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Autore Discussione: SERGIO ROMANO.  (Letto 96396 volte)
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« Risposta #75 inserito:: Agosto 01, 2010, 11:08:34 am »

LE DIVISIONI NEL PDL E LA SORTE DEL GOVERNO

Le incognite di un divorzio


Dietro le crisi politiche, anche quando sono particolarmente imbrogliate, s'intravedono generalmente con una certa chiarezza le forze in campo, i punti del dissenso, i termini della questione e le soluzioni possibili. In quella provocata dal divorzio fra il presidente del Consiglio e il presidente della Camera, il numero dei fattori che non possiamo calcolare è straordinariamente elevato. In altre parole ciò che non sappiamo e non possiamo prevedere è molto più di ciò che sappiamo.

Non sappiamo anzitutto quale sarà, alla fine della conta e alla prova dei fatti, la consistenza e la compattezza del gruppo parlamentare creato da Gianfranco Fini alla Camera. Berlusconi sembra essere convinto che il gruppo sarà fragile ed eterogeneo, Fini che sarà unito e solidale. Ma sono entrambe, per il momento, posizioni di parte, tutte da verificare.

Non sappiamo poi come il nuovo gruppo voterà sulle leggi proposte dal governo. Tralascio quella sulle intercettazioni, forse ormai archiviata, e penso soprattutto alle grandi riforme - giustizia e federalismo - che sono la bandiera del governo Berlusconi. Fini dice che rispetterà il programma del Pdl, ma nelle sue dichiarazioni sulla legalità democratica e nei suoi frequenti riferimenti all'unità del Paese vi sono i germi di eventuali dissensi.

Non sappiamo come Fini riuscirà concretamente a conciliare, nella gestione quotidiana degli affari parlamentari, la sua doppia natura di presidente della Camera e di capo di una fazione dissidente. Ha certamente ragione quando ricorda di essere stato eletto per presiedere nell'interesse di tutti e non soltanto di coloro che lo hanno votato. Ma non sarà facile, all'atto pratico, tenere i due ruoli nettamente e visibilmente distinti.

Non sappiamo infine quali sarebbero le reazioni dei mercati e dei nostri partner se il fallimento di questa difficile convivenza mettesse all'ordine del giorno la possibilità di elezioni anticipate. Credo che Berlusconi non escluda, nonostante le dichiarazioni di ieri, la prospettiva di un ricorso al voto anticipato. Il presidente del Consiglio resiste difficilmente alla tentazione di considerare il Pdl come l'ultima e la più ambiziosa delle numerose aziende create nel corso della sua vita. A un proprietario orgoglioso dei suoi successi le posizioni di Fini devono essere parse l'inaccettabile comportamento di un manager sleale. Qui emerge quella visione proprietaria della politica che è caratteristica negativa di questa fase storica. Rinuncio a sperare che Berlusconi possa cambiare natura e carattere. Ma è troppo accorto ed esperto delle cose del mondo per non sapere che lo spettro dello scioglimento delle Camere e dei tempi morti che accompagnano, soprattutto in Italia, le elezioni anticipate, annullerebbe tutti i punti di merito conquistati agli occhi dell'opinione internazionale con la manovra finanziaria approvata in questi giorni.

Continuo a pensare che un'intesa fra i duellanti fosse, oltre che utile per il Paese, possibile. Resta almeno, dopo il divorzio, la possibilità di una tregua, di un modus vivendi, di una «separazione in casa». Qualsiasi altra prospettiva avrebbe ricadute che nessuno dei due riuscirebbe a controllare.

Sergio Romano

01 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_agosto_01/romano-incognite-divorzio_3b6d3730-9d3a-11df-afd5-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #76 inserito:: Agosto 16, 2010, 04:47:28 pm »

TRA MAGGIORANZA E OPPOSIZIONE

La memoria degli elettori


Proviamo a smettere per un momento di interpretare le mosse strategiche e le intenzioni di Berlusconi, Fini, Bersani, D’Alema, Di Pietro. Cerchiamo piuttosto d’immaginare come i loro elettori, di destra e di sinistra, stiano reagendo all’indecoroso spettacolo che sta andando in scena di fronte ai loro occhi. Non tutti gli elettori del Pdl aspettavano dai loro leader le stesse cose. Ma tutti hanno visto nascere con molte speranze un grande partito nazionale.

Hanno ascoltato i discorsi di Berlusconi e di Fini. Hanno creduto nelle loro promesse e, in particolare, a una riforma della giustizia penale e civile, secondo le linee anticipate e proposte sino dalla fine di Tangentopoli. Ma hanno ricevuto invece una nuova raccolta di leggi (tutte sottoscritte e votate anche dai seguaci di Fini) che non avevano altro obiettivo fuor che quello di risolvere i problemi di una singola persona. Pensavano che dal congresso di fondazione sarebbe uscita una nuova classe politica, meno frivola e venale di quella che aveva governato l’Italia per molti anni. Ma hanno assistito a una sequenza di scandali che ricorda lo stato di salute della politica italiana negli anni di Mani Pulite e contiene, per di più, una dose preoccupante di personale immoralità e spregiudicatezza.

Pensavano che le diverse sensibilità e preoccupazioni di Berlusconi e di Fini avrebbero arricchito il dibattito politico italiano. Ma sono costretti ad ascoltare una lite sgangherata in cui non vi è dichiarazione che non contenga insulti, denunce, allusioni personali. Chi crede nei sondaggi non si faccia illusioni. Nei sondaggi il campione risponde ad alcune specifiche domande, più o meno puntuali. Ma nessuna indagine potrà mai rendere fedelmente lo stato di smarrimento e scoramento di elettori che si considerano delusi e traditi. Gli elettori di sinistra non sono in migliori condizioni. Quelli che credevano nella vocazione maggioritaria del partito di Walter Veltroni hanno cominciato ad avere qualche dubbio, probabilmente, quando hanno constatato che il Pd si alleava, per vincere le elezioni, con il partito giustizialista di Antonio Di Pietro.

La sconfitta avrebbe dovuto creare una opposizione unita, coerente e credibile. Abbiamo invece una opposizione disunita che mette continuamente in discussione la propria leadership senza riuscire a cambiarla, non ha un programma se non la scomparsa di Berlusconi e si rifugia nella speranza che lo spettacolo della propria impotenza sia oscurato da quello dei guai dell’avversario. Esiste quindi, accanto ai grandi problemi economici e sociali aggravati dalla crisi, una doppia delusione che colpisce, anche se per ragioni diverse, l’intera classe politica. Le elezioni anticipate potrebbero soltanto esasperare il clima nazionale, esporre l’Italia al giudizio spietato dei mercati, rivelare lo smarrimento del Paese e renderlo ancora meno governabile. Ma per arrivare alla fine della legislatura non occorre un governo «tecnico» o un nuovo Cln di cui nessuno riesce a delineare la composizione e il programma. Occorre che la maggioranza la smetta di litigare e che l’opposizione impieghi i prossimi due anni a creare un’alternativa credibile. L’Italia ha bisogno di entrambe.

Sergio Romano

13 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_agosto_13/la-memoria-degli-elettori-sergio-romano_adfb6542-a69a-11df-944e-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #77 inserito:: Agosto 27, 2010, 09:11:25 pm »

I VINCOLI GLOBALI CHE FANNO BENE AL PAESE

Una partita per l’Italia

Come altri discorsi diretti a una platea nazionale nel corso di una controversia, anche quello di Sergio Marchionne al meeting di Rimini contiene un attento dosaggio di riflessioni morali, prospettive future, esortazioni e ammonimenti. Ma ho l’impressione che gli ammonimenti pesino in questo caso molto più di qualsiasi altro ingrediente. Non ne sono sorpreso e non ne sarebbero sorpresi neppure certi uomini politici e sindacalisti se avessero capito che la Fiat è ormai un’impresa completamente diversa da quella del passato.

Il passaggio decisivo, dopo l’uscita dal tunnel, è stato l’acquisizione della Chrysler. L’operazione è riuscita grazie a tre fattori. Marchionne ha impegnato la Fiat con un progetto credibile in un’impresa rischiosa. Il governo degli Stati Uniti ha creduto nella sua offerta e ha messo sul tavolo, per realizzare l’operazione, una considerevole somma di denaro. I sindacati americani, infine, hanno fatto una scommessa sul futuro dell’azienda rinunciando ai loro crediti in cambio di azioni e accettando una diminuzione dei loro salari. Da quel momento il gruppo Fiat-Chrysler non ha soltanto azionisti: ha anche due partner—il governo americano e i sindacati —a cui deve rendere conto del modo in cui gestirà se stesso e farà le sue scelte internazionali. La Fiat è ancora un’impresa italiana e non può ignorare i suoi vecchi legami con il Paese in cui è nata. Ma il suo amministratore delegato, piaccia o no, ha oggi un referente nella persona del presidente degli Stati Uniti. Barack Obama non avrebbe visitato Detroit e ringraziato pubblicamente Marchionne se non avesse voluto sottolineare in questo modo l’importanza che la sua presidenza attribuisce al successo dell’operazione. Il vicepresidente Joseph Biden non avrebbe fatto altrettanto, qualche settimana dopo, in uno stabilimento dell’Ohio, se non avesse voluto ribadire lo stesso concetto.

Intendiamoci. Nessuna multinazionale può ignorare il governo del Paese in cui lavora e, in particolare, quello di una grande potenza. Quando gli Stati Uniti chiesero all’avvocato Agnelli di sbarazzarsi di un socio allora ingombrante (la Libia), il presidente della Fiat dovette acconsentire. Ma i maggiori problemi dell’azienda di Torino, in quegli anni, si discutevano a Roma o a Bruxelles. D’ora in poi occorrerà parlarne anche a Washington. Non credo che il governo degli Stati Uniti voglia interferire nelle decisioni dell’azienda e mettere in discussione le sue strategie. Credo piuttosto che i referenti americani di Marchionne si limiteranno (e non è poco) a chiedergli di fare scelte conformi alle regole dell’economia mondiale, e soprattutto non accetteranno di buon grado che la Fiat garantisca ad altri referenti, in Italia o altrove, condizioni migliori di quelle riservate ai suoi partner negli Stati Uniti. Non sarebbe facile, ad esempio, spiegare perché i sindacati di Detroit debbano avere meno poteri e diritti di quanti ne abbiano i loro colleghi di Pomigliano o di Melfi.

Sono queste le ragioni per cui è difficile immaginare che Marchionne, nella vicenda di Melfi, possa fare un decisivo passo indietro. D’altra parte sarà bene per tutti alzare lo sguardo da una singola vicenda e guardare più lontano. I vincoli multinazionali della Fiat non sono, per noi, una servitù. Dovrebbero essere piuttosto un’occasione da cogliere per mettere l’intero Paese in condizione di meglio affrontare le sfide della concorrenza.

Sergio Romano

27 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_agosto_27/una-partita-per-italia-romano_67d51338-b199-11df-a044-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #78 inserito:: Settembre 08, 2010, 03:42:18 pm »

UNA RICHIESTA MOLTO IRRITUALE AL COLLE

Una scelta sbagliata


Se gli incontri del presidente del Consiglio con il capo dello Stato fossero frequenti e regolari (persino sotto il fascismo Mussolini veniva ricevuto dal re una volta alla settimana), quello preannunciato ieri non avrebbe suscitato un particolare interesse. Ma il prossimo accadrà dopo una fase durante la quale gli incontri sono stati rari, e al presidente della Repubblica, per di più, verrà chiesto di ricevere non soltanto il presidente del Consiglio, ma una specie di delegazione composta da Silvio Berlusconi e Umberto Bossi. I temi della discussione, a giudicare dalle dichiarazioni del leader della Lega, saranno verosimilmente la sostituzione di Gianfranco Fini alla presidenza della Camera dei deputati e, in prospettiva, la possibilità di elezioni anticipate. Sembra quindi che i leader dei due partiti della maggioranza abbiano deciso di alzare il livello della crisi, di renderla istituzionale e di appellarsi per la sua soluzione al capo dello Stato. A me sembra che sull’opportunità di questa iniziativa possano farsi alcune osservazioni amare.

In primo luogo non ha molto senso deplorare gli interventi del capo dello Stato nella politica nazionale, come è stato fatto più volte negli scorsi mesi, e coinvolgerlo ulteriormente in vicende che possono e debbono essere affrontate in Parlamento. Esiste un «caso Fini»? Non sembra che nel sistema politico italiano vi siano norme a cui ricorrere in queste circostanze (anche se nel momento in cui fondasse un nuovo partito dovrebbe riflettere sul suo ruolo). Se il governo vuole dimostrare che il presidente della Camera non svolge una funzione super partes nei suoi compiti istituzionali e nell’osservanza del regolamento, lo verifichi in Parlamento. Se Fini non si dimette di sua spontanea volontà il governo non ha il diritto di punirlo «a priori» e tantomeno di chiedere al capo dello Stato di essere lo strumento di una punizione. Le stesse considerazioni valgono per le elezioni anticipate.

Giovanni Sartori ci ha ricordato più volte che non è raro, nelle migliori democrazie, assistere a governi che stanno in piedi con una maggioranza risicata o addirittura, dopo averla perduta, perché le opposizioni non sono in grado di sostituirli. Quello di Berlusconi ha ancora una maggioranza, benché ridotta. E ha un programma da realizzare. Non gli resta che mettere fine a questa fase farneticante di chiacchiere, insulti e baruffe. Chieda la fiducia sulle linee fondamentali della sua politica e torni al lavoro facendo quello che ha promesso ai suoi elettori e in gran parte non ha fatto. Scoprirà rapidamente quale sia il rapporto delle forze in Parlamento e quale, in particolare, l’atteggiamento dei «finiani». Se deve cadere, cada su qualcosa per cui vale la pena di dare battaglia. Il Paese, se il governo adotterà questa linea, saprà a chi deve le elezioni anticipate e avrà qualche elemento di giudizio su cui basare il suo prossimo voto.

P.S. Breve promemoria per la Lega. Se il partito di Bossi vuole davvero le elezioni anticipate, non è necessario coinvolgere oggi il capo dello Stato. Basta che i suoi deputati, in Parlamento, si astengano sulla mozione di fiducia. Tutti capiranno che questa legislatura è finita.

Sergio Romano

08 settembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_settembre_08/romano_fde2352e-bb06-11df-b32f-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #79 inserito:: Settembre 26, 2010, 11:21:19 am »

L’IMMAGINE DELLA CLASSE POLITICA

Più in basso è difficile


Molti lettori si chiedono se la storia di un piccolo appartamento («50-55 metri quadrati») possa dominare per parecchie settimane la vita pubblica italiana. La risposta, purtroppo, è sì, soprattutto se il caso scoppia dopo una lunga stagione di scandali, veleni e accuse incrociate. A chi scrive sui giornali piacerebbe parlare anche d’altro, ma un giornalista americano disse molti anni fa che la stampa consegna le notizie come il lattaio consegna il latte del mattino. E quello che si beve oggi in Italia è di pessima qualità.

Eppure questa rappresentazione è parziale. Se potessimo dimenticare per un momento il quartierino di Montecarlo, rovesciare il cannocchiale e sbirciare in tutti i piccoli appartamenti di cui è piena la penisola, constateremmo che tra la rappresentazione pubblica dell’Italia e l’esistenza quotidiana dei suoi cittadini esiste una distanza abissale. Non è una novità. Abbiamo sempre saputo che il Paese è afflitto da una sorta di schizofrenia. Quando discute di politica o scende in campo come militante per un partito o un movimento, l’italiano esprime giudizi radicali, denuncia situazioni intollerabili, minaccia azioni violente, propone soluzioni estreme. Quando organizza la sua vita, amministra i suoi soldi e fa le sue scelte quotidiane, è generalmente un buon calcolatore dei costi e benefici di una qualsiasi decisione, piccola o grande, che attenga ai suoi personali interessi.

Ne abbiamo la prova quando diamo un’occhiata alle statistiche sul risparmio delle famiglie, sui consumi, sul numero delle aziende private e delle partite Iva, su quello delle case che appartengono a chi le abita. Ne abbiamo una prova ancora più convincente quando constatiamo che i fenomeni più interessanti e positivi dell’economia nazionale non sono quelli pianificati dall’alto, ma accadono spesso quando le api della società nazionale fanno sciame e producono risultati che gli economisti e i sociologi non avevano previsto e dovranno cercare di spiegare a posteriori. Siamo rivoluzionari, se non addirittura eversivi, quando parliamo, ma siamo moderati quando amministriamo la nostra vita e i nostri beni. Queste sono le qualità che ci permettono di sopravvivere nei momenti difficili, questi sono gli ammortizzatori della nostra vita quotidiana.

Ma presentano parecchi inconvenienti. La somma di alcuni milioni di buone scelte individuali non produce necessariamente una buona politica nazionale. La somma degli interessi personali non è l’interesse di tutti. Vi sono circostanze in cui un Paese deve adattarsi a grandi cambiamenti e fare scelte cruciali, necessariamente collettive e valide per tutti. Quella che stiamo attraversando è una fase storica in cui il futuro dell’Italia, come quello di qualsiasi altro Paese dell’Unione europea, dipende dalle sue decisioni in materia di educazione, ricerca scientifica, riforme istituzionali, energia, infrastrutture. Un Paese in cui i singoli cittadini e le loro corporazioni gestiscono oculatamente il loro tran-tran quotidiano, ma esprimono una classe politica faziosa e rissosa, prende inevitabilmente le curve della storia con una snervante lentezza. La crisi politica di questi mesi non è soltanto uno spettacolo desolante. Proietta verso il mondo l’immagine di un Paese su cui non è possibile fare affidamento e sottrae tempo prezioso a quello che andrebbe impiegato per il rinnovamento economico e istituzionale del Paese.

Dal 22 aprile, il giorno della rissa tra Berlusconi e Fini alla direzione del Pdl, il governo appare paralizzato, ripiegato acidamente su se stesso. Fra i costi maggiori di questa interminabile crisi vi sarà l’aumento del ritardo che abbiamo accumulato da quando i nostri amici e concorrenti hanno cominciato a camminare più rapidamente di noi. Vi è infine un altro pericolo di cui i politici dovrebbero essere maggiormente consapevoli. Il Paese non li ama. Se un partito o un leader conta di prevalere sull’avversario conquistando il consenso della maggioranza degli italiani, non si faccia illusioni. Raramente, nella storia dell’Italia repubblicana, i nostri rappresentanti hanno goduto di minore credito. Raramente sono stati meno rispettati e stimati. Non è un fenomeno soltanto italiano. Anche altrove, dall’America di Obama alla Francia di Sarkozy, vi è un malumore diffuso. Ma è particolarmente visibile in un Paese che non ha ancora una forte coesione nazionale. Questa crisi è il peggiore servizio che la classe politica possa rendere all’Italia nel centocinquantesimo anniversario della sua esistenza.

Sergio Romano

26 settembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_settembre_26/piu-in-basso-e-difficile-sergio-romano_b58b0272-c93b-11df-9f01-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #80 inserito:: Ottobre 10, 2010, 04:25:15 pm »

Il commento

Dolore e Ragione

Il generale David Petraeus, comandante della forze alleate in Afghanistan, è un uomo intelligente, misurato, razionale e ha probabilmente la migliore delle strategie possibili. Vuole riprendere la maggior parte dei territori perduti, conquistare, anche col denaro, la fiducia delle tribù, creare istituzioni civili al centro e nelle zone liberate, addestrare le forze dell'esercito afghano, incoraggiare il governo di Kabul a cercare una intesa politica con la componente meno bellicosa del campo talebano e rispettare un calendario, deciso alla Casa Bianca, che prevede l'inizio del ritiro delle truppe americane verso la metà dell'anno prossimo.

Ma questo piano, sulla peggiore scacchiera politico-militare del grande Medio Oriente, si scontra quasi ovunque con difficoltà pressoché insormontabili. I talebani fuggono davanti a una potenza di fuoco contro la quale è inutile combattere, ma ritornano sul campo non appena gli americani e i loro alleati concentrano le loro forze su un altro fronte. I convogli dei rifornimenti petroliferi che attraversano le valli e i monti del Waziristan vengono attaccati e distrutti senza che le forze armate del Pakistan possano o vogliano proteggerli dai commando talebani. Gli aerei americani senza pilota danno la caccia alle formazioni della guerriglia, ma ogni operazione uccide, insieme ai nemici, gruppi di civili inermi e regala così al nemico la rabbia dei villaggi colpiti. Il denaro profuso nei lavori di ricostruzione finisce in buona parte nelle mani dei talebani. L'esercito afghano comprende circa 150.000 uomini; ma il loro addestramento è insufficiente e i loro ufficiali, come ricorda il giornalista pachistano Ahmed Rashid, appartengono a gruppi etnici che i pashtun considerano alieni e ostili. Petraeus non sta combattendo soltanto contro i talebani. Combatte contro il nazionalismo pashtun, l'ambiguità del Pakistan, la corruzione della cerchia di Karzai, i coltivatori di papaveri, i mercanti d'oppio e la paura di popolazioni che rischiano di pagare con la vita qualsiasi forma di collaborazione con l'occupante.

Questo quadro è perfettamente noto ai governi della Nato. A Londra, a Parigi, a Roma tutti sanno che la vittoria è improbabile. Gli uomini e le donne del contingente italiano (circa 4.000 alla fine dell'anno) combattono quando occorre, ma sono impegnati soprattutto nel tentativo di ricostruzione civile e hanno ottenuto buoni risultati, se necessario con qualche elargizione in denaro, che furono criticati a suo tempo persino da chi oggi sta facendo la stessa cosa.

L'argomento non piacerà ai pacifisti, ma il contingente italiano avrà conquistato quando tornerà a casa - soprattutto con il sacrificio di coloro che sono morti per l'Afghanistan - un bene per noi particolarmente prezioso: il rispetto degli alleati. Dovremmo forse, in questa situazione, anticipare il rientro? Se fossimo in Afghanistan per vincere la guerra, sì. Ma noi, come tutti gli europei, ci siamo oggi per obbligo di lealtà verso un alleato, Barack Obama, che fa del suo meglio per uscire da una situazione di cui non è personalmente responsabile. La Nato andrebbe interamente ripensata e riscritta, ma è oggi in Afghanistan il simbolo e il test della solidarietà atlantica. Le Alleanze non possono essere rispettate soltanto quando splende il sole. Vengono messe alla prova soprattutto quando il cielo si riempie di nuvole.

Sergio Romano

10 ottobre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_ottobre_10/romano_36d4a402-d43e-11df-8222-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #81 inserito:: Novembre 12, 2010, 03:30:56 pm »


UN TENTATIVO PER LA LEGGE ELETTORALE

Batta un colpo (se ci riesce)


Il presidente del Consiglio sembra imitare un suo antico predecessore, Agostino Depretis, che era convinto di avere una ricetta infallibile per le crisi (nel suo caso soprattutto quelle internazionali). Le considerava temporali, fenomeni naturali contro i quali l’unico rimedio possibile è quello di aprire l’ombrello e aspettare che passino.

Ma questa crisi non accenna a passare e il governo, se vuole sopravvivere, dovrebbe evitare di subire le iniziative altrui. Gli converrebbe anticipare le mosse degli altri, aprire un nuovo tavolo da gioco e gettare una carta che nessuno possa ignorare. Questa carta è la riforma della legge elettorale. Dovrebbe proporla nel suo interesse e in quello del Paese.

Molte leggi elettorali sono fatte da gruppi e partiti che cercano di risolvere un problema nazionale favorendo anzitutto se stessi. Quella concepita dal ministro Calderoli voleva cogliere, nelle intenzioni dei promotori, un doppio obiettivo: creare una coalizione vincente, destinata a governare per l’intera legislatura, e assicurarne la stabilità dimostrando a tutti i suoi membri che avevano un evidente interesse a non rompere il contratto stipulato prima delle elezioni. Il cemento della coalizione, vale a dire l’interesse comune dei suoi membri, è il premio di maggioranza: un frutto che si conquista con l’unità e da cui tutti, purché insieme, traggono vantaggio. Se la legge avesse funzionato, anche i suoi maggiori critici avrebbero finito per riconoscerne realisticamente l’efficacia. Ma non ha funzionato.

Nel 2006 Prodi ha vinto per un soffio e la modestia del successo avrebbe dovuto convincere i suoi alleati a fare quadrato. È accaduto esattamente il contrario. Nel 2008 Berlusconi ha ottenuto risultati incomparabilmente migliori, ma la coalizione si è incrinata nel momento in cui lo stile del premier ha offerto un’occasione alle ambizioni di Fini. Per due volte consecutive, quindi, la legge elettorale non ha risposto alle attese di coloro che l’avevano ideata. Vale la pena, a questo punto, di conservare una legge che non piace a buona parte della pubblica opinione, costringe gli elettori a votare una lista bloccata e, per di più, fallisce lo scopo? Quanti altri esperimenti dovremmo fare prima di capire che occorre cambiarla?

È questo il momento in cui il gioco, anche se i margini per un accordo sembrano ormai inesorabilmente ridotti, torna nelle mani del presidente del Consiglio. Non può pretendere di imporre al Parlamento, soprattutto ora, una legge confezionata dalla maggioranza. Ma può dichiararsi pronto alla riforma e proporre i modi per farla (Giovanni Sartori, sul Corriere di domenica scorsa, ha già affrontato il tema e avanzato una sua ipotesi). Il premier, se vuole un esempio, può guardare dalle parti della Gran Bretagna dove David Cameron ha avuto il coraggio di mettere all’ordine del giorno il cambiamento di una delle più vecchie e rispettate leggi elettorali.

A me sembra che un buon metodo potrebbe essere la creazione di una commissione bicamerale composta dai rappresentanti delle forze politiche ma integrata da «laici» che possano fornire il risultato dei loro studi e delle loro esperienze. La commissione dovrebbe essere snella e concludere i suoi lavori entro termini ragionevolmente brevi. Il risultato potrebbe essere meno partigiano, più credibile, più gradito al Paese. E avrebbe il vantaggio di dare un senso alla continuazione di una legislatura che rischia altrimenti di fallire in malo modo e di lasciare il Paese, per qualche mese, senza un governo degno di questo nome.

Sergio Romano

12 novembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_novembre_12/romano-batta-un-colpo-editoriale_349bb74e-ee23-11df-8dee-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #82 inserito:: Dicembre 05, 2010, 11:39:40 am »

L'amico (?) americano


Il problema all’ordine del giorno della politica italiana può essere riassunto oggi in due domande. Sino a che punto le rivelazioni di Wikileaks incidono sui rapporti internazionali dell’Italia e in particolare su quelli con gli Stati Uniti? Possiamo essere rappresentati nel mondo da un leader politico che la diplomazia americana ha descritto nei termini ormai noti a tutta la società internazionale? Non è facile distinguere la politica interna dalla politica estera, separare i nostri conflitti domestici, con le loro inevitabili esagerazioni polemiche, dal problema delle nostre relazioni esterne. Ma dobbiamo cercare di farlo. I nostri rapporti con gli Stati Uniti prescindono, entro certi limiti, dalla personalità e dallo stile dell’uomo che governa l’Italia. Dipendono anzitutto dagli interessi dei due Paesi e, per quanto riguarda l’America, dal modo in cui vengono concretamente affrontati e risolti i problemi che maggiormente la preoccupano. Nelle sue due incarnazioni dell’ultimo decennio, Berlusconi è stato per alcuni aspetti—Afghanistan, Iran, questione palestinese, basi militari americane in Italia, le relazioni della Turchia con l’Unione Europea — più «americano» del governo di Romano Prodi. Le sue scorribande in Russia e in Libia non sono piaciute a Washington, ma il fatto che l’Italia rivendicasse il diritto di avere con questi Paesi un rapporto non sempre conforme ai desideri degli Stati Uniti, ha reso paradossalmente più alto il prezzo dell’Italia alla Casa Bianca e tanto più apprezzabile, di conseguenza, la lealtà di Berlusconi in altri settori strategici. Gli Stati Uniti sanno realisticamente di non potere chiedere ai loro alleati una fedeltà totale e non dimenticano che l’Italia ha sempre fatto con Mosca e con Tripoli una politica diversa da quella che Washington giudicava preferibile. Ciò che maggiormente contava per gli Stati Uniti, ripeto, era la certezza di potere fare affidamento sull’Italia ogniqualvolta erano in discussione i loro interessi fondamentali. L’omaggio di Hillary Clinton a Berlusconi in Kazakistan è quindi perfettamente comprensibile. Il segretario di Stato non ha detto ciò che l’America pensa in realtà di Berlusconi. Ha detto più semplicemente che il leader politico italiano, sino a quando sarà presidente del Consiglio, continuerà a essere il partner di Washington. Ma esiste anche un altro aspetto della questione. La politica estera di una nazione non si esaurisce nella somma dei suoi concreti rapporti internazionali in un particolare momento. La sua credibilità nel mondo dipende dal suo stile, dalla sua serietà, dalla coerenza e dalla legittimità con cui persegue i suoi scopi. Non basta. Dipende anche e soprattutto dalla immagine del suo leader, dalla sua capacità di tenere distinti interessi pubblici e interessi privati, dall’impossibilità di fargli le domande che Massimo Mucchetti ha formulato ieri su queste colonne a proposito dei rapporti dell’Eni con la Russia. Berlusconi ha coltivato i suoi rapporti personali con i maggiori leader mondiali e ci ha spesso spiegato che la qualità di questi rapporti avrebbe giovato allo status internazionale del Paese. Temo l’effetto boomerang, vale a dire la possibilità che questa scelta si ritorca contro di lui e, in ultima analisi, contro tutti noi.

Sergio Romano

04 dicembre 2010(ultima modifica: 05 dicembre 2010)© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_dicembre_04/romano_amico_americano_081251a6-ff6c-11df-8466-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #83 inserito:: Dicembre 20, 2010, 02:21:07 pm »


DOPO LA FIDUCIA

Berlusconi, il peso della vittoria

Dovrà rinunciare ai lodi personali e alle polemiche nei confronti della magistratura


Berlusconi ha certamente vinto. Sarebbe assurdo negarlo e inutile disquisire con acrimonia, in questo momento, sul modo in cui ha sconfitto i suoi avversari. Ma la portata della vittoria e le sue conseguenze dovrebbero suggerire al vincitore qualche riflessione.
Alla vigilia del voto le posizioni dei due gruppi, all'interno del centrodestra, si erano considerevolmente avvicinate. Nessuno aveva rinunciato ai suoi argomenti polemici, ma tutti sembravano d'accordo sull'opportunità che Berlusconi continuasse a governare il Paese e sulla necessità di un governo diverso, per la sua composizione e il suo programma, da quello attuale.

Il contrasto era sul modo in cui affrontare la seconda metà della legislatura. L'opposizione voleva che Berlusconi si dimettesse e il presidente del Consiglio rifiutava di piegarsi a tale richiesta. Il problema non era formale o procedurale. Le dimissioni, se Berlusconi fosse stato costretto a presentarle, avrebbero permesso a Fini e a Casini di affrontare i negoziati per la formazione del nuovo governo da posizioni di forza. Il presidente del Consiglio si è impuntato, ha scatenato una sorta di controffensiva e ha segnato il punto. La vittoria non è travolgente, ma la sconfitta dei suoi avversari è indiscutibile. Fini, in particolare, dovrà chiedersi se la sua presenza al vertice della Camera non abbia contribuito a rendere la sua azione meno credibile e convincente.

Ma il punto cruciale, quello che veramente interessa il Paese, è l'uso che Berlusconi intende fare della sua vittoria. Credo che il presidente del Consiglio abbia di fronte a sé due strade. Può compiacersi del successo, infierire sugli sconfitti, lasciare le cose come stanno e dichiarare che governerà sino alla fine della legislatura. I tre voti di maggioranza non gli permetteranno di evitare gli innumerevoli trabocchetti che gli si apriranno sotto i piedi alla Camera e nelle commissioni, in gran parte delle quali la maggioranza non c'è. Ma gli forniranno l'occasione per sostenere che l'impotenza del governo è colpa delle opposizioni e di recitare di fronte agli elettori, se e quando riuscirà a ottenere lo scioglimento delle Camere, la parte del leader vilmente tradito. Il Paese, se Berlusconi adottasse questa linea, sarebbe condannato a un supplemento dell'indecoroso spettacolo a cui abbiamo assistito in questi ultimi mesi: polemiche, litigi, sberleffi goliardici e una generale disattenzione per i problemi economici e finanziari che il Paese sta attraversando. Se vi saranno nuove elezioni in un tale clima, poco importa chi vince e chi perde. L'Italia ne uscirà certamente perdente.

La seconda strada è la ricomposizione della maggioranza su basi nuove. Oggi la prospettiva può sembrare improbabile, ma diverrà praticabile soltanto se Berlusconi saprà rinunciare ai lodi personali, alle polemiche contro la magistratura (quanto più attacca i magistrati tanto più allontana nel tempo la possibilità di una riforma), agli aspetti più discutibili della sua diplomazia personale. Non basta. Sul piatto dell'intesa dovrà esserci una nuova legge elettorale. Un realista come Berlusconi non può ignorare che quella con cui siamo andati alle urne ha prodotto risultati catastrofici, sia sul piano politico, sia su quello morale. Gli italiani sono stanchi di mandare in Parlamento gli «eletti» dei partiti e vogliono il diritto di scegliere.
Berlusconi ha vinto. Ma ogni vittoria può essere guastata dalle decisioni sbagliate del giorno dopo. Tocca a lui ora trasformare una vittoria personale in una vittoria del Paese.

Sergio Romano

15 dicembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_dicembre_15/berlusconi-il-peso-della-vittoria-editoriale-sergio-romano_5c8f6598-0813-11e0-b759-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #84 inserito:: Dicembre 31, 2010, 12:52:55 pm »


MARCHIONNE PERSONAGGIO DELL’ANNO

L’italiano scomodo


Nel discorso che Sergio Marchionne ha pronunciato a Pernambuco per l’inaugurazione del nuovo stabilimento della Fiat in Brasile, la parola Italia non esiste. L’amministratore delegato di Fiat-Chrysler ha ricordato l’antica presenza dell’azienda torinese nel Paese, ma non ha neppure accennato al tema—l’emigrazione italiana — che apparteneva in passato al bagaglio oratorio di qualsiasi imprenditore italiano nel continente latino-americano. Qualche critico di Marchionne sosterrà che l’omissione non è casuale, ricorderà le sue tre appartenenze nazionali (italiana, canadese, svizzera) e ne concluderà che l’amministratore delegato dell’azienda torinese è un corpo estraneo, un mercenario del capitalismo al soldo degli americani e un «cosmopolita », parola che nel linguaggio della sinistra è sempre stata sinonimo di sradicamento sociale, egoismo di classe, indifferenza ai valori della solidarietà. Qualcuno infine dirà che è un «anti-italiano».

Non conosco i sentimenti di Marchionne. Non so quale dei suoi passaporti abbia per lui maggiore importanza e se il ricordo dell’Abruzzo perduto (è nato a Chieti) sia più vivo e struggente dei suoi ricordi canadesi. Mi limito a osservare che una definizione più precisa potrebbe essere quella di «contro-italiano» o italiano controcorrente, nel senso che la parola ha avuto nella bella rubrica giornalistica di Indro Montanelli. Non è il solo. Appartiene a un gruppo di italiani che, ciascuno nel proprio settore e con le proprie caratteristiche, hanno avuto il merito di non lasciarsi imprigionare in quel complicato intreccio di compromessi, patti di reciproca convenienza, luoghi comuni, «correttezza» politica e sindacale che formano il retaggio di un’Italia bizantina, arcadica, conformista e contro-riformista.
Per restare nell’ambito del secondo dopoguerra penso, per fare soltanto qualche esempio, a Ugo La Malfa, Guido Carli, Cesare Merzagora, Mario Monti e, nel campo dell’informazione, a Montanelli, Leo Longanesi, Mario Pannunzio. Possono commettere errori e proporre soluzioni sbagliate o poco realistiche, ma sono coraggiosi, irriguardosi, spregiudicati, e riescono a rimettere in discussione problemi di cui si parla soprattutto per non decidere e non cambiare. Ne abbiamo avuto la dimostrazione in questi mesi quando la politica aziendale di Marchionne ha forzato la mano di Confindustria, diviso il quadro politico e sindacale, spiazzato lo stesso governo e infine riaperto il dibattito sulla rappresentanza dei lavoratori nelle aziende.

Abbiamo una legislazione sul lavoro che scoraggia gli investimenti stranieri e che, come Pietro Ichino ha ricordato ieri sul Corriere, non può neppure essere tradotta in inglese, tanto è complicata e involuta. Abbiamo norme costituzionali invecchiate o, peggio, non applicate. Abbiamo minoranze sindacali che sviliscono i diritti delle maggioranze. Se il quadro si è finalmente mosso e qualche sindacato si prepara a rivedere l’intera materia con nuove proposte, il merito è in buona parte di Marchionne. Come ho scritto su questo giornale dopo il suo discorso di Rimini, so che le sue posizioni sono dettate dall’esigenza di non deludere gli azionisti americani di Chrysler e il governo degli Stati Uniti. Ma credo che gli vada riconosciuto il merito di avere scritto la nuova agenda sindacale italiana.

E questo lo rende più italiano, ai miei occhi, di quelli che avrebbero preferito lasciarla com’era.

Sergio Romano

31 dicembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_dicembre_31/romano-italiano-scomodo-editoriale_f1d41e4c-14b5-11e0-8d15-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #85 inserito:: Gennaio 19, 2011, 06:47:49 pm »

Concorrenti ma non troppo


Nei loro incontri di Washington il presidente cinese e il presidente americano parleranno soprattutto di problemi spinosi e questioni controverse: il valore delle loro rispettive monete, lo stato dei loro rispettivi arsenali militari, Taiwan, la Corea del Nord, i rapporti della Cina con il Giappone, forse il Tibet. Molti lettori, leggendo il resoconto dei colloqui, penseranno che la Cina sia diventata troppo ingombrante per i gusti degli Stati Uniti e che i due Paesi siano destinati a scontrarsi prima o dopo sul piano economico, se non addirittura su quello politico e militare. È possibile, ma sarebbe giusto ricordare che i rapporti degli Stati Uniti con la Cina non sono mai stati simili a quelli che altre potenze (Gran Bretagna, Russia, Francia, Giappone, Germania e in piccola misura l’Italia) hanno avuto con l’Impero di Mezzo durante la lunga fase del suo declino. Nel 1900 l’America mandò un corpo di marines a Pechino per soffocare, insieme a forze europee e giapponesi, la rivolta dei Boxer, ma non partecipò allo smembramento dello Stato e all’umiliazione dell’Impero. Dopo la rivoluzione del 1911 e la creazione della Repubblica cinese, la potenza che maggiormente contribuì, con un generoso programma di borse di studio, alla formazione di una nuova classe dirigente, fu l’America. Più tardi, dopo l’apparizione dei comunisti sulla scena politica, l’uomo che meglio raccontò le loro battaglie fu un intellettuale americano, Edgar Snow, autore di un libro (Red Star over China) che fu per la Lunga marcia di Mao ciò che l’Anabasi di Senofonte era stata per i soldati greci in rotta verso il Mar Nero. Gli americani non furono meno generosi sul piano politico.

A Yalta, nel febbraio del 1945, allorché spiegò a Churchill e a Stalin l’architettura delle Nazioni Unite, Franklin Delano Roosevelt volle che nel Consiglio di sicurezza la Cina avesse diritto a un seggio permanente. Dopo la Seconda guerra mondiale, quando i comunisti di Mao e i nazionalisti di Chiang Kai-shek ricominciarono a combattersi per il controllo del Paese, gli Stati Uniti mantennero i contatti con le due parti nella speranza di una sorta di riconciliazione nazionale. Scelsero la Cina nazionalista di Taiwan e il Kuomintang (il partito di Chiang) soltanto quando la Repubblica popolare, proclamata nel 1949, divenne l’alleata di Stalin e soprattutto dopo la guerra di Corea, quando un milione di «volontari» cinesi sostenne il Nord contro il Sud. Ma non appena il generale MacArthur dichiarò che il miglior modo di vincere la guerra era quello di usare contro le retrovie cinesi l’arma nucleare, il presidente Harry Truman si oppose e non esitò a congedare bruscamente, di lì a poco, l’uomo che pochi anni prima aveva messo in ginocchio il Giappone. La guerra di Corea, la Guerra fredda e la guerra del Vietnam ebbero l’effetto di congelare i rapporti fra i due Paesi. A Washington, sino alla fine degli anni Sessanta, prevalse la convinzione che la Cina fosse un irriducibile nemico, non meno pericoloso dell’Unione Sovietica. Occorreva quindi contenerlo e rintuzzarne l’influenza in Asia con uno sbarramento di amicizie e alleanze simile a quello della Nato. Ma dopo l’elezione di Richard Nixon alla Casa Bianca, qualcuno cominciò a rendersi conto che la situazione, in realtà, era alquanto diversa. In primo luogo la Cina non era più, da molto tempo, la fedele alleata dell’Unione Sovietica in Asia.

Gli incidenti di frontiera (qualche migliaio) e i cruenti scontri fra cinesi e sovietici sul fiume Ussuri, agli inizi del 1969, dovettero aprire gli occhi di molti funzionari del Dipartimento di Stato e della Casa Bianca. In secondo luogo qualcuno si accorse che la Cina non era amica del Vietnam e non aveva alcuna intenzione di assecondare la crescita di uno Stato legato a Mosca molto più di quanto non fosse legato a Pechino. E Henry Kissinger, consigliere di Nixon per la sicurezza nazionale, capì che lo stabilimento dei rapporti con la Cina avrebbe avuto due effetti: quello di rompere definitivamente l’asse fra le due maggiori potenze comuniste del mondo e di permettere agli Stati Uniti di uscire più o meno decorosamente dalla trappola vietnamita, un conflitto che non potevano vincere e che stava mettendo a dura prova l’unità della società americana. I colloqui segreti di Kissinger con i dirigenti cinesi, una sorprendente partita di ping-pong fra squadre degli Stati Uniti e della Cina popolare, e il trionfale viaggio a Pechino del presidente Nixon dal 21 al 28 febbraio del 1972, cambiarono la storia del mondo non soltanto in Asia. E la Cina occupò finalmente all’Onu il posto che le era stato prenotato più di vent’anni prima dal presidente Roosevelt. Chi scrive ebbe occasione di trattare frequentemente con i cinesi a Parigi, in quegli anni, la ripresa dei rapporti diplomatici con l’Italia e ricorda come i suoi interlocutori dell’ambasciata di Cina avessero cominciato a parlare degli Stati Uniti, molto prima della visita di Nixon, in termini alquanto diversi da quelli del passato. Dinanzi a una delegazione italiana che non credeva alle proprie orecchie, l’ambasciatore della Repubblica popolare (un generale della Lunga marcia) disse un giorno seraficamente che l’America, in Cina, non era mai stata una potenza colonialista. Il primo importante rappresentante diplomatico degli Stati Uniti a Pechino fu George Bush sr, già presidente del Partito repubblicano e futuro direttore della Cia. Bush rimase a Pechino soltanto quattordici mesi, fra il 1973 e il 1974, ma il suo passaggio nella capitale cinese creò un clima di reciproca comprensione che avrebbe dato i suoi risultati nell’estate del 1989 quando l’uomo politico americano, dopo essere stato il vicepresidente di Ronald Reagan, lo aveva sostituito alla Casa Bianca. I moti studenteschi, esplosi durante la visita di Gorbaciov in maggio e repressi nel sangue in piazza Tienanmen dopo la partenza del leader sovietico, erano stati accolti in Occidente con un misto di sorpresa, indignazione e molti interrogativi senza risposta sulla piega degli eventi. Il solo uomo di Stato che non ebbe dubbi sulla linea da adottare fu per l’appunto Bush. Limitò le deplorazioni allo stretto necessario, moderò i toni della protesta e dette subito l’impressione di pensare che la dirigenza cinese aveva represso le manifestazioni per meglio proseguire sulla strada della modernizzazione autoritaria intrapresa da Deng Xiaoping alla fine degli anni Settanta.

Fu chiaro allora che gli Stati Uniti non avevano alcuna intenzione di sacrificare i loro rapporti con la Cina sull’altare dei diritti umani. È difficile negare che quell’atteggiamento saggiamente conservatore abbia risparmiato all’Asia e al mondo un’altra Guerra fredda, non meno paralizzante di quella che sarebbe finita pochi mesi dopo sul Muro di Berlino e nelle piazze dei Paesi comunisti dell’Europa centro orientale. Vi sono state da allora altre crisi sino americane. Il missile americano sull’ambasciata cinese di Belgrado durante la guerra del Kosovo, nel maggio 1999, provocò furiose manifestazioni nazionaliste nelle strade di molte città cinesi. L’atterraggio forzato di un aereo spia americano, imbottito di strumentazioni elettroniche, sull’isola cinese di Hainan nell’aprile 2001 (il presidente a Washington era George W. Bush) provocò rabbiose reazioni americane. Le accoglienze del Dalai Lama a Washington, come quelle dell’ottobre del 2009, suscitano i rabbiosi risentimenti di Pechino. Le delocalizzazioni di industrie americane in Cina e il vertiginoso aumento delle esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti hanno creato a Washington una lobby protezionista che pretende la rivalutazione del renminbi e l’adozione di sanzioni economiche. La vendita di armi americane a Taiwan viene percepita in Cina come una deliberata minaccia alla sicurezza nazionale. Non basta. Esiste una corrente neo conservatrice americana per cui la Cina è il nemico di domani: meglio quindi cogliere al volo la prima occasione e tagliarle le gambe prima che cominci a correre troppo velocemente. Ma dopo ogni crisi è arrivato sempre il momento in cui i due Paesi hanno rimesso nei cassetti le dichiarazioni bellicose e appeso di nuovo sulle loro porte il cartello del business as usual, al lavoro come sempre. Pura e semplice convenienza? Certo, il grande debitore (l’America) e il grande creditore (la Cina) sono uniti l’uno all’altro come gemelli siamesi e sanno di dovere scegliere fra vivere insieme o morire insieme. Ma esistono altri fattori non meno importanti. Quello che maggiormente colpisce nelle relazioni fra i due Paesi è il volume dei rapporti culturali e accademici. Migliaia di borsisti cinesi hanno studiato nelle università americane e migliaia di giovani americani hanno deciso di imparare il cinese. Non vi è soltanto competizione fra i due Paesi. Vi è anche reciproca ammirazione e, da una parte e dall’altra, un po’ d’invidia.

Sergio Romano

19 gennaio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/11_gennaio_19/romano_concorrenti_non_troppo_1596eb24-2394-11e0-a3c4-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #86 inserito:: Gennaio 23, 2011, 05:19:49 pm »

PREMIER, GOVERNO E INDAGINI

Ma il paese viene prima

S ilvio Berlusconi si difende con le unghie e con i denti: ne ha il diritto. Denuncia gli attentati della Procura di Milano alla sua vita privata. Rifiuta di lasciarsi interrogare dai magistrati inquirenti: commette un errore, a mio avviso, ma può farlo se la legge glielo consente. Sarebbe ingiusto negargli tutti i possibili strumenti che la giustizia italiana offre a una persona indagata o imputata.
Ma Berlusconi non è un cittadino qualunque. E' il presidente del Consiglio, è alla testa di un governo che ha di fronte a sé un'agenda fitta d'impegni nazionali e internazionali: federalismo, riforma fiscale, rilancio dell'economia, missione militare italiana in Afghanistan, crisi del Maghreb, creazione delle istituzioni europee a cui spetterà il compito di proteggere e rafforzare l'euro. Se facesse il premier e dedicasse le sue giornate alle questioni che maggiormente interessano il Paese, Berlusconi darebbe ai suoi accusatori la più dignitosa e la più efficace delle risposte possibili. E costringerebbe l'opposizione a dire con chiarezza se, e perché, le proposte del governo le appaiano sbagliate o insufficienti.

Berlusconi, tuttavia, ha adottato sinora una linea diversa. Ha deciso di scavalcare i magistrati, di anticiparne le mosse e di celebrare un processo in cui l'accusato diventa accusatore, gli inquirenti sono nella gabbia degli imputati, l'intero popolo italiano è chiamato a sedere sui banchi della giuria e tutti i problemi della nazione cedono il passo a un solo problema: la sorte del presidente del Consiglio. Come era inevitabile questa linea suscita nell'opposizione, in una parte della stampa, in una parte crescente della pubblica opinione e naturalmente nella magistratura, una reazione eguale e contraria.

Se il premier accusa, gli altri contrattaccano con toni sempre più esasperati e con un evidente compiacimento. Non basta. Se è questa ormai la sola grande questione nazionale, il presidente della Repubblica è costretto a intervenire, il Papa e il suo segretario di Stato sentono l'obbligo morale di non tacere, la stampa nazionale non può occuparsi d'altro e l'informazione internazionale non può parlare dell'Italia se non descrivendo ai suoi lettori le fasi alterne del combattimento. Il caso Berlusconi sta producendo conflitti istituzionali che rischiano di modificare i rapporti tra governo, capo dello Stato, presidenti delle Camere e Corte costituzionale. Un presidente del Consiglio così apparentemente sensibile alla reputazione dell'Italia nel mondo sembra ignaro del fatto che questo spettacolo sta intaccando l'immagine del Paese e finirà per avere una influenza nefasta sul giudizio dei mercati.

Ho scritto che Berlusconi vorrebbe trasformare l'Italia in una grande giuria popolare. Ma i giurati sono in realtà ostaggi di un dramma che non ha nulla a che vedere con i loro problemi di ogni giorno e che appassiona soltanto le fazioni militanti della società politica. Berlusconi può ancora interrompere questo circolo vizioso. Deve lasciare ai suoi numerosi avvocati il compito di difenderlo e tornare a Palazzo Chigi per occuparsi di ciò che veramente interessa il Paese. Vuole davvero dimostrare che la sua vita personale è soltanto un affare privato? Lo dimostri facendo a tempo pieno il suo mestiere di uomo pubblico.

Sergio Romano

23 gennaio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/11_gennaio_23/ma-il-paese-viene-prima-editoriale-sergio-romano_90698bd2-26c7-11e0-bedd-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #87 inserito:: Gennaio 29, 2011, 11:28:10 am »

IL RUOLO DEL PRESIDENTE DELLA CAMERA

L'immagine delle Istituzioni

In un video dello scorso settembre il presidente della Camera disse che se la casa di Montecarlo, venduta dal suo partito, fosse risultata appartenere al fratello della sua compagna, non avrebbe esitato a dimettersi. Qualcuno sostiene che quella circostanza si è verificata e che Gianfranco Fini deve rinunciare al suo incarico. Altri, fra cui l'interessato, ribattono che lo farà soltanto se il fatto sarà confermato dalla magistratura italiana. Corriamo il rischio di impelagarci in una situazione in cui le sorti di una delle maggiori cariche istituzionali italiane dipendono da fattori estranei alle esigenze della vita politica nazionale: le carte provenienti da una minuscola isola dei Caraibi, non universalmente nota per la sua impeccabile reputazione amministrativa, o il calendario giudiziario di Procure che dovranno inquisire, interrogare, nominare esperti e chiedere rogatorie internazionali. Non è il modo migliore per affrontare la questione.

Fini ha formulato idee e programmi che hanno suscitato interesse e consensi in una parte del Parlamento e del Paese, ha creato un partito ed è passato all'opposizione. Quando i suoi vecchi compagni del Pdl hanno sostenuto che il nuovo ruolo è incompatibile con le sue funzioni istituzionali, Fini ha risposto che sarebbe stato capace di essere contemporaneamente leader politico e scrupoloso presidente della Camera. Ho avuto qualche dubbio e ho pensato che certi sdoppiamenti sono da evitare. Ma i regolamenti parlamentari non permettevano di obbligarlo alle dimissioni e la prova di una promessa dipende, dopo tutto, dal modo in cui è mantenuta.

Da allora il rebus italiano, come lo chiamava Cecilia Kin, una intellettuale russa innamorata dell'Italia, è diventato ancora più imbrogliato. Il premier è inquisito per uno scandalo che ha fatto il giro del mondo, ma resta al suo posto ed è sostenuto da una coalizione che è ancora maggioranza. La lunga marcia verso il federalismo si scontra con difficoltà che potrebbero provocare la fine della legislatura. L'ombra delle elezioni anticipate incombe sul quadro politico e chiama in causa il ruolo decisivo del capo dello Stato. La Corte costituzionale è stata costretta a decidere se e quando il presidente debba andare in tribunale per difendersi. Tutte le maggiori istituzioni sono costrette a uscire dai loro binari per affrontare ostacoli imprevisti. Mai come ora l'Italia ha avuto bisogno di persone che non siano protagoniste di un duro scontro politico e reggano con forza il timone delle regole e delle procedure. Queste persone sono soprattutto il presidente della Repubblica e i presidenti delle Camere: un terzetto che deve poter richiamare i contendenti alle regole del gioco. Fini dovrebbe chiedersi se le circostanze gli consentano di esercitare questa funzione nel miglior modo possibile. Non metto in discussione le sue capacità e le sue intenzioni, ma osservo che ogni sua decisione istituzionale, nelle prossime settimane, potrebbe diventare ragione o pretesto di sospetti e accuse.

Il calendario dei lavori, la durata dei dibattiti, il diritto di parola di un deputato, persino i tempi di una interrogazione: tutto ciò che rappresenta il lavoro quotidiano di un presidente della Camera potrebbe trasformarsi in materia di contestazione e complicare ulteriormente la situazione politica. Il problema non è la proprietà della casa di Montecarlo. Il vero problema è se la casa Italia, in queste condizioni, possa essere decorosamente amministrata nell'interesse di coloro che la abitano.

Sergio Romano

28 gennaio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #88 inserito:: Febbraio 13, 2011, 02:50:20 pm »


LE ISTITUZIONI VENGONO PRIMA

Un momento di riflessione


Voglio provare a mettermi, per qualche minuto, nei panni di Silvio Berlusconi. Si ritiene vittima di una congiura giudiziaria. È convinto che le accuse contro la sua persona siano altrettante tappe di un percorso diretto a eliminare il presidente del Consiglio e il suo partito. Ha deciso di trasformare la sua difesa in una controffensiva politica. È una tattica a cui è ricorso più volte in questi anni, mai tuttavia come in una vicenda che coinvolge non tanto i suoi affari quanto la sua vita privata.

In questa prospettiva, Berlusconi si ritiene autorizzato a difendere se stesso in qualsiasi sede privata o pubblica, con video lanciati sul web, interventi telefonici durante i dibattiti televisivi e nelle conferenze stampa di Palazzo Chigi come è accaduto l'altro ieri in quella dedicata al programma del governo per il rilancio dell'economia nazionale. Rintuzzare l'aggressione di cui si ritiene vittima è ormai la parte più visibile della sua agenda politica.

Mi chiedo se si renda conto degli effetti che questa linea aggressiva e difensiva sta avendo per il Paese. In primo luogo pregiudica la credibilità delle sue riforme. Il decreto sulle intercettazioni (ieri momentaneamente rinviato), la legge annunciata in conferenza stampa sulle responsabilità dei giudici e la riforma dell'ordine giudiziario diventano agli occhi di tutti (anche di coloro che le ritengono utili per il Paese), soltanto forme di autodifesa e quindi viziate da un difetto di origine che le rende, nel migliore dei casi, sospette.

In secondo luogo Berlusconi sembra ricercare deliberatamente lo scontro, alternato a qualche occasionale schiarita, con tutte le maggiori istituzioni del Paese, dalla presidenza della Repubblica alla Corte costituzionale. Ha capito che siamo sull'orlo di un conflitto civile fra istituzioni, corpi e ordini dello Stato? Si è chiesto quali possano essere gli effetti di questa strategia per tutti coloro che sono chiamati ad assicurare imparzialmente il buon funzionamento della cosa pubblica? In terzo luogo la strategia di Berlusconi sta contagiando l'intera società nazionale, spaccata ormai tra due fazioni contrapposte: i berlusconiani e gli antiberlusconiani. Nessuna questione, ormai, può essere affrontata nel merito, senza che gli uni e gli altri si chiedano quali effetti avrà sulla sorte di Berlusconi.

L'Italia non può permettere che questo stato di cose continui ulteriormente. Siamo il giullare d'Europa, il miglior fornitore di indagini frivole, vignette satiriche, storie salaci e licenziose a tutta la stampa occidentale. Se questo Paese gli sta a cuore, Berlusconi dovrebbe almeno distinguere il suo ruolo pubblico dalla sua condizione di potenziale imputato. Si difenda nei luoghi in cui ha il diritto di farlo anche con argomenti, sull'uso sproporzionato delle intercettazioni, sulla difesa della privacy dei cittadini e sui rapporti dello Stato con la magistratura, che molti troverebbero convincenti. Ma non nei dibattiti politici, nelle conferenze stampa e soprattutto durante i viaggi all'estero. Ha fondato un partito che si chiamava Forza Italia. Cerchi di evitare che passi alla storia come il partito che ha reso il Paese rissoso all'interno e risibile agli occhi del mondo proprio nel momento in cui abbiamo maggiore bisogno di credito internazionale e di fiducia in noi stessi.

Sergio Romano

11 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali
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« Risposta #89 inserito:: Febbraio 16, 2011, 04:49:25 pm »


TUTELARE L'ATTIVITA' DI GOVERNO

Accettare il giudizio

Credo che Berlusconi, dopo la decisione del giudice per le indagini preliminari, debba calcolare attentamente i possibili effetti delle sue parole e iniziative. Può criticare alcuni magistrati, ma non può attaccare la magistratura. Può persino spingersi sino a denunciare l'esistenza di un disegno malevolo nei suoi confronti, ma non può rifiutare procedure che appartengono ai compiti e alle funzioni dell'ordine giudiziario. Non potrebbe farlo un cittadino senza assumere implicitamente un atteggiamento eversivo. Non può farlo, a maggiore ragione, un presidente del Consiglio perché il suo atteggiamento verrebbe percepito come un atto di guerra e l'inizio di un insanabile conflitto istituzionale. In tribunale i suoi avvocati possono sollevare eccezioni (compresa quella dell'incompetenza della sede di Milano) e servirsi di tutti gli strumenti che la giustizia garantisce a un cittadino. Ma l'imputato, quando è capo dell'esecutivo, non può rifiutare il giudizio senza esprimere contemporaneamente un voto di sfiducia contro l'intera magistratura e autorizzare obbiettivamente i suoi connazionali a comportarsi nello stesso modo.

È possibile d'altro canto che l'accettazione del giudizio gli assicuri qualche punto di vantaggio. Darà una prova di coraggio. Avrà l'occasione di fare valere le sue ragioni. Eviterà di offrire ai suoi critici argomenti polemici a cui non sarebbe facile replicare. Forse farà persino nascere qualche dubbio nella mente di coloro che già lo considerano colpevole. Non è necessario essere berlusconiano o elettore del Pdl per assistere con disagio a certe iniziative della magistratura inquirente. A nessun italiano può piacere che il presidente del Consiglio si serva della sua autorità per scavalcare tutti i passaggi intermedi e mettere in imbarazzo un funzionario di questura con richieste telefoniche a cui è difficile per un sottoposto non aderire. Ma questa è anzitutto una colpa politica e per di più una delle più diffuse e frequenti in un sistema in cui non sono molti gli uomini pubblici che si astengono dall'approfittare della propria posizione. Si è detto frequentemente, negli scorsi giorni, che anche la magistratura degli Stati Uniti si sbarazzò di Al Capone imputandogli un reato minore. Ma l'evasione fiscale non era un reato minore ed è stata sempre perseguita in America con particolare severità; mentre la concussione imputata a Berlusconi è uno dei reati meno perseguiti della politica italiana. Sarebbe giusto cominciare a farlo. Ma oggi, in queste circostanze, dimostrerebbe che in Italia non esiste soltanto un caso Berlusconi. Esiste anche un pericoloso cortocircuito tra politica e magistratura, un nodo che risale alla stagione di Mani pulite e che non siamo ancora riusciti a sciogliere.
Vi è un'altra ragione per cui Berlusconi deve accettare il giudizio. Il presidente del Consiglio ha un interesse che è anche nazionale. Deve evitare che questa legislatura finisca in un'aula di tribunale. Il solo modo per impedire che questo accada è quello di governare accettando, giorno dopo giorno, il confronto con il Parlamento. Se dimostra di avere una maggioranza, nessuno, se non una sentenza definitiva, può impedirgli di restare a Palazzo Chigi. Se la maggioranza non è sufficiente occorre tornare alle urne. In ambedue i casi avremo dimostrato che la politica non si fa nei palazzi di giustizia, ma nei parlamenti e nei seggi elettorali.

Sergio Romano

16 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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