LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => LA-U STORICA 2 -Ante 12 maggio 2023 --ARCHIVIO ATTIVO, VITALE e AGGIORNABILE, DA OLTRE VENTANNI. => Discussione aperta da: Arlecchino - Maggio 17, 2007, 06:41:30 pm



Titolo: SOCIETA' - FAMIGLIA
Inserito da: Arlecchino - Maggio 17, 2007, 06:41:30 pm
POLITICA

Il segretario generale della Cei contro "nichilismo e relativismo"

"Come le truppe del Barbarossa che assediarono la cristianità"

Betori: "Aborto, eutanasia e coppie gay i nuovi nemici alle porte della Chiesa"


 CITTA' DEL VATICANO - La Chiesa cattolica ha i nemici alle porte. L'aborto, l'eutanasia, il relativismo etico che "nega la dualità sessuale e scardina la famiglia basata sul matrimonio" sono come le truppe di Federico barbarossa, che nel 1155 cinsero d'assedio la cittadella cristiana di Gubbio. A fare il paragone è il segretario generale della Cei, monsignor Giuseppe Betori, parole che, a quattro giorni dal Family Day e mentre divampa la polemica sui Dico, possono assumere una connotazione politica forte, anche se il presule non ha fatto alcun accenno diretto né alla manifestazione di San Giovanni tanto meno al ddl governativo sui diritti dei conviventi.

Proprio nella cattedrale di Gubbio, il numero due della Cei ha celebrato oggi una messa in onore di Sant'Ubaldo, il vescovo medioevale che difese eroicamente la sua comunità contro gli assalti dell'esercito germanico. A lui la Chiesa deve ispirarsi contro i nuovi aggressori, "che tentano di espugnare le nostre città". Questi "nuovi nemici" si chiamano innanzitutto "nichilismo e relativismo", due mali da cui si nutrono la deriva morale ma anche le ingiustizie sociali, le violenze, il terrorismo, l'emarginazione dei più deboli.

Nell'omelia, Betori è partito dal ricordo di Sant'Ubaldo: "Fu premuroso nell'impedire la caduta del suo popolo, fortificò la città contro un assedio. Oggi, nuovi nemici tentano di espugnare le nostre città, di sovvertire il loro sereno ordinamento, di creare turbamento alla loro vita".

I nemici di cui parla Betori "si chiamano il nichilismo e il relativismo, che in modo più o meno esplicito nutrono le tendenze egemoni della nostra cultura: fanno dell'embrione, l'essere umano più indifeso, un materiale disponibile per le sperimentazioni mediche; danno copertura legale al crimine dell'aborto, e si apprestano a farlo per le pratiche eutanasiche, infrangendo la sacralità dell'inizio e della fine della vita umana".

E sono sempre loro, i "nuovi nemici", a introdurre "il concetto, apparentemente innocuo, di qualità della vita che innesca l'emarginazione e la condanna dei più deboli e svantaggiati; coltivano sentimenti di arroganza, di violenza, che fomentano le guerre e il terrorismo, delimitano gli spazi del riconoscimento dell'altro e chiudono l'accoglienza verso chi è diverso per etnia, cultura e religione; negano la possibilità di crescita per tutti - continua - mantenendo situazioni e strutture di ingiustizia sociale; oscurano la verità della dualità sessuale in nome di una improponibile libertà di autodeterminazione di sé; scardinano la natura stessa della famiglia fondata su il matrimonio di un uomo e di una donna".

L'omelia anticipa di qualche giorno i temi della prossima Assemblea generale dei vescovi italiani, in programma in Vaticano a partire da lunedì 21 maggio. L'assise sarà per la prima volta aperta dal nuovo presidente della Cei monsignor Angelo Bagnasco. Per l'occasione è atteso anche un discorso importante di Benedetto XVI.

(16 maggio 2007) 

da repubblica.it


Titolo: Re: SOCIETA' - FAMIGLIA
Inserito da: Arlecchino - Maggio 26, 2007, 10:30:56 pm
L'ANTITALIANO

Chi ha paura del cardinal Bagnasco
di Giorgio Bocca


Nella mia vita non ho mai temuto un divieto o un rimprovero ecclesiastico. Gli infiniti delitti permessi e perdonati in nome dei soldi sono i veri privilegi autoritari del nostro tempo  Il cardinale Angelo Bagnasco
presidente della CeiChe ne pensa del Family day? Un certo fastidio per il nome in inglese, da provinciali dell'impero anglosassone, da mercato globale per vendere di più che con 'il giorno della famiglia'. Poi lo strumentalismo politico cui non poteva mancare Silvio Berlusconi con il suo teorema imbecille: "Il Family day è di destra, solo i dementi sono di sinistra".

E poi il trionfalismo, la retorica sulla famiglia bene supremo della società. Non sempre per fortuna. La famiglia per la continuazione della specie, per la formazione e l'esistenza della nazione, d'accordo, ma anche la famiglia come freno della perenne rivoluzione sociale, come ostacolo alla conoscenza.

Chi ha raccolto le sfide della vita sa che nei momenti decisivi ha dovuto disattendere o disobbedire ai legami della famiglia. La sera che me ne andai da casa per raggiungere la guerra partigiana dissi ai miei: "Sappiate che se vi arrestano o vi perseguitano io non scenderò dalla montagna per costituirmi".

Le famiglie hanno giocato un ruolo ambiguo durante il terrorismo più vicino ai legami del sangue che alla legalità. Le lodi alla famiglia cattolica, in parte condivisibili, sono parse fastidiose e acritiche nella loro ignoranza delle famiglie non cattoliche e nel silenzio sui freni e sui limiti che le famiglie hanno posto agli individui ardimentosi e generosi, anche se cattolici o santi che allargavano le umane conoscenze.

Di fronte alla manifestazione di piazza, e alle cervellotiche definizioni politiche su chi è un familista di destra o di sinistra, ci è parso di cogliere nella società italiana una diffusa diffidenza verso la democrazia intesa come convivenza e tolleranza fra i diversi. Per i cattolici ogni affermazione di laicismo è vista come una ostilità al mondo cattolico. Ogni riconoscimento di un diritto civile agli omosessuali come l'avvento del regno di Satana e, all'opposto, ogni difesa dei cattolici in materia religiosa come un ritorno alla caccia alle streghe o come una crociata sanfedista.
 

Chi vedeva nel cardinale Camillo Ruini un asfissiante difensore di privilegi clericali aveva le sue buone ragioni, ma quelli che promettono morte al cardinal Bagnasco perché fa le sue prediche sono afflitti da mania di persecuzione.

Che l'Italia sia un paese cattolico nei suoi meriti e nei suoi difetti è un fatto accertato, che la televisione pubblica sia al servizio del Vaticano dei papi e delle loro pubbliche cerimonie è altrettanto evidente, ma non è una ragione per dire che la Repubblica italiana è una teocrazia in cui i laici sono schiavi dei preti. In tutta la mia avventurosa vita non ho mai avuto ragione di temere un divieto o un rimprovero ecclesiastico. Le ferree regole del capitale, gli infiniti delitti che vengono permessi e perdonati in nome dei soldi, sono i veri privilegi autoritari del nostro tempo.

I preti di adesso si fan vedere nelle nostre case solo per la benedizione pasquale e quando ci servono per confessioni e olio santo. Si ha l'impressione che queste paure esagerate, queste contrapposizioni spesso fantastiche nascano dal sentimento generale che non si può andare avanti così, senza principi e senza regole, affidati soltanto alla moltiplicazione dei consumi e al dilagare della corruzione.

Non si può andare avanti con il rovesciamento dei valori che il capitalismo selvaggio sta operando. Da capo del governo Berlusconi dichiarava che l'evasione fiscale era un diritto dei cittadini, un modo di resistere allo Stato esoso. Finanziere di livello mondiale, il signor Briatore padrone del Billionaire ricorda con rimpianto i giorni in cui fu arrestato per gioco d'azzardo come inizio della sua fortuna.

E allora i casi sono due: o un ritorno a un minimo di ordine o un nuovo cataclisma sociale.
(25 maggio 2007)
 
da epresso.repubblica.it


Titolo: Re: SOCIETA' - FAMIGLIA
Inserito da: Arlecchino - Maggio 27, 2007, 05:43:12 pm
Questi i beni personali del mitico banchiere

L'eredità di Cuccia: 150 mila euro

Il lascito del fondatore di Mediobanca ai figli Aurea, Silvia e Pietro Beniamino.

E non ritirava il compenso da presidente onorario


MILANO — Il «banchiere dei banchieri», «il silenzioso burattinaio del capitalismo italiano», «lo spietato sacerdote del grande capitale». Quando Enrico Cuccia morì, poco meno di sette anni fa, furono solo alcuni dei titoli riservati dai quotidiani al fondatore di Mediobanca, protagonista di mezzo secolo di economia e finanza italiana. Un uomo minuto, magro e incurvato, che si poteva incontrare la mattina, in centro a Milano, intento ad attraversare a piedi Piazza della Scala nel tragitto verso via Filodrammatici. Ma se la riservatezza, l'enorme potere, e lo stile di vita quasi monacale sono attributi che fanno ormai parte integrante del ritratto un po' stereotipato di Cuccia, non è meno sorprendente scoprire come alla sua morte, il 23 giugno 2000, i beni personali del banchiere novantaduenne — del “signore della finanza” — si esaurissero in un conto corrente bancario. Quello aperto proprio alla sede centrale dell'allora Comit, la Banca Commerciale Italiana del suo vecchio maestro Raffaele Mattioli e dei primi passi della sua lunga carriera.

IL CONTO IN PIAZZA SCALA - Un conto corrente con un deposito di poco più di 150 mila euro. Anzi, per la precisione, con denaro liquido pari a 303 milioni e 305 mila vecchie lire. Nient'altro, secondo il documento rintracciato dal «Corriere» all'Agenzia delle entrate, lo stesso consegnato dagli eredi qualche settimana dopo all'Ufficio registro successioni di via Ugo Bassi a Milano, corredato di imposta di bollo per trentamila lire. «Il miglior banchiere d'Europa» – come disse Andrè Meyer, suo amico e patron della Lazard, a Cesare Merzagora - non ha lasciato neanche un testamento. Non ce ne sarebbe stato bisogno, visto che ufficialmente, al di là del conto corrente alla Comit, non esisteva un'eredità da dividere, composta magari di immobili, azioni, titoli e beni vari. I dettagli della situazione patrimoniale di Cuccia, per la verità, non sono del tutto accessibili e come si evince dai documenti all'Agenzia delle entrate risultano gelosamente custoditi nello studio dei commercialisti di fiducia della famiglia, quello milanese dei Dattilo. Creato da Giuseppe, siciliano di Siracusa, e gestito dal figlio Maurizio, lo studio è uno storico consulente fiscale di Mediobanca. E di recente ha avuto un ruolo anche nella vicenda che ha portato alla costituzione della Telco, la nuova holding di Telecom Italia. Ma al di là del muro che ha sempre circondato le vicende dei creatori e degli epigoni della banca milanese, a parlare sono le carte disponibili. Per il 1999, l'anno prima della morte, Cuccia dichiarava al fisco di percepire circa 350 milioni netti di vecchie lire. Entrate derivanti per più della metà soprattutto dal fondo di previdenza privato, e per il resto dalla pensione Inps e da quanto riconosciuto da Mediobanca in virtù della carica di presidente onorario: ovvero 163 milioni di lire, al lordo delle ritenute. A proposito di questa compenso, i funzionari della Mediobanca di allora ricordano che l'anziano banchiere non volle mai incassarlo. Tanto che dalla sua segreteria, non potendo disporre diversamente, un bel giorno si decise, con qualche imbarazzo, di accreditarglielo automaticamente, quasi di nascosto.

LA VILLA SUL LAGO - L'ennesimo aneddoto destinato ad alimentare la panegiristica sull'indiscutibile rigore di un banchiere unico e irripetibile? E tuttavia, malgrado fosse un navigato conoscitore degli strumenti della finanza italiana e internazionale, Enrico Cuccia non ha lasciato ai suoi eredi nulla che vada al di là delle possibilità di una agiata famiglia borghese. Dalle stesse carte risulta che anche la famosa villa «da venti stanze e cinquemila metri di giardino» di Meina, sul lago Maggiore, la località dove il banchiere è sepolto (e dove la salma fu trafugata nel 2001 per poi esservi di nuovo sepolta) non rientrava nella sua disponibilità. L'abitazione è proprietà dei tre figli da più di dieci anni, per un terzo ciascuno, ed è in realtà l'eredità lasciata dalla moglie, la signora Idea Nuova Socialista, una delle figlie del fondatore dell'Iri Alberto Beneduce (le altre due si chiamavano Vittoria Proletaria e Italia Libera). Scomparsa nell'ottobre del 1996, anche lei riservatissima, per un puro caso fu ritratta poco tempo prima della morte in un servizio fotografico a passeggio per Roma e in compagnia del marito. I tre figli di Enrico Cuccia - Aurea (la più anziana), Silvia e Pietro Beniamino (il più giovane) – viaggiano inoltre sopra la sessantina e vivono tutti e tre a Milano, dove risultano proprietari di appartamenti in zone residenziali, nei pressi della Fiera e di Brera. La figlia Silvia ha lavorato come professoressa di matematica, mentre Beniamino da gennaio dello scorso anno ha fatto il suo ingresso nel consiglio di amministrazione di una piccola società farmaceutica in provincia di Como. Insomma, come ha scritto nel 2003 Antonio Maccanico (al vertice di Mediobanca al momento della privatizzazione dell'87-88 e nipote di un altro presidente, come Adolfo Tino) è forse proprio vero che «il danaro per Cuccia era solo un mezzo», e che «la società dello scandalo Enron non lo avrebbe capito, lo avrebbe forse emarginato». Non solo la società dello scandalo Enron, ma forse anche quella delle laute stock-option, dei superbonus e delle buonuscite plurimilionarie.

Stefano Agnoli
27 maggio 2007
 
da corriere.it


Titolo: Re: SOCIETA' - FAMIGLIA
Inserito da: Arlecchino - Maggio 28, 2007, 10:13:12 pm
28 maggio 2007

 Eni querela Report per inchiesta sul gas.

Sequestri della Gdf, manager indagati

Nel giorno in cui l'Eni ha deciso di querelare la trasmissione Report in onda domenica sera su Rai 3 perché «avrebbe riportato fatti in modo distorto e scorretto», la compagnia petrolifera è stata visitata dalla Guardia di Finanza, per esplicita ammissione del gruppo di S. Donato Milanese, «nell'ambito di un'indagine avviata lo scorso anno dalla Procura della Repubblica di Milano, sugli strumenti di misura del trasporto e della distribuzione del gas naturale utilizzati in Italia dalle imprese del settore».

Le Fiamme Gialle, inviate dalla Procura di Milano, hanno operato lunedì mattina un sequestro di documenti presso gli uffici di varie società, tra cui Snam Rete Gas e Italgas (ma sia parla anche di Arcalgas e dell'Aem Milano, ndr) «con particolare riguardo a documentazione a partire dal 2003». I sequestri sono avvenuti a Milano, Roma, Torino e Piacenza. Le accuse comprendono la truffa, la violazione della legge sulle accise, ostacolo all'attività di vigilanza e l'uso o detenzione di misure o pesi con falsa impronta. Tutte le società coinvolte nelle indagini sono anche state iscritte nel registro degli indagati per la legge 231 del 2001 relativa alla responsabilità amministrativa delle società.

L'inchiesta sulle misurazioni del gas è stata avviata dai pm Sandro Raimondi e Letizia Mannella. La nota Eni parla anche di diversi manager sotto inchiesta, compreso l'amministratore delegato Paolo Scaroni, in qualità di legale rappresentante della capogruppo insieme ad altre dieci persone e otto società fra cui Eni, Snam Rete Gas e Italgas. Secondo l'ipotesi di accusa l'Eni avrebbe usato dei contatori chiamati venturimetrici, che avrebbero conteggiato consumi maggiori rispetto alla realtà, gonfiando di fatto le bollette. I misuratori venturimetrici, sostiene l'Eni, sono «da sempre utilizzati in Italia e all'estero, e non incidono sulle misurazioni relative alla bolletta dei consumatori».

«Siamo sereni - ha dichiarato Scaroni all'Ansa - le misurazioni oggetto dell'inchiesta sono al centro dell'attenzione di tutte le società operanti nel mercato del gas in Italia e all'estero. Io stesso, appena giunto in Eni, ho attivato una procedura di verifica sulle misurazioni del gas, avvalendomi di consulenti internazionali specializzati. Peraltro - ha aggiunto il top manager dell'Eni - si fa riferimento a misurazioni su gas non contabilizzato, che è la differenza tra il gas che Eni compra dai propri fornitori e quello che poi rivende ai distributori. Questa differenza, a oggi, rappresenta per la nostra azienda una perdita secca di alcune centinaia di milioni di metri cubi di gas ogni anno. Mi preme ricordare - ha concluso Scaroni - che le misurazioni del gas per quanto riguarda la distribuzione cittadina vengono realizzate seguendo rigidamente le indicazioni emanate dall'Authority per l'Energia e il Gas e dai competenti uffici del ministero dello Sviluppo economico».

Quanto alla puntata di Report «Eni ha dato mandato ai propri legali, suo malgrado, di predisporre una querela che ricostruisca la verità dei fatti, e che tuteli l'immagine dell'azienda e l'onorabilità dei propri dipendenti».

Sul listino dei titoli principali Eni perdeva - poco dopo le ore 13 - l'1,4% a 25,95 euro con lo 0,36% di scambi. Il titolo si è in parte ripreso dopo aver toccato una perdita del 2 per cento. In rosso anche Snam Rete Gas (-0,4%) e Saipem (-1%, come Aem). A proposito di un suo presunto coinvolgimento nell'inchiesta sul gas, l'ad delle ex municipalizzata milanese, Giuliano Zuccoli, ha dichiarato a fine mattinata di non sapere nulla. «Sto rientrando in azienda per vedere di cosa si tratta».

da ilsole24ore.com



Titolo: Re: SOCIETA' - FAMIGLIA
Inserito da: Arlecchino - Maggio 28, 2007, 10:14:03 pm
Confiscato alla mafia, inaugurato due anni fa, mai usato

Raffaele Sardo


Fu inaugurata poco meno di due anni fa e per la sua ristrutturazione sono stati spesi 200mila euro  di un finanziamento concesso dalla Regione Campania. Ma ora è ancora chiusa. È la "Casa don Diana", ovvero un "Centro di pronta e temporanea accoglienza per i minori in affido" nato in un bene confiscato sottratto al boss del clan dei casalesi, Egidio Coppola. Il Centro non apre perché manca il certificato di agibilità. La causa di tutto questo sarebbe un  pozzo artesiano, sorto abusivamente, da cui viene prelevata l'acqua  per la struttura, e che risulta inquinato sia dal punto di vista  chimico che microbiologico.

A denunciare questo ulteriore caso scandaloso nella gestione dei beni confiscati della provincia di Caserta, è stato Valerio Taglione, referente provinciale di Libera e portavoce del Comitato don Peppe Diana. La struttura venne inaugurata ufficialmente il 23 novembre 2005.  A tagliare il nastro della "Casa don Diana", c'era il  vescovo di Aversa, Mario Milano, il sindaco di Casal di Principe, Francesco Goglia, il prefetto di Caserta dell'epoca, Carlo Schilardi, il procuratore antimafia, Franco Roberti e  il vice procuratore nazionale Lucio Di Pietro. Passò anche don Luigi Ciotti, presidente Nazionale di Libera, perché quel giorno coincideva con l'arrivo della carovana antimafia al santuario della Madonna di Briano. Le responsabilità, come accade in casi del genere, si rimpallano da una parte all'altra.
 
Il 26 febbraio del 2004 il Comune di Casal di Principe, concedeva in comodato d'uso gratuito ad Agrorinasce (un Consorzio di sei comuni: Casal di Principe, San Cipriano d'Aversa, Casapesenna, Villa Literno, Santa Maria La Fossa e San Marcellino), per la durata di dieci anni, l'immobile confiscato al boss  Egidio Coppola. La regione Campania, il 10 gennaio 2005, finanziava per 200mila euro la ristrutturazione dell'immobile e Agrorinasce lo girava in comodato d'uso all'ASL di Aversa per destinarlo a Centro di accoglienza per i minori dove sarebbero passati, in un anno, almeno 350 bambini nella sola area aversana, che vivono un disagio familiare e sono in attesa di una famiglia per un affido temporaneo. Il comune di Casal di Principe bandisce i lavori, che vengono affidati e ultimati il 22 novembre 2005. Il giorno dopo c'è l'inaugurazione della struttura in pompa magna.  Ma appena dopo il taglio dei nastri, si scopre che il certificato di agibilità dell'abitazione non può essere redatto, perché l'acqua che esce dai rubinetti è inquinata. Infatti essa viene prelevata da un pozzo artesiano abusivo, costruito dal suo originario proprietario e con l'acqua inquinata i bambini in quella casa non ci potranno mai entrare.
 
Il 14 maggio scorso, in una nota inviata al Comune di Casal di Principe, Giovanni Allucci, amministratore delegato di Agrorinasce ha sollecitato il Comune, per la quarta volta, a risolvere il problema dell'acqua inquinata con il semplice acquisto di un depuratore. Il paradosso è che il Comune è commissariato e a dirigerlo, in questo momento, c'è un altro funzionario prefettizio, la dottoressa Savina Macchiarella.  E dunque la Prefettura potrebbe risolvere al proprio interno il problema senza bisogno di rimpallare le responsabilità tra enti e consorzi gestiti da funzionari prefettizi. La provincia di Caserta è la quarta a livello nazionale per  possesso di beni confiscati. E anche per questo motivo l'associazione Libera e il Comitato "don Peppe Diana", hanno dato vita ad un osservatorio sui beni confiscati, che sta dando i primi frutti.

Ma la "Casa don Diana", non è un caso isolato. Il caso più clamoroso riguarda proprio il capo del clan dei casalesi, Francesco Schiavone, Sandokan. Dal 2004, infatti, nella casa confiscata al boss, viveva ancora la sua famiglia. Nessuno mai si era preoccupato, fino alla denuncia fatta dal presidente della Commissione Antimafia, Francesco Forgione, solo il 19 marzo del 2007, di  emettere un decreto di sfratto nei confronti degli occupanti abusivi. Anche in questo caso, inadempienze, negligenze  e sicuramente connivenze, avevano impedito l'assegnazione del bene ad un uso sociale. Proprio pochi giorni fa, invece, è stata firmata una convenzione dal vice ministro dell'Interno, Marco Minniti, in rappresentanza del Viminale, e il commissario prefettizio di Casal di Principe per dare vita ad un centro di aggregazione giovanile la villa del boss Francesco Schiavone.
 

Pubblicato il: 27.05.07
Modificato il: 28.05.07 alle ore 14.42   
© l'Unità.


Titolo: Re: SOCIETA' - FAMIGLIA
Inserito da: Arlecchino - Maggio 30, 2007, 11:02:45 pm
Per 4 agenti l'accusa è di aver provocato il decesso del giovane Federico, svolta nell'inchiesta Ferrara, trovate altre prove nella cassaforte della polizia: sette tamponi con il sangue della vittima e documenti clamorosi 

 
FERRARA - Le sorprese erano chiuse in cassaforte. Ci sono novità sulla storia di Federico Aldrovandi, lo studente diciottenne che il 25 settembre 2005 morì a Ferrara dopo essere stato fermato dalla polizia. Tutto era pronto per l’udienza preliminare che il prossimo 20 giugno deciderà se mandare a processo quattro agenti accusati di omicidio colposo. Ed invece, dalla questura arrivano nuovi reperti, sconosciuti agli atti dell’inchiesta. Dagli «originali » delle telefonate ai tamponi imbevuti del sangue del ragazzo. E con essi affiorano dubbi e sospetti, ai quali dà corpo Alessandro Gamberini, legale della famiglia del giovane: «È la prova di come in questa inchiesta il materiale di indagine sia stato accuratamente selezionato, dato o non dato a seconda della convenienza. Per fortuna qualcosa è cambiato». Aldrovandi muore a Ferrara, in via Ippodromo, dopo aver trascorso la notte in un centro sociale di Bologna. Così ricostruiva i fatti una nota della questura: «Alle 6.25 personale di Polizia interveniva su segnalazione di alcuni cittadini che avevano riferito del comportamento strano di un giovane. Poco dopo, il giovane è stato colto da malore».

Caso chiuso. Morto per cause naturali, durante il trasporto in ospedale. Overdose, si dirà poi. Tre mesi dopo Patrizia, la madre di Federico, apre un blog per chiedere nuove indagini. Emergono testimonianze che parlano di un controllo piuttosto energico da parte degli agenti intervenuti. Secondo i consulenti della famiglia ci sarebbe stata una violenta colluttazione tra quattro agenti e Aldrovandi, sottoposto ad una immobilizzazione forzata con schiacciamento della cassa toracica. Il 9 gennaio 2007 c’è la richiesta di rinvio a giudizio per quattro poliziotti. La partita giudiziaria si giocherà su perizie mediche e sulle diverse ricostruzioni degli orari. Anche per questo, è di grande onestà e pulizia la nota datata 2 febbraio 2007 della Squadra mobile di Ferrara che accompagna le nuove rivelazioni. Scrive il dirigente: «In data odierna ho avuto accesso, per la prima volta, al registro degli interventi del 113 relativo al periodo di indagine, fino ad oggi custodito nella cassaforte dell’Unità di polizia giudiziaria». Per una circostanza fortuita, si apre così, «per la prima volta», lo scrigno che contiene gli originali degli atti compiuti quel 25 settembre 2005.

Il catalogo è questo: ci sono tutti i brogliacci delle telefonate effettuate dagli agenti, e gli orari del loro intervento nel luogo dove Federico Aldrovandi cominciava la sua agonia. La Squadra mobile li mette a confronto con i documenti «puliti» che sono stati poi allegati agli atti dell’inchiesta. E scopre che tra la copia «in brutta» e quella in bella, ci sono differenze sostanziali. Sull’orario dell’arrivo della prima pattuglia, i cui agenti sono accusati di aver pestato Aldrovandi: «Doverosamente si deve rilevare come il foglio di intervento originale, annullato con dei segni trasversali a penna, è parzialmente difforme» da quello poi trascritto agli atti. «In particolare, la difformità è relativa all’orario in cui è stato dato l'intervento, e la correzione fatta a penna contrasta con i fogli successivi ». Il nuovo questore di Ferrara, Luigi Savina, uno dei poliziotti più stimati dal Viminale, mette per iscritto di non aver chiesto «per ora» una relazione sull’accaduto ai due ispettori che hanno firmato i rapporti solo perché consapevole che anche la Procura ha un procedimento in corso sui modi con i quali è stata effettuata l’indagine sulla morte di Aldrovandi. Dal carteggio custodito in cassaforte spuntano anche due lettere «manoscritte in originale», che sono riferibili alle attività di sopralluogo compiute la mattina del 25 settembre—Aldrovandi morì poco dopo l’alba—«ma non risultano finora essere state inviate alla autorità giudiziaria».

L'ultima scoperta è forse la più clamorosa. La questura comunica di aver ritrovato anche sette tamponi intrisi di sangue «relativi al giovane Aldrovandi» conservati da ormai due anni nei frigoriferi della Polizia scientifica, e mai messi agli atti. In una vicenda dove autopsie, perizie mediche e sopralluoghi contano molto, è un dettaglio che potrebbe avere la sua importanza.

Marco Imarisio
30 maggio 2007
 
da corriere.it


Titolo: Re: SOCIETA' - FAMIGLIA
Inserito da: Arlecchino - Maggio 30, 2007, 11:03:17 pm
Palestinese e giornalista: discriminata

Maurizio Debanne



Ala'a KarajhAla'a Karajh è una giornalista palestinese di 23 anni. Le qualità del mestiere le possiede tutte: di curiosità ne ha da vendere, la realtà sa bene che la si conosce solo per strada e non per sentito dire. L'umiltà poi la dimostra prendendo appunti in ogni incontro a cui prende parte. «Da tutti posso imparare qualcosa», dice a l'Unita.it. Ala'a ha fatto parte di un gruppo di 12 giornalisti, 6 israeliani e 6 palestinesi, che ha preso parte ad un workshop di 3 giorni presso la redazione di RaiNews24 sul ruolo dei media nel conflitto israelo-palestinese. Il progetto, finanziato dall'Unione europea, dal Comune di Roma e dalla Regione Lazio, è stato organizzato dal Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente e da due Ong, Keshev (israeliana) e Miftah (palestinese).

Dai lavori sono emerse fuori tutte le difficoltà che attraversa la stampa di ambo le parti. Ala'a non si sottrae a elencare le proprie. «Il giornalismo palestinese è ancora molto giovane e dunque manca a volte di professionalità», ammette. Tuttavia, le difficoltà non derivano solo dall'inesperienza e dall'estremismo di alcuni canali, come quello di Hamas. «Due anni fa durante il ritiro da Gaza voluto dal governo israeliano di Ariel Sharon le televisioni di tutto il mondo coprirono l'evento. C'erano anche le telecamere di Al Jazira e Al Arabya. Ma a noi giornalisti palestinesi non ci fu rilasciato il permesso dalle autorità di sicurezza dello stato ebraico di entrare a Gaza per raccontare lo sgombero degli 8mila coloni». «Una decisione incomprensibile», è il commento del capo della delegazione israeliana, Yitzar Be'er, direttore di Keshev.

E qui si apre allora il problema delle fonti. Se ai palestinesi non è concesso di vedere con i propri occhi ciò che accade in Israele, o un discorso del primo ministro o di altri membri dell'esecutivo dello stato ebraico, come possono svolgere appieno il proprio lavoro? «Siamo più volte costretti a ricercare le notizie guardando le tv satellitari arabe», confessa Ala'a. A questo quadro va aggiunto inoltre che per i palestinesi è difficile spostarsi anche all'interno della stessa Cisgiordania. A causa dei blocchi interni israeliani, recentemente criticati dalla Banca Mondiale in un rapporto sull'economia palestinese, è difficile coprire gli eventi nelle varie città della West Bank. Insomma, oltre alle difficoltà di sfondare in un settore molto competitivo, ancora giovane e a volte attaccato da un fanatismo, in Palestina essere giornalisti è davvero un'impresa. Al'a però non si scoraggia e non nasconde davanti a nessuno il suo sogno: diventare un giorno anchorman di una importante Tv araba.


Pubblicato il: 29.05.07
Modificato il: 29.05.07 alle ore 18.58   
© l'Unità.


Titolo: Re: SOCIETA' - FAMIGLIA
Inserito da: Arlecchino - Maggio 30, 2007, 11:05:32 pm
L’informazione dimezzata

Gustavo Ghidini


Il decreto (del 30 gennaio 2007) che ha recepito l’accordo fra governo, sindacati e imprese, per l’avvio della previdenza complementare, prevede, in sintesi, che le somme corrispondenti al futuro trattamento di fine rapporto dei lavoratori (Tfr) possano essere a): mantenute in azienda e gestite dall’Inps, come sinora avvenuto, ovvero b) per aziende con più di 50 dipendenti, destinate ad un Fondo della Tesoreria dello Stato.

Fondo gestito - secondo le stesse regole sostanziali - dall'Inps; ovvero, ancora, c) devolute a «fondi pensione» operanti sul mercato finanziario. Se il lavoratore non esprimerà una scelta entro il giugno 2007, il Tfr verrà destinato ai fondi pensione (uno strappo rispetto al sistema del diritto privato, che non riconosce, se non marginalmente, il principio del silenzio-assenso, valevole viceversa nei rapporti fra privati e Pubblica Amministrazione). Infine, non si prevede la possibilità di una destinazione «mista» (parte alle gestioni Inps, parte ai fondi pensione): la scelta- quella volontaria o quella «automatica» in favore dei fondi in caso di silenzio del lavoratore - è secca. E qualora privilegi i fondi, anche irrevocabile.

Come si vede, il congegno normativo intende nettamente favorire il decollo della previdenza integrativa, ritenuta necessaria sia per evitare future eventuali «difficoltà» dell'Inps, sia per mobilitare risorse finanziarie che i fondi destinerebbero ad investimenti nel «sistema» economico. Non intendo né saprei discutere questa scelta, che vede forti ed eterogenee convergenze di concreti interessi (il Tfr «vale», nel 2007, quasi 20 miliardi di euro). Mi limito a esprimere due dubbi marginali. Il primo: il rischio di future difficoltà dell'Inps non si ridimensionerebbe forse decisamente se all'Istituto non fossero più addossati gravosi impegni sul fronte dell'«assistenza» (oltre che della «previdenza»), impegni che dovrebbero far carico alla fiscalità generale? Il bilancio strettamente «pensionistico» dell'Inps non è forse, tuttoggi, in attivo?

Il secondo: il servizio finanziario al «sistema» non è già svolto, e direttamente, dal regime tradizionale, in cui le somme del Tfr restano in azienda? La liquidità ex Tfr non costituisce forse, di fatto, uno strumento di finanziamento che consente alle imprese di ridurre la morsa creditizia?

Ma, come dicevo, il punto che qui vorrei trattare è un altro. Di fronte a quelle alternative di scelta, e alla destinazione per legge ai fondi in caso di silenzio dei lavoratori, l'informazione che viene rivolta a costoro - non certo tipicamente definibili come sofisticati investitori finanziari - si segnala per una vistosa carenza. Una carenza che purtroppo persiste anche nella recentissima «ripresa» della campagna di informazione istituzionale. Si avverte, sì, correttamente, dell'esistenza di profili diversi di convenienza delle singole soluzioni. Ma non si attira espressamente l’attenzione dei lavoratori sullo specifico profilo/problema delle garanzie. Non si esplicita, in particolare, che la forma di gestione attuale, da parte del datore di lavoro (così come quella che sarà svolta dall'Inps per il Fondo tesoreria dello Stato) è sostenuta da un apposito fondo di garanzia, istituito presso lo stesso Inps, che tutela il lavoratore nell'ipotesi di insolvenza dell'impresa, assicurandogli l'intero capitale e una certa, pur modesta, redditività. Si tratta di formale garanzia statuale (legge 29/5/ 82, n. 27), a «tenuta» assoluta. Viceversa, la restituzione delle somme che verranno conferite ai fondi pensione non è attualmente assistito da una altrettanto efficace garanzia. Il decreto legislativo 252 del 2005 prevede infatti che i fondi che gestiranno il Tfr investano nelle linee finanziarie a contenuto più prudenziale, «tali da garantire la restituzione del capitale e rendimenti comparabili... al tasso di rivalutazione del Tfr». Ora, quel «tali da garantire» corrisponde, in termini giuridici, solo ad un ragionevole affidamento, non tuttavia sostenuto da alcun fondo di garanzia in senso proprio. In breve: la disciplina attuale della previdenza complementare non sottrarrebbe il Tfr ai rischi del mercato finanziario. Se la gestione dei fondi fosse «sfortunata», causa di perdite ingenti, le perdite sarebbero del lavoratore (il fondo guadagnerebbe comunque le commissioni pattuite). La situazione potrebbe mutare se il lavoratore sottoscrivesse dei «prodotti» finanziari con restituzione garantita del capitale e di un (minore) interesse, offerti da taluni fondi di impronta assicurativa. Ma - a parte la insufficienza generale dell'informazione su siffatte diversificazioni (specie rispetto ad una platea di investitori tipicamente non esperta di mercati finanziari) - qualcuno di quei fondi potrebbe fallire. Improbabile? Certamente, ma altrettanto certamente non impossibile, specie in un arco di tempo che,per i giovani lavoratori, potrebbe essere di trent'anni. Diverso sarebbe il discorso in un'altra ipotesi : che i fondi assicurassero (con una polizza a favore dei lavoratori-investitori) il proprio rischio di non riuscire a restituire l'intero capitale e l'interesse convenuto. Per i cosiddetti grandi rischi, è abituale che le compagnie di assicurazione provvedano alla cd riassicurazione. Perché non pensarvi anche per il Tfr investito nei fondi pensione? Si tratta, non dimentichiamolo, di accantonamenti sul salario (il Tfr è «salario differito»). Sarebbe, certo, un sistema più costoso per azionisti e gestori dei fondi. Ma non sarebbe più costoso,per l'intero sistema-paese, se la fiducia dei lavoratori venisse tradita?


*Presidente onorario del Movimento Consumatori


Pubblicato il: 30.05.07
Modificato il: 30.05.07 alle ore 8.57   
© l'Unità.


Titolo: Re: SOCIETA' - FAMIGLIA
Inserito da: Arlecchino - Giugno 01, 2007, 12:15:13 am
Così ho visto uccidere Vanessa

di Fausto Biefeni Olevano


Era a due passi dalla ragazza colpita nella metro. E ora racconta a 'L'espresso' tutti i dettagli dell'aggressione  Vanessa Russo col fratelloHa visto partire quel colpo sferrato con l'ombrello che ha raggiunto Vanessa Russo al volto. Ha soccorso la ragazza ferita, le è stata vicina, ha cercato di tranquillizzarla e poi, quando finalmente è arrivato un medico, le forze dell'ordine l'hanno fatta allontanare. Solo il giorno dopo F. M., giovane professionista del Centro-sud trapiantata a Roma per lavoro, ha saputo che Vanessa era morta. A quel punto si è presentata agli inquirenti e ha raccontato agli uomini della Squadra mobile quello che aveva visto. Oggi, per la prima volta, rompe il suo riserbo e ricostruisce con 'L'espresso' la dinamica del delitto di cui sono accusate due rumene: Doina Matei, che ha inferto il colpo, e la minorenne Costanza I..

È il 27 aprile, F. M. sta raggiungendo la banchina della metro a Termini: il tempo di girare un angolo e vede arrivare i vagoni. "Si sono aperte le porte", racconta, "e ho visto scendere, per prime, le tre ragazze che stavano visibilmente litigando. Fra me e loro non c'era nessuno che mi coprisse la visuale. Non ho sentito cosa si stessero dicendo a causa del rumore, ma ho visto cosa è successo".

Secondo la difesa, Doina avrebbe colpito per difendersi da una aggressione da parte di Vanessa.
"Non è così. Io al contrario ho visto Vanessa allontanarsi da Doina, un po' come se le avesse lanciato l'ultimo improperio per poi piantarla lì, ed è a quel punto che è partita l'ombrellata. Vanessa era di profilo rispetto alla rumena e in quel momento ho incrociato il suo sguardo a pochi metri di distanza, una scena che non dimenticherò mai. L'ho vista girarsi verso Doina proprio nel momento in cui arrivava il colpo, subito dopo è caduta a terra. Il colpo è stato strano, all'inizio pensavo che l'avesse solo sfiorata poi, dopo aver saputo che era morta, mi sono resa conto che deve essere stato talmente forte che le ha praticamente spostato il viso".
 

Sempre secondo la difesa, Vanessa avrebbe dato uno schiaffo a Doina.
"Non so cosa sia successo prima sulla metropolitana, ma sulla banchina nessuno schiaffo, casomai come dicevo potrebbe esserci stata un'ultima aggressione verbale. Ma in ogni caso io poi ho visto Vanessa allontanarsi e non aggredire Doina. La mia impressione è che quella della rumena sia stata una reazione rabbiosa e violenta a un presunto insulto".

La rumena minorenne, che poi è stata scarcerata, ha detto di aver tentato di fermare il colpo.
"Anche se avesse voluto non ne avrebbe avuto il tempo. Si è svolto tutto molto rapidamente".

Doina MatteiLe due ragazze rumene si sono allontanate subito?
"Sì, se ne sono andate camminando, senza particolare fretta, e prima di sparire tra la folla Doina si è girata accennando un sorriso, come della persona soddisfatta di aver risposto a una provocazione verbale. Credo che neanche lei si sia resa veramente conto di quello che aveva fatto, tanto che quello che hanno dichiarato le due rumene, da quanto ho letto sui giornali, riguardo al fatto di non aver visto il sangue, è sicuramente vero. In sostanza, il colpo è stato intenzionale, anche se secondo me non è stato inferto con l'intenzione d'uccidere".

E lei cos'ha fatto?
"Ho visto Vanessa cadere a corpo morto, e istintivamente mi sono avvicinata. Come dicevo, ancora non aveva iniziato a sanguinare ed era a terra supina. Quando ha provato a girarsi, come per rialzarsi, ha cominciato a uscire il sangue".

Lei è stata la prima ad avvicinarsi?
"Sì, ho cercato di parlarle, di tranquillizzarla. D'altronde in quel momento pensavo che la botta le avesse rotto il setto nasale, dunque nulla di grave. Poi quando il sangue ha cominciato ad aumentare mi sono preoccupata, anche se non avrei mai pensato a un esito così drammatico".

Vanessa era ancora cosciente?
"Aveva un occhio aperto e l'altro tumefatto, ma il sangue usciva solo dalla bocca e dal naso. Credo che quando si è resa conto di quel grande flusso si sia spaventata perché ha cominciato ad agitarsi, tanto che ha provato a rimettersi supina. Ma in quel modo non riusciva a respirare, aveva uno zainetto che in qualche modo la bloccava, allora ho cercato di metterla di lato perché pensavo che potesse soffocare se continuava a inghiottire sangue. Nel frattempo intorno c'era il panico, gente con le mani nei capelli, che piangeva, ma nessuno è intervenuto, tranne un ragazzo che si è avvicinato e le reggeva la testa. Poi, finalmente, è arrivato un vigilante e insieme abbiamo tagliato le cinghie dello zaino per farla stare più comoda. Quando è arrivato anche un medico, nel frattempo la sicurezza mi aveva già fatto allontanare, ho pensato che a quel punto avrei creato solo intralcio e me ne sono andata".

Lei comunque pensava che la ragazza non fosse grave?
"Sì, ero tranquilla. Credevo che il danno fosse al naso".

Pensa che la sua testimonianza sia stata utile?
"Immagino di sì. Quando sono stata ascoltata la polizia ancora non sapeva come fosse stato sferrato il colpo, pensavano che l'ombrello fosse stato usato come una lancia. Mi hanno fatto mimare la scena, e questo mi fa pensare che probabilmente nessun altro ha visto quello che ho visto io".

(31 maggio 2007)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Re: SOCIETA' - FAMIGLIA
Inserito da: Arlecchino - Giugno 01, 2007, 10:18:53 pm
31 maggio 2007

 Nuove povertà, al Centro-nord le città più esposte al rischio

 
Rimini, Verbania e Massa sono le città capoluogo con i livelli di rischio «povertà » più elevati: è questo uno dei risultati di una ricerca del Centro Studi Sintesi di Venezia sui livelli di rischio povertà a livello locale. Considerando il totale dei 106 comuni capoluogo di provincia, circa il 12,7% dei contribuenti (circa 1,2 milioni di unità) dichiara un reddito inferiore alla soglia media di povertà locale pari a 9.893 euro annui, a fronte del quale il reddito medio è di 24.103 euro.

L'analisi per singoli comuni evidenzia, con una certa sorpresa, che Rimini è la città più esposta al rischio «povertà», in quanto circa il 26,9% dei contribuenti presenta un livello di reddito inferiore alla soglia di povertà locale. Rimini, infatti, ha una reddito medio inferiore di circa 4.000 euro alla media nazionale, con una forte presenza di redditi inferiori ai 10.000 euro (circa il 18,3% dei contribuenti, quando la media italiana è 13%) ed un livello elevato di spesa per consumi che fa innalzare la soglia di povertà ben oltre il riferimento medio generale. Tuttavia, sulla situazione di Rimini, ha un peso rilevante l'economia turistica e la relativa presenza di numerosi soggetti impiegati inlavori stagionali, quindi con redditi tendenzialmente più bassi.

Dopo Rimini, la graduatoria è composta da Verbania (22,7%), Massa (21,7%), Cesena e Crotone (entrambe con il 21,7%); i tassi di rischio inferiori si riscontrano, invece, a Matera (5,3%), Potenza (5,6%) e Avellino (6,3%). Restringendo l'osservazione alle gradi città, Torino (19,3%; 9a posizione) risulta in una situazione più rischiosa di Milano (16,2%; 16ma posizione); inoltre, Roma (10,2%; 86ma posizione) sembra stia meglio di Napoli (16,2%; 18ma posizione), mentre Genova (13,8%; 45mo posto) appare più "povera" rispetto a Firenze (12,4%; 63mo posto).

«Lo studio - afferma Andrea Favaretto, del Centro Studi Sintesi - presenta alcune indicazioni per certi versi sorprendenti. Infatti, tendenzialmente le città del Mezzogiorno presentano basse percentuali di contribuenti a rischio rispetto al Nord». A pesare è il al maggiore costo della vita riscontrabile nei comuni settentrionali, che erode il reddito delle persone fisiche in proporzione maggiore di quanto non avvenga al Sud. «Più semplicemente - conclude Favaretto - disporre di un reddito in linea con la media nazionale di per sé non mette i cittadini al riparo dal rischio "povertà", poiché molto dipende dal costo della vita della città in cui si vive e si lavora».

da ilsole24ore.com


Titolo: Re: SOCIETA' - FAMIGLIA
Inserito da: Arlecchino - Giugno 04, 2007, 12:20:44 am
Sul palco duetto con Tiziano Ferro.

E poi i pezzi top del suo repertorio Luci a San Siro, il trionfo di Laura Pausini

Settantamila persone hanno seguito sotto la pioggia il concerto della cantante romagnola. Tra il pubblico anche Eros Ramazzotti 

 
MILANO — Ha cantato in italiano, francese, inglese, spagnolo e portoghese. Ha cantato fradicia di pioggia, scherzando sui brividi e sul freddo, definendo le gocce «lacrime di gioia del cielo». Laura Pausini è stata l'eroina di una serata indimenticabile, bagnata, tenera, sentimentale ma anche dura nei toni. «Questa per me è la prima volta a San Siro, sono orgogliosa di anticipare le colleghe italiane che verranno su questo palco... questo concerto è dedicato alla nonna, alla mia amica Antonella e alle donne che hanno due palle così».

Antonella è Antonella Russo, una fan di 23 anni uccisa nel febbraio scorso dal convivente della madre violento (che lei aveva denunciato), alla vigilia della laurea e con il biglietto del concerto di Primadonna Pausini in tasca. La festa era cominciata alle 21.10. Un boato, migliaia di lumini, di flash, un gigantesco elicottero in cielo. Luci rosse sull'immenso palco, la band prende posizione.

La prima donna primadonna appare da una botola. Ad applaudire 68 mila spettatori paganti e duemila ospiti. Tante donne d'ogni età che nelle canzoni e nel modo di essere dell'artista hanno trovato un riferimento che non le ha mai deluse. Si accendono le luci e si resta incantati dalla gigantesca produzione, un palco semplice e articolato, multidimensionale, largo 70 metri, con un maxischermo di 90. Altri megaschermi per ingrandire questa trascinante artista pop che arriva al cuore del pubblico con canzoni originali e non, caricandole con la sua grinta.

Cattolica fervente, ma innamorata di un uomo sposato e padre di tre figli, simboleggia le italiche contraddizioni (ultima, quella del Comune che concede la deroga per 80 decibel di rumore nelle case vicine allo stadio, mentre l'ARPA e la ASL abbassano il limite a 78). Il via, dopo una giornata piovosa e fredda (miglioramento verso le 21, poi diluvio fino alla fine), è arrivato con una rutilante rilettura di «Io canto» di Cocciante. Look aggressivo con t-shirt bianca e bustier di nylon, pantaloni di pelle neri, vistosa polsiera fucsia di pelle, stivaletto di pelle con borchie sulla zeppa. Amena esagerazione firmata DSquared. Poi, superba esecuzione di «Destinazione Paradiso» che lanciò Gianluca Grignani (in platea tra Ramazzotti, la Clerici, la Bertè, Roberta Armani, Angela Missoni, Valeria Marini, Anna Falchi, Ancelotti, Costacurta e Martina Colombari, Piersilvio Berlusconi) e la dedica del concerto.

Laura Pausini, gran ritmo e classe, si è offerta ieri sera come la paladina non solo del suo repertorio, ma, in modo ecumenico, della grande musica italiana che trionfa in patria e all'estero. Così, dopo la sua «E ritorno da te» cantata all'unisono dai fan come molte altre, un collage con «Mi libre cancion» (versione spagnola del «Mio canto libero» di Battisti), «Come il sole all'improvviso» (versione francese) di Zucchero, «Cinque giorni» di Zarrillo, «Favola» di Ramazzotti, «Tu dimmi quando» di Pino Daniele. Unico ospite della serata, Tiziano Ferro. Insieme, fra le ovazioni della folla, hanno eseguito «Non me lo so spiegare» con affiatamento e sinergia trascinanti. Non sono mancati i cavalli di battaglia: «La prospettiva di me», «Vivimi» (di Biagio Antonacci), «Tra te e il mare», «Disparame/dispara» versione spagnola di « Spaccacuore» di Bersani, «Resta in ascolto».

Notevoli le citazioni di Madonna con «Isla Bonita» e di Fossati con «La mia banda suona il rock» dove «è un rock bambino» diventa «è un rock Sansiro». Nel finale «Le cose che vivi», «Una storia che vale» e nei bis «Come se non fosse stato mai amore» e «Incancellabile». Davanti alla marea di ombrelli e impermeabili variopinti si è congedata in accappatoio stile Rocky. Ieri è stato il trionfo della melodia all'italiana, del fascino autentico di un'artista che usa la musica e la parola per una comunicazione schietta con il pubblico di tutto il mondo. Almeno mille fan arrivavano dall'estero. Dove l'Italia non è solo Milan e Ferrari, ma anche Laura primadonna.

Mario Luzzatto Fegiz
03 giugno 2007
 
da corriere.it


Titolo: Re: SOCIETA' - FAMIGLIA
Inserito da: Arlecchino - Giugno 04, 2007, 09:37:47 am
4/6/2007 (8:6) - POLEMICA

Troppe T. e C.
 
"Nell'Occidente i mass media rinunciano a informare e criticare: preferiscono divertire con il gossip"

MARIO VARGAS LLOSA


C’è stato un momento, nella seconda metà del XX secolo, in cui il giornalismo delle società aperte dell’Occidente ha incominciato, pian piano, a mettere in secondo piano quelle che erano state le sue principali funzioni - informare, criticare e fornire opinioni - per privilegiarne un’altra sino ad allora secondaria: divertire. Alle spalle non c’era stato nessun progetto e nessun organo di stampa aveva immaginato che questo sottile mutamento delle priorità del giornalismo avrebbe portato con sé cambiamenti così profondi sotto il profilo culturale ed etico. Ciò che accadeva nel mondo dell'informazione era il riflesso d’un processo che abbracciava quasi tutti gli aspetti della vita sociale. Era nata la civiltà dello spettacolo che avrebbe rivoluzionato sino al midollo le istituzioni e i costumi delle società libere.

Perché queste riflessioni? Perché, da cinque giorni, non riesco a evitare d’imbattermi, qualsiasi giornale apra e qualsiasi programma di notizie ascolti o veda, nel corpo nudo della signora Cecilia Bolocco Menem. Non ho nulla contro i nudi, e tanto meno contro quelli che sembrano belli e ben conservati come quello della signora Bolocco, ma ce l’ho, questo sì, contro il modo illecito con cui queste istantanee sono state scattate e diffuse dal fotografo al quale - riporta la stampa - lo scoop ha fruttato già 300 mila dollari d’onorario senza contare la cifra, ancora sconosciuta, che a quanto pare, secondo i giornali di gossip, la signora Bolocco gli ha pagato perché non diffondesse altre immagini ancora più compromettenti.

Sapete perché sono al corrente di queste sciocchezze e di questi traffici sordidi? Semplicemente perché per non sapere queste cose dovrei smettere di leggere giornali e riviste e di vedere e ascoltare programmi televisivi e radiofonici in cui, non esagero, il seno e il sedere della signora Menem hanno relegato tutto in ultimo piano: dagli sgozzamenti in Iraq e in Libano sino alla presa di Radio Caracas da parte del governo di Hugo Chávez e alla vittoria di Nicolas Sarkozy nelle elezioni francesi. Tutto ciò deriva dall’accettare l’assunto che il principale dovere dei media sia l’intrattenimento e che l’importanza dell’informazione sia in rapporto direttamente proporzionale alle dosi di spettacolarizzazione che può generare. Se adesso sembra del tutto normale che un fotografo violi la privacy di qualsiasi persona nota per esporla nuda o mentre fa l’amore con un amante, quanto tempo occorrerà ancora perché la stampa rallegri gli annoiati lettori o gli spettatori avidi di scandali mostrando loro violenze, torture e omicidi? La cosa più straordinaria - indice del letargo morale in cui è caduto il giornalismo in particolare, e la cultura, in generale - è che il paparazzo che si è dato da fare per forzare con le sue macchine fotografiche l’intimità della signora Bolocco, è considerato quasi alla stregua d’un eroe proprio per la magnifica performance che ha compiuto e che, oltre tutto, non è la prima e non sarà l’ultima.

Tutto è permesso
Protesto, ma mi rendo conto che è sciocco da parte mia perché so che si tratta d’un problema senza soluzione. L’animale che ha scattato quelle foto non è una rara avis, ma il prodotto d’uno stato di cose che induce il comunicatore e il giornalista a cercare, sopra tutto, la primizia, l’evento audace e insolito che più d’ogni altro sia capace di infrangere le convenzioni e destare scandalo.(E se non lo si trova, allora lo si fabbrica). E visto che, in società dove tutto è permesso, ormai non c’è nulla in grado di destare scandalo bisogna spingersi sempre più in là nella spericolatezza informativa, servendosi d’ogni mezzo, calpestando ogni scrupolo per ottenere lo scoop che faccia parlare. Dicono che Sartre, nella sua prima intervista a Jean Cocteau, l’abbia supplicato: «Per cortesia, scandalizzami». Questo è quanto, oggi, il grande pubblico s’aspetta dal giornalismo. E il giornalismo, obbediente, si dà da fare per choccarlo e spaventarlo, perché, adesso, è questo il divertimento atteso con maggior avidità, lo sport più eccitante. Non mi riferisco solo alla stampa scandalistica, che non leggo. Però è questa stampa che, sfortunatamente, da tempo contamina con il suoi effluvi pestilenziali la cosiddetta stampa seria, al punto che le frontiere tra l’una e l’altra appaiono sempre più labili. Per non perdere ascoltatori e lettori, la stampa seria è spinta a dare notizia degli scandali e del gossip propri della stampa rosa e, così, contribuisce al degrado del livello culturale ed etico dell’informazione. D’altro lato la stampa seria non ha il coraggio di condannare apertamente i sistemi ripugnanti e immorali del giornalismo da fogna perché teme - e non senza ragione - che qualsiasi iniziativa si prenda per metterle un freno vada a colpire la libertà di stampa e il diritto di critica.

Siamo arrivati a quest’assurdo: una delle più importanti conquiste della civiltà, la libertà d’espressione e il diritto di critica, diventano un alibi e garantiscono l’immunità per il pamphlet aggressivo, la violazione della privacy, la calunnia, la falsa testimonianza, l’imboscata e tutte le altre specialità del giornalismo scandalistico.

Meno idee, più spettacolo
Mi si potrà replicare che nei Paesi democratici esistono giudici e tribunali e leggi che proteggono i diritti civili e a cui possono rivolgersi queste persone messe nei guai. E’ vero, in teoria. In pratica accade di rado che un privato cittadino osi mettersi contro questi giornali, alcuni dei quali sono molto potenti e possono contare su importanti risorse, avvocati e influenze difficili da scardinare: tutto ciò fa passare la voglia d’imbarcarsi in cause che in certi Paesi, inoltre, risultano assai costose e sono complesse e interminabili. D’altronde i giudici, spesso, sono restii a sanzionare questo tipo di reati perché temono di creare precedenti che vengano poi utilizzati per limitare le libertà civili e la libertà dell’informazione. In realtà si tratta d’un problema che non si può confinare in un mero ambito giuridico. E’ un problema culturale. La cultura del nostro tempo favorisce e protegge tutto ciò che è intrattenimento e divertimento, in ogni settore della vita sociale, e per questo le campagne politiche e i comizi elettorali sono sempre meno un confronto di idee e programmi e sempre più eventi pubblicitari , spettacoli nei quali i candidati e i partiti, invece di persuadere, cercano di sedurre e di eccitare appellandosi - proprio come i giornalisti della stampa scandalistica - alle più basse passioni o agli istinti più primitivi, alle pulsioni irrazionali del cittadino, invece che alla sua intelligenza e alla sua ragione. E questo è avvenuto non solo nelle elezioni in Paesi sottosviluppati dove è norma, ma anche nelle recenti consultazioni in Francia e in Spagna nelle quali si sono sprecati gli insulti e i tentativi di squalificare l’avversario con argomenti scabrosi.

La civiltà dello spettacolo, certo, ha aspetti positivi. Non è cattiva cosa promuovere lo humour e il divertimento visto che senza humour, piacere, edonismo e gioco la vita sarebbe spaventosamente noiosa. Ma se l’esistenza si riduce solo a questo ecco che, ovunque, trionfano la frivolezza, l’edonismo e le forme crescenti di stupidità e di volgarità. Siamo a questo punto o, almeno, sono a questo punto settori molto ampli - che paradosso! - di società che, grazie alla cultura della libertà, hanno raggiunto i più alti livelli di vita, d’educazione, di sicurezza e di tempo libero del pianeta.

Qualcosa è andato storto, a un certo punto. E varrebbe la pena reagire prima che sia troppo tardi. La civiltà dello spettacolo nella quale siamo immersi porta con sé un’assoluta confusione di valori. Le icone e i modelli sociali - le figure esemplari - lo sono tali, adesso, sostanzialmente per motivi mediatici, perché l’apparenza ha preso il posto della sostanza nell’apprezzamento del pubblico. Non sono le idee, i comportamenti, le conquiste intellettuali e scientifiche, sociali o culturali a far sì che un individuo si elevi sopra gli altri e ottenga il rispetto e l’ammirazione dei suoi contemporanei e diventi un modello per i giovani, ma le persone capaci d’occupare le prime pagine dei giornali - anche, magari, per i gol che segnano - i milioni che spendono in feste faraoniche o gli scandali di cui sono protagonisti.

Una deriva perversa
Certo, è sempre esistito, anche in passato, un giornalismo escrementizio che sfruttava la maldicenza e l’immoralità in tutti i loro aspetti, ma, di solito, stava ai margini, in una semiclandestinità cui lo costringeva, più delle leggi e dei regolamenti, la forza dei valori e della cultura. Oggi questo giornalismo ha ottenuto diritto di cittadinanza perché è stato legittimato dai valori imperanti. Frivolezza, banalità, stupidità sempre più veloce rappresentano uno dei risultati dell’essere, oggi, più liberi di quanto mai siamo stati.

Questa non è una requisitoria contro la libertà, ma contro una sua deriva perversa che può suicidarla se non le si pone termine. Perché la libertà non scompare soltanto quando la reprimono o la censurano i governi dispotici. Un altro modo perché finisca è vuotarla di sostanza, snaturarla, facendosi scudo di essa per giustificare soprusi e indegni traffici contro i diritti civili. L’esistenza di questo fenomeno è un effetto collaterale di quelle conquiste fondamentali della civiltà: la libertà e il mercato. Entrambe hanno contribuito in modo straordinario al progresso materiale e culturale dell’umanità, alla sovranità dell’individuo e al riconoscimento dei suoi diritti, alla coesistenza, al regresso ella povertà, dell’ignoranza e dello sfruttamento. Nello stesso tempo la libertà ha consentito che questo ri-orientamento del giornalismo verso il traguardo primordiale di divertire i lettori, gli ascoltatori e i telespettatori, si sviluppasse in proporzioni cancerose, stimolato dalla concorrenza imposta dal mercato. Se c’è un pubblico avido di questo cibo, i media glielo danno, e se questo pubblico educato (o, piuttosto, maleducato) da questo prodotto giornalistico l’esige in dosi sempre maggiori, il divertimento sarà sempre più motore e combustibile dei media, al punto che in tutte le specializzazioni e le forme di giornalismo quell’inclinazione sta lasciando la propria impronta, il proprio segno deformante.

C’è chi, ovviamente, osserva che, invece, sta accadendo il contrario: che il gossip, lo snobismo, la frivolezza e la voglia di scandali hanno catturato il gran pubblico per colpa dei media. Ciò è anche vero perché una cosa non esclude l’altra: sono complementari. Qualsiasi tentativo di porre un freno, per legge, al giornalismo scandalistico equivarrebbe a instaurare un sistema censorio e ciò avrebbe conseguenze tragiche per il funzionamento della democrazia. L’idea che il potere giudiziario possa, sanzionando caso per caso, limitare il libertinaggio e la sistematica violazione della privacy e il diritto all’onorabilità dei cittadini è, parlando in termini realistici, solo una possibilità astratta, impossibile da attuare. Perché la radice del male viene prima di questi meccanismi: è nella cultura che ha fatto del divertimento il valore supremo dell’esistenza al quale tutti i vecchi valori - il decoro, l’attenzione alle forme, l’etica, i diritti individuali - possono essere sacrificati senza il minimo rimorso. Noi, cittadini dei Paesi liberi e privilegiati del pianeta abbiamo, allora, questa condanna: che le tette e i sederi delle persone famose e le loro lascivie continuino ad essere il nostro pane quotidiano.

Copyright El País

da lastampa.it


Titolo: Re: SOCIETA' - FAMIGLIA
Inserito da: Arlecchino - Giugno 04, 2007, 09:38:48 am
Rubriche » Bussole
 
La sinistra impopolare

I lavoratori del settore privato votano (prevalentemente) a destra.

A prescindere dalla posizione e dal ruolo.

Imprenditori e operai. Lavoratori dipendenti e indipendenti.

Votano a destra. Come gran parte delle classi popolari. I lavoratori intermittenti, flessibili, part time. I pensionati. Le casalinghe dei ceti "periferici". Invece, vota (prevalentemente) a sinistra gran parte dei dipendenti pubblici, dei tecnici, delle figure intellettuali. I professori, gli impiegati e i funzionari degli enti locali e dello Stato. Anche i giovani votano a sinistra. Soprattutto i giovanissimi. Soprattutto se studiano oppure hanno conseguito un titolo di studio elevato (per cui, presumibilmente, svolgono un lavoro impiegatizio e intellettuale "pubblico").

Se, invece, hanno una formazione "professionale" ed entrano presto nel mercato del lavoro, allora anch'essi si orientano a destra. Non bisogna pensare, peraltro, che si tratti di un processo dettato dalla "deriva centrista e moderata" sfociata nel Partito Democratico. La base elettorale della sinistra radicale, infatti, è anch'essa "più" giovane, intellettuale, "pubblica" rispetto alla media.

Tutto ciò non costituisce una sorpresa, quanto ai lavoratori indipendenti e gli imprenditori. I quali non sono mai stati particolarmente di "sinistra". Anzi. Tuttavia, il solco che li separa dal governo Prodi e dalla maggioranza dell'Unione è divenuto un baratro. Nonostante il buon andamento del mercato e dei conti pubblici. Questione di istinto e di sentimento. Così, nel Nord "al di sopra del Po" il centrosinistra è divenuto una minoranza etnica. Più debole, di elezione in elezione. Resiste solo nelle aree metropolitane e nelle regioni a statuto speciale. Dove è più rilevante il peso del "pubblico".

Però, da qualche tempo, la sinistra arranca anche nei contesti economici più dinamici delle "zone rosse". Nei distretti industriali, ad esempio. Come mostrano gli studi di Francesco Ramella. Come hanno confermato i risultati delle elezioni amministrative di domenica scorsa. Tuttavia, il distacco fra il lavoro privato e la sinistra non riguarda solo il lavoro autonomo e gli imprenditori, ma anche quello dipendente. Soprattutto nelle aree più produttive. Nel Nord. Un distacco che si era ridotto durante gli anni del governo Berlusconi (come ha mostrato Roberto Biorcio in Itanes, Dov'è la vittoria?, pubblicato dal Mulino). Nell'ultimo anno, secondo i sondaggi, si è nuovamente allargato.

D'altronde, ciò non avviene solo in Italia. In Francia: il partito che raccoglie maggiori consensi nella classe operaia è ancora il FN di Le Pen. In Austria, il momento di maggiore successo del Fpoe di Haider si è verificato nei primi anni di questo decennio. Coincide con lo sfondamento nelle zone tradizionalmente socialdemocratiche. Dove ha raccolto il voto delle classi popolari.

Per cui si assiste, sempre di più, al controcanto fra una destra che si afferma nei settori privati, dinamici, innovativi e una sinistra che "resiste" nel settore pubblico. Protetto. All'ombra dello Stato. Fra una destra "popolare" e una sinistra "impopolare". Le ragioni per cui questo avviene sono molte e diverse. Non tentiamo neppure di riassumerle. Però è chiaro: il lavoro è cambiato profondamente negli ultimi trent'anni. Sono mutati i luoghi, i metodi e l'organizzazione della produzione. La classe operaia oggi pesa meno. Ma, soprattutto, il lavoro dipendente privato è sempre più diviso e frammentato. Mentre il ridimensionamento dello Stato sociale ne ha accentuato l'insicurezza. Decisiva ci pare la crescente "individualizzazione".

Il fatto che oggi chi lavora - non importa se in modo autonomo o indipendente - sia sempre più "solo". Più incerto. Destinato a divenirlo sempre di più. (Un "destino", quindi, che riguarda anzitutto i giovani. Flessibili, intermittenti, un debito pubblico enorme che dovranno"pagare" loro; come le pensioni che oggi percepiscono i loro nonni e i loro genitori).
Ma la sinistra è cresciuta insieme alla solidarietà. All'integrazione. Alla comunità. Alla sicurezza. Si trova a disagio di fronte all'individualizzazione che attraversa la società e il lavoro. Non è in grado di parlare a una "folla solitaria". Persone sole. Individui a cui altri individui - leader che riassumono per intero i partiti - comunicano per via mediatica. Le mancano la "professionalità", il linguaggio, per fare questo.

La sinistra. Se si allontana dai luoghi della produzione e del mercato. Se non evoca senso di "comunità" e sicurezza. Non ha futuro. Una sinistra separata dal passato e dall'idea di futuro (è pensabile?). Le rimane un presente incerto, instabile e precario. Come i ceti popolari che non riesce più a rappresentare.

(3 giugno 2007)

da repubblica.it


Titolo: Re: SOCIETA' - FAMIGLIA
Inserito da: Arlecchino - Giugno 04, 2007, 10:56:38 pm
Un Dna di troppo

Silvia Ballestra


Avevamo letto quant’era stata brava Antonella Duchini, il pm di Perugia che si è occupata del caso di Marsciano, a presenziare giorno e notte ai sopralluoghi, impegnandosi in prima linea senza risparmio, esplorando ogni possibile pista, e avevamo pensato: per forza, è una donna, si sentirà più coinvolta da questa orribile tragedia. Una donna incinta di otto mesi picchiata a morte, ammazzata in casa sua, coi due bimbi piccoli che dormono nella stanza accanto, non può non toccare chiunque. Ma se sei donna, vorrei pensare, ancora di più. La componente umana di identificazione ed empatia, in certi casi, può non essere secondaria.

Ma ecco ora una mossa a sorpresa: la richiesta dell’esame del Dna del feto che la povera Barbara Cicioni portava in grembo. Si vuole capire se quello della gelosia è un movente possibile. Una mossa, verrebbe da dire, molto maschile, molto in linea con i tanti processi per stupro d’antan, quando, invece di indagare sugli stupratori, si metteva sotto esame la condotta di vita delle vittime, la loro presunta «immoralità».

L’ha provocato, girava da sola di notte, era vestita da zoccola, era piena di uomini: pare incredibile ma erano questi gli argomenti delle difese, solo trent’anni fa (pure meno!), nelle aule giudiziarie. Aule piene di avvocati e magistrati uomini che a volte, anche solo con un’occhiata eloquente, si intendevano al volo. Colpevolizzando la vittima, si sgravavano i colpevoli, come se davvero potessero mai esistere circostanze attenuanti a crimini così odiosi e orrendi. Poi i costumi per fortuna - e anche grazie al lavoro di tante donne e uomini - sono cambiati e certe enormità non si sono più sentite.

Ecco: perché pare di risentirle, oggi, davanti a quest’esame? Davanti a questa strabiliante richiesta? La magistratura faccia il suo mestiere, per carità, ma non è questo il segnale che vorremmo per affrontare l’emergenza delle violenze sulle donne. Emergenza prima di tutto culturale, bisognosa di segnali forti e non di scivolosi appigli.
Cambierebbe qualcosa, forse, se da quell’esame dovesse uscire una paternità della bimba diversa da quella dell’assassino? Il delitto sarebbe meno grave? Un uomo che ha ucciso di botte la madre dei suoi figli e poi manipolato la scena del crimine per accusare i soliti fantomatici stranieri ladri, ne uscirebbe un po’ meno peggio? Avrebbe uno sconto di pena? Questioni tecniche, certo. Ma la sola idea ci sembra agghiacciante.

Di sicuro, purtroppo, appare molto credibile il ritratto delle condizioni in cui è maturato questo delitto. Condizioni molto tipiche: le violenze che si ripetono da anni, fisiche e psicologiche, contro la moglie, ma anche contro i figli. La frustrazione dell’uomo che si sente spodestato nella gestione della casa e del lavoro dalla moglie che invece fatica duro dall’alba fino a tardi. Il contesto ambientale con il clan contadino fortemente patriarcale e incombente. Le scappatelle nei night della zona, le botte e le accuse assurde alla moglie (tipico del sesso forte che si ritrova debole, e quindi mena), la crisi per il terzo figlio in arrivo. L’inadeguatezza per una famiglia sacra (e perciò violenta) che, letteralmente, ti si stringe addosso fino a soffocarti. Resta il problema, questo sì da discutere e indagare, del perché la violenza in famiglia sia così diffusa. Del perché queste coppie così serrate, ancora pensate e fondate sul possesso, accettino una routine fatta di botte e insulti che a volte sfociano in omicidio. L’esame non va fatto al feto, al suo dna, all’immaginario «altro padre». No. Facciamo l’esame a questi rapporti malati. Che non vanno bene per niente, che sono un pericolo sociale. Quella della gelosia è storia vecchia, inutile davanti ad amori che sono soltanto possesso e atti di proprietà.

La passione è un’altra cosa e i lucchetti dell’amore, tanto à la page, che prevedono una coppia chiusa in se stessa e perciò isolata e paranoica, non sono affatto un bel simbolo da vendere ai più giovani. Ma l’anticamera delle sberle. Facciamolo a tutto questo, l’esame del dna.

Pubblicato il: 04.06.07
Modificato il: 04.06.07 alle ore 8.35   
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Titolo: Re: SOCIETA' - FAMIGLIA
Inserito da: Arlecchino - Giugno 06, 2007, 04:19:34 pm
Testamento biologico, l’ora della legge
Maurizio Mori *


Il testamento biologico arriva in Senato. La relazione sul disegno di legge che si terrà oggi in commissione Sanità darà infatti l’avvio alla discussione generale. A tale proposito, vale la pena ricordare che sin dalla sua fondazione la Consulta di Bioetica ha profuso energie per promuovere il testamento biologico e nel 1990 ha lanciato - prima associazione in Italia - la proposta di un concreto modello a questo proposito.

Nel corso degli anni quella proposta è stata perfezionata e sono stati diffusi oltre 100.000 moduli a cittadini che, settimana dopo settimana, lo richiedevano. Nei primi anni di attività (quando le leggi sulla privacy lo consentivano), avevamo anche l’elenco dei detentori di un testamento biologico ed i relativi riscontri sull'efficacia di tali documenti, che non era per nulla trascurabile. Nelle ultime settimane, forse per via del dibattito pubblico sul tema, abbiamo avuto un’impennata di richieste che ci ha portato ad esaurire la scorta dei moduli elaborati qualche tempo fa: stiamo concretamente pensando di ristamparli, ma siamo altresì dubbiosi se valga la pena farlo visto il lodevole impegno del senatore Ignazio Marino per avere una nuova legge al riguardo. Conviene riproporre ai cittadini un modello di testamento biologico che potrebbe essere presto superato dalla legge?

Una cosa è certa: l’esigenza sociale in proposito è forte, e non passa giorno che la nostra segreteria non riceva decine di messaggi mail e di telefonate di cittadini che chiedono di avere la «Carta dell’autodeterminazione» - come noi della Consulta chiamiamo il testamento biologico. A fronte di questa situazione, ogni giorno di ritardo nel varo di una buona legge al riguardo è un torto compiuto nei confronti dei cittadini. E quando parlo di “buona legge” intendo quella che dovrebbe uscire dal fascio di proposte presenti che sono compatibili con quella avanzata da Ignazio Marino stesso. Come è noto, al di là dei dettagli specifici di ciascun progetto di legge, i vari progetti presentati appartengono a due gruppi idealtipici: l’uno teso sostanzialmente a contrastare o ad affossare il testamento biologico attraverso una serie di appesantimenti burocratici studiati apposta per renderlo impraticabile; l’altro volto a sdoganare questo tipo di documento nella nostra legislazione affinché i cittadini italiani possano trarne beneficio.

A scanso di equivoci è opportuno ribadire i punti irrinunciabili di una buona legge su questo tema. Primo: il testamento biologico va visto come uno strumento per estendere il consenso informato nelle situazioni in cui l’interessato non è più capace di darlo. Da quest’allargamento dell’autodeterminazione non deriva affatto che il testamento biologico diventi il cavallo di Troia per l’eutanasia, dal momento che si può riconoscere la liceità della sospensione dei trattamenti sanitari (come peraltro già previsto dalla nostra Costituzione repubblicana), senza per questo ammettere trattamenti tesi a causare (positivamente) la morte stessa. Né vale al riguardo cercare di evocare forti emozioni al fine di fuorviare la retta ragione. Secondo: il testamento biologico deve essere vincolante per il medico e prevedere un fiduciario che risolva eventuali dubbi circa situazioni nuove ed impreviste. Terzo: va consentita la sospensione di qualsiasi intervento non voluto dall’interessato, dal momento che si tratta di un diritto personalissimo di rifiutare qualsiasi aiuto o qualsiasi atto lesivo della propria integrità psichico-corporale. Quarto: l’esercizio di un diritto civile richiede procedure snelle, per cui vanno evitati appesantimenti burocratici come quelli che prevedono il ricorso al notaio o ad altre macchinose procedure. Quinto: il testamento biologico può anche essere steso “ora per allora”, ossia anche quando si è sani, perché solo in questo modo si possono garantire le direttive anticipate in presenza di situazioni catastrofiche (ictus devastanti o eventi simili o peggiori). Chi volesse cambiare opinione dopo l’insorgenza di una malattia, è sempre libero di farlo avendone le possibilità: ma se non lo fa si deve presumere la conferma della tesi iniziale che viene sempre più consolidata col trascorrere del tempo.

Contrariamente a tesi diffuse che hanno come obiettivo quello di ritardare, o anche di bloccare i lavori parlamentari al riguardo, credo una legge sul tema sia quanto mai opportuna proprio ora. Si offrirebbe ai cittadini una opportunità di far sentire la propria voce su temi personalissimi, opportunità che può risultare un una complessiva crescita civile per tutta la società italiana. Buone leggi, infatti, non sono solo quelle che vanno fatte per esigenze di statistica, ma anche quelle che, interpretando le tendenze di sviluppo sociale, offrono prospettive nuove alla crescita civile consentendo alla società di estrinsecarsi e di fiorire. Quella sul testamento biologico è sicuramente una di queste. Gli elettori italiani si ricorderanno di quanto è stato fatto su un tema che li coinvolge direttamente “sulla propria pelle”. Per questo non si devono frapporre ulteriori ritardi nel varare la legge.

* Presidente della Consulta di Bioetica, Milano

Università di Torino



Pubblicato il: 06.06.07
Modificato il: 06.06.07 alle ore 8.51   
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Titolo: Re: SOCIETA' - FAMIGLIA
Inserito da: Arlecchino - Giugno 07, 2007, 03:43:06 pm
Gli immigrati, due volte vittime

Marcella Lucidi


È ripreso con forza il dibattito sulla sicurezza dei cittadini. Un dibattito su un argomento serio che vive ormai da anni, tra alti e bassi, dentro l'agenda politica. Tema che non è - per quanto tempo ancora occorrerà ribadirlo? - appannaggio di una parte politica contro l'altra ma problema da affrontare con equilibrio e responsabilità, perché la criminalità provoca paura e alla paura occorre saper parlare. Prima di tutto riconoscendola.

Non c'è dubbio che sulla paura, sulla percezione delle persone stia incidendo, oggi, insieme ad altre voci - mai da trascurare, come la violenza tra le mura di casa - la presenza di tanti immigrati tra noi. Non c'è dubbio che anche tra gli immigrati ci siano i criminali, come anche le vittime però. Forse siamo più abituati a leggere gli immigrati tra i primi e meno tra le seconde. Forse c'è anche da domandarsi perché è passata poco osservata la notizia di una bimba polacca uccisa a Napoli casualmente da un clan camorristico. O da domandarsi chi è che commette reato «comprando» una prostituta minorenne, o sfruttando un clandestino. La questione è non voltare le spalle a nessuna di queste realtà perché tutti i reati ci devono essere intollerabili, quelli commessi per mano degli immigrati e quelli contro di loro, in uno stato di diritto che ha e deve migliorare la sua azione preventiva e repressiva verso chi vuole stare «fuori legge».

Il dato sul rapporto che esiste tra criminalità e immigrazione è complesso. L'aumento della presenza straniera in Italia è il prodotto di due dinamiche: l’immigrazione regolare e l'immigrazione irregolare. Non si può saltare a piè pari questa distinzione, perchè dire che 1 reato su 3 è commesso da un immigrato è un'affermazione vera solo in parte.

Sono gli immigrati irregolari a delinquere di più. Molti lo fanno per pagare il debito agli sfruttatori o per sopravvivere. E sono sotto il ricatto della criminalità che li usa, li arruola o li rende schiavi. Tra gli immigrati regolari la stima dei reati è pari al 2,11%. E non si tratta di reati predatori, quelli che determinano maggiore allarme. Perché è un dato sociale diffuso che una casa, il lavoro e la possibilità di integrazione aiuta di più a non perdere la bussola.

Sarebbe anche utile uscire da quell'indistinto che è ormai la parola «immigrato» per vedere che alcune comunità di stranieri che vivono tra noi hanno ben poco a che vedere con comportamenti illegali.

Le norme in vigore - è cambiato il Governo ma c'è ancora, purtroppo, la legge Bossi-Fini - non sono riuscite a fermare l'immigrazione irregolare. Anzi, aver pensato la regolarità come un percorso ad ostacoli dentro un sistema occupazionale flessibile, quando non precario, ha spinto anche molti immigrati a ritrovarsi irregolari di ritorno. Nel 2002 il Governo Berlusconi sanò le posizioni di 646.000 immigrati irregolari alla vigilia dell'entrata in vigore della Bossi-Fini. Tra marzo e luglio 2006 (4 anni dopo) oltre 500.000 datori di lavoro (a fronte di 170.000 quote) hanno fatto domanda per assumere immigrati, molti dei quali erano già loro dipendenti in posizione irregolare, e quindi, in nero. Ed è certo plausibile che, a quel momento, potesse esistere una quota ulteriore di immigrati irregolari senza un datore di lavoro disponibile a regolarizzarli.

Cambiare le regole sull'immigrazione serve, quindi, oggi, anche alla causa della sicurezza, serve a rendere fruibile, attraverso i flussi, il sistema di ingresso e di soggiorno regolare per gli immigrati che vogliono lavorare e integrarsi nel rispetto della legge. Non è una questione ideologica ma di buon senso perché, ad esempio, non c'è cedimento nel dare una possibilità concreta - che oggi non esiste - all'incontro tra domanda ed offerta di lavoro regolare.

Non è tutto. Esiste una gestione criminale dell'immigrazione clandestina attiva nei paesi di origine come nel nostro. Non si può fermare l'emorragia di persone verso l'Italia o verso l'Europa senza combattere questo nemico astuto che guadagna sulla loro pelle. E senza contrapporgli una azione di cooperazione tra i Governi. Da qui sono maturate e devono crescere le importanti azioni delle Forze di Polizia che stanno reprimendo i nuovi schiavisti.

Oggi proseguiranno al Senato le votazioni sul provvedimento contro lo sfruttamento del lavoro e contro il caporalato. Un voto importante contro una patologia del sistema produttivo che crea economie illegali, ostacola la concorrenza e falsa gli equilibri di mercato. Tra le vittime ci sono tanti immigrati senza permesso di soggiorno. Anche questo ci chiede la sicurezza: non giustificare quelle illegalità «di dettaglio» - il lavoro nero, gli affitti a nero, il bagarinaggio dei servizi - che trovano, a volte, consenzienti anche gli immigrati ma che non ci insegnano a convivere e lasciano sempre pensare che, in fondo, vivere «fuori legge» può tornare conveniente.

Pubblicato il: 07.06.07
Modificato il: 07.06.07 alle ore 8.29   
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Titolo: "Ratzinger riabiliti Don Milani"
Inserito da: Admin - Giugno 08, 2007, 10:59:17 pm
CULTURA

A quarant'anni dalla morte del priore vige ancora la condanna della Chiesa contro le "Esperienze pastorali"

Il 26 giugno sarà commemorato dal cardinale di Firenze Ennio Antonelli quasi un risarcimento post mortem

"Ratzinger riabiliti Don Milani"

Appello degli ex allievi di Barbiana

Una Fondazione cura la salvaguardia della vecchia sede della scuola


dal nostro inviato ORAZIO LA ROCCA

 

BARBIANA - Un appello al Papa affinché cancelli la condanna del 1958 contro "Esperienze pastorali", il testo-base della missione sacerdotale di don Lorenzo Milani, priore di Barbiana (Firenze), scomparso il 26 giugno 1967, a 44 anni, dopo una lunga malattia. Lo lanciano, per il quarantesimo anniversario della morte del priore, i suoi ex allievi aderenti alla Fondazione "Don Lorenzo Milani".

E per la ricorrenza pubblicano anche una sua lettera inedita scritta nel 1957 a uno dei suoi studenti. Quel giovane era Alberto, un ragazzo che ancora "non era riuscito ad apprendere l'arte della parola" anche a causa della sua povertà, e per questo don Milani gli confessa tutto il suo "dispiacere". E' un testo breve, molto intimo e problematico, nel quale il sacerdote scrive, tra l'altro: "Alberto, rispondi, sono 4 anni che ti frugo negli occhi, che guardo le tue labbra per vedere se si muovono, se buttano fuori qualche cosa della tua anima tormentata...". E si rammarica perché quel ragazzo ancora non ha avuto la "fortuna, la grazia, il privilegio" di "padroneggiare la parola".

A 40 anni dalla morte, torna, dunque, alla ribalta don Milani. Prete scomodo per antonomasia, punito dall'allora Sant'Uffizio per le sue idee pastorali, inventore della scuola per gli ultimi, anticipatore, per alcuni versi, del '68, il priore sarà commemorato il 26 giugno prossimo a Barbiana dal cardinale di Firenze Ennio Antonelli. Quasi un risarcimento post-mortem, perché il porporato - oltre a celebrare una Messa - parteciperà a un convegno dedicato ai libri di don Milani, tra i quali - molto atteso - "Esperienze pastorali", il testo che l'ex Sant'Uffizio giudicò "inopportuno", facendolo ritirare dal commercio.

"Dopo 40 anni, quella condanna suona come un evidente controsenso, va cancellata", lamenta Michele Gesualdi, uno dei primi 6 allievi di Barbiana, sindacalista Cisl, per 2 legislature presidente della Provincia di Firenze, ed ora presidente della Fondazione "Don Lorenzo Milani". "Sarebbe bello - confessa - che dal Vaticano, magari dal Papa o dal prefetto della Congregazione per la dottrina della Fede, venisse una parola definitiva per cancellare quella ingiustizia, anche perché è risaputo che don Milani non ha mai detto niente, nemmeno una sola parola, in contrasto con gli insegnamenti ecclesiali.

Il priore era un sacerdote attaccatissimo alla Chiesa e alla sua missione primaria, cioè il riscatto dei poveri attraverso l'insegnamento, la cultura, la parola viva". Nel 1992 la Cisl, ricorda Gesualdi, "lanciò un analogo appello, firmato anche dall'allora segretario Franco Marini, ora presidente del Senato. Ma il Vaticano disse che il problema era superato perché l'ex Sant'Uffizio non c'era più. E invece è ora che la Chiesa dica una parola di chiarezza su quella condanna per un atto di giustizia verso il priore".

La Fondazione presieduta da Gesualdi è nata nel 2004 per rilanciare l'insegnamento del priore e salvare la scuola da un inevitabile degrado. Oggi la struttura - 2 aule austere, un laboratorio con le strutture didattiche usate dal priore e i suoi allievi - "è meta costante di visite da parte di scolaresche e studiosi che intendono conoscere e approfondire il percorso didattico", racconta Giancarlo Carotti, ex allievo del priore al quale la Fondazione ha affidato il compito di accogliere e guidare i visitatori.

"Ma non sarà mai un museo", giura Gesualdi, che intende esportare "il modello Barbiana in quelle aree, periferie metropolitane, paesi poveri, dove oggi c'è tanto bisogno degli insegnamenti di don Milani". La prima meta sarà l'Albania, dove il 12 e il 13 giugno si terrà un convegno dedicato al priore in vista dell'apertura di una scuola per ragazzi poveri.

(8 giugno 2007) 

da repubblica.it


Titolo: Boemi: «Massoni e politici al tavolo della ’ndrangheta»
Inserito da: Arlecchino - Agosto 05, 2007, 11:30:03 pm
Boemi: «Massoni e politici al tavolo della ’ndrangheta»
Enrico Fierro


Cos’è la ‘ndrangheta oggi? A che punto è la lotta alla mafia italiana ritenuta all’unanimità la più ricca e potente. I dati sono allarmanti: 36 miliardi di euro l’anno è il suo bilancio, il 3,4% del pil italiano, il 18% della ricchezza prodotta in Calabria, l’assoluto monopolio mondiale del traffico di cocaina. E poi: 132 cosche, 10mila affiliati,almeno 5mila nella sola città di Reggio. Una potenza militare che ha caratteristiche di massa. I dati elaborati dalla Direzione nazionale antimafia parlano di una «densità criminale» pari al 27% della popolazione. Uno Stato nello Stato, che uccide uomini politici (Fortugno), condiziona istituzioni e penetra finanche negli apparati, minaccia magistrati, l’ultimo, in ordine di tempo, Francesco Mollace della procura di Reggio. Ne parliamo con Salvatore Boemi, il procuratore da pochi mesi ritornato al vertice della Dda. Lo incontriamo in una giornata di luglio nel suo ufficio in Procura. I condizionatori sono rotti e gli impiegati ansimano. È impossibile ricevere telefonate dall’esterno perché il «passante» del centralino è saltato. Piccoli segni di come lo Stato combatte la mafia più ricca.

Dottor Boemi, lei torna in questo ufficio dopo anni e trova una ‘ndrangheta più forte di prima.

«Le darò una risposta controcorrente. Certo, la ‘ndrangheta è molto forte, ma si sappia che tutto ciò che negli anni Ottanta e Novanta rendeva ingestibile la lotta alla sua potenza, oggi è superato. La forza della ‘ndrangheta è data oggi solo dalla ricchezza, è potente ma è più vulnerabile, giudiziariamente attaccabile perché ha perso le sue peculiarità. Oggi sappiamo tutto della sua organizzazione, la ‘Ndrangheta non è più segreta, non è più protetta dall’omertà dei suoi affiliati. E tutto ciò grazie al lavoro di quegli anni: più di 90 cosche portate alla sbarra, condanne definitive per almeno 64 di esse, oltre mille condannati per associazione mafiosa. Non è poco, mi creda, soprattutto in un clima che puntava a dividerci, a mettere i magistrati gli uni contro gli altri. C’erano campagne di stampa, manovre, un inferno. Ora è diverso, siamo uniti e possiamo lavorare in altre direzioni».

Quali?

«Indagare sulla borghesia mafiosa, quella interna alle cosche - il potere che si tramanda di padre in figlio -, e quella esterna dei colletti bianchi che favoriscono l’impresa ‘ndranghetista e agevolano il passaggio da una economia criminale ad una economia pulita».

Lei ha parlato del rischio di una nuova guerra di mafia.

«Il pericolo c’è e lo vedo soprattutto a Reggio. Qui i baronati mafiosi non stanno più rispettando i patti, non dividono la ricchezza. C’è molto malcontento tra la base della ‘ndrangheta, questo può provocare una nuova guerra».

La forza della ‘ndrangheta è nei rapporti con la massoneria deviata. Qual è la situazione di oggi?

«La massoneria deviata non è mai scomparsa, né si è autosciolta in Calabria. ‘Ndrangheta e massoneria deviata fanno parte di uno stesso, identico sistema criminale. Si tratta di un modello integrato di capacità criminali individuali e collettive, una sorta di tavolo di lavoro dove siedono figure diverse, non tutte necessariamente mafiose. Questo “tavolo” ha sedute intense quando si tratta di decidere la spartizione di opere e fondi pubblici. E, come per il passato, il rapporto con politica e istituzioni dello Stato deviate costituisce la logica vincente per la ‘Ndrangheta. La mafia calabrese non avrebbe la quotazione che ha se non potesse presentare certe credenziali».

Mafia e politica: l’arresto del consigliere comunale di An Massimo Labate, l’ex poliziotto accusato di favorire la cosca Libri, è un punto di arrivo o è solo l’inizio?

«L’attenzione nostra sui rapporti tra mafia e politica è massima».

Omicidio Fortugno, il procuratore Scuderi dice che puntate ad un livello politico superiore.

«C’è una inchiesta Fortugno-bis che va in questa direzione».

Nell’operazione che ha portato ad importanti arresti di membri della cosca Labate dei 36 possibili arrestati, nove vi sono sfuggiti. Qualcuno li ha avvertiti in tempo, una talpa...

«Questo dimostra come la ‘ndrangheta riesca a penetrare dovunque. La talpa la stiamo cercando, non troveremo pace fino a quando non avremo dato un nome a chi ha tradito la fiducia dello Stato».

Dottor Boemi, la procura è unita?

«Sì, lavoriamo sodo e i risultati si stanno vedendo. Siamo uniti, speriamo che qualcuno non intenda dividerci. Farebbe solo il gioco della ‘ndrangheta».

Però si discute sulla composizione della Dda. Lei chi vorrebbe il dottor Francesco Mollace o il dottor Nicola Gratteri al suo fianco?

«Sono bravi entrambi, tutti e due possono dare un grande contributo di professionalità e di dedizione al nostro lavoro».

Pubblicato il: 05.08.07
Modificato il: 05.08.07 alle ore 9.09   
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Titolo: Luciano Gallino: Ora vogliono ammazzare i sindacati (qualche sberla la meritate)
Inserito da: Arlecchino - Agosto 07, 2007, 11:26:25 pm
Luciano Gallino: «Ora vogliono ammazzare i sindacati»
Roberto Rossi


Attacco residuo premoderno, istituzione demodé, struttura in ritardo irrimediabile sui tempi. Adesso anche casta. Il sindacato in Italia è sottoposto a un pesante attacco come mai prima d’ora. E che ricorda quello che subì, negli anni 80, quello inglese. «È lo stesso piano inclinato» spiega il sociologo Luciano Gallino. Per ora cambia solo la pendenza.

Professore, tra le affermazioni più in voga oggi c’è anche quella di considerare il ruolo del sindacato come troppo invadente nella vita politica del Paese. Concorda?

«È un’affermazione fuori da ogni realtà. Se il sindacato avesse tale potere non si spiegherebbe come i salari dei lavoratori dipendenti in Italia siano fermi da oltre dieci anni, ormai quasi 15, mentre sono cresciuti in termini reali in Francia, Germania e altrove».

Qual è la forza, la presa del sindacato nella società?

«Il vantaggio del sindacato è che ha una presa diretta con il mondo che lo circonda. Molte persone, forse anche i redattori dell’Espresso, pensano che il sindacato sia fatto da 30-50 signori che stanno seduti in Corso Italia o da altre parti e che da lì sragionino sulle sorti dei lavoratori. Il sindacato è fatto da decine di migliaia di persone in contatto con le forze produttive del Paese, con le crisi aziendali, le delocalizzazioni, giorno per giorno. Hanno un contatto con la realtà superiore ai partiti che una volta avevano sezioni, club, scuole dove si studiava la società, ma che oggi sono spariti».

Perché secondo lei il settimanale l’Espresso, voce rappresentativa di una parte della sinistra, ha dipinto i sindacati come casta proprio ora? In fondo sono gli stessi di dieci anni fa. C’è un motivo contingente?

«Non lo so. Ma se ci fosse mi pare che la cosa si profili un po’ preoccupante. Quello che il sindacato ha fatto fino a questo punto è resistere, non molto tutto sommato, sulla questione delle pensioni. E ha finito col firmare un protollo dove le pensioni vengono riformate con differenze minime rispetto al piano del centrodestra. E nel quale si sono presi impegni nel mercato del lavoro che potrebbero essere stati scritti benissimo dal governo Berlusconi. Io mi sono guardato il protocollo Damiano. Il fatto di averlo sottoscritto è per i sindacati un segno di debolezza. Altro che casta! Un documento del genere 10 anni fa non sarebbe stato proponibile».

Anche in Gran Bretagna, negli anni ‘80, il ruolo del sindacato fu pesantemente messo in discussione e poi ridimensionato. C’è un parallelismo?

«Purtroppo il piano inclinato è il medesimo. Lì i sindacati sono stati eliminati dalla scena politica ed economica licenziando decine di migliaia di lavoratori. In Italia non siamo allo stesso livello, per fortuna».

Il piano inclinato è l’ideologia liberista?

«Direi proprio di sì, ma non solo. Aggiungerei, come ricorda Warren Buffett, il secondo uomo più ricco al mondo, che le forze delle grandi imprese, delle corporation, i loro modelli, hanno vinto. Hanno perseguito un tale successo che contrastarlo appare sempre più difficile».

Ha vinto il concetto di modernismo?

«Sì, ma in una concezione molto povera, molto deforme del modernismo. Perché, il modernismo o, meglio, la modernità, mirava alla sintesi, la più alta possibile, tra esigenze individuali e interessi collettivi. Il concetto moderno così come si è è malamente affermato ha sostenuto e sta sostenendo solo il primo aspetto. E cioè un liberismo sfrenato che permette notevoli sviluppi della ricchezza privata a scapito di quella pubblica».

Questo progetto di modernismo di basso profilo ha fatto breccia anche a sinistra?

«Ahimè sì. Naturalmente bisogna fare i conti con la storia. Con il fatto che il capitalismo non abbia più antagonisti reali e credibili».

Attaccare il sindacato torna ciclicamente di moda. Era successo con Berlusconi, torna in auge oggi. Perché?

«Perché la vittoria di cui parlavamo prima è forse più ampia di quanto non ci potesse aspettare. E, per la verità, non ha trovato grosse resistenze. Sono le capacità critiche che sono venute meno. La capacità di fare fronte ai dati e ragionarci sopra. Gran parte del discorso politico attuale è ideologico, rispetto al quale i fatti e le cifre non esistono più. Mi sembra molto caratteristico quanto è avvenuto sul fronte delle pensioni ma anche sul fronte del mercato del lavoro».

Il segretario della Cgil Epifani ha parlato più volte di un ritorno di un “diciannovismo”, cioè il tentativo di delegittimazione delle istituzioni tra queste anche i sindacati?

«Per ora il termine mi sembra forte anche se credo che ci sia qualcosa di vero. Perché così come si attacca il sindacato si attacca anche la politica in quanto tale o le stesse istituzioni della democrazia. Spero che fra quattro o cinque anni non si riveli un termine pienamente azzeccato».

Rispetto a dieci anni fa, diciamo quando il protocollo Damiano non sarebbe stato preso in considerazione, come è cambiato il sindacato?

«Potremmo dire che ha qualche acciacco in più. Uno dei problemi principali è una difficoltà di rappresentanza. La frammentazione dell’attività produttiva ha anche frammentato e distribuito sul territorio le forze di lavoro. Inoltre le tecnologie e i nuovi modelli di organizzazione del lavoro hanno moltiplicato e differenziato interessi materiali e ideali dei lavoratori. Però il loro ruolo è ancora vitale. Basta dare un’occhiata a quello che succede nel mondo e uno scopre che dove i sindacati non ci sono di fatto i lavoratori vengono pagati 70 centesimi di dollaro l’ora o fanno 60-70 ore alla settimana».

Pubblicato il: 06.08.07
Modificato il: 06.08.07 alle ore 8.51   
© l'Unità.


Titolo: Se i bilanci regionali non sono sani (dove più si spreca più si muore)
Inserito da: Arlecchino - Agosto 07, 2007, 11:34:27 pm
06-08-2007

Se i bilanci regionali non sono sani
Gilberto Turati


E’ uscito venerdì 20 luglio - commentato solo da qualche giornale - un rapporto di Moody’s sulle nuove regole introdotte nell’ambito delle gestioni sanitarie regionali, con alcuni giudizi sugli interventi di ripiano dei disavanzi pregressi che offrono lo spunto per un commento. Riassumo brevemente il contenuto del rapporto.

Innanzitutto, Moody’s suggerisce che il Patto per la Salute introdotto con la Finanziaria 2007 ha previsto un quadro di regole più stringenti per le Regioni con elevati disavanzi per la sanità.


Ridurre i costi…

L’aspetto principale di questo nuovo quadro viene riscontrato nell’adozione di meccanismi sanzionatori automatici basati sull’incremento dell’imposizione locale (di fatto l’aumento delle aliquote d’imposizione dell’addizionale IRPEF e dell’IRAP). L’incremento dell’imposizione a livello locale va chiaramente a colpire i soli elettori regionali; e tutto ciò dovrebbe quindi rendere i politici locali più attenti nel raggiungimento degli equilibri di bilancio. Peraltro Moody’s "prende atto" che la maggior parte degli interventi "automatici" sarebbero riferiti all’IRAP, una soluzione "controproducente e insostenibile sul lungo periodo poiché sfavorisce la crescita economica". Un’altra innovazione positiva che il rapporto sottolinea è la necessità per le Regioni con deficit elevati (pari o superiori al 7% dei rispettivi fondi annuali in base ad un accordo del marzo 2005) di adottare dei "Piani di rientro" dettagliati che dovranno essere approvati dal Ministero dell’Economia e dal Ministero della Salute. Nel rapporto sono analizzati i piani di Campania, Lazio, Abruzzo, Molise e Liguria (alcune di queste Regioni presentano peraltro disavanzi strutturali da anni).

Le due strategie di fondo comuni a tutti i Piani (al fine di azzerare i deficit pregressi e raggiungere il pareggio di bilancio entro il 2010) sono, da un lato la possibilità di accedere a fondi aggiuntivi erogati a tal proposito dallo Stato, dall’altro la realizzazione di risparmi di spesa significativi. Per quanto riguarda la prima strategia, Moody’s parla di "intervento sistemico a sostegno del merito creditizio delle Regioni italiane", di "fase ultima del meccanismo di finanziamento della sanità in Italia, nonché una soluzione per poter garantire la ripartizione di opportuni fondi a ogni regione per garantire i LEA", da non considerarsi interventi di salvataggio straordinario, nemmeno nel caso del Lazio che ha ricevuto un prestito garantito di 5 miliardi di euro. Per quanto riguarda la seconda strategia, i principali interventi prefigurati per il contenimento dei costi nei Piani sono individuati nella razionalizzazione dei costi del personale, nella riduzione della spesa farmaceutica e della mobilità interregionale, nel miglioramento delle procedure di acquisto di beni e servizi, nella riorganizzazione dell’offerta di servizi sanitari con l’intento di migliorarne efficienza ed efficacia, nell’introduzione di tetti di spesa e nella revisione delle tariffe. Per dare un’idea dei risparmi attesi da questi interventi, Moody’s sottolinea che le Regioni coinvolte dovrebbero limitare la crescita dei costi al 2% circa per il triennio 2007-2009, quando lo stesso aggregato è cresciuto tra il 2001 e il 2005 del 6-7% annuo, "un impegno gravoso e un’ardua sfida".

La valutazione delle regole introdotte con la Finanziaria 2007 come un passo avanti in termini di trasparenza e di "irrigidimento" dei vincoli di bilancio regionali è certamente da condividere. Si tratta di un meccanismo che va nella giusta direzione per le ragioni discusse anche sopra, perché soprattutto fa cadere la responsabilità dei dissesti sugli amministratori locali. Ma soffre del limite evidenziato anche nel rapporto di Moody’s: potrebbe non essere sostenibile a lungo; o addirittura essere insufficiente (o impraticabile) in alcune Regioni con limitata base imponibile (le aliquote non possono essere innalzate all’infinito). Il meccanismo sanzionatorio automatico dovrebbe quindi prevedere (accanto alla leva fiscale) altri incentivi al raggiungimento dell’equilibrio finanziario. Come già discusso in un altro intervento sarebbe estremamente utile l’introduzione di una legislazione per il dissesto finanziario delle Regioni, che preveda anche – nei casi più gravi – la perdita di sovranità e la rimozione degli amministratori. Oggi abbiamo una legislazione simile ma è limitata agli Enti Locali.


…e gli interventi dello Stato

Considerare tuttavia la possibilità di accedere a risorse aggiuntive messe a disposizione dello Stato non come un intervento straordinario, ma come un elemento implicito nel sistema di finanziamento ex post della sanità regionale italiana sembra francamente una valutazione non condivisibile (anche se apparentemente sempre più di moda). Due sono le interpretazioni: o si ritiene che comunque lo Stato interverrà a sostegno delle Regioni sempre e comunque, indipendentemente dalla dimensione del deficit realizzato e dalle responsabilità oggettive degli amministratori regionali; e allora coerentemente non ha senso parlare di rating delle emissioni regionali: se lo Stato onorerà comunque i debiti regionali, il rating di tali emissioni deve essere quello applicato alla carta della Repubblica, ma allora anche la gestione della sanità dovrebbe tornare in mano allo Stato (nel rapporto peraltro c’è una frase sibillina su questo punto: "Moody’s ritiene che il più alto livello di coinvolgimento del governo centrale nelle decisioni delle Regioni in campo sanitario rifletta l’intenzione di armonizzare i sistemi sanitari regionali").

Oppure si ritiene che lo Stato non interverrà sempre e comunque, ma solo in casi eccezionali per evitare crisi di fiducia sistemiche; e allora coerentemente ha senso parlare di rating regionali, perché sono le Regioni che con i loro fondi e le loro risorse debbono onorare i propri impegni finanziari (e con le loro capacità gestire la sanità). In un momento nel quale il paese sta di nuovo provando a discutere un provvedimento sul federalismo fiscale, la seconda interpretazione mi sembra quella corretta. E l’intervento di 5 miliardi di euro a favore del Lazio (una cifra enorme) è un intervento straordinario per tappare il buco ed evitare il dissesto. Al di là dell’aspetto definitorio, l’interpretazione alternativa degli interventi di ripiano dei disavanzi ha anche un altro problema: tende a perpetuare il finanziamento delle inefficienze e degli sprechi nelle gestioni, evitando invece di metterli in luce.

E che ci siano sprechi e inefficienze sembra ormai accettato da tutti. A sostegno di questo punto si vedano comunque la tabella 1: il Lazio ha una spesa pro-capite per la sanità non inferiore a quella di altre Regioni, ma non c’è alcun legame tra la spesa pro-capite e la composizione della popolazione per classi di età, una delle determinanti principali della domanda di servizi sanitari. Sono quindi le strutture di offerta ad influenzare la spesa, non i bisogni dei cittadini.
Un ultimo aspetto merita di essere sottolineato: nella discussione di politica sanitaria (e anche nel rapporto) si parla spesso di riduzione attesa dei costi ma non si discute mai del livello dei servizi. Il problema da affrontare – se si vogliono davvero combattere le inefficienze e non fare un mero maquillage dei bilanci regionali – non è quello di ridurre i costi totali, ma di ridurre i costi medi di produzione e di fornitura del servizio. In altre parole, per fare un esempio, il problema non è quello di chiudere gli ospedali e ridurre i posti letto ma di riorganizzare le modalità di produzione dei servizi di assistenza ospedaliera in modo più razionale ed efficiente.

Questa è la vera sfida che attende gli amministratori regionali.

da lavoce.info/news


Titolo: Obesità pubblicitaria (Ogni tanto Grillo è... comico)
Inserito da: Arlecchino - Agosto 07, 2007, 11:36:14 pm
7 Agosto 2007

Obesità pubblicitaria



Non è buono ciò che è buono. Se ha un marchio è buono. Se non lo ha è insipido. Il contenuto è indifferente. Mangiamo il contenitore. Mangiamo la pubblicità del contenitore.

Una ricerca dell’Università di Stanford sulla scelta del cibo da parte dei bambini ha provato che McDonald è più buona. Stesse patatine fritte, scelta tra confezione con il marchio e senza. Il 77% dei bambini ha preferito la patatina McDonald.

La pubblicità televisiva fa la differenza. La pubblicità dei cibi per i bambini, in cui i bambini sono l’oggetto, il target, l’ascoltatore plagiato. Trasformati in apprendisti consumatori. La merendina, le patatine, i biscotti, i wurstel, le bevande e tutto il resto. Questa pubblicità va vietata.

L’obesità infantile in Italia non esisteva, oggi è la norma. E’ un’obesità pubblicitaria. Il virus ingrassante è lo spot.

La pubblicità è pericolosa per gli adulti, ma per i bambini può essere letale. E’ pedofilia commerciale, abuso di menti in formazione. I bambini devono abituarsi a mangiare cibi, non brand. E se possibile senza contenitore. Il latte, ad esempio, deve tornare ad essere solo latte. Mucca, latte, bottiglia, bambino. Semplice. In alcuni paesi è possibile comprare il latte, solo latte e niente brand, da distributori automatici. Si arriva con una bottiglia e si fa il pieno. E il latte è locale e costa meno. Chiedetelo anche al vostro comune.

Secondo il libro bianco della Comunità Europea sull’obesità del 2007: “Negli ultimi trent’anni il numero degli obesi in Europa è cresciuto in modo drammatico, in particolare tra i bambini, dove il numero di obesi è stato stimato nel 30% nel 2006”. Dalla cucina mediterranea ai sofficini e alla carne in scatola. Mamme italiane dove siete? I vostri figli non devono ingrassare come me.

da beppegrillo.it


Titolo: Scalfarotto spara a zero sull'ex pm che sul... (saprà l'inglese ma quanto conta)
Inserito da: Arlecchino - Agosto 07, 2007, 11:38:14 pm
Scherzi della Rete Inglese maccheronico, ironie su Di Pietro

Scalfarotto spara a zero sull'ex pm che sul suo sito scivola sulla traduzione e diventa l'uomo delle «eggs in the basket» 

 
Ora c'è il rischio è che passi alla storia dei blogger come l'uomo delle «eggs in the basket».

Traduzione dall'inglese maccheronico: l'uomo che ha rotto le uova nel paniere, dove il paniere è inteso come il nascente Partito democratico e l'uomo in questione altri non è che Antonio Di Pietro, ministro e leader dell'Italia dei Valori. La storia è semplice: l'ex pm tiene un blog, universalmente riconosciuto come ben aggiornato, che viene tradotto anche in inglese. E fin qui nulla di male, anzi. Peccato però che un suo messaggio, postato nei giorni della sua esclusione dalle primarie del 14 ottobre, stia facendo il giro della Rete, scatenando ironie e sorrisetti di tutti i tipi.

A sollevare il caso è stato Ivan Scalfarotto, che on line ha sparato a zero sul sito dell'ex pm sottolineandone impietosamente gli errori di traduzione.

«Meno male che abbiamo un politico attento al futuro, uno che sta su YouTube e su Second Life, uno internazionale, uno che vive in Europa» ha intinto la tastiera nel veleno il manager, candidato alle primarie dell'Ulivo nel 2005. Che, avendo vissuto per anni a Londra, è sobbalzato dalla sedia quando alla sesta riga del post dipietrese intitolato «the Democratic Party has missed an opportunity» ha scoperto che Di Pietro è stato fatto fuori dai papaveri del Pd in quanto: «a true real competitor who would have broken the eggs in the basket». Appunto l'uomo che ha rotto le uova nel paniere.

Neoligismi a parte, Scalfarotto ha annotato altre stranezze linguistiche del post, nel quale "non esiste" diventa It does not exist, "formare un partito" si trasforma in To form a party e "riflettere" to reflect". Da qui l'invito finale che pesca nel puro dipietrese e sa di sberleffo: «Tonino, sorry, but all this really non c'azzecca. How would you say that? It doesn't stick, it really doesn't».


Luca Gelmini
07 agosto 2007
 
da corriere.it


Titolo: La dinastia Rosolino. E lo "Shaker" era una trappola d´amore
Inserito da: Arlecchino - Agosto 07, 2007, 11:39:32 pm
IL PADRE , I QUATTRO FIGLI, IL NIPOTE CAMPIONE DI NUOTO STORIA DI UNA FAMIGLIA CHE HA SEGNATO LA DOLCE VITA

La dinastia Rosolino

E lo "Shaker" era una trappola d´amore

Mimmo Carratelli


I luoghi Da "La Conchiglia" al "Putipù" oltre mezzo secolo di iniziative coronate da successo
 
L´esordio
Nel locale di via Partenope esordì nel 1948 Renato Carosone

Incendio
Il night andò in fumo negli anni Settanta per un corto circuito

L´attore
Ingrid Bergman lo chiamava "il mio barman sorridente" e gli diede una parte  Il padre Angelo li sovrastava i suoi figli, Antonio, Salvatore, Giorgio ed Enzo, i quattro moschettieri della dinastia dei Rosolino, e a ciascuno ha trasmesso uno dei suoi geni dell´ospitalità, tra night, ristoranti e alberghi, ma ha dovuto attendere la nascita del nipote Massimiliano, il ragazzo-pesce, perché nella dinastia qualcuno lo eguagliasse in altezza, un metro e 90; 47 di piede, come pinne olimpioniche.

Antonio Rosolino, col ristorante "Il posto accanto" di via Nazario Sauro, ha assorbito dal padre il gene della ristorazione e il gusto dello spettacolo proponendo artisti musicali e di cabaret nel salone del ristorante. Salvatore ha assorbito lo stesso gene (rivalutando, tempo fa, la ristorazione del Circolo Canottieri Napoli) fino al giorno in cui si è scoperto padre del più forte nuotatore italiano facendone il suo mestiere preferito. Giorgio, oltre a quello della ristorazione, patron de "La Cantinella", che ebbe il suo massimo fulgore al tempo dei tre viceré di Napoli, ha assorbito dal padre Angelo il gene del night aprendo il "Club della Cantinella" in via Cuma. Enzo è il proprietario del "Miramare", l´albergo alla sommità di via Nazario Sauro che resta legato ai fasti dello "Shaker", il locale notturno che fece epoca negli anni Cinquanta e Sessanta.

Per non disperdere l´eredità paterna, Antonio Rosolino ha costretto ultimamente le figlie Astrid, 29 anni, splendida bruna con riflessi di rame, e Monica, 24 anni, bionda con un appeal da fotomodella, ad aprire e gestire in via Lucilio il "Putipù", locale trendy e giovanile, alti sgabelli, drink e menù particolari in una elegante atmosfera bianco-avorio, luminosa e calda, col sottofondo di trentamila "pezzi" musicali computerizzati, da Frank Sinatra a Pino Daniele. Antonio avrebbe voluto imporre al locale la lunga denominazione di "Il posto accanto al posto accanto", bocciato dalle figlie che, scartato anche la troppa fascinosa denominazione di "Sherazade", hanno prevalso col veloce e sonoro nome del più allegro strumento musicale napoletano.

Il più scanzonato dei quattro moschettieri Rosolino è sicuramente Salvatore, corteggiatore impenitente che però, nel corso di una crociera sulla "Achille Lauro", si bloccò davanti ai capelli biondi, al sorriso luminoso e all´ironia di Carolyne, australiana di Montrose, che lo imprigionò in un felice matrimonio e lo rese padre di un bimbo quasi obeso che cominciò a nuotare nelle acque di Villa Beck prima di diventare Massimiliano Rosolino, il primo napoletano a vincere una medaglia d´oro nelle piscine olimpiche. Massimiliano ha la rispettabile altezza del nonno, la magrezza scattante della madre e il gene di Casanova del padre, catturando bellezze al bagno e showgirl con la stessa facilità con cui tocca e conquista i "blocchi" del nuoto. Uno splendore di ragazzo biondo, con le facili definizioni di "australiano di Napoli" e "napoletano di Melbourne", che si ritiene più bello di Weissmuller, il leggendario tritone della Pennsylvania, "nuotatore del XX secolo" e Tarzan sullo schermo, se non fosse che, nella famiglia di Max, la bellezza si chiama Vanessa, sua sorella, un vertiginoso schianto di ragazza, irraggiungibile con i tacchi.

Angelo, il capostipite, è stato un mito. Ci siamo persi più volte nel suo disordinato archivio di fotografie e ritagli di giornali, un lungo racconto che comincia negli anni Venti quando aprì il suo primo locale, una latteria-bar-biliardo al numero 21 di via Santa Teresa al Museo. Negli ultimi tempi della sua vita, sempre imponente e dritto nella persona, ci raccontava senza malinconia il suo lungo regno di seducente inventore di locali, dal lungomare alla collina di Posillipo, un impero di night e ristoranti entrati nella storia di Napoli. Il primo night lo aprì in via Morelli, dov´è oggi un negozio di antiquariato. Si chiamava "La Conchiglia", progettato dall´architetto Gino Avena, colonne bianche, un acquario e un´enorme conchiglia di gesso all´interno, la tana musicale del dopoguerra degli aristocratici e degli snob napoletani, belle donne e uomini di seduzione, ma anche ospiti che giungevano da ogni parte d´Italia.

Lo "Shaker", annesso all´Hotel Miramare, fu il suo trionfo e accompagnò la nostra giovinezza nella felice Napoli degli anni Sessanta quando il lungomare era punteggiato di locali famosi, il "Trocadero" della principessa Maria Pignatelli che, un po´ miope, riconosceva le ospiti dal profumo che usavano, e il "Rosso e nero" per l´aperitivo elegante. Lo "Shaker" aveva panchette di legno e puff arancione disseminati sul pavimento. Lì esordì Renato Carosone, nel 1948. Angelo Rosolino gli fece firmare un contratto di 14 mila lire a sera su un pezzo di cartaccia buastra che si usava per avvolgere il pane e la pasta. Quando Carosone se ne scappò a Roma, Rosolino trattenne il chitarrista olandese Peter Van Wood che spopolò con "Butta la chiave" e "Tre numeri al lotto". Per la cronaca erano il 24, il 60 e il 38. Lo "Shaker" fu una trappola d´amore. Vi nascevano fidanzamenti e matrimoni. Vi debuttò Peppino di Capri. Vi cominciarono la loro carriera Sergio Endrigo e Fred Bongusto, Ettore e Guido Lombardi, due voci, una chitarra e tanta luna. Marino Barreto vi spopolò con la sua voce nasale cantando "A-a-arriverci". George Moustachi vi tenne un memorabile concerto.

Era un mondo di belle ragazze e affascinanti entraineuses. Una, spagnola, se la sposò Mario Gherarducci, amico carissimo con cui dividevamo le serate e il lavoro di giornalisti sportivi. I giornalisti erano di casa allo "Shaker": Giacomo Lombardi, Gianni Nicolini con i suoi capelli rossi, quello spilungone di Bruno Lucisano, Umberto Borsacchi, un´altra pertica di giovane uomo che lavorava all´Ansa. Allo "Shaker" incontravamo le più belle ragazze di Napoli, la rosseggiante Adriana Battaglia, Gigliola Fragola, Annamaria Volpe, Carlottina del Pezzo, le due sorelle Gregoretti, Maria Parisio Perrotti, Elena e Loretta Calvanese, Lucia Ummarino, Malì Morelli, Patrizia Mannaiuolo, Jole La Stella. Di loro scrivevano nei "Mosconi" Etta Comito, giornalista de "Il Mattino" che intervistò Margaret d´Inghilterra ed Evita Peron, e Settimia Cicinnati, dalla chioma fulva, che sul "Roma" si firmava "Cicin".

Allo "Shaker" passavano l´imprescindibile Pupetto Sirignano, Lucio d´Aquara, Livio De Simone, Augusto Cesareo e la sua "Luna caprese", Maurizio Barracco, Luigi e Peppino Leonetti, Fofò Buonocore, i pallanuotisti della Rari Nantes e tutti i boys e le girls di via dei Mille. Quando, negli anni Settanta, lo "Shaker" bruciò per un corto circuito finì un´epoca. Era la vigilia di Natale e furono fatali le scintille dell´intreccio di luci su un abete che prese fuoco.

Fu all´Hotel Miramare che intervistammo Coccinelle, il primo transessuale d´Europa. Era la primavera del 1959. Lei era una soubrette parigina che sul passaporto risultava di sesso maschile col nome di Jacques-Charles Dufresnoy. Era esile, capelli di seta di un biondo chiarissimo, pelle candida. Il chirurgo francese Georges Borou l´aveva "fatta" donna a Casablanca. Tre anni dopo, sposò un giornalista. Allo "Shaker" si fece palpare il seno e le natiche. Ed eravamo al "Miramare" quando a mezzanotte arrivò Aristotile Onassis, uno dei clienti più affezionati di Angelo Rosolino. Era affamato e divorò un piatto di pasta e fagioli di cui era ghiotto. Ad Angelo voleva un gran bene Ingrid Bergman che lo chiamava "il mio barman sorridente" e voleva farne un attore. Gli assegnò una particina nel film "Viaggio in Italia" con George Sanders.

Angelo Rosolino è stato un vulcano di idee. Ovunque organizzava locali alla moda. Alle "Axidie" di Vico Equense portò don Jaime de Mora y Aragon, famoso con l´appellativo di Fabiolo. Era il fratello della regina Fabiola del Belgio. Rosolino lo costrinse a suonare il piano che divenne poi un suo hobby. Dovunque c´era la "mano" di Angelo Rosolino. Al "Castello" di Ischia, al "Lido Azzurro" di Torre Annunziata nel suo periodo d´oro. Al "Giardino degli aranci", sulla collina di Posillipo, suonava Armando Trovajoli. Angelo ci diceva: «Non so quanti locali ho aperto a Napoli. Quando Xavier Cugat venne a suonare al Metropolitan con Abbe Lane, allestii un dopo-teatro con diciotto tavoli e a ognuno di essi suonava un violinista ungherese».
Il tempo è passato e ha cancellato la dolce vita napoletana. Ma la dinastia dei Rosolino continua con i quattro moschettieri Antonio, Salvatore, Giorgio ed Enzo. Il mondo è cambiato, il ballo sulla mattonella è finito, e su Napoli le stelle stanno a guardare. Meglio non sapere che cosa dicono.

(07 agosto 2007)

da espresso.repubblica.it


Titolo: PAOLO FERRERO I legami sociali antidoto all’insicurezza
Inserito da: Admin - Settembre 05, 2007, 11:57:52 pm
5/9/2007
 
I legami sociali antidoto all’insicurezza
 
PAOLO FERRERO

 
Il dibattito sulla sicurezza che si è aperto nel nostro paese all'indomani dell'ordinanza del Comune di Firenze sui lavavetri si accompagna nelle pagine dei giornali alla cronaca di una lunga serie di violenze scoppiate tra vicini di casa spesso per futili motivi. Si tratta di due elementi a prima vista privi di relazione. Ma possiamo esserne così sicuri? Quando parliamo di «sicurezza» prima ancora della minaccia che pensiamo possa incombere su di noi, facciamo riferimento al modo in cui ciascuno percepisce lo spazio circostante. Mi spiego, a casa nostra ci sentiamo forti e sicuri ma come varchiamo il portone cominciano a preoccuparci, la città, in particolare, ci può apparire come un luogo estraneo, in cui si è soli, privi di sostegno o di difese. Ecco che l'insicurezza comincia a farsi strada dentro di noi, che l'inquietudine o la paura acquistano un profilo concreto: cosa vorrà quel mendicante o il lavavetri di turno? Non voglio certo sottovalutare gli effetti della criminalità, o sottostimare i timori delle persone, ma credo si possa convenire sul fatto che la paura inizia dall'incontro con chi ci è estraneo, prima ancora che ci tocchi di subire un qualche torto, per usare un eufemismo.

Detto altrimenti, il senso di insicurezza ci accompagna, diventa una sorta di lente con cui percepiamo il mondo circostante. Una percezione che si forma attraverso una serie di cerchi concentrici, passa al vaglio di reti di relazioni sempre più strette e esili, fino a trovarci completamente da soli. Se fuori dal nostro ambito ristretto di affetti tutto ci fa paura, ciascuno rappresenta un possibile pericolo, ecco che perfino il dirimpettaio può diventare un nemico irriducibile. Si tratta di comportamenti individuali, certo, di un cortocircuito della ragione in cui trova spazio l'odio più feroce. Ma come non interrogarsi sul fatto che nel nostro Paese questa paura e spesso il risentimento individuale sono stati anche coltivati, eletti a comportamenti socialmente stimati da chi ha fatto della xenofobia e della ricerca del capro espiatorio il proprio fondo di commercio politico? E giù insulti ai soliti stranieri, immigrati, zingari - anche se recentemente c'è anche chi ha riesumato perfino il «complotto ebraico-massonico» - indicati come responsabili di ogni male. Sparare sui gommoni, disinfettare i sedili su cui si sono seduti gli stranieri o addirittura ripristinare la pena di morte: il catalogo di questa piccola barbarie nostrana è noto. La demagogia populista non ha più smesso di fabbricare nuovi «nemici pubblici».

Ieri il sindaco di Milano Letizia Moratti, proprio dalle colonne di questo giornale, se la prendeva con la visione «buonista» dell'immigrazione che accompagnerebbe a suo dire il Ddl che porta la mia firma e quella del Ministro dell'Interno Amato che intende invece riportare a legalità e regolarità il fenomeno. Questo dopo che la «faccia truce» mostrata dalla destra sul tema attraverso la Bossi-Fini ha prodotto un aumento vertiginoso della clandestinità, rendendo pressoché impossibile l'ingresso regolare degli immigrati in questo paese.

Ma ora il cerchio sembra chiudersi. Non sarà che forse tra le tante risposte che vengono oggi offerte al bisogno di sicurezza dei cittadini nessuna sembra parlare davvero in termini di «vicinanza», di ascolto, di creazione di nuovi legami sociali, di legami tra le persone, tra le troppe individualità e solitudini che compongono spesso le nostre città? Come si può sentirsi sicuri se ci si sente soli, isolati, vulnerabili perché privi di legami con chi ci sta intorno? E' su questo terreno che credo si possa fare qualcosa per spezzare la spirale dell'odio, il risentimento e la paura. Facendo in modo che le persone si conoscano, si incontrino, escano di casa per «buttare l'occhio sul cortile di fianco» - come suggeriva ieri Elena Loewenthal su queste pagine. Penso alle mille esperienze del volontariato e ai tanti laboratori di solidarietà che esistono nelle nostre città, a tutte le forme dello stare insieme, dai circoli degli anziani ai centri giovanili che hanno cercato in questi anni di resistere alla disgregazione sociale, alla perdita di legami tra le persone, al venir meno della solidarietà nei quartieri, nelle città. Reprimere il crimine è sacrosanto, ma pensare che poi ci si sentirà più sicuri se non si fa qualcosa anche per ricreare dei veri legami sociali nelle nostre città è una pericolosa illusione.

Ministro della Solidarietà sociale
 
da lastampa.it


Titolo: Amato "Garantire la sicurezza rischiamo una svolta fascista"
Inserito da: Admin - Settembre 06, 2007, 12:00:06 am
POLITICA

Il titolate del Viminale torna sul pacchetto sicurezza allo studio del governo

E agli attacchi della sinistra radicale replica: "Dividerci è sbagliato e assurdo"

Amato "Garantire la sicurezza rischiamo una svolta fascista"


VIETRI SUL MARE (SALERNO) - "Se fossimo così incoscienti da ritenere che la sicurezza non è un problema creeremmo le condizioni per una svolta reazionaria e fascista nel paese. Se c'è una cosa che il democratico deve sapere fare è non svegliare la tigre della reazione". Lo ha detto il ministro dell'Interno Giuliano Amato, durante un dibattito alla Festa della Margherita.

Amato ha difeso con forza il pacchetto sicurezza che il governo sta approntando e, di fatto, ha ribadito la linea dura già illustrata nella sua intervista a Repubblica. "Sono il primo - ha sottolineato - a sapere che uno dei miei problemi è, per esempio, scoprire il racket ma so anche che ci sono devianze e comportamenti trasgressivi che non dipendono da nessun racket. Se mia moglie al semaforo viene messa nelle condizioni che o si fa lavare il vetro o viene aggredita che faccio, non la devo proteggere? La devo far diventare fascista? La sicurezza - ha spiegato il ministro - è il fondamento della libertà, noi stiamo facendo un test di tutto questo".

Amato, indirettamente, ha anche risposto alle accuse che gli vengono rivolte dalla sinistra radicale. Secondo il ministro è naturale che al varo di un pacchetto sulla sicurezza ci possano essere reazioni diverse dal centrodestra e dal centrosinistra, ma "che ci si divida all'interno del centrosinistra è sbagliato e assurdo".

Per il titolare del Viminale è necessario evitare di "scavare un fossato tra i miei indigeni e quelli che sono arrivati, perché significherebbe non distinguere più tra chi è venuto a lavorare onestamente, e questo lo dobbiamo accettare, e chi invece viene a delinquere". Citando i libri di diritto, il ministro dell'Interno ha aggiunto che "la sicurezza è fondamento della libertà. Questa è una grandissima verità".

Dopo aver ribadito che è necessario far marciare insieme politiche dell'integrazione e garanzia della legalità, Amato ha concluso con un ammonimento: "Se l'opinione pubblica dovesse pensare che noi ci disinteressiamo della sicurezza, allora avremmo scavato lo scivolo per portare l'opinione pubblica lontana da noi e dai valori democratici".

(5 settembre 2007)

da repubblica.it


Titolo: Sputa nel piatto dove anche lui ha mangiato
Inserito da: Admin - Settembre 22, 2007, 10:12:01 pm
Sputa nel piatto dove anche lui ha mangiato 

di Roberto Pugliese
 
Molti anni fa durante un programma televisivo un ammiratore si rivolse a Carmelo Bene con queste parole: «Maestro, lei è un genio».
Il regista e attore gli rivolse il suo sguardo a sonagli.

Anche Veltroni

C'è da supporre che oltre a Silvio Berlusconi, un altro super-leader cominci ad essere seriamente interessato all'eutanasia della legislatura. Walter Veltroni, quando alla fine di giugno, pronunciò al Lingotto il suo discorso di investitura, aveva certamente bisogno di tempo. La sua missione era quella di far sbiadire l'impopolarità di Prodi e di ridare un profilo e una prospettiva al centrosinistra. Due o tre anni sarebbero stati la misura giusta per ridisegnare e stabilizzare la sua coalizione. L'estate ha cambiato lo scenario, il Partito democratico continua ad essere un "oggetto misterioso", incapace di rispondere alle attese deluse e recuperare i consensi persi. E, soprattutto, la frana dell'immagine sembra inarrestabile. L'ultimo colpo è quello inflitto da Beppe Grilo, che ha ridimensionato l'illusione che, da solo, il sindaco di Roma fosse capace di sanare il primo male di cui soffre la sinistra, cioè la sfiducia verso la "casta".

Veltroni non può certo tornare indietro, la sua elezione diretta del 14 ottobre è alle porte, il suo problema maggiore consiste oggi nell'evitare di essere coinvolto in prima persona nel generale fallimento del governo. Un'attesa di uno o due anni lo porterebbe a fondo. Potrebbe salvarsi solo se fosse possibile la costituzione di un esecutivo di larghe intesa o se si arrivasse ad una riforma elettorale proporzionale, come quella ispirata dal "modello tesdesco", che offrirebbero agli italiani l'immagine di una svolta. I due scenari, però, non sembrano possibili.

L'unica strada che può convenire al leader del Pd è a questo punto la scorciatoia elettorale. L'atto di morte del governo Prodi sarà vidimato nel momento in cui questa convenienza diventerà esplicita e renderà Veltroni libero di presentarsi con uno suo programma di svolta - certamente sarkozysta, benché edulcorato dai buoni sentimenti - e con un'immagine ancora forte. Libero, in altri termini, di scommettere sulla sua campagna elettorale, sul confronto diretto con Berlusconi e sugli handicap di cui soffre il centrodestra, ovvero la frammentazione politica, l'incognita sulla coerenza del programma rispetto alle attese del suo blocco sociale e la credibilità complessiva di una coalizione che tutti sanno capace di vincere nelle urne, ma che potrebbe aver difficoltà poi a governare.

Questo è lo spiraglio aperto tra il pantano prodiano e la scommessa di Veltroni. Nessuno si stupisca il giorno in cui la maggioranza finirà per un voto di Mastella o di Dini o di qualcun altro e in cui si scoprirà che la pistola fumante è in realtà nella mano del segretario del Partito democratico.Renzo Foa

Sputa nel piatto

Poi sibilò: «Ad essere un genio, in questo paese, ci vuol niente. Il vero genio consiste nell'essere imbecilli».

"L'imbecille di genio" Beppe Grillo, icona desolante di un paese dove la politica fa ridere e far ridere diventa politica, discende da lombi illustri: risale quanto meno al "fool" elisabettiano, il buffone di corte che insulta il re facendolo sganasciare; ma ha molto soprattutto dello juródivyi russo, l'Innocente eternato nel "Boris Godunov" di Pukin e poi di Mussorgski, il povero scemo del villaggio che con la scusa di essere tale può permettersi di accusare pubblicamente lo zar di regicidio e infanticidio senza essere toccato.

Insomma, è una figura e uno stereotipo culturale prima che politico. E in quanto tale non dice, né potrebbe, alcunché di nuovo. Se diviene un fenomeno di massa, importante, mediatico, ciò è dovuto all'accavallarsi con un'altra mutazione sociologica, ossia la trasformazione del nostro paese - ormai da molti anni - in pura e totalizzante "pancia".

Il termine è da tempo nel gergo dei politologi: "mal di pancia" è la metafora con cui si indicano i fastidi e gli imbarazzi di questa o quella forza politica nei confronti di atteggiamenti della propria stessa parte ma non condivisi; parlare "alla pancia" del paese (quello che fa Grillo, probabilmente spostandosi anche verso zone più inferiori) significa solleticarne istinti, rancori, voglie, insomma quel patrimonio di irrazionalità e emotività che, qualora non controllate, costituiscono la peste, l'epidemia capace di affossare democrazie ben più antiche e consolidate di quella italiana.

Una società civile ed evoluta, soprattutto in possesso delle proprie facoltà di responsabilità e autoanalisi, avrebbe già fatto tesoro - e da tempo - delle sconcertanti banalità enunciate dal signor Grillo, magari scremandole di quella volgarità e aggressività verbali, entrambe semplicemente teppistiche e squadristiche, che sembrano ormai ritenute indispensabili per "bucare" il muro della comunicazione e delle quali non sentiamo alcuna necessità d'incremento. Su questo Grillo non è maestro ma allievo, e i suoi docenti risiedono spesso e volentieri in Parlamento o alla guida di importanti mezzi di comunicazione. Viceversa, siccome l'Italia vive in questo momento una fase allarmante di eclissi di lucidità e di decomposizione del pensiero, Grillo è il "detonatore" (brutta parola: la usavano anche gli artificieri delle Br) del malessere collettivo, la "miccia" (ancora un lessico balistico che fa intravedere bombaroli e nitroglicerine) destinata a far implodere il fragile e autolesionistico sistema politico italiano. Pochi, e subito zittiti, quello che hanno sommessamente osservato quanto sia idiota, o in alternativa appropriato per un personaggio della serie Ai confini della realtà, dire che "dall'8 settembre '43 a oggi in Italia non è cambiato niente"; ancora meno quelli che, all'invocazione "io i partiti li voglio eliminare!" (nemmeno Mussolini si era spinto programmaticamente così avanti!), abbiano affettuosamente invocato un periodo di riposo per l'interessato, magari con il supporto farmacologico di qualche ansiolitico.

Forse hanno fatto bene. Se non tutto il male vien per nuocere, anche il cabarettista Grillo Giuseppe, foraggiato per decenni dalla Rai di Pippo Baudo, quindi fulgido esempio di italiano che sputa nel piatto dove ha mangiato a lungo, può tornare utile; purché si filtrino le poche - e lapalissiane - verità che enuncia dalla mole delle sciocchezze demagogiche urlate nelle piazze. Senza pensare di trarne - ahi, ancora un vizio italianissimo - qualche vantaggio di parte, ma consapevoli che se il re si mette ad inseguire il buffone sul suo terreno, presto troverà il buffone insediato sul trono. E, a quel punto, non ci sarà più niente da ridere per nessuno.

Roberto Pugliese

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Lo demonizzano perché hanno paura 
di Massimo Fini

 
Più impressionante e significativa della stessa manifestazione di Beppe Grillo è stata la reazione del mondo politico e di quella sua dependance che è il sistema televisivo.

Prima si è cercato di ignorare il fenomeno, di nasconderlo, di oscurarlo. il TG1 ha dato una brevissima notizia, senza immagini, del "V-Day", il TG5 è riuscito nell'impresa di far apparire semivuota una piazza che era invece gremita e debordava nelle vie circostanti. Poi, di fronte alll'evidenza, si è passati alla demonizzazione del comico genovese. Un po' la stessa tattica seguita con la Lega Nord che era anch'essa, almeno ai suoi inizi, un movimento antipartiti. Anche se questa volta le cose, data l'accelerazione stratosferica che sta avendo il nostro tempo, sono andate molto più velocemente. Grillo è stato bollato, in modo bipartisan, come fenomeno da baraccone, populista, qualunquista, fautore di una "deriva fascista". Prodi, definito scherzosamente dal comico "Valium" o "Alzheimer", ha ricevuto la solidarietà di tutti i partiti, e il suo linguaggio è stato definito di "sconcertante immoralità" (Sandro Bondi), come se gli uomini politici in questi ultimi anni non ci avessero abituati a ben di peggio, fuori e dentro il Parlamento tanto da subire, proprio recentemente, un duro richiamo dalla Corte di Cassazione nell'ambito di una sentanza che si occupava del turpiloquio politico. Anche il presidente Napolitano ha sentito il bisogno di scendere in campo (definendo "pericoloso un clima in cui i partiti vengono messi indiscriminatamente sotto accusa"), in una contesa che non lo riguarda per nulla, se non per il fatto di essere, come Capo dello Stato, non solo il principe dei privilegiati ma perchè gode di questi privilegi da epoca immemorabile non avendo mai fatto altro che il parlamentare e non avendo lavorato un solo giorno in vita sua. Ma l'intervento più grave è stato quello del direttore del TG2, Mazza, che con un linguaggio circonvoluto e allusivo nella forma ma chiaro nella sostanza ha sostenuto che Grillo eccita il terrorismo e che se domani qualcuno attenterà a uno dei suoi bersagli polemici la responsabilità morale ricadrà su di lui. E' una minaccia inaccettabile, squadrista, perchè tende a rendere criminale e impossibile ogni critica al sistema dei partiti che, esca dal più scontato, banale e innocuo "politically correct". Inoltre innesca un circolo vizioso e perverso perchè se domani dovesse accadere qualcosa a Grillo potrebbe essere addebitato a Mazza.

Queste reazioni scomposte dicono una cosa sola: che la classe politica si sente tremare la terra sotto i piedi e sa di avere la coda di paglia. E ne ha ben donde. In questi anni gli avvertimenti ci sono stati, ma li ha sistematicamente ignorati. Nel 1992-94 le inchieste di Mani Pulite ottennero un grande consenso popolare perchè i cittadini erano stufi di essere taglieggiati, angariati, umiliati dai partiti e dai loro apparati. Anche se ci furono delle strumentalizzazioni quelli che gettarono le monetine a Craxi o che inseguirono Gianni De Michelis per le calli di Venezia non erano solo "comunisti", era anche gente che non ne poteva più in particolare dell'arroganza dei socialisti che erano arrivati a prepotenze da Don Rodrigo, a "torre le donne altrui".

Ma bastò poco alla partitocrazia per riprendere in mano la situazione. Scese in campo, presentandosi come "uomo nuovo", uno dei principali sodali di Craxi, Silvio Berlusconi, la Lega fu inglobata e innocuizzata, i cittadini vennero convinti che i veri colpevoli erano i giudici e i ladri di regime le loro vittime. Più tardi vennero i girotondi. Cosa chiedevano i "girotondini" (un milione di persone a piazza San Giovanni a Roma)? Protestando contro le leggi "ad personam" chiedevano che fosse rispettato almeno il principio elementare dell'uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge senza la quale la liberaldemocrazia, che già rinuncia all'uguaglianza sociale, non si giustifica più. Ma anche i "girotondini", le cui manifestazioni erano assolutamente pacifiche, furono irrisi e sbeffeggiati, da destra e da sinistra. Ma intanto la rabbia, benchè repressa, o forse proprio perchè repressa, montava in modo sordo e sotterraneo. Nel 2004 pubblicai un libro, "Sudditi-Manifesto contro la democrazia", in cui denunciavo, argomentando, che la liberaldemocrazia, la "democrazia reale", quella che concretamente viviamo, non è la democrazia ma un regime di oligarchie. Vendette più di 100 mila copie, non poche per un saggio teorico. Ma tre anni dopo "La Casta" di quel grande cronista che è Gian Antonio Stella, che puntualizza con casi concreti ciò che io avevo denunciato teoricamente, ha venduto un milione di copie. Adesso è arrivato il "grillismo". È probabile che il sistema, che ha molti mezzi per farlo, riuscirà ad inglobare e ammortizzare anche questo fenomeno. Ma se il sistema politico non cambierà strada - e non la cambierà, perchè non può farlo dato che la democrazia rappresentativa non è che l'involucro legittimante del vero nocciolo della questione: un modello di sviluppo paranoico che ci stressa tutti e che è la vera, anche se spesso inconscia, origine della rabbia popolare - un giorno o l'altro salterà per aria come il coperchio di una pentola tenuto troppo a lungo sotto pressione.

Massimo Fini

www.massimofini.it
da gazzettino.it


Titolo: Se Fioroni fa il duro coi bulli
Inserito da: Admin - Ottobre 16, 2007, 11:48:00 pm
Se Fioroni fa il duro coi bulli

Marina Boscaino


Lo schema di regolamento proposto dal ministro Fioroni qualche giorno fa in Consiglio dei Ministri - che ha dato parere favorevole - modifica gli articoli 4 e 5 dello Statuto degli Studenti riguardanti le sanzioni disciplinari. La boccata di ossigeno rappresentata dalle parole di Benedetto Vertecchi, che sul Manifesto di qualche giorno fa invitava a ragionare di scuola da punti di vista e prospettive che sembrano lontane anni luce dalle attuali - eppure ci fanno sognare, e sperare che una voce illuminata riesca, miracolosamente, a squarciare il velo della pericolosa sottovalutazione della scuola pubblica - è stata prontamente repressa e ricondotta al triste principio di realtà da questa ulteriore «prova di forza»: il motivo dominante all’insegna del quale Fioroni ha deciso di far cominciare l’anno scolastico.

Perché, ancora una volta, la scuola non viene individuata come luogo di condivisione delle regole, di negoziazione in cui insegnanti, studenti e genitori concretizzino un patto di corresponsabilità educativa. Ma si risponde in maniera esclusivamente punitiva a un’emergenza sociale, limitata in termini numerici, e tuttavia estremamente allarmante. Sia chiaro: il problema del bullismo è concreto e urgente e non è intenzione di nessuno archiviarlo o sottovalutarne la portata in termini di segnale di inquietanti marginalità socio-culturali. Ma le procedure individuate non sono adatte, non solo ad affrontare, ma neppure semplicemente a lanciare segnali costruttivi affinché il fenomeno possa essere non dico debellato, ma almeno limitato nella sua inquietante portata; ormai scrupolosamente documentata e registrata nella logica voyeristica e perversa di ragazzi che cercano - in quei filmati - il proprio momento di visibilità; che rivendicano - indottrinati dalle pratiche televisive più perverse - un protagonismo che, ormai, non si nega davvero a nessuno.

Dunque, il problema non è se il bullismo sia un fenomeno concreto o no, né la sua più o meno amplificata diffusione. Il problema è che «mostrare i muscoli», specialmente nella scuola, spesso non significa avere a disposizione le armi che possano incidere realmente sul trattamento di una situazione così complessa, che marchia letteralmente la condizione di totale mancanza di autorevolezza della scuola in questo difficile passaggio. Il ministro Fioroni ha la pericolosa tendenza - o meglio, la consapevole propensione - a proporre soluzioni «muscolari» - di sicuro effetto mediatico - a problemi che affondano in anni di incuria nei confronti della scuola pubblica; e in contraddizioni drammatiche della società, ispirate a una tensione aggressiva che chiede rivincita, riscatto nelle maniere più pericolose e mortificanti. Apro e chiudo una parentesi, per non infierire; ricordando appena la campagna (dal titolo raccapricciante - «Smonta il bullo» - a sottolineare l’affetto personale del ministro per quello strumento un po’ spuntato che è il cacciavite) che lo scorso anno - tra conferenze stampa, sbandieramento da parte dei media, creazioni di linee dedicate, stampa di opuscoli, manifesti ecc. - è costata alle tasche del contribuente, ma che, a quanto pare, non ha sortito poi l’effetto desiderato.

Il problema è proprio qua: non è questo il tipo di investimento di cui la scuola italiana ha bisogno oggi. Né di diventare luogo di repressione; o, peggio ancora, di esclusione, contravvenendo alla propria stessa natura. Occorre stanziare i fondi per una prevenzione effettiva del fenomeno. Una prevenzione a misura di scuola e fatta nella scuola. Che - ricordiamolo - è luogo di accoglienza e non di esclusione: è luogo (o, almeno, dovrebbe esserlo) di autorevolezza e non di autoritarismo. Cominciamo a pensare al problema dalla radice: la generalizzazione della scuola materna, da tutti citata, promessa, ma mai configurata realmente come investimento concreto sul destino migliore di futuri cittadini. E poi gli insegnanti. Chi «sarà pescato in atteggiamenti lesivi della dignità dei compagni e degli stessi insegnanti» - recita il regolamento - potrà essere espulso dalla scuola fino alla fine dell’anno. L’insegnante più accondiscendente, più debole è - come lo studente più debole - vittima potenziale dei bulli.

Eppure tra insegnante e studente deve stabilirsi - per la natura stessa del rapporto educativo, inefficace se non improntata a una «legge del padre» - una vera e propria «relazione di potere», che abbia come finalità l’emancipazione del discente. Occorre quindi rafforzare, incentivare (o scoraggiare?) coloro che credono di poter fare gli insegnanti senza prevedere che alcune tendenze sortiscono un effetto moltiplicativo sul diffondersi del fenomeno: lo stato di progressiva perdita di autorevolezza da parte dei docenti, la demotivazione di molti, un’ipocrita interpretazione accuditiva, complice, maternale che per temperamento o per comodità viene assunta da molti, una generazionale tendenza al protrarsi indefinito dell’adolescenza. Con conseguenze negative per quanto riguarda sia la vigilanza sugli alunni più deboli fatti oggetto di episodi di bullismo, sia l’esser fatti gli insegnanti stessi bersagli.

Saranno, secondo la nuova normativa, le scuole a stabilire nel proprio regolamento quali siano i comportamenti da stigmatizzare, quali le sanzioni, gli organi competenti e la procedura da seguire. Come nei provvedimenti previsti contro gli insegnanti - delegati all’arbitrio del singolo dirigente di istituto - anche in questo caso la certezza della norma scompare come principio di garanzia: le stesse violazioni potrebbero essere punite e non punite da scuole diverse o punite in maniere differenti. È chiaro che l’allontanamento dalla scuola per l’intero anno scolastico di alunni che dimostrino comportamenti gravemente inadeguati coglie nel segno un’insofferenza diffusa e un bisogno di normalità che la nostra società continua a manifestare. Ma bisogna interrogarsi se - didatticamente ed educativamente - gli elementi possano essere considerati equipollenti all’interno della scuola. Ho i miei dubbi. Perché non mi risulta, lo sottolineo ancora, che la proibizione abbia mai sortito effetti più incisivi di quelli convogliati da una buona educazione e da un reale investimento culturale sulla scuola. Prova ne sia il fatto che i filmati che proliferano sul web sono proprio immortalati da quei telefonini che una direttiva del ministro Fioroni vietava tassativamente all’interno degli istituti scolastici.

Pubblicato il: 16.10.07
Modificato il: 16.10.07 alle ore 12.58   
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