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« inserito:: Aprile 29, 2009, 11:28:59 pm » |
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29/4/2009 Il rapinatore e la badante PAOLO BORGNA* Come i bottoni di una tonaca - in cui, se si sbaglia a infilare la prima asola, ci si trova, al fondo, con un bottone di troppo - la nostra legislazione sull’immigrazione non sa trovare la regola di base che, chiudendo un insieme di diritti e doveri, assicura a tutto il sistema equilibrio, garanzia di sicurezza. Per anni politica, istituzioni e cultura hanno sottovalutato la criminalità connessa all’immigrazione: negandone l’esistenza; trattando come razzisti i cittadini che denunciavano il degrado dei loro quartieri; tollerando zone d’impunità per la delinquenza urbana; dando alla criminalità un’interpretazione sociologica che azzerava il principio di responsabilità; umiliando i più umili: arrivati in Italia in cerca di lavoro e determinati con orgoglio a rispettare le regole della comunità.
Le élites culturali europee hanno pagato un duro prezzo per questa aristocratica sottovalutazione. Negli ultimi anni i media dedicano alla sicurezza grande attenzione; su di essa politici, sugli errori altrui, hanno fondato fortune elettorali. Le leggi prevedono nuovi reati, aggravano le pene, costruendo nuovi vincoli ai giudici. Ma la musica rimane stonata per eccessi di toni opposti a quelli del passato, ma con eguale effetto. Brandendo come una clava la giusta denuncia della criminalità straniera, si afferma una tendenza a colpire non solo le condotte che minano la sicurezza dei cittadini (spaccio di droga, rapine, furti) ma anche semplici situazioni personali sia di stranieri delinquenti sia di onesti in cerca di lavoro. Esemplare è il reato di clandestinità, previsto dal disegno di legge votato dal Senato, ora all’esame della Camera e su cui, dopo la recente ratifica del decreto-legge con le norme più urgenti, presto si tornerà a parlare. Il progetto criminalizza la semplice presenza irregolare sul territorio italiano. Altri Stati europei lo fanno. Ma chi è in grado di citare un altro Stato in cui, come da noi, ancora non si è risposto a molte delle domande presentate nel dicembre 2007 da chi chiede di assumere stranieri pronti a recarsi in Italia?
Conosciamo il calvario di chi vuole assumere, regolarmente, una persona straniera che badi a un anziano. Rispettando la legge, una volta che il periodico «decreto flussi» abbia stabilito la «quota» di ammessi in Italia da un certo Paese, si dovrebbe individuare un lavoratore (che è all’estero e non si conosce); lo si dovrebbe chiamare e attendere che riceva, dal nostro Consolato, il visto d’ingresso. Ma se l’attesa dura anni? È un meccanismo infernale: crea illegalità, spinge quella persona a entrare clandestinamente in Italia, a lavorare in modo onesto ma formalmente irregolare. Se oggi noi mettessimo sullo stesso piano la badante irregolare e lo straniero rapinatore compiremmo un grave errore. Specularmente, pur partendo da presupposti diversi, otterremmo lo stesso risultato della vecchia cultura del perdonismo indiscriminato: trattare in modo eguale il migrante che lavora e il delinquente che emigra. C’è un solo modo per contrastare l’immigrazione irregolare: favorire l’immigrazione regolare con regole precise, procedure snelle. Ogni sistema presenta controindicazioni. Penso alla previsione di permessi d’ingresso temporanei per «ricerca di lavoro», dati dai nostri Consolati, con validità di pochi mesi, scaduti i quali chi non ha trovato impiego deve tornare al Paese d’origine. Un sistema semplice e chiaro, che però caricherebbe i Consolati di un enorme lavoro. Non ci sono ricette facili. Ma la vera scommessa per un legislatore è quella di cercare la regola giusta per i lavoratori migranti: almeno quella meno imperfetta. La si può trovare, con una discussione comune della politica, che sappia ascoltare le conoscenze dei molti (dai nostri ottimi funzionari di polizia agli operatori del volontariato) che con questi problemi da anni si confrontano. È l’unico modo per infilare il primo bottone della fila nella prima asola.
*procuratore aggiunto a Torino da lastampa.it
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