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Autore Discussione: DOMENICO SINISCALCO -  (Letto 6420 volte)
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« inserito:: Luglio 01, 2008, 04:03:09 pm »

1/7/2008
 
Alzare non alzare
 
 
 
 
 
DOMENICO SINISCALCO
 
L’inflazione globale sta rialzando la testa. La dinamica dei prezzi al consumo supera il dieci per cento in più di cinquanta Paesi emergenti, dove vivono due terzi della popolazione mondiale. Essa è cresciuta al 4% in Europa (ancora in maggio era del 3,7%) con punte del 5,8% in Belgio e del 5,1% in Spagna. In Italia l’aumento dei prezzi è al 3,8%, ma l’inflazione percepita è più elevata.

I prezzi al consumo sono sospinti dai carburanti e dai prodotti agricoli, ma l’inflazione globale è resa possibile dalle politiche monetarie, che continuano a creare eccesso di liquidità. In molti Paesi emergenti, pur in presenza di forte crescita, i tassi di interesse reali, cioè depurati dell’inflazione, sono spiccatamente negativi, perché ancorati a quelli americani. A livello globale la liquidità cresce di più del prodotto lordo nominale.

In questa situazione, Jean-Claude Trichet, presidente della Banca Centrale Europea, in vista della riunione di giovedì prossimo, ha annunciato sin dal 5 giugno un rialzo dei tassi di interesse. Ma importanti governi europei, dalla Germania alla Francia, alla Spagna sono critici se non addirittura ostili verso questa decisione, per i suoi effetti negativi sulla crescita economica già debole.

Dal punto di vista della Bce, un rialzo è probabilmente obbligato. L’inflazione al 4% è doppia rispetto all’obiettivo dichiarato del 2%.

Non alzare i tassi porrebbe seri problemi di credibilità e potrebbe portare fuori controllo le aspettative inflazionistiche.

Ma vi è il dubbio fondato che questo aumento serva a ben poco, e forse a nulla. In primo luogo, la nuova inflazione è un fenomeno globale e non ha senso alzare i tassi solo in Europa, se la politica monetaria resta espansiva nelle altre aree. Per questa strada, a un’inflazione mondiale si oppone una deflazione interna, con evidenti problemi politici e di efficacia, proprio perché l’inflazione è generalizzata. In secondo luogo, un rialzo dei tassi, e ancor di più una serie di rialzi come già scontato dal mercato, può perturbare mercati finanziari molto fragili, con rischi in gran parte sconosciuti.

Al di là della decisione di giovedì, occorre piuttosto riconoscere che il sistema monetario globale, dopo anni di squilibri, sta diventando insostenibile.

I Paesi emergenti, prima di tutto la Cina, per mantenere la parità col dollaro adottano tassi di interesse inadatti alla loro situazione interna. In questo caso, essi hanno tassi troppo bassi per un’economia surriscaldata, con l’inflazione in crescita.

La Bce, obbligata dal proprio statuto a contenere esclusivamente l’inflazione, si crea problemi di credibilità, in una situazione in cui inflazione, economia reale e mercati finanziari appaiono strettamente connessi, quanto meno nel breve periodo. Lo statuto della Bce è la risposta politica all’inflazione degli Anni Settanta. Oggi, l’inflazione si manifesta in una situazione più complessa e quello statuto può diventare una camicia di forza rispetto a statuti più aperti, come quello della Federal Reserve, che assegnano alla banca centrale obiettivi più ampi.

In questa situazione, si suol dire, serve saggezza. Ma serve soprattutto una nuova architettura finanziaria globale, che può venire soltanto dalla grande politica. Per quanto imperfetti, infatti, i governi sono l’unico soggetto legittimato a scegliere tra obiettivi contrastanti in situazioni tanto aggrovigliate, dove non ha senso che ciascuno persegua ciecamente la propria missione.

da lastampa.it
« Ultima modifica: Febbraio 13, 2009, 10:50:55 am da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Settembre 16, 2008, 05:42:46 pm »

16/9/2008
 
La catena da spezzare
 
 
 
 
 
DOMENICO SINISCALCO
 
Il cuore del sistema finanziario americano sta attraversando una metamorfosi drammatica. Un processo di cambiamento irreversibile, che non si sperimentava dal 1929. Dieci giorni fa, il Tesoro americano era stato costretto a salvare i due giganti dei mutui, Fannie Mae e Freddie Mac, con un impatto di quasi sei trilioni di dollari sul debito pubblico, a prescindere dalle regole di contabilizzazione ancora in discussione. Nel fine settimana appena trascorso, gli scossoni hanno invece riguardato le grandi case di Wall Street, che sono il cuore del sistema finanziario globale. Dopo settimane di intensissimi negoziati per trovare un compratore, Lehman Brothers ha presentato istanza di fallimento alla corte di New York: un evento quasi impensabile. Merrill Lynch, il primo broker americano, sarà a sua volta acquisito da Bank of America, che è una grande banca commerciale. Il gigante assicurativo Aig sta cercando capitale e liquidità e sembra aver trovato una prima soluzione quanto meno per la liquidità. Washington Mutual (WaMu) confronta un destino assai difficile.

È ancora presto per ricostruire con precisione gli eventi degli ultimi giorni. Il fallimento delle trattative per vendere Lehman è stato determinato, pare, dall’assenza di garanzie sulle perdite da parte del Tesoro. Ma se il Tesoro avesse posto un limite alle perdite, secondo il modello già adottato in marzo con Bear Stearns, avrebbe alimentato una catena inarrestabile di speculazione-salvataggio destinata a colpire altri obiettivi. Mentre l’acquisto di Merrill da parte di Bank of America ha messo al sicuro la preda che poteva finire nel mirino al giro successivo.

La giornata di ieri si è aperta con una tensione altissima sui mercati, spaventati dai possibili sviluppi della crisi. La Fed, il Tesoro e le principali banche di Wall Street hanno creato un fondo per fornire liquidità agli operatori. I mercati già scontano un ulteriore taglio dei tassi di interesse sul dollaro, a sostegno del mercato e dell’economia. Ciononostante, in serata, gli indici azionari americani registravano la caduta più accentuata dall’11 settembre 2001. Solo nel corso della settimana, ovviamente, si potranno avere idee più chiare sugli sviluppi futuri. Sin da ora, tuttavia, si può dire che stiamo vivendo una crisi di estrema gravità, che va analizzata su tre orizzonti temporali.

Guardando all’indietro, sta emergendo con chiarezza che le varie bolle speculative dell’ultimo decennio, prodotte da eccessi di liquidità e cattiva regolamentazione, sono ogni volta più gravi. Per questo motivo, nel curare la crisi, è cruciale non mettere i semi della bolla e della crisi successiva. Così come il modello di globalizzazione reale e finanziaria esige un ripensamento perché, come si è detto molte volte, ha finanziato alti tassi di sviluppo in maniera insostenibile.

Guardando avanti, non c’è dubbio che la prima emergenza è quella di superare questa fase di instabilità senza ulteriori terremoti, il che dipenderà da alcune situazioni specifiche e dalla stessa gestione del fallimento di Lehman, che presenta notevoli rischi e complessità intrinseche, visto il ruolo centrale di quella casa nel sistema. Ma è nel lungo periodo che si pongono le sfide più complesse. Come ri-regolamentare il sistema finanziario in modo da evitare rischi sistemici molto gravi? Come evitare in futuro eccessi di debito e di finanza che si sono rivelati devastanti, anche per il modo con cui si sono propagati fuori dagli Stati Uniti? Come evitare soprattutto che la crisi finanziaria si intrecci con una depressione dell’economia reale a sua volta portatrice di un ulteriore deterioramento del credito?

Nella giornata di ieri i due candidati alla Casa Bianca hanno concordemente accusato di gravi inadeguatezze il sistema di regolamentazione dei mercati e promesso le necessarie riforme. Ma la crisi del credito è solo un anello di un fenomeno più ampio e profondo che va affrontato nell’insieme, spezzando la catena delle instabilità. Al momento è ancora troppo presto per dare risposta alle questioni che ponevo poc’anzi. Ma non vi è dubbio che una crisi sistemica richiede risposte sistemiche. E su questo l’Europa e l’Italia, prossimo presidente del G8, potranno offrire un contributo.
 
da lastampa.it
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« Risposta #2 inserito:: Settembre 20, 2008, 10:50:09 am »

20/9/2008
 
Se lo Stato sfida il mercato
 
DOMENICO SINISCALCO

 
Tutto in una notte. Di fronte al rischio tangibile di un effetto-domino sul mercato finanziario, gli Stati Uniti hanno messo in campo «la madre di tutte le difese», in uno sforzo coordinato mai visto in precedenza. La situazione è molto delicata ed anche per questo non si potevano attendere le elezioni presidenziali. Gli effetti sembrano positivi, ma andranno valutati nel tempo. L’intervento complessivo è giocato su misure di breve e medio periodo. Un primo gruppo di misure colpisce in modo deciso quegli investitori che speculavano al ribasso sulla stessa tenuta di importanti pezzi del sistema. La Sec americana, d’intesa con il governo e con il Parlamento e seguendo un’analoga misura varata mercoledì sera dalle autorità britanniche, ha vietato temporaneamente, almeno fino al 2 ottobre, di vendere allo scoperto (short sell) le azioni di 799 banche e società finanziarie e ha facilitato il riacquisto di azioni proprie. Il procuratore generale di New York, Andrew Cuomo, parallelamente ha annunciato un’inchiesta penale sui possibili illeciti legati a queste pratiche speculative. La necessità di ricoprire le operazioni in essere, ha fatto decollare i titoli bancari e finanziari in tutto il mondo, con un’apertura che non si vedeva dal 1970.

Un secondo gruppo di misure, insieme con le iniezioni di liquidità di tutte le banche centrali riprese nei giorni scorsi, ha iniziato a calmare il mercato monetario e del credito. Einfine, il Tesoro, la Federal Reserve e importanti parlamentari, come il senatore Schumer e Nancy Pelosi, hanno annunciato la prossima costituzione di un enorme fondo per acquistare attività finanziarie «tossiche» o illiquide da società finanziarie e banche (solventi), in modo da sgravarle di questo fardello e consentire loro di ripartire. Questo fondo, i cui dettagli saranno messi a punto nel prossimo fine settimana, sarà presumibilmente disegnato sul modello della Resolution Trust Company (Rtc) del 1980 e di un’analoga istituzione (Rfc) del 1932. Il fondo, finanziato con titoli del Tesoro Usa, fornirà liquidità alle istituzioni finanziarie venditrici e consentirà una vendita più ordinata delle attività finanziarie acquistate. Soltanto mercoledì era stato proposto con un articolo sul Wall Street Journal da Nicholas Brady (ex segretario al Tesoro), Paul Volker (ex presidente della Fed, regista del grande rientro dall’inflazione degli Anni Novanta) e Eugene Ludwig. Ancor più interessante, la soluzione del maxi-fondo era stata proposta dall’attuale presidente della Fed, Ben Bernanke, quando era ancora un accademico, per far fronte alla crisi finanziaria giapponese dove le banche avevano problemi di bilancio. Anche sulla base di quella proposta, il governo cinese, che aveva problemi analoghi, aveva «ripulito» le proprie banche con un fondo chiamato Cinda. Che dire di questa impressionante batteria di misure? Sicuramente si tratta di uno sforzo senza precedenti di fronte a una crisi finanziaria senza precedenti. E sicuramente esso segna il passaggio da un approccio caso per caso a un approccio sistemico, come da molti invocato.

Il blocco delle vendite allo scoperto, realizzato, secondo il comunicato della Sec, «per proteggere l’integrità e la qualità del mercato dei titoli, e per ristabilire la fiducia degli investitori», va valutato nel brevissimo termine come strumento per colpire la speculazione. La vera sfida, tuttavia, si gioca sul funzionamento del grande fondo, per cui si parla informalmente di un’entità compresa tra i 500 e gli 800 miliardi di dollari. Gli aspetti più delicati del fondo saranno il valore a cui gli attivi verranno rilevati, la capacità di differenziare tra questi attivi (mutui, non-mutui), le modalità di vendita degli attivi quando ciò sarà possibile, nonché il finanziamento del fondo stesso, le cui dimensioni potranno avere impatto sulle altre emissioni di debito nel mondo. Sullo sfondo, l’impatto sui contribuenti in nome della stabilità, che è un bene pubblico, nonché la sua efficacia. La riuscita del fondo, che costituisce un’espansione notevolissima della sfera pubblica, è davvero la sfida dei prossimi anni. Traccia una nuova via dell’azione del settore pubblico, non basata sulla regolamentazione, peraltro rivelatasi imperfetta, ma sull’intervento diretto. Eravamo abituati al trionfo del mercato, ci troviamo il governo alle porte. E questa trasformazione segnerà un’altra volta una sfida tra modelli intellettuali e politici diversi, per quanto riguarda il confine tra Stato e mercato.

Anche se questi temi possono sembrare distanti e tecnicistici, e anche se ricadono nella giurisdizione nazionale americana, essi stanno alla radice del benessere in molti altri Paesi. Negli Stati Uniti gli impatti riguardano la casa, il mercato finanziario e la tutela del risparmio. Ma quanto accadrà in quel Paese sarà cruciale in tutto il resto del mondo per i suoi impatti sui tassi di interesse, sull’inflazione, sull’economia reale.


da lastampa.it
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« Risposta #3 inserito:: Ottobre 05, 2008, 10:52:13 am »

5/10/2008
 
Su una lama di coltello
 
DOMENICO SINISCALCO
 

I mercati finanziari mondiali hanno vissuto la peggiore settimana dall’inizio della crisi. Il mercato dei prestiti tra le banche si è praticamente bloccato mentre molteplici indicatori ci dicono che la crisi è arrivata all’economia reale. Il crollo delle vendite nel mercato dell’auto, le difficoltà di finanziamento di importanti imprese industriali, i dati sul settore immobiliare, insieme con l’andamento delle scorte, indicano che la frenata è ormai in pieno svolgimento anche in Europa. In questa situazione l’Europa ha deciso che è necessario scongiurare alcuni rischi che già si profilano con chiarezza. Il primo rischio, quantitativamente più importante, è rappresentato da una spirale negativa tra carenza di liquidità, stretta del credito, minori investimenti, produzione e consumi. Un circolo vizioso tipico delle crisi finanziarie, con l’aggravante che in questo caso, anche per via dei mercati finanziari globali, il fenomeno è appunto globale. Se questa spirale non verrà bloccata, la crisi finirà per alimentare se stessa come era accaduto negli Anni Trenta.

Al di là della recessione, il secondo rischio, più insidioso e potenzialmente devastante, è rappresentato dalla mancanza di fiducia a tutti i livelli: banche, investitori, risparmiatori, imprese. Il sistema finanziario, come è noto, è basato sulla fiducia. Senza fiducia tutto si blocca. L’ultimo rischio, di carattere politico-istituzionale, è rappresentato da una risposta frammentata e incerta dei governi e dei poteri pubblici. In una situazione come questa, le soluzioni non sono semplici né univoche. Esistono tuttavia alcune misure che vanno assunte con tempestività e decisione, soprattutto in Europa. Una misura fondamentale, già attiva da mesi, consiste nell’offrire ampia liquidità alle banche. Se il mercato interbancario non funziona, la liquidità deve provenire dalle banche centrali. Non è questa la sede per discutere di aspetti tecnici, ma occorre ricordare che, in questo campo, la Bce appare più restrittiva della Federal Reserve americana. Una seconda misura, già accennata tra le righe nell’ultima conferenza stampa di Jean-Claude Trichet, consiste in un ribasso dei tassi d’interesse.

Francamente, almeno nel breve termine, la minaccia per le economie europee proviene da recessione e deflazione, non dall’inflazione. Infine, occorre accelerare e rinforzare i programmi d’investimento pubblico, anche a livello europeo, come proposto dal governo italiano nell’ultimo vertice dei ministri finanziari. Soltanto gli investimenti pubblici in questa fase possono sostituire l’investimento privato e spingere, tra l’altro, l’aumento della produttività. Per mitigare il crollo della fiducia occorre proteggere con decisione i creditori, i depositanti e le famiglie. Alcuni Paesi, a partire dall’Irlanda e dalla Grecia, si sono mossi in anticipo in tal senso. Ma su questa strategia vi è ormai ampio consenso politico. Una ristrutturazione dei mutui delle famiglie, sulla scorta di quanto già fatto dal nostro governo, può inoltre allentare la tensione sui bilanci familiari. Infine, occorre raffreddare la pressione sui bilanci delle banche, ormai generalmente a corto di capitali, per la combinazione perversa di regole contabili, criteri che governano i requisiti di capitale e conti trimestrali.

Per chiarezza, non si sente il bisogno di bilanci più opachi, ma di bilanci più forti, mentre la situazione attuale delle regole genera risposte perverse (in gergo «procicliche») in cui le banche in recessione sono indotte a ridurre ulteriormente il credito. Nella stessa direzione va il grande fondo Tarp, varato venerdì scorso dall’amministrazione Bush, che nazionalizza di fatto gli attivi tossici delle banche, e le soluzioni che si discutono in Europa, ove lo Stato entra direttamente nel capitale delle banche. Nella stessa direzione va un atteggiamento dei regolatori più rigoroso sul piano della trasparenza, ma più flessibile nella tempistica dell’adeguamento dei capitali. Nessuna di queste misure, da sola, può risolvere la crisi. Tutte insieme, però, indicano una direzione di marcia. Senza dimenticare il rischio che proverrebbe da un approccio frammentato, Paese per Paese e caso per caso. Oggi, fronteggiamo una crisi unica che colpisce l’Europa, con una banca centrale unica, almeno nell’Eurozona, ma con politiche economiche e regolatori nazionali.

Misure nazionali possono innescare fenomeni perversi di arbitraggio tra le regole (ad esempio i depositanti inglesi che spostano i propri conti in Irlanda perché più garantiti in quel Paese). Ma al di là di questi fenomeni esiste, più in generale, un bisogno di leadership che generi, almeno a livello europeo, una risposta comune, in grado di stabilizzare la situazione e restituire fiducia. I capi di Stato e di governo dei quattro principali Paesi europei, su proposta della Francia, hanno iniziato ieri a lavorare in questa direzione ed in particolare sulla solidità delle banche e sulla protezione dei risparmiatori. Occorre a questo punto fare presto perché le politiche economiche e le leadership nelle prossime settimane potranno alleviare la crisi, come negli Anni Novanta, o aggravarla, come negli Anni Trenta. Siamo su una lama di coltello. Non agire, oggi, è la scelta peggiore.

da lastampa.it
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« Risposta #4 inserito:: Ottobre 14, 2008, 08:44:29 am »

14/10/2008
 
E ora l'economia reale
 
 
DOMENICO SINISCALCO
 
I mercati mondiali hanno risposto molto favorevolmente alle decisioni politiche del fine settimana. Gli indici azionari degli Stati Uniti hanno registrato la crescita più pronunciata degli ultimi settant’anni. I ministri finanziari del G7 a Washington, i capi di governo europei a Parigi, i governi nazionali hanno saputo mettere in atto un insieme di misure che, per il momento, hanno arrestato un’ondata di panico che stava minando la stabilità del sistema finanziario. Il risultato è rimarchevole per l’Europa che finalmente è riuscita a dotarsi di un piano d’azione comune.

Con ovvie differenze da Paese a Paese, legate anche alla diversa gravità della crisi, il piano di salvataggio del sistema finanziario poggia su cinque pilastri complementari: I) una garanzia sui depositi; II) un aiuto pubblico alla raccolta di capitale da parte delle banche; III) l’assorbimento di attivi «tossici» da parte di appositi fondi pubblici; IV) una forte iniezione di liquidità; V) una riduzione coordinata dei tassi di interesse.

Gestire le aspettative di massa, soprattutto in campo economico e a fronte di rischi sistemici, è un’impresa di grande delicatezza. In questo senso occorre dar atto che lo sforzo dei governi è stato imponente per volume di risorse e capacità di coordinamento.

Stabilizzata la nave, tuttavia, il piano di azione va valutato al di là della sua capacità di arrestare la fuga degli investitori. Alla fase del panico finanziario, durata anche troppo, seguirà inevitabilmente una fase di maggiore o minore recessione e, infine, una fase di riaggiustamento. E le politiche economiche messe in atto andranno giudicate su più dimensioni e su un orizzonte temporale più lungo.

Una prima dimensione strutturale dell’intervento riguarda la solidità delle banche che emergeranno dalla crisi. Le nazionalizzazioni avvenute lunedì mattina nel Regno Unito, insieme con gli aumenti di capitale in altri Paesi, stanno innalzando con decisione il capitale delle banche e irrobustendo per questa via il sistema creditizio di alcune nazioni. Restare in coda a questo processo potrebbe creare ulteriori rischi e fragilità.

Una seconda dimensione fondamentale con cui valutare l’intervento riguarda poi l’impatto sull’economia reale. E qui la manovra finanziaria è necessaria, ma non può essere sufficiente. Ad oggi, circa la metà del prodotto lordo mondiale è già in contrazione. È del tutto prevedibile che la situazione dell’economia reale si aggravi, particolarmente in Europa e negli Stati Uniti. Questa contrazione presenta rischi da molteplici punti di vista. Sul bilancio delle banche, ove la contrazione reale provocherebbe un ulteriore deterioramento del credito e dei bilanci delle banche. Sul bilancio dei governi, chiamati a ripagare il debito creato per aiutare le banche stesse.

Per questo, nelle prossime settimane, alla manovra finanziaria e monetaria occorrerà affiancare un piano rivolto all’economia reale. Un piano specifico per ogni Paese, a seconda dei punti di debolezza: rivolto alla casa negli Stati Uniti, rivolto alle infrastrutture in Europa. Le banche, come si è visto, hanno un’importanza centrale nel sistema economico. Ma non dimentichiamo l’economia reale, il cui andamento determinerà modi e tempi di uscita dalla crisi.
 
da lastampa.it
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« Risposta #5 inserito:: Dicembre 27, 2008, 09:39:38 am »

27/12/2008
 
L'anno dei debiti pubblici
 
DOMENICO SINISCALCO
 

Un’ondata di nazionalizzazioni e salvataggi pubblici si sta diffondendo nel mondo, nel tentativo di contenere la crisi finanziaria. Gli Stati Uniti, che pure non hanno mai avuto una tradizione statalista, guidano la classifica con il salvataggio delle banche, di un’assicurazione e delle agenzie di riacquisto dei mutui - Fannie Mae e Freddie Mac - affiancati di recente da un primo intervento a favore del settore dell’auto.

In Europa, Regno Unito, Svizzera, Francia, Belgio, Olanda e Islanda hanno realizzato amplissimi interventi nel settore finanziario. Non fa eccezione la Russia con la ri-nazionalizzazione di numerosi settori. E anche la Germania, sinora refrattaria a ogni intervento di sostegno all’economia, ha dovuto nazionalizzare una banca. Di questa ondata di nazionalizzazioni e salvataggi colpisce l’ampiezza e la rapidità. Nel solo 2008, in termini di cassa (ed escludendo dunque le garanzie), gli interventi statali di salvataggio si stanno avvicinando a 3 trilioni (3000 miliardi) di dollari.

Giusto il doppio dei proventi di tutte le privatizzazioni realizzate nel mondo in trent’anni, pari a 1,5 trilioni di dollari. Si conferma in questo modo come le privatizzazioni, iniziate nel Regno Unito dal governo Thatcher, siano state un ciclo economico e politico ormai invertito e non una tendenza definitiva del capitalismo moderno. Le risorse impiegate sul fronte delle nazionalizzazioni e dei salvataggi accrescono direttamente il debito pubblico e aumentano l’esposizione degli Stati verso il sistema finanziario e produttivo. Questo fenomeno si somma agli interventi macroeconomici di stimolo all’economia, di nuovo fondati su deficit e debito pubblico per sostenere consumi e investimenti ormai in caduta libera (il crollo dei consumi natalizi è comune a tutti i principali Paesi).

L’ammontare di questi interventi di sostegno è di difficile valutazione, perché i programmi non sempre mobilitano risorse aggiuntive, né corrispondono pienamente alla realtà. In ogni caso, a prescindere dalla precisione delle stime, anche gli stimoli fiscali contribuiranno in modo notevole alla crescita dei disavanzi, scaricando sul futuro gli oneri della crisi e riportando alla ribalta i grandi debiti pubblici che avevano caratterizzato gli Anni Novanta.

Nell’insieme, c’è da ritenere che tutte queste misure vadano per il momento nella direzione giusta. È ovvio che i governi in questa fase vadano giudicati per la capacità di gestire la crisi e evitare una futura depressione, senza andare troppo per il sottile.

Non vi è dubbio, tuttavia, che nel più lungo periodo la politica economica stia ricreando il problema del debito pubblico e che i governi andranno giudicati per la poro capacità di riassorbire i debiti pubblici e privati. Il debito privato, dopo aver sostenuto un decennio di crescita, è oggi all’origine della crisi che stiamo vivendo. Per ora, i rimedi stanno generando direttamente e indirettamente altro debito pubblico, in parte aggiuntivo in parte sostitutivo del debito privato. La sfida di medio termine per la politica economica e per i governi è dunque la soluzione al problema del debito complessivo. Un problema globale che richiederà soluzioni globali.
 
da lastampa.it
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« Risposta #6 inserito:: Febbraio 02, 2009, 11:15:19 am »

2/2/2009
 
Ritrovare la fiducia perduta
 
DOMENICO SINISCALCO
 

L’economia mondiale è in recessione. Tutti i Paesi industrializzati registrano un calo pronunciato del Prodotto interno lordo, a partire dagli Stati Uniti dove il Pil del quarto trimestre è crollato del 3,8 per cento. I Paesi emergenti sono egualmente in sofferenza, tanto che nel 2009, per la prima volta in sessant’anni, il Pil mondiale non crescerà.

Il detonatore della recessione è stato la crisi finanziaria iniziata nel 2007. Ma, dopo un anno e mezzo, la situazione è oggi più grave e complessa. Mentre il credito continua a non arrivare ordinatamente all’economia, la domanda di beni e servizi è crollata e non è più sufficiente a dare lavoro alle imprese e agli occupati. Alcune industrie a elevato contenuto di capitale, a partire dall’auto, subiscono la crisi con particolare violenza, ma la globalizzazione contribuisce a diffondere la crisi in ogni angolo del mondo, tanto che nessun Paese appare oggi al riparo.

In questo quadro, i governi e le banche centrali hanno segnato alcuni successi nel non ripetere gli errori del passato e nel contrastare le emergenze più acute, come quella bancaria dello scorso mese di ottobre.

Al di là dell’emergenza, tuttavia, colpisce la scarsa efficacia delle politiche economiche finora adottate.

La politica monetaria ha portato i tassi di interesse ai minimi di sempre. La politica fiscale ha varato pacchetti di stimolo ai consumi e agli investimenti di diversa intensità nei diversi Paesi. I governi hanno salvato o nazionalizzato banche e imprese nei settori strategici, ma tutte queste misure, nel complesso, non hanno sortito i risultati sperati e lasciano oggi spazio a spinte protezionistiche, come quella dei lavoratori inglesi contro un’impresa italiana, o a richieste indiscriminate di aiuto pubblico. Se la situazione negativa dovesse aggravarsi, come è probabile, non è difficile immaginare tensioni sociali con inevitabili ripercussioni politiche. Vale dunque la pena di interrogarsi sulle radici della crisi e sulla possibilità di rimedi più efficaci di quelli sinora adottati.

La crisi dell’economia reale, come si diceva poc’anzi, dipende dal credito, che non fluisce all’economia, e dal crollo della domanda. Per entrambi questi problemi, vi sono senz’altro problemi di dimensione degli interventi e di coordinamento internazionale.

Per quanto riguarda il credito, nelle precedenti crisi sistemiche gli Stati erano intervenuti in maniera più massiccia e radicale di quanto fatto sinora, sia sul piano del capitale sia sul piano delle regole. Si pensi alla Reconstruction Finance Corporation di Roosevelt che ricapitalizzò le banche americane, e alla simultanea regolamentazione del settore; all’esperienza dell’Iri e della legge bancaria in Italia; alle dimensioni degli interventi svedese e giapponese sul capitale delle banche negli Anni Novanta.

Per quanto riguarda la domanda, i pacchetti di stimolo sinora adottati sono stati egualmente tentennanti, quantitativamente inadeguati e non coordinati tra loro a fronte di una recessione simmetrica in un mercato globale.

Soprattutto, a fianco di queste misure, è mancato l’ingrediente più importante e impalpabile che è la fiducia. Come sappiamo da molti esempi storici, una identica politica economica può sortire effetti del tutto diversi a seconda del clima di fiducia su cui poggia e che è in grado di generare. Uno sgravio fiscale, ad esempio, può trasformarsi in consumi o restare inutilizzato a seconda delle prospettive future percepite dai cittadini. Lo stesso si può dire di un taglio dei tassi di interesse che può sostenere gli investimenti o perdersi in una trappola della liquidità. Per questo motivo, non ha senso separare la gestione dell’emergenza dalla credibilità complessiva della politica economica, mentre occorre intervenire sin da subito anche sulle questioni strutturali, sebbene apparentemente meno urgenti, come le regole in grado di generare fiducia.

La vera sfida della politica economica in questa crisi è proprio quella di combinare le azioni richieste sul credito e sulla domanda con la capacità di ricreare un clima di fiducia e credibilità del sistema. Proprio questa sarà la chiave con cui valutare l’efficacia del pacchetto di politica economica dell’amministrazione Obama, che verrà presentato questa settimana. E proprio questo sarà l’elemento in grado di evitare una depressione: un evento possibile ma sicuramente evitabile.

da lastampa.it
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« Risposta #7 inserito:: Febbraio 13, 2009, 10:45:11 am »

13/2/2009 - IL G7 A ROMA
 
Non abbiamo la pallottola d'argento
 
DOMENICO SINISCALCO
 

La novità più evidente del G7 sull’economia, che si apre stasera a Roma, è l’esordio in campo globale della nuova amministrazione americana. Il segretario del Tesoro, Tim Geithner, illustrerà ai partecipanti il nuovo programma di Obama contro la crisi, mirato alle banche e all’economia reale. Questo piano, presentato martedì scorso, mette in gioco duemila miliardi di dollari per acquistare titoli «tossici» dalle banche, questa volta attraverso un fondo pubblico-privato, e stanzia altri 800 miliardi per un programma di sostegno all’economia reale lungo linee keynesiane. L’idea di fondo è che occorra spezzare il circolo vizioso che lega la crisi finanziaria e l’economia reale. Un circolo in cui la scarsità di credito genera recessione e questa aggrava la situazione delle banche.

L’accoglienza del programma di Obama da parte dei mercati e dei media internazionali è stata piuttosto fredda. Il Financial Times ha accusato l’amministrazione americana di timidezza e indecisione. I mercati hanno punito la scarsa determinatezza del piano. E tra gli operatori e gli osservatori si va ormai diffondendo l’opinione che di fronte alla crisi non esista una «pallottola d’argento». Nella tradizione nordeuropea, la pallottola d’argento, o silver bullet, è l’unica in grado di uccidere i vampiri e i lupi mannari.

In senso metaforico, l’espressione indica una soluzione chiara, in grado di attaccare problemi apparentemente insolubili in modo rapido e risolutivo (in medicina, ad esempio, l’espressione è stata usata per l’introduzione della penicillina).

All’alba della crisi, nel 2007, si pensava che le lezioni apprese nella grande depressione degli Anni 30, insieme con la maggiore robustezza dei mercati, costituissero un insieme di interventi sufficienti per affrontare il collasso degli intermediari finanziari. Tra gli esperti e i commentatori prevaleva l’opinione che l’avvitarsi della recessione si potesse fermare semplicemente evitando gli errori del passato. Come scrive il premio Nobel Paul Krugman, molti economisti pensano alla grande depressione degli Anni 30 come a una tragedia non necessaria ed evitabile. Se solo il presidente americano Hoover non avesse tentato di portare il bilancio pubblico in pareggio durante la crisi, se la Federal Reserve non avesse sostenuto il gold standard a spese delle esportazioni, e avesse dato soldi alle banche in crisi e calmato il panico nel 1930-31, il crack di Borsa del 1929 non si sarebbe trasformato nella grande crisi.

Dopo un anno e mezzo di crescenti difficoltà, l’illusione di dominare gli eventi con ricette ovvie e collaudate sta svanendo e ci si rende conto che la crisi non ha soluzioni semplici. L’acquisto di titoli tossici, provato a più riprese negli Stati Uniti sin dal 2007, la ricapitalizzazione e la nazionalizzazione delle banche ampiamente adottata in Europa, vari pacchetti di stimolo alla domanda aggregata, hanno arginato con successo le situazioni di emergenza e di panico, ma non hanno ancora aggredito in modo risolutivo la radice della crisi. Egualmente inefficace è stato sinora il taglio brutale dei tassi d’interesse ufficiali. Da più parti, anzi, si pone l’accento sull’inefficacia della politica economica.

Anche se importanti economisti pensano che il successo della prognosi oggi dipenda dall’intensità delle cure, e dal loro coordinamento a livello globale, a me pare occorra riconoscere che, per il momento almeno, non abbiamo una pallottola d’argento e che occorra agire con pragmatismo e decisione, stando attenti a non generare nuovi e più gravi problemi con mosse azzardate. Tra le varie cause della crisi continuo a pensare che la sfiducia sia la meno palpabile e la più insidiosa. Per questo va seguito con attenzione il tentativo di Giulio Tremonti di proporre al G7 nuove regole internazionali più definite e prudenti, in sostituzione dell’autoregolamentazione che ha caratterizzato l’era Greenspan e che ha chiaramente fallito. Gli eventi degli ultimi mesi hanno scosso le fondamenta del sistema finanziario e rendono necessari profondi cambiamenti. Stabilire nuove regole prende tempo ed espone sempre a rischi di errore. Ma è un passo fondamentale per ristabilire la fiducia.

da lastampa.it
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« Risposta #8 inserito:: Febbraio 28, 2009, 10:46:55 am »

28/2/2009
 
Un'Europa dei titoli pubblici
 
DOMENICO SINISCALCO
 

L’economia degli Stati Uniti ha registrato una forte contrazione nel quarto trimestre del 2008, con il prodotto interno lordo che è caduto del 6,2 per cento su base annua. I consumi, in particolare, hanno segnato la frenata più brusca degli ultimi trent’anni. Di fronte all’aggravarsi della situazione, l’amministrazione Obama, nell’arco di un mese, ha varato tre iniziative complementari: una serie di misure per evitare il pignoramento degli immobili ai mutuatari morosi; un piano di salvataggi bancari di notevoli dimensioni; una manovra di sostegno all’economia, che già quest’anno porterà il disavanzo federale intorno al 10 per cento del Pil, nonostante gli aumenti delle tasse. La dimensione di questi interventi è imponente e la crescita del deficit spaventa molti politici e operatori, nonostante la promessa di dimezzare nuovamente il deficit entro la metà del mandato presidenziale.

Senza voler discutere, per il momento, la crescita del debito pubblico, i primi interventi dell’amministrazione Obama rappresentano la risposta forte e coordinata di un governo federale a una crisi che potrebbe concretamente trasformarsi in una vera depressione.

Al confronto di questa risposta, le misure europee contro la crisi lasciano un po’ a desiderare. Come ha osservato ieri il commissario europeo agli Affari economici e monetari, Joaquín Almunia, il coordinamento tra le politiche dei vari Paesi europei è stato a dir poco carente. Alcuni Paesi, come il Regno Unito, hanno tagliato l’Iva; altri hanno aumentato i sussidi pubblici; altri stanno investendo in infrastrutture; altri ancora hanno tagliato i contributi. Mentre sul piano bancario, alcuni Paesi hanno nazionalizzato; altri hanno offerto prestiti; altri stanno pensando alla bad bank; altri Paesi ancora non hanno fatto nulla.

In questa situazione, come era facile immaginare, i mercati hanno iniziato a prendere di mira i diversi debiti pubblici, allargando gli spread (ovvero i differenziali tra i tassi di interesse) a svantaggio dei Paesi più piccoli e più fragili. È possibile che questa reazione sia eccessiva, ma nell’attuale fase di nervosismo dei mercati non è da escludere che la situazione si aggravi, visto l’ammontare crescente delle emissioni di debito pubblico, destinato ad avvicinare 1000 miliardi di euro nel 2009 nella sola eurozona. Una situazione come questa merita attenzione. E merita attenzione, in particolare, la proposta formulata da Romano Prodi giovedì scorso, in un articolo pubblicato sul Messaggero e sul Financial Times. Secondo questa proposta, i Paesi Europei, devono muoversi come una Unione sul mercato dei titoli del debito pubblico. A tal fine si propone di creare un cuscinetto di emergenza nel bilancio dell’Unione, elevandone l’ammontare dall’1 per cento all’1,25 per cento del Pil europeo; emettendo titoli del debito pubblico europeo; coordinando, si può aggiungere, le emissioni dei vari Paesi per evitare l’accavallarsi di aste in qualche settimana.

L’architettura europea, dopo la creazione del mercato unico e della moneta unica, prevede che i debiti pubblici restino nazionali. Ciò non esclude, tuttavia, che possa essere creato un vero mercato dei bond europei, ove le emissioni di titoli pubblici dei governi vengano coordinate ex ante. Non si tratta qui di fondere i debiti nazionali, né di diluire le responsabilità. Si tratta piuttosto di agire in modo coordinato per ridurre i rischi di ogni singolo Paese.

La costruzione europea ha attraversato alti e bassi. L’evidenza mostra che essa ha incontrato il massimo favore quando ha dimostrato di essere utile, come nel caso del mercato unico e della moneta unica, ed il minimo quando è diventata elemento astratto o fine a se stessa. Il mercato del debito, in questa fase, può diventare troppo grande e rischioso per essere gestito indipendentemente da ogni singolo Paese. Un approccio europeo al mercato dei titoli pubblici è dunque utile e risponde a una logica di sussidiarietà e solidità del sistema. Torna ad incarnare un’Europa che serve.

da lastampa.it
« Ultima modifica: Marzo 21, 2009, 12:00:30 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #9 inserito:: Marzo 21, 2009, 12:01:01 pm »

21/3/2009
 
Usa e Ue, due vie per battere la crisi
 
DOMENICO SINISCALCO
 
I leader europei, riuniti ieri a Bruxelles, hanno preso tre decisioni rilevanti. Un raddoppio del fondo per l’assistenza finanziaria ai Paesi dell’Est Europa e dei Balcani che non appartengono all’area dell’euro. Una richiesta a tutti i Paesi membri del Fondo Monetario Internazionale di aumentarne in modo sostanziale le risorse permanenti. Un sostegno rapido e temporaneo allo stesso Fondo, sino a 75 miliardi di euro, sotto forma di crediti volontari da parte dei Paesi europei. Queste decisioni sono state presentate nel comunicato stampa formale del Consiglio d’Europa (www.consilium.europa.eu). Conferenze stampa, bandiere e foto di gruppo hanno accompagnato come sempre la comunicazione dei leader europei. Nelle stesse ore, il presidente Obama ha scelto il «Tonight show» di Jay Leno per comunicare agli americani il proprio piano di stimolo alla domanda come rimedio alla recessione più grave del dopoguerra.

La trasmissione di Jay Leno è un «chat show» d’intrattenimento e, per questo motivo, la scelta del Presidente ha suscitato una vivace polemica, nella quale Obama è stato accusato di buttare la crisi in commedia. L’intervista e i commenti, che si trovano ovviamente su YouTube, marcano in modo evidente il contrasto con la solennità europea. Al di là del forte contrasto nelle forme appena richiamato, la divergenza è però di sostanza. La via americana e la via europea nel contrastare la crisi sono infatti abbastanza diverse. Con una forte dose di semplificazione, vale la pena di richiamare questa diversità, perché essa sarà alla base di un dibattito politico e tecnico serrato. Semplificando, la politica dell’amministrazione Obama teme che la crisi avvii un circolo vizioso tra economia reale e finanza e mira a spezzare questo circolo dal lato della domanda aggregata. Il minor credito causa recessione e disoccupazione, e per questa via un ulteriore peggioramento del credito. Il piano di stimolo alla domanda di Obama aggredisce la questione sostituendo la spesa pubblica alla spesa privata, creando direttamente posti di lavoro e sostenendo il credito con i vari programmi di acquisto di titoli tossici dalle banche in modo che esse continuino a erogare credito.

In questo approccio, il ritorno dei deficit pubblici segnala la forza della politica economica e non è necessariamente un male. Su queste linee l’intervista di Obama a Jay Leno. Diversamente, in Europa molti ritengono che l’epicentro della crisi sia e resti il debito. Negli ultimi quindici anni la deregolamentazione del sistema finanziario insieme con la politica monetaria espansiva e con l’avidità hanno creato una bolla del credito e dei consumi, soprattutto ma non esclusivamente negli Stati Uniti. L’economia è oggi nel mezzo di un doloroso processo di aggiustamento verso un modello più sostenibile. Essa si potrà riprendere soltanto quando il debito si sarà ridotto drasticamente (in qualsiasi modo) e gli squilibri saranno rientrati, evitando nel frattempo i rischi eccessivi connessi a un aggiustamento inevitabile. In questa situazione occorre sostenere i più deboli, evitare l’esplosione di focolai di crisi, ma occorre che l’aggiustamento faccia la sua strada senza immaginare che esistano soluzioni miracolose o «pallottole d’argento».

Ancora, il debito pubblico è un fattore di rischio e il sistema va meglio regolato. Le decisioni del Consiglio Europeo, come le politiche economiche di moltissimi Paesi dell’Unione, partono da queste premesse e si limitano a rafforzare le forme di assicurazione collettiva contro la crisi nei Paesi più a rischio. I due approcci che ho brevemente descritto si fondano su visioni diverse della crisi e assegnano un ruolo diverso alla politica economica. Solo nei prossimi mesi vedremo quale prevarrà e come funzioneranno le varie ricette, ma sin da ora si può azzardare qualche ragionamento. Dal 2007 siamo nel mezzo di una recessione globale che è nata e si è combinata con una crisi finanziaria da eccesso di debito. Nei Paesi più avanzati, e in particolare negli Stati Uniti, il rapporto tra debito complessivo, pubblico e privato, e Pil è continuato a crescere fino alla fine del 2008, perché la riduzione della leva finanziaria in alcuni comparti è stata compensata da un forte aumento del debito pubblico. Simmetricamente gli squilibri mondiali nei pagamenti sono ancora immensi. Credo che sia ragionevole sostenere che senza una riduzione della leva finanziaria dei governi, degli investitori e delle famiglie la crisi possa essere contenuta ma non risolta. Giusto sostenere la domanda, ma senza affrontare il problema alla radice è improbabile che si esca dalla crisi. Il debito globale può essere ridotto per molte vie, tutte complesse e dolorose. Rinviando per il momento questa discussione, vale però la pena di osservare che in Italia il livello di indebitamento privato è il più basso tra i Paesi avanzati, che il nostro settore pubblico è l’unico a registrare un avanzo primario per quanto limitato e che questi fattori rappresentano sicuramente fattori di forza e di fiducia. Negli anni ruggenti della finanza eravamo gli ultimi tra i grandi Paesi. Negli anni del grande aggiustamento siamo piazzati molto meglio.

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