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Autore Discussione: Giuliano Amato Il capitalismo ha (ancora) i secoli contati  (Letto 3267 volte)
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« inserito:: Ottobre 06, 2008, 10:50:15 pm »

Il capitalismo ha (ancora) i secoli contati

di Giuliano Amato


 
 5 OTTOBRE 2008



Mi scuseranno i lettori se torno sul tema più trattato delle ultime settimane, quello della crisi finanziaria. Ma davanti alla diversità fra le spiegazioni che circolano, è importante per noi chiederci quale ci convince di più e di Giuliano Amato quindi quali rimedi secondo noi servono di più.

Io in questi giorni ho continuato a leggere e a sentire che ci troviamo di fronte la fine del capitalismo, esattamente come vent'anni fa ci trovammo di fronte la fine del comunismo. Ma ho anche letto sul Financial Times che secondo il direttore del Fondo monetario internazionale, Dominique Strauss Kahn, si è trattato di «un fallimento della regolazione, che ha consentito l'assunzione di rischi eccessivi, specie negli Stati Uniti». È chiaro che le due spiegazioni sono profondamente lontane l'una dall'altra e che lontanissime sono le conseguenze che derivano da ciascuna.

Quando cadde il comunismo nell'Europa dell'Est, iniziò il profondo processo di trasformazione delle sue economie in economie di mercato, un processo che soprattutto per le istituzioni di cui queste hanno bisogno non si è ancora concluso. Non mi pare che ci sia qualcuno che pensa ad avviare da noi un processo non dirò inverso, ma almeno di comparabile intensità. Certo si mettono a carico del bilancio pubblico perdite che sono private, si statalizzano asset e si nazionalizzano banche. Il tasso di statalismo che sta penetrando nel sistema finanziario è così singolarmente elevato. Ma nessuno si aspetta che finirà per essere questo il segno del nostro futuro. Questo è il contraccolpo provocato dalle dimensioni del guaio in cui la finanza si è cacciata e ha cacciato il mondo intero. È un contraccolpo, però, che tutti prevedono si ridimensionerà nel tempo, via via che si allontanerà la tempesta e si innerveranno sul mercato le risposte che si devono non al fallimento del capitalismo, ma a quello di una rovinosa regolazione.

Perché di questo in realtà si è trattato e basta un'occhiata a quello che è diventato il mercato finanziario (ben diverso da tutti gli altri) per capire che ha assolutamente ragione Strauss Kahn. Si sono messi in circolazione titoli di credito sulla base di criteri probabilistico-assicurativi e non più sulla base di pre-esistenti garanzie e si è in tal modo cartolarizzata ogni forma di previsione salve le previsioni del tempo. Lo si è fatto da parte di istituzioni che, a differenza delle vecchie e care banche, non erano alimentate dalle tradizionali forme di raccolta bancaria e le stesse banche, per sottrarsi alle regole prudenziali di Basilea 1 e Basilea 2, hanno sviluppato in più casi attività finanziarie "innovative" fuori bilancio. Sono state coinvolte le assicurazioni, che hanno quindi fatto propri gli accresciuti rischi di insolvenza insiti nelle nuove modalità e nei nuovi criteri.

Tutto questo è avvenuto con una vigilanza fondata su principi soltanto quantitativi e quindi attenta soltanto al loro rispetto, non anche alla valutazione qualitativa dei rischi di credito, con agenzie di rating aventi proprio la missione di valutare quei rischi, ma tuttora avviluppate nei loro conflitti di interesse (grazie alla parte cospicua delle loro entrate che viene da coloro che esse dovrebbero valutare) e con gli Stati Uniti, da cui tutto o quasi è fuoriuscito, dove la regolazione è quasi per intero auto- regolazione e dove la Sec si è immolata alla più assoluta autonomia del mercato. Persino il Fondo monetario, in un suo recente documento interno, ammette che i suoi stessi revisori non hanno guardato a sufficienza ai rischi finanziari e alle loro implicazioni sull'economia reale. E ammette altresì che non si è badato alle attività finanziarie negli Stati Uniti, dato il loro buon record precedente. Se questo è il quadro che abbiamo davanti, non è lo Stato al posto del mercato, ma una regolazione più efficace delle attività finanziarie la soluzione che serve. Anche perché, una volta fermata l'emorragia e quindi l'ondata di panico che essa porta con sé, il problema principale per il futuro sarà come ripristinare la fiducia dentro il sistema, fiducia reciproca fra gli operatori finanziari, fiducia nei prodotti finanziari in circolazione, fiducia nella solvibilità dei clienti. È questo che congiunge la finanza all'economia reale e guai se l'anello si rompe.

Chiunque vive in modo non isterico le ormai tante giornate della crisi, si pone una domanda su tutte: come porre fine al congelamento del flusso dei capitali, che è la conseguenza più devastante di quanto ci sta accadendo. Ebbene, i supertamponi di oggi, per necessari che siano nel breve periodo, la risposta non la possono dare, giacché le banche nelle mani dello Stato possono ripristinare, ma non alimentare il circuito della fiducia. Lo Stato deve metterci una buona regolazione, che riesca a essere severa senza essere intrusiva e che spinga le autorità di vigilanza a vigilare e non a fare opera di omissivo padrinato.

Questo dobbiamo chiedere agli Stati Uniti e questo dobbiamo chiedere anche all'Europa. Oggi tutti riconoscono all'Europa una minore avventatezza e quindi una condizione di rischio minore. E tuttavia le chiedono di adottare a ogni buon fine il suo piano Paulson, che da noi, come ha scritto giustamente ieri Giangiacomo Nardozzi, può soprattutto servire a evitare le distorsioni del mercato unico, provocate da salvataggi caso per caso disposti dai singoli Stati. Ma già questo dimostra che abbiamo bisogno anche d'altro, a partire da quella vigilanza bancaria europea che oggi non c'è.
 
Un'ultima osservazione va fatta, davanti ai tanti consigli in materia che stiamo leggendo sulla stampa e altrove. Per la carità sono tutti autorevoli, ma sia consentito osservare che ci vuole la magnanimità del padre del figliuol prodigo per accettarli da quegli economisti che hanno vissuto inebriati la trascorsa stagione di follia, che hanno identificato tale follia con il capitalismo e che proprio per questo si sono poi paradossalmente uniti alla sinistra estrema (sempre in agguato) nel leggere il disastro della finanza come la fine dello stesso capitalismo. Ha proprio ragione Giulio Tremonti quando li invita a un pudico periodo di silenzio.

Il capitalismo non è il mercato senza regole, non è vero che il mercato senza regole sa prendere cura di sé ed è appunto per questo che lasciato a se stesso finisce prima o poi per fallire. Innamorarsene e guardare come intollerabilmente conservatrice qualunque attenuazione di tanto illimitato liberismo è prova di infantilismo e di debolezza culturale. Chi ha dato tale prova si astenga, per ora, dal dare anche consigli.

Non faccio, con questo, l'errore opposto a quello di costoro e non dico che ci si deve invece ispirare al modello europeo. So che i mercati sono tanti e che a fallire sono spesso le regolazioni sbagliate. Ma continuo a pensare che abbia ragione Giorgio Ruffolo con il suo ultimo libro. Il capitalismo ha (ancora) i secoli contati.

da ilsole24ore.com
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« Risposta #1 inserito:: Ottobre 07, 2008, 12:31:01 pm »

7/10/2008
 
Banchieri, guadagnatevi la fiducia
 
 
FRANCO BRUNI
 
Le Borse di tutto il mondo hanno vissuto ieri una giornata drammatica. Il crollo è stato generale e ha interessato tutti i settori. Sullo sfondo c’è la crisi bancaria.

Ma la prospettiva di un blocco del credito compromette anche le imprese industriali. Il calo delle Borse impoverisce tutti, fa calare la domanda di consumi e investimenti, avvita la congiuntura reale e crea nuove difficoltà per la finanza. Potranno esserci correzioni temporanee, ma un sollecito, radicale miglioramento della situazione è improbabile. Per muoversi verso il superamento della crisi ci sono però alcuni punti di riferimento. Due di essi, l’azione comune europea e l’iniezione di nuovo capitale nelle banche, corrispondono a due notizie positive che, paradossalmente, erano giunte proprio durante il weekend. Sabato, il vertice di Parigi aveva mostrato una nuova determinazione dei leader europei a collaborare su alcuni aspetti delle difficoltà finanziarie. Domenica Unicredit aveva imboccato con coraggio e chiarezza la via della ricapitalizzazione.

La concertazione europea è indispensabile. L’euromercato finanziario è irreversibilmente integrato: deve dotarsi presto di autorità e poteri comunitari e di procedure di gestione delle crisi uniformi, solidali e trasparenti. Quanto alla ricapitalizzazione, è ciò che veramente occorre per superare durevolmente la crisi. L’attenzione si sofferma spesso sui «titoli tossici», schizzati in tutto il mondo a partire dalle follie dei prestiti immobiliari americani. Ma il cuore del problema è l’eccessivo indebitamento del sistema, consentito da anni di politiche monetarie troppo espansive, di vigilanze distratte e di azzardi dei banchieri. I danni dei titoli tossici dipendono soprattutto dai troppi debiti di chi li possiede. La scadenza dei debiti non lascia il tempo necessario a gestire con ordine le attività incagliate. Bisogna smontare questo eccessivo indebitamento senza traumatizzare l’economia reale.

La prima condizione per poterlo fare è che i banchieri meritino la fiducia per attirare nuovo capitale di rischio. Non è facile. Comunicare scelte strategiche di lungo termine, nel disordine attuale, può sembrare velleitario. Inoltre, l’annuncio di una strategia più prudente si associa per forza a promesse di rendimenti più sicuri ma meno brillanti. Ma è inutile tergiversare: se il capitale delle banche non aumenta, in rapporto ai loro debiti, la loro fragilità continuerà a far paura. Anche i piani di salvataggio devono puntare sulla ricapitalizzazione, a costo di immettere temporaneamente capitale pubblico in alcune banche. Quest’ultima eventualità rende ancor più essenziale che, in Europa, si proceda in un quadro comunitario, dove non sia la discrezione del singolo Stato membro a decidere gli interventi, gareggiando con gli altri per proteggere le sue banche.

Nel frattempo occorre far fronte al problema della liquidità. Chi ce l’ha la trattiene, non si fida di prestarla a chi ne ha più bisogno: come se chiunque potesse risultare infetto da quantità mortali di tossine in portafoglio. Il mercato interbancario si congela. La banca centrale può continuare ad aiutare ma, per superare veramente l'illiquidità, occorre un salto di qualità della trasparenza. Dove sono i titoli cattivi? È interesse dei banchieri scambiarsi le informazioni essenziali. È dovere delle autorità pretendere con risolutezza di localizzare le tossine. È indispensabile la collaborazione europea. L’Europa ha scelto la strada dei comitati di vigilanza multinazionali per le singole banche. Ma ci vuole il coraggio di andare oltre: una sorveglianza centralizzata, dotata dei poteri per garantire la messa in comune rigorosa di tutte le informazioni e l’esercizio di una disciplina omogenea e imparziale sulla trasparenza di tutte le istituzioni finanziarie.

Il sistema bancario italiano è fra i meno fragili. È stato gestito con prudenza e meno permissività di altri. Secondo alcuni, la minor spregiudicatezza dei banchieri italiani è una conseguenza, paradossalmente positiva, di una minor capacità di innovazione, di una concorrenza meno accentuata e, persino, di un certo provincialismo. In realtà, da molti anni, al di là di alcuni incidenti di percorso dai quali abbiamo tratto gli insegnamenti necessari, l’evoluzione e la ristrutturazione dell’insieme dell’attività bancaria è stata in Italia brillante: non è l’arretratezza il presidio della solidità complessiva del sistema. Una solidità che risulta da alcuni indicatori ma circa la quale, da osservatori esterni, dobbiamo fidarci delle rassicuranti dichiarazioni dei banchieri e delle autorità. È comunque fuori luogo qualunque timore fra i depositanti al dettaglio, per la sicurezza dei loro conti correnti, più che protetti da solide garanzie esplicite e implicite.

Per le banche italiane è anche importante il comportamento di fronte alla crisi finanziaria dei nostri politici, al governo e all’opposizione. Finora è stato nel complesso corretto e composto. Speriamo rimanga tale. La stabilità finanziaria e la difesa del risparmio sono beni pubblici sacrosanti, difesi dalla Costituzione, con i quali la politica deve mostrare il senso di responsabilità che i cittadini si attendono e meritano. Sarebbe una disgrazia che a questa materia si estendesse la vacua baruffa opportunistica che impedisce al Paese di fare passi avanti con altri problemi dell’economia e della politica. Sarebbe bello, all’opposto, che proprio la difficile congiuntura finanziaria incentivasse le parti politiche a ritrovare unità di intenti e concretezza anche su altri fronti.

franco.bruni@unibocconi.it
 
da lastampa.it
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« Risposta #2 inserito:: Ottobre 09, 2008, 10:29:43 am »

CAPITALISMO E CICLI

Il fantasma delle regole


di Francesco Giavazzi


È opinione comune che la crisi finanziaria in corso sia colpa di regole del gioco inadeguate e di regolatori disattenti, soprattutto negli Stati Uniti. Molti si esercitano nel proporre nuove regole capaci di evitare il ripetersi di simili crisi.

Mi pare un'illusione. Le crisi finanziarie non sono una patologia del capitalismo: sono intrinseche al capitalismo. Pensare che sia possibile, grazie a regole migliori e a regolatori illuminati, eliminare il rischio, e quindi le crisi, è una sciocchezza. Il rischio è l'anima del capitalismo perché il mestiere dell'imprenditore e del banchiere è cercare occasioni rischiose e scommettere sulla propria capacità di vincere. Talvolta si vince, talvolta si perde. Spesso per vincere occorre costruire strategie che, pur non violando le regole, si insinuano fra le norme, fanno arbitraggi fra sistemi regolamentari diversi. Per ogni regola spesso esiste una strategia di investimento capace di aggirarla.

È vero che negli Stati Uniti la politica ha corrotto le regole, in particolare sottraendo alla Federal Reserve competenze sulla vigilanza delle banche di investimento. Ma la crisi sarebbe scoppiata lo stesso perché la costruzione di leve finanziarie elevatissime, anziché all'interno delle banche americane, sarebbe avvenuta altrove, in altri Paesi o attraverso strumenti diversi dalle banche come i fondi hedge
e con effetti analoghi. E d'altronde in Europa, dove ci vantiamo di avere una governance
migliore di quella americana, le banche non sono al riparo dalla crisi.
Regole perfette, capaci di eliminare le crisi non esistono: sono esistite solo nell'economia sovietica e si riducono ad una norma semplice, la proibizione della libera impresa. L'esperienza del secolo scorso dimostra che le economie di mercato, nonostante le loro crisi, sono luoghi migliori in cui vivere. E tanto migliori quanto più l'economia è libera.

Nonostante le crisi ricorrenti, le economie aperte crescono di più, innovano di più, creano più occasioni di lavoro. Negli ultimi vent'anni gli Stati Uniti sono cresciuti un punto all'anno più dell'Europa, un guadagno sufficiente per compensare il costo della crisi che non sarà lieve.

Se le crisi sono inevitabili, come si possono attenuarne gli effetti sull'economia? Innanzitutto proteggendo il risparmio di chi non vuole partecipare al gioco della finanza e tiene i soldi in banca: questo in Italia è garantito ancor più dopo il decreto del governo. Poi, imparare dalla storia e dalle crisi precedenti. Nel 1929 il mondo fu colpito da uno choc di dimensioni simili a quello odierno: come ha spiegato Alberto Alesina ( Sole-24Ore, 17 settembre) la ragione per cui quello choc si trasformò in una depressione che in alcuni Paesi trascinò con sé la democrazia fu una serie di gravi errori di politica economica: i dazi imposti dal Congresso americano, gli errori della Fed, regole sbagliate introdotte dal presidente Hoover.

Alla radice di questa crisi c'è la scarsa capitalizzazione del sistema finanziario. Per uscirne è necessario che nuovo capitale affluisca alle banche: se possibile dai loro azionisti, come è accaduto nei giorni scorsi in Unicredit, altrimenti, in via temporanea, dagli Stati. E poi evitare di riscrivere le regole del gioco sull'onda degli eventi. Ricordiamoci che uno dei fattori che hanno amplificato questa crisi sono le regole cosiddette di Basilea-2, disegnate per rendere più solide le banche.


09 ottobre 2008

da corriere.it
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