Giorgio NAPOLITANO.

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22/6/2008 (7:8) - RETROSCENA - IL COLLE SORPRESO DALLA SVOLTA DI BERLUSCONI

E ora Napolitano teme di finire come Scalfaro
 
«I governi non attacchino l'Europa come capro espiatorio per mascherare i loro problemi»

PAOLO PASSARINI


LIONE
Spiazzato e visibilmente fuori di sé, Giorgio Napolitano ha evitato con cura ogni contatto con i giornalisti per l’intera durata del suo soggiorno nella capitale del Rodano. Anzi, in stridente contrasto con quello che è il suo comportamento abituale, il Presidente ha reagito con manifesto fastidio a ogni tentativo di strappargli un commento perfino su una materia politicamente abbastanza innocua come il futuro dell’Unione europea. Tanto che quando, alla fine dell’intervento pronunciato in francese di fronte agli Stati Generali d’Europa per incitare i paesi più determinati a procedere da soli sulla strada dell’unificazione politica, gli è stato chiesto se poteva ripetere in italiano il suo «appello» per la radio, ha risposto bruscamente: «Quale appello?» e si è infilato in una saletta protetto dal suo servizio d’ordine. Sapendo come vanno in genere queste cose, voleva essere assolutamente sicuro che perfino una battuta anodina contro i governi che usano l’euroburocrazia come «capro espiatorio» non venisse stravolta e presentata come un intervento sui temi caldi della politica nazionale.

Sperimentato navigatore della politica, Napolitano non escludeva che Berlusconi avesse perso, oltre che il pelo, anche il vizio. Ma certamente non si aspettava che, nel giro di pochi giorni, proprio quando la situazione politica sembrava avviarsi verso una cooperativa normalità, il Cavaliere, prima con gli emendamenti al decreto sulla sicurezza poi con la sparata di Bruxelles, riaprisse in grande stile il conflitto con la magistratura e distruggesse quell’abbozzo di concordia nazionale che si stava finalmente delineando.

Pur essendo ovvio, data la sua storia politica, che il Presidente, alle ultime elezioni, non possa aver fatto il tifo per il centrodestra, tuttavia, da un punto di vista generale, il risultato del voto non gli era del tutto dispiaciuto. Anzi, la netta maggioranza raccolta dalla coalizione guidata da Berlusconi avrebbe almeno garantito stabilità, caratteristica che mancava del tutto nella legislatura precedente, come egli stesso aveva sottolineato più volte a partire dal giorno della sua elezione. La stabilità avrebbe facilitato, oltre che la governabilità, anche quel minimo di accordo necessario con l’opposizione per fare le riforme istituzionali. Il clima sarebbe cambiato e per lui sarebbe stato molto più facile svolgere il suo compito. Il Presidente - questo era il suo schema - si sarebbe messo al riparo del suo ruolo istituzionale, limitandosi a qualche suggerimento, o, quando il caso, a qualche correzione in punta di costituzione e tutto sarebbe filato liscio per cinque anni. E le cose sembravano funzionare proprio in questo senso: l’atteggiamento cooperativo del Pd di Walter Veltroni a cui faceva da contrappunto l’evidente intenzione di Berlusconi di assumere l’immagine di un «senior statesman», di un riverito statista, anche in vista di una sua futura ascesa al Colle, confermavano la giustezza del suo schema.

Ma ieri mattina, a Lione, perfino i più stretti collaboratori di Napolitano, di solito molto controllati, non avevano difficoltà ad ammettere che, questa volta, il Presidente era stato colto di sorpresa. «Così non se l’aspettava proprio».

A parte l’infausto disintegrarsi del più volte invocato «clima di concordia nazionale», le uscite del Cavaliere stavano sicuramente provocando il riaccendersi, in forme forse ancora più violente del passato, di quella guerra tra magistratura e politica, che, oltre che bloccare i ruoli e rendere impossibile ogni seria riforma, rischia di schiacciare l’immagine del presidente in una mediazione impossibile.

Saltato lo schema di una presidenza più istituzionale e meno politica dei primi due anni, Napolitano adesso si chiede cosa fare: mettersi «alla cappa» e aspettare che passi la tempesta o scendere in campo, rischiando di diventare un nuovo Scalfaro?

Il Presidente ci sta riflettendo e, intanto, rivendica il suo diritto di mantenere il riserbo. E così, venerdì, all’uscita della cattedrale di Saint Jean, per schivare i giornalisti non ha esitato a imboccare con tutto il seguito uno stretto cunicolo. Uscitone, si è diretto verso una rinomata pasticceria, di fronte alla quale un occhiuto zingaro con la fisarmonica, riconosciutolo, ha intonato la musica del «Padrino». Intuendo che qualcosa non andava, lo zingaro è passato velocemente a «Bella ciao».
 
da lastampa.it
 
 
 
 

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Il debito verso il maestro Amendola.

I duelli con Berlinguer

La vita politica di un "migliorista" con la passione per la poesia

La lunga marcia di Napolitano il comunista che fu ex in anticipo

di DARIO OLIVERO

 

ROMA - Dal maestro Giorgio Amendola l'allievo Giorgio Napolitano ereditò debiti e crediti. I debiti furono soprattutto politici, i crediti soprattutto umani. I primi, Napolitano, li ha pagati per cinquant'anni e la sua salita al Colle è l'ultima cambiale portata a pagamento con l'orgoglio che avevano i risparmiatori di una volta quando, pur di non fare brutta figura con un creditore, si privavano del pane o di un nuovo paio di scarpe. Sono i debiti della tradizione riformista del Partito comunista italiano, la cultura "migliorista", parola che equivaleva in certi anni a poco meno di un insulto. I crediti sono quelli che Amendola trasmise su un terreno già fertile e che forse si possono racchiudere in un solo termine: umanesimo.

Difficile pensare a due persone così apparentemente diverse come il primo Giorgio (Amendola), l'ex pugile che affascinava i giovani della Fgci sostenendo le sue posizioni eretiche con la forza della passione e del cuore e il secondo Giorgio (Napolitano), lo spilungone dall'aspetto aristocratico che gli valse il nome di "Re Umberto" per la sua somiglianza con l'erede di casa Savoia. Eppure il loro sodalizio poggiava anche su quel terreno fertile del Napolitano sconosciuto.

Perché l'uomo che sta per salire sul Colle più alto della Repubblica non è soltanto il volto istituzionale e rassicurante, l'unico - secondo le valutazioni del suo stesso partito - in grado di portare gli eredi del Pci al Colle senza far gridare (Berlusconi escluso) al colpo di stato dei Soviet. E' anche un uomo che vive una vita privata e interiore insospettabile per chi si è già seduto sulla poltrona della Camera e del ministero dell'Interno.

Fu attore teatrale in gioventù e autore di sonetti in napoletano scritti sotto pseudonimo. Fu ed è sempre stato attratto dalle lettere, dalle arti, dalla regia. E questa vita intellettuale potrebbe spiegare, come in una teoria di vasi comunicanti, come, dove e quando si rifugiava l'uomo politico quando il peso dell'"eresia" della sua corrente diventava troppo gravoso.

Il giovane Napolitano recitò la parte di un cieco in una commedia di Salvatore Di Giacomo, recitò nel Viaggio a Cardiff di William Butler Yeats al Teatro Mercadante di Napoli, si sciolse confrontandosi con Joyce ed Eliot, passò lunghe serate a parlare di teatro e di regia con Francesco Rosi e Giuseppe Patroni Griffi. Scrisse versi in dialetto dedicati a Napoli, alla morte, alla madre, firmandosi Tommaso Pignatelli. Natalia Ginzburg li adorava.

"Troppo facile trovare un applauso", dirà decine di anni dopo riferendosi alla retorica che piove dai palchi della politica e forse lasciando intendere che i veri applausi possono essere soltanto quelli catartici che si sprigionano in un teatro. Mentre sembrano ben poca cosa quelli dei comizi, luoghi da sdrammatizzare con una buona dose di ironia come quando, come testimonia una foto storica, Napolitano si fabbricò sotto un palco a una Festa dell'Unità un cappellino di carta come quello dei muratori per ripararsi dal sole.

Per tutti questi motivi forse la carriera politica di Napolitano non è la cosa più sorprendente della sua vita. Anche se il solo elencarla fa venire il capogiro: nato a Napoli il 29 giugno 1925, nel Pci nel 1945, nel '53 eletto alla Camera, nel 1992 presidente di Montecitorio (in piena bufera Mani pulite), nel 1996 Viminale (ancora oggi il Sap, sindacato di polizia, lo definisce il miglior ministero dell'Interno), nel 1999 Parlamento europeo, nel 2005 senatore a vita per nomina di Ciampi.

Si dice, ed è vero, che anche gli avversari politici lo hanno sempre rispettato. Ma quello che può essere considerato un onore, visto dall'interno del suo partito, non è sempre stato un vantaggio, proprio per il peso del "debito" che Napolitano si portava sulle spalle. Il termine "migliorista" fu coniato espressamente per lui perché termini come "riformista" o "socialdemocratico" non esprimevano abbastanza l'insofferenza di chi, a sinistra, era "fedele alla linea".

Che cosa voleva dire "migliorista"? Voleva dire che gente come Napolitano o Luciano Lama avevano rinunciato alla rivoluzione ma volevano "migliorare" la società. Non cambiarla radicalmente, perché il capitalismo non solo non andava abbattuto, ma bisognava scendere a patti con esso per riformarlo, emendarlo e renderlo più umano. Ecco che cosa si intende per comunista "di destra" rispetto a un comunista "di sinistra". Come era considerato il suo oppositore principale, Pietro Ingrao.

Oggi è più facile. Dopo la svolta della Bolognina dell'89, dopo il congresso di Pesaro del 2001 - quando Piero Fassino tributò a Napolitano un passaggio in cui lo definì "il compagno che comprese prima di altri" - è più facile dire che non c'è, e non c'era, nessuna "eresia". Ma che cosa voleva dire essere miglioristi negli anni Ottanta, quando si era in contrasto con la linea del partito guidato da Enrico Berlinguer? Cosa voleva dire criticare un segretario tanto amato? Quanto doveva essere doloroso per gente cresciuta dentro il partito dividersi tra fedeltà e nuove prospettive politiche? Cosa voleva dire essere già post-comunista quando i comunisti si chiamavano ancora comunisti?

Voleva dire sporcarsi le mani. Voleva dire non lasciare ad altri il merito di cavalcare indisturbati le spinte più innovatrici della società italiana. Voleva dire dialogare con il Psi, anche con quello di Bettino Craxi. Voleva diresentirsi trasmettere la solidarietà da Norberto Bobbio e la distanza dei compagni, che magari ti accusano di fare il gioco di Bettino. Voleva dire - in piena battaglia berlingueriana sulla questione morale - gettare un ponte verso un riformismo socialista trovando pochi appoggi all'interno e ancora meno interlocutori affidabili all'esterno.

Questo era il debito, cresciuto negli anni e dopo la caduta del muro, che Napolitano si portava dietro. E l'unico modo per pagarlo era convincere tutti di aver ragione, cercare una politica di alleanze con le grandi socialdemocrazie europee e rompere l'isolamento del più grande partito della sinistra. Progetto che gli riuscirà quando il Pds di Occhetto nell'89 entrerà nel Partito socialista europeo.

Il resto è storia dell'ultimo scorcio di secolo, storia europea che per Napolitano finisce nel 2004 quando non si ricandida per Strasburgo. Pensava probabilmente di aver finito di pagare il suo debito politico, chiudendo la sua vita politica come senatore a vita. Così diceva tra le righe nella recente autobiografia Dal Pci al socialismo europeo. Invece, la regola degli attori, per i quali the show must go on, vale anche per i politici di razza. Quelli capaci di diventare, da uomini di partito, ministri di governo, presidenti del Parlamento e, all'ultima scena, inquilini del Quirinale.

(10 maggio 2006

da repubblica.it

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IL MONITO DI NAPOLITANO

La giustizia, la privacy e l'equilibrio dei diritti



Nel messaggio di saluto indirizzato ieri al convegno in memoria di Vittorio Chiusano, valoroso avvocato di grande equilibrio e non dimenticato presidente dell'Unione delle Camere penali, il capo dello Stato ha toccato (non soltanto di striscio) uno dei temi più delicati della giustizia penale, sempre più spesso ridotta a «giustizia spettacolo ». E lo ha fatto con grande chiarezza e intensità di accenti.

Si tratta del tema relativo alla garanzia della privacy delle persone coinvolte nel processo, e prima ancora nelle indagini, sotto il particolare profilo del rapporto tra tale garanzia e l'esercizio del diritto di cronaca. Tema delicato e complesso, di cui per certi aspetti già il codice si fa carico, ad esempio in materia di ripresa televisiva delle udienze dibattimentali (attraverso una disciplina volta comunque a tutelare i soggetti che non vi consentano), e di cui sovente si torna a discutere. Specialmente di fronte a certe esorbitanze dei salotti televisivi, nei quali troppo spesso si disputa di giustizia, senza l'osservanza — ovviamente — delle regole e dei limiti propri della legge processuale: con il duplice rischio di ingenerare errati convincimenti nell'opinione pubblica (anche per la mancanza di contraddittorio), e di pregiudicare indebitamente l'immagine delle persone di cui si parla (non di rado anche in loro assenza). E questo senza dire di altre, e ben più gravi, esorbitanze verbali di uomini politici nei confronti di singoli magistrati, o dell'intera magistratura.

È chiaro tuttavia — sebbene il presidente Napolitano non lo dica espressamente — che i rilievi contenuti nel suo messaggio sono riferibili anche, anzi soprattutto, al problema delle intercettazioni telefoniche, o meglio al fenomeno della pubblicazione sui giornali (ma spesso anche nei ben noti salotti televisivi, con l'aggravante della simulazione sonora dei dialoghi captati) dei risultati di tali intercettazioni. È proprio con riferimento a questo fenomeno, ed alle sue più clamorose degenerazioni, infatti, che negli ultimi tempi è apparsa sempre più urgente l'esigenza di realizzare «con responsabilità e senso del limite», il contemperamento di due valori solo in apparenza contrapposti: da un lato la «difesa del diritto alla informazione» (come diritto sia di informare, sia di essere informati), e, dal-l'altro, la «tutela del diritto dei cittadini a vedere salvaguardata la loro riservatezza». E non c'è dubbio, come sottolinea ancora Napolitano — stigmatizzando una innegabile, quanto deplorevole, tendenza alla «spettacolarizzazione dei processi» — che il momento di maggiore criticità riguardi la «divulgazione di notizie attinenti a terzi estranei alle vicende» oggetto di tali processi.

Il discorso, a questo punto, si riallaccia inevitabilmente alle proposte di politica legislativa ancora di recente formulate (attraverso il disegno di legge presentato dal ministro Alfano) in materia di riforma delle intercettazioni telefoniche. Perché, a ben vedere, come ha ricordato da ultimo anche il Garante della privacy Francesco Pizzetti, la vera «anomalia tutta italiana» dell'attuale disciplina risiede non già nella quantità o nella durata (valutazioni quantomai opinabili, da parte di chi non conosca in concreto le esigenze delle indagini) delle intercettazioni ammesse, bensì nella circostanza che (attraverso l'abusiva pubblicazione dei colloqui intercettati) si pervenga a sacrificare «il rispetto della dignità e del decoro delle persone coinvolte», per usare ancora le parole di Napolitano. Sia delle persone estranee al processo, sia anche degli indagati o degli imputati, con riferimento a conversazioni non concernenti la vicenda processuale.

È questo, dunque, il versante su cui dovrà intervenire il legislatore, del resto lungo la strada segnata dal progetto Mastella (approvato dalla Camera, pressoché all'unanimità, nell'aprile 2007), sulla scia delle indicazioni già contenute nel progetto Flick di oltre 10 anni orsono, oggi recepite anche nel progetto della Repubblica di San Marino. Si tratta, in sintesi, di stabilire — predisponendo allo scopo opportuni filtri di controllo, anche da parte dei difensori — che i risultati delle intercettazioni concernenti persone, fatti o circostanze estranei alle indagini non debbano nemmeno venire depositate tra le carte processuali, essendo essi irrilevanti, ma debbano rimanere custodite in un apposito «archivio riservato», con il vincolo del segreto, e sotto la responsabilità di un magistrato della procura. Inutile dire che di queste ultime intercettazioni (in quanto segrete, e come tali destinate ad essere distrutte) dovrà essere rigorosamente vietata la pubblicazione, con la previsione di sanzioni anche gravi in caso di violazione del divieto. Mentre, per quanto riguarda i risultati delle intercettazioni acquisite al processo, in quanto riconosciute rilevanti, non si vede la necessità di vietarne la pubblicazione (almeno nel loro contenuto), una volta caduto il segreto sulle medesime.


Vittorio Grevi
22 luglio 2008

da corriere.it

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Il presidente della Repubblica in Finlandia

Napolitano e la Costituzione italiana: «Valori e principi, questione aperta»

«Questi principi sono rispecchiati anche nella Costituzione europea e nel Trattato di Lisbona»



HELSINKI (Finlandia) - «Credo che in Italia sia ancora una questione aperta la piena identificazione che ci dovrebbe essere da parte di tutti nei principi e nei valori della Costituzione repubblicana, che sono rispecchiati nella Costituzione europea richiamata nel Trattato di Lisbona». Lo ha detto il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, rispondendo a una domanda dei giornalisti sulla caduta di tensione che c'è in vari Paesi europei rispetto ai motivi originari che furono alla base della costruzione europea quale strumento per mettere fine agli orrori creati dalla guerra e dal nazifascismo.

«RILANCIARE LA CAUSA EUROPEA» - A frenare la piena integrazione politica dell'Europa, a determinare «una insufficiente tensione europeista» in vari paesi europei, ha detto Giorgio Napolitano, sono soprattutto correnti di euroscetticismo. «Mi auguro - ha aggiunto - che tutte le forze politiche, tutti i partiti italiani dedichino tempo, attenzione e impegno a un rilancio della causa europea. Abbiamo bisogno che i governi in Europa ribadiscano l'assoluta priorità di questa scelta, che fu all'inizio comune all'Italia e a altri cinque paesi e poi è stata condivisa da altri 21 paesi. Questo non c'èa ncora abbastanza».

«L'UNITA' HA GARANTITO LA PACE» - «È evidente - ha poi sottolineato il capo dello Stato - che l'unità europea ha garantito pace, stabilità democratica e anche crescita economica e benessere sociale, attraverso la grande impresa del mercato unico e poi dell'euro, conquista forse troppo spesso messa in una luce ambigua, ma che ha rappresentato un forte ancoraggio per i paesi membri che avrebbero potuto ben altrimenti essere colpiti dalla crisi finanziaria tuttora in corso. È vero che finora la Ue non ha saputo dare un contributo sufficiente a determinare una nuova fase di sviluppo. Ma è compito anche dei governi e delle leadership nazionali dare un contributo a queste soluzioni e indicare le strade da percorrere, al di là delle dichiarazioni, per rendere effettiva quella strategia di Lisbona che nelle sue fondamentali affermazioni rimane valida, ma probabilmente richiede istituzioni più efficaci per essere attuata».

POLEMICHE - Il capo dello Stato ha poi aggiunto in merito al suo discorso sulla Resistenza dell'8 settembre a Roma: «Ho solo espresso il mio punto di vista. Non ho fatto polemiche con alcuno, né ho tirato per la giacca nessuno, né ho risposto ad alcuno. Ho svolto il mio intervento per ultimo, come era previsto».


10 settembre 2008

da corriere.it

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Napolitano: «Il Sud faccia autocritica o finirà fuorigioco»

Il presidente: «Altrimenti non si hanno titoli per resistere alle interpretazioni più perverse del federalismo fiscale»

 

NAPOLI (2 dicembre) - Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, intervenendo alla Fondazione Mezzogiorno-Europa, è tornato questa mattina sul tema del Mezzogiorno, già affrontato ieri.

Autocritica del Mezzogiorno. «Non voglio aggiungere nulla - ha detto Napolitano - a ciò che ho detto pubblicamente. Sono persuaso che se oggi non si dà il senso di una forte capacità di autocritica e di autoriflessione nel Mezzogiorno, poi la partita per fare passare politiche corrispondenti alle esigenze del Mezzogiorno stesso, diventa enormemente difficile. Si possono denunciare rischi, paventare esiti infausti, ma se ci si sottrae a un esercizio di responsabilità per quello che riguarda l'amministrazione della cosa pubblica nel Mezzogiorno, non si hanno titoli per resistere anche a interpretazioni le più perverse del federalismo fiscale».

Rinnovamento dei partiti. Napolitano ha preso le mosse da una considerazione sul ruolo delle fondazioni culturali. Rispetto a un'epoca precedente in cui erano impartiti a sviluppare le riflessioni sulla cultura, ha detto Napolitano, «adesso i contributi non a caso devono venire dall'esterno e devono contribuire al rinnovamento dei partiti non solo in quanto formazioni politiche ma anche per le loro responsabilità di governo e amministrative». 

da ilmessaggero.it

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