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Autore Discussione: GOFFREDO DE MARCHIS.  (Letto 75843 volte)
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« Risposta #105 inserito:: Novembre 03, 2016, 12:14:37 pm »

Rosy Bindi: "Anselmi, una vita straordinaria con una sola incompiuta: sarebbe stata un ottimo presidente della Repubblica"
La sua erede politica ricorda l'esponente della Dc: "Dalla Resistenza alla lotta alla P2, ha reso più forte la democrazia".
E commossa dice: "E' scomparsa proprio il giorno dei santi..."


Di GOFFREDO DE MARCHIS
01 novembre 2016

Rosy Bindi: "Anselmi, una vita straordinaria con una sola incompiuta: sarebbe stata un ottimo presidente della Repubblica"

ROMA - Rosy Bindi aveva 38 anni. "Cominciai a fare politica con la candidatura alle Europee in Veneto, nel 1989. Lo feci solo perchè Tina Anselmi, il mio principale punto di riferimento, aveva rinunciato al seggio e mi aveva promesso il suo appoggio. Io venivo dalla Toscana e non avrei mai vinto quell'elezione senza il suo aiuto". Donna, cattolica fino al midollo, esponente della sinistra democristiana, in prima linea nella battaglia per la moralizzazione della politica. Le storie di Bindi e Anselmi hanno molto in comune. La presidente della commissione Antimafia infatti è sempre stata considerata l'erede di Tina Anselmi. Con la voce spezzata dalla commozione ricorda oggi quella madre putativa. Con il rimpianto "di non aver più potuto ascoltare la sua voce da troppi anni. Una delle malattie del nostro secolo l'ha inchiodata al silenzio". Però anche nella morte Bindi vede un segno. "Dopo questa malattia infinita è scomparsa proprio il giorno dei santi...". Sta proponendo una canonizzazione? "Non ce n'è bisogno. Senza salire sugli altari ha servito il Paese seguendo gli indirizzi della sua confessione. E' stata quello che è stata anche perchè era una donna di fede". 

Nei ricordi di queste ore Tina Anselmi è per tutti una grande italiana. In che cosa?
"Ha costruito la Repubblica con la Resistenza. Ha reso forte la nostra democrazia come democratico cristiana, come donna delle istituzioni legando il suo nome a una grande riforma come quella della sanità. E' stata la prima donna ministro. Ha combattuto i poteri occulti presiedendo la commissione P2. Un percorso straordinario, direi".

Un percorso completo?
"Per tutti noi resta una pagina incompiuta. Tina Anselmi poteva essere un ottimo presidente della Repubblica. Sarebbe stata la prima donna e una donna che era d'esempio per tante italiane. Eppure questa incompiuta rende ancora più forte la sua testimonianza. E' sempre stata un punto riferimento del mondo cattolico. Non la sola, ma del suo livello erano in pochi".



Quale esperienza ricordava con più entusiasmo?
"La radice repubblicana e costituzionale della sua esperienza di staffetta partigiana, con il nome di battaglia Gabriella. Era una donna della Costituzione anche se non aveva partecipato alla Costituente. Non dimenticava mai le fondamenta e non soltanto per motivi evocativi, ma perchè da lì tutto nasce e cresce. Certo, anche la presidenza della commissione sulla loggia P2, che chiude il suo ciclo politico. L'inizio e la fine, della sua vita pubblica. Personalmente poi non posso dimenticare il sostegno per la moralizzazione della Democrazia cristiana durante la vicenda di Tangentopoli. Senza di lei, senza Maria Eletta Martini e Rosa Russo Jervolino per parlare solo delle donne, la battaglia avrebbe incontrato molti più ostacoli".

Come interpretava il rapporto con il potere?
"La sua storia parla da sé. Con la schiena dritta. Come tutti quelli che fanno politica, con il potere ci devi convivere. Ma lei lo ha fatto con quella libertà che bisogna avere verso gli interessi forti e i poteri occulti. Il suo è stato un comportamento integerrimo".

Anche la lotta ai poteri deviati è un'incompiuta?
"Dal mio punto di osservazione, la commissione Antimafia, sì. E' complicato pensare alla lotta alle mafie senza fare i conti con i poteri che le sostengono, che interloquiscono con la criminalità organizzata. E tra questi c'è sicuramente la massoneria deviata".

Il suo ultimo ricordo?
"Siamo andate a trovarla, un gruppo di noi. E ci ha riconosciute, nonostante la malattia. Ci siamo abbracciate".

© Riproduzione riservata
01 novembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/11/01/news/_una_vita_straordinaria_con_una_sola_incompiuta_sarebbe_stata_un_ottimo_presidente_della_repubblica_-151072082/?ref=nrct-3
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« Risposta #106 inserito:: Gennaio 12, 2017, 05:24:57 pm »

L'ex premier rientra a Roma con un piano per rinnovare la segreteria. Spazio a sindaci e associazioni

Di GOFFREDO DE MARCHIS
10 gennaio 2017

ROMA - Ripartire dai punti deboli evidenziati nel referendum del 4 dicembre: il voto dei giovani e il rapporto con gli intellettuali. Matteo Renzi torna oggi a Roma (per fare ritorno a casa domani, il giorno del suo compleanno) ed è chiamato a fare quello che ha fatto poco in tre anni: il segretario del Pd. Le priorità sono la squadra, sulla quale fondare il Pd che andrà alle elezioni, e il profilo identitario del partito. "Ma non sarà un reset - dice il leader dem - Il renzismo non è un incidente di percorso, una parentesi della storia. Questo Pd rappresenta ancora la sinistra riformista italiana".

Anche se pubblicamente l'analisi della sconfitta è stata veloce e non molto approfondita, la pausa natalizia è servita a Renzi per fare luce sui suoi difetti e su quelli del Partito democratico. Il segretario ha in mente un "piano giovani" che parta non dalle ideologie ma dalle proposte: partite Iva, ricerca e innovazione, strumenti previdenziali per i precari. Tre o quattro politiche concrete, dicono i suoi fedelissimi, che spostino l'asse generazionale. Oggi il bacino degli under 40 è in gran parte appannaggio dei 5 stelle. Se non si lavora su quella fascia d'età, le elezioni sono perse sicuro. A questa parte del programma lavoreranno Tommaso Nannicini, per gli interventi economici e sociali, e il presidente dell'associazione Volta Giuliano Da Empoli per la parte innovazione. Il segretario immagina anche un appuntamento nazionale sulle politiche giovanili che raduni le idee e le metta in circolo.

Il rapporto con gli intellettuali, un pallino della sinistra fin dai tempi del Pci, è un'altra debolezza del renzismo. È un mondo che giorno dopo giorno ha preso le distanze dal Renzi premier, la cultura che aveva molto spazio alle Leopolde degli esordi, ha lasciato solo l'ex premier. Lo scrittore, ex magistrato ed ex senatore Gianrico Carofiglio entrerà nella nuova segreteria e toccherà a lui tenere i fili con studiosi, artisti, professori. Ma non basta. Renzi ha letto i "manifesti" post referendum sul futuro della sinistra di Massimo D'Alema e Pier Luigi Bersani (lo ha convinto più il secondo del primo). Il suo Pd dev'essere ora in grado di proporre una piattaforma alternativa convincente e attrattiva. Rilanciando il renzismo, su una base più studiata.

La squadra è anche importante. L'intenzione di Renzi è l'azzeramento della segreteria, con l'eccezione dei due vicesegretari Lorenzo Guerini e Debora Serracchiani e di Filippo Taddei, il responsabile economico. Per farlo senza traumi ha bisogno di un criterio: fuori tutti i parlamentari che sono oggi 15 su 18. E spazio ai "territori" con il giovane sindaco di Mantova, Mattia Palazzi, 37 anni, ex Arci, nuovo pupillo renziano, al quale verrebbe affidato lo scouting di nuove leve per il Pd, il primo cittadino di Reggio Calabria Falcomatà e forse quello di Ercolano Bonajuto. Piero Fassino andrà agli Esteri. Il ministro Maurizio Martina (non parlamentare) entrerà, non all'organizzazione dove Renzi vuole mettere un fedelissimo. Ma i nomi della segreteria sono legati all'obiettivo principale di Renzi: le elezioni a giugno. Togliere tutti i parlamentari significa farsi qualche "nemico" tra coloro che dovranno staccare la spina a Paolo Gentiloni. Dunque, il repulisti non è ancora deciso in via ufficiale.

E il congresso? Non è nella testa di Renzi che pensa al suo viaggio in Italia in chiave elettorale anziché congressuale. Ma Michele Emiliano lo tallona e dalla Puglia è partito un documento che chiede il congresso subito firmato, tra gli altri, da Francesco Boccia e Dario Ginefra. "Le assise sono inevitabili, anche se si vota a giugno - dice Boccia - Serve a tranquillizzare il Pd, serve anche a Renzi se non sceglie l'autolesionismo di chi si chiude nel suo cerchio stretto".

© Riproduzione riservata 10 gennaio 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/01/10/news/pd_renzi_squadra-155719033/
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« Risposta #107 inserito:: Febbraio 11, 2017, 11:51:26 am »

Governo, l'irritazione di Palazzo Chigi per la mozione anti tasse dei renziani
I sottoscrittori non mollano: "Votare la manovrina? Vedremo".
Questa partita fiscale sembra ormai la chiave principale per determinare la caduta di Gentiloni e la corsa verso il voto. Molto più della legge elettorale o del dibattito sul congresso del Pd.
Ma Palazzo Chigi smentisce


Di GOFFREDO DE MARCHIS
10 febbraio 2017

ROMA - Fastidio di Palazzo Chigi. E fastidio del ministero dell'Economia. È il risultato della mozione parlamentare contro il governo Gentiloni promossa da un gruppo nutrito di deputati renziani per il possibile aumento delle accise su benzina e sigarette. Si conferma così l'incrinatura, almeno su questo fronte, tra il premier e Matteo Renzi, in un momento molto complicato per il Pd, alla vigilia della direzione di lunedì.

Al dicastero retto da Pier Carlo Padoan si predica l'understatement ("non entriamo nelle dinamiche parlamentari") ma il giudizio sul documento dei renziani è durissimo: "Fuori dalla realtà". Si ricorda infatti che Padoan è lo stesso ministro che ha sempre sostenuto il calo delle tasse in totale sintonia con Renzi. Ma oggi il bivio è molto chiaro, a prescindere dalla minaccia di una procedura d'infrazione: se si aumenta il deficit si aumenta il debito pubblico. Se sale il debito pubblico aumenta la spesa per interessi che invece, tenuta sotto controllo, ha portato 45 miliardi di risparmi negli anni 2014-2015-2016, ovvero i mille giorni renziani. Una cifra da super manovra economica nemmeno paragonabile ai 3,2 miliardi che ci chiede oggi Bruxelles.

A Gentiloni non è piaciuto l'attacco diretto mentre si trovava a Londra per parlare con Theresa May e intervenire alla London School of Economics attraverso "pensosi documenti sulle imposte", dicono con una certa ironia a Palazzo Chigi. Anche perché le 40 firme sotto la mozione sono un macigno sul lavoro di raccordo con la commissione e sulle misure da adottare per colmare l'extradeficit. Ma l'ufficio stampa di Palazzo Chigi smentisce: "E' infondata e fantasiosa qualsiasi reazione alla mozione Pd attribuita al presidente o alla presidenza del Consiglio".

Roberto Giachetti, deputato gentiloniano, si limita a dire che "una mozione di quella rilevanza che coinvolge direttamente le politiche dell'esecutivo viene di solito promossa dall'intero gruppo parlamentare, non da una serie di parlamentari. Io non l'ho firmata perché non l'avevo neanche vista. Ma di regola firmo o quelle del gruppo o quelle promosse da me". Il capogruppo Ettore Rosato però non fa un dramma del documento presentato da Edoardo Fanucci. E un renziano di peso dice: "I parlamentari sono liberi di prendere l'iniziativa. Volevano marcare una distanza rispetto al messaggio che è uscito sulle accise. E forse far capire al governo che prima di prendere certe decisioni, Padoan si deve confrontare con noi".

Appeso com'è alla direzione di lunedì, il Partito democratico è in stato confusionale. Ma cosa succederebbe se l'esecutivo procedesse sulla strada tracciata da Padoan per la manovrina correttiva? I renziani della mozione voterebbero la correzione dei conti in aula? "Vediamo - dice Anna Ascani -. Se proprio dobbiamo andare avanti con questo governo e io spero al contrario che si voti prima, a giugno, Padoan venga a spiegarci di cosa parliamo. Poi discuteremo e valuteremo".

Il promotore della mozione Edoardo Fanucci prende tempo: "Siccome le tasse su benzina e sigarette cambiano tutta la politica fiscale del Pd ci vuole prima una discussione in Parlamento. Alla fine io farò il soldato e voterò come decide la maggioranza". Ma l'impressione è che questa partita fiscale sia ormai la chiave principale per determinare la caduta del governo e una corsa verso il voto. Molto più della legge elettorale o del dibattito sul congresso del Pd. E che anzi serva a impostare tutto il tono del discorso che Renzi pronuncerà lunedì.

Comunque la mozione sta diventando oggetto di scontro tra le varie anime dem. Francesco Boccia, che chiede da sempre il congresso subito accanto a Michele Emiliano, parla di un testo "strumentale. È evidente che si tratta di una mozione politica che non entra nelle dinamiche economiche, sarebbe opportuno sapere se è stato il Partito ad ispirarla perché in quel caso sarebbe molto grave".
 

© Riproduzione riservata
10 febbraio 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/02/10/news/l_irritazione_di_palazzo_chigi_per_la_mozione_anti_tasse_dei_renziani-157999674/?ref=HREC1-2
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« Risposta #108 inserito:: Marzo 06, 2017, 04:11:48 pm »


Gentiloni, il pressing di Europa e Colle allunga l'orizzonte del governo
Retroscena: svanisce l'ipotesi di elezioni a settembre.
Sui voucher l'intenzione di correggerli con i sindacati. Referendum, data in arrivo

GOFFREDO DE MARCHIS
06 marzo 2017

ROMA. "Sulla durata del governo decide Gentiloni", aveva detto sibillino Matteo Renzi  domenica scorsa in tv. Una settimana dopo, Paolo Gentiloni gli comunica, sempre in tv, che ha deciso: il suo esecutivo dura fino a febbraio 2018, la fine regolare della legislatura. L'asse Gentiloni-Mattarella ha deciso che il percorso è questo, che non si può scrivere il Def, il documento di programmazione economica, senza collegarlo direttamente alla legge di bilancio (da presentare a metà ottobre), che va pensata un'agenda di riforme con il passo più lungo del giorno per giorno. Poi c'è il pressing europeo per avere garanzie sulla stabilità dell'Italia: si è fatto sempre più forte e insistente. Così come una pressione interna del mondo economico e imprenditoriale. Compresi quelli che hanno votato Sì al referendum di dicembre, osservano a Palazzo Chigi. Cioè, a favore di Renzi.

In questi sette giorni si è abbattuta anche la tempesta giudiziaria che investe il giglio magico e il padre dell'ex segretario, Tiziano. Una coincidenza. Non il fattore determinante per il cambio di passo di Gentiloni. Ma così "sono maturate tutte le condizioni" per far capire a Renzi che occorre variare lo schema e non si può stare fermi in attesa che venga confermata la sua leadership del Pd. Niente elezioni anticipate, dunque. La finestra di giugno era già chiusa causa primarie fissate il 30 aprile. Ora vengono sbarrati anche gli infissi per un'improbabile chiamata alle urne a fine settembre, sulla quale però l'ex segretario continua a coltivare il sogno. Il premier in carica si trasforma da "provvisorio" in definitivo. Da governo a tempo, qualche mese e via, Gentiloni allunga l'orizzonte fino al traguardo finale. Da sprinter a maratoneta.

Lo strappo, il premier lo fa alla sua maniera. Non ingaggia un braccio di ferro, si limita ad aspettare il tempo giusto per dettare le sue condizioni. C'è un'intesa con Renzi? Evidentemente no. Ma sono le circostanze a incaricarsi di mostrare al predecessore di Gentiloni che il quadro è mutato. "Non mi pare che abbia detto niente di nuovo. Non vedo la novità", dice l'ex segretario ai suoi collaboratori. Segno che la mossa di Gentiloni non era concordata.

Il presidente del Consiglio non poteva attendere oltre. Non a caso il suo allungo arriva alla vigilia del vertice a quattro di oggi Italia-Germania-Francia-Spagna e a pochi giorni dal consiglio europeo. L'Unione ha bisogno di certezze. Gentiloni e Pier Carlo Padoan devono presentarsi al tavolo delle istituzioni continentali con un mandato pieno e non a termine. "Altrimenti non li salutano più neanche gli uscieri", scherza un gentiloniano. Il realismo si è imposto sulla lealtà, che è la cifra del rapporto tra Gentiloni e Renzi. Lo stimolo e il sostegno di Sergio Mattarella hanno fatto il resto, anzi moltissimo. Lo "scatto di reni" è frutto anche del pressing del presidente della Repubblica. "Non si può essere rassicuranti se non si è operosi", dice un deputato che fa da ufficiale di collegamento tra Palazzo Chigi e il Quirinale citando la battuta pronunciata da Gentiloni nel salotto di Domenica In.

L'operosità comincia dalla decisione sulla data del referendum sui voucher. Il consiglio dei ministri, secondo la volontà del premier, potrebbe fissarla già questa settimana. Al massimo, la prossima. Nel frattempo va avanti il dialogo con i sindacati per varare un provvedimento sui "ticket" lavorativi che depotenzi il quesito. "Vogliamo una soluzione concertata, ma fatta bene. Non una misura tampone. Una norma che duri nel tempo", dicono a Palazzo Chigi.

Il pacchetto economico è un altro tassello dell'orizzonte lungo. Il Def va presentato entro il 10 aprile e deve avere un legame con la legge di stabilità. Gentiloni vuole puntare tutte le risorse sull'abbassamento delle tasse del lavoro. Questa sarà la base della manovra economica di autunno e va disegnata già nel documento di programmazione. Tenere tutto assieme serve all'Italia per avere un dialogo in Europa. Ed è la richiesta pressante che viene anche dal mondo produttivo italiano. La stabilità dunque è necessaria, non un optional.

Per questo non si può attendere il 30 aprile, la data delle primarie.

Bisogna subito scrivere un'agenda di riforme, anche se il Pd è in uno stato di sospensione. Ma quella data, per Renzi, è destinata a segnare un punto di svolta: un segretario legittimato dal voto di milioni di italiani sarà in grado di dare le carte. E di cambiarle.

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/03/06/news/il_retroscena_svanisce_anche_l_ipotesi_di_elezioni_a_settembre_per_garantire_al_premier_e_a_padoan_mandato_pieno_nel_tratt-159848448/?ref=RHPPLF-BH-I0-C4-P4-S1.4-T1
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« Risposta #109 inserito:: Aprile 07, 2017, 12:49:00 pm »

Renzi a Gentiloni: "Come si va avanti così?". E fa appello al Quirinale
Il Colle stupito per la richiesta di incontro: non entriamo nelle dinamiche politiche

Di GOFFREDO DE MARCHIS
06 aprile 2017

"La legge elettorale ce la scordiamo, ma c'è anche un problema per la maggioranza di governo. Cosa fa Gentiloni, come pensa di andare avanti?". Con queste poche parole, filtrate da alcuni messaggeri, Matteo Renzi ha scatenato la reazione dei fedelissimi puntando dritto, stavolta, al cuore di Palazzo Chigi e del premier. Ha trasformato la sconfitta incassata nella commissione Affari costituzionali del Senato nel secondo round del confronto-scontro tra Pd renziano ed esecutivo, dopo quello ingaggiato l'altro ieri col ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan.

L'ordine è stato chiaro: drammatizzare, alzare il livello della polemica, paventare la crisi di governo, incalzare "Paolo" sulla tenuta della sua maggioranza e dunque del suo gabinetto. Per coltivare ancora il sogno di elezioni anticipate in autunno, dicono alcuni. Per accentuare il profilo di partito di lotta e di governo, dicono altri. Tanto più ora che arrivano le scadenze sull'economia: manovrina, Def, infine legge di bilancio.

Ma questo "giochino", come lo chiamano a Palazzo Chigi, sta logorando il rapporto tra Gentiloni e Renzi. Il premier ieri era molto infastidito per i resoconti sull'assemblea del gruppo dem con il titolare del Tesoro. E ha considerato una esagerazione assoluta la richiesta di colloquio avanzata in serata da Matteo Orfini e Lorenzo Guerini. La sua posizione è netta: l'episodio è grave, Alfano adesso espellerà il suo senatore Torrisi, poi però la storia finisce. Punto e a capo. Certo, la legge elettorale avrà vita difficile, ma il governo deve pensare al Def, alla correzione dei conti, al G7 di Taormina. Se il can can dura più di 48 ore, Renzi esca allo scoperto e non si limiti a enfatizzare una vicenda minore.

Gentiloni sa bene di avere, sulla linea dura, le spalle coperte da Sergio Mattarella. "Questa, il presidente, non gliela fa passare liscia", avvertono i gentiloniani rivolti a Renzi. Persino Roberto Giachetti, che della legge elettorale maggioritaria ha fatto la sua bandiera, minimizza e non segue la direttiva della drammatizzazione: "Il presidente di commissione conta, ma se c'è una maggioranza che si mette d'accordo per cambiare la norma, andiamo avanti lo stesso. Detto questo, gli scissionisti sappiamo come si muovono: solo per distruggere il Pd".

La richiesta ufficiosa di un colloquio, da parte dei luogotenenti Pd, ha sorpreso molto il Colle. Sproporzionata rispetto al problema, fuori contesto per una storia tutta dentro le dinamiche parlamentari. "A meno che il Pd non ci voglia comunicare che il governo non può più proseguire", è stato il commento del Quirinale. Se fosse così, è il sottinteso, Mattarella farebbe di tutto per fermare questa operazione. Al momento, però, i dem non sembrano intenzionati a tirare la corda fino a quel punto.

Gentiloni invece non ha potuto dire di no alla richiesta di un chiarimento. Nel pomeriggio ha ricevuto la telefonata di Orfini e Guerini che hanno definito la maggioranza "deteriorata" e hanno chiesto al premier di intervenire. Soprattutto per inchiodare Alfano alle sue responsabilità di leader del neo-presidente della commissione Affari costituzionali del Senato. "Devi immediatamente chiedere le dimissioni di Torrisi", ha spiegato Gentiloni al ministro degli Esteri. Che ha eseguito. Poi il premier ha ricevuto Orfini e Guerini a Palazzo Chigi, con l'aria di chi pensa "vediamo dove vanno a parare". Ma il Pd è il suo partito, non poteva sottrarsi. E lui si sente pienamente dentro la vita dei dem: domenica parteciperà anche all'assemblea (Convenzione) che proclamerà i primi risultati del congresso. Sicuramente, Gentiloni non vuole rompere il legame con il Pd e tantomeno con il probabile nuovo segretario, ovvero Renzi. È convinto che si possa recuperare il dialogo. E che lo scenario, a parte alcuni strappi, non cambierà anche dopo il 30 aprile, quando Renzi potrebbe ottenere l'investitura popolare.

Del resto, al premier l'ex segretario ha fatto arrivare anche altri messaggi. Di arrabbiatura per l'occasione quasi certamente perduta di cambiare la legge elettorale. "Che tristezza, mettono gli interessi personali davanti all'interesse del Paese", ha detto appena consumato il tradimento in Senato. Messaggi di una reazione dettata dal dispiacere del "piattino" confezionato dai senatori, di avere tutti contro nel tentativo di riformare l'Italicum. "Frutti avvelenati del referendum", li definisce un renziano. Ci sono anche questi elementi, nel movimentismo di Renzi in vista delle primarie. Ma c'è soprattutto un partita delicata con il governo. Appena all'inizio.

© Riproduzione riservata 06 aprile 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/04/06/news/renzi_a_gentiloni_come_si_va_avanti_cosi_e_fa_appello_al_quirinale-162305287/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P3-S1.8-T1
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« Risposta #110 inserito:: Maggio 01, 2017, 05:31:03 pm »

La prima mossa di Renzi sulle alleanze: "So che il Pd non può fare da solo ma siamo gli unici veri anti-Grillo

Così il neosegretario vuol spendere la vittoria. "Non inseguirò le urne, cercherò intese con le persone, non con i partiti".
La legge elettorale piace com'è: piccole modifiche. Della riforma i dem parleranno con i 5Stelle e con FI, che però temono il voto anticipato

Di GOFFREDO DE MARCHIS
01 maggio 2017

IL MILIONE di votanti in meno? "Ma due milioni sono tantissimi, è un risultato impressionante. E l'affluenza della volta scorsa appartiene a un'altra era geologica ". Matteo Renzi festeggia a Largo del Nazareno.

Renzi ha davanti altri quattro anni di segreteria del Pd con il sostegno di una larghissima maggioranza. "Persone in carne e ossa, il sale della democrazia". Eppure il voto delle primarie conferma ciò che Renzi ha capito fin dal 4 dicembre: per tornare a Palazzo Chigi il Pd non potrà più fare da solo, avrà bisogno di alleati o della grande coalizione e c'è ancora da lavorare per rianimare il Partito democratico nel gradimento degli elettori. Perciò Paolo Gentiloni può stare più tranquillo, come dice il vice segretario Maurizio Martina (che è anche ministro): "L'orizzonte dell'esecutivo è il 2018". L'eventualità del voto anticipato va tenuta viva solo "come alternativa credibile e praticabile", spiega un renziano di prima fila. "È un modo per alzare l'asticella, mantenere alta la guardia sulle riforme e sulla legge di bilancio".

Renzi si rimette in cammino e, se non si vota prima, ha un anno di tempo per ritrovare il feeling con il Paese. Si muove, a volte, come se ci fosse ancora un sistema ipermaggioritario concentrando su di sé l'attenzione ma ormai da mesi pensa nell'ottica del proporzionale, come gli impone la realtà. "Il Pd è vivo, siamo ancora noi gli anti Grillo ", dice agli altri dirigenti nelle stanze del Nazareno dove si celebra la vittoria. Sa che non basta.

Il voto anticipato in autunno è un'opzione ma intorno al leader si moltiplicano le "colombe". E non si parla, in questo caso, dei soliti Dario Franceschini o Piero Fassino. Nella categoria rientrano alcuni renziani della prima ora o fedelissimi. C'è Luca Lotti, per esempio. E Matteo Orfini, Lorenzo Guerini, lo stesso Martina. Lo stesso Renzi, nei colloqui con i membri del gruppo ristretto, ammette che è quasi impossibile "replicare lo schema di tre anni fa" quando appena eletto segretario con tre milioni di partecipanti alle primarie, con quella forza d'urto, il Pd provocò la caduta di un governo guidato da un suo esponente: Enrico Letta. Per molti motivi il bis appare complicatissimo. Siamo, per l'appunto, in un'altra era geologica. Perché a Palazzo Chigi c'è Gentiloni, molto vicino a Renzi, perché non esiste la possibilità di insediare un nuovo esecutivo a conduzione Pd ma l'altra opzione è soltanto il voto. In un quadro confuso e con un esito incerto. Eppoi non va sottovalutato il ruolo di Sergio Mattarella che finora ha sempre resistito agli strappi renziani e chiede un ritocco alla legge elettorale. Anzi, lo considera obbligato.

La riforma del sistema di voto è un rebus, viene usato dalle altre forze politiche per ordire trame ai danni del Partito democratico. Questo pensa Renzi. Il quale infatti è favorevole a mantenere le leggi elettorali così come sono: l'Italicum senza ballottaggio alla Camera e il proporzionale con sbarramento all'8 per cento. A questo punto, tramontato il sogno di un vincitore chiaro la sera delle elezioni, il neosegretario dem punta sullo status quo. Il miraggio del 40 per cento che fa scattare il premio di maggioranza del 54 a Montecitorio va coltivato ed è comunque propedeutico allo slogan del voto utile, che marginalizza i partiti minori. Lo stesso vale per Palazzo Madama dove il voto utile può essere richiamato perché la soglia dell'8 per cento è uno spauracchio per tutti, ad eccezione di Renzi, Grillo, Berlusconi e Salvini (ma solo al Nord). Oltretutto l'assetto attuale consente al Pd di non infilarsi in una discussione sulle alleanze rinviando il discorso al Parlamento. Un buon modo per evitare il "dibattito" a sinistra.

Però qualcosa va fatto, secondo le indicazioni chiare del Quirinale. Almeno il tentativo minimo, magari l'armonizzazione delle soglie: anche se scendono al 5 al Senato (ma alla Camera salgono dal 3) il richiamo della foresta a non gettare i voti dalla finestra può funzionare. Comunque Renzi vuole vedere le carte in questa settimana. Il Pd parlerà con i 5stelle, lo farà anche con Forza Italia. Sapendo tuttavia che Berlusconi non vuole andare a votare prima del 2018 e quindi non si fiderà a modificare qualcosa prima dell'ultimo momento. "E Grillo idem. Ha paura delle urne. Gli unici che non hanno paura siamo noi, lo abbiamo dimostrato anche oggi ", dice Renzi.

Ma adesso è anche il momento di esaminare i dati. Il calo di affluenza nelle regioni rosse segna, in alcuni casi, il 50 per cento. Significa che la scissione dei bersaniani ha lasciato delle cicatrici? È probabile. Renzi può usare quest'anno di tempo per ricucire rapporti con gli elettori, ritrovare sponde, recuperare consenso. Si è capito ieri che questo messaggio si è radicato nella mente del nuovo-vecchio segretario. Il "nuovo inizio che non è una rivincita" vuole dire che la strada è ancora lunga. E Renzi lo sa.

© Riproduzione riservata 01 maggio 2017

Da - http://www.repubblica.it/speciali/politica/primarie-pd2017/2017/05/01/news/la_prima_mossa_di_renzi_sulle_alleanze_so_che_il_pd_non_puo_fare_da_solo_ma_siamo_gli_unici_veri_anti-grillo_-164345282/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P2-S1.8-T1
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« Risposta #111 inserito:: Giugno 05, 2017, 12:00:52 pm »

Elezioni in autunno, governo prepara il piano: serve un decreto sull'Iva

C'è il rischio che scattino le clausole di salvaguardia dal primo gennaio 2018: una stangata da 19,6 miliardi. Telefonata di disgelo tra Renzi e Calenda. Preoccupazione del Quirinale

Di GOFFREDO DE MARCHIS
30 maggio 2017

ROMA - Collegato alla legge elettorale, praticamente una sua appendice, e al voto anticipato a settembre-ottobre, il governo Gentiloni pensa a un decreto sull'Iva. È l'unica soluzione per evitare che l'eventuale esercizio provvisorio, figlio di un Parlamento frammentato e senza maggioranza, conduca dritti dritti all'applicazione della clausole di salvaguardia, che sono già legge dello Stato. Scattano il primo gennaio del nuovo anno e portano l'imposta sul valore aggiunto dal 10 per cento al 13 per i beni di largo consumo e dal 22 al 25 per cento per gli altri beni. Totale della stangata: 19,6 miliardi. Il decreto sarebbe chiamato a evitare che l'Iva aumenti automaticamente. Lo farebbe rinviando di tre mesi, al 1 aprile, le clausole, in attesa che nelle Camere si formi una maggioranza stabile e trovi una possibile alternativa.

L'idea del decreto è il segno che anche a Palazzo Chigi e a Via XX settembre, la sede del ministero dell'Economia, si fanno i conti (pubblici) con il calendario in mano e la data delle elezioni segnata in una domenica autunnale. Si cercano perciò delle vie d'uscita all'intreccio tra le urne e la legge di bilancio, che per l'Italia non è mai una passeggiata. Pesa la zavorra del debito pubblico e del rapporto tra deficit e Pil: non siamo cioè nella situazione della Germania che, come dice Giulio Tremonti, "se fotocopia il bilancio dello scorso anno, la commissione europea dice ok e anche i mercati stanno buoni".

Lo stesso decreto sull'Iva serve a rimandare una decisione cruciale affidandola alla nuova legislatura, ma non darebbe molta sicurezza ai mercati. Le clausole infatti sono la garanzia per Bruxelles e per le Borse della solvibilità italiana. In mancanza di altre scelte, esercizio provvisorio e rinvio dell'Iva esporrebbero l'Italia alla speculazione. E molti vedono nel brutto risultato della Borsa di Milano di ieri (-2 per cento) i primi segnali di tempesta o perlomeno di cattivo tempo.

La road map che porta alle urne dunque è molto accidentata. Per questo la preoccupazione di Sergio Mattarella non viene nascosta. E dal Quirinale fanno sapere che il presidente della Repubblica valuterà l'impatto sul Paese dell'eventuale esercizio provvisorio e anche la contrarietà alle elezioni anticipate di alcuni mondi della società civile. Ma non è adesso il momento di decidere: il capo dello Stato vuole lasciare il campo libero al confronto sulla legge elettorale. Comunque il governo si prepara a varare una legge di bilancio "solida e vera". Come dice Pierpaolo Baretta, sottosegretario all'Economia, "la manovra va presentata tra il 10 e il 15 ottobre. In qualsiasi caso. Poi si vedrà quale Parlamento la vota". Una finanziaria dunque ci sarà, voto anticipato o no. E la scriverà Pier Carlo Padoan. Conterrà anche le norme per evitare l'aumento dell'Iva. Il decreto, da approvare prima, deve svolgere invece la funzione di paracadute.

Anche di questo hanno parlato al telefono Matteo Renzi e Carlo Calenda in una telefonata di disgelo. Il ministro non ha cambiato posizione contro il voto. Ma il segretario Pd prova a dialogare. Con Calenda e con quegli imprenditori che lo hanno applaudito all'assemblea di Confindustria.

© Riproduzione riservata 30 maggio 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/05/30/news/elezioni_in_autunno_governo_prepara_road_map_necessario_un_decreto_sull_iva-166758725/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-T2
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« Risposta #112 inserito:: Giugno 25, 2017, 04:13:39 pm »

Renzi scommette di nuovo sulle elezioni a novembre: "No alla trappola di Bersani"
Il retroscena. L'opzione voto anticipato verrà valutata anche in base all'esito dei ballottaggi.
Con un occhio agli equilibri per la legge di bilancio: "Mdp si sfilerà per forzarci a intese con Fi".
Ma il Nazareno nega l'intenzione di anticipare il voto in autunno

Di GOFFREDO DE MARCHIS
25 giugno 2017

ROMA - Altro che voto locale. Matteo Renzi e Silvio Berlusconi attendono l'esito dei ballottaggi di oggi coltivando una suggestione: riprendere in mano la legge elettorale spiaggiata alla Camera due settimane fa, cercando di approvarla prima della pausa estiva. A quel punto, con lo strumento adatto, l'idea di elezioni anticipate, magari a novembre, riprenderebbe corpo.

Il fronte renziano guarda a due variabili. Il risultato del secondo turno, prima di tutto: "Se le cose vanno molto male, allora sarebbe giusto prendere di petto la situazione delle politiche il prima possibile. Se le cose vanno bene, potremmo sfruttare l'onda...". L'eventuale onda da surfare avrebbe anche il vantaggio di non dare tempo all'area di Giuliano Pisapia di organizzarsi e di farsi conoscere. L'altra variabile è Pier Luigi Bersani. Secondo i renziani, ha un piano: far votare la legge di bilancio al Pd e a Forza Italia dimostrando che la Grande coalizione è già una realtà. Una volta chiusa la finestra elettorale, Articolo 1, il gruppo parlamentare dei bersaniani, si sfilerebbe ufficialmente dalla maggioranza. "Non siamo mai stati invitati a confrontarci su cosa pensiamo di voucher, di Consip - ha ricordato ieri Bersani a Napoli alla manifestazione organizzata da Bruno Tabacci -. Se non ci si chiede niente, cerchiamo di mantenere la fiducia fino a che è possibile. Poi ci teniamo le mani libere sul merito dei provvedimenti". Ecco, appunto. Per Renzi sono dichiarazioni utili a tastare il terreno, a preparare l'uscita.

A Largo del Nazareno però dicono che un voto comune con Berlusconi sulla manovra non è nell'ordine delle cose. Anzi, è impossibile. Diventerebbe invece un'ipotesi dopo un passaggio elettorale, nell'eventualità di un esito senza vincitore. In sostanza, il governo Gentiloni scrive la Finanziaria, la presenta in Europa e poi l'approva il nuovo Parlamento.

Ma sulla suggestione del voto avrà un impatto il risultato di oggi, al di là del suo significato locale. Il Pd si prepara a valutarlo più che sui numeri assoluti sul 'peso' delle sfide e sul significato simbolico delle città dove si sceglie il sindaco. Tenere Sesto San Giovanni, pur non essendo un capoluogo, avrebbe il sapore di un successo che rispetta la tradizione e la storia. Una vittoria a Parma, dove la sinistra non vince da 20 anni e dove i 5stelle conquistarono la loro prima medaglia amministrativa, compenserebbe una eventuale sconfitta a Genova. O almeno così la presentano alla vigilia i renziani. Resistere all'Aquila, dopo il terremoto e la ricostruzione, non sarebbe un fatto secondario. Sono auspici naturalmente e in parte, dice Renzi, spiegano la sua assenza durante la campagna elettorale: "Ogni città ha una sua storia da raccontare...". Il segretario del Pd non ha voluto interferire con i percorsi politici di quelle singole realtà.

Dai risultati dipendono anche gli sviluppi del dibattito interno. Andrea Orlando non ha alcuna intenzione di mettere in discussione la segreteria in caso di ballottaggi falliti. Semmai dirà che la linea da seguire è la sua: coalizione con il resto del centrosinistra senza veti, dialogo con Pisapia a partire dalla manifestazione di sabato prossimo. Il ministro della Giustizia punta ad affermare un cambio di rotta radicale che passa non dall'attacco al ruolo del segretario ma a un bersaglio ancora più grosso e indigesto per Renzi: la leadership del centrosinistra e dunque la candidatura

a premier. Questo è il punto: si potranno fare tutte le compensazioni del caso, ma un severo risultato nei ballottaggi è destinato a riaprire il dibattito sulla corsa di Renzi verso Palazzo Chigi. Ma il Nazareno comunque nega l'intenzione di anticipare il voto in autunno.

© Riproduzione riservata 25 giugno 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/06/25/news/renzi_scommette_di_nuovo_sulle_elezioni_a_novembre_no_alla_trappola_di_bersani_-169031767/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P5-S1.8-T1
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« Risposta #113 inserito:: Giugno 29, 2017, 12:31:14 pm »

La paura dei renziani: "Congiura anti-Matteo"

Il leader: “C’è chi vuole isolarmi”.

Il Prof: lui una causa persa, rinuncio a fare da collante

Di GOFFREDO DE MARCHIS
28 giugno 2017

ROMA. "Mi raccomando: Occidentali's karma", scrive Matteo Renzi ai fedelissimi nel giorno dell'attacco massiccio contro di lui. Come dire: mantenete la calma, atteggiamento zen. Eppure sia lui sia i suoi generali sono fiumi in piena. E la furia dell'acqua corrisponde a quella dell'anima. "Non vedo una sola analisi che spieghi quello che è successo alle amministrative. L'unica lettura è l'ostilità e il tentativo di isolamento nei confronti del Pd", dice il segretario ai collaboratori. Tradotto: farlo fuori dalla politica, indebolirlo fino allo stremo, altro che salvare il Partito democratico.

La posizione del leader e dello stato maggiore viene sintetizzata nelle parole taglienti del presidente dem Matteo Orfini: "Ci vogliono costringere a discutere di alleanze e di centrosinistra solo per fare un piacere a loro e a chi ha perso il congresso. In pratica per sei mesi dovremmo fare la campagna elettorale a Pisapia che nessuno conosce e che a occhio non ha nemmeno i voti per entrare in Parlamento. Anzi, non a occhio, perché se non sbaglio la lista Pisapia a Milano ha preso il 3 per cento. Con tutto che portava il nome dell'ex sindaco. Tutto questo non succederà". Un messaggio chiaro a Andrea Orlando e a Dario Franceschini.

Non sono dichiarazioni zen, ma hanno il pregio della chiarezza. La porta di Largo del Nazareno resta chiusa. Anche se i pacificatori disegnano un altro scenario: "Cacciare Renzi non è possibile. È possibile invece immaginare un'alleanza come dicevamo fin dall'inizio, che vada da Calenda a Pisapia benché alla fine di un percorso. Noi costruiamo il nostro, loro ne costruiscono un altro. Alla fine troveremo il punto di incontro. Ma diciamo basta alle geometrie politiche".

Quelle geometrie portano a un solo risultato: mettere in discussione la candidatura a premier di Renzi. Di più: costringerlo a rinunciarvi in partenza. Il segretario dice ai fedelissimi di non occuparsi di Dario Franceschini, con il quale è furibondo (lo fa solo Ernesto Carbone esprimendo il pensiero di Renzi), ma di tenere il filo con Romano Prodi. Sebbene Renzi lo consideri a tutti gli effetti un protagonista della "congiura", uno degli attori principali della spallata. Il Professore però fa sapere che non ingranerà la retromarcia. Alla sua nota durissima, aggiunge poche considerazioni, altrettanto ultimative nei confronti di Renzi: "Prendo atto e rinuncio a fare il collante, il Vinavil. Non funziona, è una causa persa e a me non piacciono queste cause". Significa che uscirà dal Pd? Risposta velenosa: "Non si può abbandonare un partito al quale non si è iscritti da 3 anni ".

Prodi giura anche che fino alla fine rimarrà neutrale tra Renzi e Pisapia, ma la sua nota fa saltare il tappo che Walter Veltroni aveva anticipato nell'intervista a Repubblica. Ricapitolando, emerge il quadro di un vero smottamento del Partito democratico. Veltroni, Prodi, Franceschini e Piero Fassino che ne condivide il giudizio e l'analisi. Sono i padri fondatori del Pd e, guarda caso, anche interlocutori privilegiati del presidente del Consiglio Paolo Gentiloni. A loro va aggiunto Nicola Zingaretti (che sabato andrà alla manifestazione di Piazza Santi Apostoli), partner di tutta l'area vicina al premier a Roma e nel Lazio. Defilato ma attentissimo, rimane Enrico Letta. Anzi, i renziani considerano l'"esule" del Pd la vera carta nel mazzo di Prodi, sempre che il Professore sia solo un king maker e non giochi una sua partita. Alcuni raccontano di un incontro molto importante avvenuto qualche giorno fa tra il Professore e l'ex premier al quale era presente anche Arturo Parisi. In questo modo, l'accerchiamento è completo.

La situazione è molto complicata, anche se i fedelissimi di Renzi dicono che "Matteo se lo aspettava e tra un paio di giorni la tempesta rientrerà". Il contrario di ciò che pensa un prodiano di peso, con una certa memoria storica: "Questa fase mi ricorda il centrodestra nel 2007 alla vigilia della crisi del governo di Romano. Un bel giorno Berlusconi salì sul predellino, s'invento il Pdl e sconvolse la politica". Ma chi può essere l'uomo del predellino a sinistra, chi ha la forza che aveva allora il Cavaliere?

L'isolamento di Renzi, al di là delle dichiarazioni di facciata, appare oggi un dato di fatto. Non basta la scelta zen a mascherare l'arrabbiatura del segretario. Gli attacchi disorientano gli elettori, come dice Renzi, ma minano la stabilità del gruppo dirigente. Graziano Delrio ammutolisce quando gli mostrano la dichiarazione di Prodi. È un brutto colpo per chi crede nella stagione ulivista ma è un renziano convinto. Agli amici il ministro delle Infrastrutture indica una via d'uscita: "Diciamo subito di sì alle primarie con Pisapia. Sono sicuro che le vincerà Matteo. Una nuova legittimazione non è lesa maestà e non può fargli male". È una scelta. Da fare a prescindere dalla legge elettorale, dalle coalizioni sì o no. Anche perché se qualcuno spera che, attaccato su tutti i fronti, Renzi faccia un passo indietro "non lo conosce - dice Delrio - . Non ci credo nemmeno se lo vedo". In questo modo la guerra è appena iniziata.

© Riproduzione riservata 28 giugno 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/06/28/news/la_paura_dei_renziani_congiura_anti-matteo_-169342238/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P2-S1.8-T1
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« Risposta #114 inserito:: Agosto 26, 2017, 11:27:14 am »


"Silvio, pensaci tu". Merkel e Berlusconi, l'asse anti-populisti
La Cancelliera tedesca "rilegittima" il leader di Forza Italia. E lui promette: Grillo lo fermo io

Di GOFFREDO DE MARCHIS
18 agosto 2017

ROMA - "Silvio, pensaci tu a fermare i populisti". Più dei sondaggi, più della salute ritrovata, sono state queste parole a riportare Berlusconi sulla scena con l'attivismo di un tempo. Le ha pronunciate Angela Merkel durante l'incontro tra i due a Malta il 30 marzo scorso. Da allora i contatti sono continui, l'amicizia della Cancelliera è stata confermata più volte. Tanto che qualcuno non esclude che un faccia a faccia sia avvenuto anche a fine luglio quando sia Merkel sia il leader di Forza Italia erano in vacanza in Alto Adige. Comunque, il succo non cambia: il Cavaliere ha riconquistato un ruolo centrale nello scacchiere dei moderati europei. Ed è successo con la benedizione della figura più importante del Partito popolare europeo, dell'unica king maker del Continente.

Berlusconi, raccontano, ha cullato a lungo la suggestione di una grande coalizione con Matteo Renzi. "Il Pd prende il 30, noi arriviamo al 20. E abbiamo una maggioranza in Parlamento per fare le riforme". I sospetti su un piano per arrivare alle larghe intese, dunque, erano veri, almeno secondo la versione di Forza Italia. Ora Berlusconi ha cambiato idea. O meglio, sono cambiati i numeri perché secondo l'inquilino di Arcore il Pd non raggiungerà quella soglia e "se non ci pensiamo noi ad avvicinarci al 30 per cento, il primo partito sarà quello di Grillo".

Questa sensazione si è diffusa anche nelle cancellerie europee e in particolar modo a Berlino. Perciò non è stato solo il Cavaliere a fare il diavolo a quattro per ricucire con Angela Merkel. Anche la leader tedesca ha voluto chiudere la fase di gelo in vista del prossimo appuntamento elettorale italiano. Antonio Tajani, presidente dell'Europarlamento, ha lavorato a lungo alla pace sapendo che entrambi la volevano e la cercavano.

È un asse riservato, perché la Merkel è la leader della Cdu ma anche il capo del governo. Deve tenere conto dei suoi rapporti istituzionali. Con Paolo Gentiloni il legame è solido. Ma il Ppe ha deciso ancora una volta di affidarsi al vecchio leader del centrodestra. Per bloccare l'ondata populista e antieuropea che soffia in Italia, dai 5 stelle alla Lega. E se alla fine Forza Italia dovesse allearsi con Salvini, ferma restano l'attuale legge elettorale proporzionale. Un listone del centrodestra avrebbe una guida moderata. Molti suggeriscono proprio il nome di Tajani, una lunga e costante carriera nelle sedi della Ue, europeista convinto ma consapevole dei difetti dell'Unione. Con il suo stile, Tajani è stato anche capace di opporsi alla burocrazia comunitaria, che nei ruoli chiave è legata a doppio filo a Berlino. Appena insediato alla presidenza, il segretario generale dell'Europarlamento, Klaus Welle, ex leader dei giovani della Cdu, gli comunicò che bisognava spendere 3 miliardi di euro per la ristrutturazione delle sedi. Cifra monstre, destinata ad alimentare i sentimenti euroscettici. Dopo un lungo lavoro ai fianchi, Tajani ha portato quella cifra a 380 milioni, quasi il 90 per cento in meno della spesa preventivata. Tajani però ha già fatto sapere di voler rispettare il suo mandato a Strasburgo che scade nel 2019.

Il dialogo della Merkel comunque è diretto con Berlusconi. Cadono nell'oblio i molti episodi che li hanno contrapposti negli anni di governo. Il cucù nel 2008, lo sgarbo di un mancato saluto per rispondere a una telefonata durante un vertice internazionale, le risatine sul Cavaliere tra la Cancelliera e Sarkozy durante una conferenza stampa alla fine del 2011 (non a caso recentemente Berlusconi ha spiegato che era stato il presidente francese a provocare, la Merkel si era limitata a non contraddirlo) e la presunta intercettazione del leader di Forza Italia in cui venivano pronunciate delle volgarità sulla leader tedesca.
La Bbc: "E' vero che insultò la Merkel?", l'imbarazzo di Berlusconi

Il disgelo personale ha avuto due passaggi: il congresso del Ppe di Madrid e il summit popolare a Malta di marzo. Ma adesso il dialogo è tutto politico. E la soddisfazione, per il Cavaliere, è che l'interesse per un nuovo inizio non è solo suo. Anche Merkel si è convinta a puntare, ancora, sul cavallo di Arcore. Vincente non si sa. Ma di nuovo affidabile e centrale nella politica italiana.

© Riproduzione riservata
18 agosto 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/08/18/news/_silvio_pensaci_tu_merkel_e_berlusconi_l_asse_anti-populisti-173281243/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P3-S1.8-T1
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« Risposta #115 inserito:: Ottobre 04, 2017, 11:31:52 am »

Vendola: “Grasso è più radicale di Pisapia. L’Ulivo? Roba da sedute spiritiche”

Il fondatore di Sinistra italiana stronca l’alleanza con ex sindaco e dem: “Renzi ha completato i piani di Berlusconi.

Giuliano ha una pregiudiziale contro di noi? Non so, non ho letto il libri dei cosiddetti marxisti per Tabacci”

Di GOFFREDO DE MARCHIS
01 ottobre 2017

ROMA - Nichi Vendola, sette anni fa festeggiavate con Pisapia la conquista di Palazzo Marino. Cosa è successo da allora?
«Per sconfiggere la destra clericale e affaristica del sistema Moratti dovemmo prima sconfiggere il moderatismo e la subalternità culturale del centrosinistra. A Milano, come a Genova o a Cagliari o in Puglia, vincemmo mettendo in gioco candidati che spiazzavano gli apparati di partito e che non avevano paura di dire cose di sinistra. Ma parliamo davvero di una stagione esaurita, visto che il centrosinistra ha ridotto la sinistra ad un complemento d’arredo».

È cambiato Pisapia o siete cambiati voi?
«Direi che è cambiato il mondo, il riformismo stenta a riformare se stesso, i teorici della “terza via” sono stati arruolati e arricchiti dalle più inquietanti lobby economiche, Renzi ha portato a compimento il programma di Berlusconi, le politiche di austerità hanno reso agonizzante il socialismo europeo e stanno mettendo in crisi la stessa idea di Europa. In questo contesto evocare l’Ulivo rimanda ad una seduta spiritica più che a un progetto politico».

C’è una pregiudiziale di Pisapia su Sinistra Italiana?
«Non saprei dire, non ho letto i libri dei cosiddetti “marxisti per Tabacci”».

Lei è la prima importante creatura delle primarie del centrosinistra. Perché oggi “centrosinistra” è quasi una bestemmia?
«Non è una bestemmia, è una formula svuotata, un progetto disintegrato dalle scelte che il Pd è andato maturando negli anni del governo: dalla riforma autoritaria della Costituzione alla cancellazione dell’articolo 18, dalla pessima “buona scuola” allo sblocca cemento camuffato da “sblocca Italia”. Una deriva a destra che ha regalato al populismo e alla rassegnazione porzioni crescenti di elettorato».

Avete governato il Paese con l’Unione, siete stati sinistra di governo con lei in Puglia per 10 anni. State tornando alla sinistra minoritaria?
«Non c’è nulla di più minoritario del governismo a tutti i costi. Avere cultura di governo non significa essere intruppati dal pensiero unico del capitale finanziario. C’è una sinistra che la domenica si commuove per il magistero radicale di Papa Francesco e nei giorni feriali si genuflette dinanzi ai profeti della diseguaglianza, della precarietà del lavoro, della privatizzazione dei beni comuni, della necessità delle trivelle, o del realismo del vendere armi all’Arabia Saudita o del finanziare i lager per migranti in Libia».

Piero Grasso sarebbe un candidato migliore per la premiership rispetto a Pisapia, che ha la vostra storia?
«Non si può partire dall’invenzione di un leader per poi trovare un programma e un popolo. Si deve partire dal protagonismo di una comunità che reagisce alla paurosa regressione culturale che rimette in circolo i veleni del razzismo, del nazionalismo, del fascismo. Personalmente eviterei di tirare per la giacca la seconda carica dello Stato. Certo, Piero Grasso, che a differenza di Pisapia non è mai stato eletto con Rifondazione comunista, mi sembra assai più chiaro e radicale dell’ex sindaco».

Non sarebbe un errore correre con due liste a sinistra del Pd?
«Impedire alla sinistra di ritrovare se stessa, la propria autonomia, il proprio coraggio intellettuale e politico, quello sì più che un errore sarebbe un delitto».

Bersani e D’Alema dovrebbero fare un passo indietro nelle candidature?
«Non mi sono mai piaciuti quelli che cantano “giovinezza, giovinezza”. Io penso che ci sia bisogno di tutti e che le liste di proscrizione siano un brutto segnale».

Lei sarà candidato?
«Per mia fortuna non soffro di astinenza da Transatlantico. Anche questa è una malattia della politica: l’idea che tu conti qualcosa solo se sei dentro le istituzioni e dentro i talk-show».

Renzi rappresenta davvero la destra secondo voi? È come Berlusconi?
«Renzi è stato la traduzione italiana del blairismo, l’idea cioè che sia superata la dialettica destra-sinistra. Lo ha scritto nella prefazione al famoso saggio di Norberto Bobbio, soprattutto questo superamento lo ha realizzato dal governo. Se non c’è più dialettica non vuol dire che c’è il vuoto: resta in piedi solo la destra, camuffata o da tecnica o da modernità».

La legge sulle unioni civili è una cosa di sinistra.
«Quella legge è il minimo sindacale per essere un Paese civile. Ma un importante avanzamento sul terreno dei diritti civili non può certo compensare il drammatico arretramento sul terreno dei diritti sociali».

Col governo Gentiloni cosa è cambiato?
«Molto nella forma, nulla nella sostanza. È lo stesso Gentiloni che rivendica la continuità col suo pirotecnico predecessore, mi pare».

Mdp ha rotto col Pd in Sicilia perché c’è Alfano. Ma quante alleanze avete fatto col centro ai tempi dell’Ulivo. Si ricorda?
«Come si può pensare ad una alleanza col Pd dopo la disastrosa esperienza del governo Crocetta? E come si può dimenticare che Alfano ha rappresentato l’ala neo-clericale della stagione berlusconiana? Ma soprattutto come si può soffocare la passione politica dentro compromessi sempre al ribasso? Noi, ai tempi dell’Ulivo, abbiamo posto questioni che forse meritavano un ascolto meno sprezzante: la riduzione dell’orario di lavoro, la lotta alle diseguaglianze, la costruzione di una Europa che non fosse solo una moneta».

Mai col Pd o mai con Renzi?
«C’è la politica e c’è anche la fantapolitica. Io farei mille alleanze col Pd che mette in agenda la restituzione di diritti e di potere al mondo del lavoro, che ripristina l’articolo 18 estendendolo a tutti i lavoratori, che guarda in faccia il disastro della scuola e dell’università, che sfida i populismi non rifugiandosi nel galateo di Palazzo o riducendo la domanda di giustizia a una questione di bonus ma offrendo prospettive di futuro ai giovani, che investe sull’ambiente piuttosto che sulla ricerca del petrolio con le trivelle. Ma questa è, appunto, fantapolitica».

Di Maio che ai sindacati suggerisce: riformatevi o ci pensiamo noi. Bel risultato per la sinistra.
«Vede? Anche Di Maio è diventato renziano. Una pecorella con Confindustria, ma rumoroso con chi rappresenta il lavoro. Il suo è il ruggito del coniglio».

© Riproduzione riservata 01 ottobre 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/10/01/news/vendola_grasso_e_piu_radicale_di_pisapia_l_ulivo_roba_da_sedute_spiritiche_-176995342/?ref=RHRS-BH-I0-C6-P7-S2.6-T1
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« Risposta #116 inserito:: Ottobre 21, 2017, 11:57:17 am »

Bankitalia, il piano di Gentiloni per confermare Visco con la sponda di Draghi.
Il retroscena. Nella partita a scacchi con Renzi l'ipotesi di non mettere la fiducia al Senato sulla legge elettorale, che il segretario vorrebbe subito

Di GOFFREDO DE MARCHIS
21 ottobre 2017

ROMA - Se Gentiloni, d'intesa con il Quirinale, punta alla conferma di Ignazio Visco alla guida di Bankitalia ha tutti gli strumenti in mano per farlo. Due in particolare. La sponda del presidente della Bce Mario Draghi che spinge per evitare scossoni mentre in Europa si decide l'unione bancaria. E la fiducia sulla legge elettorale che la prossima settimana arriva al Senato. Stavolta, se vuole, il premier può evitare di metterla. Gli argomenti per seguire la strada di una discussione libera non mancano. Non ci sono 120 voti segreti in agguato (la regola di Palazzo Madama è diversa da quella di Montecitorio), la maggioranza non è in bilico visto che a Pd e Ap si aggiungono Forza Italia e Lega, alleati dell'accordo, l'idea che almeno un ramo del Parlamento non sia vincolato alla decisione del governo avrebbe l'effetto di un salutare ritorno d'immagine per il Rosatellum.

La seconda soprattutto ha tutto il sapore di una sfida a Matteo Renzi, che quella legge vuole a tutti i costi e in tempi brevissimi. Ma confermare Visco contiene in sè gli elementi della sfida, dopo tutto quello che il segretario dem ha detto in questi giorni. "Sul tavolo di Gentiloni, dal momento in cui è rientrato da Bruxelles, c'è l'opzione del no alla fiducia. E certo non si può dire che in questa partita non sia in una posizione di forza totale", spiega un ministro. Il premier deve solo decidere come usare o dosare la forza.

Per il momento lancia segnali di pace al Pd renziano. Non vuole che scorra il sangue intorno a un vicenda delicata come la nomina del governatore di Via Nazionale. Il week end è decisivo per capire come muoversi. Gli uomini di Renzi sperano che sia il governatore a fare un passo indietro: "Lunedì sapremo ", dicono sibillini. Da Palazzo Koch l'ipotesi viene esclusa senza mezzi termini: "Il mandato scade il 31 ottobre, niente dimissioni ". Venerdì 27 c'è il consiglio dei ministri durante il quale verrà fuori la soluzione finale con un nome. Se le posizioni del Pd e di Banca d'Italia non cambiano ricadrà tutto sulle spalle di Gentiloni e di Sergio Mattarella. Escludendo aiutini esterni.

Il premier vuole gestire lo sprint verso venerdì in maniera ordinata, a differenza della mozione di "sfiducia" del Pd. "Come in maniera ordinata si preparava a immaginare anche una successione al vertice della Banca centrale", dicono a Palazzo Chigi. Il premier vuole ricucire anche perché il Partito democratico è indispensabile per condurre in porto la legge di bilancio. Ma non si vede quali pericoli possano arrivare da Largo del Nazareno, visto che la manovra è senza tasse, senza aumenti dell'Iva e molto soft, proprio come aveva imposto il segretario dem. Occorre dunque costruire una scelta. I renziani sono convinti che Visco stia ancora riflettendo sul passo indietro. E che Draghi eviterà le barricate se il successore fosse scelto all'interno del direttorio di Bankitalia. "Non Fabio Panetta però perché non andrà mai bene a Carlo Messina", spiega un fedelissimo del leader Pd. Messina è l'amministratore delegato di Intesa San Paolo, il principale istituto italiano che inevitabilmente ha un certo peso nella vicenda. Più facile che la nomina ricada su Salvatore Rossi, direttore generale di Via Nazionale.

Ma a Palazzo Chigi lavorano sullo stesso binario? Il colloquio di ieri con Jean Claude Juncker incentrato sul dossier banche e sui bilanci degli istituti italiani che vanno difesi da una diversa valutazione dei crediti deteriorati lascia capire che va scongiurato un terremoto a Via Nazionale. Cosa succede se dal tavolo della trattativa si toglie il banchiere centrale che l'ha seguita finora? È possibile una reazione dei rigoristi tedeschi: ma come dite che Banca d'Italia non vigila? Allora meglio che vigiliamo noi. Un argomento che non regge secondo i renziani. "Le casse rurali tedesche, secondo gli stress test, non sono messe meglio delle nostre banche", ripetono. L'argomento "stabilità in Europa" dunque non regge. Resta l'arma della fiducia sul Rosatellum che è sicuramente esplosiva e fuori dai confini del caso Bankitalia. Ma il dibattito sulla legge elettorale precede, nei primi giorni della prossima settimana, la decisione finale. E la mossa rottamatrice di Renzi è destinata ad aizzare le polemiche anche sulla riforma del sistema di voto. Martedì parlerà a Palazzo Madama Giorgio Napolitano e sta già scrivendo il suo intervento. Contro l'uso della fiducia e su alcuni punti della legge. Discorso che il presidente accompagnerà con alcuni emendamenti.

© Riproduzione riservata 21 ottobre 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/10/21/news/bankitalia_il_piano_di_gentiloni_per_confermare_visco_con_la_sponda_di_draghi-178877621/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P2-S1.8-T1
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« Risposta #117 inserito:: Ottobre 28, 2017, 06:01:09 pm »

Gentiloni 'accetta' i voti di Ala: “Così o salta il bilancio dell’Italia”.
E i dem puntano pure allo Ius soli
Il premier "realista".
Dal Quirinale nessuna mossa: conta la fiducia. Ma irritazione per l'incontro con Mdp reso pubblico.
Palazzo Chigi: l'alternativa è l'esercizio provvisorio non c'è altra scelta


Di GOFFREDO DE MARCHIS e UMBERTO ROSSO
26 ottobre 2017

ROMA. «L’alternativa è l’esercizio provvisorio. Perciò si prendono i voti che ci sono». Senza fare troppo gli schizzinosi. Paolo Gentiloni guarda già oltre la legge elettorale. Pensa al percorso della manovra economica che serve a garantire i conti pubblici e a portare il Paese alle elezioni in modo ordinato, quando mancano appena due mesi allo scioglimento delle Camere. C’è anche dell’altro. «Non dite che il sostegno di Verdini puzza. Quando servirà a votare la fiducia sullo Ius soli saranno in tanti a ricredersi», ripete da giorni ai suoi senatori il capogruppo Pd Luigi Zanda.

La linea del Quirinale è la stessa. Il governo ha la fiducia del Parlamento, il cambio di maggioranza invocato dai bersaniani di Mdp non incide sulle regole istituzionali, tanto più che siamo sul filo di lana della legislatura. Semmai sul Colle non hanno gradito la pubblicità che Mdp ha dato all’incontro con Sergio Mattarella, che doveva rimanere riservato. Come se gli volessero suggerire una mossa, magari la convocazione dei gruppi parlamentari per verificare la nuova maggioranza.

Ala, dentro il perimetro della coalizione, va bene, va benissimo se in gioco c’è la stabilità. Per questo Palazzo Chigi è stupito dell’iniziativa dei bersaniani: «Praticamente sono andati a chiedere al presidente della Repubblica di avallare l’esercizio provvisorio». Roba da matti, secondo il Pd. «La legge elettorale ha una maggioranza che va oltre quella di governo, quindi non vedo il problema — osserva Matteo Orfini — . La Finanziaria è in pratica un provvedimento tecnico che serve a bloccare l’aumento dell’Iva. Se Verdini la vota, dà un voto tecnico. Niente di più». Ma questo non muta la natura del Partito democratico, non è ancora più dannoso che ciò avvenga in vista delle elezioni piuttosto che lontano da esse? «Direi di no», taglia corto il presidente dem.

Sembra acqua passata la questione se i voti dei verdiniani siano decisivi o aggiuntivi. Ieri il punto era garantire il numero legale e non sono servite le presenze del gruppo di Ala. Ma i senatori di quella componente sono decisivi, anzi indispensabili per condurre in porto le ultime gesta del governo. Quindi, sì sono dentro la maggioranza. Infatti Mattarella si dice «fiducioso sull’approvazione della manovra» e richiama tutti «al senso di responsabilità», confermando che ormai la legislatura serve soprattutto a evitare il caos dei conti pubblici.

Gentiloni sa che lo sfaldamento del quadro era inevitabile a poche settimane dalle elezioni e già in piena campagna elettorale. Forse si aspettava un atteggiamento diverso da parte di «chi ha sempre votato la fiducia sulla legge di bilancio in questi anni e si sfila adesso di fronte a una manovra soft». Parla di Bersani, ovviamente. Ma dimostrare che il presente e il domani si reggono sulle larghe intese era l’obiettivo di Mdp fin dall’inizio. Inutile stupirsi più di tanto. «Parlano solo di Verdini perché non hanno alcun progetto politico. Contenti loro...», incalza Orfini.

Cosa chiede Verdini in cambio della stabilità, quale patto oscuro si cela dietro la sua generosità al Senato? Nessuno, risponde Orfini. «Ma quale scambio, forse una scatola di cioccolatini», scherza Orfini. E superata la fase della polemica, anche a sinistra dovranno ricredersi quando i voti di Ala saranno necessari per approvare lo ius soli. Significa, se la raccomandazione di Zanda ai senatori è concreta, che Gentiloni si prepara davvero a un’ultima zampata, la fiducia sulla cittadinanza. I numeri degli sbarchi, in calo vertiginoso rispetto al 2016 e praticamente nei limiti fisiologici, consentono di arginare il collegamento ius soli-invasione. La sinistra a quel punto dovrà celebrare l’azione del governo.

Lo stesso premier è intenzionato a scrollarsi di dosso le macchie lasciate dalle 8 fiducie poste sulla legge elettorale. Secondo Giorgio Napolitano frutto di «forti pressioni», ovvero della volontà di Matteo Renzi. Il segretario Pd non si scandalizza per l’appoggio di Verdini, anzi. Da sempre Luca Lotti lavora al coinvolgimento dei verdiniani nel recinto del centrosinistra. «E dobbiamo dire grazie a Verdini se oggi abbiamo le unioni gay», ricorda Orfini. Può succedere di nuovo e quel giorno Ala e Mdp voteranno insieme.

© Riproduzione riservata 26 ottobre 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/10/26/news/gentiloni_sdogana_i_voti_sporchi_cosi_o_salta_il_bilancio_dell_italia_e_i_dem_puntano_pure_allo_ius_soli-179355608/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-T2
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« Risposta #118 inserito:: Novembre 12, 2017, 12:19:30 pm »

Pd-Bersani, l'ultima trattativa: così Renzi apre alla sinistra
Allo studio accordi nei collegi per battere le destre e l'ondata populista.
Franceschini media.
Tutti tra i dem cercano Prodi. Parisi: "Parliamo delle cose che ci uniscono"

Di GOFFREDO DE MARCHIS
12 novembre 2017

ROMA. I contatti sono in corso, anche se in pubblico nessuno cede di un millimetro. Si lavora a un accordo unitario per i 341 collegi uninominali. Lo stesso candidato per Renzi, Grasso, Pisapia, Fratoianni, Civati. Accordo tecnico, senza voli pindarici. Sulla base di una cornice di programmi. Non il quadro perché quello è impossibile. Come dice Arturo Parisi: "Bisogna rendere manifeste le cose che ci uniscono". Parisi rimane l'unico vero consigliere e confidente di Romano Prodi.

Dopo il grido di allarme raccolto da Repubblica, il Professore lo cercano tutti. Perché "copra" e sostenga questa difficile operazione. La prima mossa tocca a Matteo Renzi, che domani riunisce la direzione del Pd. Il segretario ha parlato a lungo con Dario Franceschini e Andrea Orlando, i ministri che spingono per un'alleanza con tutti dentro. Gli ha garantito alcuni passi indietro rispetto alla strada dell'autosufficienza: "Proporrò un accordo significativo e strutturato anche a Bersani. Non parlerò più dei mille giorni e dei provvedimenti del mio governo. Parlerò di quello che si può fare non di quello che è stato fatto". A partire dal Jobs Act: "Senza abiure, ma se si vuole ragionare di cosa non ha funzionato facciamolo. Per esempio: sui contratti a tempo indeterminato, che devono ancora crescere". Questa è la "cornice" di cui Franceschini discute con i suoi interlocutori. Con Renzi prima di tutto. La linea del ministro della Cultura è chiara: "A destra hanno trovato il modo di parlare a mondi diversi, di fare campagne diverse, di presentare candidati premier diversi, ma, nei collegi, di sommare i voti anziché sottrarseli a vicenda. Noi possiamo fare lo stesso". I leader si stanno sentendo. Intanto dentro il Pd perché la direzione si tiene tra poche ore. C'è la possibilità di un voto unanime sulla relazione del segretario, se contiene le aperture promesse. Ma c'è anche il rischio concreto di una rottura se torna l'eco di imprese solitarie, di un Renzi alla Macron. A quel punto le minoranze di Orlando e Michele Emiliano presenteranno un loro documento (già pronto) di critica alle politiche renziane degli ultimi anni. "Per distinguere nettamente le responsabilità", dicono gli orlandiani.

Il governatore pugliese viene descritto sul piede di guerra o meglio, di nuovo con un piede fuori dal partito. Per lui è difficile resistere alla calamita di Piero Grasso, collega magistrato e amico. I due si telefonano continuamente. Spesso è il presidente del Senato a chiamare Emiliano per chiedergli come muoversi nel mare ondoso della politica, ben diverso da quello delle istituzioni. Ed Emiliano lo guida: "Hai sbagliato con quella dichiarazione sul Pd", gli ha detto l'altro giorno.

Come spiega Parisi ad Affari italiani, l'accordo tecnico nei collegi può diventare qualcosa di più concentrandosi sui tratti comuni: la politica europea, l'immigrazione, lo ius soli, i diritti civili, l'ambiente. La "cornice". Lasciando fuori i punti di contrasto. Eppoi si reggerebbe sulla convenienza, diciamo la verità. Per questo Renzi non crede che sarà domani la giornata decisiva, però entro due settimane la situazione sarà sotto gli occhi di tutti. "Quando ciascuno, noi compresi - dice un renziano - si farà due conti sulle chance di vittoria collegio per collegio". Con l'obiettivo di fermare quelli che nei suoi colloqui privati Renzi chiama i "barbari" riferito ai leader non agli elettori. Di bloccare l'ascesa di Beppe Grillo e Matteo Salvini.

Il segretario giura che ci proverà. Facendosi poche illusioni. La coalizione più realistica, nel quartier generale renziano, viene confinata ai nomi di Emma Bonino e Giuliano Pisapia "che con Bersani e D'Alema non andrà mai". Le reazioni pubbliche di Mdp in effetti continuano a essere gelide. "Archiviare il renzismo", dice Roberto Speranza. Richiesta irricevibile a Largo del Nazareno. Vasco Errani, parlando con gli amici, non è meno severo: "Il sistema era tripolare, ma adesso i poli sono due e mezzo. E il mezzo è la sinistra. Non c'è politicismo che tenga, non bastano gli appelli a fermare i populisti. Bisogna riprendere i voti e ci vogliono atti concreti. Questo è un problema molto più grande di un tavolo di trattativa per i collegi ". Ma un tavolo è necessario, se c'è la volontà di parlarsi. E se il problema non è solo ed esclusivamente la sorte di Renzi, come pensano tanti nel Pd. "Noi indicheremo un metodo di lavoro e un percorso. Per provare a fare tutti un passo avanti ", dice il vicesegretario Maurizio Martina. Senza guardare indietro. Modello centrodestra, come sottolinea Franceschini. In quel campo chi parla più di uscita dall'Euro o della Le Pen, le bandiere leghiste? "La partita ce la giochiamo solo se stiamo insieme. Altrimenti è cupio dissolvi ", avverte Francesco Boccia, vicinissimo a Emiliano.

EDITORIALE L'uomo solo al comando non batte i populismi di massa DI E.SCALFARI

Il filo è sottile e si può spezzare da un momento all'altro per molti motivi. Renzi, nemmeno una settimana fa, ha rilanciato l'obiettivo 40 per cento e il Jobs Act 2. Ovvero, porta in faccia a Mdp. Bersani e D'Alema sanno che la loro ragion d'essere è distinguere politiche e leadership dal Pd renziano. Come collante, resta il pericolo della destra e dei grillini, così plasticamente dimostrato dal voto in Sicilia e a Ostia. In più c'è l'allarme di molti mondi, a cominciare da quello cattolico di base. Basta andare in molte parrocchie per scoprire quanto sia attrattiva la storia umana di Piero Grasso e quanti dubbi ci siano sugli avversari del centrosinistra. I padri nobili, da Prodi a Veltroni a Enrico Letta, sono pronti a intervenire ma solo se si apriranno degli spiragli reali, se i "figli" mostreranno di avere a cuore la famiglia unita. La loro parola è

in grado di superare le rigidità dei vari campi. Non farà presa su D'Alema e Fratoianni forse, ma non lascerebbe indifferente Pierluigi Bersani. L'accordo per stare uniti nei collegi è tutto da costruire. Ma se gli ambasciatori si parlano, il tentativo rimane in piedi.

© Riproduzione riservata 12 novembre 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/11/12/news/pd-bersani_l_ultima_trattativa_cosi_renzi_apre_alla_sinistra-180877190/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-T1
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« Risposta #119 inserito:: Novembre 17, 2017, 11:02:54 am »

Prodi incoraggia Fassino: “Ti darò una mano a unire senza scendere in campo”
Il mediatore del Pd incontra il Professore a Bologna.
Parisi: “Romano userà la moral suasion”.
Oggi l’ex sindaco di Torino vedrà Pisapia, un colloquio decisivo per portare la sinistra in coalizione

Di GOFFREDO DE MARCHIS
17 novembre 2017

Prodi c’è. «Con un profilo riservato, non con posizioni pubbliche», ha spiegato a Piero Fassino nel colloquio di ieri a Bologna. Significa che non sposa la causa del Partito democratico, che si spenderà secondo le sue forme. Ma proverà a costruire, per la sua parte, la coalizione di centrosinistra competitiva che unisca Pd, Mdp e altri alleati. Come? «Con la moral suasion», dice Arturo Parisi, il suo confidente principale. Ovvero, parlerà con tutti, affiancando il “mediatore” del Partito democratico, lì dove lui non può arrivare e lì dove Fassino ha bisogno di fare l’ultimo centimetro per strappare un accordo. Per l’ex segretario dei Ds è già un grande passo avanti, considerando il punto di partenza.

Il colloquio dunque è andato «molto bene» oltre i comunicati ufficiali. Non significa affatto che il Professore abbia piantato la sua tenda di nuovo nel campo del Pd. Rimane in una posizione neutrale che forse è più utile. Riconosce il ruolo e la funzione di Fassino, «il più autonomo dei renziani», spiegano i collaboratori di Prodi. Il Professore «incoraggia». Che è già molto rispetto alle prese di posizione di questa estate o all’allarme lanciato pochi giorni fa. A modo suo è di nuovo dentro la partita. «Lascio a lui decidere come giocarla», precisa, diplomaticamente, Fassino. I due hanno anche scherzato sull’effettivo potere di convincimento. «Io più che un padre nobile sono un nonno nobile. Magari ci pensano due volte prima di dirmi di no», ha detto il Professore.

Con le ferite degli ultimi sei mesi, con la consapevolezza che il tempo purtroppo non ha aiutato, Prodi si ri sintonizza sulla vecchia definizione che aveva dato di se stesso: «Io posso essere la colla, il Vinavil del centrosinistra». Ma le scottature rimangono, dunque eserciterà il suo “lavoro” da una posizione più defilata.

Ora il Pd ha un mediatore incaricato, il Professore può fare da “facilitatore” in un raggio di azione che va dai partiti in campo attualmente a mondi fuori dalla politica. A cominciare da quello cattolico. Oggi sarà l’ospite d’onore a un convegno sulle migrazioni organizzato da Andrea Orlando con monsignor Galantino e il vescovo di Bologna Matteo Zuppi. Prodi può dialogare con Giuliano Pisapia e non sarebbe certo una novità. Con l’ex sindaco di Milano il rapporto è ottimo, la fiducia reciproca immutata. Pisapia è anche un interlocutore molto cercato dal Pd di Matteo Renzi. La sua posizione non ancora definita alimenta le speranza di Largo del Nazareno di convincerlo a un sicuro “sì” in tempi brevi e con tutto il carico dell’esperienza di Campo progressista. Oggi Fassino vedrà Pisapia e dopo l’incontro con Prodi è il mini vertice più importante del mandato appena ricevuto dalla direzione dem. Se dovesse andare male la chiusura del cerchio con gli scissionisti l’obiettivo è un’alleanza a sinistra con Pisapia e la struttura costruita in questi mesi.

Un altro passaggio di questo avvicinamento potrebbe essere l’appuntamento di domenica a Bologna organizzato da Giulio Santagata, ex ministro del governo Prodi e suo amico, al quale interverrò anche l’ex sindaco di Milano. Santagata e Pisapia sono convinti, con tutte le cautele del caso, che un centrosinistra nuovo non possa prescindere dal Pd.

Il punto rimane il rapporto con Mdp. Ovvero con Pierluigi Bersani, Massimo D’Alema, Roberto Speranza. Prodi può dare un mano anche su questo versante? Può. C’è l’antica amicizia con Bersani, c’è la sintonia di vecchia data e la collaborazione con Vasco Errani, l’ex governatore dell’Emilia Romagna che è uno dei tessitori di Mdp. Naturalmente, il compito maggiore spetta a Fassino. Il mediatore vorrebbe incontrare i dirigenti di Articolo 1 a breve. Anche prima della loro assemblea allargata del 2 dicembre. «Si può fare prima e dopo, perché no». Ma l’impresa gli impone rispetto dei tempi di tutti. Soprattutto
la più delicata. In un’ottica di tattica negoziale, Fassino aspetta che le carte siano scoperte. Che la polemica lasci spazio al confronto. Si parte da posizioni lontanissime. «Aperture vere non ne ho viste», ammette Fassino. Ma subito aggiunge: «Per adesso».

© Riproduzione riservata 17 novembre 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/11/17/news/prodi_incoraggia_fassino_ti_daro_una_mano_a_unire_senza_scendere_in_campo_-181306248/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P4-S1.8-T1
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