere le tutele di chi lavora, un po’ meno a chi ha il posto fisso, di più ai precari dandogli una prospettiva di graduale inserimento e di carriera; come la Banca d’Italia ha suggerito più volte. Qui dovrebbero riflettere i sindacati; mentre gli imprenditori dovrebbero al contrario riconoscere che a frenare la produttività oggi sono spesso normative e prassi che congelano gli equilibri di potere all’interno delle aziende e tra le aziende sul mercato. Ma esiste materia per uno sforzo corale seppur non del tutto unanime - come ci fu nel 1992-93?

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Titolo: STEFANO LEPRI. Sollievo temporaneo
Inserito da: Admin - Agosto 08, 2011, 11:25:56 am
8/8/2011

Sollievo temporaneo

STEFANO LEPRI

Se nelle scorse ore la Germania si è chiesta se costasse di più soccorrere l'Italia o abbandonarla al suo destino, dobbiamo chiederci perché. Siamo arrivati malissimo a questo momento drammatico.

Un momento in cui il downgrade del debito americano, sommandosi alla crisi dell'euro, ha rischiato di assestare un colpo letale all'unione monetaria del nostro continente. L'aiuto condizionato a Italia e Spagna a cui ha dato il via ieri il vertice franco-tedesco può darci un sollievo temporaneo; il resto sta a noi. Ci aspettano tempi duri: sconteremo di esserci troppo a lungo tappati gli occhi confidando nella nazionale arte di arrangiarsi.

Se il nostro Paese, e la Spagna, riusciranno a restare nell'euro e a pagare i loro debiti, si potranno contenere le conseguenze sull'Europa e sull'intero Occidente della nuova fase della grande crisi; ma ci aspettano anni difficili. Rendiamoci conto che gli ultimi eventi segnano l'inizio di un'epoca in cui le economie dei Paesi avanzati dovranno faticare per conservare il benessere raggiunto; più di tutti l'Italia, che già da oltre un decennio mostra preoccupanti segni di declino. Al grande casinò della finanza planetaria il tavolo di gioco principale è ora quello dove si scommette sulla debolezza politica dei Paesi ricchi, nel linguaggio di qualche anno fa il «Nord del mondo».

Presi di mira sul debito, gli Stati ricchi non possono più utilizzare la spesa pubblica come motore di crescita, o come difesa contro le crisi. Una ricaduta nella recessione probabilmente non la avremo, specie se si riuscirà ad impedire che l'euro si fratturi. Ma un lungo ristagno delle economie appare difficile da evitare, a causa dei sacrifici che tutti, a cominciare dagli Stati Uniti, dovranno compiere per ripagare i soldi presi in prestito. Lo sforzo compiuto nel 2009, nell'accordo di tutto il G20, per evitare una depressione tipo anni '30, forse è servito solo a rateizzare il prezzo dei disastri del 2007-2008.

La resa dei conti sul debito è stata accelerata dai mercati. Wall Street, la City di Londra e le altre piazze finanziarie mondiali da mesi sempre più speculano al ribasso sul declino dell'Occidente, così aggravandolo. Possibile che le grandi banche multinazionali mettano in difficoltà proprio quei governi che con i loro interventi le hanno salvate dal crack nell' inverno 2008-2009? Sì, nello stesso modo in cui il mostro di Frankenstein sfugge al suo creatore. Perché i capitali che lo animano ormai non sono più, per la gran parte, occidentali.

Le grandi crisi hanno sempre alla radice qualche grande ingiustizia. La rapida globalizzazione che ha esteso la produzione industriale alla gran parte del pianeta, trasformando in operai centinaia di milioni di contadini, ha prodotto, grazie al basso costo di questa forza lavoro, un eccesso di profitti rispetto alle concrete occasioni di investimento produttivo. I capitali superflui si riversano nella finanza, nella ricerca ansiosa di profitti che però possono essere ricavati solo da scommesse sempre più ardite. Ora la scommessa più attraente è sulla debolezza dei bilanci pubblici.

Nel mondo elettronicamente interconnesso, la finanza acquisisce la sconvolgente capacità di affrettare il passo della storia. Così come all' Italia si chiede conto oggi dei problemi di bassa crescita che la sua economia avrebbe avuto nel medio termine, degli Stati Uniti si mette in causa oggi l'egemonia mondiale destinata a indebolirsi lungo il secolo. In un colossale paradosso, è la Cina comunista il più potente capitalista del momento, pronta ad usare tutto il potere del suo denaro: principale creditore degli Usa, chiede loro di ridurre le spese militari. E noi ci lamentiamo perché ci sentiamo messi sotto tutela dalla Banca centrale europea? Ma è un’istituzione federale del nostro continente, fatta anche di italiani, che cerca di far cooperare i tedeschi con noi, e noi con i tedeschi.

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Titolo: STEFANO LEPRI. L'ultimo argine
Inserito da: Admin - Agosto 10, 2011, 11:42:40 am
10/8/2011

L'ultimo argine

STEFANO LEPRI

Quattro anni e un giorno da quando la crisi cominciò, e ci siamo ancora in mezzo. Che cosa abbiamo sbagliato? Ha scosso le Borse di tutto il pianeta il timore di una nuova recessione, quando è ancora freschissimo (e avvertibile nei nostri portafogli) il ricordo di quella del 2009, seguita al crack della Lehman Brothers.

Improbabile che si ripeta un evento così grave; però tutte le debolezze della tanto vantata ripresa vengono allo scoperto. Due anni fa, l’economia mondiale fu risollevata dall’intervento dei poteri pubblici, Stati e banche centrali; oggi domina la sfiducia nella leadership dei governi, oltre che nel debito degli Stati.

Ancor peggio, tutte le opzioni aperte oggi davanti ai poteri pubblici sembrano comportare effetti collaterali negativi. Se l’ascesa del debito non viene fermata, i mercati finanziari accelereranno il collasso. Se la si ferma con troppa energia, si causerà nell’economia reale una nuova pesante recessione. Se si cercherà il difficile equilibrio tra le ragioni della crescita e quelle del calo del debito, ogni esitazione, ogni aggiustamento di rotta, ogni possibile passo falso, saranno esasperati dai mercati finanziari, con il rischio che chi produce resti a lungo incerto sulle prospettive.

Forse agli Stati si era chiesto troppo. Dalle crisi finanziarie ci vogliono molti anni per uscire, ripete Kenneth Rogoff, economista di Harvard che ne ha studiato la storia. Più ancora, l’azione dei poteri pubblici, partita bene nel 2009, si è inceppata per strada. Dentro il G20 hanno prevalso gli egoismi di bandiera: la Cina ha bloccato ogni aggiustamento degli squilibri di fondo dell’economia globale. In Europa, la carenza di solidarietà fra Paesi ha prodotto a ogni nuovo vertice decisioni che sarebbero state adeguate ed efficaci mesi prima. Ma forse a impressionare di più è la rottura di solidarietà sociale che paralizza la politica americana: perché gli Stati Uniti riassumono nelle propria inclusiva diversità interna un’ampia parte dei problemi mondiali.

L’economia Usa conserva solidissimi punti d’appoggio. Il downgrade del debito pubblico ha prodotto sconquassi ovunque, tranne dove avrebbe dovuto: i titoli del Tesoro Usa continuano a fruttare gli stessi interessi di prima, ovvero quasi nulla al netto dell’inflazione: tutto il mondo continua a comprarli. In più, le grandi imprese americane hanno le casse piene di soldi; esitano a investirli perché non sanno che cosa attendersi.

Le risorse perché la produzione non si fermi ci sono. Sono distribuite male. Ma non è solo l’impotenza dei poteri pubblici a rendere arduo ricollocarle. E’ anche la finanza a non svolgere più il suo ruolo, spostare i soldi da dove non servono a dove servono. Cresciuta a proporzioni mostruose, sembra rendere più difficile lo scambio delle merci invece di facilitarlo, distorcendone i prezzi sempre più lontano dal rapporto fra vera domanda e vera offerta.

Chi può essere capace di mettere ordine in questo caos? Nel 2009 un grosso contributo alla ripresa mondiale lo dettero la Cina prima, gli altri Paesi emergenti poi. Ma il governo di Pechino, che mentre ostacolava il G20 non è nemmeno riuscito a risolvere i suoi problemi interni, ora teme l’inflazione, è esposto a uno scoppio della bolla immobiliare, intralciato forse da debiti sommersi; siede sul suo tesoro di tremila miliardi di dollari senza sapere bene che farne. Gli altri Paesi emergenti più del contributo che hanno già dato è difficile che possano offrire.

Tra debolezza della politica e forza cieca della finanza resta solo da sperare nel residuo potere delle banche centrali: la Federal Reserve americana capace di continuare a stampare dollari (con i «tassi bassi fino al 2013» annunciati ieri sera) e la Banca centrale europea che si batte per tenere solido e intatto l’euro. Non basterà a ravvivare la crescita, potrà bastare ad evitare una recessione.

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Titolo: STEFANO LEPRI. La rivoluzione che serve
Inserito da: Admin - Agosto 12, 2011, 09:06:26 am
12/8/2011

La rivoluzione che serve

STEFANO LEPRI

Il guaio degli ottimisti ad ogni costo è che, quando ci consigliano medicine amare, non gli si dà retta nemmeno se hanno ragione.
Pare strano che abbiano cambiato idea da un giorno all’altro; si comincia a dubitare di ogni loro parola.

I sacrifici la gente li fa se ne vede il perché. Non basta una sommatoria confusa di misure, anche ciascuna in sé giustificabile e sensata: il rischio è che ad essa risponda una somma di feroci rivolte di ciascuna categoria contro ciò che la colpisce.

All’incertezza sul futuro che da anni corrode il nostro Paese si era risposto addossando la colpa ad altri, via via ai governi precedenti, alla Cina, alla globalizzazione troppo veloce, alla crisi mondiale generatasi altrove; infine ai mercati che non ci capiscono.
Ora, la manovra aggiuntiva di 20 miliardi che ci attende per il 2012 è superiore per importo a quella del governo Prodi 2 che demolì i consensi al centro-sinistra; raggiunge quasi la manovra del Prodi 1 per entrare nell’euro, obiettivo che però era condiviso dai due schieramenti.

I provvedimenti abbozzati finora sono ben lontani dall’arrivare a 20 miliardi. Innanzitutto occorre spiegarsi meglio. Dovranno intrecciarsi tre tipi di misure: sacrifici immediati, per cui è d’obbligo convincere che sono distribuiti con equità; aggiustamenti pluriennali, dei quali occorre mostrare la razionalità; le misure per la crescita, dove occorre chiamare a raccolta l’interesse comune contro i privilegi di pochi.

Portare al 20% la tassazione delle rendite finanziarie, in linea con la media europea, è una misura equa, non dannosa per la crescita, poco controversa. Ma, a parte chiarire perché la si rifiutò nel 2004 quando l’allora ministro dell’Economia Domenico Siniscalco la propose, offre solo una piccola parte del gettito necessario. E’ importante e utile – risparmi certi per il futuro, poco danno a redditi e consumi nell’immediato – proseguire il riordino della previdenza restringendo ancora i requisiti per le pensioni di anzianità e portando a 65 l’età di vecchiaia per le donne. Però va tolta l’impressione che si infierisca sui poveracci per risparmiare i privilegiati. Se si chiamano a contribuire i redditi alti, occorre ricordare che molti sfuggono al fisco, e che intervenire sui patrimoni può essere più equo.

La chiave sta nel raccogliere la spinta che il Paese esprime. La rabbia contro la «casta» dei politici va incanalata andando oltre alla pur opportuna riduzione di indennità e di poltrone. Privatizzare aziende pubbliche piccole e grandi, a cominciare dalle municipalizzate, non è una vittoria dell’ormai malconcio neoliberismo o dell’inesistente «mercatismo»; è una opera concreta per circoscrivere il potere dei politici e la diffusione del malaffare. Abolire le Province può andare ben oltre il modesto risparmio sulle prebende; se fatto bene, potrebbe semplificare i rapporti tra cittadini e burocrazia.

Né è solo la «casta» dei politici che intralcia le forze vitali dell’economia. Sono molte le caste che prosperano esercitando potere affidatogli da leggi sbagliate; e il potere dei politici è moltiplicato dall’alleanza con esse. Liberalizzare gli ordini professionali è un aiuto alle ambizioni di molti giovani. Aprire alla concorrenza settori protetti stimola l’iniziativa e riduce i prezzi. Mettere all’asta concessioni e privative trasferisce allo Stato rendite di pochi, ripulisce la politica da rapporti ambigui. Insomma, occorre una specie di rivoluzione liberale (che c’entra poco o nulla con la libertà di licenziamento). Chi governa oggi l’aveva promessa 17 anni fa, però poi ha fatto soprattutto il contrario.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9085


Titolo: STEFANO LEPRI. Una stangata da anni '80
Inserito da: Admin - Agosto 13, 2011, 11:20:55 am
13/8/2011

Una stangata da anni '80

STEFANO LEPRI

Abolire i «ponti» potrà forse impressionare i più stolidi tra gli analisti finanziari americani, soliti a giudicare l’Italia attraverso gli stereotipi della dolce vita e del mandolino. Però non ci si può illudere che lavorare due o tre giorni in più possa guarire la malattia di bassa crescita di cui soffre l’economia italiana. Non è che la produttività del lavoro sia bassa in assoluto, è che ristagna da anni: un problema assai più complesso, con aspetti sia interni sia esterni alle imprese.

Lo spostamento al lunedì delle festività civili è solo un aspetto marginale della nuova maxi-manovra di bilancio, che solo nel 2012 ci costerà circa mille euro a famiglia; tuttavia ne simbolizza bene l’aspetto di déjà-vu. Sembra di tornare agli Anni 80.

Beninteso, una «stangata» - come si cominciò a dire allora – purtroppo ci vuole, e pesante (lo sarebbe stata meno se ci si fosse pensato prima). Sarà inevitabile che nei prossimi giorni molti strillino «perché a me?» tentando di scaricare l’onere su altri. Siamo invece in un momento in cui nessuno si può tirare indietro. Ma ciò non impedisce di stupirsi di fronte a un insieme di misure che appare piuttosto oscuro nella sua logica: tante, disparate, talvolta modificate all’ultimo da mercanteggiamenti politici; alcune che servono soltanto a prendere tempo e non a risanare, come il rinvio di due anni del Tfr agli statali che vanno in pensione.

Abbiamo un sistema fiscale complicato, e lo si complica ancor più. Dovendo aumentare le tasse, si sceglie di non toccare quelle che sulla crescita economica incidono meno, ovvero quelle sugli immobili e su patrimoni di altro genere. Si esclude una misura semplice e a gettito certo come l’aumento dell’Iva, che era stata discussa nei giorni scorsi. Dopo aver parlato di lotta all’evasione si vara una sovrattassa differenziata fra redditi da lavoro dipendente e da lavoro autonomo, con l’implicita ammissione che gli autonomi evadono, e dunque occorre stangarli a partire da cifre dichiarate più basse rispetto ai dipendenti.

In altri casi, c’è una inversione di rotta. Le sanzioni più severe contro i negozianti che non fanno lo scontrino fiscale, o la tracciabilità dei pagamenti, sono misure che in altri tempi all’attuale maggioranza piaceva definire vessatorie, ed attribuire alle tendenze vampiresche dell’ex ministro Vincenzo Visco. La tassazione al 20% delle rendite finanziarie era stata volta a volta suggerita dalle opposizioni, dai sindacati, in alcune fasi anche dalla Confindustria, e respinta in modo più o meno sgarbato a seconda di chi fosse l’interlocutore.

Purtroppo non c'è nulla sulle pensioni di anzianità, mentre un intervento lì avrebbe risparmiato sacrifici più duri altrove. Certo, alcune novità sono positive. Accorpare i piccoli Comuni si poteva già cinquant’anni fa, quando l’emigrazione svuotò le campagne; va benissimo anche farlo adesso, pochi mesi dopo che Commissione europea e Fondo monetario l’hanno imposto alla Grecia. Si risparmierà qualcosa eliminando le Province minori, sebbene non si possa escludere che in una prima fase l’efficienza amministrativa, dato il trasferimento dell’ufficio ad altra sede, diminuisca (trasmettere i poteri alla Regione, o al Comune nelle grandi città, sarebbe stato più semplice).

Un giudizio completo si potrà dare quando i provvedimenti saranno noti in tutti i dettagli. Frattanto, il lungo elenco di misure fiscali e para-fiscali fa sospettare che, spezzettandolo in più voci, si voglia camuffare il purtroppo inevitabile aumento delle tasse. Il risultato che si ottiene è appunto la somiglianza con le manovre raffazzonate degli Anni 80. Ovvero che ci si trovi a che fare con una classe dirigente che, come si disse di certi militari del XX secolo, erano benissimo preparati a combattere la guerra precedente.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9089


Titolo: STEFANO LEPRI. Evasione, una battaglia persa in partenza
Inserito da: Admin - Agosto 15, 2011, 06:28:05 pm
Economia

15/08/2011 -

Evasione, una battaglia persa in partenza

I furbi sono un quarto degli elettori, e i politici non li toccano

STEFANO LEPRI

Chissà in quanti porticcioli estivi un dirigente d’azienda, furioso per le tre annate di «contributo di solidarietà» che gli toccherà pagare, osserva dal suo gommone il motoscafo assai più grande del libero professionista. Si domanda se per caso quello là dal nuovo tributo non sia esente, perché dichiara meno di 90.000 euro. Ancor più sospetterà che l’enorme yacht più oltre, di cui si ignora la vera proprietà, faccia capo a un nullatenente o a uno «scudato». Attorno alle tavole di questo Ferragosto di maxi-manovra, si discorrerà inevitabilmente di evasione fiscale. Torneranno argomenti che, a fasi alterne, si ascoltano da decenni; soltanto più arrabbiati. Paghino per primi gli evasori! Il guaio è che gli evasori sono sempre gli altri. Qualcun altro da accusare si trova sempre, in un Paese dove, secondo stime ragionevoli, ogni cento persone ci sono duecentomila euro sottratti al fisco (scagli la prima pietra chi non ha tralasciato mai di chiedere al ristorante la ricevuta). Né si può addossare tutta la colpa alla «casta». Se quasi tutti i politici sono convinti - , beninteso che a combattere sul serio l’evasione tributaria si perdano le elezioni, qualche ragione ci sarà. Quante promesse di condonare multe si sono ascoltate prima delle ultime elezioni comunali? E l’altro giorno inveiva ancora contro Equitalia Umberto Bossi, pur convinto che i sacrifici si debbano fare. Sembra uno dei peggiori circoli viziosi in cui l’Italia è riuscita a cacciarsi. I lavoratori autonomi, che pagano autotassandosi, sono il 25% circa del Paese. Come quota sulla popolazione, è il doppio che in Germania; più del triplo degli Stati Uniti, che pure, come tutti sanno, sono il luogo più propizio alla libera impresa.

Su un quarto degli elettori dunque non si può infierire all’ingrosso. Sono tanti, e non tutti se la passano bene. Ma forse sono così tanti perché si è sempre chiuso un occhio su quante tasse pagano. Da stime abbastanza attendibili parrebbe che il commerciante e l’artigiano medi nascondano al fisco circa la metà dei guadagni, il professionista un terzo. Naturalmente sono tanti anche gli onesti; chi fattura soprattutto per il settore pubblico o per grandi imprese lo è per forza. In una economia con vaste aree di sommerso o di illegalità, per alcuni l’evasione è una maniera di sopravvivere (sono da sempre rarissimi gli idraulici che emettono fatture, ma ora li incalza la concorrenza degli idraulici immigrati, che costano meno). Nell’insieme, purtroppo, l’evasione favorisce le imprese meno efficienti; le spinge a restare piccole, per continuare a sfuggire al fisco. Ha quindi a che fare con il ristagno della produttività che affligge l’economia italiana. Perfino se il pericolo incombe risulta difficile agire. Nell’ottobre 1992, quando il Tesoro rischiava di non poter pagare gli stipendi perché nessuno comprava i Bot, infuriava la protesta contro la norma che imponeva ai titolari di impresa minore di dichiarare redditi almeno pari a quelli dei loro dipendenti. Alla guida della lotta c’era un tal Sergio Billé, poi presidente della Confcommercio travolto da uno scandalo, mesi fa condannato a tre anni per corruzione. La minimum tax (termine che negli Usa indica tutt’altro) di allora era una norma rozza, ma fin dall’inizio presentata come temporanea, giustificata con i rischi che correva il Paese. Fu invece letale per il consenso alla Democrazia cristiana. Venne anche da lì, un anno dopo, la «discesa in campo» di Silvio Berlusconi, che fino alla campagna elettorale del 2008 l’evasione l’ha a volte giustificata. Tuttavia combattere la frode fiscale non è impossibile. Lo dimostra anche l’esperienza recente.

Nella fase iniziale dell’attuale legislatura, quando nel 2008 furono abrogate misure del governo precedente definite «poliziesche», l’evasione è cresciuta (secondo l’indice ritenuto dagli esperti più significativo, il rapporto fra Iva interna e Pil). Dopo che, a partire dall’autunno 2009, Giulio Tremonti ha a poco a poco cambiato strada, il recupero di entrate non è mancato. E’ possibile andare avanti senza vessare nessuno con troppe pratiche o controlli pignoli, soprattutto con la trasparenza: tracciabilità dei pagamenti, elenchi dei clienti e dei fornitori, e, come avviene in quasi tutti gli altri Paesi, accesso del fisco ai conti bancari.

da - http://www3.lastampa.it/economia/sezioni/articolo/lstp/415780/


Titolo: STEFANO LEPRI. Ma i conti continuano a non tornare
Inserito da: Admin - Agosto 31, 2011, 10:19:31 am
31/8/2011

Ma i conti continuano a non tornare

STEFANO LEPRI

No, i conti non tornano. Ancora il Tesoro non ha fornito cifre precise, ma la manovra di Ferragosto appare parecchio indebolita. E non è bene anche solo darne l’impressione, quando sui mercati i titoli di Stato italiani sono sostenuti da interventi che la Bce ha deciso in modo non unanime, con la Bundesbank all’opposizione. Si rischia di aggravare il disamore dei tedeschi verso l’euro. I soliti italiani, diranno: gli dai una mano e approfittano per prendersela comoda.

Prima dell’accordo di Arcore era corsa voce che il «contributo di solidarietà» sarebbe stato sostituito da un aumento dell’Iva. Poi il ritocco Iva è scomparso, ma tutti gli altri pezzi della manovra sono stati riaggiustati come se ci fosse. I due moventi principali sono stati renderla più presentabile all’elettorato del centro-destra e attenuare l’ostilità degli enti locali. Ossia minori aggravi fiscali, o almeno l’apparenza di minori aggravi fiscali, da una parte; minori tagli di spese dall’altra. Che così facendo la somma resti uguale è più che dubbio.

Già prima, alcuni analisti reputavano la manovra insufficiente a raggiungere l’obiettivo del pareggio di bilancio nel 2013. Tra i punti deboli, come rilevato dalla Corte dei Conti, c’era la somma enorme, 1,5 miliardi nel 2012, affidata all’aleatorio aumento di gettito di lotto, lotterie ed altri giochi. Fra una cosa e l'altra, ad esempio gli economisti della banca inglese Barclays già la settimana scorsa valutavano che il pareggio sarebbe stato mancato di una quindicina di miliardi.

Altre speranze a cui il governo ora si affida vengono dalla lotta all’evasione fiscale. Giustissimo colpire gli evasori prima di infierire sugli onesti. Ma, a meno di sorprese, non si capisce da quali nuovi provvedimenti dovrebbe provenire il gettito. Contro le «società di comodo» già in passato diversi ministri hanno agito: lo stesso Giulio Tremonti quando debuttò nel 1994, e a più riprese, nel 1997 e nel 2006 sotto il centro-sinistra, il suo rivale Vincenzo Visco. Ora, piuttosto che ingegnarsi a scoprire a chi davvero fanno capo ville e yacht, non si fa prima a tassare le ville e gli yacht?

La scomparsa del «contributo di solidarietà» a carico dei redditi medio-alti non sarà rimpianta. Tuttavia rispondeva in modo sbagliato a una esigenza largamente condivisa, anche in altri Paesi: far pagare ai ricchi almeno una parte degli oneri della crisi. Veniamo da anni in cui le disuguaglianze sociali si sono allargate; e proprio a causa del cattivo andamento dell’economia difettano le occasioni di investire produttivamente i capitali. Per tassare i patrimoni era disponibile un consenso ampio, perfino da parte della Confindustria.

Ma quando la politica è debole, è debole soprattutto verso i propri vizi. Trova ancor più difficile raccogliere le esigenze dei cittadini perché teme il potere dei corpi intermedi che sanno frammettersi tra l’elettorato e il Parlamento: enti locali, categorie, corporazioni varie. Aumentando le tasse certo si rischia di perdere le elezioni. A tagliare le spese si rischia di non riuscire nemmeno a fare la campagna elettorale, causa ribellione nelle proprie file (come si vede dall’atteggiamento di molti amministratori locali di centro-destra). Così si esita da entrambi i lati.

Questa debolezza viene rivelata dalla crisi; a guardare le cifre si è manifestata lungo gli anni, in un progressivo allontanamento dalle promesse della prima ora. Nella prima legislatura in cui ebbe respiro per governare, dal 2001 al 2006, il centro-destra lasciò la pressione fiscale invariata e fece crescere la spesa di due punti. Nella seconda, l’attuale, secondo i suoi stessi piani spingerà la pressione fiscale a un record storico, per coprire una spesa che anche realizzando tutti i dolorosi tagli resterà più alta di quella del 2001.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9146


Titolo: STEFANO LEPRI. Ora Roma dovrà fare da sola
Inserito da: Admin - Settembre 06, 2011, 03:13:44 pm
6/9/2011

Ora Roma dovrà fare da sola

STEFANO LEPRI

L’Italia è oggi il punto debole dell’euro. La sua fragilità politica rischia di danneggiare in modo irreparabile tutta la costruzione europea, moltiplicando i danni anche per noi. Però c’è qualcuno che non l’ha capito, oppure se ne infischia. Le misure per impaurire gli evasori fiscali in gran parte scompaiono, i taxi non si liberalizzano, niente apertura deregolamentata per i negozi, e così via. Già la manovra di Ferragosto era stata fatta a pezzi e rimessa insieme di nuovo a causa di nervosi timori di impopolarità; ora la commissione Bilancio del Senato sta espungendone molte norme invise alle lobby amiche.

Il guaio è che i tempi della crisi dell’euro, già da mesi più veloci della capacità di risposta dei governi, sono ora strettissimi. La Grecia non sta rispettando gli impegni, è in recessione grave, e a qualche punto nel prossimo futuro potrebbe decidere di rinnegare i propri debiti. Se il Fondo monetario internazionale insiste che occorre ricapitalizzare di forza le banche europee, è perché vi vede l’unica maniera di fermare il contagio di una insolvenza di Stato, evitando un disastro continentale. L’attacco dei mercati finanziari si concentra contro il Paese too big to be saved, troppo grande per essere salvato, che è il nostro.

L’Italia ha eroso in una settimana il sostegno temporaneo offertole dalla Banca centrale europea, mentre la Spagna riusciva a giovarsene.

E’ un nuovo paradossale «sorpasso» tra i due Paesi, tanto più significativo perché a Madrid si voterà tra due mesi e mezzo. Anzi, il presidente del consiglio europeo Herman Van Rompuy arriva ora ad accomunare Roma ed Atene: che la Grecia stia molto peggio non c’è dubbio, ma in entrambi i casi ci sono governi che potrebbero non mantenere le promesse.

L’irrazionalità dei mercati finanziari è evidente. Nelle quotazioni dei titoli di Stato ieri, a prestare soldi alla Germania ci si perde – un rendimento sotto il 2% non copre l’inflazione – mentre a prestare all’Italia si guadagna più del 5,5%. Il paradosso nasce dal timore che solo dalla Germania i capitali tornino indietro interi; mentre una rottura dell’euro renderebbe impossibile all’Italia pagare i propri creditori. La medesima ipotesi di catastrofe produce altri numeri ripugnanti al buon senso: sul mercato dei famigerati Credit default swaps, l’insolvenza dello Stato francese viene reputata meno remota di quella del Perù.

Può darsi che un rimedio contro le pazzie dei mercati esista, ma per trovarlo occorrerebbero la concordia delle grandi nazioni e un bel po’ di tempo. E al centro del vortice perverso di attese capaci di inverarsi ora c’è l’Italia. Inutile, anzi dannoso, invocare ogni giorno la soluzione degli eurobonds: benché questi titoli comuni restino nei sogni di ogni buon europeista, nel pieno della crisi appaiono ai tedeschi solo un espediente per addossare a loro gli errori nostri. Già avvalorano il loro timore le agenzie di rating.

Per evitare che la credibilità dell’Unione monetaria europea sia allineata a quella dei suoi membri più deboli (la minaccia di Standard & Poor’s) occorre un passo decisivo verso l’unione politica. Lo hanno sollecitato, concordi, il presidente della Bce Jean-Claude Trichet e il suo successore designato Mario Draghi. In Germania se ne sta cominciando a discutere sul serio, diviso il centro-destra ora al governo, perlopiù favorevole il centro-sinistra vittorioso in una elezione locale dopo l’altra. Ma perché il dibattito a Berlino e in altre capitali prenda la direzione giusta, occorre che l’Italia si salvi da sola. Purtroppo, dopo anni in cui si è creduto di vedere un segno di vitalità economica nel fare i propri comodi a dispetto delle leggi, non è facile chiamare alla responsabilità e alla solidarietà.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9166


Titolo: STEFANO LEPRI. Se la crisi accelera
Inserito da: Admin - Settembre 20, 2011, 05:39:43 pm
20/9/2011

Se la crisi accelera

STEFANO LEPRI

In questa crisi accelerata dal nuovo colpo all'Italia è faticoso far capire ai tedeschi che salvare l’euro è interesse anche loro. Per riuscirci Angela Merkel alza il tono; finita la tornata di elezioni regionali che ha ammaccato non poco la sua maggioranza - segnando un complessivo spostamento a sinistra - potrà forse impegnarsi di più. La prima cosa da mettere in chiaro è che finora dalle traversie dell’euro la Germania ha guadagnato.

Il soccorso a Grecia, Irlanda e Portogallo finora non è costato nulla, perché fatto di prestiti a tassi remunerativi. Si aggiunge il vantaggio netto dell’isteria dei mercati, che mentre spingeva in su gli interessi sui titoli di Stato dei Paesi deboli, ha abbassato i rendimenti di quelli tedeschi.

Grazie a questi tassi anormalmente bassi (l’altro lato dello spread che preoccupa noi italiani) il governo di Berlino ha risparmiato 3,4 miliardi di euro in interessi quest’anno, e potenzialmente 32,8 nell’arco di sette anni, secondo i calcoli di due noti centri studi tedeschi, quelli di Halle e di Kiel. Se ci saranno futuri oneri da sopportare, da parte di tutti i Paesi membri, per salvare l’euro, la quota a carico della Germania andrà valutata anche su questo sfondo.

D’altra parte, è difficile a tutti gli europei orientarsi, quando perfino gli esperti non concordano sulla via d’uscita meno costosa. Economisti famosi fanno a gara a indicare soluzioni divergenti. Solo sui giornali di ieri l’americano Nouriel Roubini sentenziava che per la Grecia non c’è nulla di meglio che tornare alla dracma, mentre l’anglo-olandese Willem Buiter ribatteva che così si metterebbe quel Paese in ginocchio in cambio di vantaggi effimeri.

Tuttavia per l’insieme dell’area gli studi concordano: una rottura sarebbe la catastrofe peggiore, con una recessione di portata simile a quella del 2009 (sentiremo oggi che ne dice il Fmi) e un futuro più incerto. Proprio perché i primi da convincere sono i tedeschi la banca svizzera Ubs valuta il costo di una rottura dell’euro cifrandolo come spesa media a carico di ciascun cittadino della Germania: 6-8.000 euro in caso di ritorno al marco. Sarebbe molto inferiore, forse un decimo, il costo di una insolvenza dello Stato greco. È questa la soluzione di cui tutti parlano sottovoce, ma che occorre non menzionare ufficialmente non tanto per non agitare i mercati, che lo sanno benissimo, quanto per buone ragioni politiche. Che la Grecia risani il bilancio e ristrutturi la propria economia è una necessità in ogni caso; non poteva tirare avanti a lungo un Paese che, nel 2010, consumava 110 per ogni 100 che produceva all’interno. Non si può offrire una sanatoria ad Atene prima che abbia fatto tutto il necessario; né prima che sia chiaro che si tratta davvero di un «caso unico» come si è affermato negli ultimi vertici europei. L’Irlanda sta già cavandosi dai guai da sola, il Portogallo ha forse imboccato la strada buona (entrambi i Paesi dopo nuove elezioni e un cambio di governo); ma hanno bisogno di altro tempo. Occorre poi essere pronti a resistere al contraccolpo del default greco con risorse sufficienti per fermare attacchi dei mercati a Italia e Spagna; pronti, anche, a ricapitalizzare le banche europee, specie le francesi, gravate da troppi titoli di Stato greci in cassa. Sarebbe un’Europa, come dice un recentissimo rapporto dell’americana Citibank, del «chi rompe paga e i cocci sono suoi»; dove cioè i governi se sbagliano fanno bancarotta ma senza conseguenze devastanti. Occorre però che il «minimo necessario» su cui l’Europa riesce a trovare l’accordo si trovi a un livello più alto di quanto è avvenuto finora. Quanto tempo si potrà andare avanti così? Qualche mese, dicono i meno pessimisti; oppure qualche settimana. Un cambio di prospettiva in Italia certo aiuterebbe.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9220


Titolo: STEFANO LEPRI. Così Bankitalia ha saputo tenere lontana la politica
Inserito da: Admin - Settembre 29, 2011, 12:38:26 pm
Politica

29/09/2011 - LO SCONTRO PALAZZO KOCH

Così Bankitalia ha saputo tenere lontana la politica

Fino a oggi l'istituzione più stimata d'Italia ha sempre fermato le ingerenze

STEFANO LEPRI
ROMA

In Germania la Bundesbank è una tecnostruttura fortissima. Anche personaggi di provenienza politica quando sono posti a guidarla dopo un po’ cominciano a parlare come se ci fossero cresciuti dentro. Ne sa qualcosa Angela Merkel, che l’attuale capo della Bundesbank Jens Weidmann, fino a qualche mese fa suo consigliere, sta cominciando a contraddire; mentre nulla nei comportamenti del precedessore di Weidmann, l’economista Axel Weber, ricordava che a nominarlo era stato un governo di sinistra.

Anche in altri Paesi dell’euro, come l’Austria e la Finlandia, gli attuali governatori hanno cominciato la carriera in politica. Ma per lo più, ora che i Trattati europei sanciscono l’assoluta indipendenza delle banche centrali, si preferisce evitare nomine che abbiano sapore governativo. Oltre che al personale interno delle stesse banche centrali, si ricorre ad accademici o ad alti funzionari pubblici, in qualche raro caso a banchieri privati di grande prestigio e non legati alle concentrazioni di potere finanziario.

In Italia la faccenda è parecchio delicata, dato lo strapotere che la politica possiede. Nella storia della Repubblica la Banca d’Italia è quasi sempre riuscita a proteggersi dalle ingerenze politiche in fase di nomina; sia per l’equilibrio mostrato dai capi dello Stato coinvolti nelle procedure, sia per la grande capacità di rigetto mostrata contro i trapianti esterni. Giova che si tratti dell’istituzione italiana forse più stimata all’estero. Cosicché si è affermata la tradizione di scegliere come governatore, salvo casi eccezionali, personaggi provenienti dall’interno. Nell’esperienza, i guai peggiori sono capitati quando certi governatori hanno ceduto alla tentazione di immischiarsi nella politica; erano personaggi di provenienza tecnica e di alta qualità professionale, ma erano anche i due che dalla politica erano meno lontani.

Guido Carli (1960-1975) nelle sue memorie ammise di aver ostacolato la nazionalizzazione dell’energia elettrica decisa dal governo in carica nel 1962; le sue scelte monetarie del 1963 parvero dirette contro il partito socialista appena entrato nella maggioranza. Antonio Fazio (1993-2005), prima per ambizioni politiche, poi per maneggi di potere bancario, fu tutto tranne che al disopra delle parti; durante l’esame del disegno di legge sulla tutela del risparmio, nel 2004-2005, il Parlamento non si divideva tra centro-destra e centro-sinistra, ma tra fazisti ed antifazisti, trasversalmente.

E’ stata la politica stessa a trovare il rimedio, inducendo Fazio alle dimissioni; ma solo quando il suo prestigio era irrimediabilmente compromesso. Diversissimo era stato il caso di Paolo Baffi nel 1979, dimessosi da governatore perché sentiva ostile una parte potente della maggioranza di governo. Fu quella la più grave lesione al prestigio della Banca d’Italia. Ma presto seppe ripararvi, a sorpresa, il successore scelto all’interno, Carlo Azeglio Ciampi, che i politici a torto ritenevano più malleabile.

Guido Carli era un alto funzionario governativo che per scelta politica era stato inserito in Banca d’Italia dall’esterno come direttore generale, e poi promosso governatore. Ciampi nel 1993, passando a guidare il governo, riuscì a fermare una analoga operazione che la politica aveva tentato con Lamberto Dini; ma dovette accettare la preferenza dell’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro per Antonio Fazio, cattolico militante oltre che economista preparato. Proprio mentre la Democrazia cristiana si disgregava, a un personaggio di area dc toccava un posto chiave.

Quello di Mario Draghi nel dicembre 2005 è stato l’unico caso in cui si è ricorso a un candidato davvero esterno. Ma c’era un larghissimo accordo sul segnare una discontinuità con l’era Fazio; tanto che nel giro di pochi mesi fu rinnovato l’intero direttorio dell'istituto. Oggi in Banca d’Italia si sentono orgogliosi di aver evitato, prima della crisi, che i banchieri italiani si dessero a follie altrove epidemiche; rivendicano di aver fatto del loro meglio, lungo tutta la crisi e nella dura estate appena conclusa, per allontanare dal Paese pericoli gravissimi. «Ci dicano in che cosa abbiamo sbagliato» sfida una voce dall’interno.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/422525/


Titolo: STEFANO LEPRI. L'idraulico che evade nasconde inefficienza
Inserito da: Admin - Ottobre 08, 2011, 11:01:28 am
27/9/2011

L'idraulico che evade nasconde inefficienza

STEFANO LEPRI

Succede a quasi tutti di accettare di pagare all’idraulico 100 euro in nero invece dei 140 che pretenderebbe in cambio di una regolare fattura Iva. Ma quante volte, in casi simili, consideriamo quei soldi risparmiati come una specie di indennizzo per la scarsa qualità del lavoro? La facilità con cui in Italia si evade il fisco di frequente spinge a rivolgersi a prestatori d’opera su piccola scala, semisommersi, dotati di tecnologie arretrate: lavorano peggio di altri, ma costano molto meno.

Questo ed altri piccoli esempi di vita quotidiana possono dirla lunga su che cosa significhi l’evasione fiscale per l’economia italiana nel suo insieme. Non si tratta solo di equità, ma di efficienza. Certo occorre preoccuparsi dell’alto carico fiscale che grava su tutto il Paese (raggiungeremo il record storico proprio governati da chi ci aveva promesso l’opposto); ma non per questo si può considerare una scelta sbagliata, o peggio un inganno, la scelta di reprimere con maggior forza l’evasione fiscale, come ha fatto Luca Ricolfi su queste pagine.

È vero che se con una bacchetta magica potessimo eliminare l’evasione da un giorno all’altro, molte piccole imprese chiuderebbero.
Ma non è di questo che si tratta. Anche nella più rosea delle ipotesi, una maggiore fedeltà al fisco sarebbe conseguita in modo graduale.
E le aziende che evadono il fisco prosperano alle spalle delle altre, quelle che giorno per giorno si impegnano a produrre meglio con meno. Chi evade rifugge dalle tecnologie avanzate, o da una organizzazione aziendale stabile, su vasta scala, con prezzi chiari, perché attirerebbero l’occhio del fisco.

È vero che l’alto livello di tassazione delle imprese italiane le sfavorisce nella gara mondiale. Per l’appunto le imprese che operano alla luce del sole sui mercati, con dipendenti regolari e bilanci passabilmente veritieri, vengono tartassate per tappare i buchi che nel gettito fiscale si aprono altrove. L’evasione fiscale invece si concentra tra chi opera sul mercato interno, in genere in settori dove la concorrenza internazionale entra poco o nulla. Non è segno di prosperità, nel XXI secolo, una abbondanza di botteghe che vendono merci identiche.

Insomma l’evasione fiscale va contata tra le cause del ristagno di produttività che frena l’economia italiana. Non è esatto dire che il nostro sistema amministrativo-tributario sfavorisce l’impresa. Il guaio vero è che scoraggia la crescita e l’evoluzione delle imprese.
Se guardiamo i numeri, di piccoli imprenditori (lavoratori autonomi) ce ne sono fin troppi, una quota doppia rispetto agli altri Paesi avanzati. Ma: 1) i noti impacci burocratici sfavoriscono la creazione di imprese nuove, rispetto a chi già «sa come si fa»; 2) l’evasione permette ai già inseriti di tirare avanti comunque, senza avvertire le pressioni competitive del mercato.

Anche così togliamo futuro ai giovani, scoraggiando la crescita dimensionale e tecnologica delle imprese. L’evasione fiscale diffusa è una potente forza di conservazione, causa di immobilismo politico e di ristagno economico. Certo, viene qualche dubbio ad ascoltare tirate contro l’evasione da politici che prima quasi la giustificavano. Può darsi che tutto finirà in un condono, come è accaduto altre volte.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9244


Titolo: STEFANO LEPRI. Sovranità ridotta per salvarsi
Inserito da: Admin - Ottobre 24, 2011, 05:27:37 pm
24/10/2011

Sovranità ridotta per salvarsi

STEFANO LEPRI

Ora sì che siamo sotto tutela. I Trattati europei non prevedono nessun «commissariamento» del governo di un Paese membro, ma ciò che è avvenuto ieri è quanto più si può fare in quella direzione. All’Italia si chiede di adottare entro i prossimi tre giorni le parti inascoltate della ormai famosa lettera inviata da Trichet e Draghi all’inizio di agosto.

Volendo fare l’avvocato del diavolo, si potrebbe ribattere: gli altri Stati europei se la prendono con l’Italia perché non si sono riusciti ancora a mettere d’accordo su tutto il resto. Ma non è così.

C’è una ragione precisa per cui l’Italia è passata avanti a tutto il resto, nella ardua scelta della cadenza in cui affrontare i diversi aspetti del problema dell’euro di cui parlava ieri Bill Emmott su questo giornale. La Francia e la Germania restano ancora divise su come rafforzare il Fondo europeo di salvataggio, l’Efsf. Eppure, sulla base delle presenti condizioni l’Italia appare too big to be saved, troppo grande per essere salvata da questo fondo comunque rafforzato, se per caso i mercati finanziari si accanissero contro di lei.

Silvio Berlusconi finora ha contato che il nostro Paese fosse, per restare al gergo della finanza, too big to fail, troppo grande – a differenza della Grecia – per essere lasciato fallire, e che quindi gli altri Paesi fossero costretti ad aiutarci magari anche storcendo il naso. Ieri a Bruxelles è emersa la realtà: contro l’Italia si è più impazienti che verso altri Paesi in difficoltà, perché solo l’Italia ha un peso tale da trascinare a fondo anche chi tentasse di salvarla; si è particolarmente impazienti perché le resta ancora un po’ di tempo, seppur poco, per salvarsi da sola (a differenza della Grecia, di cui ormai una parziale insolvenza pare inevitabile).

Non si fraintenda: in tutto questo c’entrano assai poco i provvedimenti «per lo sviluppo» sui quali il governo non riesce a decidere da settimane. Dalle parole del presidente del Consiglio europeo Herman van Rompuy e del cancelliere tedesco Angela Merkel si ricava che: 1) non viene ritenuto credibile l’impegno al pareggio del bilancio nel 2013, contenuto nella maxi-manovra economica di Ferragosto; 2) occorre perciò un nuovo sforzo per riempirlo di contenuti; 3) per limitare gli effetti recessivi dell’austerità necessaria a riequilibrare il bilancio, occorre varare riforme economiche importanti, capaci di indicare una nuova via di crescita per l’economia italiana.

Servono appunto riforme di grande portata, non le mance a questo e a quello (gabellate per incentivi allo sviluppo) di cui si è inutilmente discusso fino a ieri perché Giulio Tremonti non voleva sborsare i soldi necessari. Il breve elenco enunciato ieri da Van Rompuy contiene tutti i punti disattesi della lettera della Bce: «mercato del lavoro, aziende pubbliche, privatizzazioni, sistema giudiziario, lotta all’evasione fiscale». Ancora, non si fraintenda: la «giustizia» di cui si parla qui non è penale, è civile, con la sua lentezza quasi unica al mondo intralcia l’economia; e i provvedimenti suggeriti per il mercato del lavoro (meno tutele per i lavoratori fissi ma più per i precari, indennità di disoccupazione per tutti, nella versione della Bce) non coincidono con quelli fin qui presi, pur se risulterebbero sgraditi alla Cgil anch’essi.

L’Italia appare oggi come il caso limite di una irresponsabilità dei governi nazionali verso gli interessi collettivi europei che non è più compatibile con l’unione monetaria. Per andare avanti sarà richiesta a tutti una rinuncia parziale di sovranità; a tutti, anche alla Germania che per ora preferisce il soccorso alle proprie banche all’aiuto per la Grecia, benché il primo costi assai più caro del secondo. Il processo decisionale europeo è lento in modo esasperante, per colpa di tutti; ieri abbiamo veduto emergere il timore che la paralisi italiana lo faccia deragliare una volta per sempre.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9355


Titolo: STEFANO LEPRI. Ma questa legge troverà la maggioranza?
Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2011, 05:29:41 pm
27/10/2011

Ma questa legge troverà la maggioranza?

STEFANO LEPRI

Sono propositi molto ambiziosi, alcuni anche a forte rischio politico, quelli consegnati ieri dal governo italiano alle autorità europee.

Ma come può sperare di trasformarli in legge un governo che solo ieri alla Camera è andato in minoranza due volte su questioni di poco peso? Del resto il ministro dell’Economia, che dalla stesura della lettera è stato in buona parte escluso, non è parso tenerne gran conto quando ha parlato ieri mattina alla Giornata del Risparmio.

Spicca nei nuovi impegni, ad esempio, una maggiore libertà di licenziamento per le imprese. Il centro-destra tentò già di introdurla nel 2002-2003, quando disponeva in Parlamento di una maggioranza assai ampia, e dovette desistere di fronte a una manifestazione di protesta tra le più vaste mai viste in Italia. Per giunta le parole di Mario Draghi ieri confermano che questa misura non compare tra le richieste dalla Banca centrale europea.

Al contrario, appaiono inconsistenti gli impegni sulla previdenza, dove le autorità europee avevano chiesto di fare di più già dal 2012. I requisiti per le pensioni di anzianità, l’onere più pesante per il nostro sistema, «sono stati già rivisti», si legge. E’ ben vero, come afferma il governo, che ormai il sistema pensionistico italiano è «tra i più sostenibili in Europa», dato che molti altri stanno peggio; ma la Ue ci ha consigliato di intervenire ancora perché si tratta di uno dei settori più importanti di una finanza pubblica nell’insieme poco sostenibile.

Nulla di nuovo anche per i conti complessivi dello Stato. Di fronte al timore delle autorità europee che le misure già prese non siano sufficienti a raggiungere il pareggio di bilancio nel 2013, il governo ripete una spiegazione dettagliata di ciò che ha già fatto, aggiungendo soltanto che sarà pronto a intervenire in caso di scostamenti dagli obiettivi.

Tra le novità, compare l’impegno a vendite e valorizzazioni di beni pubblici per 5 miliardi all’anno, compresa una ampia privatizzazione di aziende controllate dagli enti locali. Questo l’Europa lo chiede; per realizzarlo occorre un governo solido, capace di imporsi alle amministrazioni locali di ogni colore, che da questo orecchio, quasi tutte, non ci sentono. Lo stesso vale per la liberalizzazione delle professioni, finora bloccata in Parlamento da lobbies possenti nella maggioranza, con agganci anche nelle opposizioni.

D’altra parte, è la lettera stessa a rivelare il suo limite, nel prolisso elencare provvedimenti già presi da mesi e non realizzati per carenza di consenso politico. Come si farà a decidere in fretta le misure nuove, se è già così lunga quella delle misure ancora in corso d’opera? E perché poi insistere con tutte quante le proposte di revisione costituzionale, quando all’Europa ne interessano solo due, il pareggio di bilancio e l’abolizione delle Province? Con una maggioranza parlamentare nelle condizioni in cui si trova, le complesse procedure per cambiare la Costituzione rischiano soltanto di rallentare misure assai più urgenti ed efficaci anche nel breve periodo.

Le prime reazioni dall’Europa sembrano positive. Sulla carta, infatti, c’è parecchio: una lista davvero lunga di propositi, buoni o non a seconda dei gusti. Ma forse si tratta solo di far finta di fare, in modo di togliere gli altri governi europei dall’imbarazzo. Altrimenti avrebbero dovuto spingersi a compiere un passo finora nuovo e inesplorato nella storia dell’Unione, provocare la crisi di un altro governo. Ma attenzione: secondo alcuni esperti finanziari, se i tassi del debito pubblico italiano, ora vicini al 6%, salissero oltre il 6,2-6,3%, la crisi di sfiducia nel nostro Paese potrebbe divenire irreversibile; e tutte le forze dell’Europa non basterebbero a salvarci.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9370


Titolo: STEFANO LEPRI. La bugia smascherata da Atene
Inserito da: Admin - Novembre 07, 2011, 09:13:15 am
     
2/11/2011
 
La bugia smascherata da Atene
 
STEFANO LEPRI
 
Ma non è giusto dare la parola alla gente, quando si tratta di sopportare sacrifici così pesanti? In questo caso no. Sulla materia di cui si dovrebbe decidere, la sovranità nazionale della Grecia non esiste più. Sarebbe come se, poniamo, per decidere se costruire o no centrali nucleari in Italia si fosse posta la domanda ai cittadini di un’unica Regione (mentre, saggiamente, la nostra Costituzione vieta di sottoporre a referendum i trattati internazionali).

Finora tutti i governi dell’area euro avevano trovato comodo occultare questa realtà. La mossa a sorpresa di Giorgos Papandreou involontariamente smaschera una menzogna collettiva. L’ira in altre capitali è comprensibile, ma potevano ammettere prima che se si condivide una moneta comune il potere dei governi nazionali è limitato. Soprattutto lo è quello della Grecia, che per colpe precise (del governo precedente, di altro colore politico) si trova in una situazione insostenibile. Non può fare da sé un Paese che, perfino dopo tutti i tagli agli stipendi e gli aggravi di tasse degli ultimi due anni, continua a vivere al di sopra dei propri mezzi.

Un Paese che produce 100 e consuma 108, come accade alla Grecia del 2011, ha vitale bisogno dell’aiuto degli altri. Riescono solo gli Stati Uniti a sostenere per lungo tempo uno squilibrio dei pagamenti correnti con l’estero perché sono la maggiore potenza mondiale e hanno il dollaro; tuttavia in proporzione è circa la metà di quello greco. Per di più, il governo di Atene è nella condizione di dover contrarre nuovi debiti anche solo per ripagare i debiti vecchi; visto che i mercati non offrono credito, non può andare avanti senza soccorsi esterni.

Nei fatti i greci non sono in grado di decidere sul piano di austerità. Possono cambiare governo, se vogliono (può darsi che sia questo l’esito, invece del referendum); eppure qualsiasi scelta di politica economica, compresa l’insolvenza totale e l’uscita dall’euro, non potrà sottrarli ad una austerità durissima. In più, l’attesa del referendum alimenta il peggiore contagio in tutta l’area, perché i mercati si scatenano sulle ipotesi di cui sopra. Oltretutto, al primo sondaggio che preveda una vittoria del no, potrebbero essere i greci stessi a spostare in massa i propri capitali all’estero: cercando ciascuno di salvare il proprio patrimonio, tutti insieme porterebbero alla rovina il Paese.

Così funziona un’unione monetaria. Già nei mesi passati fingere che la mutua interdipendenza fosse un fattore secondario ha portato a prendere decisioni collettive sempre tardive, talora sbagliate, per motivi di politica interna. A loro volta, gli errori hanno alimentato la diffidenza tra le diverse nazioni. Siamo al punto che il governo di Berlino rinuncia a sgravi fiscali che sarebbe in grado di elargire ai propri elettori «per non dare il cattivo esempio» ai Paesi euro costretti a fare l’opposto.

Nel tentativo di ogni Paese di scaricare le difficoltà sugli altri l’Europa si produce in un multiforme autolesionismo. Ora l’area euro si presenta davanti alle altre potenze globali, al G-20 di Cannes, ridotta a mendicare soccorso dalla Cina, o da un Fondo monetario internazionale potenziato. Il resto del mondo teme che dalla combinazione di irresponsabilità e reciproca diffidenza dei governi del nostro continente scaturisca un nuovo patatrac finanziario collettivo; ma non può risolverne i problemi (come possiamo pretendere che la Cina usi i suoi soldi per aiutare Paesi i cui cittadini sono molto più ricchi dei suoi?). Sull’Italia, che a causa dei propri errori è finita nella prima linea dell’infezione greca, incredibilmente viene a pesare una responsabilità planetaria: se riusciamo a rimetterci in piedi, allontaneremo il pericolo per tutti.
 
da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9387


Titolo: STEFANO LEPRI. Dobbiamo prepararci ad altri sacrifici
Inserito da: Admin - Novembre 09, 2011, 05:52:10 pm
9/11/2011

Dobbiamo prepararci ad altri sacrifici

STEFANO LEPRI

Nessuno si illuda di cavarsela con poco. La Legge di stabilità che sarà l’ultimo atto di questo governo non era sufficiente a recuperare la fiducia internazionale; non lo diventerebbe nemmeno con gli emendamenti in cantiere, che d’altronde non entusiasmano nessuno. Mentre le domande che ieri ci sono giunte dalle autorità europee mostrano che, a questo punto, tutta la politica economica italiana va ripensata.

Non era scontato che arrivassimo fino a questo punto; ovvero il punto in cui gli analisti finanziari internazionali cominciano a domandarsi (come in un rapporto della Barclays ieri) se ormai riguadagnare la credibilità perduta non sia per l’Italia impossibile. Ci siamo arrivati perché la crisi politica si è incancrenita. Possiamo tentare di uscirne mostrando che una via d’uscita politica la sappiamo cercare; che esiste qualcuno capace di ravvivare nel Paese il senso di azioni condivise, al di là del disperato scaricabarile tra categorie e corporazioni che oggi blocca tutto.

Il tempo dovremmo averlo. La Grecia senza aiuti esterni non riuscirebbe nemmeno a pagare gli stipendi di dicembre ai dipendenti pubblici. L’Italia non ha simili urgenze di cassa. Per raggiungere il pareggio di bilancio al 2013, obiettivo ormai impostoci da tutta la comunità internazionale, restano sempre da definire misure per 20 miliardi, lasciate in sospeso da agosto ad oggi; e tuttavia il 2013 non è domani. Ciò che serve subito è un governo capace di mostrare al mondo che affronta i problemi invece di passare il tempo ad imbonire i cittadini con le chiacchiere e ad escogitare espedienti per sopravvivere.

Bisognerà fare molto. Altri sacrifici saranno inevitabili, come una rinuncia alle pensioni di anzianità. Forse è inevitabile un record storico della pressione fiscale. Ma, paradossalmente, sarà assai più utile riuscire ad impostare riforme che sono nel nostro stesso interesse come collettività, bloccate finora da gruppi ristretti. Così è ad esempio per la scuola, per la giustizia civile, per gli ordini professionali, per l’apertura alla concorrenza di certi settori: tutte questioni menzionate nella lettera che è arrivata ieri da Bruxelles. Sarebbe anche utile sottrarre potere alla politica privatizzando grandi gruppi nazionali, fondendo tra loro o cedendo società municipalizzate. Un diverso mercato del lavoro potrebbe dare più speranza ai giovani, invece di scaricare tutta su di loro la flessibilità.

Occorrerà anche avere uno sguardo lucido su dove si è sbagliato: prima la promessa illusoria di un miracolo economico, poi la tenacia nell’ignorare ogni segnale del declino. E’ stato ripetuto in piccola farsa ciò che veniva descritto come tragedia nell’incubo staliniano di Orwell, dove la propaganda del «ministero dell’abbondanza» nascondeva la penuria. Si prometteva di tagliare la spesa, e la spesa invece cresceva per procacciare consenso; cosicché slittava sempre al domani l’altra promessa di ridurre le tasse. Nella crisi, si sono protette le categorie più pronte a farsi sentire, abbandonate le altre. Dovendo alla fine aumentare le tasse, si sono scelte quelle meno impopolari, invece di quelle meno dannose all’economia.

La fiducia l’abbiamo perduta perché il resto del mondo ha avuto l’impressione che dicessimo sempre più bugie. L’Italia ha anzi dato una grossa spinta alla diffidenza reciproca tra Stati che lascia ora all’Europa una recessione come unica via per risolvere i propri problemi. Chi ci governava è riuscito a rafforzare negli altri popoli i più sciocchi, vieti, banali pregiudizi contro gli italiani. D’ora in poi conterà più la verità dei numeri. Anzi, sarà solo la verità a poterci salvare.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9412


Titolo: STEFANO LEPRI. - I tecnici contro la paralisi
Inserito da: Admin - Novembre 15, 2011, 11:46:47 am
15/11/2011

I tecnici contro la paralisi

STEFANO LEPRI

Quando si forma un governo di tecnici si può coltivare l’illusione che finalmente siano i «migliori» a guidarci, o al contrario deprecare l’arrivo al potere di «non eletti». Meglio, in questi casi, diffidare delle retoriche.

Meglio considerare che ai governi tecnici si arriva quando la politica non è riuscita a prendere decisioni efficaci; ricordando poi che sarà sempre un Parlamento eletto ad approvare le leggi. Per capire che cosa ci si può aspettare, occorre capire in dettaglio perché siamo arrivati alla paralisi.

Si possono forse classificare in quattro tipi le decisioni finora non prese: 1) misure che hanno il consenso degli elettori ma la classe politica non riesce a deliberare perché contrarie al proprio interesse interno; 2) misure che avrebbero un appoggio di massa ma vengono bloccate da gruppi di interesse potenti; 3) misure che dividono l’elettorato, con una parte consistente che si oppone; 4) misure del tutto impopolari nell’immediato che saranno benefiche nel medio periodo.

Sul primo punto, c’è poco da chiarire. E’ arduo far votare ai deputati la diminuzione del loro numero, delle loro indennità. Per motivi simili le province sono difficili da abolire. Una decisione politica di procedere su questo terreno potrebbe maturare solo di fronte alla minaccia che si affermino nel voto nuovi partiti, diversi dagli attuali e dunque non interessati allo status quo. I tecnici sanno invece che possono solo guadagnarne popolarità.

Sul secondo punto, il caso esemplare è quello delle liberalizzazioni. Favorire la concorrenza, o aprire alla libera iniziativa settori protetti, può ridurre prezzi e costi. I sondaggi indicano il consenso di una maggioranza di cittadini. Però di solito i gruppi di interesse ristretti, attivandosi, esercitano sulla politica una pressione efficace. Chi perde privilegi minaccia di votare altri partiti o scende in piazza; mentre i vantaggi per la generalità dei cittadini non sono di portata tale da indurli a mobilitarsi a favore delle innovazioni. I tecnici, non dovendo essere rieletti, possono resistere alle pressioni lobbistiche; non necessariamente però ad agitazioni dirompenti.

Quanto al terzo punto, investe questioni come l’evasione fiscale. In una economia dove circa un quarto degli occupati sono autonomi, una fetta importante dell’elettorato non vede con favore una stretta (basti pensare alle proteste contro Equitalia). La disgregazione della Democrazia cristiana nel 1993-1994 non fu conseguenza soltanto degli scandali; ebbero un peso anche le misure anti-evasione dei governi Amato 1 e Ciampi, che costarono la fuga di gruppi di interesse un tempo «collaterali». Un governo di tecnici incontrerà ostacoli non indifferenti. Sarà d’aiuto una maggioranza parlamentare ampia, capace di resistere a defezioni. La tentazione di dissociarsi in massa potrebbe tuttavia essere molto forte. Qualora rispondesse una mobilitazione delle forze favorevoli, il governo tecnico sarebbe accusato di essere diventato politico.

Compiere scelte incisive su materie del quarto tipo sarà difficile per motivi diversi. Se i vantaggi futuri fossero certi, i politici sarebbero lietissimi di lasciare a un governo tecnico la responsabilità di prescrivere medicine parecchio amare o con effetti collaterali pesanti, per poi tornare al potere a guarigione avvenuta. Occorrerebbe tuttavia, su quali siano le medicine migliori, un consenso compatto che talvolta manca perfino tra gli esperti, figuriamoci tra i partiti. Gioverà qui la pressione delle autorità europee e dei mercati; con un inconveniente. Che la crisi fosse europea e mondiale ha aiutato l’Italia a imboccare la strada giusta, rende aleatorio in quanto tempo, e come, si arriverà alla meta.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9438


Titolo: STEFANO LEPRI. L'indirizzo sbagliato delle proteste
Inserito da: Admin - Novembre 19, 2011, 10:41:19 am
18/11/2011

L'indirizzo sbagliato delle proteste

STEFANO LEPRI

Governo delle banche e dei banchieri, governo dei poteri forti, governo dei padroni: il paradosso della giornata di ieri è di aver ascoltato, contro il governo Monti, epiteti quasi identici dagli studenti di estrema sinistra nelle piazze e dai dirigenti della Lega Nord.

La sola differenza è che i ragazzi hanno un’inventiva verbale più vivace, o aggiungono che i debiti non si devono pagare. Da tutte e due le parti si additano le macchinazioni della «piovra gigante» della finanza mondiale, la Goldman Sachs.

La novità di un governo sorretto da una maggioranza larghissima si specchia nell’erompere di populismi politicamente opposti eppure simili, molto simili. Né la cosa si ferma lì; perché quello che dicono i leghisti si legge anche su alcuni giornali berlusconiani, e gli slogan degli studenti e dei Cobas riecheggiano, magari temperati da un sorriso di scherno, anche in alcuni salotti di sinistra. A tutti quanti si potrebbe consigliare di leggere gli insulti che Mario Monti si prese dal Wall Street Journal quando, da commissario europeo alla concorrenza, maltrattava le multinazionali americane.

Però occorre anche riflettere su che cosa significano queste passioni estreme. Quando incombe un pericolo che appare inspiegabile, la tentazione di farsi applaudire dalla gente additando colpevoli è forte. «La crisi va pagata da chi l’ha provocata» affermava uno striscione nei cortei di ieri. Ed è vero che a farla scoppiare, e ad aggravarla, è stata la grande finanza mondiale. Cosicché la via spedita per denigrare qualcuno è identificarlo con le banche, anche se come molti dei nuovi ministri e ministre è un alto burocrate o un accademico mai passato per consigli di amministrazione (quanto ai «padroni», poi, di industriali non ce n’è nemmeno uno).

Non basta. Fino a ieri i supposti interpreti della vox populi avevano demonizzato la «casta» dei politici, attribuendogli anche più colpe delle molte che ha. Adesso la protesta pare spostarsi contro le élites in generale; forse facendo tirare un sospiro di sollievo ai politici, mal comune mezzo gaudio. Le banche italiane hanno colpe modeste, e la Banca d’Italia proprio nessuna, perché anzi le ha tenute assai bene sotto controllo; ma tant’è, fa comodo alzare il tiro, alla Lega per cercar voti stando all’opposizione, all’estrema sinistra per fabbricarsi un nuovo nemico una volta che Berlusconi non è più a Palazzo Chigi.

In realtà molti dei ragazzi ieri in piazza erano tutt’altro che mal disposti verso il governo Monti; la corsa al rialzo ideologico è solo di una frazione più ideologizzata. Tuttavia è di tanti il malessere, tra gli elettori di destra come di sinistra. L’instabilità della finanza fa sentire in potere di qualcosa che non si conosce; così si immaginano complotti. Il guaio è che nei movimenti dei mercati non si nascondono né i complotti immaginati dai populisti né la razionalità spietata ma efficiente che gli attribuiscono certe élites. Ci sono invece paure, scommesse disinformate, sbandamenti gregari di una miriade di operatori sparsi per il pianeta. Dovrebbero riuscire i governi del mondo a tenerli a freno. Non può certo riuscirci il governo italiano da solo; e però l’Italia è un Paese più fragile dagli altri, dove le tensioni del mondo sembrano concentrarsi. Cerchiamo almeno di non rinfacciarci tra noi colpe che stanno altrove.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9446


Titolo: STEFANO LEPRI. Europa o la va o la spacca
Inserito da: Admin - Novembre 21, 2011, 05:31:46 pm
21/11/2011

Europa o la va o la spacca

STEFANO LEPRI

Quando giovedì Mario Monti si incontrerà con Angela Merkel e Nicolas Sarkozy a Strasburgo, non ci sarà dubbio su chi dei tre padroneggi meglio l’agenda delle discussioni.

L’Italia non solo torna ad essere ascoltata, ma parla con una voce competente proprio su ciò che urge decidere: come salvare l’euro.

Purtroppo, non basta: se nelle prossime settimane non maturerà una svolta radicale, diremo in futuro che tutto avvenne troppo tardi, il cambio di governo a Roma come il congresso dei cristiano-democratici tedeschi a Lipsia dove si è indicato in «più Europa» il rimedio.

Monti sembra l’uomo giusto per convincere i tedeschi perché il suo pensiero è affine al loro. Ha sempre sostenuto che gli acquisti di titoli di Stato sul mercato secondario da parte della Banca centrale europea si giustificano solo in una situazione di emergenza ed entro certi limiti. A maggior ragione comprende i tedeschi quando fanno muro contro l’idea che la Bce si dichiari pronta a stampare moneta per sostenere i debiti pubblici, come prestatore di ultima istanza. Nello stesso tempo, sa quanto il tempo stringa.

O la va - nel senso di «più Europa» - o la spacca. Mesi fa Monti ha deprecato che quasi tutti i governi insistano a comportarsi «come se non fossero membri di un’unione monetaria»; non si curano degli effetti che le loro decisioni hanno sugli altri, tentano di scaricare oltre confine la colpa di ogni misura impopolare. La mancanza di fiducia reciproca sbarra la strada a ogni soluzione capace di impedire ai mercati finanziari il loro tremendo divide et impera .

Negli uffici della Commissione europea José Barroso e Herman van Rompuy preparano proposte sugli eurobond , di cui anche Monti - che incontrerà i due domani - è un sostenitore. Ma perché gli eurobond diventino praticabili occorre che ciascun governo abbia la certezza che i suoi cittadini non saranno chiamati a pagare i debiti di altre nazioni.

Tra Germania e Italia c’è accordo che «limitate modifiche dei Trattati europei» siano necessarie, proprio per consolidare la fiducia reciproca. Ci vorrà tempo per negoziarle. Per l’immediato occorre fantasia nell’escogitare strumenti di sostegno ai Paesi deboli che la Germania possa accettare.

La strada è quella indicata dall’altro Mario italiano, il presidente della Bce Draghi: un rapido potenziamento dell’Efsf, il Fondo europeo di salvataggio. L’interrogativo è se l’Efsf potrà contare sul sostegno della Bce. Sarà necessario anche qui scontrarsi con certe rigidità dottrinarie che, come Monti ritiene, possono chiudere la Germania in un egoismo di corta veduta.

Al fondo, il problema non è di tecnica monetaria, è di democrazia: quali sono gli strumenti per arrivare a decisioni condivise, che aiutino gli Stati in difficoltà senza incentivarli a ripetere gli errori che ce li hanno condotti. Purtroppo i politici di ciascuna nazione restano molto affezionati alla libertà di sbagliare a danno delle altre. E se l’Italia riuscisse a dare un buon esempio, una volta tanto?

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9461


Titolo: STEFANO LEPRI. Ora Berlino dovrà riflettere
Inserito da: Admin - Novembre 24, 2011, 06:38:29 pm
24/11/2011

Ora Berlino dovrà riflettere

STEFANO LEPRI


Ora è il momento per agire. La crisi dell’area euro comincia a toccare la Germania; nessun Paese ne è più al riparo. Agire significa un salto in avanti nella costruzione dell’Europa. Molti politici nazionali recalcitrano davanti a una «cessione di sovranità» da parte degli Stati; si tratta in realtà di ampliare, non di ridurre gli spazi di democrazia. L’unico modo di ridare potere ai cittadini sulla sorte delle loro economie, strappandolo ai mercati finanziari, è di trasferire ad autorità europee elettive quelle competenze che i governi nazionali non hanno più la forza di esercitare.

Mario Monti saprà bene tutto questo, quando si siederà oggi al tavolo con Angela Merkel e Nicolas Sarkozy. Saprà anche che è molto difficile riuscirci. Al punto in cui siamo arrivati, solo una politica economica centralmente concordata potrà salvare l’euro.

Dovrà essere democraticamente legittimata; non affidata alla legge del più forte del «metodo intergovernativo» di fatto ridottosi alla guida dell’ineguale duo franco-tedesco, responsabile di molte decisioni tardive e maldestre degli ultimi mesi.

Senza intaccare le sovranità nazionali, servirebbero a poco gli eurobond , i titoli di debito comuni ora riproposti anche da José Barroso e da Herman van Rompuy. Senza un imponente trasferimento di sovranità, inoltre, la Germania non li accetta; e ha ragione anche contro sé stessa, perché l’attuale assetto dei poteri non garantisce nessun Paese membro dell’euro contro l’eventuale irresponsabilità degli altri, Germania compresa.

C’è solo da sperare che l’esito negativo dell’asta dei titoli di Stato tedeschi ieri porti consiglio a Berlino. Vengono offerte spiegazioni tecniche complesse; ma restiamo all’evidenza. Paradossalmente, si tratta di una scelta assai sensata, da parte di mercati che tutto sono stati tranne che razionali negli ultimi mesi: perché mai si dovrebbero comprare titoli che rendono meno del 2%, se occorre il 2% solo per compensare l’aumento dei prezzi? Che ci si guadagna?

Finora, i Bund , ovvero i titoli tedeschi, avevano successo perché si sperava in un guadagno di capitale in caso di rottura dell’euro: sarebbero stati convertiti in un nuovo marco tedesco capace di rivalutarsi. Ora si è capito che una rottura dell’euro avrebbe conseguenze tanto devastanti, nell’Europa e nel mondo, da danneggiare anche la Germania. Proprio perché ragionevolmente oggi si dubita perfino del debito della Bundesrepublik, l’occasione è ottima per far riflettere la Bundesbank e l’ establishment tedesco, rimasti quasi soli nel mondo a credere che i mercati siano sempre razionali.

Solo con un salto in avanti politico si potrà superare l’ostacolo che impedisce alla Banca centrale europea di usare appieno tutti i suoi strumenti. La Germania e i Paesi nordici ricordano sempre che interventi massicci di acquisto dei titoli italiani e spagnoli violerebbero i Trattati europei: per dissuadere i governi dallo scialacquare, la Bce è vincolata a mantenere la «stabilità della moneta». Questo non va cambiato. Tuttavia lo stesso articolo 127 dei Trattati, in un altro comma, affida alla Bce il compito di tutelare anche la stabilità finanziaria.

Si tratta di intendersi. Se l’euro si rompe, sicuramente la stabilità finanziaria non sarà tutelata, con dissesti di grandi banche e altri orrori. Nel giro di poco tempo, verrebbe a mancare anche la stabilità monetaria, perché avremmo una recessione così pesante da ridurre i prezzi, esito pericolosissimo. Speriamo che i tedeschi lo capiscano, e non confermino quel luogo comune secondo cui, loro soli, ritengono che Fiat justitia, pereat mundus sia un motto di cui fregiarsi con orgoglio.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9476


Titolo: STEFANO LEPRI. Nicolas Sarkozy esita l'Europa aspetta Angela
Inserito da: Admin - Dicembre 02, 2011, 06:13:52 pm
2/12/2011

Nicolas Sarkozy esita l'Europa aspetta Angela

STEFANO LEPRI

Mario Draghi ieri mattina ha indicato la strada: può salvare l’euro solo un accordo politico tra Paesi per governare insieme l’economia.
Ma Nicolas Sarkozy ancora esita davanti a tutto ciò che possa apparire una sottomissione della Francia ad autorità comuni; vedremo oggi se Angela Merkel mostrerà una Germania un po’ meno chiusa alla solidarietà verso gli altri Paesi. Nella settimana cruciale che ci separa dal vertice europeo del 9, occorre affrontare problemi elusi e rimasti irrisolti per anni. Molto ancora manca a formulare quella proposta comune che il presidente francese e la cancelliera tedesca dovrebbero mettere a punto in un nuovo incontro lunedì.

Può placare le ansie dei mercati, sedare il loro panico, solo un più forte ruolo della Banca centrale europea. Nel suo discorso di ieri davanti al Parlamento europeo l’italiano che ora la presiede ha fatto capire che questo può avvenire, risollevando sui mercati il valore dei titoli pubblici italiani, spagnoli e francesi. Con grande chiarezza ha detto che questo potrà avvenire soltanto sulla base di un nuovo patto politico che riformuli le regole sui bilanci pubblici dell’area euro, rendendole più stringenti.

Altrimenti «l’Europa rischia di essere spazzata via» ha detto ieri Sarkozy; restando tuttavia sul vago quanto ai rimedi.
Si attendevano novità dal discorso che ieri sera il Presidente francese, già di fatto in campagna elettorale per la rielezione a primavera, ha pronunciato a Tolone davanti a una folla di sostenitori. Invece ha fatto solo un piccolo passo avanti, verso le sanzioni automatiche contro i Paesi trasgressori proposte dai tedeschi. Nulla su quali autorità dovrebbero esercitare la sorveglianza e come.

Resta ancora la Francia il Paese più restio a sottoporsi a una disciplina comune; soprattutto ad attribuire nuovi poteri alla Commissione europea. Non si tratta solo di orgoglio nazionale. In concreto, grazie alla legge dei più forti (i due Paesi più forti) finora invalsa nell’area euro, il bilancio pubblico francese è assai più squilibrato di quello italiano, pur se gravato da un minor peso di debiti passati. Un riequilibrio secondo linee guida comuni, secondo regole uguali per tutti, inevitabilmente sarebbe pesante.

Però da lì si deve passare. Prendendosi la responsabilità di guidare, e non riuscendoci finora che tardi e male, sia Parigi sia Berlino stanno mettendo a nudo tutte le loro debolezze. Ma non si può evitare il salto in avanti richiesto ora anche dalla Bce con pretesti di rispetto della sovranità democratica dei due Paesi. Per sottrarsi a un impegno solidale la Germania si avvinghia alla lettera di una Costituzione pensata nel 1949 per fermare l’eventuale ascesa di un nuovo Hitler; la Francia rifiuta di intaccare il potere del proprio Stato sperando di difendere un modello di società supposto migliore di tutti gli altri, e invece sempre più chiuso su sé stesso.

Il ritardo nelle decisioni dell’Europa la sta precipitando in una recessione economica che poteva forse essere evitata. Dai suoi propri ritardi, l’Italia è costretta a nuove misure di austerità che sarebbero state meno severe se prese prima. Questi due processi interagiscono, aggravandosi a vicenda. Se il nostro Parlamento intralciasse l’attività del governo a cui ha dato un così ampio voto di fiducia, si prenderebbe responsabilità gravi di fronte a tutto il continente; e darebbe alla Germania un’ottima scusa per continuare a non decidere. Questo va assolutamente evitato, pre precise ragioni.

L’euforia finanziaria aveva creato nell’area euro un micidiale moral hazard, ovvero un perverso incentivo a spendere troppo nell’illusione che si sarebbe sempre trovato credito. Ma lo stato di panico in cui i mercati si trovano adesso lo ricrea alla rovescia: uno Stato tedesco che può prendere a prestito quasi gratis, un Paese dove affluiscono masse di capitali in cerca di sicurezza, non vede ancora tutta l’urgenza della crisi. Speriamo che davanti al Bundestag stamattina Angela Merkel sappia guardare oltre.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9506


Titolo: STEFANO LEPRI. I patrimoni sono il primo obiettivo
Inserito da: Admin - Dicembre 05, 2011, 11:07:45 am
5/12/2011

I patrimoni sono il primo obiettivo

STEFANO LEPRI

È razionale tassare di più, molto di più, la casa, come misura principale di riequilibrio del bilancio. E’ razionale destinare una parte del ricavato a ridurre l’Irap. Si aggiunge una riforma delle pensioni ben congegnata, che potrebbe essere definitiva. Nuove liberalizzazioni potrebbero aprire spazi alla crescita economica ed abbassare costi e prezzi.

Scompaiono parecchi enti inutili. In molti dei casi si tratta di decisioni sollecitate da anni.

Tutto questo può piacere o non piacere, ma ha un disegno. L’equità di fondo è data appunto dal concentrare sui patrimoni, immobiliari e in parte anche finanziari, il pesante aggravio di imposte che la situazione di emergenza richiede e che purtroppo non poteva essere evitato. L’Italia è appunto ricca nel patrimonio rispetto ad altri Paesi anche più ricchi nel reddito; in più, i patrimoni sono distribuiti in modo più diseguale dei redditi.

Dunque tassare di più la casa, pur se colpisce l’80% delle famiglie, è più pesante per i ricchi. Sarebbe meglio commisurare l’imposta ai valori di mercato piuttosto che alle fittizie e per di più invecchiate rendite catastali, ma non c’è il tempo, perché il fisco non li conosce. L’adeguamento delle rendite alla realtà di oggi, che parecchi grandi Comuni avevano già a buon punto, è stato interrotto tre anni e mezzo fa dall’abolizione dell’Ici sulla prima casa.

In teoria, secondo la teoria degli economisti, sarebbe stato meglio puntare di più sui tagli alle spese. Purtroppo quando si opera con tempi di emergenza ridurre le spese risulta più difficile, come ha fatto presente ieri sera per lunga esperienza il ministro Piero Giarda. Inoltre, occorreva più che altro assicurare l’efficacia delle riduzioni di spese decise dal precedente governo, non tutte dettagliate e non tutte sicuramente praticabili.

La misura a più robusto effetto sulla crescita dovrebbe essere lo sgravio dell’Irap nella parte che incide sul costo del lavoro. Le imprese la reclamavano da anni, e ha un costo notevole. Certo, comporta il rischio di rimpinguare i profitti, piuttosto che di muovere nuovi investimenti. Funzionerà se l’insieme della manovra risulterà credibile e ridarà fiducia sia in Italia sia all’estero nelle prospettive della nostra economia.

Se si vuole criticare il maxi-decreto di ieri sera, è facile sostenere che avrà un effetto recessivo. Nell’immediato, sottrarre 20 miliardi netti di euro non può che deprimere l’economia. Tuttavia, incidere molto sui patrimoni e detassare le imprese è una delle combinazioni meno peggiori; occorre che vi si accompagni un forte recupero di evasione fiscale. Ieri sera il presidente del consiglio ha detto che i provvedimenti presi sono «piuttosto incisivi», però mancano ancora sufficienti dettagli.

Ad esempio non sarebbe stato assurdo fissare a 500 euro, invece che a 1.000, il limite della tracciabilità dei pagamenti. Dentro l’attuale governo vi sono tutte le capacità tecniche per agire in modo deciso contro chi froda il fisco. Sarà essenziale provarlo, quando da oggi in poi si sentirà affermare da più parti che nulla cambia, perché pagano sempre i soliti: secondo alcuni i lavoratori, secondo altri i ceti medi, secondo altri ancora i poveri.

Nella situazione in cui ci troviamo, qualche sacrificio lo devono fare tutti. Nessuno, potrebbe riuscire a ricavare 20 miliardi di euro soltanto dai «ricchi». Un governo tecnico serve proprio a non subire quei ricatti dei pochi sui molti, ovvero delle lobby capaci di minacciare compatte un cambio di scelta elettorale, che normalmente paralizzano i partiti politici. Per questo motivo è essenziale che la gran parte dei cittadini venga persuasa.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9518


Titolo: STEFANO LEPRI. Le leve di comando
Inserito da: Admin - Dicembre 10, 2011, 04:38:17 pm
10/12/2011

Le leve di comando

STEFANO LEPRI


Ci vorrebbe più lotta all’evasione fiscale, ci vorrebbero più tagli alle spese: restano queste le due principali critiche alla manovra Monti. Benché contro l’evasione ci sia una novità importante nelle prime ore sottovalutata, la trasparenza al fisco dei conti correnti bancari, molti altri provvedimenti vengono suggeriti. Meno chiare invece appaiono le controproposte sulla spesa pubblica.

Come ha detto ieri il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, per avanzare proposte valide sulla spesa occorrono «meccanismi idonei a formulare analisi dettagliate delle singole voci» e «indicatori accurati di efficienza delle diverse strutture pubbliche». Già: e perché non si è mai riusciti a farlo finora, quando è da vent’anni che i governi si impegnano a tagliare le spese?
I limiti rivelati dai primi provvedimenti del governo Monti tornano utili a riflettere su quanto in profondità siano radicati i problemi da affrontare. Verifichiamo nella pratica che il male non può essere attribuito soltanto alla «casta» dei politici. Per l’appunto diversi esponenti di un altro governo tecnico, quello guidato da Carlo Azeglio Ciampi nel 1993, ebbero l’impressione che l’alta burocrazia non gli obbedisse appieno. Di episodi simili si ha notizia in queste ore.

Un governo tecnico, che non deve essere rieletto, presenta in sostanza due vantaggi. Primo, è meno condizionato dall’impopolarità di massa delle misure più severe (come l’aumento di imposte sulla casa). Secondo, è meno condizionato da gruppi di interesse ristretti che spesso riescono a bloccare riforme gradite a una maggioranza di cittadini (la tracciabilità dei pagamenti, o certe liberalizzazioni). Purtroppo questo non basta, perché le leve di comando restano le stesse: la pubblica amministrazione, i cui alti gradi spesso sono parte dello stesso sistema in cui prosperano sia l’inefficienza sia la corruzione della politica. Per giunta gli stessi tecnici in qualche caso sono solo la migliore espressione, ad elevati livelli di competenza, di un Paese frammentato in corporazioni e gruppi di interesse.

Quasi tutti gli economisti sono convinti che nella spesa pubblica ci sia molto che può essere tagliato senza danno. Ma l’insieme è così poco trasparente che risulta difficile capire come. Forse alcune cose nemmeno i ministri riescono a saperle. Ad esempio, può essere un fatto obiettivo che a un certo punto le Volanti della Polizia si trovino a corto di benzina per svolgere il loro indispensabile lavoro; ma sarà difficilissimo stabilire se davvero prima di arrivare a questo esito si sia tagliata ogni altra spesa meno utile.
Una delle voci più dubbie della spesa totale è quella dei «trasferimenti a imprese»; la stessa Confindustria riconosce che lì molto potrebbe essere eliminato. Eppure una lista completa e dettagliata sembra non sia disponibile. Chi in Parlamento ha provato a indagare ha incontrato muri di gomma innalzati dai burocrati. La ragioneria generale dello Stato fa i conti e insieme li controlla; le proposte per distanziare questi due ruoli vengono regolarmente insabbiate. Quando il burocrate oppone il «non si può fare» coraggio e astuzia sono necessari. Altrettanto serve per affrontare l’evasione fiscale, tanto radicata nel corpo della nostra economia. Lì il vizio tenace delle burocrazie sta nel vantare successi inesistenti, «stiamo già facendo», quando poi la Corte dei Conti periodicamente rivela che alle altisonanti cifre degli accertamenti corrispondono solo in minima parte incassi veri di imposte in più. In più, le lobby interessate a che il fisco resti facile da ingannare possiedono forse una potenza sufficiente anche a intimidire un governo tecnico.

Con questa manovra l’Italia diventerà, con una pressione fiscale del 45%, uno dei Paesi più tassati del mondo. Senza più ampi tagli alle spese e senza recupero massiccio di evasione, come ci dicono le analisi della Banca d’Italia, la competitività perduta non la recupereremo mai.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9535


Titolo: STEFANO LEPRI. Banche, la crisi torna dov'era cominciata
Inserito da: Admin - Gennaio 07, 2012, 11:19:17 am
7/1/2012

Banche, la crisi torna dov'era cominciata

STEFANO LEPRI

I dati sulla disoccupazione sono da sempre più importanti negli Stati Uniti rispetto all’Europa, perché lì il Welfare protegge meno. Lo sono ancor più in questo periodo, quando perfino la destra repubblicana si accorge che si è rotto l’«ascensore sociale», ovvero che l’America non è più il Paese dove facilmente un povero che si dà da fare può diventare ricco. Rallegra anche Barack Obama il calo dei senza lavoro, perché gli fa guadagnare speranze di essere rieletto. La notizia non è tuttavia bastata, ieri nelle Borse di tutto il mondo, a controbilanciare il pessimismo che viene dall’Europa. Altri segnali dovranno seguire, prima di poter essere certi che negli Usa si è irrobustita la ripresa.

Se la recessione a cui va incontro l’Europa sarà breve, come i più recenti dati dall’economia reale consentono di sperare, le sue ripercussioni oltreoceano resteranno contenute. Ma ci sono le banche. Per quella via il contagio internazionale viaggia veloce. E la crisi dell’area euro stringe ora Stati e banche in un circolo vizioso: la fragilità del debito di alcuni Stati fa sorgere dubbi non solo sulle banche che vi hanno sede, ma su quasi tutte le banche del resto dell’area. Non è peraltro un male che la crisi ritorni dove è cominciata, nella finanza. Può essere utile a capirne meglio la natura; sperabilmente ad accelerare i rimedi. Purtroppo il colpo è stato duro in Italia, dove i banchieri non avevano molto peccato di sregolatezza prima del 2007. Ciò che viene alla luce è piuttosto una particolarità nazionale: mostra i suoi limiti l’assetto proprietario basato sulle Fondazioni, a cui si ricorse quando le banche furono privatizzate negli Anni 90. Inutile accusare le nuove regole europee, c’è una carenza di capitale vera. Non è un male che la crisi ritorni ad abbattersi sulle banche perché mostra quanto le difficoltà investano collettivamente tutta l’area euro, e richiedano dunque uno sforzo comune. La nazionalizzazione di ciò che resta di Dexia potrebbe dare il colpo finale alla «tripla A» del debito pubblico francese; il governo di Parigi ha smentito, e ciò nonostante la voce continua a girare. La stessa Germania potrebbe essere costretta ad interventi di grande peso.

Insomma, se le banche tremano, solo gli Stati possono sorreggerle. Ma che avverrà agli Stati troppo deboli per fare da sostegno? Anche nel caso delle banche si rivela una miopia dei poteri costituiti nazionali dell’area euro. La moneta unica per funzionare bene non richiede soltanto una parziale cessione di sovranità (una politica di bilancio comune) ma anche un sistema bancario il più possibile transnazionale. Ad esempio, è normale che alcuni dei 50 Stati nordamericani consumino più di quanto producano, e altri l’opposto; ma il risparmio viene trasferito da dove si forma a dove serve da un sistema bancario perlopiù a scala dell’intera Unione, senza che si interpongano etichette di provenienza, Illinois o Alabama o altro. Può darsi che la comune situazione di pericolo agevoli la comprensione dei fatti. Finora la Germania è riuscita a tenere separate le parti del problema, come se non ci fosse alcun nesso tra le difficoltà delle sue banche, venute da chissà dove, e quelle dei Paesi deboli, provocate dalla dissolutezza dei loro governi. L’attenzione ossessiva ai soli deficit pubblici minaccia di trasformare l’unione monetaria europea in un infernale meccanismo di recessione, come lo fu il gold standard negli Anni 30.

Sarebbe stato meglio per le banche un sostegno collettivo europeo, che le indirizzasse verso una dimensione sovrannazionale oltre ad evitare nuovi intrecci tra politica interna e potere della finanza. Intanto è necessario rendere pienamente operativo al più presto l’Efsf, il fondo di salvataggio europeo. Non è affatto detto che basti. Perlomeno Berlino appare ormai isolata nell’allungare i tempi, abbandonata anche dai suoi tradizionali alleati nordici.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9624


Titolo: STEFANO LEPRI. Quella bandiera sognata dai No Global
Inserito da: Admin - Gennaio 10, 2012, 10:17:08 am
10/1/2012

Quella bandiera sognata dai No Global

STEFANO LEPRI

Quanta acqua è passata sotto i ponti... nel 1999 a Seattle, nel 2000 a Praga, nel 2001 a Genova la Tobin Tax (la tassa che dovrebbe colpire con una bassa aliquota ognuna delle migliaia di transazioni finanziarie effettuate ogni giorno) era la bandiera più accattivante, più chiara, delle proteste contro la globalizzazione nelle strade di tutto il mondo. Chi si ricorda? L’attivista franco-americana Susan George che la spiega in piazza Carignano, prima che la morte di Carlo Giuliani a qualche isolato di distanza oscurasse tutto? Il direttore del Monde diplomatique , Ignacio Ramonet, star dell’estrema sinistra, che rivendica di averla lanciata per primo nel 1997?

Ora, su quella tassa per mettere a freno la finanza si confrontano governi di centro-destra come quelli di Nicolas Sarkozy e Angela Merkel. A ben guardare, tanto strano non è. Non voleva affossare il capitalismo, piuttosto salvare il capitalismo produttivo dagli squilibri finanziari, l’economista americano James Tobin, premio Nobel 1981, non a caso uno dei maestri di Mario Monti a Yale 46 anni fa. Inutilmente lo ripeteva, allora: «Io sono per il libero commercio, appoggio il Fmi, la Banca Mondiale e la Wto, non ho nulla a che fare con chi si proclama rivoluzionario».

Tobin, rifacendosi a John Maynard Keynes, temeva che il moltiplicarsi di transazioni a breve o brevissimo termine finisse per distaccare completamente la finanza dal suo compito basilare di incanalare il risparmio negli investimenti produttivi dove può essere utilizzato con profitto; e creasse sui mercati (si riferiva soprattutto ai cambi delle monete) oscillazioni dannose per chi produce e commercia.

Però a scorgere i rischi della finanza erano in pochi, dieci o dodici anni fa. Anzi controlli e vincoli si attenuavano, secondo la dottrina del «tocco leggero» di Alan Greenspan. Da parte sua Attac, organizzazione di estrema sinistra nata per sostenere (qualsiasi cosa ne pensasse Tobin stesso) la tassa Tobin, la vantava come unica misura capace di raccogliere il denaro necessario ad aiutare i Paesi poveri. Nel Parlamento italiano di sostenitori se ne trovarono, parecchi nel centro-sinistra, qualcuno anche nel centro-destra; ma si demoralizzarono dopo che nessuno aveva dato retta al primo ministro socialista francese Lionel Jospin, prima voce ufficiale a dirsi favorevole.

Il seguito è noto: la finanza ci ha messo nei guai della grande crisi. Sui mercati non si dà gran peso ai dati reali, dai quali risulta che l’Italia è in grado di fare fronte ai suoi debiti; si opina invece che se i mercati stessi resteranno convinti che l’Italia non ce la fa, allora alla fine non ce la farà davvero. E cavalcando aspettative gregarie si arriva, come ieri, alla demenza di acquistare in massa titoli di Stato tedeschi a breve che rendono meno di zero.

Oggi quasi tutti sono d’accordo che la finanza va disciplinata. Anche a governi di centro-destra piace additare le responsabilità dei banchieri. Quanto alla Tobin Tax, tuttavia, restano gli stessi dubbi a cui non dette risposta un rapporto commissionato appunto da Jospin. Ovvero: non è certo che possa ridurre l’instabilità dei mercati; e se applicata solo da alcuni Paesi spingerebbe le transazioni finanziarie verso i Paesi che non la applicano. Negli Anni 80, obiettano i favorevoli, la Svezia adottò da sola una imposta simile, con danni limitati.

Il Fondo monetario internazionale la giudica difficile da applicare; se si vuole tassare la finanza, altre soluzioni sono più efficaci. La Tobin Tax ha il vantaggio di colpire la fantasia: disincentiva quel frenetico moltiplicarsi di scambi, ora anche «ad alta frequenza», di pochi attimi, grazie ai computer, di cui le persone qualsiasi non riescono a capire la necessità. Così si è rivelata una bandiera anche per due governi, come il tedesco e il francese, che in questa stessa crisi hanno fatto tutto il possibile per lavare in patria i panni sporchi delle loro banche.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9633


Titolo: STEFANO LEPRI. L'aiuto che serve ai mercati
Inserito da: Admin - Gennaio 12, 2012, 12:23:07 pm
12/1/2012

L'aiuto che serve ai mercati

STEFANO LEPRI

L’ Italia di Mario Monti piace alla Germania; la bozza di trattato europeo in discussione non appare più minacciosa. La giornata di ieri è da segnare all’attivo per il nostro governo e il nostro Paese. Eppure l’uscita dalla crisi dell’euro resta lontana; i piccoli passi della diplomazia rischiano di essere sopravanzati non solo dalla velocità con cui i mercati si convincono di future catastrofi, ma anche dalla lentezza gregaria con cui la massa degli investitori si accorge delle inversioni di tendenza.

Monti in parole povere è andato a dire ad Angela Merkel che capisce benissimo l’ostinazione dei tedeschi nel pretendere rigore ed efficienza dagli altri Paesi dell’area euro, anche a costo di lasciarli a lungo affacciati sull’orlo del baratro. Ma ha anche ammonito a non spingere troppo oltre questo gioco d’azzardo. Ha provato a spiegare qual è, secondo lui, il limite di resistenza dell’Italia.

In questi giorni sono in molti a suggerire alla Germania di imparare dalla propria storia. Ad aprire la strada ad Adolf Hitler non fu l’iperinflazione del 1923 che distrusse i risparmi della classe media; fu l’austerità di massa del 1930-32, salari tagliati e posti di lavoro cancellati. Perlopiù i tedeschi tendono a vedere la seconda come conseguenza della prima e di fattori esterni al loro Paese. Solo pochi, come il novantenne ex cancelliere Helmut Schmidt, incitano a riflettere meglio.

Non è facile rimontare la china della sfiducia, se ancora molti in Germania (circa metà di quelli che hanno risposto ieri a un sondaggio online del Financial Times Deutschland ) e molti nel mondo sono convinti che «nemmeno Monti riuscirà a salvare l’Italia». Ed è purtroppo possibile che il fatidico spread sui titoli a 10 anni resti ancora a lungo sugli attuali livelli. Ma più la tensione si manterrà, più l’Italia rischia di infossarsi in una recessione grave, con possibili ondate di reazione populista.

Per scampare ai pericoli occorre non solo fare per tempo le mosse giuste, ma farle nella sequenza giusta, come ha detto qualche settimana fa Mario Draghi. L’annuncio della Merkel sul maggiore contributo tedesco al Fondo di salvataggio europeo consente un minimo di speranza; si tratta tuttavia di un progresso lento, ancora nella logica di cui sopra.

Vanno interpretate con attenzione alcune parole di Monti ieri: «Ci aspettiamo dall’Europa, di cui l’Italia fa parte, la messa a punto di meccanismi che facilitino la trasformazione di buone politiche in tassi di interesse più ragionevoli». Non c’è solo un invito ai mercati a rendersi conto che l’Italia non è più a rischio come due mesi fa. C’è anche l’idea che i mercati - dove è assurdo che l’Italia paghi il 7% così come che la Germania, profittando della sfiducia negli altri, si finanzi «sottocosto» al 2% - vanno aiutati a funzionare meglio dalle iniziative delle istituzioni. Innanzitutto, dall’Unione europea, ovvero dalle istituzioni politiche.

In parte l’ostacolo è la Germania, in parte è la Francia, e all’Italia non converrebbe gettare il suo peso relativamente modesto da uno dei due lati. Con garbo ieri Monti ha ricordato ai due governi l’errore di Deauville nell’ottobre 2010, quando il vertice franco-tedesco compì scelte subito giudicate disastrose dalla Bce, e presto rivelatesi tali. Occorre procedere attraverso le istituzioni collettive dell’Europa, «rispettandole».

Concluso il nuovo Patto sulle regole di bilancio, occorre potenziare gli strumenti di soccorso (l’Efsf, e l’Esm che gli succederà) facendo probabilmente molto di più di quanto fatto fino adesso. Solo così, poggiando su queste garanzie, potrebbe avviarsi l’ingranaggio finale del «meccanismo», ossia più massicci interventi della Bce sui mercati dei titoli; per ora di questo ai tedeschi è bene non parlare, ma è lì che è inevitabile arrivare.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9639


Titolo: STEFANO LEPRI. Premiato l'egoismo
Inserito da: Admin - Gennaio 14, 2012, 03:15:42 pm
14/1/2012

Premiato l'egoismo

STEFANO LEPRI

Proprio quando sembrava di intravedere segni di sollievo per l’area dell’euro, Standard& Poor’s assesta una nuova mazzata. Ma prima di ridire delle agenzie di rating tutto il male che si meritano, riflettiamo su quanto resta fragile la nostra unione monetaria.

Ieri mattina, la nuova asta dei titoli di Stato italiani era andata così così, non bene come la precedente: il nostro Paese ancora stenta a recuperare la fiducia, forse anche a causa di ciò che avviene nelle sue aule parlamentari.

Ieri pomeriggio, poco dopo le prime voci sulla probabile perdita della «tripla A» per Francia ed Austria, e su ulteriori declassamenti per Italia e Spagna, si sono interrotte le trattative per ristrutturare il debito della Grecia: una vicenda che si trascina troppo a lungo in una sequela di errori, tra discordie di istituzioni e furbizie di banchieri.

In qualche caso, i verdetti delle agenzie di rating ormai vengono ignorati dai mercati. Il declassamento degli Usa, deciso dalla stessa Standard & Poor’s il 5 agosto, non ha inciso sui tassi del debito pubblico americano. Tutta questa severità contro gli Stati sovrani si rivela sempre più come un tentativo di farsi perdonare anni di colpevole indulgenza, anzi di complicità, verso le emissioni di titoli «tossici»; in Italia, basti ricordare che le tre agenzie si sono accorte del dissesto Parmalat quando ormai se ne discuteva nei bar.

La mossa multipla di ieri è solo l’effetto ritardato del deludente vertice europeo di dicembre; era attesa, tanto che i suoi danni almeno per ora restano limitati. Nelle ultime settimane, nulla è cambiato in peggio nella situazione italiana; forse troppo poco è cambiato, però nella direzione del meglio. Certo, in una fase come questa i ritardi possono far sospettare ancor più che negligenza. Somme enormi sono in gioco per scommesse sulle tendenze dei mercati. Ma finora non abbiamo mai avuto «pentiti» in grado di svelare malversazioni.

Invano il governo di Parigi ha ripetuto nelle settimane scorse che i dati economici francesi sono molto migliori di quelli della Gran Bretagna la cui «AAA» resiste indisturbata. E’ vero. Ma la Francia soffre perché l’Europa non riesce a decidere, e non decide perché non si sa chi debba farlo, grazie anche alla tenacia con cui la Francia rifiuta di cedere anche briciole di una sovranità nazionale ormai incapace di contrastare le ondate di piena dei mercati finanziari.

La conseguenza vera è che diventa più costoso irrobustire l’Efsf, il fondo europeo di salvataggio, perché perderà anch’esso la tripla A. Una responsabilità maggiore si abbatte sulla Germania: come previsto, il rifiuto di più consistenti mosse di solidarietà finora rischia di far sì che il prezzo per i tedeschi diventi assai più alto dopo. Tutte le soluzioni tecniche fin qui proposte sono state bocciate da Berlino. Ma solo provando ai mercati che si è davvero disposti a pagare un prezzo per salvare l’euro si può calmarli, e quindi minimizzare il prezzo. Occorre dunque andare oltre la promessa di un maggior contributo fatta a Mario Monti l’altro giorno a Berlino.

Se fosse questione di saldare i debiti altrui, i tedeschi avrebbero tutte le ragioni di rifiutare. Ma si rendano conto che i mercati, così come prima della crisi davano credito a troppo buon mercato ai Paesi spendaccioni, nell’ansia attuale premiano eccessivamente l’egoismo del Paese parsimonioso. Dal prolungarsi della crisi, la Germania risparmia miliardi pagando tassi di interesse eccessivamente bassi. Responsabilità è anche rifiutare i doni eccessivi.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9647


Titolo: STEFANO LEPRI. Il peso dei numeri e dei progetti
Inserito da: Admin - Gennaio 22, 2012, 09:55:49 pm
22/1/2012

Il peso dei numeri e dei progetti

STEFANO LEPRI

Ci inoltriamo in un recessione economica che potrebbe diminuire il prodotto italiano di oltre il 2%, e abbiamo un governo che ci promette di farlo crescere, nel lungo periodo, dell’11%. Qualcuno può domandarsi se ci propongano fantasie irraggiungibili, imitando i politici, anche il governo tecnico, anche il premier che ogni giorno ripete di non volersi candidare a nulla nella prossima legislatura.

No, una differenza c’è. Quella cifra dell’11% in più - e salari in aumento del 12%, quindi benefici per i lavoratori - viene da studi della Banca d’Italia. Chi li ha fatti ne difende la serietà (sono pubblici da tempo, e dibattuti fra gli studiosi) pur invitando a non essere schematici. Più che un numero o un altro, si indicano delle potenzialità: la scelta di politica economica più promettente è appunto quella delle liberalizzazioni.

Può darsi che gli economisti si sbaglino; negli anni scorsi alcuni di loro avevano contribuito a creare pericolose illusioni. Ma questo è il meglio che ci offrano oggi, nel mondo; tra i punti di riferimento citati nei lavori della Banca d’Italia c’è proprio quel Raghuram Rajan sentito ieri da La Stampa, uno dei pochissimi che la crisi della finanza l’avevano prevista.

Ciò che non va nell’economia italiana è che mancano gli incentivi a darsi da fare. In troppi mestieri è difficile entrare. Troppe attività sono frenate da leggi fatte su misura per proteggere chi già le esercita. La burocrazia mette la sua taglia, implicita o esplicita, un po’ su tutto. Di potenziali imprenditori ce ne sono fin troppi, ma molti di loro trovando tutte le strade sbarrate riescono solo a vivacchiare frodando il fisco.

Gli studi della Banca d’Italia mostrano, con ampi confronti internazionali, che altri Paesi privi di questi difetti se la cavano molto meglio. La sfida è provare ad imitarli. Naturalmente non è detto che l’Italia ci riesca: può darsi che le sue energie vitali siano limitate. Dovremo riconoscere allora di essere un popolo vecchio, capace solo di campare di rendite, avvinghiato a mille piccoli status quo.

La differenza con le promesse dei politici dunque c’è. Per la prima volta dopo una dozzina d’anni chi governa in Italia torna ad avere un progetto. Ad alcuni potrà non scaldare il cuore, ma un progetto c’è. Non se ne sentiva più parlare da quando entrati nell’euro il centro-sinistra non seppe come proseguire da lì, e nel 2000, messo sotto scacco dalle promesse di Silvio Berlusconi, provò ad imitarlo abbassando le tasse in deficit.

Per lunghi anni abbiamo sentito ripetere che i progetti erano roba da intellettuali giacobini, illusi di diventare i pedagoghi delle masse; che invece occorreva assecondare la gente così com’è, scambiando le pulsioni più rozze per la verità della gente com’è. Il risultato è che anche nell’economia ha trionfato la legge del più forte; si è spenta la voglia dei giovani di farsi avanti scaricando su di loro il peso di tutto ciò che non si voleva cambiare.

Ora sappiamo che in fondo a quella china può esserci il default. Anche se riuscissimo ad evitare il default, c’è il declino. La nuova recessione del 2012 non è ormai evitabile, perché dobbiamo prendere atto che, causa errori precedenti, non possiamo più reggere il tenore di vita di prima. La speranza di risalire la china può darcela solo una direzione di marcia coerente.

Il paradosso è che occorrerebbero dei bravi politici per spiegare che cosa si sta facendo; errori di ingenuità possono perfino creare simpatie per i tassisti, come da sondaggio. In certi casi, è vero che le novità nascono da movimenti di protesta; ma per il momento quanto a protesta abbiamo più che altro i «forconi» in Sicilia, dove si chiede o di lasciare tutto come prima o di fare ancora di peggio.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9678


Titolo: STEFANO LEPRI. Un sentiero strettissimo
Inserito da: Admin - Gennaio 28, 2012, 06:21:17 pm
28/1/2012

Un sentiero strettissimo

STEFANO LEPRI

La crisi dell’area euro è stata a un passo dall’avvitarsi, ha spiegato ieri Mario Draghi; ora si avvertono consistenti segnali di sollievo, ma la strada per uscirne resta ancora lunga. Le discussioni di Davos mostrano una Germania isolata culturalmente nel mondo; rivelano tuttavia anche una diffusa, persistente sfiducia che nel suo insieme il Meridione d’Europa possa evitare il declino. Le decisioni dell’agenzia di rating Fitch ieri, tardiva coda di un pessimismo che sui mercati è in ritirata, possono essere utili a ricordare quanto è facile una ricaduta.

L’Italia gode di un momento di attenzione favorevole, deve stare molto attenta a non sciuparlo. Ai giudizi positivi sulle azioni del suo governo si aggiungono gli esiti buoni di successive aste dei Bot, che fanno sperare per una prova più difficile, l’asta dei Btp lunedì. Se davvero nel fine settimana si raggiungesse un accordo sul debito della Grecia, come le autorità europee sperano, potremmo tutti tirare un poco il fiato.
Non certo nel senso che le fratture nell’area euro siano sanate, nel senso che abbiamo il tempo necessario per farle guarire.

Da parte sua il presidente della Banca centrale europea si muove su un sentiero strettissimo. In cuor suo Draghi è forse più vicino a quanto consigliano all’Europa il segretario al Tesoro Usa Tim Geithner, suo vecchio amico, o la direttrice del Fondo monetario internazionale Christine Lagarde; nei comportamenti deve tenere unita l’istituzione che dirige, evitando che la stampa popolare tedesca gli tolga quell’elmetto prussiano inopinatamente dipintogli in testa quando ormai la sua candidatura all’Eurotower di Francoforte si stava facendo invincibile.

Nel mondo, appunto, nessuno crede che l’area euro si possa salvare con la cura di sola austerità che la Germania prescrive. Il Fmi, gli Stati Uniti, gran parte degli economisti dei cinque continenti sostengono che ai Paesi indebitati è necessaria ma che invece i tedeschi potrebbero evitare di imporla a sé stessi; che insomma Angela Merkel potrebbe ridurre le tasse nel momento in cui Mario Monti è costretto ad aumentarle. Niente da fare; secondo il ministro dell’Economia di Berlino Wolfgang Schaeuble, il successo economico della Germania è dovuto proprio al fatto che sa essere austera.

Draghi al contrario non si illude: le misure di austerità hanno, stanno già avendo, forti effetti recessivi. Ma come evitarli? Pragmatico quale è, il presidente della Bce sa che per smuovere la Germania occorre ripristinare la fiducia che tra i Paesi dell’euro si è persa; la solidarietà si otterrà solo dopo avere stabilito regole severe e credibili. Quanto più rapidi ed efficaci saranno i passi dei governi verso una politica di bilancio comune (fiscal union, in inglese) tanto meglio sarà.

La Banca centrale europea nei primi cento giorni di Draghi ha svolto un ruolo importante: fornendo alle banche tutta la liquidità necessaria ha evitato – questo si è capito ieri – una carenza di credito alle imprese che avrebbe precipitato l’area euro in una recessione assai dura. Ora, per la prima volta negli ultimi giorni alcuni indicatori economici tornano a puntare verso l’alto: la causa viene probabilmente da lì. Resta tuttavia l’interrogativo se la Bce possa fare ancora di più, come molti membri tra i 23 del suo consiglio direttivo ritengono, contrari i due tedeschi e pochissimi altri; Draghi non l’ha sciolto.

Rimane il rischio che la Germania, avvinghiata a dottrine economiche che buona parte del mondo considera superate, finisca per credersi vittima di un «complotto anglosassone» per accollarle i debiti del Meridione d’Europa. Il ritorno di fiducia nell’Italia può aiutare: allunga i tempi a disposizione perché il lento meccanismo europeo produca misure condivise.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9702


Titolo: STEFANO LEPRI. Non basta, lo Spread deve calare ancora
Inserito da: Admin - Gennaio 30, 2012, 11:58:17 am
30/1/2012

Non basta, lo Spread deve calare ancora

STEFANO LEPRI

Il vertice europeo di oggi si impegnerà a mostrare che si fa qualcosa anche per la crescita economica. I fondi a favore dell’Italia sono una buona notizia.

Anche perché sono stati sbloccati da azioni efficaci dell’attuale governo. Ma non illudiamoci: finché non sarà trovato un meccanismo migliore per governare l’euro, il resto del mondo continuerà a guardare verso il nostro continente con il timore che la sua malattia comprometta la salute economica di tutti.

Per anni eravamo stati orgogliosi che l’Europa indicasse ai Paesi emergenti un modello sociale che, a ragione, ritenevamo più equo di quello americano, e un modello politico di cooperazione sovrannazionale tra popoli di lingue e storie diverse, in passato nemici. Rischiamo ora di diffondere nel mondo lo scetticismo verso ogni tentativo di superare sovranità ed egoismi nazionali.

Scopriamo ora che nell’avanzare veloce della globalizzazione i Paesi dell’euro sono divenuti molto più interdipendenti di quanto i loro governi credessero. Ieri un ministro tedesco ha confermato che esisteva davvero la richiesta di commissariare dall’esterno la politica economica greca. Non sarà accolta, ma occorre riflettere su perché è nata.

Come italiani, abbiamo mostrato di essere meglio capaci di governarci della Grecia. Quasi contemporaneamente i due Paesi si erano dati governi tecnici appoggiati dai due maggiori partiti rivali. La differenza evidente è ora che Mario Monti ha preso numerose decisioni importanti e gode di un consenso ampio tra i cittadini; mentre Lukas Papademos, a cui già i partiti avevano assegnato un tempo troppo breve, cade nei sondaggi di opinione e non riesce a realizzare gli impegni.

Sarà una coincidenza, ma la richiesta tedesca è stata rivelata dal Financial Times proprio pochi giorni dopo che il Parlamento di Atene aveva bocciato una proposta di ampliare gli orari delle farmacie (sì, il dinamismo di un’economia è fatto di una somma di tanti piccoli dettagli, nessuno all’apparenza decisivo). Naturalmente sono anche gli aspetti maggiori del risanamento ellenico a restare carenti: scarsi successi contro l’evasione fiscale, ritardi nel liberalizzare le professioni, ostacoli alla vendita delle aziende pubbliche. Tutte cose che noi italiani capiamo al volo.

Si può capire l’esasperazione dei tedeschi; però oltre ad essere giuridicamente impraticabile il commissariamento della Grecia non coglieva il punto. Non si tratta di calare dall’esterno qualcuno che decide; si tratta di saper attuare le decisioni prese. Se gli uffici tributari greci non sono capaci di scovare gli evasori, certo non lo diventerebbero se glielo si ordinasse in tedesco. L’esempio è utile: dimostriamo che, invece, noi italiani possiamo riuscirci.

Diventa perciò sempre più difficile escogitare strumenti per salvare la Grecia. Intanto nei giorni scorsi il timore di un default greco ha aggravato le condizioni del Portogallo, nonostante che a questo Paese non servano nuovi fondi fino all’anno prossimo. Forse l’Italia, come altre volte in passato, sotto un pesante vincolo esterno sta riuscendo a reagire bene. Ma per ridurre la profondità della recessione che ci investe occorre prima di tutto che lo spread cali ancora.

Per una svolta risolutiva occorre che l’area euro sappia muoversi su un terreno del tutto inesplorato. E’ ancora possibile, e come, evitare un default della Grecia? Sia che si tenti di sostenerla ancora, prolungando l’incertezza, sia nel caso contrario, come evitare il contagio al Portogallo? E se la strategia tedesca è di tirare in lungo per vedere quali Paesi ce la fanno e quali no, qual è il momento in cui si rende noto il verdetto?

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9710


Titolo: STEFANO LEPRI. Cosa ci dice la rabbia dei greci
Inserito da: Admin - Febbraio 13, 2012, 11:31:43 am
13/2/2012

Cosa ci dice la rabbia dei greci

STEFANO LEPRI

Osserviamo con attenzione la Grecia, perché può insegnarci molto. I leader dei due principali partiti politici sono coscienti, d’accordo con il primo ministro tecnico, che altri sacrifici sono inevitabili. Ma la gente non ne può più, perché i sacrifici finora sono stati distribuiti male, e segni di speranza non se ne vedono. Nei nostri tempi, nessuna democrazia era mai stata sottoposta a uno stress simile a quelli da cui nacquero le dittature degli Anni 30.

Vediamo un sistema politico e amministrativo corrotto avvitarsi su sé stesso. Il medico-sindacalista ateniese intervistato ieri da questo giornale sosteneva che i tagli di spesa fanno mancare le medicine negli ospedali. Fino a ieri, peraltro, risultava come prassi corrente rivendere all’estero, dove i prezzi sono più alti, i medicinali acquistati dal sistema sanitario pubblico greco. Non a caso la spesa pro capite per farmaci l’anno scorso è stata oltre il 15% superiore rispetto all’Italia, benché il reddito sia alquanto più basso.

In questo caso come in altri, la corruzione che pervade il sistema scarica tutto il peso dei sacrifici sui più deboli, ovvero su chi non fa parte di una clientela o di una categoria protetta.

Peggio ancora, l’incapacità di toccare i privilegi blocca ogni tentativo di rivitalizzare l’economia. Ai deputati risulta più facile aumentare le tasse a tutti che pestare i piedi a gruppi di interesse compatti. Dopodiché una amministrazione corrotta riesce a riscuotere le maggiori tasse solo dai soliti noti, mentre i furbi se la cavano (portare l’aliquota Iva dal 19 al 23% non ne ha accresciuto il gettito).

Il sindacato dei poliziotti ellenici vorrebbe mettere in galera gli inviati della «troika» (Commissione europea, Bce, Fondo monetario). Eppure a tormentare la «troika» è assai più la mancanza di riforme strutturali. Ad esempio, poco o nulla si è fatto in materia di privatizzazioni, perché i politici non volevano rinunciare a strumenti di potere. E perché mai un Paese in queste condizioni è pronto a tagliare le spese militari solo se «non pregiudicano le capacità difensive»?

Dall’altro lato dello Ionio arrivano a punte estreme fenomeni che ben conosciamo. Ce ne rendiamo conto, tanto da ripetere «non siamo come la Grecia» un po’ troppo spesso. Più efficace è invece dire che i sacrifici non li facciamo perché ce li chiede l’Europa ma per il nostro futuro. Questa è la chiarezza che è finora mancata in Grecia, grazie anche a procedure di decisione europee che rendono agevole lo scarico di responsabilità.

Forse la gente che protesta in piazza ad Atene è ormai troppo esasperata per spiegargli che un Paese non può campare producendo 100 e consumando 110, come era avvenuto grazie ai crediti di quella finanza internazionale che poi ha avuto paura delle proprie dissennatezze. È comprensibile l’indignazione contro una macchina politico-burocratica che preme sul Paese come un tumore; ma alle prossime elezioni pare non ci sarà molta scelta tra rivotare chi ha falsificato i bilanci pubblici o gonfiare partiti estremisti privi di ricette.

Il voto di ieri sera nel Parlamento non risolve nulla, allunga i tempi di qualche mese. La vera scadenza diventa ora un’altra: nel corso del 2012 il bilancio dello Stato greco arriverà all’«attivo primario» ossia eliminerà tutto il deficit non causato da pagamento di interessi su debiti. A quel punto, l’insolvenza totale diventerà una tentazione; non è facile capire se più per i greci, o per chi in Europa vuole abbandonarli a sé stessi.

Le ripercussioni di un eventuale default sembrano ora meno difficili da assorbire. Ma quali speranze potrà infondere, dopo, una politica europea che ha permesso ai greci di dipingere i tedeschi come sadici aguzzini, e ai tedeschi di disprezzare i greci come dei fannulloni bugiardi?

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9768


Titolo: STEFANO LEPRI. Occasione da non perdere
Inserito da: Admin - Febbraio 19, 2012, 10:35:04 am
19/2/2012

Occasione da non perdere

STEFANO LEPRI

La recessione in cui l’economia italiana si trova non durerà a lungo: le parole del governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco a Parma non annunciano nuove avversità, temperano invece il forte pessimismo con cui il 2012 era iniziato. Meno di un mese fa, il Fondo monetario internazionale aveva pronosticato al nostro Paese due anni di arretramento, e più grave nelle cifre.

Nel frattempo sui mercati i rendimenti dei titoli del Tesoro sono scesi. Al momento, ci spiega la Banca d’Italia, ci troviamo fuori pericolo: la nostra finanza pubblica «è comunque su un sentiero sostenibile». Ciò non toglie che si debba fare di tutto per attenuare le difficoltà a cui andremo incontro in questa prima metà dell’anno. In questo momento, è cruciale il ruolo delle banche; più di quanto non appaia.

Lo strumento principale con cui l’area dell’euro è stata tenuta insieme, e a parte la Grecia prende a rinsaldarsi, è l’operazione con cui la Banca centrale europea ha rifinanziato le banche per tre anni al tasso dell’1%, nelle cifre da loro desiderate.

Secondo estremisti e populisti di varie tendenze è stato un regalo immeritato a chi aveva già causato gravi danni; secondo i tedeschi più ostili verso l’Europa del Sud, invece, un trucco per aggirare il divieto di finanziare gli Stati.

Nella visione della Bce e della Banca d’Italia si è trattato di una misura necessaria per fronteggiare il cattivo funzionamento dei mercati. Tuttavia sui banchieri ricade una grande responsabilità: usare bene di questo vantaggio nell’interesse di tutti, e non soltanto nel loro. Ignazio Visco li ha difesi dalle accuse più spicce e demagogiche; però non è stato tenero. Quel denaro a buon mercato non dovrà essere usato per nascondere inefficienze, evitare innovazioni utili, foraggiare equilibri di potere superati; tanto meno, per speculare su mercati lontani.

In breve, la prima operazione di rifinanziamento a tre anni è servita in gran parte a fronteggiare la mancanza di liquidità causata dal panico dei mercati a fine 2011. Non è giusto, secondo il governatore, accusare i banchieri di aver occultato quei soldi chissà dove. Però la seconda operazione dello stesso tipo, in programma per la fine del mese, dovrà poter fornire credito al sistema produttivo.

È esagerato affermare, come qualcuno ha fatto, che gli italiani abbiano all’improvviso smesso di risparmiare. Risparmiano meno, ma non c’è stato nessun crollo. Le nostre banche sono state messe in difficoltà dai mercati internazionali, dove non riuscivano più a finanziarsi. Sono venute in evidenza loro debolezze di lunga data: altro che profittare della crisi, hanno guadagnato poco nel 2011, e poco guadagneranno, continuando così, anche quest’anno.
Resta la tentazione di restringere le banche pur di conservare il potere dei vecchi gruppi dirigenti, pur se la scelta del Monte dei Paschi di aprirsi è una novità importante.

L’esperienza della crisi mostra che non è tanto importante crescere di dimensione, quanto oltrepassare le frontiere, per alleggerire il circolo vizioso fra affidabilità di un Paese dell’area euro ed affidabilità delle sue aziende di credito.

In questi giorni i banchieri ribattono di essere prudenti nel concedere prestiti proprio perché c’è la recessione e cresce il rischio di non riavere i soldi indietro. Ignazio Visco li esorta a uno sforzo in più di iniziativa e di intelligenza: andare a cercare le imprese promettenti, capaci di crescere.

Resa inevitabile dalle incapacità dei governi, la scelta di sostenere l’euro attraverso le banche richiede che i banchieri se ne mostrino all’altezza. Altrimenti dovremo concludere che il moral hazard - il rischio di incentivare comportamenti sbagliati - tolto ai politici, è solo spostato altrove.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9789


Titolo: STEFANO LEPRI. Pagare tutti per pagare davvero meno
Inserito da: Admin - Febbraio 21, 2012, 11:39:38 pm
21/2/2012

Pagare tutti per pagare davvero meno

STEFANO LEPRI

Non aspettiamoci di pagare presto meno tasse. Nemmeno Mario Monti può fare i miracoli. Possiamo però aspettarci un fisco più razionale e meno oppressivo. A questo anche servono i tecnici al governo: a disboscare la giungla creata da una politica inefficiente. Sommando favori a questi e a quelli, introducendo scappatoie a favore di interessi protetti, e procedendo per grida demagogiche, si è costruito un sistema contorto.

Un sistema capace di esasperare il contribuente mentre soffoca gli uffici tributari di lavoro in parte inutile. Certo è bene formalizzare la promessa che i ricavi della lotta all’evasione saranno restituiti alla generalità dei contribuenti. Dopo le operazioni del fisco a Cortina, in alcune grandi città e ora a Courmayeur, si tratta di una scelta obbligata, di chiarezza. Tanto più è necessaria a un governo che nell’urgenza è stato costretto a puntare più sulle tasse che, come avrebbe preferito, sui tagli di spesa.

La stessa promessa l’avevamo già ascoltata altre volte. In questo caso, può confortarci un poco l’esperienza recente. A giudicare da alcuni dati, davvero i comportamenti dei contribuenti sono mutati secondo le scelte dei governi, e abbastanza in fretta. Qui l’Italia è un interessante oggetto di studio per esperti anche stranieri. Nell’attuale legislatura il gettito Iva è calato dalla seconda metà del 2008, quando il governo Berlusconi cancellò certe misure stringenti, e si è ripreso dall’autunno 2009 in poi, dopo che Giulio Tremonti trovò opportuno in parte reintrodurle e annunciò un maggior impegno contro l’evasione.

Non è dunque impossibile recuperare. Si tratta di un’azione doppiamente utile. Non sono in conflitto in questo caso i due tradizionali obiettivi dell’equità e dell’efficienza, grande argomento di contrasto fra destra e sinistra. Far pagare le tasse a tutti non è solo giusto, aumenta anche la produttività della nostra economia, come ha ricordato ieri il presidente dell’Istat Enrico Giovannini. La gara tra le imprese è distorta se i profitti vengono più facilmente dall’evasione tributaria invece che da produrre beni e servizi migliori a costi più bassi.

In tante transazioni della vita quotidiana la convenienza a evadere è di entrambe le parti, del ristoratore e del cliente, dell’idraulico e di chi lo chiama a riparare, e così via. Non esistono rimedi miracolosi. Può aiutare che si percepisca mutato l’umore pubblico del Paese; serve a molto che l’amministrazione pubblica si mostri efficace nel colpire. Un problema che va risolto quanto prima - se non altro il governo ne è cosciente - è che la durezza delle sanzioni di Equitalia si deve dirigere contro i bersagli giusti; altrimenti si rischia che un identico malcontento unisca persone perbene ed evasori.

Un sistema fiscale razionale è fatto di un numero minore di imposte, con un minor numero di esenzioni e agevolazioni. Non pochi contribuenti sarebbero disposti anche a pagare di più se perdessero meno tempo nelle pratiche. Cambiare è peraltro rischioso, perché chi beneficia sta zitto, e chi è colpito protesta: prova famosa fu l’Irap, imposta impopolarissima fin dalla sua introduzione benché nella media avesse ridotto il carico fiscale, e non di poco.

I margini sono scarsi. Non dimentichiamo che il grosso degli interventi futuri sul bilancio pubblico dovrà venire da tagli delle spese, nel nostro Paese sempre difficili. Già il governo si assume un rischio rinviando di fatto al 2014, causa recessione, il pareggio di bilancio promesso per il 2013. La misura giusta sta nell’indicare un obiettivo - pagare tutti per pagare meno - senza sollevare aspettative in eccesso.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9797


Titolo: STEFANO LEPRI. Al mercato serve un'intesa modello Imu
Inserito da: Admin - Febbraio 29, 2012, 10:02:31 am
29/2/2012

Al mercato serve un'intesa modello Imu

STEFANO LEPRI

Il primo scopo delle liberalizzazioni è far pagare un po’ meno certi beni e certi servizi. Su gas, benzina, farmaci, prestazioni professionali, servizi bancari ed assicurativi, in teoria potremmo risparmiare qualcosa nei prossimi mesi. In Parlamento, l’assalto delle lobby al decreto «Cresci Italia» ha prodotto danni limitati. Ma di misure di questo tipo è soprattutto importante curare l’attuazione.

Alcune norme avranno bisogno di regolamenti: è bene che la burocrazia non perda tempo. Altre sono affidate alla sorveglianza di organismi di controllo che devono essere messi in condizione di lavorare bene. Il potere degli interessi privilegiati in Italia si estende ben oltre il folclore di certi personaggi che si aggirano nei corridoi di Montecitorio e di Palazzo Madama e degli emendamenti da loro ispirati sottoscritti da certi parlamentari. Sa farsi sentire anche nelle stanze dei ministeri.

Perciò sarebbe opportuno che, nei prossimi mesi, il governo ci informasse regolarmente se sono rispettate le scadenze amministrative; e, più in là, se esistono già risultati misurabili.

Fare le cose a metà può essere dannoso, perché molte misure non producono effetti istantanei. Quanto più vengono deluse le attese di prezzi più bassi, di servizi migliori, di una concorrenza più vitale, tanto più sarà facile agli interessi colpiti tornare alla carica, con la tesi che i benefici promessi non si sono visti.

Durante l’esame parlamentare in alcuni casi gli interessi protetti hanno prevalso. Sui taxi decideranno i sindaci, che dei tassisti hanno una paura matta. Certo non si tratta di una questione cruciale, anche perché il numero di licenze risulta insufficiente solo in alcune delle più grandi città. Era importante il principio, di fronte a certi eccessi di arroganza corporativa soprattutto romani.

Più grave è il passo indietro per i professionisti. La chiusura delle libere professioni raffigura bene la scarsissima mobilità sociale del nostro Paese, dove gli avvocati sono perlopiù figli di avvocati, e così via. Quando ci sembra che i politici formino una «casta», rendiamoci conto che la politica spesso attrae persone ambiziose respinte da altre «caste» ancor meno penetrabili, e capaci di influenzarla.

Già la Banca d’Italia si era lamentata della rinuncia a introdurre per i professionisti l’obbligo di un preventivo scritto, che avrebbe consentito ai clienti di decidere con più consapevolezza; e che, nel caso degli avvocati, avrebbe forse contribuito a ridurre l’eccesso di cause giudiziarie di scarso rilievo. Con un altro emendamento, si è anche circoscritta la possibilità di esercitare le professioni in forma societaria, tenendo in vita gli ultimi residui di una norma odiosa che risale al 1939 e che serviva a escludere gli ebrei.

Ciò nonostante, i passi avanti sono molti. Separare la Snam dall’Eni potrà ridurre il prezzo del gas e anche dare una spinta di dinamismo all’economia. Però il termine ultimo è lontano, oltre la fine della legislatura, e occorrerà evitare una marcia indietro. Qui come altrove, l’azione del governo dovrà essere costante. Forse sarebbe opportuno prevedere già una seconda fase di misure di liberalizzazione, approfittando che deve essere affrontata la spinosa faccenda delle frequenze televisive.

Può far da modello la soluzione trovata all’Imu per gli edifici religiosi. Il governo tecnico è riuscito a chiarire che non si trattava di una battaglia tra laici e cattolici, ma di una misura di equità necessaria a far funzionare bene il mercato: gli alberghi religiosi non devono essere favoriti rispetto agli altri alberghi, le scuole private cattoliche rispetto alle scuole private laiche. Anche in altri casi, occorre che il mercato sia uguale per tutti.

DA - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9828


Titolo: STEFANO LEPRI. Italia fuori pericolo soltanto con la crescita
Inserito da: Admin - Marzo 14, 2012, 07:18:09 pm
14/3/2012

Italia fuori pericolo soltanto con la crescita

STEFANO LEPRI

Angela Merkel e Mario Monti concordano che occorre «più Europa»; e solo una maggiore armonia politica può concederci speranze. L’austerità che ripiomba le nostre economie nella recessione, occorre ripeterlo, è eccessiva proprio a causa delle reciproche diffidenze tra Paesi. Potrà attenuarsi se ci uniamo di più.

Rimane il dubbio che i tempi con cui la cancelliera vuole muoversi in questa direzione siano troppo lenti. Da Berlino vengono per ora parole giuste ma pochi fatti, come nota un grande tedesco, il filosofo Juergen Habermas. Forse per dare una sistemazione duratura alle questioni aperte occorrerà aspettare ancora un anno e mezzo, fino alle elezioni tedesche dell’autunno 2013.

L’intesa mostrata ieri dai due capi di governo ha comunque un suo valore, quando invece nella campagna elettorale francese di Europa si parla pochissimo e anzi Nicolas Sarkozy recupera punti nei sondaggi attaccando certe politiche dell’Unione.

La grande crisi ha mostrato che i poteri pubblici sono indispensabili per correggere l’instabilità dei mercati, per imbrigliare entro regole la loro energia. Ma mostra anche che certi poteri pubblici - gli Stati nazionali dell’area che condivide l’euro - non sono di dimensione sufficiente. A Parigi ancora non sembrano averlo capito né il presidente in carica né colui che potrebbe sconfiggerlo, il socialista François Hollande.

Altri elementi del quadro, per fortuna, stanno cambiando. Il compromesso raggiunto ieri con la Spagna, che le concede un po’ più di respiro nelle misure di riduzione del deficit, rende un po’ meno feroce l’aspetto del futuro « Fiscal compact ». Queste nuove regole disciplinari per i bilanci pubblici, oltretutto, a leggerle bene, nei meandri dei loro tecnicismi sono meno rigide di quanto erano parse all’inizio.

La stessa bizzarra voce di una candidatura di Mario Monti alla presidenza dell’Eurogruppo, oltre a provare la stima di cui gode il nostro presidente del consiglio, è l’effetto collaterale di un gioco di poltrone in corso. Forse le ansie della Bundesbank saranno placate dall’ingresso nell’esecutivo della Banca centrale europea del lussemburghese Yves Mersch (un «falco» alla tedesca) nel posto che fin qui pareva dovesse spettare a uno spagnolo. Se avverrà così, diverrà urgente sostituire alla presidenza dell’Eurogruppo il lussemburghese Jean-Claude Juncker, finora confermato in mancanza di alternative.

Benché le mosse della politica siano tardive e impacciate, a Bruxelles come a Parigi e a Berlino, la fase distensiva in corso sui mercati finanziari agevola diversi sviluppi. Il divario di competitività tra Paesi, che rende difficile tenere insieme l’area euro, potrebbe essere attenuato in Germania non dall’azione del governo, ma da quella dei sindacati, che stanno chiedendo forti aumenti salariali. Se li otterranno, si ridurrà il vantaggio tedesco sugli altri Paesi.

Tuttavia si continua a procedere in modo un po’ confuso, con il rischio di imbattersi in nuovi ostacoli. Le elezioni politiche anticipate in Grecia, se davvero si terranno il mese prossimo, quasi di certo peggioreranno la qualità del governo; e ulteriori misure di austerità sono richieste per il 2013. Probabilmente nel corso dell’estate si dovrà concordare un secondo pacchetto di aiuti per il Portogallo.

L’Italia non sarà fuori pericolo finché il suo sistema produttivo non avrà ripreso a crescere. Non è poco, intanto, aver riconquistato pieni diritti nel definire le scelte dell’Europa. La minaccia dello spread è riuscita a farci prendere decisioni buone per l’economia; speriamo di non doverla paradossalmente rimpiangere di fronte a nuove instabilità della nostra politica.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9882


Titolo: STEFANO LEPRI. Perché torna la febbre da spread
Inserito da: Admin - Aprile 06, 2012, 03:18:57 pm
6/4/2012

Perché torna la febbre da spread

STEFANO LEPRI

Non è colpa dell’Italia questa volta se la crisi dell’euro torna ad aggravarsi.

Per lo più gli analisti di mercato considerano timida la riforma del mercato del lavoro, ma sempre un passo avanti; il documento interno della Commissione europea sui conti pubblici italiani rivelato da questo giornale non muta il quadro delle previsioni.

Avviene invece che l’instabilità della finanza torni ad esercitarsi sui difetti costruttivi dell’unione monetaria. Si prendono a pretesto motivi in parte opposti a quelli della fase precedente, in quella che il capo economista del Fondo monetario, Olivier Blanchard, chiama «la schizofrenia dei mercati». E’ come se un medico, dopo aver prescritto a un paziente di dimagrire in fretta per diminuire il pericolo di infarto, ora gli dicesse che rischia perché si è indebolito.

Sotto tiro è al momento la Spagna. Più del ritardo nella riduzione del deficit, o dei difetti della nuova manovra di austerità (c’è un condono fiscale) i mercati paiono temere le conseguenze della recessione economica indotta dalle misure di austerità precedenti. Eppure, al prezzo di un forte aumento della disoccupazione, un risultato si è raggiunto: gli spagnoli hanno smesso di consumare più di quanto producevano, rimuovendo un importante fattore di squilibrio.

Quale è allora la scelta giusta? Sia rafforzare la stretta ai bilanci, sia allentarla, potrebbero accrescere la sfiducia. Nei suoi primi 100 giorni il centro-destra di Mariano Rajoy ha commesso diversi errori; ma questo non basta a giustificare il repentino cambio di umore dei mercati. Il più esile pretesto torna buono (in Italia dobbiamo stare attentissimi a non offrirne) per fare scommesse al casinò della finanza.

Se si vogliono evitare guai peggiori, alcune cose possono essere fatte. Che oggi nel mirino si trovi la Spagna aiuta a individuarle. Messe in difficoltà da una colossale «bolla» immobiliare, le banche iberiche hanno fatto ricorso massiccio alla liquidità della Bce, e l’hanno massicciamente impiegata (più di quelle italiane) nell’acquistare titoli dello Stato a cui appartengono.

Più che in altri Paesi dell’euro, in Spagna esiste il rischio di un circolo vizioso tra credibilità finanziaria dello Stato e credibilità delle banche. Sarebbe ora di riconoscere che un’unione monetaria si regge se la stabilità bancaria è centralmente governata. Altrimenti un giorno o l’altro i mercati potrebbero convincersi che qualche Stato non ha spalle abbastanza larghe per garantire le banche nazionali.

Su una proposta che abbracci tutta l’Europa a 27 si va a rilento. Il membro tedesco del direttorio Bce, Joerg Asmussen, suggerisce di limitarsi alla sola area euro. Lo scopo è di avere presto un sistema unico in grado di liquidare le banche decotte e garantire la solidità di quelle sane.

In questa chiave sarebbe inoltre opportuno abbandonare ogni pregiudizio nazionale sui gruppi di controllo delle banche. Da un punto di vista italiano, più il sistema sarà transnazionale meno il costo e la disponibilità di credito per le nostre imprese saranno legati allo spread dei titoli di Stato.

Se la Spagna appare fragile, è anche perché gli altri grandi Stati sono di nuovo presi ciascuno dai propri egoismi. Non giova che Nicolas Sarkozy per essere rieletto presidente prometta il pareggio di bilancio solo nel 2016, e che il rivale François Hollande non faccia meglio. Non giova che dalla Germania si continui ad assillare Mario Draghi con ansie di inflazione ingiustificate, per interessi di breve periodo dell’establishment tedesco. Tra due settimane, ai vertici internazionali di Washington, l’Europa rischia di fare di nuovo una brutta figura: tornare a chiedere appoggio dal Fmi senza essersi saputa prima aiutare da sola.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9967


Titolo: STEFANO LEPRI. Il rigore nei conti non guarisce ogni male
Inserito da: Admin - Aprile 18, 2012, 03:57:35 pm
18/4/2012

Il rigore nei conti non guarisce ogni male

STEFANO LEPRI

La dose di austerità è sufficiente; la ricetta per tornare alla crescita va cercata con pazienza e fantasia, ma nessuno l’ha in tasca già pronta. Arrivano al momento giusto, le parole del Fondo monetario, per sprovincializzare il dibattito italiano in vista del Consiglio dei ministri di oggi. Se c’è un allarme, riguarda il rischio di una nuova crisi dell’euro: dovrebbero ascoltarlo soprattutto in Germania.

Non solo in Italia, ma in tutti i Paesi avanzati del mondo, si prospetta una lunga fase di crescita economica lenta, frenata dal fardello dei troppi debiti. Qualche Paese quei debiti li ha contratti nell’euforia finanziaria di prima del 2007, qualcuno durante la crisi per lenirne le conseguenze, qualcuno, come noi, se li trascinava dietro da ancora prima.

Non è facile per nessuno ripagare il debito e nello stesso tempo trovare i soldi per investire sul futuro. In più, l’area dell’euro mostrandosi fragile ora danneggia i Paesi deboli al suo interno, dopo averli aiutati fin troppo negli anni buoni. Sotto la pressione dei mercati, anche l’Italia e la Spagna, accortesi in ritardo dell’urgenza di ridurre il debito, hanno preso misure di austerità tali da riprecipitarle nella recessione.

Di fronte a mercati finanziari pronti ad agitarsi un giorno perché il deficit pubblico è un po’ più alto del previsto, il giorno dopo all’opposto perché il calo del deficit aggrava la recessione, il Fondo monetario dà un messaggio di equilibrio. Ovvero, l’importante non è stringere ancor più la cinghia adesso, è avere progetti seri per ridurre il debito negli anni; e qui l’area dell’euro sta assai meno peggio di Stati Uniti e Giappone.

In questo quadro non implicano un biasimo le previsioni secondo cui l’Italia non raggiungerà il pareggio di bilancio nel 2013; dato che i programmi pluriennali vengono ritenuti credibili. Altro che «pensiero unico»! Qui il Fmi, guardiano della stabilità finanziaria mondiale, dimostra di pensarla in modo assai diverso da chi, alla maniera della Bundesbank e di altri in Germania, vede il rigore di bilancio come la cura di ogni male.

Oltretutto, l’Italia nel 2013 l’attivo di bilancio lo raggiungerebbe «al netto del ciclo» ossia scontando gli effetti della recessione. Sarebbe già raggiunto l’anno prossimo ciò che la modifica alla Costituzione approvata definitivamente dal Senato proprio ieri impone a partire dall’anno successivo, il 2014.

Purtroppo è altrettanto chiaro che nei prossimi mesi continueranno a scomparire posti di lavoro. Il capo economista del Fmi ha avuto ieri il merito di dichiarare con franchezza che il «Santo Graal» delle ricette miracolose per la crescita economica probabilmente non esiste. Dovrebbero prenderne nota tutti coloro, partiti o forze sociali, che si affollano a protestare che «il governo Monti non pensa alla crescita». Occorre sforzarsi senza sosta nella ricerca dei provvedimenti più utili, provando e riprovando, nella coscienza che da Washington a Tokyo a Bruxelles tutti vi sono impegnati.

Prima di tutto occorre evitare una nuova crisi dell’euro. Qui, in compenso, i consigli del Fondo sono chiari e precisi. La Bce deve riprendere i suoi interventi di sostegno, verso i quali si ritengono infondati i timori dei tedeschi. Poi, invece di escogitare rappezzi occorre capire che cosa rende funzionale una unione monetaria tra Paesi. L’obiettivo meno arduo da raggiungere è un sistema bancario più solido e transnazionale. Il Fmi propone di ricapitalizzare le banche con fondi anche europei, di eliminare quelle non salvabili e garantire i depositi con regole uniche in tutta l’area. Da un diverso punto di vista si può aggiungere - servirebbe anche a eliminare le complicità tra politici nazionali e banchieri nazionali.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10008


Titolo: STEFANO LEPRI. Il rigore di bilancio non basta
Inserito da: Admin - Aprile 26, 2012, 06:15:06 pm
26/4/2012

Il rigore di bilancio non basta

STEFANO LEPRI

È una bella novità che sia Mario Draghi a suggerire ai governi un «patto per la crescita». Tuttavia il banchiere centrale dell’euro per crescita non intende ciò che intende la gran parte dei politici quando la invoca. Può darsi che una vittoria di François Hollande serva a rimescolare le carte sul tavolo, come in Italia spera oltre alla sinistra anche una parte della destra; purché si abbandonino le chiacchiere da campagna elettorale.

Vale la pena di guardarsi attorno. Non stiamo vivendo solo una crisi dell’euro. La ricetta britannica, austerità di bilancio fondata su tagli alla spesa e politica monetaria spericolatamente espansiva, appariva più efficace; scopriamo adesso che la recessione nel Regno Unito ha andamento e gravità simili a quelli dell’Italia. Né il successo dei partiti populisti è solo conseguenza dell’austerità per salvare l’euro, dato che investe anche Svezia e Danimarca.

Tutti i Paesi avanzati stentano a crescere, oggi. Tutta l’Europa avanzata patisce i traumi dell’immigrazione massiccia e dell’ascesa industriale dei Paesi emergenti. Rivolto ai politici, Draghi insiste: lo sviluppo non arriva né con i deficit di bilancio né con una politica monetaria ancor più espansiva.

Forse il presidente della Bce aveva in mente proprio la sua Italia. Dal Duemila fino alla crisi si sono sperimentati prima gli sgravi fiscali, poi l’aumento della spesa; mentre i tassi di interesse bassi assicurati dall’euro non imprimevano decisivi impulsi a una economia fiacca.

Facile è replicare a Draghi chiedendogli allora che cosa propone. Nelle posizioni del presidente della Bce c’è un inevitabile equilibrismo, stretto com’è tra le pressioni sull’Europa del Fondo monetario (spalleggiato da Usa e Paesi emergenti) e i no della Germania e della Bundesbank. Manca la risposta a una questione chiave posta dal Fmi: l’austerità di bilancio è davvero necessaria anche nei Paesi con i conti in ordine, come la Germania e l’Olanda?

Però è interessante che sia un banchiere centrale a chiedere ai politici di avere più «visione»: di solito, chi svolge quel ruolo esorta a tenere i piedi per terra. Non servono progetti magniloquenti, che a orecchie tedesche suonerebbero «pagherete voi i debiti degli altri»; occorre però indicare una direzione di movimento, verso una unione più stretta, e una politica più trasparente.

E’ spesso la difesa a oltranza di nuclei di potere politico-economico nazionale a rendere i 17 Stati dell’euro più deboli di fronte ai mercati di quanto i dati economici giustificherebbero. Ad esempio, un intervento di fondi europei a sostegno delle banche spagnole potrebbe risultare molto utile; Madrid non lo chiede forse per proteggere consorterie interne, Berlino lo rifiuta per sfiducia nelle altrui capacità di governo.

Anche Angela Merkel ora afferma che il solo rigore di bilancio non basta. L’Italia non può sottrarvisi. Deve casomai evitare un corto circuito letale: il malcontento contro l’austerità potrebbe essere sfruttato dai centri di potere per non applicare l’austerità a sé stessi. Un esempio lampante è quelli dei debiti delle pubbliche amministrazioni verso i fornitori: le imprese giustamente li vogliono saldati, ma una parte corrisponde a denaro che non si doveva spendere, sorge da una diffusa disobbedienza ai tagli.

Nei primi mesi dell’anno non è calata la spesa pubblica, perché burocrati ed amministratori locali tentano di sfuggire ai vincoli. Nuovi scandali in imprese a controllo statale ripropongono l’opportunità di privatizzazioni. Pulizia della politica e revisione della spesa pubblica (o spending review che dir si voglia) non possono procedere l’una senza l’altra: sono le due facce della riforma strutturale oggi di gran lunga più importante.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10034


Titolo: STEFANO LEPRI. Gli ostacoli sulla strada dei supertecnici
Inserito da: Admin - Maggio 03, 2012, 07:28:23 pm
3/5/2012

Gli ostacoli sulla strada dei supertecnici

STEFANO LEPRI

Se l’unica difficoltà a governare l’Italia stesse nella cattiva qualità della classe politica, la nomina dei tre «supertecnici» non si capirebbe. Invece i compiti precisi affidati a Enrico Bondi e a Francesco Giavazzi rivelano due altri ostacoli ingombranti che il governo di Mario Monti si trova di fronte: la burocrazia e i poteri corporativi.

Per riformare la spesa pubblica occorre aggirare complicità che rafforzano da fuori la cattiva politica. Negli acquisti pubblici di beni, si nascondono guadagni illeciti piccoli e grandi; nei trasferimenti alle imprese, scambi di favori annosi e ben radicati. Più di una volta in passato alcuni politici si erano prefissi obiettivi ambiziosi; poco è seguito.

Da un quarto di secolo è noto l’andamento anomalo del settore di spesa dove dovrà incidere Enrico Bondi. Fu la legge finanziaria del 2000 ad affidare alla Consip il compito di centralizzare e rendere trasparenti gli acquisti delle pubbliche amministrazioni; i burocrati l’hanno ostacolata in tutti i modi, convincendo i Parlamenti a limitarne il raggio.

Dove ha operato, la Consip ha in genere prodotto risparmi. Ma responsabili di ogni livello del settore pubblico sono pronti a negare che spunti prezzi più bassi, oppure la proclamano incapace di fornire i beni della qualità giusta, di capire le esigenze specifiche dei loro uffici, eccetera eccetera. Avvocati illustri patrocinano al Tar i fornitori esclusi, e spesso ottengono di rovesciarne le decisioni.

Di rivedere i trasferimenti alle imprese si proponeva già Guido Carli (al Tesoro fra il 1989 e il 1992) che proprio alla fine del suo mandato chiamò come dirigente al ministero l’allora quarantenne professor Giavazzi. Talvolta, la dimensione della spesa a favore delle imprese private è stata agitata come minaccia per rendere gli industriali privati più docili verso i politici; poco si è ragionato sull’ammontare dei fondi destinati a imprese pubbliche.

Governi di diverso colore avevano promesso di abbassare le aliquote di imposta sulle imprese a fronte di una riduzione di incentivi e sussidi vari; anche quando un presidente della Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo, accettò la sfida, le resistenze delle categorie industriali interessate prevalsero. Ora il governo Monti cita giustamente tra i sussidi più distorsivi quelli all’autotrasporto: nel caso, occorrerà il coraggio di affrontare uno sciopero dei Tir. Reazioni analoghe potrebbero prodursi altrove.

Diversi politici, e anche qualche collega accademico, fanno dell’ironia su Giavazzi alle prese con le difficoltà pratiche di realizzare le idee espresse sul Corriere della sera . Ma magari ne arrivassero altri ancora, di «tecnici dei tecnici». Diciannove anni fa, il governo di Carlo Azeglio Ciampi attirò nei ministeri numerose persone capaci dal settore privato, dalle professioni, dalle università; era il segno di una speranza, dopo Tangentopoli. In un momento di uguale gravità, può il fenomeno ripetersi?

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10057


Titolo: STEFANO LEPRI. La minaccia e i bluff della Grecia
Inserito da: Admin - Maggio 15, 2012, 11:36:22 am
15/5/2012

La minaccia e i bluff della Grecia

STEFANO LEPRI

La cura di sola austerità nell’area euro è sconfitta, ad opera degli elettori di diversi Paesi e regioni. Su come integrarla, si apre ora una stagione di faticosi negoziati, forse di maldestri compromessi.

Ma per la Grecia è urgente essere pronti a tutto. E occorre distinguere le realtà dalle minacce e dai ricatti che si incrociano in queste ore.

Punto primo. La Grecia non è in grado di sopravvivere da sola; non più di quanto potrebbe ad esempio - per avere un’idea delle dimensioni - una Calabria separata dall’Italia.

Senza aiuti dall’Europa e dal Fondo monetario, presto non avrebbe soldi né per pagare gli stipendi degli statali né per comprare all’estero ciò che serve ad andare avanti, tra cui alimenti e petrolio.

Punto secondo. Dopo la ristrutturazione a carico dei privati, oggi circa la metà del debito greco è in mano all’Europa o al Fondo monetario. Quindi se la Grecia non paga, ci vanno di mezzo soprattutto i contribuenti dei Paesi euro, cioè noi tutti (in una stima sommaria, circa un migliaio di euro a testa).

Punto terzo. Il ritorno alla dracma sarebbe vantaggioso solo nella fantasia di economisti poco informati, per lo più americani. Trapela ora che il governo Papandreou aveva commissionato uno studio dal quale risultava che perfino i due settori da cui la Grecia ricava più abbondanti introiti, turismo e marina mercantile, non sarebbero molto avvantaggiati da una moneta svalutata.

Punto quarto. L’incognita vera è quali danni aggiuntivi, oltre al debito non pagato, una eventuale bancarotta della Grecia causerebbe agli altri Paesi dell’area euro (in primo luogo crescerebbero gli spread ). Di certo le conseguenze sarebbero asimmetricamente distribuite: più gravi per i Paesi deboli, in prima fila il Portogallo poi anche Spagna e Italia; meno gravi per la Germania.

Non c’è risposta certa alla domanda presente nelle teste di tutti i ministri dell’Eurogruppo riuniti ieri sera a Bruxelles - se convenga di più sostenere la Grecia o lasciarla andare a fondo. A prima vista, almeno per l’Italia la solidarietà sembra meno costosa del diniego; eppure, guardando nel futuro, una Grecia non risanata diventerebbe una palla al piede.

Fa bene perciò ragionare sulle alternative; e occorre farlo in modo politico, dato che due crisi politiche qui si intrecciano, una dei meccanismi decisionali europei, un’altra dei partiti greci.

Ad Atene, un sistema politico crolla, come nell’Italia di 20 anni fa, ma le scelte minacciano di polarizzarsi in modo più pericoloso. Occorre chiedersi se la sconfitta dei due ex partiti dominanti, Nuova Democrazia e socialisti, sia dovuta ai tempi troppo stretti del risanamento chiesto dall’Europa, o non soprattutto al modo iniquo e inefficiente con cui i sacrifici sono stati distribuiti tra i cittadini, proteggendo clientele e centri di potere.

L’Europa aveva preteso tempi più stretti di quelli ritenuti opportuni dal Fmi proprio perché non si fidava dei politici greci in carica. Ora non se ne fidano più nemmeno gli elettori. I loro voti si sono spostati verso politici emergenti i quali però raccontano una bugia: che la Grecia può ricattare gli altri Paesi in modo più efficace, minacciando di trascinarli nel baratro se non apriranno di nuovo il portafoglio.

Dal lato opposto, sta alla Germania e agli altri Paesi rigoristi dimostrare che il ricatto è vano perché nel baratro non ci cadremo. Ovvero, occorre che mettano le carte in tavola, specificando quali gesti di solidarietà compirebbero verso gli altri Paesi deboli nel caso ad Atene si formasse un governo deciso al braccio di ferro. Altrimenti dire ai greci «o mangiate questa minestra, o saltate dalla finestra» si rivelerebbe un bluff , come già tendono a ritenere i mercati.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10105


Titolo: STEFANO LEPRI. Le scelte non più rimandabili
Inserito da: Admin - Maggio 19, 2012, 10:31:55 am
18/5/2012

Le scelte non più rimandabili

STEFANO LEPRI

Ormai ce lo sanno dire tutti. Tutto il mondo sa che cosa l’area euro dovrebbe fare per uscire da questa nuova stretta. Consigli analoghi vengono dal Presidente degli Stati Uniti, dal Primo ministro britannico, dal Fmi; manca solo che ci si metta anche la Cina. Nelle ultime ore qualcosa sembra muoversi, in Germania. Ma non c’è più tempo per caute correzioni di rotta. Il momento per decidere è ora.

Non è un tracollo dell’euro quello che rischiamo, questo no. L’unione monetaria sopravvivrà; ma dalle scelte che si faranno nei prossimi giorni dipende se al risultato ci arriveremo con affanno e a costi elevati, spinti dall’urgenza di elevare barriere contro un crack della Grecia, o se lo otterremo prima, senza passare per questo trauma, evitando la scia di risentimenti che ci imprimerebbe nella memoria. Speriamo che non sia già troppo tardi per arrestare la frana. Forse è esagerato il timore che ad affossare la Grecia siano già prima delle nuove elezioni i greci stessi.

Greci che hanno svuotato le loro banche, inzeppando i materassi di banconote in euro destinate a restare valide fuori dei loro confini in un domani di ritorno alla dracma.

È paradossale che proprio l’euroscettico David Cameron, conservatore inglese a cui l’euro non è mai piaciuto, ci fornisca una agenda precisa. Ce l’aveva già detto nelle settimane scorse, ma mai con tanta incisività come ieri: un efficace fondo di salvataggio, banche ben capitalizzate e regolate da un’unica autorità di vigilanza, una politica di bilancio comune, una banca centrale pronta a intervenire.

Dove sono gli ostacoli? Ovunque. Si può capire che un Paese rilutti a cedere sovranità nazionale; assai meno che i suoi politici non vogliano rinunciare a un rapporto di complicità con i banchieri insediati entro i propri confini. Lo abbiamo visto e lo continuiamo a vedere nel modo reticente e maldestro in cui a Madrid prima il governo socialista, e ora quello popolare, hanno gestito la crisi delle banche locali spagnole.

A ridurci a questo punto è stata la reciproca sfiducia tra le classi politiche dei 17 Paesi membri. Nel suo insieme l’area euro è in equilibrio nei conti con l’estero, non avrebbe avuto bisogno del risanamento tanto accelerato che l’ha risospinta di nuovo nella recessione. A Berlino lo stanno cominciando a capire solo ora, perché l’umore della stessa Germania sta cambiando, tra agitazioni sindacali e voti in alcune regioni.

Un passo in avanti politico è ora indispensabile, come fa bene a ripetere il nostro Presidente della Repubblica. Lo è perché la sovranità non è più dove le classi politiche nazionali insistono a ripetere che si trova ed è da loro difesa e salvaguardata. Gli squilibri economici la hanno già trasferita. La Grecia è ridotta in condizioni di dipendenza tali che i suoi elettori ignorano di non poter scegliere liberamente; mentre i cittadini dei Paesi forti fanno per ragioni interne scelte di cui non sanno le ripercussioni sui Paesi vicini.

La distorsione della democrazia è maggiore proprio nel Paese più forte e in quello più debole. In Germania, il successo economico cela che sarebbero possibili soluzioni più vantaggiose anche per la gran massa dei tedeschi stessi; rende sordi ai consigli di Washington e di Londra. In Grecia, a una classe politica corrotta rischia di sostituirsene un’altra che sfrutta la disperazione della gente per addossare al resto d’Europa, o a un complotto neoliberista mondiale, la colpa di sacrifici che il Paese dovrebbe fare comunque per sopravvivere. Esiste una politica europea capace di far intendere agli uni le ragioni degli altri?

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10119


Titolo: STEFANO LEPRI. Più poveri di 20 anni fa
Inserito da: Admin - Maggio 24, 2012, 11:43:15 am
23/5/2012

Più poveri di 20 anni fa

STEFANO LEPRI

Siamo più poveri di vent’anni fa: in media, il 4% di potere d’acquisto in meno per persona. I dati dell’Istat ieri non ci dicono soltanto che la grande crisi in corso dal 2007 ha colpito duramente l’Italia. Già da prima la crescita economica si era quasi arrestata. Per la prima volta dalla fine della II guerra mondiale, un grande Paese avanzato non avanza più. Possiamo già chiamarlo declino?

Inutile prendersela con l’instabilità finanziaria, e tanto meno con l’euro. L’analisi dell’Istituto di statistica, in diversi punti vicina a quella della Banca d’Italia, fa risalire a ben prima i nostri mali. In sintesi, si sono combinati tra loro diversi errori della nostra classe dirigente: non solo i politici, anche gli imprenditori, anche i burocrati, anche altri poteri costituiti.

Non c’è da stupirsi se in diverse occasioni, nelle urne e nelle piazze, emerge una complessiva insofferenza verso «quelli in alto». In situazioni del genere si fanno strada i demagoghi, con i quali si cade dalla padella nella brace. E’ stata peraltro tutta la collettività a rendersi conto tardi della gravità della crisi: la percezione dei dati economici - anche questo mostra l’Istat - è stata fino all’estate 2011 fortemente influenzata dai mass media, specie dalla Tv.

Nello stesso giorno in cui le statistiche nazionali ci informano che le retribuzioni sono pressoché allo stesso livello di vent’anni fa, da Parigi l’Ocse suggerisce una riduzione dei salari reali per accrescere la competitività e ridurre la disoccupazione. Sono, purtroppo, due facce della stessa medaglia. La produttività in Italia è rimasta ferma mentre altrove aumentava; gli altri con la stessa quantità di lavoro realizzano più beni, noi no.

Non siamo stati colpiti da una misteriosa pigrizia. Secondo l’Istat, scelte sbagliate delle aziende e dello Stato si sono rafforzate a vicenda. Un gran numero di imprese non è bravo nell’utilizzare appieno le nuove tecnologie, non sa crescere di dimensione od organizzarsi meglio; fuori gli fanno da freno le inefficienze pubbliche, trasporti faticosi, cattiva formazione scolastica, giustizia civile lenta, mentre l’evasione fiscale favorisce le più inefficienti attività dell’economia sommersa.

Una stagione di profitti industriali assai alti, dal 1993 durata circa un decennio, non ha accresciuto né diversificato gli investimenti nelle strutture produttive: fabbrichiamo più o meno le stesse merci. Dal 2000 al 2005, i governanti hanno scialacquato i benefici dell’euro: il minor peso degli interessi sul debito pubblico è stato utilizzato per accrescere le spese. Ora i nodi arrivano al pettine tutti insieme.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10137


Titolo: STEFANO LEPRI. Ue, se vincono gli egoismi nazionali
Inserito da: Admin - Maggio 27, 2012, 09:50:16 am
25/5/2012

Ue, se vincono gli egoismi nazionali

STEFANO LEPRI

Il guaio degli eurobond è che uno degli ostacoli principali lo pone proprio chi li ha chiesti con maggior forza al vertice europeo, ossia la Francia. Senza un rafforzamento delle strutture politiche comuni dell’area euro, senza cessioni di sovranità da parte degli Stati, questi titoli di debito comuni non sarebbero credibili.

Pagherebbero interessi alti, con un forte onere per la Germania e poco sollievo per Spagna o Italia.

Mario Monti si dice ottimista. Certo, una maggioranza di governi dei Paesi euro è favorevole; e tutto il mondo ce li consiglia. Ma l’ostilità di tedeschi, olandesi, finlandesi, non è solo egoistica, ha buone ragioni. Può cadere solo se tutti saranno disponibili a procedere verso l’unione politica. Qui è Parigi a dover dare il via. Ed è improbabile che il neo-presidente François Hollande possa esprimersi - in un Paese così attaccato alla propria sovranità nazionale - prima di sapere se otterrà una maggioranza in Parlamento alle elezioni dei 10 e 17 giugno.

Per poter emettere eurobond che i mercati accettino a tassi di interesse moderati, occorre dunque quel «coraggioso salto di immaginazione politica» che Mario Draghi sollecita. E’ solo in apparenza strano che un banchiere centrale, addetto a governare la moneta, lanci un appello europeista tale da commuovere gli autori del Manifesto di Ventotene, se fossero ancora vivi. Lo fa per evitare che, in caso di eventi traumatici, tutte le responsabilità di evitare il peggio si concentrino sulle sue spalle.

Saranno terribili le settimane che ci separano dal doppio voto francese e dal nuovo voto greco, sempre il 17 giugno. Dopo il fallimento dei vertice dei governi, la Banca centrale europea è restata sola. Nulla oltre a suoi interventi di emergenza potrebbe evitare un disastro, qualora i pericoli si aggravassero; e su di essi il rischio di spaccature interne sarebbe altissimo. Ieri Draghi ha rivendicato la propria ortodossia monetaria nello stesso tempo distanziandosi dal dogmatismo della Bundesbank; in una stretta drammatica, questo potrebbe divenire impossibile.

La strada verso l’unione politica, se la si trova, può solo essere molto lunga; al massimo si può fissarne le tappe in anticipo, su un arco di anni. C’erano invece cose che il vertice europeo poteva fare subito, e non ha fatto, come ipnotizzato dalla possibilità che la Grecia oltrepassi il punto di non ritorno. Si può capire che si esiti a intaccare la sovranità nazionale, frutto di secoli di storia, giustamente cara ai cittadini. Difficile perdonare, invece, l’attaccamento di ciascuno Stato ai propri poteri sulle banche.

Si tratta qui di misure che ai cittadini non farebbero alcun danno, anzi porterebbero vantaggi. E’ una ottima idea quella suggerita dal governo italiano, di una garanzia comune sui depositi bancari dell’area euro: renderebbe tutti noi più sicuri sulla sorte dei nostri risparmi, invece di farci desiderare, come nei momenti di ansia accade, di spostarli in Germania. Ancor più, si potrebbero usare fondi europei per consolidare le banche deboli, a cominciare da quelle spagnole; e tanto di guadagnato se sfuggono all’influenza dei politici locali.

Una normativa bancaria unificata, con poteri centrali di regolazione e di intervento, è indispensabile quando si condivide una moneta. Gli americani ce lo avevano spiegato dall’inizio («ve ne accorgerete a vostre spese alla prima crisi» fu detto a chi scrive da una funzionaria della Federal Reserve nel 1998) ma gli interessi dei ceti dirigenti nazionali continuano a prevalere. Anche per questo ora si oscilla tra fare ai greci la faccia feroce, in modo che non votino per i partiti estremisti, e rassicurarli, nel timore che portino i soldi all’estero, rendendo così inevitabile il crack.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10145


Titolo: STEFANO LEPRI. Le manovre di chi specula in malafede
Inserito da: Admin - Giugno 12, 2012, 04:42:31 pm
12/6/2012

Le manovre di chi specula in malafede

STEFANO LEPRI

È davvero assurda l’idea che se le banche spagnole hanno avuto bisogno di soccorso, qualcosa debba accadere anche alle banche italiane.
In Spagna pesano i resti di un mostruoso boom immobiliare, almeno 700.000 appartamenti invenduti; nulla di simile c’è in Italia.
Tanto i problemi sono stati lasciati degenerare, nell’area euro, che riesce troppo bene alla malafede degli speculatori al ribasso confondersi con i timori di tutti.

Era una buona notizia, quella dell’intervento a favore della Spagna. L’irrazionalità dei mercati sembra essere riuscita, nel seguito della giornata, a trasformarla in cattiva. E questo accade proprio in una fase in cui il governo Monti pare perdere la spinta.
Dopo averlo esaltato fin troppo all’inizio, ora i mass media internazionali si disamorano di lui.

Nulla nei dati giustifica preoccupazioni aggravate verso il nostro Paese, se non l’accresciuta confusione nella sua politica. La recessione italiana dipende innanzitutto da una manovra di bilancio obbligatoriamente brusca perché attuata troppo tardi. Ad ostacolare le misure di riforma strutturale e di rilancio sono problemi pratici di decidere, e di attuare ciò che si decide, che qualsiasi maggioranza incontrerebbe, nel triangolo oscuro tra alta burocrazia, poteri lobbistici, classe politica.

Scrive il New York Times che il governo Monti è ostacolato dall’eredità di decenni di riluttanza politica verso cambiamenti dolorosi.
Chi si prepara alle prossime elezioni, invece di mischiare parole d’ordine altisonanti e contentini per tutti, farebbe bene a mettere nei programmi come si fa a risolvere questioni terra terra, tipo far pagare le tasse senza che i funzionari di Equitalia debbano aver paura quando camminano per strada.

Un’altra causa della nostra recessione sta nel credito scarso e caro che arriva alle imprese. In questo senso esiste un problema delle nostre banche: solo l’85% dei finanziamenti è coperto dalla raccolta tra i risparmiatori italiani, occorre finanziarsi fuori dai confini, cosa ardua e costosa con lo spread alto, che il caos della politica fa risalire. Anche a noi gioveranno rapide e più ampie decisioni collettive che sottraggano le banche all’abbraccio letale con il debito pubblico del proprio Paese.

L’Europa pare finalmente risolversi ad alcuni passi in avanti politici e istituzionali, nel vertice di fine giugno. Dato che non è bastato aiutare la Spagna, servono mosse straordinarie per consolidare e insieme vigilare con più severe regole comuni tutte le aziende di credito. Recalcitrano soprattutto le banche tedesche, ingrassate in questo periodo di tensioni. Furono gli affari spericolati di alcune di loro, ha detto il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, a portarci il contagio della finanza Usa; ora guadagnano sulle paure che spingono i capitali a cercare rifugio in Germania.

Occorre essere chiarissimi nello spiegare ai cittadini che cosa si fa, o gli equivoci si moltiplicheranno. In ogni Paese circola sfiducia verso gli altri e in tutti ha una cattiva immagine la finanza. Se oggi sul salvataggio delle banche spagnole si chiede un commento ai passanti in Germania, si ascolterà protestare perché il denaro tedesco viene usato per aiutare le banche di un altro Paese. Se si fa la stessa domanda nelle strade di Madrid o di Siviglia, qualcuno obietterà che sarebbe meglio darli ai cittadini, quei soldi.

Invece la Spagna riceverà prestiti al 3-4% di interesse con capitali che la Germania può procurarsi sul mercato al 2%. E le famiglie spagnole sono già indebitate troppo.

Ma lo si spieghi, lo si dimostri, che non stiamo salvando i banchieri.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10219


Titolo: STEFANO LEPRI. Atene, si è evitata la catastrofe
Inserito da: Admin - Giugno 18, 2012, 05:02:04 pm
18/6/2012

Atene, si è evitata la catastrofe

STEFANO LEPRI

Evitata una catastrofe, si apre una fase di trattative serrate, che richiederanno fantasia da parte di tutti in Europa. Ancora nelle ore in cui l’esito del voto greco restava sul filo, dalla Germania si alzavano voci secondo cui non c’era grande differenza tra i rivali.

Se avesse vinto l’estrema sinistra il suo ricatto massimalista si sarebbe ammorbidito a contatto con la realtà di uno Stato a corto di fondi; nel caso opposto, sempre di greci si tratta, per farla breve.

Il governo di Berlino ha deciso ieri sera di non avvalorare questo pessimismo strumentale, e ha salutato la vittoria dei partiti pro euro.
Ma proprio alla luce della storia tedesca di ottant’anni fa sarà bene che si rifletta a fondo sull’esito delle seconde elezioni anticipate della Grecia, compreso il successo tra i giovani di un partito neonazista che non nasconde di essere tale. E non è sufficiente dire che la Germania di Weimar era oberata dal peso di esose riparazioni di guerra, mentre i greci nei guai ci si sono cacciati da soli.

Guardiamo ai dati di fatto. La Grecia è come un parente rovinato da affari sbagliati che non possiamo fare a meno di aiutare, benché stia continuando a perdere denaro ogni mese che passa. Con i patti fin qui concordati, doveva azzerare le perdite entro l’anno prossimo; ma è possibile che senza dargli un po’ più di respiro i suoi affari non si raddrizzino mai, e in più potrebbe dargli di volta il cervello.

Come ci si può comportare, fuori di metafora, con un Paese che finora non è mai riuscito a mantenere le proprie promesse, carente di senso civico assai più del nostro che già ne ha poco? Condizioni finanziarie meno gravose per il programma di aiuti - che già anche a Berlino si ipotizzano possono essere concesse solo in cambio di controlli più severi su ciò che ad Atene in concreto si fa. Il caso greco pone con drammatica immediatezza quel problema di mettere poteri in comune che tutta l’area euro deve affrontare per salvarsi.

D’altra parte, di fronte a mercati finanziari enormi e percorsi dal panico, la sovranità nazionale è una fortezza già mezza vuota. Il leader dell’estrema sinistra Alexis Tsipras prometteva, in caso di vittoria, di cancellare le esenzioni fiscali agli armatori, la più potente lobby greca; gli armatori avevano risposto strafottenti che sarebbero fuggiti dal Pireo verso porti più ospitali. Nel frattempo centinaia di migliaia di piccoli evasori si dicono che se i ricchi armatori non pagano tasse, è giustificato non pagarle neppure loro.

Già in tempi normali i Paesi dell’area euro sono troppo interdipendenti tra loro per non aver bisogno di politiche economiche comuni, capaci di misurarsi con forze multinazionali che attraversano l’economia produttiva. Per giunta, le oscillazioni irrazionali dei mercati finanziari causano repentini trasferimenti di ricchezza da un Paese all’altro: l’euforia pre-2007, pareggiando i tassi di interesse, arricchiva i Paesi deboli drenando risorse dai forti, mentre gli spread esagerati dalla crisi svenano i deboli ingrassando la Germania.

La Grecia dovrà impegnarsi a riedificare il suo Stato, a vendere parti del suo patrimonio, e a molto altro. Prestarle denaro sta già costando parecchio all’Italia e alla Spagna, nulla alla Germania, a causa dei differenti tassi di interesse; dilazioni e sconti saranno più onerosi dunque per noi, e abbiamo forse ancor più diritto di vedere presto risultati.

Anche un nuovo patto con Atene non guarirà l’euro, perché ormai il contagio della malattia è troppo avanzato. Diversi progetti validi vengono studiati in vista del vertice di fine mese; non si andrà lontano però se la Francia si accontenterà di un «pacchetto crescita» e la Germania si intestardirà a voler sottrarre le proprie banche a un organo di controllo sovrannazionale.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10238


Titolo: STEFANO LEPRI. Finanza e democrazia
Inserito da: Admin - Giugno 21, 2012, 06:41:16 pm
21/6/2012

Finanza e democrazia

STEFANO LEPRI

Non c’è solo da salvare l’euro. Se fosse solo per la moneta unica, oltre certi limiti sarebbe legittimo domandarsi se ne vale ancora la pena. No, c’è un problema di rapporto tra finanza e democrazia che tocca all’Europa risolvere per il mondo, prima che la gente esasperata si rivolga a chi democratico non è.

Qualcosa ha cominciato a muoversi nella riunione del G-20 in Messico, come i mercati hanno notato ieri.

Verificheremo se sarà abbastanza al vertice tra i quattro maggiori Paesi dell’euro domani. Dato che nel mirino sono ora Madrid e Roma, non basteranno mediazioni a basso livello.

Per i tre Paesi deboli già soccorsi, Grecia, Irlanda e Portogallo, era ragionevole dubitare che potessero farcela da soli a sostenere i loro debiti. Il caso di Spagna e Italia è differente: avranno difficoltà a pagare solo se i mercati si convinceranno che hanno difficoltà a pagare. O meglio, se gli operatori finanziari si convinceranno che una parte sufficiente della loro categoria fa pronostici negativi sui due Paesi.

Così operano i mercati finanziari mondiali in una fase di instabilità. I due Paesi hanno difficoltà vere - in Spagna postumi della bolla immobiliare e reticenza dei successivi governi sullo stato delle banche, in Italia enorme debito pregresso e scarsa competitività - non sufficienti però a produrre un crac se i tassi di interesse non superano certi limiti.

Da questi dati di fatto si sviluppa sui mercati un processo che si autoalimenta. Che i tassi oggi richiesti sui titoli spagnoli e italiani siano assurdamente alti lo prova che sono vicini allo zero i tassi dei Paesi sentiti come rifugio, non solo la Germania ma anche Danimarca e Svizzera. Dopodiché, se il costo degli spread troppo alti affossa le economie, nel gioco delle scommesse possono anche entrare le conseguenze politiche, come una possibile ingovernabilità dell’Italia dopo le elezioni.

Alla speculazione finanziaria si intreccia nel mondo di oggi anche una speculazione intellettuale, che per giustificare a ritroso la propensione della finanza a creare disastri ingigantisce la dimensione delle difficoltà reali; le percezioni di tutti si distorcono. A questo punto ricordare che nei codici penali esiste un reato chiamato aggiotaggio fa venire in mente Don Chisciotte, oppure il limite di velocità a 80 km/h per i Tir in autostrada.

Se fenomeni di questo tipo possono far cadere gli Stati, nasce un problema di democrazia. Da secoli è noto che diffondendo il panico con voci o speculazioni si può abbattere anche una banca che ha impiegato i soldi in modo prudente. Centocinquant’anni fa in Inghilterra, per opera del commentatore economico Walter Bagehot, si diffuse l’idea che proprio nell’interesse di una sana economia di mercato un intervento pubblico (della banca centrale) doveva impedire esiti di questo genere.

Oggi occorre trovare strumenti innovativi perché la finanza non possa abbattere gli Stati. A questo mira la proposta italiana di cui ora in Europa si discute - impegno ad acquisti illimitati se i tassi superano una certa soglia - nata nella Banca d’Italia (Ignazio Visco vi aveva alluso il 31 maggio). Richiederà garanzie severe che giustifichino la fiducia reciproca degli Stati. Non deve accadere come nell’agosto 2011, quando i primi acquisti di titoli italiani da parte della Bce rilassarono l’impegno del precedente governo.

L’operazione costerà poco, anzi potrebbe perfino risultare in guadagno, se si riuscirà a convincere i mercati di essere pronti a spendere molto. E avrà senso solo se l’area euro intraprenderà nel contempo il doppio processo che ormai è impossibile rinviare, a breve termine per unificare i sistemi bancari, in tempi più lunghi per l’unione politica.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10250


Titolo: STEFANO LEPRI. Serve una prova di coraggio
Inserito da: Admin - Giugno 25, 2012, 10:29:23 am
25/6/2012

Serve una prova di coraggio

STEFANO LEPRI

Il guaio è che se gli altri non riusciranno a prendere decisioni efficaci, i cocci li dovrà rimettere insieme lui, subito dopo. Sulle spalle di Mario Draghi si ammassano compiti sempre più pesanti, il rischio di scontare anche gli errori altrui si fa forte.

Oggi, in un ruolo insolito per un tecnico come lui, spiegherà al presidente francese François Hollande che per risanare l’euro occorre compiere importanti passi avanti verso l’unità politica.

Quali siano le strettoie tra cui si muove il presidente della Bce lo ha fatto capire ieri Jaime Caruana, suo amico da quando negli Anni 90 erano entrambi direttori generali del Tesoro, l’uno in Italia, l’altro in Spagna. Caruana, ora alla guida della Bri di Basilea, ha notato che in tutto il mondo, ma nell’area euro molto più che altrove, sempre di più si chiede alle banche centrali di rimediare a quanto i governi non riescono a fare.

Nell’immediato, se i risultati del vertice europeo di fine settimana risultassero deludenti, ricadrebbe tutta sulla Banca centrale europea la responsabilità di evitare che la crisi dell’area euro torni ad aggravarsi. I mercati finanziari lo attendono; così si spiega che nei giorni scorsi gli spread italiano e spagnolo siano calati. Hanno fiducia che Draghi riuscirà a inventarsi qualcosa.

Ma dentro la Bce diventa sempre più difficile compiere nuove mosse senza che i tedeschi della Bundesbank - ripetutamente rimasti in minoranza negli ultimi mesi - facciano conoscere all’esterno il proprio dissenso, con perdita di prestigiopertutti.Cosìèaccadutoanchevenerdì, dopo una decisione tecnica che mirava a dare più respiro soprattutto alle banche spagnole.

I margini che Draghi ha, divengono sempre più limitati. Può darsi che la Bce giovedì 5 luglio riducailsuotassoguidasottol’attuale1%,giàun minimo storico. Non basterà, perché all’interno dell’area euro il denaro una volta intermediato dal sistema bancario costa già troppo poco nei Paesi forti, troppo in quelli deboli; ovvero, le banche tedesche con le casse piene sono di nuovo soggette a brutte tentazioni speculative, le banche italiane penalizzano le imprese con credito scarso e caro.

La soluzione può essere solo una unione bancaria: «Ogni banca che opera nell’area euro deve divenire una banca europea» come suggerisce la Bri. Regole, vigilanza, strumenti di intervento e di garanzia comuni dovrebbero ridurre gli squilibri nel credito tra Paesi che tanto danneggiano economie come la nostra. Sta a Draghi qui contribuire al progetto comune da presentare al vertice dei governi il prossimo fine settimana. Nel quartetto di cui fa parte, insieme con Herman van Rompuy, José Barroso e il presidente dell’Eurogruppo Jean-Claude Juncker, è però essenziale stabilire come i vari pezzi unione bancaria, unificazione delle politiche di bilancio, unione politica - possono incastrarsi tra di loro.

Tutto sta nella «sequenza» (come lo stesso Draghi ha detto in un’altra occasione). In breve, Hollande vorrebbe dare priorità all’unione bancaria perché rilutta all’unione politica, Angela Merkel teme che l’unione bancaria senza unione politica accolli troppi oneri alla Germania. Sulla carta, il discorso tedesco fila: perché aiutare le banche spagnole con soldi dei nostri contribuenti se non sappiamo che ne fanno?

La risposta può essere solo nel costruire meccanismi trasparenti per condividere le responsabilità. A rafforzare in futuro i fondi di sostegno alle banche potrebbe essere quella tassa sulletransazionifinanziariedicuidatempoigoverni discutono; l’uso del denaro dei contribuenti dovrebbe tradursi in un reale potere delle istituzioni europee all’interno delle banche salvate, una sorta di nazionalizzazione-europeizzazione temporanea, proprio per sottrarle alle cricche di potere nazionale. Se ne troverà il coraggio?

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10263


Titolo: STEFANO LEPRI. La fiducia torna solo con le regole
Inserito da: Admin - Luglio 07, 2012, 11:14:12 am
7/7/2012

La fiducia torna solo con le regole

STEFANO LEPRI

E’ ancora meno facile prendere di petto difetti annosi e intricati dell’Italia, come quelli che gonfiano e rendono inefficiente la spesa pubblica, quando in tutto il mondo le condizioni dell’economia tornano a peggiorare. La crisi globale che tra un mese compirà cinque anni e non è mai finita pone ora problemi nuovi, che sono politici nel senso più profondo del termine, e vanno riconosciuti come tali.

Il cieco instabile potere della finanza rende oggi arduo sanare quegli squilibri enormi della globalizzazione (Paesi avanzati che vivono al di sopra dei propri mezzi, in debito verso i Paesi emergenti) che lo hanno fatto crescere a dimensioni spropositate. Le ricette di politica economica applicate finora - tutte, non solo quella neoliberista che ha condotto alla crisi - diventano o inefficaci o dannose.

L’area euro fatica a risolvere i suoi problemi perché non riescono ad essere solidali tra loro le nazioni che la compongono. Negli Stati Uniti la ripresa stenta a causa della paralisi del governo, dovuta a contrasti politici mai così aspri, insomma a un calo della solidarietà tra i cittadini. Le banche continuano a funzionare male perché la sregolatezza passata fa sì che ognuna non si fidi delle altre.

Nello stesso tempo, arrivano al pettine i nodi in parecchi Paesi emergenti. Il lungo boom della Cina si infiacchisce: un regime autoritario che da anni chiede di faticare oggi in nome di un migliore domani, non sa dire ai suoi cittadini che il domani è arrivato, perché non ha fiducia in loro.

L’Italia, inoltre, soffre di una comprensibile sfiducia nella propria classe dirigente. La nostra economia aveva cominciato a perder colpi già prima della grande crisi; la crescita del tenore di vita si era arrestata, e non per colpa dell’euro. Anzi, il vantaggio dei primi anni dell’euro, ossia i bassi tassi di interesse, era stato usato per nascondere i guai.

Se non vuole restare schiacciato dal debito, il nostro Paese deve ritornare più efficiente. O ci riesce rivedendo a fondo la spesa pubblica, e rinnovando lo Stato, o sarà costretto ad abbassare ancora il proprio tenore di vita, a cominciare dai salari (come ci consigliano i tedeschi, scettici sulle nostre capacità di autoriforma). E sì, purtroppo, in una prima fase anche i tagli aggravano la recessione, al contrario di quanto predicavano alcuni economisti in voga.

Non è facile intervenire nel modo giusto sulla spesa. Attorno agli sprechi peggiori si annidano i gruppi di potere più tenaci; e può accadere che si finisca a tagliare prestazioni sanitarie agli anziani nell’incapacità di eliminare le mazzette sulle forniture agli ospedali; che riducendo i fondi un po’ per tutti si puniscano le Regioni meglio governate. Però protestare a priori contro ogni intervento sulla spesa è proprio ciò che aiuta di più i corrotti e gli scialacquatori.
In Italia come altrove, la fiducia può ritornare solo con regole chiare, spiegando bene che cosa si fa e perché. Gli ostacoli all’efficienza non vengono solo dalla classe politica.

Burocrazia, lobbies, forze sociali, pezzi anche ampi di società, profittano dello stato presente delle cose. E quanti di noi si aggrappano a piccoli privilegi perché disperano in ogni possibile soluzione di più ampio respiro?

Un progetto tecnico calato dall’alto fallisce perché la gente non ne comprende la necessità. Eppure, far piazza pulita a colpi di demagogia non risolve nulla, perché unirsi in nome del «non ne posso più» dura poco e distrugge le scarse solidarietà che restano. Occorre spiegare con pazienza, confrontarsi sui dettagli: mostrare che esiste un progetto, che nuove regole varranno per tutti. Altrimenti, perché gli altri Paesi dell’euro dovrebbero avere fiducia in noi?

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10306


Titolo: STEFANO LEPRI. Garantire subito la stabilità
Inserito da: Admin - Luglio 14, 2012, 03:52:55 pm
14/7/2012

Garantire subito la stabilità

STEFANO LEPRI

Senza inseguire fantasie di complotti, senza ascoltare gli arzigogoli dei nostri politici, la nuova valutazione di Moody’s sull’Italia è utile per riflettere meglio su come funziona la finanza globale. I mercati veri ne hanno tenuto scarso conto, in breve riportando i tassi dei titoli italiani dove stavano prima; l’importanza delle tre discusse agenzie di rating è oltretutto in calo, per recenti scelte delle istituzioni ufficiali.

Tuttavia i mercati finanziari sono un luogo dove si gioca d’azzardo. Ha poco senso domandarsi se Moody’s sia in malafede o no: nei casinò c’è chi fa delle scommesse, c’è chi ne fa delle altre. Alla base delle scommesse sono andamenti economici reali, ma il processo per cui una scommessa finanziaria si vince o si perde ha alla fine un rapporto assai mediato e contorto con gli eventi concreti del lavoro e del risparmio. Sopravvivere alla continua instabilità comporta: primo, che l’Europa non può più resistere così come è strutturata adesso; secondo, che la politica italiana non si può continuare a fare come la si è fatta fino adesso. Questo perché la possibile rottura dell’euro è diventata il gioco più attraente nel casinò mondiale, specie per molti giocatori che di recente hanno guadagnato molto meno di quanto desideravano.

La sorte dell’euro dipende parecchio da quanto accade in Italia. Inutile ormai interrogarsi su che cosa si sbagliò nel costruire l’euro così com’è. Nessuno tra chi criticava l’unione monetaria al suo inizio aveva previsto che la finanza globale l’avrebbe ingannevolmente favorita nella fase dell’euforia, e invece sospinta verso il tracollo nella fase della crisi. Tra i 17 Paesi l’Italia ha una speciale responsabilità, perché è un Paese grande con una politica fragile. Può anche esser vero, come afferma uno studio della Bank of America, che in caso di rottura dell’euro ce la caveremmo con meno danni della Germania, ma è come dire che conviene buttarsi in gruppo da un precipizio se possiamo sperare di romperci soltanto le gambe mentre ad altri capiterà di peggio.

Un circolo vizioso è possibile: la recessione rende gli italiani sempre più scontenti, i politici (sia vecchi sia nuovi) cercano di compiacerli con promesse assurde, gli altri Paesi si irrigidiscono, i mercati speculando ancor più sulla rottura dell’euro mandano alle stelle i tassi, la recessione si aggrava, si affermano scelte estreme. La novità è che la finanza accorcia enormemente i tempi: basta il timore che l’Italia diventi ingovernabile perché l’ascesa dello spread la renda già tale.

Ogni mossa spregiudicata, non cooperativa, da parte delle nostre forze politiche e sociali (non solo i partiti, i sindacati, la Confindustria, altri) alimenta gli azzardi dei mercati. Ogni mormorio di impazienza viene moltiplicato da una eco colossale, si trasforma in un boato. Per contrasto la modifica delle opinioni consolidate, rimasta ai tempi di prima, appare lentissima. Non è questione di offrire nuovi sacrifici al Moloch dei mercati, che stando così le cose non ne farebbero alcun conto. Occorre invece governarsi bene subito, ad esempio rendendo chiaro il senso degli interventi sulla spesa pubblica, sapendo discutere come migliorarli. Solo una garanzia di stabilità dell’Italia può aiutare la Francia a capire la necessità dell’unione politica, e la Germania a darsi ragione della solidarietà economica.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10329


Titolo: STEFANO LEPRI. I tedeschi nella trappola della finanza
Inserito da: Admin - Luglio 23, 2012, 04:28:33 pm
23/7/2012

I tedeschi nella trappola della finanza

STEFANO LEPRI

Invece di prendersela con i tedeschi, bisognerebbe paradossalmente - compatirli. I mercati finanziari li stanno attirando in una trappola.
Più insistono che non saranno loro a pagare il conto per i Paesi deboli dell’euro, e più rischiano di andarsi a cacciare in una situazione in cui saranno costretti ad aprire il portafoglio sul serio.

Ovvero, se si seguita ad affermare alla leggera che l’area euro sarebbe bene ridimensionarla, i mercati continueranno a scommettere che si spacchi, divaricando ancor più i tassi di interesse tra Nord (compresi Francia e Belgio) e Sud. Ma alla resa dei conti l’alternativa sarebbe tra due scelte entrambe costosissime per la Germania: soccorrere massicciamente Spagna e Italia, oppure affrontare una rottura traumatica dell’euro.

La Repubblica federale tra aiuti già erogati ai tre Paesi sotto assistenza e aiuti promessi a Madrid già contribuisce con un centinaio di miliardi di euro. E’ facile compiacere i tedeschi dicendogli che hanno fatto fin troppo. Meno facile è spiegargli che questi soldi li prestano, raccogliendoli sui mercati a un tasso assai inferiore, quando non addirittura sotto zero.

I mercati ingannano. Stanno gonfiando una bolla speculativa sui titoli di Stato non solo dei Paesi forti dell’euro, anche di altri Paesi economicamente legati alla Germania. Secondo stime aggiornate, nella prima metà del 2012 lo Stato tedesco ha risparmiato un miliardo di euro rispetto a quanto prevedeva come pagamento di interessi sul debito.

L’afflusso ansioso di capitali verso i Paesi reputati sicuri li spinge a sottovalutare la gravità della crisi. La Finlandia - dove Mario Monti si recherà tra una settimana - può cinicamente avere qualche buon motivo, dato che secondo alcune analisi sopporterebbe abbastanza bene una rottura dell’unione monetaria. La Germania no, è creditrice dei Paesi deboli sotto varie forme, per almeno mille miliardi di euro. Nella migliore delle ipotesi quei soldi li riavrebbe indietro molto svalutati.

Il ministro delle Finanze Wolfgang Schaeuble queste cose le sa benissimo, tanto che ha fatto calcolare ai suoi uffici i costi di una rottura dell’euro; altri suoi compatrioti non riescono a capirle. Per questo è urgente, come sosteneva ieri Giuliano Amato, verificare se il governo di Berlino è sincero quando propone passi avanti verso l’integrazione politica dell’Europa come passaggio per ottenere una maggiore solidarietà; o se lo afferma a vuoto, sapendo che Parigi resta contraria. L’intervista di Schaeuble apparsa sabato sul Figaro fa sperare, ma occorre una risposta francese.

Se è vero quanto sostengono il Fondo monetario e la Banca d’Italia, che solo una parte dello spread italiano e di quello spagnolo è giustificato dallo stato dei due Paesi - mentre dal lato opposto è assurdo che i titoli dei Paesi forti fruttino meno di zero - questo comporta che è già in atto in Europa quel «trasferimento di risorse» tanto temuto da certi tedeschi. E’ già in atto, però alla rovescia: grazie ai mercati finanziari, da Italia e Spagna verso Germania, Olanda e Finlandia.

Proprio per questo motivo, al nostro Paese conviene una maggiore integrazione politica dell’Europa. Stiamo pagando un tributo non deciso da nessuno; decidere tutti insieme a Bruxelles non sarebbe certo un danno. Potremmo «vedere le carte» offrendo per primi di rinunciare a una parte della nostra sovranità di bilancio. Mentre, al fondo, la lezione da apprendere per i politici tedeschi e italiani è la stessa: proporre soluzioni illusorie - lì la cacciata dei Paesi del Sud, qui un’uscita magari «temporanea» dall’euro - rischia di avverarle in forma di disastro.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10361


Titolo: STEFANO LEPRI. Ma i sacrifici non sono stati inutili
Inserito da: Admin - Luglio 25, 2012, 05:08:25 pm
25/7/2012

Ma i sacrifici non sono stati inutili

STEFANO LEPRI

Guardando solo un numero, quello spread tra titoli di Stato italiani e tedeschi che ormai tutti conoscono, siamo tornati ai livelli che fecero cadere il governo Berlusconi, nel novembre 2011.

Inutili allora tutti i sacrifici che il governo Monti ci sta facendo fare, andare in pensione più tardi, pagare l’Imu, i prezzi cresciuti a causa della maggiore aliquota Iva, i tagli alle spese che si sentiranno via via?

No. E’ una crisi dell’Europa questa - il timore che l’euro si spacchi - nel contesto di una economia mondiale ovunque peggio messa rispetto all’anno scorso, con gli Stati Uniti che stentano a ripartire, la Cina, l’India e il Brasile che rallentano. A dircelo sono sempre i numeri, se li guardiamo bene, se ne guardiamo più di uno.

Non è tornato alla stessa vetta del novembre 2011 il tasso di interesse che il Tesoro italiano paga: resta ancora di circa un punto sotto il massimo raggiunto allora. La differenza sta nel rendimento dei titoli tedeschi, i Bund , scesi a un livello bassissimo, innaturale. I capitali internazionali affluiscono verso la Germania perché lì, nel caso si fratturi l’euro, si rivaluterebbero. Pare razionale investirceli anche se rendono meno di zero.

Nel novembre 2011 la Spagna pagava interessi più bassi dei nostri, benché gli analisti finanziari di tutto il mondo sapessero benissimo che le sue banche stavano molto peggio di quanto le fonti ufficiali volessero far credere, e sospettassero che tra le sue regioni ci fossero - come ci sono - casi di dissesto ancora più gravi di quello della nostra Sicilia.

Invece il rendimento dei titoli di Stato francesi nelle ultime settimane è sceso, benché il bilancio pubblico sia in condizioni strutturali assai peggiori delle nostre. Ieri, i decennali transalpini fruttavano un interesse del 2,24%, poco più che sufficiente a compensare la prevedibile inflazione.

Nell’insieme di queste cifre si legge che la scommessa dei mercati è su una rottura dell’unione monetaria in cui la Francia resterebbe agganciata alla Germania. Alla Spagna invece risulta estremamente difficile procurarsi nuovi finanziamenti sui mercati, benché abbia un governo politico provvisto di una solida maggioranza, che sia pure tra molti errori ha adottato misure di austerità severe.

La crisi europea è il punto critico di un pianeta dove le forze traenti della crescita economica sembrano affievolite dappertutto. Può darsi che negli Stati Uniti esistano le risorse tecnologiche per un nuovo balzo, ma non si sbloccheranno prima che finisca l’attuale paralisi politica. La Cina non può conservare il suo ritmo mirabolante di aumento del prodotto lordo se non vuole riempirsi di nuove fabbriche che non sapranno a chi vendere, mentre deve elevare il benessere dei suoi cittadini.

I capitali per ripartire ci sono, tuttavia non riescono a trovare la strada dell’investimento produttivo. Sono pieni di denaro i forzieri del governo cinese, sono piene le casse delle grandi imprese in America, in Germania, e in molti Paesi emergenti: si riversano nelle scommesse pazze della finanza, rischiando di distruggere i delicati meccanismi dell’economia reale - imprese, lavoro, commerci che hanno permesso di accumularli.

Manca la fiducia, manca la speranza. Solo la politica può riaccenderle. Senza l’euro avremmo una democrazia ancora più limitata nei suoi poteri, ancora più condizionata dai mercati. L’Italia nel novembre scorso ha evitato di cadere nel baratro da sola, ora può solo farsi parte di uno sforzo comune per non caderci tutti insieme.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10371


Titolo: STEFANO LEPRI. Gli assist che servono alla Merkel
Inserito da: Admin - Agosto 01, 2012, 07:45:32 pm
1/8/2012

Gli assist che servono alla Merkel

STEFANO LEPRI

Come si fa a sostenere che è normale se a una impresa italiana sana il credito costa più caro che a una impresa tedesca in difficoltà? A che serve condividere l’euro se, come ci informa la Reuters, su un mutuo casa la famiglia finlandese media paga un tasso di interesse che è meno della metà di quello che è richiesto alla famiglia spagnola?

Non è solo questione di salvare i debiti degli Stati. Tutto il funzionamento delle economie dei Paesi euro è distorto dal rischio che l’unione monetaria si spacchi. Gli stessi spread sui titoli pubblici dipendono più da questo fattore che dalle scelte dei governi o dalle incerte prospettive politiche di alcuni Paesi. Questo hanno inteso dire ieri il capo del governo italiano e il presidente della Repubblica francese riaffermando il loro pieno appoggio a Mario Draghi.

Eppure il compito di tenere insieme l’euro per il momento resta tutto affidato al presidente della Banca centrale europea. Ha dalla sua i governi, tedesco compreso; ma la riunione del consiglio Bce di domani e la successiva conferenza stampa richiederanno grandi dosi di coraggio, inventiva, abilità di manovra. I mercati sono pronti ad afferrare ogni pretesto per sentirsi delusi e riprendere a giocare al ribasso.

Se non si concretizzerà presto la «nuova spinta politica» sulla «tabella di marcia» per rinsaldare la zona euro, di cui ieri Monti e Hollande hanno discusso, la battaglia che divide la Germania potrebbe essere perduta per gli europeisti. Peggio, c’è da domandarsi che cosa possa uscir fuori da un Paese come la Germania nel caso prevalgano coloro che un giorno denigrano i meridionali dell’Europa, un altro ignorano le critiche di Barack Obama attribuendole alla campagna elettorale, un altro giorno ancora sostengono che il Fondo monetario sbaglia tutto perché è guidato da due francesi e influenzato dagli americani, e così via.

Dipende soprattutto dalla Francia se Angela Merkel potrà tranquillizzare i tedeschi con meccanismi chiari di condivisione politica delle responsabilità economiche. Ma non dipende soltanto dalla Francia. La Spagna se ha bisogno di aiuto deve calare il tono del suo orgoglio nazionale, accettare che altri occhi guardino nei conti delle sue banche e delle sue regioni. I partiti politici italiani possono contribuire con un po’ più di chiarezza su che cosa avverrà nel 2013. Se i giochi della politica interna tedesca fanno premio sulla sorte dell’Europa, come ha lamentato il presidente dell’Eurogruppo Jean-Claude Juncker, i non tedeschi potrebbero cominciare a dare il buon esempio.

Non sarebbe nemmeno tanto difficile, per Draghi, rimettere le cose a posto, se il progetto della politica europea fosse chiaro. Domare i mercati non è impossibile, anche se sono oggi forti come mai prima. Se esistono le distorsioni di cui si diceva – esistono pur se i dogmatici della Bundesbank si rifiutano di vederle – è compito della Banca centrale europea contrastarle. Ovvero occorre restringere all’interno dell’area euro il divario tra i tassi di interesse.

Si potrebbe discutere all’infinito di quanto sia la parte «giusta» dello spread (quella che punisce la minore affidabilità dei debiti pubblici, ovvero dei sistemi politici che li governano) quanto invece quella «sbagliata» secondo Monti e Hollande sulla scia di Draghi. Tra gli esperti circola una ipotesi di intervento coraggioso e innovativo per tagliare il nodo: la Bce potrebbe acquistare titoli di Stato italiani e spagnoli e per lo stesso ammontare vendere allo scoperto titoli tedeschi, olandesi, finlandesi. Se i tedeschi temono che si stampi moneta per pagare i debiti dei Paesi deboli, questo è un modo di evitarlo. Per molte ragioni, è difficile che si faccia. Speriamo nella fantasia di Draghi.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10395


Titolo: STEFANO LEPRI. La strada stretta del governo
Inserito da: Admin - Agosto 18, 2012, 10:22:09 pm
17/8/2012

La strada stretta del governo

STEFANO LEPRI

Già, sarebbe bello ridurre le tasse. Nel caso si potesse, dovremmo stare attenti a quali. Di gran lunga più vantaggioso sarebbe abbassare il carico sulla parte più vitale della nostra economia, ossia sul lavoro dipendente, specie ai livelli bassi che più soffrono, e sulle imprese, specie per quanto concerne l’impiego di lavoro; come consigliato in più di una occasione dalla Banca d’Italia. Come principio generale, inoltre, sarebbe bene lasciar come sono le imposte più difficili da evadere, e intervenire al ribasso su quelle dove la frode è più facile. Si tratterebbe di decisioni da prendere a mente fredda, senza subito dar ragione a chi strilla più forte contro questo o quel tributo ritenuto particolarmente odioso o vessatorio.

Ma si può? Sappiamo tutti quanto la situazione dell’Italia sia difficile, e quanto ossessivamente venga tenuta d’occhio giorno per giorno dai mercati finanziari, pronti a ingigantire gli effetti di ogni passo falso. Sarà molto se si riuscirà ad evitare quel nuovo aumento dell’Iva, oltre l’attuale 21%, scritto nei piani che hanno guadagnato al nostro Paese l’appoggio delle istituzioni europee.

Per sostenere che si può, alcuni offrono una ricetta semplice. Basta tagliare sul serio le spese dello Stato, senza riguardi per nessuno – dicono – e si potranno calare le tasse senza accrescere il deficit pubblico che è il principale indicatore sul quale veniamo giudicati. Oggi l’attrattiva di questa idea si nutre del malessere diffuso contro i costi della politica e contro i visibili sprechi di denaro dei contribuenti.

Mettiamo per un momento da parte il fatto che in Italia questa ricetta è stata più volte e con gran clamore scritta in programmi elettorali, mai applicata dopo il voto. Meglio guardare quanto davvero sia stata applicata altrove e se abbia funzionato. Tra gli economisti resta aperto un dibattito talvolta aspro. Però due punti fermi si possono trovare. Il primo è che non fu così che Ronald Reagan trent’anni fa riuscì a rilanciare l’economia americana: ridusse le tasse, sì, le spese no. Il secondo è che tagliare le spese per tagliare le tasse ha funzionato senza controindicazioni in Paesi piccoli non circondati da un’area tutta in difficoltà.

Anche se si è convinti che in prospettiva è meglio avere «meno Stato», ossia meno tributi e minor impiego di denaro pubblico, non ci si può nascondere che nell’immediato anche i tagli alle spese aggravano la recessione economica. L’esempio ci viene oggi dalla Gran Bretagna. Per un certo tempo George Osborne, responsabile del Tesoro con l’antico nome di Cancelliere dello Scacchiere, si è vantato di aver adottato una politica economica «da manuale». Per risanare il bilancio pubblico stremato dal soccorso alle banche, il governo conservatore-liberale di Londra ha soprattutto tagliato le spese. La pressione fiscale è stata lasciata nel complesso stabile riducendo però le aliquote sulle imprese e sui redditi più alti, nella speranza di incentivare la voglia di intraprendere e di guadagnare. Il risultato è che il Regno Unito si trova in una recessione di gravità analoga a quella italiana; incrementi di produttività non se ne sono visti.

Stato ed enti locali italiani forse svolgono anche compiti che sarebbe meglio lasciare ai privati; di sicuro forniscono in maniera poco efficiente servizi ovunque considerati di natura pubblica. Rivedere a fondo tutto questo, e il funzionamento stesso di tutta l’amministrazione, dovrà essere un compito centrale dell’attività politica dei prossimi anni. Bisogna pretendere che avvenga. Non ci si può illudere che si tratti di una ricetta magica per uscire dalla recessione subito.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10431


Titolo: STEFANO LEPRI. Le ambizioni vanno realizzate
Inserito da: Admin - Agosto 26, 2012, 05:16:38 pm
25/8/2012

Le ambizioni vanno realizzate

STEFANO LEPRI

La canicola prosegue ma stiamo già cominciando a capire come sarà l’autunno. Sempre più i partiti reclameranno che solo un ritorno alla politica può ridare prospettiva al Paese; ognuno a suo modo chiederà di mettere più soldi nelle tasche della gente offrendo ipotesi vaghe su come trovarli. Nel frattempo, è probabile che l’economia seguiti a perdere colpi, e la disoccupazione ad aumentare.

È bene che il governo Monti prosegua il mandato fino alla fine naturale della legislatura. Ma occorre anche domandarsi perché stia perdendo impulso. Non si può limitarsi a dire che l’impaccio viene da una maggioranza parlamentare eterogenea, composta di forze che erano rivali prima e torneranno ad esserlo nella campagna elettorale ormai prossima.

Ieri a Palazzo Chigi si sono confrontati progetti disparati di singoli ministri, alcuni sensati ma frenati dalla carenza di risorse, altri velleitari seppure benintenzionati, altri ancora di scarso respiro. L’impegno a nuove liberalizzazioni è importante; ma tra una congerie di proposte sembrano talvolta anche farsi avanti interessi ristretti, ben insinuati nell’alta burocrazia.
Non è solo la «casta» politica a mancare di risposte ai problemi del Paese. C’è un deficit complessivo di classe dirigente, dai burocrati agli imprenditori passando per le professioni e l’accademia. Quanti progetti ambiziosi esaminati dal governo dei tecnici si arenano nel timore che i meccanismi amministrativi non siano in grado di portarli a compimento, o che la resistenza degli interessi parassitari colpiti prevalga sulle energie sane dell’economia capaci di reagire allo stimolo?

Nel breve termine, l’Italia reggerà se la crisi europea, come oggi pare possibile, non sprofonderà in un circolo vizioso di pessimismo che si autorealizza. Possediamo ancora grandi risorse, sì: nel senso che i patrimoni delle famiglie e i beni delle imprese sono di dimensione sufficiente a consentirci di proseguire a campare intaccandoli a poco a poco.
Nell’interesse dei figli più che dei padri, tuttavia, occorre riconoscere che questo non basta. Si perde solo tempo a ripetere i soliti scaricabarile politici nazionali; né vale prendersela contro i tedeschi cattivi. Come si vede in questa estate, non si tratta solo dell’euro: in tutto il mondo avanzato l’economia offre sviluppi poco promettenti.

La crisi iniziata nel 2007 segna un riaggiustamento imponente dei rapporti economici internazionali. I Paesi avanzati avevano vissuto a credito, attraendo capitali dal resto del mondo; ora sono chi più chi meno carichi di debiti, tranne la Germania che ancora vende ai Paesi emergenti i macchinari con cui domani le faranno concorrenza. Tutti cresceranno a rilento, nessuno potrà fare da locomotiva. Noi ci troviamo in difficoltà maggiori, perché il «modello italiano» sembra invecchiato senza rimedio.

L’abilità ad arrangiarsi non è più competitiva nel mondo di oggi, perché altri si arrangiano a costi minori. Non produce con efficienza una società in cui le leggi sono rigide contro i deboli e interpretabili con elasticità a favore di chi può. E come si fa ad escogitare innovazioni, se i giovani non hanno prospettive di carriera, se «si è sempre fatto così» è saggezza ovunque sbandierata dai burocrati come dai faccendieri?

Chi aspira a governare l’Italia dovrebbe dirci come si fa a farla funzionare meglio. Quando il governo tecnico incontra ostacoli, sarebbe gradita una spiegazione precisa di come si potrebbe superarli. Altrimenti avremo una campagna elettorale dove i partiti affermati gareggeranno in promesse di denaro inesistente, mentre i partiti nuovi si limiteranno a ripetere che quelli vecchi fanno schifo.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10457


Titolo: STEFANO LEPRI. La solidarietà che serve all'Italia
Inserito da: Admin - Settembre 21, 2012, 05:41:47 pm
21/9/2012

La solidarietà che serve all'Italia

STEFANO LEPRI

Risanare l’Italia sarà un lavoro lungo, e il mondo non ci aiuta. Le nuove previsioni economiche approvate ieri dal governo sono onestamente cupe, una scelta di verità. Confermano che l’uscita dalla recessione è lontana; i primi segni di recupero li vedremo l’estate prossima. E’ purtroppo inevitabile che altri posti di lavoro spariscano.

Il piano Draghi ha salvato l’area euro dal tracollo, ma è arrivato troppo tardi per frenare una caduta dell’attività che prosegue in tutti i Paesi membri, meno grave soltanto in Germania. Negli Usa la ripresa continua a stentare, e non va bene nemmeno la Cina, il cui modello di sviluppo travolgente ormai mostra crepe difficili da rappezzare.

In questa crisi epocale, l’Italia è uno dei punti di maggiore fragilità. Le speranze non sono perdute: il ritorno in attivo dei conti con l’estero prova che di dinamismo nel nostro sistema produttivo ce n’è ancora; e delle difficoltà causateci dalla moneta comune si può probabilmente intravedere la fine. Ma, appunto, c’è ancora moltissimo da fare per rimettersi in piedi.

Si può discutere se Mario Monti potesse fare di più, o più in fretta, anche forzando la mano alla sua maggioranza. I ritardi nell’attuazione delle leggi approvate rafforzano il sospetto che a un governo tecnico la burocrazia obbedisca di meno, perché meno teme di essere punita. Un governo politico potrebbe avere i suoi vantaggi, purché si formasse sulla base di un programma chiaro, e avesse dietro un elettorato convinto. L’attuale sfiducia verso tutti i partiti non giova.

Nella campagna elettorale che sta per aprirsi, il guaio non è tanto che i partiti promettano, ma che facciano promesse sbagliate, inseguendo ciò che gli pare piaccia agli elettori che conoscono meglio. In altre parole, cercano di interpretare soprattutto i desideri degli anziani. Stanno parlando in particolare di patrimoni familiari (la casa) e di pensioni, ovvero ciò che interessa alle persone più avanti con l’età; poco o nulla di che fare per il numero crescente di giovani disoccupati.

Può anche accadere di rinchiudersi nel declino. Il Giappone lo sta facendo, ma ha risorse sufficienti per riuscirci, maggiori delle nostre. L’Italia ha invece un bisogno vitale di tornare alla crescita, perché il debito non la schiacci. Certo, le politiche per la crescita dicono di volerle tutti. Però mancano i soldi per farle nei vecchi modi (ammesso e non concesso che fossero efficaci), ossia con ampi investimenti pubblici. Solo dopo ampi passi in avanti verso l’unità politica potremo, tutti i Paesi dell’euro insieme, ritrovare i margini di stabilità necessari ad usare questo strumento.

Per crescere, e per campare tutti meglio, occorre rendere il Paese più efficiente. Di ricette a pronto risultato non ce ne sono; anche misure sulla carta buone, come detassare gli aumenti di paga legati alla produttività, hanno rischiato di tradursi in complicità di elusione fiscale tra aziende e dipendenti. Né la trattativa appena iniziata fra Confindustria e sindacati sembra in procinto di sfornare grandi novità.

Invece di promettere la fine dell’austerità, occorre che la politica elabori programmi di paziente ristrutturazione del Paese, nel settore pubblico come nel settore privato. In parole povere: se vogliamo evitare che la pressione spietata dei mercati ci costringa a guadagnare meno, dovremo riuscire a organizzarci, con il contributo di tutte le parti, per lavorare meglio. Il nostro enorme debito pubblico è compensato da elevatissime ricchezze private; la sfida politica è di saper costruire una solidarietà nel nome della quale mobilitarle.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10550


Titolo: STEFANO LEPRI. Spettri tedeschi contro Draghi
Inserito da: Admin - Ottobre 02, 2012, 11:18:57 pm
Editoriali

02/10/2012

Spettri tedeschi contro Draghi

Stefano Lepri

Mario Draghi sarà il comandante Schettino della moneta unica europea? Con questa domanda retorica si apriva ieri un commento nella pagina culturale della Frankfurter Allgemeine, quotidiano conservatore tedesco di ottima reputazione. 

 

Mentre quasi tutto il resto del mondo confida nella capacità del presidente della Bce di salvare l’euro, talvolta chiamandolo «super-Mario» (uno dei due), è ben noto che in Germania alcuni la pensano all’opposto. 

 

Questa volta, tuttavia, è difficile credere ai propri occhi. Sotto il titolo «Bunga-Bunga» e dopo l’accenno al noto naufragio, si ricordano i festini in costume della Regione Lazio, nonché l’arresto per spaccio di cocaina del direttore dell’ufficio postale del Senato. Conclusione: la vita pubblica italiana è irrecuperabilmente corrotta, Draghi è italiano, dunque non potrà che combinare disastri.

 

Difficile non chiamare razzista un ragionamento che attribuisce a tutti gli appartenenti a un popolo le colpe di una parte di esso. Purtroppo non si tratta del primo caso. Nella crisi dell’euro, acquistano dignità culturale in Germania posizioni o nazionalistiche o semplicemente di superiorità e disprezzo per gli altri Paesi. Il fenomeno investe i giornali seri - seri alla tedesca, dunque molto più dei nostri - e non si limita più a politici di second’ordine.

 

Il governo di Angela Merkel appoggia Draghi. Ma è stato Jens Weidmann, presidente della Bundesbank, a paragonare Draghi al Mefistofele del Faust di Goethe, quando convince l’imperatore a stampare moneta in eccesso. Ha ragionate idee euroscettiche l’autore dell’articolo di ieri, Dirk Schuemer; il direttore della sezione cultura della Frankfurter Allgemeine, Frank Schirrmacher, è un intellettuale apprezzato, autore di libri tradotti anche in italiano.

 

Non è il ritorno di un passato lontano. Nella parte nobile, queste posizioni nascono da una giustificata fierezza per i successi del modello economico tedesco. Il guaio è che si irrigidiscono nella difesa di una dottrina economica, quella del rigore monetario, che resta importante, ma che ora quasi tutto il mondo ritiene inadatta alla gravità della crisi. Cosicché, nel condannare il compromesso europeo che costringe la Germania a discostarsene, sentendosi sotto assedio talvolta gli animi si riscaldano e si passa il segno.

 

E’ parso giustamente assurdo che in Grecia Angela Merkel fosse effigiata in camicia bruna nazista; le responsabilità di gran lunga più gravi sono di chi ad Atene ha governato. Ma se si vuole evitare che ai tedeschi di oggi, educati alla democrazia, si rinfacci un passato in cui non erano nati, occorre da parte loro evitare l’uso di banalità sprezzanti verso i Paesi del Sud, i mediterranei, o nell’insieme i popoli latini, francesi inclusi.

Il successo economico della Germania è anche frutto di sacrifici della gente comune, che nell’ultimo decennio ha visto ristagnare il proprio tenore di vita. Nulla vieterebbe ora di distribuirne meglio i frutti. Può venire il sospetto che la parte peggiore del Paese, per non mutare nulla, voglia invece trovare un capro espiatorio fuori dai confini nazionali.

 

Come italiani, dobbiamo riconoscere che prendersela contro l’Italia è diventato troppo facile, da qualche anno a questa parte. Anche figure come quelle del comandante della Costa Concordia sono purtroppo frequenti nell’antropologia nazionale. Ma proprio perché i festini maialeschi e altri sprechi siamo noi tutti a pagarli con i nostri soldi - non i tedeschi, come qualcuno tenta di raccontargli -, è urgente che finiscano.

da - http://lastampa.it/2012/10/02/cultura/opinioni/editoriali/spettri-tedeschi-contro-draghi-spettri-tedeschi-contro-draghi-K1Tj0CQhEUOfMwlZ6CRsdI/index.html


Titolo: STEFANO LEPRI. Per le famiglie un bilancio in pari
Inserito da: Admin - Ottobre 11, 2012, 06:34:15 pm
Editoriali

11/10/2012

Per le famiglie un bilancio in pari

Stefano Lepri

Un pochetto di equità, un pochetto di rilancio. Monti ha cercato di usare i margini di manovra di cui disponeva, che sono modesti. All’origine c’è un duplice movente politico: mostrare che non è cieca l’austerità a cui dobbiamo sottoporci, raccogliere indignazione contro gli sprechi proseguendo la revisione della spesa pubblica. 

 

Le misure scelte una loro logica economica ce l’hanno.

 

E’ falso che si tratti di una «nuova manovra depressiva» perché le grandi cifre dei conti pubblici restano le stesse; mutano gli addendi nel tentativo di migliorare il risultato. E’ vero invece che occorre domandarsi - come stimola a fare l’ultimo rapporto del Fondo monetario internazionale - se in questa crisi tutti i governi non stiano eccedendo nelle medicine amare. Purtroppo non è un problema che l’Italia possa affrontare da sola.

 

Grazie ai tagli alle spese che appaiono possibili, il nuovo rialzo dell’Iva l’anno prossimo - già previsto da leggi in vigore - avrebbe potuto essere evitato. Il governo ha scelto invece di aumentare l’Iva di un punto sgravando nel contempo l’Irpef. Si intende segnalare che qualche imposta può anche muoversi al ribasso, pur se in misura minima. Di certo calando l’Irpef si allevia la tensione tra imprese e sindacati sul costo del lavoro.

L’aumento dell’Iva al 22% non sarà ovviamente gradito; pur se è bizzarro che protesti chi l’aveva alzata al 21%. Tuttavia occorre tenere conto che un’Iva più alta in una certa misura favorisce le esportazioni, sulle quali non grava. Insomma al punto di vista delle famiglie i conti sono grosso modo in pari - un po’ più di denaro in busta paga, prezzi un poco più alti - mentre dal punto di vista del sistema produttivo il risultato potrebbe essere benefico.

 

Inoltre c’è un aspetto di equità. Si ridisegna l’Irpef rendendola più progressiva, meno pesante per lavoratori e pensionati a basso reddito. Compare da subito l’imposta sulle transazioni finanziarie, ovvero quella «Tobin tax» da quindici anni cavallo di battaglia della sinistra; altre misure colpiscono banche e assicurazioni.

Certo alleggerire l’Irpef non dà nulla agli «incapienti», ovvero quei cittadini troppo poveri per pagare imposta sul reddito. Ma non pare bello che si ricordi di loro adesso chi finora cercava soprattutto di ripristinare la pensione a 57-58 anni. Oppure, si poteva far di più con i proventi della lotta all’evasione fiscale? No: stando ai dati, le meritorie iniziative del governo Monti (a cominciare da Cortina d’Ampezzo) sono solo riuscite ad evitare che nella crisi l’evasione crescesse ancora, reazione spontanea di un Paese negli anni precedenti abituato all’impunità.

 

Nello stesso tempo, è vero che l’accelerato risanamento dei conti pubblici continua a provocare effetti recessivi profondi; assai più profondi di quanto le dottrine economiche in voga prevedessero, ci dice ora il Fmi. Ma è un circolo vizioso mondiale: un sistema finanziario instabile prende a bersaglio gli Stati indebitati specie se li vede guidati da governi poco credibili; l’austerità che ne consegue diminuisce la fiducia dei cittadini nei loro governi e rende i Paesi ancora più instabili. 

 

Il debito pubblico va ridotto. Ridurlo più lentamente, per evitare danni, si potrà se tornerà la fiducia: in banche ben sorvegliate, in governi capaci di progettare il futuro. Per l’Italia, che da sola non può sfidare i mercati, l’aiuto principale potranno darlo istituzioni dell’area euro più forti e solidali; la strada giusta è stata imboccata nell’estate e si tratta di proseguirla. Intanto però, in casa, meglio astenersi da eccessive promesse elettorali.

da -


Titolo: STEFANO LEPRI. Preferenze, il virus dei partiti
Inserito da: Admin - Ottobre 12, 2012, 10:21:58 pm
Editoriali

12/10/2012

Preferenze, il virus dei partiti

Luigi La Spina

La diagnosi si fa più grave. Credevamo che la politica italiana soffrisse di senescenza, più o meno precoce, quella che fa dimenticare i peccati del passato, nel ricordo di una gioventù che tutto assolve. Invece, si tratta di un sintomo più terribile, quello che caratterizza l’Alzheimer, la malattia che fa perdere soprattutto la memoria dei fatti recenti.

Ma come è possibile pensare di ripristinare le preferenze, non solo non rammentando che, in un referendum agli inizi degli Anni Novanta, gli italiani, con una maggioranza del 95 per cento, bocciarono questo sistema di voto, ma ignorando i vergognosi scandali di questi giorni? Come è possibile votare una legge, come quella approvata ieri in commissione al Senato, appena il giorno dopo la lettura sui giornali del caso Zambetti, l’assessore regionale lombardo del Pdl accusato di aver acquistato dalla ’ndrangheta quattromila preferenze per 200 mila euro? 

Come è possibile farlo, sempre il giorno dopo la scoperta che il capogruppo Idv alla Regione Lazio, quello che avrebbe sottratto al partito 780 mila euro, era un vero recordman di preferenze, ne aveva oltre 8 mila? Come è possibile proporre una cosa del genere, dimenticando che il famoso «Batman» romano, Franco Fiorito, era un altro fuoriclasse nel campionato nazionale delle preferenze?

La lista degli esempi, tutt’altro che raccomandabili, potrebbe facilmente proseguire, ma potrebbe pure annoiare il lettore, che, in genere, gode di una salute mentale molto superiore a quella dei suoi rappresentanti. Agli smemorati del Parlamento, è più utile, allora, un breve riepilogo delle ultime puntate.

Eravamo rimasti allo sdegno universale sulla legge attualmente in vigore per le elezioni alle Camere, il famoso «porcellum», quello che assicurerà a Calderoli fama imperitura, seppur discutibile. Lo si accusava di togliere agli elettori il potere di nominare i deputati e i senatori della Repubblica per affidarlo alle segreterie dei partiti. Incalzati da una simile pressione dell’opinione pubblica e dall’imminenza del voto per la fine di questa legislatura, ieri, alla commissione di Palazzo Madama, è stato deciso di restituire questo potere ai cittadini in modo tale da consentire ai clan mafiosi, nei casi peggiori, o alle clientele di sottogoverno locale, nei casi migliori(?), di influenzare pesantemente le scelte degli italiani.

Non c’è bisogno di possedere virtù divinatorie per sapere che cosa succederà con le preferenze. Anche in questo caso, basta ricorrere alla memoria, breve o lunga che sia. Quasi cinquant’anni di storia elettorale, nella seconda metà del secolo scorso, costituiscono un monito più che sufficiente. In sintesi: candidati costretti a spese folli pur di essere eletti, spese che, naturalmente, devono «rientrare» nel corso dell’esperienza parlamentare. Competizioni a coltello, seppur metaforico, tra compagni di partito; dove, né la lealtà, né il merito, comunque, assicurano la vittoria. Condizionamenti di lobby professionali di ogni genere e un profluvio di promesse alle più svariate corporazioni e alle più fameliche clientele, promesse da mantenere, pena la mancata rielezione. Infine, un ricatto esasperante e paralizzante nei confronti dei vertici dei partiti, in nome di quel tesoretto di voti acquistato con tante fatiche e tanti denari.

Stupisce che Berlusconi, l’ex censore della vecchia politica professionale, emblema di una prima Repubblica da cancellare, abbia approvato il simbolo elettorale di quel «teatrino», per anni deplorato con toni veementi. Così come stupisce che Casini, puntando sulla collaudata «abilità» dei suoi sodali nella caccia alla preferenze, di antica marca democristiana, non si sia ricordato dei guai giudiziari, a partire dalla Sicilia, che tale metodo di voto ha procurato al suo partito. Stupisce, infine, che il moralizzatore Maroni, in cambio di una soglia di ingresso in Parlamento rassicurante per la Lega, sia disposto a barattare le preferenze, simbolo della peggiore «Roma ladrona».

Eppure, il sistema per restituire ai cittadini il potere di esprimere un chiaro giudizio, senza influenze «esterne» così determinanti c’è, ed è quello dei collegi. Una sfida semplice tra due candidati che permette a chiunque di scegliere la faccia del vincitore. Si può discutere l’ampiezza di questi collegi, perché l’alternativa tra quelli ridotti e quelli che raccolgono un gran numero di votanti presenta vantaggi e svantaggi. Ma è difficile sostenere che la trasparenza del verdetto sia assicurata in maniera migliore dal sistema delle preferenze. Sempre per quest’ultima esigenza, la prima e l’essenziale in una democrazia, i partiti potrebbero estendere, nel territorio del collegio, l’abitudine delle primarie, per sondare il gradimento popolare nei confronti dei loro candidati.

La politica impone spesso scelte complicate, ma qualche volta, come in questo caso, possono essere molto facili, se l’obiettivo è il rispetto della volontà dei cittadini. A pochi mesi dal voto, poi, nel pieno di un’ondata impressionante di scandali, sfidare così l’indignazione degli italiani fa sospettare la recondita coscienza di dover essere duramente puniti.

DA - http://lastampa.it/2012/10/12/cultura/opinioni/editoriali/preferenze-il-virus-dei-partiti-qfrrmmEnPkqcvIQF5UmROP/pagina.html


Titolo: STEFANO LEPRI. Ai cittadini si offra verità non demagogia
Inserito da: Admin - Ottobre 21, 2012, 11:36:48 am
Editoriali
21/10/2012

Ai cittadini si offra verità non demagogia

Stefano Lepri

L’effetto Grillo» è già tra noi. Il crescente consenso che i sondaggi di opinione attribuiscono al Movimento 5 stelle sta spingendo chi lo teme a comportarsi nello stesso modo: chiedere tutto e il contrario di tutto. Lo provano sia le critiche alla legge di stabilità mosse da tutti e tre i partiti della maggioranza di governo, sia la manifestazione della Cgil ieri a Roma

 

Ognuno lo fa a modo suo, con obiettivi diversi. Ma c’è qualcosa che accomuna tutti o quasi. Nel tentativo di recuperare consenso, tutto fa brodo: inseguire andando ad orecchio le mode e le rabbie più recenti quanto rispolverare gli strumenti più logori che si erano riposti nel proprio magazzino. Un grande malessere nel Paese c’è, più di quanto chi sta nei palazzi del governo e del potere riesca ad afferrare. Difficile tuttavia contrastare i demagoghi senza idee nuove.

Quando Susanna Camusso dal palco di piazza San Giovanni dice che «la politica del rigore e dell’austerità non solo è fallita ma è la grande colpevole delle difficoltà di questo Paese» sposa una tesi che accomuna l’estrema sinistra ai più oltranzisti tra i consiglieri di Silvio Berlusconi. Presume che debba farsi intendere da persone tanto disperate, da non avere memoria.

Non è stata l’austerità, ma la dissennatezza, a mettere l’Italia nei guai. Basta rammentare il succedersi degli eventi nei due anni passati. La perdita di fiducia di tutto il mondo nel nostro Paese - fiducia anche politica, anche etica, non solo la «fiducia» convenzionalmente intravista nei movimenti dei mercati finanziari - è avvenuta proprio perché chi ci governava appariva incapace allo stesso tempo di mettere in ordine i conti dello Stato e di rispettare le leggi. 

Nella sua ultima fase, il governo Berlusconi aveva adottato a tre successive riprese misure di austerità sulla carta già molto pesanti. In parte erano annunci ancora privi di contenuto, in parte non avevano avuto ancora il tempo di dispiegare i loro effetti. Forse l’Italia è andata più vicina al default nel novembre 2011 che nell’ottobre 1992. Inoltre, il ritardo si paga. Così il governo Monti, per arginare la sfiducia, ha dovuto incidere sulla carne viva bruscamente, e in misura maggiore di quanto sarebbe occorso prima.

Molte persone ora perdono il lavoro; numerose aziende chiudono. Gli effetti recessivi dell’austerità sono pesanti, purtroppo molto più pesanti di quanto si prevedesse (non solo in Italia, come ci dice il Fmi). Ma un cambiamento di rotta non può essere cercato da un solo Paese; tanto è vero che nessuno lo osa, nemmeno la Gran Bretagna che conserva una propria moneta, nemmeno la Francia governata dalla sinistra che per ora i mercati trattano con favore. 

Si può cercare di far meglio. Ma per mettere insieme un progetto occorre coerenza. Non si può biasimare l’eccessivo ricorso delle aziende al lavoro precario, come fa la Cgil, e poi attribuire la perdita di posti di lavoro precari alla riforma Fornero che ha cercato di limitare un poco l’abuso di contratti a termine.

Così pure in Parlamento la nuova legge di stabilità viene trattata dagli stessi partiti che appoggiano il governo come se si trattasse di una nuova «stangata». Non è vero: attenua gli effetti di precedenti impegni presi, con un +0,2 in più di deficit che già negli uffici di Bruxelles non entusiasma. Per alleggerirla si va alla ricerca di entrate fantasma, con il rischio di un immediato contraccolpo sullo spread.

Alla recessione mondiale più grave da settant’anni da noi si aggiungono la crisi dell’attuale sistema di partiti e le ultime tappe di un preesistente declino del modello economico italiano. Le colpe sono soprattutto della classe dirigente. Ma ai cittadini bisogna offrire verità, o andrà ancora peggio.

da - http://lastampa.it/2012/10/21/cultura/opinioni/editoriali/ai-cittadini-si-offra-verita-non-demagogia-OSTLoz7gWOqDhtc0M4vfNL/pagina.html


Titolo: STEFANO LEPRI. La prossima missione di Draghi
Inserito da: Admin - Ottobre 29, 2012, 10:52:53 pm
Editoriali
29/10/2012

La prossima missione di Draghi

Stefano Lepri

Toccando ferro, perché altri - specie i politici - possono ancora commettere errori, Mario Draghi ha salvato l’euro. Di questo potrà farsi merito in silenzio giovedì, quando festeggerà il suo primo anno alla guida della Banca centrale europea. I mercati gli danno fiducia; cominciano a rientrare in Spagna, e perfino un poco a quanto pare in Grecia, i capitali che erano fuggiti. 

 

Si può dire che ha reso la Bce più anglosassone e meno tedesca. Certo non ci sarebbe riuscito se non si fosse conquistato l’appoggio di Angela Merkel. La cancelliera ha trovato il coraggio di contraddire la Bundesbank, raro nel suo Paese, e di dare fiducia a quell’italiano che nelle settimane scorse è stato in Germania paragonato a Mefistofele o a una insidiosa sirena capace di condurre al naufragio, quando non insultato e basta.

 

Nell’inverno il sostegno alle banche con prestiti triennali, l’estate scorsa l’impegno ad appoggiare gli Stati in difficoltà; anzi i dodici mesi Draghi li ha già festeggiati ieri con un’altra iniziativa. Il messaggio dell’intervista a Der Spiegel è che solo con più Europa, non con una difesa retrograda dei poteri degli Stati nazionali, le democrazie dell’euro possono riconquistare sovranità sul non democratico potere dei mercati finanziari.

Resteranno sorpresi quelli che dall’estrema sinistra o dall’estrema destra accusano i dirigenti della Bce, «non eletti dal popolo», di voler imporre una crudele e iniqua sudditanza ai mercati. Tutto il contrario. Le parole di Draghi richiamano il caloroso manifesto europeista pubblicato qualche settimana fa da due politici molto diversi per collocazione, il liberale belga Guy Verhofstadt e il Verde Daniel Cohn-Bendit, ex leader del ’68 francese.

 

La Bce, unica vera istituzione federale, si conferma forza motrice dell’Europa. Era un processo già cominciato sotto Jean-Claude Trichet; Draghi, che all’abilità diplomatica del predecessore aggiunge maggiore competenza monetaria, lo accelera nell’urgenza dei tempi. Non si tratta di una scelta politica, che ai banchieri centrali non compete; solo dell’indicazione pratica, da parte di tecnici, di quale sia l’unica via d’uscita dal pasticcio in cui i 17 Paesi dell’euro si sono cacciati.

 

Ancora non sappiamo misurare quanto sia stata ardita la scommessa di Draghi quando il 26 luglio ha dichiarato che «avrebbe fatto tutto il necessario» per salvare l’euro. Aveva già il consenso del direttorio a 6 dell’Eurotower; non quello di tutti i 17 governatori delle banche centrali nazionali (come si sa Jens Weidmann della Bundesbank non glielo ha dato mai). La versione ufficiosa è che abbia informato il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schaeuble subito dopo, dato che la Bce deve essere autonoma dai governi, anche dai più potenti. Però è lecito sospettare che il via libera l’avesse avuto prima.

 

Pur nel rispetto dei confini legali tra tecnica e politica, le responsabilità si intrecciano. Già da subito altre prove attendono la Bce, specie per compiere il grande passo avanti su cui al contrario Berlino frena, la cosiddetta unione bancaria. Dal 2014 non dovrebbe più accadere che organismi nazionali vietino a una banca di spostare i fondi in eccesso che detiene in un Paese dell’euro verso un altro Paese dove le imprese hanno fame di crediti (è accaduto); né che in uno Stato si chiuda un occhio sui cattivi affari di certe banche per non turbare equilibri di potere interni.

 

Quando, ingrandita e potenziata, la Bce vigilerà sulle banche, dovrà essere ancor più capace di opporsi a pressioni politiche. Perché ci riesca è essenziale che conservi e rafforzi la fiducia della collettività. Una delle prossime mosse di Draghi potrebbe essere di rendere più trasparenti i dibattiti che si svolgono all’interno.

da - http://lastampa.it/2012/10/29/cultura/opinioni/editoriali/la-prossima-missione-di-draghi-OFUJ1CwkTp1kCq6I2zYalJ/pagina.html


Titolo: STEFANO LEPRI. Profumo di elezioni
Inserito da: Admin - Novembre 01, 2012, 11:46:30 am
Editoriali
01/11/2012

Profumo di elezioni

Stefano Lepri

E’ diventata «più intelligente» la legge di stabilità? Bisogna vedere dal punto di vista di chi. Certo alcuni ritocchi imposti al governo dalla sua maggioranza, come la non retroattività di certe misure fiscali, paiono opportuni. 

Ma, per quanto se ne può già capire, la logica delle modifiche chieste dai partiti si riassume in poche parole: sotto elezioni, nelle tasse è meglio toccare il meno possibile.

 

Lo scambio tra più Iva e meno Irpef, sul quale nemmeno il governo era coeso, nasceva da un ragionamento benintenzionato ma un po’ astratto, uscito per l’appunto dalla testa di tecnici. Il buonsenso spicciolo dei partiti suggerisce che se si riducono le tasse ad alcuni cittadini e le si aumentano ad altri, le proteste di chi paga di più in genere sovrastano i sospiri di sollievo di chi paga di meno.

A saperlo meglio di tutti è il centrosinistra. L’introduzione dell’Irap dal 1998, in sostituzione di svariate imposte differenti, nelle grandi cifre si risolse in uno sgravio, mentre nella memoria del Paese viene perlopiù ricordata come un aggravio. 

 

Tanto più oggi, quando il consenso nei partiti tradizionali appare in rapida frana, chi fa parte dell’attuale maggioranza ragiona così: quelli a cui togliamo di sicuro si vendicheranno, quelli a cui diamo probabilmente non ci diranno grazie. Dunque via lo sgravio all’Irpef, sparso su una platea troppo vasta per essere avvertito, purché si ridimensioni l’intervento sull’Iva, che alimenta le paure di non arrivare a fine mese.

Dopodiché si tenterà di mostrare che si sono accolte richieste particolarmente meritevoli: gli imprenditori, i lavoratori a basso reddito, le famiglie numerose, e via enumerando secondo i target elettorali di ciascuno. I dettagli dell’intesa governo-partiti non sono ancora chiari, ma se come Mario Monti e Vittorio Grilli continuano ad assicurare i saldi della manovra restano invariati, non ci sarà da largheggiare per nessuno.

 

Certo, maggiori detrazioni per lavoro dipendente faciliterebbero il dialogo tra sindacati e imprese meglio di un intervento generico sull’Irpef: ma occorrerà capirne la dimensione. Quanto a rivendicare di aver messo nella manovra qualcosa di più e meglio, per carità. Ricette valide «per lo sviluppo» non sembra possederle nessuno al mondo; e se perfino Barack Obama e Mitt Romney si sfidano riscaldando minestre di ieri o dell’altroieri, figuriamoci i partiti nostri.

 

Viene osservato a ragione che il movimento guidato da Beppe Grillo non ha un programma, salvo una serie di slogan perlopiù irrealizzabili e talvolta contraddittori. Ma diventa possibile fare politica in questo modo quando gli altri un programma fanno solo finta di averlo; già stentavano a definirlo prima, adesso con gli elettori che scappano non è davvero aria di prese di posizione precise.

 

Nelle ultime settimane il governo Monti ha ripreso l’iniziativa, dopo una fase in cui sembrava appannato. Ma più ci si avvicina al voto più diventa difficile toccare qualcosa; si rafforza il ricatto dei gruppi di interesse agguerriti pur se poco numerosi (risulta che qualcuno in Parlamento abbia levato la voce contro i 160 milioni agli autotrasportatori, sussidio che perpetua l’inefficienza del settore?).

 

A distanza di oltre un decennio, scopriamo che la promessa di un «nuovo miracolo italiano» era una accattivante trappola per nascondere finché possibile il declino che cominciava. Oggi appare seducente buttare via tutto cambiando in blocco una classe dirigente che ha fallito. Ma il partito del «no a tutto» non sarà per caso un’altra - più aggiornata - maniera per far muro contro le novità che irrompono dal mondo?

da - http://lastampa.it/2012/11/01/cultura/opinioni/editoriali/profumo-di-elezioni-gz06dPxFEzDAd1Q86P5OYP/pagina.html


Titolo: STEFANO LEPRI. Un pericoloso corto circuito
Inserito da: Admin - Novembre 10, 2012, 05:58:23 pm
Editoriali
10/11/2012

Un pericoloso corto circuito

Stefano Lepri

L’Europa piacerà sempre meno a quelli che dovrebbero essere i suoi cittadini, se continuerà a funzionare in modo tanto contorto.
Forse il no ai fondi per l’Emilia terremotata era soltanto una mossa tattica all’interno di un arcano mercanteggiamento.

Ma diventa sempre più difficile spiegare alla gente che cosa accade; anche perché, altre volte, il diniego di solidarietà da parte di alcuni Paesi c’è davvero. 

 

Tutto il negoziato sul bilancio dell’Unione europea si trascina a sussulti di intricatissimi do ut des tra burocrazie nazionali, capaci di annoiare pressoché chiunque. Dentro ci sono problemi veri, come la posizione della Gran Bretagna, come il rapporto tra l’Unione a 27 (presto 28), e l’area euro avviata a integrarsi di più se vuole sopravvivere; problemi che a nessun governo al momento conviene evidenziare come tali.

Solo una piccola quota del denaro dei cittadini viene spesa dall’Unione, il cui bilancio totale è circa un sesto di quello del solo Stato italiano; e va ricordato (specie al Nord del continente) che il nostro Paese versa assai più di quanto riceva. Comunque sia, non si può più decidere così quali sono le priorità, in negoziati dove perlopiù i diplomatici si destreggiano a cercare compromessi tra differenti misture nazionali di interessi costituiti.

Pezzo a pezzo, negli anni, si è costruita una struttura che spesso per funzionare richiede di dire una cosa per farne un’altra. Ad esempio la Commissione di Bruxelles sa benissimo che ulteriori dosi di austerità non sarebbero tollerabili, ma è costretta a fare la faccia feroce per evitare che i politici di certi Paesi ritornino ai vecchi vizi. Il recente richiamo all’Italia, sugli impegni anche dopo il 2013, è rivolto a chi vincerà le elezioni; quando perfino il governo tecnico ha qualche difficoltà a centrare l’obiettivo 2012 (i dati sui conti del Tesoro in ottobre non sono granché buoni).

 

Tutto questo andrebbe ripensato alla radice. Certe menzogne demagogiche contro l’Europa - strumento del sopruso di alcuni Paesi, veicolo di spietati progetti oppressivi, o altro a seconda dei gusti - sono possibili grazie all’oscurità del disegno di insieme. E se il Parlamento europeo continuerà ad avere poteri tanto scarsi, come convinceremo nel 2014 gli elettori ad andare alle urne? Che autorità ha un governo (la Commissione di Bruxelles) in cui non solo la scelta dei membri, ma anche parte dell’articolazione dei dicasteri, derivano da faticose alchimie di vertice tra Stati?

 

Solo con poteri chiaramente attribuiti, trasparenti, legittimati, l’Europa può riconquistare fiducia. Il guaio è che oggi siamo di fronte a un corto circuito pericoloso. La Germania chiede passi avanti verso l’unione politica perché solo una effettiva cessione di sovranità da parte degli Stati può permettere più solidarietà tra le nazioni. La Francia ribatte che solo una crescente solidarietà da subito può invogliare alla cessione di sovranità. I due governi hanno a che fare con elettorati in modo diverso riluttanti.

 

E’ normale che i cittadini di diversi Paesi abbiano priorità differenti. Quello che non si può più fare è affidare il compito di conciliarle soltanto ai rapporti di vertice tra governi o, peggio, a un equivalente diplomatico del mercato delle vacche. Occorre un’arena pubblica in cui chi desidera rappresentare i cittadini si misuri con la necessità di spiegarsi a nazioni diverse, e presenti programmi capaci di essere intesi in tutte le lingue. Già da adesso, in vista del rinnovo del Parlamento europeo nel 2014, non basta che i partiti di ciascun Paese competano su come meglio rappresentare quel Paese a Strasburgo; servono liste europee in gara per esprimere sulla scala dell’Unione le idee di ogni parte politica.

da - http://lastampa.it/2012/11/10/cultura/opinioni/editoriali/un-pericoloso-corto-circuito-Vy1OR6FlRSfBXQnqpcPQpJ/pagina.html


Titolo: STEFANO LEPRI. Il traguardo del professore
Inserito da: Admin - Novembre 11, 2012, 04:06:58 pm
Editoriali
11/11/2012

Il traguardo del professore

Stefano Lepri

Un traguardo cruciale è ancora da raggiungere, per Mario Monti.
Il risanamento dei conti pubblici deve culminare in un deficit inferiore al 3% del prodotto lordo quest’anno. 

Solo con questo traguardo la Commissione europea potrà chiudere la «procedura per disavanzo eccessivo» nei confronti dell’Italia.
Secondo le ultime previsioni resta possibile arrivarci appena appena, grazie al gettito dell’Imu.

Il prezzo è stato pesante. Ma le privazioni portate dall’austerità modello Monti vanno comparate a ciò che sarebbe successo senza; benché sia difficile immaginarselo. L’Italia non è la Grecia anche nel senso che è troppo grande per essere salvata. Una dichiarazione di insolvenza italiana, tipo quella dell’Argentina undici anni fa, sarebbe stata possibile durante l’inverno 2011-2012. Avrebbe causato uno shock finanziario di dimensioni planetarie e probabilmente la rottura dell’euro.

La storia degli ultimi dodici mesi è risultata diversa per un intrecciarsi di contributi. Senza la correzione di rotta apportata da Mario Monti in Italia, nell’estate Mario Draghi non avrebbe potuto fermare la crisi dell’euro con il consenso di Angela Merkel. A sua volta, la nuova linea di condotta della Bce ha evitato che gli sforzi compiuti dall’Italia fossero resi vani.

La traiettoria dello spread racconta in parte questa storia, dal massimo storico di 574 punti il 9 novembre 2011, alla discesa sotto i 300 in marzo, al nuovo picco di 537 il 24 luglio prima delle dichiarazioni di Draghi a Londra, ai 363 di ieri. Consente di isolare meglio i timori per un collasso a breve termine dell’Italia il tasso medio sui BoT, sceso dal 6,5% del novembre 2011 all’1,5% attuale.

Quanto ai conti pubblici, è noto che quest’anno toccheremo un nuovo record della pressione fiscale (anche altrove aumenta, la Francia non si è fatta sorpassare) per poi stabilirne uno più alto ancora nel 2013. Ma non solo di tasse erano composte le manovre: e probabilmente a fine 2012 questo governo potrà vantare di essere stato il primo da molti decenni a fermare le spese, mantenendole su una cifra suppergiù uguale a quella del 2011.

Dall’estate in poi, l’iniziativa dei tecnici è sembrata infiacchirsi. Perfino nella lotta all’evasione fiscale, uno dei cavalli di battaglia di Monti, poco di nuovo si è aggiunto a quanto era stato fatto prima; il gettito tributario va bene, senza però fornire chiari segni di una svolta nei comportamenti. La legge di stabilità per il 2013, spiaciuta alle forze sociali prima che ai partiti, è stata riscritta dal Parlamento senza che ne uscisse un messaggio più chiaro.

Il negoziato sulla produttività, partito senza obiettivi chiari, di per sé difficile date le differenti strategie politiche di Cgil e Cisl, i differenti interessi di industriali e banchieri, rischia di concludere poco. Come già nella riforma del mercato del lavoro, non si distingue se la priorità sia facilitare la trasformazione e l’innovazione oppure erodere per vie traverse il costo del lavoro.

Alla fine, è la crescita economica che manca. Non è un problema solo italiano, in questa crisi; in Italia è più grave. Tutte le ricette fin qui sperimentate mostrano i loro limiti. Nella dottrina Monti prevale quella liberale delle riforme di struttura, la più accreditata nel mondo; siccome è lenta a dare frutti, incontra resistenze enormi.

Pur nell’evidenza di questi limiti, Monti conserva a tutt’oggi nel mondo l’immagine di un leader di primo piano (Gegenspieler di Angela Merkel in Europa, ovvero antagonista, avversario nel gioco, secondo il quotidiano tedesco Die Welt). In concreto, gli viene dato merito soprattutto della riforma delle pensioni, che ha reso la previdenza italiana una delle più stabili nella prospettiva futura. Demolirla dopo il voto sarebbe una via rapida per ripiombare nei guai; come lo sarebbe ridimensionare l’Imu, principale strumento per risanare i conti.

da - http://lastampa.it/2012/11/11/cultura/opinioni/editoriali/il-traguardo-del-professore-JYoqU54CW9oWKVbS259vdK/pagina.html


Titolo: STEFANO LEPRI. Il messaggio della patrimoniale
Inserito da: Admin - Novembre 13, 2012, 07:41:41 pm
Editoriali
13/11/2012

Il messaggio della patrimoniale

Stefano Lepri

Meglio così, sulla patrimoniale: mettere le carte in tavola subito, prima che avveleni la campagna elettorale. Oportet, come dicevano i professori di latino. A parte l’equivoco di comunicazione iniziale, le parole di Mario Monti ieri possono aiutare a discutere in modo più posato. 

 

A lla destra, pronta ad agitare lo spauracchio dell’esproprio, il presidente del Consiglio ricorda che imposte pa trimoniali esistono in molti Paesi «estremamente capitalisti» e si può proporle anche per motivi di efficienza dell’economia di mercato. 

Alla sinistra, ricorda che parecchio in questo campo il suo governo lo ha fatto, con l’Imu, la tassa sugli yacht, il prelievo aggiuntivo sui capitali «scudati», e che andare oltre è in parte rischioso, in parte arduo: tassare i patrimoni finanziari può farli fuggire all’estero, mentre altre ricchezze, come oro e gioielli, al fisco non sono note.

Nell’insieme, secondo dati Ocse, nel 2011 le imposte sul patrimonio pesavano per il 4,1% del prodotto lordo in Gran Bretagna, 3,7% in Francia, 3,5% in Canada, 3% negli Stati Uniti, 2,8% in Giappone, solo il 2,2% in Italia. Con l’Imu, ora, ci siamo portati più in linea con gli altri.

 

Tassare i patrimoni ha motivi sia di equità sia di efficienza. Di equità, perché i patrimoni sono più inegualmente distribuiti dei redditi (la ricchezza si eredita), e in Italia i patrimoni privati sono particolarmente consistenti rispetto ai redditi. Di efficienza, perché colpire i patrimoni scoraggia poco o nulla l’iniziativa economica e la produzione di nuovo reddito.

 

Fin qui i dati. Dopo, ci sono i sogni di «far piangere i ricchi» da una parte, le paure irrazionali dall’altra, spesso più intense in chi detiene patrimoni piccoli e non può facilmente occultarli. Inoltre, svariati tecnici non catalogabili politicamente hanno proposto forme di maxi-patrimoniale straordinaria tale da ridurre una volta per tutte il peso del debito pubblico italiano.

 

Con la sfiducia nei meccanismi di decisione politica che circola nel Paese, per una operazione straordinaria tipo «oro alla patria» mancano i requisiti di base. Quanto ai patrimoni finanziari, in astratto una maggiore tassazione può apparire equa. Ma far parte di una unione monetaria reputata instabile dai mercati è la situazione peggiore per adottarla.

 

L’esperienza del luglio 1992, con il prelievo del 6 per mille sui depositi bancari, fu negativa: impopolarità somma per il governo («continuano ancora a rimproverarmelo quando cammino per strada» usa dire Giuliano Amato, che lo decise) e una accresciuta insicurezza che forse contribuì al successivo crollo della lira in settembre, invece di evitarlo.

 

Non dimentichiamo però che esistono anche forme di prelievo patrimoniale occulto. Il peggiore, e pesantissimo, sarebbe uscire dall’euro. Il ritorno alla lira, con inevitabile default finanziario, ridimensionerebbe brutalmente sia i patrimoni sia, attraverso l’aumento dei prezzi, i redditi.

 da - http://lastampa.it/2012/11/13/cultura/opinioni/editoriali/il-messaggio-della-patrimoniale-vXZkQsF70OSoPcGEX3IZFN/pagina.html


Titolo: STEFANO LEPRI. Il traguardo del professore
Inserito da: Admin - Novembre 14, 2012, 05:21:17 pm
Editoriali
11/11/2012

Il traguardo del professore

Stefano Lepri

Un traguardo cruciale è ancora da raggiungere, per Mario Monti. Il risanamento dei conti pubblici deve culminare in un deficit inferiore al 3% del prodotto lordo quest’anno. 

Solo con questo traguardo la Commissione europea potrà chiudere la «procedura per disavanzo eccessivo» nei confronti dell’Italia. Secondo le ultime previsioni resta possibile arrivarci appena appena, grazie al gettito dell’Imu.

Il prezzo è stato pesante. Ma le privazioni portate dall’austerità modello Monti vanno comparate a ciò che sarebbe successo senza; benché sia difficile immaginarselo. L’Italia non è la Grecia anche nel senso che è troppo grande per essere salvata. Una dichiarazione di insolvenza italiana, tipo quella dell’Argentina undici anni fa, sarebbe stata possibile durante l’inverno 2011-2012. Avrebbe causato uno shock finanziario di dimensioni planetarie e probabilmente la rottura dell’euro.

 

La storia degli ultimi dodici mesi è risultata diversa per un intrecciarsi di contributi. Senza la correzione di rotta apportata da Mario Monti in Italia, nell’estate Mario Draghi non avrebbe potuto fermare la crisi dell’euro con il consenso di Angela Merkel. A sua volta, la nuova linea di condotta della Bce ha evitato che gli sforzi compiuti dall’Italia fossero resi vani.

La traiettoria dello spread racconta in parte questa storia, dal massimo storico di 574 punti il 9 novembre 2011, alla discesa sotto i 300 in marzo, al nuovo picco di 537 il 24 luglio prima delle dichiarazioni di Draghi a Londra, ai 363 di ieri. Consente di isolare meglio i timori per un collasso a breve termine dell’Italia il tasso medio sui BoT, sceso dal 6,5% del novembre 2011 all’1,5% attuale.

 

Quanto ai conti pubblici, è noto che quest’anno toccheremo un nuovo record della pressione fiscale (anche altrove aumenta, la Francia non si è fatta sorpassare) per poi stabilirne uno più alto ancora nel 2013. Ma non solo di tasse erano composte le manovre: e probabilmente a fine 2012 questo governo potrà vantare di essere stato il primo da molti decenni a fermare le spese, mantenendole su una cifra suppergiù uguale a quella del 2011.

 

Dall’estate in poi, l’iniziativa dei tecnici è sembrata infiacchirsi. Perfino nella lotta all’evasione fiscale, uno dei cavalli di battaglia di Monti, poco di nuovo si è aggiunto a quanto era stato fatto prima; il gettito tributario va bene, senza però fornire chiari segni di una svolta nei comportamenti. La legge di stabilità per il 2013, spiaciuta alle forze sociali prima che ai partiti, è stata riscritta dal Parlamento senza che ne uscisse un messaggio più chiaro.

Il negoziato sulla produttività, partito senza obiettivi chiari, di per sé difficile date le differenti strategie politiche di Cgil e Cisl, i differenti interessi di industriali e banchieri, rischia di concludere poco. Come già nella riforma del mercato del lavoro, non si distingue se la priorità sia facilitare la trasformazione e l’innovazione oppure erodere per vie traverse il costo del lavoro.

 

Alla fine, è la crescita economica che manca. Non è un problema solo italiano, in questa crisi; in Italia è più grave. Tutte le ricette fin qui sperimentate mostrano i loro limiti. Nella dottrina Monti prevale quella liberale delle riforme di struttura, la più accreditata nel mondo; siccome è lenta a dare frutti, incontra resistenze enormi.

Pur nell’evidenza di questi limiti, Monti conserva a tutt’oggi nel mondo l’immagine di un leader di primo piano (Gegenspieler di Angela Merkel in Europa, ovvero antagonista, avversario nel gioco, secondo il quotidiano tedesco Die Welt). In concreto, gli viene dato merito soprattutto della riforma delle pensioni, che ha reso la previdenza italiana una delle più stabili nella prospettiva futura. Demolirla dopo il voto sarebbe una via rapida per ripiombare nei guai; come lo sarebbe ridimensionare l’Imu, principale strumento per risanare i conti.

da - http://lastampa.it/2012/11/11/cultura/opinioni/editoriali/il-traguardo-del-professore-JYoqU54CW9oWKVbS259vdK/pagina.html


Titolo: STEFANO LEPRI. Ma sarà una riforma da fare
Inserito da: Admin - Novembre 28, 2012, 11:39:32 pm
Editoriali
28/11/2012

Ma sarà una riforma da fare

Stefano Lepri

Giusto un equivoco come questo aspettavano tutti quelli che vogliono dipingere Mario Monti come un thatcheriano senza cuore. Ossia come uno che vuole «affamare la bestia» dello Stato sociale, per sferzare la produttività dell’economia attraverso il bisogno. 

 

Ma nemmeno la «Iron Lady» privatizzò il sistema sanitario inglese, che è sempre rimasto pubblico, come in tutta Europa e nella quasi totalità del mondo avanzato, Stati Uniti esclusi. Né avrebbe senso inseguire il modello americano di sanità (eccellente ai vertici, di basso livello nella media) proprio adesso che Barack Obama, come gli rimproverano i suoi avversari, in parte lo europeizza. 

 

Purtroppo le brevi parole del presidente del Consiglio, in stretto gergo economico, non erano facili da comprendere. In sostanza pongono il problema di quali meccanismi istituzionali possono contenere gli sprechi di un sistema sanitario pubblico, e incentivarne la qualità. Si tratta di una grande riforma, necessaria per il futuro, sulla quale i partiti farebbero bene a confrontarsi. 

 

Cominciamo dai dati di fatto. Benché sembri strano, a vedere la sporcizia di certi ospedali, soprattutto ad apprendere di atroci errori di cura, le prestazioni sanitarie in Italia reggono il confronto internazionale, anche come costi. I due indici chiave, durata media della vita e mortalità infantile, sono a livelli europei, e assai migliori di quelli degli Stati Uniti.

 

Tuttavia abbiamo le ruberie politiche; perfino dove, come in Lombardia, l’assistenza è migliore che altrove e ai privati è stato concesso un largo spazio. Nell’insieme, la dimensione degli sprechi salta agli occhi: quasi sempre le Regioni che curano meglio i propri cittadini spendono meno, pro capite, di quelle che li curano peggio.

Purtroppo il contenimento delle spese è affidato quasi soltanto a un continuo braccio di ferro tra governo centrale e amministrazioni regionali. Mentre, in prospettiva, l’assistenza sanitaria ci costerà sempre di più, perché siamo un Paese dove gli anziani rappresenteranno una quota sempre più alta della popolazione, e perché inevitabilmente aspireremo tutti ad essere curati con ritrovati medici nuovi, più dispendiosi. 

 

La via migliore è costruire meccanismi che introducano criteri di efficienza nel sistema pubblico senza comprometterne l’universalità. Si può ipotizzare che oltre una base essenziale di assistenza assicurata a tutti, prestazioni aggiuntive siano affidate a mutue private, capaci di stimolare all’efficienza l’offerta sanitaria; oppure che oltre un certo livello di reddito, come in Germania, sia possibile optare per una assicurazione privata. Mario Monti è per l’appunto un fautore dell’«economia sociale di mercato» alla tedesca, tutt’altro che nemico del welfare. Si può benissimo difendere invece il «tutto pubblico»; ma spiegando come si fa a impedire che le Regioni con il record di spesa per medicinali siano le stesse da cui la gente fugge per farsi curare altrove.

da - http://www.lastampa.it/2012/11/28/cultura/opinioni/editoriali/ma-sara-una-riforma-da-fare-5ouYR6my2bjWFTuUc7VGPP/pagina.html


Titolo: STEFANO LEPRI. Il costo delle lobby
Inserito da: Admin - Gennaio 05, 2013, 11:33:41 pm
Editoriali
05/01/2013

Il costo delle lobby

Stefano Lepri

Nell’anno in cui a memoria d’uomo i consumi degli italiani si sono più ridotti, il costo della vita è cresciuto più che negli altri Paesi euro. Non è questa una spietatezza del mercato. E’ invece un segno che da noi il mercato funziona meno bene che altrove. 

 

Quando la gente fatica ad arrivare alla fine del mese, dovrebbe essere difficile ritoccare all’insù i cartellini dei prezzi. Nel 2012 ha pesato il rincaro del petrolio, che però è uguale per tutti i Paesi. In Italia un certo effetto aggiuntivo va attribuito a incrementi di tariffe pubbliche necessari a riportare i conti in ordine, che nel 2013 non si ripeteranno. Nell’insieme tuttavia la nostra economia appare più rigida delle altre. Uno degli obiettivi dell’austerità è appunto riportare l’andamento dei nostri costi e dei nostri prezzi in linea con quelli degli altri Paesi che condividono la stessa moneta. Restiamo anomali; secondo le previsioni correnti, può darsi che riusciremo ad avvicinarci nell’anno appena iniziato.

 

Sappiamo bene che i tedeschi hanno in media stipendi più alti dei nostri. Andando in visita a Berlino, ad Amburgo o a Monaco di Baviera possiamo scoprire in aggiunta che la spesa al supermercato può perfino costare meno. C’è qualcosa che proprio non va, specie considerando che i consumi qua calano e là no.

L’inflazione più alta in Italia è un segno di ingiustizia sociale. Quando un prezzo risponde poco o nulla alla diminuzione della domanda, vuol dire che chi lo incassa scarica su altri almeno una parte del peso della crisi. A fronte di chi perde il lavoro e stringe la cinghia, c’è chi riesce a mantenere intatti i guadagni. Negli anni scorsi, nicchie protette dalla concorrenza e rendite di posizione hanno dissipato i vantaggi dell’euro, facendo crescere il costo della vita, e i costi delle imprese, più in fretta che nei Paesi forti dell’area. Ora rallentano il riequilibrio e la ripresa.

 

Riformare è difficile. Troppo spesso chi gode di privilegi riesce a farsi ascoltare dai Parlamenti: è ben noto alla scienza politica che in tutte le democrazie una lobby piccola e determinata, in possesso di un pacchetto di voti o pronta a finanziare i politici, riesce spesso a negoziare favori a scapito della collettività. Così il recente compromesso di bilancio Usa oltre a decisioni cruciali per il futuro del Paese include anche, tra l’altro, favori per i produttori di rum.

 

Qualche cosa è stato fatto nell’ultimo anno, moltissimo resta da fare. Probabilmente una larga coalizione consente meglio di sottrarsi ai condizionamenti di interessi particolari; ma nessuno può vantare patenti di riformismo senza macchie. All’interno dello stesso governo Monti si sono talvolta gabellate come misure «per lo sviluppo» alcune che invece distorcevano il mercato a favore di interessi particolari (come due sgravi fiscali ai costruttori, per fortuna poi bocciati entrambi). Anche dove la concorrenza c’è, spesso è difficile per i consumatori ricavarne tutti i benefici. Basti pensare alle intricate formule tariffarie per cui è arduo rendersi conto chi ci offre a miglior prezzo l’elettricità o il telefono. Dove manca, la concorrenza stenta ad arrivare: da tempo l’azione dell’autorità Antitrust si è appannata, e per ora non si intravedono segni di ripresa.

 

Non basta soltanto indicare buoni propositi. Occorre riuscire a far appello ai cittadini in nome dell’interesse collettivo, ripulendo i canali di trasmissione delle scelte politiche. I gruppi di potere che vogliono tenere tutto com’è non si intrecciano soltanto con le parti più logore della classe politica, ma con una burocrazia abilissima nel restare gattopardescamente a galla nel cambio delle stagioni.

da - http://lastampa.it/2013/01/05/cultura/opinioni/editoriali/il-costo-delle-lobby-7HUP9oRKizwW4lvZGADIOL/pagina.html


Titolo: STEFANO LEPRI. Una politica per creare lavoro
Inserito da: Admin - Gennaio 21, 2013, 07:50:00 pm
Editoriali
21/01/2013 - emergenza italiana

Una politica per creare lavoro

Stefano Lepri


Per limitare il numero di licenziamenti, per creare duraturi posti di lavoro, servirebbe proprio quello che nelle casse dello Stato italiano manca: un sacco di soldi. Nemmeno ci sono distanze enormi, tra le ricette che i partiti propongono in campagna elettorale. Il guaio è che al momento non tornano i conti perfino per coprire la pura emergenza, ossia la cassa integrazione. 

 

Perché le imprese possano vendere di più, occorre recuperare competitività: abbassare la tassazione sul lavoro (solo se a tempo indeterminato) che utilizzano. Se si vuole che sul mercato nazionale non manchino i compratori, occorrono meno tasse sui redditi più bassi, più danneggiati dalla crisi. Piuttosto che tenere in vita aziende fuori mercato, occorre dare una decente indennità di disoccupazione a chi perde l’impiego e sgombrare la strada a chi vuole fondare aziende nuove. Vantaggi aggiuntivi per chi assume donne possono allargare le forze di lavoro. Posti in più possono essere creati accelerando opere pubbliche utili.

 

A seconda degli schieramenti politici o dei gusti, può apparire più urgente l’uno o l’altro di questi punti. 

La vera sfida è come arrivare a mettere insieme le risorse per realizzarne almeno qualcuno, e come creare il clima di fiducia nell’Italia che permetta di usare al meglio il denaro che c’è. Anche per questa via si torna a quello che oggi è il problema primo, uno Stato che non funziona. Ripulire la politica, rifare da capo l’amministrazione, tagliare le spese, ne sono gli aspetti indistricabili: nessuno dei tre può essere realizzato da solo. 

 

Bisogna dare l’idea che in Italia vale la pena di studiare e di lavorare, e che si ottengono risultati facendolo bene. Questo oggi manca, da ogni angolatura possibile: non lo vedono i giovani, e infatti i migliori tra loro vanno all’estero; non lo vedono nemmeno gli investitori stranieri, e infatti non vengono. Qui probabilmente vanno cercate le ragioni profonde del mistero che i tecnici dell’economia stentano a spiegare: come mai, caso quasi unico, il sistema economico italiano nell’ultimo decennio abbia perso in efficienza (produttività) mentre grandi innovazioni cambiavano il mondo.

 

Sarà duro, durissimo, riuscirci. Troppe forze organizzate della nostra società prosperano nel mantenere le cose come stanno; mentre coloro che ne soffrono sono disorganizzati o poco rappresentati. Una prova significativa l’abbiamo appena avuta, con le difficoltà della «Scelta civica» di Mario Monti a precisare una proposta per il mercato del lavoro.

 

Non è probabilmente questo il momento giusto, come osservava qualche giorno fa su questo giornale Elsa Fornero: proprio perché prevale l’urgenza dei posti da non perdere oppure da creare. Però è chiaro che ristagna un Paese dove il grosso dei giovani ha davanti solo la prospettiva di un lavoro precario che sottoutilizza il loro studio, e quei pochi che un impiego solido lo trovano sono, a parità di qualifica, pagati meno rispetto ai coetanei di vent’anni fa.

 

Ma a questo mercato del lavoro «duale» si sono adattati in tanti, non solo i sindacati che difendono gli anziani con il posto fisso, anche tantissime imprese, mentre all’interno delle famiglie si compensano i divari e si tappano le falle. La paura di cambiare si rivela diffusa ovunque. 

 

E’ inevitabile che in una crisi mondiale, a cui l’Italia per giunta è arrivata impreparata e carica di illusioni, alcuni posti di lavoro non possano essere salvati. Meglio interrogarsi su quali sono le idee, le condizioni materiali, le persone - soprattutto giovani, donne, immigrati - da cui possono nascere posti di lavoro nuovi.

da - http://www.lastampa.it/2013/01/21/cultura/opinioni/editoriali/una-politica-per-creare-lavoro-9PgwJTS9VpslX8MMjjoshJ/pagina.html


Titolo: STEFANO LEPRI. Non vale fare demagogia sui controlli
Inserito da: Admin - Gennaio 31, 2013, 07:17:33 pm
Editoriali
31/01/2013

Non vale fare demagogia sui controlli

Stefano Lepri



Ma chi ha imposto di cambiare tutto il management del Monte dei Paschi, facendo una pulizia radicale, se non la Banca d’Italia? 

 

Eppure, a norma delle leggi italiane, non ne aveva nemmeno il potere. Da anni il Fondo monetario internazionale ci raccomanda di dare al nostro organismo di vigilanza sul credito la facoltà legale di rimuovere i banchieri che commettono irregolarità. Nessun governo si era curato di provvedere.

 

Proprio perché la finanza è complicata si presta bene alla demagogia degli incompetenti che strillano forte; e additare falsi colpevoli è da sempre il miglior trucco per mettere al riparo i responsabili veri. Se sappiamo oggi del malaffare dentro l’antica banca senese, è perché il 15 novembre 2011 il direttorio della Banca d’Italia ne convocò i dirigenti a Roma e gli disse fermamente che in quel modo non si poteva andare avanti.

Di fronte a quello che è accaduto ieri in Borsa, la prima cosa che occorre dire a voce alta è che i risparmiatori italiani ed esteri che tengono il loro denaro presso il Monte non corrono rischi di alcun genere; e non solo perché in Italia sono assicurati i depositi fino a 100.000 euro. La banca ha un patrimonio di 14 miliardi ampiamente in grado di proteggere dalle perdite dovute ai loschi affari della cricca Mussari.

 

Non è nemmeno vero che il Mps si regga solo grazie al prestito di 3,9 miliardi che gli ha concesso il Tesoro. Quel denaro – è bene ripetere, non un regalo ma un prestito ad alti tassi di interesse, sul quale lo Stato italiano guadagna – serve a uno scopo aggiuntivo: metterlo al riparo anche da eventuali, seppur improbabili, nuove catastrofi finanziarie mondiali, secondo parametri europei decisi nel momento peggiore della crisi, e forse oggi perfino eccessivi.

 

Inoltre gli attuali «Monti bond» sono erogati a condizioni assai più severe dei «Tremonti bond» che quattro anni fa l’allora ministro dell’Economia sarebbe stato ben lieto di concedere non solo al Monte dei Paschi, ma a tutte le altre banche che li avessero richiesti (si arrabbiò perfino, quando Intesa Sanpaolo e Unicredit li rifiutarono).

 

Il Monte si è messo nei guai perché un gruppo di potere locale premoderno, dove dominavano amministratori con tessera Pd, si è ubriacato delle sregolatezze rese possibili dalla grande finanza globale. Ma il rappresentante di quel gruppo non sarebbe diventato nel 2010 presidente dei banchieri italiani se non avesse goduto dell’appoggio di Giulio Tremonti (al quale ripeteva di frequente omaggi, basta consultare i giornali).

Gli ispettori della Banca d’Italia avevano scoperto subito che era irregolare l’operazione denominata «Santorini», non invece la «Alexandria», mascherata meglio grazie alla complicità della banca giapponese Nomura. Fu la Banca d’Italia a esigere un aumento di capitale per sopportare il costosissimo acquisto della Antonveneta; non rientrava in alcun modo nelle competenze della vigilanza indagare se dentro vi fosse nascosta una tangente.

 

Il rischio ora è che una campagna elettorale aspra quanto mai causi danni permanenti. Ci sono nella vicenda responsabilità politiche e di quelle è bene che si parli. I magistrati indagano sui reati e ci diranno chi deve essere punito. Ma un generico «dagli al banchiere», oltre a confondere innocenti e colpevoli, può solo diffondere sfiducia sull’Italia nel suo insieme.

 

Ricordiamoci tra l’altro che la crisi dell’euro si è aggravata a partire dall’ottobre 2010, quando a Deauville Nicolas Sarkozy e Angela Merkel vollero dare a intendere che il dissesto dei Paesi deboli l’avrebbero fatto pagare ai banchieri. Fu invece quella dichiarazione irresponsabile ad aggravare la situazione per tutti, scaricando più austerità sui cittadini.

da - http://lastampa.it/2013/01/31/cultura/opinioni/editoriali/sui-controlli-non-vale-fare-demagogia-RNtouDEtu4nagIYCwqlDTO/pagina.html


Titolo: Stefano Lepri. Scricchiola il mito dell’austerità
Inserito da: Admin - Aprile 18, 2013, 06:24:18 pm
Economia
18/04/2013 - scontro tra economisti

Scricchiola il mito dell’austerità

Rogoff, uno dei due autori del volume che sostiene che il debito, quando cresce oltre il 90% del pil, azzera la crescita

Rogoff: “Con il debito alto poco sviluppo”

Stefano Lepri
Roma

L’alto debito pubblico è una palla al piede della crescita economica? Forse no, o forse non tanto. Negli Stati Uniti una disputa accademica tra economisti sta diventando materia di dibattito diffuso, dilaga su Twitter, viene rilanciata nel mondo dalle agenzie di stampa. Si scopre che sono sbagliati i calcoli di un libro famoso, pubblicato anche in Italia: «Questa volta è diverso. Otto secoli di crisi finanziaria» (Il Saggiatore 2010). 


Gli autori, il celebre Kenneth Rogoff e Carmen Reinhart nata Castellanos, docenti a Harvard, concludevano che quando in un Paese il debito pubblico supera il 90% rispetto al prodotto lordo, la crescita economica si azzera. Avevano rielaborato i dati di venti Paesi avanzati dal 1945 in poi. Ora altri tre economisti, della poco lontana università statale del Massachusetts, hanno scoperto due punti deboli in quel lavoro: un errore materiale e una ponderazione discutibile. Rifacendo i conteggi, i tre – Michael Ash, Thomas Herndon e Robert Pollin – dagli identici Paesi nei medesimi anni raggiungono un risultato assai meno persuasivo: un solo punto in meno di crescita dove il debito è oltre il 90%, rispetto a dove è tra il 60% e il 90% del Pil (ovvero 2,2% annuo contro 3,2%). Reinhart e Rogoff riconoscono l’errore, ma insistono che la differenza è significativa usando anche altre serie di dati, che prendono in considerazione più Paesi e più anni. 

 
In poche ore, la polemica si è allargata a dismisura. Negli Usa ha estrema attualità politica, con la Camera a maggioranza repubblicana che sostiene l’urgenza di ridurre il deficit tagliando la spesa, mentre la sinistra preme su Barack Obama perché attenui l’austerità finché i disoccupati sono tanto numerosi.

 
Rogoff, consigliere di John McCain nella campagna elettorale del 2008 oltre che Gran Maestro di scacchi, è un repubblicano moderato. Il Premio Nobel Paul Krugman, capofila degli economisti di sinistra, si getta nella mischia a testa bassa come suo solito: pur non mettendo in dubbio la buona fede di Rogoff, gli rimprovera di perseverare nell’errore.

 
Facendo i conti anche lui sui soli Paesi del G-7, Krugman nota che la relazione tra debito e bassa crescita vale per Giappone e Italia, non vale affatto per la Gran Bretagna. Mentre Ash, Herndon e Pollin professano cautela, lui taglia netto: «La storia ci dice che sia l’Italia, sia soprattutto il Giappone, hanno fatto ingenti debiti a causa della bassa crescita, non il contrario».

 
In Italia non ne siamo tanto sicuri. Il nostro debito pubblico si gonfiò soprattutto negli anni ’80, quando l’economia non andava affatto male, 2,5% di crescita in media all’anno, contro il 2,4% scarso della Germania. E che sia un grave rischio, questo debito, lo abbiamo sperimentato in abbondanza prima nel 1992, con la lira, poi nel 2011, con l’euro. Se indebitarsi fosse sempre efficace, molti nostri governi sarebbero riusciti a mantenere le loro promesse.

 
Il dibattito tra gli economisti ferve, e continuerà. Il libro di Reinhart e Rogoff era piaciuto a molti per le parti sull’euforia finanziaria che porta alle crisi, e sulle illusioni con cui la gente si tappa gli occhi quando vi partecipa; resta valido anche se la correlazione stretta tra debito pubblico e crescita cade. Del resto il Fondo monetario internazionale, fino a ieri gran predicatore dell’austerità, oggi sostiene che in Europa rischiamo di averne troppa, anzi esorta la Germania a spendere un po’ di più.

 
Di risparmio ce n’è tanto nel mondo, ce n’è anzi in eccesso. Lo stesso Rogoff lo ha scritto più volte. E se i privati non investono, in una certa misura a questo risparmio è bene che attingano gli Stati. Il guaio è che con una finanza mondiale instabile forse solo gli Stati di cui i mercati si fidano, come gli Usa, possono continuare a indebitarsi senza rischio; mentre dell’Italia si fidano poco.

da - http://lastampa.it/2013/04/18/economia/scricchiola-il-mito-dell-austerita-BsDxTvxF5MvnNy8EYQA62M/pagina.html


Titolo: STEFANO LEPRI. Bisogna uscire dall’austerità senza sbandare
Inserito da: Admin - Maggio 03, 2013, 05:50:11 pm
Editoriali
03/05/2013

Bisogna uscire dall’austerità senza sbandare


Stefano Lepri

Se c’è spazio per ridurre le tasse, prima tocchi a quelle sul lavoro. Bastava forse il buon senso ad arrivarci, ora ce lo raccomanda l’Ocse con corredo di analisi economiche. Perfino il nuovo Papa parla molto di lavoro. Invece la politica italiana rischia di portarci altrove.

 

Se il lavoro manca, è anche perché le nostre imprese spendono molto per impiegare dipendenti ai quali in tasca arriva poco. 

 

L’Ocse ci avverte che lo svantaggio rispetto agli altri Paesi è maggiore proprio per i lavoratori a reddito più basso; a favore dei quali avevano già suggerito di intervenire i «saggi» nominati dal presidente della Repubblica.

 

Nel discorso programmatico di Enrico Letta questo punto c’era. Ma l’impuntatura del Pdl, o forse di una parte del Pdl, sull’Imu, rischia di spingere verso un uso assai meno efficace delle poche risorse a disposizione. Tanto più che il voto amministrativo a Roma e altrove fra 3 settimane rende difficile agli altri partiti dire di no.

 

Ragioni economiche consigliano casomai di alleggerire l’Imu sulle case più modeste, non di toglierla a tutti. Ragioni di buona politica – esposte giorni fa anche dal Foglio, quotidiano vicino al centrodestra – consigliano di utilizzare la tassa immobiliare come prima fonte di finanziamento dei Comuni: i sindaci stanno più attenti a quanto spendono se gli elettori sanno di quali entrate fiscali chiedergli conto.

 

Sarebbe poi ora di riflettere su dove ci hanno condotto quindici anni di focalizzazione ossessiva della politica sulla questione delle tasse. All’inizio molti avevano sperato che fosse utile a contenere l’eccessiva spesa pubblica. Le cifre invece dimostrano che proprio quando più si ripeteva il ritornello «meno tasse» la spesa è cresciuta.

 

Sui contribuenti corretti la pressione tributaria non è calata mai; mentre i pretesti e le scappatoie per l’evasione sono aumentati. Ad esempio nel rapporto Ocse di ieri si legge che dall’Iva l’Italia nel 2011 ricavava (in proporzione al nostro reddito che è ovviamente più alto) pressappoco quanto la Turchia, dove l’aliquota principale dell’imposta era più bassa, 18%.

 

Proprio a causa del peso del passato oggi l’Italia non può reagire alla recessione con un energico calo delle tasse. Siamo arrivati alla grande crisi carichi di troppo debito. Noi stessi, noi italiani, di fronte al rischio di non vederlo più ripagato per intero sposteremmo in massa i capitali all’estero; i severi obblighi europei sono solo conseguenza di una fragilità che è nei fatti.

 

Non servono nuove manovre restrittive. Oltretutto è caduto il mito che l’austerità esercitasse da subito effetti benefici: quando Mario Draghi ieri ha detto di non averlo mai creduto, con garbo si distingueva dal suo predecessore Jean-Claude Trichet. Ma proprio per non rendere inutili i sacrifici fin qui compiuti, ha aggiunto, bisogna stare attenti a non creare nuovi fattori di instabilità.

 

Dall’austerità occorre uscire senza sterzare troppo in senso opposto. Tornare ad aumentare il deficit pubblico sarebbe pericoloso. Proposte davvero incisive per tagliare le spese non ne arrivano, quando in teoria una grande coalizione dovrebbe offrire il supporto ideale. Concentrandosi sulla casa – come, da altre parti politiche, sulle pensioni – si insegue un elettorato vecchio, mentre il lavoro manca ai giovani. Con i pochi soldi che ci sono, meglio aiutare chi davvero non arriva alla fine del mese, e invogliare le imprese ad assumere.


da - http://lastampa.it/2013/05/03/cultura/opinioni/editoriali/bisogna-uscire-dall-austerita-senza-sbandare-IUmImcm6NhwzbN0htGrHTM/pagina.html


Titolo: STEFANO LEPRI. Un’Europa senza ricette
Inserito da: Admin - Maggio 18, 2013, 05:24:45 pm
Editoriali
16/05/2013

Un’Europa senza ricette

Stefano Lepri


Il commento meno deprimente degli economisti è «forse abbiamo toccato il fondo». Quasi tutta l’Eurozona è impantanata nella recessione; perfino la Germania procede a fatica. 

 

La debole ripresa che avevamo sperato di vedere prima dell’estate è ora rinviata a dopo. Per l’Italia è ormai troppo poco prevedere un «decennio perduto».

 

Gli anni necessari per tornare al livello di reddito precedente alla crisi finanziaria saranno forse una dozzina.

 

Da solo il nostro Paese – non illudiamoci – può fare poco. Già non sarebbe facile il compito per un governo di larghe intese dove i partiti si coprissero le spalle a vicenda sull’iniziale impopolarità delle misure necessarie a ripartire. Abbiamo invece, dietro le indubbie qualità del presidente del Consiglio e del ministro dell’Economia, una coalizione che sembra orientarsi sul principio, per così dire, del «minimo comune demagogico». 

 

Invece di un progetto, si profilano compromessi tra contrastanti esigenze di propaganda. Useremo nel 2013 e nel 2014 tutto lo spazio concesso dalla originaria regola dell’euro, il deficit pubblico entro il 3% del Pil. Per fronteggiare una recessione così grave alcuni suggeriscono una deroga. Ma non è questione di Paesi nordici cattivi: nelle condizioni dell’Italia un deficit superiore al 3% renderebbe il debito pubblico visibilmente insostenibile.

 

Una deroga avrebbe senso se lo sforamento del 3% durasse un solo anno e se i soldi fossero spesi bene, accompagnati a riforme di svolta, tipo ripensare da capo la burocrazia. Chi è in grado di garantirlo? Se nemmeno noi italiani ci fidiamo di noi stessi, come risulta dal grande sondaggio dell’americana Pew pubblicato l’altro giorno, possiamo pretendere che si fidino gli altri?

 

Non che altrove le idee abbondino. Ad esempio la doppia intervista pubblicata ieri dal quotidiano francese «Les Echos», al tedesco Juergen Stark ex membro dell’esecutivo Bce, e al ministro Arnaud Montebourg, ala sinistra del governo di Parigi, contrappone banalità ugualmente sterili. La Francia non sa spiegarsi perché soffra quando le sue imprese pagano tassi di interesse esigui, un sogno di qua dalle Alpi. La Germania ha denunciato per mesi pericoli di inflazione e ora l’aumento dei prezzi è all’1,2% appena.

 

Poco utile tuttavia è recriminare sui dissidi tra nazioni. La stretta di bilancio collettiva dei due anni passati, che ora constatiamo esagerata, fu imposta solo e soltanto dall’instabilità dei mercati; ricordiamoci che l’Italia è andata vicina al crack nel novembre 2011. L’ideologia nordica del rigore ha aggiunto il suo peso solo più tardi, inducendo a perseverare contro l’evidenza.

 

E se il problema maggiore resta l’instabilità dei mercati finanziari, c’è di peggio del goffo apparato europeo di regole di bilancio sulla carta feroci e di deroghe contrattate caso per caso senza trasparenza. Gravissima è l’omertà tra i governi e i poteri bancari nazionali che impedisce di giungere in fretta a un assetto solido del credito – l’unione bancaria – pur di non cedere potere.

 

La Borsa che sale in una giornata di ieri ci dice quanto la situazione sia fragile. Nel mondo gli Stati Uniti e il Giappone creano moneta in abbondanza che tiene bassi anche i tassi del debito pubblico italiano e alte anche le nostre quotazioni azionarie. Stanno facendo per noi una scommessa che l’area euro divisa non è stata capace di fare, eppure anch’essa un ripiego nell’incapacità di rendere la finanza più stabile. Con tutti i suoi limiti, c’è solo da sperare che gli riesca.

da - http://lastampa.it/2013/05/16/cultura/opinioni/editoriali/un-europa-senza-ricette-BwGDeu5WKveMsWLYDNpTwN/pagina.html


Titolo: STEFANO LEPRI. Poche risorse, vanno messe sulla crescita
Inserito da: Admin - Giugno 15, 2013, 08:41:35 am
Editoriali
14/06/2013

Poche risorse, vanno messe sulla crescita

Stefano Lepri

Sempre più difficile! L’esercizio di equilibrio di un governo che i vari pezzi della sua maggioranza sballottano in direzioni diverse nella giornata di ieri è diventato più affannoso. Il vicepresidente del Consiglio enumerava una serie di obiettivi di politica economica. 

 

Nel contempo il ministro dell’Economia dichiarava di non poterli raggiungere tutti insieme salvo tagli alle spese severissimi «al momento non rinvenibili». 

 

All’esterno, alcuni limiti sono meglio definiti. Il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schaeuble boccia l’idea di esentare gli investimenti dal calcolo del deficit; da settimane i nostri politici ci si trastullavano facendo finta di non capire che l’allentamento di regole in discussione a Bruxelles riguardava materie assai più circoscritte.

 

Inoltre, gli umori dei mercati internazionali sono cambiati: «per motivi del tutto estranei alla politica italiana», secondo le parole di Fabrizio Saccomanni, ma sono cambiati. Ora si attende un rialzo dei tassi. Non si può più sperare in minori spese sugli interessi dei titoli di Stato.

 

Dall’Europa qualcosa lo avevamo già ottenuto. Il comune giudizio che la dose di austerità fin qui adottata sia sufficiente ha aperto nuovi margini sul bilancio 2014. Ciò nonostante, all’interno il gioco al rialzo continua. Si è data l’impressione che la fine della procedura contro l’Italia per deficit eccessivo (che poi ufficialmente chiusa ancora non è) potesse autorizzarci a peccare di nuovo, da subito. A questo si riferisce il richiamo arrivatoci nel bollettino della Bce.

 

Tutto insieme non si può fare: detassare le assunzioni dei giovani, evitare l’aumento Iva già previsto per legge il 1° luglio, togliere l’Imu sulla prima casa, ridurre il «cuneo fiscale» alle imprese, e chissà che altro. Occorre fare delle scelte; possibilmente evitando di dare retta a chi strilla di più e ragionando a mente fredda su che cosa è più utile.

 

Difficile riuscirci, se una componente della maggioranza continua a insistere che due più due fa tre e un’altra che quattro meno tre fa due. Un contributo a rimettere i piedi per terra l’ha dato ieri la Banca d’Italia: non è affatto vero che la proprietà della casa sia tartassata da noi, dato nella media con l’Imu paghiamo poco più della metà di quanto il fisco pretende in Francia e in Gran Bretagna.

 

Se una revisione dell’Imu va fatta, è solo per correggerne alcuni difetti. Nel frattempo, è logico che il governo rinunci a bloccare l’aumento dal 21 al 22% dell’aliquota principale dell’Iva. Proprio in una fase di consumi fiacchi come questa, l’effetto sui prezzi dovrebbe risultare contenuto. Non è nemmeno esatto che ne sarebbero danneggiati i più poveri, perché sui beni di prima necessità le aliquote agevolate resteranno ferme.

 

La priorità va riconosciuta nel lavoro. Il presidente del Consiglio la enuncia spesso, ma ora occorre passare ai fatti. Su come perseguirla girano idee diverse, gli industriali ne hanno alcune, i sindacati altre, altre categorie altre ancora; i partiti si cimentino su questo, su come trovare un filo comune tra le richieste degli uni e degli altri, invece di ripetere gli slogan che vengono meglio in tv. 

 

Un sondaggista noto rifletteva giorni fa che dai cittadini la politica viene sentita lontanissima proprio ora che i partiti ordinano di continuo sondaggi di opinione, arricchendo la sua ed altre aziende che li svolgono. Beppe Grillo lo fa con la Rete, ma il risultato è ugualmente inconcludente, come sempre di più si vede. Se è giustificato che esistano politici di professione, è perché occorre l’arte di capire che cosa unisce un Paese frammentato, guardando in avanti. La si mostri.

DA - http://lastampa.it/2013/06/14/cultura/opinioni/editoriali/poche-risorse-vanno-messe-sulla-crescita-xmC4b5BmFpUO7OPHW3zssI/pagina.html


Titolo: STEFANO LEPRI. La scommessa è guadagnare un po’ di tempo
Inserito da: Admin - Giugno 27, 2013, 04:03:01 pm
Editoriali
27/06/2013

La scommessa è guadagnare un po’ di tempo

Stefano Lepri


I provvedimenti di ieri sui giovani e sul lavoro sono un esempio, modesto, di che cosa un governo può fare di buono nella situazione attuale.

Il rinvio dell’aumento Iva, all’opposto, è un esempio assai significativo di come non si deve fare. Tanto più perché lo stesso errore che rischia di ripetersi nei prossimi mesi.

Se i soldi nelle casse dello Stato non ci sono, coprire un calo di tasse da una parte con un aumento di tasse dall’altra non è necessariamente dannoso.

Si possono sostituire tributi che frenano di più la crescita economica con altri che la frenano di meno. Ma non è questo il caso. 

Ricordiamo come ci siamo arrivati. Si parte dalla richiesta che il governo attui la principale promessa elettorale del Pdl, abolire l’Imu sulla prima casa. Il governo rinvia i versamenti e prende tre mesi per decidere. Frattanto arriva a scadenza il già deciso aumento dell’aliquota principale Iva: il Pd ribatte sostenendo che sarebbe meglio evitare questo.

Circa quattro miliardi in ragione annua da una parte, quattro miliardi dall’altra. Il Pdl rilancia, chiedendo di fare tutte e due le cose insieme: raddoppia la posta nel piatto, otto miliardi. Poco conta che le istituzioni internazionali e l’Europa ci ripetano che le tasse sul patrimonio, come l’Imu, sono le meno dannose alla crescita, seguite da quelle sui consumi, come l’Iva.

Sulle coperture il governo ha promesso una parola definitiva oggi. Resta alto il rischio che il rinvio dell’Iva sia compensato da aggravi di altre imposte sui consumi, se non addirittura da un anticipo dell’acconto Irpef (imposta sul reddito, più dannosa per la crescita). Dopodiché in Parlamento si riaprirà una gara fra i partiti per trovare coperture sostitutive, escogitando misure di «finanza creativa» (già ne circolano) o tagli di spesa irreali.

Già, i tagli di spesa. In teoria sono la maniera migliore di evitare un aumento di tassazione. In realtà una politica debole sa bene che per attuare tagli veri occorre colpire interessi concentrati, più capaci di vendicarsi rispetto alla massa diffusa dei contribuenti. Negli anni pre-crisi, tra l’altro, le spese erano cresciute più sotto i governi di centro-destra che sotto quelli di centro-sinistra, al contrario di quanto ci si poteva aspettare.

Per ridurre le spese in misura significativa occorre rivedere a fondo il funzionamento della macchina dello Stato: lavoro non breve per il quale all’attuale maggioranza manca la voglia oltre che la prospettiva di tempo. Si gradirebbero proposte dall’opposizione, dove però manca la competenza per elaborarle.

Proprio a causa delle risorse sprecate per tener dietro alla demagogia tributaria, sono limitate le risorse per l’impiego dei giovani. Se non altro il provvedimento è mirato con attenzione, sulla base dei dati, verso la tipologia più sfavorita nel momento attuale.

La scommessa di Enrico Letta sembra di prendere tempo nel modo più decente possibile, in attesa che la situazione migliori. Ma, a parte un barlume di ripresa economica, che cosa può portarci l’autunno?

da - http://lastampa.it/2013/06/27/cultura/opinioni/editoriali/la-scommessa-guadagnare-un-po-di-tempo-WfqbuJXoQWAUmFhaaBZWcP/pagina.html


Titolo: STEFANO LEPRI. Lasciate che gli stranieri vengano a noi
Inserito da: Admin - Agosto 06, 2013, 11:54:36 am
Editoriali
06/08/2013 - fiducia e investimenti

Lasciate che gli stranieri vengano a noi

Stefano Lepri


Il governo non cade e l’agosto può trascorrere tranquillo, senza burrasche sui mercati finanziari. Però la tenue ripresa economica che si comincia a intravedere non ci porterà grande sollievo, se Enrico Letta e i suoi ministri continueranno settimana dopo settimana, mese dopo mese, ad essere paralizzati dai ricatti di una campagna elettorale permanente. La sfiducia tornerebbe a crescere, all’interno come all’estero. 

Non si può governare bene quando chi fa parte della maggioranza, invece di puntare su ciò che è realizzabile (in modo da rivendicare poi: «Per merito nostro sono state fatte cose buone») punta quasi soltanto su ciò che è irrealizzabile («Per colpa degli altri non si è concluso nulla»). Al di là della disordinata rissosità degli alleati-rivali, e delle loro divisioni interne, c’è un motivo di fondo per cui questo avviene.

Purtroppo con una amministrazione pubblica nello stato in cui si trova, non fare è molto più facile che fare. E’ scarsa la capacità di prendere in breve tempo misure i cui risultati vengano percepiti dagli elettori. 

Lo vedono anche gli stranieri: alla nascita dell’attuale governo un editoriale del «Financial Times», con freddo paradosso, lo esortava a lasciare l’economia a se stessa e a concentrarsi sulle riforme politiche.

Quel consiglio anglosassone non poteva essere seguito, in un Paese come il nostro dove tra gli operatori economici è assai raro l’invito alla politica di «lasciarli fare». Ma già ascoltare ciò che le forze sociali chiedono – meno tasse sui redditi bassi, i sindacati; togliere l’Irap dal costo del lavoro, la Confindustria – sarebbe un passo avanti rispetto al dibattito politico corrente su Imu e Iva.

Oltretutto la ricerca affannosa di spunti di propaganda rende ancor più difficile ai funzionari pubblici compiere il loro dovere. All’indomani dei controlli anti-evasione in alcuni luoghi di vacanza uno dei maggiorenti del Pdl, Maurizio Gasparri, afferma che sarebbe stato meglio evitarli. Già nel Pd, indizio certe recenti parole del viceministro Stefano Fassina, serpeggiava il timore di restare scoperti su questo fianco.

Mostrare che lo Stato esiste, che le leggi vengono rispettate, è un requisito essenziale perché l’economia di mercato funzioni, e dunque anche per la ripresa. La burocrazia intralciava il governo Monti perché teme i tecnici meno dei politici; il rischio adesso è che debba barcamenarsi tra pressioni contrastanti delle diverse forze di maggioranza, e di nuovo tuteli il proprio potere con i rinvii. 

Paralisi o decisioni sbagliate potrebbero portare danno nei prossimi mesi. Per ora sui mercati prevale l’impressione che la crisi europea sia, benché con lentezza, in via di superamento. Agli interrogativi che circolavano sul nostro sistema creditizio, Governo e Banca d’Italia hanno ribattuto ieri con un messaggio di fiducia. Le banche italiane non corrono pericoli; tuttavia, va detto che se avessero più capitale farebbero meglio il loro mestiere di fornire credito alle imprese.

Sia per le banche, sia per le industrie, sarà meglio evitare di stracciarsi le vesti nel caso si presentino investitori stranieri. Il sistema economico italiano soffre di carenza di capitale e i capitali sono altrove. Magari si diffondesse nel mondo abbastanza fiducia nell’Italia – una burocrazia non paralitica, una magistratura che fa rispettare le leggi – perché altri si accorgano che ci si possono fare buoni affari.

da - http://lastampa.it/2013/08/06/cultura/opinioni/editoriali/lasciate-che-gli-stranieri-vengano-a-noi-GL4dGrnVKCAE8UiFMGfjBL/pagina.html


Titolo: STEFANO LEPRI. Roma e Berlino, la politica guarda solo agli anziani
Inserito da: Admin - Novembre 13, 2013, 04:27:37 pm
Editoriali
10/11/2013

Roma e Berlino, la politica guarda solo agli anziani

Stefano Lepri

Italia e Germania hanno un importante tratto in comune: tra gli elettori acquistano sempre più peso gli anziani. È naturale che gli anziani si preoccupino del patrimonio e della pensione più che del lavoro e dell’impresa. Così in Italia si parla troppo di tasse sulla casa, e meno di altre tasse.

Invece in Germania meno famiglie possiedono la casa, molte hanno il risparmio investito in assicurazioni vita e fondi pensione: il calo dei tassi Bce è impopolare, perché ne fa calare i rendimenti. 

Su questo fanno poi leva interessi finanziari che guadagnano dal prolungarsi della crisi dell’euro, e ostacolano Mario Draghi quando tenta di risolverla.

La caratteristica comune spinge dunque i due Paesi in direzioni opposte, e aggrava le incomprensioni. Ai tedeschi pare insensato cancellare l’Imu, irresponsabile non mettere mano a tutto quello che non funziona nel nostro Stato. A noi – ma anche ad altri – sembra assurdo che la Germania protesti contro il basso costo del denaro, aiuto importante per uscire dalla crisi.

Forse è l’anteprima di problemi che investiranno tutti i Paesi avanzati. Lo spunto italiano fa prevedere a Tyler Cowen, brillante economista liberista, che anche negli Usa prima o poi il dibattito politico si concentrerà sulle tasse patrimoniali, pur se per ragioni diverse: come via per correggere le crescenti disuguaglianze generate da un’economia più dinamica (il nuovo sindaco di New York ci sta pensando).

In Europa, dove la crescita langue, le ragioni del patrimonio – abbondante, accumulato in decenni di benessere – possono contrastare con quelle della produzione. Ci ragiona anche il Fmi. Se si vogliono chiamare a raccolta tutte le risorse disponibili per rilanciare lo sviluppo, occorre che contribuiscano anche le ricchezze non direttamente impegnate nelle imprese. Però le resistenze saranno forti.

Può darsi che una collaborazione tra sinistra e destra serva ad affrontare in modo equilibrato la sfida nuova. Tuttavia, se confrontiamo la contesa sulla legge di Stabilità con le trattative per una nuova «grande coalizione» a Berlino, il parallelismo tra i due Paesi in gran parte cade. Sono rare le somiglianze: ad esempio, come il Pd chiede di modificare la riforma Fornero votata due anni fa, i socialdemocratici si pentono di aver detto sì all’aumento a 67 anni dell’età di pensione durante la precedente esperienza di governo con Angela Merkel.

Nell’insieme, i due grandi partiti tedeschi stanno confrontando solide ragioni di destra con solide ragioni di sinistra. I socialdemocratici vogliono aumentare le tasse ai ricchi per finanziare istruzione e ricerca; propongono un salario minimo per proteggere i più deboli. I cristiano-democratici hanno promesso di non aumentare le tasse; temono che un salario minimo danneggi le piccole imprese e scoraggi le assunzioni.

Lasciamo stare che agli occhi del resto del mondo – e del Tesoro Usa in prima fila – sarebbe bene accontentare entrambi: niente aumenti di tasse e più spese sociali. Nella terribile asimmetria causata insieme dalle difficoltà dell’euro e dall’eredità del passato, il bilancio pubblico tedesco offre spazi che la politica tedesca esita ad usare, il bilancio italiano obbliga al rigore pur se i nostri partiti fanno a gara nel dimenticarselo.

Trovare qualcosa per i giovani è arduo, dentro il diluvio di emendamenti presentati in Senato. Dei 4 miliardi di maggiori spese per il 2014 solo la metà può forse essere utile per la crescita; i partiti premono per nuovi oneri finanziati con espedienti. Ed è in nome di questo che si vuole convincere l’Europa a concederci deroghe? Come se non bastasse, c’è Beppe Grillo che promette il Paese della cuccagna.

Da - http://lastampa.it/2013/11/10/cultura/opinioni/editoriali/roma-e-berlino-la-politica-guarda-solo-agli-anziani-H04Mqlf4V5EMUEJ6ssoQPM/pagina.html


Titolo: STEFANO LEPRI. Bruxelles batte un colpo
Inserito da: Admin - Novembre 18, 2013, 10:14:27 pm
Editoriali
14/11/2013

Bruxelles batte un colpo

Stefano Lepri

Allora la Commissione europea esiste! Ieri forse per la prima volta abbiamo assistito a un buon uso dei nuovi poteri che con la crisi sono stati affidati all’esecutivo guidato da José Barroso. Quel poco di governo comune indispensabile per tenere insieme l’area euro si realizza proprio così: rimproverare anche i Paesi più forti, non solo – come è troppo facile – quelli più deboli. 

Un aiuto importante, a dire il vero, lo avevano dato gli Stati Uniti, con le loro critiche alla Germania di due settimane fa. Ma molto altro andrà fatto, nei prossimi mesi, per frenare quelle dinamiche politiche profonde che stanno allontanando tra loro le tre maggiori nazioni dell’euro, Germania Francia e Italia.

I tedeschi stanno già reagendo con dispetto alle critiche della Commissione verso il loro enorme surplus nei conti con l’estero. «I Paesi deboli ci vogliono far diventare inefficienti come loro» diranno in molti. Nelle ultime elezioni, a stragrande maggioranza gli elettori hanno scelto partiti responsabili; ma a sviluppare discorsi irresponsabili sono gruppi di potere forti, presi da un nazionalismo economico di cui non si scorge bene l’obiettivo.

Il successo tedesco nell’export industriale è meritato. Ma ha accumulato in poche mani capitali ingenti che non vengono investiti dentro il Paese (i nazionalisti estremi danno anche di questo la colpa all’euro), anche perché il settore dei servizi è rigido e poco efficiente. Anni di moderazione salariale hanno reso i lavoratori ultrasensibili all’inflazione e alle tasse; facile fargli temere che la cooperazione con i Paesi deboli implichi altri sacrifici. 

In realtà la Germania deve imparare a star meglio con sé stessa, a sfruttare appieno, a favore di tutti i tedeschi, le prestazioni straordinarie della sua industria. In quel senso vanno i consigli che gran parte del mondo esterno gli rivolge; e che non possono esser fatti passare come una richiesta di elemosina dal Meridione latino. A che serve guadagnare esportando, insomma, se non si sanno trovare sbocchi produttivi per tutti quei soldi? Prima della crisi li avevano messi nell’immobiliare irlandese o spagnolo, ora fuori dall’area euro, chissà dove nel mondo.
 
A Parigi, invece, la politica appare paralizzata. Il Paese cerniera tra forti e deboli dell’euro sarebbe il più adatto a indicare come andare avanti tutti insieme; non ne è capace. Certo, se l’economia della Francia avesse tutte le pecche che gli vedono i tedeschi, sarebbe al collasso da un pezzo; invece sta in piedi. Ma anche lì si moltiplicano i segni di un declino, sia pure a un passo molto più lento di quello italiano. Come è tipico della storia francese, il malcontento potrebbe esplodere tutto d’un tratto, a sorpresa.

Tutti e tre i Paesi sono esposti alla tentazione di trovare capri espiatori all’estero. Nel caso tedesco, il fardello dei Paesi deboli dell’euro; nel caso francese, le riforme sgradite che l’Europa suggerisce; nel caso italiano, i vincoli di bilancio imposti dalle regole del «Fiscal compact». In tutti e tre i casi si tratta di falsità che coprono gravi colpe interne. Nel nostro caso, il tetto del 3% al deficit lo avevamo violato in tutti gli anni dal 2001 al 2006, senza visibili benefici.

L’azione europea a carico della Germania serve a mostrare che di obblighi verso i Paesi vicini ne esistono per tutti. Ieri il governo italiano, nella sua fragile condizione politica, è riuscito a presentare la legge di stabilità 2014 come il minor male rispetto a tutte le possibili alternative. Ma chi da Bruxelles vede la bassa qualità degli emendamenti presentati può ben dirci che i vincoli europei ci stanno soprattutto impedendo di farci male da soli.

Da - http://www.lastampa.it/2013/11/14/cultura/opinioni/editoriali/bruxelles-batte-un-colpo-odqxne1yvasrbUoscZJgLO/pagina.html


Titolo: STEFANO LEPRI. Ma troppi ricevono già soldi pubblici
Inserito da: Admin - Dicembre 11, 2013, 11:40:20 am
Editoriali
11/12/2013

Ma troppi ricevono già soldi pubblici

Stefano Lepri

E’ difficile guardare dentro a una protesta caotica, somma di rabbie disparate. Ma alcuni focolai da dove si grida contro «i politici che rubano i soldi delle nostre tasse» hanno una sorprendente caratteristica in comune: nascono dentro categorie ben assuefatte a ricevere denaro pubblico.

Una frangia ribelle di autotrasportatori anima la protesta dei «forconi»: nell’ultimo decennio il settore ha ricevuto a vario titolo sussidi per circa 500 milioni di euro l’anno. Due settimane fa, Genova era stata bloccata dagli autoferrotranvieri contrari a una inesistente «privatizzazione», quando nel trasporto locale fino a tre quarti dei costi sono coperti con denaro del contribuente.

La crisi esaspera; la rabbia spinge a schierarsi dietro i più determinati a battersi. Il guaio è che, nel crescente dissesto del sistema italiano, i più determinati spesso hanno esperienza nello sfruttarne i benefici. Poi per ricucire tutto si inveisce contro Equitalia, che ha vessato a torto parecchie persone perbene, ma tra i cui nemici gli evasori è probabile siano in maggioranza.

E’ una protesta che guarda al passato, già tenta di riassumere il Censis; anzi è un passato che si rivolta contro sé stesso. Nelle sessioni di bilancio parlamentari come di fronte ai consigli comunali da anni prevalgono, a svantaggio degli elettori, gruppi di interesse piccoli e compatti, capaci non soltanto di gestire pacchetti di voti ma di bloccare il Paese con le loro agitazioni.

Ora scontenti di ogni tipo sono tentati di mettersi al loro traino nelle piazze, con effetti paradossali. Possono alcuni autotrasportatori, insoddisfatti dei 330 milioni di specifiche agevolazioni tributarie per il 2014 già ottenuti dalle associazioni di categoria, ergersi a simbolo del malcontento antifisco di tutti? Forse si tratta solo della speranza che almeno loro riescano ad ottenere qualcosa.

Nel trasporto cittadino invece è normale che si spenda denaro pubblico, perché il mezzo collettivo è un risparmio per tutti; ma in altri Paesi lo Stato copre una parte inferiore dei costi, circa metà, e i servizi funzionano meglio. La «privatizzazione» sarebbe in realtà l’ingresso di altri operatori pubblici, come Trenitalia, Deutsche Bahn (Stato tedesco), Ratp (Stato francese), non legati – a differenza dei sindaci – all’immediato tornaconto elettorale.

Insomma il Paese per non poterne più rischia rimedi peggiori del male: ulteriori aumenti della spesa pubblica oppure delle agevolazioni fiscali mirate qui o là, in un do ut des imbarbarito tra piazza e politica. Mentre, ad esempio, la vita del camionista migliorerebbe facendo rispettare la legge sulle strade, limiti di velocità, carichi, orari, reprimendo le intermediazioni più o meno malavitose, evitando che il lavoro nero prevalga sull’impresa in regola.

Vediamo l’esito estremo di una politica che ha cercato di immischiarsi in tutto, mancando invece al dovere di far funzionare le strutture basilari dello Stato. Il sospetto della corruzione, in più casi fondato, dilaga fino a diventare un pretesto invocando il quale chiunque può sottrarsi alla legge (quanti romani salgono ora in autobus senza pagare giustificandosi con lo scandalo dei biglietti falsi?).

L’unica via è ritracciare in modo trasparente il confine tra ciò che lo Stato fa e non fa. Una parte della responsabilità deve ritornare ai cittadini: se un servizio comunale è gestito male, perché non lasciarlo organizzare in proprio a associazioni di luogo o di categoria? Ridurre i costi della politica e revisionare la spesa pubblica da cima a fondo sono le due parti inseparabili di un compito urgentissimo: ridurre l’uso clientelare dello Stato. Purché non sia troppo tardi.

Da - http://lastampa.it/2013/12/11/cultura/opinioni/editoriali/ma-troppi-ricevono-gi-soldi-pubblici-GWC6dSoJzUHKlkMueJDFJO/pagina.html


Titolo: STEFANO LEPRI. La scommessa sull’economia
Inserito da: Admin - Gennaio 16, 2014, 04:54:44 pm
Editoriali
15/01/2014

La scommessa sull’economia
Stefano Lepri

Tra gli incubi dei tedeschi sull’Europa, una crisi della Francia era il peggiore. Sarebbe stata brusca, con effetto di valanga, e nemmeno la Germania avrebbe avuto le forze per frenarla. Solo il solido legame politico tra i due Paesi, che regalava a Parigi una fiducia salda dei mercati, ha concesso alla sinistra francese questo lungo anno e mezzo di tempo, dopo il ritorno al potere, per chiarirsi le idee su come governare. 

Non a caso ieri François Hollande, nell’annunciare (senza riconoscerla nei termini) la svolta liberale del suo socialismo, ha anche puntato tutte le sue carte sull’intesa con Berlino. C’è ora un motivo sostanziale per riavvicinare le due economie principali dell’euro: una maggiore omogeneità di politiche interne, la Germania un po’ spostata a sinistra dalla grande coalizione, la Francia convintasi a lasciare illusioni annose di rilancio fatto in casa.

La novità pesa anche da noi. Non solo a sinistra molti hanno finora sostenuto che avremmo dovuto fare come la Francia, ossia forzare la mano al massimo per allentare le regole di bilancio europee, usare la spesa pubblica per il rilancio. Ora all’Eliseo si sono convinti anche loro che quella ricetta non funziona: conti con l’estero ancora in negativo, ritardo perfino rispetto all’Italia nel farsi largo sui mercati emergenti, produzione in persistenti difficoltà.

Il chiarimento interno che il Partito democratico italiano ha condotto con le primarie, il Partito socialista francese lo ha realizzato nel chiuso dei palazzi, eppure l’esito è simile. Ridurre la spesa pubblica per abbassare le tasse sul lavoro, semplificare le procedure burocratiche, modernizzare il sistema tributario divengono ora gli obiettivi principali dopo che nei primi diciotto mesi la presidenza Hollande aveva compiuto mosse incoerenti tra loro e spesso maldestre.

La Francia condivide con noi molti difetti, meno evidenti grazie a una amministrazione pubblica più efficiente e meno corrotta della nostra. Un carico fiscale più alto di quello italiano viene meglio sopportato grazie alla minore evasione; ma gli arcaismi sono profondi, tipo l’imposta sul reddito senza ritenuta alla fonte e con criteri in parte risalenti a 90 anni fa.

Simile è la difficoltà di concentrare lo sforzo del governo a favore del lavoro e dell’impresa manifatturiera scontentando lobbies potenti, rendite, settori protetti. Davanti sia alla Francia sia all’Italia è il compito arduo di accrescere la competitività senza rinunciare al modello sociale europeo: lo stesso in cui riuscì 10 anni fa in Germania, ma con seri costi di popolarità, il governo rosso-verde di Gerhard Schroeder e Joschka Fischer.

Annunciate solo ora con le spalle al muro di un record di impopolarità, le promesse di Hollande hanno grande portata: realizzarle comporterà dire parecchi no. Ma le piazze è meglio averle contro passando all’azione, trasformando, piuttosto che averle contro perché non si fa nulla, come stava cominciando a succedere anche al di là delle Alpi: perché quando non si fa nulla, guidare la protesta risulta troppo facile ai demagoghi che promettono tutto e il contrario di tutto.

Se l’economia francese avesse tutti i difetti che le attribuiscono i tedeschi, sarebbe andata a fondo da un pezzo; e d’altra parte il modello Germania al momento non funziona nemmeno nei due Paesi più affini, Austria e Olanda, entrambi frenati da difficoltà. Che Parigi si metta in cerca di una nuova strada, attenta insieme all’industria e al lavoro, non può che essere un vantaggio per tutti; anche se per noi alzerà il livello delle sfide.

Da - http://lastampa.it/2014/01/15/cultura/opinioni/editoriali/la-scommessa-sulleconomia-v9QqyojcY1ujSh96tH8O6L/pagina.html


Titolo: STEFANO LEPRI. Visco: “Con le quote di Bankitalia le banche non fanno un affare”
Inserito da: Admin - Febbraio 05, 2014, 06:23:11 pm
Economia

04/02/2014 - Il dibattito sulla riforma
Visco: “Con le quote di Bankitalia le banche non fanno un affare”
Il governatore: i vantaggi saranno un incentivo per dare più credito

Stefano Lepri
ROMA

Saranno «un incentivo a fare più credito» i vantaggi ricavati dalle banche nell’operazione sul capitale della Banca d’Italia, assicura il governatore Ignazio Visco. Ma tra le righe la scoperta è che, all’opposto delle accuse grilline, questi vantaggi saranno modesti.

Banche più solide saranno in grado di concedere più prestiti a imprese e famiglie, «cercheremo di vedere che questo accada» insiste il governatore. Peraltro gli effetti saranno lenti, dal 2015, e allora perché procedere con decreto-legge? «Questa è stata una scelta del governo» si distanzia il numero due della Banca d’Italia, Salvatore Rossi.

Su internet in questi giorni non circolano soltanto proteste contro il «regalo alle banche» condito di retroscena complottistici. Al contrario, esperti di finanza si scambiano messaggi ironici secondo i quali la montagna smossa dalle lobby bancarie avrebbe alla fine partorito un topolino.

Convocando a sorpresa i giornalisti ieri, i due massimi dirigenti della Banca d’Italia si sono soprattutto impegnati a mostrare che il provvedimento viene incontro ai loro desideri. «Non si potrà più dire che siamo controllati dalle grandi banche» insiste Visco: Intesa San Paolo e Unicredit, ora detentrici di oltre il 60% delle quote, dovranno scendere ciascuna al 3%.

«Anzi, il carattere pubblico della Banca d’Italia, garantito dai Trattati europei, viene stabilito con maggiore chiarezza, perché la nuova legge dice che gli azionisti non possono accampare diritti sull’insieme delle riserve valutarie e in oro» aggiunge Rossi. In un insolito esercizio di comunicazione, la Banca d’Italia offre un documento di 5 pagine comprensibile anche ai non specialisti.

I 7,5 miliardi dell’operazione, vi si legge, non li paga nessuno: «sono già nel bilancio della Banca d’Italia. Erano iscritti come fondi di riserva, ora entrano nel capitale sociale e servono a delimitare i diritti dei partecipanti». Nemmeno è vero che agli azionisti saranno pagati dividendi più alti: si avrà «equivalenza» rispetto al passato, inoltre la legge fissa un tetto da non superare.

Le banche, sì, volevano che l’operazione si facesse; ma l’aumentato valore delle quote azionarie oggi possedute non servirà a nulla per il severo esame dei loro bilanci che nel corso dell’anno farà la Banca centrale europea. Potranno conteggiarlo al più presto nel 2015, ovvero quando si creerà un effettivo mercato di queste azioni.

E anche quando saranno conteggiabili o le quote massime al 3% del capitale della Banca d’Italia, o il denaro ottenuto vendendo le eccedenze, il vantaggio totale resterà limitato. Secondo i numeri rivelati da Visco e Rossi, rispetto ai nuovi parametri per la stabilità finanziaria (Basilea 3) il guadagno sarà di 0,4% punti percentuali di patrimonio di migliore qualità; appena 0,3% per le 15 banche maggiori, quelle che devono passare sotto la vigilanza centralizzata di Francoforte.

Le nuove norme europee escludono trucchi contabili (c’erano stati parecchi sospetti tedeschi su questo punto). Delle quote di partecipazione in Banca d’Italia dovrà crearsi un mercato vero. La Banca d’Italia fa trasparire di non aver gradito molto il comma che dopo 3 anni la obbliga ad acquistare le quote eccedenti il 3% che siano rimaste invendute; ma ritiene «improbabile» che debba ricorrervi. 

DA - http://www.lastampa.it/2014/02/04/economia/visco-con-le-quote-di-bankitalia-le-banche-non-fanno-un-affare-bNYKNW3cq1Cfrox5UMH7KP/pagina.html


Titolo: STEFANO LEPRI. Conti pubblici, il rischio dell’autogol
Inserito da: Admin - Marzo 21, 2014, 11:57:06 pm
Editoriali
20/03/2014

Conti pubblici, il rischio dell’autogol
Stefano Lepri

Nelle attuali condizioni in cui si trova l’Italia, il limite del 3% al deficit può essere definito «anacronistico» soltanto in un senso opposto a quello che intende Matteo Renzi. 

Non è troppo basso: è invece troppo alto per assicurare un calo duraturo del debito pubblico italiano. Cosicché continuare a proclamare che vorremmo oltrepassarlo rappresenta, all’estero, un vero autogol.

Nel breve termine, per uscire dal pantano in cui siamo, è ragionevole invocare sul deficit qualche spazio di manovra in più. Se si avviano riforme importanti, che all’inizio comportano anche effetti negativi, può essere legittimo derogare alle regole (assai più dure del 3% di deficit) stabilite sia dal nuovo articolo 81 della nostra Costituzione sia dal «Fiscal Compact» europeo.

Ma nel medio periodo occorre che il debito non continui ad aumentare. Basta una aritmetica elementare per arrivarci. Con un debito di 2070 miliardi e un prodotto lordo di 1560, se in un anno la prima delle due grandezze cresce di 46,8 miliardi (tre centesimi di 1560) per evitare che il rapporto salga la seconda deve salire di almeno il 2,3%.

Così com’è l’economia italiana ha, secondo i calcoli economici correnti, un potenziale di crescita tutt’al più dello 0,5% annuo. 

Sommando questa crescita reale e l’aumento dei prezzi, il prodotto lordo può dunque salire al massimo di circa 2,5 punti (0,5 più l’obiettivo Bce del 2% di inflazione) in una media pluriennale. In questo modo il debito tutt’al più scenderebbe di un’inezia.

Conteggi di questo tipo preoccupano gli altri Paesi e le istituzioni internazionali. Nel mondo c’è abbondanza di capitali, dunque in linea di principio spazio per finanziare i debiti; ma proprio questa abbondanza moltiplica l’instabilità, fa spostare gli investitori in modo volubile alla ricerca di maggiori rendimenti. Oggi l’Italia torna ad attirare, domani chissà.

E poi, in nome di che cosa si può rivendicare al nostro Stato la facoltà di fare più debiti, se è dilagata nel Paese la convinzione che i debiti precedenti li abbia accumulati spendendo male? Nelle proposte formulate dal commissario alla spesa Carlo Cottarelli c’è tutto il necessario per riesaminare come la nostra amministrazione pubblica impiega il denaro dei contribuenti.

 
Però, guarda caso, appena si arriva al concreto molti dei fautori dei tagli alle spese si dileguano. Appena si capisce che occorre togliere qualcosa a qualcuno, affrontare questioni impopolari, prendere di petto interessi consolidati e radicati nella nostra società, ecco si fa ricorso a ben noti espedienti retorici: «ci vuole ben altro», «sono tagli rozzi», «rinunceremmo all’indispensabile».

Naturalmente le scelte, nel vasto menu proposto, dovrà compierle la politica. Ma intanto occorre dire che, dietro il gergo tecnico del rapporto, alcuni dei problemi cruciali sono stati posti. Innanzitutto, quello della corruzione. No, la parola non compare, nel rapporto consegnato al Parlamento. Ma di questo si parla, in almeno tre casi importanti.

Si tratta di corruzione burocratica, oltre che di semplice spreco per inettitudine o frammentazione di acquisti, quando si propone una «drastica riduzione del numero di centrali appaltanti». Si tratta di clientelismo parlamentare, collegi elettorali o favori a lobbies, quando si suggerisce il «taglio dei micro stanziamenti». Si tratta del malcostume della politica locale quando si ipotizza di chiudere le società partecipate da Comuni e Regioni che non svolgono servizi pubblici. Di questo è bene discutere, ancor più che degli aerei e delle portaerei, o di altre spese di prestigio da rimandare a tempi migliori: così si può riconquistare la fiducia dei cittadini nella politica.

Da - http://lastampa.it/2014/03/20/cultura/opinioni/editoriali/conti-pubblici-il-rischio-dellautogol-MCpN2fD0WY0WvbioYqoxsO/pagina.html


Titolo: STEFANO LEPRI. Le riforme per superare l’emergenza
Inserito da: Admin - Aprile 04, 2014, 04:51:28 pm
Editoriali

02/04/2014 - l’europa e la crisi
Le riforme per superare l’emergenza

Stefano Lepri

Un così alto livello di disoccupazione in Italia può essere fatto risalire a tre diversi errori del recente passato. Il primo è il ritardo con cui l’Italia ha dato inizio al risanamento del bilancio, nella seconda metà del 2011. Il secondo è la cattiva gestione della crisi dell’euro, tra istituzioni comuni deboli, sfiducia reciproca tra nazioni, ritardi.

Il terzo errore lo commisero governi e istituzioni del mondo quando, a metà del 2010, si illusero che aggiustamenti di bilancio rapidi e contemporanei in molti Paesi avrebbero riportato la fiducia tra gli operatori economici, senza causare una seconda recessione. Quale sia il peso relativo di ciascuno dei fattori è materia di dibattito, e lo resterà a lungo.

È difficile evitare che i disoccupati continuino ad aumentare anche nella prima fase della ripresa, specie se è fievole come in Italia. Quello che si può fare subito è riformare il mercato del lavoro in modo che il peso non ricada tutto sui giovani, rendendoli disperati; è procedere con le riforme, anche politiche, per alzare il morale del Paese.

Ricette miracolose non ne esistono. Attendendo che la Bce si muova, la novità è che nella campagna per il voto europeo l’austerità appare senza genitori. Il candidato del centro-destra, Jean-Claude Juncker, rifiuta di lasciare al rivale socialista Martin Schulz lo slogan che innanzitutto occorre lavoro; se gli si obietta che vota per lui Angela Merkel, ribatte vantando il sostegno dei greci di Nea Dimokratia.

Le proposte politiche restano diverse, è ovvio. Un vasto numero di disoccupati in presenza – come siamo – di capitali abbondanti e inoperosi fa propendere verso soluzioni di tipo keynesiano, in cui lo Stato mobilita risorse per creare lavoro; soluzioni care alla sinistra quasi ovunque, anche alla destra nei Paesi latini e in Giappone.

Ma quando i capitali appartengono perlopiù ad alcuni Paesi (come la Germania), i disoccupati ad altri, non è facile organizzare l’incontro, specie se Stati indebitati e sistemi-Paese inefficienti non ispirano fiducia. In Europa, proprio il molto che resta di sovranità nazionale fa ostacolo; all’opposto dell’illusione di creare lavoro uscendo dall’euro.

Anche per il contrasto di interessi nazionali, nel Nord del continente la dottrina dell’austerità resta in voga. Lo prova la difficoltà dei socialdemocratici tedeschi, da cui Schulz proviene, a proporre agli elettori del loro Paese le politiche di investimento e di solidarietà che gli elettori di sinistra di altri Paesi sperano dal candidato Schulz.

A favore dell’austerità viene giocato ora l’argomento che i due Stati più inguaiati, Portogallo e Grecia, cominciano a uscire dal tunnel. Eppure, nel dirsi allo stesso tempo preoccupato di un lungo periodo di bassa inflazione, il commissario europeo Olli Rehn implicitamente riconosce che i piani di Bruxelles erano difettosi.

Ci sono poi differenze. In entrambi i Paesi, dato un forte sbilancio nei conti con l’estero come nei bilanci pubblici, un risanamento era inevitabile. La durezza è stata simile (2,2% di Pil all’anno per 5 anni in Portogallo, 2,4% in Grecia), il successo diverso: Lisbona può ora sottrarsi alla sorveglianza della «troika»; Atene, dove in mancanza di riforme le sofferenze sono ricadute sui più deboli, ha faticato ad ottenere la nuova rata di aiuti.

La politica ha fatto la differenza: misure più efficaci in Portogallo, dove gli elettori continuano a dividersi tra una coalizione di centro-destra e un partito socialista entrambi europeisti; mentre in Grecia crescono le estreme o forze del tutto nuove. Quando si è alle strette, va meglio ai governi che sanno riformare. È un esempio che può valere sia a Roma sia a Parigi.

Da - http://lastampa.it/2014/04/02/cultura/opinioni/editoriali/le-riforme-per-superare-lemergenza-4xCpMs7mqIz1kbLkDzRdEJ/pagina.html


Titolo: STEFANO LEPRI. Ora serve la prova dei fatti
Inserito da: Admin - Aprile 09, 2014, 06:13:54 pm
Editoriali
09/04/2014
Ora serve la prova dei fatti

Stefano Lepri

Per cambiare l’Europa occorre la fiducia reciproca tra i Paesi, dunque intanto occorre che ciascuno rispetti gli impegni. Questa è la strada che il governo italiano dichiara di avere scelto dopo le iniziali dichiarazioni di sfida; ed è la più sensata. 

In realtà un allentamento dei traguardi per i prossimi anni c’è: in misura modesta, probabilmente accettabile agli altri governi.

Un’alleanza con la Francia per «battere il pugno sul tavolo» non è mai stata davvero possibile. Non conviene né a Parigi né a Roma unirsi, perché le urgenze sono diverse e gli effetti di un’offensiva comune sarebbero più che dubbi. Né deve illudere più di tanto la fase di «ritorno al rischio» in cui si trovano i mercati finanziari; al momento trovano buon credito anche Stati molto screditati.

Il documento approvato ieri, ovverosia il Def (un tempo Dpef), merita attenzione proprio perché tecnico: poiché deve risultare credibile ai tecnici, contiene sotto forma di gergo specialistico una dose maggiore di verità rispetto ai discorsi televisivi. Almeno per il futuro prossimo, si intende; perché più si va in là nel tempo e più anche agli economisti è permesso cullarsi nelle speranze.

Questa volta calcolare la dose di azzardo, la distanza delle promesse dalla realtà, è particolarmente importante. Il momento è favorevole, sia perché nell’economia del mondo – come ha detto ieri il Fmi – l’ottimismo sta prevalendo, sia per le attese positive di cui il governo italiano si trova a godere tra gli operatori economici, tra i governi, nelle organizzazioni internazionali.

Ma l’occasione può essere presto perduta. Per questo è essenziale che ci sia un nesso fra gli scopi elettorali a breve termine e le riforme vere che servono al futuro. Nelle parole pronunciate ieri nell’impianto del documento questo c’è; ma solo la sequenza effettiva delle decisioni potrà dare certezza che non si miri solo al 25 maggio per poi soffrire di amnesie dopo.

Nel concreto, quattro miliardi e mezzo di tagli alle spese pubbliche in otto mesi sono un traguardo ambiziosissimo. Ridurre le spese, tolta la parte facile delle auto blu e degli stipendi d’oro, comporta decisioni parecchio impopolari, ardue in campagna elettorale. Più si rinviano le scelte a dopo il 25 maggio più si rischia di non raggiungere l’obiettivo.

 Il Def giustamente riconosce che la misura di popolarità immediata, gli sgravi Irpef ai redditi bassi, non produrrà grandi risultati economici nei primi mesi. Occorre che si faccia anche tutto il resto, comprese le riforme politiche che, come ha detto Piercarlo Padoan, possono dare un impulso «molto più profondo di quanto si pensi» seppur impossibile da cifrare con gli strumenti dei tecnici.

La contraddizione tra il breve e il lungo periodo è visibile al massimo nella questione del lavoro. Il decreto che allarga le maglie dei contratti a termine è pensato in chiave di effetti immediati; ma per restituire speranze ai giovani ci si dovrà poi muovere in una direzione quasi opposta, quella del contratto unico.

Ovviamente le ambizioni del semestre italiano di presidenza dell’Unione cadrebbero miseramente se dopo l’estate ci si trovasse con i tagli alle spese in ritardo. Se tutto il paese capirà che si tratta dell’occasione di costruire uno Stato più efficace e meno corrotto, sarà possibile avanzare; altrimenti no.

A dispetto delle invettive contro la rigidità delle regole europee, il documento approvato ieri segna la quarta volta che gli obiettivi vengono revisionati, dal terribile autunno 2011. Il pareggio di bilancio «strutturale» che all’origine doveva essere raggiunto l’anno scorso, slitta ancora, al 2016. Meglio così. La rincorsa demagogica a dar la colpa all’Europa ha forse perso altro fiato.

Da - http://lastampa.it/2014/04/09/cultura/opinioni/editoriali/ora-serve-la-prova-dei-fatti-jkEsfEq8EOUS5YbGpprm4N/pagina.html


Titolo: STEFANO LEPRI. Un utile richiamo alla realtà
Inserito da: Admin - Maggio 08, 2014, 05:05:26 pm
Editoriali
06/05/2014

Un utile richiamo alla realtà
Stefano Lepri

L’Europa ci ricorda che l’Italia soffre di guai annosi, scarsissima dinamica di crescita, alto debito pubblico. 

Nelle analisi uscite ieri da Bruxelles è vano cercare giudizi pro o contro l’ultimo mese di attività del nostro governo, come vorrebbe la nostra politica. Vi si legge invece un richiamo alla realtà, utile anche in altri Paesi dell’Unione.

A meno di tre settimane dal voto per il Parlamento di Strasburgo, gli stessi mercati finanziari che nel 2011-12 hanno spinto l’euro sull’orlo della rottura ora paiono sicuri che la costruzione reggerà. Anche il Portogallo si svincola dall’assistenza, d’ora in poi non dovrà più obbedire alla «troika». Perfino la Grecia tira il fiato, tanto che i sondaggi elettorali mostrano un calo delle estreme.

I tassi di interesse nel Sud dell’area euro scendono, esponendo a una nuova figuraccia le ormai screditatissime agenzie di «rating». 

Secondo loro, il debito italiano resta oggi meno affidabile di quello della Colombia o del Kazakhstan; il debito spagnolo, che gli investitori si contendono accettando di ricavarne meno del 3%, è addirittura classificato un gradino più in giù. 

Non a caso, nel procedere della campagna elettorale le forze anti-euro stanno perdendo un po’ dell’abbrivio datogli da due anni di austerità. Tuttavia, dei mercati finanziari non bisogna fidarsi nemmeno quando portano doni, perché si tratta di mandrie inquiete, prima tutti in una direzione, poi tutti nell’altra, non si sa fino a quando. Il Fmi già ammonisce contro eccessi di ottimismo.

Possiamo dire che l’euro è fuori pericolo; i profeti di catastrofe sono stati smentiti. Ma il futuro del continente resta molto incerto, non solo a causa delle tensioni con la Russia. Nel confermare che una ripresa economica è partita, e che investe anche i Paesi deboli, le previsioni pubblicate ieri dalla Commissione europea ne circoscrivono la portata rispetto alle speranze di diversi governi.
 
Nel quadro tracciato, il ritmo di aumento dei prezzi dovrebbe restare basso molto a lungo. Questo non giova a chi vuole intraprendere nuovi affari. Le previsioni di Bruxelles sull’inflazione si collocano al di sotto di quelle della Bce; rafforzano chi chiede a Mario Draghi di fare di più, mettendo moneta in circolo.

 
Da parte sua l’Italia vi trova la conferma di soffrire di mali indipendenti dall’euro, e preesistenti. Da oltre 15 anni la nostra economia mostra scarsa vitalità; il debito pubblico per la gran parte ce lo trasciniamo dagli Anni 80, e proprio in vani tentativi di rilanciare la crescita attraverso la spesa pubblica eravamo tornati ad appesantirlo nei primi anni del nuovo secolo.

I segni di miglioramento che vediamo attorno a noi, testimoniati dalla maggiore fiducia sia tra le famiglie, sia tra le imprese, sono appena sufficienti a iniziare una lenta risalita. Passato lo spettacolo elettorale, la politica dovrà produrre risultati significativi prima delle ferie, o gli umori torneranno a peggiorare.

La legge di stabilità 2015 richiederà sforzi ingenti; al momento i numeri non ci sono proprio. Inutile discettare ora su quanto si potrà ottenere negli oscuri spazi di interpretazione che le regole di bilancio europee consentono. Convinceremo gli interlocutori solo se davvero si comincerà a cambiare qualche pezzo di una macchina dello Stato che non funziona.

Il paradosso dell’Italia in questo momento è che quasi tutti proclamano «non se ne può più», eppure molti nel concreto fanno resistenza a ogni cambiamento che li riguardi. Il successo di Beppe Grillo si deve all’abilità di cogliere entrambi gli aspetti; il limite che ne consegue, di non proporre quasi mai nulla, diventerà evidente solo se chi governa realizza.

Da - http://lastampa.it/2014/05/06/cultura/opinioni/editoriali/un-utile-richiamo-alla-realt-zWzCBWXuo8mbD5weoDCL1H/pagina.html


Titolo: STEFANO LEPRI. Una ricetta che aiuti i giovani
Inserito da: Admin - Giugno 19, 2014, 12:23:41 am
Editoriali
18/06/2014

Una ricetta che aiuti i giovani

Stefano Lepri

Più che dare suggerimenti dall’esterno, il Fondo monetario raccoglie tutte le promesse di Matteo Renzi, per invitarlo a mantenerle. Le critiche della Commissione europea al bilancio 2014 non vengono condivise; c’è solo un blando consiglio a mettere un po’ più a posto i conti nel 2015 nel caso la ripresa economica si consolidi.

Rispetto a un dibattito europeo imprigionato in formule oscure, rispetto alle ripetitive lezioncine della Germania benpensante, gli esperti di Washington sia pure nel loro gergo non chiarissimo pongono problemi seri. Traducendo in parole povere, dicono che l’Italia occorre soprattutto farla funzionare; nel nostro interesse, prima di tutto.

Parlano di leggi da cambiare, assai più che di numeri da far quadrare con sacrifici. Non si fanno bene gli affari se ci vogliono mille giorni per ottenere dal tribunale il rispetto di un contratto; né se è difficile liquidare una impresa in difficoltà quanto fondarne una nuova; né se normative varie frenano la concorrenza sul mercato. 

Né, ancora, se il falso in bilancio non è punito. 

Al primo posto c’è tuttavia il lavoro dei giovani. Più passa il tempo più diventa nociva la separazione tra precari e garantiti. Il Fmi giudica importante una promessa dell’attuale governo che si prospetta difficile da mantenere: il contratto unico di lavoro a tutele crescenti. Sarà molto utile, si afferma, se rimpiazzerà gli attuali contratti a tempo determinato.

Sarà questa una prova cruciale. Il contratto unico, soluzione proposta in diverse varianti da economisti come Pietro Ichino e Tito Boeri, lascia freddi sia i sindacati sia la Confindustria. Matteo Renzi come metodo non intende farsi vincolare dalle forze sociali organizzate, però qui di fatica ce n’è da fare davvero tanta. Non siamo l’unico Paese nella trappola di un mercato del lavoro duale, e nessuno riesce ancora a uscirne.

In concreto, la riforma resta ancora tutta da progettare. Occorreranno incentivi che rendano il contratto unico attraente per le imprese, come pure divieti da far rispettare. Altrimenti, si tratterà solo di una nuova tipologia contrattuale da affiancare alle molte già esistenti, con scarso vantaggio. Bisogna rompere un circolo vizioso che ormai si è radicato nelle abitudini e nelle attese di tutti.

La prospettiva di un lavoro a lungo precario fa calare lo stimolo a istruirsi, riduce la qualità del lavoro anche a danno delle imprese. E così com’è fatto il nostro Stato sociale non aiuta: l’Italia rispetto ad altri paesi spende poco in istruzione (specie ai livelli superiori) e molto in pensioni.

Qui il Fmi tocca una questione delicatissima, a cui Renzi aveva accennato nei primi giorni, ma che negli impegni del governo non è mai comparsa. Si tratta della proposta del suo consigliere Yoram Gutgeld, poi ripresa da altri economisti, di ricalcolare almeno in parte le pensioni «troppo alte»; ovvero quelle (superiori a una certa cifra) risultanti da calcoli troppo favorevoli vigenti in passato.

Molti pensionati attuali percepiscono trattamenti più alti rispetto ai contributi versati durante la vita lavorativa, perché fu troppo graduale l’attuazione della riforma Dini del 1995. In teoria, sarebbe equo chiedere loro un contributo a favore dei giovani, se visibilmente utilizzato, come suggerisce il Fmi, nell’istruzione o nelle politiche del lavoro.

Può darsi che si tratti di un’utopia da tecnici, politicamente inattuabile in un Paese dove gli elettori anziani sono più numerosi e più assidui alle urne rispetto ai giovani. Ma può valere come stimolo a rendersi conto che finora il peso del declino del nostro Paese è stato scaricato quasi tutto sui giovani.

Da - http://lastampa.it/2014/06/18/cultura/opinioni/editoriali/una-ricetta-che-aiuti-i-giovani-2jHQi6NuVIBgsu69mWBBSN/pagina.html


Titolo: STEFANO LEPRI. Le regole per superare l’austerity
Inserito da: Admin - Giugno 28, 2014, 11:55:18 am
Editoriali
27/06/2014

Le regole per superare l’austerity

Stefano Lepri

Giustissimo, che una svolta oltre l’austerità sia espressa in termini chiari. Paradossale, diranno in altri Paesi, che a chiederlo siano gli italiani, la cui fama è di essere intriganti e subdoli. Ma non sarà facile, per nulla. Da anni l’Europa va avanti a forza di intese a bella posta oscure, in modo che ciascun governo possa presentarle ai cittadini in una luce accettabile.

Angela Merkel e altri capi di governo nordici desiderano poter raccontare ai propri elettori che nulla di sostanziale è cambiato nelle regole di bilancio nell’area euro. Matteo Renzi vuole l’opposto. Una novità, dato che fin qui la controparte principale della Germania, la Francia, si era accontentata del permesso di fare eccezione in proprio a regole sulla carta dure per tutti.

Ovverosia, un modo di procedere molto italico – leggi severe sulle quali poi si chiude un occhio in alcuni casi – in Europa risultava finora dalla guida a due franco-tedesca. Quell’assetto si disgrega a causa della crescente debolezza della Francia; ma non si sa ancora come sostituirlo. L’Italia non può prevalere se chiede solo per sé: deve cercare di presentare un progetto per tutti.

I l fronte anti-austerità del resto è diviso: in nome di che rivendicare la svolta? Renzi non ha avuto ancora il tempo di attuare le sue promesse. Il premier spagnolo Mariano Rajoy in tre anni ha realizzato misure dolorose e anche molto controverse, è peraltro un alleato politico dei cristiano-democratici tedeschi. François Hollande guida un Paese già in crisi di rigetto quando l’azione di riforma è appena agli inizi. 

Un cambiamento sta maturando, lo si avverte da molti segni. Cominciano a mutare il loro linguaggio anche personaggi simbolo dell’austerità, come il commissario uscente agli Affari monetari Olli Rehn. Non si può evitarlo: la ripresa economica sperata è talmente fioca che quasi non si vede; nemmeno in Germania è esaltante.

Però, se si vuole chiarezza, occorre rendersi conto fino in fondo di quali sono i problemi. Non si può far finta che nel 2010-2011 non sia accaduto nulla, pur se ovunque sono cambiati i governi e nei nostri palazzi non si pratica più il «bunga bunga». I troppi debiti restano pericolosi. Né contrarne in quantità (da ultimo negli anni 2001-2004) ci ha salvati dal declino.

 La finanza globale sembra oggi più stabile. Ma proprio la presenza di risparmio in eccesso, facile a spostarsi in cerca di rendimenti più alti, rende necessario spendere bene, essere debitori credibili. L’Italia non ha buona fama; le crepe dell’area euro su cui potrebbero far leva gli speculatori sono state sanate solo in parte.

Finanziare i deficit è tornato possibile, sostengono gli economisti anche bravi promotori del referendum contro il «fiscal compact» europeo; trascurano che non è l’Italia a poterlo fare, e non perché i tedeschi sono razzisti contro i popoli meridionali. Non può, con l’eccesso di debito che si ritrova, frutto di ben noto malgoverno.

Per la ripresa, contro il rischio di deflazione si può, si deve investire di più; ma in progetti comuni sui quali governi e nazioni si controllino a vicenda, non con il ritorno all’arbitrio delle classi politiche nazionali (anche quella tedesca, che – come notava Mario Draghi giorni fa – ha speso moltissimo per salvare le banche, poco per tutto il resto).

Né si può sperare di giostrare a scopo tattico sui no britannici. Se Londra chiede per sue esigenze di annacquare un po’ l’Unione europea, darle retta potrebbe aiutare un suo ulteriore allargamento verso Est; ma nello stesso tempo, l’area euro ha bisogno di stringersi di più, creando o rafforzando istituzioni proprie capaci di accrescere la fiducia tra chi ne fa parte.

Da - http://lastampa.it/2014/06/27/cultura/opinioni/editoriali/le-regole-per-superare-lausterity-NEwEFrHYfh4nNyRoL0ZdnI/pagina.html


Titolo: STEFANO LEPRI. Sulla spesa il fronte più difficile
Inserito da: Admin - Ottobre 16, 2014, 11:19:24 pm
Sulla spesa il fronte più difficile

16/10/2014
Stefano Lepri

la questione non è più tanto se la Commissione europea accetterà questi numeri, quanto se li considererà verosimili. Gli obiettivi che il governo si pone con la legge di stabilità approvata ieri sera appaiono validi. Le risorse per raggiungerli non è chiarissimo come saranno trovate; 3,8 miliardi dalla lotta dell’evasione fiscale e 15 da tagli alle spese sono cifre di grande ambizione.

Matteo Renzi l’ha definita una manovra di bilancio «anticiclica», ossia, in gergo economico, volta a rilanciare l’economia. 

Non è esattamente così. Nelle grandi cifre, è grosso modo neutrale; scelta corretta rispetto all’intervento ulteriormente recessivo che sarebbe risultato da una applicazione schematica delle regole europee.

Potrà essere espansiva se sarà costruita bene, sostituendo soldi ben spesi a soldi mal spesi. Al calo del prelievo fiscale, 8 miliardi aggiuntivi ai 10 già promessi, dovrebbe accompagnarsi una vera riduzione di spese poco utili. Potrà esserlo se le grandi riforme, come spera Piercarlo Padoan, avranno effetti pronti sulla fiducia di chi lavora e di chi investe.

Tre ipotesi sono possibili. Primo, gli interventi sulla spesa saranno maldestri; l’esperienza passata sui «tagli lineari» ci dice che cambiano poco e per di più non durano. Secondo, i tagli sono fittizi e il deficit 2015 oltrepasserà la soglia del 3%, con rialzo dei tassi sul debito e sanzioni europee. Terzo, i tagli saranno ben concepiti, e proprio per questo solleveranno una tempesta di resistenze.

Purtroppo incidere sulle cattive erogazioni di denaro pubblico per una cifra così grande, 12,3 miliardi aggiuntivi rispetto alle misure già in corso, richiede che si colpiscano interessi costituiti ben capaci di difendersi. E’ già partita al contrattacco la politica locale, dove gli sprechi sono assai diffusi. Vedremo nelle prossime ore chi altri alzerà le barricate.

Solo riforme efficaci e un uso migliore delle risorse possono azzittire chi in Europa vorrebbe costringerci a una regola – quella dell’«obiettivo di medio termine» – sorpassata dall’evolversi della crisi. L’Italia l’aveva fatta propria, inserendola anche nella Costituzione, dopo gli enormi rischi corsi nel 2011; rispettarla quest’anno significherebbe altri posti di lavoro in meno.

 

Tutta l’economia mondiale non riesce ad uscire appieno dalle difficoltà, come mostrano anche i dati giunti ieri dagli Stati Uniti; il ribasso del greggio segnala timori di recessione. E’ assurdo dare la colpa di tutto all’austerità nell’area euro, visto che anche Svezia e Svizzera sono in deflazione; varie sono le cause se anche la gran parte dei Paesi emergenti rallenta.

In passato, il vincolo delle regole esterne ha fatto solo bene all’Italia, ponendo freni alla cattiva politica. Ora una azione di rilancio spetterebbe alla Germania, che ha i bilanci in ordine. Non lo vuole fare, per una debolezza politica interna che ributtata all’esterno sembra forza; e allora il male di gran lunga minore è che l’Italia temporaneamente vi si sottragga.

I rischi ci sono. Lo mostra la Grecia, che nell’attuale fase di calma dei mercati finanziari progettava di sottrarsi in anticipo alla sorveglianza della troika (Commissione europea, Bce, Fmi). Meglio che non lo faccia – si vede in queste ore – soprattutto perché politicamente non è stabile, elezioni anticipate non possono essere escluse, con una vittoria dell’estrema sinistra.

L’Italia non è né fragile come la Grecia né altrettanto malmessa; però è anche otto volte più grande. Per questo gli altri Paesi dell’area euro diffidano di noi. Dobbiamo loro chiarezza di propositi; e, magari, anche la lucidità di indicare verso quali regole migliori potremmo muoverci tutti insieme.

Da - http://www.lastampa.it/2014/10/16/cultura/opinioni/editoriali/sulla-spesa-il-fronte-pi-difficile-7o24Uu17yd2IQLfzVNx9UP/pagina.html


Titolo: STEFANO LEPRI. Per crescere tagliare più spese
Inserito da: Admin - Novembre 09, 2014, 11:34:02 am
Per crescere tagliare più spese

04/11/2014
Stefano Lepri

No, la manovra di bilancio del governo Renzi non è «espansiva». Avrebbe potuto essere nettamene restrittiva se si fosse dato ascolto in pieno alle richieste della Commissione europea uscente, a José Barroso e a Jyrki Katainen.

E quando, a ragione, giudichiamo esagerati i loro timori, ricordiamoci che del tutto infondati purtroppo non sono.

La capacità dei governi italiani di contrastare la recessione con interventi di bilancio (meno tasse, o investimenti utili) è pesantemente limitata dal fardello di debito pubblico che ci portiamo addosso. Pesa l’eredità di scelte sbagliate dei governi passati; soprattutto negli anni dal 1981 al 1991 e dal 2000 al 2004.

Nel momento attuale, con tassi di interesse bassissimi in tutto il mondo, è lontano il pericolo che il debito italiano diventi instabile; più remoto, appunto, di quanto si ostinino a credere alcuni a Bruxelles e molti a Berlino. Inoltre è poco probabile che si ripeta una crisi interna all’area euro come quella del 2011-2012.

Tuttavia, l’Italia deve esercitare prudenza. Sarebbe eccessiva l’austerità impostaci dal «Fiscal Compact» europeo; la Banca d’Italia conferma che ritiene giustificato non rispettarla. Ma, come Ignazio Visco avvertiva venerdì scorso, una manovra apertamente espansiva adottata dalla sola Italia potrebbe «dar luogo a reazioni negative da parte dei mercati».

Così com’è all’esame del Parlamento, la legge di stabilità 2015 è espansiva solo nel senso improprio di accrescere il deficit rispetto alle leggi vigenti (riduce le tasse più di quanto riduca le spese, se si considerano gli 80 euro come sgravio). In senso proprio, si limita a «rallentare il processo di aggiustamento dei conti pubblici»; in assoluto il deficit continua a ridursi, su questo si fonda anche il giudizio dell’Istat.

All’interno dei vincoli dati, è possibile aiutare la crescita se si tagliano spese poco produttive sostituendole o con sgravi fiscali efficaci o con investimenti pubblici di qualità. Su questo è legittimo chiedersi se il governo abbia fatto abbastanza; specie dopo che ha accantonato proposte significative sulla spesa, quelle sulle partecipate locali e sulle stazioni appaltanti.




Dalla politica peraltro non vengono alternative valide. La destra, a cui il presidente del Consiglio ha sottratto uno dei cavalli di battaglia, il calo dell’Irap, si mobilita contro le tasse sulla casa: ma a parità di risorse è molto più efficace sulla crescita pagare meno Irap o altri tributi sul reddito. Movimento 5 stelle e Lega Nord vorrebbero uscire dall’euro: però oggi se fossimo fuori il costo del debito sarebbe quasi certamente più alto, non più basso.

L’opposizione di sinistra, ossia la Cgil, vorrebbe un piano massiccio di investimenti pubblici finanziato da una patrimoniale. A parte le ben note (anche a tecnici di sinistra) difficoltà di tassare patrimoni diversi dagli immobili, occorre riflettere su un recente sondaggio: in grande maggioranza gli italiani ritengono che per ridurre gli squilibri sociali sia meglio calare le tasse ai poveri che aumentarle ai ricchi.

Costruttive invece sono le obiezioni venute ieri dalla Banca d’Italia, sul limitato valore di alcune misure, sui possibili inconvenienti di altre. Indicano una urgenza di riforme più profonde, piena responsabilità tributaria degli enti locali, maggiori ambizioni di rinnovamento della scuola.

Più oltre, nel 2016 e 2017, i conti tornano solo grazie ad una «clausola di salvaguardia» che impone gravosi aumenti di tasse (Iva al 25% e oltre) qualora non si riesca a ridurre le spese. Quella distanza di tempo è il luogo dove si incrociano le grandi variabili del nostro futuro: se cambierà l’Italia, se si romperà la gabbia di sfiducia tra Stati che soffoca l’Europa.

Da - http://www.lastampa.it/2014/11/04/cultura/opinioni/editoriali/per-crescere-tagliare-pi-spese-J8KCbBEhBCEEDGktupQYBL/pagina.html


Titolo: STEFANO LEPRI. Gli errori di Roma e di Berlino
Inserito da: Admin - Dicembre 09, 2014, 03:11:22 pm
Gli errori di Roma e di Berlino

09/12/2014
Stefano Lepri

In Germania, parlar male dell’Italia è un espediente efficace per nascondere il fiato corto del successo tedesco. In Italia, parlar male della Germania serve benissimo a sviare l’attenzione dai guai di casa, i giovani senza lavoro come lo scandalo romano. Purtroppo, dato che la politica francese rimane in stato confusionale, il dibattito nell’area euro rischia di ridursi a questo.

Volendo essere ottimisti, la reciproca diffidenza potrebbe diventare incentivo a comportarsi meglio. Però gli strumenti sono rozzi, se per pungolare il governo italiano alle riforme (cosa necessaria) si continua a minacciarlo, come ieri all’Eurogruppo, perché non adotta una ricetta in questo momento inadatta (le regole di bilancio del «Fiscal Compact»).

Con un passo avanti, il documento approvato a Bruxelles almeno condona all’Italia il mancato rispetto della regola del debito. 

Continua invece a insistere sull’«obiettivo di medio termine» di calo del deficit. Il limite delle regole per governare l’area euro è appunto che sono severe dove in questo momento meno serve, e lo sono poco nei campi dove è oggi urgente agire.

Magari avessimo strumenti più efficaci – come quelli sollecitati da Mario Draghi – per spingere sia la Germania a correggere ciò che il resto del mondo le rimprovera (eccesso di risparmio e carenza di investimenti) sia l’Italia a mettere ordine in casa propria. Non li abbiamo, e per evitare di infilarci in circoli viziosi occorre un sovrappiù di inventiva.

Da entrambe le parti è necessario resistere alla tentazione di indicare colpevoli di comodo. Nel nostro caso, significa non illudersi che senza regole europee, o addirittura senza euro, staremmo meglio. L’alto debito italiano resterebbe un fardello in qualsiasi situazione immaginabile, e se smettessimo di pagare il 60% del danno cadrebbe su noi stessi.

Può essere interessante guardare al Giappone, Paese diversissimo dal nostro ma che paradossalmente incarna alcuni sogni della politica italiana. Ha un debito pubblico ancora più elevato ma stabile perché in moneta nazionale e detenuto in grandissima parte all’interno. Dunque senza immediati rischi può spendere in deficit nel tentativo di rilanciare l’economia.

 

Eppure è da lunghi anni che la ricetta del deficit non funziona; continua a nutrire una classe politica – assicura chi conosce entrambi i Paesi – non migliore della nostra. Per di più, di questi tempi la Banca centrale acquista la gran parte dei nuovi titoli di Stato emessi, con una espansione monetaria assai più massiccia di quella che attendiamo dalla Bce.

Con un po’ di ironia, si potrebbe aggiungere che il Giappone è inoltre il sogno della Lega Nord, perché ha pochi immigrati, o degli imprenditori, perché i profitti sono alti. Di nuovo in recessione dopo lunghi anni di ristagno, ricorre ora a elezioni anticipate nella speranza che rafforzino il governo. Agli occhi dei tedeschi, dà la prova che le ricette opposte alle loro non funzionano.

D’altronde, nell’area euro almeno una parte dei mali va attribuita all’austerità a tempi stretti che ancor oggi è la prescrizione numero uno a Berlino. Senza cedere a certezze prefabbricate, sarebbe bene discutere insieme di rimedi nuovi, adatti a una crisi mai vista prima. Ciò che manca ovunque è la capacità di rinnovare strutture economiche e amministrative logore.

Sia nella Francia che non sa fare riforme, sia nella Spagna che ne ha fatte (non molte) alla tedesca, gli attuali governi non hanno più l’appoggio della maggioranza dei cittadini. Il governo italiano deve rimuovere ostacoli forse ancor più grandi, ma almeno un patrimonio di consenso lo ha ancora: non lo sprechi, è una speranza anche per gli altri.

twitter: @StefanoLepri1 

da - http://www.lastampa.it/2014/12/09/cultura/opinioni/editoriali/gli-errori-di-roma-e-di-berlino-0XuQVGyBUoKSoyugQqMfkJ/pagina.html


Titolo: STEFANO LEPRI. Frenare la corsa delle lobby
Inserito da: Admin - Dicembre 22, 2014, 05:53:29 pm
Frenare la corsa delle lobby

21/12/2014
Stefano Lepri

Se il Congresso degli Stati Uniti esaminando la legge di spesa federale per il 2015 ha anche votato contro la protezione di un uccello noto come «gallo della salvia», e nella maxi-manovra anticrisi del drammatico febbraio 2009 aveva inserito incentivi ai produttori del gioco delle freccette, si capisce che qualche degenerazione si produce in tutte le grandi democrazie. 

Non per questo sono meno preoccupanti le traversie della legge di stabilità 2015 nel nostro Parlamento. Vanno esaminate per ciò che ci rivelano sullo stato del nostro sistema politico. Matteo Renzi si vanta di aver fermato in extremis il tradizionale assalto alla diligenza; ne ha solo ridimensionato gli effetti.

Il grosso della manovra, non troppo stravolto dalle aggiunte, mostra una limitata capacità di incidere. Un calo delle imposte c’è, seppur assai inferiore ai 18 miliardi di euro vantati dalla propaganda governativa. Le imprese pagheranno 4,5 miliardi in meno; gli 80 euro ai redditi più bassi sono resi duraturi.

Il carico fiscale complessivo dovrebbe ridursi di 8 miliardi netti nelle stime della Banca d’Italia; sarà meglio distribuito grazie a misure una volta tanto concrete contro l’evasione.

Quanto agli effetti sull’economia, «espansivi» secondo il governo, la maggior parte degli esperti valuta che saranno all’incirca neutrali. Le controverse regole di bilancio europee ci chiedono in realtà una manovra restrittiva: nei calcoli fatti a Bruxelles, questa lo sarà solo per lo 0,1% del prodotto lordo, poco o nulla.

L’interrogativo più importante concerne lo sgravio di contributi alle nuove assunzioni a tempo indeterminato. Se davvero i decreti di attuazione del «Jobs Act» convinceranno le imprese a creare nuovi posti fissi in buon numero, gli 1,7 miliardi stanziati finiranno prima di metà anno, e si creerà il problema di trovare altre risorse.

Su come fare di più e meglio, di voci se ne sono sentite tante. Sfidare le regole europee – come molti sono bravi a proporre dall’opposizione e non osano mai fare se al governo – poteva riuscire controproducente, come ha spiegato Piercarlo Padoan. Però un serio programma pluriennale di revisione delle spese avrebbe consentito di ottenere di più.

Una occasione è stata perduta per incidere su quanto gli scandali, a Roma e altrove, rivelano. Sono timide le norme approvate in Senato per iniziare la pulizia delle partecipate degli enti locali. Proprio alla responsabilità di Regioni e Comuni è affidata la speranza che i tagli ai loro fondi non si traducano in aggravi fiscali (magari dopo il voto amministrativo della primavera).

E poi c’è il pulviscolo di micro-misure che si ripete, nonostante le riforme della sessione di bilancio che promettevano di eliminarlo. Lo stesso ministro dell’Economia si sente tenuto a ricordare che sono ripristinate le agevolazioni al gasolio per l’autotrasporto: un incentivo a inquinare mantenuto dalla minaccia di sciopero dei Tir.

Un problema di fondo continua ad essere eluso. Non si tratta di decidere se sia giusto o meno, ad esempio, stanziare 50 milioni per la lotta alla ludopatia, ossia alla mania del gioco d’azzardo. Bisogna al contrario capire se le strutture pubbliche che abbiamo sono davvero capaci di fare qualcosa per combattere questo brutto vizio, oppure no. Solo così si può evitare di sprecare denaro.

Per inanellare promesse la politica chiede allo Stato di fare di tutto, senza mai preoccuparsi se ci riesca. E se vogliamo frenare la corsa a compiacere i lobbisti, non basta il monocameralismo: occorrono anche una più forte riduzione nel numero dei parlamentari, un legame stretto tra eletto e collegio, regolamenti della Camera che non consentano a pochi di rallentare i lavori.

twitter: @stefanolepri1

Da - http://www.lastampa.it/2014/12/21/cultura/opinioni/editoriali/frenare-la-corsa-delle-lobby-tXNa6gEjU2CbbFv5yekeqK/pagina.html


Titolo: STEFANO LEPRI. Sfruttare il poco tempo disponibile
Inserito da: Admin - Aprile 12, 2015, 06:07:59 pm
Sfruttare il poco tempo disponibile

12/04/2015
Stefano Lepri

È scarso il tempo per sfruttare le occasioni favorevoli che il governo si trova davanti. Tassi di interesse quasi a zero, euro debole, petrolio a buon mercato, maggiore fiducia nel futuro da parte di imprese e consumatori agevolano la politica economica. Per come muta la scena del mondo, il pericolo è che l’Italia ripiombi presto nel pantano.

Nemmeno negli Stati Uniti la ripresa sembra energica. La Cina dovrà fare i conti con gli investimenti in eccesso dei suoi anni di crescita al galoppo: grattacieli vuoti, acciaierie, e cementifici senza mercato. Tra pochi giorni il Fondo monetario internazionale ci spiegherà perché vede in prospettiva anni di crescita bassa nei Paesi avanzati, meno veloce negli emergenti.

In questo contesto, in cui i tassi di interesse pur risalendo non torneranno mai ai livelli di prima, l’ansia per il nostro gran debito accumulato si attenua. Tuttavia non funzioneranno ambedue le ricette fin qui applicate in Europa: puntare tutto sull’export imitando la Germania, tirare a campare all’italiana (o, con qualche eleganza in più, alla francese).

L’Europa dovrà trovare soprattutto dentro di sé le energie per muoversi con un ritmo più spedito. Non si tratta solo dell’area euro, perché la produttività langue anche fuori, nella Gran Bretagna. E per vendere bene ciò che si commercia oggi l’efficienza manifatturiera non basta, la qualità delle istituzioni di un Paese, perfino della sua vita sociale, conta di più.

In Italia certi mali comuni appaiono più gravi, con minacce di vero declino. Alcuni vantaggi esterni, come cambio e prezzo del greggio, possono durare poco. Far presto è importante per due motivi: perché toglie spazio alla rassegnazione e al qualunquismo, e perché un’Italia che si muova può rompere la sfiducia tra Stati che ha irrigidito l’area euro in scelte di austerità eccessiva.

Nelle 290 pagine del «Programma nazionale di riforma» approvato l’altra sera dal governo ci sono, oltre ad abbondanti sproloqui, propositi su cui insistere. Ad esempio già per settembre si promette di «mettere on-line le performance delle amministrazioni locali in termini di costo e livello di servizio in modo sintetico e leggibile da tutti». Magari! 

Legare a parametri precisi i bilanci degli enti locali, ridurre il numero delle centrali appaltanti, rivedere uno per uno i capitoli della spesa pubblica, sono provvedimenti utili sia a risparmiare sia a limitare la corruzione; tanto più necessari in una fase politica in cui l’alternanza fra schieramenti rivali non funziona bene, e comunque esistono centri di malaffare attrezzati per sopravviverle.

Sono queste le riforme da fare, più di altre. E se una nuova interpretazione delle regole europee davvero regalerà 1,6 miliardi in più da utilizzare sul bilancio di quest’anno, il «bonus» (altra parola ridicola) non sarà replicabile negli anni successivi. Non potrà finanziare sgravi permanenti o spese pluriennali, quindi gran parte delle richieste di queste ore sono da bocciare comunque.

Si discuta con serietà su che cosa conviene puntare. Già si è scoperto che un successo delle nuove norme per trasformare lavori precari in fissi potrebbe costare – in sgravi temporanei per il 2015 – più del previsto; quella intanto è una priorità. Un aiuto mirato ai più poveri andrebbe bene, una maniera convincente di investire sul futuro potrebbe andar meglio.

Twitter: @stefanolepri1 

Da - http://www.lastampa.it/2015/04/12/cultura/opinioni/editoriali/sfruttare-il-poco-tempodisponibile-gRmEsDjFzEubmdcHb8LFYO/pagina.html


Titolo: STEFANO LEPRI. Rifare i conti è un’occasione per il governo
Inserito da: Admin - Maggio 10, 2015, 04:46:19 pm
Rifare i conti è un’occasione per il governo

08/05/2015
Stefano Lepri

Ci sono due ragioni che costringono il governo a rifare i conti. Una è la sentenza della Corte Costituzionale sulle pensioni, che sembra meno irresponsabile solo perché la nostra iniziatica giurisprudenza offre cavilli per ridimensionarla. 

L’altra è che il panorama economico appare più incerto rispetto alle previsioni scritte nel Documento di economia e finanza un mese fa. 

Combinando i due elementi sarebbe bene chiarire a quale scopo si è fatta una nuova legge elettorale. Per Matteo Renzi la maniera migliore di rispondere a chi lo accusa di voler soltanto imporre il suo comando è di esplicitare quale riforma dello Stato dovrà partire da un esecutivo più stabile e (una volta ridimensionato il Senato) da una attività legislativa più rapida.

Contrappesi robusti e organi di controllo servono sì, a fronte di un governo meno frenato dai patteggiamenti politici. Ma non vanno bene così come sono oggi, in un assetto che li spinge più che altro a contraddire le decisioni degli eletti dal popolo rispondendo a spinte corporative. Chi regge un Comune, ad esempio, trova spesso il primo nemico nel Tar piuttosto che nell’opposizione.

Servirebbe ad esempio una Corte dei Conti fatta di tecnici capaci di indagare sul campo se i soldi pubblici siano spesi bene, invece che di giuristi oscillanti tra controlli formali e prediche atte ad essere riprese da giornali e tv. E la Corte Costituzionale non dovrebbe poter esentare dai sacrifici una categoria di cittadini facendone ricadere il peso su altri, come rischia di avvenire ora.

Nei due anni in cui è stata in vigore la legge sulle pensioni ora abrogata, il prodotto lordo dell’Italia si è ridotto del 4,2%, i consumi delle famiglie di altrettanto. Se doveva essere tutelato il potere d’acquisto anche delle pensioni superiori a tre volte il minimo, quali altre categorie di cittadini dovevano contribuire con rinunce maggiori della media?

 

I pensionati di oggi (tra cui, per chiarezza, c’è anche chi scrive) sono perlopiù gli esentati dalle riforme di ieri. Hanno evitato rinunce accollate alle fasce di età successive. Parecchi tra loro, specie ai livelli alti, ricevono un trattamento superiore a quanto comporterebbero i contributi versati nel corso della vita lavorativa.

A questo tentava di rimediare in modo assai rozzo il provvedimento ora abrogato. Ma intervenire in modo equo con calcoli precisi, ad personam, (come hanno proposto in passato Tito Boeri, oggi presidente dell’Inps, o Yoram Gutgeld, consigliere del presidente del Consiglio) pone tremendi problemi di consenso politico.

La Costituzione comprende anche l’articolo 81, nella sua nuova formula fin troppo rigida, che prescrive «l’equilibrio di bilancio». L’onere impopolare di fare i conti con quello la Corte lo lascia a governo e Parlamento. Per giunta, la svolta imprevista nei tassi sul debito pubblico, ora in risalita, e il recupero dell’euro sul dollaro, complicano il quadro di insieme: altro che «bonus»!

Può ben darsi che il mutamento d’umore dei mercati sia passeggero, parte delle oscillazioni gregarie tipiche della finanza di oggi. Però per prudenza è meglio ipotizzare che i tre grandi fattori favorevoli per l’Italia – bassa spesa per interessi, più export con l’euro debole, greggio a buon mercato – possano nel 2015 dare una somma inferiore a quella fin qui sperata.

L’unica via di uscita è in avanti. Gran parte della scarsa competitività dell’Italia dipende dall’inefficienza delle sue strutture pubbliche. C’è una giungla di poteri che si erodono l’un l’altro a forza di veti, in una confusione in cui i cittadini non capiscono più a chi spetta di decidere, e a chi di controllare. Senza sciogliere questi nodi, oltretutto, resterà arduo ridurre le spese.

Da - http://www.lastampa.it/2015/05/08/cultura/opinioni/editoriali/rifare-i-conti-unoccasione-per-il-governo-DQs5uwv3ebzFUX2v1dwBdI/pagina.html


Titolo: STEFANO LEPRI. Il gioco d’azzardo di Tsipras fa perdere i greci
Inserito da: Admin - Giugno 29, 2015, 06:01:21 pm
Il gioco d’azzardo di Tsipras fa perdere i greci

28/06/2015
Stefano Lepri

L’area dell’euro vive la sua ora più triste. Forse l’uscita della Grecia, ormai difficile da evitare, non sconvolgerà più di tanto i mercati, ma il suo strascico di veleni peserà a lungo nella politica del nostro continente. I 19 governi non sono riusciti, tutti, a prevenire una dolorosa frattura; ma la colpa di questo esito è del disperato gioco d’azzardo che Alexis Tsipras ha spinto troppo oltre.

Non ci si racconti che si tratta di difendere la dignità di un popolo contro creditori spietati. I documenti del negoziato, trapelati perlopiù per iniziativa dei greci stessi, lo smentiscono. Quale abisso c’è tra un aumento dell’Iva con gettito di 0,93 punti di prodotto lordo e un aumento dell’Iva per 1 punto di Pil? A questo, e a poco altro, si era ridotta la distanza tra le due parti.

Né si scorgono contrapposizioni che possano davvero catturare la simpatia delle sinistre di altri Paesi. In una fase precedente, quando il Fondo monetario internazionale si era stolidamente impuntato sulla deregolamentazione del mercato del lavoro, ce n’erano state.

Tsipras ai greci: “Votate no al referendum. La proposta dei creditori è un insulto” 

Nell’ultima fase, anche su questo punto la distanza non era grande. A una prima impressione, rivolgersi al popolo è parsa a molti una scelta giusta. Ma, guardando bene, la domanda che verrà posta è ingannevole. Tsipras ha deciso per il referendum quando ha constatato che il suo partito, Syriza, si sarebbe spaccato nel voto sul presumibile accordo. Ha cercato di usare l’annuncio come arma per ulteriori concessioni, gli altri governi hanno risposto no.

Buona idea sarebbe stato indire un referendum ponendo la questione vera. Nel voto dello scorso gennaio i greci hanno dato la maggioranza relativa a un partito che in realtà non è d’accordo su dove andare: dentro l’euro, o fuori. Occorreva quindi tornare a rivolgersi ai cittadini riconoscendo la divisione interna a Sýriza.

Tsipras rimane popolare; lo sostiene ancora la speranza («i elpida», parola d’ordine della campagna elettorale) di un nuovo modo di governare, diverso dal clientelismo dei vecchi partiti. Ben poco tuttavia si è visto, specie di impegno a ricostruire uno Stato corrotto e inefficiente; mentre interessi di categoria, di aree elettorali, di lobby sindacali, restano le vere «linee rosse invalicabili» a Bruxelles.

Il guaio è che la condotta del governo di Atene è stata disastrosa innanzitutto per i greci stessi. Una scelta tra euro e dracma sarebbe stata meno pericolosa quattro mesi fa, prima che l’economia rientrasse in recessione, che il bilancio dello Stato tornasse in passivo anche al netto degli interessi sul debito, che le banche si svuotassero di denaro.

Gli altri diciotto Paesi hanno fatto bene ieri a mostrare fermezza. Nelle ore che restano fino alla dichiarazione di insolvenza di martedì, occorrerà però che l’Europa sappia parlare ai cittadini greci, e spiegare che nessuno vuole opprimerli. I sacrifici su cui verteva il negoziato - per rimettere in sesto il bilancio - sarebbero necessari anche in caso di una totale cancellazione del debito.

Se la tragedia dell’uscita greca non potrà essere evitata, sarà urgente fare chiarezza tra chi rimane. Troppi in Germania si augurano che punire un Paese serva a educarne altri. Invece, per reggere all’urto, per evitare che i mercati si rivolgano contro altri Paesi deboli, occorrono misure immediate che rinsaldino l’edificio dell’euro. Quelle previste dal «Rapporto dei 5 presidenti» sono il minimo necessario.

Da - http://www.lastampa.it/2015/06/28/cultura/opinioni/editoriali/il-gioco-dazzardo-di-tsipras-fa-perdere-i-greci-XIZCEKlSR0sGAJY6GifkDL/pagina.html


Titolo: STEFANO LEPRI. Sui conti le scorciatoie sono finte
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 14, 2017, 05:36:05 pm
Sui conti le scorciatoie sono finte

Pubblicato il 14/02/2017
Ultima modifica il 14/02/2017 alle ore 06:57

Stefano Lepri

Tanto vale farla subito, la manovra aggiuntiva chiesta dalla Commissione europea. L’importo è modesto; gli effetti di freno sulla crescita saranno - secondo i calcoli dell’Ufficio parlamentare di bilancio - limitatissimi. Se si eviteranno visibili aumenti di tasse, come chiede Matteo Renzi, tanto meglio.

All’ex presidente del Consiglio si può casomai rimproverare che una migliore legge di bilancio 2017, meno legata a entrate aleatorie, avrebbe risparmiato all’Italia la nuova controversia con gli uffici di Bruxelles. Ma il principio che la pressione fiscale va ridotta, anche da un punto di vista di sinistra, è bene che resti. 

Un problema serio nella gestione dell’area euro c’è; l’Italia non può risolverlo da sola. Nelle previsioni economiche della Commissione uscite ieri si legge appunto che nel loro insieme i 19 Paesi per condurre una politica di bilancio appropriata, tale da creare più posti di lavoro, nel 2017 dovrebbero investire in aggiunta o tassare di meno per circa 40 miliardi. Non lo faranno.

L’effetto combinato delle politiche nazionali, del Patto di stabilità e dei compromessi per aggiustarlo, dà un risultato (una «fiscal stance» nell’inglese dei tecnici) insoddisfacente, da cui molti disoccupati ricavano un danno duraturo. Non c’è qui un disegno malefico di qualche Paese contro qualcun altro; anche una analisi del Fmi mostra soltanto una complessiva irrazionalità.

Germania e Olanda, che potrebbero far di più per il bene comune, hanno bilanci in attivo che agli altri sono dannosi. Al contrario l’Italia è già fin troppo in deficit rispetto a quanto la sua montagna di debiti potrebbe permettere, come conferma il recente rialzo dello «spread»; se tentasse di sfuggire alle regole metterebbe in pericolo se stessa e anche gli altri.

Tutto questo andrà cambiato. Sarà una battaglia politica lunga, da condurre trovando alleati. Potrebbe diventare meno ardua se le elezioni francesi di primavera e quelle tedesche di autunno andassero come fanno supporre i sondaggi correnti: vittoria del centrista ed europeista Emmanuel Macron a Parigi, rafforzamento dei socialdemocratici nella inevitabile grande coalizione a Berlino.

Non ci sono scorciatoie. Fino all’anno scorso, le intemperanze italiane trovavano simpatia dall’altro lato dell’Atlantico, e ci proteggeva il sostegno monetario della Bce al massimo della forza. Ora il panorama è cambiato; la Germania diventa nel mondo il principale pilastro del libero commercio, vitale per difendere quell’attivo con l’estero che è una delle poche forze dell’Italia.

Oltretutto il confronto con il resto d’Europa ci conferma che i guai del nostro Paese sono prodotti soprattutto all’interno. Quando finalmente la ripresa sembra consolidarsi, da noi resta più debole. Il divario non è recente, era già comparso negli Anni 90, prima dell’euro. Più passa il tempo, più diventa duro sostenerlo.

Sul nostro 2017 pesa inoltre l’incertezza politica, come rileva la Commissione (che il «no» al referendum abbia avuto conseguenze a questo punto è difficile negarlo). Pesa - sull’afflusso di credito alle imprese - il cattivo stato delle banche italiane: i 20 miliardi che lo Stato vi investirà sono purtroppo necessari, ma senza un progetto per riassestarle rischiano di essere persi.

In qualsiasi momento si vada al voto, speriamo che i partiti sappiano andare oltre i fantasiosi scambi di accusa mediante «fake news», ovvero false notizie. Non è male che intanto la Francia si applichi a considerare i rischi tremendi di un’uscita dall’euro, di fronte ai quali le tre settimane di banche chiuse, contante razionato, divieto di portar soldi all’estero in Grecia nel 2015 parrebbero un’inezia.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/02/14/cultura/opinioni/editoriali/sui-conti-le-scorciatoie-sono-finte-ptwp6S8oHjkl8OILtaczeP/pagina.html


Titolo: STEFANO LEPRI. La sfida è la stabilità del debito
Inserito da: Arlecchino - Aprile 13, 2017, 06:08:33 pm
La sfida è la stabilità del debito

Pubblicato il 12/04/2017

STEFANO LEPRI

L’impressione della paralisi politica è stata piuttosto evidente nella conferenza stampa del governo ieri sera. Sapevamo già alla vigilia che le scelte economiche importanti per il 2018 sarebbero state rinviate a ottobre; c’erano anche motivi di politica europea per far così. Ma ha colpito la mancanza di dettagli sulle misure immediate, sulla «manovrina»: e qui il problema è tutto italiano.

 
Possiamo anche dar fiducia a Pier Carlo Padoan quando afferma che la manovrina non peserà sulla crescita e nello stesso tempo aggiusterà i bilanci in modo permanente («strutturale» nel gergo europeo), non effimero. Dato il suo modesto importo, i 3,4 miliardi già noti, non sarà difficile. La vaghezza di ieri fa tuttavia sospettare mercanteggiamenti politici in corso, e debolezza di progetto.
 
E’ anche vero che una parte rilevante delle risorse sarà raccolta con la lotta all’evasione. Però occorre ragionare su perché le uniche misure adottate contro l’evasione, come già dal governo Renzi, siano quelle («split payment» dell’Iva e simili) che non risultano immediatamente impopolari. Questo unico spiraglio rimane aperto a una politica debole.
 
Lo stesso ministro dell’Economia confessa un’altra difficoltà. 

Se da una parte si conferma l’obiettivo di ridurre la pressione fiscale, certi tagli di spesa (all’opposto di quanto propagandato negli anni scorsi da alcuni economisti) esercitano un freno alla crescita che nell’immediato è più sensibile. Il «no a nuove tasse» diventa arduo proprio quando un governo ha il fiato corto. 
 
Al momento abbiamo solo l’assicurazione che gli impegni europei saranno rispettati, e l’annuncio rassicurante di un deficit 2017 limitato al 2,1%. Si insiste che continua una politica di incisive riforme, mentre abbiamo un Parlamento che stenta ad approvare riforme dell’era Renzi, come quella della giustizia o la legge sulla concorrenza. Sulle riforme ulteriori, la maggioranza è divisa.
 
E’ possibile che un segnale importante al mondo, la stabilizzazione del debito in rapporto al Pil al temine del 2017, venga dato cedendo quote di aziende alla Cassa depositi e prestiti, ente che di fatto è pubblico ma formalmente no. Si prenderebbe tempo dato che la maggioranza anche qui è divisa.
 
Per contrastare le resistenze ideologiche della sinistra, e l’ostilità dei sindacati, sarebbe utile avere un progetto chiaro su perché e come privatizzare aziende come Ferrovie e Poste che in parte svolgono compiti sussidiati di servizio pubblico. In entrambi i casi, non è semplice decidere in quali campi è meglio operi la logica del profitto e in quali no; occorrerebbe riuscire a discuterne.
 
D’altra parte, questa maggioranza scompaginata non è certo spinta alla chiarezza da opposizioni che o ripetono vecchi espedienti retorici (buco, stangata, numeri truccati) o propongono alternative insostenibili. Sia la maxi-riduzione fiscale chiesta dalla Lega Nord sia il reddito di cittadinanza proposto dai 5 stelle costerebbero decine di miliardi. L’uscita dall’euro porterebbe alla bancarotta.
 
L’obiettivo sensato di calare fortemente le tasse (specie sul lavoro) si attua solo sapendo scontentare i tenaci interessi particolari che difendono ogni brandello della spesa pubblica. Non ci sono riusciti né Silvio Berlusconi all’apice della sua forza né Matteo Renzi nella sua battagliera fase iniziale. Tanto meno si può sperare in assetti politici fragili come quelli che ci troviamo di fronte.
 
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DA - http://www.lastampa.it/2017/04/12/cultura/opinioni/editoriali/la-sfida-la-stabilit-del-debito-ih5fa0r95HjA113KwpKUjJ/pagina.html


Titolo: Stefano Lepri. Chi tocca Banca Etruria muore?
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 18, 2017, 07:25:51 pm

In via Nazionale la battaglia delle regole

Pubblicato il 18/10/2017 - Ultima modifica il 18/10/2017 alle ore 07:00

Stefano Lepri

Chi tocca Banca Etruria muore? La mossa a sorpresa del Pd contro il governatore Ignazio Visco, ispirata da Matteo Renzi, può essere letta in due diverse maniere. Una è tutta politica: costi quello che costi, non lasciare la polemica contro i crack bancari alle sole opposizioni, M5S in testa. Un’altra è la vendetta per aver messo in difficoltà l’entourage toscano del segretario Pd. 

Il problema ovviamente esiste. In un breve volgere di mesi, dalla seconda metà del 2012 all’inizio del 2013, il sistema bancario italiano di cui prima si era vantata la solidità si è rivelato il più debole tra i grandi Paesi dell’area euro. Può ben darsi che ci sia stato un ritardo nel rendersene conto da parte della Banca d’Italia, allora unica responsabile della vigilanza sulle nostre aziende di credito.

È legittimo discutere se gli interventi sulle banche in difficoltà siano stati tempestivi. Quello sul Monte dei Paschi che Visco fece nelle prime settimane del suo mandato, autunno del 2011, lo fu. Per alcuni dei successivi, soprattutto la Banca popolare di Vicenza che era guidata da un gruppo di potere molto influente sia in Veneto sia a Roma, si possono avere dubbi.

Ma i politici dove erano? Dalla parte opposta. 
Quasi sempre da ogni parte del Parlamento sono venute pressioni per non drammatizzare o per evitare interventi traumatici; in un caso almeno, il commissariamento della Cassa di Risparmio di Chieti nel settembre 2014, anche il M5S protestò. Nel caso di Banca Etruria si era adoperata appunto l’allora ministra Maria Elena Boschi. 

L’assorbimento di una banca in difficoltà da parte di una più grande è sempre parsa ai politici la soluzione più opportuna per lavare i panni sporchi in casa, non turbare gli assetti di potere ed evitare conseguenze giudiziarie. Nel caso di Banca Etruria si parla appunto di svariati tentativi di questo tipo; e altro forse verrà a galla, nell’inasprirsi dello scontro.

Su questo l’amministratore delegato di Unicredit ha promesso di parlare davanti alla Commissione parlamentare di inchiesta. In un’altra fase girò l’ipotesi di un intervento della Popolare vicentina, finita nel baratro essa stessa. Alcuni degli imputati hanno attribuito il suggerimento alla Banca d’Italia, la quale tuttavia è convinta di poter dimostrare di non esserne stata parte.

«Sbagliai a fidarmi della Banca d’Italia» recente affermazione di Matteo Renzi, è una frase ambigua, che si presta a diverse letture. Ne è sempre mancata una esplicazione precisa: quando, come, su quali banche. Cosicché si è tentati di sospettare che il rancore derivi non da ciò che la Banca d’Italia ha mancato di fare, ma da ciò che, magari un pochino tardi, ha fatto.

All’attacco improvviso oltre a capi d’accusa articolati mancano anche proposte alternative. Di personaggi esterni di autorità e competenza indiscutibili ce ne sarebbero, per dare una nuova guida alla Banca d’Italia; ma nessuno di essi pare sia mai venuto in mente a chi conduce l’attacco.

Oltretutto, per sostenere la linea Draghi nel consiglio Bce contro le pressioni tedesche serve un governatore rispettato all’estero, capace di esprimersi con proprietà sulle intricate faccende della moneta. Un italiano non all’altezza sarebbe un colossale autogol per l’economia del nostro Paese.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/10/18/cultura/opinioni/editoriali/in-via-nazionale-la-battaglia-delle-regole-S9HN5SYZIA6Nl4tdQLw33M/pagina.html


Titolo: STEFANO LEPRI. L’onda lunga del debito mai corretto
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 28, 2017, 05:25:07 pm
L’onda lunga del debito mai corretto

Pubblicato il 26/10/2017

Stefano Lepri

Si annuncia una campagna elettorale ignara del peso immenso del debito pubblico. Dato che l’età media dei cittadini cresce, l’argomento preferito da tutti i partiti sono le pensioni. Dei giovani si parla poco, benché i dati mostrino che a soffrire di più negli ultimi anni sono stati soprattutto loro.

Già il buon senso fa apparire bizzarro che ieri la Corte Costituzionale si sia di nuovo espressa sull’adeguamento delle pensioni al costo della vita, sia pure per giudicare corretta la formula a scaglioni reintrodotta dal governo Renzi due anni fa.

Quando tutto un Paese diventa più povero (il potere d’acquisto per persona era nel 2016 del 10% inferiore al 2007) è difficile evitare che anche i pensionati, un quarto abbondante degli italiani, perdano qualcosa. Così pure sembra ragionevole che, con la durata della vita che si allunga, si vada a riposo un pochino più tardi.

Non sia mai. Si convertono anche politici ieri fautori dell’austerità. Il Pd comincia a smarcarsi dal governo. Circola l’affermazione falsa che in Italia si debba lavorare più a lungo che in tutti gli altri Paesi d’Europa. È vero invece che c’è un ampio divario tra l’età legale, prossima ai 67 anni, e quella effettiva media, negli ultimi dati disponibili attorno ai 62 per entrambi i sessi.

Questo comporta casomai un problema di uguaglianza tra cittadini. Trattamenti speciali, esenzioni, provvedimenti ad hoc, normative transitorie consentono ai più di lasciare in anticipo. Coloro che sono costretti ad attendere l’età legale senza scappatoie sono una minoranza di sfavoriti.

Un paradosso è che gli uomini andavano in pensione più tardi di oggi (tra i 63 e i 64) negli Anni 70, quando la loro vita durava in media una decina di anni in meno rispetto a quanto possono sperare i loro coetanei attuali. Per giunta, c’erano in proporzione molti più giovani a versare contributi.

Dato che la spesa previdenziale ammonta a un terzo del bilancio dello Stato, ciò che si decide sulle pensioni influenza moltissimo la sostenibilità del nostro debito pubblico. Va ripetuto che le colpe del debito le hanno i governi passati - 1981-92 e 2000-2004 i periodi peggiori - ma necessariamente chiunque guidi il Paese oggi ha margini di manovra limitati.

Un allentamento delle regole pensionistiche ha costi contenuti all’inizio, rapidamente crescenti nel tempo. Farebbe calare la fiducia nei titoli di Stato italiani proprio quando la Banca centrale europea annuncia - oggi pomeriggio - che ne ridurrà gli acquisti a partire dal gennaio 2018, con la conseguenza di un aumento dei tassi.

Certe promesse erano già ardue da sostenere nei tre anni di costo del debito ultra-basso finora garantiti al Tesoro dalle scelte di Mario Draghi. D’ora in poi divengono incaute. Inoltre nei momenti in cui l’economia va bene, come ora, occorre metter da parte risorse per i momenti brutti (una delle ipotesi correnti è che gli Usa vadano in recessione entro 1-2 anni).

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Da - http://www.lastampa.it/2017/10/26/cultura/opinioni/editoriali/londa-lunga-del-debito-mai-corretto-n5QUZJ61wKtK3IFfnLHM5O/pagina.html


Titolo: STEFANO LEPRI. L’equivoco che imbriglia il credito
Inserito da: Arlecchino - Novembre 12, 2017, 12:29:39 pm
L’equivoco che imbriglia il credito

Pubblicato il 10/11/2017

STEFANO LEPRI

Con il senno del poi, è facile dire: quella banca era marcia, occorreva intervenire prima. Il guaio è che prima, quando una banca comincia a barcollare, potentati locali e politici premono sulle istituzioni di controllo perché si faccia tutto il possibile per lasciarle il tempo di riaversi, evitando soluzioni traumatiche. 
 
È questo, in parole povere, il contrasto tra esigenze di trasparenza ed esigenze di stabilità di cui parlano gli esperti. Se le traversie di una banca vengono messe in piazza troppo presto, si rischia di farne fuggire i depositi provocandone un disastro che poteva essere evitato. Se si attende troppo, si dà spazio a gruppi dirigenti spregiudicati per imbrogliare gli investitori.
 
A posteriori, ci vuol poco a individuare il momento giusto. In alcuni casi gli stessi politici ora impietosi nel denunciare i ritardi in precedenza chiedevano alle istituzioni di controllo di non accanirsi su banche vicine al territorio, impegnate a sostenere le imprese colpite dalla crisi.
 
Si indignano per i comportamenti disinvolti della Banca Popolare di Vicenza anche alcuni che volevano tenerla al riparo dalla riforma («vergognosa» secondo il presidente della Regione Veneto Luca Zaia, sbagliata secondo altri sia a destra sia a sinistra) delle banche popolari. 
 
Una riforma che la Banca d’Italia sollecitava da anni e che solo nel 2015 è stata realizzata. 
 
Se non altro, il poco edificante battibecco di ieri (solo a distanza) tra Banca d’Italia e Consob ha indicato in quali direzioni occorre muoversi. La prima ha chiesto più poteri, la seconda più mezzi e maggiore accesso ai risultati delle ispezioni della vigilanza sulle aziende di credito. Bene; purché ci si renda conto che questo comporta una trasformazione più rapida del sistema bancario.
 
La Banca d’Italia chiede il potere di proibire del tutto la vendita al dettaglio di titoli alle banche sulle quali la valutazione di vigilanza sia inferiore a un certo livello. In un passato non distante, questa sarebbe stata definita una misura dirigista, un vincolo al mercato e alla libertà di impresa. L’esperienza recente porta invece a ritenerla opportuna.
 
La Consob da gennaio riceverà con la direttiva europea Mifid 2 poteri più ampi nel disciplinare la collocazione dei prodotti finanziari presso i piccoli risparmiatori. Da anni aveva chiesto al Parlamento italiano di ottenerli in anticipo, senza avere ascolto. Anche qui si tratta di vietare se necessario.
 
Poter meglio prevenire non basta, tuttavia. Il mondo bancario non può restare com’è oggi: l’informatica diminuisce l’importanza di avere sportelli ovunque; la stabilità finanziaria richiede maggiori dotazioni di capitale; nell’area euro la moneta comune consiglia fusioni transnazionali. È pericoloso che le banche diventino enormi, ma le piccole spesso non sono abbastanza vitali.
 
Proprio la sicurezza dei risparmiatori richiede trasformazioni accelerate. Rendiamoci conto che la modifica delle procedure e delle regole di cui ieri è emersa l’urgenza imporrà sfide che per alcune delle attuali aziende bancarie potrebbero risultare troppo ardue. Saranno inevitabili altre aggregazioni, o almeno allargamenti di gruppi di controllo.
 
E allora non si può tenere il piede in due scarpe: ovvero, da un lato fare demagogia grossolana imputando ai banchieri misfatti di ogni genere, dall’altro schierarsi a difesa degli attuali poteri bancari italiani contro ogni innovazione normativa europea che li spinga a evolversi.

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Titolo: STEFANO LEPRI. Un aiuto a chi è in sofferenza. Scorretto.
Inserito da: Arlecchino - Marzo 10, 2018, 05:56:45 pm
Un aiuto a chi è in sofferenza. Ma c’è il rischio assistenzialismo
I dubbi degli esperti: si perdono gli stimoli a cercare strade nuove il lavoro nero potrebbe diventare cronico e le truffe aumentare
Scorretto.
Chiamato «reddito di cittadinanza» in realtà la proposta del M5S è un’integrazione sul modello di quello già operativo in Italia (è stata introdotta dal Pd) anche se rafforzata. Nella foto un gruppo di persone porta uno striscione alla marcia Perugia Assisi organizzata dal M5S
Pubblicato il 10/03/2018 - Ultima modifica il 10/03/2018 alle ore 09:21

STEFANO LEPRI
ROMA

Suscitare un eccesso di attese al Sud e perdere consensi al Nord sono i rischi politici che il Movimento 5 Stelle avrebbe davanti se realizzasse quello che ha chiamato «reddito di cittadinanza». Il nome, suggestivo, non è esatto, perché si tratta di un’integrazione fino a un reddito minimo condizionata alla ricerca di lavoro.

Già cinquecento anni fa, gli umanisti Tommaso Moro (nel libro «Utopia») e Juan Luìs Vives proposero che ogni cittadino ricevesse dallo Stato un minimo vitale, per evitare che la miseria spingesse al furto. Invece, nel mondo di oggi, fino a che punto la garanzia di un reddito può indurre alla pigrizia?

Un vero «reddito di cittadinanza» è uguale per tutti senza condizioni: lo stanno testando in Finlandia su duemila disoccupati estratti a sorte, 560 € al mese per 2 anni. Dovrebbe renderli più sereni nella ricerca di un impiego, o dargli tempo di metter su una attività autonoma. Un anno è trascorso, ancora mancano dati su che cosa accada.

Il reddito del programma M5s ai pigri dovrebbe poi essere tolto. «Dopo la terza offerta di impiego rifiutata? Siamo sicuri che in Italia si riesca a controllare questo?» chiede l’economista Francesco Daveri, Università di Parma e Bocconi, che sta studiando gli effetti dell’innovazione tecnologica sul lavoro. Tra 5 milioni di beneficiari, parecchi un’offerta non la riceverebbero mai.

Diversi Paesi con indennità di disoccupazione generose nei primi anni Duemila ne hanno irrigidito i criteri, subordinandole a un’attiva ricerca di impiego. Sono documentati espedienti vari per eludere, perfino falsi licenziamenti concordati per tornare a percepire l’indennità: in Italia potrebbe nascerne un business.

Nelle intenzioni, il reddito garantito cancellerebbe i lavori precari più miseri, a cui nessuno vorrebbe più prestarsi. Ma, al contrario, nelle aree dove il lavoro nero è già diffuso, si potrebbe tentare di sommare l’uno e l’altro. Inoltre le richieste potrebbero dilagare al di là dei calcoli fatti, come già avvenuto per un’erogazione della Regione Campania.


In linea di principio, concedere automaticamente una somma a tutti taglia corto con i ritardi delle burocrazie e i favori delle clientele. Per questo ci sta pensando l’India. Ma nei Paesi avanzati se così si sostituiscono altre forme esistenti di soccorso alla povertà, avverte l’Ocse, le fasce più deboli potrebbero ricevere meno di prima. Soprattutto, osserva Daveri, «non è quello che serve di fronte ai problemi di oggi. La disoccupazione prodotta dall’arrivo di nuove tecnologie o da altre trasformazioni ha bisogno di interventi più mirati. Occorre pensare a strumenti nuovi, che durino se necessario più a lungo dell’attuale indennità».

In altre parole, «va bene riqualificare i disoccupati, ma non possiamo chiederlo a un cinquantenne il cui posto di lavoro scompare. Per esempio, possiamo aiutarlo ad accettare un impiego differente con uno stipendio più basso, come è stato fatto negli Stati Uniti. Un piccolo stanziamento c’è già nella legge di bilancio 2018, occorre far meglio».

Da tempo il presidente dell’Inps Tito Boeri lamenta la mancanza di uno strumento unico per soccorrere sia gli indigenti sia chi a dispetto degli sforzi resta disoccupato oltre la durata dell’indennità. Forse è da lì che, per un compromesso di governo, si può partire.

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