UMBERTO ECO.

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Umberto Eco.

Chi ha ucciso il mastino di Baskerville?


In questi tempi di demonizzazione del dannato relativismo, teniamoci cari gli enunciati narrativi, gli unici che dicono verità che non possono essere revocate in dubbio.

 L'estate scorsa recensivo in questa Bustina 'Come parlare di un libro senza averlo mai letto', di Pierre Bayard, il quale diceva quanto chiunque pratichi la lettura sa, e cioè che al mondo ci sono più libri importanti di quanto possiamo leggere nel corso di una vita, e spesso siamo influenzati profondamente da libri che non abbiamo mai letto e di cui tuttavia sappiamo l'essenziale perché ci è giunto per varie fonti.

Ma la parte più intrigante di quel pamphlet era che, anche dei libri che abbiamo letto davvero, ricordiamo non ciò che dicevano, bensì ciò che leggendoli gli facevamo dire. Bayard, il quale oltre che docente di letteratura è anche psicoanalista, mi pareva non tanto interessato al problema se la gente legga o non legga, quanto piuttosto al fatto che ogni lettura abbia aspetto creativo, e in ogni caso ri-creativo.

Si veda ora questo suo 'Il caso del mastino dei Baskerville' (Excelsior, 15,50 euro) libretto appassionante dove egli, psicoanalizzando punti oscuri del testo di Arthur Conan Doyle, cerca di mostrare come un lettore abbia il diritto di ritenere significative molte ambiguità o reticenze del testo (come fanno del resto gli psicoanalisti) e di concluderne che Sherlock Holmes si era sbagliato nel risolvere quel mistero. Bayard astutamente sceglie un testo che è davvero pieno di punti oscuri e in cui tra l'altro le osservazioni non appaiono fatte direttamente da Holmes ma dal dottor Watson che Bayard definisce senza ambagi come un perfetto idiota. E d'altra parte il 'Mastino' è stato scritto dopo che Doyle aveva fatto morire Holmes, ed era stato poi costretto a risuscitarlo a causa di un plebiscito di folla (belle le pagine su queste forme di identificazione collettiva con personaggi che si sanno fittizi) e pertanto molti imbarazzi di quel libro sembrano dovuti a complessi dell'autore.


Bayard ha fatto lo stesso lavoro su 'The murder of Roger Ackroyd' di Agatha Christie, e anche lì lavora sul velluto perché, come si sa, l'assassino è il narratore, e si ha diritto di prendere con le molle quanto racconta un malandrino di quella fatta. Si noti che quello che fa Bayard è diverso da ciò che ha fatto Philippe Doumenc in 'Lo strano caso di Emma Bovary' (Castelvecchi 2008) in cui l'autore riprende l'indagine dalla morte di Emma per provare che non si era suicidata bensì che era stata uccisa.

Doumenc aggiunge nuovi fatti a quelli raccontati da Flaubert ed è come se avesse scritto (che so) Pinocchio palombaro, un libretto tra i mille che riprendevano le avventure di Pinocchio. Bayard invece non 'riscrive' il libro di Doyle, lo 'rilegge' alla luce di una idea sospettosa. E ritiene di avere il diritto di farlo perché pensa non solo che i personaggi fittizi acquisiscono una vita indipendente dalla volontà del loro autore, ma che ogni lettore esegue un testo a modo proprio - a tal punto che è da mettere in dubbio "una reale comunicazione tra i lettori di uno stesso libro, in quanto costoro effettivamente non stanno parlando del medesimo libro".

Io ritengo che non si debba confondere la lettura globale di un testo (che certamente permette e spesso incoraggia interpretazioni diverse, che riguardano lo stile, le sfumature psicologiche e mille altre cose) e l'atteggiamento che si assume rispetto agli enunciati narrativi (del tipo 'Emma Bovary si è avvelenata' o 'Pinocchio è stato inghiottito da un pescecane'). E tra l'altro Bayard mostra di conoscere molto bene le discussioni in materia. Il problema è che gli enunciati narrativi, all'interno del mondo possibile di un romanzo, vengono presi dal lettore come verità indiscutibile. Questa è anche la terribile bellezza della narrativa: Emma Bovary muore suicida e, per quanto la cosa ci dispiaccia, non possiamo cambiare il suo destino per tutta l'eternità.

Possiamo ovviamente riscrivere un altro romanzo in cui la Bovary viene uccisa, come ha fatto Doumenc, ma ciò che dà (o non dà) sapore alla lettura del rifacimento è proprio il fatto che, contrariamente a ciò che sembra ritenere Bayard, tutti noi conveniamo come un sol uomo che nel mondo possibile di Flaubert la poveretta muore suicida, e stiamo tutti parlando del 'medesimo libro'. Altrimenti perché il rifacimento di Doumenc dovrebbe interessarci, se parlasse di una tizia di cui non sappiamo niente? E perché dovrebbe intrigarci la reinterpretazione di Bayard se parlasse di un 'Mastino' che non è quello che abbiamo letto noi? Possiamo sospettare che Giulio Cesare non sia morto proprio alle Idi di Marzo ma non possiamo dubitare che Didone si sia suicidata per amore di Enea, in quanto nessuno ha il diritto di negare che nel mondo possibile della 'Eneide' accada quello che accade.

In questi tempi di demonizzazione del dannato relativismo, teniamoci cari gli enunciati narrativi, gli unici che dicono verità che non possono essere revocate in dubbio.
(11 luglio 2008)

da espresso.repubblica.it

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UmbertoEco


Segnati a dito

Un giorno nessuno di noi avrà più una faccia ma solo dei dati astratti, algoritmi, come le sbarrette sui prodotti del supermarket. E allora addio a Fantomas, ad Arsenio Lupin, a Rodolfo di Gerolstein...  Naturalmente, ed è premessa doverosa, c'è qualcosa di losco nel voler prendere le impronte digitali ai membri di un solo gruppo (siano essi zingari, testimoni di Geova, filatelici, diabetici o monaci olivetani), e se poi sono bambini peggio ancora. Tuttavia, ed è stato annunciato, tra qualche tempo le prenderanno a tutti e non ci saranno più ragioni per protestare (allora, non ora). D'altra parte io entro negli Stati Uniti solo puntando il mio dito in direzione di un marchingegno elettronico, e non mi sento discriminato perché è una regola generale - anche se in fondo la cosa mi dà un poco noia.

Non c'è niente da fare. Tra breve non solo le impronte digitali ma forse anche il Dna saranno registrati su una specie di carta di credito che conterrà tutti i nostri dati. Allora non ci saranno più problemi per viaggiatrici che insistano a portare il burka, per tanto che la cosa ci dispiaccia, perché non dovranno più mostrare il volto bensì il dito per essere identificate agli imbarchi. E speriamo che non salti fuori una qualche setta fondamentalista che impone ai suoi membri di portare sempre i guanti, perché allora dovremmo inventare ancora qualcosa di diverso.

Non c'è niente da fare, dipende dalla globalizzazione. Sei miliardi di esseri che potenzialmente potrebbero spostarsi da un paese all'altro (e tanti comunque anche se non si calcolano quelli che non ce la fanno a muoversi per malnutrizione) fanno sì che i problemi di identificazione si facciano sempre più difficili. Già ora diciamo che tutti i giapponesi si assomigliano, e loro dicono la stessa cosa di noi. Un amico mi raccontava che a Parigi si era irritato perché dei taxisti orientali non conoscevano certe strade e aveva domandato seccato a uno di loro se non erano obbligati a dare un esame per ottenere la licenza, e quello gli aveva risposto candidamente che, quando un orientale si presenta a un esame ed esibisce un documento con sopra una faccia da orientale, l'esaminatore non si accorge se la persona che ha di fronte non è la stessa della fotografia. E pertanto, lasciava capire il buon tassista, uno solo di loro, il più esperto, dava l'esame per chissà quanti compagni.


Francamente non capisco per quale ipocrisia sino a ora ci si sia accontentati dell'identificazione fotografica. Ciascuno di noi ha la profonda persuasione di non assomigliare affatto alla foto che ha sulla carta d'identità, e quando tempo fa mi sono lasciato crescere la barba ho viaggiato ancora per qualche anno con un passaporto su cui apparivo sbarbato. Nessuno si è mai lamentato, tranne un poliziotto di un paese dell'est, ma poi anche lui ha lasciato correre.

La globalizzazione ha prodotto, o almeno incoraggiato, quel nuovo tipo di guerra che è l'attacco terroristico. Un tempo il nemico lo riconoscevi dall'uniforme, oggi è invece vestito come te e porta l'esplosivo avvolto intorno alla vita sotto la maglietta col coccodrillo. Altra ragione per tentare sistemi d'identificazione più sicuri della foto.

Così un giorno nessuno di noi avrà più una faccia ma solo dei dati astratti, anche perché immagino che su quella carta di credito non apparirà neppure la mia impronta digitale ma solo un algoritmo che la esprime, un poco come le sbarrette sui prodotti del supermercato. Ma non ci sarà niente da fare.

Salvo che finirà tutta una serie di situazioni narrative di cui non si potrà più raccontare se non nei romanzi storici, e anche lì i giovani lettori del prossimo secolo non capiranno neppure cosa significasse un tempo mettersi un paio di baffi finti, una parrucca fluente, una barba da cappuccino, e farsi dei pomelli rossi, degli occhi segnati come dal bistro oppure, come Mannering detto il Barone, inserire dei cuscinetti elastici dentro le guance, o come Fantomas apparire nelle fogge più varie, o come Arsenio Lupin sembrare oggi un raffinato gentiluomo con tanto di caramella e due sottili baffetti, e domani come un operaio in camicione blu, con la barba irsutamente lunga o lungamente irsuta.

Addio conte di Montecristo che si toglie di colpo la parrucca dell'abate Busoni e grida "Io sono Edmond Dantès", addio Rodolfo di Gerolstein che frequentava le bettole parigine travestito da criminale in servizio permanente effettivo per redimere le giovani prostitute soavemente turbercolotiche. Anche a essere il fantasma dell'Opera, che gusto ci sarebbe a portare una maschera sul volto ustionato, se la gente, la polizia, il pubblico dei palchi e persino la donna amata non ti guarderanno il viso bensì la punta del dito? Vi rendete conto? Non si potrà più mentire con il corpo. Segnati a dito. Questo di tanta speme oggi ci resta

(25 luglio 2008)

da espresso.repubblica.it

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Umberto Eco


Rinasco rinasco nel milnovecentoquaranta!


Come negli anni '40, ci sono fascisti al governo. Non solo loro, non più esattamente fascisti, ma che importa, si sa che la storia si dà una prima volta in forma di tragedia e una seconda in forma di farsa  Mussolini e un battaglione fascista nel 1941La vita altro non è che una lenta rimemorazione dell'infanzia. D'accordo. Ma quello che rende dolce questo rimembrare è che, nella lontananza della nostalgia, ci appaiono belli anche i momenti che allora ci sembravano dolorosi, persino il giorno che si è scivolati nel fosso slogandosi un piede, e si è dovuto rimanere a casa per 15 giorni ingessati con la garza imbevuta di bianco d'uovo.

Personalmente ricordo con tenerezza le notti passate nel rifugio antiaereo: ci avevano svegliato nel bel mezzo del sonno più profondo, trascinati in pigiama e cappotto in un sotterraneo umido, tutto in cemento armato, illuminato da lampadine fioche, e giocavamo a rincorrerci mentre sopra le nostre teste esplodevano colpi sordi che non sapevamo se fossero della contraerea o delle bombe.

Le nostre mamme tremavano, dal freddo e dalla paura, ma per noi era una strana avventura. Ecco cos'è la nostalgia.

Pertanto siamo disposti ad accettare tutto ciò che ci ricordi gli orribili anni Quaranta, ed è il tributo che paghiamo alla nostra vecchiaia.

Com'erano le città a quell'epoca? Buie di notte, quando l'oscuramento obbligava i radi passanti a usare lampadine non a pila bensì a dinamo, come il fanale della bicicletta, che si caricava per frizione azionando spasticamente a mano una sorta di grilletto. Ma più tardi era sopravvenuto il coprifuoco, e per strada non si doveva andare.

Di giorno la città era percorsa da reparti militari, meno sino al 1943, quando in città c'era il Regio Esercito accasermato, ma più intensamente ai tempi della Repubblica di Salò, dove nelle metropoli passavano continuamente manipoli e ronde di marò della San Marco o di Brigate Nere, nei paesi più facilmente gruppi di partigiani, gli uni e gli altri armati sino ai denti.

In questa città militarizzata in certe situazioni erano proibiti gli assembramenti, sciamavano ancora torme di Balilla e Piccole Italiane in divisa, e di scolaretti in grembiule nero che uscivano da scuola a mezzogiorno, mentre le mamme andavano a comperare il poco che si trovava nei negozi di alimentari, e se volevi mangiare del pane non dico bianco ma non ributtante e fatto di segatura, dovevi pagare somme considerevoli al mercato nero.


In casa la luce era fioca, per non dire del riscaldamento, limitato alla sola cucina. A notte si dormiva col mattone caldo nel letto e ricordo con tenerezza persino i geloni.

Ora non posso dire che tutto questo sia tornato, certo non integralmente. Ma comincio a riavvertirne il profumo. Tanto per cominciare ci sono fascisti al governo. Non solo loro, non più esattamente fascisti, ma che importa, si sa bene che la storia si dà una prima volta in forma di tragedia e una seconda volta in forma di farsa.

In compenso a quei tempi apparivano sui muri manifesti in cui si vedeva un nero americano ributtante (e ubriaco) che tendeva la mano adunca verso una bianca Venere di Milo. Oggi vedo in televisione volti minacciosi di negri smagriti che stanno invadendo a migliaia le nostre terre e francamente intorno a me la gente è ancora più spaventata di allora.

Sta tornando il grembiule nero nelle scuole, e non ho nulla contro, meglio della T-shirt firmata dei bulli, salvo che avverto in bocca un sapore di madeleine imbevuta di tiglio e come Gozzano mi viene da dire "rinasco, rinasco, nel milnovecento e quaranta". Ho appena letto su un giornale che il sindaco leghista di Novara ha proibito che di notte, nel parco, si riuniscano più di tre persone. Attendo con un brivido proustiano il ritorno del coprifuoco.

I nostri militari si stanno battendo contro ribelli dal volto colorato in Asie (purtroppo non più in Affriche) più o meno orientali. Ma vedo reparti dell'esercito, bene armati e con tute mimetiche, anche sui marciapiedi delle nostre città. L'esercito, come allora, non combatte solo alle frontiere ma fa operazioni di polizia. Mi sembra di ritrovarmi in Roma Città Aperta.

Leggo articoli e odo discorsi assai simili a quelli che leggevo allora su 'La difesa della razza', che non solo attaccavano gli ebrei ma anche zingari, marocchini e stranieri in genere. Il pane sta diventando carissimo. Ci stanno avvertendo che dovremo risparmiare sul petrolio, limitare lo spreco di energia elettrica, spegnere le vetrine di notte. Calano le auto e riappaiono i Ladri di Biciclette. Come tocco di originalità, tra un po' sarà razionata l'acqua.

Non abbiamo ancora un governo al Sud e uno al Nord, però c'è chi sta lavorando in questa direzione.

Mi manca un Capo che abbracci e baci castamente sulla guancia prosperose massaie rurali, ma ciascuno ha i suoi gusti.


(08 agosto 2008)


da espresso.repubblica.it

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Umberto Eco


Pronomi del passato


Un tempo si dava del Tu ai parenti e al massimo ad alcuni amici intimissimi. Nel mondo del lavoro si usava il Lei o il Voi con tutti, salvo che con i colleghi più stretti  Quindici giorni fa avevo annotato, sul filo del paradosso, vari aspetti della vita odierna che ci rinviano ai nostri ricordi dei tempi di guerra, tra 1940 e 1945. Però riflettendoci meglio mi sono accorto di quante cose si sta invece perdendo memoria.

Per esempio l'uso comune del Lei (o, durante il fascismo, e nelle campagne, del Voi). Si dava del Tu ai parenti (ma nelle campagne del Piemonte la moglie diceva al marito 'Vui, Pautass'), e al massimo ad alcuni amici intimissimi. Bambini e ragazzi si davano del Tu, anche all'università, sino a quando non entravano nel mondo del lavoro.
 
A quel punto Lei o Voi a tutti, salvo ai colleghi stretti (ma mio padre ha passato quarant'anni nella stessa azienda e tra colleghi si sono sempre dati del Lei). Per un neolaureato, fresco fresco di toga virile, dare del Lei agli altri era un modo non solo di ottenere il Lei in risposta, ma possibilmente anche il Dottor.

Da tempo invece, a un giovanotto sui quarant'anni che entra in un negozio, il commesso o la commessa della stessa età cominciano a dare del Tu. In città perché il commesso ti dia del Lei devi mostrare i capelli bianchi, e possibilmente avere la cravatta. In campagna è peggio: più inclini ad assumere costumi televisivi senza saperli mediare con una tradizione precedente, in un emporio mi sono visto (io settantaseienne e con barba bianca) trattato col Tu da una sedicenne (che non ha probabilmente mai conosciuto altro pronome personale), la quale è entrata gradatamente in crisi solo quando io ho interagito con espressioni quali "gentile signorina, come Ella mi dice."
 
Deve aver creduto che provenissi da Elisa di Rivombrosa, tanto mondo reale e mondo virtuale si erano fusi ai suoi occhi, e ha terminato il rapporto con un "buona giornata" invece di 'ciao', come dicono gli albanesi.

Credo che la confusione tra Tu e Lei sia nata con molti doppiaggi di film americani. Come tutti sanno in inglese si dice 'you' sia per il Tu che per il Voi. In verità gli anglofoni sanno che dire 'you Jim' usando il primo nome, è come dare del Tu, mentre dire 'you Mr. Jim' significa dare del Voi o del Lei. Ma non sempre i doppiatori dei film fanno attenzione a queste cose. Sto finendo di vedere in tv la serie 'I Tudors' dove pare che re, cortigiane, persone normali, si diano del voi anche quando scopano - cose che succedono solo a Buenos Aires.

Evidentemente nell'originale si sentiranno le differenze tra 'your Majesty' e 'you, my dear Jim', ma nella versione italiana, dove tutto è Voi, pare giusto che poi nella vita sia tutto Tu e non ci sia differenza tra parlare al re e parlare a un bambino di due anni.

L'altra cosa che ci rende diversi dal passato è che, quando ero piccolo, nella piccola borghesia si usavano, per parere fini, alcune parole francesi come 'agrément', 'satin', 'bouquet' o 'cadeau'. L'inglese e il francese non li sapeva nessuno, e i nomi stranieri si pronunciavano tutti alla francese, e dunque Scürscill e Sciamberlèn. Però ci si poteva correggere perché gli unici che per contratto dovevano saper pronunciare bene i nomi stranieri erano gli annunciatori della radio.
 
Oggi gli annunciatori radio e televisione storpiano i nomi stranieri in misura insostenibile, non c'è più un cane che sappia fare la 'ü' tedesca o francese, è rimasta classica la gaffe dell'annunciatrice che ha letto 'sine die' come 'sain dai', e l'inglese lo si impara da Ezio Greggio che dice 'uan, ciù, zree!'. Lui esagera apposta, ma le aspiranti veline lo prendono sul serio.

Così tutti usano parole inglesi o calchi dall'inglese, anche quando non se ne sente il bisogno: a parte un governo che fa un ministero per il Welfare, che è roba da dichiararsi cittadino ticinese quando all'estero ti chiedono perché mai (e perché non un ministero della War, uno degli Interieurs e uno del Treasury?), tutti supportano, tutti implementano e (come si usa dire nei migliori ambienti) quant'altro.

È vero che il vizio è antico: noi portiamo lo smoking, oppure il pullover, o il frack e gli americani non sanno di cosa parliamo; ma d'altra parte anche i francesi hanno poetato per decenni sullo 'spleen' e gli inglesi reagivano con 'prego, traduca'. Gli americani, infine, hanno immesso nella loro lingua un mucchio di francesismi, però li sentono imperialisticamente come parole loro, tanto che si racconta che, al ritorno di una riunione in Francia, Bush abbia detto: "È strano, i francesi non hanno una parola nella loro lingua per entrepreneur".

Tornando alle cose scomparse, sono scomparse le signorine. Non si sente più dire con tono piccato 'prego, signora, non signorina' e nemmeno 'scusi, signorina'. Si dice 'ehi tu!'.

(22 agosto 2008)


da espresso.repubblica.it

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Umberto Eco

Via le vie!

Dedicare una strada a Craxi o a Mussolini. Ciclicamente la questione torna alla ribalta. Ci vorrebbe una legge che proibisce di intitolare una strada a chi non sia morto da almeno cento anni 


Va bene che d'estate e specie intorno a ferragosto non vi sono molte novità di cui parlare, tranne alcuni massacri in Georgia, che fanno meno notizia delle olimpiadi, ma sono stato colpito in queste settimane dalla ripresa di un tema che oserei definire ormai eterno. Da qualche parte si è tornato a discutere perché qualcuno voleva dedicare una strada a qualche personaggio compromesso col fascismo, o a figure controverse come quella di Bettino Craxi - o cancellare il nome di un'altra strada, forse in Romagna dove, passando per i piccoli centri, si è colpiti dall'abbondanza di vie Carlo Marx e vie Lenin. Francamente la cosa è diventata insopportabile e c'è un unico modo per uscirne: una legge che proibisca di intitolare una strada a chi non sia morto da almeno cento anni.

Naturalmente con la legge dei cento anni, a parte Carlo Marx, nel 2045 ci sarà qualcuno che intitolerà una via a Benito Mussolini, ma pazienza, i nostri nipoti allora quarantenni (per non dire di eventuali pronipoti) avranno idee confuse sul personaggio. Oggi i buoni cattolici romani passeggiano tranquillamente per via Cola di Rienzo, senza sapere che non solo ha avuto anche lui il suo piazzale Loreto, ma che a intitolargli una strada così importante sono stati i massoni post-risorgimentali per far dispetto al papa.

C'è inoltre da considerare, almeno per rispetto a persone defunte, che intitolare a qualcuno una strada è il modo più facile per condannarlo alla pubblica dimenticanza e a un fragoroso anonimato. Tranne rari casi, come Garibaldi o Cavour, nessuno sa chi sono i personaggi a cui è stata intitolata una piazza o un viale - e se una volta lo si sapeva, il personaggio ha finito per diventare nella memoria collettiva una via e basta. Nella mia città natale sono passato migliaia di volte per via Schiavina senza mai chiedermi chi fosse costui (lo so ora, era un annalista ottocentesco), per via Chenna (so chi era perché ho a casa la sua opera sui vescovadi di Alessandria, 1785), per non dire di Lorenzo Burgonzio (apprendo solo ora su Internet che era l'autore di un 'Le notizie istoriche in onore di Maria Santissima della Salve', Vimercati Editore, 1738).


Sfido molti milanesi che abitano nelle vie Andegari, Cusani, Bigli o Melzi d'Eril a dire chi fossero coloro che hanno meritato quell'onore; forse qualcuno che ha studiato sa che Francesco Melzi d'Eril è stato vice presidente della Repubblica italiana nel periodo napoleonico, ma credo che il pedone normale, che non sia storico di professione, sappia assai poco sulle famiglie Cusani, Bigli o Andegari (tra l'altro alcuni sostengono che il nome provenga dalla voce celtica 'andeghee', che significa 'biancospino').

Non solo la toponomastica condanna alla 'damnatio memoriae', ma può accadere che il nome di un personaggio per bene venga associato a una via malfamata, e che il nome dell'infelice venga nei secoli dei secoli usato per riferimenti salaci. Riandando alla Torino dei miei tempi universitari, ricordo che via Calandra era maliziosamente (e, per i benpensanti, tristemente) associata a ben due case di tolleranza, mentre intendeva onorare Edoardo Calandra, rispettabile scrittore ottocentesco. E piazza Bodoni, che pure onorava un grande tipografo, ed era sede dell'insigne conservatorio, era allora ritrovo notturno di omosessuali (e cercate di capire che cosa volesse dire negli anni Cinquanta) per cui il toponimo veniva a indicare per metonimia (contenente per il contenuto) chi si dedicava a piaceri diversi dalla tipografia e dalla musica classica. Per non dire che a Milano il bordello più frequentato dalla soldataglia era in via Chiaravalle e nessuno poteva più pronunciare senza un sogghigno il nome di quella nobile e famosa abbazia.

Ma allora che nomi daremo alle strade? I pubblici amministratori dovranno fare qualche sforzo di fantasia, perché non potranno pescare nel repertorio familiare dei Bottai o degli Italo Balbo, ma dovranno andare a riscoprire, che so, Salvino degli Armati, probabile inventore degli occhiali, o Bettizia Gozzadini (prima donna a insegnare in un'università nella Bologna medievale), o addirittura Uguccione della Faggiola e Facino Cane, che non erano stinchi di santo ma nemmeno Balbo lo era. D'altra parte New York sopravvive benissimo con strade che hanno solo dei numeri, il che non è tanto diverso da quando a Milano si battezzava una strada via Larga. E ci sono nelle cento città d'Italia bellissime salite del Grillo, vie dell'Orso o della Spiga, vie del Colle, e si potrebbero aggiungere via dei Tigli (in fondo ce n'è una anche a Berlino), via degli Ontani, e via botanizzando

(05 settembre 2008)

da espresso.repubblica.it

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