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Autore Discussione: LEGA e news su come condiziona il governo B.  (Letto 81592 volte)
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« inserito:: Luglio 12, 2007, 06:59:00 pm »

La via padana al leader

Oreste Pivetta


Prima di prendere a calci nel sedere il figlio maggiore, Riccardo, candidato all’Isola dei famosi, trasmissione cult di Raidue, direttore Antonio Marano, in quota Lega, Umberto Bossi ha rinnovato la tradizione padana, cresimando Roberto Maroni erede universale. Per ora. Per ora, soltanto, perché il Bossi padrone dittatore monarca si sa che è volubile, capriccioso, dispotico e di eredi ne ha già cresimati alcuni. Aveva cominciato con il giovane Giorgetti, segretario della Lega Lombarda, schieramento varesino.

Ma un bel giorno, trascorse le ore peggiori della malattia, s’affacciò alla finestra di una clinica di Lugano (non proprio Padania), mostrando alla folla plaudente il figlio Eridano, quello riccioluto con il nome antico del Po, studente presso la scuola bosina di Varese, che non dev’essere proprio una scuola d’alti studi amministrativi, tipo l’Ena parigina (ora quasi tutta a Strasburgo). Quel gesto parve a molti analisti di cose bossiane una sorta di investitura: di padre in figlio, tutto normale.

Roberto Maroni, l’amico delle prime battaglie all’ombra del Carroccio, era sempre rimasto in disparte, taciturno e schivo per natura, capace dei più duri sacrifici in onore del capo, senza timore di sputtanarsi con le più azzardate dichiarazioni, giusto per vedere l’aria che tira e per consentire a Bossi di smentire e aggiustare la linea. Come quando andò a Brescia per trattare un patto con Mino Martinazzoli, per ascoltare poche ore dopo Bossi che definiva la Dc un covo di lumache bavose. Fedele nei secoli, anche se pure lui fu, un giorno lontano, fu a rischio opposizione e quindi a rischio espulsione.

Di successione a Bossi nella Lega si cominciò a parlare, in gran silenzio, ovviamente dopo la malattia del capo. Nessuno che usasse pronunciare la parola. La Lega, per rispetto dei legami parentali, la prese in mano la seconda moglie di Bossi e madre di Eridano, Manuela Marrone, che affiancò Maroni, Calderoli, Giorgetti, Castelli. Nel direttorio si infiltrò Rosi Mauro, allora segretaria del sindacato padano, oggi consigliere regionale, per solidarietà femminile. Perdurando malattia e convalescenza, grazie alla malevola curiosità dei massa media, qualcosa delle ambizioni segrete fu divulgato: Calderoli, il governativo poltronista, si candidava, Maroni lo candidavano in contrapposizione.

L’ultima dichiarazione, nella solennità di una intervista al settimanale Gente, chiuderebbe la discussione, fino almeno a domani mattina. Maroni chi può contestarlo? Forse l’ala più berlusconista che c’è, sempre capeggiata da Calderoli. Bisognerà capire quanto l’investitura di Maroni rimarrà in piedi e quanto abbia eventualmente cambiato idea Maroni, interprete del trattativismo con il centrosinistra sull’altare delle conquiste federaliste. «Dopo di me, penso a Maroni» (queste le parole di Bossi) ha il sapore di un ben più celebre «Dopo di me, il diluvio». Insomma roba da iettatori. La verità amara è che la Lega ha tenuto nel corso della sua storia decine di congressi e di parlamenti, migliaia di riunioni e di assemblee, ma in pubblico non ha mai discusso di politica e tanto meno quindi di leadership. La cronaca di un congresso è un’esemplare controprova di tutte le teorie sulla crisi della politica, sulla crisi dei partiti, sul trionfo dell’antipolitica. Sono i soliti quattro che decidono ed il solito Uno che decide più di tutti. Umberto Bossi che va e che viene, che prende la parola e che la toglie, che va al palco per le conclusioni e poi riconclude. All’ultima Pontida gli riuscì il colpo di ridurre al silenzio l’intero direttorio, Calderoli Castelli Maroni Giorgetti, già con il microfono in mano. Altro che le primarie di quegli indecisionisti del partito democratico.

Bossi, peraltro, si specchia in Berlusconi, al quale ancora giura amore eterno. O Berlusconi si specchia in Bossi e nella sua cultura della democrazia (anche ovviamente dei meccanismi democratici della rappresentanza). Lui, il Berlusconi, ai congressi neppure ci pensa. Gli è capitato in passato. Ma non è il caso di insistere: è il popolo che lo vuole. Compiendo settant’anni, dopo qualche mancamento, anche Berlusconi ha cominciato a pensare all’eredità, non quella che conta (la partita è già sistemata tra i figli), ma quella politica. Così s’è inventato la rossa schiarita Brambilla, salumiera con il pallino adesso dei circoli della libertà, del giornale della libertà e della tv della libertà. Però Tremonti s’è irritato.

Pubblicato il: 12.07.07
Modificato il: 12.07.07 alle ore 8.47   
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« Ultima modifica: Giugno 09, 2009, 10:08:09 am da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Aprile 16, 2008, 11:51:29 am »

L'intervista

Ciampi: Bossi? La Lega è cambiata

Subito riforme, Silvio non ha alibi

L'ex capo dello Stato: sorpreso dal successo del centrodestra


Presidente Ciampi, dopo i risultati del voto possiamo dichiarare chiusa la Seconda Repubblica?
«Prima, Seconda o Terza Repubblica sono definizioni che per me non hanno molto senso. Di sicuro, sia pur senza storicizzare su quei canoni la stagione che si apre adesso, siamo entrati in una fase più matura per la politica e le istituzioni. Credo che si possa riconoscerlo per almeno due motivi: 1) dalla campagna elettorale a ieri, tutto si è svolto nel massimo ordine e, sostanzialmente, nel rispetto dei diritti di ciascuno; 2) il bipolarismo si è consolidato, anche se a prezzo di dolorose esclusioni dal Parlamento». Allude alla scomparsa della sinistra cosiddetta «radicale»? «Sì. Partiti che offrivano, se non una vera e propria camera di compensazione del conflitto sociale, comunque un riferimento di rappresentanza per le frange più estreme. La loro uscita di scena rischia di aprire incognite pericolose».

Si aspettava un'affermazione così netta del centrodestra?
«Eravamo tutti influenzati dall'idea che la legge elettorale non potesse consentire un simile scenario, dunque sono rimasto piuttosto sorpreso. Ora, i numeri incassati dai vincitori sono tali da legittimare non solo l'incarico a governare (per quello basta una preferenza in più), ma a farlo avendo alle spalle una larga maggioranza e con un'intera legislatura come orizzonte. Davanti a questa opportunità, che naturalmente vale per il centrodestra come per il centrosinistra, nessuno potrà accampare alibi. Le difficoltà sono enormi, ma l'Italia ha in sé le capacità per esprimersi al meglio, ciò che negli ultimi anni non era invece riuscita a fare». Quel deficit d'iniziativa che ha penalizzato l'esecutivo Prodi, imploso su se stesso anche per non aver avviato soluzioni strutturali? «Per la verità il Paese è bloccato da tempo, già da prima del biennio del centrosinistra. Certo, tra il 2006 e il 2008 la tenuta di Palazzo Chigi si è retta soltanto su fragilissimi fili ed era messa alla prova ogni giorno da compromessi, strappi, condizionamenti e mediazioni. Perciò quel governo ha sempre avuto il fiato corto e, nonostante la pazienza negoziale del premier, alla fine è caduto».

Quale dovrebbe essere la «missione » di Berlusconi?
«L'emergenza assoluta è sul fronte dell'economia e su quello sociale, con riferimento particolare alle famiglie che si ritrovano a far quadrare i loro bilanci in condizioni di maggiori ristrettezze... Non possiamo permetterci ancora una posizione di retroguardia in Europa. Ma va accelerato pure il risanamento dei conti pubblici, che a cavallo del 2000 ha avuto una battuta d'arresto e che solo di recente era stato rimesso in moto. Servono poi programmi urgenti per rilanciare sviluppo e competitività, con investimenti su ricerca e istruzione pubblica. Il tutto tenendo conto di uno scenario mondiale globalizzato che presenta problemi di una profondità sconvolgente e destinati ad accentuarsi (vedi il fortissimo aumento dei prezzi delle materie prime alimentari, come grano e riso), con il rischio di conseguenze geopolitiche imprevedibili e preoccupanti. Dal dopoguerra non si è mai presentata una situazione così complessa, tale da richiedere una collaborazione internazionale in grado di produrre scelte politico-finanziarie lungimiranti e coerenti».

Non andrebbero messe nell'agenda delle priorità anche le riforme istituzionali?
«Ovvio che sì. Durante la campagna elettorale sono uscite indicazioni importanti per una responsabilità bipartisan su questa materia, per riforme condivise, mirate a rafforzare le istituzioni e a snellire la macchina dello Stato. I leader dei due fronti si sono impegnati a farle, nelle settimane scorse. Le facciano. Ma nei confini dei due princìpi chiave della Carta costituzionale: libertà dei cittadini e unità del Paese». C'è chi teme che Bossi, forte del boom elettorale, tenga in ostaggio il governo e punti a una secessione di fatto. «Non vedo questo pericolo, non ci credo. Anche la Lega ha avuto una sua evoluzione. Ricordo alcune mie tappe, da Varese alla Val Brembana, e i dialoghi con tanti sindaci leghisti presenti con la loro fascia tricolore. Quel Nord rivendica un diritto sul quale siamo tutti d'accordo: il federalismo fiscale, che certo non nega i fondamentali diritti di solidarietà verso le parti più deboli dell'Italia. E qui non intendo una politica degli oboli, ma della solidarietà, così come è chiaramente affermata nella nostra Costituzione».

Dall'entourage di Berlusconi stavolta nessuno ha fatto echeggiare il grido «non faremo prigionieri».
E' cambiato anche lui? «Le sue prime dichiarazioni dimostrano che è consapevole della gravità della sfida. E' vero, viviamo da 15 anni in una situazione politica complessa e di conflitto a volte artificialmente esasperato, al di là dell'obiettiva gravità dei problemi. Oggi servono soluzioni strutturali, che si possono costruire a patto di rianimare le volontà positive degli italiani, a partire da uno spirito di orgoglio e fiducia collettivi. Ripeto: i problemi interni e internazionali sono seri, ma dico no alla sfiducia e un no ancor più forte all'indifferenza. Sta a Berlusconi fare una buona squadra di ministri (e molti politici che non avevano esperienza ora ce l'hanno) e rendere più coesa l'Italia, che ha bisogno di essere governata con efficacia. Spero anche che il futuro premier mantenga saldo il nostro ancoraggio all'Europa, fuori dalla quale saremmo perduti ».

E della sconfitta del Partito democratico, che cosa pensa? Era davvero scontata?
«Era una partita molto ardua, quella giocata da Walter Veltroni. Ha fatto un investimento sul futuro, che ha comunque prodotto un'innovazione importante, semplificando il nostro frammentato quadro politico e anche, per i toni da lui usati, disintossicando un po' il clima. Gliene va dato atto».

Marzio Breda
16 aprile 2008

da corriere.it
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« Risposta #2 inserito:: Aprile 16, 2008, 11:52:35 am »

La spinta di centinaia di sindaci

La nuova Lega: operai e impiegati

Scelta da operai e impiegati



A Bologna raddoppia i voti e alla Fiat Mirafiori aprirà una sezione. È la Lega che cambia, che sfugge al folclore delle origini e raccoglie voti a Milano centro, a due passi da Piazza Affari. ABologna, dove ha raddoppiato i voti e dove ora il segnale di radio Padania arriva forte e chiaro. Nelle Marche, dove per la prima volta nella sua storia ottiene un parlamentare. E in fabbrica, alla Fiat Mirafiori, dove nei prossimi giorni aprirà una sezione. È la Lega che cambia, un partito dai mille volti, che sfugge al folclore delle origini, alle semplificazioni dei media, alle demonizzazioni degli avversari. La Lega che esce dalle urne trionfante prende voti a sinistra, tra gli operai e gli impiegati, e ruba voti a Berlusconi, tra gli imprenditori. È un Carroccio che resta solidamente ancorato nelle valli ma riesce a penetrare anche nelle grandi città. Una Lega che continua a sfruttare le paure degli italiani—i clandestini, la sicurezza, gli islamici — ma che prospera anche grazie a una classe dirigente solida, cresciuta sul territorio. Una miriade di sindaci, oltre duecento, che non scendono in piazza, non imbracciano fucili, ma leggi, cavilli e ordinanze.

Tutti i numeri
I numeri della Lega sono impressionanti. Oltre tre milioni di elettori alla Camera, poco più di due milioni e seicentomila al Senato. Solo in Lombardia si arriva oltre il milione e 300 mila, mentre due anni fa la Lega aveva raccolto un milione e 700 mila voti in tutta Italia. «Solo oggi— dice Gianfranco Salmoiraghi, custode della militanza della federazione milanese — abbiamo ricevuto 30 richieste di tesseramento». Il precedente tetto delle tessere, a livello nazionale, era arrivato nel 1996 del trionfo, con l’ultima Lega «dura e pura», candidata da sola contro Prodi e Berlusconi. Allora furono 145 mila, poi scesero fino a 120 mila, a cavallo tra il 2000 e il 2001, poco prima del tracollo elettorale che portò il partito al 3,9%. Poi, spiegano da via Bellerio, una risalita costante e una nuova esplosione a partire dal 2004, fino ai 150 mila di oggi: uno ogni venti elettori della Camera. Per dare un’idea delle proporzioni, dei 12 milioni di elettori del Pd alla Camera, un milione e 300 mila hanno ritirato il certificato di adesione. A proposito di effervescenza del movimento, la piccola esperienza di radio Padania, sotto la guida di Giulio Cainarca, ha visto raddoppiare i propri ascoltatori in tre anni, che oggi sono 100mila.

Il caso Emilia Romagna
Sergio Cofferati minimizza: «A Bologna la Lega ha avuto il risultato più basso di tutta la regione ». Vero, ma ha raddoppiato i voti. Nelle urne sono piovute 5.214 firme in più. «Ha pagato— spiega Angelo Alessandri, presidente della Lega nord, di Guastalla—la nostra battaglia contro la super mega-iper-moschea. Cofferati ora dice che va avanti lo stesso. Bene, prenderemo ancora più voti. E se non ne abbiamo presi di più è perché ci copia: ha appena inaugurato le ronde». Il successo nell’Emilia ex rossa è tanto travolgente quanto sorprendente. I parlamentari ormai sono sei, i consiglieri 300. A Guastalla è al 15 per cento, come a Cento di Ferrara, dove ha un assessore. E a Fiumalbo (Modena) arriva al 30. A Reggio Emilia è all’8, a Modena al 9 e a Piacenza al 14. «Da quattro legislature non facciamo che crescere—dice Alessandri— La sinistra forse dovrebbe fermarsi e dirselo chiaramente: Houston, c’è un problema».

La prima volta nelle Marche
Si chiama Luca Rodolfo Paolini, ha 48 anni, è un avvocato di Fano ed è il primo deputato della Lega nelle Marche. «Nel Montefeltro abbiamo sfiorato il dieci per cento». Perché anche le Marche abbiano ceduto alle lusinghe del Carroccio, lo spiega con parole chiare: «Qui c’è gente che vive con 1000 euro al mese. E i figli dei clandestini non pagano nulla». Nelle Marche spira anche un forte vento secessionista: alcuni Comuni vogliono passare all’Emilia-Romagna, appoggiati dalla Lega. E sono proprio quelli che decollano: Mercatello sul Metauro, 7,93 per cento e Casteldelci 7,91%.

I piccoli Comuni
A guidare la nuova Lega sono soprattutto i piccoli Comuni. Come Serina (Bergamo), dove Michele Villarboito governa con la percentuale record del 76,18 per cento. O come Cittadella, dove Massimo Bitonci è diventato famoso per l’ordinanza «anti sbandati», con la quale richiedeva agli immigrati un reddito minimo di 5 mila euro e almeno 14 metri quadrati per abitante in un alloggio. Lo contestarono tutti: oggi incassa il 42 per cento, doppiando il Pdl. Il segreto dell’affermazione della Lega, secondo Francesco Tabladini, ex storico della Lega, «sta proprio nel movimento dei sindaci». Con la sua ordinanza, che gli è valsa anche un’iscrizione al registro degli indagati, ha dato il via a un effetto a catena: «Bossi è stato ancora una volta il più rapido nel capirlo». L’ordinanza di Bitonci fu proposta a modello anche nella Opera incendiata dalla questione dei campi Rom dal capogruppo leghista, allora all’opposizione, Ettore Fusco. Il quale, il 13 aprile, è stato eletto sindaco con il 48% delle preferenze, in un Comune tradizionalmente operaio e popolare. Dove la Lega, per la Camera, ha più che raddoppiato le sue preferenze. Il movimento dei sindaci ha origine da Franco Bortolotti, eletto nel ’90 primo cittadino italiano della Lega, a Cene (Bergamo). All’inviato di allora, che lo guardava come un extraterrestre, spiegava placido: «Ma cosa credete, che stiamo qui a fare la rivoluzione?». Cene è restata leghista, senza rivoluzioni. Ora il sindaco si chiama Giorgio Valoti e incassa un incremento del 17 per cento. Il segreto? «Nella Bergamasca ci sono 40 sindaci che amministrano bene — spiega—Ci tacciano di insensibilità, ma non è così. Cerchiamo di integrare i nostri 300 immigrati, ma non vogliono. Le faccio un esempio: ogni anno piantiamo alberi per i nuovi nati. Invitiamo i genitori, tutti, ma gli immigrati non vengono mai».

Il consenso nelle fabbriche
«Siamo il partito degli operai» proclama Bossi. Rosy Mauro, sindacalista padana, già annuncia: «Basta con la Triplice, siamo nelle fabbriche, al fianco dei lavoratori. E vogliamo le gabbie salariali». Anche Valentino Parlato ne è convinto: «Ormai nella Cgil votano Lega». Che il Carroccio stia facendo breccia nelle fabbriche lo dimostra il caso Mirafiori: «Apriremo presto una sezione a Torino—spiega il militante Roberto Zenga, 46 anni, un passato di sinistra — Mercoledì, con Roberto Cota, abbiamo fatto un volantinaggio. Incredibile: nessuna protesta. Poi abbiamo appeso i volantini agli alberi: li ha portati via solo la pioggia. In altri tempi sarebbero durati cinqueminuti». Ma cosa offre la Lega agli operai? «La difesa del posto di lavoro— spiega Zenga — La sinistra li ha abbandonati, come il sindacato». E che tanti operai siano meridionali non è un impedimento: «Figuriamoci, non è più quella Lega lì. Mio padre è campano e tanti meridionali sono con noi». Tra i neo eletti leghisti c’è anche Emanuela Munerato, operaia in una azienda tessile a Rovigo. Antonio Panzeri, democratico lombardo e già leader della Cgil, riconosce il dato: «La Lega ha raggiunto un consenso formidabile anche nei ceti operai che, storicamente, si pensava guardassero altrove. Fanno premio la sua coerenza e le sue battaglie: il tema dell’immigrazione, la sicurezza, il federalismo fiscale, l’esigenza di semplificazione burocratica. Tutti temi, ormai, interclassisti».

Il ritorno della Lega Veneta
«La Lega è riuscita ad interpretare bisogni di una larga fascia dell’elettorato, ottenendo consensi che prima erano di Fi e An». Nicolò Ghedini, coordinatore di Forza Italia in Veneto, prende atto del risultato e si dimette. Questa tornata elettorale segna una data quasi storica per il movimento: il sorpasso della Lega veneta su quella lombarda. Non è la prima volta, era già successo nel ’96. Allora la Liga, guidata da Fabrizio Comencini, si sentì talmente forte da minacciare Bossi e da firmare un preaccordo elettorale con il centrodestra. Patto non riconosciuto dal Senatùr, salvo poi siglarlo lui stesso l’anno dopo. Una lezione che la Lega veneta ha imparato. E infatti Gian Paolo Gobbo, uno dei pochi dirigenti dell’epoca rimasti fedeli, si limita a chiedere timidamente un ministro veneto: Gianpaolo Dozzo o Francesca Martini. Ma perché la Lega va così bene in Veneto? Lo spiega Ghedini: «Ha intercettato il malcontento prima di noi». E soprattutto la richiesta di federalismo fiscale. Non è un caso che il governatore Galan ora la chieda con insistenza.

Milano capitale
Il 12,3% della Camera, a Milano dove non arrivava al 5%, è un'altra di quelle cifre che lasciano il segno. Gongolava, a spoglio in corso, il capogruppo milanese Matteo Salvini. «Non ci hanno votato i radical chic. Siamo andati fortissimo nei quartieri popolari, a Quarto Oggiaro e al Gratosoglio. Il lavoro sul territorio paga, ne tenga conto il sindaco Moratti». Non fa nomi a caso, Salvini, visto che la Lega supera la pur ragguardevole media cittadina in zona 9, che da porta Garibaldi si allunga fino a Niguarda, sfiorando il 14%. Ma va benissimo (12,63%) nella zona 8, che unisce la chic Fiera alla popolarissima Quarto Oggiaro. E nei quartieri a forte densità popolare e immigrata della stazione Centrale e della Bicocca, dove fa il 13%. Quello che difficilmente denota un voto popolare è l’11,25% che la Lega raccoglie tra i 60 mila votanti del centro storico. Sotto la Madonnina, a due passi da Piazza Affari.

Jacopo Tondelli Alessandro Trocino
16 aprile 2008

da corriere.it
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« Risposta #3 inserito:: Aprile 16, 2008, 11:54:31 am »

16/4/2008 (7:24) - REPORTAGE - IL POPOLO DI BOSSI

Una lega di operai e imprese
 
Voto trasversale dietro il successo

Nelle fabbriche è falce e carroccio

GIOVANNI CERRUTTI


ROMA
Stupirsi dello stupore.
E’ capitato l’altra notte a Roberto Maroni, quando in tv ha visto i titoli delle prime edizioni. «Sembravano quelli del ’94 o del 2001, ma che la Lega faccia il pieno di voti al Nord è ancora una novità?».

E’capitato, ieri mattina, anche a Ilvo Diamanti, il sociologo vicentino che studia la Lega da quand’era bambina.
«Questa novità ha più di vent’anni -dice-, eppure dopo ogni votazione si fa finta che sia un inedito». Come la conquista dell’Emilia, dove aveva già un deputato e un senatore e adesso ne ha quattro più due.

I voti delle valli, delle città, delle periferie operaie.
Chi studia i flussi elettorali, come Diamanti, già vede la linea diretta che parte dalla Sinistra Arcobaleno, da falce e martello a Falce&Carroccio. E pure questa non è una novità assoluta. Dice niente la frase «La Lega nasce da una costola di sinistra»?. Per averla detta, Massimo D’Alema da sinistra è ancora canzonato. «Ma a Sesto San Giovanni -racconta Guido Salvini, neodeputato- se abbiamo triplicato i voti è perchè vengono da lì, dagli operai che hanno abbandonato la vecchia bandiera».

L’altra notte a Badoere, nel trevigiano, sotto il tendone della festa leghista, il parlamentare Giampaolo Dozzo si è fermato a un tavolo.
«Un imprenditore tessile con i suoi operai, tutti voti per noi». Perchè, come ha spiegato e rispiegato Diamanti, qui gli interessi dell’impresa e dell’operaio coincidono. «E quando va male -dice Dozzo- si comincia a ragionare, ad esempio sulle gabbie salariali, sul federalismo fiscale, sulle infrastrutture che mancano. La sola novità è la dimensione rilevante di questo voto operaio».

Non basta, non è tutto.
«E’ stato un voto trasversale», dice Giuliano Molossi, direttore della «Gazzetta di Parma». Lì si è guadagnato il seggio da senatore Giovanni Torri, 47 anni, leghista da sempre. «Sono andato dappertutto, da Santa Maria del Taro al Passo del Cerreto, ho fatto comizi dove non è mai andato nessuno, in osterie con due vecchietti, nelle bocciofile, nelle balere. All’uscita ero sempre sicuro di aver convinto almeno la metà». Aggiunge: «Mai andato in tv, mai spedita una lettera, mai messa un’inserzione sui giornali».

Forse sarà come dice Mino Martinazzoli, l’ultimo segretario della dc: «Quelli della Lega sono rimasti gli unici a far politica nei bar».
O sarà che lontano da tv e dai giornali la Lega va ad intercettare disagio e bisogni. Ancora Molossi: «Qui hanno deciso di spostare la moschea nella zona industriale, e tra piccole imprese e operai hanno risposto con il voto. Era prevedibile il successo, ma non in queste proporzioni e così trasversale: l’hanno votata l’industriale con jet privato e la donna delle pulizie».

La sicurezza, dunque.
E il solito ritorno della solita «Questione Settentrionale», due parole pronunciate per la prima volta da Bettino Craxi il 5 giugno 1987, e quel giorno Umberto Bossi aveva debuttato come senatore. Ma è sempre qui, la Questione Settentrionale, e può ad esempio chiamarsi Alitalia. Chi viaggia da Malpensa a Fiumicino ha appena scoperto che l’aereo è un Atr43, quello con le eliche, tempo di volo 1 ora e 23 minuti, quasi il doppio di un Md80. «E poi ci si domanda ancora perchè votano Lega?», dice Daniele Marantelli, unico deputato del Pd di Varese.

Anche Marantelli si stupisce dello stupore.
«Se fai la battaglia in difesa dello “scalone” delle pensioni è difficile che il giovane operaio ti voti». Come altri del Pd del Nord, portato Romano Prodi al governo, due anni fa aveva avvertito del pericolo. E Pierangelo Ferrari, rieletto a Brescia nel Pd, ricorda quel che dicevano: «Dobbiamo cominciare a capire questi “rozzi con la fabbrichetta e le loro paure” e smetterla con il nostro atteggiamento di superiorità. Se falliamo non ci sarà appello». E così è andata.

Un voto leghista davvero trasversale.
Antonio Marano, direttore di Rai2, varesino come Bossi e Maroni, è sicuro che i voti siano arrivati anche da sinistra. «Da almeno la metà degli 800 che lavorano nel nuovo centro di produzione di Milano - dice -. “Però noi non siamo di destra”, mi avvertivano. E io a spiegare che nemmeno la Lega lo è, un leghista non chiederà mai di schierarsi a destra, basta stare qui e capire chi fa gli interessi del Nord che vuole correre e non vuol farsi inghiottire».

E poi c’è la Lega che ha preso i voti, quella che sta tra la sede milanese di via Bellerio e il villino di Gemonio, da dove Bossi dirige, litiga con la salute, e ora tratta ministri e nomine. La Lega che ha governato a Roma più di 5 anni, che ha avuto il sindaco di Milano, che ha quelli di Novara, Varese, Verona, Treviso, le province del Nord, gli assessorati in Lombardia e Veneto. La stessa che gioca pesante con le parole, evoca paure e fucili e non è mai riuscita ad organizzare nemmeno uno sciopero del canone Rai.

Ma «è una Lega che non fa più paura», come dice Diamanti. Sempre di lotta, sempre più di governo.

da lastampa.it
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« Risposta #4 inserito:: Aprile 16, 2008, 12:10:35 pm »

POLITICA

Radio Padania incita i big: lavorare senza perdere tempo

Castelli: saremo il perno del nuovo governo. Maroni: tanti voti dai lavoratori

Il Carroccio padrone del Nord in Veneto punte del 35 per cento

di PAOLO BERIZZI

 
MILANO - "Adess me racumandi, lauràa": i leghisti sono gente di pancia e del fare, tendenzialmente parchi nei festeggiamenti, nell'autocelebrarsi. E così non bisogna stupirsi se ieri mattina, il giorno del risveglio dopo la vittoria - praticamente una tombola - le telefonate piovute sui centralini di RadioPadania suonavano anche come un invito a mettersi subito al lavoro, schiena dritta, per "portare a casa federalismo fiscale e sicurezza per le nostre città". Che sarebbero, declinati in tutte le loro forme, dalle quote Iva e Irpef agli immigrati, i due temi forti sui quali la Lega ha vinto la partita elettorale.

Il terzo partito d'Italia ha i motori tirati al massimo: basta scorrere i risultati delle circoscrizioni, basta dare un'occhiata alle "torte" che rappresentano i seggi parlamentari, e si capisce che il momento è di quelli da incorniciare e mettere in bacheca. Conquistato il nord. Voti raddoppiati in Piemonte, Lombardia, Trentino, Friuli. Ma anche in Toscana e nel centro. Consensi da primato in Veneto (sfiorato il 35 per cento in provincia di Verona). Sfondamento persino nelle regioni "rosse", con un clamoroso quasi 7 per cento in Liguria e un quasi 8 in Emilia-Romagna. Milano che torna a doppia cifra (dal 5 % di due anni fa al 12) e che regala inaspettate soddisfazioni (15% a Quarto Oggiaro, altissima densità di immigrati dal Sud, oltre il 10 a Sesto San Giovanni, storica roccaforte della sinistra operaia). Tanta roba per i dirigenti del Carroccio.

E adesso, si capisce, si va all'incasso. "Abbiamo triplicato la nostra rappresentanza alla Camera e raddoppiato quella in Senato - tira le somme l'ex ministro della Giustizia, Roberto Castelli, il cui nome è in pole position per la presidenza della Lombardia (la Lega chiede elezioni a ottobre) - . Saremo il perno del nuovo governo".

Dopo l'ubriacatura elettorale di lunedì notte, la parola d'ordine, nello stato maggiore del Carroccio, è: capitalizzare. Far pesare il più possibile la valanga di voti messi in cascina; produrre una pressione "dolce" sugli assetti del governo che si sta formando. In sostanza: esercitare con furbizia, ma rispettando gli accordi di coalizione, quella golden share che Casini ("è l'unica cosa giusta che ha detto in tutta la campagna" se la ridevano l'altra sera nella sede di via Bellerio) aveva attribuito ai lumbàrd in caso di successo del Pdl. "Faremo un bel lavoro, i nostri elettori possono stare tranquilli", è stata la promessa di Umberto Bossi all'inizio dell'election night.

L'agenda delle "cose da fare" è fitta: e di carne al fuoco, in effetti, i vertici della Lega ne hanno già messa. Il federalismo fiscale, anzitutto. "Si può attuare immediatamente, approvando la legge entro tre mesi", ancora Castelli. "I lavoratori ci hanno votato perché hanno capito che la soluzione dei loro problemi passa attraverso il federalismo. Siamo l'unico partito che rappresneta gli interessi del Nord - ragiona Roberto Maroni, probabile futuro ministro dell'Interno o, in alternativa, dello Sviluppo economico -. La gente ci ha premiato dandoci fiducia". Da Lampedusa (da dove viene la pasionaria siculo-leghista Angela Maraventano, prossima senatrice) a Bergamo, è l'ora del Carroccio. "Abbiamo chiesto la presidenza di Lombardia e Veneto, e Berlusconi ci ha già detto di sì", mette le mani avanti, a metà pomeriggio, Roberto Calderoli.

Clima di entusiasmo contagioso, con molte aspettative, pare ben riposte, in vista della "quadra" di governo. "La Lega è forte", è stato lo slogan ripetuto da Bossi fino a ieri, fino allo spoglio delle urne. Racconta un dirigente leghista di lungo corso che "un botto così, nemmeno nel '96. Perché allora eravamo una forza di protesta, facevamo casino, c'era Tangentopoli, eravamo tanti, sì, ma ci vedevano duri, sporchi e cattivi. Oggi - dice - siamo una forza di governo che si assume grandi responsabilità, che realizzerà il programma forse più moderno che possa vantare oggi questo Paese".

(16 aprile 2008)

da repubblica.it
« Ultima modifica: Aprile 16, 2008, 12:28:30 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #5 inserito:: Aprile 16, 2008, 12:21:07 pm »

16/4/2008
 
I cattolici sul Carroccio
 
FRANCO GARELLI

 
Voto cattolico in libertà o voto cattolico ininfluente? Voto cattolico ormai cristallizzato (tra destra e sinistra) o voto cattolico capace di dar vita in prospettiva a nuove aggregazioni? Attorno a interrogativi come questi si può costruire una prima analisi del risultato elettorale riferito alle sorti di un’area sociale che si considera importante o decisiva per le dinamiche pubbliche.

Da vari anni il pluralismo delle scelte politiche è un tratto del cattolicesimo italiano, con una quota di soggetti che l’ha praticato da sempre, mentre la gerarchia l’ha riconosciuto ufficialmente soltanto dopo la crisi acuta della Dc, a seguito di Tangentopoli e dintorni. Da allora lo slogan prevalente è che la Chiesa non dà indicazioni politiche e che i cattolici possono votare per partiti o schieramenti diversi, a patto che essi non siano contrari alla fede e ai valori «cattolici». È la teoria - più volte ribadita - del voto libero, ma non indifferente.

Ma non ci volevano certo queste elezioni per confermare che il mondo cattolico vota ormai in libertà. Piuttosto, ciò che emerso dalle urne due giorni fa offre al riguardo ben altre e più interessanti indicazioni.

Anzitutto che il successo elettorale della Lega nel Nord Italia sia in parte dovuto ad un mondo cattolico che trova nelle visioni e nel linguaggio del Carroccio vari motivi di assonanza e di convergenza. Il processo iniziato vent’anni fa nel Veneto bianco sta contagiando altre Regioni del Nord, in mancanza di risposte diverse. Chi ben conosce la provincia settentrionale conferma l’impressione che la Lega abbia calamitato il voto di non pochi cattolici, non soltanto di quelli tiepidi, ma anche dei più attivi e convinti, che frequentano con assiduità gli ambienti religiosi. Si tratta di un mondo che non ama i grandi cambiamenti, preoccupato di un cambio di scenari che minaccino le conquiste personali e famigliari realizzate nel tempo. Non tutto questo voto può essere considerato conservatore o razzista o così etnocentrico da guardare ai diversi come ad un nemico. Ma è indubbio che l’aumento degli immigrati stranieri, la crescita dell’Islam, la paura dell’impoverimento, la crisi del ceto medio, la facciano da padrona in una popolazione che difende anzitutto gli equilibri locali e che chiede di affrontare con gradualità il nuovo che avanza. La voce della protesta, un linguaggio concreto, il richiamo ad un «senso del noi» che offre appartenenza, possono aver fatto ulteriore breccia in un mondo cattolico portato - dalla sua vocazione moderata - a enfatizzare la questione dell’ordine pubblico e dell’integrità locale.

La seconda indicazione di queste elezioni è il debole peso del voto identitario cattolico. Mi riferisco al successo limitato del partito di Casini, che ha puntato a mobilitare la gente non soltanto con una proposta centrista e moderata, ma soprattutto proponendosi come una casa naturale per quanti (i cattolici in particolare) intendono difendere e promuovere il ruolo pubblico della religione. In particolare, però, non ha funzionato il richiamo di Pezzotta, che intendeva mietere il grano di una mobilitazione cattolica di popolo come quella del Family Day. Parte del mondo cattolico si coinvolge e scalda i muscoli in eventi para-religiosi come questi, ma essi non hanno una valenza politica, non sono luoghi o serbatoi di mobilitazione politica. Chi prende parte a questi avvenimenti può ritenere che i valori cari ai cattolici (vita, famiglia, bioetica, educazione, ecc.) siano meglio promossi o rappresentati più dai partiti del centro-destra che da nuove e incerte formazioni politiche orientate a creare nuove aggregazioni.

Il voto identitario cattolico, poi, sembra di debole peso anche in quel centro-sinistra che non è stato in grado di far breccia sui cattolici moderati politicamente incerti o delusi dal modello di Berlusconi. Nel Pd non mancano certo dei cattolici «ultras», ma essi si mescolano a gruppi di cattolici aperti sui temi della laicità, convinti del vantaggio pluralistico di convivere oggi con altre sensibilità culturali e politiche.

È stato detto che Veltroni ha perso la sinistra, ma anche il centro; e che l’asse Berlusconi-Fini si è spostato troppo a destra per permettere ad ampie quote di cattolici di riconoscersi nella loro linea politica. In questo scenario si può prevedere la nascita (dopo tanti anni) di un figlio della Balena bianca, capace di alterare gli attuali equilibri? Il centro politico può alimentarsi in futuro di cattolici insoddisfatti sia dello stile politico di Berlusconi, sia di un Pd che relega i cattolici ad una componente un po’ in sottotono del centro-sinistra? Nell’attuale bipolarismo rafforzato questa eventualità appare remota. Il tutto comunque dipende da quanto i cattolici dei due schieramenti si sentano a proprio agio nelle rispettive «case»; e dalla capacità di un centro cattolico di innovare la scena con un grande progetto politico. Come sempre, cercasi un leader, disperatamente.
 
da lastampa.it
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« Risposta #6 inserito:: Aprile 16, 2008, 12:26:02 pm »

16/4/2008
 
Lega di governo
 
 ANDREA ROMANO
 

C’è un partito che nell’ultimo decennio ha governato un quarto del Paese, ha prodotto una classe dirigente spesso giovane e competente ed è persino riuscito a sopravvivere alle proprie cattive maniere. Quel partito è la Lega e potrebbe diventare il motore riformatore del governo Berlusconi, se solo arriverà a completare il cammino di trasformazione avviato in questi anni. Dietro lo schermo del cabaret celtico e delle grida di secessione, Umberto Bossi è riuscito a dare solidità ad un movimento politico ormai lontano dalla rappresentazione zotica e valligiana a cui troppe volte ci siamo affidati.

Sempre più simile ad una Democrazia cristiana del Nord anche per la dimensione dei consensi che raccoglie in tre grandi regioni (e giustamente Stefano Folli rimandava ieri sul Sole-24 Ore all’esempio della Csu bavarese), la Lega si compone di anime diverse e conflittuali che Bossi ha tenuto insieme con un mix tra pugno di ferro, mitologia della resurrezione e scuola di buona amministrazione locale.

Ha tenuto la componente chiassosa e razzista insieme con quella pragmatica e moderata guidata da Roberto Maroni, i reduci della Guardia Padana accanto alla schiera dei circa duecento sindaci in gran parte quarantenni, la vecchia guardia insurrezionale insieme con il gruppo parlamentare più giovane della legislatura appena conclusa. Un partito che nel corso degli anni si è fatto sempre più articolato, presentandosi in molte realtà con il volto rassicurante di giovani preparati (come quello del leader piemontese Roberto Cota) che da domani potranno avere ancora più spazio nell’agone nazionale. La Lega è dunque approdata allo status di forza responsabile di governo?

Dipenderà da come verranno espresse in Parlamento e metabolizzate dalla nuova stagione berlusconiana le domande che vengono dal suo elettorato, anch’esse molto diverse dal passato. Se queste elezioni hanno brutalmente semplificato il quadro parlamentare, il voto leghista è portatore di una ulteriore carica di semplificazione politica. Filtrate dalla stagione del governo debole e dell’antipolitica, le sue richieste si sono fatte più concrete e meno sovversive. Quali servizi e quali infrastrutture per le tasse che paghiamo? Chi risponde dei fallimenti della burocrazia e dell’amministrazione pubblica? Chi difende i miei interessi di cittadino?

Domande crude, lontane dalla correttezza politica e dal bon ton consociativo in cui si sono impantanati i progetti riformatori dell’ultimo quindicennio (compreso l’ultimo governo Berlusconi). Domande alimentate da una voracità democratica e radicale a cui la leadership della Lega dovrà rispondere: accantonando definitivamente il teatro secessionista che l’ha resa celebre e traducendo in concreti atti politici la richiesta di innovazione che viene dal suo elettorato. Nonostante la semplificazione parlamentare, la nuova maggioranza di governo contiene al proprio interno idee assai diverse sull’opportunità e la profondità delle riforme da introdurre nel Paese. Tra lo statalismo di An e il liberismo spesso solo propagandistico di Forza Italia, la Lega potrebbe rivelarsi il reagente indispensabile ad una vera stagione di rinnovamento. In fondo è quello che chiede il suo elettorato, nel quale si sono trasferiti consensi provenienti da tradizioni politiche anche molto distanti (come ci racconta il voto operaio che Bossi ha raccolto in misura assai più rilevante che in passato). Come accade in politica, quei consensi non sono per sempre e potrebbero facilmente volatilizzarsi se la Lega scegliesse la strada antica e priva di sbocchi del folklore invece di quella suggerita dai nuovi «spiriti animali» che le hanno restituito forza e visibilità.

 
da lastampa.it
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« Risposta #7 inserito:: Aprile 17, 2008, 11:59:19 am »

POLITICA

I FLUSSI ELETTORALI. Il travaso anche verso il Pdl

La Lega prende a tutti i partiti.

Di Pietro raccoglie ovunque

Sinistra Arcobaleno un voto su due al Pd

Statico il voto di Berlusconi e Fini che però portano a casa l'80% del voto del 2006

di SILVIO BUZZANCA


 ROMA - La sinistra si è liquefatta nelle urne e più o meno metà dei suoi voti sono finiti nel carniere di Walter Veltroni e Antonio Di Pietro. E qualche cosa ha raccolto il Pdl di Silvio Berlusconi. I dati arrivano da una prima ricerca condotta da Consortium per Rai e Sky sui flussi elettorali. E i numeri non lasciano dubbi su dove sono finiti i voti che Bertinotti, Diliberto e Pecoraro Scanio avevano nel 2006. Il 40, 3 per cento dei voti di Rifondazione è passato al Pd. E il 6,3 per cento ha preso la via dell'Italia dei Valori. Il totale fa 46,9 per cento. Ancora più alto il dato che riguarda il Pdci. Il 48,1 per cento dei voti è finito a Veltroni e il 6,4 per cento a Di Pietro. Complessivamente si tratta del 55,5 per cento dei consensi dei comunisti italiani. Infine i Verdi. Al Pd è andato il 45,1 per cento e all'Idv l'11,3 per cento. La somma fa 56,4 per cento.

Secondo Piepoli, è rimasto fedele a Bertinotti il 38,4 degli elettori, a Diliberto il 20 per cento e a Pecoraro Scanio il 24,8 per cento. Ma ci sono voti migrati persino verso Berlusconi. Il 5,1 per cento dei rifondaroli, il 5,6 per cento dei comunisti e addirittura l'8 per cento dei verdi il 13 aprile ha scelto il Cavaliere. Infine, il tracollo è completato dal flusso di voti in uscita che si è diretto a sinistra. Marco Ferrando e il Partito comunista dei lavoratori hanno portato via solo lo 0,4 per cento a Rifondazione e l'1 per cento ai Verdi. Ma hanno "succhiato" l'11 per cento al partito di Diliberto. Sinistra Critica di Franco Turigliatto ha portato via il 5,4 per cento a Bertinotti, il 3,8 a Diliberto e il 2 per cento agli ambientalisti.

Questi i calcoli di Consortium dei voti in uscita dalla Sinistra Arcobaleno. Quelli sui voti in entrata gli fanno dire che siamo di fronte ad un Pdl "conservatore", un Pd "statico", un Di Pietro "raccattatore" e una Lega "vampira". E l'Udc, invece può essere definita "rimescolatrice". In concreto vuol dire che il 26 per cento dei voti di Di Pietro sono di elettori che lo avevano votato nel 2006. Il 36,3 per cento arriva invece da elettori che avevano votato l'Ulivo. Il 4,8 per cento aveva votato Forza Italia e il 3,5 per cento An. Un 6,4 per cento dichiara di avere votato nel 2006 Rifondazione e il 2,2 i Verdi. Insomma l'ex pm riceve contributi un po' da tutti.

Il Pd presenta invece un nucleo "forte" del 63,9 per cento che conferma la scelta fatta nel 2006. Il 6,6 per cento è composto da elettori in arrivo da Rifondazione, il 2,2 viene dal Pdci, l'1,5 dai Verdi. Di Pietro cede invece solo l'1,6 per cento. E l'1,7 viene da chi nel 2006 aveva scelto la Rosa nel Pugno. Come se gli elettori radicali avessero accolto in gran parte l'appello di Pannella a votare Pd.

Questo apporto radicale sarebbe dietro anche al grande rimescolamento al centro. Il partito di Casini, infatti, avrebbe incassato il 13,6 per cento di voti da ex elettori ulivisti. Rifugiatisi da Casini forse per paura del "laicismo " radicale. Ma i centristi hanno portato via voti anche a Forza Italia, il 15,5 per cento, e ad An, il 7,2 per cento. E per completare la rivoluzione dell'elettorato centrista bisogna sottolineare che solo il 34,4 per cento del voto Udc arriva da elettori centristi del 2006. Infine Casini si è portato a casa un 2,4 per cento di voti da elettori orfani di Mastella.

Grande movimento anche fra gli elettori leghisti. Le indagini dell'Istituto Cattaneo dicono che Forza Italia e An hanno perso circa 800 mila nel Nord. Un dato confermato dagli studi di Piepoli. Nel bottino di Bossi il 30,3 per cento arriva da elettori che nel 2006 aveva votato Berlusconi e Fini: il 18,9 da Forza Italia e l'11,4 da An. Dati, come gli altri, sottostimati di uno o due punti, perché il 5,5 per cento del campione non ha dichiarato per chi ha votato. A dimostrazione della mobilità del voto leghista c'è da notare che solo il 45,4 per cento de risultato di è una conferma del voto del 2006. E ne conto un 2,9 per cento arriva da elettori ulivisti del 2006. Alla mobilità leghista corrisponde la fedeltà, la staticità del voto del Pdl. Quasi l'80 per cento del voto del Pdl è una conferma del 2006. In percentuale il 62 per cento proviene da elettori che nel 2006 avevano scelto il Cavaliere. E il 17,1 dei finiani.


(17 aprile 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #8 inserito:: Aprile 17, 2008, 03:19:52 pm »

17/4/2008 (7:13) - IL PRIMO VERTICE

Ministri, Bossi incalza Berlusconi

Il Senatur preme: «Parlano i numeri»

Il Cavaliere: verso scelte impopolari


ROMA
Umberto Bossi ha ammesso a Montecitorio che nel vertice di ieri del centrodestra non si è combinato «niente». In effetti, uno dei momenti di tensione durante il vertice è stato quando la Lega ha reclamato 4 ministeri. «Parlano i numeri delle elezioni», hanno spiegato al Cavaliere gli esponenti leghisti.
Unica subordinata, la possibile rinuncia di Roberto Formigoni alla presidenza della Lombardia, che aprirebbe le porte a una candidatura leghista al Pirellone e ridimensionerebbe le richieste del partito di Bossi. Anche Alleanza nazionale non ha gradito la posizione leghista, visto che uno stesso numero di ministeri dovrebbe toccare ad An. Dal partito di Fini si immagina invece che al Carroccio possano spettare 3 ministeri, di cui uno di peso, e un posto di vicepremier.

Per Silvio Berlusconi serve, comunque, un effettivo rinnovamento. «Ci saranno momenti difficili e servirà- ha detto - un forte rinnovamento per fare quelle riforme necessarie al Paese. Alcune di queste avranno anche caratteri di impopolarità». Berlusconi, durante una conferenza stampa a via del Plebiscito, non ha nascosto la possibilità che il suo Governo possa assumere decisioni «impopolari», per risanare la situazione economica.

da lastampa.it
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« Risposta #9 inserito:: Aprile 18, 2008, 12:33:52 pm »

17/4/2008 (14:0) - IL DOPO ELEZIONI - IL CAVALIERE AL LAVORO SULLA SQUADRA DI GOVERNO

Ministri, Bossi sfida Berlusconi: "Basta con i vertici, subito i nomi"
 
Il Carroccio polemico con gli alleati: «Noi parliamo solo con Berlusconi».

Il Cavaliere: «Non c'è nessuna lite».

Ed è scontro Pd-Pdl sul dopo-Frattini


ROMA
Che non fosse solo una insoddisfazione "tattica" si era capito già ieri. Umberto Bossi lo aveva detto a chiare lettere, lasciando la Capitale: il vertice del Pdl sulla squadra di governo si è rivelato inutile. E non bastano le rassicurazioni di Silvio Berlusconi a placare gli animi nella Lega.
I paletti della Lega
Forte del successo elettorale e di fatto "titolare" dei destini del futuro governo, il Carroccio butta sul tavolo le sue condizioni. Federalismo e sicurezza, questi i temi indicati come priorità dalla segreteria politica di via Bellerio. E soprattutto l’intenzione di rafforzare il rapporto privilegiato con il leader del Pdl. «Per quanto riguarda la Lega Nord, le prossime riunioni saranno tenute solo con Silvio Berlusconi», si legge nella nota diffusa al termine della riunione. Al Cavaliere la Lega chiede di proporre la squadra dei ministri al più presto.

Il Cavaliere: nessun litigio
Alleanza nazionale tiene bassi i toni. «Con chi altri se non con Berlusconi, che rappresenta tutto il Popolo della libertà e che sarà il futuro presidente del Consiglio, dovrebbero parlare i leghisti?», è la replica di Andrea Ronchi alla sparata del Carroccio. Da An, intanto, arriva la conferma che Gianfranco Fini sarà il prossimo presidente della Camera: «Probabilmente sì», ammette le stesso leader di An. Ma la presa di posizione di via Bellerio arriva dopo che Berlusconi aveva assicurato che non c’è nessun dissidio nella formazione del governo. «Non è vero che nel vertice di ieri abbiamo litigato. Si è svolta una riunione assolutamente positiva e di grande soddisfazione. Mi è stato dato il mandato per quanto riguarda la preparazione della squadra dei ministri», aveva detto.

«Linguaggio paradossale»
Quanto a Bossi che si lamenta del fatto che non si è «combinato niente», il Cavaliere attribuisce quelle frasi al «linguaggio paradossale, iperbolico e metaforico» del Senatùr. E spiega: «Lui riteneva che l’incontro fosse basato sui nomi dei ministri, mentre io non avevo questa intenzione, perchè aspettavo ancora di vedere i sessanta di tutta la squadra e di calibrare competenze, esperienze e presenze di copertura del territorio». «Credo infatti - insiste il leader del Pdl - sia giusto presentare una squadra equilibrata e distribuita sul territorio in modo che nessuna regione venga esclusa questo è un lavoro che sto facendo con i miei collaboratori. Ho detto ai miei alleati che quando avrò pronta la squadra ci ritroveremo e loro mi faranno le loro osservazioni».

«Parleremo solo con Berlusconi»
La "questione padana" si intreccia con la formazione del nuovo governo. In ballo, oltre alla rappresentanza della Lega a Palazzo Chigi, anche il futuro della regione Lombardia, legato appunto alla permanenza di Roberto Formigoni al Pirellone. È anche sotto questa luce che vanno lette le posizioni della Lega. «Dopo l’inutile vertice romano -si legge nella nota- la segreteria ha deciso che, per quanto riguarda la Lega Nord, le prossime riunioni saranno tenute solo con il leader del Popolo della Libertà, Silvio Berlusconi. La segreteria politica ha ribadito che la Lega Nord ha ricevuto l’imperativo mandato dagli elettori di risolvere le questioni legate al federalismo e alla sicurezza. Pertanto, visto lo straordinario risultato ottenuto su questi due temi, non è possibile derogare dall’assoluto rispetto dello stesso».

Castelli frena: «Dalla Lega nessun malumore»
«Il momento nel Paese è talmente grave che è necessario -avverte il Carroccio- vengano prese decisioni rapidissime. È pertanto utile nell’interesse di tutti, pur nel rispetto delle prerogative del presidente della Repubblica, che il presidente del Consiglio in pectore, Silvio Berlusconi, proponga, così come vuole la Costituzione, nel più breve tempo possibile la composizione del governo». La palla passa quindi a Berlusconi. Anche Gianfranco Rotondi sposa la linea della Lega. «Bossi ha ragione: ci siamo fidati di Berlusconi, non servono nè vertici, nè comitati, nè commissioni che fanno gli esamini. Ognuno con la propria forza ha messo i propri destini nelle mani di Silvio. Faccia le sue scelte e siamo sicuri -garantisce il leader della Dca- che saranno giuste». La Lega Nord, spiega Roberto Castelli, non nutre alcun «malumore: abbiamo semplicemente sottolineato quella che riteniamo una questione politica».

Il nodo della presidenza della regione Lombardia
Il nervo scoperto resta la futura poltrona di governatore della Lombardia. Il candidato in pectore della Lega è lo stesso Castelli che si dice convinto che «Formigoni rimarrà in regione». Nella partita entra anche l’ex sindaco di Milano Gabriele Albertini, lanciato dall’azzurro Maurizio Lupi. «Albertini è autorevole, e il Pdl -glissa Castelli- ha preso tanti voti». «Diciamo -spiega ancora Castelli- che c’è una partita aperta su varie questioni, ma io continuo a pensare che Formigoni rimarrà in regione. Quindi -sottolinea l’ex guardasigilli- si sta parlando di una questione virtuale». Anche Gianfranco Fini guarda con distacco la candidatura Albertini: «I problemi si pongono quando sono reali», si limita a dire il leader di An.

Scontro Pd-Pdl sulla sostituzione di Frattini
Intanto è scontro su chi dovrà nominare il sostituto di Franco Frattini (destinato ad un incarico di governo) alla Commissione europea. Silvio Berlusconi rivendica al prossimo governo la scelta: «Sarà il nuovo governo a nominare il nuovo commissario che lo sostituirà», dice il Cavaliere. E Fini dà dei «disperati» alla sinistra che si «inventa» gli argomenti di polemica anche quando non ce ne sono. «Frattini -spiega il leader di An- è ancora lì e decide lui quando lascia... Se il 29 non fa il deputato resta commissario e non c’è nessuno da nominare. Se poi invece farà il ministro, vuol dire che c’è un governo in carica e deciderà il governo». Ma Veltroni chiede una «decisione condivisa». Pare invece chiuso il caso del presunto incontro tra Berlusconi e Walter Veltroni. Incontro smentito da entrambi: «Non ho incontrato Veltroni nè ieri nè nei giorni scorsi», taglia corto Berlusconi. Anche il leader del Pd smentisce: non c’è stato «nè un incontro e nè una conversazione telefonica. È una balla spaziale».

da lastampa.it
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« Risposta #10 inserito:: Aprile 19, 2008, 12:11:41 pm »

19/4/2008
 
Un venticello vien da Pontida
 
ENZO BETTIZA

 
Soltanto in questi giorni d'inizio della grande svolta si riesce a capire che la «Seconda Repubblica» non è morta per il semplice fatto che non era mai esistita. È morta invece definitivamente la Prima di cui la «Seconda» non era che un'ombra storta e contorta: una protesi sgangherata tenuta artificiosamente insieme dal 1994, per quindici anni, fra tintinnii di manette e ribaltoni, con i cascami e i trasformismi dei due principali partiti di massa nati nel dopoguerra.

La democrazia cristiana ha continuato a sopravvivere disintegrata in spezzoni erratici; lo zoccolo duro del partito comunista, metamorfosato, ha seguitato a riorganizzarsi sotto nuove spoglie occidentalizzanti e botaniche; le schegge comuniste più nostalgiche, ossessionate dal naufragio sovietico, non hanno saputo fare altro che contestare l'esistente, aggrappandosi ai vecchi miti classisti e aggirandosi a tentoni in un anacronistico bric-à-brac di falci e martelli arrugginiti.

Certamente Silvio Berlusconi, nelle sue prime versioni di uomo di governo e d'opposizione, era già il personaggio nuovo e di rottura che abbiamo conosciuto. Demagogicamente apolitico, comunicatore di stile irrituale e popolare, in sintonia epidermica con una massa di elettori delusi, irritati dal latinorum indecrittabile dei politici di mestiere, egli si presentava sulla scena come l'uomo di successo che avrebbe saputo dare all'Italia smarrita e impoverita il lustro di una Mediaset grandiosa. Ma la Forza Italia del tempo era assai meno nuova del suo leader scalpitante. Più che un partito, era un accogliente asilo per scampati dei vecchi partiti, una balena fra bianca e rosa, nel cui ventre accogliente, privo di paratie, si stipavano confusamente democristiani, socialisti, transfughi comunisti, liberali, repubblicani, laici e cattolici generici. Il vero partito era lui, Berlusconi, con la sua immagine ridente e ubiqua, l'ottimismo costruttivo, la promessa di rigenerazione universale. La novità, insomma, era l'uomo.

L'autentica novità partitica, emergente già negli anni di prolunga della Prima Repubblica, era invece la Lega Nord di Bossi. Anzi, direi, il fatto nuovo era la Lega in sé, più che il pittoresco personaggio Bossi che l'aveva ideata e promossa con un fiuto più sottile delle sue metafore celtiche e un impeto di tribuno più robusto della sua salute. Non aveva torto D'Alema quando, invitato negli Anni 90 a un consesso leghista, epoca in cui Bossi veniva censurato o irriso da tanti commentatori, precorse i tempi certificando la Lega come «una costola della sinistra». Non solo da quella parte provenivano Bossi e diversi compagni di Bossi. Non solo si è recentemente scritto che la Lega è il vero erede del capillare talento organizzativo del Pci. Ma, oggi, constatiamo che la patente di sinistra concessa al leghismo padano da D'Alema una decina d'anni orsono, conteneva un elemento forse non involontario di profezia: è infatti a sinistra, fra i metallurgici della Fiom, gli operai della Fiat, i camalli di Genova, addirittura fra molti elettori della rossa Emilia Romagna, che la Lega ha raccolto e ottenuto uno straordinario successo durante le elezioni.

Successo sorprendente e inatteso dalla maggioranza degli osservatori? Sì, ma non da quelli che vengono dalla dirigenza del sindacato, che sentono il polso delle piazze, che fiutano da sindaci gli umori municipali e provinciali. Mi riferisco all'intelligente reazione di Sergio Cofferati, che ha smentito chi «pensa che quelli alla Lega siano voti di protesta» e ha ipotizzato perfino la necessità di costruire, da sinistra, un quasi autonomo «partito democratico del Nord» modellandolo come la Lega su strutture comunitarie e regionali. «Noi siamo parte del Settentrione, non del Centro», ha detto il sindaco di Bologna suscitando, nella stessa sinistra riformista emiliana, malumori ma anche molte approvazioni.

Lo si chiami come si voglia, regionale, municipale, territoriale, interclassista, comunitario, il successo della Lega sta comunque diffondendo un contagio psicologico e un interesse politico che vanno al di là del voto operaio. Più del secessionismo, che resta sempre metaforico nello sfondo, sono altri i temi scottanti agitati dalla Lega che attirano pure l'attenzione dei ceti medi che hanno votato Veltroni o stavano per votarlo. Imprenditori piccoli e medi, regionalisti meridionali a partire dalla Sicilia, perfino i dipietristi all'interno del Pd, che dopo la sconfitta della coalizione vorrebbero costituire gruppi parlamentari separati, hanno cominciato a tendere l'orecchio alle proposte leghiste. La sicurezza, la difesa della società impaurita, le politiche dell'immigrazione, il municipalismo forte, il federalismo fiscale stanno reclutando proseliti e imitatori anche fra quelli che mai avrebbero vagheggiato la folgorazione sulla via di Pontida. Lo stesso Berlusconi, che dal consistente voto della Lega ha ricevuto, insieme, una legittimazione e un monito alla sua leadership, ha già capito benissimo che il gioco politico sarà molto più stretto e più difficile con Bossi che con Fini: la porta sbattuta dal capo leghista al primo vertice collegiale dei vincitori, accompagnata dalla frase «io parlo solo con il Cavaliere», contiene il preannuncio, se non di un programma, di un comportamento indipendente e all'occorrenza rude in seno alla coalizione.

Bossi ha eroso frange elettorali del centrosinistra, ha prosciugato i Verdi, ha portato molti ex comunisti dal mito gramsciano della fabbrica al federalismo territoriale di Cattaneo, ha al suo occhiello la competenza tecnica dell'ex ministro del Lavoro Maroni cui si deve la legge Biagi. Ciò che ai leghisti, che ormai stanno acquistando dimensione nazionale, manca ancora è una più solida preparazione in politica estera dove, spesso, prendono lucciole per lanterne: hanno sempre appoggiato la Serbia senza rendersi conto che, nel quadro kosovaro, era Belgrado «la ladrona» e Pristina la derubata. A parte questo dettaglio balcanico, la cui importanza crescerà fra gli impegni del terzo gabinetto Berlusconi, Bossi e la Lega rimangono i protagonisti d'eccezione del 13 aprile. Il grande sconfitto è specularmente Fausto Bertinotti, che ha visto tanti arcobalenisti trasformarsi in leghisti. Se l'uomo pubblico Bertinotti avesse fatto quello che in privato sulle vicende comuniste dice l'uomo colto Bertinotti, forse, chissà, avrebbe potuto contenere l'emorragia dell'Arcobaleno. Sul piano personale a molti, umanamente, dispiace la totalità della sua sconfitta, anche perché il leader della sinistra massimalista ha saputo sostenere cose insostenibili con lo stile e la buona educazione di un perfetto gentiluomo.

da lastampa.it
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« Risposta #11 inserito:: Aprile 19, 2008, 04:31:00 pm »

Ma Berklusconi assicura: «CON BOSSI TUTTO OK»

Ministri, la Lega alza la posta

Castelli chiede il Viminale e boccia l'ipotesi Letta: «Ci vuole un uomo forte, senza falsi buonismi»

 
 
ROMA - «Con Bossi tutto ok». Parola di Silvio Berlusconi, dopo i paletti venuti dal Carroccio: basta vertici, subito i nomi dei ministri. «Io auspico che all'apertura del Parlamento ci sia contestualmente la squadra di governo», dice il capogruppo uscente della Lega al Senato, Roberto Castelli. L'ex Guardasigilli aggiunge: «Alla Lega il ministero dell'Interno». Per il Viminale, è il parere di Castelli, «ci vuole un uomo di grandissimo polso che affronti il problema della sicurezza così come gli elettori del nord vogliono che venga affrontato, cioe senza falsi buonismi». Un no secco a Gianni Letta che i bookmaker del palazzo indicano sulla poltrona occupata nella precedente legislatura da Amato.


CARROCCIO IN PRESSING - «I rapporti con Bossi - spiega dal canto suo il Cavaliere - sono straordinari. Non c'è assolutamente nessuna frizione. È chiaro che ogni forza politica tende ad avere una presenza più incisiva, ma è il Presidente del Consiglio che poi proporrà i ministri». Berlusconi ha anche annunciato che vedrà Bossi domenica sera o lunedì. Il capogruppo uscente di An, alla Camera, Ignazio La Russa, invita tutti alla calma: «lasciamo lavorare Berlusconi».


18 aprile 2008

da corriere.it
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« Risposta #12 inserito:: Aprile 21, 2008, 01:42:38 am »

Tre mosse per espugnare la roccaforte ulivista in lombardia

Brescia, simbolo della svolta

Il sindaco Paroli e la vittoria del centrodestra: «Tolleranza zero con gli immigrati irregolari»
 

Già alle 7 di sera nel centro di Brescia non c'è un bresciano. In via san Faustino, dietro piazza della Loggia, si sente parlare solo urdu, arabo, hindi e dialetti africani: sono le voci che dai phone-center chiamano casa per pochi euro. Gli immigrati sono molti: trentamila solo i regolari, il 15% della popolazione. Saranno sempre di più: un neonato su tre è figlio loro. Sembrano ancora di più: sono giovani, attivi, non hanno belle case dove rifugiarsi, non partono per i weekend. Soprattutto, «i ghetti di solito li fanno in periferia. Qui il ghetto per gli immigrati è il centro storico» dice la «donna forte» della Lega, Simona Bordonali, probabile presidente del consiglio comunale. «Anche Brescia ha il suo Muro. Un Muro trasparente » sostiene il nuovo sindaco, Adriano Paroli, Pdl. Un Muro tra la zona Sud del centro dove ancora prevalgono i bresciani, sia pure chiusi in casa, e la zona Nord. Il quartiere del Carmine, con l'asilo nido dove il 70% dei bambini sono stranieri, e con i seggi dove gli italiani rimasti hanno plebiscitato — 27 punti di vantaggio, quasi il doppio che nel resto della città — Paroli, accento sulla a, 46 anni non dimostrati. Il Guazzaloca di Brescia («il Walesa» ha scritto su Libero il neodeputato Pdl Renato Farina), che ha portato per la prima volta la destra al governo della capitale del cattolicesimo democratico. La città di Giovanni Battista Montini, il Papa del Concilio che Cossiga definisce il vero fondatore della Dc, e di Mino Martinazzoli, che della Dc fu l'ultimo segretario, e nel '94 fu anche il primo sindaco eletto da un'alleanza tra cattolici progressisti e postcomunisti che qualche tempo dopo sarebbe stata chiamata Ulivo.


Il Guazzaloca di piazza Loggia
Chi ha frequentato Giurisprudenza alla Statale di Milano negli anni '80, ai tempi del riflusso, ricorda un'unica presenza organizzata. Una cooperativa legata a Comunione e liberazione, la Cusl, che procurava tutto, dai libri all'alloggio. Il capo era lui, Paroli. Nel '91, dopo il servizio militare nei carabinieri, era già assessore democristiano nella sua Brescia. Leggeva Pasolini, ascoltava il Guccini della Locomotiva, sui tazebao scriveva frasi di Milos, nel linguaggio immaginifico caro ai ciellini: «Pensi dunque l'uomo a bere il caffè e dare la caccia alle farfalle; chi ama la res publica avrà la mano mozzata ». Lui sostiene che il significato è semplicissimo: «Chi va oltre se stesso, chi si occupa del bene comune, rischia di finire male. Noi non siamo contro il '68, perché nel '68 riconosciamo un desiderio di infinito». I modelli, però, sono altri. Berlusconi, con cui Paroli nell' 86 passò una giornata intera al meeting di Rimini, restandone folgorato: «Una persona meravigliosa. Chi oggi lo odia, se avesse l'occasione che ho avuto io di conoscerlo, lo amerebbe». E Flavio Tosi, il sindaco di Verona, celebre per essersi presentato al consiglio comunale con la tigre del circo padano al guinzaglio, aver tolto il ritratto di Napolitano dall'ufficio e ora ammainato il tricolore. «D'accordo, Tosi non sarà un genio della politica — dice Paroli —. Ma è un uomo serio: si è impegnato a fare quel che i veronesi chiedevano. Corsini, il mio predecessore, pretendeva di spiegare ai bresciani quel che era utile per loro». I motivi della storica vittoria, sostiene il nuovo sindaco, sono tre. L'accordo ampio tra i partiti, compreso l'Udc, suggellato dal voto di 16 mila iscritti e da un congresso. La campagna elettorale, «con due momenti di svolta: l'intervista pubblica che mi ha fatto Carlo Rossella; e l'incontro con Magdi Allam agli Artigianelli. Sono venute 1500 persone. Ora chiederò ad Allam consigli su come integrare gli immigrati». Gli immigrati sono il terzo motivo. Sul programma del vincitore è scritto: «Tolleranza zero, almeno per due anni». Cosa significa? «Niente residenza a chi non ha un contratto d'affitto e un reddito minimo garantito, diciamo tra 5 e 8 mila euro l'anno. Polizia municipale nelle strade anziché in ufficio. Nuove unità cinofile, insomma con i cani antidroga. Progetto "posso girare da sola" per le donne. Ripulire la stazione, che oggi è il ritrovo degli sbandati, degli accattoni, delle prostitute. Ripulire il centro storico: via tutti gli ambulanti; distinguere tra gli immobili da conservare e quelli da sostituire, magari con strutture moderne in vetro e acciaio, come a Parigi e Berlino; separare le attività utili da quelle dannose, che diventano luoghi di adunate improprie e di disturbo. Quindi, chiudere i phone-center di via san Faustino ». Non ci sono donne straniere, nei phone-center, nei kebab bar, neppure nei supermercati. Le immigrate sono chiuse in casa, come i bresciani. Le europee — ucraine, moldave, romene, russe — si incontrano la domenica mattina in via dei Mille: sono badanti e prostitute, quindi utili e benvolute. Molte asiatiche e africane sono arrivate per un matrimonio combinato e hanno conosciuto il promesso sposo come secoli fa le infante di Spagna: per ritratto, o meglio per fotografia. Se stanno male, al pronto soccorso va il marito, a descrivere o mimare i sintomi; potessero, andrebbero loro anche a partorire, capita sovente che la mamma arrivi con il cordone ombelicale in mano e un bambino nato in auto. Quasi nessuna parla italiano. Le più informate hanno un quotidiano, Urdu News, nella loro lingua. Una ragazza pachistana di 24 anni, una delle poche a essersi integrata davvero, faceva da interprete: quando i carabinieri portavano nella caserma di piazza Brusato un suo connazionale, la mandavano a prendere perché traducesse. Fino a quando, alle 10 di sera del primo luglio 2006, è arrivata da sé, inseguita dai familiari che picchiavano alla porta infuriati, ripetendo in lacrime agli amici carabinieri: «Nascondetemi, quelli mi vogliono linciare». Un mese dopo, qui vicino, a Sarezzo, un'altra ventenne pachistana, Hina, è stata sgozzata e sepolta nell'orto di casa perché voleva vivere come gli italiani e sposarne uno. Tre delitti in dieci giorni. Una studentessa di 23 anni, Elena Lonati, uccisa dal sacrestano cingalese, chiusa in un sacco di plastica e nascosta sotto la scala del pulpito: non voleva saperne di uscire dalla chiesa. Un pittore di 71 anni, Aldo Bresciani, casa di fronte alla stazione, accoltellato e avvolto in un tappeto da un maghrebino, oggi in ospedale psichiatrico. Il sindaco Corsini dichiara che con questi fanno sei omicidi, proprio come l'anno prima. È vero. Ma non è ciò che i concittadini vorrebbero sentirsi dire. La più votata della Lega, dopo il segretario cittadino Fabio Rolfi, è una donna di 36 anni, Simona Bordonali. Studentessa fuori corso in lingue, un lavoro da rappresentante di gadget pubblicitari lasciato per la politica. Appassionata di musica irlandese — non solo gli U2 ma gruppi che si chiamano Cranberries e Clannad —, leghista da quando faceva il ginnasio. «Fuori dalla scuola davano volantini contro la Lega e i barbari che volevano dividere l'Italia. Andai a una sezione della Lega. Dopo qualche mese fecero una festa, e venne Bossi. Fece l'alba a parlare con noi». In sezione ha conosciuto suo marito. È diventata un capo per aver condotto la lotta contro il Residence Prealpino: costruito negli anni '80 per i funzionari delle aziende bresciane, occupato negli anni '90 dai senegalesi. «Sono arrivati a essere anche ottocento — racconta lei —. Il Prealpino era diventato la loro cittadella, era conosciuto pure a Dakar, non dicevano "vado in Europa" ma "vado al Residence". Una Tortuga, un'isola in cui non valevano regole e ti offrivano ogni sorta di droga e prodotto contraffatto». E giù petizioni alla prefettura, alla provincia, al comune di Bovezzo (il Prealpino è nel suo territorio, ma dall'altra parte della strada c'è Brescia). Alla fine, lo sgombero c'è stato. «Ma manca ancora una scala! Se è per questo, hanno sgomberato pure il campo nomadi, e hanno costruito per loro 13 villette con giardino: un insulto ai vecchi che non trovano posto nelle case di riposo, ai giovani che non possono sposarsi perché non hanno casa». Comunque, dice la Bordonali, la sinistra non ha perso solo sugli immigrati. Anche sul traffico. Sui cantieri infiniti della metropolitana. Sulle ambulanze che «un tempo ci mettevano in media otto minuti e adesso venti». Ha perso «non per un cambio culturale, ma perché la città era male amministrata ». Parola di leghista.


Il parroco del «ghetto»
«Non è stata una questione ideologica. Non vedo svolte. I bresciani non hanno cambiato testa. In fondo, i due candidati erano entrambi cattolici. Democristiani. Ha vinto chi ha interpretato meglio i sentimenti dei cittadini». Lo dice anche don Gabriele Filippini, per vent'anni direttore del settimanale diocesano La voce del Popolo, ora parroco di San Nazzaro, la parrocchia del centro dove predica padre Renato Laffranchi, di cui si dice in città che vengano da mezza Lombardia per ascoltarlo. La Curia, che nelle categorie dei laici è da sempre progressista, da sei mesi è retta dal vescovo Luciano Monari, amico di Ruini ma considerato in linea con la tradizione locale, incarnata dal vescovo ausiliare Francesco Beschi. Insomma, i vertici della Chiesa bresciana non sarebbero stati dispiaciuti da una vittoria del candidato del centrosinistra, Emilio Delbono. Ma, nei seggi dei due ospedali gestiti da religiosi, ha prevalso nettamente Paroli: al Sant'Orsola di 18 punti, al Poliambulanza di 22. Don Filippini assicura che i suoi parrocchiani restano persone di cuore, e non hanno smesso di praticare solidarietà e rispetto. Però, spiega, bisogna capire che può essere duro vivere accanto a sconosciuti che non capiscono né il dialetto né l'italiano, che magari non fanno nulla di penalmente rilevante ma gettano la spazzatura in strada o cucinano con spezie misteriose o tengono la musica alta tutta notte, e in una parola vivono come non fossero a Brescia. La paura, sostiene il parroco, è un sentimento legittimo, quando vedi i posti in cui sei cresciuto e invecchiato pieni di gente di altro colore, di «volti pallidi dell'Est, scuri dal Maghreb, neri dall'Africa», e non ti orienti più. Dice che la nuova giunta va bene, purché tenga fede alla tradizione della città: l'attenzione ai deboli, l'assistenza agli anziani, la «finanza sociale». Conferma l'unico uomo del centrodestra bresciano che andrà a Roma al governo, il deputato di An Stefano Saglia, probabile viceministro alle Attività produttive con delega all'energia: «Io sono sempre stato dall'altra parte, ero tra i giovani del Msi. Ma non posso non riconoscere che il cattolicesimo "manzoniano" a Brescia, da Mino Martinazzoli a Giovanni Bazoli, ha espresso una cultura di grande ricchezza, il cui peso si fa sentire eccome, ancora oggi. Già ai tempi della Dc questa era una sorta di diga: una città progressista, isolata nella provincia di Prandini e della Dc dorotea». In città c'era Martinazzoli. Ed è proprio lui a dire che forse una svolta c'è stata davvero. «Finisce una presenza organizzata dei cattolici. Si chiude un'epoca che non è iniziata con me, che durava da molto più di quattordici anni: il centrosinistra era nato con il sindaco Boni, negli Anni '60. Finora avevamo tenuto perché la destra era divisa. Ora siamo ritornati al '93, al '94, gli anni della Lega al 30% e di Berlusconi giovane». Con la differenza che la sinistra non ha un Martinazzoli con cui allearsi. In ogni caso, uscirne non sarà facile neppure per la destra. Ad esempio non sarà facile chiudere tutti i phone- center di via san Faustino, da cui a notte fonda, quando telefonare costa meno, si alzano le voci di quelli che non hanno altri contatti con il mondo, che non si integrano e, soprattutto, non votano.

Aldo Cazzullo
20 aprile 2008

da corriere.it
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« Risposta #13 inserito:: Aprile 21, 2008, 01:48:36 am »

Incontro con Berlusconi. A Formigoni potrebbe andare la presidenza del Senato

Vertice ad Arcore: Bossi alle Riforme

Alla Lega anche il Viminale, torna Maroni

Ai leghisti anche l'Agricoltura e un vicepresidente del Consiglio (Calderoli). Castelli verso il Pirellone

 
MILANO - Verso le 20,30 i verdetti sono arrivati. Li ha annunciati Umberto Bossi, leader della Lega, al termine del vertice ad Arcore, nella residenza di Silvio Berlusconi. C'era da decidere la «quota» della Lega nel governo che Berlusconi dovrà formare e la decisione è stata presa. «Sono soddisfatto - ha detto Bossi lasciando villa San Martino - se le cose sono così sono soddisfatto. Io vado al ministero delle Riforme. Il ministero dell'Interno va a Roberto Maroni, la vicepresidenza del Consiglio a Calderoli e il ministero delle Politiche agricole a Luca Zaia». Da aggiungere un altro particolare: se come probabile, Roberto Formigoni, attuale «governatore» della Lombardia, otterrà la presidenza del Senato, ci sarà un'altra importante poltrona, quella della presidenza della Regione Lombardia, cui ambisce la Lega Nord, anche per forti motivi simbolici. E viste le «assegnazioni» ministeriali decise ad Arcore, il candidato sarà Roberto Castelli, ex ministro della Giustizia.


LE IPOTESI PRIMA DELL'INCONTRO - Il vertice era cominciato intorno alle 17. Oltre al Cavaliere, c'erano Giulio Tremonti e Sandro Bondi per il Pdl e Umberto Bossi, Roberto Maroni e Roberto Calderoli per il Carroccio. L'incontro era stato fissato per lunedì pomeriggio ma è stato anticipato di un giorno, sperando di chiudere con un giorno di anticipo la composizione del nuovo governo. Nelle prime ipotesi a Maroni sarebbe toccato un «superministero» con le Attività produttive e la delega sulle Comunicazioni Invece la decisione finale lo fa tornare a un incarico delicato, quello di ministro dell'Interno, già ricoperto nel 1994, nel primo governo Berlusconi, durato tuttavia molto poco proprio per il «ribaltone» della Lega che vide in quell'occasione Maroni contrario alla linea scelta da Bossi. Il Viminale era comunque «conteso» dal Pdl. La Lega deve avere insistito per aggiungere significato simbolico alla campagna sulla «sicurezza» e per le posizioni assunte sui temi dell'immigrazione. Era scontato invece che la Lega ottenesse il ministero che i occupa di Riforme, visto che cercherà di rimettere in campo le norme approvate nel finale della legislatura nel precedente governo berlusconiano e poi cancellate dal referendum. Meno prevedibile invece che alla Lega toccassero le Politiche Agricole, con il leghista veneto Zaia.


20 aprile 2008

da corriere.it
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« Risposta #14 inserito:: Aprile 21, 2008, 10:30:52 am »

La battaglia del federalismo

Stefano Fassina


I risultati elettorali del 13 e 14 Aprile e, in particolare, la netta affermazione della Lega Nord, hanno riportato al centro dell’agenda politica il federalismo fiscale. In realtà, si dovrebbe dire «federalismo finanziario», poiché la partita riguarda sia le entrate che le spese delle pubbliche amministrazioni, come indica l’originario aggettivo fiscal tradotto impropriamente in italiano. L’impropria traduzione non è semplicemente un incidente filologico, quasi da «Un americano a Roma». È un segnale della cultura federalista prevalente. Ed ha, quindi, forti implicazioni politiche, come vedremo più avanti a proposito della risoluzione sul federalismo del sedicente «Parlamento del Nord» deliberata il 2 Marzo scorso.
Il federalismo è un tema estremamente rilevante per varie ragioni e non va declassato a primo banco di prova della effettiva coesione politica della destra alla prova di governo.

Il tema è rilevante innanzitutto perché l’attuale assetto federale come disposto dal Titolo V della Costituzione, approvato in fretta ed in chiave elettorale dal centrosinistra nel 2001, non funziona e va rivisto: la confusione generata dalle "materie di legislazione concorrente" nel migliore dei casi complica, ma molto spesso paralizza, l’intervento pubblico in ambiti fondamentali per i diritti dei cittadini e decisivi per le performance delle imprese (si pensi, solo per fare qualche esempio dell’assurda estensione della concorrenza legislativa, alle politiche di previdenza complementare, alle politiche per le infrastrutture, alle politiche energetiche, ecc). In secondo luogo, il tema del federalismo finanziario è rilevante in quanto, opportunamente declinato, è condizione per rafforzare la partecipazione democratica dei cittadini secondo il principio della sussidiarietà e per migliorare l’efficienza e l’efficacia delle amministrazioni pubbliche secondo il principio autonomia-responsabilità politica.

Non a caso, il Governo Prodi a metà 2007 approvò, dopo una lunga e faticosa discussione con la Conferenza Unificata Stato-autonomie territoriali, un Disegno di Legge Delega, poi bloccato, come tanti altri provvedimenti innovativi seri, dalle contraddizioni e dalla fragilità dell’allora maggioranza di centrosinistra. Infine, il tema è rilevante, perché usato da alcune forze politiche rilevanti (la Lega Nord è indubbiamente tale) come strumento non per migliorare, ma per annullare il patto scritto nella Costituzione della Repubblica e per ridimensionare, fino ad una dimensione simbolica, le fondamenta dello stare insieme degli italiani. Infatti, la Lega propone un ordinamento federale articolato in tre Euroregioni, dotate di "sovranità esclusiva…in termini di potere legislativo, amministrativo, giudiziario", dopo aver preso atto che "il processo di disgregazione e di dissoluzione dello Stato nazionale…. procede a ritmi sempre più rapidi ed è ormai giunto al capolinea….. che lo Stato ha abdicato alla propria sovranità in molte realtà regionali e in plurime circostanze (le così dette -e orami quotidianamente all’ordine del giorno- ’emergenze’: rifiuti, immigrazione, ecc)….che, a partire dagli anni Novanta, è sotto gli occhi di tutti la suddivisione del Paese in tre grandi unità regionali, omogenee ed affini dal punto di vista economico, sociale e culturale".

Data la posizione delle Lega, la discussione di questi primi giorni post shock elettorale è surreale. Non pochi esponenti del Pd, in vista degli immancabili talk show, si affannano a capire i dettagli tecnici del disegno federalista della Lega, si misurano con aliquote di compartecipazione alle principali imposte erariali e con l’elenco dei tributi da trasferire a Regioni, Province e Comuni. Non affrontano in via preliminare la questione di fondo posta dalla Lega e da una parte di quanti l’hanno votata: vogliamo rilanciare su basi adeguate l’unità della nazione o condividiamo la lettura della dissoluzione irreversibile della Stato nazionale? Di conseguenza, a che cosa finalizziamo il federalismo finanziario? Quali materie vogliamo attribuire alla competenza delle autonomie territoriali? Quali diritti essenziali e quali funzioni fondamentali riteniamo debbano essere garantite sul territorio nazionale, indipendentemente dalla capacità fiscale di ciascun territorio?

Il manifesto elettorale della Lega indica che "indipendentemente dalle competenze costituzionali, le singole Regioni hanno diritto di affrancarsi dallo Stato centrale per l’ottenimento dell’autonomia fiscale"… "allo Stato centrale sono attribuiti: il 50% delle imposte dirette (Irpef ed Ires), il 50% dell’Iva, le accise su tabacco, alcolici e sugli olii minerali, l’imposta di bollo, le imposte sui capitali e le assicurazioni, i dazi doganali. Di competenza delle Regioni sono: il 50% delle imposte dirette (Irpef ed Ires), il 50% dell’Iva, l’imposta di successione e donazione, le imposte sugli immobili, le tasse sui giochi, la tassa di circolazione, l’imposta di registro, l’imposta sugli spettacoli, l’Irap."… "Ogni Regione può autonomamente decidere per quale quota di imposte affrancarsi con un limite massimo del 90% del proprio gettito territoriale".

Nella proposta della Lega, ma anche in quella approvata dal Consiglio Regionale della Lombardia, la portata dello spostamento di risorse dall’ambito nazionale agli ambiti territoriali è tale da svuotare di funzioni il Governo nazionale e da eliminare ogni possibile significativa applicazione dei principi di solidarietà e coesione sociale previsti dalla Costituzione. È tale rendere impraticabile la promozione e tutela di diritti essenziali e l’effettivo esercizio di funzioni fondamentali sul territorio nazionale. Per una ragione semplice: la capacità fiscale dei territori italiani è molto diversa e ha cause molto profonde, difficilmente reversibili nel periodo di transizione immaginato: ad esempio, in termini di Irpef pro-capite, la Lombardia versa 3 volte l’importo della Calabria; per l’imposta pagata dalle società di capitali, il rapporto tra quanto versato per abitante in Calabria e in Lombardia è 1 a 10; per l’Iva (misurata sui consumi finali di ciascuna regione), tale rapporto è 1 a 2.

In sintesi, anche un rapido superamento delle enormi "inefficienze" amministrative presenti nelle regioni a minore capacità fiscale, ossia anche il passaggio dal criterio della spesa storica al principio del costo standard per determinare i flussi di trasferimenti dal bilancio dello Stato ai bilanci delle autonomie territoriali, lascerebbe molte regioni italiane prive delle risorse necessarie a garantire parità di diritti costituzionali.

La discussione sul federalismo finanziario non deve avere il Pd come spettatore, in attesa della eventuale esplosione delle contraddizioni della maggioranza. Al contrario, il Pd deve insistere affinché il tema sia inserito quale primo punto dell’agenda delle riforme istituzionali, ossia dell’agenda da affrontare in via bipartisan. Che senso ha continuare a chiedere di fare insieme la legge elettorale, la riduzione del numero dei parlamentari, la revisione della divisione di poteri tra esecutivo e legislativo, quando una parte intende ridefinire da sola le basi materiali dell’unità della Repubblica? E noi del Pd, prima di fare il Partito del Nord, non dovremmo dire che Paese vogliamo essere?


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Pubblicato il: 20.04.08
Modificato il: 20.04.08 alle ore 8.16   
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