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« Risposta #15 inserito:: Marzo 14, 2009, 03:37:58 pm » |
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ECONOMIA L'ANALISI
L'allarme della Cina sui titoli Usa
dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI
PECHINO - "Abbiamo prestato capitali enormi agli Stati Uniti, sinceramente siamo preoccupati". Con questa uscita esplosiva ieri il premier cinese Wen Jiabao ha insinuato il sospetto sulla solvibilità di lungo termine del Tesoro americano e sui rischi connessi all'esplosione del deficit pubblico Usa. I mercati hanno reagito immediatamente, i Treasury Bonds hanno perso quota di fronte all'eventualità di una "sfiducia" da parte del più grande creditore sovrano degli Stati Uniti.
Allo stesso tempo però Wen ha rassicurato Washington sul fatto che il governo di Pechino è pronto a varare una seconda manovra di spesa pubblica, "anche immediatamente se necessario", per rilanciare la crescita. Mentre il portavoce della Casa Bianca, Robert Gibbs, si è affrettato a dire: "Gli investimenti negli Stati Uniti sono i più sicuri al mondo".
Non vi sono quasi precedenti di un leader straniero che osi mettere in dubbio la credibilità del debito pubblico americano. Bisogna risalire agli attacchi di Charles De Gaulle alla fine degli anni '60 contro l'aggancio dollaro-oro, in piena guerra del Vietnam. Oggi il contesto è profondamente cambiato: la massima parte del debito pubblico Usa collocato all'estero finisce nei forzieri delle banche centrali asiatiche, prima fra tutte quella cinese. Nel corso del 2008 i volumi di Bot americani sottoscritti dalla banca centrale di Pechino sono aumentati del 46%, a quota 700 miliardi di dollari. La stragrande maggioranza delle riserve ufficiali cinesi (2.000 miliardi di dollari) sono piazzate in Treasury Bonds e lo stesso vale per i portafogli degli istituti di credito pubblici e dei fondi sovrani che fanno sempre capo alla Repubblica Popolare.
L'Amministrazione Obama sarà costretta a nuove maxi-emissioni di titoli pubblici nel 2009 (fino a 2.000 miliardi di dollari aggiuntivi) per finanziare i salvataggi bancari e le manovre di spesa pubblica. Di qui l'allarme lanciato ieri dal capo del governo cinese nella conferenza stampa che ha chiuso la sessione legislativa del Congresso del Popolo. "Il presidente Obama - he detto Wen - ha varato misure per fronteggiare la crisi, che guardiamo con molte aspettative. Ma l'America deve tutelare la propria credibilità, deve onorare le sue promesse, deve garantire la sicurezza degli investimenti cinesi". La clamorosa uscita di Wen rientra nelle manovre tattiche che preludono al vertice G-20 del 2 aprile a Londra. Di certo il premier cinese non ha voluto preannunciare un abbandono della politica cinese di investimenti nei titoli del Tesoro Usa. Non c'è nessun segnale che la banca centrale di Pechino stia diversificando il suo portafoglio, nel quale l'euro e lo yen e l'oro continuano a occupare uno spazio del tutto marginale. Smettere di finanziare il debito pubblico americano avrebbe per i cinesi una conseguenza catastrofica: il tracollo del dollaro, quindi una rovinosa caduta di competitività del made in China già sofferente per il calo della domanda mondiale. Dal 2005 la moneta cinese si è rivalutata del 26% sul paniere delle principali valute, e Pechino non ha interesse ad accelerare un apprezzamento che danneggia i suoi esportatori.
Ma la preoccupazione per l'escalation del debito americano è reale. Da una parte Wen Jiabao deve rispondere a una constituency nazionale - l'ala "populista" del Partito comunista - che vorrebbe destinare a investimenti interni le risorse ingenti accumulate con gli attivi del commercio estero. Soprattutto, i leader cinesi temono che Washington stia costruendo le premesse per un'uscita dalla crisi basata sulla vecchia ricetta "inflazione più svalutazione". E' una strategia che ha illustri precedenti storici: la via maestra per alleggerire il debito è stampar moneta e creare inflazione. Pechino ha osservato con allarme la mossa spregiudicata della Banca centrale svizzera che ha innescato una svalutazione del franco: un piccolo precedente che può segnare l'inizio di una catena di svalutazioni competitive. Uno scenario che naturalmente preoccupa il creditore di ultima istanza, la Cina. In vista del G-20 i leader di Pechino mettono sul tavolo le loro priorità. Sono disposti a creare contro l'Europa un fronte Asia-America (che include il Giappone), favorevole a ulteriori iniezioni di investimenti pubblici anti-recessione. In cambio però vogliono da Washington delle garanzie: niente protezionismi stile Buy American, e no alle svalutazioni competitive.
(14 marzo 2009) da repubblica.it
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« Risposta #16 inserito:: Marzo 23, 2009, 11:15:09 am » |
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L'assalto a una caserma dopo la notizia del suicidio di un religioso fermato
Intanto il Sudafrica nega il visto al Dalai Lama. L'ira del Nobel Tutu
Il pugno di Pechino sul Tibet monaci in rivolta, cento arrestati
dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI
PECHINO - Cento monaci buddisti arrestati, un assalto di massa contro una caserma di polizia, migliaia di soldati in stato di massima allerta: in Tibet riesplode la tensione, un anno dopo le rivolte contro l'occupazione cinese che furono schiacciate nel sangue. Nonostante la regione sia in stato di assedio, con un dispiegamento senza precedenti di forze armate, e vietata ad ogni osservatore straniero, ieri sono filtrate notizie di duri scontri.
L'ultimo episodio è accaduto al monastero di Ragya, nella provincia del Qinghai: quindi fuori dal confine amministrativo attuale del Tibet. Il Qinghai come il Sichuan hanno "ricevuto" intere enclave tibetane quando il perimetro delle provincie fu ridisegnato per motivi politici, dopo l'invasione cinese del 1949. L'obiettivo era quello di rimpicciolire il Tibet le cui dimensioni originarie si avvicinavano a quelle dell'intera Europa occidentale. Tuttavia le comunità tibetane che vivono nelle provincie limitrofe hanno conservato la stessa ostilità verso il governo cinese, e sono rimaste a maggioranza fedeli al Dalai Lama, il leader politico-spirituale fuggito in esilio nel 1959. L'ultima protesta nel Qinghai segue di pochi giorni il lancio di una bomba contro una caserma di polizia.
Attorno al monastero di Ragya la scintilla della rivolta sembra essere stata il suicidio di un monaco 28enne, Tashi Sangpo, gettatosi nelle acque del fiume dopo essere che la polizia lo aveva interrogato e torturato. La sua colpa: aveva esposto la bandiera nazionale tibetana, un vessillo proibito dalla legge cinese perché è simbolo dell'indipendenza. Alla notizia del suicidio del religioso più di duemila persone sono scese in piazza a protestare contro le violenze poliziesche. I manifestanti, inclusi un centinaio di monaci, si sono diretti verso il commissariato di polizia di Ragya e l'hanno preso d'assalto. La controffensiva dei reparti speciali anti-sommossa e delle forze armate non si è fatta attendere, con la nuova retata di manifestanti. I monaci detenuti finiscono nei campi di lavori forzati, dove subiscono sedute di "rieducazione" in cui sono costretti a rinnegare il Dalai Lama e a giurare fedeltà al partito comunista cinese.
Malgrado il susseguirsi di episodi di protesta, finora il governo di Pechino sembra essere riuscito a evitare una rivolta generalizzata come quella dell'anno scorso. Il 14 e 15 marzo 2008, approfittando anche dell'avvicinarsi dei Giochi olimpici e quindi della maggiore attenzione dell'opinione pubblica occidentale, la protesta partita da Lhasa era dilagata in tutto il Tibet, apparentemente cogliendo impreparate le autorità centrali. Quest'anno Pechino ha voluto prendere tutte le precauzioni, aumentando il dispiegamento preventivo di militari e polizia. Inoltre l'isolamento del Tibet e il divieto di accesso per gli stranieri ha reso più stringente il controllo cinese sulle informazioni che filtrano da quelle zone.
Nei confronti dell'estero, il governo della Repubblica Popolare ha alternato il bastone e la carota: da una parte le aperture al dialogo con i rappresentanti del Dalai Lama (finora rivelatesi inconcludenti), dall'altra i "castighi" somministrati ai governi stranieri colpevoli di solidarietà col Tibet (come la cancellazione del vertice tra Cina e Ue dopo la visita del Dalai Lama all'Eliseo). L'ultimo paese a piegarsi al ricatto di Pechino è il Sudafrica. Ha negato il visto al Dalai Lama, che avrebbe dovuto incontrare Nelson Mandela, come lui premio Nobel per la pace. Sdegnato un altro Nobel, l'arcivescovo Desmond Tutu, che ha accusato il Sudafrica di "soccombere vergognosamente alle pressioni di Pechino". Il paese è mèta di importanti investimenti cinesi nelle materie prime, un legame economico che ha sicuramente pesato nel veto al Dalai Lama.
(23 marzo 2009) da repubblica.it
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« Ultima modifica: Aprile 14, 2009, 02:51:24 pm da Admin »
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« Risposta #17 inserito:: Marzo 27, 2009, 11:49:31 am » |
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Pechino, segnali di ripresa e riparte l'export dei vicini
Federico Rampini
A Pechino già si intravvede la luce in fondo al tunnel della crisi. Questo almeno è il messaggio reiterato in questi giorni dai più importanti esponenti della Repubblica Popolare. Il governatore della banca centrale Zhou Xiaochuan (lo stesso che ha fatto notizia all'inizio della settimana con la proposta di una "valuta globale" per sostituire il dollaro) annuncia che vi sono già chiari segnali di una ripresa economica. "Gli indicatori più importanti - sostiene Zhou in un articolo pubblicato oggi sul sito online della banca centrale - concordano nell'annunciare una ripresa della crescita".
Per la prima volta in modo così diretto, la tenuta dell'economia cinese viene usata per dimostrare la superiorità del sistema politico autoritario e dirigista. Il banchiere centrale infatti attribuisce esplicitamente la ripresa economica alla "azione decisiva del governo", che mette in contrasto con i ritardi di altre nazioni. "Il nostro governo - scrive Zhou - ha varato misure di politica economica tempestive, energiche ed efficaci, dimostrando così la superiorità di questo sistema quando si tratta di prendre deicisioni politiche di vitale importanza".
Qualche elemento di conferma sulla tenuta dell'economia cinese sembra venire anche da un paese vicino: la Corea del Sud ha visto rallentare il tracollo delle sue esportazioni. Dopo la pesantissima caduta del 34% a gennaio, a febbraio la discesa è stata del 18% e a marzo del 13%. Non sono certo cifre positive ma sembrano indicare che il crollo delle esportazioni incontra un "pavimento". Molti esperti individuano questo pavimento nella domanda cinese. Dopo un ultimo trimestre 2008 in cui le imprese cinesi spaventate dalla crisi mondiale hanno drasticamente ridotto i loro acquisti, la necessità di ricostituire le loro scorte di magazzino ora sta rianimando gli investimenti. E i paesi vicini, molto dipendenti dal traino cinese, cominciano a risentirne qualche beneficio.
A Pechino intanto si conferma l'anomalia di un sistema bancario che gode di una salute eccezionale, se paragonata al resto del mondo. La Industrial & Commercial Bank of China Ltd., la più grande azienda di credito del paese, ha annunciato che i suoi profitti nel 2008 sono cresciuti del 35,2%. Unico segno della crisi è il rallentamento del tasso di crescita, visto che gli utili dell'istituto nel 2007 erano cresciuti del 65%. ICBC ha anche raggiunto un accordo con la Goldman Sachs per rinviare la cessione della partecipazione detenuta dal gruppo bancario americano nel suo capitale.
L'inflazione indiana rallenta allo 0,27%, un dato che offre alla banca centrale di New Delhi la possibilità di ulteriori riduzioni nei tassi d'interesse. Il rallentamento dell'indice dei prezzi è spettacolare, tenuto conto che un anno fa l'India era minacciata da una iperinflazione, e ancora a gennaio il carovita per i consumatori aveva segnato un rialzo del 10%.
(26 marzo 2009) da repubblica.it
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« Risposta #18 inserito:: Aprile 14, 2009, 02:52:10 pm » |
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L'ANALISI
Corruzione, economia e populismo così è fallito il modello Thailandia
di FEDERICO RAMPINI
DUE leader di governo tra i più potenti del mondo costretti a una movimentata fuga in elicottero: è il segnale che la crisi thailandese è tutt'altro che una vicenda locale. L'immagine del premier cinese Wen Jiabao e del suo omologo giapponese Taro Aso "evacuati" in extremis dall'aviazione militare, con l'interruzione forzata di un importante summit che si era aperto venerdì a Pattaya, restituisce la dimensione internazionale del caso-Thailandia. Questa nazione del sud-est asiatico fu uno dei primi "dragoni" a sperimentare la modernità, l'apertura all'Occidente e i benefici della globalizzazione. Oggi è un concentrato di ricette fallite. I leader dell'Asean si erano riuniti a Pattaya proprio per discutere un approccio comune alla recessione che colpisce l'Estremo Oriente, ma quel dialogo è stato interrotto dal caos delle proteste che minacciano il governo di Bangkok. E' inevitabile tracciare il parallelo con un'altra crisi finanziaria internazionale, "l'asiatica" che ebbe inizio proprio in Thailandia nel 1997: oggi ci appare per molti versi come una prova generale del collasso sistemico iniziato negli Stati Uniti un decennio dopo.
Negli occidentali è forte la tentazione di liquidare la Thailandia come uno Stato da operetta. I golpe hanno una frequenza disarmante: gli ultimi avvennero nel 1971, 1977, 1991, 2006. L'esercito appare come l'arbitro di ultima istanza delle contese tra fazioni politiche. Dietro l'esercito, in un ruolo occulto e spesso indecifrabile, c'è la regìa imprevedibile e nefasta del re. Ma in quest'ultimo divampare della violenza, con i sanguinosi regolamenti di conti tra le "camicie rosse" dell'opposizione e le "camicie gialle" filogovernative e filomonarchiche, il caos politico thailandese è accentuato dalle confusioni dei ruoli. Il precario governo guidato dal 44enne Abhisit Vejjajiva, che traballa paurosamente sotto i colpi della contestazione, avrebbe le carte in regola per una gestione moderata e consensuale della crisi economica. Ma il suo premier è macchiato da un peccato originale: la legittimità popolare gli fa difetto dalla nascita. Abhisit è andato al potere grazie alla congiunzione tra la pressione della piazza e le congiure di palazzo. Ha avuto il sostegno delle forze armate e del Parlamento, mai quello del suffragio universale. Per ben due volte, nel 2005 e nel 2007, gli elettori hanno chiesto il ritorno al potere del principale partito di opposizione e la loro volontà è stata calpestata da una democrazia truccata. La natura di quell'opposizione a sua volta non fa che accentuare l'instabilità della Thailandia.
Il leader deposto e in esilio, Thaksin Shinawatra, fu definito a suo tempo "un Berlusconi asiatico". Le etichette sono fuorvianti e questi paragoni sono sempre delle forzature. Sta di fatto che Thaskin è al tempo stesso un magnate-simbolo di un nuovo capitalismo, che fece fortuna con il boom delle telecomunicazioni, poi fu al centro di gravi accuse quando vendette il suo impero a investitori stranieri (di Singapore). E' un leader populista di successo: la sua immensa ricchezza personale non gli impedisce di avere una solida base di consenso tra i ceti meno abbienti delle regioni rurali. È lì che la sua azione di governo esercitò i benefici più reali: aumento della spesa per l'istruzione, la sanità, e accesso al credito per i piccoli agricoltori. Al governo dal 2001 al 2006, Thaksin ha rivoluzionato le regole del gioco, cavalcando la diffusa sfiducia popolare verso l'élite di Bangkok. Ma le sue pulsioni autoritarie erano preoccupanti, come nell'uso spregiudicato della campagna anti-droga per ridurre le libertà e aumentare l'arbitrio poliziesco. Dall'esilio dorato fra Dubai e Londra - dove ha comprato la squadra di calcio Manchester City - Thaksin continua a usare la sua ricchezza per finanziare le proteste anti-governative, convinto che un ritorno alle urne potrebbe consentirgli di insediare un premier-fantoccio.
L'alternativa tra un plutocrate populista e l'attuale governo sorretto (forse solo provvisoriamente) dai militari e dal re, è un'atroce caricatura di quel che potrebbe essere la dialettica democratica in un paese ormai sviluppato come la Thailandia. Il caos di Bangkok è la smentita più severa di quelle teorie sul "modello asiatico" di paternalismo autoritario, che hanno importanti fautori da Singapore a Pechino. La presunta stabilità di quel modello, in tutte le sue varianti di destra e di sinistra, è messa a dura prova dalla tempesta economica attuale e non solo in Thailandia.
(14 aprile 2009) da repubblica.it
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« Risposta #19 inserito:: Aprile 22, 2009, 04:08:57 pm » |
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GIORNATA DELLA TERRA
Earth Day, se la recessione fa calare l'inquinamento
Nel giorno della celebrazione voluta dall'Onu per la prima volta lo smog diminuisce
dal corrispondente FEDERICO RAMPINI
PECHINO - Dopo cinque anni di vita a Pechino, una delle città più inquinate del pianeta, la mia sensazione di un calo nello smog poteva essere dovuta a semplice assuefazione. Ma un panel indipendente di esperti internazionali conferma quello che le narici di noi residenti avvertono da qualche tempo. Nella capitale cinese l'inquinamento atmosferico dell'ultimo trimestre è stato inferiore del 25% rispetto ai 7 anni precedenti. Lo scienziato Chak Chan della Hong Kong University of Technology non ha dubbi: "E' grazie alla recessione". Per i fautori della de-crescita è un trionfo della loro tesi: la migliore cura per l'ambiente è fermare lo sviluppo.
Segnali simili si moltiplicano in ogni angolo del pianeta. In America, da New York a San Francisco, i pendolari costretti a risparmiare riscoprono in massa i mezzi pubblici meno inquinanti, metropolitane e treni. Le compagnie aeree a corto di passeggeri lasciano a terra molti apparecchi e disdicono i contratti di acquisto con Airbus e Boeing. Centinaia di navi portacontainer, a Hong Kong e Yokohama, Seul e Singapore, sono ferme per il crollo del commercio mondiale: anche lo smog del trasporto marittimo si riduce. In Europa 150 città hanno aderito al movimento delle Transition Town, che applicano una strategia sistematica per la riduzione dei consumi energetici.
Il laboratorio più vasto per misurare "l'impatto verde" della crisi è la Repubblica Popolare, che due anni fa superò gli Stati Uniti per il volume di Co2 rilasciato nell'atmosfera. Non solo a Pechino ma in tutta la Cina un effetto positivo della recessione è innegabile. Nella provincia meridionale del Guangdong hanno chiuso per bancarotta 62.400 imprese in un solo trimestre. E quindi hanno smesso di rilasciare smog. La fine della bolla speculativa immobiliare ha bloccato l'apertura di nuovi cantieri per edificare grattacieli a Shanghai. Il consumo di elettricità (prodotta da centrali a carbone) è in calo per la prima volta da decenni. Tutte le cause dell'inquinamento sono in ritirata.
Sulla sponda opposta del Pacifico si accumulano nei piazzali di Detroit i Suv invenduti, disertati dai consumatori. Diventa un simbolo nazionale la famiglia Wojtowicz di Alma, nel Michigan. Il marito Patrick, ex camionista di 36 anni, la moglie Melissa di 37, la figlia quindicenne Gabrielle, sono stati scelti dal giornale Usa Today come i precursori di un nuovo trend: "La frugalità del XXI secolo". I Wojtowicz hanno restituito alle banche tutte le carte di credito. Hanno disdetto l'abbonamento alla tv via cavo. Hanno venduto nei mercatini dell'usato i costosi giocattoli elettronici. Si sono ritirati in una fattoria con porcile e pollaio per allevare gli animali, e un campicello di 16 ettari per coltivare frutta e verdura. Il loro obiettivo economico è l'autosufficienza. E naturalmente uno stile di vita sostenibile. Le reazioni dei lettori di Usa Today sono entusiastiche. Il taglio dei consumi imposto alle famiglie americane dalla crisi viene nobilitato come una nuova etica, un trend di costume. Comincia a cambiare quella miriade di abitudini quotidiane che imponevano una pressione crescente sull'ecosistema.
Le virtù della de-crescita sembrano confermate. In realtà nel passato c'erano stati dei casi simili, che consigliano prudenza. Lo scienziato ambientale Kenneth Rahn, dell'università di Rhode Island, ricorda che quando crollò l'Unione sovietica e tutta l'Europa dell'Est entrò in una lunga crisi economica, i livelli di smog sopra il circolo polare artico diminuirono del 50%. La chiusura di tante fabbriche in Russia e nei suoi ex-satelliti aveva provocato gli stessi effetti che sono visibili vent'anni dopo in Cina. "Una riduzione dell'attività economica - dice Rahn - automaticamente abbassa i livelli di inquinamento". Ma per l'ambiente questo progresso è durevole? Il caso della crisi nel blocco ex-sovietico non è confortante. Quando la riduzione dello smog è solo un effetto dell'impoverimento, i suoi benefici sono temporanei. Le recessioni sono addirittura controproducenti se rallentano gli investimenti in nuove tecnologie verdi, penalizzate dal contro-choc petrolifero e dall'inaridirsi del credito.
L'industria cinese dei pannelli solari è tramortita da un crollo di esportazioni. Theolia, il colosso francese delle energie alternative, ha cancellato il progetto di creare una nuova filiale dedicata ai paesi emergenti. Il magnate americano T. Boone Pickens, che aveva in cantiere la più grande centrale eolica del mondo nel Texas, ha congelato il progetto. Un'altra impresa specializzata nell'energia generata dalle pale a vento, la britannica Centrica, ha bloccato tre piani di creazione di nuove centrali eoliche. Oltre all'improvviso ritorno di un temibile concorrente come il petrolio o il carbone a buon mercato, un handicap aggiuntivo per le fonti rinnovabili è che spesso richiedono finanziamenti a lungo termine. La crisi bancaria ha reso più difficile raccogliere fondi per progetti decennali.
Un indicatore dei problemi futuri è il comportamento delle compagnie petrolifere. Durante l'impennata dei prezzi del greggio, si erano scoperte una nuova vocazione verde. Ora che il greggio è precipitato sotto i 50 dollari il barile, la Shell ha già dismesso le sue attività nel solare e nell'energia eolica. Resta la speranza che i comportamenti delle grandi imprese cambino quando scatteranno gli incentivi dell'Amministrazione Obama, e 150 miliardi di dollari del bilancio federale irrigheranno il business delle fonti rinnovabili. La recessione da sola non ce la può fare.
(22 aprile 2009) da repubblica.it
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« Risposta #20 inserito:: Aprile 22, 2009, 04:14:49 pm » |
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La piazza asiatica
Pechino, corsa ai Bot a breve
Federico Rampini
Vivremo a lungo in un mondo caratterizzato dalla deflazione? I tesorieri della Repubblica Popolare non ne sono affatto convinti. Pechino non fa mistero del suo timore che la politica economica americana stia creando le premesse per un ritorno dell'inflazione (peraltro il modo più sicuro per ridurre il debito pubblico di Washington). E adesso la banca centrale cinese si comporta di conseguenza: pur continuando ad acquistare massicciamente i titoli del Tesoro Usa, sta operando una riconversione del suo portafoglio a favore dei Bot americani a breve termine. E' una classica mossa per ridurre la propria esposizione di fronte al rischio di improvvisi rialzi dei tassi Usa, che potranno rendersi necessari se l'inflazione tornerà a salire.
Nel mese di febbraio la banca centrale cinese nella gestione delle proprie riserve valutarie ha venduto quasi un miliardo di Treasury Bond a lunga scadenza, e ha comprato invece 5,6 miliardi di Treasury Bill trimestrali. E' la prima volta dal mese di novembre che l'autorità monetaria cinese acquista più titoli a breve che a lunga scadenza. I Bot trimestrali rappresentano l'investimento più sicuro e liquido, anche se danno un rendimento pari a zero o in certi casi un interesse negativo. I T-Bond a lunga scadenza invece perdono automaticamente valore nel caso di un improvviso aumento dei tassi d'interesse ufficiali. Attualmente la banca centrale cinese ha 744 miliardi di dollari investiti in titoli del debito pubblico americano, il più grosso quantitativo detenuto da un singolo investitore straniero.
Dalla Cina arriva un altro segnale rincuorante sullo stato dell'economia reale: le aziende di Stato hanno chiuso il mese di marzo con un aumento medio dei profitti pari al 26%, su base annua. Il dato di marzo è in netto contrasto con quanto era avvenuto nei primi due mesi di quest'anno, quando i profitti delle imprese pubbliche erano calati del 33%.
La Cina ha avviato la costruzione di reattori nucleari di terza generazione, usando la tecnologia americana AP 1000 ad acqua pressurizzata del gruppo Westinghouse. I reattori sono in costruzione a Sanmen nella provincia orientale dello Zhejiang, e secondo l'agenzia stampa Nuova Cina questa sarà la prima centrale atomica di terza generazione ad entrare in funzione nel mondo.
(21 aprile 2009) da repubblica.it
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« Risposta #21 inserito:: Aprile 23, 2009, 02:54:11 pm » |
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L'ANALISI
I padroni della luce
di FEDERICO RAMPINI
Un'immagine della Terra di notte composta da più immagini riprese da oltre 400 satelliti Nasa Cos'è la modernità? Comunque la definiamo, da oggi sicuramente sappiamo dov'è la "nostra" modernità: è il regno della luce. Un regno dai confini precisi e spietati, oltre i quali c'è un'immensa umanità delle tenebre. Per capire il mondo in cui viviamo ora abbiamo questo planisfero straordinario, risultato di 400 immagini satellitari montate per costruire un'unica foto. E' la Terra come se fosse tutta simultaneamente avvolta nella notte.
E' un'oscurità trafitta da milioni di punti luminosi, qui densissimi, là più radi, altrove inesistenti. Sono le luci dell'urbanizzazione, dello sviluppo, della produzione di ricchezza, della densità civile, dei flussi di comunicazione. Ecco che grazie alla notte tutto diventa più chiaro: i confini tra le civiltà, i dislivelli di benessere, i fossati tecnologici. Questo planisfero condensa lezioni di geopolitica; analisi sulla globalizzazione; scenari sul futuro dell'ambiente; rapporti di forza demografici. Dà un'angosciosa visibilità alle diseguaglianze.
Ciascuno prenda il suo tempo, si soffermi a fissare queste immagini prese dai satelliti: sono l'inizio di tanti percorsi d'indagine per decifrare il senso della nostra epoca. Questo planisfero andrebbe appeso nella aule scolastiche e universitarie, dovrebbe aprire le lezioni di geografia, storia, economia, sociologia, scienze politiche. Osservate dove il regno della luce è imperioso e incontrastato. Splende l'Europa; tutta la parte abitata degli Stati Uniti; il Giappone. E' quella che fu la Trilaterale. E' l'asse delle liberaldemocrazie capitaliste che ha fatto e disfatto i destini del pianeta dopo la seconda guerra mondiale. Prima ancora era il mondo delle potenze coloniali o neocoloniali. E' l'epicentro delle rivoluzioni tecnico-industriali del Novecento. Sembra quasi di percepire un'antica arroganza dietro quelle tre zone di luce così abbagliante. Ma non sono più sole. Vista dalla stratosfera è ben luminosa tutta la fascia sviluppata della Cina, nuovo imponente protagonista dello sviluppo e della modernizzazione, ma ben diverso dal vecchio club delle democrazie. Il triangolo dell'India è perfettamente riconoscibile grazie a una luce diffusa, omogenea, non troppo intensa ma priva di ombre: l'immagine fedele di una modernità "soft", che ha tentato di evitare gli strappi di accelerazioni troppo brutali. Quelle due vaste zone di luci recenti sarebbero state invisibili dallo Sputnik sovietico o dagli astronauti americani che andarono sulla luna: solo da un paio di decenni i due miliardi del nuovo ceto medio asiatico hanno acceso lampadine e televisori, computer e fari delle automobili.
Irregolare, a chiazze di leopardo, la luce segnala oasi di sviluppo in Medio Oriente e nel Golfo Persico. La Russia bianca è un'appendice sbiadita della nostra Europa; emana verso il resto dei suoi territori fino alla Siberia dei fasci tenui, le arterie di uno sviluppo petrolio-diretto. Qualche sottile zona costiera dell'America latina lancia i suoi messaggi verso l'universo: ci siamo anche noi, ce l'abbiamo fatta. Sono quelli entrati finalmente nel G-20, dove si concentra l'80% della ricchezza mondiale. E tutto il resto? Forse è da lì che bisognerebbe partire: perché anche senza contare gli oceani, nel mondo emerso il buio è quasi più esteso della luce. Va decifrato. Non tutte le oscurità sono uguali. Ci sono vaste zone nere che indicano geografia e demografia favorevoli: Canada e Australia, ricchi di natura selvaggia e materie prime, con popoli sparpagliati su territori sconfinati. Ci sono invece zone di buio affollatissime. Il continente nero con minuscole eccezioni (uno spicchio di Sudafrica) è rimasto ai margini della globalizzazione: la fiammata già esaurita delle materie prime non ha seminato i germi di una modernità solida. L'Asia centrale è in gran parte scura, per i satelliti che scrutano nella notte. Visto che là si combatte da otto anni per stanare Osama bin Laden, anche i conflitti esplosi dopo l'11 settembre 2001 hanno una declinazione in termini di luce contro tenebre. Non è per forza un giudizio di valori; è la constatazione che gli antagonismi più distruttivi coincidono in parte con dei confini di modernità misurati in gigawatt. Già, come dimenticare che tutti quegli addensamenti luccicanti per bucare la notte richiedono centrali elettriche, energia? Il regno della luce possiamo confrontarlo con altre geomappe satellitari, dell'inquinamento atmosferico. Coincidono perfettamente.
(23 aprile 2009) da repubblica.it
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« Risposta #22 inserito:: Aprile 26, 2009, 10:09:08 am » |
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Federico Rampini.
LA STORIA
Il mistero del Piccolo Buddha che oggi compie vent'anni
L'erede del Dalai Lama è scomparso da 14 anni.
Pechino lo dà per morto. Ma il Tibet lo festeggia
dal corrispondente F. RAMPINI
PECHINO - È l'anniversario che la Cina ha deciso di cancellare. Oggi compie vent'anni il Panchen Lama, la seconda autorità spirituale del buddismo tibetano, il "vice" del Dalai Lama alla guida del suo popolo. Ma Gedhun Choeky Nyima - questo il nome del vero Panchen Lama - è invisibile dall'età di sei anni. Poco dopo la sua investitura da parte del Dalai, il 14 maggio 1995, il bambino fu sequestrato con tutta la sua famiglia dalla polizia cinese. Quello che divenne "il prigioniero politico più giovane del mondo" da allora è recluso in un luogo segreto. La sua colpa è imperdonabile: per il solo fatto di esistere, il Panchen incarna l'autonomia di un potere spirituale che lo ha scelto senza prendere ordini dal governo.
L'ultima violenza su di lui il regime di Pechino l'ha commessa alcuni giorni fa, lasciando filtrare indiscrezioni sulla sua morte. Nessun annuncio ufficiale - altrimenti il governo dovrebbe fornire spiegazioni e prove sull'improvviso decesso di un ventenne - ma solo voci. Che gli esuli tibetani vicini al Dalai Lama definiscono false. Forse per vie imperscrutabili riescono ad avere notizie su di lui.
Alla vigilia di questo compleanno proibito, i cinesi non si sono limitati a diffondere insinuazioni sulla morte del loro giovane prigioniero. Pechino ha deciso di esibire in due eventi ufficiali il suo "gemello comunista": il Panchen del regime. Quasi coetaneo dell'altro (ha 19 anni), etnicamente tibetano anche lui ma figlio di due membri del partito comunista, questo si chiama Gyaincain Norbu. Nel 1995, non appena catturato il vero Panchen, la controfigura venne investita solennemente dal governo. Secondo le autorità cinesi è lui l'undicesima reincarnazione del "grande studioso" della setta Gelugpa. Il Panchen filo-cinese non è mai stato accettato dai suoi connazionali, che gli negano ogni legittimità. Senza la benedizione del Dalai, per i fedeli è un impostore. Perciò anche lui ha finito per trascorrere infanzia e adolescenza come un detenuto. Per paura che i tibetani potessero influenzarlo le autorità lo hanno allevato a Pechino, in un convento politically correct, sotto il controllo del partito. I maestri di dottrina gli insegnavano il patriottismo (cinese), la fedeltà al governo, il mandarino e l'inglese: utili per farne un futuro portavoce urbi et orbi. Per anni le sue apparizioni in pubblico sono state rare e protette da una scorta. In una di quelle occasioni, paracadutato per poche ore nel 2005 nel monastero di Tashilhunpo a Shigatse (storicamente la sede del Panchen) il povero burattino dei cinesi rimase impaurito dal disprezzo dei religiosi.
Nelle foto ufficiali ha la faccia di un bambinone cresciuto, goffo e timido, vittima di un gioco troppo grande per lui. Un mese fa le cose sono cambiate. Il Panchen-di-Pechino è stato lanciato sul palcoscenico a marzo per una celebrazione importante. Ricorreva il 50esimo anniversario della fuga in esilio del Dalai Lama, un giorno di lutto per il suo popolo. Nella stessa data quest'anno il governo ha istituito una nuova festa nazionale: la Giornata dell'Emancipazione dei Servi del Tibet. Un'occasione per celebrare la "liberazione" dalla teocrazia feudale dei lama, grazie al provvidenziale intervento dell'Esercito Popolare di Liberazione sotto la guida di Mao. Il 28 marzo il Panchen comunista è apparso in una cerimonia di Stato a Lhasa. Il giovane era visibilmente agitato, ma ha detto quello che si aspettavano da lui: "Voglio ringraziare sinceramente il partito comunista per avermi aperto gli occhi, così so riconoscere il bene dal male". Poi una stoccata diretta a colui che dovrebbe esserne il padre spirituale. "Sono io stesso discendente di schiavi - ha detto Gyaincain Norbu - e ho imparato a distinguere chi ama il popolo tibetano, da quelle persone senza scrupoli che per motivi di ambizione minacciano la pace". Jia Qinglin, membro del Politburo, ha reso esplicita l'accusa: "Il Dalai ignora i veri desideri del popolo. Vuole la secessione per restaurare l'antico regime feudale".
In un crescendo di visibilità, il Panchen comunista è riapparso al recente Forum Mondiale del Buddismo, organizzato in pompa magna dalle autorità cinesi. Un evento ecumenico: aperto nella città di Wuxi, provincia del Jiangsu, si è concluso a Taipei capitale dell'"isola ribelle" di Taiwan. Dopo il confucianesimo anche il buddismo viene recuperato dai leader cinesi. Purché sia una religione di Stato, il presidente Hu Jintao è convinto che serva a proiettare un'immagine rassicurante della Cina, a rafforzare il suo soft power in Asia. E il giovane Gyaincain Norbu ha fatto il suo dovere. Ai delegati mondiali del simposio buddista ha dichiarato: "Questo evento dimostra che in Cina regna la libertà religiosa". Ha partecipato alle sedute ristrette di alcuni seminari di studio: perfino un incontro con celebri imprenditori sul tema "Filosofia e Business". I magnati industriali che lo hanno incontrato dicono che i suoi interventi sono stati "fonte d'ispirazione". Le foto dell'agenzia Nuova Cina lo ritraggono, occhialuto e intimidito, mentre porge una sciarpa bianca in omaggio al presidente del Congresso del Popolo, Wu Bangguo. L'alto gerarca lo ha incoraggiato a "lavorare alacremente per l'unità del popolo cinese". Zhan Ru, direttore dell'Istituto di studi orientali all'università di Pechino, era anche lui a quel congresso: "E' stato un incoraggiamento per tutti. Eravamo onorati di avere con noi un Budda vivente".
Lo sforzo per osannare il povero burattino è corale. Tradisce il nervosismo di Pechino per il ventesimo compleanno del vero Panchen Lama. La tensione è affiorata ai massimi livelli. Hu Jintao ha lanciato un avvertimento secco a Barack Obama: non vuole che il presidente americano riceva il Dalai Lama, atteso in America tra breve. Il tono è da ultimatum. Sul Tibet il leader cinese è pronto a rischiare un gelo diplomatico con Washington. Forte del suo potere economico-finanziario, Hu Jintao spera di intimidire Obama. Già ci è riuscito con Nicolas Sarkozy, costretto a farsi "perdonare" la visita del Dalai all'Eliseo. Il Sudafrica ha preferito far saltare un summit dei premi Nobel pur di non concedere il visto al leader tibetano in esilio.
Dietro la durezza cinese spunta la partita cruciale: la successione del 73enne capo spirituale. Pechino ha già annunciato che alla sua morte spetterà al potere politico la scelta del prossimo "reincarnato": come all'epoca della dinastia imperiale dei Qing, secondo le ricostruzioni degli storici revisionisti di regime. Pur di evitare questa sopraffazione il Dalai Lama ha accennato a una contromossa: cambiare le regole e procedere a un'elezione democratica del suo successore. Chissà se il suo discepolo ventenne, ovunque si trovi, può intuire la battaglia furibonda che si prepara. Se è vivo oggi passa anche questo compleanno nella solitudine che ormai è il suo destino. Lontano dal Tibet, lontano dai suoi e dal mondo, forse condannato a essere invisibile fino a quando morirà davvero.
(25 aprile 2009) da repubblica.it
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« Risposta #23 inserito:: Maggio 01, 2009, 12:42:15 pm » |
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Federico Rampini
Rubriche » La piazza asiatica
"Germogli verdi" dal Sol Levante
Anche il Sol Levante oggi intravvede i suoi "germogli verdi", quei primi segnali premonitori di una ripresa che già sono stati avvertiti negli Stati Uniti scatenando il rialzo delle Borse. Per la prima volta dopo sei mesi, a marzo è risalita la produzione industriale del Giappone, alimentando la speranza che si avvicini la fine della recessione più lunga dal dopoguerra.
L'industria nipponica ha registrato un aumento di produzione dell'1,6% in marzo rispetto a febbraio. Un dato confortante se paragonato con la diminuzione del 9,5% avvenuta a febbraio, e il calo di produzione del 10% nel mese di gennaio (sempre rispetto al mese precedente).
La situazione resta tuttavia pesante se il confronto viene effettuato sull'anno prima. Prendendo come base di riferimento il marzo 2008, la produzione del marzo 2009 risulta ancora inferiore del 34,2%.
A Tokyo però prevale un cauto ottimismo: si prevede che in aprile la produzione industriale possa segnare un'altra ripresa, dell'ordine del 4%, seguita forse da un +6% a maggio, secondo le anticipazioni degli stessi industriali.
Secondo l'economista Naoki Murakami "vediamo spuntare l'alba per l'economia giapponese, la produzione industriale ha ormai toccato il fondo". La velocità di ripresa non è certo esaltante: se si avverano le previsioni degli industriali, a maggio la produzione nipponica avrà semplicemente ritrovato i livelli del mese di gennaio di quest'anno. Cioè livelli che erano già depressi da più di un anno di recessione.
L'economia del Giappone è entrata in recessione ufficialmente nel secondo trimestre del 2007. Ha subito una de-crescita pesantissima nell'ultimo trimestre del 2008 quando il suo Pil è sceso del 12,1%. I dati del Pil per il primo trimestre 2009 devono ancora uscire ma si teme che siano peggiori del trimestre precedente, perché ancora risentiranno della fase di caduta più brutale. Ma i segnali di una inversione di tendenza sono confermati dai dati sull'export: anche su quel fronte Tokyo comincia a pensare che il peggio sia ormai passato.
(30 aprile 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #24 inserito:: Maggio 05, 2009, 11:31:18 pm » |
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La piazza asiatica
Federico Rampini
General Motors, il record cinese
La Cina sembra davvero un altro pianeta: sicuramente per il settore dell'auto. La General Motors ha annunciato un record storico delle sue vendite nella Repubblica Popolare ad aprile: + 50% rispetto all'aprile 2008. La Gm ha venduto 151.084 vetture in un mese, il massimo assoluto da quando è presente sul mercato cinese.
Colpisce anche il fatto che all'interno della Gm la performance più brillante sia stata realizzata dalla gamma Buick (55.245 auto vendute in aprile), proprio una delle marche più derelitte nel suo mercato originario degli Stati Uniti. Su un altro fronte, quello dei piccoli veicoli commerciali, la Gm ha perfino superato il boom di vendite delle auto. I camioncini leggeri infatti hanno segnato +60,6% di vendite ad aprile rispetto allo stesso mese dell'anno scorso. Nei veicoli commerciali la Gm è in joint venture con i gruppi locali Saic e Wuling di Shanghai.
Anche il mercato indiano non langue. Brilla in particolare l'accoglienza per la sua neonata più celebre, la Nano. Il gruppo Tata ha già incassato 500 milioni di dollari di anticipi dai clienti che si sono prenotati sulle liste d'attesa per le consegne della celebre utilitaria. Da quando la Tata ha aperto le iscrizioni, dal 9 al 25 aprile si sono prenotati 610.000 clienti di cui 203.000 hanno già versato la "caparra" di 95.000 rupie, equivalente all'80% del prezzo di listino. Le prime consegne sono previste a luglio, e per evitare i favoritismi l'assegnazione delle prime Nano avverrà con un sistema di estrazione a sorte.
(5 maggio 2009) da repubblica.it
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« Risposta #25 inserito:: Maggio 15, 2009, 12:27:39 pm » |
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Federico Rampini.
Calano gli investimenti stranieri la Cina fa i conti con la recessione
Si è fermata la corsa dei capitali esteri verso la Cina. Nel mese di aprile l'afflusso di investimenti stranieri nell'economia cinese è stato di soli 5,9 miliardi di dollari, il 23% in meno rispetto allo stesso mese dell'anno scorso. Nei primi quattro mesi del 2009 gli investimenti esteri diretti sono stati 27,7 miliardi di dollari, in calo del 21% rispetto al primo quadrimestre del 2008.
E' ormai da sette mesi consecutivi che gli investimenti stranieri in Cina sono in discesa, ma la riduzione di aprile è molto più accentuata (a marzo erano scesi del 9,5%). Il dato è collegato alle difficoltà delle multinazionali straniere - americane, europee, giapponesi e sudcoreane - i cui tagli di bilancio si riflettono anche in una contrazione degli investimenti esteri.
Ancora nel 2008 la Cina aveva potuto contare su un afflusso di investimenti esteri diretti in continua ascesa, del 7% superiore al 2007. Ora l'inaridirsi dei capitali esteri fa venir meno una delle fonti di finanziamento che hanno svolto un ruolo importante nella crescita cinese degli ultimi anni.
Chi in Cina è rimasto, però, non sembra lamentarsene. In particolare il settore bancario cinese sembra essere uno dei pochi a riservare delle buone sorprese per i big della finanza mondiale. Il gruppo Hsbc ha realizzato sul mercato cinese 353 milioni di dollari di utile nel trading di valute, obbligazioni e derivati, in crescita del 137% sull'anno prima. Citigroup ha visto aumentare del 95% il suo utile netto in Cina (a 191 milioni di dollari) grazie soprattutto al trading sulle valute.
Non altrettanto fortunato può dirsi chi ha investito nella direzione contraria. Uno dei più celebri fondi sovrani asiatici, l'ente di Stato Temasek di Singapore, subisce una perdita di 4,6 miliardi di dollari per aver voluto andare in soccorso alla Merrill Lynch. Temasek aveva acquisito una partecipazione del 14% nel capitale di Merrill Lynch, pochi mesi prima che il colosso finanziario di Wall Street scivolasse verso la bancarotta. Le grandi banche d'investimento americane giocarono la carta dei "cavalieri bianchi" stranieri, andando in cerca di capitali per uscire dal vortice della crisi di sfiducia.
Poi Merrill Lynch è stata pilotata dal governo Usa nelle braccia di Bank of America, altro gigante malato e bisognoso di sussidi pubblici. Per effetto dell'acquisizione, il gruppo Temasek si è visto scambiare la sua quota, a ragione di 0,86 azioni Bank of America per ogni azione Merrill. Il crollo di valore della Bank of America ha fatto il resto: dopo avere investito quasi 6 miliardi di dollari in Merrill, l'ente pubblico di Singapore ha liquidato la sua quota per soli 1,3 miliardi.
(15 maggio 2009) da repubblica.it
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« Risposta #26 inserito:: Maggio 25, 2009, 06:15:02 pm » |
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25 mag 2009
Cosa vuole la Corea del Nord?
Federico Rampini
Ricatto, prepotenza e provocazione: sono le tattiche negoziali predilette dal leader nordcoreano Kim Jong Il. Perché dovrebbe cambiare? Bisogna dargli atto che finora hanno funzionato. Nonostante la stragrande maggioranza del suo popolo viva nel terrore e nella fame, il regime comunista di Pyongyang ha smentito finora chi si aspettava un suo crollo. Il test nucleare di oggi s’inserisce in una strategia lucida e razionale, tesa a massimizzare il potere contrattuale per estorcere concessioni all’America e ai suoi alleati.
Il test atomico di stamattina è l’ultimo atto (per ora) di una escalation della tensione. Le puntate più recenti: il 5 aprile il lancio di un missile a lunga gittata inabissatosi nel Pacifico tra il Giappone e le Hawaii; l’arresto di due giornaliste americane tuttora in carcere a Pyongyang; il congelamento della pur limitata cooperazione economica con la Corea del Sud.
Come giustifica questi gesti la dittatura nordocreana? Oggi un comunicato di Pyongyang si esprime così: “L’analisi della politica di Obama negli ultimi 100 giorni dimostra che non è cambiato nulla. E’ inutile sedersi a un tavolo con un interlocutore che ci è ostile”. Sembra un certificato di morte per i “negoziati a sei” (con Usa, Cina, Russia, Corea del Sud e Giappone) che si trascinano stancamente da anni.
Quei negoziati avevano avuto un’improvvisa schiarita nel febbraio 2007: l’Amministrazione Bush accettò di allentare le sue sanzioni in cambio di un arresto del programma nucleare nordcoreano. Tra quelle sanzioni, va ricordato, una infastidisce particolarmente Kim Jong Il: il blocco dei suoi conti bancari personali su una banca offshore di Macao (Cina).
Il disgelo si interruppe bruscamente nel dicembre 2008, di fronte al rifiuto della Corea del Nord di accettare delle ispezioni che verificassero l’effettiva cessazione dei piani nucleari.
Gli esperti di tecnologia missilistica o nucleare possono spiegarci finché vogliono che la Corea del Nord è una “tigre di carta”, che questo o quell’esperimento è stato un flop. Certo Pyongyang non è una grande potenza. Ma la vicinanza immediata della Corea del Sud e del Giappone, nonché di decine di migliaia di soldati americani, consente a Kim di infliggere danni anche con mezzi rudimentali.
La dittatura nordcoreana in passato è riuscita ad estorcere aiuti economici (finiti regolarmente a ingrassare la nomenklatura) proprio alternando le minacce e le concessioni. Nessuna Amministrazione americana ha trovato una soluzione durevole.
La chiave sta a Pechino. Non che il regime di Kim sia un burattino nelle mani dei cinesi, tutt’altro. Ma una pressione costante, prolungata e severa della Repubblica Popolare, con l’uso di tutti gli strumenti a disposizione (compresa la minaccia di embargo energetico) potrebbe sicuramente piegare i nordcoreani.
Quel tipo di pressione non c’è stata. E’ chiaro che Pechino preferisce lo status quo. I governanti cinesi esercitano pressioni “gentili” sui nordcoreani, guadagnandosi apprezzamenti da Washington. Ma il loro intervento evita accuratamente qualsiasi atto che possa accelerare una decomposizione della dittatura di Pyongyang. Lo sbocco finale, i cinesi lo sanno benissimo, sarebbe la riunificazione con la Corea del Sud. La penisola coreana diventerebbe la prima democrazia filo-americana ad avere un confine terrestre con la Cina.
da repubblica.it
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« Risposta #27 inserito:: Maggio 29, 2009, 03:48:08 pm » |
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ECONOMIA Domani con "Repubblica" il nuovo libro di Federico Rampini Dal lavoro ai consumi: nuove regole per un futuro ancora incerto
Dieci cose che cambieranno nel mondo dopo la crisi
di FEDERICO RAMPINI
La Grande Recessione del 2007-2009 può davvero concludersi prima che abbiamo fatto in tempo a imparare qualcosa, a isolare i responsabili, a curarne le cause, a prevenire una ricaduta? C'è in giro una gran voglia di voltare pagina senza avere regolato i conti. Nella speranza assurda che si possa ripartire da dove ci eravamo fermati l'altro ieri, con gli stessi valori, le stesse regole di prima.
Per fortuna ci sono segnali di altra natura. Uno di questi si chiama Kedamai Fisseha. Cittadino americano di origine etiope, a 22 anni si laurea in economia e commercio alla prestigiosa università di Harvard. Un anno prima della tesi aveva fatto uno stage a Wall Street, alla banca Morgan Stanley. Adesso invece ha deciso di arruolarsi nel programma Teach for America. E' un'organizzazione non profit che recluta neolaureati per mandarli a insegnare nelle scuole dei quartieri più poveri e degradati delle metropoli americane. "Mi considero fortunato - dice Fisseha - la crisi in fondo è stata una liberazione per me". Lawrence Katz, docente di Harvard, censisce le carriere professionali di tutti i laureati della sua superfacoltà dal 1960 ad oggi. "Fino a poco tempo fa la carriera nella finanza attirava i primi in graduatoria. Oggi non è vero che Wall Street abbia smesso completamente di assumere. Sono i ragazzi, o almeno una parte di loro, che stanno cambiando interessi e valori".
Verso questi ragazzi che si orientano per il loro futuro, e verso noi stessi, abbiamo un dovere: non sprecare questa crisi. E' urgente un'operazione-verità che metta a nudo le cause profonde di un disastro che non è finito. Guardando anche oltre i gravi danni sociali, abbiamo bisogno di diradare la nebbia all'orizzonte. Ci servono delle mappe per orientarci, una guida di comportamenti, un manuale di sopravvivenza. Dobbiamo capire come ne usciremo, con quali regole del gioco, quali nuovi equilibri e rapporti di forze: sul nostro luogo di lavoro e nella gestione dei risparmi; nelle nostre scelte di consumo e nell'impatto sull'ambiente. In quale mondo vivremo, con quali attori, dentro quali equilibri globali. Vogliamo sapere perché l'economia di mercato non sarà più la stessa, e a cosa assomiglierà la sua prossima versione. Come attrezzarci a vivere con la deflazione, o quel che verrà dopo la deflazione. Quale cultura si affermerà nelle aziende. Cosa cambia nelle banche e nel nostro rapporto con il credito. Quale choc o controchoc può arrivare dal fronte dell'energia e delle materie prime. Cosa resta dei "modelli" esaltati negli anni precedenti, dall'America alla Cina. E se la Grande Recessione può partorire, come la Depressione degli anni Trenta, una corrente di cambiamento durevole nei sistemi politici, nelle ideologie dominanti, nei valori etici.
(...) I mezzi dispiegati per evitare il peggio sono stati colossali. Hanno ordini di grandezza che superano l'immaginazione. Sommando gli aiuti di Stato agli istituti di credito e le operazioni di rifinanziamento d'emergenza effettuate dalle banche centrali, a marzo del 2009 si arrivava a un totale di 5.500 miliardi di dollari (...). Aggiustato per tener conto dell'inflazione, l'onere dei salvataggi bancari è sette volte il costo della guerra nel Vietnam. 23 volte il programma spaziale Apollo con cui l'America arrivò sulla luna. 47 volte il Piano Marshall per la ricostruzione dell'Europa occidentale dopo la seconda guerra mondiale. Tra Borse, obbligazioni, case, dall'estate del 2007 in poi è stata distrutta una ricchezza pari a 50.000 miliardi di dollari. E' quasi l'equivalente di un anno di Pil mondiale. Proviamo a tradurre questi macrofenomeni in termini di bilanci familiari: quanti possono reggere se un anno intero di reddito va in fumo? Qualsiasi cosa ci raccontino le statistiche mese per mese, un evento di queste proporzioni lascia tracce durevoli nella psicologia collettiva. Resta un'eredità d'incertezza, di cautela nello spendere e nell'investire. Non c'è manovra di aiuti pubblici che possa sanare rapidamente queste ferite. L'intera società è pervasa dalla diffidenza.
(...) Nel futuro del Vecchio continente potrebbe esserci la "sindrome giapponese". L'uscita dalla crisi può prendere le forme di una ripresa finta, anemica, senza crescita. Una bonaccia in cui tutti i nostri mali diventerebbero cronici, insolubili: dal debito pubblico alla crisi previdenziale, dal precariato alle tensioni sociali. Il naufragio del modello giapponese deriva proprio dall'incapacità delle classi dirigenti di Tokyo di capire la deflazione-depressione degli anni Novanta. La loro lentezza nell'affondare il bisturi dentro un sistema bancario disastrato; la timidezza delle misure per il rilancio dei consumi interni; il rifiuto dell'immigrazione come rimedio alla denatalità. Sono tutti sintomi oggi presenti anche in Europa. La prospettiva di un orizzonte piatto, senza sviluppo, può piacere ai fautori della de-crescita, che vedono nella "idolatrìa del Pil" la radice di tutti i nostri mali: a cominciare dalla distruzione dell'ambiente. Ma se si realizza il loro desiderio, le delusioni potrebbero essere amare. Nella grande bonaccia dove troveremo le risorse per investire in tecnologie verdi, per aumentare i fondi pubblici alla scuola, all'università, alla ricerca scientifica?
(...) Se la Grande Recessione ha avuto tra le sue cause economiche l'aumento delle disparità sociali, aggredire questo problema diventa doppiamente prioritario. E' il modo per rilanciare una crescita sana, basata su un potere d'acquisto meglio diffuso, anziché sull'economia del debito. Ed è anche una terapia per molte malattie sociali che ci affliggono.
(...) La Depressione degli anni Trenta fu uno di quei momenti della storia in cui interi sistemi di valori vengono ribaltati, si crea una nuova etica civile. Temprata dalle sofferenze, quella che gli americani battezzarono The Greatest Generation riscoprì la fede nell'azione collettiva, l'utilità del sacrificio, la solidarietà, il dovere dello Stato di agire per il bene comune. Le grandi crisi servono a rimettersi in discussione, costringono a osare là dove il pensiero non si era mai avventurato: su quella del XXI secolo il verdetto è aperto.
(29 maggio 2009) da repubblica.it
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« Risposta #28 inserito:: Giugno 10, 2009, 03:38:17 pm » |
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Rubriche » La piazza asiatica
La Cina fa shopping in Italia
Federico Rampini
"Il governo cinese effettuerà una missione di acquisto a fine giugno in Italia per acquistare beni strumentali e prodotti italiani, in particolare energia e tecnologia". Lo ha annunciato il viceministro allo Sviluppo Economico con delega al Commercio Estero, Adolfo Urso, dopo aver incontrato a Pechino l'omologo cinese Gao Huceng, a cui ha consegnato una lista di oltre 300 aziende italiane interessate a vendere beni e prodotti a investitori cinesi.
"La lista è stata elaborata d'intesa con Ice, Confindustria, Confapi e diverse associazioni di categoria, da Ucimu a Federmacchine, - spiega Urso - Quasi la metà delle aziende presenti nella lista appartengono al settore dei macchinari, il resto ai comparti moda e arredo-casa, farmaceutica, agro-alimentare e alta e altissima tecnologia. La Cina dispone di molta liquidità, un forziere di oltre 100 miliardi di dollari. Risorse fresche pronte per essere investite in Europa. Fino ad ora a beneficiarne erano state Germania, Gran Bretagna e Svizzera".
L'ultimo shopping cinese dello scorso febbraio si concluse con una missione di acquisto di 13,5 miliardi di euro ma l'Italia rimase tagliata fuori. Ora tenta di recuperare terreno e di accreditarsi come una mèta appetibile per i capitali cinesi.
Un progetto cinese in Sicilia promosso dal gruppo HNA (holding cinese attiva nella logistica con un fatturato di oltre 25 miliardi di euro) porterebbe alla creazione di un aeroporto intercontinentale nella Sicilia orientale e a una piattaforma logistica integrata nel triangolo che va dal porto di Augusta all'aeroporto di Catania.
Nel 2008 l'export italiano in Cina è stato di 6,4 miliardi di euro, in crescita del 2,5% rispetto al 2007, ma ben 4 volte inferiore rispetto all'import. Oltre il 40% del nostro export è rappresentato da macchinari e apparecchiature. L'Italia è il quinto paese nella UE per flusso di investimenti diretti in Cina dopo Regno Unito, Germania, Paesi Bassi e Francia. I principali settori in cui operano le imprese italiane sono: autoveicoli, trasporti aerei e marittimi, idrocarburi, petrolchimica e ingegneria, aeronautico, telecomunicazioni, opere civili, farmaceutico e sanitario.
Per il 2009 si prevede un aumento delle esportazioni cinesi del 19% a livello mondiale, in calo rispetto al +27% degli ultimi cinque anni, mentre la crescita del PIL cinese sarà pari al 6,5%, in diminuzione rispetto al +9% registrato nel 2008 e al +13% del 2007. Per far fronte alla crisi mondiale, Pechino ha varato un piano di sostegno e rilancio economico da 486 miliardi di dollari da utilizzare entro il 2010.
Ieri intanto la Cina ha nuovamente aumentato gli sgravi fiscali all'export, per rilanciare le vendite sui mercati esteri. La nuova tornata di aiuti fiscali all'export - la settima dall'inizio della recessione globale - beneficia ben 2.600 prodotti tra cui esportazioni agroalimentari, macchinari, calzature, giocattoli.
Pechino ritocca al rialzo le previsioni sulle vendite automobilistiche. Unico mercato a sfidare la crisi, quello cinese ha già superato la soglia dei 10 milioni di vetture vendute su base annua, collocandosi al primo posto mondiale e sorpassando così gli Stati Uniti. Adesso le associazioni di settore prevedono che entro la fine del 2009 le vendite raggiungeranno 11 milioni di autovetture.
(9 giugno 2009) da repubblica.it
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« Risposta #29 inserito:: Luglio 10, 2009, 06:40:02 pm » |
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IL COMMENTO
Il potere degli emergenti
di FEDERICO RAMPINI
Archiviato il primo giorno di summit nel formato ormai obsoleto del G8, l'allargamento della seconda giornata alle cinque potenze emergenti (Cina India Brasile Messico e Sudafrica) ha rivelato la forza tremenda del "fronte dei veti". Gli emergenti hanno una visione del mondo lontana dalla nostra. Hanno altre priorità. Hanno il peso economico e politico per esercitare un formidabile potere d'interdizione.
E' questo il vero senso della giornata di ieri. La coalizione degli esterni al G8 non è più "la periferia". Al contrario, Cina e India rappresentano potenzialmente i motori della crescita mondiale, gli unici giganti ad essersi sganciati dal ciclo recessivo. Ma allargare la rappresentanza della governance globale fino a includerli, espone al rischio della paralisi decisionale: tanto ampio è il divario degli interessi.
"E' un buon inizio, non è un compito da poco riuscire a colmare le distanze fra così tanti leader, ed è ancora più difficile riuscirci nel bel mezzo di una recessione". Con il suo energico ottimismo Obama ha voluto imprimere un segno positivo al vertice. Quel suo giudizio si riferiva all'accordo sul clima, firmato da paesi che generano l'80% delle emissioni carboniche del pianeta. Ma poco prima la delegazione cinese aveva suonato tutt'altra musica: "L'accordo sul clima non vincola la Cina, che ritiene fondamentale prendere in considerazione le diverse condizioni dei paesi emergenti". Dall'India all'Egitto, altri hanno appoggiato la posizione cinese, respingendo l'impegno di ridurre del 50% le emissioni di CO2 entro il 2050. La controproposta: che i paesi industrializzati si impegnino a fare molto di più, tagliando del 40% le loro emissioni entro il 2020; e che offrano fondi e tecnologie ai paesi meno avanzati per la riconversione a uno sviluppo sostenibile.
Pechino articola una posizione che fa il pieno di consensi in tutto il mondo non-occidentale. Primo: la Cina ci ricorda che storicamente l'inquinamento accumulato nel pianeta lo abbiamo prodotto in massima parte noi "vecchi ricchi" nei decenni in cui eravamo i soli protagonisti dell'industrializzazione. Secondo: le nostre multinazionali hanno un ruolo decisivo nel trasferire verso le nazioni emergenti le produzioni più distruttive per l'ambiente. Terzo: il tenore di vita dei cinesi e degli indiani resta molto inferiore al nostro, in fatto di consumo frugale noi dovremmo imparare qualcosa da loro. Conclusione: non si può chiedere ai colossi asiatici di fermare le centrali a carbone solo perché loro sono troppo numerosi. Questa non è una divergenza "negoziabile" su cifre e date; è lo scontro tra visioni, interessi e bisogni profondamente diversi.
Per la stragrande maggioranza dell'umanità lo sviluppo resta la priorità, l'urgenza, l'imperativo assoluto. Riuscire a cambiare la qualità di quello sviluppo, esige soluzioni profondamente innovative che fuoriescono dall'arcaica cultura negoziale delle diplomazie e degli sherpa. "Tra vecchi paesi ricchi e nazioni emergenti - osserva Kim Carstensen del Wwf - non è stato superato il grande fossato della diffidenza".
D'altra parte quando il fronte degli emergenti sprigiona la sua grande forza d'interdizione, mette a nudo anche i limiti di audacia dei leader occidentali. A parte l'aver ripudiato finalmente il "negazionismo" di Bush sul cambiamento climatico, di concreto sull'ambiente Obama cos'ha fatto? Sta spingendo faticosamente al Congresso una legge sul trading di diritti d'emissione, copiata dal modello europeo che ha dato risultati deludenti. Non ha neppure messo all'ordine del giorno un aumento delle tasse sulla benzina, che al distributore in America costa meno che in Cina.
Non è solo sul clima che l'apparente concordia è stata ottenuta solo annacquando all'infinito i contenuti. G8 più G5 si sono "impegnati a resistere al protezionismo e a incoraggiare l'apertura dei mercati", promettono una "conclusione ambiziosa ed equilibrata dei negoziati sulla liberalizzazione dei commerci" (Doha Round) nel 2010. Ma non c'è alcun cenno alla grande disputa sul protezionismo agricolo europeo e americano, immenso ostacolo all'accordo di Doha. Neanche una parola sulle malefiche clausole protezioniste infilate surrettiziamente in tutte le manovre di spesa pubblica anti-recessione, dal Buy American di Washington al Buy Chinese di Pechino. (L'Italia, piccola economia molto dipendente dall'export, ha tutto da perdere se avanza indisturbata questa marea neoprotezionista).
La vacua convergenza sul rilancio della crescita globale è stata raggiunta solo dopo aver messo fra parentesi un'altra sfida poderosa lanciata dai cinesi: l'attacco a sua maestà il dollaro. Chiedendo di "promuovere un sistema monetario internazionale più diversificato", la delegazione di Pechino ha comunque sancito l'inizio di un processo inevitabile. Il signoraggio del dollaro, che primeggia sia nelle riserve delle banche centrali sia nei pagamenti dei commerci fra nazioni, è l'eredità di un'epoca in cui la supremazia economica americana era incontrastata. Ora la Cina moltiplica gli accordi bilaterali con India, Russia, Brasile, Argentina; in quel club già si abbandona il dollaro per passare a pagamenti bilaterali con le valute nazionali. E' naturale che questo avvenga. Basti pensare che la Cina ha sostituito gli Stati Uniti come primo partner economico del Brasile: perché gli imprenditori di Shanghai e Sao Paulo dovrebbero continuare a usare dollari nelle loro relazioni, esponendosi alla capricciosa volatilità di una moneta che riflette le debolezze del bilancio federale di Washington? Il tramonto del vecchio ordine è nei fatti. Ma quello che si disegna nel post-G8 è un mondo assai più complicato, e non necessariamente più stabile.
(10 luglio 2009) da repubblica.it
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