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« inserito:: Marzo 20, 2009, 11:30:11 am » |
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I sorrisi spenti
I piani anti crisi Europa-Usa e i sorrisi spenti
di Franco Venturini
Celebrata con entusiasmo su entrambe le sponde dell’Atlantico, quella tra Barack Obama e i suoi alleati europei rischia di diventare una luna di miele tanto appassionata quanto breve. Tra undici giorni il nuovo Presidente Usa sbarcherà per la prima volta in Europa e parteciperà a una serie di vertici, dal G-20 a Londra al consiglio Nato a Strasburgo all’incontro formale con la Ue a Praga. Aspettiamoci, e non saremo noi a dolercene, solenni riaffermazioni di un legame antico, grandi manifestazioni di amicizia e calorose promesse di collaborazione. Dopo il tifo che quasi tutti gli europei hanno fatto per Obama, ci mancherebbe altro che così non fosse. Ma dietro la barriera dei sorrisi scontati, è in agguato un dissenso profondo e già acrimonioso che ai tempi dell’idillio nessuno avrebbe potuto prevedere. Tutto parte dal G-20, e dal suo obiettivo (condiviso) di combattere la recessione globale. Obama porta in valigia un messaggio chiaro: se si vuole evitare un disastro servono nuovi massicci stimoli fiscali, i governi devono allargare ulteriormente la borsa e favorire il rilancio economico attraverso la crescita dei consumi. È quanto stanno facendo gli Stati Uniti ma anche la Cina e il Giappone, mentre l’Europa, accusa Washington, si mostra avara e testarda. Gli europei continentali (perché la Gran Bretagna è piuttosto vicina agli Usa, come spesso le accade) considerano irragionevole spendere per nuovi stimoli prima di aver verificato il funzionamento di quelli già adottati. E mettono piuttosto l’accento, guidati da Francia e Germania, sul bisogno di regolamentare il sistema finanziario, di inquadrare le attività delle banche, di impedire, insomma, che quanto è accaduto a Wall Street e dintorni possa ripetersi ovunque nel mondo. La disputa risulterebbe soltanto dottrinale (e si scoprirebbe probabilmente che tutti hanno ragione) se non venisse versata, qua e là, qualche goccia di veleno. Parigi e Berlino sottolineano le responsabilità del «capitalismo anglosassone», e trovano singolare che la lezione venga da chi ha sbagliato più di chiunque altro (anche se Obama con questo non c’entra). Inoltre gli europei negano che i loro stimoli siano globalmente insufficienti, dichiarano di voler proteggere la solidità dell’euro e sornionamente «capiscono » che un sistema di regole e di monitoraggio risulti fastidioso per Wall Street o per la City di Londra.
Gli americani rispondono contestando i calcoli europei sulla portata degli stimoli, e rilevano tacitamente che è difficile confrontarsi con una Europa priva di un governo dell’economia comune. Quanto basta per mettere a rischio, dietro la solita facciata consensuale, l’effettivo esito del G-20. Le diplomazie euro-americane, si dirà, hanno superato ben altri ostacoli. Vero, ma questa volta la partita viene giocata al cospetto di arbitri che non perdonano: la crisi economica, la disoccupazione, le borse, la fiducia che manca per rilanciare i consumi. Intese come quelle già raggiunte sul Fondo monetario non basteranno. Compromessi di basso profilo nemmeno. E se non si troverà una efficace sintesi operativa tra la linea Usa e quella europea che proprio in queste ore viene ribadita a Bruxelles, il rischio concreto è che a breve termine tornino a galla recriminazioni che si credevano superate: tra «gli europei che non fanno la loro parte» e gli «americani arroganti». Intendiamoci, Barack Obama resta per gli europei un simbolo di speranza e nessuno manifesta rimpianti per il suo predecessore. La novità è piuttosto che dalla pregiudiziale entusiasta dei primi tempi si passa ora alla verifica delle rispettive posizioni, e per quanto mascherato un insuccesso del G-20 potrebbe alimentare altre diversità transatlantiche. Obama riapre il dialogo con la Russia, tratta sullo scudo antibalistico e di fatto rinvia l’allargamento della Nato a Georgia e Ucraina? La «vecchia » Europa di cui fa parte l’Italia applaude convinta, ma quella nuova che sta a Oriente coglierà l’occasione per sollecitare al capo della Casa Bianca unamaggiore cautela. Mano tesa anche all’Iran? Bene, ma gli europei (italiani in testa, dal momento che avevano preso l’iniziativa) temono che Washington voglia fare tutto da sé sollecitando contemporaneamente più severe sanzioni dei membri della Ue contro Teheran. Nuova strategia in Afghanistan? Ottimo, era tempo, ma sull’invio di forze supplementari ben oltre il periodo elettorale, sul loro impiego e persino sull’impegno finanziario-civile la risposta europea sarà ben inferiore agli auspici Usa. E ancora, l’Europa teme il G-2, quel rapporto privilegiato tra America e Cina che oggi pare inevitabile. Non tutti sono d’accordo sul profilo che secondo gli Usa dovrebbe assumere la Nato, e l’America — questa volta d’accordo con parecchi europei—non apprezzerà il ritiro del contingente spagnolo dal Kosovo. Gli Stati Uniti vorrebbero una sostanziale diversificazione degli approvvigionamenti energetici dell’Europa, che invece resta dipendente da Mosca e lo resterà malgrado il progetto Nabucco. E molti europei, Merkel e Sarkozy in testa, non intendono aprire le porte della Ue alla Turchia dove Obama farà il 6 aprile la sua ultima tappa e le sue ultime promesse. Problemi minori, quando vengono paragonati all’ampia piattaforma di convergenze che resta tra europei e americani. Ma se il G-20 non riuscirà a conciliare stimoli economici e regole globali, se un Obama messo alle strette dal bonusgate Aig non troverà l’accordo con europei consapevoli della fragilità dei loro processi decisionali, allora una dinamica alimentata dalla recessione trasformerà ogni dissenso in polemica. E si aprirà per questa parte dell’Atlantico il tempo delle illusioni perdute.
20 marzo 2009 da corriere.it
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