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Autore Discussione: SOCIETA' - FAMIGLIA  (Letto 22866 volte)
Arlecchino
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« inserito:: Maggio 17, 2007, 06:41:30 pm »

POLITICA

Il segretario generale della Cei contro "nichilismo e relativismo"

"Come le truppe del Barbarossa che assediarono la cristianità"

Betori: "Aborto, eutanasia e coppie gay i nuovi nemici alle porte della Chiesa"


 CITTA' DEL VATICANO - La Chiesa cattolica ha i nemici alle porte. L'aborto, l'eutanasia, il relativismo etico che "nega la dualità sessuale e scardina la famiglia basata sul matrimonio" sono come le truppe di Federico barbarossa, che nel 1155 cinsero d'assedio la cittadella cristiana di Gubbio. A fare il paragone è il segretario generale della Cei, monsignor Giuseppe Betori, parole che, a quattro giorni dal Family Day e mentre divampa la polemica sui Dico, possono assumere una connotazione politica forte, anche se il presule non ha fatto alcun accenno diretto né alla manifestazione di San Giovanni tanto meno al ddl governativo sui diritti dei conviventi.

Proprio nella cattedrale di Gubbio, il numero due della Cei ha celebrato oggi una messa in onore di Sant'Ubaldo, il vescovo medioevale che difese eroicamente la sua comunità contro gli assalti dell'esercito germanico. A lui la Chiesa deve ispirarsi contro i nuovi aggressori, "che tentano di espugnare le nostre città". Questi "nuovi nemici" si chiamano innanzitutto "nichilismo e relativismo", due mali da cui si nutrono la deriva morale ma anche le ingiustizie sociali, le violenze, il terrorismo, l'emarginazione dei più deboli.

Nell'omelia, Betori è partito dal ricordo di Sant'Ubaldo: "Fu premuroso nell'impedire la caduta del suo popolo, fortificò la città contro un assedio. Oggi, nuovi nemici tentano di espugnare le nostre città, di sovvertire il loro sereno ordinamento, di creare turbamento alla loro vita".

I nemici di cui parla Betori "si chiamano il nichilismo e il relativismo, che in modo più o meno esplicito nutrono le tendenze egemoni della nostra cultura: fanno dell'embrione, l'essere umano più indifeso, un materiale disponibile per le sperimentazioni mediche; danno copertura legale al crimine dell'aborto, e si apprestano a farlo per le pratiche eutanasiche, infrangendo la sacralità dell'inizio e della fine della vita umana".

E sono sempre loro, i "nuovi nemici", a introdurre "il concetto, apparentemente innocuo, di qualità della vita che innesca l'emarginazione e la condanna dei più deboli e svantaggiati; coltivano sentimenti di arroganza, di violenza, che fomentano le guerre e il terrorismo, delimitano gli spazi del riconoscimento dell'altro e chiudono l'accoglienza verso chi è diverso per etnia, cultura e religione; negano la possibilità di crescita per tutti - continua - mantenendo situazioni e strutture di ingiustizia sociale; oscurano la verità della dualità sessuale in nome di una improponibile libertà di autodeterminazione di sé; scardinano la natura stessa della famiglia fondata su il matrimonio di un uomo e di una donna".

L'omelia anticipa di qualche giorno i temi della prossima Assemblea generale dei vescovi italiani, in programma in Vaticano a partire da lunedì 21 maggio. L'assise sarà per la prima volta aperta dal nuovo presidente della Cei monsignor Angelo Bagnasco. Per l'occasione è atteso anche un discorso importante di Benedetto XVI.

(16 maggio 2007) 

da repubblica.it
« Ultima modifica: Maggio 17, 2007, 06:46:56 pm da Arlecchino » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Maggio 26, 2007, 10:30:56 pm »

L'ANTITALIANO

Chi ha paura del cardinal Bagnasco
di Giorgio Bocca


Nella mia vita non ho mai temuto un divieto o un rimprovero ecclesiastico. Gli infiniti delitti permessi e perdonati in nome dei soldi sono i veri privilegi autoritari del nostro tempo  Il cardinale Angelo Bagnasco
presidente della CeiChe ne pensa del Family day? Un certo fastidio per il nome in inglese, da provinciali dell'impero anglosassone, da mercato globale per vendere di più che con 'il giorno della famiglia'. Poi lo strumentalismo politico cui non poteva mancare Silvio Berlusconi con il suo teorema imbecille: "Il Family day è di destra, solo i dementi sono di sinistra".

E poi il trionfalismo, la retorica sulla famiglia bene supremo della società. Non sempre per fortuna. La famiglia per la continuazione della specie, per la formazione e l'esistenza della nazione, d'accordo, ma anche la famiglia come freno della perenne rivoluzione sociale, come ostacolo alla conoscenza.

Chi ha raccolto le sfide della vita sa che nei momenti decisivi ha dovuto disattendere o disobbedire ai legami della famiglia. La sera che me ne andai da casa per raggiungere la guerra partigiana dissi ai miei: "Sappiate che se vi arrestano o vi perseguitano io non scenderò dalla montagna per costituirmi".

Le famiglie hanno giocato un ruolo ambiguo durante il terrorismo più vicino ai legami del sangue che alla legalità. Le lodi alla famiglia cattolica, in parte condivisibili, sono parse fastidiose e acritiche nella loro ignoranza delle famiglie non cattoliche e nel silenzio sui freni e sui limiti che le famiglie hanno posto agli individui ardimentosi e generosi, anche se cattolici o santi che allargavano le umane conoscenze.

Di fronte alla manifestazione di piazza, e alle cervellotiche definizioni politiche su chi è un familista di destra o di sinistra, ci è parso di cogliere nella società italiana una diffusa diffidenza verso la democrazia intesa come convivenza e tolleranza fra i diversi. Per i cattolici ogni affermazione di laicismo è vista come una ostilità al mondo cattolico. Ogni riconoscimento di un diritto civile agli omosessuali come l'avvento del regno di Satana e, all'opposto, ogni difesa dei cattolici in materia religiosa come un ritorno alla caccia alle streghe o come una crociata sanfedista.
 

Chi vedeva nel cardinale Camillo Ruini un asfissiante difensore di privilegi clericali aveva le sue buone ragioni, ma quelli che promettono morte al cardinal Bagnasco perché fa le sue prediche sono afflitti da mania di persecuzione.

Che l'Italia sia un paese cattolico nei suoi meriti e nei suoi difetti è un fatto accertato, che la televisione pubblica sia al servizio del Vaticano dei papi e delle loro pubbliche cerimonie è altrettanto evidente, ma non è una ragione per dire che la Repubblica italiana è una teocrazia in cui i laici sono schiavi dei preti. In tutta la mia avventurosa vita non ho mai avuto ragione di temere un divieto o un rimprovero ecclesiastico. Le ferree regole del capitale, gli infiniti delitti che vengono permessi e perdonati in nome dei soldi, sono i veri privilegi autoritari del nostro tempo.

I preti di adesso si fan vedere nelle nostre case solo per la benedizione pasquale e quando ci servono per confessioni e olio santo. Si ha l'impressione che queste paure esagerate, queste contrapposizioni spesso fantastiche nascano dal sentimento generale che non si può andare avanti così, senza principi e senza regole, affidati soltanto alla moltiplicazione dei consumi e al dilagare della corruzione.

Non si può andare avanti con il rovesciamento dei valori che il capitalismo selvaggio sta operando. Da capo del governo Berlusconi dichiarava che l'evasione fiscale era un diritto dei cittadini, un modo di resistere allo Stato esoso. Finanziere di livello mondiale, il signor Briatore padrone del Billionaire ricorda con rimpianto i giorni in cui fu arrestato per gioco d'azzardo come inizio della sua fortuna.

E allora i casi sono due: o un ritorno a un minimo di ordine o un nuovo cataclisma sociale.
(25 maggio 2007)
 
da epresso.repubblica.it
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« Risposta #2 inserito:: Maggio 27, 2007, 05:43:12 pm »

Questi i beni personali del mitico banchiere

L'eredità di Cuccia: 150 mila euro

Il lascito del fondatore di Mediobanca ai figli Aurea, Silvia e Pietro Beniamino.

E non ritirava il compenso da presidente onorario


MILANO — Il «banchiere dei banchieri», «il silenzioso burattinaio del capitalismo italiano», «lo spietato sacerdote del grande capitale». Quando Enrico Cuccia morì, poco meno di sette anni fa, furono solo alcuni dei titoli riservati dai quotidiani al fondatore di Mediobanca, protagonista di mezzo secolo di economia e finanza italiana. Un uomo minuto, magro e incurvato, che si poteva incontrare la mattina, in centro a Milano, intento ad attraversare a piedi Piazza della Scala nel tragitto verso via Filodrammatici. Ma se la riservatezza, l'enorme potere, e lo stile di vita quasi monacale sono attributi che fanno ormai parte integrante del ritratto un po' stereotipato di Cuccia, non è meno sorprendente scoprire come alla sua morte, il 23 giugno 2000, i beni personali del banchiere novantaduenne — del “signore della finanza” — si esaurissero in un conto corrente bancario. Quello aperto proprio alla sede centrale dell'allora Comit, la Banca Commerciale Italiana del suo vecchio maestro Raffaele Mattioli e dei primi passi della sua lunga carriera.

IL CONTO IN PIAZZA SCALA - Un conto corrente con un deposito di poco più di 150 mila euro. Anzi, per la precisione, con denaro liquido pari a 303 milioni e 305 mila vecchie lire. Nient'altro, secondo il documento rintracciato dal «Corriere» all'Agenzia delle entrate, lo stesso consegnato dagli eredi qualche settimana dopo all'Ufficio registro successioni di via Ugo Bassi a Milano, corredato di imposta di bollo per trentamila lire. «Il miglior banchiere d'Europa» – come disse Andrè Meyer, suo amico e patron della Lazard, a Cesare Merzagora - non ha lasciato neanche un testamento. Non ce ne sarebbe stato bisogno, visto che ufficialmente, al di là del conto corrente alla Comit, non esisteva un'eredità da dividere, composta magari di immobili, azioni, titoli e beni vari. I dettagli della situazione patrimoniale di Cuccia, per la verità, non sono del tutto accessibili e come si evince dai documenti all'Agenzia delle entrate risultano gelosamente custoditi nello studio dei commercialisti di fiducia della famiglia, quello milanese dei Dattilo. Creato da Giuseppe, siciliano di Siracusa, e gestito dal figlio Maurizio, lo studio è uno storico consulente fiscale di Mediobanca. E di recente ha avuto un ruolo anche nella vicenda che ha portato alla costituzione della Telco, la nuova holding di Telecom Italia. Ma al di là del muro che ha sempre circondato le vicende dei creatori e degli epigoni della banca milanese, a parlare sono le carte disponibili. Per il 1999, l'anno prima della morte, Cuccia dichiarava al fisco di percepire circa 350 milioni netti di vecchie lire. Entrate derivanti per più della metà soprattutto dal fondo di previdenza privato, e per il resto dalla pensione Inps e da quanto riconosciuto da Mediobanca in virtù della carica di presidente onorario: ovvero 163 milioni di lire, al lordo delle ritenute. A proposito di questa compenso, i funzionari della Mediobanca di allora ricordano che l'anziano banchiere non volle mai incassarlo. Tanto che dalla sua segreteria, non potendo disporre diversamente, un bel giorno si decise, con qualche imbarazzo, di accreditarglielo automaticamente, quasi di nascosto.

LA VILLA SUL LAGO - L'ennesimo aneddoto destinato ad alimentare la panegiristica sull'indiscutibile rigore di un banchiere unico e irripetibile? E tuttavia, malgrado fosse un navigato conoscitore degli strumenti della finanza italiana e internazionale, Enrico Cuccia non ha lasciato ai suoi eredi nulla che vada al di là delle possibilità di una agiata famiglia borghese. Dalle stesse carte risulta che anche la famosa villa «da venti stanze e cinquemila metri di giardino» di Meina, sul lago Maggiore, la località dove il banchiere è sepolto (e dove la salma fu trafugata nel 2001 per poi esservi di nuovo sepolta) non rientrava nella sua disponibilità. L'abitazione è proprietà dei tre figli da più di dieci anni, per un terzo ciascuno, ed è in realtà l'eredità lasciata dalla moglie, la signora Idea Nuova Socialista, una delle figlie del fondatore dell'Iri Alberto Beneduce (le altre due si chiamavano Vittoria Proletaria e Italia Libera). Scomparsa nell'ottobre del 1996, anche lei riservatissima, per un puro caso fu ritratta poco tempo prima della morte in un servizio fotografico a passeggio per Roma e in compagnia del marito. I tre figli di Enrico Cuccia - Aurea (la più anziana), Silvia e Pietro Beniamino (il più giovane) – viaggiano inoltre sopra la sessantina e vivono tutti e tre a Milano, dove risultano proprietari di appartamenti in zone residenziali, nei pressi della Fiera e di Brera. La figlia Silvia ha lavorato come professoressa di matematica, mentre Beniamino da gennaio dello scorso anno ha fatto il suo ingresso nel consiglio di amministrazione di una piccola società farmaceutica in provincia di Como. Insomma, come ha scritto nel 2003 Antonio Maccanico (al vertice di Mediobanca al momento della privatizzazione dell'87-88 e nipote di un altro presidente, come Adolfo Tino) è forse proprio vero che «il danaro per Cuccia era solo un mezzo», e che «la società dello scandalo Enron non lo avrebbe capito, lo avrebbe forse emarginato». Non solo la società dello scandalo Enron, ma forse anche quella delle laute stock-option, dei superbonus e delle buonuscite plurimilionarie.

Stefano Agnoli
27 maggio 2007
 
da corriere.it
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« Risposta #3 inserito:: Maggio 28, 2007, 10:13:12 pm »

28 maggio 2007

 Eni querela Report per inchiesta sul gas.

Sequestri della Gdf, manager indagati

Nel giorno in cui l'Eni ha deciso di querelare la trasmissione Report in onda domenica sera su Rai 3 perché «avrebbe riportato fatti in modo distorto e scorretto», la compagnia petrolifera è stata visitata dalla Guardia di Finanza, per esplicita ammissione del gruppo di S. Donato Milanese, «nell'ambito di un'indagine avviata lo scorso anno dalla Procura della Repubblica di Milano, sugli strumenti di misura del trasporto e della distribuzione del gas naturale utilizzati in Italia dalle imprese del settore».

Le Fiamme Gialle, inviate dalla Procura di Milano, hanno operato lunedì mattina un sequestro di documenti presso gli uffici di varie società, tra cui Snam Rete Gas e Italgas (ma sia parla anche di Arcalgas e dell'Aem Milano, ndr) «con particolare riguardo a documentazione a partire dal 2003». I sequestri sono avvenuti a Milano, Roma, Torino e Piacenza. Le accuse comprendono la truffa, la violazione della legge sulle accise, ostacolo all'attività di vigilanza e l'uso o detenzione di misure o pesi con falsa impronta. Tutte le società coinvolte nelle indagini sono anche state iscritte nel registro degli indagati per la legge 231 del 2001 relativa alla responsabilità amministrativa delle società.

L'inchiesta sulle misurazioni del gas è stata avviata dai pm Sandro Raimondi e Letizia Mannella. La nota Eni parla anche di diversi manager sotto inchiesta, compreso l'amministratore delegato Paolo Scaroni, in qualità di legale rappresentante della capogruppo insieme ad altre dieci persone e otto società fra cui Eni, Snam Rete Gas e Italgas. Secondo l'ipotesi di accusa l'Eni avrebbe usato dei contatori chiamati venturimetrici, che avrebbero conteggiato consumi maggiori rispetto alla realtà, gonfiando di fatto le bollette. I misuratori venturimetrici, sostiene l'Eni, sono «da sempre utilizzati in Italia e all'estero, e non incidono sulle misurazioni relative alla bolletta dei consumatori».

«Siamo sereni - ha dichiarato Scaroni all'Ansa - le misurazioni oggetto dell'inchiesta sono al centro dell'attenzione di tutte le società operanti nel mercato del gas in Italia e all'estero. Io stesso, appena giunto in Eni, ho attivato una procedura di verifica sulle misurazioni del gas, avvalendomi di consulenti internazionali specializzati. Peraltro - ha aggiunto il top manager dell'Eni - si fa riferimento a misurazioni su gas non contabilizzato, che è la differenza tra il gas che Eni compra dai propri fornitori e quello che poi rivende ai distributori. Questa differenza, a oggi, rappresenta per la nostra azienda una perdita secca di alcune centinaia di milioni di metri cubi di gas ogni anno. Mi preme ricordare - ha concluso Scaroni - che le misurazioni del gas per quanto riguarda la distribuzione cittadina vengono realizzate seguendo rigidamente le indicazioni emanate dall'Authority per l'Energia e il Gas e dai competenti uffici del ministero dello Sviluppo economico».

Quanto alla puntata di Report «Eni ha dato mandato ai propri legali, suo malgrado, di predisporre una querela che ricostruisca la verità dei fatti, e che tuteli l'immagine dell'azienda e l'onorabilità dei propri dipendenti».

Sul listino dei titoli principali Eni perdeva - poco dopo le ore 13 - l'1,4% a 25,95 euro con lo 0,36% di scambi. Il titolo si è in parte ripreso dopo aver toccato una perdita del 2 per cento. In rosso anche Snam Rete Gas (-0,4%) e Saipem (-1%, come Aem). A proposito di un suo presunto coinvolgimento nell'inchiesta sul gas, l'ad delle ex municipalizzata milanese, Giuliano Zuccoli, ha dichiarato a fine mattinata di non sapere nulla. «Sto rientrando in azienda per vedere di cosa si tratta».

da ilsole24ore.com

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« Risposta #4 inserito:: Maggio 28, 2007, 10:14:03 pm »

Confiscato alla mafia, inaugurato due anni fa, mai usato

Raffaele Sardo


Fu inaugurata poco meno di due anni fa e per la sua ristrutturazione sono stati spesi 200mila euro  di un finanziamento concesso dalla Regione Campania. Ma ora è ancora chiusa. È la "Casa don Diana", ovvero un "Centro di pronta e temporanea accoglienza per i minori in affido" nato in un bene confiscato sottratto al boss del clan dei casalesi, Egidio Coppola. Il Centro non apre perché manca il certificato di agibilità. La causa di tutto questo sarebbe un  pozzo artesiano, sorto abusivamente, da cui viene prelevata l'acqua  per la struttura, e che risulta inquinato sia dal punto di vista  chimico che microbiologico.

A denunciare questo ulteriore caso scandaloso nella gestione dei beni confiscati della provincia di Caserta, è stato Valerio Taglione, referente provinciale di Libera e portavoce del Comitato don Peppe Diana. La struttura venne inaugurata ufficialmente il 23 novembre 2005.  A tagliare il nastro della "Casa don Diana", c'era il  vescovo di Aversa, Mario Milano, il sindaco di Casal di Principe, Francesco Goglia, il prefetto di Caserta dell'epoca, Carlo Schilardi, il procuratore antimafia, Franco Roberti e  il vice procuratore nazionale Lucio Di Pietro. Passò anche don Luigi Ciotti, presidente Nazionale di Libera, perché quel giorno coincideva con l'arrivo della carovana antimafia al santuario della Madonna di Briano. Le responsabilità, come accade in casi del genere, si rimpallano da una parte all'altra.
 
Il 26 febbraio del 2004 il Comune di Casal di Principe, concedeva in comodato d'uso gratuito ad Agrorinasce (un Consorzio di sei comuni: Casal di Principe, San Cipriano d'Aversa, Casapesenna, Villa Literno, Santa Maria La Fossa e San Marcellino), per la durata di dieci anni, l'immobile confiscato al boss  Egidio Coppola. La regione Campania, il 10 gennaio 2005, finanziava per 200mila euro la ristrutturazione dell'immobile e Agrorinasce lo girava in comodato d'uso all'ASL di Aversa per destinarlo a Centro di accoglienza per i minori dove sarebbero passati, in un anno, almeno 350 bambini nella sola area aversana, che vivono un disagio familiare e sono in attesa di una famiglia per un affido temporaneo. Il comune di Casal di Principe bandisce i lavori, che vengono affidati e ultimati il 22 novembre 2005. Il giorno dopo c'è l'inaugurazione della struttura in pompa magna.  Ma appena dopo il taglio dei nastri, si scopre che il certificato di agibilità dell'abitazione non può essere redatto, perché l'acqua che esce dai rubinetti è inquinata. Infatti essa viene prelevata da un pozzo artesiano abusivo, costruito dal suo originario proprietario e con l'acqua inquinata i bambini in quella casa non ci potranno mai entrare.
 
Il 14 maggio scorso, in una nota inviata al Comune di Casal di Principe, Giovanni Allucci, amministratore delegato di Agrorinasce ha sollecitato il Comune, per la quarta volta, a risolvere il problema dell'acqua inquinata con il semplice acquisto di un depuratore. Il paradosso è che il Comune è commissariato e a dirigerlo, in questo momento, c'è un altro funzionario prefettizio, la dottoressa Savina Macchiarella.  E dunque la Prefettura potrebbe risolvere al proprio interno il problema senza bisogno di rimpallare le responsabilità tra enti e consorzi gestiti da funzionari prefettizi. La provincia di Caserta è la quarta a livello nazionale per  possesso di beni confiscati. E anche per questo motivo l'associazione Libera e il Comitato "don Peppe Diana", hanno dato vita ad un osservatorio sui beni confiscati, che sta dando i primi frutti.

Ma la "Casa don Diana", non è un caso isolato. Il caso più clamoroso riguarda proprio il capo del clan dei casalesi, Francesco Schiavone, Sandokan. Dal 2004, infatti, nella casa confiscata al boss, viveva ancora la sua famiglia. Nessuno mai si era preoccupato, fino alla denuncia fatta dal presidente della Commissione Antimafia, Francesco Forgione, solo il 19 marzo del 2007, di  emettere un decreto di sfratto nei confronti degli occupanti abusivi. Anche in questo caso, inadempienze, negligenze  e sicuramente connivenze, avevano impedito l'assegnazione del bene ad un uso sociale. Proprio pochi giorni fa, invece, è stata firmata una convenzione dal vice ministro dell'Interno, Marco Minniti, in rappresentanza del Viminale, e il commissario prefettizio di Casal di Principe per dare vita ad un centro di aggregazione giovanile la villa del boss Francesco Schiavone.
 

Pubblicato il: 27.05.07
Modificato il: 28.05.07 alle ore 14.42   
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« Risposta #5 inserito:: Maggio 30, 2007, 11:02:45 pm »

Per 4 agenti l'accusa è di aver provocato il decesso del giovane Federico, svolta nell'inchiesta Ferrara, trovate altre prove nella cassaforte della polizia: sette tamponi con il sangue della vittima e documenti clamorosi 

 
FERRARA - Le sorprese erano chiuse in cassaforte. Ci sono novità sulla storia di Federico Aldrovandi, lo studente diciottenne che il 25 settembre 2005 morì a Ferrara dopo essere stato fermato dalla polizia. Tutto era pronto per l’udienza preliminare che il prossimo 20 giugno deciderà se mandare a processo quattro agenti accusati di omicidio colposo. Ed invece, dalla questura arrivano nuovi reperti, sconosciuti agli atti dell’inchiesta. Dagli «originali » delle telefonate ai tamponi imbevuti del sangue del ragazzo. E con essi affiorano dubbi e sospetti, ai quali dà corpo Alessandro Gamberini, legale della famiglia del giovane: «È la prova di come in questa inchiesta il materiale di indagine sia stato accuratamente selezionato, dato o non dato a seconda della convenienza. Per fortuna qualcosa è cambiato». Aldrovandi muore a Ferrara, in via Ippodromo, dopo aver trascorso la notte in un centro sociale di Bologna. Così ricostruiva i fatti una nota della questura: «Alle 6.25 personale di Polizia interveniva su segnalazione di alcuni cittadini che avevano riferito del comportamento strano di un giovane. Poco dopo, il giovane è stato colto da malore».

Caso chiuso. Morto per cause naturali, durante il trasporto in ospedale. Overdose, si dirà poi. Tre mesi dopo Patrizia, la madre di Federico, apre un blog per chiedere nuove indagini. Emergono testimonianze che parlano di un controllo piuttosto energico da parte degli agenti intervenuti. Secondo i consulenti della famiglia ci sarebbe stata una violenta colluttazione tra quattro agenti e Aldrovandi, sottoposto ad una immobilizzazione forzata con schiacciamento della cassa toracica. Il 9 gennaio 2007 c’è la richiesta di rinvio a giudizio per quattro poliziotti. La partita giudiziaria si giocherà su perizie mediche e sulle diverse ricostruzioni degli orari. Anche per questo, è di grande onestà e pulizia la nota datata 2 febbraio 2007 della Squadra mobile di Ferrara che accompagna le nuove rivelazioni. Scrive il dirigente: «In data odierna ho avuto accesso, per la prima volta, al registro degli interventi del 113 relativo al periodo di indagine, fino ad oggi custodito nella cassaforte dell’Unità di polizia giudiziaria». Per una circostanza fortuita, si apre così, «per la prima volta», lo scrigno che contiene gli originali degli atti compiuti quel 25 settembre 2005.

Il catalogo è questo: ci sono tutti i brogliacci delle telefonate effettuate dagli agenti, e gli orari del loro intervento nel luogo dove Federico Aldrovandi cominciava la sua agonia. La Squadra mobile li mette a confronto con i documenti «puliti» che sono stati poi allegati agli atti dell’inchiesta. E scopre che tra la copia «in brutta» e quella in bella, ci sono differenze sostanziali. Sull’orario dell’arrivo della prima pattuglia, i cui agenti sono accusati di aver pestato Aldrovandi: «Doverosamente si deve rilevare come il foglio di intervento originale, annullato con dei segni trasversali a penna, è parzialmente difforme» da quello poi trascritto agli atti. «In particolare, la difformità è relativa all’orario in cui è stato dato l'intervento, e la correzione fatta a penna contrasta con i fogli successivi ». Il nuovo questore di Ferrara, Luigi Savina, uno dei poliziotti più stimati dal Viminale, mette per iscritto di non aver chiesto «per ora» una relazione sull’accaduto ai due ispettori che hanno firmato i rapporti solo perché consapevole che anche la Procura ha un procedimento in corso sui modi con i quali è stata effettuata l’indagine sulla morte di Aldrovandi. Dal carteggio custodito in cassaforte spuntano anche due lettere «manoscritte in originale», che sono riferibili alle attività di sopralluogo compiute la mattina del 25 settembre—Aldrovandi morì poco dopo l’alba—«ma non risultano finora essere state inviate alla autorità giudiziaria».

L'ultima scoperta è forse la più clamorosa. La questura comunica di aver ritrovato anche sette tamponi intrisi di sangue «relativi al giovane Aldrovandi» conservati da ormai due anni nei frigoriferi della Polizia scientifica, e mai messi agli atti. In una vicenda dove autopsie, perizie mediche e sopralluoghi contano molto, è un dettaglio che potrebbe avere la sua importanza.

Marco Imarisio
30 maggio 2007
 
da corriere.it
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« Risposta #6 inserito:: Maggio 30, 2007, 11:03:17 pm »

Palestinese e giornalista: discriminata

Maurizio Debanne



Ala'a KarajhAla'a Karajh è una giornalista palestinese di 23 anni. Le qualità del mestiere le possiede tutte: di curiosità ne ha da vendere, la realtà sa bene che la si conosce solo per strada e non per sentito dire. L'umiltà poi la dimostra prendendo appunti in ogni incontro a cui prende parte. «Da tutti posso imparare qualcosa», dice a l'Unita.it. Ala'a ha fatto parte di un gruppo di 12 giornalisti, 6 israeliani e 6 palestinesi, che ha preso parte ad un workshop di 3 giorni presso la redazione di RaiNews24 sul ruolo dei media nel conflitto israelo-palestinese. Il progetto, finanziato dall'Unione europea, dal Comune di Roma e dalla Regione Lazio, è stato organizzato dal Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente e da due Ong, Keshev (israeliana) e Miftah (palestinese).

Dai lavori sono emerse fuori tutte le difficoltà che attraversa la stampa di ambo le parti. Ala'a non si sottrae a elencare le proprie. «Il giornalismo palestinese è ancora molto giovane e dunque manca a volte di professionalità», ammette. Tuttavia, le difficoltà non derivano solo dall'inesperienza e dall'estremismo di alcuni canali, come quello di Hamas. «Due anni fa durante il ritiro da Gaza voluto dal governo israeliano di Ariel Sharon le televisioni di tutto il mondo coprirono l'evento. C'erano anche le telecamere di Al Jazira e Al Arabya. Ma a noi giornalisti palestinesi non ci fu rilasciato il permesso dalle autorità di sicurezza dello stato ebraico di entrare a Gaza per raccontare lo sgombero degli 8mila coloni». «Una decisione incomprensibile», è il commento del capo della delegazione israeliana, Yitzar Be'er, direttore di Keshev.

E qui si apre allora il problema delle fonti. Se ai palestinesi non è concesso di vedere con i propri occhi ciò che accade in Israele, o un discorso del primo ministro o di altri membri dell'esecutivo dello stato ebraico, come possono svolgere appieno il proprio lavoro? «Siamo più volte costretti a ricercare le notizie guardando le tv satellitari arabe», confessa Ala'a. A questo quadro va aggiunto inoltre che per i palestinesi è difficile spostarsi anche all'interno della stessa Cisgiordania. A causa dei blocchi interni israeliani, recentemente criticati dalla Banca Mondiale in un rapporto sull'economia palestinese, è difficile coprire gli eventi nelle varie città della West Bank. Insomma, oltre alle difficoltà di sfondare in un settore molto competitivo, ancora giovane e a volte attaccato da un fanatismo, in Palestina essere giornalisti è davvero un'impresa. Al'a però non si scoraggia e non nasconde davanti a nessuno il suo sogno: diventare un giorno anchorman di una importante Tv araba.


Pubblicato il: 29.05.07
Modificato il: 29.05.07 alle ore 18.58   
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« Risposta #7 inserito:: Maggio 30, 2007, 11:05:32 pm »

L’informazione dimezzata

Gustavo Ghidini


Il decreto (del 30 gennaio 2007) che ha recepito l’accordo fra governo, sindacati e imprese, per l’avvio della previdenza complementare, prevede, in sintesi, che le somme corrispondenti al futuro trattamento di fine rapporto dei lavoratori (Tfr) possano essere a): mantenute in azienda e gestite dall’Inps, come sinora avvenuto, ovvero b) per aziende con più di 50 dipendenti, destinate ad un Fondo della Tesoreria dello Stato.

Fondo gestito - secondo le stesse regole sostanziali - dall'Inps; ovvero, ancora, c) devolute a «fondi pensione» operanti sul mercato finanziario. Se il lavoratore non esprimerà una scelta entro il giugno 2007, il Tfr verrà destinato ai fondi pensione (uno strappo rispetto al sistema del diritto privato, che non riconosce, se non marginalmente, il principio del silenzio-assenso, valevole viceversa nei rapporti fra privati e Pubblica Amministrazione). Infine, non si prevede la possibilità di una destinazione «mista» (parte alle gestioni Inps, parte ai fondi pensione): la scelta- quella volontaria o quella «automatica» in favore dei fondi in caso di silenzio del lavoratore - è secca. E qualora privilegi i fondi, anche irrevocabile.

Come si vede, il congegno normativo intende nettamente favorire il decollo della previdenza integrativa, ritenuta necessaria sia per evitare future eventuali «difficoltà» dell'Inps, sia per mobilitare risorse finanziarie che i fondi destinerebbero ad investimenti nel «sistema» economico. Non intendo né saprei discutere questa scelta, che vede forti ed eterogenee convergenze di concreti interessi (il Tfr «vale», nel 2007, quasi 20 miliardi di euro). Mi limito a esprimere due dubbi marginali. Il primo: il rischio di future difficoltà dell'Inps non si ridimensionerebbe forse decisamente se all'Istituto non fossero più addossati gravosi impegni sul fronte dell'«assistenza» (oltre che della «previdenza»), impegni che dovrebbero far carico alla fiscalità generale? Il bilancio strettamente «pensionistico» dell'Inps non è forse, tuttoggi, in attivo?

Il secondo: il servizio finanziario al «sistema» non è già svolto, e direttamente, dal regime tradizionale, in cui le somme del Tfr restano in azienda? La liquidità ex Tfr non costituisce forse, di fatto, uno strumento di finanziamento che consente alle imprese di ridurre la morsa creditizia?

Ma, come dicevo, il punto che qui vorrei trattare è un altro. Di fronte a quelle alternative di scelta, e alla destinazione per legge ai fondi in caso di silenzio dei lavoratori, l'informazione che viene rivolta a costoro - non certo tipicamente definibili come sofisticati investitori finanziari - si segnala per una vistosa carenza. Una carenza che purtroppo persiste anche nella recentissima «ripresa» della campagna di informazione istituzionale. Si avverte, sì, correttamente, dell'esistenza di profili diversi di convenienza delle singole soluzioni. Ma non si attira espressamente l’attenzione dei lavoratori sullo specifico profilo/problema delle garanzie. Non si esplicita, in particolare, che la forma di gestione attuale, da parte del datore di lavoro (così come quella che sarà svolta dall'Inps per il Fondo tesoreria dello Stato) è sostenuta da un apposito fondo di garanzia, istituito presso lo stesso Inps, che tutela il lavoratore nell'ipotesi di insolvenza dell'impresa, assicurandogli l'intero capitale e una certa, pur modesta, redditività. Si tratta di formale garanzia statuale (legge 29/5/ 82, n. 27), a «tenuta» assoluta. Viceversa, la restituzione delle somme che verranno conferite ai fondi pensione non è attualmente assistito da una altrettanto efficace garanzia. Il decreto legislativo 252 del 2005 prevede infatti che i fondi che gestiranno il Tfr investano nelle linee finanziarie a contenuto più prudenziale, «tali da garantire la restituzione del capitale e rendimenti comparabili... al tasso di rivalutazione del Tfr». Ora, quel «tali da garantire» corrisponde, in termini giuridici, solo ad un ragionevole affidamento, non tuttavia sostenuto da alcun fondo di garanzia in senso proprio. In breve: la disciplina attuale della previdenza complementare non sottrarrebbe il Tfr ai rischi del mercato finanziario. Se la gestione dei fondi fosse «sfortunata», causa di perdite ingenti, le perdite sarebbero del lavoratore (il fondo guadagnerebbe comunque le commissioni pattuite). La situazione potrebbe mutare se il lavoratore sottoscrivesse dei «prodotti» finanziari con restituzione garantita del capitale e di un (minore) interesse, offerti da taluni fondi di impronta assicurativa. Ma - a parte la insufficienza generale dell'informazione su siffatte diversificazioni (specie rispetto ad una platea di investitori tipicamente non esperta di mercati finanziari) - qualcuno di quei fondi potrebbe fallire. Improbabile? Certamente, ma altrettanto certamente non impossibile, specie in un arco di tempo che,per i giovani lavoratori, potrebbe essere di trent'anni. Diverso sarebbe il discorso in un'altra ipotesi : che i fondi assicurassero (con una polizza a favore dei lavoratori-investitori) il proprio rischio di non riuscire a restituire l'intero capitale e l'interesse convenuto. Per i cosiddetti grandi rischi, è abituale che le compagnie di assicurazione provvedano alla cd riassicurazione. Perché non pensarvi anche per il Tfr investito nei fondi pensione? Si tratta, non dimentichiamolo, di accantonamenti sul salario (il Tfr è «salario differito»). Sarebbe, certo, un sistema più costoso per azionisti e gestori dei fondi. Ma non sarebbe più costoso,per l'intero sistema-paese, se la fiducia dei lavoratori venisse tradita?


*Presidente onorario del Movimento Consumatori


Pubblicato il: 30.05.07
Modificato il: 30.05.07 alle ore 8.57   
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« Risposta #8 inserito:: Giugno 01, 2007, 12:15:13 am »

Così ho visto uccidere Vanessa

di Fausto Biefeni Olevano


Era a due passi dalla ragazza colpita nella metro. E ora racconta a 'L'espresso' tutti i dettagli dell'aggressione  Vanessa Russo col fratelloHa visto partire quel colpo sferrato con l'ombrello che ha raggiunto Vanessa Russo al volto. Ha soccorso la ragazza ferita, le è stata vicina, ha cercato di tranquillizzarla e poi, quando finalmente è arrivato un medico, le forze dell'ordine l'hanno fatta allontanare. Solo il giorno dopo F. M., giovane professionista del Centro-sud trapiantata a Roma per lavoro, ha saputo che Vanessa era morta. A quel punto si è presentata agli inquirenti e ha raccontato agli uomini della Squadra mobile quello che aveva visto. Oggi, per la prima volta, rompe il suo riserbo e ricostruisce con 'L'espresso' la dinamica del delitto di cui sono accusate due rumene: Doina Matei, che ha inferto il colpo, e la minorenne Costanza I..

È il 27 aprile, F. M. sta raggiungendo la banchina della metro a Termini: il tempo di girare un angolo e vede arrivare i vagoni. "Si sono aperte le porte", racconta, "e ho visto scendere, per prime, le tre ragazze che stavano visibilmente litigando. Fra me e loro non c'era nessuno che mi coprisse la visuale. Non ho sentito cosa si stessero dicendo a causa del rumore, ma ho visto cosa è successo".

Secondo la difesa, Doina avrebbe colpito per difendersi da una aggressione da parte di Vanessa.
"Non è così. Io al contrario ho visto Vanessa allontanarsi da Doina, un po' come se le avesse lanciato l'ultimo improperio per poi piantarla lì, ed è a quel punto che è partita l'ombrellata. Vanessa era di profilo rispetto alla rumena e in quel momento ho incrociato il suo sguardo a pochi metri di distanza, una scena che non dimenticherò mai. L'ho vista girarsi verso Doina proprio nel momento in cui arrivava il colpo, subito dopo è caduta a terra. Il colpo è stato strano, all'inizio pensavo che l'avesse solo sfiorata poi, dopo aver saputo che era morta, mi sono resa conto che deve essere stato talmente forte che le ha praticamente spostato il viso".
 

Sempre secondo la difesa, Vanessa avrebbe dato uno schiaffo a Doina.
"Non so cosa sia successo prima sulla metropolitana, ma sulla banchina nessuno schiaffo, casomai come dicevo potrebbe esserci stata un'ultima aggressione verbale. Ma in ogni caso io poi ho visto Vanessa allontanarsi e non aggredire Doina. La mia impressione è che quella della rumena sia stata una reazione rabbiosa e violenta a un presunto insulto".

La rumena minorenne, che poi è stata scarcerata, ha detto di aver tentato di fermare il colpo.
"Anche se avesse voluto non ne avrebbe avuto il tempo. Si è svolto tutto molto rapidamente".

Doina MatteiLe due ragazze rumene si sono allontanate subito?
"Sì, se ne sono andate camminando, senza particolare fretta, e prima di sparire tra la folla Doina si è girata accennando un sorriso, come della persona soddisfatta di aver risposto a una provocazione verbale. Credo che neanche lei si sia resa veramente conto di quello che aveva fatto, tanto che quello che hanno dichiarato le due rumene, da quanto ho letto sui giornali, riguardo al fatto di non aver visto il sangue, è sicuramente vero. In sostanza, il colpo è stato intenzionale, anche se secondo me non è stato inferto con l'intenzione d'uccidere".

E lei cos'ha fatto?
"Ho visto Vanessa cadere a corpo morto, e istintivamente mi sono avvicinata. Come dicevo, ancora non aveva iniziato a sanguinare ed era a terra supina. Quando ha provato a girarsi, come per rialzarsi, ha cominciato a uscire il sangue".

Lei è stata la prima ad avvicinarsi?
"Sì, ho cercato di parlarle, di tranquillizzarla. D'altronde in quel momento pensavo che la botta le avesse rotto il setto nasale, dunque nulla di grave. Poi quando il sangue ha cominciato ad aumentare mi sono preoccupata, anche se non avrei mai pensato a un esito così drammatico".

Vanessa era ancora cosciente?
"Aveva un occhio aperto e l'altro tumefatto, ma il sangue usciva solo dalla bocca e dal naso. Credo che quando si è resa conto di quel grande flusso si sia spaventata perché ha cominciato ad agitarsi, tanto che ha provato a rimettersi supina. Ma in quel modo non riusciva a respirare, aveva uno zainetto che in qualche modo la bloccava, allora ho cercato di metterla di lato perché pensavo che potesse soffocare se continuava a inghiottire sangue. Nel frattempo intorno c'era il panico, gente con le mani nei capelli, che piangeva, ma nessuno è intervenuto, tranne un ragazzo che si è avvicinato e le reggeva la testa. Poi, finalmente, è arrivato un vigilante e insieme abbiamo tagliato le cinghie dello zaino per farla stare più comoda. Quando è arrivato anche un medico, nel frattempo la sicurezza mi aveva già fatto allontanare, ho pensato che a quel punto avrei creato solo intralcio e me ne sono andata".

Lei comunque pensava che la ragazza non fosse grave?
"Sì, ero tranquilla. Credevo che il danno fosse al naso".

Pensa che la sua testimonianza sia stata utile?
"Immagino di sì. Quando sono stata ascoltata la polizia ancora non sapeva come fosse stato sferrato il colpo, pensavano che l'ombrello fosse stato usato come una lancia. Mi hanno fatto mimare la scena, e questo mi fa pensare che probabilmente nessun altro ha visto quello che ho visto io".

(31 maggio 2007)
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« Risposta #9 inserito:: Giugno 01, 2007, 10:18:53 pm »

31 maggio 2007

 Nuove povertà, al Centro-nord le città più esposte al rischio

 
Rimini, Verbania e Massa sono le città capoluogo con i livelli di rischio «povertà » più elevati: è questo uno dei risultati di una ricerca del Centro Studi Sintesi di Venezia sui livelli di rischio povertà a livello locale. Considerando il totale dei 106 comuni capoluogo di provincia, circa il 12,7% dei contribuenti (circa 1,2 milioni di unità) dichiara un reddito inferiore alla soglia media di povertà locale pari a 9.893 euro annui, a fronte del quale il reddito medio è di 24.103 euro.

L'analisi per singoli comuni evidenzia, con una certa sorpresa, che Rimini è la città più esposta al rischio «povertà», in quanto circa il 26,9% dei contribuenti presenta un livello di reddito inferiore alla soglia di povertà locale. Rimini, infatti, ha una reddito medio inferiore di circa 4.000 euro alla media nazionale, con una forte presenza di redditi inferiori ai 10.000 euro (circa il 18,3% dei contribuenti, quando la media italiana è 13%) ed un livello elevato di spesa per consumi che fa innalzare la soglia di povertà ben oltre il riferimento medio generale. Tuttavia, sulla situazione di Rimini, ha un peso rilevante l'economia turistica e la relativa presenza di numerosi soggetti impiegati inlavori stagionali, quindi con redditi tendenzialmente più bassi.

Dopo Rimini, la graduatoria è composta da Verbania (22,7%), Massa (21,7%), Cesena e Crotone (entrambe con il 21,7%); i tassi di rischio inferiori si riscontrano, invece, a Matera (5,3%), Potenza (5,6%) e Avellino (6,3%). Restringendo l'osservazione alle gradi città, Torino (19,3%; 9a posizione) risulta in una situazione più rischiosa di Milano (16,2%; 16ma posizione); inoltre, Roma (10,2%; 86ma posizione) sembra stia meglio di Napoli (16,2%; 18ma posizione), mentre Genova (13,8%; 45mo posto) appare più "povera" rispetto a Firenze (12,4%; 63mo posto).

«Lo studio - afferma Andrea Favaretto, del Centro Studi Sintesi - presenta alcune indicazioni per certi versi sorprendenti. Infatti, tendenzialmente le città del Mezzogiorno presentano basse percentuali di contribuenti a rischio rispetto al Nord». A pesare è il al maggiore costo della vita riscontrabile nei comuni settentrionali, che erode il reddito delle persone fisiche in proporzione maggiore di quanto non avvenga al Sud. «Più semplicemente - conclude Favaretto - disporre di un reddito in linea con la media nazionale di per sé non mette i cittadini al riparo dal rischio "povertà", poiché molto dipende dal costo della vita della città in cui si vive e si lavora».

da ilsole24ore.com
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« Risposta #10 inserito:: Giugno 04, 2007, 12:20:44 am »

Sul palco duetto con Tiziano Ferro.

E poi i pezzi top del suo repertorio Luci a San Siro, il trionfo di Laura Pausini

Settantamila persone hanno seguito sotto la pioggia il concerto della cantante romagnola. Tra il pubblico anche Eros Ramazzotti 

 
MILANO — Ha cantato in italiano, francese, inglese, spagnolo e portoghese. Ha cantato fradicia di pioggia, scherzando sui brividi e sul freddo, definendo le gocce «lacrime di gioia del cielo». Laura Pausini è stata l'eroina di una serata indimenticabile, bagnata, tenera, sentimentale ma anche dura nei toni. «Questa per me è la prima volta a San Siro, sono orgogliosa di anticipare le colleghe italiane che verranno su questo palco... questo concerto è dedicato alla nonna, alla mia amica Antonella e alle donne che hanno due palle così».

Antonella è Antonella Russo, una fan di 23 anni uccisa nel febbraio scorso dal convivente della madre violento (che lei aveva denunciato), alla vigilia della laurea e con il biglietto del concerto di Primadonna Pausini in tasca. La festa era cominciata alle 21.10. Un boato, migliaia di lumini, di flash, un gigantesco elicottero in cielo. Luci rosse sull'immenso palco, la band prende posizione.

La prima donna primadonna appare da una botola. Ad applaudire 68 mila spettatori paganti e duemila ospiti. Tante donne d'ogni età che nelle canzoni e nel modo di essere dell'artista hanno trovato un riferimento che non le ha mai deluse. Si accendono le luci e si resta incantati dalla gigantesca produzione, un palco semplice e articolato, multidimensionale, largo 70 metri, con un maxischermo di 90. Altri megaschermi per ingrandire questa trascinante artista pop che arriva al cuore del pubblico con canzoni originali e non, caricandole con la sua grinta.

Cattolica fervente, ma innamorata di un uomo sposato e padre di tre figli, simboleggia le italiche contraddizioni (ultima, quella del Comune che concede la deroga per 80 decibel di rumore nelle case vicine allo stadio, mentre l'ARPA e la ASL abbassano il limite a 78). Il via, dopo una giornata piovosa e fredda (miglioramento verso le 21, poi diluvio fino alla fine), è arrivato con una rutilante rilettura di «Io canto» di Cocciante. Look aggressivo con t-shirt bianca e bustier di nylon, pantaloni di pelle neri, vistosa polsiera fucsia di pelle, stivaletto di pelle con borchie sulla zeppa. Amena esagerazione firmata DSquared. Poi, superba esecuzione di «Destinazione Paradiso» che lanciò Gianluca Grignani (in platea tra Ramazzotti, la Clerici, la Bertè, Roberta Armani, Angela Missoni, Valeria Marini, Anna Falchi, Ancelotti, Costacurta e Martina Colombari, Piersilvio Berlusconi) e la dedica del concerto.

Laura Pausini, gran ritmo e classe, si è offerta ieri sera come la paladina non solo del suo repertorio, ma, in modo ecumenico, della grande musica italiana che trionfa in patria e all'estero. Così, dopo la sua «E ritorno da te» cantata all'unisono dai fan come molte altre, un collage con «Mi libre cancion» (versione spagnola del «Mio canto libero» di Battisti), «Come il sole all'improvviso» (versione francese) di Zucchero, «Cinque giorni» di Zarrillo, «Favola» di Ramazzotti, «Tu dimmi quando» di Pino Daniele. Unico ospite della serata, Tiziano Ferro. Insieme, fra le ovazioni della folla, hanno eseguito «Non me lo so spiegare» con affiatamento e sinergia trascinanti. Non sono mancati i cavalli di battaglia: «La prospettiva di me», «Vivimi» (di Biagio Antonacci), «Tra te e il mare», «Disparame/dispara» versione spagnola di « Spaccacuore» di Bersani, «Resta in ascolto».

Notevoli le citazioni di Madonna con «Isla Bonita» e di Fossati con «La mia banda suona il rock» dove «è un rock bambino» diventa «è un rock Sansiro». Nel finale «Le cose che vivi», «Una storia che vale» e nei bis «Come se non fosse stato mai amore» e «Incancellabile». Davanti alla marea di ombrelli e impermeabili variopinti si è congedata in accappatoio stile Rocky. Ieri è stato il trionfo della melodia all'italiana, del fascino autentico di un'artista che usa la musica e la parola per una comunicazione schietta con il pubblico di tutto il mondo. Almeno mille fan arrivavano dall'estero. Dove l'Italia non è solo Milan e Ferrari, ma anche Laura primadonna.

Mario Luzzatto Fegiz
03 giugno 2007
 
da corriere.it
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« Risposta #11 inserito:: Giugno 04, 2007, 09:37:47 am »

4/6/2007 (8:6) - POLEMICA

Troppe T. e C.
 
"Nell'Occidente i mass media rinunciano a informare e criticare: preferiscono divertire con il gossip"

MARIO VARGAS LLOSA


C’è stato un momento, nella seconda metà del XX secolo, in cui il giornalismo delle società aperte dell’Occidente ha incominciato, pian piano, a mettere in secondo piano quelle che erano state le sue principali funzioni - informare, criticare e fornire opinioni - per privilegiarne un’altra sino ad allora secondaria: divertire. Alle spalle non c’era stato nessun progetto e nessun organo di stampa aveva immaginato che questo sottile mutamento delle priorità del giornalismo avrebbe portato con sé cambiamenti così profondi sotto il profilo culturale ed etico. Ciò che accadeva nel mondo dell'informazione era il riflesso d’un processo che abbracciava quasi tutti gli aspetti della vita sociale. Era nata la civiltà dello spettacolo che avrebbe rivoluzionato sino al midollo le istituzioni e i costumi delle società libere.

Perché queste riflessioni? Perché, da cinque giorni, non riesco a evitare d’imbattermi, qualsiasi giornale apra e qualsiasi programma di notizie ascolti o veda, nel corpo nudo della signora Cecilia Bolocco Menem. Non ho nulla contro i nudi, e tanto meno contro quelli che sembrano belli e ben conservati come quello della signora Bolocco, ma ce l’ho, questo sì, contro il modo illecito con cui queste istantanee sono state scattate e diffuse dal fotografo al quale - riporta la stampa - lo scoop ha fruttato già 300 mila dollari d’onorario senza contare la cifra, ancora sconosciuta, che a quanto pare, secondo i giornali di gossip, la signora Bolocco gli ha pagato perché non diffondesse altre immagini ancora più compromettenti.

Sapete perché sono al corrente di queste sciocchezze e di questi traffici sordidi? Semplicemente perché per non sapere queste cose dovrei smettere di leggere giornali e riviste e di vedere e ascoltare programmi televisivi e radiofonici in cui, non esagero, il seno e il sedere della signora Menem hanno relegato tutto in ultimo piano: dagli sgozzamenti in Iraq e in Libano sino alla presa di Radio Caracas da parte del governo di Hugo Chávez e alla vittoria di Nicolas Sarkozy nelle elezioni francesi. Tutto ciò deriva dall’accettare l’assunto che il principale dovere dei media sia l’intrattenimento e che l’importanza dell’informazione sia in rapporto direttamente proporzionale alle dosi di spettacolarizzazione che può generare. Se adesso sembra del tutto normale che un fotografo violi la privacy di qualsiasi persona nota per esporla nuda o mentre fa l’amore con un amante, quanto tempo occorrerà ancora perché la stampa rallegri gli annoiati lettori o gli spettatori avidi di scandali mostrando loro violenze, torture e omicidi? La cosa più straordinaria - indice del letargo morale in cui è caduto il giornalismo in particolare, e la cultura, in generale - è che il paparazzo che si è dato da fare per forzare con le sue macchine fotografiche l’intimità della signora Bolocco, è considerato quasi alla stregua d’un eroe proprio per la magnifica performance che ha compiuto e che, oltre tutto, non è la prima e non sarà l’ultima.

Tutto è permesso
Protesto, ma mi rendo conto che è sciocco da parte mia perché so che si tratta d’un problema senza soluzione. L’animale che ha scattato quelle foto non è una rara avis, ma il prodotto d’uno stato di cose che induce il comunicatore e il giornalista a cercare, sopra tutto, la primizia, l’evento audace e insolito che più d’ogni altro sia capace di infrangere le convenzioni e destare scandalo.(E se non lo si trova, allora lo si fabbrica). E visto che, in società dove tutto è permesso, ormai non c’è nulla in grado di destare scandalo bisogna spingersi sempre più in là nella spericolatezza informativa, servendosi d’ogni mezzo, calpestando ogni scrupolo per ottenere lo scoop che faccia parlare. Dicono che Sartre, nella sua prima intervista a Jean Cocteau, l’abbia supplicato: «Per cortesia, scandalizzami». Questo è quanto, oggi, il grande pubblico s’aspetta dal giornalismo. E il giornalismo, obbediente, si dà da fare per choccarlo e spaventarlo, perché, adesso, è questo il divertimento atteso con maggior avidità, lo sport più eccitante. Non mi riferisco solo alla stampa scandalistica, che non leggo. Però è questa stampa che, sfortunatamente, da tempo contamina con il suoi effluvi pestilenziali la cosiddetta stampa seria, al punto che le frontiere tra l’una e l’altra appaiono sempre più labili. Per non perdere ascoltatori e lettori, la stampa seria è spinta a dare notizia degli scandali e del gossip propri della stampa rosa e, così, contribuisce al degrado del livello culturale ed etico dell’informazione. D’altro lato la stampa seria non ha il coraggio di condannare apertamente i sistemi ripugnanti e immorali del giornalismo da fogna perché teme - e non senza ragione - che qualsiasi iniziativa si prenda per metterle un freno vada a colpire la libertà di stampa e il diritto di critica.

Siamo arrivati a quest’assurdo: una delle più importanti conquiste della civiltà, la libertà d’espressione e il diritto di critica, diventano un alibi e garantiscono l’immunità per il pamphlet aggressivo, la violazione della privacy, la calunnia, la falsa testimonianza, l’imboscata e tutte le altre specialità del giornalismo scandalistico.

Meno idee, più spettacolo
Mi si potrà replicare che nei Paesi democratici esistono giudici e tribunali e leggi che proteggono i diritti civili e a cui possono rivolgersi queste persone messe nei guai. E’ vero, in teoria. In pratica accade di rado che un privato cittadino osi mettersi contro questi giornali, alcuni dei quali sono molto potenti e possono contare su importanti risorse, avvocati e influenze difficili da scardinare: tutto ciò fa passare la voglia d’imbarcarsi in cause che in certi Paesi, inoltre, risultano assai costose e sono complesse e interminabili. D’altronde i giudici, spesso, sono restii a sanzionare questo tipo di reati perché temono di creare precedenti che vengano poi utilizzati per limitare le libertà civili e la libertà dell’informazione. In realtà si tratta d’un problema che non si può confinare in un mero ambito giuridico. E’ un problema culturale. La cultura del nostro tempo favorisce e protegge tutto ciò che è intrattenimento e divertimento, in ogni settore della vita sociale, e per questo le campagne politiche e i comizi elettorali sono sempre meno un confronto di idee e programmi e sempre più eventi pubblicitari , spettacoli nei quali i candidati e i partiti, invece di persuadere, cercano di sedurre e di eccitare appellandosi - proprio come i giornalisti della stampa scandalistica - alle più basse passioni o agli istinti più primitivi, alle pulsioni irrazionali del cittadino, invece che alla sua intelligenza e alla sua ragione. E questo è avvenuto non solo nelle elezioni in Paesi sottosviluppati dove è norma, ma anche nelle recenti consultazioni in Francia e in Spagna nelle quali si sono sprecati gli insulti e i tentativi di squalificare l’avversario con argomenti scabrosi.

La civiltà dello spettacolo, certo, ha aspetti positivi. Non è cattiva cosa promuovere lo humour e il divertimento visto che senza humour, piacere, edonismo e gioco la vita sarebbe spaventosamente noiosa. Ma se l’esistenza si riduce solo a questo ecco che, ovunque, trionfano la frivolezza, l’edonismo e le forme crescenti di stupidità e di volgarità. Siamo a questo punto o, almeno, sono a questo punto settori molto ampli - che paradosso! - di società che, grazie alla cultura della libertà, hanno raggiunto i più alti livelli di vita, d’educazione, di sicurezza e di tempo libero del pianeta.

Qualcosa è andato storto, a un certo punto. E varrebbe la pena reagire prima che sia troppo tardi. La civiltà dello spettacolo nella quale siamo immersi porta con sé un’assoluta confusione di valori. Le icone e i modelli sociali - le figure esemplari - lo sono tali, adesso, sostanzialmente per motivi mediatici, perché l’apparenza ha preso il posto della sostanza nell’apprezzamento del pubblico. Non sono le idee, i comportamenti, le conquiste intellettuali e scientifiche, sociali o culturali a far sì che un individuo si elevi sopra gli altri e ottenga il rispetto e l’ammirazione dei suoi contemporanei e diventi un modello per i giovani, ma le persone capaci d’occupare le prime pagine dei giornali - anche, magari, per i gol che segnano - i milioni che spendono in feste faraoniche o gli scandali di cui sono protagonisti.

Una deriva perversa
Certo, è sempre esistito, anche in passato, un giornalismo escrementizio che sfruttava la maldicenza e l’immoralità in tutti i loro aspetti, ma, di solito, stava ai margini, in una semiclandestinità cui lo costringeva, più delle leggi e dei regolamenti, la forza dei valori e della cultura. Oggi questo giornalismo ha ottenuto diritto di cittadinanza perché è stato legittimato dai valori imperanti. Frivolezza, banalità, stupidità sempre più veloce rappresentano uno dei risultati dell’essere, oggi, più liberi di quanto mai siamo stati.

Questa non è una requisitoria contro la libertà, ma contro una sua deriva perversa che può suicidarla se non le si pone termine. Perché la libertà non scompare soltanto quando la reprimono o la censurano i governi dispotici. Un altro modo perché finisca è vuotarla di sostanza, snaturarla, facendosi scudo di essa per giustificare soprusi e indegni traffici contro i diritti civili. L’esistenza di questo fenomeno è un effetto collaterale di quelle conquiste fondamentali della civiltà: la libertà e il mercato. Entrambe hanno contribuito in modo straordinario al progresso materiale e culturale dell’umanità, alla sovranità dell’individuo e al riconoscimento dei suoi diritti, alla coesistenza, al regresso ella povertà, dell’ignoranza e dello sfruttamento. Nello stesso tempo la libertà ha consentito che questo ri-orientamento del giornalismo verso il traguardo primordiale di divertire i lettori, gli ascoltatori e i telespettatori, si sviluppasse in proporzioni cancerose, stimolato dalla concorrenza imposta dal mercato. Se c’è un pubblico avido di questo cibo, i media glielo danno, e se questo pubblico educato (o, piuttosto, maleducato) da questo prodotto giornalistico l’esige in dosi sempre maggiori, il divertimento sarà sempre più motore e combustibile dei media, al punto che in tutte le specializzazioni e le forme di giornalismo quell’inclinazione sta lasciando la propria impronta, il proprio segno deformante.

C’è chi, ovviamente, osserva che, invece, sta accadendo il contrario: che il gossip, lo snobismo, la frivolezza e la voglia di scandali hanno catturato il gran pubblico per colpa dei media. Ciò è anche vero perché una cosa non esclude l’altra: sono complementari. Qualsiasi tentativo di porre un freno, per legge, al giornalismo scandalistico equivarrebbe a instaurare un sistema censorio e ciò avrebbe conseguenze tragiche per il funzionamento della democrazia. L’idea che il potere giudiziario possa, sanzionando caso per caso, limitare il libertinaggio e la sistematica violazione della privacy e il diritto all’onorabilità dei cittadini è, parlando in termini realistici, solo una possibilità astratta, impossibile da attuare. Perché la radice del male viene prima di questi meccanismi: è nella cultura che ha fatto del divertimento il valore supremo dell’esistenza al quale tutti i vecchi valori - il decoro, l’attenzione alle forme, l’etica, i diritti individuali - possono essere sacrificati senza il minimo rimorso. Noi, cittadini dei Paesi liberi e privilegiati del pianeta abbiamo, allora, questa condanna: che le tette e i sederi delle persone famose e le loro lascivie continuino ad essere il nostro pane quotidiano.

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« Risposta #12 inserito:: Giugno 04, 2007, 09:38:48 am »

Rubriche » Bussole
 
La sinistra impopolare

I lavoratori del settore privato votano (prevalentemente) a destra.

A prescindere dalla posizione e dal ruolo.

Imprenditori e operai. Lavoratori dipendenti e indipendenti.

Votano a destra. Come gran parte delle classi popolari. I lavoratori intermittenti, flessibili, part time. I pensionati. Le casalinghe dei ceti "periferici". Invece, vota (prevalentemente) a sinistra gran parte dei dipendenti pubblici, dei tecnici, delle figure intellettuali. I professori, gli impiegati e i funzionari degli enti locali e dello Stato. Anche i giovani votano a sinistra. Soprattutto i giovanissimi. Soprattutto se studiano oppure hanno conseguito un titolo di studio elevato (per cui, presumibilmente, svolgono un lavoro impiegatizio e intellettuale "pubblico").

Se, invece, hanno una formazione "professionale" ed entrano presto nel mercato del lavoro, allora anch'essi si orientano a destra. Non bisogna pensare, peraltro, che si tratti di un processo dettato dalla "deriva centrista e moderata" sfociata nel Partito Democratico. La base elettorale della sinistra radicale, infatti, è anch'essa "più" giovane, intellettuale, "pubblica" rispetto alla media.

Tutto ciò non costituisce una sorpresa, quanto ai lavoratori indipendenti e gli imprenditori. I quali non sono mai stati particolarmente di "sinistra". Anzi. Tuttavia, il solco che li separa dal governo Prodi e dalla maggioranza dell'Unione è divenuto un baratro. Nonostante il buon andamento del mercato e dei conti pubblici. Questione di istinto e di sentimento. Così, nel Nord "al di sopra del Po" il centrosinistra è divenuto una minoranza etnica. Più debole, di elezione in elezione. Resiste solo nelle aree metropolitane e nelle regioni a statuto speciale. Dove è più rilevante il peso del "pubblico".

Però, da qualche tempo, la sinistra arranca anche nei contesti economici più dinamici delle "zone rosse". Nei distretti industriali, ad esempio. Come mostrano gli studi di Francesco Ramella. Come hanno confermato i risultati delle elezioni amministrative di domenica scorsa. Tuttavia, il distacco fra il lavoro privato e la sinistra non riguarda solo il lavoro autonomo e gli imprenditori, ma anche quello dipendente. Soprattutto nelle aree più produttive. Nel Nord. Un distacco che si era ridotto durante gli anni del governo Berlusconi (come ha mostrato Roberto Biorcio in Itanes, Dov'è la vittoria?, pubblicato dal Mulino). Nell'ultimo anno, secondo i sondaggi, si è nuovamente allargato.

D'altronde, ciò non avviene solo in Italia. In Francia: il partito che raccoglie maggiori consensi nella classe operaia è ancora il FN di Le Pen. In Austria, il momento di maggiore successo del Fpoe di Haider si è verificato nei primi anni di questo decennio. Coincide con lo sfondamento nelle zone tradizionalmente socialdemocratiche. Dove ha raccolto il voto delle classi popolari.

Per cui si assiste, sempre di più, al controcanto fra una destra che si afferma nei settori privati, dinamici, innovativi e una sinistra che "resiste" nel settore pubblico. Protetto. All'ombra dello Stato. Fra una destra "popolare" e una sinistra "impopolare". Le ragioni per cui questo avviene sono molte e diverse. Non tentiamo neppure di riassumerle. Però è chiaro: il lavoro è cambiato profondamente negli ultimi trent'anni. Sono mutati i luoghi, i metodi e l'organizzazione della produzione. La classe operaia oggi pesa meno. Ma, soprattutto, il lavoro dipendente privato è sempre più diviso e frammentato. Mentre il ridimensionamento dello Stato sociale ne ha accentuato l'insicurezza. Decisiva ci pare la crescente "individualizzazione".

Il fatto che oggi chi lavora - non importa se in modo autonomo o indipendente - sia sempre più "solo". Più incerto. Destinato a divenirlo sempre di più. (Un "destino", quindi, che riguarda anzitutto i giovani. Flessibili, intermittenti, un debito pubblico enorme che dovranno"pagare" loro; come le pensioni che oggi percepiscono i loro nonni e i loro genitori).
Ma la sinistra è cresciuta insieme alla solidarietà. All'integrazione. Alla comunità. Alla sicurezza. Si trova a disagio di fronte all'individualizzazione che attraversa la società e il lavoro. Non è in grado di parlare a una "folla solitaria". Persone sole. Individui a cui altri individui - leader che riassumono per intero i partiti - comunicano per via mediatica. Le mancano la "professionalità", il linguaggio, per fare questo.

La sinistra. Se si allontana dai luoghi della produzione e del mercato. Se non evoca senso di "comunità" e sicurezza. Non ha futuro. Una sinistra separata dal passato e dall'idea di futuro (è pensabile?). Le rimane un presente incerto, instabile e precario. Come i ceti popolari che non riesce più a rappresentare.

(3 giugno 2007)

da repubblica.it
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« Risposta #13 inserito:: Giugno 04, 2007, 10:56:38 pm »

Un Dna di troppo

Silvia Ballestra


Avevamo letto quant’era stata brava Antonella Duchini, il pm di Perugia che si è occupata del caso di Marsciano, a presenziare giorno e notte ai sopralluoghi, impegnandosi in prima linea senza risparmio, esplorando ogni possibile pista, e avevamo pensato: per forza, è una donna, si sentirà più coinvolta da questa orribile tragedia. Una donna incinta di otto mesi picchiata a morte, ammazzata in casa sua, coi due bimbi piccoli che dormono nella stanza accanto, non può non toccare chiunque. Ma se sei donna, vorrei pensare, ancora di più. La componente umana di identificazione ed empatia, in certi casi, può non essere secondaria.

Ma ecco ora una mossa a sorpresa: la richiesta dell’esame del Dna del feto che la povera Barbara Cicioni portava in grembo. Si vuole capire se quello della gelosia è un movente possibile. Una mossa, verrebbe da dire, molto maschile, molto in linea con i tanti processi per stupro d’antan, quando, invece di indagare sugli stupratori, si metteva sotto esame la condotta di vita delle vittime, la loro presunta «immoralità».

L’ha provocato, girava da sola di notte, era vestita da zoccola, era piena di uomini: pare incredibile ma erano questi gli argomenti delle difese, solo trent’anni fa (pure meno!), nelle aule giudiziarie. Aule piene di avvocati e magistrati uomini che a volte, anche solo con un’occhiata eloquente, si intendevano al volo. Colpevolizzando la vittima, si sgravavano i colpevoli, come se davvero potessero mai esistere circostanze attenuanti a crimini così odiosi e orrendi. Poi i costumi per fortuna - e anche grazie al lavoro di tante donne e uomini - sono cambiati e certe enormità non si sono più sentite.

Ecco: perché pare di risentirle, oggi, davanti a quest’esame? Davanti a questa strabiliante richiesta? La magistratura faccia il suo mestiere, per carità, ma non è questo il segnale che vorremmo per affrontare l’emergenza delle violenze sulle donne. Emergenza prima di tutto culturale, bisognosa di segnali forti e non di scivolosi appigli.
Cambierebbe qualcosa, forse, se da quell’esame dovesse uscire una paternità della bimba diversa da quella dell’assassino? Il delitto sarebbe meno grave? Un uomo che ha ucciso di botte la madre dei suoi figli e poi manipolato la scena del crimine per accusare i soliti fantomatici stranieri ladri, ne uscirebbe un po’ meno peggio? Avrebbe uno sconto di pena? Questioni tecniche, certo. Ma la sola idea ci sembra agghiacciante.

Di sicuro, purtroppo, appare molto credibile il ritratto delle condizioni in cui è maturato questo delitto. Condizioni molto tipiche: le violenze che si ripetono da anni, fisiche e psicologiche, contro la moglie, ma anche contro i figli. La frustrazione dell’uomo che si sente spodestato nella gestione della casa e del lavoro dalla moglie che invece fatica duro dall’alba fino a tardi. Il contesto ambientale con il clan contadino fortemente patriarcale e incombente. Le scappatelle nei night della zona, le botte e le accuse assurde alla moglie (tipico del sesso forte che si ritrova debole, e quindi mena), la crisi per il terzo figlio in arrivo. L’inadeguatezza per una famiglia sacra (e perciò violenta) che, letteralmente, ti si stringe addosso fino a soffocarti. Resta il problema, questo sì da discutere e indagare, del perché la violenza in famiglia sia così diffusa. Del perché queste coppie così serrate, ancora pensate e fondate sul possesso, accettino una routine fatta di botte e insulti che a volte sfociano in omicidio. L’esame non va fatto al feto, al suo dna, all’immaginario «altro padre». No. Facciamo l’esame a questi rapporti malati. Che non vanno bene per niente, che sono un pericolo sociale. Quella della gelosia è storia vecchia, inutile davanti ad amori che sono soltanto possesso e atti di proprietà.

La passione è un’altra cosa e i lucchetti dell’amore, tanto à la page, che prevedono una coppia chiusa in se stessa e perciò isolata e paranoica, non sono affatto un bel simbolo da vendere ai più giovani. Ma l’anticamera delle sberle. Facciamolo a tutto questo, l’esame del dna.

Pubblicato il: 04.06.07
Modificato il: 04.06.07 alle ore 8.35   
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« Risposta #14 inserito:: Giugno 06, 2007, 04:19:34 pm »

Testamento biologico, l’ora della legge
Maurizio Mori *


Il testamento biologico arriva in Senato. La relazione sul disegno di legge che si terrà oggi in commissione Sanità darà infatti l’avvio alla discussione generale. A tale proposito, vale la pena ricordare che sin dalla sua fondazione la Consulta di Bioetica ha profuso energie per promuovere il testamento biologico e nel 1990 ha lanciato - prima associazione in Italia - la proposta di un concreto modello a questo proposito.

Nel corso degli anni quella proposta è stata perfezionata e sono stati diffusi oltre 100.000 moduli a cittadini che, settimana dopo settimana, lo richiedevano. Nei primi anni di attività (quando le leggi sulla privacy lo consentivano), avevamo anche l’elenco dei detentori di un testamento biologico ed i relativi riscontri sull'efficacia di tali documenti, che non era per nulla trascurabile. Nelle ultime settimane, forse per via del dibattito pubblico sul tema, abbiamo avuto un’impennata di richieste che ci ha portato ad esaurire la scorta dei moduli elaborati qualche tempo fa: stiamo concretamente pensando di ristamparli, ma siamo altresì dubbiosi se valga la pena farlo visto il lodevole impegno del senatore Ignazio Marino per avere una nuova legge al riguardo. Conviene riproporre ai cittadini un modello di testamento biologico che potrebbe essere presto superato dalla legge?

Una cosa è certa: l’esigenza sociale in proposito è forte, e non passa giorno che la nostra segreteria non riceva decine di messaggi mail e di telefonate di cittadini che chiedono di avere la «Carta dell’autodeterminazione» - come noi della Consulta chiamiamo il testamento biologico. A fronte di questa situazione, ogni giorno di ritardo nel varo di una buona legge al riguardo è un torto compiuto nei confronti dei cittadini. E quando parlo di “buona legge” intendo quella che dovrebbe uscire dal fascio di proposte presenti che sono compatibili con quella avanzata da Ignazio Marino stesso. Come è noto, al di là dei dettagli specifici di ciascun progetto di legge, i vari progetti presentati appartengono a due gruppi idealtipici: l’uno teso sostanzialmente a contrastare o ad affossare il testamento biologico attraverso una serie di appesantimenti burocratici studiati apposta per renderlo impraticabile; l’altro volto a sdoganare questo tipo di documento nella nostra legislazione affinché i cittadini italiani possano trarne beneficio.

A scanso di equivoci è opportuno ribadire i punti irrinunciabili di una buona legge su questo tema. Primo: il testamento biologico va visto come uno strumento per estendere il consenso informato nelle situazioni in cui l’interessato non è più capace di darlo. Da quest’allargamento dell’autodeterminazione non deriva affatto che il testamento biologico diventi il cavallo di Troia per l’eutanasia, dal momento che si può riconoscere la liceità della sospensione dei trattamenti sanitari (come peraltro già previsto dalla nostra Costituzione repubblicana), senza per questo ammettere trattamenti tesi a causare (positivamente) la morte stessa. Né vale al riguardo cercare di evocare forti emozioni al fine di fuorviare la retta ragione. Secondo: il testamento biologico deve essere vincolante per il medico e prevedere un fiduciario che risolva eventuali dubbi circa situazioni nuove ed impreviste. Terzo: va consentita la sospensione di qualsiasi intervento non voluto dall’interessato, dal momento che si tratta di un diritto personalissimo di rifiutare qualsiasi aiuto o qualsiasi atto lesivo della propria integrità psichico-corporale. Quarto: l’esercizio di un diritto civile richiede procedure snelle, per cui vanno evitati appesantimenti burocratici come quelli che prevedono il ricorso al notaio o ad altre macchinose procedure. Quinto: il testamento biologico può anche essere steso “ora per allora”, ossia anche quando si è sani, perché solo in questo modo si possono garantire le direttive anticipate in presenza di situazioni catastrofiche (ictus devastanti o eventi simili o peggiori). Chi volesse cambiare opinione dopo l’insorgenza di una malattia, è sempre libero di farlo avendone le possibilità: ma se non lo fa si deve presumere la conferma della tesi iniziale che viene sempre più consolidata col trascorrere del tempo.

Contrariamente a tesi diffuse che hanno come obiettivo quello di ritardare, o anche di bloccare i lavori parlamentari al riguardo, credo una legge sul tema sia quanto mai opportuna proprio ora. Si offrirebbe ai cittadini una opportunità di far sentire la propria voce su temi personalissimi, opportunità che può risultare un una complessiva crescita civile per tutta la società italiana. Buone leggi, infatti, non sono solo quelle che vanno fatte per esigenze di statistica, ma anche quelle che, interpretando le tendenze di sviluppo sociale, offrono prospettive nuove alla crescita civile consentendo alla società di estrinsecarsi e di fiorire. Quella sul testamento biologico è sicuramente una di queste. Gli elettori italiani si ricorderanno di quanto è stato fatto su un tema che li coinvolge direttamente “sulla propria pelle”. Per questo non si devono frapporre ulteriori ritardi nel varare la legge.

* Presidente della Consulta di Bioetica, Milano

Università di Torino



Pubblicato il: 06.06.07
Modificato il: 06.06.07 alle ore 8.51   
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