LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => LA-U STORICA 2 -Ante 12 maggio 2023 --ARCHIVIO ATTIVO, VITALE e AGGIORNABILE, DA OLTRE VENTANNI. => Discussione aperta da: Admin - Luglio 12, 2007, 06:59:00 pm



Titolo: LEGA e news su come condiziona il governo B.
Inserito da: Admin - Luglio 12, 2007, 06:59:00 pm
La via padana al leader

Oreste Pivetta


Prima di prendere a calci nel sedere il figlio maggiore, Riccardo, candidato all’Isola dei famosi, trasmissione cult di Raidue, direttore Antonio Marano, in quota Lega, Umberto Bossi ha rinnovato la tradizione padana, cresimando Roberto Maroni erede universale. Per ora. Per ora, soltanto, perché il Bossi padrone dittatore monarca si sa che è volubile, capriccioso, dispotico e di eredi ne ha già cresimati alcuni. Aveva cominciato con il giovane Giorgetti, segretario della Lega Lombarda, schieramento varesino.

Ma un bel giorno, trascorse le ore peggiori della malattia, s’affacciò alla finestra di una clinica di Lugano (non proprio Padania), mostrando alla folla plaudente il figlio Eridano, quello riccioluto con il nome antico del Po, studente presso la scuola bosina di Varese, che non dev’essere proprio una scuola d’alti studi amministrativi, tipo l’Ena parigina (ora quasi tutta a Strasburgo). Quel gesto parve a molti analisti di cose bossiane una sorta di investitura: di padre in figlio, tutto normale.

Roberto Maroni, l’amico delle prime battaglie all’ombra del Carroccio, era sempre rimasto in disparte, taciturno e schivo per natura, capace dei più duri sacrifici in onore del capo, senza timore di sputtanarsi con le più azzardate dichiarazioni, giusto per vedere l’aria che tira e per consentire a Bossi di smentire e aggiustare la linea. Come quando andò a Brescia per trattare un patto con Mino Martinazzoli, per ascoltare poche ore dopo Bossi che definiva la Dc un covo di lumache bavose. Fedele nei secoli, anche se pure lui fu, un giorno lontano, fu a rischio opposizione e quindi a rischio espulsione.

Di successione a Bossi nella Lega si cominciò a parlare, in gran silenzio, ovviamente dopo la malattia del capo. Nessuno che usasse pronunciare la parola. La Lega, per rispetto dei legami parentali, la prese in mano la seconda moglie di Bossi e madre di Eridano, Manuela Marrone, che affiancò Maroni, Calderoli, Giorgetti, Castelli. Nel direttorio si infiltrò Rosi Mauro, allora segretaria del sindacato padano, oggi consigliere regionale, per solidarietà femminile. Perdurando malattia e convalescenza, grazie alla malevola curiosità dei massa media, qualcosa delle ambizioni segrete fu divulgato: Calderoli, il governativo poltronista, si candidava, Maroni lo candidavano in contrapposizione.

L’ultima dichiarazione, nella solennità di una intervista al settimanale Gente, chiuderebbe la discussione, fino almeno a domani mattina. Maroni chi può contestarlo? Forse l’ala più berlusconista che c’è, sempre capeggiata da Calderoli. Bisognerà capire quanto l’investitura di Maroni rimarrà in piedi e quanto abbia eventualmente cambiato idea Maroni, interprete del trattativismo con il centrosinistra sull’altare delle conquiste federaliste. «Dopo di me, penso a Maroni» (queste le parole di Bossi) ha il sapore di un ben più celebre «Dopo di me, il diluvio». Insomma roba da iettatori. La verità amara è che la Lega ha tenuto nel corso della sua storia decine di congressi e di parlamenti, migliaia di riunioni e di assemblee, ma in pubblico non ha mai discusso di politica e tanto meno quindi di leadership. La cronaca di un congresso è un’esemplare controprova di tutte le teorie sulla crisi della politica, sulla crisi dei partiti, sul trionfo dell’antipolitica. Sono i soliti quattro che decidono ed il solito Uno che decide più di tutti. Umberto Bossi che va e che viene, che prende la parola e che la toglie, che va al palco per le conclusioni e poi riconclude. All’ultima Pontida gli riuscì il colpo di ridurre al silenzio l’intero direttorio, Calderoli Castelli Maroni Giorgetti, già con il microfono in mano. Altro che le primarie di quegli indecisionisti del partito democratico.

Bossi, peraltro, si specchia in Berlusconi, al quale ancora giura amore eterno. O Berlusconi si specchia in Bossi e nella sua cultura della democrazia (anche ovviamente dei meccanismi democratici della rappresentanza). Lui, il Berlusconi, ai congressi neppure ci pensa. Gli è capitato in passato. Ma non è il caso di insistere: è il popolo che lo vuole. Compiendo settant’anni, dopo qualche mancamento, anche Berlusconi ha cominciato a pensare all’eredità, non quella che conta (la partita è già sistemata tra i figli), ma quella politica. Così s’è inventato la rossa schiarita Brambilla, salumiera con il pallino adesso dei circoli della libertà, del giornale della libertà e della tv della libertà. Però Tremonti s’è irritato.

Pubblicato il: 12.07.07
Modificato il: 12.07.07 alle ore 8.47   
© l'Unità.


Titolo: LEGA di governo (il populismo al potere. ndr).
Inserito da: Admin - Aprile 16, 2008, 11:51:29 am
L'intervista

Ciampi: Bossi? La Lega è cambiata

Subito riforme, Silvio non ha alibi

L'ex capo dello Stato: sorpreso dal successo del centrodestra


Presidente Ciampi, dopo i risultati del voto possiamo dichiarare chiusa la Seconda Repubblica?
«Prima, Seconda o Terza Repubblica sono definizioni che per me non hanno molto senso. Di sicuro, sia pur senza storicizzare su quei canoni la stagione che si apre adesso, siamo entrati in una fase più matura per la politica e le istituzioni. Credo che si possa riconoscerlo per almeno due motivi: 1) dalla campagna elettorale a ieri, tutto si è svolto nel massimo ordine e, sostanzialmente, nel rispetto dei diritti di ciascuno; 2) il bipolarismo si è consolidato, anche se a prezzo di dolorose esclusioni dal Parlamento». Allude alla scomparsa della sinistra cosiddetta «radicale»? «Sì. Partiti che offrivano, se non una vera e propria camera di compensazione del conflitto sociale, comunque un riferimento di rappresentanza per le frange più estreme. La loro uscita di scena rischia di aprire incognite pericolose».

Si aspettava un'affermazione così netta del centrodestra?
«Eravamo tutti influenzati dall'idea che la legge elettorale non potesse consentire un simile scenario, dunque sono rimasto piuttosto sorpreso. Ora, i numeri incassati dai vincitori sono tali da legittimare non solo l'incarico a governare (per quello basta una preferenza in più), ma a farlo avendo alle spalle una larga maggioranza e con un'intera legislatura come orizzonte. Davanti a questa opportunità, che naturalmente vale per il centrodestra come per il centrosinistra, nessuno potrà accampare alibi. Le difficoltà sono enormi, ma l'Italia ha in sé le capacità per esprimersi al meglio, ciò che negli ultimi anni non era invece riuscita a fare». Quel deficit d'iniziativa che ha penalizzato l'esecutivo Prodi, imploso su se stesso anche per non aver avviato soluzioni strutturali? «Per la verità il Paese è bloccato da tempo, già da prima del biennio del centrosinistra. Certo, tra il 2006 e il 2008 la tenuta di Palazzo Chigi si è retta soltanto su fragilissimi fili ed era messa alla prova ogni giorno da compromessi, strappi, condizionamenti e mediazioni. Perciò quel governo ha sempre avuto il fiato corto e, nonostante la pazienza negoziale del premier, alla fine è caduto».

Quale dovrebbe essere la «missione » di Berlusconi?
«L'emergenza assoluta è sul fronte dell'economia e su quello sociale, con riferimento particolare alle famiglie che si ritrovano a far quadrare i loro bilanci in condizioni di maggiori ristrettezze... Non possiamo permetterci ancora una posizione di retroguardia in Europa. Ma va accelerato pure il risanamento dei conti pubblici, che a cavallo del 2000 ha avuto una battuta d'arresto e che solo di recente era stato rimesso in moto. Servono poi programmi urgenti per rilanciare sviluppo e competitività, con investimenti su ricerca e istruzione pubblica. Il tutto tenendo conto di uno scenario mondiale globalizzato che presenta problemi di una profondità sconvolgente e destinati ad accentuarsi (vedi il fortissimo aumento dei prezzi delle materie prime alimentari, come grano e riso), con il rischio di conseguenze geopolitiche imprevedibili e preoccupanti. Dal dopoguerra non si è mai presentata una situazione così complessa, tale da richiedere una collaborazione internazionale in grado di produrre scelte politico-finanziarie lungimiranti e coerenti».

Non andrebbero messe nell'agenda delle priorità anche le riforme istituzionali?
«Ovvio che sì. Durante la campagna elettorale sono uscite indicazioni importanti per una responsabilità bipartisan su questa materia, per riforme condivise, mirate a rafforzare le istituzioni e a snellire la macchina dello Stato. I leader dei due fronti si sono impegnati a farle, nelle settimane scorse. Le facciano. Ma nei confini dei due princìpi chiave della Carta costituzionale: libertà dei cittadini e unità del Paese». C'è chi teme che Bossi, forte del boom elettorale, tenga in ostaggio il governo e punti a una secessione di fatto. «Non vedo questo pericolo, non ci credo. Anche la Lega ha avuto una sua evoluzione. Ricordo alcune mie tappe, da Varese alla Val Brembana, e i dialoghi con tanti sindaci leghisti presenti con la loro fascia tricolore. Quel Nord rivendica un diritto sul quale siamo tutti d'accordo: il federalismo fiscale, che certo non nega i fondamentali diritti di solidarietà verso le parti più deboli dell'Italia. E qui non intendo una politica degli oboli, ma della solidarietà, così come è chiaramente affermata nella nostra Costituzione».

Dall'entourage di Berlusconi stavolta nessuno ha fatto echeggiare il grido «non faremo prigionieri».
E' cambiato anche lui? «Le sue prime dichiarazioni dimostrano che è consapevole della gravità della sfida. E' vero, viviamo da 15 anni in una situazione politica complessa e di conflitto a volte artificialmente esasperato, al di là dell'obiettiva gravità dei problemi. Oggi servono soluzioni strutturali, che si possono costruire a patto di rianimare le volontà positive degli italiani, a partire da uno spirito di orgoglio e fiducia collettivi. Ripeto: i problemi interni e internazionali sono seri, ma dico no alla sfiducia e un no ancor più forte all'indifferenza. Sta a Berlusconi fare una buona squadra di ministri (e molti politici che non avevano esperienza ora ce l'hanno) e rendere più coesa l'Italia, che ha bisogno di essere governata con efficacia. Spero anche che il futuro premier mantenga saldo il nostro ancoraggio all'Europa, fuori dalla quale saremmo perduti ».

E della sconfitta del Partito democratico, che cosa pensa? Era davvero scontata?
«Era una partita molto ardua, quella giocata da Walter Veltroni. Ha fatto un investimento sul futuro, che ha comunque prodotto un'innovazione importante, semplificando il nostro frammentato quadro politico e anche, per i toni da lui usati, disintossicando un po' il clima. Gliene va dato atto».

Marzio Breda
16 aprile 2008

da corriere.it


Titolo: La nuova Lega: operai e impiegati.
Inserito da: Admin - Aprile 16, 2008, 11:52:35 am
La spinta di centinaia di sindaci

La nuova Lega: operai e impiegati

Scelta da operai e impiegati



A Bologna raddoppia i voti e alla Fiat Mirafiori aprirà una sezione. È la Lega che cambia, che sfugge al folclore delle origini e raccoglie voti a Milano centro, a due passi da Piazza Affari. ABologna, dove ha raddoppiato i voti e dove ora il segnale di radio Padania arriva forte e chiaro. Nelle Marche, dove per la prima volta nella sua storia ottiene un parlamentare. E in fabbrica, alla Fiat Mirafiori, dove nei prossimi giorni aprirà una sezione. È la Lega che cambia, un partito dai mille volti, che sfugge al folclore delle origini, alle semplificazioni dei media, alle demonizzazioni degli avversari. La Lega che esce dalle urne trionfante prende voti a sinistra, tra gli operai e gli impiegati, e ruba voti a Berlusconi, tra gli imprenditori. È un Carroccio che resta solidamente ancorato nelle valli ma riesce a penetrare anche nelle grandi città. Una Lega che continua a sfruttare le paure degli italiani—i clandestini, la sicurezza, gli islamici — ma che prospera anche grazie a una classe dirigente solida, cresciuta sul territorio. Una miriade di sindaci, oltre duecento, che non scendono in piazza, non imbracciano fucili, ma leggi, cavilli e ordinanze.

Tutti i numeri
I numeri della Lega sono impressionanti. Oltre tre milioni di elettori alla Camera, poco più di due milioni e seicentomila al Senato. Solo in Lombardia si arriva oltre il milione e 300 mila, mentre due anni fa la Lega aveva raccolto un milione e 700 mila voti in tutta Italia. «Solo oggi— dice Gianfranco Salmoiraghi, custode della militanza della federazione milanese — abbiamo ricevuto 30 richieste di tesseramento». Il precedente tetto delle tessere, a livello nazionale, era arrivato nel 1996 del trionfo, con l’ultima Lega «dura e pura», candidata da sola contro Prodi e Berlusconi. Allora furono 145 mila, poi scesero fino a 120 mila, a cavallo tra il 2000 e il 2001, poco prima del tracollo elettorale che portò il partito al 3,9%. Poi, spiegano da via Bellerio, una risalita costante e una nuova esplosione a partire dal 2004, fino ai 150 mila di oggi: uno ogni venti elettori della Camera. Per dare un’idea delle proporzioni, dei 12 milioni di elettori del Pd alla Camera, un milione e 300 mila hanno ritirato il certificato di adesione. A proposito di effervescenza del movimento, la piccola esperienza di radio Padania, sotto la guida di Giulio Cainarca, ha visto raddoppiare i propri ascoltatori in tre anni, che oggi sono 100mila.

Il caso Emilia Romagna
Sergio Cofferati minimizza: «A Bologna la Lega ha avuto il risultato più basso di tutta la regione ». Vero, ma ha raddoppiato i voti. Nelle urne sono piovute 5.214 firme in più. «Ha pagato— spiega Angelo Alessandri, presidente della Lega nord, di Guastalla—la nostra battaglia contro la super mega-iper-moschea. Cofferati ora dice che va avanti lo stesso. Bene, prenderemo ancora più voti. E se non ne abbiamo presi di più è perché ci copia: ha appena inaugurato le ronde». Il successo nell’Emilia ex rossa è tanto travolgente quanto sorprendente. I parlamentari ormai sono sei, i consiglieri 300. A Guastalla è al 15 per cento, come a Cento di Ferrara, dove ha un assessore. E a Fiumalbo (Modena) arriva al 30. A Reggio Emilia è all’8, a Modena al 9 e a Piacenza al 14. «Da quattro legislature non facciamo che crescere—dice Alessandri— La sinistra forse dovrebbe fermarsi e dirselo chiaramente: Houston, c’è un problema».

La prima volta nelle Marche
Si chiama Luca Rodolfo Paolini, ha 48 anni, è un avvocato di Fano ed è il primo deputato della Lega nelle Marche. «Nel Montefeltro abbiamo sfiorato il dieci per cento». Perché anche le Marche abbiano ceduto alle lusinghe del Carroccio, lo spiega con parole chiare: «Qui c’è gente che vive con 1000 euro al mese. E i figli dei clandestini non pagano nulla». Nelle Marche spira anche un forte vento secessionista: alcuni Comuni vogliono passare all’Emilia-Romagna, appoggiati dalla Lega. E sono proprio quelli che decollano: Mercatello sul Metauro, 7,93 per cento e Casteldelci 7,91%.

I piccoli Comuni
A guidare la nuova Lega sono soprattutto i piccoli Comuni. Come Serina (Bergamo), dove Michele Villarboito governa con la percentuale record del 76,18 per cento. O come Cittadella, dove Massimo Bitonci è diventato famoso per l’ordinanza «anti sbandati», con la quale richiedeva agli immigrati un reddito minimo di 5 mila euro e almeno 14 metri quadrati per abitante in un alloggio. Lo contestarono tutti: oggi incassa il 42 per cento, doppiando il Pdl. Il segreto dell’affermazione della Lega, secondo Francesco Tabladini, ex storico della Lega, «sta proprio nel movimento dei sindaci». Con la sua ordinanza, che gli è valsa anche un’iscrizione al registro degli indagati, ha dato il via a un effetto a catena: «Bossi è stato ancora una volta il più rapido nel capirlo». L’ordinanza di Bitonci fu proposta a modello anche nella Opera incendiata dalla questione dei campi Rom dal capogruppo leghista, allora all’opposizione, Ettore Fusco. Il quale, il 13 aprile, è stato eletto sindaco con il 48% delle preferenze, in un Comune tradizionalmente operaio e popolare. Dove la Lega, per la Camera, ha più che raddoppiato le sue preferenze. Il movimento dei sindaci ha origine da Franco Bortolotti, eletto nel ’90 primo cittadino italiano della Lega, a Cene (Bergamo). All’inviato di allora, che lo guardava come un extraterrestre, spiegava placido: «Ma cosa credete, che stiamo qui a fare la rivoluzione?». Cene è restata leghista, senza rivoluzioni. Ora il sindaco si chiama Giorgio Valoti e incassa un incremento del 17 per cento. Il segreto? «Nella Bergamasca ci sono 40 sindaci che amministrano bene — spiega—Ci tacciano di insensibilità, ma non è così. Cerchiamo di integrare i nostri 300 immigrati, ma non vogliono. Le faccio un esempio: ogni anno piantiamo alberi per i nuovi nati. Invitiamo i genitori, tutti, ma gli immigrati non vengono mai».

Il consenso nelle fabbriche
«Siamo il partito degli operai» proclama Bossi. Rosy Mauro, sindacalista padana, già annuncia: «Basta con la Triplice, siamo nelle fabbriche, al fianco dei lavoratori. E vogliamo le gabbie salariali». Anche Valentino Parlato ne è convinto: «Ormai nella Cgil votano Lega». Che il Carroccio stia facendo breccia nelle fabbriche lo dimostra il caso Mirafiori: «Apriremo presto una sezione a Torino—spiega il militante Roberto Zenga, 46 anni, un passato di sinistra — Mercoledì, con Roberto Cota, abbiamo fatto un volantinaggio. Incredibile: nessuna protesta. Poi abbiamo appeso i volantini agli alberi: li ha portati via solo la pioggia. In altri tempi sarebbero durati cinqueminuti». Ma cosa offre la Lega agli operai? «La difesa del posto di lavoro— spiega Zenga — La sinistra li ha abbandonati, come il sindacato». E che tanti operai siano meridionali non è un impedimento: «Figuriamoci, non è più quella Lega lì. Mio padre è campano e tanti meridionali sono con noi». Tra i neo eletti leghisti c’è anche Emanuela Munerato, operaia in una azienda tessile a Rovigo. Antonio Panzeri, democratico lombardo e già leader della Cgil, riconosce il dato: «La Lega ha raggiunto un consenso formidabile anche nei ceti operai che, storicamente, si pensava guardassero altrove. Fanno premio la sua coerenza e le sue battaglie: il tema dell’immigrazione, la sicurezza, il federalismo fiscale, l’esigenza di semplificazione burocratica. Tutti temi, ormai, interclassisti».

Il ritorno della Lega Veneta
«La Lega è riuscita ad interpretare bisogni di una larga fascia dell’elettorato, ottenendo consensi che prima erano di Fi e An». Nicolò Ghedini, coordinatore di Forza Italia in Veneto, prende atto del risultato e si dimette. Questa tornata elettorale segna una data quasi storica per il movimento: il sorpasso della Lega veneta su quella lombarda. Non è la prima volta, era già successo nel ’96. Allora la Liga, guidata da Fabrizio Comencini, si sentì talmente forte da minacciare Bossi e da firmare un preaccordo elettorale con il centrodestra. Patto non riconosciuto dal Senatùr, salvo poi siglarlo lui stesso l’anno dopo. Una lezione che la Lega veneta ha imparato. E infatti Gian Paolo Gobbo, uno dei pochi dirigenti dell’epoca rimasti fedeli, si limita a chiedere timidamente un ministro veneto: Gianpaolo Dozzo o Francesca Martini. Ma perché la Lega va così bene in Veneto? Lo spiega Ghedini: «Ha intercettato il malcontento prima di noi». E soprattutto la richiesta di federalismo fiscale. Non è un caso che il governatore Galan ora la chieda con insistenza.

Milano capitale
Il 12,3% della Camera, a Milano dove non arrivava al 5%, è un'altra di quelle cifre che lasciano il segno. Gongolava, a spoglio in corso, il capogruppo milanese Matteo Salvini. «Non ci hanno votato i radical chic. Siamo andati fortissimo nei quartieri popolari, a Quarto Oggiaro e al Gratosoglio. Il lavoro sul territorio paga, ne tenga conto il sindaco Moratti». Non fa nomi a caso, Salvini, visto che la Lega supera la pur ragguardevole media cittadina in zona 9, che da porta Garibaldi si allunga fino a Niguarda, sfiorando il 14%. Ma va benissimo (12,63%) nella zona 8, che unisce la chic Fiera alla popolarissima Quarto Oggiaro. E nei quartieri a forte densità popolare e immigrata della stazione Centrale e della Bicocca, dove fa il 13%. Quello che difficilmente denota un voto popolare è l’11,25% che la Lega raccoglie tra i 60 mila votanti del centro storico. Sotto la Madonnina, a due passi da Piazza Affari.

Jacopo Tondelli Alessandro Trocino
16 aprile 2008

da corriere.it


Titolo: IL POPOLO DI BOSSI. Nelle fabbriche è falce e carroccio
Inserito da: Admin - Aprile 16, 2008, 11:54:31 am
16/4/2008 (7:24) - REPORTAGE - IL POPOLO DI BOSSI

Una lega di operai e imprese
 
Voto trasversale dietro il successo

Nelle fabbriche è falce e carroccio

GIOVANNI CERRUTTI


ROMA
Stupirsi dello stupore.
E’ capitato l’altra notte a Roberto Maroni, quando in tv ha visto i titoli delle prime edizioni. «Sembravano quelli del ’94 o del 2001, ma che la Lega faccia il pieno di voti al Nord è ancora una novità?».

E’capitato, ieri mattina, anche a Ilvo Diamanti, il sociologo vicentino che studia la Lega da quand’era bambina.
«Questa novità ha più di vent’anni -dice-, eppure dopo ogni votazione si fa finta che sia un inedito». Come la conquista dell’Emilia, dove aveva già un deputato e un senatore e adesso ne ha quattro più due.

I voti delle valli, delle città, delle periferie operaie.
Chi studia i flussi elettorali, come Diamanti, già vede la linea diretta che parte dalla Sinistra Arcobaleno, da falce e martello a Falce&Carroccio. E pure questa non è una novità assoluta. Dice niente la frase «La Lega nasce da una costola di sinistra»?. Per averla detta, Massimo D’Alema da sinistra è ancora canzonato. «Ma a Sesto San Giovanni -racconta Guido Salvini, neodeputato- se abbiamo triplicato i voti è perchè vengono da lì, dagli operai che hanno abbandonato la vecchia bandiera».

L’altra notte a Badoere, nel trevigiano, sotto il tendone della festa leghista, il parlamentare Giampaolo Dozzo si è fermato a un tavolo.
«Un imprenditore tessile con i suoi operai, tutti voti per noi». Perchè, come ha spiegato e rispiegato Diamanti, qui gli interessi dell’impresa e dell’operaio coincidono. «E quando va male -dice Dozzo- si comincia a ragionare, ad esempio sulle gabbie salariali, sul federalismo fiscale, sulle infrastrutture che mancano. La sola novità è la dimensione rilevante di questo voto operaio».

Non basta, non è tutto.
«E’ stato un voto trasversale», dice Giuliano Molossi, direttore della «Gazzetta di Parma». Lì si è guadagnato il seggio da senatore Giovanni Torri, 47 anni, leghista da sempre. «Sono andato dappertutto, da Santa Maria del Taro al Passo del Cerreto, ho fatto comizi dove non è mai andato nessuno, in osterie con due vecchietti, nelle bocciofile, nelle balere. All’uscita ero sempre sicuro di aver convinto almeno la metà». Aggiunge: «Mai andato in tv, mai spedita una lettera, mai messa un’inserzione sui giornali».

Forse sarà come dice Mino Martinazzoli, l’ultimo segretario della dc: «Quelli della Lega sono rimasti gli unici a far politica nei bar».
O sarà che lontano da tv e dai giornali la Lega va ad intercettare disagio e bisogni. Ancora Molossi: «Qui hanno deciso di spostare la moschea nella zona industriale, e tra piccole imprese e operai hanno risposto con il voto. Era prevedibile il successo, ma non in queste proporzioni e così trasversale: l’hanno votata l’industriale con jet privato e la donna delle pulizie».

La sicurezza, dunque.
E il solito ritorno della solita «Questione Settentrionale», due parole pronunciate per la prima volta da Bettino Craxi il 5 giugno 1987, e quel giorno Umberto Bossi aveva debuttato come senatore. Ma è sempre qui, la Questione Settentrionale, e può ad esempio chiamarsi Alitalia. Chi viaggia da Malpensa a Fiumicino ha appena scoperto che l’aereo è un Atr43, quello con le eliche, tempo di volo 1 ora e 23 minuti, quasi il doppio di un Md80. «E poi ci si domanda ancora perchè votano Lega?», dice Daniele Marantelli, unico deputato del Pd di Varese.

Anche Marantelli si stupisce dello stupore.
«Se fai la battaglia in difesa dello “scalone” delle pensioni è difficile che il giovane operaio ti voti». Come altri del Pd del Nord, portato Romano Prodi al governo, due anni fa aveva avvertito del pericolo. E Pierangelo Ferrari, rieletto a Brescia nel Pd, ricorda quel che dicevano: «Dobbiamo cominciare a capire questi “rozzi con la fabbrichetta e le loro paure” e smetterla con il nostro atteggiamento di superiorità. Se falliamo non ci sarà appello». E così è andata.

Un voto leghista davvero trasversale.
Antonio Marano, direttore di Rai2, varesino come Bossi e Maroni, è sicuro che i voti siano arrivati anche da sinistra. «Da almeno la metà degli 800 che lavorano nel nuovo centro di produzione di Milano - dice -. “Però noi non siamo di destra”, mi avvertivano. E io a spiegare che nemmeno la Lega lo è, un leghista non chiederà mai di schierarsi a destra, basta stare qui e capire chi fa gli interessi del Nord che vuole correre e non vuol farsi inghiottire».

E poi c’è la Lega che ha preso i voti, quella che sta tra la sede milanese di via Bellerio e il villino di Gemonio, da dove Bossi dirige, litiga con la salute, e ora tratta ministri e nomine. La Lega che ha governato a Roma più di 5 anni, che ha avuto il sindaco di Milano, che ha quelli di Novara, Varese, Verona, Treviso, le province del Nord, gli assessorati in Lombardia e Veneto. La stessa che gioca pesante con le parole, evoca paure e fucili e non è mai riuscita ad organizzare nemmeno uno sciopero del canone Rai.

Ma «è una Lega che non fa più paura», come dice Diamanti. Sempre di lotta, sempre più di governo.

da lastampa.it


Titolo: LEGA di governo (il populismo al potere. ndr).
Inserito da: Admin - Aprile 16, 2008, 12:10:35 pm
POLITICA

Radio Padania incita i big: lavorare senza perdere tempo

Castelli: saremo il perno del nuovo governo. Maroni: tanti voti dai lavoratori

Il Carroccio padrone del Nord in Veneto punte del 35 per cento

di PAOLO BERIZZI

 
MILANO - "Adess me racumandi, lauràa": i leghisti sono gente di pancia e del fare, tendenzialmente parchi nei festeggiamenti, nell'autocelebrarsi. E così non bisogna stupirsi se ieri mattina, il giorno del risveglio dopo la vittoria - praticamente una tombola - le telefonate piovute sui centralini di RadioPadania suonavano anche come un invito a mettersi subito al lavoro, schiena dritta, per "portare a casa federalismo fiscale e sicurezza per le nostre città". Che sarebbero, declinati in tutte le loro forme, dalle quote Iva e Irpef agli immigrati, i due temi forti sui quali la Lega ha vinto la partita elettorale.

Il terzo partito d'Italia ha i motori tirati al massimo: basta scorrere i risultati delle circoscrizioni, basta dare un'occhiata alle "torte" che rappresentano i seggi parlamentari, e si capisce che il momento è di quelli da incorniciare e mettere in bacheca. Conquistato il nord. Voti raddoppiati in Piemonte, Lombardia, Trentino, Friuli. Ma anche in Toscana e nel centro. Consensi da primato in Veneto (sfiorato il 35 per cento in provincia di Verona). Sfondamento persino nelle regioni "rosse", con un clamoroso quasi 7 per cento in Liguria e un quasi 8 in Emilia-Romagna. Milano che torna a doppia cifra (dal 5 % di due anni fa al 12) e che regala inaspettate soddisfazioni (15% a Quarto Oggiaro, altissima densità di immigrati dal Sud, oltre il 10 a Sesto San Giovanni, storica roccaforte della sinistra operaia). Tanta roba per i dirigenti del Carroccio.

E adesso, si capisce, si va all'incasso. "Abbiamo triplicato la nostra rappresentanza alla Camera e raddoppiato quella in Senato - tira le somme l'ex ministro della Giustizia, Roberto Castelli, il cui nome è in pole position per la presidenza della Lombardia (la Lega chiede elezioni a ottobre) - . Saremo il perno del nuovo governo".

Dopo l'ubriacatura elettorale di lunedì notte, la parola d'ordine, nello stato maggiore del Carroccio, è: capitalizzare. Far pesare il più possibile la valanga di voti messi in cascina; produrre una pressione "dolce" sugli assetti del governo che si sta formando. In sostanza: esercitare con furbizia, ma rispettando gli accordi di coalizione, quella golden share che Casini ("è l'unica cosa giusta che ha detto in tutta la campagna" se la ridevano l'altra sera nella sede di via Bellerio) aveva attribuito ai lumbàrd in caso di successo del Pdl. "Faremo un bel lavoro, i nostri elettori possono stare tranquilli", è stata la promessa di Umberto Bossi all'inizio dell'election night.

L'agenda delle "cose da fare" è fitta: e di carne al fuoco, in effetti, i vertici della Lega ne hanno già messa. Il federalismo fiscale, anzitutto. "Si può attuare immediatamente, approvando la legge entro tre mesi", ancora Castelli. "I lavoratori ci hanno votato perché hanno capito che la soluzione dei loro problemi passa attraverso il federalismo. Siamo l'unico partito che rappresneta gli interessi del Nord - ragiona Roberto Maroni, probabile futuro ministro dell'Interno o, in alternativa, dello Sviluppo economico -. La gente ci ha premiato dandoci fiducia". Da Lampedusa (da dove viene la pasionaria siculo-leghista Angela Maraventano, prossima senatrice) a Bergamo, è l'ora del Carroccio. "Abbiamo chiesto la presidenza di Lombardia e Veneto, e Berlusconi ci ha già detto di sì", mette le mani avanti, a metà pomeriggio, Roberto Calderoli.

Clima di entusiasmo contagioso, con molte aspettative, pare ben riposte, in vista della "quadra" di governo. "La Lega è forte", è stato lo slogan ripetuto da Bossi fino a ieri, fino allo spoglio delle urne. Racconta un dirigente leghista di lungo corso che "un botto così, nemmeno nel '96. Perché allora eravamo una forza di protesta, facevamo casino, c'era Tangentopoli, eravamo tanti, sì, ma ci vedevano duri, sporchi e cattivi. Oggi - dice - siamo una forza di governo che si assume grandi responsabilità, che realizzerà il programma forse più moderno che possa vantare oggi questo Paese".

(16 aprile 2008)

da repubblica.it


Titolo: ANDREA ROMANO. Lega di governo (il populismo al potere. ndr).
Inserito da: Admin - Aprile 16, 2008, 12:21:07 pm
16/4/2008
 
I cattolici sul Carroccio
 
FRANCO GARELLI

 
Voto cattolico in libertà o voto cattolico ininfluente? Voto cattolico ormai cristallizzato (tra destra e sinistra) o voto cattolico capace di dar vita in prospettiva a nuove aggregazioni? Attorno a interrogativi come questi si può costruire una prima analisi del risultato elettorale riferito alle sorti di un’area sociale che si considera importante o decisiva per le dinamiche pubbliche.

Da vari anni il pluralismo delle scelte politiche è un tratto del cattolicesimo italiano, con una quota di soggetti che l’ha praticato da sempre, mentre la gerarchia l’ha riconosciuto ufficialmente soltanto dopo la crisi acuta della Dc, a seguito di Tangentopoli e dintorni. Da allora lo slogan prevalente è che la Chiesa non dà indicazioni politiche e che i cattolici possono votare per partiti o schieramenti diversi, a patto che essi non siano contrari alla fede e ai valori «cattolici». È la teoria - più volte ribadita - del voto libero, ma non indifferente.

Ma non ci volevano certo queste elezioni per confermare che il mondo cattolico vota ormai in libertà. Piuttosto, ciò che emerso dalle urne due giorni fa offre al riguardo ben altre e più interessanti indicazioni.

Anzitutto che il successo elettorale della Lega nel Nord Italia sia in parte dovuto ad un mondo cattolico che trova nelle visioni e nel linguaggio del Carroccio vari motivi di assonanza e di convergenza. Il processo iniziato vent’anni fa nel Veneto bianco sta contagiando altre Regioni del Nord, in mancanza di risposte diverse. Chi ben conosce la provincia settentrionale conferma l’impressione che la Lega abbia calamitato il voto di non pochi cattolici, non soltanto di quelli tiepidi, ma anche dei più attivi e convinti, che frequentano con assiduità gli ambienti religiosi. Si tratta di un mondo che non ama i grandi cambiamenti, preoccupato di un cambio di scenari che minaccino le conquiste personali e famigliari realizzate nel tempo. Non tutto questo voto può essere considerato conservatore o razzista o così etnocentrico da guardare ai diversi come ad un nemico. Ma è indubbio che l’aumento degli immigrati stranieri, la crescita dell’Islam, la paura dell’impoverimento, la crisi del ceto medio, la facciano da padrona in una popolazione che difende anzitutto gli equilibri locali e che chiede di affrontare con gradualità il nuovo che avanza. La voce della protesta, un linguaggio concreto, il richiamo ad un «senso del noi» che offre appartenenza, possono aver fatto ulteriore breccia in un mondo cattolico portato - dalla sua vocazione moderata - a enfatizzare la questione dell’ordine pubblico e dell’integrità locale.

La seconda indicazione di queste elezioni è il debole peso del voto identitario cattolico. Mi riferisco al successo limitato del partito di Casini, che ha puntato a mobilitare la gente non soltanto con una proposta centrista e moderata, ma soprattutto proponendosi come una casa naturale per quanti (i cattolici in particolare) intendono difendere e promuovere il ruolo pubblico della religione. In particolare, però, non ha funzionato il richiamo di Pezzotta, che intendeva mietere il grano di una mobilitazione cattolica di popolo come quella del Family Day. Parte del mondo cattolico si coinvolge e scalda i muscoli in eventi para-religiosi come questi, ma essi non hanno una valenza politica, non sono luoghi o serbatoi di mobilitazione politica. Chi prende parte a questi avvenimenti può ritenere che i valori cari ai cattolici (vita, famiglia, bioetica, educazione, ecc.) siano meglio promossi o rappresentati più dai partiti del centro-destra che da nuove e incerte formazioni politiche orientate a creare nuove aggregazioni.

Il voto identitario cattolico, poi, sembra di debole peso anche in quel centro-sinistra che non è stato in grado di far breccia sui cattolici moderati politicamente incerti o delusi dal modello di Berlusconi. Nel Pd non mancano certo dei cattolici «ultras», ma essi si mescolano a gruppi di cattolici aperti sui temi della laicità, convinti del vantaggio pluralistico di convivere oggi con altre sensibilità culturali e politiche.

È stato detto che Veltroni ha perso la sinistra, ma anche il centro; e che l’asse Berlusconi-Fini si è spostato troppo a destra per permettere ad ampie quote di cattolici di riconoscersi nella loro linea politica. In questo scenario si può prevedere la nascita (dopo tanti anni) di un figlio della Balena bianca, capace di alterare gli attuali equilibri? Il centro politico può alimentarsi in futuro di cattolici insoddisfatti sia dello stile politico di Berlusconi, sia di un Pd che relega i cattolici ad una componente un po’ in sottotono del centro-sinistra? Nell’attuale bipolarismo rafforzato questa eventualità appare remota. Il tutto comunque dipende da quanto i cattolici dei due schieramenti si sentano a proprio agio nelle rispettive «case»; e dalla capacità di un centro cattolico di innovare la scena con un grande progetto politico. Come sempre, cercasi un leader, disperatamente.
 
da lastampa.it


Titolo: ANDREA ROMANO. Lega di governo (il populismo al potere. ndr).
Inserito da: Admin - Aprile 16, 2008, 12:26:02 pm
16/4/2008
 
Lega di governo
 
 ANDREA ROMANO
 

C’è un partito che nell’ultimo decennio ha governato un quarto del Paese, ha prodotto una classe dirigente spesso giovane e competente ed è persino riuscito a sopravvivere alle proprie cattive maniere. Quel partito è la Lega e potrebbe diventare il motore riformatore del governo Berlusconi, se solo arriverà a completare il cammino di trasformazione avviato in questi anni. Dietro lo schermo del cabaret celtico e delle grida di secessione, Umberto Bossi è riuscito a dare solidità ad un movimento politico ormai lontano dalla rappresentazione zotica e valligiana a cui troppe volte ci siamo affidati.

Sempre più simile ad una Democrazia cristiana del Nord anche per la dimensione dei consensi che raccoglie in tre grandi regioni (e giustamente Stefano Folli rimandava ieri sul Sole-24 Ore all’esempio della Csu bavarese), la Lega si compone di anime diverse e conflittuali che Bossi ha tenuto insieme con un mix tra pugno di ferro, mitologia della resurrezione e scuola di buona amministrazione locale.

Ha tenuto la componente chiassosa e razzista insieme con quella pragmatica e moderata guidata da Roberto Maroni, i reduci della Guardia Padana accanto alla schiera dei circa duecento sindaci in gran parte quarantenni, la vecchia guardia insurrezionale insieme con il gruppo parlamentare più giovane della legislatura appena conclusa. Un partito che nel corso degli anni si è fatto sempre più articolato, presentandosi in molte realtà con il volto rassicurante di giovani preparati (come quello del leader piemontese Roberto Cota) che da domani potranno avere ancora più spazio nell’agone nazionale. La Lega è dunque approdata allo status di forza responsabile di governo?

Dipenderà da come verranno espresse in Parlamento e metabolizzate dalla nuova stagione berlusconiana le domande che vengono dal suo elettorato, anch’esse molto diverse dal passato. Se queste elezioni hanno brutalmente semplificato il quadro parlamentare, il voto leghista è portatore di una ulteriore carica di semplificazione politica. Filtrate dalla stagione del governo debole e dell’antipolitica, le sue richieste si sono fatte più concrete e meno sovversive. Quali servizi e quali infrastrutture per le tasse che paghiamo? Chi risponde dei fallimenti della burocrazia e dell’amministrazione pubblica? Chi difende i miei interessi di cittadino?

Domande crude, lontane dalla correttezza politica e dal bon ton consociativo in cui si sono impantanati i progetti riformatori dell’ultimo quindicennio (compreso l’ultimo governo Berlusconi). Domande alimentate da una voracità democratica e radicale a cui la leadership della Lega dovrà rispondere: accantonando definitivamente il teatro secessionista che l’ha resa celebre e traducendo in concreti atti politici la richiesta di innovazione che viene dal suo elettorato. Nonostante la semplificazione parlamentare, la nuova maggioranza di governo contiene al proprio interno idee assai diverse sull’opportunità e la profondità delle riforme da introdurre nel Paese. Tra lo statalismo di An e il liberismo spesso solo propagandistico di Forza Italia, la Lega potrebbe rivelarsi il reagente indispensabile ad una vera stagione di rinnovamento. In fondo è quello che chiede il suo elettorato, nel quale si sono trasferiti consensi provenienti da tradizioni politiche anche molto distanti (come ci racconta il voto operaio che Bossi ha raccolto in misura assai più rilevante che in passato). Come accade in politica, quei consensi non sono per sempre e potrebbero facilmente volatilizzarsi se la Lega scegliesse la strada antica e priva di sbocchi del folklore invece di quella suggerita dai nuovi «spiriti animali» che le hanno restituito forza e visibilità.

 
da lastampa.it


Titolo: La Lega prende a tutti i partiti.
Inserito da: Admin - Aprile 17, 2008, 11:59:19 am
POLITICA

I FLUSSI ELETTORALI. Il travaso anche verso il Pdl

La Lega prende a tutti i partiti.

Di Pietro raccoglie ovunque

Sinistra Arcobaleno un voto su due al Pd

Statico il voto di Berlusconi e Fini che però portano a casa l'80% del voto del 2006

di SILVIO BUZZANCA


 ROMA - La sinistra si è liquefatta nelle urne e più o meno metà dei suoi voti sono finiti nel carniere di Walter Veltroni e Antonio Di Pietro. E qualche cosa ha raccolto il Pdl di Silvio Berlusconi. I dati arrivano da una prima ricerca condotta da Consortium per Rai e Sky sui flussi elettorali. E i numeri non lasciano dubbi su dove sono finiti i voti che Bertinotti, Diliberto e Pecoraro Scanio avevano nel 2006. Il 40, 3 per cento dei voti di Rifondazione è passato al Pd. E il 6,3 per cento ha preso la via dell'Italia dei Valori. Il totale fa 46,9 per cento. Ancora più alto il dato che riguarda il Pdci. Il 48,1 per cento dei voti è finito a Veltroni e il 6,4 per cento a Di Pietro. Complessivamente si tratta del 55,5 per cento dei consensi dei comunisti italiani. Infine i Verdi. Al Pd è andato il 45,1 per cento e all'Idv l'11,3 per cento. La somma fa 56,4 per cento.

Secondo Piepoli, è rimasto fedele a Bertinotti il 38,4 degli elettori, a Diliberto il 20 per cento e a Pecoraro Scanio il 24,8 per cento. Ma ci sono voti migrati persino verso Berlusconi. Il 5,1 per cento dei rifondaroli, il 5,6 per cento dei comunisti e addirittura l'8 per cento dei verdi il 13 aprile ha scelto il Cavaliere. Infine, il tracollo è completato dal flusso di voti in uscita che si è diretto a sinistra. Marco Ferrando e il Partito comunista dei lavoratori hanno portato via solo lo 0,4 per cento a Rifondazione e l'1 per cento ai Verdi. Ma hanno "succhiato" l'11 per cento al partito di Diliberto. Sinistra Critica di Franco Turigliatto ha portato via il 5,4 per cento a Bertinotti, il 3,8 a Diliberto e il 2 per cento agli ambientalisti.

Questi i calcoli di Consortium dei voti in uscita dalla Sinistra Arcobaleno. Quelli sui voti in entrata gli fanno dire che siamo di fronte ad un Pdl "conservatore", un Pd "statico", un Di Pietro "raccattatore" e una Lega "vampira". E l'Udc, invece può essere definita "rimescolatrice". In concreto vuol dire che il 26 per cento dei voti di Di Pietro sono di elettori che lo avevano votato nel 2006. Il 36,3 per cento arriva invece da elettori che avevano votato l'Ulivo. Il 4,8 per cento aveva votato Forza Italia e il 3,5 per cento An. Un 6,4 per cento dichiara di avere votato nel 2006 Rifondazione e il 2,2 i Verdi. Insomma l'ex pm riceve contributi un po' da tutti.

Il Pd presenta invece un nucleo "forte" del 63,9 per cento che conferma la scelta fatta nel 2006. Il 6,6 per cento è composto da elettori in arrivo da Rifondazione, il 2,2 viene dal Pdci, l'1,5 dai Verdi. Di Pietro cede invece solo l'1,6 per cento. E l'1,7 viene da chi nel 2006 aveva scelto la Rosa nel Pugno. Come se gli elettori radicali avessero accolto in gran parte l'appello di Pannella a votare Pd.

Questo apporto radicale sarebbe dietro anche al grande rimescolamento al centro. Il partito di Casini, infatti, avrebbe incassato il 13,6 per cento di voti da ex elettori ulivisti. Rifugiatisi da Casini forse per paura del "laicismo " radicale. Ma i centristi hanno portato via voti anche a Forza Italia, il 15,5 per cento, e ad An, il 7,2 per cento. E per completare la rivoluzione dell'elettorato centrista bisogna sottolineare che solo il 34,4 per cento del voto Udc arriva da elettori centristi del 2006. Infine Casini si è portato a casa un 2,4 per cento di voti da elettori orfani di Mastella.

Grande movimento anche fra gli elettori leghisti. Le indagini dell'Istituto Cattaneo dicono che Forza Italia e An hanno perso circa 800 mila nel Nord. Un dato confermato dagli studi di Piepoli. Nel bottino di Bossi il 30,3 per cento arriva da elettori che nel 2006 aveva votato Berlusconi e Fini: il 18,9 da Forza Italia e l'11,4 da An. Dati, come gli altri, sottostimati di uno o due punti, perché il 5,5 per cento del campione non ha dichiarato per chi ha votato. A dimostrazione della mobilità del voto leghista c'è da notare che solo il 45,4 per cento de risultato di è una conferma del voto del 2006. E ne conto un 2,9 per cento arriva da elettori ulivisti del 2006. Alla mobilità leghista corrisponde la fedeltà, la staticità del voto del Pdl. Quasi l'80 per cento del voto del Pdl è una conferma del 2006. In percentuale il 62 per cento proviene da elettori che nel 2006 avevano scelto il Cavaliere. E il 17,1 dei finiani.


(17 aprile 2008)

da repubblica.it


Titolo: Ministri, Bossi incalza Berlusconi
Inserito da: Admin - Aprile 17, 2008, 03:19:52 pm
17/4/2008 (7:13) - IL PRIMO VERTICE

Ministri, Bossi incalza Berlusconi

Il Senatur preme: «Parlano i numeri»

Il Cavaliere: verso scelte impopolari


ROMA
Umberto Bossi ha ammesso a Montecitorio che nel vertice di ieri del centrodestra non si è combinato «niente». In effetti, uno dei momenti di tensione durante il vertice è stato quando la Lega ha reclamato 4 ministeri. «Parlano i numeri delle elezioni», hanno spiegato al Cavaliere gli esponenti leghisti.
Unica subordinata, la possibile rinuncia di Roberto Formigoni alla presidenza della Lombardia, che aprirebbe le porte a una candidatura leghista al Pirellone e ridimensionerebbe le richieste del partito di Bossi. Anche Alleanza nazionale non ha gradito la posizione leghista, visto che uno stesso numero di ministeri dovrebbe toccare ad An. Dal partito di Fini si immagina invece che al Carroccio possano spettare 3 ministeri, di cui uno di peso, e un posto di vicepremier.

Per Silvio Berlusconi serve, comunque, un effettivo rinnovamento. «Ci saranno momenti difficili e servirà- ha detto - un forte rinnovamento per fare quelle riforme necessarie al Paese. Alcune di queste avranno anche caratteri di impopolarità». Berlusconi, durante una conferenza stampa a via del Plebiscito, non ha nascosto la possibilità che il suo Governo possa assumere decisioni «impopolari», per risanare la situazione economica.

da lastampa.it


Titolo: Ministri, Bossi sfida Berlusconi: "Basta con i vertici, subito i nomi"
Inserito da: Admin - Aprile 18, 2008, 12:33:52 pm
17/4/2008 (14:0) - IL DOPO ELEZIONI - IL CAVALIERE AL LAVORO SULLA SQUADRA DI GOVERNO

Ministri, Bossi sfida Berlusconi: "Basta con i vertici, subito i nomi"
 
Il Carroccio polemico con gli alleati: «Noi parliamo solo con Berlusconi».

Il Cavaliere: «Non c'è nessuna lite».

Ed è scontro Pd-Pdl sul dopo-Frattini


ROMA
Che non fosse solo una insoddisfazione "tattica" si era capito già ieri. Umberto Bossi lo aveva detto a chiare lettere, lasciando la Capitale: il vertice del Pdl sulla squadra di governo si è rivelato inutile. E non bastano le rassicurazioni di Silvio Berlusconi a placare gli animi nella Lega.
I paletti della Lega
Forte del successo elettorale e di fatto "titolare" dei destini del futuro governo, il Carroccio butta sul tavolo le sue condizioni. Federalismo e sicurezza, questi i temi indicati come priorità dalla segreteria politica di via Bellerio. E soprattutto l’intenzione di rafforzare il rapporto privilegiato con il leader del Pdl. «Per quanto riguarda la Lega Nord, le prossime riunioni saranno tenute solo con Silvio Berlusconi», si legge nella nota diffusa al termine della riunione. Al Cavaliere la Lega chiede di proporre la squadra dei ministri al più presto.

Il Cavaliere: nessun litigio
Alleanza nazionale tiene bassi i toni. «Con chi altri se non con Berlusconi, che rappresenta tutto il Popolo della libertà e che sarà il futuro presidente del Consiglio, dovrebbero parlare i leghisti?», è la replica di Andrea Ronchi alla sparata del Carroccio. Da An, intanto, arriva la conferma che Gianfranco Fini sarà il prossimo presidente della Camera: «Probabilmente sì», ammette le stesso leader di An. Ma la presa di posizione di via Bellerio arriva dopo che Berlusconi aveva assicurato che non c’è nessun dissidio nella formazione del governo. «Non è vero che nel vertice di ieri abbiamo litigato. Si è svolta una riunione assolutamente positiva e di grande soddisfazione. Mi è stato dato il mandato per quanto riguarda la preparazione della squadra dei ministri», aveva detto.

«Linguaggio paradossale»
Quanto a Bossi che si lamenta del fatto che non si è «combinato niente», il Cavaliere attribuisce quelle frasi al «linguaggio paradossale, iperbolico e metaforico» del Senatùr. E spiega: «Lui riteneva che l’incontro fosse basato sui nomi dei ministri, mentre io non avevo questa intenzione, perchè aspettavo ancora di vedere i sessanta di tutta la squadra e di calibrare competenze, esperienze e presenze di copertura del territorio». «Credo infatti - insiste il leader del Pdl - sia giusto presentare una squadra equilibrata e distribuita sul territorio in modo che nessuna regione venga esclusa questo è un lavoro che sto facendo con i miei collaboratori. Ho detto ai miei alleati che quando avrò pronta la squadra ci ritroveremo e loro mi faranno le loro osservazioni».

«Parleremo solo con Berlusconi»
La "questione padana" si intreccia con la formazione del nuovo governo. In ballo, oltre alla rappresentanza della Lega a Palazzo Chigi, anche il futuro della regione Lombardia, legato appunto alla permanenza di Roberto Formigoni al Pirellone. È anche sotto questa luce che vanno lette le posizioni della Lega. «Dopo l’inutile vertice romano -si legge nella nota- la segreteria ha deciso che, per quanto riguarda la Lega Nord, le prossime riunioni saranno tenute solo con il leader del Popolo della Libertà, Silvio Berlusconi. La segreteria politica ha ribadito che la Lega Nord ha ricevuto l’imperativo mandato dagli elettori di risolvere le questioni legate al federalismo e alla sicurezza. Pertanto, visto lo straordinario risultato ottenuto su questi due temi, non è possibile derogare dall’assoluto rispetto dello stesso».

Castelli frena: «Dalla Lega nessun malumore»
«Il momento nel Paese è talmente grave che è necessario -avverte il Carroccio- vengano prese decisioni rapidissime. È pertanto utile nell’interesse di tutti, pur nel rispetto delle prerogative del presidente della Repubblica, che il presidente del Consiglio in pectore, Silvio Berlusconi, proponga, così come vuole la Costituzione, nel più breve tempo possibile la composizione del governo». La palla passa quindi a Berlusconi. Anche Gianfranco Rotondi sposa la linea della Lega. «Bossi ha ragione: ci siamo fidati di Berlusconi, non servono nè vertici, nè comitati, nè commissioni che fanno gli esamini. Ognuno con la propria forza ha messo i propri destini nelle mani di Silvio. Faccia le sue scelte e siamo sicuri -garantisce il leader della Dca- che saranno giuste». La Lega Nord, spiega Roberto Castelli, non nutre alcun «malumore: abbiamo semplicemente sottolineato quella che riteniamo una questione politica».

Il nodo della presidenza della regione Lombardia
Il nervo scoperto resta la futura poltrona di governatore della Lombardia. Il candidato in pectore della Lega è lo stesso Castelli che si dice convinto che «Formigoni rimarrà in regione». Nella partita entra anche l’ex sindaco di Milano Gabriele Albertini, lanciato dall’azzurro Maurizio Lupi. «Albertini è autorevole, e il Pdl -glissa Castelli- ha preso tanti voti». «Diciamo -spiega ancora Castelli- che c’è una partita aperta su varie questioni, ma io continuo a pensare che Formigoni rimarrà in regione. Quindi -sottolinea l’ex guardasigilli- si sta parlando di una questione virtuale». Anche Gianfranco Fini guarda con distacco la candidatura Albertini: «I problemi si pongono quando sono reali», si limita a dire il leader di An.

Scontro Pd-Pdl sulla sostituzione di Frattini
Intanto è scontro su chi dovrà nominare il sostituto di Franco Frattini (destinato ad un incarico di governo) alla Commissione europea. Silvio Berlusconi rivendica al prossimo governo la scelta: «Sarà il nuovo governo a nominare il nuovo commissario che lo sostituirà», dice il Cavaliere. E Fini dà dei «disperati» alla sinistra che si «inventa» gli argomenti di polemica anche quando non ce ne sono. «Frattini -spiega il leader di An- è ancora lì e decide lui quando lascia... Se il 29 non fa il deputato resta commissario e non c’è nessuno da nominare. Se poi invece farà il ministro, vuol dire che c’è un governo in carica e deciderà il governo». Ma Veltroni chiede una «decisione condivisa». Pare invece chiuso il caso del presunto incontro tra Berlusconi e Walter Veltroni. Incontro smentito da entrambi: «Non ho incontrato Veltroni nè ieri nè nei giorni scorsi», taglia corto Berlusconi. Anche il leader del Pd smentisce: non c’è stato «nè un incontro e nè una conversazione telefonica. È una balla spaziale».

da lastampa.it


Titolo: ENZO BETTIZA. Un venticello vien da Pontida
Inserito da: Admin - Aprile 19, 2008, 12:11:41 pm
19/4/2008
 
Un venticello vien da Pontida
 
ENZO BETTIZA

 
Soltanto in questi giorni d'inizio della grande svolta si riesce a capire che la «Seconda Repubblica» non è morta per il semplice fatto che non era mai esistita. È morta invece definitivamente la Prima di cui la «Seconda» non era che un'ombra storta e contorta: una protesi sgangherata tenuta artificiosamente insieme dal 1994, per quindici anni, fra tintinnii di manette e ribaltoni, con i cascami e i trasformismi dei due principali partiti di massa nati nel dopoguerra.

La democrazia cristiana ha continuato a sopravvivere disintegrata in spezzoni erratici; lo zoccolo duro del partito comunista, metamorfosato, ha seguitato a riorganizzarsi sotto nuove spoglie occidentalizzanti e botaniche; le schegge comuniste più nostalgiche, ossessionate dal naufragio sovietico, non hanno saputo fare altro che contestare l'esistente, aggrappandosi ai vecchi miti classisti e aggirandosi a tentoni in un anacronistico bric-à-brac di falci e martelli arrugginiti.

Certamente Silvio Berlusconi, nelle sue prime versioni di uomo di governo e d'opposizione, era già il personaggio nuovo e di rottura che abbiamo conosciuto. Demagogicamente apolitico, comunicatore di stile irrituale e popolare, in sintonia epidermica con una massa di elettori delusi, irritati dal latinorum indecrittabile dei politici di mestiere, egli si presentava sulla scena come l'uomo di successo che avrebbe saputo dare all'Italia smarrita e impoverita il lustro di una Mediaset grandiosa. Ma la Forza Italia del tempo era assai meno nuova del suo leader scalpitante. Più che un partito, era un accogliente asilo per scampati dei vecchi partiti, una balena fra bianca e rosa, nel cui ventre accogliente, privo di paratie, si stipavano confusamente democristiani, socialisti, transfughi comunisti, liberali, repubblicani, laici e cattolici generici. Il vero partito era lui, Berlusconi, con la sua immagine ridente e ubiqua, l'ottimismo costruttivo, la promessa di rigenerazione universale. La novità, insomma, era l'uomo.

L'autentica novità partitica, emergente già negli anni di prolunga della Prima Repubblica, era invece la Lega Nord di Bossi. Anzi, direi, il fatto nuovo era la Lega in sé, più che il pittoresco personaggio Bossi che l'aveva ideata e promossa con un fiuto più sottile delle sue metafore celtiche e un impeto di tribuno più robusto della sua salute. Non aveva torto D'Alema quando, invitato negli Anni 90 a un consesso leghista, epoca in cui Bossi veniva censurato o irriso da tanti commentatori, precorse i tempi certificando la Lega come «una costola della sinistra». Non solo da quella parte provenivano Bossi e diversi compagni di Bossi. Non solo si è recentemente scritto che la Lega è il vero erede del capillare talento organizzativo del Pci. Ma, oggi, constatiamo che la patente di sinistra concessa al leghismo padano da D'Alema una decina d'anni orsono, conteneva un elemento forse non involontario di profezia: è infatti a sinistra, fra i metallurgici della Fiom, gli operai della Fiat, i camalli di Genova, addirittura fra molti elettori della rossa Emilia Romagna, che la Lega ha raccolto e ottenuto uno straordinario successo durante le elezioni.

Successo sorprendente e inatteso dalla maggioranza degli osservatori? Sì, ma non da quelli che vengono dalla dirigenza del sindacato, che sentono il polso delle piazze, che fiutano da sindaci gli umori municipali e provinciali. Mi riferisco all'intelligente reazione di Sergio Cofferati, che ha smentito chi «pensa che quelli alla Lega siano voti di protesta» e ha ipotizzato perfino la necessità di costruire, da sinistra, un quasi autonomo «partito democratico del Nord» modellandolo come la Lega su strutture comunitarie e regionali. «Noi siamo parte del Settentrione, non del Centro», ha detto il sindaco di Bologna suscitando, nella stessa sinistra riformista emiliana, malumori ma anche molte approvazioni.

Lo si chiami come si voglia, regionale, municipale, territoriale, interclassista, comunitario, il successo della Lega sta comunque diffondendo un contagio psicologico e un interesse politico che vanno al di là del voto operaio. Più del secessionismo, che resta sempre metaforico nello sfondo, sono altri i temi scottanti agitati dalla Lega che attirano pure l'attenzione dei ceti medi che hanno votato Veltroni o stavano per votarlo. Imprenditori piccoli e medi, regionalisti meridionali a partire dalla Sicilia, perfino i dipietristi all'interno del Pd, che dopo la sconfitta della coalizione vorrebbero costituire gruppi parlamentari separati, hanno cominciato a tendere l'orecchio alle proposte leghiste. La sicurezza, la difesa della società impaurita, le politiche dell'immigrazione, il municipalismo forte, il federalismo fiscale stanno reclutando proseliti e imitatori anche fra quelli che mai avrebbero vagheggiato la folgorazione sulla via di Pontida. Lo stesso Berlusconi, che dal consistente voto della Lega ha ricevuto, insieme, una legittimazione e un monito alla sua leadership, ha già capito benissimo che il gioco politico sarà molto più stretto e più difficile con Bossi che con Fini: la porta sbattuta dal capo leghista al primo vertice collegiale dei vincitori, accompagnata dalla frase «io parlo solo con il Cavaliere», contiene il preannuncio, se non di un programma, di un comportamento indipendente e all'occorrenza rude in seno alla coalizione.

Bossi ha eroso frange elettorali del centrosinistra, ha prosciugato i Verdi, ha portato molti ex comunisti dal mito gramsciano della fabbrica al federalismo territoriale di Cattaneo, ha al suo occhiello la competenza tecnica dell'ex ministro del Lavoro Maroni cui si deve la legge Biagi. Ciò che ai leghisti, che ormai stanno acquistando dimensione nazionale, manca ancora è una più solida preparazione in politica estera dove, spesso, prendono lucciole per lanterne: hanno sempre appoggiato la Serbia senza rendersi conto che, nel quadro kosovaro, era Belgrado «la ladrona» e Pristina la derubata. A parte questo dettaglio balcanico, la cui importanza crescerà fra gli impegni del terzo gabinetto Berlusconi, Bossi e la Lega rimangono i protagonisti d'eccezione del 13 aprile. Il grande sconfitto è specularmente Fausto Bertinotti, che ha visto tanti arcobalenisti trasformarsi in leghisti. Se l'uomo pubblico Bertinotti avesse fatto quello che in privato sulle vicende comuniste dice l'uomo colto Bertinotti, forse, chissà, avrebbe potuto contenere l'emorragia dell'Arcobaleno. Sul piano personale a molti, umanamente, dispiace la totalità della sua sconfitta, anche perché il leader della sinistra massimalista ha saputo sostenere cose insostenibili con lo stile e la buona educazione di un perfetto gentiluomo.

da lastampa.it


Titolo: Ministri, la Lega alza la posta
Inserito da: Admin - Aprile 19, 2008, 04:31:00 pm
Ma Berklusconi assicura: «CON BOSSI TUTTO OK»

Ministri, la Lega alza la posta

Castelli chiede il Viminale e boccia l'ipotesi Letta: «Ci vuole un uomo forte, senza falsi buonismi»

 
 
ROMA - «Con Bossi tutto ok». Parola di Silvio Berlusconi, dopo i paletti venuti dal Carroccio: basta vertici, subito i nomi dei ministri. «Io auspico che all'apertura del Parlamento ci sia contestualmente la squadra di governo», dice il capogruppo uscente della Lega al Senato, Roberto Castelli. L'ex Guardasigilli aggiunge: «Alla Lega il ministero dell'Interno». Per il Viminale, è il parere di Castelli, «ci vuole un uomo di grandissimo polso che affronti il problema della sicurezza così come gli elettori del nord vogliono che venga affrontato, cioe senza falsi buonismi». Un no secco a Gianni Letta che i bookmaker del palazzo indicano sulla poltrona occupata nella precedente legislatura da Amato.


CARROCCIO IN PRESSING - «I rapporti con Bossi - spiega dal canto suo il Cavaliere - sono straordinari. Non c'è assolutamente nessuna frizione. È chiaro che ogni forza politica tende ad avere una presenza più incisiva, ma è il Presidente del Consiglio che poi proporrà i ministri». Berlusconi ha anche annunciato che vedrà Bossi domenica sera o lunedì. Il capogruppo uscente di An, alla Camera, Ignazio La Russa, invita tutti alla calma: «lasciamo lavorare Berlusconi».


18 aprile 2008

da corriere.it


Titolo: Aldo Cazzullo. Tre mosse per espugnare la roccaforte ulivista in lombardia
Inserito da: Admin - Aprile 21, 2008, 01:42:38 am
Tre mosse per espugnare la roccaforte ulivista in lombardia

Brescia, simbolo della svolta

Il sindaco Paroli e la vittoria del centrodestra: «Tolleranza zero con gli immigrati irregolari»
 

Già alle 7 di sera nel centro di Brescia non c'è un bresciano. In via san Faustino, dietro piazza della Loggia, si sente parlare solo urdu, arabo, hindi e dialetti africani: sono le voci che dai phone-center chiamano casa per pochi euro. Gli immigrati sono molti: trentamila solo i regolari, il 15% della popolazione. Saranno sempre di più: un neonato su tre è figlio loro. Sembrano ancora di più: sono giovani, attivi, non hanno belle case dove rifugiarsi, non partono per i weekend. Soprattutto, «i ghetti di solito li fanno in periferia. Qui il ghetto per gli immigrati è il centro storico» dice la «donna forte» della Lega, Simona Bordonali, probabile presidente del consiglio comunale. «Anche Brescia ha il suo Muro. Un Muro trasparente » sostiene il nuovo sindaco, Adriano Paroli, Pdl. Un Muro tra la zona Sud del centro dove ancora prevalgono i bresciani, sia pure chiusi in casa, e la zona Nord. Il quartiere del Carmine, con l'asilo nido dove il 70% dei bambini sono stranieri, e con i seggi dove gli italiani rimasti hanno plebiscitato — 27 punti di vantaggio, quasi il doppio che nel resto della città — Paroli, accento sulla a, 46 anni non dimostrati. Il Guazzaloca di Brescia («il Walesa» ha scritto su Libero il neodeputato Pdl Renato Farina), che ha portato per la prima volta la destra al governo della capitale del cattolicesimo democratico. La città di Giovanni Battista Montini, il Papa del Concilio che Cossiga definisce il vero fondatore della Dc, e di Mino Martinazzoli, che della Dc fu l'ultimo segretario, e nel '94 fu anche il primo sindaco eletto da un'alleanza tra cattolici progressisti e postcomunisti che qualche tempo dopo sarebbe stata chiamata Ulivo.


Il Guazzaloca di piazza Loggia
Chi ha frequentato Giurisprudenza alla Statale di Milano negli anni '80, ai tempi del riflusso, ricorda un'unica presenza organizzata. Una cooperativa legata a Comunione e liberazione, la Cusl, che procurava tutto, dai libri all'alloggio. Il capo era lui, Paroli. Nel '91, dopo il servizio militare nei carabinieri, era già assessore democristiano nella sua Brescia. Leggeva Pasolini, ascoltava il Guccini della Locomotiva, sui tazebao scriveva frasi di Milos, nel linguaggio immaginifico caro ai ciellini: «Pensi dunque l'uomo a bere il caffè e dare la caccia alle farfalle; chi ama la res publica avrà la mano mozzata ». Lui sostiene che il significato è semplicissimo: «Chi va oltre se stesso, chi si occupa del bene comune, rischia di finire male. Noi non siamo contro il '68, perché nel '68 riconosciamo un desiderio di infinito». I modelli, però, sono altri. Berlusconi, con cui Paroli nell' 86 passò una giornata intera al meeting di Rimini, restandone folgorato: «Una persona meravigliosa. Chi oggi lo odia, se avesse l'occasione che ho avuto io di conoscerlo, lo amerebbe». E Flavio Tosi, il sindaco di Verona, celebre per essersi presentato al consiglio comunale con la tigre del circo padano al guinzaglio, aver tolto il ritratto di Napolitano dall'ufficio e ora ammainato il tricolore. «D'accordo, Tosi non sarà un genio della politica — dice Paroli —. Ma è un uomo serio: si è impegnato a fare quel che i veronesi chiedevano. Corsini, il mio predecessore, pretendeva di spiegare ai bresciani quel che era utile per loro». I motivi della storica vittoria, sostiene il nuovo sindaco, sono tre. L'accordo ampio tra i partiti, compreso l'Udc, suggellato dal voto di 16 mila iscritti e da un congresso. La campagna elettorale, «con due momenti di svolta: l'intervista pubblica che mi ha fatto Carlo Rossella; e l'incontro con Magdi Allam agli Artigianelli. Sono venute 1500 persone. Ora chiederò ad Allam consigli su come integrare gli immigrati». Gli immigrati sono il terzo motivo. Sul programma del vincitore è scritto: «Tolleranza zero, almeno per due anni». Cosa significa? «Niente residenza a chi non ha un contratto d'affitto e un reddito minimo garantito, diciamo tra 5 e 8 mila euro l'anno. Polizia municipale nelle strade anziché in ufficio. Nuove unità cinofile, insomma con i cani antidroga. Progetto "posso girare da sola" per le donne. Ripulire la stazione, che oggi è il ritrovo degli sbandati, degli accattoni, delle prostitute. Ripulire il centro storico: via tutti gli ambulanti; distinguere tra gli immobili da conservare e quelli da sostituire, magari con strutture moderne in vetro e acciaio, come a Parigi e Berlino; separare le attività utili da quelle dannose, che diventano luoghi di adunate improprie e di disturbo. Quindi, chiudere i phone-center di via san Faustino ». Non ci sono donne straniere, nei phone-center, nei kebab bar, neppure nei supermercati. Le immigrate sono chiuse in casa, come i bresciani. Le europee — ucraine, moldave, romene, russe — si incontrano la domenica mattina in via dei Mille: sono badanti e prostitute, quindi utili e benvolute. Molte asiatiche e africane sono arrivate per un matrimonio combinato e hanno conosciuto il promesso sposo come secoli fa le infante di Spagna: per ritratto, o meglio per fotografia. Se stanno male, al pronto soccorso va il marito, a descrivere o mimare i sintomi; potessero, andrebbero loro anche a partorire, capita sovente che la mamma arrivi con il cordone ombelicale in mano e un bambino nato in auto. Quasi nessuna parla italiano. Le più informate hanno un quotidiano, Urdu News, nella loro lingua. Una ragazza pachistana di 24 anni, una delle poche a essersi integrata davvero, faceva da interprete: quando i carabinieri portavano nella caserma di piazza Brusato un suo connazionale, la mandavano a prendere perché traducesse. Fino a quando, alle 10 di sera del primo luglio 2006, è arrivata da sé, inseguita dai familiari che picchiavano alla porta infuriati, ripetendo in lacrime agli amici carabinieri: «Nascondetemi, quelli mi vogliono linciare». Un mese dopo, qui vicino, a Sarezzo, un'altra ventenne pachistana, Hina, è stata sgozzata e sepolta nell'orto di casa perché voleva vivere come gli italiani e sposarne uno. Tre delitti in dieci giorni. Una studentessa di 23 anni, Elena Lonati, uccisa dal sacrestano cingalese, chiusa in un sacco di plastica e nascosta sotto la scala del pulpito: non voleva saperne di uscire dalla chiesa. Un pittore di 71 anni, Aldo Bresciani, casa di fronte alla stazione, accoltellato e avvolto in un tappeto da un maghrebino, oggi in ospedale psichiatrico. Il sindaco Corsini dichiara che con questi fanno sei omicidi, proprio come l'anno prima. È vero. Ma non è ciò che i concittadini vorrebbero sentirsi dire. La più votata della Lega, dopo il segretario cittadino Fabio Rolfi, è una donna di 36 anni, Simona Bordonali. Studentessa fuori corso in lingue, un lavoro da rappresentante di gadget pubblicitari lasciato per la politica. Appassionata di musica irlandese — non solo gli U2 ma gruppi che si chiamano Cranberries e Clannad —, leghista da quando faceva il ginnasio. «Fuori dalla scuola davano volantini contro la Lega e i barbari che volevano dividere l'Italia. Andai a una sezione della Lega. Dopo qualche mese fecero una festa, e venne Bossi. Fece l'alba a parlare con noi». In sezione ha conosciuto suo marito. È diventata un capo per aver condotto la lotta contro il Residence Prealpino: costruito negli anni '80 per i funzionari delle aziende bresciane, occupato negli anni '90 dai senegalesi. «Sono arrivati a essere anche ottocento — racconta lei —. Il Prealpino era diventato la loro cittadella, era conosciuto pure a Dakar, non dicevano "vado in Europa" ma "vado al Residence". Una Tortuga, un'isola in cui non valevano regole e ti offrivano ogni sorta di droga e prodotto contraffatto». E giù petizioni alla prefettura, alla provincia, al comune di Bovezzo (il Prealpino è nel suo territorio, ma dall'altra parte della strada c'è Brescia). Alla fine, lo sgombero c'è stato. «Ma manca ancora una scala! Se è per questo, hanno sgomberato pure il campo nomadi, e hanno costruito per loro 13 villette con giardino: un insulto ai vecchi che non trovano posto nelle case di riposo, ai giovani che non possono sposarsi perché non hanno casa». Comunque, dice la Bordonali, la sinistra non ha perso solo sugli immigrati. Anche sul traffico. Sui cantieri infiniti della metropolitana. Sulle ambulanze che «un tempo ci mettevano in media otto minuti e adesso venti». Ha perso «non per un cambio culturale, ma perché la città era male amministrata ». Parola di leghista.


Il parroco del «ghetto»
«Non è stata una questione ideologica. Non vedo svolte. I bresciani non hanno cambiato testa. In fondo, i due candidati erano entrambi cattolici. Democristiani. Ha vinto chi ha interpretato meglio i sentimenti dei cittadini». Lo dice anche don Gabriele Filippini, per vent'anni direttore del settimanale diocesano La voce del Popolo, ora parroco di San Nazzaro, la parrocchia del centro dove predica padre Renato Laffranchi, di cui si dice in città che vengano da mezza Lombardia per ascoltarlo. La Curia, che nelle categorie dei laici è da sempre progressista, da sei mesi è retta dal vescovo Luciano Monari, amico di Ruini ma considerato in linea con la tradizione locale, incarnata dal vescovo ausiliare Francesco Beschi. Insomma, i vertici della Chiesa bresciana non sarebbero stati dispiaciuti da una vittoria del candidato del centrosinistra, Emilio Delbono. Ma, nei seggi dei due ospedali gestiti da religiosi, ha prevalso nettamente Paroli: al Sant'Orsola di 18 punti, al Poliambulanza di 22. Don Filippini assicura che i suoi parrocchiani restano persone di cuore, e non hanno smesso di praticare solidarietà e rispetto. Però, spiega, bisogna capire che può essere duro vivere accanto a sconosciuti che non capiscono né il dialetto né l'italiano, che magari non fanno nulla di penalmente rilevante ma gettano la spazzatura in strada o cucinano con spezie misteriose o tengono la musica alta tutta notte, e in una parola vivono come non fossero a Brescia. La paura, sostiene il parroco, è un sentimento legittimo, quando vedi i posti in cui sei cresciuto e invecchiato pieni di gente di altro colore, di «volti pallidi dell'Est, scuri dal Maghreb, neri dall'Africa», e non ti orienti più. Dice che la nuova giunta va bene, purché tenga fede alla tradizione della città: l'attenzione ai deboli, l'assistenza agli anziani, la «finanza sociale». Conferma l'unico uomo del centrodestra bresciano che andrà a Roma al governo, il deputato di An Stefano Saglia, probabile viceministro alle Attività produttive con delega all'energia: «Io sono sempre stato dall'altra parte, ero tra i giovani del Msi. Ma non posso non riconoscere che il cattolicesimo "manzoniano" a Brescia, da Mino Martinazzoli a Giovanni Bazoli, ha espresso una cultura di grande ricchezza, il cui peso si fa sentire eccome, ancora oggi. Già ai tempi della Dc questa era una sorta di diga: una città progressista, isolata nella provincia di Prandini e della Dc dorotea». In città c'era Martinazzoli. Ed è proprio lui a dire che forse una svolta c'è stata davvero. «Finisce una presenza organizzata dei cattolici. Si chiude un'epoca che non è iniziata con me, che durava da molto più di quattordici anni: il centrosinistra era nato con il sindaco Boni, negli Anni '60. Finora avevamo tenuto perché la destra era divisa. Ora siamo ritornati al '93, al '94, gli anni della Lega al 30% e di Berlusconi giovane». Con la differenza che la sinistra non ha un Martinazzoli con cui allearsi. In ogni caso, uscirne non sarà facile neppure per la destra. Ad esempio non sarà facile chiudere tutti i phone- center di via san Faustino, da cui a notte fonda, quando telefonare costa meno, si alzano le voci di quelli che non hanno altri contatti con il mondo, che non si integrano e, soprattutto, non votano.

Aldo Cazzullo
20 aprile 2008

da corriere.it


Titolo: Vertice ad Arcore: Bossi alle Riforme. Alla Lega anche il Viminale, torna Maroni
Inserito da: Admin - Aprile 21, 2008, 01:48:36 am
Incontro con Berlusconi. A Formigoni potrebbe andare la presidenza del Senato

Vertice ad Arcore: Bossi alle Riforme

Alla Lega anche il Viminale, torna Maroni

Ai leghisti anche l'Agricoltura e un vicepresidente del Consiglio (Calderoli). Castelli verso il Pirellone

 
MILANO - Verso le 20,30 i verdetti sono arrivati. Li ha annunciati Umberto Bossi, leader della Lega, al termine del vertice ad Arcore, nella residenza di Silvio Berlusconi. C'era da decidere la «quota» della Lega nel governo che Berlusconi dovrà formare e la decisione è stata presa. «Sono soddisfatto - ha detto Bossi lasciando villa San Martino - se le cose sono così sono soddisfatto. Io vado al ministero delle Riforme. Il ministero dell'Interno va a Roberto Maroni, la vicepresidenza del Consiglio a Calderoli e il ministero delle Politiche agricole a Luca Zaia». Da aggiungere un altro particolare: se come probabile, Roberto Formigoni, attuale «governatore» della Lombardia, otterrà la presidenza del Senato, ci sarà un'altra importante poltrona, quella della presidenza della Regione Lombardia, cui ambisce la Lega Nord, anche per forti motivi simbolici. E viste le «assegnazioni» ministeriali decise ad Arcore, il candidato sarà Roberto Castelli, ex ministro della Giustizia.


LE IPOTESI PRIMA DELL'INCONTRO - Il vertice era cominciato intorno alle 17. Oltre al Cavaliere, c'erano Giulio Tremonti e Sandro Bondi per il Pdl e Umberto Bossi, Roberto Maroni e Roberto Calderoli per il Carroccio. L'incontro era stato fissato per lunedì pomeriggio ma è stato anticipato di un giorno, sperando di chiudere con un giorno di anticipo la composizione del nuovo governo. Nelle prime ipotesi a Maroni sarebbe toccato un «superministero» con le Attività produttive e la delega sulle Comunicazioni Invece la decisione finale lo fa tornare a un incarico delicato, quello di ministro dell'Interno, già ricoperto nel 1994, nel primo governo Berlusconi, durato tuttavia molto poco proprio per il «ribaltone» della Lega che vide in quell'occasione Maroni contrario alla linea scelta da Bossi. Il Viminale era comunque «conteso» dal Pdl. La Lega deve avere insistito per aggiungere significato simbolico alla campagna sulla «sicurezza» e per le posizioni assunte sui temi dell'immigrazione. Era scontato invece che la Lega ottenesse il ministero che i occupa di Riforme, visto che cercherà di rimettere in campo le norme approvate nel finale della legislatura nel precedente governo berlusconiano e poi cancellate dal referendum. Meno prevedibile invece che alla Lega toccassero le Politiche Agricole, con il leghista veneto Zaia.


20 aprile 2008

da corriere.it


Titolo: (LEGA) La battaglia del federalismo
Inserito da: Admin - Aprile 21, 2008, 10:30:52 am
La battaglia del federalismo

Stefano Fassina


I risultati elettorali del 13 e 14 Aprile e, in particolare, la netta affermazione della Lega Nord, hanno riportato al centro dell’agenda politica il federalismo fiscale. In realtà, si dovrebbe dire «federalismo finanziario», poiché la partita riguarda sia le entrate che le spese delle pubbliche amministrazioni, come indica l’originario aggettivo fiscal tradotto impropriamente in italiano. L’impropria traduzione non è semplicemente un incidente filologico, quasi da «Un americano a Roma». È un segnale della cultura federalista prevalente. Ed ha, quindi, forti implicazioni politiche, come vedremo più avanti a proposito della risoluzione sul federalismo del sedicente «Parlamento del Nord» deliberata il 2 Marzo scorso.
Il federalismo è un tema estremamente rilevante per varie ragioni e non va declassato a primo banco di prova della effettiva coesione politica della destra alla prova di governo.

Il tema è rilevante innanzitutto perché l’attuale assetto federale come disposto dal Titolo V della Costituzione, approvato in fretta ed in chiave elettorale dal centrosinistra nel 2001, non funziona e va rivisto: la confusione generata dalle "materie di legislazione concorrente" nel migliore dei casi complica, ma molto spesso paralizza, l’intervento pubblico in ambiti fondamentali per i diritti dei cittadini e decisivi per le performance delle imprese (si pensi, solo per fare qualche esempio dell’assurda estensione della concorrenza legislativa, alle politiche di previdenza complementare, alle politiche per le infrastrutture, alle politiche energetiche, ecc). In secondo luogo, il tema del federalismo finanziario è rilevante in quanto, opportunamente declinato, è condizione per rafforzare la partecipazione democratica dei cittadini secondo il principio della sussidiarietà e per migliorare l’efficienza e l’efficacia delle amministrazioni pubbliche secondo il principio autonomia-responsabilità politica.

Non a caso, il Governo Prodi a metà 2007 approvò, dopo una lunga e faticosa discussione con la Conferenza Unificata Stato-autonomie territoriali, un Disegno di Legge Delega, poi bloccato, come tanti altri provvedimenti innovativi seri, dalle contraddizioni e dalla fragilità dell’allora maggioranza di centrosinistra. Infine, il tema è rilevante, perché usato da alcune forze politiche rilevanti (la Lega Nord è indubbiamente tale) come strumento non per migliorare, ma per annullare il patto scritto nella Costituzione della Repubblica e per ridimensionare, fino ad una dimensione simbolica, le fondamenta dello stare insieme degli italiani. Infatti, la Lega propone un ordinamento federale articolato in tre Euroregioni, dotate di "sovranità esclusiva…in termini di potere legislativo, amministrativo, giudiziario", dopo aver preso atto che "il processo di disgregazione e di dissoluzione dello Stato nazionale…. procede a ritmi sempre più rapidi ed è ormai giunto al capolinea….. che lo Stato ha abdicato alla propria sovranità in molte realtà regionali e in plurime circostanze (le così dette -e orami quotidianamente all’ordine del giorno- ’emergenze’: rifiuti, immigrazione, ecc)….che, a partire dagli anni Novanta, è sotto gli occhi di tutti la suddivisione del Paese in tre grandi unità regionali, omogenee ed affini dal punto di vista economico, sociale e culturale".

Data la posizione delle Lega, la discussione di questi primi giorni post shock elettorale è surreale. Non pochi esponenti del Pd, in vista degli immancabili talk show, si affannano a capire i dettagli tecnici del disegno federalista della Lega, si misurano con aliquote di compartecipazione alle principali imposte erariali e con l’elenco dei tributi da trasferire a Regioni, Province e Comuni. Non affrontano in via preliminare la questione di fondo posta dalla Lega e da una parte di quanti l’hanno votata: vogliamo rilanciare su basi adeguate l’unità della nazione o condividiamo la lettura della dissoluzione irreversibile della Stato nazionale? Di conseguenza, a che cosa finalizziamo il federalismo finanziario? Quali materie vogliamo attribuire alla competenza delle autonomie territoriali? Quali diritti essenziali e quali funzioni fondamentali riteniamo debbano essere garantite sul territorio nazionale, indipendentemente dalla capacità fiscale di ciascun territorio?

Il manifesto elettorale della Lega indica che "indipendentemente dalle competenze costituzionali, le singole Regioni hanno diritto di affrancarsi dallo Stato centrale per l’ottenimento dell’autonomia fiscale"… "allo Stato centrale sono attribuiti: il 50% delle imposte dirette (Irpef ed Ires), il 50% dell’Iva, le accise su tabacco, alcolici e sugli olii minerali, l’imposta di bollo, le imposte sui capitali e le assicurazioni, i dazi doganali. Di competenza delle Regioni sono: il 50% delle imposte dirette (Irpef ed Ires), il 50% dell’Iva, l’imposta di successione e donazione, le imposte sugli immobili, le tasse sui giochi, la tassa di circolazione, l’imposta di registro, l’imposta sugli spettacoli, l’Irap."… "Ogni Regione può autonomamente decidere per quale quota di imposte affrancarsi con un limite massimo del 90% del proprio gettito territoriale".

Nella proposta della Lega, ma anche in quella approvata dal Consiglio Regionale della Lombardia, la portata dello spostamento di risorse dall’ambito nazionale agli ambiti territoriali è tale da svuotare di funzioni il Governo nazionale e da eliminare ogni possibile significativa applicazione dei principi di solidarietà e coesione sociale previsti dalla Costituzione. È tale rendere impraticabile la promozione e tutela di diritti essenziali e l’effettivo esercizio di funzioni fondamentali sul territorio nazionale. Per una ragione semplice: la capacità fiscale dei territori italiani è molto diversa e ha cause molto profonde, difficilmente reversibili nel periodo di transizione immaginato: ad esempio, in termini di Irpef pro-capite, la Lombardia versa 3 volte l’importo della Calabria; per l’imposta pagata dalle società di capitali, il rapporto tra quanto versato per abitante in Calabria e in Lombardia è 1 a 10; per l’Iva (misurata sui consumi finali di ciascuna regione), tale rapporto è 1 a 2.

In sintesi, anche un rapido superamento delle enormi "inefficienze" amministrative presenti nelle regioni a minore capacità fiscale, ossia anche il passaggio dal criterio della spesa storica al principio del costo standard per determinare i flussi di trasferimenti dal bilancio dello Stato ai bilanci delle autonomie territoriali, lascerebbe molte regioni italiane prive delle risorse necessarie a garantire parità di diritti costituzionali.

La discussione sul federalismo finanziario non deve avere il Pd come spettatore, in attesa della eventuale esplosione delle contraddizioni della maggioranza. Al contrario, il Pd deve insistere affinché il tema sia inserito quale primo punto dell’agenda delle riforme istituzionali, ossia dell’agenda da affrontare in via bipartisan. Che senso ha continuare a chiedere di fare insieme la legge elettorale, la riduzione del numero dei parlamentari, la revisione della divisione di poteri tra esecutivo e legislativo, quando una parte intende ridefinire da sola le basi materiali dell’unità della Repubblica? E noi del Pd, prima di fare il Partito del Nord, non dovremmo dire che Paese vogliamo essere?


www.stefanofassina.it


Pubblicato il: 20.04.08
Modificato il: 20.04.08 alle ore 8.16   
© l'Unità.


Titolo: (LEGA). Per il federalismo fiscale solidarietà da 15 miliardi
Inserito da: Admin - Aprile 21, 2008, 10:34:08 am
Per il federalismo fiscale solidarietà da 15 miliardi

di Dino Pesole
 

Riparte il cantiere del federalismo fiscale, sulla spinta del successo ottenuto dalla Lega nord.
Ed emerge subito una prima, rilevante questione da risolvere: la consistenza del fondo perequativo che dovrà garantire le Regioni del Sud, soprattutto nella fase di passaggio dal vecchio al nuovo sistema. Lo stesso premier in pectore, Silvio Berlusconi, ha parlato di «federalismo solidale» e di «fiscalità compensativa».

E si fa strada l'ipotesi di affiancare al modello di perequazione nazionale disciplinato dallo Stato, modelli di perequazione finanziati dalle Regioni, per assicurare agli enti locali le risorse per esercitare le funzioni loro conferite. L'ipotesi di base prevede l'istituzione di un fondo perequativo, per il solo fabbisogno sanitario, di 13 miliardi, cui andrebbe ad aggiungersi un costo di circa 1-2 miliardi per l'Irpef.

Si parte dal corposo dossier messo a punto alla fine del 2005 dall'Alta Commissione sul federalismo fiscale, presieduta da Giuseppe Vitaletti. Obiettivo principale è colmare il vuoto normativo determinato dalla mancata applicazione del nuovo Titolo V della Costituzione, nella parte in cui si stabilisce che i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni «hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa», stabiliscono e applicano «tributi ed entrate proprie» e dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali «riferibili al loro territorio».
Il lavoro della commissione Vitaletti può costituire una base di partenza, soprattutto laddove prevede una stretta correlazione tra il prelievo fiscale e il beneficio connesso alle funzioni esercitate. I tributi propri non potranno rappresentare la principale fonte della finanza regionale, «che dovrà essere costituita in gran parte da compartecipazioni». Il tutto in ossequio alla più recente giurisprudenza della Corte Costituzionale (sentenza n.37 del 2004). La disciplina transitoria dovrà consentire «l'ordinato passaggio dall'attuale sistema, caratterizzato dalla permanenza di una finanza regionale e locale ancora in piccola parte derivata, e da una disciplina statale unitaria di tutti i tributi».

I tributi propri regionali (l'Irap rientra nella competenza statale) dovranno essere istituiti con legge regionale, mentre il fondo perequativo, in ossequio all'articolo 119 della Costituzione (terzo comma), dovrà essere fissato con legge dello Stato «senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante». Nella scorsa legislatura, su questo fronte non si son fatti passi in avanti. Gli elettori hanno respinto la "devolution" varata dal centro destra, e il disegno di legge approvato dal governo Prodi il 1° agosto 2007 è rimasto impantanato alla Camera fino allo scioglimento anticipato del Parlamento.

Ora con il cambio di maggioranza e il nuovo governo Berlusconi pronto a insediarsi, si comincerà da capo. Al quartier generale della Lega il punto fermo è il progetto deliberato dal Consiglio della Lombardia il 19 giugno 2007, in cui si dispone che una parte cospicua della ricchezza prodotta resti sul territorio. Parola d'ordine, evocata del resto a più riprese nei giorni scorsi da Umberto Bossi. Il sistema delle compartecipazioni regionali vede l'Iva al primo posto, con una quota non inferiore all'80%, ma alle Regioni dovrebbe affluire anche il gettito delle accise, dell'imposta sui tabacchi e di quella sui giochi.




ATTUAZIONE TITOLO V

Il Senato delle Regioni

L'Alta Commissione sul federalismo fiscale Istituita nel 2003, la Commissione presieduta da Giuseppe Vitaletti lavorò per due anni e e produsse un dossier di 118 pagine con le indicazioni per adeguare il modello di federalismo fiscale all'articolo 119 della Costituzione.

Autonomia tributaria
La Commissione riconobbe che gli enti territoriali e locali godono di un livello significativo di autonomia tributaria (pari al 47% nelle Regioni, al 44% nelle Province e al 46% nei Comuni). Per rendere funzionante il nuovo Titolo V della Costituzione veniva indicata la necessità di istituire un Senato federale

Patto di stabilità
Secondo la Commissione il finanziamento degli enti territoriali mediante entrate tributarie proprie potrà favorire un uso più efficiente delle risorse, ma per rispettare il patto di stabilità interno «appare essenziale il riconoscimento agli amministratori locali di un effettivo potere fiscale». Dunque, oltre alle compartecipazioni, maggiori tributi propri che tuttavia non potranno rappresentare la principale fonte della finanza regionale
 
da ilsole24ore.com
18/04/2008


Titolo: Maroni: sì alle ronde contro i criminali (non ti fidi del tuo ministero? ndr)
Inserito da: Admin - Aprile 21, 2008, 05:33:22 pm
L'intervista Il ministro dell'Interno in pectore

Maroni: sì alle ronde contro i criminali

«E sugli immigrati clandestini pulizia e polizia»

 
 
MILANO — «Ha visto? Anche a Bologna le fanno. Certo, viste dai Tg, quelle sembrano ronde buone. Ma sono uguali alle nostre». È il ministro dell'Interno in pectore, Roberto Maroni, a rilanciare la vecchia idea del Carroccio, la vigilanza dei volontari contro la criminalità.

È questa la strada seguire?
«Sì. Ho visto con piacere e anche con un po' di compiacimento che Cofferati ha istituito di fatto e legalizzato le ronde».

Serve una legge che dia ai Comuni la legittimità a costituirle?
«Ma no, non serve, le ronde sono già legali. Si fanno già da anni in diverse città. A Milano, per esempio, ci sono i City Angels».

I compiti di polizia non dovrebbero essere di competenza delle forze dell'ordine?
«Infatti le ronde non hanno poteri di polizia giudiziaria, ma di prevenzione ».

Non sono incostituzionali, come sostiene l'ex procuratore antimafia Pierluigi Vigna?
«Questi sono cavilli, ai quali antepongo la vita delle persone. Quando uno viene ammazzato, il problema non si risolve più».

C'è un'emergenza criminalità?
«Sì. Collegata all'immigrazione, spesso clandestina. Prodi ha perso le elezioni su questo e sulle tasse. Noi le abbiamo vinte sulla sicurezza e sul federalismo fiscale».

Amato dice che gli stupri sono diminuiti. E che i patti per la sicurezza nelle città funzionano.
«Ma sono aumentati gli altri reati. I patti non hanno funzionato bene dappertutto e sono insufficienti, anche se bisogna proseguire su questa via».

Che provvedimenti prenderà il governo Berlusconi sulla sicurezza?
«Più rigore contro l'immigrazione clandestina. Serve più pulizia e polizia ».

Non si rischia di esagerare?
«Non vogliamo militarizzare il territorio, ma controllarlo. Coinvolgendo le autonomie locali».

Cioè i sindaci.
«Ha visto il patto siglato dai primi cittadini a Parma? Ecco, quello è l'esempio migliore».

Ora c'è il fenomeno del sindaco- sceriffo di sinistra.
«Non ci sorprende, abbiamo sempre anticipato i tempi».

Fassino chiede il dialogo.
«E noi dialogheremo. Altri hanno interposto barriere ideologiche. Dandoci dei razzisti, degli xenofobi e dei baluba».

È pensabile che il testo sulla sicurezza venga condiviso anche dalla sinistra?
«La mia preoccupazione non è avere un ampio consenso, ma trovare le misure adeguate. Se la sinistra ci sta, bene. Altrimenti abbiamo i numeri per fare da soli».

La Bossi-Fini, si dice, funziona male. Discrimina gli immigrati che lavorano e non fa andare via i criminali.
«È un problema essenzialmente di applicazione. Bisogna attuarla con rigore, come la legge Biagi».

C'è chi invoca una Bossi-Bossi.
«No, la legge ha tutti gli strumenti adeguati per contrastare l'immigrazione clandestina. Semmai si può aggiornare con le novità intervenute dopo il varo».

L'ingresso dei romeni.
«Esatto. Bisogna trovare una soluzione per loro.
Con un provvedimento ad hoc, visto che sono comunitari ».

Lusetti vi accusa: avete aperto voi le frontiere dal 1˚ gennaio 2007 ai comunitari e quindi ai romeni, a differenza di altre nazioni.
«A Lusetti dico che la campagna elettorale è finita. Non ci venga a fare la morale».

Ma è vero o no che avete fatto entrare i romeni?
«È vero che successivamente alla loro entrata, Prodi non ha messo gli argini necessari. E ha fatto decadere due decreti sicurezza. È un governo che ha pasticciato, balbettando su questo tema e dando risposte emotive ».

Veltroni dice che per voi quando certi episodi accadono a Milano è colpa del governo, quando accadono a Roma, è colpa del sindaco.
«Non voglio infierire su uno sconfitto, ma Veltroni ha perso un'altra occasione per stare zitto. Diciamo che è sempre colpa del governo, ma sono situazioni diverse: in un'area degradata come quella dove è successo lo stupro a Roma, la responsabilità è dell'amministrazione».

Rutelli propone il braccialetto elettronico per le donne.
«Non gli crede nessuno. Alle donne i braccialetti piacciono, ma Rutelli poteva svegliarsi prima. Per due anni ha fatto tutto il contrario, ha approvato anche l'indulto. C'è anche un problema di credibilità».

Castelli dice che i carcerati sono pochi e devono aumentare.
«Ha ragione. Ma bisogna agire innanzitutto sul piano della prevenzione. E poi, certo, anche su quello della certezza della pena».

Alessandro Trocino
21 aprile 2008

da corriere.it


Titolo: GIOVANNI CERRUTI. Nord che vecchia canzone
Inserito da: Admin - Aprile 21, 2008, 05:39:33 pm
21/4/2008
 
Nord che vecchia canzone
 
GIOVANNI CERRUTI

 
La Lega che si gonfia di voti, la Questione Settentrionale, il Pd del Nord... Da dove si vuol (ri)cominciare questa novità già vecchia? Si può partire dalla Stazione Centrale di Milano.

O meglio da un bar che stava da quelle parti, in via Bordoni, e dal pomeriggio del 14 giugno 1987. Alle sei del pomeriggio Umberto Bossi ordina un chinotto per celebrare la sua prima elezione, da questo momento sarà «il Senatùr». «Diventeremo il primo partito al Nord - dice -, avremo il sindaco di Milano e caleremo a Roma prendendo voti a destra e sinistra, categorie che spariranno. Noi rappresentiamo gli interessi di chi sta al Nord».

Un visionario? Più o meno l'hanno sempre trattato così ed è stata la sua fortuna. Fine Anni 80, la Dc si affida agli studi della Fondazione Bassetti: «È un fenomeno transitorio e avrà una durata fisiologica di 7 anni, come la "Lista del Melone" a Trieste». O all'idea di Giuseppe De Rita, allora consigliere del segretario Dc Ciriaco De Mita: «Bossi? Basta comprarlo». Formidabili quegli anni, per Bossi. L'unico che aveva capito qualcosa - diceva prima dell'ictus - era stato Bettino Craxi: «Era venuto perfino a Pontida, aveva riunito l'Assemblea nazionale del Psi a Brescia. Ma la verità è che i partiti di Roma ci hanno sempre inseguito».

A proposito di Brescia. Anno 1991, elezioni amministrative, la Dc è il primo partito, il Pds di Achille Occhetto cerca il consenso operaio. La sera dell'ultimo giorno di campagna elettorale, nella sala conferenze dell'hotel Vittoria, Occhetto confida tutto il suo ottimismo. Un cronista domanda, «e la Lega?». Risposta sicura: «Ho girato le fabbriche, arrivo adesso dall'OM. Non ne ho sentito parlare, e dunque credo che non ne risentiremo parlare neppure dopo il voto». Risultato: trionfo della capolista, tale Roberta Pizzicara, e Lega primo partito nella città operaia e bianca di Paolo VI, di Mino Martinazzoli, dei Bazoli, di Lucchini.

Dopo il voto, dopo ogni voto da quegli Anni 80, riparte la vecchia canzone: ah, la questione settentrionale... La memoria fa scoprire che nemmeno il Pd del Nord è una novità. Ne avevano parlato gli eletti nei Ds due anni fa, subito dopo la vittoria di Romano Prodi, l’«Ulivo del Nord». È del 29 gennaio 2007 un convegno alla Fiera di Verona, con il ministro Vannino Chiti. Non è per infierire, ma belle parole e basta. E già allora il bresciano Pierangelo Ferrari avvertiva: «Abbiamo come un handicap territoriale, siamo quelli di Craxi e poi di Bossi e poi di Berlusconi. Un'area da mettere politicamente sotto tutela».

Come negli anni di Massimo D'Alema presidente del Consiglio e Walter Veltroni segretario Ds. Ah, la questione settentrionale... Da Roma viene inviato il signor delegato della direzione, l'onorevole Pietro Folena, forse perché sulla carta d'identità c'è scritto nato a Padova. Un ufficio a Milano, qualche comparsata, e quando si avvicinano le elezioni del 2001 Folena si candida nel collegio di Manfredonia, Veltroni va a sedersi al Campidoglio e Questione Settentionale ti saluto, ci rivediamo dopo il voto. E infatti, altro crollo di voti al Nord e un paio di convegni per meditarci su. Qualche settimana e chi se la ricorda più.

Arriva Veltroni, oggi. E riunirà i suoi segretari regionali del Nord a duecento metri da quel barettino del chinotto di Bossi, vicino alla Stazione Centrale. Lasciato il loft ha scelto come location una room dell'hotel Michelangelo, l'albergone dei businessmen, una volta detti commessi viaggiatori, quelli che scendono dal treno concludono l'affare e ripartono. Segretari regionali, come si sa, eletti su indicazione di Veltroni. Ascolterà, ha anticipato. Ma niente Partito democratico del Nord, e tra gli ex Ds c'è chi ipotizza un maligno perché: il passaggio a seguire, magari, sarebbe la secessione dal Pd di Roma.

Eppure, almeno una volta, tra quel che erano i Ds e la Lega un avvicinamento serio c'era stato. Quando D'Alema era ancora premier incaricato e Bossi, al primo incontro, aveva offerto l'appoggio esterno al suo governo. «Calma». Avevano concordato le tappe, e nell'accordo siglato ai tavoli del ristorante «Gianni e Dorina», sempre dalle parti della Stazione Centrale, c'era l'appoggio della Lega al governo D'Alema e il patto elettorale che avrebbe portato Roberto Maroni alla presidenza della Regione Lombardia. «Ma poi - raccontò Bossi - quasi sul più bello mi chiama D'Alema per dirmi che i suoi l'avevano ingabbiato. Peccato. Per lui».

D’Alema era stato applaudito al congresso leghista di Milano, Bossi lo elogiava: «Massimo è un aquilotto, uno che in politica sa volare, Veltroni una gallinella». È lì, tra il '99 e il 2000, che si spezzano gli ultimi fili. E la Lega, tranne che per i dirigenti Ds del Nord, torna a essere una banda di mezzi baluba, mezzi razzisti, quasi fascisti, xenofobi. Tranne dopo il voto. Ah, la Questione Settentrionale... E il Nord che aveva votato Ulivo e Prodi nel 2006 non è che sia stato trattato granché meglio: tra lombardi e veneti, al governo era andata solo Barbara Pollastrini, al ministero delle Pari opportunità, proprio quel che serviva.

È da maneggiare con cura la Questione Settentrionale, anche quando viene declinata come Partito Democratico del Nord. Sul suo blog Pierangelo Ferrari, già segretario regionale Ds rieletto alla Camera, scrive: «Non abbiamo perso le elezioni a causa della composizione delle liste, ma i criteri con cui sono state composte e imposte sono il prodotto di una cultura centralistica che ci chiude nei loft e ci allontana dal Paese reale. Non si vince con le icone sbandierate sui media, l'imprenditore di successo, la ragazza naïve, l'uomo d'ordine del'esercito, l'operaio esibito come l'ultimo dei Mohicani...».

Benvenuto al Nord, segretario Veltroni.
 
da lastampa.it


Titolo: C’è da rimettere in piedi l’Italia. Ma i pontieri saremo noi leghisti, non Letta
Inserito da: Admin - Aprile 22, 2008, 12:35:20 pm
Il vicepremier in pectore «Veltroni sia l’unico interlocutore tra i suoi. Napolitano garanzia per il dialogo»

Calderoli: ora tre anni di armistizio

«C’è da rimettere in piedi l’Italia. Ma i pontieri saremo noi leghisti, non Letta»


ROMA — Si mostra cauto solo sul suo futuro ruolo di vice premier, «perché come dice Giovanni Trapattoni: "Mai dire gatto se non ce l’hai nel sacco" ». Sul resto, il coordinatore della segreteria leghista Roberto Calderoli disegna le strategie del Carroccio, annuncia che il suo partito intende proporsi come «forza pontiere del dialogo » tra Pdl e Pd sulle riforme, chiede all’opposizione «un armistizio di tre anni per rimettere in piedi l’Italia», confida nell’appoggio di Giorgio Napolitano «che al Quirinale ha mostrato coraggio e coerenza», esorta Guglielmo Epifani a «fare l’interesse dei lavoratori accettando le gabbie salariali », e definisce l’avvento di Emma Marcegaglia alla guida di Confindustria una «coincidenza molto felice».

Siamo alla «rivoluzione copernicana» del Carroccio.
«Noi siamo pronti a dialogare nell’interesse del Paese. Al contrario di quanto si dice, la Lega ha una visione nazionale dei problemi perché ritiene che la questione settentrionale non può essere risolta se non si affronta anche la questione meridionale. E se ci rivolgiamo all’opposizione c’è un motivo: o troviamo il modo di rilanciare l’Italia, o l’Italia porterà i propri libri in tribunale. Inizia una stagione costituente. E non parlo solo di riforme costituzionali, mi riferisco anche a temi come lavoro, pubblica amministrazione, infrastrutture, ordine pubblico, su cui va coinvolta l’opposizione. Serviranno tre anni di armistizio. Gli ultimi due di legislatura, inevitabilmente, saranno proiettati verso le nuove elezioni».

Accettate dunque lo schema Berlusconi-Veltroni?
«L’unico partito che può fare da ponte tra Pdl e Pd è proprio la Lega. Il dialogo non può essere affidato a Gianni Letta. Un conto sono le intese sulle nomine, altra cosa è discutere politicamente sul cambiamento del Paese. Noi siamo pronti. Pensiamo ci sia una parte sana dell’opposizione con cui si deve dialogare. Ma i riformisti devono avere coraggio per rimuovere certe incrostazioni. Incrostazioni che ci sono anche nel centrodestra».

Siete pronti allora a confrontarvi con il leader del Pd?
«Veltroni ha avuto idee brillanti, ed è riuscito a sintetizzarle con grande efficacia, sebbene poi siano rimaste solo slogan. Ma non sono convinto che le dimensioni della sconfitta abbiano scontentato tutti nel Pd. Magari c’è chi vorrebbe mettere in difficoltà Veltroni».

Ci risiamo con i sospetti su Massimo D’Alema?
«Non credo sia il solo. Comunque, a noi serve chiarezza per sapere con chi discutere. Nei due anni di opposizione, la maggiore difficoltà è stata infatti capire chi fosse l’interlocutore. Parlavo con Romano Prodi e diceva cose diverse da quelle che diceva Massimo D’Alema. Andavo alla Camera e ascoltavo cose diverse da quelle che sentivo al Senato.... Ci diano certezze. C’è bisogno di una sola risposta. La cosa ovviamente dovrà essere reciproca. Serve senso di responsabilità».

Nel dialogo coinvolgerete anche Casini, magari in attesa di capire se allearvi di nuovo con l’Udc?
«Lavorai a suo tempo per evitare la rottura. Vedremo se ci sarà spazio per una ricomposizione. Se son rose fioriranno. Per ora concentriamoci sulle riforme. In tal caso sono sicuro che il capo dello Stato aiuterà il processo».

La Lega che si affida a Giorgio Napolitano?
«Quando Napolitano divenne senatore a vita, fu il primo e l’unico a iscriversi al gruppo cui aveva fatto riferimento nella sua storia politica. Per me quel gesto di chiarezza è stato esemplare, mentre gli altri hanno continuato a votare per la sinistra dicendosi super-partes. Viva la faccia. Certo, ricordo come criticammo il suo arrivo al Quirinale, ma nei giorni della crisi, quando temevamo inciuci e larghe intese, lui si affidò solo a Franco Marini. Eppure c’erano altre soluzioni, quella di Giuliano Amato per esempio, che potevano diventare pericolose. Invece no, ha sciolto il Parlamento che lo aveva eletto. Bisognava aver le palle per farlo. E l’ha fatto».

Difendete Napolitano, difendete i sindacati da Confindustria...
«Il voto non ha determinato solo un cataclisma elettorale, ha anche sovvertito i canoni della politica. Non hanno più senso le vecchie categorie, siamo in presenza di un evento storico, rivoluzionario. Perciò speriamo che tutti se ne rendano conto. I sindacati tornino alla loro ragione sociale e smettano di fare i partiti. Il segretario della Cgil, se vuole fare davvero gli interessi dei suoi iscritti, accetti le gabbie salariali. Lui sa che la paga di mille euro a Milano vale meno che in un paesino del Sud. E comunque, le colpe non possono essere scaricate solo sui sindacati».

Che vuol dire?
«Che anche la Confindustria di Montezemolo ha grandi responsabilità. Invece di attardarsi a far politica, avrei per esempio applaudito se il gruppo Thyssen fosse stato buttato fuori dall’associazione degli imprenditori, dato che ha avuto 11 morti in un anno nelle sue fabbriche».

Pensa che il rapporto cambierà con Emma Marcegaglia?
«Il suo avvento alla guida di Confindustria è stato una felice coincidenza. Ha un atteggiamento positivo. Basti pensare al modo in cui ha difeso Malpensa. Ha detto la verità senza badare ai riflessi politici della mossa. Altri, invece, avrebbero usato il "ma anche". Ecco cosa significa avere senso di responsabilità ».

Famiglia cristiana si appella invece al vostro senso di responsabilità e vi invita a liberarvi di certe «venature anticristiane».
«Ma se sui temi etici la Lega non si è mai rifugiata nella libertà di coscienza... Eppure non abbiamo mai strumentalizzato la questione cattolica per fini elettorali».

In queste ore siete anche accusati di aver fatto il «sacco» del governo?
«Nel 2001 ci toccarono tre ministeri. Visto il risultato, è legittimo chiedere in aggiunta un posto da vice premier. Anzi, avremmo potuto aspirare anche alla presidenza di una Camera: nel 2006 il Prc la ottenne prendendo meno voti di noi».

In cambio pretendete però da Berlusconi un posto di governatore in Lombardia o in Veneto.
«Se Formigoni e Galan restano al loro posto, il problema non si pone. Ma quando in Lombardia e Veneto si tornerà a votare, rilanceremo la richiesta».

È preferibile per la Lega occuparsi di politica piuttosto che di banche, visto com’è finita con Credieuronord.
«Siamo stati vittime non causa di quella vicenda».

Francesco Verderami
22 aprile 2008

da corriere.it


Titolo: Roberto Cotroneo. Amici miei, leghisti immaginari
Inserito da: Admin - Aprile 24, 2008, 09:07:03 am
Amici miei, leghisti immaginari

Roberto Cotroneo


E adesso cosa accadrà? Che la Lega diventa l’oggetto di maggiore fascinazione per buona parte degli intellettuali di sinistra, soprattutto quella ex Arcobaleno. Quelli che troveranno un modo per salire sul carro del vincitore, anche solo per poco, quel tanto che basta per capire come è, e poi scendere. Adesso che la Lega ha preso un voto su tre in Veneto, ha raggiunto l’8 per cento nazionale, è l’ago della bilancia per il futuro Governo Berlusconi, si comincia a dire: se hanno tanto successo qualche motivo ci sarà.

Perché la Lega Nord mica è un partito di élite, mica è un partito di gente che se ne sta a Roma a perdere tempo. E no che non è così, la Lega la votano a Sesto San Giovanni, e la votano a Porto Marghera, la votano al posto della Sinistra Arcobaleno, e la votano quelli del sindacato, e cominciano a votarla pure in Emilia e in Toscana, feudi rossi, di efficienza di sinistra. E perché anche lì? Perché sono connessi con la gente, sono davvero radicati nel territorio, dànno voce a un disagio, a un mondo sommerso, che la politica romana non sa interpretare. E cosa dobbiamo farci? Quelli sono così, saranno brutali, un po’ beceri ma alla fine efficaci. Perché poi, mica puoi negarlo, sul federalismo fiscale qualche ragione potrebbero averla, e se io produco qui, faccio fatturato, mi apro la partita Iva, e lavoro tutto il giorno, quelle tasse non posso darle ai calabresi o ai baresi, che poi chi li conosce. È una forma di egoismo moderno, che però rispecchia un modo di pensare mondiale che in fondo non è globale per niente, e già per questo piace.

Ce li aspettiamo dei ragionamenti di questo genere. Perché è così che funziona. Già ieri l’ottimo Stefano Di Michele, sul Foglio, immaginava l’intellighenzia di sinistra tutta a Pontida a versare l’acqua del Po, a fare giuramenti, a discettare, con una lettura originale e colta su Alberto da Giussano. A maneggiare durlindane, a inneggiare contro Federico I detto il Barbarossa, e a rivalutare i comuni, i localismi, le piccole patrie, i dialetti del nord, perché poi in fondo Pasolini non diceva le stesse cose? E poi di dove era Pier Paolo Pasolini? Di Casarsa, friuliano. E in che lingua scriveva poesie Pasolini? In friulano. E chi lo dice, in fondo, che se oggi fosse vivo, nei suoi scritti corsari, non inneggerebbe all’Umberto Bossi, come fece nel 68, sorprendendo tutti, e prendendo le parti dei poliziotti, e non degli studenti.

Perché va detto, in queste cose siamo un paese corsaro, contraddittorio e imprevedibile. Soprattutto a sinistra, dove finisce sempre che prevale il “pensamolo strano”. Ora non si sa il perché ma la Lega va forte. Come si comincia a dire, è il più antico partito italiano. E figuriamoci. Peccato che la parola antico non si addide molto. Sarebbe meglio dire che alla fine per dissoluzione di tutti gli altri partiti sono rimasti in piedi solo Bossi e gli amici suoi. I quali sapranno intercettare un elettorato trasversale, e sapranno parlare a quelli che hanno paura a uscire di casa per colpa degli immigrati, clandestini e no, ma rimangono quelli di sempre. Quelli che li vedi alla Camera o al Senato, con queste cravatte verdi, e fazzoletto da taschino dello stesso colore. Quelli che sembrano arrivati chissà da dove. Quelli di Roma ladrona, che lo dicono e ci credono davvero. Quelli dei fucili. Quelli che il nord, la padania e niente altro. Quelli della maglietta anti Islam e delle uscite di Roberto Calderoli. Quelli che non sai come facciano a fare i raduni, le ronde delle camicie verdi, e si nominano cavalieri della lega lombarda tra di loro, come fossero in un gioco di ruolo medievale. Quelli che poi, alla fine, dove hanno amministrato il nord, non lo hanno fatto con tutta quella efficienza e serietà che vogliono vantare.

Ma che importa. Ci siamo dimenticati il razzismo della Lega. E si dimentica in fretta che si tratta di un partito privo di qualsiasi cultura, antieuropeista, piccolo piccolo, capace di guardare al particolare. Quello del tricolore da strappare, quello dell’Inno di Mameli, che non si conosce e non si canta. Gli intellettuali più duttili, i più corsari, i più attenti, i teorici del “pensamolo strano” troveranno motivo di fascino in questi signori, che si avviano a far girare le scatole a Berlusconi per i prossimi cinque anni. Perché vai a sapere come è successo, ma li trovano complessi e per niente banali, dietro quella scorza da macellai subalpini. Si tratterà di capire se anche la Lega cambierà nei prossimi cinque anni, e si renderà conto che quattro ministri su dodici sono tanti, e che alla fine, quei quattro dovranno giurare fedeltà alla Costituzione, e dunque alla bandiera e a tutto il resto nelle mani del Presidente della Repubblica. E lo faranno contenti, perché in realtà tutti loro a Roma ci stanno benissimo, e in campagna elettorale la Santanché faceva notare che è ormai il terzo compleanno che Roberto Maroni festeggia a Roma. E non a Varese, sua piccola patria. Forse perché a Roma si festeggia meglio.

E quelli che guardano a Pontida come si guardava all’Havana ai tempi d’oro, sono intrigati (che altro termine sennò) da questa doppia verità della Lega, seccessionisti di giorno, goderecci la notte. Un colpo al cerchio e un colpo alla botte. La doppia verità di togliattiana memoria, ora è diventata la doppia verità leghista. Ai compagni si prometteva la rivoluzione proletaria, e poi si stava in parlamento. Al popolo del nord si promette la seccessione, e poi si gozzoviglia tra Pantheon e piazza Navona. Con in testa la celebre frase di Flaiano: «Roma è l’unica città orientale senza un quartiere europeo». E in questo i leghisti non hanno proprio aiutato. Il pericolo è che tra un po’ con i leghisti gozzoviglieranno tutti. E si leggeranno anche sui giornali articoli sorprendenti. Il comandante Bossi, de tu querida presencia, il fascino intellettuale di Maroni, con le sue montature degli occhiali vezzose, e la sua passione per gli organi Hammond, il compagno Calderoli, che sembra un po’ magilla gorilla, e in fondo è un vero intellettuale, e pure un ineccepibile vicepresidente del Senato. E Castelli? E Rosi Mauro, la pasionaria della Lega, perché poi la Lega è anche un po’ così, ruvida come certe canzoni di Paolo Conte, grigia come certe giornate tra Langhe e padania, concreta come un tondino cesellato in quel di Brescia, fluida come un Barbera giovane. Dentro la Lega c’è il popolo delle partite Iva ma anche il mai abbastanza compianto compagno Stachanov: gente che lavora, gente di pianura, gente che guarda lontano. Va’ dove ti porta la padania, ovvero fino alla foce del Po, dal Monviso a Codigoro. Perché compagni miei, leghisti immaginari ci sarà da scrivere su questi nuovi eroi del pensiero forte, ribaltare luoghi comuni, sposare una causa, lasciare Capalbio per Bibbione, perché lui, il comandante Umberto è l’ultimo rivoluzionario in un paese pusillanime, l’unico che può sostitituire nell'immaginario intellettuale di certa sinistra, il subcomandante Fausto, e con risultati assai più convincenti. E poi dicono che l’Italia non è un paese imprevedibile.

roberto@robertocotroneo.it

Pubblicato il: 23.04.08
Modificato il: 23.04.08 alle ore 8.16   
© l'Unità.


Titolo: di Alexis De Tocqueville, anno 1840.
Inserito da: Admin - Aprile 24, 2008, 09:55:09 am
nel 1840 c'era uno che se ne intendeva...
Ma... La...
 
-------

«Può tuttavia accadere che un gusto eccessivo per i beni materiali porti gli uomini a mettersi nelle mani del primo padrone che si presenti loro. In effetti, nella vita di ogni popolo democratico, vi è un passaggio assai pericoloso. Quando il gusto per il benessere materiale si sviluppa più rapidamente della civilità e dell'abitudine alla libertà, arriva un momento in cui gli uomini si lasciano trascinare e quasi perdono la testa alla vista dei beni che stanno per conquistare. Preoccupati solo di fare fortuna, non riescono a cogliere lo stretto legame che unisce il benessere di ciascuno alla prosperità di tutti.

In casi del genere, non sarà neanche necessario strappare loro i diritti di cui godono: saranno loro stessi a privarsene volentieri... Se un individuo abile e ambizioso riesce a impadronirsi del potere in un simile momento critico, troverà la strada aperta a qualsivoglia sopruso. Basterà che si preoccupi per un po' di curare gli interessi materiali e nessuno lo chiamerà a rispondere del resto.

Che garantisca l'ordine anzitutto! Una nazione che chieda al suo governo il solo mantenimento dell'ordine è già schiava in fondo al cuore, schiava del suo benessere e da un momento all'altro può presentarsi l'uomo destinato ad asservirla. Quando la gran massa dei cittadini vuole occuparsi solo dei propri affari privati i più piccoli partiti possono impadronirsi del potere.

Non è raro allora vedere sulla vasta scena del mondo delle moltitudini rappresentate da pochi uomini che parlano in nome di una folla assente o disattenta, che agiscono in mezzo all'universale immobilità disponendo a capriccio di ogni cosa: cambiando leggi e tiranneggiando a loro piacimento sui costumi; tanto che non si può fare a meno di rimanere stupefatti nel vedere in che mani indegne e deboli possa cadere un grande popolo».

De la démocratie en Amerique di Alexis De Tocqueville, anno 1840.



Letto sulla ML lom.volontari


Titolo: Aldo Cazzullo. Zaia, il leghista che assume asini e cita Hobbes
Inserito da: Admin - Aprile 25, 2008, 12:03:38 am
Il personaggio

E' ossessionato dalla sicurezza stradale: io a 183 all'ora?

A centinaia volevano farmi da autista

Zaia, il leghista che assume asini e cita Hobbes

Ex pr nelle discoteche, punta all'Agricoltura: ho mandato il radicchio sullo Shuttle


«Sì, i sei asini brucaerba sono ancora in servizio lungo le strade. Costano meno delle falciatrici e sono più efficienti. Embé?». Se è per questo, anche i semi del radicchio rosso di Treviso nello spazio si sono trovati benissimo: «Li abbiamo mandati in orbita sullo Shuttle. Un esperimento scientifico. E anche un modo per far parlare di noi. I giornali e le tv ci cascano sempre».

La storia di Luca Zaia, classe 1968, annunciato ministro dell'Agricoltura, è esemplare del successo lungo della Lega. Zaia fa politica con la stessa tecnica e la stessa tenacia con cui faceva il pierre della discoteca Manhattan: dare del tu a tutti, parlare con tutti, parlare di tutto. No all'Ecopass, a Mastella nel centrodestra, alle preghiere islamiche nei locali della parrocchia di Paderno di Ponzano («chi si crede di essere, il Papa?» replicò il parroco. «Quel prete è un anarchico » fu la risposta). Sì all'esame di italiano «prima di ammettere alunni stranieri nelle classi dei nostri bambini», ai controlli sanitari alle frontiere, al test del Dna per i ricongiungimenti familiari, ai cani antidroga davanti alle scuole con test obbligatori «per studenti, insegnanti e politici», al «test di conoscenza della storia e della cultura del nostro paese» prima di concedere «dopo almeno dieci anni» la cittadinanza.

Le colture del suo paese per lui non hanno segreti. «Non c'è solo il radicchio rosso di Treviso, come molti credono, ma anche quello di Castelfranco, di Chioggia, di Verona... così come l'asparago bianco di Cima d'Olmo, che cresce sulle rive del Piave, è diverso da quello di Badoer che cresce sulle rive del Sile, a sua volta diverso da quello di Bassano... ». Stesso discorso per i vini: «Tutti si fermano a prosecco e amarone. Ma il Veneto è il primo produttore italiano. Abbiamo 25 vini doc, 10 igt, 3 docg, sette milioni e mezzo di ettolitri, 77 mila ettari di vigne, 71 mila produttori.... ». L'agricoltura è sempre stata la sua vocazione. Assessore provinciale a 27 anni, eletto per due volte alla presidenza della Provincia di Treviso — sempre da solo, battendo sia la sinistra sia Forza Italia e An —, ha conservato per sé le deleghe all'agricoltura. Al momento cumula l'assessorato regionale con la vicepresidenza del Veneto. A Roma ci sarebbe parecchio da fare: «Diversi settori trainanti sono in ginocchio, a cominciare dalle barbabietole. E poi le quote latte: un cartone di latte su due è straniero. La sicurezza alimentare. I pericoli della globalizzazione.

La difesa dell'agricoltura è la difesa della nostra identità». E gli ogm? «E' una questione complessa, che non si può risolvere con un sì o un no. Chi dice: gli ogm nei nostri campi ci sono già, andiamo avanti. Chi risponde: no, serve un giro di vite, estirpiamo gli ogm. In mezzo ci sono una legge italiana, una europea, più le direttive internazionali. Bisogna far rispettare le regole, senza integralismi ». Figlio di un meccanico, appassionato di lavori manuali – nel paese dov'è nato e vive, Bibano di Godega di Sant'Urbano, non è raro vederlo sfaccendare in canottiera e carriola - , diplomato alla scuola enologica di Conegliano e laureato a Udine in «Scienza della produzione animale», appetito pantagruelico – è solito festeggiare le numerose vittorie elettorali con grigliate sul Montello, «due tori da quattro quintali e migliaia di bottiglie di prosecco» -, Zaia è bersagliato dalla stampa progressista (La Tribuna di Treviso lo chiama Er Pomata per via dei capelli tirati indietro con il gel) ma incoraggiato da altri giornali non ostili: «Varcherà pure in punta di piedi la soglia della capitale, ma poi calzerà le sgàlmare sporche di terra, e farà a modo suo».

Con il sindaco Gentilini, assicura, è in ottimi rapporti: «Abbiamo cominciato insieme. Sono leghista da sempre». Grande sostenitore delle ronde – «come insegna Hobbes, il cittadino delega lo Stato a difenderlo, ma quando lo Stato non è in grado il cittadino si riprende il diritto e lo esercita» -, a ogni delitto perpetrato nel Nord-Est segue una sua dichiarazione. Le ultime: «Spero che questa bestia omicida marcisca in carcere». «I veneti vogliono che i criminali siano rinchiusi e si butti via la chiave». «E ora nessuno invochi l'infermità mentale perché il Veneto ripudia cittadini come questi». «L'impressione è che per il senso comune non sia sufficiente, per questi crimini efferati, la pena dell'ergastolo». «Invocare la pena capitale non è certo fuori luogo».

Ha anche salvato un albanese prigioniero nell'auto in fiamme: «Non chiamatemi eroe, ho fatto solo il mio dovere.
Piuttosto, sono disgustato da quelli che hanno tirato dritto ». Gli archivi custodiscono il solito florilegio di dichiarazioni: il benvenuto al vertice di Codevigo ai ministri dell'Agricoltura del-l'Est Europa – «colgo l'occasione per parlare dell'imbarazzante presenza nella Comunità europea di Romania e Bulgaria» -, i fischi all'inno – «parte Mameli e ti vengono in mente Napolitano, Prodi, Marini, Bertinotti e tutta quella roba lì» -, il saluto al presidente della Repubblica con avvertimento incorporato: «Stringendogli la mano gli dicevo "guardi che il Nord ha le palle piene"». Ma tra le gente che incontra è popolarissimo, e ne incontra molta: «Faccio centomila chilometri l'anno». La vorticosa mobilità, unita all'arretratezza della rete viaria pedemontana, gli ha ispirato l'ossessione per la sicurezza stradale. In mezzo alle rotatorie ha fatto mettere i rottami delle auto incidentate, ha sollecitato maggiori controlli «dal palloncino al prelievo dei capelli di chi è al volante», perché «in tempi di emergenza come questi devono cadere tutte le barriere a cominciare dalla privacy». Per i rei, nessuna pietà: «La patente non è un diritto, non la si può dare a una persona inaffidabile. Perché la patente sì e il porto d'armi no? Un'auto può diventare un'arma!». La sua, una Bmw, fu beccata in autostrada a 193 all'ora. «A parte il fatto che facevo i 183 e dovevo andare in Regione per un'emergenza, una tromba d'aria, ho pagato la multa da 407 euro e sono stato senza patente per un mese. E' partita una gara di solidarietà: un industriale mi ha messo a disposizione l'elicottero, centinaia di veneti si sono offerti di farmi da autista. Ma io non ho autisti né autoblù: la macchina era la mia!».


Aldo Cazzullo
24 aprile 2008

da corriere.it


Titolo: ... Emma Marcegaglia si è già incontrata con il Cavaliere,...
Inserito da: Admin - Aprile 25, 2008, 12:07:38 am
Retroscena

A colazione con il Cavaliere


ROMA — Vedrà Silvio Berlusconi oggi, e ufficialmente sarà la prima volta.
In realtà Emma Marcegaglia si è già incontrata con il Cavaliere, proprio nei giorni in cui stava per essere designata alla guida di Confindustria. Fonti autorevoli di Forza Italia raccontano sia stato un colloquio «cordialissimo e soprattutto produttivo», come a prefigurare un rapporto di collaborazione proficuo tra il futuro premier e la neo presidente degli imprenditori. E non c'è dubbio che la Marcegaglia auspichi una forte sinergia con il prossimo governo, lo s'intuisce dal ragionamento con cui si è presentata a Berlusconi: «Voi liberate l'impresa, noi ci adopereremo per rilanciare l'Italia e costruire un nuovo rapporto con i lavoratori».

Nella maggioranza c'è — come dice Maurizio Sacconi — «un'attesa positiva verso la Marcegaglia, che è intenzionata a proporsi nel ruolo di sindacalista delle imprese, più attenta ai temi del fisco e dello sviluppo, e un po' meno interessata alla legge elettorale». In realtà ieri è parsa preparata anche sulle questioni istituzionali. Quegli accenni alla necessità di modificare il sistema, compresa l'aggiunta del «premio di maggioranza al Senato» nel modello di voto, sono sembrati molto simili ai «ritocchi» a cui punta Berlusconi. Per non parlare delle critiche sollevate sul rapporto di cambio attuale tra euro e dollaro, «decisamente penalizzante per le imprese», e che ha fatto ricordare quando in campagna elettorale il Cavaliere invitò la Bce a «risolvere al più presto il problema».

Insomma, non sembra esserci alcun intento antagonista verso il governo ma nemmeno desiderio di collateralismo, piuttosto — per usare le parole di Sacconi — «dopo la tesi e l'antitesi, lei sarà forse la sintesi nelle relazioni tra centrodestra e Confindustria ». L'espressione del dirigente azzurro rimanda ai rapporti di Berlusconi con i precedenti vertici di viale dell'Astronomia. «Perché la Marcegaglia — come spiega Roberto Maroni — non è Antonio D'Amato, che era stato etichettato politicamente, e non è neppure Luca di Montezemolo, che da politico si è mosso. Lei non ha posizioni pregiudiziali, e soprattutto si rende conto che questo è il momento per cambiare il Paese». Il dirigente leghista rivela che «durante un nostro recente colloquio mi ha detto: "Io starò dalla parte di chi farà le grandi riforme. E le riforme o si fanno ora o non si faranno più". Lei vuol vincere la sfida, soprattutto quella sul rinnovo del modello contrattuale. E sa che potrà contare sul nuovo governo, determinato ad attuare fino in fondo la legge Biagi».

Berlusconi è consapevole della «pesante eredità» che raccoglie la nuova rappresentante di Confindustria, «dato che — a suo avviso — le ragioni dell'impresa sono state spesso negate dal governo precedente». Il Cavaliere è pronto a intestarsi lo slogan della Marcegaglia, cioè a «liberare gli imprenditori», e nel suo staff c'è chi già progetta di smontare «l'intensiva regolazione fiscale e burocratica» varata dall'Unione. Attorno all'erede di Montezemolo si è costituita una rete estesa di sostenitori, che va da Fedele Confalonieri — schieratosi pubblicamente per la riforma del contratto — al prossimo ministro dell'Economia Giulio Tremonti, convinto che «con la nuova Confindustria lavoreremo bene ». A detta di Maroni, «la Marcegaglia avrà dalla sua anche Walter Veltroni, interessato ad assecondare il processo di innovazione, specie ora che la sinistra radicale è fuori dal Parlamento. Semmai, è il sindacato che vedo sotto pressione».

Quanto alla Lega, con la difesa di Malpensa aveva conquistato tutti. Ieri poi, dopo aver detto che il successo del Carroccio «non è solo frutto di una reazione protezionista», e dopo aver inneggiato al «federalismo fiscale », ha strappato applausi a scena aperta. «Dimostra quanto poco ideologico sia il suo approccio al nostro movimento», commenta Maroni: «Anche perché conosce gli amministratori leghisti sul territorio».

Oggi la Marcegaglia incontra Berlusconi, che quasi certamente le renderà visita all'assemblea di Confindustria di fine maggio, nelle vesti di presidente del Consiglio. Spetterà al governo tradurre le buone relazioni iniziali in un rapporto proficuo, perché le urne — come ha sottolineato ieri la nuova guida degli imprenditori — hanno consegnato al Cavaliere «una maggioranza chiara. E non ci sono più alibi per non fare le riforme».

Francesco Verderami
24 aprile 2008

da corriere.it


Titolo: Dal letame nascono i fior
Inserito da: Admin - Aprile 25, 2008, 09:21:06 am

Marco Travaglio


Dal letame nascono i fior

"Un po' meno orgoglioso sono della legge elettorale che si dovrà riscrivere. Glielo dico francamente, l'ho scritta io ma è una porcata. Una porcata fatta volutamente per mettere in difficoltà una destra e una sinistra che devono fare i conti col popolo che vota" (Roberto Calderoli, Lega Nord, Matrix, 15 marzo 2006)

"La legge elettorale ha dato risultati storici, vedremo quale sarà il miglioramento possibile. Con il buon risultato di questa legge penso che il referendum possa essere bocciato dagli elettori" (Silvio Berlusconi, Agr, 15 aprile 2008)

"Anche in questo caso ho le idee abbastanza chiare, confermo che terremo a Napoli il primo consiglio dei ministri. Tra le varie soluzioni, il governo si doterà di apposito sottosegretariato destinato esclusivamente alla questione dei rifiuti" (Silvio Berlusconi in collegamento telefonico con Porta a Porta, 15 aprile 2008)

(25 aprile 2008)

da repubblica.it


Titolo: TITO BOERI. Un sindacato di nome Lega
Inserito da: Admin - Aprile 25, 2008, 12:14:00 pm
25/4/2008
 
Un sindacato di nome Lega 
 
TITO BOERI
 

Roberto Calderoli non ha certo l’aria del genio. Né del bene, né del male.
Eppure quella «porcata» di legge elettorale che porta il suo nome (e il suo famoso epiteto) è stata, per la Lega, un vero e proprio colpo di genio.
Non solo perché la soglia dell’8 per cento su base regionale al Senato è costruita su misura per la Lega, ma anche perché il divieto di esprimere preferenze attribuisce alla Lega un grande vantaggio competitivo rispetto agli altri partiti. Il fulcro delle attività della Lega si svolge su di un’area limitata, un territorio poco più grande dell’Olanda, ma meno densamente popolato. Il suo nocciolo duro è nei piccoli centri, dove si può avere un rapporto diretto con l’elettorato, senza aver bisogno dell’intermediazione dei media. Nella Lega non ci sono grandi elettori e potentati locali, ma tanti «piccoli politici» di borgo che hanno il pregio di stare in mezzo alla gente, come dovrebbero fare tutti i bravi amministratori locali.

La Lega è il partito che negli ultimi 15 anni ha portato più giovani in Parlamento. Al contrario degli altri partiti, nell’ultima tornata elettorale non li ha confinati a piè di lista, dove si poteva stare sicuri che non venissero eletti. Si dice che i giovani trovino più spazio nella Lega perché «danno meno problemi», rispettano le gerarchie. In effetti, i giovani della Lega (compresi quelli che entrano in Parlamento) sono poco istruiti, difficilmente riescono ad imporre il loro punto di vista. Non serve perché gli elettori della Lega non guardano tanto alle qualità dei singoli, quanto al loro rapporto col territorio. È la comunità di appartenenza che li identifica, piuttosto che il loro curriculum e le loro competenze. Per entrare nella Lega come militanti, per aspirare a cariche amministrative o a candidature alle politiche, bisogna prima ricevere il «gradimento» di una comunità di iscritti. Anche se alla fine è il capo supremo, l’Umberto I, a decidere chi mettere in lista e chi no, questa scelta non viene percepita come un’imposizione dall’alto perché avviene nell’ambito di una rosa di persone che sono già state accettate, di cui ci si può fidare (per la verità non pochi «tradimenti», cambiamenti di campo, si sono consumati anche tra le file della Lega).

Questa forma di partito è funzionale alla strategia politica della Lega. È un partito rivendicativo, con finalità redistributive, che opera come un sindacato del territorio. Statalista quando si tratta di soldi per la Lombardia, liberista quando si tratta degli altri. Può candidamente chiedere di più per i propri territori e meno per gli altri. Nel programma della Lega si parla delle infrastrutture al Sud come qualcosa che potrà essere attuato solo dopo la Tav e le altre grandi infrastrutture del Nord e senza soldi pubblici. Come dire mai. Per questo il modulo organizzativo e gerarchico della Lega è difficilmente esportabile a partiti che ambiscono ad aumentare le dimensioni complessive della torta, piuttosto che a redistribuire le risorse esistenti. Anche un partito che sia federazione di partiti del Nord, del Sud, del Centro e magari anche dei «territori d’oltremare», dovrà trovare una sintesi, che rischia di essere vista come una scelta imposta dall’alto nei singoli territori.

Ma soprattutto facendo come la Lega non si possono risolvere i problemi di cui ci si è fatti interpreti. La globalizzazione e l’immigrazione, non li si governano nelle piccole comunità, la lotta alla criminalità organizzata richiede un coordinamento fra nazioni, prima ancora che fra paesini o quartieri. Sono tutti fenomeni che avvengono su di una scala più ampia di quella delle comunità della Lega. E anche il miglioramento delle condizioni materiali di vita nei piccoli centri richiede una sempre maggiore apertura verso il mondo circostante. Non solo non ci si può più difendere tra le mura del borgo, ma non si può neanche ambire a migliorare il proprio tenore di vita rimanendo chiusi lì dentro.

Il Porcellum finisce così per logorare i partiti diversi dalla Lega, crea tensioni crescenti fra il capopartito, che ha troppo potere, oneri oltre che onori, e la sua base. Ma ora che il voto è alle spalle, quella pessima legge elettorale non può diventare un alibi per ritardare quel rinnovamento della classe politica che non c'è stato con queste elezioni. I partiti possono farlo anche fuori dal Parlamento. Si deve rompere la tradizione che vede chi entra in politica restarci a vita. I politici che escono di scena non sono un problema sociale. Chi aveva una professione prima di entrare in politica, guadagnerà più di prima, spesso molto più di prima. Chi ha fatto il politico tutta la vita, potrà comunque contare su pensioni molto generose. Bene puntare fin d’ora su giovani che si allenino per le provinciali dell’anno prossimo e siano pronti fra cinque anni, quando si terranno le prossime elezioni politiche. Ci sono in giro tanti giovani che vogliono fare politica e non trovano spazio nella gerontocrazia. Bene sceglierli tra quelli che leggono prima la stampa locale dei grandi quotidiani nazionali, e che non si perdono nel circuito autoreferenziale della grande politica e delle grandi testate. Come abbiamo visto con queste elezioni, talvolta perdono il contatto con la maggioranza degli italiani. Chi fa politica deve saper stare in mezzo alla gente. Questa è la vera lezione che tutti i partiti devono oggi imparare dalla Lega.
 
da lastampa.it


Titolo: Rischio secessione di rapina
Inserito da: Admin - Aprile 26, 2008, 02:19:03 pm
26/4/2008
 
Rischio secessione di rapina
 
CARLO BASTASIN
 

C’è stato un attimo in cui il rituale delle dichiarazioni politiche si è squarciato e tutto ha preso ad accelerare vorticosamente. È stato quando i confronti riservati tra Bossi e Berlusconi e i vertici dei partiti che formeranno il governo hanno fatto trasparire l’ipotesi di una sostituzione dei due attuali presidenti delle Regioni Lombardia e Veneto con due esponenti della Lega. Nella spina dorsale dei secessionisti o dei meridionalisti, dei nostalgici asburgici o dei centralisti, deve essere corso un formidabile brivido di eccitazione o di timore. Immaginatevi lo scenario in cui le due Regioni economicamente più dinamiche d’Italia legiferano identicamente e di concerto in materia di scuola, cultura, infrastrutture, immigrazione, salute o aziende pubbliche locali. I loro leader cresciuti in una cultura secessionista, fanno pesare nelle trattative con le altre Regioni e con lo Stato il peso delle loro economie e capacità fiscali. Uno scenario fantascientifico che deve aver spaventato perfino gli interlocutori del governo se è vero che Fini ha subito tenuto a escludere che l’attuale governatore lombardo potesse muoversi da Milano, contro la stessa volontà di Formigoni.

In fondo lo scorso anno era stato proprio il Consiglio regionale lombardo ad approvare un progetto di federalismo fiscale in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione con implicazioni radicali per tutte le altre Regioni e assorbito dal programma elettorale del Pdl. Uno scenario in cui il Lombardo-Veneto prendesse un profilo politico de facto, non è per niente da escludere se anche in futuro la Lega confermerà la propria vitalità presso l’elettorato che nell’ultima elezione le ha consentito di strappare proprio a Berlusconi un milione di voti nel Nord. Ma le conseguenze di un tale evento, finora imprevisto, sono straordinariamente profonde e credo irreversibili.

Esse rendono l’idea di quanto sia delicato l’assetto istituzionale dell’Italia e di quanto poco sia sufficiente ad accelerarne l’instabilità. Per queste ragioni il tema del federalismo dovrebbe essere affrontato tempestivamente, ma quantomeno con un po’ di metodo. Le proposte attuali in materia fiscale sono per esempio azzardate, come dimostrano i calcoli sul trasferimento alle Regioni del 15% dell’Irpef e dell’80% dell’Iva oltre alle accise sugli oli combustibili. Un criterio di coerenza con il bilancio dello Stato e con la funzionalità di tutto il territorio non può essere trascurato. In sostanza un federalismo attraverso un atto di forza non potrebbe nemmeno funzionare. Anche se decentrate, le spese locali devono rispondere a qualche criterio di efficienza condiviso, dovrebbero essere chiare le regole di responsabilità finanziaria delle singole amministrazioni e tali regole dovrebbero essere fatte valere. Paradossalmente in una condizione tanto squilibrata come quella italiana, in cui molte Regioni vivono condizioni di irresponsabilità senza sanzioni, proprio per applicare il federalismo sarebbe necessario un potere centrale, regolatorio e sanzionatorio, molto efficace.

Sarebbe necessario fissare standard dei servizi pubblici, a cominciare da quelli della sanità e dell’istruzione, e far emergere le «pratiche migliori» per farle apprendere alle Regioni meno efficienti. Senza regole nuove, necessariamente centrali, sulla mobilità del personale della pubblica amministrazione, l’adeguamento delle strutture regionali sarebbe assurdamente costoso. I criteri fiscali di finanziamento dovrebbero essere basati su tasse al consumo a livello locale e imposte sugli immobili a livello regionale, ma la direzione del governo nazionale sembra tutt’altra e una tale contraddizione minerebbe le colonne del sistema. Inoltre senza un arbitrato di buon senso sulla distribuzione delle risorse, prelevate soprattutto al Nord e spese soprattutto al Sud, le correnti di immigrazione diverrebbero insostenibili anche per le Regioni più ricche. In tutti questi snodi della transizione al federalismo, il ruolo dello Stato è indispensabile. Per poter funzionare il federalismo non può avvenire dal basso con un’iniziativa di rottura, per quanto abile o astuta. Deve essere parte di un progetto coerente e solidale.
 
da lastampa.it


Titolo: Bossi convoca Berlusconi: ricatto leghista sul governo
Inserito da: Admin - Aprile 26, 2008, 05:16:23 pm
Bossi convoca Berlusconi: ricatto leghista sul governo

«Noi, il coltello dalla parte del manico»


Silvio Berlusconi corre nel profondo nord, per un nuovo vertice con Umberto Bossi. Da quando il leader del Carroccio ha detto di voler trattare solo con lui, lontano da Roma, gli tocca fare la spola. Meglio far finta di niente, ma a due settimane dalla vittoria elettorale, il governo della destra è ancora in alto mare. Troppi nomi per le poltrone disponibili. E la Lega decisa a far pesare sul tavolo della trattativa tutto il suo potere di ricatto.

L’accordo è di restare calmi almeno fino alla chiusura delle urne per i ballottaggi, lunedì pomeriggio. Ma Bossi, in alcune dichiarazioni raccolte nel corso di una sua visita a Verbania e pubblicate dal quotidiano La Prealpina, lo dice chiaramente: «Berlusconi sa cosa vogliamo. Ai suoi ha detto di aver vinto lui, ma dopo le elezioni il coltello dalla parte del manico l'abbiamo noi».

Quello che i leghisti vogliono a tutti i costi è il padre del porcellum Roberto Calderoli come vicepremier (in nome del federalismo) e Roberto Maroni agli Interni. Più il veneto Luca Zaia all’agricoltura. Ma anche su un suo impegno personale Bossi non chiude le porte: «Io ministro? aspettiamo ancora un po’, i giochi non sono ancora chiusi». E allora, ecco le minacce: «La verità è che Berlusconi tergiversa un po', con Letta cerca di fare qualche vecchio giochetto democristiano. Ha paura che se ci tira un brutto scherzo, noi votiamo come presidente di Camera o Senato uno della sinistra. Del resto – fa notare - i numeri li abbiamo».

Lo stesso Calderoli, in un’intervista al quotidiano la Repubblica va giù pesante: fino a lunedì buoni, ma poi liberi tutti. E «il bello di quando fai un governo è che poi deve ottenere la fiducia del parlamento». Insomma, l’ipoteca leghista pesa tantissimo. Per Berlusconi far quadrare i conti non sarà facile. Anche nel Popolo delle Libertà con Alleanza nazionale che attende in silenzio il risultato del ballottaggio romano prima di far pesare le sue ragioni. E perfino in casa sua, con le vedettes forziste che scalpitano e puntano i piedi. Quasi risolta la grana Formigoni (resterà presidente della Regione Lombardia in cambio di un maggiore ruolo nazionale), gli altri ballano in un saliscendi continuo. Dopo l’ultima riunione sono in salita le quotazioni di Elio Vito (possibile ministro della Giustizia), Roberto Schifani (saldo alla presidenza del Senato) e della new entry Gianfranco Micciché, potente esponente azzurro in Sicilia: «Sarò sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega al Mezzogiorno e al Cipe». Fra le novità dell’ultima ora, l’ex soubrette Mara Carfagna, in predicato di diventare portavoce della presidenza del consiglio.

Pubblicato il: 26.04.08
Modificato il: 26.04.08 alle ore 12.30   
© l'Unità.


Titolo: Milano predona
Inserito da: Admin - Aprile 28, 2008, 09:58:46 pm
28/4/2008
 
Milano predona
 
LUIGI LA SPINA
 

Il prossimo governo, programmato sull’asse che congiunge la villa di Arcore con la sede della Lega in via Bellerio, avrà come vera camera di decisione la cena del lunedì sera con i quattro convitati: Berlusconi e Bossi, i leader dei partiti che hanno vinto le elezioni, accompagnati dai ministri dell’Economia e dell’Interno, Tremonti e Maroni. E il vento del Nord che avrebbe dovuto spazzare il malcostume burocratico e clientelare di tutta la nazione si è trasformato in una tromba d’aria che ha attirato sulla sola Lombardia ben 9 ministri su 12, lasciando a Est, al Veneto, un solo rappresentante e a Ovest, al Piemonte, neanche uno. Siamo passati da «Roma ladrona» a «Milano predona»? Espressa nell’icastico e sbrigativo gergo alla moda, quello della coppia Bossi-Grillo, è questa l’impressione che si ricava dalla nuova fisionomia del potere in Italia.

A questo punto, bisogna mettersi d’accordo. O il localismo, con la sua ossessione di rappresentanza territoriale degli interessi, non è un valore significativo.

Allora, lo si può sacrificare tranquillamente non solo agli equilibri partitocratici della maggioranza, ma pure alle idiosincrasie e alle vanità personali dei singoli.

Oppure è il nuovo «mantra» della rinnovata politica italiana, scoperto e celebrato come la medicina vincente per la nostra anemica democrazia. Messaggio così rivelatore delle intenzioni governative, ad esempio, da giustificare lo spostamento a Napoli del primo Consiglio dei ministri per simboleggiare la vicinanza dell’esecutivo ai problemi della Campania sfigurata dalla spazzatura. Allora, appare ancor più contraddittoria e incomprensibile una scelta che trascura il criterio di una sia pure approssimativa proporzione territoriale nel nuovo ministero.

È certamente giusto sfuggire alle trappole del provincialismo piagnone e, magari, all’ascolto troppo partecipe dei lamenti per le ambizioni deluse. Più utile, lo si ripete sempre in questi casi di comparazioni geografiche svantaggiose, cercare di capire i motivi di certe scelte e quindi approntare, se possibile, le cure perché, in futuro, i criteri possano cambiare.

Per sgombrare il campo da superficiali ma errate giustificazioni elettoralistiche, occorre subito escludere l’ipotesi di una «punizione» per l’esito del voto: in Piemonte, eccetto il caso di Torino, il Pdl è andato benissimo e la Lega ha più che raddoppiato i consensi. Nel Veneto e in Friuli il successo dei due partiti è stato notevole ed è culminato persino con la sconfitta simbolica del governatore Illy, che pure ha fama di ottimo amministratore. Le ragioni di questa clamorosa sottorappresentanza sono, dunque, più profonde e più antiche.

I parlamentari piemontesi, da molto tempo, non sanno fare «lobby» per la loro Regione. Questo atteggiamento, che pure ha aspetti non tutti riprovevoli sul piano del costume politico e, forse, è anche sintomo di una maggiore coscienza nazionale, penalizza meno i rappresentanti del centrosinistra, perché costoro hanno più forti e tradizionali legami con i loro partiti. Indebolisce di più la classe dirigente dell’attuale maggioranza perché, con qualche eccezione, è più nuova, meno esperta e più lontana dai centri di potere che contano.

Nel Veneto e, in generale, nell’Est d’Italia si sta verificando un fenomeno che potrebbe ricordare l’assetto territoriale dell’antico Pci. Quando l’Emilia custodiva la cassaforte dei voti e della potenza economico-finanziaria di quel partito, esprimeva bravi e popolarissimi amministratori, ma i dirigenti nazionali comunisti erano scelti prevalentemente in Piemonte o in Sardegna. L’eredità dei nipotini di Rumor e di Bisaglia è passata in parte alla Lega e in parte al Pdl. Ma il doroteismo democristiano era molto debole nel pensiero e molto forte nell’occupazione del potere nazionale. Al contrario, ora quelle terre sembrano la culla dell’ideologismo leghista e liberista, dagli assalti in piazza San Marco agli scioperi fiscali del «popolo delle partite Iva», ma appaiono incapaci di trasferire al governo del Paese il peso della loro forza, in termini elettorali e in termini di interessi. Insomma, all’epoca della «Balena bianca» la questione del passante di Mestre sarebbe già stata risolta da tempo.

Ecco perché le decisioni di Berlusconi e di Bossi per la composizione del nuovo governo non si spiegano con l’arbitrio di generali che privilegiano colonnelli provenienti dalla loro regione, ma sono l’effetto, censurabile finché si vuole, di una debolezza strutturale della classe dirigente piemontese e veneta nelle schiere del centrodestra. Sarà un caso, ma qualche volta il destino è beffardo: le speranze per l’Alta velocità Torino-Lione e quelle per la marmellata di traffico a Mestre saranno affidate, a questo punto, solo al nuovo commissario europeo per i Trasporti Antonio Tajani, romano e pariolino doc. Vuoi vedere che, stavolta, «Roma ladrona» ci restituisce il maltolto?
 
da lastampa.it


Titolo: Il Nord a scuola di ronde (leghisti o fascisti??).
Inserito da: Admin - Aprile 28, 2008, 10:02:42 pm
28/4/2008 (7:22) - REPORTAGE, I NUOVI ANGELI CUSTODI

Il Nord a scuola di ronde
 
In pattuglia con pettorina e fischietti nei quartieri a rischio: "Andate e arrestateli"

MASSIMO NUMA
INVIATO A PADOVA


I volontari dei Com.Res di Padova, acronimo di Commercianti e Residenti, sono andati a «scuola», prima di iniziare a pattugliare le downtown di Padova; i «professori» sono esperti, tecnici della sicurezza. Li hanno istruiti a dovere sui limiti dell’azione, per evitare guai con la legge.

E il presidente nazionale del coordinamento delle ronde dei volontari verdi, Mario Borghezio, spiega che saranno organizzati dei «corsi di formazione» per tutti i volontari, in tutte le Regioni del Centro Nord, Emilia-Romagna compresa. Lezioni di logistica, di diritto penale e anche gli aspetti più tecnici non saranno trascurati.

Come usare le radio, come muoversi nelle zone pericolose, come affrontare i soggetti criminali e le varie emergenze. Come gestire un ferito o sostenere uno scontro fisico, un’aggressione. Come si organizza un pattugliamento, in auto a o piedi. Cos’è un rastrellamento e come si realizza. Infine i rapporti con le forze dell’ordine, aspetto abbastanza delicato. Non sarà un addestramento para-militare ma «non si può andare nelle strade, senza avere, almeno, un minimo di preparazione, per esempio conoscere le procedure da seguire in caso di un attacco. Abbiamo già avuto nelle nostre file - spiega l’esponente della Lega Nord - poliziotti e carabinieri che, senza mai apparire, avevano addestrato i nostri volontari. Ricominceremo da lì. All’inizio, i ”poliziotti verdi” saranno presenti nelle squadre, durante le azioni. Quando ci saranno professionalità adeguate, allora, saranno nominati i responsabili delle varie unità e costituita una gerarchia, in modo da evitare fughe in avanti. E potremo agire da soli».

Gente decisa, a Padova. «Arresteremo noi chi ruba, rapina o spaccia droga». Parola dei rondisti dei Com.Res. Adesso si fa davvero sul serio. Fine del folclore, delle passeggiatine serali con la fiaccola e le bandierine colorate. Basta carrozzine e Fido al guinzaglio. Per i criminali - di ogni razza - che occupano da anni interi quartieri di Padova, è scattata l’ora X. Giovedì notte si parte con una maxi-ronda composta da 150 persone divise in squadre, affiancate da vigilantes armati di pistola. Sarà un rastrellamento studiato con cura, da mesi, e senza lasciare nulla al caso.

Ultima barriera: l’articolo 380 del Codice di procedura penale. Dispone che l’arresto obbligatorio in flagranza può essere eseguito nell’ipotesi di delitto non colposo, consumato o tentato, per il quale la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel minimo di 5 anni e nel massimo a 20 anni. All’arresto, può procedere «ogni persona», dunque anche il privato cittadino, purché si tratti di delitti perseguibili d’ufficio.
«In questo caso, la persona che ha eseguito l’arresto deve , senza ritardo, consegnare l’arrestato e le cose costituenti il corpo del reato alla Polizia Giudiziaria, la quale redige il verbale dell’avvenuta consegna e ne rilascia copia all’interessato (art. 383 c.p.p.)».

Premessa noiosa, forse, ma necessaria. Dunque, i rondisti possono bloccare un malvivente, «responsabile, per esempio, di furto aggravato, rapina o spaccio di quantità non modiche di droghe», elenca puntiglioso Massimo Pellizzari, il presidente del Com.Res., tra i promotori più convinti sulla necessità di istituire una «polizia civile». Finita, almeno qui nel Nord-Est, la mite stagione delle perlustrazioni-passeggiate, armati solo di fischietto (per dare l’allarme, se c’è qualcosa che non va) e il cellulare per avvertire il 113, come tuttora avviene, da anni, a Torino. A Porta Palazzo.

E’ iniziata una nuova era. Il Comune di Monselice, Padova, ha stanziato 20 mila euro per arruolare guardie armate private da destinare al controllo del centro. Il modello è lo stesso del Com.Res. Che fa da apripista. A livello nazionale.

Da Padova a Verona. Qui, nel ‘98-’99, le ronde leghiste (non solo) avevano fatto discutere. La città era segnata dalla presenza di pusher e tossicomani, il centro storico trasformato in un accampamento. La giunta della Lega Nord, guidata da Flavio Tosi, è passata all’azione. Oggi la stazione ferroviaria, una delle aree più critiche in passato, sembra ripulita. Non c’è traccia di sbandati e balordi. Merito della videosorveglianza e dei continui controlli dei vigili urbani, soprattutto. «Le ronde, qui - dice secco il segretario della Lega, Matteo Bragantini - non servono più. Il Comune ha deciso, in questi giorni, di assumere altri 40 vigili urbani. In modo diretto, con i tempi burocratici ridotti al minimo. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: Verona è cambiata, radicalmente». In provincia, idem. Ad Oppeano, il sindaco Alessandro Montagnoli, neo-eletto, voleva pure distruggere la moschea, oltre che affidare - pure lui - la sicurezza del paese anche alle guardie private.

Non solo ronde. Nel Veronese, sindaci e assessori, compreso l’assessore provinciale alla Sicurezza, Giovanni Codognola, hanno le idee chiare: via i Rom, via i clandestini e gli stranieri delinquenti. A Milano, nel Lodigiano, c’è voglia di chiudere, una volta per tutte, con la criminalità.

E a Torino, Borghezio, freme dalla voglia di ricominciare: «Ripartiamo alla grande, abbiamo già molte richieste di organizzare di nuovo le ronde.
Tra i primi target, Tossic Park. Poi c’è solo l’imbarazzo della scelta. Anche se, con un ministro come Maroni, potremo dormire sonni più tranquilli. Affiancheremo le forze di polizia, senza sostituirci a loro. Le promesse della giunta Chiamparino di intervenire sulla sicurezza sono rimaste, appunto, promesse. Mai realizzate».

da lastampa.it


Titolo: Riforme e governo, Bossi all'attacco "Fucili caldi, pronti 300 mila martiri"
Inserito da: Admin - Aprile 30, 2008, 07:27:41 pm
POLITICA

Alla riapertura del Parlamento il leader leghista esterna a tutto campo

"Se la sinistra vuole lo scontro i miei uomini sono pronti. E Berlusconi deve obbedire"

Riforme e governo, Bossi all'attacco "Fucili caldi, pronti 300 mila martiri"

E il Cavaliere chiama il Senatur: "Usa toni più moderati"

 

ROMA - Promesse, minacce e battute. Governo, riforme e Alitalia. Al suo ritorno a Roma per la riapertura del Parlamento, Umberto Bossi è incontenibile e ne ha per tutti, alleati e opposizione. In cima ai suoi pensieri c'è il federalismo fiscale.
"Questa è l'ultima occasione: o si fanno le riforme o scoppia casino", dice conversando con i giornalisti nel cortile interno della Camera. "Abbiamo 300 mila uomini, 300 mila martiri, pronti a battersi - aggiunge - e non scherziamo... mica siamo quattro gatti. Credete che avremmo difficoltà a trovare gli uomini? No, perché verrebbero giù anche dalle montagne". Toni consueti quelli del leader leghista che avrebbero provocato la reazione del Cavaliere. Secondo alcune fonti parlamentari del Pdl, Berlusconi avrebbe chiamato il Senatur invitandolo a usare espressioni più moderate per evitare di essere strumentalizzato in polemiche inutili.

Fucili sempre caldi. Appena pochi giorni fa Silvio Berlusconi lo aveva invitato a moderare i toni e usare un linguaggio meno rozzo, ma il leader del Carroccio non pare sia rimasto impressionato dal richiamo. "I fucili sono sempre caldi", dice, aggiungendo poi parole minacciose verso il Pd. "Non so cosa vuole la sinistra, noi siamo pronti, se vogliono fare gli scontri io ho trecentomila uomini sempre a disposizione, se vogliono accomodarsi". "Mi auguro - prosegue - che la sinistra scelga la via delle riforme, non come l'altra volta che non vollero assolutamente la riforma federale".

"Berlusconi? Deve obbedire". Ma il fuoco verbale di Bossi non risparmia neppure il Cavaliere, alle prese in questi giorni con il difficile compito di creare il nuovo governo dando soddisfazione ai crescenti appetiti della Lega. Il leader del Carroccio mette innanzitutto in chiaro che "non farò il vicepremier, perché non faccio il vice di nessuno". "Alla fine - sottolinea - Berlusconi troverà la soluzione: sono fiducioso, sennò avrei preteso i ministri prima del voto dei presidenti delle Camere, quando avevo il coltello dalla parte del manico". Anche perché il leader del Pdl "stavolta manterrà la parola, si è sposato con la Lega e ora deve eseguire gli ordini".

Il ruolo di Maroni. Il Senatur conferma quindi di puntare ad ottenere quattro ministeri, a partire dal Viminale, dicastero mai come questa volta ritenuto strategico. "Noi sappiamo già cosa fare, Maroni sa bene cosa fare e con lui ho un patto preciso: si tratta di applicare la Bossi-Fini, che finora è stata inapplicata".

La vicenda Alitalia. Bossi tocca infine anche il tema Alitalia, mostrando di dare poco peso alle parole pronunciate oggi da Berlusconi, che ha minacciato l'Unione Europea di acquistare l'azienda attraverso le Ferrovie. "Non credo che si possa fare perché sarebbe una concentrazione di potere - spiega il leader della Lega - Non so cosa voglia fare Berlusconi". "La soluzione c'era ed era la legge Marzano", aggiunge Bossi citando la norma che ha permesso il salvataggio di Parmalat. "Bene ha fatto la Lega - conclude - a fare un accordo su Malpensa con Lufthansa. Ho dato io il via libera a Bonomi, gli ho detto 'vai, vai'".

(29 aprile 2008)

da repubblica.it


Titolo: CHIARA SARACENO. Le ronde delle nuove insicurezze
Inserito da: Admin - Maggio 01, 2008, 10:31:32 am
30/4/2008
 
Le ronde delle nuove insicurezze
 
CHIARA SARACENO

 
La voglia di ronde che sembra aver preso amministratori e cittadini è figlia di una doppia mancanza, pubblica e privata: dello Stato (e amministrazioni locali) e dei cittadini. Non ci sarebbe bisogno di ronde di volontari e ancor meno di guardie private a controllare strade, parchi e stazioni se polizia e vigili avessero un più sistematico controllo del territorio, così come avviene in molte città europee. Perché, ad esempio, nelle città tedesche, le vie del centro e le stazioni delle metropolitane non sono colonizzate dai vu’ cumprà come avviene invece a Milano, Roma o Torino, a prescindere dal colore dell’amministrazione comunale? E perché le loro periferie non sono ridotte a discariche all’aperto di persone e cose? Eppure la Germania ha un tasso d’immigrazione più alto dell’Italia. Certo, accanto all’operato di polizia e vigili urbani, c’è anche un sistema di Welfare che, per quanto acciaccato, non consente in linea di principio che vi sia chi non può procurarsi un tetto, o l’alimentazione di base. Non è un paradiso; ogni tanto si scoprono buchi anche gravissimi nelle maglie della protezione sociale; e l’emarginazione c’è, anche pesante, alimentando talvolta fenomeni di razzismo violento. Ma l’intervento pubblico è sistematico e visibile su entrambi i fronti del controllo del territorio: quello della repressione, ma anche quello della garanzia di risorse minime. Ciò rende il patto sia con i cittadini che con gli immigrati in qualche modo chiaro e trasparente: se si sta alle regole si hanno anche diritti. Laddove in Italia tutto è sempre opaco, si oscilla fra la tolleranza estrema e la tolleranza zero, senza che i patti siano mai chiari e tanto meno fatti osservare con coerenza e sistematicità, salvo lodevoli eccezioni qua e là. Questo vale spesso anche nei rapporti tra Stato e cittadini; ma è stata soprattutto la caratteristica con cui sin dall’inizio si è affrontata l’immigrazione nel nostro Paese.

Ma non basta denunciare l’incoerenza, l’inaffidabilità delle politiche pubbliche. Il senso diffuso di insicurezza che ci accompagna quando saliamo su un mezzo pubblico, attraversiamo una stazione di notte, camminiamo per le strade dipende anche in larga misura dal fatto che siamo consapevoli che se venissimo aggrediti saremmo lasciati soli: nessuno interverrebbe, per paura, ma anche per indifferenza, per «farsi i fatti propri», per non essere disturbato nelle proprie faccende. Nessuno avverte il vicino che gli stanno mettendo le mani nella borsa, salvo dichiarare, a cose fatte, che ha visto bene e che bisogna stare attenti. Nessuno interviene se una donna viene molestata, se qualcuno viene aggredito. Non fa differenza che ciò avvenga in mezzo a una folla, in piena luce o in una strada o stazione isolata e un po’ buia. L’indifferenza (o la mancanza di coraggio) sono le stesse. Anche i due uomini che un po’ frettolosamente sono stati definiti «angeli salvatori» della giovane ivoriana stuprata e accoltellata all’uscita di una stazione periferica di Roma non sono affatto intervenuti - in due! - per bloccare l’aggressore. Al contrario, per loro stessa ammissione, sono scappati. Solo quando hanno incrociato un’auto della polizia hanno preso coraggio e hanno chiesto aiuto.

Se le nostre società sono insicure è anche perché ognuno si fa un po’ troppo i fatti propri, senza sentire alcuna responsabilità individuale per gli spazi - fisici e relazionali - comuni. In assenza di un minimo di senso civico temo che le ronde rischino di accentuare questa deresponsabilizzazione (e il senso di impunità che ne deriva sia ai maleducati che ai malfattori). In compenso rischiano di attrarre tutti quelli che hanno voglia di menare le mani, di «dare una lezione» non solo a chi costituisce un pericolo, ma a chi li guarda storto, o sta dove secondo loro non dovrebbe stare, o guarda troppo da vicino la ragazza «di un altro». Con il rischio di accentuare l’insicurezza e l’inciviltà che troppo spesso segnano l’attraversamento dello spazio pubblico. Per l’inciviltà e la violenza che caratterizzano lo spazio privato - luogo deputato della violenza contro le donne e i bambini - ovviamente le ronde non servono.
 
da lastampa.it


Titolo: Vittorio Emiliani. Il piccone del Sindaco
Inserito da: Admin - Maggio 04, 2008, 09:53:48 pm
Il piccone del Sindaco

Vittorio Emiliani


Non so se il neo-sindaco di Roma Gianni Alemanno se ne sia reso conto fino in fondo ma, ponendo la teca di Richard Meier fra le cose da “rimuovere” durante il suo mandato in Campidoglio, ha evocato una immagine di settantaquattro anni prima, nella stessa zona di Roma, con lo stesso intento demolitorio, vale a dire l’immagine di Benito Mussolini che, basco in testa e golf a scacchi addosso, comincia a picconare l’auditorium di Roma di allora, il tanto decantato Augusteo.

È il 22 ottobre 1934 e da quelle picconate mussoliniane nasceranno soltanto guai: Roma non avrà un suo valido auditorium sino al 2001, un intero quartiere storico verrà abbattuto per fare posto ad uno dei più brutti esempi di architettura e urbanistica fascista, Largo Augusto Imperatore, funebre come pochi. Accanto al riscoperto mausoleo di Augusto, totalmente spogliato nei secoli e quindi deludente, il duce imporrà la collocazione “imperiale” della elegante Ara Pacis ritrovata in tutt’altra zona del centro antico, cioè a piazza San Lorenzo in Lucina.

“Picconare” adesso la teca dell’Ara Pacis assume un significato simbolico forte (anche se costoso, sui 300 milioni di euro, meglio spendibili per altre cause): vuol dire che verrà “picconata” la politica seguita da Rutelli e Veltroni e con essa la struttura politico-amministrativa su cui poggiava. Si comincia con la Festa del Cinema, sulla quale ci possono essere certamente dubbi e riserve e che però ha rappresentato un momento tutt’altro che secondario dell’eco di Roma moderna nel mondo. Festa del Cinema che – come ha subito fatto notare il neo-presidente della Provincia, Nicola Zingaretti - non è una iniziativa del solo Comune di Roma e quindi non basterà il “piccone” del neo-sindaco a demolirla.

Per la “notte bianca”, mega-raduno nazionale, soprattutto giovanile, che Veltroni importò da Parigi conferendogli tuttavia una grandezza ed una ampiezza tutta romana, dovrebbe – altra sostanziale “picconata” – venire organizzata “in bassa stagione”. Ora, chi conosce un po’ Roma e i suoi flussi turistici sa che il solo periodo “basso” della capitale è quello che va dal 7 al 31 gennaio, all’incirca. Quando i turisti stranieri, dopo i viaggi natalizi, rimangono alloro Paese e quelli italiani risparmiano su tutto (anche sul giornale prediletto) perché per Natale e Capodanno hanno speso quanto potevano, e anche di più. Immaginate il concorso di folla a Roma in quelle settimane. Potrebbe venire recuperato – lanciamo un’idea laica e festosa – il Carnevale Romano che però aveva senso in un’epoca in cui esso rappresentava una vera e propria trasgressione, l’unica di tutto l’anno. Cosa oggi onestamente improponibile, visto che si può trasgredire, volendo, tutti i giorni.

Ma è sulla struttura delle aziende pubbliche romane, sul sistema economico e culturale che il neo-sindaco – dopo aver ripetuto di voler essere “il sindaco di tutti” – ha fissato la propria attenzione, chiedendo agli attuali amministratori di farsi da parte immediatamente, anche a quelli (par di capire) che sono stati democraticamente nominati con scadenza al 2009, al 2010 o al 2011, o che rivestono ruoli eminentemente tecnici per i quali si esige una competenza specifica e non certo una tessera di partito. Penso al soprintendente capitolino (Roma è l’unico Comune a disporne per un riconoscimento e omaggio che Corrado Ricci volle fare alla Città Eterna), penso al direttore dei musei comunali o a quello dei giardini, e a molti altri ancora. A questo punto la commissione bipartisan delinata da Alemanno e presieduta da Gian Maria Fara, docente a Malta, presidente Eurispes, consultore del Pontificio Consiglio per le Comunicazioni assume il ruolo plurisecolare della foglia di fico. Chi vi entrerebbe a queste condizioni?

Tanto più che il primo “brain storming” Gianni Alemanno lo tiene in questi giorni a Ocre, in Abruzzo, nel Parco regionale del Sirente-Velino ed è tutt’altro che “aperto”. Secondo quanto ha dichiarato a Luca Telese del Giornale, l’onorevole Marcello De Angelis (ex Terza Posizione, movimento che aveva per slogan «né fronte rosso, né reazione, lotta armata per Terza Poisizione»), i relatori sono «due intellettuali trentenni» molto connotati: Salvatore Santangelo della rivista di destra Area e Alessandro Sansoni di Azione Giovani. Tema del seminario: «Il ritorno delle élites». Pensatori di riferimento: Gaetano Mosca, Wilfredo Pareto e Roberto Michels. Che non sono proprio il massimo quanto ad attualità e a libertà di pensiero. Per Gaetano Mosca le élites di potere si servono del «procedimento elettorale, manipolato a dovere» per affermarsi e poi per restare al governo: «credeva nel privilegio dell’intelligenza contrapposto a quello del numero», ha scritto fra l’altro Norberto Bobbio. Per Wilfredo Pareto, pensatore geniale quanto confuso, in ogni società non può esserci che separazione e quindi opposizione fra le masse e le élites che governano ricorrendo alle doti della forza e dell’astuzia. Certo, non un padre del pensiero democratico. Per alcuni, anzi, un precursore del fascismo. Il tedesco Roberto Michels, infine, scomparso a Roma nel 1936, prima capì in maniera assai lucida i processi che avevano prodotto fascismo e nazismo, poi finì per esserne coinvolto formulando quella legge dell’oligarchia che vieta a qualunque gruppo, per quanto si dica democratico, di rimanere poi tale, una minoranza che s’impone e che impone la sua ferrea legge interna. Il tutto rimeditato in un monastero circestense che l’onorevole De Angelis ci tiene però a dire «fortificato dai Templari», ordine religioso-militare dei più inquietanti. Tutt’oggi.

Ragazzi, se queste sono le premesse e questi sono i riferimenti ideali del neo-sindaco Alemanno, a Roma non staremo benissimo quanto a democrazia e a modernità. Ma ne esce già un po’ pesto lo stesso neo-presidente della Camera Gianfranco Fini il quale, si sarà pure scordato dell’antifascismo (come ha sottolineato, pungente, Massimo D’Alema) e però ha riconosciuto, e non è certo poco, il 25 Aprile e il Primo Maggio, come feste di tutti gli italiani. Fatto assolutamente senza precedenti nella storia della nostra destra, includendovi lo stesso Silvio Berlusconi il quale non è mai arrivato a nulla di simile. Anzi, non ci ha nemmeno pensato. Del 25 Aprile non sappiamo quale opinione abbia l’onorevole Alemanno. Sappiamo però che il Primo Maggio l’ha festeggiato partecipando al corteo dell’Ugl, cioè del sindacato di destra. Rispettabilissimo, attenzione, e con una segretaria, Renata Polverini, senz’altro stimata. Però uno dei sindacati più politicamente connotati. Ma non doveva essere da subito, il “sindaco di tutti”? E non poteva scegliere, dunque, una occasione più “unitaria”? Insomma bisognerà stare ben attenti al “piccone”.

Pubblicato il: 03.05.08
Modificato il: 03.05.08 alle ore 16.20   
© l'Unità.


Titolo: A giugno la Digos aveva individuato 17 ragazzi: attenti, colpiranno ancora
Inserito da: Admin - Maggio 05, 2008, 12:46:20 pm
La relazione

A giugno la Digos aveva individuato 17 ragazzi: attenti, colpiranno ancora

Tirapugni, mazze, «dagli al nemico»

Le spedizioni punitive del branco

Sono giovani, tutti ultrà. Le vittime? I diversi per vestiti e colore della pelle

 
ROMA — Per le spedizioni punitive usavano tirapugni di metallo e mazze avvolte da catene. Ma spesso sono bastati calci e pugni per far finire in ospedale le vittime. Si incontravano a piazza delle Erbe, centro storico di Verona. Talvolta bevevano birra fino a ubriacarsi. Poi cominciava la caccia. Del gruppo facevano parte almeno una ventina di persone, anche alcune donne. I poliziotti della Digos coordinati da Luciano Iaccarino riuscirono a individuarne diciassette, tutti tra i 17 e i 25 anni. Nel giugno scorso fornirono alla magistratura gli elementi d'accusa. Denunce e racconti che adesso delineano le caratteristiche del gruppo, la loro appartenenza agli ultras dell'Hellas Verona, la loro matrice neofascista confermata da volantini, simboli e fotografie sequestrati durante le perquisizioni.

La Digos: colpiranno ancora

Da allora le indagini sono andate avanti, la polizia sapeva che non si sarebbero fermati. Nell'ultima informativa consegnata alla magistratura neanche due mesi fa è scritto: «Riscontri obiettivi dimostrano la permanenza di un vincolo associativo diretto all'attuazione di un programma criminale di più ampio respiro in cui la comunanza di interessi — l'ostilità per chi è "diverso", la volontà di marcare il proprio spazio territoriale in cui gli altri non hanno diritto di accesso — determina il concreto rischio che tali aggressioni possano riprodursi in un indeterminabile tempo futuro». La prima aggressione risale al 26 marzo del 2006. Succede tutto in pochi minuti. Due amici sono in corso Cavour, devono prelevare soldi al bancomat. «Abbiamo incrociato un gruppo di giovani — verbalizzano —, saranno stati cinque o sei, tra loro c'erano anche due ragazze. Uno fa un grugnito. Mi volto a guardarlo e mi accorgo che mi sta fissando. Noi andiamo avanti, arriviamo fino alla banca. E in quel momento ci circondano. Uno di loro grida che dobbiamo andarcene. Il mio amico gli risponde di no e quello gli dà due pugni in faccia e gli frattura il setto nasale». L'ultima denuncia prima del pestaggio di Nicola Tommasoli è di pochi mesi fa, il 9 dicembre 2007. Ad essere aggredito con mazze e coltelli è un altro tifoso dell'Hellas. Le spranghe servono a sfasciargli la macchina, poi con le lame lo feriscono alla coscia.

Pugni e catene per «terroni»

In meno di due anni hanno colpito almeno tredici volte. Tante sono le denunce presentate anche se la polizia sospetta che alcune vittime, ferite in maniera lieve, potrebbero aver deciso di lasciar perdere per paura di eventuali ritorsioni. Nell'informativa consegnata alla Procura di Verona viene sottolineato come «tra i responsabili degli atti criminosi ci sono soggetti noti per aver in passato compiuto atti violenti in occasione o a causa di eventi sportivi. Il loro modus operandi è basato sullo stesso canovaccio comportamentale: forse favoriti dall'ebbrezza alcolica, gli aggressori cercano un pretesto per attaccar briga e dalle parole passano rapidamente alle vie di fatto. Le parti offese sono prive di legami apparenti tra loro, se non per aver suscitato negli aggressioni l'odio per chi è ritenuto "nemico" o semplicemente "diverso" per il colore della pelle o il modo di vestire o di atteggiarsi».

Il 17 marzo 2007 in piazza dei Signori c'è un concerto per festeggiare il bicentenario del liceo classico «Maffei». Verso le 23 arrivano una ventina di giovani, si avvicinano a uno degli studenti: «Mi hanno aggredito e scaraventato a terra, poi hanno cominciato a riempirmi di calci e pugni. Alcuni si sono sfilati la cinta dai pantaloni, altri mi hanno colpito con spranghe e catene». Interviene una ragazza, cerca di sottrarre il suo amico alla furia del gruppo. Ma anche lei prende pugni e schiaffi. Stessa sorte per un altro che accorre in aiuto. Alla fine i tre riescono a rifugiarsi dentro un ristorante. Ma questo non basta a fermare il pestaggio. Il verbale dello studente racconta che cosa accade dopo: «Mi hanno inseguito, hanno continuato a insultarmi e a picchiarmi. Sono sicuro che avevano tirapugni di metallo e catene».

La minaccia ai minorenni

L'8 aprile tocca a tre giovani brasiliani finire nel mirino della banda. Mentre passano a piazzetta Scalette Rubiani notano quattro ragazzi seduto al bar. «Siete fascisti?», chiedono. Gli stranieri rispondono di no. E immediatamente vengono colpiti con una sedia di legno, buttati in terra e picchiati. Uno di loro resta 40 giorni in ospedale. Anche alcuni minorenni sono rimasti vittima di minacce e pestaggi. Il 25 aprile 2007, mentre sono in strada con lo skateboard vengono avvicinati da sei ragazzi. Gli chiedono i soldi, li perquisiscono per controllare che non li abbiano nascosti nelle tasche. Gli rubano tutto quello che hanno. Poi, sotto la minaccia del coltello, urlano: «Se uno di voi chiama la polizia vi tagliamo la gola. Grazie, da oggi sarete protetti da noi». Un mese dopo, nella notte tra il 25 e il 26 maggio, gli ultrà entrano in azione due volte. Prima aggrediscono tre militari di leva perché hanno l'accento napoletano, poi un tifoso del Lecce e il suo amico intervenuto per difenderlo. Anche questa volta, agiscono «in branco».

Fiorenza Sarzanini
05 maggio 2008

da corriere.it


Titolo: STEFANIA PRESTIGIACOMO. Silviahara e il castagno dei 100 cavalli (solo furba?)
Inserito da: Admin - Maggio 13, 2008, 04:08:45 pm
13/5/2008
 
Silviahara e il castagno dei 100 cavalli
 
STEFANIA PRESTIGIACOMO

 
Il ministro dell’Ambiente risponde al Buongiorno di Massimo Gramellini, «Il deserto del Silviahara», uscito sabato 10 maggio.



Buongiorno Gramellini,

lei conosce il Castagno dei Cento cavalli? È quell’albero alle falde dell’Etna che, secondo una dolce leggenda, ospitò sotto le sue fronde una regina e cento cavalieri sorpresi da un fortunale. Ma il castagno è anche la prima riserva naturale e paesaggistica d’Italia, decretata dal viceré Corsini il 21 agosto 1745 con un atto del «Tribunale dell’Ordine del Real Patrimonio di Sicilia». Giusto in quella Sicilia, nella mia e vostra Sicilia, che lei racconta come «Silviahara» - il deserto di Silvio secondo lei, immagino - sospesa fra deserto e «cavalcavia» mirabolanti e che tuttavia oggi ha il 70% del territorio sottoposto, in diverse forme, a tutela ambientale, oltre a 75 riserve e aree marine protette. Ben vengano i progetti sulle fonti energetiche ed in particolare sull’energia solare, che sarà mia cura promuovere, coinvolgendo lo stesso Carlo Rubbia, perché rappresentano una scelta ineludibile ai tempi del petrolio a 120 dollari a barile e dell’effetto serra. Ben venga l’insediamento di centrali solari laddove il sole abbonda e sazia, come in Sicilia, specie se, grazie a nuove tecnologie, questi impianti potranno produrre quantità di energia importanti.

Ma ben vengano anche le infrastrutture come il ponte, che io, da siciliana, non vedo come una «Disneyland» progettuale e architettonica, ma come elemento di modernizzazione e valorizzazione di quella che è la vera irriproducibile ricchezza siciliana e italiana: la stratificazione storica, paesaggistica, ambientale e culturale. Una «infrastruttura immateriale», unica, non riproducibile, al servizio della quale mettere grandi infrastrutture materiali come il Ponte che anche personalità come il maestro Andrea Camilleri e Francesco Merlo su la Repubblica, certo non vicini alla mia area politica, hanno difeso.

Io non credo che sviluppo e salvaguardia ambientale, modernizzazione e tutela, siano concetti antitetici, credo in quello sviluppo sostenibile capace di coniugare la crescita e la difesa del territorio, anche territori pregiati e antichissimi, colti e dolorosi, struggenti e sfruttati. Come la mia e la vostra Sicilia.
 
da lastampa.it


Titolo: Berlusconi presenta il programma: priorità su rifiuti, detassazione e sicurezza.
Inserito da: Admin - Maggio 13, 2008, 04:28:10 pm
A Montecitorio la fiducia si vota mercoledì mattina; a Palazzo Madama giovedì

Il governo «debutta» alla Camera «L'Italia non ha tempo da perdere»

Berlusconi presenta il programma: priorità su rifiuti, detassazione e sicurezza.

«Invochiamo l'aiuto di Dio»

 
ROMA - «Il lavoro che ci aspetta richiede ottimismo e spirito di missione». Lo ha detto il premier Silvio Berlusconi nel suo intervento alla Camera per la presentazione delle linee programmatiche che l'esecutivo intende perseguire nel corso della legislatura, una procedura prevista dall'articolo 94 della Costituzione. «Gli italiani - ha spiegato Berlusconi - hanno messo a tacere il pessimismo di chi non ama l'Italia e non crede nel suo futuro. I cittadini ci hanno detto di dividerci e combatterci ma non in nome di vecchie ideologie e di dare stabilità e impegno nell'azione di governo. L'Italia non ha tempo da perdere».

«BENE IL GOVERNO OMBRA» - Il capo del Pdl, come era nelle previsioni, ha aperto all'opposizione, spiegando che anche «il gabinetto ombra della tradizione anglosassone»», uno «strumento di osservazione» dell'operato del governo, può essere di aiuto. «Vogliamo contrappore la bellezza della politica capace di cambiare le cose - ha poi sottolineato il Cavaliere - al chiacchiericcio e alla politica dell'inganno». Un qualcosa che, a suo parere, il nuovo clima con cui si è aperta questa legislatura renderà possibile.

LE PRIORITA' - Tra le priorità che l'esecutivo sarà chiamato ad affrontare, Berlusconi ha indicato la rimozione dei rifiuti in Campania, la detassazione prima casa, agevolazioni fiscali generalizzate, interventi per «la sovranità della legge sul territorio dello Stato» e per «liberare dalla paura i cittadini, soprattutto donne e anziani» perché «la sicurezza è sinonimo della libertà». Poi il premier ha insistito sull'urgenza di arrivare alla crescita del Paese, dal punto di vista economico e sociale, e ha fatto cenno alla necessità di arrivare ad un «federalismo fiscale e solidale» e ad un maggiore sviluppo del sud, anche attraverso una lotta decisa alla criminalità organizzata.

ABORTO E IMMIGRAZIONE - Berlusconi si è poi impegnato a lottare contro le «cause materiali dell'aborto» e a promuovere una «cultura della vita e della tutela dell'infanzia» lavorando anche per fare uscire l'Italia dalla attuale situazione di denatalità. Ha poi detto no a quella che definisce «immigrazione selvaggia», precisando che sarà fatta una politica di inclusione attenta e ragionata perché «dobbiamo essere padroni in casa nostra ma al tempo stesso fieri della nostra capacità di accoglienza».

CONTI PUBBLICI E TASSE - Il presidente del Consiglio ha spiegato che «è necessario tenere i conti pubblici in ordine» e procedere con una intensa lotta all'evasione fiscale, lavorando però per «ristabilire il concetto che le tasse non sono belle in se, ma sono il corrispettivo che viene dato allo stato in cambio di servizi che per questo devono essere efficienti». E in ogni caso, il recupero tributario «non sarà mai punitivo verso chi produce ricchezza nel Paese». Berlusconi ha ricordato che l'economia mondiale non gode di ottima salute, che l'Italia avrà bisogno di far sentire maggiormente la propria voce nei mercati internazionali e ha precisato che, senza cadere in protezionismi e chiusure, andranno tutelati «la produzione e gli interessi delle imprese italiane di fronte a forme sleali di concorrenza».

RIFORME E CONFRONTO - Il Cavaliere ha ribadito la necessità di lavorare, insieme all'opposizione, per le riforme istituzionali e costituzionali che in buona parte sono già condivise e tra queste ha citato il rafforzamento dei poteri dell'esecutivo, la diminuzione del numero dei parlamentari, il nuovo assetto federalista, il nuovo sistema di elezione di Camera e Senato. E in questo contesto ha rilanciato l'opzione del dialogo tra tutte le forze politiche italiane perché «nessuno deve sentirsi escluso». Berlusconi ha detto di non essersi mai considerato «un uomo solo al comando» e ha auspicato che le reciproche aperture tra i Poli diventino «le nuove buone regole della politica italiana». Anche perché «lo scontro antropologico tra diverse classi di umanità», che ha caratterizzato la stagione delle ideologie, «deve restare per sempre alle nostre spalle». Berlusconi ha infine augurato buon lavoro a tutti i parlamentari: «Per aiutare tutti noi - ha detto nel passaggio finale - invochiamo l'aiuto di Dio e anche un po' di fortuna che, come si sa, va aiutata con coraggio e virtù».

 
Strette di mano a Berlusconi dopo la fiducia al suo secondo governo nell'aula della Camera il 20 giugno 2001 (Lapresse)
PRIMA ALLA CAMERA... - Il leader del Pdl è intervenuto nell'aula di Montecitorio, dove è ora tempo di dibattito con gli interventi dei deputati. La fiducia sarà votata mercoledì mattina dopo che lo stesso presidente del Consiglio avrà svolto il suo intervento di replica. Stessa procedura anche per il Senato, dove però Berlusconi non si presenterà di persona: a Palazzo Madama è stato fatto pervenire il testo dell'itnervento perché è tradizione che il premier legga il proprio discorso, alternativamente, in un ramo del Parlamento consegnando il testo all'altro ramo. Nell'ultima occasione di questo tipo, il 18 maggio 2006, Romano Prodi intervenne in Senato e consegnò il testo alla Camera. In ossequio alla consuetudine dell'alternanza, dunque, questa volta Berlusconi è intervenuto a Montecitorio. Giovedì proseguirà la discussione nell'aula del Senato, con replica del premier alle 11,30 e, a seguire, le dichiarazioni di voto, in diretta televisiva. Il voto finale è previsto intorno alle 13.

IL VOTO DI FIDUCIA - L'articolo 94 della Costituzione precisa che «il governo deve avere la fiducia delle due Camere». «Ciascuna Camera - recita ancora lo stesso articolo - accorda o revoca la fiducia mediante mozione motivata e votata per appello nominale. (...) Il voto contrario di una o d'entrambe le Camere su una proposta del Governo non importa obbligo di dimissioni. (...)».

A. Sa.
13 maggio 2008

da corriere.it


Titolo: Quando Schifani parlò ai pm della Sicilia brokers
Inserito da: Admin - Maggio 13, 2008, 04:37:01 pm
Quando Schifani parlò ai pm della Sicilia brokers

Enrico Fierro


Che conoscesse Nino Mandalà, il presidente del Senato Renato Schifani lo ha ammesso il 18 ottobre 2004 davanti ai giudici della Terza sezione penale del Tribunale di Palermo. In quella sede ha riconosciuto di aver avuto rapporti di affari con il suddetto Mandalà nella società «Sicula brokers». Nino Mandalà è ritenuto il capomafia del mandamento di Villabate, comune dove il presidente Schifani, all'epoca avvocato senza cariche parlamentari, ebbe anche un delicatissimo incarico di consulente per le questioni urbanistiche.

Nino Mandalà e suo figlio Nicola sono i personaggi che hanno favorito la latitanza di Bernardo Provenzano, organizzando il viaggio del boss in un clinica di Marsiglia per curarsi. Nel processo sulla mafia di Villabate un ruolo centrale è rivestito dalle dichiarazioni di Giuseppe Campanella, ex impiegato di banca, consulente dell'amministrazione comunale e galoppino politico ad ampio raggio. È stato nell'Udeur di Mastella, ha avuto rapporti con Forza Italia e con Totò Cuffaro, fino a stabilire solidi legami con i Mandalà. Ma veniamo alla deposizione del Presidente Schifani. Che ammette di aver avuto un ruolo nella società della quale Mandalà era amministratore delegato. «Io ebbi, facendo parte dello studio La Loggia (Giuseppe, avvocato, padre dell'onorevole di Fi Enrico, ndr)...il vecchio la Loggia mi chiese se volevo far parte simbolicamente di questa struttura, sottoscrissi il 3% e dopo un anno e mezzo lo dismisi. E quindi, se pur formalmente alla costituzione feci parte del consiglio di amministrazione, cedute le quote cessai perché non avevo nessun interesse alla società». Quando il pm domanda al senatore Schifani se conosceva Mandalà la risposta è affermativa. «Nella costituzione venne indicato questo Mandalà che io non conoscevo prima, come amministratore...Poi esco dallo studio, lo perdo di vista completamente...Mandalà poi l'ho rincontrato in occasione della politica». Conoscenza che il pm vuole approfondire, ed a questo punto si passa al discorso sulla consulenza che l'allora avvocato Schifani fornisce al comune di Villabate in materia di urbanistica. Circostanza che Schifani ammette, «Il rapporto è stato nel 1995. Nei primi mesi era una consulenza gratuita e finalmente poi vi è stata la copertura e sono stato retribuito secondo le tariffe previste dalla legge regionale». In quell'epoca, chiede il pm, «lei ebbe modo di rivedere Mandalà?». «Sì, ma l'ho incontrato credo una volta, ma non in Comune, a Villabate ma per caso...». Sui rapporti con Mandalà, successivi alla comune presenza nella «Sicula brokers», è l'avvocato Restivo a porre altre domande: «Le risulta se Mandalà aveva un ruolo all'interno del partito, del movimento Forza Italia?». Schifani, visibilmente contrariato, replica che lui ha «già risposto a domanda specifica del pm». L'avvocato insiste e il senatore, finalmente, offre la sua versione. «A livello istituzionale non vi era nessuna responsabilità, all'interno del partito sì, credo che facesse parte di un organismo provinciale, venuto fuori dalla celebrazione di un congresso. Credo che fosse il coordinamento provinciale, il consiglio provinciale, non ricordo bene l'espressione, comunque era l'organismo consultivo e non decisionale del partito». L'avvocato insiste: «Quindi faceva parte del movimento Forza Italia?». Schifani ammette, ma si spazientisce ancora quando il legale chiede se quella di Mandalà fosse una «partecipazione elettiva sia pure da parte degli iscritti di Forza Italia». «Ho chiarito - dice il senatore - che era stato eletto all'interno di un congresso che si era tenuto a livello provinciale nel nostro partito».

La deposizione finisce qui. In sintesi: l'attuale presidente del Senato ammette di aver fatto parte negli anni 1978-1979 di una società al cui vertice c'era Antonino Mandalà, che solo dopo anni si scoprirà essere un potente boss della mafia di Villabate legato a doppia mandata agli interessi di Bernardo Provenzano. Di quella società facevano parte l'onorevole Enrico La Loggia, Giuseppe Lombardo (che tra le sue molteplici attività rivestiva anche quella di amministratore di alcune società degli esattori Ignazio e Nino Salvo, nel 1987 condannati per mafia), e l'ingegner Benny D'Agostino (condannato due volte per associazione mafiosa e vicinissimo al boss Michele Greco, il Papa). Anche la consulenza sulla delicata materia urbanistica al Comune di Villabate è ammessa dal presidente Schifani («perché il mio ruolo era riconosciutamente scientifico...»). Il pentito Campanella, invece, parla di affari e in una sua deposizione dice che «il prg di Villabate, strumento di programmazione fondamentale in funzione del centro commerciale che si voleva realizzare e attorno al quale ruotavano gli interessi di mafiosi e politici, sarebbe stato concordato con La Loggia...Schifani avrebbe cooordinato con il progettista di fiducia tutte le richieste che Mandalà avesse voluto inserire in materia urbanistica». La gola profonda riferisce anche di tangenti, sia l'onorevole La Loggia che il senatore Schifani hanno deciso di querelare Campanella. Pentiti a parte, si tratta di dichiarazioni pubbliche, di documenti facilmente consultabili che ieri sera Radio Radicale ha messo in onda in uno «Speciale giustizia». Insomma, non è Travaglio da Fazio, ma il racconto di una storia fatta di frequentazioni molto imbarazzanti è lo stesso. A dirci tutto, però, questa volta è il diretto protagonista, Renato Schifani, presidente del Senato della Repubblica italiana.


Pubblicato il: 13.05.08
Modificato il: 13.05.08 alle ore 14.25   
© l'Unità.


Titolo: Il fascismo moderno di Alemanno
Inserito da: Admin - Maggio 13, 2008, 04:39:25 pm
Il fascismo moderno di Alemanno

Bruno Bongiovanni


Gianni Alemanno, in una intervista al Sunday Times riportata e commentata ieri dal Corriere della Sera e da la Stampa, ha dichiarato che il fascismo - quello storico - fu fondamentale per modernizzare l´Italia. Alemanno rifiuta inoltre di dichiararsi ora fascista. Giù però con le intenerite litanie sulle paludi prosciugate e sulle infrastrutture. C´è comunque dell´autentico in tutto ciò. Il sindaco di Roma deve tuttavia ammettere che l´altro fascismo, quello nordico, ovverosia il prezioso alleato nazionalsocialista, fu, pur con qualche nibelungico arcaismo, ben più moderno del regime italiano: non si dimentichino le autostrade, l´amministrazione, le Università.

E poi l´esercito, la marcia verso il rapido conseguimento della piena occupazione, i prodromi di un Welfare ariano e solo ariano, i campi di concentramento assai meglio funzionanti, e letali, dei Lager del duce collaborazionista. Alemanno, a ogni buon conto, ritiene evidentemente che la modernizzazione, quella piccola di Mussolini, e verosimilmente anche quella grande del Führer, sia sempre e comunque una cosa buona e giusta. Anche il Ku-Klux Klan, forse Alemanno non lo sa, si è espresso, linciando i neri, a favore della modernità. E il modernissimo businessman Henry Ford, uno dei più grandi industriali del XX secolo, ha pubblicato e diffuso più volte, negli Usa, con finalità antisemitiche, «I protocolli dei Savi dei Sion».

Fini, del resto, nel luglio 1991 dichiarò che «il Msi deve saper essere anche figlio di puttana». Nel luglio del 1991 che «siamo il Fascismo del duemila». Nel maggio 1992 che «il fascismo è idealmente vivo». Nel settembre 1992 che «Mussolini è stato il più grande statista del secolo», frase ripetuta ancora nel giugno 1994, a elezioni sdogananti già vinte insieme a Berlusconi e Bossi. Ora sostiene che si è svincolato dalla nostalgia. Forse, come ebbe a dire proprio Mussolini - una gran frase con brividi staliniani, quella del duce - avverte solo la nostalgia del futuro. Ossia il culto della modernità alemanniana. Ha ragione oggi, come aveva ragione nel 1992. È questo, quello che abbiamo davanti, il fascismo del duemila, senza i gas lanciati in Etiopia, senza camicie nere, senza uno straccio di Hitler con cui fare merenda, ma con turgori xenofobi, populismi demagogici, uno smandrappato autoritarismo nostalgico non di Roma 1922 ma forse di Genova 2001, e qualche saluto romano - un citazionismo postmoderno? - davanti al Campidoglio. Con questo non voglio dire che si devono girare le spalle alla modernità. Tutt´altro. Ma che si deve scegliere tra modernità e modernità.

Non ci siamo del resto mossi granché. Norberto Bobbio, infatti, ebbe precocemente a scrivere il 20 marzo 1994, su la Stampa, che il berlusconismo, diversissimo per carità dal fascismo storico, è gobettianamente l´autobiografia della nazione. Ossia una malattia morale e ridanciana che ci ha contagiati tutti. L´autobiografia ha soprattutto subito inglobato i post-fascisti storici (An ex-Msi), rendendoli veramente i fascisti del duemila, nuovi, moderni, senza manganello e senza doppiopetto. Siamo ancora ben dentro tutto questo. Quella "parentesi" là, per dirla con Croce, durò vent´anni più venti mesi in toto nazificati. Questa qua, decisamente più soft grazie a Dio, è già durata quattordici anni, sia pure con qualche interludio. Alla fine le due avranno la stessa lunghezza.

Pubblicato il: 13.05.08
Modificato il: 13.05.08 alle ore 13.43   
© l'Unità.


Titolo: In aula la gaffe di Fini con Di Pietro
Inserito da: Admin - Maggio 14, 2008, 06:46:42 pm
POLITICA

Botta e risposta a Montecitorio durante le dichiarazioni sulla fiducia

L'ex pm, interrotto, si appella al presidente. E la risposta scatena la polemica

In aula la gaffe di Fini con Di Pietro

"Interruzioni? Dipende cosa si dice"


 ROMA - "Presidente, mi interrompono". "E' naturale, e poi dipende da cosa si dice...". Botta e risposta, in aula, tra Antonio Di Pietro e Gianfranco Fini. E prima polemica per il neopresidente della Camera.

A Montecitorio Silvio Berlusconi ha appena finito la sua replica dopo il dibattito sulla fiducia. Cominciano le dichiarazioni di voto. Tocca a Di Pietro. Il suo intervento è molto duro nei confronti del premier. Piu' di una volta l'ex pm viene interrotto da deputati della maggioranza. ''Lasciatelo parlare'', dice Fini rivolto ai suoi ex compagni di schieramento. Ma il leader dell'Idv, nuovamente interrotto, si rivolge direttamente a Fini chiedendo un suo intervento.

E' a questo punto che il presidente pronuncia le parole che scatenano la polemica: "Onorevole Di Pietro lei sa che e' abbastanza naturale che ci siano interruzioni''. Anche se, aggiunge, ''dipende da quello che si dice''.

Immediata la replica: ''Ha ragione signor presidente, dipende da quello che si dice perché non bisogna disturbare il manovratore...''.

Botta e risposta rapido e dai toni secchi, ma non è finita qui. Subito dopo Di Pietro, infatti, interviene per la sua dichiarazione di voto l'ex presidente della Camera e leader dell'Udc, Pierferdinando Casini. Che inizia proprio rivolgendosi a Fini: "Dissento da ciò che ha detto Di Pietro, ma le ricordo che i parlamentari non possono essere sindacati nelle loro opinioni. Anche perché sarebbe un precedente pericoloso''.

"Una scivolata provocata dal fatto che è la prima volta per lui, non voglio pensare che è un istinto per il partito cui è appartenuto", commenterà alla fine l'ex pm. "Non voglio criminalizzare un comportamento che è stato un errore di conduzione. Una seconda chanche non si nega a nessuno".

L'interessato, in Transatlantico, cerca di chiudere la questione. E si trincera dietro un no comment. E ai cronisti che gli chiedono una opinione sulle affermazioni di Casini replica: "Lei da quanto tempo sta qua? Perchè fa domande fuori luogo...le pare che io esco fuori per commentare?".

(14 maggio 2008)

da repubblica.it


Titolo: Novara di nuovo fatale
Inserito da: Admin - Maggio 15, 2008, 11:10:08 am
15/5/2008
 
Novara di nuovo fatale
 
 
 
 
 
GIAN ENRICO RUSCONI
 
La battaglia di Novara». Chissà se, con qualche reminiscenza scolastica, il lettore non associ ancora questa espressione a un evento luttuoso.

Si trattò infatti di una sconfitta dell’esercito piemontese (nel 1849) che s’era mosso per liberare la Lombardia dal dominio austriaco. In prospettiva dell’unificazione nazionale. La battaglia perduta a Novara è stata un’umiliazione per l’idea dell’Italia unita e una festa per gli austriaci (croati e sloveni) e chissà forse per qualche lombardo austriacante.

È grottesco pensare che oggi proprio a Novara il sindaco leghista conduca un’altra battaglia, simbolica ma non meno significativa, per rinnegare l’idea dell’unità nazionale, parlando di «disunità d’Italia» e mettendosi in contrasto con il comitato che prepara le celebrazioni del 2011.

Dietro questo atteggiamento non c’è alcuna seria rivisitazione o revisione storica ma una pura manipolazione politica. È la storia usata come mazza politica senza alcuna giustificazione. È singolare poi che questo avvenga nel momento in cui - almeno apparentemente - a livello nazionale si stanno facendo sforzi per far convivere in modo civile due memorie antagoniste dell’ultima lacerante esperienza collettiva (Resistenza e guerra civile 1943-‘45).

Che cosa significa ricercare ragionevoli punti di dialogo su questo episodio relativamente recente, da cui è uscita la repubblica democratica, e nel contempo rinnegare l’evento originario della nazione italiana, che dava senso a quella stessa esperienza traumatica? Partigiani e neofascisti infatti non combattevano forse anche in nome della patria, sia pure concepita in termini tra loro inconciliabili?

Giro queste domande agli euforici neo-ministri della Cultura, della Scuola, dei Beni culturali ecc. che dovranno gestire «la politica della memoria» di questo Paese sulla base di assunti politico-culturali tra loro incompatibili: enfatica riaffermazione dei valori nazionali (da parte degli ex-An) e esplicito rinnegamento degli stessi (da parte leghista).

Diciamo subito che in tutte queste polemiche la ricerca storica ha poco a che vedere. La letteratura storiografica sul Risorgimento è sterminata ed esauriente su tutti gli aspetti controversi, problematici e contraddittori, che erano stati elusi dalla vecchia storiografia patriottica. Suppongo che i demagoghi leghisti usino soprattutto due argomenti: il presunto carattere non-popolare delle iniziative politiche militari nazionali e la gestione centralista del potere a danno di un ipotetico federalismo delle regioni via via aggregate nella nazione. Se sono queste le rivendicazioni dell’interpretazione leghista, sfondano porte aperte.

Non è questa la sede per ripercorrere i motivi che hanno portato ad esempio la classe politica risorgimentale, nella sua maggioranza, alla scelta centralista, mentre erano già pronti sul tavolo e seriamente ponderati progetti alternativi di federalismo. Sostanzialmente si scelse il centralismo statale come promotore e acceleratore della modernizzazione. Fu una scelta ragionevole - nel contesto economico del tempo - che si sarebbe potuta correggere forse con il passare dei decenni. Ma qui entriamo in un ordine di ragionamenti da fare in altro luogo. È importante invece ribadire che se si vuol fare la polemica contro il centralismo statale, non si deve sparare antistoricamente contro l’unità nazionale come tale, ma contro singole scelte politiche e amministrative.

Mi auguro che la «battaglia di Novara» di oggi abbia lo stesso effetto di quella storica: la ripresa del cammino nazionale. Nel senso di un ripensamento sereno e critico del Risorgimento a cominciare da un lavoro serio nelle scuole. È bello pensare che ai nostri figli e nipoti si possa raccontare la storia vera, dura, affascinante del nostro Paese anziché cattive mitologie che, inventate con le migliori intenzioni, ottengono poi l’effetto opposto.
 
da lastampa.it


Titolo: I nomadi in Svizzera
Inserito da: Admin - Maggio 16, 2008, 12:06:30 am
da www.nb.admin.ch

I nomadi in Svizzera


La comunità nomade in Svizzera conta approssimativamente 30 000 membri. In nome «dell’assistenza ai bambini nomadi», l’«Opera di assistenza per i bambini della strada» ha sottratto oltre 600 fanciulli ai loro genitori, costringendoli in questo modo alla sedentarizzazione. Di fatto, la maggioranza dei nomadi vive tuttora un’esistenza sedentaria. Per quanto concerne il loro numero, possono unicamente essere avanzate delle stime, visto che molte persone Jenisch, segnate da un passato sofferto, preferiscono celare la loro vera origine.
Ciononostante, il nomadismo, strettamente legato all’esercizio di vari mestieri tradizionali, è rimasto un elemento fondamentale dell’identità culturale nomade. Considerato il valore del nomadismo quale fattore d’identità culturale collettiva, i nomadi riutilizzando con maggiore frequenza l’espressione «zingari», considerata diffamatoria in passato. Il numero di nomadi, ovvero seminomadi, ammonta oggi a circa 3000 – 5000. In base al rilevamento dell’utilizzo degli spazi di sosta e di transito esistenti nel 1999, le persone che praticano attivamente il nomadismo in Svizzera sarebbero circa 2500.

La maggior parte dei nomadi svizzeri trascorre i mesi invernali presso gli spazi di sosta nelle roulotte, nelle abitazioni di legno oppure nei container. Lì, i loro figli frequentano la scuola di quartiere o di villaggio. Tutti i membri della popolazione nomade sono ufficialmente iscritti nei registri di queste stesse località. I nomadi non curano solo l’esercizio dei loro mestieri tradizionali, quali arrotini, ombrellai, cestai, baracconisti e mercanti, ma ne creano anche dei nuovi; per esempio, offrono vari servizi artigianali, ossia riparano e affilano tosatrici, distruggidocumenti ecc., aggiustano fornelli, si occupano del restauro di mobili e lampade, commerciano in metalli vecchi, abiti, tappeti e in antiquariato. La maggioranza dei nomadi esercita un’attività lucrativa indipendente, è spesso competente in vari ambiti e adatta continuamente la sua offerta alla richiesta. Durante il periodo estivo i nomadi si spostano in piccoli gruppi su tutto il territorio svizzero, soggiornando in genere per una o due settimane presso gli spazi di transito. In questo periodo hanno anche la possibilità di contattare la loro clientela abituale. Ai bambini nomadi è invece garantito uno stretto contatto con la scuola mediante l’invio di materiale d’insegnamento. Affinché possano essere corretti, i compiti vengono rispediti al corpo insegnante.

In compenso, i nomadi stranieri (particolarmente i Rom e i Sinti provenienti dalla Francia o dall’Italia) intraprendono i loro viaggi in grandi gruppi. Solitamente sostano solo pochi giorni in Svizzera. Tuttavia, la loro presenza è molto più sentita e i sedentari hanno avuto serie difficoltà di convivenza con alcuni di loro.

Gli Jenisch, gruppo principale di nomadi svizzeri, vivono soprattutto in Europa centrale (Germania, Francia, Austria e Svizzera). Gli altri nomadi svizzeri appartengono al gruppo dei Sinti (Manouches), apparentati etnicamente con i Rom. Entrambe le comunità appena citate provengono originariamente dall'India nord-occidentale..

Gli Jenisch hanno una lingua propria, lo jenisch. Si tratta di una lingua parlata, adottata a scopo protettivo. Pertanto viene utilizzata e trasmessa esclusivamente all’interno del gruppo. Il primo dizionario di Jenisch è stato pubblicato soltanto nel 2001 (Roth Hansjörg: Jenisches Wörterbuch. Aus dem Sprachschatz Jenischer in der Schweiz. Frauenfeld 2001). In genere lo jenisch viene associato ai «socioletti», alle lingue o i vocabolari «speciali». Raramente, è anche stato definito un «etnoletto». In linea di massima, i locutori fanno uso della grammatica tedesca. Lo jenisch parlato in Svizzera è caratterizzato da una sintassi svizzero tedesca, nei confini della quale i colloquialismi dialettali di maggiore valore informativo (sostantivi, verbi, aggettivi) vengono sostituti con espressioni proprie.
(v. Roth, S. 98)

Ultimo aggiornamento il 15.04.2006


Ufficio federale della cultura (UFC)



Titolo: I cattolici del settimo nano
Inserito da: Admin - Maggio 17, 2008, 10:55:32 pm
16/5/2008
 
I cattolici del settimo nano
 
 
FILIPPO DI GIACOMO
 

Per Tonino Tatò, era una certezza. In Italia, scriveva il cattolico più amato dalla sinistra, si può benissimo governare senza i preti ma è impossibile governare contro i preti. Anche tramite l’utilizzo di questa ricetta, dopo aver sanato l’annosa ferita stalinista con la Chiesa cattolica, nel 1975 e nel 1984 Berlinguer e il suo Pci riuscirono a ottenere un risultato elettorale che si aggirava intorno al 35%. I tempi non devono essere poi così cambiati se, applicando la stessa formula, Berlusconi è riuscito a raggiungere più o meno lo stesso risultato nell’aprile del 2008, vincendo la recente tornata elettorale. Visto che le cose stanno proprio così, e visto che in tanti constatano l’assenza della «componente cattolica» nell’attuale Consiglio dei ministri, ne consegue che alla lista dei sei partiti morti a causa del mal di quorum bipolaristico deve essere aggiunto anche il nome di un altro illustre scomparso. Il settimo nano, ormai estinto, è quel cattolicesimo politico che negli ultimi tre lustri abbiamo spesso e volentieri osservato imbrigliato in una serie di polarizzazioni sterili, mediaticamente efficaci, facilmente sospettabili di essere sempre imposte - dall’alto e dai soliti due o tre personaggi - sulla testa dei cattolici italiani e dei loro 226 vescovi, strategicamente ordinati all’interno di un’imbarazzante e muscolare presenza politica.

A quanto pare, il Cavaliere dopo aver pesato il valore aggiunto dell’Udc all’interno della sua coalizione, si è astenuto da ogni patto politico con chiunque sfoderasse il convinto cipiglio, e la luccicante corazza, del cattolico da combattimento. «L’Udc merita di crescere e non di sparire», «Berlusconi pare abbia somatizzato l’idea che i cattolici siano politicamente inaffidabili», hanno fatto rimbalzare da Avvenire, prima e dopo le elezioni, la mente e il braccio degli eventi di piazza e di immagine by cardinale Ruini. Invece, a questo giro e nonostante le profferte, nessuna delle forze cha hanno composto il Pdl ha fatto campagna elettorale prendendo in leasing l’identità cattolica. Per una così sana omissione, l’attuale premier e i suoi sono stati certamente aiutati dal ruolo che si sta pazientemente ritagliando l’attuale presidente della Conferenza episcopale italiana, notoriamente più preoccupato di far sentire la voce dei vescovi piuttosto che far vedere i loro muscoli.

Con l’astensione Berlusconi-Bagnasco, a metà aprile, durante le ultime elezioni, si è incrinato dunque quello specchio, pedissequamente osservato dai giornali e dalle forze politiche, dove è apparsa sempre e unicamente un’immagine di Chiesa carica di soldi e di potere. È un’immagine artefatta, creata dalla politica grazie al Concordato del 1984 e per comprenderlo sarebbe sufficiente andare a rileggere ciò che Tarcisio Bertone, allora docente di diritto pubblico ecclesiastico, scriveva nei suoi contributi ai quattro volumi di Il diritto nel mistero della Chiesa. In applicazione della teoria del «Tevere più largo» così cara a Spadolini, è stata l’Italia a chiedere che Vaticano e Santa Sede rimanessero confinati nel loro ruolo soprannazionale, e che le vicende di casa nostra fossero trattate da italiani e tra italiani. La necessità di autorizzare il presidente della Cei a un ruolo così marcatamente pubblico è stata un regalo, forse il meno utile, che la politica italiana ha concesso ai cittadini credenti di questo Paese. Il cardinale Angelo Bagnasco sembra molto intenzionato a voler abituare laici e credenti a un parsimonioso utilizzo del qualificativo «cattolico». Un termine questo che il rappresentante dei nostri vescovi associa sempre in riferimento a coloro che, qualunque partito scelgano nel segreto dell’urna, ricorrono però al cattolicesimo per vivere e impegnarsi a far funzionare in senso democratico, legale e solidale il sistema di valori e di relazioni che fanno pulsare il cuore del nostro Paese. Speriamo che sia ben comprensibile anche a coloro che, a Genova e a Savona, promettono manifestazioni e contestazioni contro il Papa ed i vescovi. Perché andare contro i preti, credendo che il cattolicesimo politico italiano sia solo nostalgia, è un errore che nessuno può ancora permettersi.
 
da lastampa.it


Titolo: Per l'Italia 150 anni con diversità (il sindaco di Novara dixit)
Inserito da: Admin - Maggio 17, 2008, 11:05:09 pm
17/5/2008
 
Per l'Italia 150 anni con diversità
 
 
MASSIMO GIORDANO*
 

Caro direttore,

voglio ringraziare il professor Rusconi per il suo articolo di ieri sulla Novara, a suo dire, ancora «fatale». Non tanto per le considerazioni che egli ha fatto in merito a quanto io avrei detto sull'Unità d'Italia (in realtà le mie dichiarazioni sono state rilette e re-interpretate dai più) ed accennando a contrasti con il comitato che prepara le celebrazioni del 2011, che in realtà ci sono stati solo con chi non ha voluto capire il senso delle mie parole.

Io voglio ringraziarlo per aver espresso un pensiero che condivido appieno e cioè la necessità di riconsiderare criticamente il passato cercando di consegnare al Paese una nuova prospettiva. Quando egli sostiene che le «cattive mitologie» rischiano di ottenere l'effetto opposto, egli non fa che confermare il rischio della «festa per la disunità d'Italia» che io ho paventato in questi giorni con le mie dichiarazioni e che per varie ragioni, alcune anche di bassa cucina politica, sono state travisate.

Questo è un paese straordinariamente ricco di disomogeneità, che trae linfa vitale dalle peculiarità locali che lo compongono. Ma è anche un paese che chiede a viva voce la valorizzazione delle sue identità territoriali e che pretende il riconoscimento delle disomogeneità quali valori fondanti della propria identità. Schiacciare questi sentimenti, queste pulsioni, rappresenta oggi un pericolo, questo sì oggettivamente disaggregante.

La ricetta che la Lega ha individuato, ormai da decenni, è appunto il federalismo, da contrapporre ad un assetto centralista dello Stato che fu frutto di una «scelta»; alla prova dei fatti non certamente quella migliore. Oggi l'Italia è un paese incongruente, vittima di un'unificazione forzata ma mai condivisa appieno, come tutte le decisioni calate dall'alto e non metabolizzate dal «comune sentire». Decisioni che possono e che debbono essere corrette e mi pare che ciò sia ormai un pensiero condiviso da quasi tutti gli schieramenti politici. Però non è possibile non notare come le pulsioni centraliste e dunque conservatrici siano sempre in agguato. Per questo motivo ho ritenuto importante porre l'attenzione sulle celebrazioni per il 150 anni dell'Unità d'Italia, perché non si risolvano in una sterile agiografia, ma in un'analisi seria ed approfondita delle questioni che con l'unità d'Italia sono rimaste irrisolte: dalla questione meridionale a quella settentrionale, ritenendo la seconda non meno emergenziale della prima.

*Sindaco di Novara

da lastampa.it


Titolo: Vincenzo Cerami. Raid
Inserito da: Admin - Maggio 18, 2008, 11:05:22 pm
Raid

Vincenzo Cerami


Raid, questa la parola di oggi: irruzione improvvisa, con sovrabbondanza di manette e urlacci. La mano forte non ci piace. È vile, incivile, è violenza.
Per un delinquente devono pagare tanti innocenti. Ma cos’è epurazione, repressione poliziesca, persecuzione, razzismo, odio, vendetta? Quando le vittime sono inermi, indifese, spaventate, l’aggressività diventa sadismo. Contro quella povera gente si scarica una frustrazione accumulata altrove. Forse dell’erotismo andato a male. Possibile, tra l’altro, che appena arriva la destra compaiano i manganelli? È troppo scontato, è pietosamente caricaturale, è un brutto film già visto. Tutte le destre d’Europa non sono così rozze e brutali come la nostra. Naturalmente la canea va appresso al cane che ringhia di più. A Napoli c’è uno spettacolo alla Gomorra: un leghista può anche andare in visibilio, in orgasmo.

Raid: un po’ sinonimo di scorreria, ovvero incursione armata in territorio nemico, in questo caso nei miserevoli campi rom. Caschi e giubbetti antiproiettile, con in pugno la spada dello spaccamontagne della Commedia dell’Arte. Eppure negli annali della polizia non esiste un solo episodio di bambini rapiti dagli zingari. È una leggenda metropolitana che dura da un paio di secoli. Quale modo meschino di mostrare i muscoli! È come sparare alle zanzare con un bazooka. Ma tutti quelli che fanno la guerra ai rom sono più spiantati dei rom, guadagnano perfino di meno. Poveracci questi, poveracci quelli. I mandanti se ne stanno tranquilli alla finestra, a guardare i raid da dietro gli occhiali dalla montatura all’ultimo grido, piuttosto cafoni. Dall’estero ci guardano, e non sanno se ridere o piangere. Dicono che siamo xenofobi, invece no, ce l’abbiamo semplicemente duro.

Pubblicato il: 18.05.08
Modificato il: 18.05.08 alle ore 15.01   
© l'Unità.


Titolo: La Spagna di nuovo contro l'Italia: «Berlusconi vuole criminalizzare i diversi»
Inserito da: Admin - Maggio 19, 2008, 03:51:43 pm
Nuove critiche da Corbacho.

Frattini:««Dichiarazioni imprudenti ed estemporanee»

La Spagna di nuovo contro l'Italia: «Berlusconi vuole criminalizzare i diversi»

«Mentre io mi assumo la responsabilità di "gestire il fenomeno" dell’immigrazione»

 
 
MADRID - Nuove critiche dalla Spagna alla politica sull’immigrazione adottata dal governo italiano guidato da Silvio Berlusconi. Un ministro dell’esecutivo socialista spagnolo, Celestino Corbacho, ha accusato Roma di voler «criminalizzar»" questo fenomeno anziché «gestirlo», secondo quanto riferisce El Mundo online citando l'agenzia di stampa Europa press. Corbacho è il ministro del Lavoro e dell’Immigrazione spagnolo. Il governo di Berlusconi vuole «criminalizzare quanti sono diversi mentre io mi assumo la responsabilità di gestire il fenomeno» dell’immigrazione, ha dichiarato Corbacho.

FRATTINI - Per il responsabile della Farnesina «imprudenti» le parole del ministro del lavoro spagnolo contro l'Italia. «Zapatero ha assicurato la sua collaborazione col nostro governo -dice Frattini- siamo pronti -aggiunge- a collaborare con Madrid per pattugliamenti nel Mediterraneo meridionale». Sul reato di immigrazione clandestina propone un disegno di legge perché «deve essere il Parlamento a decidere». Ma la polemica è destinata a non chiudersi dopo l'intervista di un altro ministro spagnolo, Bibiana Aido, che ha detto che «pagherebbe di persona uno psichiatra per Berlusconi, ma servirebbero molte sedute».

IL PRECEDENTE - Il vice presidente e portavoce del governo di José Luis Rodriguez Zapatero, Maria Teresa Fernandez del Vega, aveva scatenato una mini-crisi tra Spagna e Italia due giorni fa, sottolineando che la politica d’immigrazione in Italia poteva incitare al «razzismo e alla xenofobia». Zapatero aveva risolto questo «malinteso» spiegando che De la Vega faceva in realtà riferimento agli atti di violenza avvenuti mercoledì a Napoli dove due campi rom erano stati incendiati e non aveva criticato direttamente il governo italiano. Il ministro del Lavoro e dell’Immigrazione è tuttavia tornato alla carica domenica sottolineando, come il vice presidente due giorni fa, che è necessario «rispettare i diritti umani» quando si lotta contro l’immigrazione clandestina. «Un immigrato illegale ha un solo destino, il ritorno nel suo Paese, ma per ottenere questo bisogna soddisfare tutte le condizioni di rispetto dei diritti umani», ha dichiarato durante una riunione pubblica a Estremadura (sudovest della Spagna), secondo l’agenzia Europa Press. Il governo di centrodestra di Berlusconi ha annunciato la realizzazione di nuove misure repressive per la lotta contro l’immigrazione clandestina e ha realizzato giovedì scorso una vasta operazione contro la criminalità legata a questo fenomeno, con l’arresto di 383 persone, 268 delle quali straniere.


18 maggio 2008(ultima modifica: 19 maggio 2008)



da corriere.it


Titolo: Teheran all'Italia: sull'Iran non si faccia influenzare
Inserito da: Admin - Maggio 20, 2008, 05:48:22 pm
Teheran all'Italia: sull'Iran non si faccia influenzare


L'Iran «si aspetta che il governo italiano abbia una posizione più realistica» e «non si faccia influenzare dalle affermazioni irrealistiche di altri Paesi». Lo ha detto lunedì, rispondendo ad una domanda nella sua conferenza stampa settimanale, il portavoce del ministero degli Esteri di Teheran, Mohammad Ali Hosseini, dopo che nei giorni scorsi il ministro degli Esteri italiano Franco Frattini aveva annunciato che il suo governo avrebbe tenuto una linea più «ferma» verso la Repubblica islamica rispetto al precedente esecutivo.
Hosseini ha così risposto ad una domanda relativa ad un'intervista data da Frattini la scorsa settimana al Financial Times, in cui il capo della Farnesina, criticando il suo predecessore Massimo D'Alema, affermava che il suo governo intende aderire alla linea «molto ferma» che Usa, Francia, Germania e Gran Bretagna mantengono con l'Iran, «molto di più» di quanto ha fatto il precedente esecutivo. Frattini aggiungeva nell'intervista che l'Italia vuole entrare a far parte del gruppo dei "5+1" che conduce il confronto con Teheran, del quale fanno parte anche Russia e Cina.

Il portavoce iraniano - secondo l'agenzia ufficiale iraniana Irna - ha sottolineato quelli che ha definito «i rapporti cordiali» tra Italia e Iran, e ha aggiunto che «le autorità italiane hanno una visione più profonda e realistica della regione mediorientale rispetto ad altri Paesi. Questi presupposti, ha aggiunto, possono «aprire la strada alla cooperazione reciproca sulle questioni bilaterali e regionali».

Il ministro Frattini aveva da parte sua sottolineato anche fatto l'offerta dell'Italia quale Paese «facilitatore» per agevolare il dialogo tra gli Usa e l'Iran. Il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad, in un messaggio di congratulazioni inviato al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi il 3 maggio scorso, aveva espresso «la speranza che la cooperazione bilaterale tra Teheran e Roma si sviluppi ulteriormente in tutti i campi attraverso sforzi maggiori da parte delle autorità dei due Paesi».

Lunedì Hosseini ha anche risposto alle accuse del presidente americano George W. Bush contro il movimento sciita libanese Hezbollah e il gruppo radicale palestinese Hamas, definendoli «nobili e popolari». In un discorso pronunciato durante la sua tappa egiziana, Bush aveva affermato che Hezbollah è «nemico del Libano libero e di tutti i paesi». Quanto ad Hamas, il presidente Usa aveva spiegato che il movimento palestinese «sta tentando di sabotare gli sforzi per la pace con atti di violenza e con il terrore».

Nei colloqui in corso da venerdì a Doha fra le fazioni libanesi, la maggioranza governativa anti-siriana e l'opposizione guidata da Hezbollah non hanno ancora trovato un accordo su una nuova legge elettorale. Secondo qunanto dichiarato dal deputato dell'opposizione sciita Hassan Yacoub all'emittente libanese Lbc, il pomo della discordia nella fattispecie «è la spartizione dei seggi a Beirut». Ma già da sabato scorso era emerso un primo punto di frizione quando la parte che fa capo al Primo ministro Fuad Saniora ha chiesto che fosse messa all'ordine del giorno la questione degli armamenti di Hezbollah.


Pubblicato il: 19.05.08
Modificato il: 19.05.08 alle ore 19.08   
© l'Unità.


Titolo: GIANNI BAGET BOZZO Perchè oggi Berlusconi è legittimato
Inserito da: Admin - Maggio 21, 2008, 05:44:39 pm
19/5/2008
 
Perchè oggi Berlusconi è legittimato
 
GIANNI BAGET BOZZO

 
La delegittimazione di Berlusconi, se così possiamo chiamare il rigetto della sua figura come leader politico, è stata così diffusa nella politica italiana tanto da contagiare anche i suoi alleati. Anche Bossi, Fini e Casini hanno considerato a lungo Berlusconi come un’opportunità da cogliere e non come una soluzione politica da adottare. Casini ha pensato di essere, in quanto democristiano, il successore naturale di una eredità berlusconiana che non poteva non aprirsi, dato appunto la non politicità dell’uomo che la impersonava. Ora le cose sono cambiate e vengono cercate le ragioni del perché del successo così evidente e così personale del leader del centrodestra. Le spiegazioni correnti sulla stampa hanno messo in rilievo la crisi del sindacato rispetto al territorio e si sono concentrate piuttosto sulla Lega che su Berlusconi. Come se Bossi e i sindaci del Veneto fossero il fattore determinante, quando anche il Mezzogiorno e le isole votano per Berlusconi.

Ma perché Berlusconi è stato percepito in questa forma come una minaccia per la democrazia? Lo si comprende quando si pensa che Berlusconi come persona è stato l’oggetto di un plebiscito del popolo senza partito e senza tessera, che si è espresso in cinque elezioni politiche generali e in varie elezioni regionali e locali. Non è un fenomeno sociale del Nord e del Veneto, ma è un fatto nazionale. La Lega è una costola di Berlusconi e Berlusconi legittima la Lega. Il fatto della sua dimensione extrapartito, del rapporto diretto tra persona ed elettore, è stato sentito come una delegittimazione del Parlamento e come il frutto del potere della televisione sul gusto e sulla vocazione politica. In qualche modo una barbarie dell’età tecnologica. Eppure la volontà del corto circuito tra elettorato e governo è alla base del referendum Segni. Ricordiamo il testo di Gianfranco Pasquino dal titolo significativo «Restituire al popolo il suo scettro». I referendum Segni ebbero l’appoggio del presidente della Bolognina, Achille Occhetto: l’idea del passaggio diretto dall’elettorato al governo nasce a sinistra.

Berlusconi non ha fatto che realizzarla in un modo improvviso, imprevisto, perché addirittura ha abolito la mediazione del partito e ha realizzato veramente il volto del popolo come principe in sé stesso. Il fatto ha prodotto una situazione profondamente diversa da quella pensata dai promotori. Ma ciò è dovuto a fattori drammatici: lo scioglimento dei partiti democratici occidentali dopo Mani pulite e la nascita dalla Lega nord come fenomeno separatista. Sono questi gli aspetti più vistosi della separazione tra popolo e partiti. Il fatto che la magistratura decidesse la politica e che nascesse nel Nord il Partito separatista indica una profondità della crisi tra popolo e il regime dei partiti, che il lungo compromesso tra democristiani e comunisti aveva imposto al Paese. Se non ci fosse stato Berlusconi cosa sarebbe accaduto? Si può ipotizzare che la coppia candidata a dirigere il Paese nel ‘94, Achille Occhetto e Mino Martinazzoli, avrebbe realizzato una nuova forma di condominio tra comunisti e democristiani, dopo che la Dc era finita e il sistema dei partiti poggiava solo sulla gamba dei postcomunisti?

Berlusconi non ha creato l’antipolitica, ma ha realizzato una soluzione politica che nasceva da un percorso inventato dalla sinistra. E lo ha fatto in condizioni che potevano essere molto più drammatiche senza il suo intervento. Egli ha costruito una forza moderata di centro, Forza Italia, ha condotto la Lega nord al governo e non al separatismo, ha ricondotto il postfascismo alla legittimità della democrazia. Un’opera non piccola. Ora Berlusconi è legittimato, i suoi alleati non lo considerano più come espediente, ma come una soluzione; e il Partito democratico lo ha finalmente preferito a Prodi. Per la prima volta da quando Berlusconi è in campo il Quirinale non è stato un nemico come con Scalfaro, né un censore come Ciampi, ma un Presidente della Repubblica che ha ricondotto il Quirinale nei limiti della democrazia parlamentare, come non era dai giorni di Giovanni Leone. Uno è un democristiano anonimo e l’altro è un postcomunista diverso. bagetbozzo@ragionpolitica.it


da lastampa.it


Titolo: La beffa del governo stabile
Inserito da: Admin - Maggio 22, 2008, 10:07:50 am
21/5/2008
 
La beffa del governo stabile
 
 
 
 
 
CARLO BASTASIN
 
Quando scrisse Le conseguenze economiche della pace, John Maynard Keynes sapeva quale sforzo mentale fosse necessario per uscire da un conflitto sanguinario e beneficiare della ritrovata armonia. In qualche misura anche il governo italiano, emerso inaspettatamente stabile dopo anni di dura conflittualità politica, deve saper uscire dalla logica dell’emergenza e assumersi la responsabilità di governare «in tempo di pace», cioè con obiettivi di legislatura. Alla vigilia della prima riunione del Consiglio dei ministri, ieri si sono avuti due segnali contrastanti. Da un lato la conferma di provvedimenti controversi, come l’azzeramento dell’Ici e la detassazione degli straordinari.

Dall’altro un’impostazione di finanza pubblica che fa propri gli obiettivi europei pluriennali del precedente governo, che anticipa la Finanziaria legandola alla programmazione di medio termine e che sfrutta le opportunità del federalismo fiscale. Ici e straordinari sono provvedimenti che nascono da una campagna elettorale carica di promesse e povera di prospettive. Pochi ricordano che prima del voto la previsione era di un governo di larghe intese e di stretta durata. Un governo che doveva vivere poco, forse un anno, per riscrivere la legge elettorale e poi lasciare il posto a un nuovo esecutivo finalmente stabile. In tale prospettiva le promesse elettorali erano di brevissimo respiro e non coerenti con un programma di legislatura che infatti né destra né sinistra avevano presentato. La beffa del governo stabile è ora di dover mantenere le promesse instabili fatte prima del voto.

Su Ici e straordinari molto è già stato detto. Anziché tagliare l’Ici, ragioni di equità avrebbero consigliato di beneficiare il regime fiscale degli affitti a favore di chi una casa proprio non ce l’ha. Inoltre ragioni di efficienza avrebbero conservato la tassa locale sugli immobili che incentiva il contribuente a controllare da vicino in quale modo le amministrazioni comunali spendano i soldi dei cittadini. Infine l’80% degli italiani che si sentono esentati dall’Ici potrebbero essere vittime di «illusione tributaria», perché rischiano comunque di compensare il minor gettito con altri tributi. La detassazione degli straordinari è un primo passo per avvicinare la remunerazione di chi lavora alla produttività della propria impresa. Il decentramento della valutazione delle componenti variabili del salario è necessario a fronte di un panorama industriale nazionale sempre più eterogeneo, in cui le imprese che riescono a ristrutturarsi e a reggere la competizione globale non distribuiscono i benefici ai propri dipendenti quanto potrebbero, mentre le imprese in difficoltà non riescono a ridimensionarsi nella misura necessaria a sopravvivere, legate come sono da strutture salariali rigide. Tuttavia il problema del mercato del lavoro italiano è anche la bassa quota di italiani e italiane che lavorano. Inoltre si sta aggravando la condizione di precarietà di lavoratori privi di contratto o di rappresentanza nelle imprese minori. Favorire chi ha già un lavoro e protezione sindacale, attraverso uno sgravio fiscale sugli straordinari il cui costo grava su tutti gli altri, potrebbe far aumentare le difficoltà di chi è meno garantito o privo di un lavoro.

Nelle dichiarazioni di ieri, il ministro dell’Economia Giulio Tremonti ha colto la necessità di governare avendo obiettivi di legislatura. Confermando gli impegni italiani nei confronti dell’Unione Europea ha dato un segnale rassicurante. La stima della correzione di bilancio da qui al 2011 è purtroppo ottimistica, ma l’intenzione di agire sulle spese pubbliche improduttive (e giustamente in primis sull’orribile decreto milleproroghe di marzo) è corretta. Così come l’affermazione che l’azione di governo non sarà episodica, ma organica e progressiva in una prospettiva di legislatura. Dalle prime provvisorie interpretazioni delle dichiarazioni del ministro, il quadro organico avrebbe una duplice natura, da un lato la compatibilità con gli impegni europei, dall’altro la realizzazione del federalismo fiscale attraverso il quale migliorare la qualità della spesa pubblica. Si tratta di un impegno giustamente ambizioso, ma non privo di rischi se si pensa alle gravi inefficienze delle amministrazioni pubbliche, alle grandi differenze regionali e alla tradizione di scarsa credibilità dei governi. Negli anni passati il Belgio è riuscito a ridurre drasticamente il debito pubblico decentrando la responsabilità fiscale, ma ciò non ha impedito che il paese arrivasse sull’orlo della secessione.
 
da lastampa.it


Titolo: Massimo Franco. Rottura con il passato
Inserito da: Admin - Maggio 22, 2008, 11:17:06 pm
Rottura con il passato


di Massimo Franco


Il segnale di forza non è arrivato tanto dal governo di Silvio Berlusconi, ma dallo Stato. E questo forse rappresenta il miglior risultato che il presidente del Consiglio si potesse augurare nel suo esordio di ieri a Napoli. La vergogna della capitale del Sud sfregiata dai rifiuti ha fatto il miracolo di riunire la maggioranza di centrodestra insieme col resto del Paese. Davanti all’opinione pubblica si è presentato non il solito Cavaliere solitario, ma un esecutivo che ha offerto un’immagine di coesione piuttosto irrituale. Forse faticherà a risolvere i problemi. Eppure ha mostrato di essere consapevole della sfida proibitiva: il che non è poco.

Il messaggio è fortemente, anche se, c’è da sperare, non soltanto, simbolico. Come sono parzialmente simboliche le misure prese in materia di sicurezza e la stessa riunione del Consiglio dei ministri a Napoli, promessa da Berlusconi in campagna elettorale. Ridurre quanto è successo ieri ad una passerella, tuttavia, sarebbe ingeneroso e fuorviante. Lo sforzo è stato quello di prendere decisioni capaci di trasmettere l’impressione di una rottura netta col passato; ed il tentativo sembra riuscito. A renderlo più credibile sono state l’assenza di promesse avventate, ed una certa parsimonia perfino nelle critiche agli avversari.

L’unico sarcasmo è stato riservato ai «capricci di spesa» imputati da Berlusconi e dal ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, al governo di Romano Prodi. Per il resto, cominciare da Napoli significava evocare senza bisogno di parole il disastro amministrativo degli avversari. Ma non sottolineare quelle responsabilità ha dimostrato che il centrodestra sa di correre rischi non dissimili; e che soltanto un impegno comune, nazionale, privo di recriminazioni e guidato dallo Stato, può riportare la situazione alla normalità. La reazione misurata del Pd conferma la disponibilità a non ostacolare un percorso ritenuto da tutti come obbligato.

È un modo per far capire che le emergenze del Sud non sono anomalie estranee al resto dell’Italia. Al contrario, evocano e in qualche caso anticipano quanto potrebbe avvenire in futuro e forse sta già succedendo perfino a nord del Po. Si tratti di sicurezza, immondizia, sgravi fiscali, politica familiare, la sensazione di precarietà e di malessere attraversa e coinvolge larghi settori del Paese. Per il momento, il governo appare preoccupato soprattutto di arginare queste paure: anche a costo di provocare la reazione di alcuni Paesi europei e di tirarsi addosso accuse più o meno strumentali di xenofobia.

Berlusconi ed i suoi alleati indovinano una voglia di Stato che per ora si affida a soluzioni drastiche, e non ammette neppure l’apparenza di cedimenti. L’inizio, dunque, non poteva essere diverso. Una durezza non confortata dal successo, tuttavia, colpirebbe la credibilità delle istituzioni quasi quanto l’assenza di governo.

22 maggio 2008

da corriere.it


Titolo: Il Cavaliere dimostri che è cambiato pure sulle tv
Inserito da: Admin - Maggio 24, 2008, 12:57:44 am
23/5/2008
 
Il Cavaliere dimostri che è cambiato pure sulle tv
 
 
MATTIA FELTRI
 
In questa affollata luna di miele, più che altro un congresso carnale della politica, Silvio Berlusconi è l’amante e l’amato di tutti. Lo venerano gli imprenditori. Gli si genuflettono i banchieri. Si rimettono a lui i sindaci di centrosinistra all’indomani della scoperta che fra razzismo ed esasperazione corre una differenza. Tendono la mano i sindacati e indicano la via: «Ha imboccato quella giusta»; e il sacrilegio lo lasciano alla Cgil di Guglielmo Epifani, che si guadagna i titoli dei giornali per un modico «sì, però...». L’opposizione dialoga. I cantautori scambiano effusioni per iscritto con Sandro Bondi. I registi e gli attori si consegnano al pettoruto Luca Barbareschi, al quale perdonano furie tardo-egemoniche: «Dobbiamo occupare tutto».

I sintomi sono quelli della sindrome di Stoccolma. Il presidente del Consiglio ha con sé i voti, la maggioranza schiacciante e soprattutto la prospettiva di dominare cinque anni: troppi perché i dissenzienti rimangano a guardare o di nuovo si rinchiudano nel fortino dei senza se e senza ma, del resistere resistere resistere. Ha ragione Emma Marcegaglia, ci sono «condizioni irripetibili» per aggiustare il Paese. Berlusconi lo sa e non ammazza gli uomini morti, alla Maramaldo.

Concede status volatili ma scenografici al governo ombra del Partito democratico e - lui che in campagna elettorale si vantava che non uno nel centrosinistra gli desse del tu - appena incrocia un avversario si precipita a stringergli la mano e a rivolgergli sentiti auguri. L’uomo è cambiato o perlomeno questa è l’immagine (quirinalizia) che vuole dare di sé. Ha appreso l’arte cinica ma non cruenta della pax romana e abbandonato quella previtiana del ferro e del fuoco. Si impunta sul Consiglio dei ministri a Napoli, malgrado l’umore dei napoletani e qualche collaboratore glielo sconsigliassero, e sciorina una serie di provvedimenti da ovazione, se non altro sulla carta.

Il premier che si affacciava alla politica nel 1994, allegramente dilettante, e quello che se ne impadroniva nel 2001, non senza qualche accenno di boria, pare scomparso dentro una maturità ecumenica e concreta, con toni di realismo calibrato perché non sfoci nel pessimismo. Tutto lo agevola. I contenziosi con la magistratura sono al tramonto e non hanno mai fatto presa sugli elettori. Si poteva giurare che la stagione delle leggi ad personam fosse conclusa anche davanti all’arrendevolezza del centrosinistra in tema di conflitto d’interessi. Ma al primo momento buono le truppe di Silvio hanno sfoderato gli spadoni, proprio come sette anni fa.

Anche i più bendisposti, allora, si resero conto e segnalarono che sull’utilità delle norme domestiche di Forza Italia (la depenalizzazione del falso in bilancio, l’annullamento delle rogatorie internazionali con vizio di forma, il provvedimento sul legittimo sospetto, e persino sul lodo Schifani, poi bocciato dalla Corte Costituzionale, che sottraeva al controllo delle procure le prime cinque cariche dello Stato) si poteva pure discutere; ma erano i modi bruschi e i tempi rapidi, per una coalizione non proprio granitica, a togliere dubbi sui tornaconti privati in atto pubblico del capo del governo.

In questi giorni sta succedendo qualcosa di simile. La maggioranza ha studiato e proposto un emendamento che congela fino al 2012 l’applicazione delle norme comunitarie secondo le quali Rete4 dovrebbe restituire le frequenze a Europa7 e trasferirsi sul satellite. Il Popolo della libertà sostiene che è l’unico modo per evitare un deferimento alla Corte di giustizia dell’Ue. Walter Veltroni contesta il merito e il metodo, e i suoi parlano di sgangherato tentativo di aggirare in stile fulmineo le giuste pretese di Bruxelles. La tesi dei secondi è più convincente, mentre si osserva il body jumping di Emilio Fede, che da lustri fa su e giù dal satellite come appeso a un elastico, ma alla fine tocca sempre terra. E dunque adesso tocca a Berlusconi spiegare come stanno le cose, chiarirle, togliere i sospetti e dimostrare che la roba l’ha sistemata a suo tempo, e ora si sta dedicando soltanto al matrimonio anziché al patrimonio.
 
da lastampa.it


Titolo: Telenovela indecente
Inserito da: Admin - Maggio 24, 2008, 01:09:43 am
POLITICA IL COMMENTO

Telenovela indecente

di GIOVANNI VALENTINI


NON è sempre vero che il lupo perde il pelo, ma non il vizio, come si affannano a protestare ora gli esponenti dell'opposizione per contestare l'emendamento con cui il governo Berlusconi punta a bloccare la procedura d'infrazione della Corte europea contro l'Italia sul sistema televisivo e quindi a proteggere ancora una volta Retequattro.

Il fatto è che in questo caso il lupo rimane lupo e il pelo non lo perde affatto. E non è neppure vero che i rappresentanti del centrosinistra sono assimilabili ad agnelli, dal momento che è anche colpa loro - del governo Prodi e della traballante maggioranza che lo sosteneva - se oggi ci ritroviamo di nuovo in questa incresciosa situazione.

La telenovela di Retequattro dura ormai da dieci anni, da quando fu approvato nel '99 l'ultimo piano delle frequenze e in forza della normativa anti-trust la terza rete di Mediaset avrebbe dovuto trasferirsi sul satellite. Non chiudere o essere oscurata, si badi bene.

Ma continuare a trasmettere su un'altra piattaforma, non più in chiaro, a beneficio di Europa 7 che s'era aggiudicata regolarmente una concessione nazionale e da allora non ha mai ricevuto materialmente le frequenze a cui avrebbe avuto diritto. Un sopruso, una prevaricazione, un'occupazione praticamente abusiva, legittimata a posteriori da una compiacente autorizzazione ministeriale che - in via transitoria - ha consentito a Retequattro di continuare indisturbata.

C'era già stato nel dicembre del 2003 un decreto-legge del precedente governo Berlusconi, denominato appunto salva-reti. A cui seguì l'approvazione della famigerata legge Gasparri, prima bocciata dal presidente Ciampi e poi censurata dall'Europa.

E adesso ci risiamo: appena tornato al governo, Berlusconi non si smentisce e ripropone coerentemente un altro decreto per il quale non ricorre alcuna giustificazione di necessità e urgenza, se non riferita strettamente alle casse della sua azienda. Altro che conflitto d'interessi: questa è piuttosto una convergenza di interessi, per dire un'oggettiva collusione tra funzioni pubbliche e affari privati.

Nel merito, l'emendamento presentato di soppiatto dal governo non rispetta la sentenza della Corte di giustizia europea e verosimilmente non sarà sufficiente a evitare la procedura d'infrazione, con la minaccia di una maxi-multa che potrebbe arrivare fino a 300-400 mila euro al giorno per ogni giorno di ritardo. Naturalmente, a carico dello Stato italiano, cioè di tutti noi cittadini.

La "proposta indecente" di rinviare la questione all'avvento del sistema digitale terrestre, previsto entro il 2012 e destinato probabilmente a slittare fino al 2015, è tanto maldestra quanto illegittima: per il semplice motivo che in nome del pluralismo e della libera concorrenza la Corte ha già sanzionato retrospettivamente l'assetto della televisione italiana, risalendo addirittura al 1997 (legge Maccanico), con una sentenza che avrebbe già dovuto provocare la disapplicazione delle norme censurate. E per di più, ha esplicitamente escluso che gli operatori privi di una concessione analogica - com'è Retequattro - possano continuare a trasmettere fino alla data dello switch-off.

Ma è soprattutto sul piano politico che il "colpo di mano" del governo - come giustamente lo definisce il ministro-ombra della Comunicazione, Giovanna Melandri - rischia di provocare gli effetti più rovinosi. Non solo perché interrompe il "fair play" tra maggioranza e opposizione che dovrebbe favorire un auspicabile confronto sulle riforme istituzionali. Ma ancor più perché elimina ogni possibilità di dialogo in Parlamento, alla luce del sole, riproponendo l'anomalia del conflitto d'interessi come un'ipoteca sulla vita nostra vita democratica.

Sarà pur vero che le ultime elezioni hanno convalidato per la terza volta in quindici anni una tale aberrazione, come sostengono adesso anche gli esponenti di Alleanza nazionale che fino a qualche mese fa protestavano per l'invasione delle reti Mediaset nella vita privata di Gianfranco Fini, a scopo intimidatorio. E sarà anche vero che oggi alla maggioranza degli italiani interessa di più l'allarme sicurezza, amplificato ad arte dai tg del Biscione e purtroppo anche da quelli della Rai. Ma all'altra metà del Paese la questione televisiva non preme certamente di meno, visto che la tv determina l'agenda nazionale, condiziona gli umori popolari e continua a influire pesantemente anche sulle scelte politiche.

Forse, l'unico aspetto positivo di questo torbido passaggio sta nel fatto che Walter Veltroni, scuotendosi dal suo torpore post-elettorale, annuncia adesso una "opposizione dura". Dopo aver sopravvalutato le piazze piene di gente, come ha ammesso onestamente lui stesso nei giorni scorsi a "Ballarò", c'è da sperare che il leader del Pd si liberi dal sortilegio mediatico delle piazze virtuali. E sfidi apertamente la maggioranza sul suo terreno.
Il "fair play" parlamentare va bene. Il confronto istituzionale è opportuno e necessario. Ma un inciucio televisivo, rovesciando l'invito rivolto da Berlusconi a Veltroni, proprio "nun se po' fa'".


(23 maggio 2008)

da repubblica.it


Titolo: Del Noce alla Rai fa il gioco di Berlusconi: parola di giudice
Inserito da: Admin - Maggio 27, 2008, 06:46:39 pm
Del Noce alla Rai fa il gioco di Berlusconi: parola di giudice



Non erano illazioni e pettegolezzi, ma «fatti e comportamenti veri e documentati»: direttore di Rai Uno Fabrizio Del Noce faceva il gioco di Berlusconi. I consiglieri Rai Nino Rizzo Nervo e Sandro Curzi, quindi, non lo hanno né diffamato né hanno leso la sua identità personale e professionale.

Tutto nasce da un’intervista rilasciata dai due consiglieri al quotidiano La Stampa nell’agosto del 2005. Nel colloquio, che venne intitolato Il pacco di Berlusconi e sottotitolato «Curzi: è il mandante del complotto Rai, con l'aiuto di Del Noce», si sosteneva che Del Noce avrebbe appoggiato Berlusconi nel passaggio del conduttore Paolo Bonolis da Rai a Mediaset e nel tentativo di strappare alla tv pubblica anche il format del programma di successo Affari tuoi.

Del Noce in particolare non aveva gradito le dichiarazioni dei due consiglieri, secondo i quali Del Noce aveva «intenzione di distruggere la Rai nell'interesse della concorrenza ed in particolare dell'on. Silvio Berlusconi».

Ora il Tribunale civile di Roma ha rigettato la richiesta di Del Noce perché Curzi e Rizzo Nervo non solo «sono legittimati ad esprimere opinioni personali anche in toni accesi, per l'ambito in cui ci si muove e per l'importanza degli interessi coinvolti», ma oltre tutto hanno espresso una critica che «muove da fatti e comportamenti veri e documentati». Insomma quelli nei confronti di Del Noce non sono «attacchi gratuiti e personali, ma un legittimo esercizio del diritto di critica espressa nel rispetto della continenza anche formale».

Pubblicato il: 27.05.08
Modificato il: 27.05.08 alle ore 17.28   
© l'Unità.


Titolo: Bossi: «Confronto anche con il Pd per il federalismo fiscale»
Inserito da: Admin - Giugno 01, 2008, 05:04:34 pm
Il senatur: «Siate pronti a dare una mano quando serve«

Bossi: «Confronto anche con il Pd per il federalismo fiscale»

Il ministro delle Riforme a Pontida: «La libertà della Padania arriverà»

DAL NOSTRO INVIATO


PONTIDA (Bergamo) - «I voti della Lega sono determinanti: senza di noi non si governa». Quello che Roberto Castelli lancia dal palco di Pontida è un vero e proprio avvertimento agli alleati della coalizione di governo. Non un ultimatum, e neppure una minaccia, come lui stesso si affretta a spiegare, «perché noi siamo persone fedeli che rispettano i patti». Ma, appunto, nell'eventualità che i patti qualcuno non li voglia rispettare è bene che le cose siano messe subito in chiaro.


GOVERNO OMBRA - E forse non è un caso che quando poco dopo è Umberto Bossi a prendere il microfono per parlare con la sua gente, con quelli che continua insistentemente a chiamare "fratelli", ci siano più ammiccamenti ai ministri ombra del Partito democratico, che non ai compagni di cordata. I quali, secondo il Senatùr, «al di là delle chiacchiere si stanno ormai estinguendo». E se il centrodestra ha vinto le elezioni «è perché le elezioni le abbiamo vinte noi».


VIA PACIFICA ALLE RIFORME - Pontida 2008 ha un significato molto particolare per la Lega. Perché arriva subito dopo il successo elettorale e perché vede Umberto Bossi ancora una volta nel ruolo di ministro delle Riforme. E sarà ancora lui, il grande capo, ora paragonato ai grandi capi indiani che non accettavano di finire nelle riserve, a farsi carico di portare a termine il lavoro iniziato già nel 2001 ma poi non condotto a termine per la bocciatura, nel giugno 2006, del referendum confermativo della riforma istituzionale che istituiva il federalismo.
Una bocciatura dovuta sia alla strenua opposizione del centrosinistra, ma anche – e qui sul prato del «giuramento» lo sanno in molti – al disimpegno degli alletati della Cdl che per quella battaglia si spesero poco o nulla. Ma questa volta – assicura Bossi – non sarà così. Questa volta «o si fa il federalismo o si muore». Perché se così non fosse, dice il leader guardando negli occhi la sua gente, «ci sono centinaia di migliaia di uomini, forse milioni, disposti a lanciarsi nella mischia per conquistare la libertà contro il centralismo italiano». Un'ovazione accoglie le sue parole. Qualche fischio invece si leva al solo nominare dell'opposizione, ma è proprio il Senatùr a stroncare sul nascere, con un gesto della mano, ogni cenno di lamentela. «Siamo disposti anche a trattare con i ministri del governo ombra – afferma deciso– perché vogliamo percorrere la via pacifica alle riforme e sappiamo bene che l’alternativa sarebbe solo una sollevazione popolare».
 

LIBERTA' DELLA PADANIA - E il confronto con il centrosinistra sembra essere uno dei cardini su cui far muovere la nuova strategia politica. Sì al confronto con i ministri veltroniani, dunque. E sì ad un continuo pungolo alla maggioranza. «Ma guai a cercare di ingannarci – avverte Bossi -: nell’ombra i nostri si stanno preparando. Anzi, sono già pronti a balzare fuori per conquistarsi con le proprie mani la civiltà. Non vogliamo più subire il federalismo. Lo faremo. Oppure sarete voi a farlo, nelle piazze». E in quel caso, dice, i partiti romani «rimpiangeranno di non averci dato quello che chiedevamo». Bossi si rivolge ai suoi con la consapevolezza della lunga strada sin qui percorsa. Ma con ancora la determinazione di un obiettivo importante da raggiungere. «Oggi dovete avere coscienza del fatto che la libertà della Padania arriverà – spiega prima di passare alla cerimonia del giuramento, un rito che richiama il patto tra i comuni lombardi che otto secoli fa si opposero a Federico Barbarossa -. Un giorno quando saremo libero potremo spiegare ai nostri figli che eravamo stati schiavi. Ma Dio non ci ha creati schiavi di Roma, siamo nati liberi e quindi torneremo ad esserlo». Dalla folla si alza il coro più gradito in casa leghista, «Roma ladrona la Lega non perdona». E anche Bossi aggiunge la sua voce alle altre. «Preparatevi – è l’esortazione finare -: se sarò in difficoltà basterà un cenno e dovrete venire a centinaia di migliaia, incazzati neri, per far sapere al Parlamento qual è davvero la volontà popolare». Prima di chiudere il suo intervento, una piccola bacchettata Bossi però la riserva anche ai suoi: «Non so perché non sono state portate le camicie verdi ad aiutare i piemontesi finiti sotto l'alluvione, volevo quasi andarci io…». E poi l’invito a non chiudere gli occhi «di fronte ai problemi della nostra gente», perché «libertà vuol dire anche partecipazione ed essere pronti ad andare una mano nei momenti giusti».

Alessandro Sala
01 giugno 2008

DA corriere.it


Titolo: Berlusconi in tv: «Grazie al Papa per l'apprezzamento sul nuovo clima politico»
Inserito da: Admin - Giugno 06, 2008, 02:00:03 pm
Incontro tra il premier e benedetto XVI «Siamo dalla parte della Chiesa»

Berlusconi in tv: «Grazie al Papa per l'apprezzamento sul nuovo clima politico»

 
ROMA - È durato in tutto 40 minuti il colloquio privato fra il Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, e Benedetto XVI. All'incontro era presente anche il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Gianni Letta. Al termine del colloquio la delegazione al seguito del premier è stata invitata ad unirsi all'incontro e a salutare il Pontefice.

APPREZZAMENTO - Poche ore prima dell'udienza privata, Berlusconi ha espresso un «ringraziamento» al Papa per «l'apprezzamento del nuovo clima in Italia con l'avvento della nostra parte politica» che rappresenta il Partito dei popoli europei e che «è per il Vaticano cosa molto apprezzabile». Il premier è intervenuto sugli schermi di Canale 5. «Noi siamo dalla parte della Chiesa - ha sottolineato il premier intervistato da Maurizio Belpietro- crediamo nei valori di solidarietà, giustizia, tolleranza, rispetto e amore dei più deboli. Siamo sullo stesso piano su cui opera la Chiesa da sempre». Berlusconi ha ripetuto he tra Stato e Chiesa «è possibile ogni dialogo su ogni argomento», nel rispetto reciproco. Questo, conclude, «è l'atteggiamento profondo del mio governo che non può che compiacere il Pontefice e la Chiesa».

RIFIUTI - Non manca la stoccata al precedente governo. «Con la sinistra lo Stato si è fatto indietro, quando doveva garantire la legalità sul territorio. Era un pericoloso percorso verso l'anarchia. Anche la vicenda dei rifiuti è figlia della destrutturazione dello Stato». A tal proposito, il premier ha affermato che «l'emergenza rifiuti deve finire entro l'estate. La soluzione definitiva deve arrivare 30 mesi. Il termovalorizzatore di Acerra deve essere operativo entro l'anno. Abbiamo preso provvedimenti chiari e severi. Bertolaso ha pieni poteri. Chi ostacolerà la raccolta dei rifiuti sarà perseguito, perché il primo dovere è la difesa della legalità. Non accetteremo la violenza di chi ad esempio occupa gli aeroporti».

IMMIGRATI - Berlusconi pensa inoltre che l'esecutivo di Prodi sia stato troppo di manica larga anche per quanto riguarda gli immigrati. «Vogliamo scoraggiare chi entra facilmente in Italia - ha detto - come è successo durante il precedente governo. L'attuale sistema è più efficace per limitare gli ingressi ed espellere i clandestini. La nostra linea è quella della fermezza. Nessun passo indietro e nessuna tolleranza per chi viola le leggi, comprese quelle sull'immigrazione».

IL PONTE - Berlusconi ha assicurato poi: «Avvieremo al più presto la costruzione del Ponte sullo Stretto di Messina». Per questo «dovremo recuperare in sede europea i soldi raccolti in passato». Smentite così le voci di un ripensamento. Il presidente del Consiglio sottolinea che il ponte «fa parte del corridoio europeo Palermo-Berlino».



06 giugno 2008

da corriere.it


Titolo: La salute dei politici
Inserito da: Admin - Giugno 21, 2008, 04:42:46 pm
9/6/2008
 
La salute dei politici
 
 
 
 
 
ANDREA ROMANO
 
Siamo sicuri che il malore accusato sabato dal premier sia stato di lievissima entità e auguriamo a Berlusconi di godere a lungo dell’invidiabile vitalità che dimostra. Ma le condizioni di salute di chi esercita il potere esecutivo su mandato democratico non sono un fatto privato. O meglio, lo sono finché l’opinione pubblica non ha motivo di ritenere che l’efficacia dell’azione di governo possa essere minimamente condizionata da ciò che la natura impone al nostro corpo di uomini e donne.

Quando questo avviene, anche se per un breve tratto di tempo, è indispensabile che vi sia un’informazione completa e tempestiva non solo sul singolo episodio ma sullo stato di salute complessiva del capo del governo.

Perché un leader democratico non è un cittadino qualunque né un politico come tutti gli altri. È tenuto a forzare costantemente i confini della propria privacy, anche su temi sui quali è normalmente più alta la soglia del nostro rispetto individuale. Perché è anche su quei temi che oggi valutiamo l’affidabilità del potere elettivo. La personalizzazione della politica che tutto l’Occidente ha conosciuto negli ultimi anni è fatta anche di questo: dell’onere supplementare di chi governa a condividere con l’opinione pubblica aspetti della propria vita che un tempo sarebbero stati considerati al riparo dal diritto all’informazione.

Nell’ottobre 2004 il poco più che cinquantenne Tony Blair organizzò una conferenza stampa a Downing Street per raccontare dell’operazione al cuore che aveva appena subìto, qualche settimana dopo aver accusato un mancamento di origine cardiaca che per qualche ora lo aveva tenuto lontano dalle leve del potere. In quell’occasione la Gran Bretagna discusse per giorni e nel dettaglio dello stato di salute di un leader che incarnava ancora l’immagine del “giovane politico” e che di lì a poco avrebbe vinto nuovamente e per la terza volta consecutiva le elezioni. Più di recente il candidato repubblicano John Mc Cain ha addirittura convocato in clinica una pattuglia di giornalisti per mostrare e discutere le quattrocento pagine della sua cartella clinica, con dovizia di particolari sui malanni passati e presenti di un settantenne che tra pochi mesi potrebbe insediarsi alla Casa Bianca nella pienezza dei poteri presidenziali.

Si dirà che si tratta di esempi tipici del mondo anglosassone, dove i confini tra pubblico e privato per chi esercita un mandato popolare sono tradizionalmente più permeabili rispetto a quelli coltivati dai paesi di civiltà cattolica. Ma più che a secolari differenze culturali dovremmo guardare ai più recenti mutamenti che l’Italia ha conosciuto nella trasparenza del potere politico. Tra i molti abusi moralistici che la crisi della politica ha portato con sé, un cambiamento è stato sicuramente positivo: la diminuzione del livello di opacità che oggi siamo disposti a tollerare in chi ci governa. Oltre all’ambito della morale e della vita privata, questo riguarda l’efficienza fisica di chi dirige l’azione di governo.

Tra l’altro lo stesso Berlusconi ha mostrato in passato di non temere la comunicazione di notizie sulla propria salute. Nel luglio del 2000, intervistato da Mario Calabresi per Repubblica, raccontò con coraggio di come aveva vissuto e sconfitto il cancro che lo aveva colpito nel 1997.

Allora il Cavaliere era a capo dell’opposizione, oggi guida un governo appena insediato da un ampio mandato democratico. A maggior ragione, dunque, sarebbe opportuno che l’autentico stato di salute del presidente del Consiglio fosse comunicato al Paese. Finalmente fuori dal dominio delle indiscrezioni e della curiosità morbosa.
 
da lastampa.it


Titolo: Lega, bene a metà
Inserito da: Admin - Giugno 21, 2008, 04:43:49 pm
9/6/2008
 
Lega, bene a metà
 
 
 
 
 
CARLO FEDERICO GROSSO
 
Quando ha promesso di circoscrivere ai reati di mafia e terrorismo la possibilità di utilizzare le intercettazioni telefoniche e ambientali, e minacciato 5 anni di galera a chi intercetta fuori dai casi previsti dalla legge e a chi pubblica le conversazioni registrate, anche se in modo legale, Berlusconi forse sognava. Una giustizia finalmente fuori gioco nei confronti dei reati che possono coinvolgere i ceti di potere, una stampa finalmente imbavagliata su fatti e misfatti privati d'interesse pubblico.

Niente più manipulite, vallettopoli o scandali del calcio, niente più corruzione, concussione o insider trading, nessuna ulteriore, fastidiosa, pubblicità massmediatica. Il sogno di una vita.

Le reazioni si sono peraltro fatte subito sentire. Hanno protestato i magistrati per i danni che potranno subire molte indagini importanti, hanno protestato i giornalisti per la repressione della libertà di stampa e la violazione del diritto dei cittadini ad essere informati, hanno protestato Italia dei valori e Partito democratico. Il dato politico che più mi ha colpito è stata tuttavia la risposta di ieri della Lega. L'ex Guardasigilli Castelli ha infatti precisato di non condividere l'impostazione menzionata, poiché quantomeno nei confronti dei delitti di corruzione e concussione non dovrebbero essere frapposti limiti alle intercettazioni per non rischiare di favorire, appunto, la casta politica. Parole sacrosante, anche se in questo modo non si rimedierebbe ad ogni guasto, poiché rimarrebbero comunque esclusi dal diritto d'intercettazione i reati economici, che riguardano anch'essi la classe dirigente.

Al di là del modo estemporaneo con il quale ha richiamato all'attenzione il menzionato nodo politico-giudiziario, Berlusconi ha fatto ancora una volta botto. Da ieri affrontare, e risolvere in prospettiva limitante, il problema dei controlli giudiziari delle conversazioni interpersonali è diventato un'urgenza ineludibile. Avanti tutta, pertanto. E' verosimile che, come per la sicurezza, il governo si mobiliti. Il presidente del Consiglio l'altro ieri ha addirittura dichiarato che il relativo disegno di legge verrà approvato già nel prossimo Consiglio dei ministri. Ancora una volta un decisionismo irrefrenabile.

Detto questo, domandiamoci quali sono i termini reali del problema con il quale ci troviamo, ormai, costretti a fare i conti. Il tema delle intercettazioni ha due risvolti: uno giudiziario, uno massmediatico. Sotto il primo profilo ci si deve domandare quali sono i reati con riferimento ai quali è giustificato utilizzare uno strumento d'indagine invasivo qualè il controllo giudiziario delle conversazioni private. Sotto il secondo ci si deve domandare quale equilibrio si deve individuare fra le esigenze contrapposte di informare i cittadini sullo svolgimento delle inchieste giudiziarie e di salvaguardare la privacy dei soggetti intercettati. Con riferimento ad entrambi i profili Berlusconi sembra draconiano. Intercettazioni molto limitate, pubblicazione zero. La risposta, in questi termini, non ha peraltro senso.

Non ha senso, innanzitutto, che sia consentito intercettare soltanto nelle indagini che riguardano i reati di mafia e terrorismo. Occorrerà estendere comunque l'intervento ai reati gravi di criminalità comune, quali omicidi, rapine, estorsioni, sequestri di persona e quant'altro di questo tipo; se non lo facesse, il governo rischierebbe di contraddire assurdamente le esigenze di sicurezza tanto enfatizzate nella recente elaborazione del relativo pacchetto legislativo. Ho già accennato, d'altronde, alla necessità, avvertita da una parte della stessa maggioranza, di non creare inchieste penali ad incisività differenziata, le prime previste per la criminalità comune, le seconde per la criminalità dei colletti bianchi. Sarebbe una ignominia.

Più delicato è il problema che concerne il rispetto del diritto alla riservatezza ed il suo bilanciamento con il diritto-dovere di informare sulle notizie di interesse pubblico. Ha ragione chi sostiene che non è consentito pubblicare tutto ciò che emerge dalle intercettazioni legittimamente ordinate dall'autorità giudiziaria, poiché i cittadini, anche se indagati, hanno diritto a che non sia pubblicizzata ogni vicenda privata che dovesse emergere in quella sede. La privacy ha tuttavia un suo limite naturale. Quando la notizia riguarda l'oggetto dell'inchiesta, poiché l'indagine penale ha di per sé un interesse pubblico, una volta caduto il segreto investigativo non si può impedire la sua pubblicazione.

Quanto alle notizie che non riguardano l'oggetto dell'indagine penale, esse dovrebbero essere comunque espunte dagli atti del processo. Si deve inoltre evitare che l'intercettazione sia usata come una rete da pesca, lanciata in mare per vedere che cosa resta nelle maglie. Non è detto, infine, che l'intercettazione disposta per un reato possa essere indiscriminatamente utilizzata per ogni eventuale diversa imputazione. Vi è dunque, sicuramente, l'esigenza di una riforma del sistema vigente delle intercettazioni che non impedisce queste ed altre aberrazioni.

La materia, delicatissima, dovrebbe essere trattata, in ogni caso, con il cesello. Temo che nell'attuale contesto politico, di fronte alla prorompente vigoria del presidente del Consiglio, non sarà facile difendere i principi. La voglia di bavaglio è probabilmente troppo forte, nei confronti dei magistrati come nei confronti dei giornalisti.
 
da lastampa.it


Titolo: Bossi. "Un errore spezzare il dialogo Silvio ossessionato dalla giustizia"
Inserito da: Admin - Giugno 22, 2008, 04:25:49 pm
POLITICA

Intervista al leader della Lega Umberto Bossi. "Il federalismo arriva in aula non vogliamo scherzi".

La ricetta per l'Europa: "Deve essere dei popoli e non degli stati"

"Un errore spezzare il dialogo Silvio ossessionato dalla giustizia"

dal nostro inviato
PAOLO BERIZZI

 

LAVENO (Varese) - "È un male che si sia strappata la tela del dialogo con l'opposizione. Ed è un grosso rischio, soprattutto adesso che si deve votare il federalismo. Non vorrei che, con il clima che si è creato - e non certo per colpa della Lega - dall'altra parte ci mettessero il bastone tra le ruote, che facessero ostruzionismo sulla cosa alla quale teniamo più di tutto".

Lo sguardo di Umberto Bossi si rilassa di fronte al lago Maggiore. Un tavolo del caffè Bellevue, a Laveno, davanti all'imbarcadero. Coca Cola con ghiaccio come digestivo dopo la cena in famiglia nel castelletto di Gemonio. "Stasera festeggiamo i 90 anni di mia madre, la portiamo alla scuola Bosina dove c'è la chiusura dell'anno scolastico", sorride il ministro per le Riforme. La gioia degli affetti. I tormenti della politica. E l'espressisone si fa seria.

Ministro, che cosa sta succedendo a Roma?
"Il clima che si è creato non è affatto positivo. Non va bene per niente. Aver lacerato la dialettica con il Pd in questa fase è stato un errore. E sono anche preoccupato, il momento è decisivo. Stiamo per portare in aula il federalismo, e cioè la ragione sociale della Lega, la nostra missione. Fin dall'inizio della legislatura abbiamo invocato e caldeggiato il dialogo con il centrosinistra: perché è importante per fare le riforme. Da parte nostra sono sempre arrivati segnali distensivi, inviti a parlare, a fare le cose insieme".

E invece... Prima il decreto salva premier, poi l'attacco di Berlusconi ai magistrati. E così Veltroni ha detto che a queste condizioni il dialogo ve lo potete scordare.
"Sui magistrati, a questo giro, Berlusconi ha ragione. Il problema è che lui poi esagera un tantino, è troppo ossessionato da queste cose, ha troppa paura di finire in galera. Mandassero me in galera, se vogliono, così la gente ha una buona ragione per fare la rivoluzione" (sorride).

In questi giorni la Lega ha agitato un po' le acque: in Parlamento avete fatto andare sotto il governo per due volte. Sui rifiuti avete votato con l'opposizione.
"La Lega fa sempre quello che dico io. Comunque è tutto sotto controllo".

Volevate lanciare un messaggio ai vostri alleati?
"Noi sui rifiuti volevamo semplicemente un prestito. Siamo stati coerenti. E poi sì, bisognava lanciare un segnale...".

Sul trattato Europeo, dopo avere esultato per il no dell'Irlanda, dopo avere detto peste e corna sulla Ue così com'è strutturata, avete però votato sì.
"Lo abbiamo fatto per senso di responsabilità e perché non vogliamo scherzi sul federalismo. Comunque avere votato sì non significa che benediciamo questa Ue. Al contrario. L'Europa va cambiata radicalmente. E la ricetta ce l'abbiamo. L'ha studiata il mio ministero, è pronta".

Quale è?
"Semplice. Voglio cambiare la legge elettorale europea. I rappresentanti per il Parlamento europeo devono essere votati a livello regionale. Solo così l'Europa può essere espressione delle Regioni e non del centralismo degli Stati e della burocrazia. È così che la intendiamo noi. Nei prossimi giorni andremo a parlarne al presidente Napolitano. La via di uscita è questa. Ecco perché continuiamo a guardare all'Irlanda come a un modello da seguire".

L'Europa dei popoli, dunque. È questo che vuole?
"Certo. A votare sono i popoli, non gli Stati. Bisogna rimettere la palla nelle mani della gente. Basta con gli inutili burocrati di Palazzo, in Europa ci devono andare le Regioni".

È d'accordo anche il premier Berlusconi?
"La ricetta è una roba mia. Spero che Napolitano, con il quale i rapporti sono buoni e che credo abbia apprezzato l'atteggiamento della Lega, dimostri sensibilità".

Ministro, in Forza Italia e in An c'à chi inizia a dire che la Lega sta prendendo troppo potere.
"La Lega è forte, e i nostri alleati lo sanno benissimo. Abbiamo preso una montagna di voti, i sondaggi ci danno in continua crescita. Siamo il partito con le idee più moderne, anche a livello europeo. Se ne è accorta persino la sinistra, che ce lo riconosce, soprattutto al Nord. Però ai nostri alleati dico: noi siamo leali. Siamo andati al governo per fare il federalismo, e adesso proveremo anche a cambiare l'Europa".

(22 giugno 2008)

da repubblica.it


Titolo: Confesercenti fischia il premier (populismo e menzogne si fischiano).
Inserito da: Admin - Giugno 25, 2008, 05:12:43 pm
Il presidente del Consiglio: «OPPOSIZIONE GIUSTIZIALISTA»

Berlusconi: «I giudici sono un cancro»

E la Confesercenti fischia il premier

Il Cavaliere all'attacco: «I magistrati ideologizzati metastasi della democrazia». E al Pd: «Dialogo finito»


ROMA - Il premier Silvio Berlusconi torna ad attaccare duramente i giudici, raccogliendo fischi e "buuuh" e solo qualche applauso dalla platea della Confesercenti. «I giudici e i pm ideologizzati - è stato l'affondo del presidente del Consiglio - sono una metastasi della nostra democrazia»

IL GESTO DELLE MANETTE - Prendendo la parola all'assemblea della Confesercenti, Berlusconi ha scelto in un primo momento l'arma dell'ironia per ribadire che ci sono «molti pm che vorrebbero vedermi legato», ovvero in galera, mimando le manette ai polsi. E spiegando che comunque un presidente del Consiglio «ha le mani legate di fronte ad un'architettura che non è quella di uno stato moderno ma è quella di uno stato antico». Poi, però, Berlusconi ha smesso di parlare di «lacci e lacciuoli» nei confronti delle imprese dei cittadini per ribadire il suo attacco ai pm.


I FISCHI - Non appena il Cavaliere ha cominciato a parlare di «giudici ideologizzati» la platea ha iniziato a rumoreggiare. «Vi do un dato - ha spiegato il premier -: dal 1994 al 2006 ci sono stati più di 789 tra pm e magistrati che si sono interessati del "pericolo Berlusconi", per sovvertire la democrazia, non ci sono riusciti e non ci riusciranno. I cittadini hanno il diritto di vedere governare chi hanno deciso, tramite libere elezioni, di scegliere per la guida del Paese». Dalla platea della Confesercenti, a questo punto sono arrivati i fischi. Ai quali Berlusconi ha replicato. «Mi indigna quando qualcuno si lascia trasportare dall'ala giustizialista della magistratura» ha detto il presidente del Consiglio. «Ho anche fiducia nella magistratura, ma dopo un calvario simile in me c'è indignazione» ha aggiunto. «Mi avete invitato voi...» ha anche detto Berlusconi cercando di spiegare più volte il motivo dei suoi attacchi alla magistratura politicizzata.

«OPPOSIZIONE GIUSTIZIALISTA» - Dopo l'affondo sui giudici, Berlusconi ha rivolto dure accuse all'opposizione, colpevole a suo dire di aver voluto spezzare il dialogo. «L'opposizione è rimasta indietro ed è giustizialista» ha detto il premier, spiegando perché a parer suo non è più possibile un confronto con l'altro schieramento. «Quando non capisce e non si unisce a noi per cercare di combattere chi sovverte la democrazia - ha detto - significa che non c'è più possibilità di dialogo, che il dialogo si spezza». Immediata la replica del leader del Pd Walter Veltroni, che ha definito l'intervento del presidente del Consiglio un «imbarazzante comizio».


25 giugno 2008

da corriere.it


Titolo: Il Financial Times attacca Berlusconi
Inserito da: Admin - Giugno 26, 2008, 03:56:24 pm
«Guardare il suo nuovo governo in azione è un po’ come sedersi a rivedere un brutto film»

Il Financial Times attacca Berlusconi

Editoriale del quotidiano britannico: «Una volta di più, Berlusconi si concentra su se stesso e non sull’Italia»


LONDRA (GRAN BRETAGNA) - Oh no, non un'altra volta. Potremmo tradurre così quel «Oh no, not again» apparso come titolo dell’editoriale sul Financial Times, col sottotitolo «una volta di più, Berlusconi si concentra su se stesso e non sull’Italia». Il quotidiano finanziario britannico come sempre non risparmia le parole: «Guardare il suo nuovo governo in azione è un po’ come sedersi a rivedere un brutto film». Se è «troppo presto per dare giudizi netti», però «le ultime dimostrazioni già lasciano prevedere un altro horror show». Perchè «una volta di più il premier 71enne impiega gran parte della sua energia politica a proteggersi dalle pubbliche procure d’Italia».

PROBLEMI GIUDIZIARI - Berlusconi «vuole far approvare una legge che sospenderebbe per un anno la maggior parte delle cause con una possibile pena superiore ai dieci anni» e sta anche «cercando di introdurre una legge che darebbe immunità alle massime autorità dello Stato, lui incluso». Ma tutto ciò «sarebbe di scarso interesse se il signor Berlusconi impiegasse la stessa energia a riformare la pigra economia italiana». Secondo il FT invece ci sono segni che potrebbe ripetere «i suoi peggiori errori, lasciar crescere fuori controllo i livelli del deficit e del debito», poichè «il governo ha presentato una finanziaria che vedrà salire il debito pubblico dall’1,9% del Pil nel 2007 al 2,5% nel 2008». L’Italia conclude il Financial Times «ha bisogno di un governo serio e responsabile. Berlusconi ieri ha detto che la magistratura lo ha sottoposto a un ’calvario’ senza fine. Ma l’unico "calvario" di questa storia è quello che sopporta l’Italia, che ha bisogno di un cambio di rotta estremo nelle sue sorti economiche e politiche».


26 giugno 2008

da corriere.it


Titolo: Dijana Pavlovic. L’impronta del razzismo
Inserito da: Admin - Giugno 28, 2008, 05:52:23 pm
L’impronta del razzismo

Dijana Pavlovic


Egregio signor Maroni, ministro dell’Interno, Lei annuncia che verranno «censiti» i bambini rom, ma ci rassicura non sarà una «schedatura etnica», un semplice «censimento che riguarderà tutti i nomadi che vivono in Italia, minori compresi».

Che io sappia, quando si fa un censimento questo riguarda tutti i cittadini dello Stato, lo si fa secondo certe modalità uguali per tutti e con finalità chiare a tutti. Ma Lei per censimento intende forse entrare in un campo con 70 poliziotti, carabinieri, vigili urbani in assetto antisommossa e un furgone della polizia scientifica per rilevare le impronte digitali alle cinque di mattina della famiglia Bezzecchi, 35 cittadini italiani, senza precedenti penali?

Questo è ben altra cosa. Si chiama schedatura etnica e lo sappiamo bene perché l’abbiamo già vissuto nel passato. E dunque è in atto una schedatura su base etnica che vuol dire che si sta creando un archivio parallelo. A cosa servirà l’archivio Rom? Nel passato, l’archivio che aveva creato l’«Ufficio di polizia per zingari» di Monaco, che aveva schedato ed arrestato più di 30.000 Rom tra il ’35 e il ’38, è passato all’Rkpa di Berlino, cioè alla Centrale di polizia criminale del Reich, sotto il controllo diretto di Himmler, il quale l’8 dicembre ’38 ha emanato il Zigeunererlass, decreto fondamentale nella storia dello sterminio zingaro, perché ha stabilito che, «in base all’esperienza e alle ricerche biologico-razziali, la questione zingara andava considerata una questione di razza». Ma, se possibile, mi inquieta di più il Suo annuncio che i primi a essere schedati saranno i minori e se sorpresi a elemosinare saranno sottratti ai loro genitori. Un vero e proprio atto di violenza e discriminazione che nessuna questione di sicurezza può giustificare, tanto più se si considera che dei 152.000 rom presenti in Italia, secondo lo stesso ministero degli Interni, la metà ha meno di 16 anni. Senza tener conto che in Italia sotto i 14 anni non si è punibili e che in questo modo si criminalizza un intero popolo, senza distinzione. Come accade con gli adulti, così anche le migliaia di bambini Rom che vanno a scuola, che cercano faticosamente di aprirsi una strada verso un futuro «normale», per Lei sono pericolosissimi criminali da schedare e da tenere d’occhio. Non è anticostituzionale, illegale e contro la Convenzione dell’ONU sui diritti dei fanciulli? Ma a Lei dovrebbe importare della legge e del diritto, oppure è solo importante solleticare il ventre del Suo popolo? Prendersela con dei bambini, anche se rubano o chiedono l’elemosina è molto più facile che avere a che fare con la più potente organizzazione criminale, la ’ndranheta, che è padrona del territorio negli ordinati vialetti della sua Varese, come in tutta la Lombardia e il nord Italia. Secondo i dati della commissione antimafia e dell’Eurispes questi bravi adulti hanno un fatturato annuo di 36 miliardi di euro (altro che finanziarie di Tremonti), tra traffico di droga, appalti, traffico d’armi e altri sciocchezze certo molto meno gravi dei furtarelli di qualche ragazzino. Ma questo avveniva anche pochi anni fa: cosa c’era di più facile di prendersela con ebrei e zingari? Nessuno di loro reagiva e l’ORDINE era garantito.

Certo, Lei quando ci annuncia queste cose, sorridendo serafico dai salotti tv parlando di sicurezza, forse non pensa ai forni crematori che invece molti Suoi simpatici seguaci in camicia verde invocano impunemente nelle ronde e negli agguati agli «zingari», ma forse a nuove forme di campi di concentramento sì. Mi fa venire i brividi la Sua rassicurazione che questo serve a garantire ai bambini rom «condizioni dignitose» in piena attuazione dei patti di sicurezza di alcune città. In questi ghetti moderni uomini, donne e bambini di etnia rom, che siano cittadini italiani, comunitari o no, verranno sottoposti alla segregazione di un regime speciale che viola qualunque norma di diritto, di umanità e perfino di buon senso e nega un futuro dignitoso ai nostri bambini.

Pubblicato il: 27.06.08
Modificato il: 27.06.08 alle ore 11.06   
© l'Unità.


Titolo: Elio Veltri. Immunità: la vittoria della Casta
Inserito da: Admin - Giugno 30, 2008, 09:35:42 pm
Immunità: la vittoria della Casta

Elio Veltri


I tre provvedimenti del governo sulla giustizia finiscono di raderla al suolo. Come sempre, per giustificarne l’approvazione si è chiamata in aiuto l’esperienza degli altri paesi senza la minima informazione per chi l’ha fatto e senza entrare nel merito, con il necessario puntiglio, da parte dei contraddittori che preferiscono i comizi ad una informazione precisa, tanto più necessaria dal momento che i cittadini sono assuefatti alla tv che, tranne lodevoli eccezioni, disinforma. Bene ha fatto l’Unità a ricordare sinteticamente cosa accade negli altri paesi europei e negli Stati Uniti riguardo alle alte cariche dello Stato. Questo giornale aveva pubblicato il libro "La legge dell’impunità", sul Lodo Schifani, nel quale ripercorrevo le vicende italiane dallo Statuto Albertino ed europee sulle prerogative dei parlamentari e dei governanti.

Ora desidero aggiungere che anche nei Paesi Bassi, in Belgio, Lussenburgo, Svezia, Finlandia, Danimarca e Portogallo, non esiste ombra di immunità né per il capo del governo né per i ministri.
Non solo, in nessun paese civile e democratico, sarebbe pensabile di introdurre leggi di salvaguardia assoluta delle alte cariche dello Stato mentre si svolge un processo per reati gravi come può essere quello per corruzione in atti giudiziari. La proposta del governo, come hanno spiegato noti costituzionalisti, è palesemente incostituzionale perché stravolge il principio cardine dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge( articoli 3 e 24) e, se proprio si volesse approvarla, bisognerebbe passare per le strettoie della legge costituzionale, con doppia lettura parlamentare e referendum nel caso mancasse la maggioranza dei due terzi.

Però, a quel punto, la legge non servirebbe più per le necessità immediate del capo del governo. Le ragioni che adducono anche autorevoli commentatori, penso all’articolo di Galli Della Loggia sul Corriere di oggi, a sostenere misure come quelle approvate a tempo di record dal governo, sarebbero da attribuire all’uso spregiudicato della obbligatorietà dell’azione penale e allo strapotere dei pm che non troverebbe il necessario contrappeso nella " terzietà" dei giudici.

Tutti i ragionamenti che si fanno prescindono dalla situazione del nostro paese del tutto peculiare a causa della quantità e qualità dei reati che determinano illegalità diffusa, corruzione penetrante e criminalità organizzata, la più grande multinazionale del paese, che non hanno riscontro in nessun altro paese democratico europeo e degli altri continenti. Perciò, quando si scrive, sarebbe necessario sapere di cosa si parla e, soprattutto, come ci si comporta nei paesi ai quali si fa sempre riferimento quale esempio di civiltà. Ometto di citare il più grande studioso liberale, Maranini, a proposito dei poteri della magistratura e del suo ruolo a salvaguardia della democrazia, previsti dalla Costituzione, perché l’ho fatto più volte: altro che metastasi di cui parla il Presidente del consiglio che si dichiara liberale a tutto tondo! Noi abbiamo introdotto nel nostro processo il sistema accusatorio nel 1989 mutuandolo dal sistema anglosassone.

Negli USA le condanne, soprattutto per i reati che il decreto bloccaprocessi considera meno gravi, sanzionati con pene inferiori a 10 anni di carcere, come corruzione, falso in bilancio, evasione fiscale ecc, che incidono direttamente sull’economia e sugli affari condizionandoli e danneggiano gli utenti e i risparmiatori, sono feroci. Scattano dopo il primo grado di giudizio, gli imputati vengono portati in tribunale con le manette ai polsi, la prescrizione e le attenuanti generiche non esistono e gli anni di carcere sono inferiori solo a quelli previsti per gli omicidi più crudeli. Quanto al potere dei magistrati inquirenti sono inimmaginabili e nessuno osa criticarli.

Vogliamo fare un esempio concreto? Rileggiamoci i poteri che il Martin Act del 1921 conferisce al Procuratore dello Stato di New York, ampiamente usati anche nei giorni scorsi per le frodi sui mutui sub-prime: il magistrato può decidere se l’inchiesta deve essere segreta o resa pubblica; scegliere se una frode deve essere repressa attraverso un’azione penale o civile; impedire a una impresa o società di svolgere attività nello Stato per tutto il periodo delle indagini; obbligare i testimoni a rinunciare ad un avvocato e a rispondere alle domande considerando le mancate risposte come accertamento della frode avvenuta ecc. Cosa diciamo che l’America ha un sistema giudiziario barbaro e indegno di un paese civile e che è civilissima solo quando bombarda l’Iraq? Forse possiamo dire che in quel paese la certezza della pena esiste e per tutti.

Nel decreto bloccaprocessi la corruzione è considerata un reato minore ed è stata introdotta nell’elenco dei reati intercettabili solo perché Bossi si è impuntato. Ora, basta leggere le graduatorie di Trasparency International sul rapporto quasi matematico tra corruzione e competitività delle imprese e dell’economia, per sapere che il nostro paese è al 41° posto per la corruzione e al 49° per la competitività: un disastro. Si continua a parlare, anzi a straparlare di economia e di competitività ma il rapporto viene ignorato e nessuno ne spiega le ragioni. Quindi, tenuto conto che l’Italia non compete e gli imprenditori di altri paesi da noi non investono, la corruzione dovrebbe essere uno dei reati di grandissimo allarme sociale e più sanzionati. Se poi è corruzione in atti giudiziari ancora di più. Non ci si fida delle statistiche di Trasparency? Non importa. Basta leggere il rapporto del commissario anticorruzione che è alle dipendenze della presidenza del Consiglio. La situazione viene considerata catastrofica e molto più grave rispetto a tangentopoli. Però il governo ha deciso che il paese avrà un futuro luminoso con una economia straordinariamente solida, anche in presenza di un sistema di corruzione diffusa e penetrante.

Anche i tempi dei processi incidono sull’economia. Quelli del processo penale perché dovrebbe sanzionare i reati economici e finanziari; quelli del processo civile perché incide direttamente sugli affari e la Banca Mondiale su 175 paesi monitorati ci mette al 168 posto; quello tributario perché riguarda l’evasione fiscale e forse non molti sanno che su 100 euro di evasione accertata dalla Guardia di Finanza lo Stato ne incassa 1,28. Io non parlo di etica perchè so bene che suscita una sorta di allergia. Sto parlando di economia che sembra costituire la preoccupazione maggiore dei gruppi dirigenti di questo paese. Qualcuno pensa davvero in buona fede che i tempi della giustizia dipendono dai magistrati fannulloni che non lavorano? Ci sono anche quelli.

Ma i processi non si fanno e la certezza della pena non esiste perché le leggi approvate negli ultimi 20 anni hanno puntato diritto al cuore della prescrizione dal momento che i gruppi dirigenti di questo paese rifiutano i controlli di legalità. Se si vuole davvero ridurre drasticamente i tempi dei processi è necessario cambiarne la struttura. Altrimenti si fa demagogia e si mente sapendo di farlo. Le proposte del governo costituiranno una formidabile istigazione a delinquere e a rendere il paese più illegale di quello che è.

Pubblicato il: 30.06.08
Modificato il: 30.06.08 alle ore 9.04   
© l'Unità.


Titolo: Massimo Franco. Timori e sospetti di manovre
Inserito da: Admin - Luglio 11, 2008, 10:46:22 pm
Timori e sospetti di manovre


di Massimo Franco


Il sospetto di un attacco strumentale è forte. E lo alimenta il modo plateale col quale i socialisti europei hanno chiesto al francese Nicolas Sarkozy, presidente di turno dell’Ue, di premere su Silvio Berlusconi. Ma le accuse di razzismo arrivate ieri dal Parlamento di Strasburgo contro il governo italiano che prende le impronte digitali ai bambini rom sono comunque un segnale.

Dicono che l’idea lanciata dalla Lega e fatta propria dal centrodestra offre un pretesto facile agli avversari della maggioranza berlusconiana.
La misura presa in Lombardia, Lazio e Campania in nome dell’«emergenza nomadi» mette il governo sotto una lente di ingrandimento negativa. I numeri della votazione all’Europarlamento confermano un blocco di centrosinistra pronto a materializzarsi su temi sui quali l’Ue si mostra inflessibile: forse perché vuole esorcizzare i fantasmi xenofobi che aleggiano su tutto il Vecchio Continente; o più semplicemente perché teme che la «ricetta italiana» diventi contagiosa.
Ma alcune defezioni che ieri si sono registrate nello stesso Ppe suonano come elemento di riflessione per Palazzo Chigi.

L’altolà di Strasburgo non è vincolante. Sa di manovra politica. Ed è stato deciso senza aspettare il parere che avrebbe dovuto dare la Commissione Ue. Per questo i ministri degli Esteri, Franco Frattini, e dell’Interno, Roberto Maroni, hanno reagito stizziti, dicendo che andranno avanti «fino in fondo». Il responsabile al Viminale arriva a prevedere che presto la prassi sarà imitata altrove. Sul piano internazionale, tuttavia, il contraccolpo c’è. Ad allungare un’ombra sono le riserve esplicite di molti esponenti cattolici, prima ancora che dell’opposizione. Gli episodi di intolleranza che si sono registrati nel recente passato, insieme con le dichiarazioni sbrigative di qualche alleato berlusconiano, all’estero accreditano il profilo di un governo più estremista di quanto non sia.

D’altronde, nello stesso centrodestra non tutti sembrano convinti dell’efficacia dell’operazione. Ma per la Lega, soprattutto, la scelta è irreversibile. Risponde all’esigenza di placare la domanda di sicurezza di un elettorato spaventato non solo al Nord. È una bandiera controversa issata davanti al Paese con un obiettivo insieme ideologico e mediatico. Per questo, sebbene divida, difficilmente sarà ammainata. Il «censimento», come viene chiamato eufemisticamente dai promotori, è una sorta di trincea che promette protezione contro i criminali e visibilità politica ad alcune forze della coalizione.

Le impronte digitali dei bambini rom segnano dunque il recinto culturale della maggioranza, o almeno di una sua porzione. Debbono segnare la discontinuità di un centrodestra guidato da un Berlusconi votato per la terza volta come premier dagli italiani, ha obiettato ieri Sarkozy alle rimostranze socialiste. L’osservazione è ineccepibile. Rimane da capire se anticipa un appoggio politico di altri Paesi; oppure se il governo è avviato all’ennesimo braccio di ferro con l’Europa, in una solitudine che qualche avversario conta di trasformare in isolamento.

11 luglio 2008

da corriere.it


Titolo: LUCA RICOLFI. La Lega sulle spine
Inserito da: Admin - Luglio 11, 2008, 10:49:11 pm
11/7/2008
 
La Lega sulle spine
 
 
 
 
 
LUCA RICOLFI
 
Tutti parlano delle difficoltà del Partito democratico, ma Veltroni non è il solo a soffrire. Anche Bossi ha la sua croce, solo che si vede di meno.
Il fatto che la politica italiana stia tornando a polarizzarsi su un’unica questione - le vicende giudiziarie di Berlusconi - porta al centro della scena i partiti che su quella questione hanno le idee chiare (Pdl e Idv), mentre mette in difficoltà i partiti che hanno le idee confuse, o semplicemente hanno altre priorità (Pd e Lega). Per questo il partito di Veltroni è in grande difficoltà nello schieramento di opposizione, mentre il partito di Bossi lo è in quello di maggioranza.

A prima vista Veltroni è messo peggio di Bossi, ma secondo me è vero il contrario. Se la legislatura non finisce anticipatamente, Veltroni ha qualche anno di tempo per capire che cosa vuole essere il Pd. Bossi, invece, ha pochi mesi per riprendere il timone delle riforme. La piega che hanno preso gli eventi politici, infatti, è estremamente pericolosa per la Lega perché è la negazione di tutto ciò in cui il partito di Bossi ha creduto e per cui continua a battersi: meno tasse, più sicurezza, federalismo fiscale. Per adesso l’elettorato leghista aspetta e spera, ma fra qualche mese - se nulla si sarà mosso - potrebbe perdere la pazienza e indurre Bossi a qualche sterzata. Apparentemente non sta succedendo granché, salvo la baruffa sui guai giudiziari del premier. Ma non è così, perché proprio sui tre temi che interessano la Lega si sentono i primi scricchiolii.

Alla Lega interessa la riduzione del carico fiscale sulle famiglie e sulle piccole imprese, mentre il Dpef (Documento di programmazione economico-finanziaria) prevede cinque anni di pressione fiscale inchiodata al 43 per cento, ossia al livello lasciato da Visco e Prodi.
Una scelta grave, che contraddice il programma elettorale del centro destra e non è mai stata spiegata in modo convincente.

Alla Lega interessa la sicurezza. Ma sia la norma blocca-processi (nella versione originaria), sia il disegno di legge sulle intercettazioni non sono congegnati per aumentare la sicurezza, ma semplicemente per tutelare Berlusconi. Il blocco dei processi, se non dovessero intervenire le modifiche di cui giusto ieri si è cominciato finalmente a discutere, avrebbe il solo effetto di aumentare il caos dei tribunali, mentre il giro di vite sulle intercettazioni (pur essendo sacrosanto come strumento di tutela della privacy) non potrà non creare ostacoli alle indagini. Quanto alle altre norme - pacchetto sicurezza e decreto fiscale - non si può non osservare che senza nuove carceri è inutile inasprire le pene, e senza nuove risorse economiche è difficile rafforzare l’azione delle forze dell’ordine.

Resta il federalismo fiscale, il vero cavallo di battaglia della Lega.
Qui l’unico che pare avere le idee chiare è Calderoli, che giusto qualche giorno fa - in un’intervista a questo giornale - ha enunciato un principio semplice e ragionevole: il costo dei servizi deve essere uniforme in tutta Italia. Ciò significa che gli enti locali devono disporre di risorse strettamente proporzionali ai servizi erogati, e se spendono più del necessario devono avere il coraggio di aumentare le tasse locali, autodenunciando così la propria incapacità amministrativa. Il problema è che mettere in pratica un principio del genere richiede una vera rivoluzione copernicana nei rapporti fra eletti ed elettori, nonché uno straordinario lavoro di ridisegno delle istituzioni di cui - al momento - non paiono esservi segnali significativi né nel dibattito politico né nell’attività parlamentare. Per tutte queste ragioni la Lega rischia e i suoi dirigenti sono sulle spine. L’elettorato spera ancora che la maggioranza, a un certo punto, finisca di occuparsi di Berlusconi e cominci a occuparsi seriamente dei problemi del Paese. Ma se questo non dovesse accadere, o finisse per generare risultati modesti, Bossi potrebbe ritrovarsi - fra qualche mese - nella posizione assai scomoda in cui già si trova Veltroni. Forse anche per questo, almeno sul federalismo, Bossi sembra guardare più a sinistra che a destra. Quel che non si capisce è perché Veltroni non colga l’occasione al volo.
 
da lastampa.it


Titolo: Berlusconi hard: dove finisce il gossip e incomincia la pornopolitica
Inserito da: Admin - Luglio 13, 2008, 06:15:33 pm
Berlusconi hard: dove finisce il gossip e incomincia la pornopolitica



A meno di clamorosi ripensamenti, non ci sarà più un decreto
intercettazioni. I presupposti della necessità e dell'urgenza sembrano
svaniti d'incanto. Quella necessità e quella urgenza che l'art. 77, comma
2°, Cost. pretende collegate a "casi straordinari" perché il Governo possa
legiferare per decreto.

Ma mentre il Costituente evidentemente pensava alla cura dell'interesse
generale, da quanto trapelato sembra che il presidente del Consiglio
Berlusconi volesse proteggere il più personale degli interessi. Necessità e
urgenza a fronte dell'imminenza della pubblicazione di alcune
intercettazioni che lo ritrarrebbero in estenuanti giochi erotici con
giovani ministre; e mentre parla con l'amico Confalonieri delle tangenti
sessuali versategli dalle stesse in cambio di una rapida e folgorante
carriera politica.

Dunque, un decreto legge per occultare quelle conversazioni, ma
ufficialmente emanato per salvaguardare la privacy dei cittadini dall'oppressione
giudiziaria. Il blocco definitivo dell'Informazione per impedire una singola
pubblicazione. Se questo decreto legge fosse stato emanato, ci saremmo
trovati di fronte al più clamoroso caso di censura mai registrato nel mondo
occidentale.

A parte ciò, la vicenda riapre l'annosa questione dei limiti del diritto di
cronaca. La domanda che va posta è la seguente: fino a che punto si estende
la tutela della riservatezza del personaggio pubblico?

Come sempre, la risposta va ricercata nell'interesse pubblico che la
pubblicazione è destinata a soddisfare. Un interesse pubblico che va
valutato nella maniera più obiettiva, per evitare che si confonda con la
curiosità morbosa, sempre all'erta quando ad essere diffusi sono particolari
della vita sessuale, considerati dall'art. 4, comma 1° lett. d) del Codice
della Privacy quali dati sensibili.

La risposta è nel codice di deontologia dei giornalisti, parte integrante
del Codice della Privacy. Da un lato, l'art. 6, comma 2°, secondo cui "La
sfera privata delle persone note o che esercitano funzioni pubbliche deve
essere rispettata se le notizie o i dati non hanno alcun rilievo sul loro
ruolo o sulla loro vita pubblica". Dall'altro, l'art. 11, comma 2°, che
ammette la descrizione delle abitudini sessuali "nell'ambito del
perseguimento dell'essenzialità dell'informazione e nel rispetto della
dignità della persona se questa riveste una posizione di particolare
rilevanza sociale o pubblica".

La soluzione, quindi, è semplice. Il personaggio pubblico, soprattutto il
politico, ha un rapporto con la collettività. Un rapporto caratterizzato
proprio dal tipo di funzione, espletata su delega di quella collettività che
la Costituzione considera titolare della sovranità ("La sovranità appartiene
al popolo", dice l'art. 1). Si tratta di un rapporto continuo, che deve
svilupparsi nella massima trasparenza e verità. Incaricata di mantenere il
collegamento tra personaggio pubblico e collettività è proprio l'Informazione
(e, per essa, il giornalista). Ebbene, il dato sessuale (sensibile) può
essere diffuso se la sua conoscenza incide sul rapporto del personaggio
pubblico con la collettività.

Ora, nel caso in questione, non può certo considerarsi di interesse pubblico
conoscere le parole che fanno da contorno ai giochi erotici telefonici di
Berlusconi con alcune sue ministre. Che Berlusconi sia un maiale francamente
non deve interessare nessuno, se non lui e le sue interlocutrici, che pare
non siano da meno. Per costoro, essere maiali non può in alcun modo
pregiudicare l'esercizio delle loro funzioni pubbliche. Insomma, siamo nel
peggior gossip, che penetra nella sfera (più) privata del personaggio
pubblico e che invece va tutelata come quella di qualsiasi soggetto. Quelle
conversazioni non costituiscono notizia. La loro pubblicazione costituirebbe
una palese violazione del diritto alla riservatezza.

Stessa conclusione va adottata per quelle conversazioni che pare siano state
intercettate tra due ministre e vertenti sul come gratificare sessualmente
Berlusconi, con particolare riferimento a precise anatomie. E' chiaro che da
tali conversazioni la collettività non potrebbe trarre spunti sul come il
presidente del Consiglio e le sue ministre governano l'Italia. Trattasi di
conversazioni la cui acquisizione obiettivamente non può incidere sul
rapporto che li lega alla collettività, poiché i destini del Paese non
dipendono minimamente dall'organo sessuale di Berlusconi, né dal come alcune
ministre si consigliano di maneggiarlo. Qui siamo al livello del caso
Sircana, il cui accostarsi in auto ad una prostituta transessuale non poteva
minimamente incidere sulla sua attività di portavoce del governo Prodi.

Opposte conclusioni vanno invece tratte dalla telefonata intercettata tra
Berlusconi e l'amico Confalonieri, da dove emergerebbe che la nomina di
alcune ministre è sostanzialmente dipesa dai loro favori sessuali. Sebbene
la composizione del governo rientri nei poteri discrezionali di un premier,
non c'è dubbio che l'assegnazione di un dicastero in base alla disponibilità
sessuale della sua titolare costituisca comportamento non solo vergognoso,
ma anche dannoso per la stessa collettività, che di conseguenza ha il
diritto di sapere. L'intreccio tra sesso e affidamento di delicatissime
funzioni pubbliche sconfina nella pornopolitica, stretta parente della
corruzione. Qui l'interesse pubblico alla conoscenza di quelle conversazioni
riemerge in tutta la sua pienezza prevalendo su qualsiasi profilo di
riservatezza. Qui c'è la notizia, perché la pubblicazione mira a ristabilire
il rapporto tra Berlusconi, ministre e collettività in termini di verità.

Una verità, peraltro, particolarmente imbarazzante se si pensa allo
stridente contrasto che produce l'accostamento del nome di uno di questi
dicasteri al comportamento di chi avrebbe ceduto le proprie grazie per
ottenerlo. E che, nel contempo, allontana sempre di più il Cavaliere dal
sogno di salire un giorno al Quirinale, per avvicinarlo alla figura
ironicamente evocata da Di Pietro soltanto qualche giorno fa.


da spaziolibero@margheritaonline.it


Titolo: Maroni, la ritirata dopo la vergogna
Inserito da: Admin - Luglio 17, 2008, 11:17:11 pm
Maroni, la ritirata dopo la vergogna

Paolo Soldini


Il ministro dell’Interno di quello che fu uno dei più prepotenti governi del mondo risale in disordine e senza speranza le valli che aveva disceso con orgogliosa sicurezza. Ci vorrebbe un generale Diaz per dar conto della botta che ha preso Roberto Maroni quando l’altra notte, in sede di discussione della Finanziaria, si è fatto polpette della sua arrogante pretesa di smontare un pezzo di civiltà di questo paese per imporre il razzistico provvedimento della schedatura con le impronte digitali dei piccoli rom. Le impronte digitali verranno prese a tutti quelli che chiederanno la carta d’identità dal 1° gennaio del 2010. Si può discutere se è bene o male, utile o inutile, ma si tratta di una cosa molto, molto diversa da quanto stava scritto nell’ordinanza «sui campi nomadi» e da quanto (contraddicendosi ogni volta che apriva bocca) andava sostenendo da settimane l’improvvido ministro dell’Interno: che la misura non era discriminatoria ma serviva, anzi, a «tutelare» i bambini nomadi. In realtà era discriminatoria in modo odioso e contraria a tutte le norme europee e internazionali sui diritti civili e l’uguaglianza dei cittadini e non tutelava proprio nessuno. Persino il superfluo ministro agli Affari comunitari era in grado di accorgersene.

Un generale Diaz non ce lo abbiamo. Possiamo mettere in fila, però, la truppa che ha contribuito a ricacciare gli invasori oltre le Alpi del buon senso, del diritto delle genti e della morale (morale: che bella parola). La Commissione europea, particolarmente il commissario agli Affari Sociali Vladimir Špidla, ma anche il francese Jacques Barrot (Giustizia e Libertà pubbliche) e lo stesso presidente Barroso, il quale, ancorché politicamente legato a Berlusconi (il quale sua sponte et pour cause gli ha promesso l’appoggio alla ricandidatura), ha comunque fissato, in una intervista al TG1 i paletti del "rispetto delle norme e dei princìpi europei". Poi l’Unicef, quindi l’Onu, con la condanna espressa non "da alcuni funzionari", come scrivevano ieri servilmente "alcuni giornali" (tra cui il Messaggero), ma da Doudou Diene, incaricato speciale sul razzismo per il Segretario Generale, da Gary McDougall, responsabile del comitato per la tutela delle minoranze e da Jorge Bustamante, responsabile per le politiche sull’immigrazione. Il governo italiano ha poco da risentirsi ed esprimere "sconcerto". Si sconcerti piuttosto per il dilettantismo dei suoi ministri e dei loro consiglieri diplomatici. Che hanno fatto rischiare all’Italia anche una crisi diplomatica con Bucarest, dove l’ambasciatore Daniele Mancini è stato convocato perché riferisse alle autorità italiane che il governo romeno "non può accettare che i cittadini romeni siano sottoposti a soprusi e a pratiche discriminatorie che non rispettano la dignità della persona umana". Poi il parlamento europeo, il quale ha votato una mozione di condanna della direttiva che Maroni, sceneggiato con ampi gesti dal suo collega più pleonastico, nella conferenza stampa tenuta qualche giorno fa ha bollato come "manovra strumentale della sinistra". Peccato che la mozione tanto strumentale e tanto di sinistra sia stata votata non solo dai liberal-democratici, ma anche da 21 deputati del Ppe, con altri 77 che si sono astenuti. Intere nazionalità, come i francesi, hanno votato il documento contro il governo Berlusconi. Il che ha aperto un problema politico di prima grandezza nel momento in cui Forza Italia sta cercando di portare dentro il gruppone Ppe gli eurodeputati di An. Infine, dopo il parere negativo di costituzionalisti, giuristi, avvocati, esperti di diritto internazionale, parroci, vescovi, Famiglia Cristiana, è arrivato quello, ufficialissimo anche se un po’ tardivo, del Garante della Privacy Francesco Pizzetti, il quale ha ammonito a non "fare ricorso a queste tecniche (le impronte digitali) secondo criteri discriminatori, specialmente di natura etnica o religiosa, che contrastino con la nostra Costituzione e con le carte dei diritti fondamentali dell’uomo e del cittadino che il nostro paese ha siglato". Chiaro, no?

Chissà se qualche giornale, di quelli specializzatissimi in retroscena (qualche volta anche veri), ci racconterà come è maturato l’indietro-marsch di Maroni e soci. La nostra impressione è che abbia pesato, e molto, la rivolta nel Ppe della quale Barroso nella sua visita-lampo a Roma deve aver parlato con qualche preoccupazione a Berlusconi e che in caso di ulteriore incaponimento di Maroni avrebbe rischiato di avere un impatto duro, qui da noi, nei non semplicissimi rapporti tra Fi e An e in quelli ancor meno semplici tra la Lega e tutti e due gli alleati. L’inasprirsi, nelle ultime ore, dei toni sul tema giustizia potrebbe essere un segnale. Ma queste sono impressioni e illazioni. La cosa certa è che dopo uno schiaffone come quello che gli è stato stampato sulla faccia, ancorché di bronzo, il ministro dell’Interno dovrebbe dimettersi. In qualsiasi paese civile, un ministro che non riesce a far passare un provvedimento su cui ha puntato tutto, farebbe le valigie e a casa. Ma siamo nell’ Italia del cavalier Berlusconi e sapete che succederà? Maroni sosterrà che nessuno lo ha sbugiardato, per carità, ci mancherebbe altro. Io quelle cose le ho sempre dette, sono i giornali che non hanno capito. Le impronte digitali per tutti? Ma certo, è proprio quello che volevamo… Ah, come sarebbe bello se almeno per una volta il ministro dell’Interno della Repubblica italiana dicesse la verità. Che volete, ci piace sognare.

Pubblicato il: 17.07.08
Modificato il: 17.07.08 alle ore 8.15   
© l'Unità.


Titolo: GIUSTIZIA: BOSSI, NON SCARICO BERLUSCONI
Inserito da: Admin - Luglio 20, 2008, 08:30:49 am
2008-07-19 21:33

GIUSTIZIA: BOSSI, NON SCARICO BERLUSCONI

 di Massimo Colaiacomo



ROMA - Sul far della sera, il leader del Carroccio da' lo strappo e fa calare il sipario. Basta speculazioni e basta quel tramestio di voci che si rincorrono, alimentate da questo o quello dei luogotenenti: la riforma della giustizia si fa, la vuole Berlusconi e Bossi e' pronto a seguirlo. Nessuna intesa sottobanco con le opposizioni, nessun rischio che un improvviso bouleversement delle alleanze possa riportare le lancette dell'orologio indietro di quattordici anni. Cullato dalle acque della laguna dove si trovava per la Festa del Redentore, Bossi prende d'infilata la questione e scandisce: se Berlusconi vuole la riforma della giustizia, la Lega e' pronta a seguirlo.

''Io non scarico i miei alleati''. ''La riforma della giustizia e' cosa che vuole Berlusconi e se la vuole lui va bene anche a me''. E tutti i timori sul possibile rallentamento della riforma federalista a causa del suo intreccio con la giustizia, svaniscono come d'incanto perche' il governo ''puo' farle e tutte e due. Rotto il legame, e quindi il sospetto dello scambio fra federalismo e giustizia, Bossi ha scelto di dettagliare i contenuti del federalismo: deve tagliare l'economia dei trasferimenti mantenendo alle Regioni cio' che producono, e intervenire la' dove il territorio non e' in grado a provvedere a se stesso. Per chi non avesse ancora capito, Bossi fa ancora un passo piu' in la'. E chiarisce che la riforma della giustizia, per motivi forse diversi da quelli di Berlusconi, preme anche alla Lega. ''La magistratura e' un problema'', scandisce Bossi.

Troppo faziosa? Troppo ''rossa''? No: semplicemente ''non c'e' un solo magistrato del Nord e questo non va bene''. La soluzione? Bossi non si fa pregare dai cronisti: ''bisognerebbe far eleggere i magistrati dal popolo, cosi' possiamo sperare che venga fuori il meglio''. Pochi minuti di esternazioni e tutte le tessere di un mosaico che sembrava in fibrillazione sono tornate al loro posto. Ci aveva pensato il ministro della Semplificazione, Roberto Calderoli, a fare una strizzata d'occhio in mattinata quando si era riferito alla giustizia come a ''un tema molto complesso ma soprattutto molto grande'' e quindi da sottrarre a rigide scadenze temporali. Per rendere piu' flautate le sue parole all'orecchio delle opposizioni, Calderoli aveva rincarato che il federalismo e' in collegato alla Finanziaria, aveva la precedenza sul resto. ''Ho qualche dubbio - aveva chiuso - sul fatto che si riesca a fare tutto''. Parole che non sono passate inosservate nel Pd.

''Chiare'' per la presidente dei senatori, Anna Finocchiaro, che ha elogiato la schiena dritta della Lega che dice no a ricatti o scambi e non considera prioritaria una riforma della giustizia. Uno da sempre scettico sulla possibilita' di staccare Bossi dal centrodestra e' Marco Follini. ''Mi e' sempre apparsa una trovata per meta' troppo ingenua e per meta' troppo spregiudicata. Le dichiarazioni di Bossi - sentenzia Follini - dovrebbero apparire ovvie anche a quanti tra di noi gli hanno fatto in questi giorni un po' troppo la corte''.

Parola di chi Berlusconi, invece, lo ha scaricato per davvero. 


da ansa.it


Titolo: Bossi: Giustizia e federalismo insieme
Inserito da: Admin - Luglio 20, 2008, 08:31:30 am
19/7/2008


Bossi: Giustizia e federalismo insieme
 
Bossi ha aggiunto: «L'importante è che il Federalismo tagli il costo dei trasferimenti dando alle Regioni ciò che producono»

Il leader della Lega: "Il presidente è un nostro alleato, se vuole riformare la Giustizia siamo pronti a seguirlo»


VENEZIA

Per il ministro delle Riforme Umberto Bossi riformare la giustizia e fare il federalismo in contemporanea è possibile. Bossi ne ha parlato, questa sera a Venezia, a bordo di un traghetto dove sta partecipando alla festa del Redentore con la Lega veneziana.

«Giustizia e federalismo possiamo farle tutte e due - ha detto Bossi -, noi andiamo avanti con il federalismo se poi Berlusconi vuole la riforma della giustizia, la Lega è pronta a seguirlo: la Lega non scarica i prorii alleati». «L’importante è che il federalismo - ha aggiunto Bossi - tagli l’economia dei trasferimenti mantenendo alle Regioni ciò che producono, e intervenendo là dove il territorio non è in grado a provvedere a se stesso.

Lo Stato - ha proseguito - oggi si piglia tutto e poi ridà quando vuole e come vuole». Sulle competenze che lo Stato deve mantenere in tema di federalismo, Bossi ha detto che devono essere poche: «molto poche - ha sottolineato - visto come le ha utilizzate fino ad oggi per schiavizzare il paese».

da lastampa.it


Titolo: BOSSI: DIALOGO CON L'OPPOSIZIONE
Inserito da: Admin - Luglio 20, 2008, 06:00:57 pm
2008-07-20 13:32

BOSSI: DIALOGO CON L'OPPOSIZIONE


 PADOVA - Per Umberto Bossi sulle riforme "c'é spazio per il dialogo con l'opposizione". "Certo - ha detto il leader della Lega - siamo pronti ad accogliere le loro proposte anche sul federalismo".  "Da parte nostra - ha aggiunto Bossi, parlando a Padova al congresso della Liga Veneta-Lega Nord - non ci sarà una chiusura al Pd e a Veltroni". E dopo le dichiarazioni concilianti con gli alleati del Pdl e con Berlusconi sulla riforma della giustizia, Bossi ha detto però di non essersi ancora sentito al telefono con il premier "che mi sembra - ha osservato - abbia altro da fare in questo momento che parlare con me".

INNO CI VUOLE SCHIAVI DI ROMA? MAI PIU'
"Non dobbiamo più essere schiavi di Roma. L'Inno dice che 'l'Italia è schiava di Roma...', toh! dico io". E' la frase che Umberto Bossi ha pronunciato oggi a Padova, con il dito medio levato, parlando ai delegati della Liga Veneta-Lega Nord riuniti a congresso. "Dobbiamo lottare - ha aggiunto - contro la canaglia centralista. Ci sono quindici milioni di uomini disposti a battersi per la loro libertà. O otterremo le riforme, oppure sarà battaglia e la conquisteremo, la nostra libertà". Un Bossi in forma e particolarmente combattivo quello presentatosi stamani davanti ai leghisti del Veneto: "Dobbiamo lottare - ha insistito - contro questo stato fascista. E' arrivato il momento, fratelli, di farla finita". E sempre sul progetto di federalismo, il leader del Carroccio ha detto di non essere contrario alla perequazione tra regioni più ricche e quelle più povere. "Ma deve essere una perequazione giusta - ha proseguito - non come è adesso, dove chi più spende più ha soldi dallo Stato. E' una truffa, è uno schifo". "Adesso ogni regione deve vivere con i soldi che produce - ha detto ancora Bossi -, poi, certo, serve una certa perequazione, ma basta mandare i soldi a Roma e vedere i sindaci costretti ad andare col cappello in mano nella capitale". Il Senatur intende dare battaglia anche sui trasferimenti assegnati in base alla spesa storica: "Anche questa della spesa storica - ha spiegato - intendo toglierla di mezzo con il federalismo". "Il federalismo - ha concluso Bossi - non è solo la storia mia, è la storia nostra. Non lo farò soltanto io ma milioni di persone".

LOMBARDO-VENETO PUO' ABBATTERE STATI
Per il leader della Lega, Umberto Bossi le regioni del "Lombardo-veneto hanno la forza di battere chiunque, di abbattere gli Stati e forse sarà necessario farlo". "La storia ha dimostrato - ha aggiunto Bossi parlando al congresso veneto della Lega Nord - che ogni volta che il Lombardo-veneto si è unito, ha vinto".

STOP A PROFESSORI CHE NON SONO DEL NORD
"Dopo il federalismo bisogna passare anche alla riforma della scuola". E' l'intendimento della Lega che Umberto Bossi ha ribadito stamani a Padova, al congresso della Liga Veneta-Lega Nord. "Non possiamo lasciare martoriare i nostri figli - ha aggiunto - da gente (i professori ndr) che non viene dal nord. Il problema della scuola è molto sentito perché tocca tutta la famiglia". E qui Bossi ha voluto citare un esempio: "E' la verità - ha spiegato - un nostro ragazzo è stato 'bastonato' agli esami perché aveva presentato una tesina sul federalista Carlo Cattaneo". "La Padania - ha aggiunto Bossi - ormai è nel cuore di tutti. Noi ai bambini insegniamo fin da quando nascono che non siamo schiavi e non lo siamo mai stati".
 
da ansa.it


Titolo: RENATO BRUNETTA I giusti, i fessi
Inserito da: Admin - Luglio 22, 2008, 02:15:25 pm
22/7/2008
 
I giusti, i fessi
 
 
 
 
 
RENATO BRUNETTA
 
Caro Direttore,
Mina, nel suo articolo su La Stampa di domenica, ha impareggiabilmente evocato le persone a cui dedico il mio lavoro e alle quali non smetto di pensare mentre mi batto, secondo taluni in modo veemente, per far funzionare il settore pubblico. Ho in mente il ragionier Giustini, che in tutta la sua carriera s’è assentato solo cinque minuti. Ho in mente la sua maestra (la mia la ricordo ancora con devota commozione quando portava a mio padre i compiti per casa per il suo alunno ammalato...), che amava insegnare e conservava memoria di quel suo antico e bravo alunno.

Il ragionier Giustini, forse, passa per stupido. Gli altri, i «furbi», compreso quello che in falsa malattia se la spassa con la brasiliana, lo considerano certamente un «fesso». Invece è un giusto, e come tale merita d’essere premiato. La maestra godeva di rispetto, aveva uno status sociale di cui andava orgogliosa e che s’è perso. Sì, certo, perché la società corre, perché si considera troppo la ricchezza materiale, ma anche perché alcuni suoi colleghi odierni il rispetto proprio non lo meritano. Il ragionier Giustini e la sua maestra non si sono rassegnati ad essere uguali ai «furbi». Perché mai dovremmo farlo noi? Perché dovremmo rassegnarci a tollerare i privilegi dei peggiori, accontentandoci della loro mediocrità? Dobbiamo invece premiare il merito, l’impegno e l’onestà. A cominciare da noi stessi e dai dirigenti, naturalmente.

Grazie, Mina, per averci presentato queste persone. E’ per loro che non intendo arrendermi. Per me vale sempre l’impegno di Giacomo Brodolini: «Da una parte sola, dalla parte dei lavoratori!».

Ministro della Funzione Pubblica
 
da lastampa.it


Titolo: STEFANIA PRESTIGIACOMO Poltrone e parchi
Inserito da: Admin - Luglio 22, 2008, 02:17:35 pm
22/7/2008
 
Poltrone e parchi
 
 
 
 
 
STEFANIA PRESTIGIACOMO
 
Caro Direttore,
di parchi e ambiente mi voglio e mi devo occupare e mi dispiace che chi ha scritto ieri, nella sua doppia veste di giornalista e di presidente di parco, non abbia colto l’urgenza di ripensare l’uso, il valore e le modalità di gestione di ciò che dovrebbe rappresentare la parte più pregiata del nostro Paese.

Credo infatti che sui parchi italiani ci sia molto da fare, ma non per «svenderli ai privati» come pure qualcuno travisando le mie parole ha scritto, non per ridurne la quantità e la qualità, non per far «dimettere» lo Stato dalla gestione ambientale del territorio. Io voglio fare esattamente l’opposto.

In Italia abbiamo circa 800 aree soggette a tutela fra parchi, riserve e aree protette nazionali e regionali. E circa 800 enti a gestirle. Dei 23 parchi nazionali alcuni sono commissariati, solo 2 hanno approvato il Piano Pluriennale economico sociale (quello del parco d’Abruzzo, ad esempio, ha impiegato 5 anni a ottenere il parere favorevole dalla Regione). E tutti questi enti sono condizionati da pastoie burocratiche e sovrapposizione di competenze. Questo gran numero di organismi drena una cospicua quantità di denaro pubblico che, disperso in tanti rivoli, però poi si rivela esiguo per ogni singola realtà. Risorse che alla fine servono per pagare presidenti, direttori, consigli direttivi e quasi null’altro, tranne pochissime lodevoli eccezioni. E la situazione per gli anni a venire è che, chiunque governi, di fondi pubblici non ce ne saranno di più. Allora ho posto un problema politico. Il modello che carica sul pubblico tutte le spese di gestione e «tutela» di un immenso patrimonio che va difeso, protetto, gestito, valorizzato è un modello plausibile, è un modello che ha futuro? O non significa condannare parchi e riserve a una vita grama? Non significa condannare il settore parchi a sopravvivere come una sezione del sottogoverno?

Per questo credo che non vadano cambiati i parchi ma gli enti parco, che si trovano spesso a (non) gestire territori sconfinati, che comprendono fino a 83 Comuni, attraversati da strade e autostrade. Ritengo indispensabile ripensare questo modello e affiancare al pubblico il coinvolgimento dei privati che aiutino la fruizione di questi beni di enorme valore. Occorre infatti dotare queste zone di servizi, di piccole strutture ricettive e di ristorazione, di aree artigiane, di tutte quelle iniziative che non scalfiscano minimamente lo stato dei luoghi e la loro integrità, ma siano forte volano di sviluppo per il territorio.

Occorre cambiare rotta per difendere i parchi. Perché ritengo che il ministero dell’Ambiente debba occuparsi della protezione e della valorizzazione dell’ambiente e non del «poltronificio».

Ministro dell’Ambiente
 
da lastampa.it


Titolo: Nicola Tranfaglia. La Lega sovversiva
Inserito da: Admin - Luglio 23, 2008, 10:52:12 pm
La Lega sovversiva

Nicola Tranfaglia


Mi sembra di essere piombato in una situazione grottesca e paradossale. Ci sono due ministri, Bossi e Maroni, che, dopo le elezioni di aprile 2008, hanno giurato fedeltà alla costituzione e alla repubblica davanti al Capo dello stato e alle telecamere delle emittenti pubbliche e private e ora si comportano come se il giuramento non ci fosse stato e parlano come emissari della Padania contrapposta all’Italia. Bossi, ministro delle Riforme nel quarto governo Berlusconi, il 19 luglio scorso ha parlato contro «la canaglia centralista», ha insultato l’inno nazionale di Mameli e ha invitato i Padani a non far martoriare i propri figli dagli insegnanti del Sud.

Ha minacciato la repubblica di mobilitare quindici milioni uomini del Nord per liberare il paese e fare la riforma federalista. Roberto Maroni, ministro dell’Interno della repubblica, ha condotto una campagna martellante per prendere le impronte digitali ai bambini dei Rom e, quando le Camere hanno stabilito che la schedatura riguarderà tutti gli italiani dal 2010, ha negato il carattere discriminatorio di quella norma e ha difeso la scelta del governo. Mi chiedo se sogno o son desto. Mai nella storia d’Italia era successo che ministri in carica insultassero lo Stato di cui sono espressione e portassero avanti le pretese della parte politica che rappresentano.

Ma l’aspetto più grave della situazione è che, di fronte a un simile comportamento, nessuna istituzione della repubblica reagisca in maniera adeguata. I presidenti delle Camere che sono alleati della Lega nel governo, hanno difeso i simboli nazionali, ma non hanno segnalato la contraddizione della Lega né hanno messo in discussione l’alleanza. Anzi il presidente dei deputati di Forza Italia alla Camera on. Cicchitto ha sottolineato che la coalizione è salda e che la Lega ne fa parte a pieno titolo. Il Capo dello Stato è rimasto in silenzio. E il presidente del Consiglio ha rassicurato Bossi e Maroni che va tutto bene e che i rapporti tra gli alleati non presentano problemi di nessun genere. Sembra di sognare. Abbiamo due ministri in carica, i più importanti della Lega, che offendono la repubblica e i suoi simboli, che adottano iniziative razziste o le annunciano per il futuro, e nessuno si preoccupa. O, al massimo, danno un buffetto scherzoso agli autori delle iniziative.

Ma, se le cose stanno così, non solo è urgente che il presidente del Consiglio vada alla Camere (come ha chiesto il PD di Veltroni) e dica quale è la sua opinione sulle parole di Bossi e che cosa pensa degli insulti alla repubblica, ma anche che chieda ai due ministri di osservare il giuramento appena fatto e di non parlare più di una inesistente Padania che si contrappone alla costituzione repubblicana e allo stato democratico. I leghisti vorrebbero introdurre nel nostro paese regole e leggi che contraddicono in pieno ai principi costituzionali e alle regole, introdotte anche dalle convenzioni dell’ONU, sull’eguaglianza dei cittadini del Nord e del Sud nell’Italia repubblicana. E’ prevedibile una tale presa di posizione da parte di Berlusconi dopo che alla Camera il gruppo della Lega Nord, con le parole del capogruppo Cota, ha riaffermato, come se nulla fosse, le parole di Bossi e ha ripetuto gli insulti a Roma e alla "canaglia centralista"?

Crediamo proprio di no e pensiamo che si deve prender atto che ci sono due ministri di grande rilievo nell’attuale governo (Riforme e Interno) che si ritengono ministri della Padania piuttosto che della repubblica e si comportano come se non seguissero il progetto della coalizione di maggioranza ma gli interessi di un altro Stato, che ha un suo parlamento, sue leggi e suoi organi separati. Non era mai avvenuto nei centocinquant’anni dell’Italia unita. Non nei sessant’anni dello Stato liberale. Non nel ventennio fascista e neppure nei sessant’anni della democrazia repubblicana. Succede ora con il ritorno di Berlusconi al potere che porta con sé in una posizione privilegiata tra gli alleati la Lega Nord di Bossi, le attribuisce ministeri di primaria importanza e le permette di dire e fare quello che vuole, al governo e in parlamento.

A quale esito porterà la repubblica la presenza nel governo Berlusconi di due logiche diverse? E di due stati differenti: la Padania e l’Italia repubblicana? È difficile prevedere che cosa accadrà ma è certo che la Lega Nord proseguirà su una strada autonoma ed estranea alla costituzione malgrado i giuramenti fatti al momento di formazione del governo Berlusconi. Bossi e Maroni difendono i voti presi dalla Lega e la sua specifica ideologia che ha nel Dna la secessione e la lotta allo Stato italiano così come si è formato nei precedenti centocinquant’anni ed è in fondo una lotta per l’egemonia culturale all’interno della destra che governa oggi l’Italia. Sta al presidente del Consiglio scegliere tra l’assimilazione della Lega alla coalizione di maggioranza e l’adozione delle parole d’ordine della Lega Nord come ideologia di tutta la destra unita.Di qui, da questa attuale incertezza nasce il tentativo di Berlusconi di abbassare i toni e di rassicurare gli alleati leghisti senza adottarne gli slogan.

Ma i gravi insulti di Bossi ai simboli dell’unità nazionale e le iniziative discriminatorie in preparazione (o già fatte come quelle iniziali di Maroni contro i bambini Rom) provocano aperte contraddizioni all’interno della maggioranza parlamentare e rischiano di suscitare reazioni di altri organi costituzionali. Staremo a vedere. E molto dipenderà anche dall’opposizione che non può, in nessun caso, rinunciare alla difesa della costituzione repubblicana e dello Stato democratico di fronte a quello che Gramsci, in altri tempi, avrebbe chiamato il "sovversivismo" strisciante delle classi dominanti italiane.

Pubblicato il: 23.07.08
Modificato il: 23.07.08 alle ore 8.13   
© l'Unità.


Titolo: Vittorio Emiliani. Propaganda e fallimenti
Inserito da: Admin - Luglio 27, 2008, 12:20:36 am
Propaganda e fallimenti

Vittorio Emiliani


Perché il ministro dell’Interno Roberto Maroni suona a tutta forza l’allarme sugli immigrati clandestini reclamando addirittura lo stato di emergenza per l’intero suolo nazionale? Forse la situazione degli arrivi si è tanto aggravata rispetto agli anni scorsi? No.

C’è un certo incremento rispetto al dato (annuale però) del 2006 e soprattutto a quello del 2007, ma, essendo, questi ultimi, dati del solo primo semestre, che includono quindi arrivi di irregolari per la campagna dei vari raccolti agricoli, non ci sono anomalie così straordinarie da dover suonare i tamburi dell’emergenza. Fra l’altro è noto a molti - non a tutti purtroppo - che una parte rilevante di questi migranti clandestini vanno ad aggiungersi ai loro connazionali entrati regolarmente in base alle quote prestabilite. Sappiamo benissimo - ma ipocritamente facciamo finta di non saperlo - che, senza questi lavoratori, stagionali e fissi, reclutati "in nero", spesso trattati come bestie da fatica, la nostra agricoltura non reggerebbe, non si raccoglierebbero ortaggi, frutta, olive, uva, non si potrebbero tenere in vita le stalle, né effettuare le lavorazioni stagionali di aratura, potatura, sarchiatura, monda del riso. A proposito: nelle risaie del triangolo Pavia-Vercelli-Novara dove si concentra (con appendici nel Milanese e nel Ferrarese) la produzione dei nostri risi sono comparse parecchie mondine provenienti dalla Cina. Lo stesso discorso va ripetuto per i cantieri edili e stradali, per i lavori industriali più faticosi e usuranti (a cominciare dalla metallurgia, dalle fonderie e dalle concerie), per la sanità e l’assistenza, per ristoranti e alberghi, per la pesca, per il commercio, per tutta una serie di mestieri chiaramente disertati, da anni e anni, dai giovani italiani. L’immigrazione è servita e servirà - sia detto col massimo pragmatismo - anche a colmare il deficit di natalità delle famiglie italiane pure in regioni del Centro-Nord dove i servizi sociali sono presenti in modo diffuso. Il 6 per cento del Prodotto Interno Lordo è ormai da attribuire agli immigrati che pagano quasi 2 miliardi di euro di tasse e concorrono alla crescita dei Paesi di origine inviando colà rimesse per 4,3 miliardi di euro (777 milioni verso la sola Romania, ma 200 milioni diretti in Asia). Ma torniamo al governo Berlusconi e alla decisione di accogliere la richiesta del ministro Maroni di proclamare in tutto il Paese lo stato di emergenza per l’immigrazione irregolare. Le cifre degli arrivi, certamente non trascurabili, non giustificano l’improvvisa estensione all’intero Paese di misure anti-clandestini che certamente renderanno ancor più difficile e crudele la condizione di questi disperati provenienti da Paesi lontani, spesso da Paesi devastati da conflitti interni sanguinosi. Non a caso sui quasi 12.000 stranieri approdati clandestinamente da gennaio a giugno sulle nostre coste (di cui 10.000 soltanto a Lampedusa) c’è una altissima quota di africani, più di un quarto, quindi oltre 3.000, sono partiti dalle coste della Somalia, Paese più che mai alla disperazione. Fra quanti chiedono asilo politico (ben 4.237 le domande in tal senso presentate da gennaio a maggio) numerosi - informano i gesuiti del Centro Astalli di Roma - sono pure gli afgani i quali, per lo più, transitano soltanto dall’Italia per dirigersi verso il Regno Unito (come facevano pochi anni fa i curdi verso la Germania).

La grancassa sugli immigrati clandestini è di tipo propagandistico e non risolve alcun problema di fondo, anzi, drammatizzandoli, li aggrava. Berlusconi e Bossi - così come Alemanno a Roma - hanno puntato tutto sulla sicurezza e quindi sulle misure anti-immigrati. Con la manovra finanziaria appena approvata stanno già deludendo le attese di quanti confidavano in un aumento degli organici e dei mezzi delle forze di polizia. La manovra Berlusconi-Tremonti taglia fondi anche alla sicurezza, porta a ridurre di alcune migliaia gli agenti dell’ordine, toglie ai Comuni, alle Province e alle Regioni risorse destinate a servizi - come quelli sanitari, assistenziali, scolastici di base - che concorrono alla pace sociale nelle città. Il governo deve coprire questo palese tradimento di promesse elettorali di massa e lo fa amplificando il problema dei clandestini, col rischio di accrescere uno stato di paura già sproporzionato - come ha fatto notare di recente il Censis - all’entità reale della criminalità. Proprio il Censis ha documentato che gli italiani temono assai più la disoccupazione che non la stessa criminalità e l’immigrazione irregolare. Gli intervistati avvertono che il confine fra lavoro e non-lavoro si è fatto sempre più sottile, più labile. Per questo il 66 per cento degli italiani pone la disoccupazione in cima ai propri pensieri, contro il 60 per cento che vi pone la criminalità e il 59 per cento l’immigrazione.

Su queste colonne abbiamo scritto tante volte che l’Italia criminale, sanguinaria, violenta che ogni giorno entrava nelle case italiane coi giornali, ma soprattutto coi telegiornali, non corrispondeva ad un Paese reale, che certamente ha i suoi problemi, ma che nelle graduatorie europee degli omicidi volontari, per esempio, si colloca (nonostante mafia-camorra-n’drangheta e C.) alla pari o al di sotto di molti Paesi sviluppati con 1,1 omicidi ogni 100 mila abitanti. Lo stesso dicasi per furti, rapine, borseggi, spaccio di droga, ecc., con la sola eccezione delle rapine in banca, decisamente più numerose da noi essendo gli sportelli più capillari e meno difesi. Quanto a Roma, sta decisamente più in basso di Milano in questa classifica "noire" (omicidi 1 ogni 100 mila residenti contro 1,5 di Milano). Ma con Veltroni sembrava diventata, per giornali e tv, la capitale del crimine. Con Alemanno, pur succedendo le stesse cose, non più. Miracolo tutto mediatico.

Ugualmente a livello nazionale: quando governava Romano Prodi, giornali e telegiornali (tanti) vicini a Berlusconi dipingevano col sangue un Paese che in realtà stava nella media di pericolo criminale dell’Europa avanzata. Quelle stesse fonti di informazione (o di deformazione), ora che al governo c’è Silvio Berlusconi, hanno messo la sordina, se ben fate attenzione (si pensi all’imprenditrice sgozzata nella Bergamasca), su delitti un tempo strillati a tutta forza. L’Italia cioè è, più o meno, quella di prima, di un anno fa, ma il sangue cola assai di meno dal video o dai titoli dei giornali in base ad una precisa strategia di imbonimento mediatico. Poiché dunque nella realtà di tutti i giorni le cose non sono cambiate e le promesse sparate in fase pre-elettorale non possono venire mantenute, bisogna inventarsi dei fragorosi diversivi. L’emergenza-immigrati è uno di questi. Ieri ce l’ha spiegata il ministro Calderoli. Lo stesso che alcuni giorni fa, sul "Sole 24 Ore", ha ammesso che, sì, aver tolto l’Ici ai Comuni non è stata una misura in direzione del federalismo. Se ne accorge adesso, dopo tre mesi che sta al governo? Era a pescare quando Tremonti ha varato quella misura? Tanti esponenti del Berlusconi IV sembrano pericolosi dilettanti allo sbaraglio, nettamente peggiori dei titolari dei precedenti governi di centrodestra. Ed è logico: il Capo ha voluto circondarsi di fedelissimi. Mediocri, inesperti, pasticcioni e però fedelissimi. Per restare al Viminale, non vi pare che Giuseppe Pisanu - che pure non era un gigante - si stagli nel ricordo, per competenza, consapevolezza del ruolo e sensatezza, rispetto a Roberto Maroni detto Bobo?

Pubblicato il: 26.07.08
Modificato il: 26.07.08 alle ore 9.54   
© l'Unità.


Titolo: Manovra, la Lega toglie l'assegno alle casalinghe
Inserito da: Admin - Luglio 27, 2008, 11:07:12 pm
Manovra, la Lega toglie l'assegno alle casalinghe


Quella contro i precari non è l’unica norma «anti-sociale» contenuta nel maxi emendamento alla manovra economica: tra le vittime dei tagli di Tremonti ci sono anche le casalinghe. La Lega Nord, infatti, che va avanti dritta con il paraocchi nella sua battaglia contro gli immigrati, ha voluto che venissero modificati i criteri per ottenere l’assegno sociale: in sostanza, potrà ricevere i 400 euro mensili solo a chi avrà dimostrato di aver lavorato per 10 anni continuativamente con un reddito superiore all'importo dell'assegno.

Di fatto, tutte le donne che non lavoravano perché impegnate ad accudire figli, anziani e casa, non hanno diritto a nessun riconoscimento del loro lavoro. Alla faccia del centrodestra difensore della famiglia tradizionale.

Pubblicato il: 27.07.08
Modificato il: 27.07.08 alle ore 19.25   
© l'Unità.


Titolo: Bossi: il nuovo Alberto da Giussano sono io
Inserito da: Admin - Luglio 27, 2008, 11:09:07 pm
2008-07-27 21:04


Bossi: il nuovo Alberto da Giussano sono io


ROMA - "Il Barbarossa oggi non è una persona, ma è uno Stato, cioé l'Italia centralista. E il nuovo Alberto da Giussano sono io" così il ministro delle Riforme Umberto Bossi si è definito intervenendo sulle pagine di Tv Sorrisi e Canzoni in edicola domani per commentare l'inizio delle riprese di Barbarossa il kolossal storico prodotto da Raifiction ispirato alle vicende di Alberto da Giussano, il condottiero che, alla guida dell'esercito della Lega Lombarda, sconfisse nel 1176 l'imperatore Federico I di Svevia a Legnano. Una fiction, le cui riprese sono in corso in Romania (rpt Romania) con la regia di Renzo Martinelli, fortemente voluta dalla Lega Nord. Alberto da Giussano oggi è, per il ministro, "il simbolo della Lega" e Bossi conferma di sentirsi il suo erede spirituale. Il leader leghista suggerisce poi altre figure della storia lombarda che meriterebbero di essere raccontate sullo schermo. "Bisognerebbe portare in tv la storia di San Carlo Borromeo, e quella del Medeghino il grande condottiero milanese del sedicesimo secolo, fratello di Papa Pio IV".

ALBERTO DA GIUSSANO, GUIDO' LOMBARDI CONTRO BARBAROSSA - Alberto da Giussano, di cui Umberto Bossi si considera erede spirituale, è il condottiero lombardo che guidando i comuni padani nella celebre battaglia di Legnano il 29 maggio 1176 sconfisse l'esercito romano-germanico di Federico Barbarossa. Personaggio forse persino leggendario fu cantato da Giosué Carducci nella Canzone di Legnano: "Or ecco, ecco, io non piango più. Venne il dì nostro, O milanesi, e vincere bisogna". Il condottiero è da sempre uno dei simboli della Lega insieme al carroccio (mezzo bellico usato proprio nella battaglia campale di Legnano) ed è la figura al centro del primo manifesto della lega lombarda nel 1983 con sopra la scritta Autonomia è.


da ansa.it 


Titolo: Fannulloni : Crollo del fenomeno in luglio: -40% (tanto hanno già votato ndr).
Inserito da: Admin - Agosto 03, 2008, 07:49:50 pm
Fannulloni : Crollo del fenomeno in luglio: -40%

Assenteismo: pedinamenti e denunce record

Trenta lavoratori denunciati per truffa e peculato al Museo Baglio Anselmi di Marsala


ROMA - Ieri trenta dirigenti, istruttori tecnici e lavoratori socialmente utili sono finiti nel mirino delle Fiamme Gialle, che li ha denunciati per truffa e peculato. Se ne andavano dopo aver timbrato o non si presentavano affatto al lavoro nel Museo archeologico regionale «Baglio Anselmi» di Marsala. E proprio ieri il ministro della Funzione pubblica, Renato Brunetta, ha annunciato che la prossima settimana renderà noti dati che definisce «sorprendenti» sulla riduzione dell'assenteismo negli uffici pubblici, nel mese di luglio. In pratica una contrazione di ben oltre il 40 per cento.

Un crollo verticale, dopo il meno 10 per cento di maggio e il meno 20 per cento di giugno. Nemmeno un mese fa Brunetta aveva detto: «Staneremo gli assenteisti con la Guardia di Finanza. Quello che finora hanno denunciato i giornali e Striscia la notizia lo faremo noi». E così è stato a Marsala: appostamenti, pedinamenti, registrazioni con telecamere hanno documentato che i denunciati erano riusciti a eludere i sistemi di controllo duplicando i badge originali. In più, in soli quattro mesi, un gran traffico di telefonate «a sbafo» dal telefono di servizio (9mila dirette a 600 utenze dei dipendenti o dei loro familiari).

L'«effetto Brunetta» si dispiega dalle Alpi alle Piramidi (o quasi, sul canale di Sicilia). Fioccano le denunce, da parte di colleghi, da parte delle forze dell'ordine: la magistratura apre inchieste a raffica. E c'è persino un sito web (cittadinisoddisfatti.it) con una sezione dedicata alle segnalazioni del fenomeno. Qualche esempio. Dieci giorni fa, il 23 luglio, 27 dipendenti della provincia di Agrigento vengono denunciati dai Carabinieri. Il trucco usato era sempre quello dei cartellini elettronici duplicati, come a Marsala. Il 12 luglio, 70 denunce e addirittura 12 arresti scattano all'ospedale Santa Maria della Misericordia a Perugia, dopo la segnalazione di un militare dell'Arma. Alla Asl 1 di Napoli la caposala dell'ospedale Gesù e Maria denuncia alla magistratura l'assenteismo di un intero reparto, dal momento che il posto del primario era vacante. Il 10 luglio, alla Reggia di Caserta, l'Arma controlla a sorpresa le presenze dei 200 dipendenti. Quattro sono fuori senza permesso e vengono denunciati alla Procura di Santa Maria Capua Vetere.

Il 18 luglio è la volta di 4 dipendenti dell'Inpdap e il 24 luglio la denuncia scatta per 6 dipendenti della Provincia. Ad Aosta, i pm indagano tre donne e un uomo scoperti in flagranza di reato dagli agenti della Questura, coinvolta anche la Digos. A Trani a 20 assenteisti del Comune e 18 fiancheggiatori vengono notificati gli avvisi di chiusura indagini da parte della Procura. Il 31 maggio i Carabinieri di Gioia Tauro hanno eseguito 3 ordinanze di custodia cautelare, del gip Palmi. Un arresto c'è stato anche l'altro ieri a Messina: un'infermiera del Policlinico si confezionava falsi certificati di malattia. Assenteismo in calo grazie all'effetto Brunetta? «Questo lo dice lui, che adesso si diverte a fare il novello Torquemada, ma quando era europarlamentare è stato tra i più assenteisti» dice Gianni Baratta, segretario confederale Cisl.

«Il merito non è mio» ribatte il ministro. «Il Paese si è svegliato, è finita la connivenza, è finita la tolleranza da parte di tutti: colleghi, dirigenti, organi di controllo, forze dell'ordine e magistratura. Sono veramente orgoglioso che il Paese abbia saputo reagire in così breve tempo, io ho solo capito che il tempo era maturo». Risultati così importanti permetteranno, secondo il ministro, di passare alla fase 2: «Non solo punire chi viola le regole, ma premiare chi lavora bene, premiare la qualità».

M.Antonietta Calabrò
03 agosto 2008

da corriere.it


Titolo: Caro ministro, non maltratti i parchi
Inserito da: Admin - Agosto 04, 2008, 09:46:40 am
4/8/2008
 
Caro ministro, non maltratti i parchi
 
 
VITTORIO COGLIATI DEZZA*
 

L’ottima inchiesta de La Stampa sui parchi ha messo bene in evidenza lo stato in cui sono ridotte le aree protette nel nostro Paese. Si direbbe di luoghi che sopravvivono nonostante i partiti, territori stretti d’assedio da fazioni che, legislatura dopo legislatura, sono andate via via riducendo le risorse loro destinate. È indubbio che si sia esaurita la spinta inerziale creatasi sull’onda dell’approvazione della legge quadro sui parchi, che si sia conclusa la stagione eroica e pionieristica dei parchi, quella che nel volgere di pochi anni seppe conquistare consenso diffuso e territori di pregio, coinvolgendo nella scommessa i più capaci amministratori, agricoltori, operatori del turismo, albergatori e quanti altri hanno voluto e saputo in questi anni invertire la rotta di territori altrimenti segnati dalla marginalità e dallo spopolamento. È ineludibile a questo punto una riflessione sulla politica di tutela di territori e biodiversità, una politica che, come in tutto il mondo, ha bisogno di risorse.

I parchi hanno bisogno di finanziamenti pubblici e privati, i soldi sono necessari anche perché attivano altre e più cospicue risorse (dal programma Life natura in 10 anni i parchi hanno recuperato 35 milioni di euro di finanziamenti comunitari), ma non cerchiamo anche qui scandali e sprechi. Inefficienze e diseconomie ci sono sicuramente e sarà utile combatterle, ma non sono la cifra di questi luoghi: la casta non abita qui. I parchi hanno bisogno di continuità gestionale, basta allora con la pratica dei commissariamenti, triste esempio di lottizzazione: lo dicemmo al ministro Matteoli, lo abbiamo detto al ministro Pecoraro Scanio, lo diciamo ora al ministro Prestigiacomo.

Ma i parchi hanno bisogno soprattutto di governo e di attenzione. E sono almeno 8 anni che i parchi non conoscono sguardi d’attenzione, ma solo occhiate rapaci. Qualunque altro organismo o ente pubblico sarebbe avvizzito dopo tanta disattenzione. I parchi invece sono sopravvissuti: hanno liberato e reso fruibili a chiunque territori altrimenti vietati all’accesso (all’Asinara e a Pianosa), hanno custodito e valorizzato le nostre migliori produzioni agroalimentari, hanno riportato l’orso sulle Alpi e il lupo sull’Appennino, hanno garantito la tenuta dei terrazzamenti delle Cinque Terre e attirato anche un turismo di numeri e di qualità (80 milioni gli ecoturisti che nel 2006 hanno speso 8,5 miliardi di euro nei territori dei parchi) in anni in cui gli altri turismi facevano registrare solo segnali di decrescita. E hanno sperimentato ed esportato in tanti casi buone pratiche di gestione del territorio. E allora, caro Ministro, dedichi più attenzione al mondo dei parchi, provi a soffiare sulla brace che ancora arde sotto la cenere di questi 8 anni, lasci perdere le fantasiose trovate gestionali (le fondazioni) buone a prendersi cura di un monumento, di un palazzo o di un giardino comunale. I parchi italiani sono qualcosa di diverso che tiene insieme territori e comunità, biodiversità e tipicità, tradizioni, cultura e modernità. Non li maltratti e non li trascuri, che sapranno ripagarla. Promuova piuttosto la terza conferenza delle aree protette per rilanciarne ruolo e funzioni, per rimotivare un personale stremato da un’assenza di prospettiva, per agganciare le aree marine protette agli standard gestionali di quelle terrestri, per far ripartire un pezzo di Paese che ha scommesso sui territori e sulla qualità, un binomio che non è né di destra né di sinistra, è semplicemente targato Italia.

*presidente nazionale di Legambiente
 
da lastampa.it


Titolo: MICHELE AINIS La politica del riciclo
Inserito da: Admin - Agosto 04, 2008, 09:51:37 am
4/8/2008
 
La politica del riciclo
 
 
MICHELE AINIS
 

Magari ci avrò capito poco. O magari la colpa è dei giornali, compreso quello su cui scrivo ora. Ma sta di fatto che quest’estate le notizie sparate in prima pagina mi sembrano per lo più altrettante bufale, storielle buone per i grulli. O meglio, non tanto le notizie: gli annunci di notizie, le trovate reboanti che la politica strombazza ai quattro venti.

Metti le misure contro il bullismo a scuola. Era ora, verrebbe da esclamare. E dunque bentornato al 7 in condotta, che il ministro Gelmini rispolvera dagli archivi del proprio dicastero. Bisogna misurare la disciplina, non solo le interrogazioni in classe. Ma perché, fin qui non succedeva? Nella scuola italiana era forse lecito prendere a pernacchie i professori? No di certo: la condotta già concorre alla valutazione complessiva degli alunni. Tanto che l’anno scorso fece rumore una decisione del Tar che restituì la promozione a un ragazzino dell’istituto Franceschi-Quasimodo di Milano, bocciato perché disturbava le lezioni. Dice: ma il nuovo provvedimento del ministro traduce la condotta in voto, al pari del voto d’italiano. Falso anche questo, almeno per le medie. C’era un «giudizio» sulla condotta, continuerà ad esserci un giudizio.

Però alla riforma Gelmini va attribuito quantomeno il merito d’imporre lo studio dell’educazione civica. Questa sì, è una grande innovazione. Sarà per il mestiere con cui mi guadagno lo stipendio, ma ho sempre un lutto al braccio quando vedo quanta ignoranza circola sulla Costituzione. Solo che nei programmi scolastici l’educazione civica c’è già, e c’è dal 1958. Non a caso digitando «manuale di educazione civica» su Google s’aprono 113 mila siti. Non a caso fra tali manuali s’incontrano quelli scritti da colleghi insigni come Sabino Cassese e Gustavo Zagrebelsky. Poi magari ben pochi professori ne chiedono conto agli studenti, ma questo è un altro paio di maniche.

Tuttavia la Gelmini è in buona compagnia. Qualche settimana fa il ministro Maroni propose di concedere la cittadinanza italiana ai bimbi rom abbandonati dai genitori. C’era stata una polemica furiosa sulla schedatura dei minori nei campi nomadi, e tutti lì a dire quant’è bravo Maroni, lo vedete che non è affatto un orco. Nessuno che gli abbia ricordato come il diritto in questione sia già vigente nel nostro ordinamento dal 1912, con una legge firmata da Vittorio Emanuele III. Dopo di che la legge attuale, che a sua volta risale al 1992, conferma integralmente quel diritto: è cittadino per nascita il figlio di genitori ignoti, e se papà e mamma ti lasciano per strada evidentemente sono ignoti. D’altronde che mai dovremmo fare di questi bambini, attribuirgli la cittadinanza del Burundi?

Infine c’è Brunetta, il ministro che caccia i fannulloni. Visita fiscale al primo giorno di malattia, ha tuonato come Giove. Peccato che essa fosse già prevista dal contratto dei ministeriali, anno 1995. Per essere precisi, quel contratto stabilisce che la visita possa essere disposta al primo giorno d’assenza, ma in seguito varie circolari hanno trasformato il «può» in «deve». Ah, la forza della circolare! Anche Brunetta ne ha appena emanata una (la n. 7), dopo aver dettato l’obbligo di produrre solo certificati rilasciati da una struttura sanitaria pubblica; anche perché altrimenti sui pronto soccorso si sarebbe riversata una folla scalpitante. Sicché la circolare di Brunetta dice che va bene anche il certificato del medico di base. Tutto più o meno come prima, ma intanto l’annuncio ha fatto il giro del pianeta.

Insomma delle due l’una. O i ministri non conoscono le leggi che cercano invano d’emendare, col risultato d’aggiungere diritto alle botti di diritto da cui ci abbeveriamo tutto il santo giorno. O le conoscono, e ne conoscono altresì la scarsa applicazione. Perché in Italia, dopotutto, la vera rivoluzione sarebbe il rispetto delle leggi. Tuttavia per questo servono le competenze giuste, non basta improvvisare. Io però un consiglio ce l’avrei. Abbiamo un ministro per l’Attuazione del programma; affianchiamogli un ministro per la Conoscenza delle leggi, nonché un terzo ministro per la loro Applicazione. Ma per quest’ultimo incarico dovremmo riesumare Che Guevara.

micheleainis@tin.it
 
da lastampa.it


Titolo: Bossi: il dito medio ce l’ho ancora. Il Pdl mantenga la parola o lotterò
Inserito da: Admin - Agosto 11, 2008, 12:43:10 am
A Pontida Il Senatur: conosco solo il mio partito. Resterò in politica finché i padani saranno liberi

Bossi: il dito medio ce l’ho ancora

Il Pdl mantenga la parola o lotterò

«Federalismo una tappa. Poi la polizia locale e una scuola che parli al Nord»



PONTIDA (Bergamo) — «Gli antichi romani tagliavano le dita ai prigionieri, quelle con cui tiravano le corde dell’arco. Ma noi, le dita le abbiamo ancora tutte. Anche il dito medio». L’avvicinarsi della grande sfida del federalismo fiscale spinge Umberto Bossi ad alzare i toni. Nella «sua» Pontida, alla festa del locale Carroccio a cui non manca mai di partecipare, l’avviso ai naviganti percorre tutto il discorso del capo leghista, mai così incendiario da parecchio tempo.

Spiega Bossi infatti che «il federalismo fiscale è soltanto un punto di passaggio, ma il nostro obiettivo è la libertà per tutti popoli del Nord». Di più: Bossi ricorda a tutti che il palazzo non è importante, importante è la Padania: «Noi non abbiamo fondato la Lega per vincere le elezioni, l’abbiamo fondata per tornare liberi ». A conferma del momento delicato nei rapporti tra Lega e resto della coalizione, Bossi poco prima aveva alzato le spalle alla domanda sul congresso del Pdl: «Conosco soltanto il mio partito».

Al fuoco, appunto, c’è il federalismo fiscale: «Presto vedremo se quelli con cui abbiamo trattato manterranno la parola oppure no. Ma se non la manterranno, sarà lotta di liberazione». Bossi sembra arrabbiarsi con «la vergogna della spesa storica. In certe regioni abbiamo una classe dirigente che fa accapponare la pelle. Spendere, spendere, spendere... tutto questo finisce con il federalismo ». Quella che non finisce è la missione del Carroccio e dello stesso Umberto Bossi: «Io starò nella politica fino a quando il Nord non sarà libero e non avrà i suoi diritti. E se non si potranno conquistare democraticamente li conquisteremo con il cuore, con il coraggio e con la battaglia». Di qui, alle nuove rivendicazioni il passo è breve: «Dopo il federalismo chiederemo altre competenze, la polizia locale e la scuola». Ed è proprio quest’ultima, secondo il capo leghista, la chiave di volta: «Ci mandano insegnanti che non sanno niente della nostra storia. E invece noi dobbiamo insegnarla alle nostre famiglie e ai nostri figli, altrimenti non saremo mai liberi». Obbligatorio il riferimento al film sulla battaglia di Legnano: proprio l’altro giorno Bossi è andato a prendere a Malpensa il regista Renzo Martinelli di ritorno dalla Romania dove ha girato le scene della battaglia.

Poco prima di parlare al pubblico, Bossi aveva risposto alle domande dei cronisti. Sull’Expo, ad esempio. Nessuna brutta figura per il ritardo nel decreto per la costituzione della società operativa: «La brutta figura l’ha fatta chi non è riuscito a portare a casa niente». Ma ha ragione Giulio Tremonti che vuole un consiglio d’amministrazione o il sindaco Letizia Moratti che punta a un amministratore unico? «Ci sono tanti soldi in ballo, Tremonti si preoccupa...».

Marco Cremonesi
10 agosto 2008

da corriere.it


Titolo: LEGA: FERRERO, BORGHEZIO IN CORTEO CON FASCISTI E RAZZISTI
Inserito da: Admin - Agosto 11, 2008, 10:11:02 pm

LEGA: FERRERO, BORGHEZIO IN CORTEO CON FASCISTI E RAZZISTI

L'ANTI-ISLAMISMO ECCO LA LORO CULTURA DI GOVERNO



Roma, 10 ago.

(Adnkronos) - "Un parlamentare europeo come Mario Borghezio, esponente di un partito di governo e al governo del Paese come la Lega Nord di Umberto Bossi, che si reca a un raduno di sigle e movimenti neofascisti, xenofobi e pericolosi in nome della guerra all'Islam - raduno che e' l'equivalente sostanziale di un raduno di partiti nazisti e razzisti - la dice lunga su quale sia la 'cultura di governo' che anima un partito come la Lega ma anche quella dell'esecutivo delle destre oggi al potere in Italia". Lo afferma il segretario del Prc, Paolo Ferrero.


Titolo: Borghezio: Padania libera e rappresentata all'Onu
Inserito da: Admin - Agosto 13, 2008, 10:59:55 am
Borghezio: Padania libera e rappresentata all'Onu

 
ROMA (5 agosto) - «Sarà un appuntamento importante. È la Venezia che dovrebbe annunciare, o magari anche salutare, la riforma federale dello Stato. Quindi il federalismo fiscale, ovvero la vicinanza di un obiettivo importante della nostra strategia di liberazione. Se si arriverà con queste buone notizie sarà una tappa importante per la liberazione della Padania». L'eurodeputato della Lega Mario Borghezio in un'intervista ad Affaritaliani.it presenta così la manifestazione del Carroccio di domenica 14 settembre a Venezia, appuntamento per il quale l'esponente leghista indica «l'obiettivo strategico» della libertà della Padania.

«Un giorno la Padania sarà rappresentata all'Onu». «Tutte le volte che vedo un'iniziativa sul Tibet o che riguarda la libertà di altri Paesi o di altri popoli penso che dovremmo esserci anche noi - dice Borghezio - D'altronde, chi l'avrebbe detto che solo pochi anni fa che Estonia, Lettonia, Lituania, Cechia e Slovacchia sarebbero state nazioni libere e autonome? Oggi sono membri dell'Unione europea e nessuno si straccia le vesti. Quindi è più che un sogno, è una certezza: un giorno la Padania sarà uno Stato indipendente, sicuramente rappresentato all'Onu. Quanto all'Ue si vedrà».

«Sono un indipendentista». A chi lo definisce un secessionista, l'esponente leghista risponde: «Non l'ho mai nascosto. Anche se il termine giusto è indipendentista. A Venezia quest'anno ci sarà una buona rappresentanza dei movimenti autonomisti e indipendentisti d'Europa. Mi sono già attivato in tal senso e ho già l'adesione dei fiamminghi, che saranno anche presenti a Paesana in occasione della cerimonia della presa dell'acqua. Ci sarà un eurodeputato».

da ilmessaggero.it


Titolo: Tremonti, novella «Maga Magò» della scuola italiana
Inserito da: Admin - Agosto 13, 2008, 09:49:17 pm
Tremonti, novella «Maga Magò» della scuola italiana

Marina Boscaino


Va molto di moda, tra i ministri del governo Berlusconi, propinare pillole di saggezza sulla scuola. Questa settimana, le esternazioni di Gelmini ci hanno informati - dopo il voto di condotta e dopo i grembiulini - di quanto sia fondante nell'interpretazione del suo mandato ministeriale il problema dei compiti per le vacanze; nonché di quanto un sano approccio conservatore sia l'unico in grado di sanare i problemi della scuola italiana. Problemi che, considerate le sue principali preoccupazioni, il ministro ha evidentemente molto presenti.

È poi stata la volta di Tremonti: con una lunga intervista a La Padania, Tremonti ha propinato formule come una (antipatica) Maga Magò.
Perché, a differenza di quel personaggio bonario, pacioccone e un po' bizzarro, il ministro dell'Economia è violento ed approssimativo. Ma, si sa, sulla scuola ognuno è autorizzato ad esprimere giudizi definitivi. Due i temi principali - «i due mali» - dell'intervista: la valutazione e i libri di testo. Minimo comune denominatore: l'odio per il '68. Che c'azzecca? direbbe qualcuno. Al '68 Tremonti fa risalire l'inizio di ogni male: la cultura velleitaria, il «casino» omnicomprensivo, non meglio identificato; al '68 bisogna ricorrere per individuare il germe dell'idea di sostituire - alle elementari e alle medie - il voto con il giudizio. La necessità ideologica di questa riduzione dogmatica e un po' forzata, ma comprensibile in un uomo di destra, di contenuti eterogenei ad un unico motivo, ha reso ancora più deboli le argomentazioni su tematiche volte evidentemente ad accreditare soluzioni muscolari, logiche di risparmio, letture culturali di basso profilo che il centro destra dedica di norma alla scuola italiana.

L'annoso problema della valutazione, sul quale esimi pedagogisti si interrogano da decenni e che rappresenta uno degli argomenti più complicati relativi al sistema scolastico, viene liquidato da Tremonti in una serie di triti luoghi comuni, in barba ad ogni dibattito scientifico sul tema. Che il governo Berlusconi abbia la necessità di accreditarsi verbalmente come rapido risolutore decisionista dei guai combinati dalla sinistra non è un motivo nuovo. Gravissimo è che un sedicente uomo di cultura non solo affronti l'alternativa tra giudizio sintetico (ottimo, buono ecc) e voto «dove c'è giudizio senza classifica non c'è neanche reale valutazione (...)» non rendendosi conto che sta parlando di alunni dai 6 ai 13 anni; ma addirittura - prendendo in prestito un po' dell'inopportuno senso dell'umorismo dal Grande Capo - che ironizzi violentemente sui giudizi analitici: un passo indietro rispetto a qualunque analisi ragionevole della complessità del problema; nonché della realtà di bambini e preadolescenti. Dice Tremonti: «Ha ottime capacità di socializzazione. Che cosa vuol dire, che fa copiare i compagni? Collaborativo con i docenti; ossia non esita a fare la spia? Molto precoce per la sua età; insomma, beve e fuma?» E così via. Quanto sarcasmo di bassa lega da parte di chi sogna evidentemente una scuola di bambini e ragazzini schedati, inchiodati dal numero che li valuta, omologati e schiacciati in una logica classificatoria e non attenta alle loro singole individualità; tutti con il loro bel grembiulino (possibilmente) griffato; una scuola che si affretti a far fuori un gran numero di insegnanti, parassiti da sistemare, sui quali si formano le classi, come fa capire in seguito il ministro; un sistema scolastico tarato sulla burocrazia e non sui bisogni effettivi delle famiglie. Insomma, un ennesimo quadro catastrofico, in cui insegnanti e scuola - d'accordo, non tutti bravi, non tutti belli - svolgono tuttavia immeritatamente il ruolo dei principali colpevoli.

D'altra parte, però, l'altro grande «male» identificato da Tremonti - il caro-libri, amplificato anche da una tendenza al cambiamento dei testi da parte degli insegnanti, che rende i testi stessi non più utilizzabili, tramandabili da studente a studente - è un problema concreto, oltre che attuale, sul quale non sarebbe corretto dissentire radicalmente dal ministro. Perché, anno dopo anno, l'aumento del costo della vita che grava sulle famiglie italiane è amplificato da questa spesa onerosa e obbligatoria. Tremonti sciorina in maniera puntuale una serie di elementi che rappresenterebbero una soluzione alla questione: parla di e-book, sui quali sarà bene aprire una seria discussione; sottolinea che non è necessario cambiare testi, dal momento che le novità di metodo non hanno portato grandi risultati sul piano didattico; suggerisce solo appendici per i manuali consolidati, che eviterebbero esborsi inutili, in quelle discipline che non prevedano evoluzioni interpretative di breve periodo; fa appello, infine, a «un cambiamento che la gente ci chiede».

Insomma, a parte la confermata stima e considerazione per un eventuale lavoro di ricerca e di affinamento didattico dei docenti, una incoraggiante teoria di buone intenzioni. Ma, mi par bene, anno dopo anno, il problema del caro libri tiene banco tra la fine di agosto e gli inizi di settembre. Sarebbe interessante, per una volta, provare a vedere, a fronte di tante chiacchiere da ombrellone che fanno sospettare un ennesimo attacco pretestuoso alla scuola pubblica, uno sforzo per fornire risposte concrete. E non una enumerazione di denunce e buone intenzioni che hanno l'amaro retrogusto della demagogia.

Pubblicato il: 13.08.08
Modificato il: 13.08.08 alle ore 10.39   
© l'Unità.


Titolo: Massimo Franco Governo malato di eccesso di sicurezza
Inserito da: Admin - Agosto 14, 2008, 07:57:41 am
LA NOTA

Governo malato di eccesso di sicurezza

Segni di sfilacciamento su misure anti crimine e riforma della giustizia



Probabilmente si tratta soltanto di sbavature, di iniziative coordinate male. Ma non si può dire che ieri il governo abbia dato prova di compattezza: né sulla questione dell'uso dell'esercito nelle città, né in materia di giustizia, e neppure sul piano dei rapporti di forza parlamentari. Si può anche liquidare come un incidente di percorso il ruzzolone di ieri alla Camera, dove il governo è stato bocciato su un decreto. Ma qualche segnale di sfilacciamento è indubbio. Le divergenze fra il presidente della Camera, Gianfranco Fini e quello del Senato, Renato Schifani sulla riforma del Csm sono emerse in modo esplicito: sebbene Fini si sia poi affrettato a diplomatizzarle.

Il suo accenno ad una politica viziata da una «visione unilaterale» dei rapporti con la magistratura, non è passato inosservato. Ha dato l'impressione di una critica larvata al modo in cui il premier Silvio Berlusconi cerca di plasmare il sistema giudiziario. Nelle parole di Fini si avverte il timore che un braccio di ferro prolungato e sfibrante con i giudici diventi un boomerang per il centrodestra; e non venga capito dall'elettorato. Forse il presidente della Camera dà voce anche alle preoccupazioni del Quirinale, determinato a svelenire la situazione e perplesso di fronte all'ipotesi di una riforma del Csm, di cui Giorgio Napolitano è presidente.

Tuttavia, non si può dare per scontato che fra un mese lo sfondo sarà meno avvelenato. Oggi Antonio Di Pietro presenterà alla Corte di cassazione il quesito referendario che vuole abrogare il lodo Alfano. Quanto alle misure sulla sicurezza, la confusione promette di crescere: oltre tutto con un fronte europeo insidioso per palazzo Chigi. L'attacco del Consiglio d'Europa contro il governo italiano per la politica sui «rom» è la conferma di un rapporto sfibrato e conflittuale.

Mostra un centrodestra guardato a Bruxelles con una diffidenza pervicace. Probabilmente si è di fronte ad un pregiudizio esagerato. Ma certo non è da sottovalutarsi, su un tema delicato come i diritti umani. Non contribuisce alla chiarezza l'eterogeneità delle reazioni sull'utilizzo dei militari nelle città. Nella maggioranza la decisione non incontra consensi unanimi: basta registrare il rifiuto del sindaco di Roma, Gianni Alemanno, ad impiegare i soldati per le strade della capitale. È come se l'esigenza di bruciare le tappe nei primi cento giorni spingesse il governo a prendere misure magari incisive ma viziate da una logica emergenziale; forse, poco meditate; e comunque, non sempre condivise fino in fondo da ogni alleato. Fini propone di rimediare tenendo le Camere aperte più a lungo del solito per approvare le ultime leggi. Ma le assenze che ieri hanno provocato la caduta del cosiddetto «decreto milleproroghe » dicono che il centrodestra in questa fase è almeno distratto; ed incline a disertare l'aula per eccesso di fiducia nei propri numeri parlamentari.


Massimo Franco
30 luglio 2008

da corriere.it


Titolo: Il ministro: "Mai più col cappello in mano a Roma"
Inserito da: Admin - Agosto 18, 2008, 04:19:38 pm
POLITICA

Il ministro: "Mai più col cappello in mano a Roma"

Bozza finale del ddl, oggi l'incontro con Tremonti

Ecco il piano di Calderoli per il nuovo federalismo

DAL nostro inviato PAOLO BERIZZI

 

BERGAMO - Si rigira tra le mani le pagine. Le scorre lentamente, come fossero le Sacre Scritture. Eccola qui, dopo la seconda e decisiva spremitura, l'ultima bozza del disegno di legge sul federalismo fiscale. Il ministro per la Semplificazione, Roberto Calderoli - che per scriverla si è giocato le vacanze, "ho iniziato a fine maggio, un lavoraccio, però così com'è direi che può funzionare" - la presenta a Repubblica prima di salire a Lorenzago di Cadore e portarla "in dono" a Tremonti: "Compie gli anni oggi, gli faccio un bel regalo, no?".

Su queste carte, per la Lega, è impressa la madre di tutte le riforme. La rivoluzione democratica che secondo Bossi "cambierà il Paese", che sgraverà il Nord della "zavorra centralista" e farà finalmente decollare il Sud. L'impianto è noto: "I soldi vanno direttamente alle Regioni, alle Province e ai Comuni. Così - dice Calderoli reduce dal summit di Ponte di Legno con Bossi e il ministro dell'Economia - ammazziamo la finanza derivata, quel sistema per cui i soldi finiscono a Roma e poi i sindaci vanno con il cappello in mano a chiedere l'elemosina".

Diciannove articoli spalmati su sette "capi" (le cifre, per la cronaca, sono indicate in numeri romani). Sulla copertina, la scritta: "Schema di disegno di legge per l'attuazione dell'articolo 119 della Costituzione: delega al Governo in materia di federalismo fiscale". Tecnicamente c'è da studiare e parecchio. Il titolare della Semplificazione l'ha fatto.

Si è messo sotto assieme a una squadra di professori universitari: costituzionalisti e economisti. "Oggi ci vediamo a Calalzo di Cadore. Abbiamo limato, visto, rivisto. Questo benedetto testo l'ho presentato alle Regioni, ai Comuni, alle Province. Ai gruppi dell'opposizione. Qualcuno diceva che era un testo generico: oggi non lo è più. Però forse abbiamo deluso Rutelli...". Sorride, Calderoli, indica l'articolo 10, quello sul "finanziamento di Roma capitale": "Aveva detto che ci eravamo dimenticati. E invece eccolo, non ho fatto il furbo. Prima era nel codice delle autonomie, adesso l'abbiamo portato di qui per evitare che andasse a traino e finisse in coda...".

Lo "schema" federalista si regge su pilastri cardine: primo, l'autonomia fiscale del territorio (stabilito dall'articolo 119 della Costituzione). Subito dopo c'è il passaggio dalla "spesa storica" alla logica della premialità, degli incentivi agli enti virtuosi. In sostanza: finita la storia che chi più spende - Regioni, Comuni, Province - , e dunque peggio amministra, e dunque dilapida, si becca più soldi dallo Stato.

"Puntando sulle autonomie economico-finanziarie, si responsabilizzano i vari livelli di governo. Ciascun livello deve potersi autofinanziare con un'imposta legata alle competenze più proprie - spiega il ministro - Per il Comune la casa, per la Provincia le auto e i trasporti, e per la Regione tutti i servizi alla persona". Risultato sperato: coinvolgere i Comuni nella lotta all'evasione fiscale. "I sindaci andranno a stanare i furbetti. Perché è nel loro interesse, ne va del finanziamento delle casse".

E qui c'è un altro punto centrale: la tipologia di tributi richiesti al cittadino ("gli enti saranno flessibili nelle detrazioni, nelle esenzioni, nelle deduzioni") sarà collegata ai servizi erogati. "Io cittadino potrò giudicare l'operato degli amministratori, quello che mi offrono e quello che mi chiedono. E' una forma di controllo diretto". Se il sindaco non fa il suo dovere, scattano sanzioni automatiche da parte dello Stato.
Il Sud.

Per i fautori dell'equazione federalismo uguale "interessi del Nord" Calderoli ha la risposta pronta. "Questo sistema è perfettamente compatibile con le Regioni meridionali, anche con quelle più arretrate. Non solo perché gli dà la possibilità di sopravvivere - con la prossima finanziaria alcune scomparirebbero. Ma anche perché indica la strada per il rilancio della loro economia. Io dico: vuoi farti una fiscalità di vantaggio? Benissimo. Però non è più come prima che ti davo 10 milioni e tu sparivi. Così abbatti il nero, la crisi dell'occupazione, la criminalità".

Altri principi contenuti negli articoli: la perequazione ("Se una macchina fa 10 km con un litro dev'essere così a Milano come a Roma come a Palermo") e la solidarietà. "Questo è un federalismo solidale. Le Regioni più ricche devono aiutare quelle meno sviluppate. E lo stesso vale per i Comuni. Ma le risorse ognuno se le gestisce, non saranno più ripartite da Roma".

Il pacchetto è pronto. Il calendario pure. "Stiamo spingendo sull'acceleratore. Dal Cadore scenderemo in Puglia dove scriveremo gli ultimi passaggi. E' un giro d'Italia. Perché questa è una riforma di tutti e per tutto il Paese. Presenterò il disegno di legge con Bossi, Tremonti, Fitto e Ronchi. Nella prima settimana di settembre esame preliminare in consiglio dei ministri. Dopo il 15, l'approvazione. Poi inizia l'iter. L'obiettivo - conclude Calderoli - è partire con il periodo di transitorietà subito dopo il 2009. Quindi si andrà a regime. Gradualmente ma definitivamente. Così, poco alla volta, tutte le macchine faranno 10 km con un litro".

(18 agosto 2008)

da repubblica.it


Titolo: Federalismo, Bossi torna all'attacco «Sia la volta buona o ci pensa il popolo»
Inserito da: Admin - Agosto 19, 2008, 04:37:29 pm
A LORENZAGO

Federalismo, Bossi torna all'attacco «Sia la volta buona o ci pensa il popolo»

ROMA - Può durare da tre a cinque anni la transizione verso il definitivo riassetto federale del Paese e i termini scattano dalla fine del 2008, vale a dire dal momento dell'approvazione della legge delega in Parlamento. È il ruolino di marcia indicato dal ministro Roberto Calderoli. Ma intanto Umberto Bossi, tornato a Lorenzago dopo 5 anni, fa sapere che nessuno deve bloccare la riforma come accadde la volta precedente e che, in tal caso, ci sono dietro l'angolo soluzioni «sbrigative».
 
SOLUZIONI SBRIGATIVE - «Speriamo che questa volta sia la volta buona altrimenti dovremo pensare ad altre soluzioni, molto più sbrigative. La volontà popolare di conquistare la libertà può avvenire anche attraverso i mezzi che sa usare il popolo», ha detto il ministro delle Riforme che a sorpresa ha raggiunto Calderoli e Tremonti a Lorenzago dove si festeggia anche il compleanno del ministro dell'Economia. Da Bossi, poi, qualche anticipazione: con la riforma «si potrà arrivare ad una riduzione degli sprechi perchè si cambia il modo di finanziare le regioni, non più sulla spesa storica ma sulla spesa calcolata media». «Oggi - ha aggiunto - è calcolata sulla spesa storica e ogni regione riceve al di là di quanto effettivamente spende».

I PALETTI - Intanto, però alleati e avversari, ma anche le associazioni degli Enti locali, continuano a mettere paletti al suo progetto. A cominciare dalle richieste perentorie del reggente di An. Intervistato dal «Quotidiano nazionale», Ignazio La Russa ha ribadito che la riforma federalista va inserita all'interno di un quadro di riforme istituzionali. Di più non ha aggiunto, ma il riferimento a un bilanciamento di tipo presidenzialista, tema da sempre caro a Fini, rimane sullo sfondo. Come che sia, è un paletto da cui non può prescindere il progetto di Bossi e Calderoli. Del quale si conosce ancora poco. Ma quel poco basta per far mettere le mani avanti a Italo Bocchino, che avverte: mai Alleanza nazionale potrebbe approvare norme penalizzanti per il Mezzogiorno.

BOZZA CALDEROLI - Sono petizioni di principio, non ancora il preludio di una guerra dal momento che la «bozza Calderoli» - diciannove titoli raggruppati in sette capitoli - rimane ignota. Si sa soltanto che il caposaldo deve essere la fine della finanza derivata, cioè la procedura per cui Comuni, Province e Regioni sono stati in questi decenni soltanto ufficiali pagatori di somme la cui entità veniva stabilita dal governo centrale per essere divisa di concerto tra i soggetti interessati. Proprio dai Comuni sono venute le prime e puntuali richieste. Se ne è fatto portavoce il vicepresidente dell'Anci, Osvaldo Napoli. Il quale, pur apprezzando la bozza del ministro leghista, ha chiesto che le funzioni fondamentali di competenza di Comuni e Città metropolitane vengano fissate già nella legge delega e non rimandate ai decreti delegati. Per Napoli, quindi, sono da considerarsi funzioni fondamentali i servizi alla persona, all'ambiente, la catalogazione fiscale dei beni immobili (decentramento del catasto), la sicurezza e il decoro urbano, l'istruzione.

LE RICHIESTE DEI COMUNI - A queste richieste Napoli ne aggiunge un'altra: la possibilità per i Comuni di imporre una tassa di scopo per finanziare fino al 100%, e non al 30% come è attualmente previsto, le opere che vogliono realizzare. Il tutto condito dalla semplificazione radicale della fiscalità sugli immobili, riducendo a una sola «grande tassa» le 10 o 11 tasse sulla casa (un pò sul modello francese). Calderoli legge e annota. Così, proprio rivolto ai sindaci, ha ammonito che sta per finire il tempo dell'indulgenza per i sindaci poco virtuosi. Al cattivo amministratore che non sa governare il bilancio o lo sfora oltre una certa soglia, vanno comminate sanzioni automatiche prevedendo la limitazione delle assunzioni o il blocco della spesa a disposizione del sindaco quando non l'obbligo di imporre nuove tasse locali. Si tratta di un meccanismo sanzionatorio mai venuto alla luce, ma già in qualche misura previsto nel Codice delle Autonomie dell'ex ministro Linda Lanzillotta. (Ansa)


18 agosto 2008

da corriere.it


Titolo: UGO MAGRI. Calderoli: "Formigoni? Lasciatelo parlare..."
Inserito da: Admin - Agosto 25, 2008, 12:45:19 pm
25/8/2008 (7:24) - L'INTERVISTA

Calderoli: "Formigoni? Lasciatelo parlare..."
 
Il ministro: «Roberto si ricordi che chi va piano va sano e va lontano»

UGO MAGRI
ROMA


Sul federalismo, ministro Roberto Calderoli, lei procede come una lumaca...
«Chi lo sostiene?».

Roberto Formigoni, governatore della Lombardia. Un vostro alleato. Preferirebbe un passo più da bersaglieri.
«Chi va piano va sano e va lontano, dicevano i nostri vecchi. E chi va forte... Tante volte si è provato a realizzare il federalismo, ma regolarmente un bastone è finito tra le ruote».

Qual era lo sbaglio?
«Quello di imporre la soluzione, o di calarla dall’alto».


Lei, invece?
«Cerco di far nascere il federalismo dal basso, dal territorio, da tutto il territorio. Mezzogiorno compreso».

Però intanto Formigoni, un ex democristiano, mette la freccia e la sorpassa in leghismo...
«Mi vengono in mente quei piloti che alla play-station battono tutti. Ma sulla pista vera è diverso».


Cosa succederà quando al Sud cominceranno a fare due conti sul fisco federale?
«Chi si è messo al lavoro, come la Sicilia, ha capito immediatamente che federalismo fiscale significa entrate maggiori, non minori. Mi è piaciuto quello che dice Vendola, presidente della Regione Puglia...».

Ma come! E’ di Rifondazione comunista...
«A me sembra che voglia accettare la sfida federalista. Altri, invece, non ci sono arrivati. Questione di tempo».


Avrà più inciampi a destra o a sinistra?
«Diciamo fifty-fifty».

Il peggior nemico?
«La palude».

Qualcuno obietta: prima di trattare sui soldi, le Regioni devono farsi dare dallo Stato le competenze indicate nella Costituzione. Non è che lei, Calderoli, mette il carro davanti ai buoi?
«Quando cercavamo di fare il federalismo costituzionale, ci dicevano che era meglio partire da quello fiscale. Oggi, il contrario. Ma in fondo conta poco».

Poco?
«Abbiamo studiato le cose in modo da superare il problema. E Formigoni, che se ne intende, sa come».

Lo spieghi a noi.
«Dopo la legge delega sul federalismo fiscale, serviranno i decreti delegati attuativi. Mentre il governo si occuperà di quelli, il Parlamento potrà approvare, nella doppia lettura richiesta, il federalismo costituzionale».

Quanto tempo prevede che ci vorrà, per mettere insieme l’intero pacchetto?
«Un anno, un anno e mezzo al massimo».

Saremo nel 2010, avremo le elezioni regionali. Ancora Formigoni rivela: Berlusconi mi ha già promesso che governatore in Lombardia resterò io... Risulta pure a voi della Lega?
«Ci risulta che si deciderà quando sarà il momento. Lui o uno dei nostri, lo vedremo sotto elezioni».

Ma allora Berlusconi perché promette?
«Per legittimare Formigoni nel suo ruolo attuale. Se già il premier dicesse che nel 2010 il Presidente della Lombardia sarà un altro, Formigoni si domanderebbe che ci sta a fare al Pirellone adesso».

Parlando di elezioni: a che punto siete sulla legge per le Europee?
«Spero di parlarne con Berlusconi in settimana».

Il premier che cosa ha in mente?
«Uno sbarramento del 5 per cento. Per lui sarebbe meglio. Porterebbe ad avere 4 partiti nel Parlamento europeo».

Lei invece?
«Preferirei la soglia al 4 per cento. I partiti rappresentati salirebbero a 5. Rispetto agli 11 attuali, ne resterebbero comunque meno della metà».

Il vantaggio?
«Di avere sostanzialmente lo stesso sbarramento in Europa e alle Politiche nazionali. Un sistema più omogeneo».

Forza Italia vorrebbe Casini di nuovo nell’alleanza. E voi?
«Discorsi estivi. Qualcuno ha aperto perfino alla Santanché... Non perdiamoci tempo».

E se l’Udc tornasse davvero all’ovile?
«La questione non si pone proprio. Casini si è perfino candidato premier in alternativa a Berlusconi. Come farebbe a sedersi nel suo governo?».

da lastampa.it


Titolo: Maroni: intercettazioni, la corruzione resta
Inserito da: Admin - Settembre 02, 2008, 12:11:34 am
«La lista dei reati inclusi è decisa e non cambierà»

Maroni: intercettazioni, la corruzione resta

«Non dobbiamo più curarci di polemiche fasulle. Vicino al premier c'è chi agisce per convenienza personale»

 
 
ROMA — L'accordo con la Libia? «Noi siamo pronti ai pattugliamenti delle coste, dunque mi aspetto che sia subito operativo. Ma adesso è l'Europa a dover intervenire per fermare i flussi». Il monito del Papa? «L'Italia ha già fatto la sua parte, altri devono rispondere all'appello». Lo scontro sulla giustizia? «Basta con le questioni personali e le polemiche strumentali, abbiamo i numeri e il consenso per approvare una grande riforma». Agosto è trascorso senza particolari emergenze da affrontare, ma Roberto Maroni ha ben presente quali problemi attendono la ripresa dell'attività del governo e in particolare del ministro dell'Interno.

I risarcimenti concessi al regime di Tripoli saranno sufficienti a fermare gli sbarchi? «Il nostro accordo era subordinato alla realizzazione e al finanziamento di un sistema di protezione dei confini libici a sud, nel deserto, che è stato studiato da Finmeccanica. La parte più rilevante del patto, a parte l'autostrada, è questa perché rappresenta la contropartita per avviare i nostri controlli nelle acque libiche».

È convinto che saranno consentiti?
«Motovedette ed equipaggi sono pronti da tempo. Nei prossimi giorni sentirò l'ambasciatore Abdul Hafed Gaddur con il quale avevamo già un'intesa. Manca soltanto il via libera operativo, ma intanto mi aspetto che la polizia locale aumenti i controlli per fermare i flussi. Il nostro obiettivo è la chiusura della rotta, proprio come avvenne con l'Albania».

Fino al 15 agosto gli arrivi erano raddoppiati rispetto allo scorso anno. C'è ancora una situazione di emergenza?
«Il vero problema è che la maggior parte dei clandestini provengono da Paesi in guerra e dunque non ci sono le condizioni per rimpatriarli. Chiedono asilo politico e molti hanno i requisiti per ottenerlo. La collaborazione con Tripoli diventerà fondamentale per il nostro Paese, ma certo non risolverà il problema dell'immigrazione in Europa».

Come si deve intervenire?
«Lunedì prossimo sarò a Parigi e chiederò alla presidenza francese interventi forti e decisivi, anche perché il rischio forte è che si apra una nuova rotta che passa dal Marocco e arriva in Spagna. Il vero rimedio è la trattativa con i Paesi d'origine, ma è l'Unione europea a doverla affrontare in maniera strutturale».

Papa Benedetto XVI chiede ai governi azioni politiche più efficaci per fermare le stragi in mare.
«Condivido le sue parole al cento per cento perché la soluzione è in un grande progetto comune. In assenza di una politica europea ogni Stato cerca di tamponare l'emergenza dei flussi senza però risolvere il problema. L'appello del Pontefice arriva nel momento in cui l'Italia ha dimostrato l'efficacia della politica, adesso tocca all'Europa».

Le carrette affondano nel canale di Sicilia. Rivolgersi a Bruxelles non è un modo per scaricare il problema?
«No, anche perché con l'ampliamento dell'area Schengen l'Italia è espropriata dal controllo sulle frontiere terrestri. Chiudere la porta di Lampedusa non basta. Io propongo un comitato permanente composto da Spagna, Francia, Italia, Malta, Portogallo e Grecia che affronti l'emergenza e definisca le strategie».

Questo secondo lei risponde all'appello del Pontefice?
«La gestione dei flussi migratori è una grande sfida che deve essere affrontata come si fa per l'economia con il consiglio Ecofin e la Banca centrale. La Commissione europea deve avere potere sull'immigrazione e non lasciare iniziativa a singoli Stati. Qualche giorno fa Laura Boldrini, portavoce dell'Alto commissariato per i rifugiati, ha denunciato le pessime condizioni dei centri di accoglienza maltesi. Perché non si interviene?».

Resta convinto della necessità di rendere l'immigrazione clandestina un reato?
«Ho già chiesto ai capigruppo del Senato di mettere subito in calendario il disegno di legge per approvarlo con urgenza».

Secondo Silvio Berlusconi la vera emergenza sono le intercettazioni. Non è d'accordo?
«Alla Camera c'è il disegno di legge del governo e noi stiamo cercando di capire che cosa ha intenzione di fare il ministro Alfano. Siamo favorevoli alla sua approvazione con la precisazione che deve rimanere la possibilità di eseguire intercettazioni per i reati di mafia e per quelli contro la pubblica amministrazione».

Il premier vuole eliminare corruzione e concussione.
«Il provvedimento è stato approvato dal Consiglio dei ministri: questi reati ci sono e rimarranno».

Nessuna possibilità di modifica?
«Ascolteremo gli argomenti di Berlusconi, ma la posizione della Lega non è cambiata e non può cambiare. Anche perché non ce ne sarebbe motivo. Dobbiamo avere l'ambizione di lavorare nei prossimi cinque anni per un sistema più moderno efficace senza curarci delle polemiche fasulle e senza farci condizionare dalle convenienze o dalle contingenze».

Si riferisce a Berlusconi?
«Proprio no. Mi riferisco a chi gli sta intorno, a quei consiglieri che pensano di fare i suoi interessi, come è avvenuto con il provvedimento per la sospensione dei processi».

Nella lettera spedita al presidente Schifani è stato lo stesso presidente del Consiglio a rivendicarne la paternità della norma.
«Abbiamo la forza e i numeri per fare una riforma ambiziosa che renda la giustizia equa e utile per i cittadini: questo è il nostro obiettivo. Dobbiamo spoliticizzare quella piccola parte della magistratura che si muove per fini propri e mettere il resto in condizione di perseguire i reati. Sbaglia chi ritiene che dietro questo progetto ci siano chissà quali interessi o addirittura la P2. Noi abbiamo in mente la tutela dei cittadini, le intercettazioni sono soltanto un aspetto».

Quali sono gli altri?
«Separazione delle carriere, obbligatorietà dell'azione penale, giustizia civile. Io dico: superiamo le divisioni e lo scontro con le toghe eliminando l'aspetto punitivo e recuperando una collaborazione fra poteri».



Fiorenza Sarzanini
01 settembre 2008

da corriere.it


Titolo: Alessandro Trocino. Castelli: i nostri voti sono determinanti
Inserito da: Admin - Settembre 09, 2008, 11:06:15 pm
L'intervista

Castelli: i nostri voti sono determinanti

Vorrei che gli alleati lo ricordassero

Il sottosegretario del Carroccio: ora contano i risultati


ROMA — Sottosegretario Roberto Castelli, più ci si avvicina al federalismo e più c'è il sospetto che qualcuno voglia frenare, sopire, troncare. Insomma, sabotare. «Sospetto? La certezza. Noi della Lega lo sosteniamo da sempre. Non siamo così ingenui da pensare che si possa a abbandonare un sistema centralista senza incontrare fierissime resistenze».

Resistenze che arrivano anche dal centrodestra. «L'area centralista è trasversale. Ma intorno al federalismo c'è un vasto consenso, anch'esso trasversale. Ci sarà uno scontro culturale oltre che politico». Sui giornali c'è chi teme che la service tax calderoliana aumenti gli esborsi dei cittadini. «Come si fa a dire una cosa del genere? È ovvio che nel complesso la pressione fiscale non aumenterà. Sul Giornale si dice che non si capisce cos'è? Evidentemente è il solito giornalista centralista».

Ma la convince la service tax? «Il nome è immaginifico, ma il concetto è chiaro. Peraltro, non trovavo nulla di scandaloso neanche nell'Ici: un conto è averlo in un sistema centralista, un altro in uno federalista. Ma quello che conta è che i Comuni abbiano una loro capacità impositiva». Berlusconi pare non abbia una gran fretta, che voglia temporeggiare. E La Russa si è precipitato a spiegare che il partito guida al Nord è il Pdl non la Lega. «Berlusconi ha sempre rispettato gli impegni e non dubitiamo che sia ancora così. Quanto ad An, ricordo che il federalismo fiscale è nel programma di governo. Comunque stiamo arrivando al redde rationem e tutti cercano di posizionarsi nelle loro trincee».

Anche la Lega. «Ricordo sommessamente che dal 2001 al 2006 il nostro voto non era determinante. Avevamo un potere di moral suasion, almeno quando l'Udc non faceva le bizze. Ma le cose sono cambiate». È una minaccia? «Non voglio fare veti o ultimatum. Registro solo che ora i nostri voti sono determinanti in Parlamento. Va bene l'amicizia, ma quel che conta ora sono i risultati». E il caso Gelmini? Bossi definisce il ministro «incompetente» e preferisce tre insegnanti a uno. «Non saprei. Ho avuto un maestro unico e mi sono trovato benissimo. Ma conosco altri che ne hanno avuto tre e che si sono trovati altrettanto bene». E sulla giustizia? Fu lei a bocciare i braccialetti elettronici che il nuovo Guardasigilli vuole introdurre. «Allora erano costosissimi e inefficienti. Ma è stato otto anni fa e il ministro assicura che ci sono progressi. Non ho motivo di dubitarne».

Alessandro Trocino
09 settembre 2008

da corriere.it


Titolo: cosa ci guadagnano veramente i capitani coraggiosi dal salvataggio di Alitalia ?
Inserito da: Admin - Settembre 11, 2008, 02:34:23 pm
Ma cosa ci guadagnano veramente i capitani coraggiosi dal salvataggio di Alitalia ?

Il solito: favori dal governo


Pubblicato da Tiziano Scolari alle 11:48 in Alitalia


 
Nei giorni scorsi mi chiedevo che cosa avesse veramente spinto i 16 capitani coraggiosi a investire i loro soldi nel salvataggio di Alitalia.

Certo, la pressione di Berlusconi ha avuto un ruolo importante; certo, il fatto di investire su un'azienda da cui vengono tolti tutti i debiti e a cui vengono lasciate solo le attività che producono utili ha sicuramente aiutato la creazione della cordata italiana. Certo, il fatto che la nuova compagnia gestirà in una situazione di sostanziale monopolio la tratto Milano-Roma, quella che (mi sembra di ricordare) è la terza più redditizia tratta aerea in europa convincerebbe anche me.

Tuttavia queste motivazioni non bastano e come spesso accade mi viene in aiuto L'Espresso che fa una bella fotografia di gruppo degli investitori per spiegare quali sono i reali interessi dietro l'acquisto di Alitalia. 

I sedici investitori hanno tutto da guadagnare nell'aiutare il governo. Numerosi soci della cordata si apprestano a spartire una torta miliardaria. Aeroporti, autostrade, il Ponte sullo Stretto di Messina, gli appalti milanesi per la realizzazione dell'Expo 2015.La famiglia Benetton, le aziende di Salvatore Ligresti e l'imprenditore piemontese Marcellino Gavio sono i nomi di spicco di uno schieramento che con il governo si confronta ogni giorno su tariffe, permessi di costruzione, gare pubbliche, via libera ambientali. A questo terzetto fa capo l'Impregilo, una delle maggiori imprese di costruzioni italiane. E questo solo per iniziare.

Capiamoci, dei privati fanno un investimento solo se hanno da guadagnarci. Però sarebbe nel mio interesse, in quanto cittadino italiano, che nel momento in cui il governo debba decidere a chi far costruire le opere per l'Expo di Milano 2015 (solo per fare un esempio) possa scegliere l'azienda che assicura il miglior rapporto qualità/prezzo. Questo non succederà perchè il governo sarà "costretto" a scegliere quell'azienda di proprietà di uno dei sedici che ha, bontà sua, salvato Alitalia (con i nostri soldi).

Ah ... l'antico male di questo paese, la cattiva commistione tra Politica ed Economia non finisce mai di affliggerci. 


da scheggedivetro.blogosfere.it


Titolo: Leghisti a congresso con l'estrema destra europea
Inserito da: Admin - Settembre 11, 2008, 05:48:24 pm
Leghisti a congresso con l'estrema destra europea

Marco Filippetti


I leghisti cercano alleanze con l’estrema destra europea per dar manforte alle loro “crociate” contro le moschee. L’eurodeputato Mario Borghezio, parteciperà, dal 19 al 21 settembre, al “Congresso contro l’islamizzazione” indetto a Colonia dal movimento di destra "Pro Köln". Ne dà notizia il sito informativo francese Rue 89 (fondato da giornalisti dell'autorevole quotidiano Libération).

La galassia della destra xenofoba europea si ritroverà nella città tedesca di Colonia per cercare di innalzare muri ideologici e anche fisici contro quella che viene chiamata l'«invasione musulmana», a difesa delle città «cristiane» europee. Si sa che l’ultradestra rivendica da sempre la superiorità cristiana contro “il cattivo" musulmano dalla scimitarra affilata, rievocando episodi epici come la battaglia di Lepanto o quella di Poitiers dove il re cristiano Carlo Martello “cacciò” dalla Francia le truppe musulmane nel 732 dC.

A destare qualche perplessità è la presenza al congresso di un deputato di un partito di governo di un paese fondatore della Ue, nonché titolare del ministero degli interni e delle riforme. Mario Borghezio della Lega Nord appunto.

La Lega è un partito molto complesso, che si potrebbe definire “multilivello”. A differenza dei partiti politici provenienti dalla tradizione novecentesca il “Carroccio” ha decine di anime interne. Quella di governo capitanata da Maroni e Bossi, quella legata ai piccoli e medi imprenditori lombardo-veneti, quella sindacale vicina al mondo del lavoro, quella dei sindaci "sceriffo" con a capo Flavio Tosi, primo cittadino di Verona e Gentilini, pro sindaco di Treviso. Addirittura nei primi anni di fondazione della Lega Nord c’era anche un gruppo che si identificava come “comunisti padani” successivamente disciolti e fuoriusciti.

Ma in questo caso parliamo della Lega populista e xenofoba, quella che nel Nord Est mantiene rapporti con l’estrema destra più razzista come “Forza Nuova”. Quella Lega capitanata da Mario Borghezio che arringa le folle inneggiando violentemente alla superiorità della Padania e alla “cacciata” dei mussulmani e degli immigrati dal nostro Paese. Sicuramente non tutto il partito ha le posizioni di Borghezio. Ma se un eurodeputato leghista partecipa ad un convegno con i neonazisti, le correnti più “moderate” dovrebbero prendere posizione in proposito visto che sono al governo di un Paese democratico.

Tra i movimenti che interverranno ci sarà il fiammingo Vlaams Belang, nato sulle ceneri del Vlaams Blok, partito ultranazionalista sciolto dall’Alta Corte belga per incitamento alla discriminazione e all’odio razziale. Saranno presenti alcuni membri dell’Npd, organizzazione tedesca dichiaratamente neonazista che in certi stati del nord della Germania arriva a prendere il 30 per cento dei consensi. In occasione del 60° anniversario della fine delle seconda guerra mondiale, gli attivisti dell’Npd provocarono duri scontri a Berlino. I neonazisti pretesero di arrivare in corteo alla Porta di Brandeburgo, nei pressi del Memoriale della Shoah, sventolando bandiere con la croce uncinata. Due anni fa invece, alcuni senatori dell’ Npd eletti al Bundestraart (il Senato federale) uscirono dall’aula mentre la Camera osservava un minuto di silenzio in memoria delle vittime di Auschwitz.

Al convegno hanno aderito anche i “pezzi grossi” dell’estrema destra del Vecchio continente. L’austriaco Fpö, partito dell’ex governatore della Carinzia, Jorge Haider, ma soprattutto il leader del Front National, il francese Jean Marie Le Pen, da sempre punto di riferimento politico delle destre ultranazionaliste. Mario Borghezio intanto ha confermato in una recente intervista la sua presenza, dichiarando di non sapere della partecipazione di gruppi neonazisti.

Altre presenze inquietanti sono quelle dei cosiddetti teorici della destra radicale. Dovrebbe essere certa la presenza del movimento "Lavoro, Famiglia e Patria" di Henry Nitzsche (già membro della Cdu ma indotto ad abbandonare il partito a seguito di sempre più esplicite manifestazioni di simpatia per l’estrema destra neonazista. Nitzsche porta le istanze dell' Npd in Parlamento), e della rivista, anch’essa tedesca, Nation-Europa, fondata da ex appartenenti alle Ss e le cui pagine vantano la firma di Alain de Benoist, ideologo della “Nouvelle Droite” -la nuova destra francese- che tanto successo riscuote anche a casa nostra, come si può riscontrare visitando il sito internet dei “Giovani Padani” (organizzazione giovanile della Lega) che lo inseriscono tra i “Buoni Maestri”, o nei vari spazi informativi dell’estrema destra nostrana.

Ultime adesione vengono da altri movimenti xenofobi tedeschi come i “Republikaner” e la “Deutsche Liga für Volk und Heimat” (cioè lega tedesca per il popolo e la patria). Ci saranno anche ospiti provenienti dal mondo anglosassone e da Oltreoceano. Dagli Usa arriverà il “Robert Taft Group”, e dalla Gran Bretagna gli ultranazionalisti del British National Party, protagonisti della protesta contro la più grande moschea d’Europa, quella di Frinsbury Park a Londra.
 

Secondo lo storico francese Jean-Yves Camus, uno dei maggiori studiosi dei movimenti dell'estrema destra in Europa, gli organizzatori dell'evento si sarebbero riuniti qualche tempo fa ad Anversa per lanciare un movimento europeo contro l'islamizzazione delle città. Quella di Colonia potrebbe essere solo una prima tappa di una strategia comune ben piu ampia. E la Lega che fa?



Pubblicato il: 22.08.08
Modificato il: 11.09.08 alle ore 10.01   
© l'Unità.


Titolo: Paolo Soldini. Europa alt a Maroni
Inserito da: Admin - Settembre 18, 2008, 03:42:17 pm
Europa alt a Maroni

Paolo Soldini


Sarà pure di cattivo gusto, ma è difficile sottrarsi alla tentazione del «noi lo avevamo detto». La norma del decreto sicurezza che introduce l’aggravante di «clandestinità» sui reati penali commessi da stranieri non è conforme al diritto comunitario. Va annullata e subito, se l’Italia vuole evitare, oltre che nuove brutte figure, severe sanzioni della Ue. Secondo molti, l’aggravante non è conforme neppure alla Costituzione italiana, come hanno sostenuto questo giornale, i parlamentari dell’opposizione e i più autorevoli costituzionalisti che si sono espressi sull’argomento. Si tratta, insomma, dell’ennesima rodomontata del governo e particolarmente del ministro dell’Interno Roberto Maroni, il quale la sua "tolleranza zero" tende a manifestarla più verso il diritto e la logica che verso i criminali.

L’aspetto "europeo" della (s)maronata è stato ieri evocato dal commissario Ue alla Giustizia Jacques Barrot. Il quale non è, per così dire, il più prevenuto nei confronti del governo di Roma, avendo mostrato molta, molta (forse anche troppa) pazienza nel far correggere e limare a dovere l’ordinanza sulla rivelazione delle impronte dei piccoli rom, fino a renderla quasi potabile alle autorità di Bruxelles. Ma di fronte a una violazione del diritto comunitario tanto palese come quella contenuta nel decreto, nel punto in cui modifica l’art. 61 del codice penale, nemmeno Barrot ha potuto far finta di niente. Il punto principale dell’argomentazione del commissario, così come l’ha riferita ieri il suo portavoce, è che la modifica dell’art. 61, introducendo la residenza illegale tra le circostanze aggravanti di eventuali reati non fa distinzione tra cittadini extracomunitari e cittadini della Ue (la norma è diretta principalmente colntro i rom di origine rumena). Per questo motivo, che era stato richiamato anche dai parlamentari del Pd durante la discussione per la ratifica, il servizio giuridico del Parlamento europeo, su richiesta della deputata rumena Adina Valean, aveva emesso un parere di "incompatibilità" con la normativa Ue, ignorato allegramente, va da sé, dai servizi giuridici del ministero dell’Interno (ma che ci stanno a fare?). Il problema, però, non riguarda solo la mancata distinzione tra comunitari e no. Il decreto, che è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 25 luglio ed è in vigore dal 26, viola un principio giuridico fondamentale, e non solo nella giurisprudenza Ue: quello secondo il quale le aggravanti di reato debbono sempre attenere alla condotta del reo e non alla sua condizione. Un principio semplice semplice, che qualunque studente di Giurisprudenza sarebbe in grado di spiegare perfino al ministro leghista.

E non è tutto. Il portavoce di Barrot ha aggiunto che l’intera materia della sicurezza, con i tre decreti ancora non ratificati, è più che discutibile. Ci sono modifiche da fare, ha spiegato e l’intera legislazione è sotto esame. Vediamo ora se Maroni e soci continueranno a far finta di niente.

Pubblicato il: 18.09.08
Modificato il: 18.09.08 alle ore 8.50   
© l'Unità.


Titolo: Maria Novella Oppo. La vista del leghista
Inserito da: Admin - Settembre 20, 2008, 10:48:10 am
La vista del leghista

Maria Novella Oppo


L’Alitalia muore? Per intanto sopravvive in ogni anfratto della tv. I dibattiti si ripetono e gli argomenti pure. Per Berlusconi, e i suoi ripetitori, la colpa è della Cgil e dell’opposizione. E anche se non è vero, il messaggio rimbalza da un canale all’altro, le voci si mischiano, le facce si confondono.

Giovanardi, che è un esteta, si è detto colpito dal confronto tra le immagini dei dipendenti Alitalia che festeggiavano il ritiro di Cai dalla trattativa e quella dei licenziati di Wall Street con le loro scatole di cartone (tutto lì dentro: si vede che per produrre miliardi o buchi di miliardi hanno bisogno di poco).

Ma quello che, tra i tanti partecipanti al talk show a reti unificate, ha colpito di più noi spettatori indefessi, è stato il leghista Salvini.
Il quale ha spiegato (anche in dialetto, per i padani) che a lui della bandierina italiana sulle ali degli aerei non importa un fico. E questo si sapeva.
Poi si è preoccupato solo per i lavoratori di Malpensa, perché, è chiaro, quelli di Fiumicino, essendo romani, possono anche andare a quel Paese (l’Italia?).

Pubblicato il: 20.09.08
Modificato il: 20.09.08 alle ore 8.18   
© l'Unità.


Titolo: Borghezio chiede luce e riscaldamento per i rom
Inserito da: Admin - Settembre 20, 2008, 10:58:04 am
Borghezio chiede luce e riscaldamento per i rom


ROMA (19 settembre) - «Ho telefonato al dottor Lucarelli a cui ho chiesto un impegno per i bambini del Casilino 900 che vanno a scuola ma non hanno corrente elettrica per poter studiare. Il dottor Lucarelli mi ha assicurato che con urgenza verrà affrontato il problema dal Comune di Roma e che verranno allestiti locali all'interno del campo con luce e riscaldamento proprio per far studiare i bambini. Si parla tanto di integrazione e poi vediamo situazioni come questa di oggi».

È l'onorevole Mario Borghezio della Lega nord che crea il colpo di scena alla fine della visita al Casilino 900 del Comitato libertà civili dell'Europarlamento.

È lui a raccontare che, nell'incontro avuto in giornata dalla delegazione di Strasburgo con il ministro dell'interno Maroni, il titolare del Viminale si è impegnato a realizzare, dopo la fine del censimento previsto per il 15 ottobre, «strutture alternative ai campi con luce, acqua e riscaldamento».

da ilmessaggero.it


Titolo: Maroni a Vespa: per ora stop aiuti alla Libia. (Il sig. B fa accordi del ca..po)
Inserito da: Admin - Settembre 22, 2008, 10:16:24 am
Maroni a Vespa: per ora stop aiuti alla Libia


ROMA (21 settembre)

Gli sbarchi di clandestini dalla Libia non diminuiscono e così, per ora, niente barche italiane per la polizia libica.

Il ministro dell'Interno Roberto Maroni, nel corso di una conversazione con Bruno Vespa sullo stato dell'immigrazione che sarà pubblicato nel nuovo libro del giornalista Un'Italia diversa. Viaggio nella rivoluzione silenziosa” in uscita da Mondadori-Rai Eri il 3 ottobre, si dice contrariato perché nella prima metà di settembre gli sbarchi di clandestini provenienti dalla Libia non sono diminuiti rispetto allo scorso anno, nonostante il trattato di amicizia firmato il 30 agosto a Bengasi da Berlusconi e Gheddafi.

Così il ministro afferma di aver deciso di condizionare alcuni finanziamenti previsti dal trattato alla effettiva attuazione degli accordi. «Per ora - ha detto il ministro a Vespa - ho bloccato a La Spezia una nave che avrebbe dovuto portare in Libia trenta piccole imbarcazioni ad uso della polizia libica. Il nostro accordo prevede due misure per arginare l'immigrazione clandestina: il controllo delle frontiere meridionali della Libia per evitare l'arrivo di profughi da Eritrea, Etiopia, Somalia e Ciad e l'invio di sei motovedette italiane con equipaggio misto italo-libico che pattuglino le coste settentrionali della Libia per rimandare indietro le barche sfuggite ai controlli. L'Unione europea avrebbe dovuto finanziare il primo progetto, ma non l'ha fatto. Lo finanzieremo noi con trecento milioni di euro e la tecnologia di Finmeccanica che provvederà all'installazione di una rete satellitare di controllo. Ma Finmeccanica non comincerà i suoi lavori se contestualmente non saranno partite le motovedette. Conto che tutto possa avvenire all'inizio di ottobre, dopo la conclusione del Ramadam e sarò io stesso a bordo di una motovedetta per il viaggio inaugurale».

da ilmessaggero.it


Titolo: Paolo Soldini. Al voto senza razzismo
Inserito da: Admin - Settembre 25, 2008, 05:04:50 pm
Al voto senza razzismo

Paolo Soldini


Un gentlemen agreement, un patto tra gentiluomini di tutte le forze politiche democratiche perché dalla campagna per le elezioni europee di giugno siano banditi argomenti, toni, suggestioni, riferimenti, anche indiretti o sotto traccia, di stampo razzista, antisemita, anti-islamico e xenofobo. La proposta viene dal Tavolo di coordinamento della Società Civile, un organismo creato per volontà della Commissione europea e della sua rappresentanza in Italia per dare voce, negli affari dell’Unione europea, ai rappresentanti di grandi gruppi e movimenti di opinione presenti nella società.

A cominciare dagli ambientalisti, i consumatori, il volontariato, le Ong che si occupano di lotta alla povertà e di tutela dei diritti umani. Il gentlemen agreement anti-razzismo ha qualche precedente che ha funzionato, a suo tempo, ottimamente. La prima volta fu stretto tra i partiti democratici del Belgio (socialisti, cristiano-democratici, raggruppamenti fiamminghi e valloni) nel 1986, quando per la carica di borgomastro a Schaerbeek, comune della conglomerazione brussellese, si presentò un liberale “dirazzato” con un’aspra campagna contro l’“ondata” di stranieri, turchi, maghrebini e africani, che avrebbe compromesso il carattere “belga” del comune e di tutta Bruxelles. L’accordo fu poi rinnovato negli anni ‘90, quando una formazione apertamente xenofoba, il Vlamse Blok, riuscì a conquistare addirittura il primato nella seconda città del Belgio: Anversa, con il suo porto cosmopolita e la sua numerosa comunità ebraica. Accordi simili furono poi sottoscritti nei Paesi Bassi, dove un ruolo di promozione lo ebbero i democratici cristiani, i laburisti e i liberal-democratici, e in Germania dopo l’unificazione, dove l’iniziativa partì dal sinodo della chiesa evangelica. Che prospettive ha oggi la proposta rilanciata dal Tavolo della Società civile? Sarebbe ingenuo nascondersi la circostanza che il Paese in cui si incontrerebbero le maggiori resistenze è proprio l’Italia. Qui un partito esplicitamente xenofobo non solo è al governo, ma controlla vari ministeri, tra cui quello dell’Interno. Una circostanza che non si è mai verificata prima in nessuno dei grandi Paesi dell’Unione, salvo che in Austria quando la Fpö di Jörg Haider fu associata dal cancelliere cristiano-democratico Wolfgang Schüssel alla guida del Paese, tra le preoccupazioni e le proteste del resto d’Europa. Va ricordato che per l’Austria fu addirittura evocato, allora, il ricorso all’art. 6 del Trattato, che prevede la sospensione temporanea di uno stato membro in cui si verifichino gravi violazioni dei princìpi di democrazia e di eguaglianza. Con allarme furono considerati anche certi toni antisemiti e ultranazionalisti che si diffondevano nella Polonia dei gemelli Kaczynski e non c’è dubbio che l’atteggiamento dell’opinione europea ebbe un ruolo nella sconfitta elettorale del loro partito.

Il fatto che la Lega Nord italiana appaia assai poco propensa ad aderire a un patto che le toglierebbe l’arma demagogica che i suoi esponenti usano nelle piazze e che cercano di tradurre, grazie al ministro Maroni, anche in leggi dello Stato, non blocca comunque i rappresentanti della società civile.

Se la proposta diventerà ufficiale e verrà fatta propria da un partito o da una istituzione (i cattolici pensano anche all’assemblea dei Vescovi), non sarà tanto facile per i partiti di governo che non sono la Lega opporle un “no” e spiegarlo all’opinione pubblica.

Al di là delle furbizie propagandistiche, delle ipocrisie e di molti, e gravi, scivolamenti di cultura politica, né Alleanza nazionale né Forza Italia potrebbero permettersi di sfuggire, almeno formalmente, all’impegno. Il loro “sì” non eliminerebbe il veleno che certi organi di stampa, certe tv berlusconiane (e non solo), certi sindaci e molti amministratori ed esponenti politici continuano irresponsabilmente a diffondere verso gli immigrati, i rom, le minoranze, ma sarebbe un’utile remora contro le strumentalizzazioni più becere da parte dei dirigenti più in vista.

Una controindicazione, per il Pdl, sarebbe certamente l’ostilità dell’alleata Lega. Ma ci sarebbero anche dei vantaggi.

An, aderendo al gentlemen agreement, acquisterebbe un credito presso quei (molti) partiti del Ppe che vedono con inquietudine l’arrivo, tra le loro file, di una formazione la cui conversione democratica è tanto recente e, in fatto di giudizi sul fascismo, ancora assai zoppicante. Il Pdl avrebbe qualche chance in più di farsi accettare dal composito mondo democratico-cristiano, nonostante le enormi e giustificate diffidenze nei confronti del suo inquietante padre-padrone. Insomma, qualche buona carta nel mazzo c’è, e vale la pena provare a giocarla.

Pubblicato il: 25.09.08
Modificato il: 25.09.08 alle ore 8.40   
© l'Unità.


Titolo: ... per la Lega i deputati di maggioranza possono votare per due.
Inserito da: Admin - Ottobre 03, 2008, 03:23:27 pm
Fini si sfoga contro i pianisti: ci vorrebbero i parà.

Ma per la Lega i deputati di maggioranza possono votare per due

di Mario Ajello


ROMA (2 ottobre) - Sensazionale innovazione nel mondo della musica: se il "pianista" è del Pdl (o della Lega), il suo suono è puro come quello di Johann Sebastian Bach. Se invece è del Pd, la sua musica è degenerata.

La scoperta si deve a un leghista nato a Messina - sì, esiste anche questo strano ircocervo geopolitico - che si chiama Matteo Brigandì, è un marcantonio di quasi due metri con pizzetto bianco alla Nino Bixio e porta cravatta verde e pochette dello stesso colore più camicia rosa. Fra un po’, lo vedremo scagliarsi addosso a un dipietrista nei banchi di Montecitorio, ma prima il nostro musicologo d’Aula - che in realtà è un’avvocato o meglio: è l’avvocato di Bossi e «quando il Senatur lo difendo io si salva sempre in tutte le cause» - espone davanti ai deputati la sua innovativa teoria sul "pianismo", che in gergo parlamentare significa votare, negli scrutini in Aula, non solo a proprio nome ma anche per il vicino di posto che non c’è perché rimasto a casa per una pennichella o andato alla buvette o al wc o in giro chissà dove. Insomma, ecco il lodo Brigandì: «Se i deputati di maggioranza votano per due, possono farlo per ragioni politiche. Invece quelli di opposizione che attuano questa pratica lo fanno solo per intascare la diaria. E ciò si chiama truffaaa!!!!».

La nuova teoria musicologica si deve al fatto che i dipietristi s’erano infuriati per l’alto numero di ”pianisti” presenti nei banchi del centro-destra, e allora Brigandì replica tirando fuori questa sua teoria. Riassumibile così: se il ”pianista” è nero (anzi, più esattamente: azzurro pidiellino o verde leghista) è un virtuoso; se il "pianista" è bianco (o rosa Pd, o scudocrociato Udc, o celestino Idv), va espulso dalla sala del concerto parlamentare per indegnità, incapacità, truffaldineria. E adesso, alla luce della nuova teoria Brigandì, Jane Champion dovrà girare di nuovo il suo film «Lezioni di piano» e così Giuseppe Tornatore con «La leggenda del pianista sull’oceano» e Roman Polanski con «Il pianista». In più, in «Animal crackers», Groucho chiedeva al fratello Chico Marx: «Quanto chiedete, ragazzi, per suonare il piano?». «Dieci dollari l’ora, va bene?». I "pianisti" virtuosi del centro-destra meriterebbero molto di più. I "pianisti" immorali del centro-sinistra meriterebbero molto di meno, secondo un ideale tariffario Brigandì.

Comunque, appena la nuova teoria musicale rimbomba nell’emiciclo, il dipietrista Antonio Borghesi comincia a urlare e a offendere: «Chi ha appena parlato», cioè Brigandì, «ha passato qualche mese nelle patrie galere». A quel punto, lasciando un attimo da parte la sua scoperta scientifica, il Brigandì si alza dal suo posto e si avvia verso Borghesi, seduto davanti a Di Pietro, per fare baruffa. Lo placcano, a fatica, vista la mole del nostro, i custodi. Lui sembra un leone in gabbia, e - come narra il cronista dell’Ansa - ruggisce verso l’avversario: «Infame! Fascista! Str...! Pezzo di...!». «Buffone, buffone!», gridano quelli dell’Idv. Tacciono quelli del Pd. Poi Borghesi chiederà scusa: «Non sapevo che Brigandì era stato assolto nelle sue vicende giudiziarie». Di Pietro chiede la pace: «Stringo la mano a Brigandì». E Fini è sconsolato per il brutto show: «Vi ricordo che qui sopra, nella tribuna del pubblico, ci sono dei ragazzi che ci guardano». Sì, c’è una scolaresca cui subito le maestre si rivolgono così: «Ragazzi, state calmi... Non vi impressionate...». E li porta via, anche se non sembrano sotto choc. Poi arrivano altri studenti, di una scuola media umbra, ma ormai la situazione è pacificata e loro un po’ se ne dolgono: «Mannaggia, se arrivavamo prima vedevamo la rissa. Sarà stata bella come quelle fra politici in tivù?».

Ma il "pianismo" - che ieri è servito a coprire i vuoti nei banchi della maggioranza - non sembra sradicabile dall’Aula. Almeno finchè non sarà introdotto, e ciò accadrà dopo Natale, il sistema delle impronte digitali. Nel frattempo, davanti al caos dodecafonico finito in quasi rissa, Fini si sfoga con il deputato Paglia, un ex della Folgore: «Chiama i paracadutisti, qui ce n’è bisogno!».

da ilmessaggero.it


Titolo: «Addio grande amico», la Lega piange Haider
Inserito da: Admin - Ottobre 12, 2008, 10:03:07 am
«Addio grande amico», la Lega piange Haider


«Dopo quella di Lazzaro, credo che la mia sia la risurrezione più clamorosa nella storia». Firmato Jorg Haider. Lo aveva detto dieci giorni fa in un'intervista al "Giornale", ricordando il recente successo del suo nuovo partito alle elezioni in Austria.

Nella stessa non aveva nascosto le sue simpatie per la Lega di Umberto Bossi: «Siamo, per certi aspetti, l'equivalente della Lega». E difatti dal partito di Bossi arriva un coro di reazioni solidali per la scomparsa del «grande amico».

Il più nostalgico è l'europarlamentare Mario Borghezio della Lega Nord. «Muore, con Joerg Haider, un grande europeo, uno strenuo combattente dell'Europa dei popoli contro la deriva centralista dell'Europa di Bruxelles. Un risvegliatore di popoli, come Bossi, un grande amico della Padania, ingiustamente calunniato dai servi sciocchi del politicamente corretto e dell'antirazzismo ipocrita», Borghezio poi annuncia la commemorazione all'inaugurazione a Milano del corso di preparazione politica della "Fondazione federalista per l'Europa dei popoli".

Per Umberto Bossi «era uno che vinceva. E quando si è capaci magari si finisce con il dare fastidio a tanta gente». Bossi ha anche ricordato di avere visto per caso, recentemente, la giovane figlia dell'uomo politico austriaco «alla festa della birra che si è svolta all'ambasciata tedesca a Roma».

Valanga di telefonate di rimpianto e commemorazione su Radio Padania libera, emittente della Lega Nord. Tre ore di trasmissione in diretta, condotta dal deputato Matteo Salvini, che è anche vice segretario della Lega Lombarda, sul filo del ricordo e della testimonianza da parte di molti ascoltatori che avevano conosciuto o incontrato il politico austriaco, il quale, alcuni anni orsono era anche intervenuto come ospite a feste leghiste in Veneto.

Una ascoltatrice, Fiorenza, che ha chiamato dal Veneto ha raccontato, in lacrime, che nella sua camera tiene sul comodino tre foto «quella di Bossi, quella di Papa Luciani e quella di Haider». Definito da molti ascoltatori «un amico della identità dei popoli e della Padania», ricordato da Duilio di Udine come «una persona semplice e molto affabile, lo avevo incontrato in agosto in montagna e subito mi era risultato simpatico». Haider è stato difeso da quasi tutti gli intervenuti: «è ora di finirla di dipingerlo come un razzista e uno xenofobo, era solo un difensore dei popoli».

Moltissimi sono stati anche gli ascoltatori che hanno espresso il desiderio di partecipare a titolo personale ai funerali del politico austriaco, chiedendo anche una rappresentanza ufficiale della Lega alle esequie.

Per il conduttore-deputato Matteo Salvini «Haider ha lasciato un ricordo profondo da parte di chi ha capito che non era un leader xenofobo come invece si era cercato di dipingerlo».

Per l'ex ministro e ora eurodeputato Francesco Speroni «è una grande perdita, soprattutto in un momento cruciale come questo».

Per il capogruppo al Senato Federico Bricolo, Haider «ha dimostrato che quando si è convinti delle proprie idee e in nome di esse si porta avanti una battaglia con coraggio senza indietreggiare di fronte agli attacchi di tutti, alla fine si è premiati dal popolo e dal territorio e si ottiene successo».

Haider però aveva estimatori anche a destra. E Francesco Storace lo ha subito celebrato sul suo blog. «Crediamo che Haider abbia interpretato la voglia di una parte del suo popolo di ribellarsi al pensiero unico, di riappropriarsi di un'etica che proprio nei giorni della crisi finanziaria mondiale torna alla ribalta come necessità di riscatto morale.».

Non da meno vuole essere Luca Romagnoli, segretario nazionale della Fiamma Tricolore. «L'improvvisa scomparsa di Joerg Haider ci lascia sgomenti», il governatore della Carinzia, ha ricordato, «ha rappresentato per decenni la destra in Austria».


Pubblicato il: 11.10.08
Modificato il: 11.10.08 alle ore 18.05   
© l'Unità.


Titolo: Federalismo, scintille nel governo
Inserito da: Admin - Ottobre 27, 2008, 03:15:30 pm
26/10/2008 (10:25) - Il CASO


Federalismo, scintille nel governo
 
Miccichè: «Sud suddito del Nord».

Lombardo: così non va, reagiremo.

Calderoli: Miccichè? Non lo conosco

ROMA


Il federalismo che la maggioranza si appresta a varare a Gianfranco Miccichè «non piace».

Ha un dubbio il sottosegretario alla presidenza del Consiglio: non si fida di un «federalismo fatto dagli "amici" della Lombardia e da gente come quella della Lega» perchè gli sembra che in generale «nel Mezzogiorno si è sudditi nei confronti dei poteri del Nord».

Miccichè attacca: «Vogliono lo scontro tra territori, ma se questo ci deve essere - aggiunge - allora che sia alla pari: uno scontro politico e non territoriale perchè loro sono più forti di noi anche nella demagogia». Miccichè dice di «sapere bene che gli unici fondi disponibili che ci sono per il momento sono quelli per il Mezzogiorno» e che in «un momento di difficoltà se i soldi servono per altro non c’è alcunchè di scandaloso» nell’impiegarli diversamente. Ma, proprio perchè «si parla di soldi del Sud», non gli sta bene «l’attacco» di Roberto Formigoni e Letizia Moratti sul finanziamento di 140 milioni di euro al Comune di Catania stanziati dal Cipe per evitare il dissesto finanziario dell’Ente. E non fa nulla per nascondere di sentirsi come tradito: «È una vigliaccata: noi abbiamo dato 1,4 miliardi di euro all’Expo di Milano con i nostri soldi, quelli destinati al Fas per il Mezzogiorno».

L'affondo di Miccichè scuote la maggioranza. La reazione della Lega non si fa attendere: «Miccichè chi? Non lo conosco - dice Calderoli -. Per me in Forza Italia i punti di riferimento sono Berlusconi, Schifani, Prestigiacomo, Alfano. Non posso commentare le dichiarazioni di chi non conosco». Il ministro per la Semplificazione normativa getta acqua sul fuoco: «A me sembra di aver sentito il presidente Lombardo, che per me è il riferimento dell’Mpa, parlare del federalismo in termini completamente diversi». L’attacco di Miccichè sembra collocarsi nell’ambito di una antica, ma pare mai sopita idea, dell’esponente di Forza Italia: il partito del Sud da contrapporre alla Lega, federato con il Pdl. Così ai giornalisti che gli chiedono se pensa ancora a quel progetto replica convinto «sì e ne parlo sempre di più».

A condividere la tesi di Miccichè sul federalismo è anche il presidente della Regione Siciliana e leader del Mpa, Raffaele Lombardo, sottolineando che «ormai bisogna capire che i contrasti politici non si basano su divergenze tra Sinistra e Destra: il confronto è tra Nord e Sud». «Se questo federalismo - avverte Lombardo - dovesse andare avanti così a via di scandali e di rivendicazioni inesistenti, come quelle di presidenti di regione e sindaco del nord sostenuti da un sistema economico e di informazione volgarmente parziale, saremo costretti a reagire». Il leader del Mpa si dice però «certo che il presidente Berlusconi saprà essere buon arbitro della maggioranza, che è fatta di forze politiche della Lombardia e della Sicilia». Così, per Lombardo, «per oggi il bicchiere resta mezzo pieno perchè questa è l’unica soluzione. Per oggi però...».

da lastampa.it


Titolo: Stefano Miliani - Condono per ladri d'arte? Il Parlamento vuol sapere
Inserito da: Admin - Ottobre 30, 2008, 11:20:25 am
Condono per ladri d'arte? Il Parlamento vuol sapere

Stefano Miliani



Apollo con grifone, restituito dal Getty all'Italia nel 2007, foto della mostra "Nostoi. Capolavori ritrovati"Il Pdl prepara due emendamenti alla Finanziaria a firma Gabriella Carlucci che, in sostanza, scaricherebbero da ogni rischio chi ha traffica illegalmente reperti archeologici o monete antiche? Che depenalizza il possesso illecito di pezzi anteriori al 476 dopo Cristo? Un condono per chi smercia o trafuga pezzi d'archeologia? Sì, denuncia la Uil Beni culturali, abbiamo i documenti. Non è vero, ribatte l'onorevole che indignata smentisce e minaccia azioni legali: «Non ho mai presentato nessun emendamento alla Finanziaria avente ad oggetto sanatorie, più o meno mascherate, a favore di tombaroli e ladri di opere d'arte». In realtà, li ha ritirati. Lo segnala nel resoconto della riunione del 28 ottobre il presidente della quinta commissione bilancio e tesoro Giancarlo Giorgetti.

Sia come sia, la vicenda ha suscitato un indignato articolo del direttore della Normale e presidente del Consiglio superiore dei beni culturali Salvatore Settis su Repubblica, ha provocato un'interrogazione parlamentare del deputato Pd Ermete Realacci e di altri parlamentari dell'opposizione e una petizione di Legambiente sul sito www.lanuovaecologia.it.

Nelle pieghe della Finanziaria 2009 starebbero per filtrare dunque due emendamenti per «la riemersione di beni culturali in possesso di privati». Tenete conto che, dalla legge di tutela del 1909, ogni testimonianza della cultura e d'arte trovata sotto terra appartiene al Demanio e dunque allo Stato e va prontamente denunciata.
 
Stando al provvedimento, finora rimasto negli uffici parlamentari, basterebbe dichiarare di avere, magari in cantina o in un armadio, un reperto entro 180 giorni dall'entrata in vigore del decreto, dire di esserne in possesso in buona fede e pagare le spese di catalogazione (che oscillerebbero tra i 300 e i 10mila euro) per diventare legittimi proprietari di quel pezzo di statua etrusca o romana o di quel capitello della Magna Grecia. Secondo la denuncia tale disegno depenalizzerebbe i reati di furto, ricettazione e incauto acquisto (cioè l'aver comprato senza sapere la provenienza del pezzo).

Nel 2004 un parlamentare dell'allora Forza Italia, Conte, tentò di inserire un emendamento analogo ma fu stoppato dopo la denuncia pubblica del direttore della Normale di Pisa Salvatore Settis, con l'intervento dell'allora ministro dei Beni culturali Giuliano Urbani. Anche stavolta l'attuale ministro di settore, Bondi, sarebbe estraneo all'idea.

Un'idea devastante o sensata per portare a galla quanto è nascosto? «Ci sono due livelli - risponde Pier Giovanni Guzzo, archeologo, soprintendente di Pompei e Napoli, passato anche per la Soprintendenza di un territorio a rischio come la Calabria - In teoria l'acquisizione di conoscere quanto c'è potrebbe essere positivo, in realtà l'esperienza insegna che dall'autodenuncia non escono pezzi eccezionali, quelli vanno all'estero tranquillamente in modo illecito.L'eventuale teorico vantaggio sarebbe di fatto soffocato».

E depenalizzare reati così potrebbe servire? «Un'idea lontanissima dal costume generale. Inoltre, con le restituzioni del Getty e di altri musei americani, si è parlato così tanto di opere trafugate che chi ha qualcosa non può far finta di non sapere di avere qualcosa che appartiene allo Stato. La verità - conclude - è che se vogliamo combattere gli scavi clandestini bisogna ampliare le risorse delle soprintendenze perché possano condurre indagini archeologiche. I tombaroli se la vedrebbero più brutta se potessimo essere davvero presenti».



Pubblicato il: 29.10.08
Modificato il: 30.10.08 alle ore 10.26   
© l'Unità.


Titolo: Calderoli: "In passato ho sbagliato anch'io cambiando la nostra Costituzione ...
Inserito da: Admin - Novembre 03, 2008, 04:50:18 pm
SCUOLA & GIOVANI    L'INTERVISTA /

Calderoli: "In passato ho sbagliato anch'io cambiando la nostra Costituzione a colpi di maggioranza"

"Chiamiamo subito Veltroni certe riforme si fanno uniti"

di PIERO COLAPRICO

 

MILANO - La prima persona che Roberto Calderoli, ministro della Semplificazione, chiamerebbe a parlare di università è, così dice, "Walter Veltroni".

E perché vuole aprire a Veltroni sui temi dell'università?
"So di aver commesso un errore in passato, quando ho fatto di tutto per cambiare la Costituzione a colpi di maggioranza. Dagli errori bisogna imparare, sulla scuola ci vuole un discorso unitario".

In nome di che cosa?
"È un settore che gode di una propria autonomia e questo tema deve rientrare nel discorso più generale delle riforme costituzionali".

Su quali elementi spera che Veltroni entri nel dibattito?
"Anche Veltroni non può non considerare che nelle università ci sono 5.300 corsi, o che a Firenze c'è un corso per un solo studente e tredici professori. Bisogna prendere insieme delle decisioni, non per premiare o punire qualcuno, ma per creare una base reale di ragionamento e ripartire".

C'è mezza Italia che protesta. Almeno nella comunicazione, forse il governo ha sbagliato.
"Sicuramente. Nelle strade e in parlamento si sta protestando per cose che risalgono a luglio e agosto. Si è utilizzato il decreto Gelmini che nulla c'entra con un euro tolto alle università per sollevare il problema. Ma c'erano tre mesi per far capire le cose e non s'è fatto".

Studenti e professori intanto contestano i tagli.
"Sono d'accordo con gli universitari quando chiedono più formazione e più ricerca. La ricerca è stata "sottotagliata" rispetto a tutti gli altri settori, ma con gli sprechi che ci sono da decenni, se tagli 60 milioni è come tagliarne 600".

Il ministro Maroni chiede di identificare chi occupa le scuole.
"Se uno fa attenzione ai video dei cortei e degli occupanti, si rende conto visivamente che il numero dei fuori corso o dei pluribocciati è enormemente salito e non corrisponde agli studenti. Mi sembra di vedere le facce delle curve degli stadi. Se l'identificazione è un modo per impedire che i professionisti della contestazione possano interferire, ben venga".

Bossi dice che "la sinistra ha perso il potere sugli operai e cerca l'appoggio degli studenti". Può suonare una tesi un po' di comodo.
"Purtroppo è vero. Quando si è schierato con le banche e la grande industria, il centrosinistra è diventato incompatibile con gli operai, che si sono schierati con la sinistra arcobaleno, che è fallita. Alla fine hanno votato Lega, perché dopo decenni di proclami si sono trovati con lo stipendio che non basta mai".

A qualcuno questa contestazione ricorda il '68. Anche a lei?
"Come partenza forse, ma quello - e so di tirarmi addosso gli d'insulti dei miei - era un grosso momento culturale e senza il '68 non ci sarebbe stato quel grande movimento di emancipazione della donna. Purtroppo è degenerato nella violenza. La storia ha bisogno di più tempo per compiersi al meglio, oggi non mi pare ci siamo cambiamenti culturali in vista".

Anche la mancanza di futuro sembra un buon collante.
"Riconosco che quest'ansia c'è, ma contrasta con i numeri. Se uno verifica c'è un continuo incremento dell'occupazione, la disoccupazione è in calo. Il futuro che c'è, però, non è come dovrebbe essere e abbiamo una responsabilità di fronte a questo dramma. Per questo invoco Veltroni e un'opposizione seria, per dare quello che si può dare".

Condivide il decreto Gelmini?
"Sì, non è una riforma, ma un intervento limitato sulla scuola dell'obbligo, per riconsiderare voti, condotta, maestro prevalente. Purtroppo la scuola è stata utilizzata per diventare un ammortizzatore sociale. Ma esistono dei parametri europei, teniamone conto. Diamo più soldi al maestro prevalente e utilizziamo gli altri, pagandoli un po' meno, per aumentare il tempo pieno dei nostri figli. L'insegnante precario protesta legittimamente, ma i suoi non sono e non erano diritti acquisiti".

(3 novembre 2008)

da repubblica.it


Titolo: L’orizzonte della Lega è lo zerbino
Inserito da: Admin - Novembre 07, 2008, 09:59:34 am
L’orizzonte della Lega è lo zerbino


Maria Novella Oppo


Ogni occasione è buona per far brillare sotto le luci delle telecamere provincialismo e servilismo della destra nostrana. E, dove non arrivano i berluscloni, ci pensano i leghisti. Così, dentro l’incredibile dibattito sull’obamismo postumo o preventivo, che esprime l’assoluta incapacità di misurarsi con la dimensione planetaria degli eventi, si colloca il localismo della Lega Nord. Anzi, a dire la verità, si dovrebbe parlare di localismo immaginario e razzismo reale, visto che il luogo tanto mitizzato come patria non esiste nemmeno.

Trattasi, come noto, di una padania di comodo, che per i leghisti diventa una sorta di utero pro domo sua, un ventre protettivo di interessi domestici che si sintetizzano nello slogan «padroni a casa propria».

E la casa è l’origine e il perno di tutto il mondo leghista, che ha nello zerbino il suo orizzonte etico ed estetico. Come rivela la straordinaria dichiarazione fatta ieri mattina ad Omnibus da Carolina Lussana: «In Italia non abbiamo bisogno di Obama perché il cambiamento lo incarna già Bossi».

Pubblicato il: 07.11.08
Modificato il: 07.11.08 alle ore 8.31   
© l'Unità.


Titolo: ROBERTO COTA Ma sulle moschee la Lega garantisce i diritti
Inserito da: Admin - Dicembre 06, 2008, 09:57:27 am
6/12/2008
 
Ma sulle moschee la Lega garantisce i diritti
 
ROBERTO COTA
 

Egregio Direttore,

in riferimento all’editoriale di Marcello Sorgi Bloccare le moschee? pubblicato il 4 dicembre scorso, vorrei proporre alcune precisazioni.
Sorgi afferma che la moratoria sulla costruzione di nuove moschee proposta dalla Lega «non aiuta la soluzione del problema».
Su questo punto non sono d’accordo, ma soprattutto vorrei che si entrasse nel merito della nostra proposta prima di criticarla.

La questione della costruzione delle moschee e dei presunti centri culturali è un problema grave, molto sentito sul territorio, perché spesso vanno a insediarsi nelle zone più inadatte delle nostre città, si diffondono come funghi e, al disopra di tutto, all’interno vi si svolgono attività di ogni tipo, sottratte a qualsiasi controllo o regolamento. Nella migliore delle ipotesi si tratta di esercizi commerciali abusivi, ma nella peggiore di attività di fiancheggiamento al terrorismo islamico. I fatti di cronaca testimoniano ciò. E a fronte di questo dobbiamo fare chiarezza. Abbiamo chiesto una moratoria affinché il Parlamento approvi in fretta una legge per regolamentare quei culti che non abbiano sottoscritto intese con lo Stato. Su questo punto sappiamo di avere dalla nostra la gente ed anche gli amministratori locali, che si trovano a dover fronteggiare fenomeni più grandi di loro.

Ma entriamo nel merito. Abbiamo presentato una proposta di legge per cui si demanda alle Regioni la potestà di autorizzare la realizzazione di nuovi edifici destinati a funzioni di culto per le confessioni che ne fanno richiesta. La costruzione deve essere autorizzata presentando alla Regione un’apposita domanda corredata del progetto edilizio e del piano-economico finanziario, con l’elenco degli eventuali finanziatori italiani e stranieri per controllare da dove vengono le risorse di cui spesso non si capisce l’origine. Chiediamo inoltre che sia prevista l’approvazione di tali insediamenti tramite referendum da parte della popolazione del comune interessato. Le confessioni e le associazioni religiose che presentano la domanda, secondo la nostra proposta, devono depositare uno statuto che riconosca, tra l’altro, la democraticità e la laicità dello Stato e che impegni al rispetto della dignità dell’uomo, della famiglia, e all’uguaglianza uomo donna. Inoltre si specifica il divieto di svolgimento di attività non strettamente collegate alla pratica religiosa e il divieto dell’uso di lingue diverse dalla nostra in tutte le attività pubbliche che non siano strettamente collegate all’esercizio del culto.

Mi sembrano principi di buon senso e, se qualcuno ha qualcosa da dire, per favore entri nel merito e non faccia finta che il problema non esista o non sia affrontabile. Così come smettiamola di invocare, spesso a sproposito, il rispetto dei diritti che, peraltro, vengono assolutamente garantiti, di chi arriva trascurando il diritto alla sicurezza dei nostri cittadini. Su questo punto usciamo anche dall’equivoco di una presunta integrazione che non si realizza proprio perché in queste moschee spesso si fa di tutto e di più e si sviluppa uno Stato nello Stato al di fuori della legalità.

A fronte di tutto questo che cosa è ragionevole? Fermarci a riflettere posto che non c’è assolutamente una carenza, ma un sovraffollamento di moschee? Oppure ignorare la realtà e trovarci a non essere riusciti a prevenire ciò che fino ad oggi siamo riusciti a sventare?

Presidente deputati Lega Nord
 
da lastampa.it


Titolo: Dl anticrisi, il governo fa il gioco delle tre carte
Inserito da: Admin - Dicembre 09, 2008, 11:52:23 pm
Dl anticrisi, il governo fa il gioco delle tre carte

Hanno aumentato pochi giorni fa dello 0,30 per cento il contributo per l'assicurazione contro la disoccupazione. Adesso, l’hanno già levato. Sembra il gioco delle tre carte: prima l’aumento degli ammortizzatori per chi in questi tempi di crisi è rimasto senza lavoro. Poi, nello stesso decreto anticrisi si decide che l’Inps – quello che le indennità di disoccupazione le deve versare – destini 350 milioni di euro al Fondo per l’occupazione. Un fondo di investimento che dovrebbe creare lavoro, ma non certo aiutare chi non ce l’ha. A sollevare il paradosso sono stati i tecnici del servizio Bilancio della Camera. Gente che i conti li sa fare e che ha chiesto chiarimenti al governo: in sostanza, vogliono sapere se il contributo dell'Inps al Fondo per l'occupazione possa pregiudicare la realizzazione delle finalità cui quelle risorse erano destinate.

Ma le calcolatrici dei tecnici del servizio Bilancio, nel decreto anticrisi di magagne ne hanno trovate anche altre. A cominciare dal tanto decantato bonus-famiglie. Secondo i tecnici, i soldi non ci sono. O almeno non per tutti: le difficoltà nello stimare la platea di cittadini che potrà richiedere il bonus famiglia – spiegano dal servizio Bilancio – «potrebbe determinare squilibri tra la domanda del bonus e le risorse a disposizione». «Il beneficio – aggiungono – appare configurarsi come un diritto soggettivo e, come tale, da soddisfarsi in ogni caso, mentre l'erogazione del bonus appare subordinata alle disponibilità degli enti erogatori del monte dei contributi e delle ritenute a portare a compensazione. Sul punto – concludono – appare necessario un chiarimento da parte del Governo».

Ma è il decreto nel suo complesso ad avere dubbia copertura. Gli interventi decisi dal governo verrebbero coperti da entrate la cui entità «non è in genere suffragata da elementi e dati oggettivi, quanto piuttosto da ipotesi e previsioni», spesso non «suscettibili di oggettivo riscontro». In particolare, i tecnici si riferiscono a tutte quelle entrate che «implicano una volontaria adesione» dei contribuenti, come quelle riferite al «riallineamento dei valori fiscali dei bilanci delle società», chiaramente incerto ed ipotetico. Tra le voci di copertura, c’è anche l'utilizzo del Fas, il fondo per le aree sottosviluppate: un Fondo «di recente già oggetto di riduzioni» e la cui spesa rischia di essere «dequalificata» perché le sue risorse sono state destinate ad altro.

Insomma, i tecnici dicono che sarebbe «utile disporre di un quadro complessivo», perché su quei 6 miliardi e 342 milioni di euro stanziati contro la crisi, c’è una gran confusione. Ad esempio, sembrerebbero «includere le disposizioni» degli articoli 25 sulle Ferrovie e 26 su Tirrenia, che invece hanno già «autonome norme di copertura», mentre non è incluso l'articolo 19, quello relativo agli ammortizzatori sociali, che «appare solo parzialmente trovare un'autonoma compensazione».

09 Dic 2008   
© 2008 L'Unità.it Nuova Iniziativa Editoriale Spa


Titolo: Le riforme mancate, l'altolà alla Lega e la tentazione presidenzialista
Inserito da: Admin - Dicembre 15, 2008, 11:52:21 pm
Le riforme mancate, l'altolà alla Lega e la tentazione presidenzialista
 
 
di Marco Conti


ROMA (14 dicembre) - Lentamente e in mezzo a un gran polverone, cominciano a stabilizzarsi le posizioni dei partiti sul tema delle riforme. Il pressing della Lega di questi ultimi giorni ha avuto il pregio di stanare le ipocrisie che stavano affossando in una palude il lavoro avviato al Senato. Silvio Berlusconi continua a negare qualsiasi confronto con l'opposizione.

A spiegare i motivi provvedono oggi sui giornali una cerchia di stretti collaboratori. Nel frattempo però i ministri del suo governo continuano a incontrare i corrispettivi del governo-ombra e i temi del confronto, invece di limitarsi alla riforma della giustizia, si ampliano.

Si ha l'impressione di un premier che non voglia sporcarsi le mani e che, temendo di rimanere impigliato nelle maglie del confronto, manda avanti i "suoi" e aspetti di scoprire l'effetto che fa.

In agenda non c'è infatti solo il faccia a faccia tra il ministro della Giustizia Angelino Alfano e il ministro-ombra Lanfranco Tenaglia, ma anche quello tra il ministro dell'Economia Giulio Tremonti e il suo corrispettivo ed esponente di punta del Pd Pierluigi Bersani. E' forse questa la dimostrazione più evidente di quanto sia difficile ipotizzare un riformismo a "costo-zero" e che parlare di federalismo fiscale nell'attuale situazione, non sia proprio facile. Il temporeggiare del Cavaliere irrita la Lega che tenta di forzare la mano al leader del centrodestra ipotizzando una trattativa su giustizia e federalismo con il Pd. Berlusconi si arrabbia, alza il telefono, rimette in riga l'alleato e risponde alle insidie dei lumbard rispolverando il rapporto con l'Udc, tentando quindi di minare in questo modo il ruolo che il Carroccio ha assunto nella coalizione.

Tirando le fila del tatticismo berlusconiano e dei ripetuti "stop and go" di queste ultime settimane, se ne ricava l'immagine di un premier in attesa, che non esclude il confronto con l'opposizione ovviamente sulla sua agenda, ma che resta scettico e, soprattutto, non intende delegarlo ad altre forze politiche.

Il marasma nel quale si agita ormai da settimane il Pd di Veltroni non aiuta certo ad attribuire responsabilità e meriti del mancato confronto. Fatto sta che nel rapporto maggioranza-opposizione si è ben lontani dai propositi della campagna elettorale nella quale si parlava di statuti e di obbligo di consultazione. Alla fine ne risente però anche l'azione di governo che appare ancor più rallentata. Berlusconi non ha assolutamente voglia di caricarsi di questo onere, ed è quindi facile prevedere che sabato, in occasione della conferenza stampa di fine anno, attribuisca la responsabilità alla farraginosità del processo decisionale, al bicameralismo perfetto e alla mancanza di potere da parte del premier.

D'altra parte, con il ritorno sul tappeto della riforma delle pensioni, siamo agli evergreen che da quattordici anni allietano il confronto politico (riforma delle pensioni, riforma della giustizia e riforma istituzionale), senza che su nessuno di questi temi sia stata data una risposta definitiva.

Un modo per uscire dal rischio della paralisi economica ed istituzionale, lo offre oggi il ministro della Difesa Ignazio La Russa che, sul Giornale,
rilancia la riforma presidenzialista e la pone con pari dignità a fianco della riforma della giustizia e del federalismo.

In questo modo il "pacchetto unico" di riforme che il premier intende trattare con gli alleati, si arricchisce di un elemento decisivo destinato a mutare definitivamente la fisionomia della nostra Repubblica.

Resta solo da vedere se il "ghe pensi mi" ha la stessa presa sull'elettorato di quindici anni fa. 

da ilmessaggero.i


Titolo: Il «fronte lombardo» tenta l'ultimo affondo prima dello sbarco dei francesi
Inserito da: Admin - Gennaio 08, 2009, 12:12:31 am
Summit

Il governo di via Bellerio e l'asse del Nord con la Moratti

Il «fronte lombardo» tenta l'ultimo affondo prima dello sbarco dei francesi


Nel luogo simbolico dell'antipolitica dove negli anni Novanta la Lega disegnava gli scenari secessionisti del Nord, Milano batte un colpo sul caso Malpensa e si mette di traverso a governo e imprenditori, agli alleati e ai capitani coraggiosi nella trattativa per il partner della nuova Alitalia. Via Bellerio, storica sede del Carroccio, è dal primo pomeriggio di ieri l'avamposto di un nuovo fronte politico istituzionale che mette paletti, detta condizioni, scarta l'alleanza con Air France, chiede la liberalizzazione degli slot dello scalo lombardo, propone Lufthansa come partner privilegiato per la compagnia di volo nazionale presieduta da Roberto Colaninno.

Non è un caso se il sindaco Letizia Moratti sceglie di essere lì nel freddo gennaio milanese, oltre quello storico portone dove un tempo Umberto Bossi faceva notte prima di andare in pizzeria coi fedelissimi a disegnare le strategie della Lega di lotta e di governo. E' lì che è nato il fronte del Nord, la galassia scontenta che urlava «Roma ladrona», il progetto federalista. Ed è lì che oggi riparte una strana alleanza istituzionale e politica, il sindaco di Milano e il leader della Lega, il presidente della Regione e quello della Provincia una volta tanto insieme per difendere un aeroporto che sembra condannato a un ruolo minore dalla scelte romane, dai conti economici della nuova compagnia, dalla scelta del partner straniero. Come una nemesi storica, otto mesi dopo la battaglia contro il governo di centrosinistra Bossi, Formigoni e Letizia Moratti si trovano a difendere l'aereoporto di Malpensa dalle decisioni del governo amico e dal silenzio imbarazzato del premier Silvio Berlusconi, lo stesso che in primavera aveva brandito lo scalo come una scimitarra contro Romano Prodi e Tomaso Padoa Schioppa, accusati di non aver difeso l'italianità e il territorio, e di essersi piegati agli interessi di Air France. C'è disagio, c'è fastidio, c'è la sensazione di essere presi in giro.

Ma il segnale che arriva da via Bellerio, dall'improvvisato vertice di governo metropolitano, non è di quelli da trascurare, è importante come la stretta di mano di Letizia Moratti a Umberto Bossi, scandita dalle parole appena pronunciate dal sindaco nell'intervista al Corriere: «Le scelte strategiche per il Paese non possono essere lasciate nelle mani degli imprenditori». Si incontreranno domani Berlusconi e Bossi. Per disinnescare le tensioni e forse per battersi una pacca sulle spalle o per prendere tempo, anche se di tempo, da qui al 13 gennaio, data di partenza della Compagnia che gestirà la nuova Alitalia, ce n'è poco. Ma i contraccolpi del caso Malpensa rischiano di incrinare i rapporti già tesi tra Milano e Roma, tra il governo nazionale e quello locale. Il segnale del sindaco Moratti in via Bellerio sembra proprio questo: con la crisi di Malpensa, si amplifica una questione del Nord per il governo di Berlusconi e della Lega, tornano a galla i malumori per i ritardi sull'Expo, sui finanziamenti, sul mancato via libera alle nuove metropolitane. Una questione che riporta a galla la bocciatura a ministro di Roberto Formigoni, il potente presidente della Regione che fin dall'inizio aveva prospettato la soluzione ideale per lo scalo lombardo: liberalizzazione degli slot, autonomia nella scelta del partner per Malpensa, sì a Lufthansa e no ad Air France. E che offre al presidente della Provincia, Filippo Penati, uno dei leader del centrosinistra milanese, l'occasione di entrare a gamba tesa contro tutti: le grandi imprese che firmavano gli appelli in difesa dello scalo e oggi si defilano; il premier Berlusconi che prometteva il rilancio e si è rimangiato tutto.

E' una vicenda assurda, paradossale, perfino vergognosa quella di Malpensa, dice l'economista Marco Vitale: «L'unica battaglia che resta da fare al Nord è quella della liberalizzazione degli slot, anche se questo va contro agli interessi di bottega della nuova compagnia che deve gestire Alitalia. E' evidente che solo ridimensionando il fantastico capital gain garantito da una gestione in monopolio si può ridare un ruolo e un futuro a Malpensa». La sinistra assiste allo scontro da lontano, mette in evidenza le contraddizioni all'interno del centro destra: Penati si è conquistato uno spazio prima degli altri, ha evidenziato i limiti dell'imprenditoria del Nord e l'inerzia della politica romana, ha evitato di stare alla finestra, come capitò a Walter Veltroni un anno fa, appena insediato segretario del Partito democratico. E adesso si mette al centro di questa battaglia, propone una vertenza comune, con Bossi, la Moratti e Formigoni. Malpensa non è soltanto argomento della Lega o del centro destra. Parla Di Pietro, e va giù duro con gli interessi delle cordate. parla il ministro ombra Bersani, e invece di infierire mostra attenzione alle ragioni di una parte importante del Paese. Tocca alla politica intervenire, dice Letizia Moratti. Ma An tace, i leader di Forza Italia mostrano imbarazzo. Il sindaco di Roma Alemanno difende Fiumicino e gli accordi raggiunti per la salvaguardia dell'occupazione.

C'è confusione. Air France o Lufthansa? Il partito di Malpensa o quello di Fiumicino? Bossi, da via Bellerio, rimette il Nord sul tavolo del governo, diventa portavoce di un interventismo che rischia di mettere in discussione, un'altra volta, un'intesa che sembrava perfetta: Berlusconi, gli imprenditori del Nord, la difesa della territorialità. Il colore dei soldi e la necessità di raggiungere presto il pareggio e gli utili in bilancio per Cai e la cordata di imprenditori coinvolti, rappresentano il peggior nemico di Malpensa, dice l'economista Tito Boeri. Dopo un lungo giro, siamo nella stessa situazione di otto mesi fa. Con la differenza che i contribuenti italiani hanno 4 miliardi di euro in meno nelle tasche, si sono accollati loro i costi del disastro di Alitalia. Su questa vicenda, spiegano gli economisti, ci deve essere qualcosa che vale e non poco: il grande business dei passeggeri del Nord. Altrimenti come si spiegherebbe la tenacia e la pazienza che, in questa vicenda, stanno dimostrando i dirigenti di Air France? Il fronte del Nord prova a far sentire la sua voce: è una verifica politica, quella che esce dal vertice di via Bellerio, anche se un po' sfumata nei toni. Una liberalizzazione delle rotte, oggi, sembra incompatibile con il piano di Cai firmato dal governo: nessuno tra gli imprenditori della nuova Alitalia vuole la concorrenza in casa. Si riuscirà a cambiare in corsa Air France con Lufthansa? Difficile. Malpensa resta un rebus: ma stavolta sotto esame non c'è il centrosinistra. Il caso è tutto interno al centrodestra

GianGiacomo Schiavi
06 gennaio 2009

da corriere.it


Titolo: Lega: 50 euro per il permesso di soggiorno. Stop di Fini: «Norme discriminatorie
Inserito da: Admin - Gennaio 09, 2009, 11:39:42 pm
Maroni in visita a Lampedusa: «Gli sbarchi finiranno NEL 2009»

Lega: 50 euro per il permesso di soggiorno

Stop di Fini: «Norme discriminatorie»

L'emendamento al decreto anti-crisi: parere favorevole del governo.

Cassazione: monito contro espulsioni facili
 

 
ROMA - «Norme discriminatorie». Il presidente della Camera Gianfranco Fini frena la Lega, che ha proposto una tassa di 50 euro per gli extracomunitari che chiederanno o vorranno rinnovare il permesso di soggiorno. «Mi auguro che la maggioranza rifletta prima di varare norme che nulla hanno a che vedere con la doverosa lotta all'immigrazione clandestina, e che sono oggettivamente discriminatorie nei confronti dei lavoratori stranieri regolarmente presenti sul territorio nazionale» ha detto Fini, bocciando così l'emendamento del Carroccio al decreto anti crisi che ha invece ottenuto il parere favorevole del governo. Anche Giulio Calvisi (Pd), ha parlato di «misura discriminatoria che va aggiungersi alla richiesta agli stranieri che aprono una partita Iva di versare una cauzione di 10 mila euro», come chiede un altro emendamento leghista.

CASSAZIONE: STOP ESPULSIONI FACILI - Per quanto riguarda i clandestini, dalla Cassazione arriva un nuovo monito contro le "espulsioni facili". La Suprema Corte invita infatti i questori a motivare bene i decreti con i quali si intima all'immigrato di allontanarsi dall'Italia e di tenere conto della situazione di povertà in cui si trova. È necessario che il decreto di espulsione motivi bene le cause, «non bastando che si limiti a riprodurre letteralmente la formula della legge senza alcuna indicazione», afferma la sentenza che ribadisce che nell'allontanamento dello straniero bisogna tener conto anche della sua indigenza, perché il disagio in cui vivono gli stranieri senza permesso di soggiorno non consente di capire che è più favorevole per loro allontanarsi con i propri mezzi entro cinque giorni che rischiare di commettere un delitto (restare in Italia) per il quale rischiano come minimo un anno di reclusione.

MARONI: «FINE SBARCHI NEL 2009» - «Spero che il 2009 sia l'anno della fine dell'emergenza clandestini in Italia, così come il 2008 è stato invece l'anno record degli sbarchi», ha auspicato il ministro dell'Interno Roberto Maroni, in visita a Lampedusa. Il problema, ha aggiunto, sarà risolto all'inizio della prossima stagione turistica con l'attuazione dell'accordo con la Libia: «Arriveranno solo turisti, niente più barconi». In breve tempo saranno rimpatriati tutti i clandestini sbarcati negli ultimi giorni a Lampedusa, ha aggiunto il titolare del Viminale, annunciando che la riunione dei ministri dell'Interno e della Giustizia del G8 si svolgerà a fine di maggio proprio a Lampedusa.


09 gennaio 2009

da corriere.it


Titolo: La tattica leghista che dà frutti. «Proposte impossibili ma chiare»
Inserito da: Admin - Gennaio 11, 2009, 05:12:42 pm
I sondaggisti

«Proposte impossibili ma chiare»

La tattica leghista che dà frutti

«Norme annunciate, l'approvazione non conta»
 

MILANO — Genuina sensibilità per le preoccupazioni del popolo? Oppure la vecchia astuzia di Bertoldo, sia pure in salsa padana? Come che sia, è accaduto un'altra volta: il Carroccio annuncia a gola spiegata una novità, gli alleati (o il Tar, o la Corte costituzionale) lo bocciano, e il provvedimento sfuma. Soltanto ieri i numerosi go padani hanno ricevuto due stop: quello di Berlusconi in persona riguardo alla tassa sul permesso di soggiorno, quello del Tar sulle multe alle prostitute volute dal sindaco di Verona Flavio Tosi. Eppure, la credibilità cresce. E il consenso, almeno quello misurato dai sondaggi, aumenta. Secondo Nando Pagnoncelli di Ipsos, oggi la Lega sfiorerebbe l'11 per cento a livello nazionale: «Fortissima nei suoi territori tradizionali — spiega il sondaggista — ha ormai sfondato anche in Toscana e in Emilia».

Il tutto, grazie proprio a questa «strategia, peraltro assolutamente coerente con il posizionamento della Lega, che punta a differenziarsi da qualsiasi alleato e ad incassare il dividendo dell'essere, come già si è detto, partito di lotta e di governo». Renato Mannheimer sottolinea l'efficacia semplice di questo metodo: «La gente si sente difesa, vede che la Lega è quella che non perde mai l'iniziativa, quella che comunque propone qualcosa. E resta distante da una politica romana vista come statica, bizantina, immobilista». Secondo Mannheimer, «il Carroccio ha una capacità straordinaria di individuare temi semplici da capire. E pazienza se poi la ricetta proposta è irrealizzabile: il fine non è il governo, ma il consenso». Soprattutto, conclude Mannheimer, «nel momento in cui appare chiaro che il federalismo fiscale non arriverà dalla sera alla mattina e sono necessari altri vessilli». Ma loro, i leghisti, che ne pensano? Maurizio Fugatti, deputato e segretario del Trentino, è tra i recordman di Montecitorio: tra emendamenti depositati e provvedimenti proposti è senza dubbio tra i deputati più attivi. Ma di strategie, non vuole sentir parlare. «La verità — spiega — è che noi proponiamo quello che la gente vorrebbe, e lo si vede dal tasso altissimo di riconferma dei nostri amministratori. Poi, però, parte la grancassa, magari dallo stesso Pdl, e le cose si fermano: e il perbenismo prevale sul realismo».

Nessuna furbizia, dunque. Semmai, per Fugatti, «sono le nostre proposte che vengono sempre guardate con occhiali diversi, non si valutano nel merito ma prevale la filosofia e la sociologia». Vale allora la pena di sentire un sociologo come Roberto Biorcio, dell'università Milano Bicocca, che da parecchio tempo segue il Carroccio: «Il fatto che il proclama non abbia seguito, è cosa molto diversa dalla promessa elettorale non mantenuta. Il tentare di escludere gli immigrati dalle case popolari, le classi ponte per gli extracomunitari sono messaggi che funzionano al di là della loro reale applicabilità: perché cambiano il modo di pensare». Soprattutto per la loro capacità «di rendersi accettabili: non c'è razzismo esplicito, i provvedimenti più discutibili son sempre giustificati da una sorta di buon senso». Ma un politico come Filippo Penati, il presidente della Provincia di Milano, mette in guardia dal considerare la nuova Lega soltanto come l'ennesima riedizione del partito di lotta e di governo: «Prima puntavano i piedi, ora sono gli alleati più fedeli, e riescono a giocare tutta la loro partita su questa ambiguità. Riescono a sembrare i duri e puri, anche quando i fatti li smentiscono: guardate Maroni, che sulle impronte digitali ha presentato a Bruxelles un provvedimento diverso da quello annunciato in Italia. Hanno capito che l'annuncio è sufficiente a passare all'incasso». Secondo Penati, «Berlusconi se ne è accorto: e infatti, sulla vicenda Malpensa non ha concesso niente. Loro, però, canteranno vittoria: anche se da martedì prossimo a Malpensa rimarranno soltanto tre, e dico tre, collegamenti intercontinentali».

Marco Cremonesi
11 gennaio 2009
da corriere.it


Titolo: Brunetta: Fumo negli occhi. Chiacchiere in tempi di propaganda.
Inserito da: Admin - Gennaio 12, 2009, 05:18:47 pm
«Chiacchiere in tempi di propaganda»

di Felicia Masocco


«Non so dove il ministro abbia sentito i lavoratori pubblici vergognarsi di dire il proprio mestiere. Mi piacerebbe però sapere da lui quanti dei suoi colleghi politici si vergognano di dire ai figli perché sono inquisiti o indagati. Ho l’impressione che, in percentuale, siano un po’ di più dei lavoratori pubblici. Prima di parlare della dignità di chi lavora, il ministro farebbe bene a occuparsi del ceto politico di cui fa parte».

Carlo Podda, segretario generale di Fp-Cgil, non ci gira intorno. E sulle continue esternazioni del ministro Renato Brunetta ha un’idea precisa.

Quale?
«Dietro i roboanti annunci che si susseguono dal suo insediamento, c’è una pubblica amministrazione nelle stesse condizioni di prima se non peggiori a causa dei tagli alla spesa, dei pensionati non rimpiazzati, dei precari mandati a casa alla scadenza del contratto.
Il ministro continua a pensare che lo stato delle cose possa essere coperto da annunci sempre più iperbolici».

Fumo negli occhi. Anche quando dice che la Cgil è il “nemico”? Se la Cgil dicesse che Brunetta è il nemico scoppierebbe il finimondo.
«Mi pare faccia una certa fatica a contenersi dal punto di vista verbale: si è scusato con la Cgil dopo aver detto chisse ne frega se c’è; ha avuto un piccolo incidente persino con il Vaticano entrando in polemica su chi ha più o meno precari nei suoi uffici; prima ancora aveva tirato fuori lo slogan “colpirne uno per educarne cento”, parole di un’epoca infelice. Non mi stupisce che non si faccia nessuno scrupolo a indicarci come nemici e non come avversari, antagonisti, come gente che semplicemente la pensa diversamente da lui».

Del resto, se gli dite sempre no...
«Non è poi vero:quando lui ha parlato di lotta ai lavoratori infedeli o fannulloni come li chiama, noi abbiamo detto che l’obbiettivo era condivisibile. Ma non possiamo condividere che subisca una trattenuta chi assiste un figlio diversamente abile, chi va a fare una donazione di sangue o di midollo osseo. Il ministro ha riconosciuto che c’erano degli eccessi, con gran clamore mediatico si era recato a casa di una persona colpita dalle misure, aveva promesso correzioni che nessuno ha visto».

Oltre alle chiacchiere non c’è niente?
«Io credo che le chiacchiere del ministro rivelino una fase di difficoltà. La verità è che da fine gennaio le retribuzioni pubbliche diminuiranno come la Cgil aveva denunciato, motivo per cui non abbiamo sottoscritto gli accordi di Palazzo Chigi e nemmeno i contratti. E finirà la propaganda, come è già successo con l’indennità di vacanza contrattuale che per settimane il ministro ha sostenuto sarebbe stata di 160 euro, mentre noi abbiamo diffuso le buste paga dalle quali si vedeva che era di 80 euro lordi. A luglio poi, quasi 70mila precari verranno messi per strada, diverranno 120mila il prossimo anno. Mi pare che il ministro si stia preoccupando di destrutturare la pubblica amministrazione, non di ristrutturarla o riformarla. Per questo avversiamo le sue politiche».

fmasocco@unita.it

12 gennaio 2009
da unita.it


Titolo: Oreste Pivetta Maestri e veline
Inserito da: Admin - Gennaio 12, 2009, 05:21:30 pm
Maestri e veline

di Oreste Pivetta


Una volta Berlusconi a una ragazzo che lamentava le difficoltà economiche della famiglia rispose che se la doveva prendere con il padre: un fannullone, se non guadagnava abbastanza per far contenti i familiari. Fu il varo di una nuova cultura di governo, sulle cui tracce si animò più avanti il ministro Brunetta, che alla teoria del fancazzismo nella pubblica amministrazione ha dedicato ampi stralci della propria elaborazione. Ieri ha ripreso fotocopia della sentenza berlusconiana e, riassunti a sottospecie umana i suoi dipendenti, ha annunciato che i figli si vergognano dei padri statali, trasformando una categoria del lavoro e dello spirito un tempo ammirata e invidiata in una specie di bolgia tra usurai, ruffiani e traditori dei benefattori, tipo Brunetta. Il quale ministro ha il vizio di sparare, senza riflettere che il male è trasversale e senza ragionare sulle responsabilità di tale epidemia.

Quando scenderà a patti con la necessità di concretezza, di strategie e persino di cultura, facendo il mestiere che si è scelto: quello di ministro che deve organizzare per consentire a tutti di lavorare. Brunetta un merito ce l’ha, però: senza accorgersene indica una delle mutazioni antropologiche di cui ha sofferto il nostro paese. Non solo Pasolini...

Nella caduta dei valori, nell’esaltazione di un solo mito che è il denaro (come insegna il maestro Berlusconi) è evidente che la responsabilità civile di un dipendente pubblico (impiegato o insegnante) mal pagato e per questo mal considerato va a farsi benedire. Onore al meccanico, al suo conto con o senza fattura, onore alla velina, onore all’hostess che scalerà l’isola dei famosi, onore al tronista, onore a Berlusconi.

Ma è quest’Italia che è sbagliata: in un paese giusto un maestro di scuola elementare (pubblica) starebbe al primo posto nella classifica del rispetto nazionale.

opivetta@unita.it


12 gennaio 2009
da unita.it


Titolo: L'inganno nordista
Inserito da: Admin - Gennaio 14, 2009, 06:03:46 pm
L'inganno nordista

di Bianca Di Giovanni


È il cavallo di battaglia della Lega, che sul federalismo ha puntato tutto, persino la sua permanenza al governo.
Il testo redatto da Roberto Calderoli è all’esame di tre commissioni del Senato: Affari Costituzionali, Finanze e Bilancio. Un comitato ristretto sta approntando possibili modifiche, per arrivare a un testo condiviso. Martedì si comincia a votare, il 20 gennaio il testo arriverà in Aula a Palazzo Madama. Anche il Pd ha presentato un suo testo. Si punta a una mediazione tra le due proposte. L’opposizione ha già ottenuto tempi più lunghi (il Carroccio avrebbe voluto chiudere tutto entro il 2008).

L’opposizione ha anche ottenuto che una commissione parlamentare faccia da filtro ai decreti delegati. Altro risultato ottenuto finora: una migliore definizione della fase transitoria. Il primo decreto delegato entro 12 mesi, tutto entro 24 mesi.

Da quel punto in poi decorreranno i 5 anni di transizione previsti dal testo. Ancora molte le questioni aperte, come quello sul passaggio dalla spesa storica ai costi standard. Il Pd propone che la convergenza tra Nord e Sud si misuri su obiettivi di servizi erogati. Molto è ancora da giocare.

Intanto la Lega continua il suo pressing, promettendo più ricchezza e meno tasse a Nord. Un binomio impossibile, a meno che a pagare non sia il Sud.
O magari il bilancio pubblico, con più debito. Per ora, comunque, l’unico testo disponibile è quello del ministro della Semplificazione: noi lo prendiamo sul serio parola per parola.


Ecco le trappole che nasconde.


Un rischio pesante si nasconde dietro la proposta sul federalismo fiscale targata Calderoli: gli italiani non saranno più tutti uguali di fronte allo Stato. È l’accusa più forte contenuta in un dossier redatto dal Nens (Nuova economia, nuova società) sulla proposta depositata nell’autunno scorso dal ministro leghista. L’associazione fondata da Vincenzo Visco e Pier Luigi Bersani analizza punto per punto il testo, fornisce dati sulle entrate e le spese delle singole regioni, fa un parallelo con altri Stati federali. E alla fine, giunge a questa inquietante conclusione: si rischia la balcanizzazione dell’Irpef.

INCOSTITUZIONALE  L’imposta che garantisce la progressività (ognuno paga in base alla sua capacità contributiva) e l’eguaglianza, cioè l’equità orizzontale (un ricco del nord è uguale a un ricco del sud) verrebbe completamente stravolta. La proposta del governo, infatti, «fa riferimento alla territorialità del prelievo - scrivono gli esperti del Nens - che non ha nulla a che vedere con la capacità contributiva, crea numerosi casi di disparità di trattamento ingiustificati e colpisce gravemente il principio di progressività».
Tale principio può essere assicurato soltanto dallo Stato centrale. Insomma, l’Irpef deve rimanere il cardine attorno a cui si tiene insieme la «casa Italia». «La scelta di Calderoli, al contrario - continua il dossier - con l’introduzione della riserva d’aliquota (l’addizionale locale, ndr) e della possibilità di introdurre deduzioni, detrazioni, variazioni di aliquote e quant’altro, crea le premesse per un processo che porterà alla frammentazione del più importante prelievo tributario del paese». Come dire: dietro l’asserita responsabilizzazione dei poteri locali si nasconde un forte spirito secessionista nella proposta, che così finisce per risultare a rischio incostituzionalità.

LUOGHI COMUNI  Il testo del Nens scardina anche altri tasselli della proposta leghista, capovolgendo molti luoghi comuni di cui si nutre la vulgata federalista. Per esempio che «Roma ladrona» (cioè lo Stato centrale) assorba gran parte delle risorse fiscali. In realtà oltre un quinto (il 21,9%) delle entrate totali è già gestito dalle amministrazioni decentrate. Il decentramento dei tributi in Italia ha avuto un’espansione esplosiva negli ultimi 15 anni, passando dall’8,2% sul totale dei tributi del 1990 al 21,9% del 2006. Una quota di gran lunga superiore a quella che si registra in Paesi molto più «federali» dell’Italia. In Germania il fisco locale raggiunge l’11,8%, in Austria il 14,1, in Spagna l’11,9 e la Gran Bretagna, uno Stato unitario ma con regioni dotate di autonomia amministrativa, la quota si ferma al 5,4%. Come dire: una buona fetta di federalismo fiscale già esiste. Non c’è nulla da introdurre ex novo. Semmai c’è da perfezionare, rendendola più efficiente, una macchina già partita. In un bilancio locale, oltre il 40% delle entrate è costituito da tributi. Tutti i livelli delle amministrazioni decentrate hanno già tributi propri: dall’Ici (oggi sulle seconde case) e l’imposta sulle affissioni dei Comuni, a quella sulla circolazione delle Province, all’Irap delle Regioni.

LE SPESE  Se le entrate locali sono quasi il 22% del totale, le spese locali superano il 33%. Si tratta di un livello molto alto. In tutti gli stati, anche quelli federali, si sostengono le spese locali con i trasferimenti dallo Stato centrale. In nessun caso i servizi locali vengono completamente finanziati da tributi locali.

bdigiovanni@unita.it


09 gennaio 2009
da unita.it


Titolo: La Lega pronta a correre da sola alle amministrative
Inserito da: Admin - Gennaio 23, 2009, 12:57:14 pm
Federalismo, il Pd si astiene.

La Lega pronta a correre da sola alle amministrative

di Roberto Rossi


Prove di dialogo tra Pd e Lega al Senato. Il Partito democratico si è astenuto sul voto del disegno di legge sul federalismo. La decisione, presa dall’assemblea del gruppo, è stata comunicata dal segretario, Walter Veltroni: «Una decisione giusta di una forza che assume la responsabilità» del dialogo «e che ha cambiato il testo originario facendo passare molte proposte». La scelta del Pd è stata molto apprezzata dalla Lega in particolare da Umberto Bossi. «Con la sinistra – ha detto il leader del Carroccio nonché ministro delle Riforme – è stato fatto un lavoro importante. Se non fosse per la sinistra eravamo ancora in Commissione».

L’inattesa sintonia tra i due schieramenti potrebbe portare anche a risvolti clamorosi. Uno di questi potrebbe essere la rottura dell’alleanza della Lega con il Pdl nelle elezioni amministrative che si svolgeranno in primavera. «In alcune specifiche realtà – ci spiega un deputato del Pd del Nord in contatto con il partito di Bossi – la Lega potrebbe decidere di correre da sola. Se questo avvenisse è chiaro che le carte per il centro sinistra sarebbero più incisive».

Il cammino, ci dice ancora la nostra fonte, è piuttosto lungo. Da qui alle elezionui ci sono circa quattro mesi. «E’ chiaro che bisogna ancora lavorare sull’argomento. Ma la strada è ben avviata». D’altronde anche l’astensione del Pd al Senato ha una chiara logica. «Sarebbe stato impossibile spiegare a molti elettori della parte più dinamica del paese un nostro voto. Il partito non deve essere identificato – continua il parlamentare – come quella forza politica che si oppone al cambiamento e all’innovazione. Il gruppo al Senato ha fatto un ottimo lavoro migliorando il testo iniziale e facendo emergere in modo chiaro che vi sono punti aperti non risolti a cominciare dall’apertura finanziaria e accompagnare alla riforma del federalismo fiscale».

Quella del partito di Bossi non è solo riconoscenza. La Lega con il caso Malpensa o Expo ha perso parte del suo appeal tra le piccole e medie industrie lombarde. Quando Silvio Berlusconi dice che con la Lega non ci sono problemi - «no, quando mai» - in parte ha ragione. Però per la Lega rimanere incatenata a un all’alleanza statica con il Pdl potrebbe portare a una lenta ma significativa erosione dei voti. Cosa che Bossi non vuole. Per il partito di Veltroni una “astensione” leghista alle amministrative potrebbe portare a risultati insperati. D’altronde l’elezione del presidente della Provincia di Milano Filippo Penati, cinque anni fa, avvenne proprio grazie all’astensione leghista. Oggi la storia può ripetersi.


22 gennaio 2009
da unita.it


Titolo: LAMPEDUSA, SINDACO ACCUSA. TENSIONE A COMIZIO DELLA LEGA
Inserito da: Admin - Gennaio 25, 2009, 04:48:53 pm
2009-01-25 14:25

LAMPEDUSA, SINDACO ACCUSA. TENSIONE A COMIZIO DELLA LEGA
 
LAMPEDUSA (AGRIGENTO) - "Dove era ieri la polizia che presidia l'isola? La verità è che sono stati gli agenti a far uscire i migranti dal Cpa. Nessuno, né i cittadini né io abbiamo istigato gli extracomunitari. Si vergognino questi che dovrebbero essere uomini di legge". Così il sindaco di Lampedusa Dino De Rubeis, ha risposto a chi lo accusa di avere istigato l'allontanamento dal Centro permanente di accoglienza di un migliaio di migranti avvenuto ieri. "Berlusconi dice che gli extracomunitari non sono prigionieri e che possono venire in paese a bere una birra - afferma - Maroni sostiene che devono rimanere nel Cpa. Mi pare che nel governo centrale ci sia molta confusione".

De Rubeis ha annunciato che per martedì è stato indetto un nuovo sciopero generale contro la decisione del Viminale di aprire, sulla maggiore delle Pelagie, un centro di identificazione ed espulsione dei migranti. Per protestare contro la nuova struttura la popolazione è scesa in piazza ed ha scioperato già la scorsa settimana. Sempre martedì dovrebbe essere organizzata una manifestazione a cui - ha detto il sindaco - "parteciperanno parlamentari nazionali e il presidente della Regione Sicilia Raffaele Lombardo".

TENSIONE A COMIZIO DELLA MARAVENTANO (LEGA)
Ci sono stati momenti di tensione tra la popolazione durante il comizio della senatrice della Lega Angela Maraventano, ex vicesindaco. La politica è stata duramente contestata dalla popolazione che le ha gridato: "Bastarda, ci hai tradito". Alcuni cittadini hanno cercato di avvicinarsi al palco, improvvisato nella piazza del municipio, dove la senatrice ha cercato di spiegare le ragioni del governo che intende aprire a Lampedusa un centro di identificazione e di espulsione dei migranti. Sono intervenuti i carabinieri per bloccare il gruppo di persone che si stava dirigendo verso la Maraventano, ma a riportare la calma sono stati gli stessi cittadini presenti.

 "Il ministro Maroni mi ha assicurato che entro martedì circa 1.200 migranti, ospiti del Cpa di Lampedusa, saranno trasferiti o rimpatriati e lasceranno l'isola. Il governo ha tutto sotto controllo". Aveva detto in precedenza la Maraventano.
"Il governo - aveva aggiunto - ha pagato alla Libia cinque miliardi di euro per fermare il fenomeno dell'immigrazione clandestina. Ora si tratta di fare rispettare a Gheddafi gli accordi presi".

La senatrice poi aveva preannunciato parte del suo discorso:  "Ai lampedusani dirò e dimostrerò che sono stati portati a sbagliare, che sono stati istigati dal sindaco, che per questo sarà denunciato, e che io non sono una traditrice o una persona venduta".


--------------------------------------------------------------------------------
E' trascorsa tranquilla la notte nel Centro di prima accoglienza (Cpa) di Lampedusa che, nonostante abbia una capienza massima di 850 posti, ospita attualmente 1.300 migranti. Gli oltre 1.000 extracomunitari, che ieri si erano allontanati dalla struttura di accoglienza ed erano scesi in piazza per chiedere il trasferimento in centri di permanenza temporanea di altre Regioni, sono rientrati. Fino a tarda sera gli abitanti dell'isola li hanno rintracciati e 'scortati' al centro.

E da questa mattina due camionette della polizia, ferme a 500 metri dal Centro di accoglienza di Lampedusa, bloccano l'accesso alla strada che porta alla struttura. La misura è stata adottata, per motivi di sicurezza, dopo i fatti di ieri. E' stata anche rafforzata la presenza delle forze dell'ordine sull'isola.

Continua, intanto, la mobilitazione dei cittadini dell'isola che si oppongono all'apertura del centro di identificazione e espulsione voluta dal ministro dell'Interno, Roberto Maroni. La popolazione è sostenuta da tutta l'amministrazione comunale.
 
da ansa.it


Titolo: La Lega Lombardo. Colloquio con Raffaele Lombardo
Inserito da: Admin - Febbraio 05, 2009, 04:55:24 pm
La Lega Lombardo

Colloquio con Raffaele Lombardo

di Roberto Di Caro


Da solo alle europee col suo Mpa. Pugno di ferro con gli alleati per mostrare chi comanda in Sicilia. E battere la 'Congiura dei pistacchi' di Cuffaro e Schifani. I piani del governatore. Colloquio con Raffaele Lombardo  Raffaele LombardoNon è tipo che le manda a dire, Raffaele Lombardo, a sentirlo quando la fidata signora Bonanno gli gira le richieste della mattinata: "Quello non lo voglio, con le schifezze che ha combinato non è il caso venga a rottamarsi da noi... Chi? Ha qualcosa da dirmi o è solo per scodinzolarmi attorno?... Ma sono pazzi o cretini? Siamo in emergenza e dovrei subire il loro ostruzionismo?".
L'ultima battuta è per quanti nella sua maggioranza gli hanno ormai dichiarato guerra aperta: l'Udc dell'ex presidente Totò Cuffaro e la parte del Pdl legata al presidente del Senato Renato Schifani e al senatore di Catania Pino Firrarello. I tre del 'Patto del pistacchio', come l'ha chiamato il viceministro Gianfranco Micciché, Forza Italia ma vicino a Lombardo. A Bronte, patria del pistacchio, i tre si sono visti a ridosso dell'Epifania per studiare come far cadere Lombardo: donde l'altra definizione, la 'Congiura dei senatori', che evoca Giulio Cesare e le idi di marzo.

Presidente, le stanno facendo la forca?
"Ci provano. Ma non ci riescono. Ho la sensazione che presto deporranno le armi".

Ma è la sua maggioranza.
"Pezzi. Gente miope. Gelosa. Tutti aggrappati a Berlusconi. Epigoni. Pochi resteranno in campo, gli altri faranno perdere le loro tracce".

Schifani, in effetti, senza Berlusconi...
"L'ha detto lei. Ha un caratteraccio, come me. Ma in fondo è un uomo per molti versi stimabile".

Intanto però, c'è un progetto di legge...
"Sulla morte del presidente. Degli stupidi immaginano che in caso di sfiducia o impedimento io me ne vada a casa e l'assemblea resti. Non è così: si va tutti a casa! Comunque ancora non l'hanno presentato...".

Porta male, una cosa del genere.
"Sì, ma a loro. C'è un Lombardo che si permette... che vuole adeguare il sistema a una prospettiva di federalismo fiscale e alla realtà della recessione: non è che voglio fare la rivoluzione, ma se non razionalizziamo e non tagliamo le spese, affondiamo. E il vecchio sistema cerca di resistere".

Ma in commissione legislativa, per il voto sulla riforma degli Ato, cioè sullo smaltimento rifiuti, se ne sono andati tutti i consiglieri Udc e Pdl.
"Il presidente, Pdl, è rimasto. E definisce 'una benefica rivoluzione' il testo".

Votato solo dai suoi e dal Pd.
"E che dovevo fare? Assecondare gli ostruzionisti? Rischiare il disastro ambientale? Vado avanti con chi ci sta. Il Pd ha fatto passare alcuni emendamenti che non condivido, ma li modificheremo in aula con il buon senso e la buona volontà".

Scusi, ma lei ce l'ha ancora una maggioranza?
"Molto più ampia di prima! Vede, io sono uno che tende all'unanimità. I riottosi, venuti alla luce i loro interessi maligni, non potranno che piegarsi ai superiori interessi della collettività".

Maggioranze a geometria variabile?
"No, è ciò che accade ogni giorno. A dicembre in commissione è uscita una riforma della pubblica amministrazione che taglia assessorati e indennità. Votata all'unanimità. Il trasversalismo è nella logica autonomista: non c'è nulla di ideologico".

Ma ci sono enormi interessi concreti. Sulla riforma della sanità, che attacca il sistema clientelare Udc, parte della sua maggioranza ha presentato un progetto di legge alternativo a quello dell'assessore, l'ex magistrato Massimo Russo.
"Progetto che è stato cestinato. Mi si accusa di attuare il piano di rientro della spesa sanitaria sottoscritto dal precedente governo regionale: con l'imparzialità di un uomo come Russo, che non si fa tirare la giacca da nessuno, compresi i miei amici".

La Sanità siciliana rischia il commissariamento.
"Sarebbe uno scandalo. Metteremmo le carte in tavola, dichiarando tutto ciò che altri hanno fatto per impedirci di raggiungere i risultati attesi".

Però lei rischia la paralisi amministrativa: anche sul piano energetico sono fermi 900 progetti per circa 4 miliardi di euro.
"Perché è stato passato al setaccio e modificato. Contributi a famiglie e imprese perché ciascuno possa installare sul garage o sul capannone il suo pannello solare o il minieolico, stop ai grandi impianti che devastano il territorio e arricchiscono solo grandi imprese non siciliane".

E come la mettiamo con gli scioperi in Gran Bretagna contro la siciliana Irem?
"Ma quella è xenofobia! Si godono milioni di islamici e scioperano contro un regolare appalto vinto da una nostra impresa! Se non fanno marcia indietro non prenderemo neppure in considerazione l'ipotesi del rigassificatore Erg-Shell a Priolo. E ci muoveremo per cacciare dalla Sicilia tutto ciò che c'è di inglese!".

Ce l'ha con le grandi imprese?
"No, ma finora ci hanno lasciato solo inquinamento e qualche posto di lavoro, sempre meno. Ora questi signori devono compensare il territorio. E, col federalismo fiscale, le tasse le devono pagare qui".

Secondo gli esperti, il federalismo fiscale vi costerà sui 6 miliardi di introiti.
"Mi sono battuto e ho ottenuto che nella legge si parlasse di accise sulla benzina. Sa quanto incassa lo Stato sull'energia qui prodotta e la benzina raffinata? Dodici miliardi di euro. Quei soldi dovranno venire a noi. Avremo sei miliardi in più, non in meno".

Nella legge si dice: 'Per nuove funzioni'.
"E noi ce le accolleremo: le ferrovie, tanto peggio di così non può andare. Sono orientato a prendere anche Siremar e Tirrenia, cedere fino al 49 per cento con gara pubblica a un privato che le gestisca e dividere gli utili. Così per le autostrade".

Il governo Berlusconi continua a sfilarle via fondi già stanziati: per finanziare le misure per lo sviluppo, inclusa la rottamazione dei frigoriferi...
"Per ragioni di pronto cassa. Si è impegnato a ripristinarli. E io mi fido del Cavaliere, ho un presidente del Consiglio amico: finché c'è lui non ci sono problemi. Dopo non garantisco, ma sarà fra trent'anni".

Un colpo basso, la legge elettorale per le europee, con sbarramento al 4 per cento.
Lombardo con alcuni sostenitori
in un mercato di Catania"O un modo per rilanciarmi. Ogni impedimento è giovamento, si dice da noi. Che è un modo per credere nella provvidenza divina: lo scriva, anche se lei non ci crede. Comunque noi andremo da soli".

Lei sta trasformando il suo Mpa in una sorta di Lega meridionale.
"Movimento per le autonomie. Un partito leggero al centro, che difende regole e princìpi etici: solidarietà, sussidiarietà, no a fecondazione eterologa ed eutanasia. Sul territorio democraticamente si organizza e sceglie vertici e candidati. Terremo il congresso a fine marzo. Abbiamo consiglieri e deputati in quasi tutte le regioni del Sud, una sede a Milano, contatti in Veneto con ex seguaci del movimento di Panto, a fine mese sarò a Bologna e Firenze. In Puglia sarebbe un bel colpo la Poli Bortone...".

Il suo sbarco al Nord non piacerà alla Lega.
"Avremo un rapporto di alleanza-competizione. Se dovrò fare a pugni con la Lega piuttosto che con Tremonti lo farò in maniera civile e ragionevole".

Con lei verrà Gianfranco Micciché, si dice.
"Ma no! Una delle persone alle quali Berlusconi è più legato è proprio Micciché. Il loro rapporto è viscerale, inscindibile".

E Salvatore Cintola dall'Udc, Nino Strano da An.
"Cintola rischia l'espulsione dall'Udc perché parla bene del mio governo, ma io non potrei garantirgli il posto di senatore che ora lui occupa. Strano è un fraterno amico, ma legatissimo a Fini e La Russa".

Entrambi diedero vita nel '93 a Sicilia libera: poi venne fuori in un'inchiesta che soldi e supervisione erano di Leoluca Bagarella.
"Strano è un esuberante, di minchiate ne ha fatte tante, ma dopo tanti anni di impegno politico non ha un soldo in tasca. E io ho una predilezione per la gente così...".

(05 febbraio 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: LEGA fuori come i balconi... ma per interesse (ndr)
Inserito da: Admin - Febbraio 11, 2009, 02:11:44 pm
Il Carroccio: il coordinamento ad un super assessore

Gli alleati replicano: progetto inutile e incostituzionale

Polizia regionale e ronde padane in Lombardia lite Lega-Forza Italia

di RODOLFO SALA

 

MILANO - Polizia lombarda alle dipendenze della Regione e ronde di cittadini che dovranno essere formati nella stessa Accademia preposta all'aggiornamento degli agenti. La Lega sente il vento delle elezioni e sulla sicurezza va avanti come un treno. Anche a costo di dichiarare guerra ai suoi alleati. Come succede al Pirellone, dove il Carroccio sfida Formigoni e il Pdl presentando un progetto di legge che istituisce la Polizia regionale alle dipendenze di un super-assessorato - anzi, di un "ministero alla Sicurezza" - che dovrebbe coordinare il lavoro delle polizie locali, che ora dipendono da sindaci e presidenti di Provincia. E a capo di questa direzione centrale i leghisti vogliono che ci sia il governatore, oppure un assessore da lui delegato. Ovviamente il testo prevede anche il riconoscimento formale delle ronde: "Abbiano concordato tutto con il ministro Maroni", assicura il capogruppo Stefano Galli.

Ma il progetto presentato ieri va ben oltre la normativa del 2003, che ha regolamentato le polizie locali e previsto l'istituzione dell'Accademia regionale. E i primi ad accorgersene sono gli alleati. Che sparano a zero. L'assessore alla Protezione civile Stefano Maullu, di Forza Italia, ritiene la proposta non solo "inutile perché il coordinamento tra i diversi corpi è già previsto dalla normativa in vigore", ma anche "incostituzionale dal momento che le polizie locali non possono essere in capo alla Regione".

Più che una voce isolata, un fuoco di sbarramento: tutti i forzisti insistono tra l'altro sui costi eccessivi che il varo del "poliziotto lombardo" comporterebbe, e con il capogruppo Paolo Valentini fanno capire che in consiglio regionale daranno battaglia per bocciare il progetto: "Tutto è migliorabile, ma in questo momento non si sentiva la necessità di riformulare completamente la legge attuale". "Una legge - aggiunge il capogruppo di An Roberto Alboni - che anche altre Regioni vogliono adottare".

E l'Udc (partito che i leghisti vorrebbero espellere dal centrodestra lombardo perché non ha votato in Parlamento il federalismo): "Si avvicina il voto e partono gli slogan, ma la strategia di chi soffia sul fuoco non ha senso). Le opposizioni sono sul piede di guerra e parlano di "propaganda per alimentare la paura". Ma i leghisti non mollano: "Noi andiamo avanti".

E di ronde è tornato a parlare ieri Roberto Maroni ai microfoni di Radio 24, ospite della trasmissione di Giuliano Ferrara. "Ma quale razzismo, i primi a istituirle sono stati i sindaci di sinistra, ma ovviamente se una cosa viene fatta dalla Lega, allora è razzista". E comunque dopo l'approvazione del pacchetto sicurezza che le prevede, le ronde adesso sono una realtà: "Associazioni di cittadini che girano disarmati con il telefonino solo per segnalare situazioni di allarme". E magari, insiste Maroni, fossero state istituite prima: "Forse gli ultimi stupri non sarebbero avvenuti". E sempre a proposito delle ultime misure varate in tema di sicurezza, il ministro invoca la fine delle "strumentalizzazioni": "Non c'è alcun obbligo per i medici italiani di denunciare i clandestini che hanno in cura, solo l'abrogazione di una norma del '98 che li obbligava invece a non denunciare".

(10 febbraio 2009)
da repubblica.it


Titolo: LEGA fuori come i balconi... anche con l'estero che ci vede razzisti (ndr)
Inserito da: Admin - Febbraio 11, 2009, 02:16:07 pm
«Atteggiamento al livello della classe politica che non riesco a spiegarmi»

Il ministro degli Esteri romeno: «Nel governo italiano incitazioni a xenofobia»

Diaconescu: «Atteggiamenti da parte di rappresentanti del governo italiano volti a incitare alla xenofobia»
 
 
BUCAREST (ROMANIA) - E' ancora tensione diplomatica tra Italia e Romania. Il ministro degli Esteri romeno Cristian Diaconescu ha espresso rammarico per quelli che ha definito «alcuni atteggiamenti, soprattutto da parte di alcuni rappresentanti del governo italiano volti, attraverso una retorica molto aggressiva e provocatrice, a incitare alla xenofobia». Alla radio statale «Romania Actualitati», Diaconescu ha sottolineato come «questo non sia un comportamento europeo».

IL PARERE DEL MINISTRO - «In Italia esiste un certo atteggiamento al livello della classe politica, del governo, che non riesco a spiegarmi», ha proseguito il ministro degli Esteri romeno. «Ogni Stato ha il diritto sovrano di sanzionare con la durezza che ritiene necessaria i reati commessi da qualsiasi persona, ma non è giusto lanciare l'anatema contro un'intera comunità », ha detto ancora Diaconescu, definendo «deplorevoli» i reati commessi dai connazionali all'estero. Inoltre ha ricordato che nelle ultime settimane Bucarest ha avuto contatti diretti con Roma per cooperare nei casi di delinquenza ad opera di romeni. Ricordando la prossima apertura di nuovi consolati in Italia e Spagna, Diaconescu ha sottolineato che, all'estero, i romeni devono capire che «la migliore immagine sarà quella creata da loro stessi». «La delinquenza ci nuoce e a dispetto di tutti gli sforzi possibili a livello istituzionale è quasi impossibile equilibrare la situazione», ha concluso.


10 febbraio 2009
da corriere.it


Titolo: «Dal ministro frasi pericolose. La protesta è sacrosanta»
Inserito da: Admin - Marzo 20, 2009, 11:57:45 pm
«Dal ministro frasi pericolose. La protesta è sacrosanta»

di Simone Collini


«Sono affermazioni sconcertanti. Aizzare in questo modo gli animi degli studenti è molto pericoloso».

Achille Serra scuote la testa quando gli vengono riferite le parole di Renato Brunetta, quel «guerriglieri» che il ministro della Pubblica amministrazione ha scagliato contro i ragazzi dell’Onda.

Il senatore del Pd tira fuori un libro che ha pubblicato tre anni fa, quando era prefetto di Roma: “Poliziotto senza pistola”. È come lo avevano ribattezzato i cronisti di Milano, per via della sua propensione per la mediazione. Serra legge la parte dedicata al ‘68, quando da vicecommissario si misurò con la contestazione studentesca. «È colpa dello Stato se in quegli anni difficili si creò un antagonismo forte tra il movimento studentesco e le forze dell’ordine. È colpa dello Stato, che non ha saputo trovare la via del dialogo».


Vede il rischio di un ripetersi della situazione?
«Non si può dire agli studenti che sono dei guerriglieri o, ancora più sconcertante, che non hanno neanche la dignità dei guerriglieri, che sono una cosa seria».

Perché secondo lei il ministro ha fatto simili affermazioni?
«Non saprei, però evidentemente non si è reso conto di che cosa significhi una provocazione dell’ordine pubblico. Aizzare così gli animi degli studenti mi sembra, oltre che superficiale, molto pericoloso».

Condivide l’appello a moderare i termini lanciato ai politici dall’Associazione nazionale funzionari di polizia?
«Pienamente. I funzionari di polizia stanno sulla strada, sanno che con le provocazioni il pericolo di avere delle reazioni scomposte è reale. Lo abbiamo visto nel ‘68, quando lo Stato non seppe trovare la via del dialogo. Che va cercato a tutti i costi e in qualunque modo».

Cosa succedeva allora e che cosa si rischia di far succedere oggi?
«Gli studenti non si rendevano conto che noi poliziotti eravamo dei giovani come loro, e che lanciare una bottiglia molotov a noi non significava tirarla allo Stato. Se si aizzano gli animi a rimetterci sempre sono purtroppo le forze dell’ordine, che si trovano in piazza a dover contrastare la rabbia di questi giovani che si sentono chiamare guerriglieri, e gli studenti stessi».

Il ministro però, pur dopo molte sollecitazioni, non ha fatto dietrofront.
«Io mi auguro che lo faccia, perché per un governo è doveroso ricercare il confronto con i giovani, fino all’esasperazione. In questo caso non c’è stato neanche il minimo tentativo di ricercare un dialogo».

Questo vuol dire che sposa la causa dei contestatori?
«No, non significa questo. Però da tecnico dell’ordine pubblico, più che da politico, non posso non sottolineare il pericolo di certe affermazioni e le conseguenze che possono provocare. Conseguenze che non si vanno poi, se non indirettamente, a riversare sul governo e su chi pronuncia certe parole, ma, ripeto, sulle forze dell’ordine».

Secondo lei la gravità delle affermazioni richiedere un intervento del premier?
«Non credo che Brunetta abbia bisogno di tutele. Il ministro in altre circostanze ha dimostrato di essere molto più prudente, riveda la sua posizione e non definisca più né sbandati né guerriglieri studenti che reclamano una loro autonomia e un loro diritto allo studio. La protesta di questi ragazzi è sacrosanta».
scollini@unita.it


20 marzo 2009
da unita.it


Titolo: Le spine del Cavaliere
Inserito da: Admin - Luglio 29, 2009, 05:04:27 pm
Francesco Scommi ,   28 luglio 2009, 16:48

Le spine del Cavaliere     


Passa il decreto anticrisi alla Camera, ma Berlusconi ha parecchie gatte da pelare con la sua maggioranza. Ammette la necessità di modifiche al Senato per placare la Prestigiacomo che rivuole le deleghe sulla politica energetica, soffoca la protesta leghista sulle missioni all'estero al prezzo di uno smarcamento di Bossi, deve ancora disinnescare la fronda dei parlamentari meridionali

Il dl anticrisi, appena approvato dalla Camera, potrebbe essere modificato in Senato. E' quanto ha anticipato il presidente del Consiglio che, subito dopo il voto sul decreto a Montecitorio, ha risposto con un "penso di sì" alle domande dei cronisti sull'eventualità di introdurre modifiche al provvedimento, anche quelle richieste dal ministro dell'Ambiente Stefania Prestigiacomo che oggi ha ribadito di aver avuto "la parola del premier". La Prestigiacomo punta a riacquistare il potere di controllo sulle scelte di politica energetica che il decreto ha sfilato al suo ministero.

Berlusconi era presente oggi nell'Aula della Camera per il voto sul decreto che ha scatenato le proteste dell'opposizione non solo per il merito del provvedimento ma anche per la scelta del governo di ricorrere al voto di fiducia. Annunciando in Aula il voto favorevole del Pdl (che contiene, tra le altre cose, lo scudo fiscale, la maxisanatoria per colf e badanti, la moratoria dei debiti per le piccole e medie imprese per la quale è però necessario un accordo con le banche), il capogruppo del partito alla Camera Fabrizio Cicchitto ha riassunto i provvedimenti approvati in: "Premi per l'occupazione, ammortizzatori sociali, contenimento dei costi bancari, prime modifiche al sistema pensionistico, regolazione delle badanti, scudo fiscale (che si accompagna a provvedimenti contro i paradisi fiscali), intervento sui tempi di pagamento dello Stato alle imprese, detassazione degli investimenti, attenuazione del Patto di stabilità".

Replicando alle accuse dell'opposizione Cicchitto ha poi dichiarato: "Potrei fare un elenco pillola per pillola di questi provvedimenti: ognuno di essi interviene su un problema economico significativo. Vista la situazione preferiamo le pillole dei farmacisti ai bisturi dei chirurghi e dei dottor Stranamore alla Visco, che possono fare tagli devastanti al corpo di una società insieme complessa e delicata qual è la nostra. Meglio le pillole che questo governo sta dando ad un sistema economico insieme vitale e in difficoltà per un'infezione proveniente dall'esterno, che non l'intervento traumatico messo in atto nemmeno a colpi di bisturi, ma usando la sciabola, come avvenne con la legge finanziaria del 2007".

Affondo del capogruppo alla Camera del Pdl anche contro il candidato alla segreteria del Pd Pierluigi Bersani: "Lei, onorevole Bersani, è sempre prodigo nei confronti dell'attuale governo di battute sarcastiche, certamente degne della migliore tradizione parlamentare, e poiché lei è stato anche uno dei ministri, fra i più importanti, del precedente governo, le devo dire che non abbiamo ancora capito se Prodi è caduto per non aver seguito i lungimiranti consigli che lei gli dava, oppure se è venuto meno proprio per aver seguito alla lettera i suoi suggerimenti" ha ironizzato.

Compatto in Aula il fronte Pdl - Lega Nord. I deputati del Carroccio hanno votato sì al decreto anticrisi e il capogruppo alla Camera Roberto Cota ha definito quella del governo "la politica con la 'p' maiuscola che cerca di dare delle risposte concrete a delle esigenze reali, che emergono nella vita di tutti i giorni, mentre invece la politica con la 'p' minuscola si parla addosso e non entra mai nel merito delle cose. Oppure dice tutto e il contrario di tutto, a seconda della convenienza" ha detto Cota precisando che "il governo ha il consenso della gente se governa bene. E noi in questo momento abbiamo il consenso della gente". Il deputato leghista ha anche accusato il Pd di usare "il Parlamento in funzione del vostro congresso, che dovrete celebrare a ottobre. Giorno dopo giorno, state utilizzando le istituzioni - ha detto Cota -. E allora, noi ci auguriamo che questo congresso avvenga al più presto, perché non è interesse di alcuno avere una opposizione che non entra nel merito delle cose. Il nostro interesse, come maggioranza, sarebbe invece quello di avere un'interlocuzione reale sui provvedimenti e proposte alternative" ha detto.

Il premier, tuttavia, deve fare i conti con il dissenso, nei confronti del decreto, del Movimento per l'autonomia di Raffaele Lombardo che non ha partecipato al voto. La protesta dei lombardiani (denunciano la scarsa attenzione del decreto per il Mezzogiorno) fa il paio con una certa fibrillazione che attraversa la componente meridionale del Pdl, a cui si è messo a capo il siciliano Gianfranco Micciché. Il sottosegretario ex Forza Italia punta a recuperare fondi per il Sud e a rafforzare il ruolo dei parlamentari del Mezzogiorno e, all'interno del governo, della conterranea Prestigiacomo. Berlusconi, per tentare di placare la rivolta, ha in cantiere un "piano per il sud" da presentare entro la fine del mese.

Sembra essere rientrato invece, sebbene al prezzo di una spericolata acrobazia diplomatica, l'ammutinamento della Lega nord sulle missioni all'estero. Prima il leader del Carroccio Umberto Bossi, poi il ministro Roberto Calderoli, avevano nei giorni scorsi ostentato scetticismo sull'opportunità politica di proseguire la missione militare in Afghanistan. Calderoni aveva ventilato il ritiro anche dal Libano e dai Balcani. Bossi oggi ha fatto marcia indietro, non rinunciando tuttavia a rimarcare la propria posizione critica: "Mi sembra che portare le donne al voto in Afghanistan sia un'illusione che costa moltissimo. Poi dopo io farò quello che dice la maggioranza". E quello che dice la maggioranza Berlusconi lo ha sintetizzato così: "Non si cambia linea".

da aprileonline.info


Titolo: Chiesa-Lega la posta è il territorio
Inserito da: Admin - Agosto 28, 2009, 11:28:45 am
28/8/2009


Chiesa-Lega la posta è il territorio
   
FRANCO GARELLI


L’aspro dibattito pubblico seguito alla tragedia in mare degli immigrati eritrei indica che siamo forse a un punto di svolta dei rapporti della Chiesa con la Lega Nord, che su questi temi può coinvolgere anche l’esecutivo di cui essa fa parte o di cui sembra essere la padrona. Da entrambe le parti sono volate parole grosse, che hanno portato il Vaticano e la Cei a dire che nel Mediterraneo si sta consumando una nuova Shoah.

Che l’Occidente finge di non vedere; e con lo stato maggiore leghista che ha reagito a muso duro, accusando i Vescovi di dire «parole senza senso», di «inventarsi nuovi comandamenti», di lanciare messaggi che alimentano i viaggi in mare dei clandestini che poi finiscono in tragedie. Dalla Padania è persino giunta la minaccia di rivedere il Concordato, anche se Bossi a questo punto ha smorzato la polemica, ricordando che «la Chiesa fa il suo mestiere, noi il nostro». Ma al di là dei toni più o meno forti, è del tutto evidente che quella che si sta concludendo è una delle settimane di maggior passione e scontro tra la Lega Nord e la Chiesa, per la distanza che ormai separa - in tema di politiche migratorie e sociali - i due mondi.

Oggetto della contesa, dunque, non è la politica globale del governo in carica, che su vari aspetti valorizza la presenza della Chiesa nel paese; ma uno dei suoi punti qualificanti, rappresentato da quell’insistenza sui temi dell’ordine e della sicurezza che - a detta dei vescovi - produce la chiusura del Paese verso gli immigrati e alimenta l’indifferenza verso quanti cercano di emigrare per sfuggire alla fame, alla guerra, a condizioni disumane. La Chiesa non intende disgiungere legalità e solidarietà, ma richiama il governo e la nazione a non vivere solo di ordine pubblico e di respingimenti; così come vorrebbe che le forze politiche che si richiamano all’identità cattolica accettassero le indicazioni della sua dottrina sociale Il nuovo braccio di ferro tra Lega e Chiesa indica almeno tre cose.

Anzitutto che l’unica voce critica sui temi sociali e dell’immigrazione che preoccupa la Lega Nord è quella della Chiesa cattolica, nonostante che nel Paese vi siano molte altre forze sociali, politiche e religiose che da tempo protestano contro le scelte del governo e dei leghisti in questo campo. Proprio perché la considera come la spina nel fianco più ostica per attuare il suo no ad un’Italia multietnica, il Carroccio riconosce alla Chiesa una capacità di mobilitazione pubblica sui temi sociali ben superiore a quella su cui possono contare gli stessi partiti dell’opposizione. A più riprese la Lega si è contrapposta agli appelli del card. Tettamanzi, che auspicava la nascita a Milano di nuove moschee e un rapporto più sereno con l’islam; mentre ha sempre reagito con fastidio alle forti proteste della Cei per l’introduzione del reato di immigrazione clandestina nel pacchetto sicurezza varato dal governo.

In secondo luogo emerge che la Lega Nord ritiene di avere una posizione così forte nel Paese e nell’arena politica da usare con i vescovi toni pesanti, persino ricattatori. Per parare la critica di essere l’anima di una politica migratoria senz’anima, Bossi sfida paradossalmente il Vaticano ad aprire le sue porte ai clandestini, ricordando che proprio la città del Papa è quella che ha le mura più spesse e gli accessi più riservati; in ciò dimenticando tutti i gruppi religiosi e le parrocchie che operano sul territorio per far fronte alle varie emergenze sociali, tra cui quelle dei nuovi flussi migratori.

Infine occorre notare che al centro della contesa tra i vescovi e la Lega Nord vi è la competizione tra due diverse visioni della realtà che passano anche attraverso la questione migratoria. I vescovi italiani, soprattutto quelli del Nord Italia, sono ben consapevoli di quanto la Lega sia radicata sul territorio e della sua capacità di interpretare il sentire di quelle popolazioni. Vent’anni fa i vescovi e i preti della Lombardia e del Veneto, hanno del tutto sottostimato la capacità di penetrazione delle idee leghiste su territori che erano politicamente bianchi, ritenendo che la Dc e i gruppi ecclesiali fossero in grado di interpretare il sentire comune. Oggi Lega e Chiesa invece si contendono il territorio, le domande della gente, la capacità di rappresentare il mondo locale. I preti e i vescovi di alcune aree del Nord sanno che se nelle omelie insistono troppo sui temi della solidarietà verso gli immigrati la gente comincia a rumoreggiare in chiesa; ma sono anche consapevoli che se non tengono alto il loro messaggio sociale e religioso disperdono il senso stesso della proposta cristiana.

La tregua tra Lega Nord e Chiesa sembra dunque sul punto di rompersi. La prima, pur caratterizzandosi perlopiù per un’anima laica, ha da tempo adottato la religione cattolica come una sacra volta per difendere i valori della tradizione contro la presenza multietnica, dell’islam in particolare. Dal canto suo, la Chiesa anche grazie all’ossequio leghista al cattolicesimo ha visto maggiormente riconosciuto il suo ruolo nel paese, certificato dai provvedimenti a suo favore varati dalla maggioranza di governo. Si tratta di un equilibrio destinato a infrangersi se i leghisti chiedono alla Chiesa di occuparsi soltanto delle questioni di sacrestia (lasciando a loro libertà di azione sui temi emergenti) e se la Chiesa non intende rinunciare a giocare in senso forte la sua anima più solidale.

da lastampa.it


Titolo: Il mondo li guarda e la LEGA "tenta" il Vaticano...
Inserito da: Admin - Settembre 05, 2009, 10:27:53 pm
Sui media esteri le dimissioni del direttore di Avvenire e il conflitto con la Cei

Le Monde: "Le scappatelle imbarazzano la Chiesa".

Feltri al Nyt: "Mi fate domande ingiuriose"

El Pais: "Berlusconi pericolo pubblico"

Wsj: "Crepa tra Vaticano e premier"


di ENRICO FRANCESCHINI e ANAIS GINORI

LONDRA - Per il quotidiano spagnolo El Pais è "un pericolo pubblico". Il New York Times scrive che, per attaccare chi lo critica, sta "ignorando il proprio paese, messo duramente alle corde dalla crisi finanziaria". Il Wall Street Journal parla di "tensioni sempre più profonde" con il Vaticano. E le dimissioni del direttore dell'Avvenire occupano ampio spazio sulle principali testate della stampa internazionale, in particolare nei paesi cattolici o in regioni, come a New York e Boston negli Stati Uniti, dove la presenza cattolica è particolarmente forte.

In Spagna, per esempio, El Pais, uno dei giornali contro cui il premier ha minacciato azione legale (per la pubblicazione delle foto dei party con donne in topless nelle sua villa in Sardegna), dedica un articolo agli ultimi sviluppi del caso, intitolato "Berlusconi costringe alle dimissioni il direttore del giornale dei vescovi italiani", facendo la sua "prima vittima", e in un editoriale parte, ricostruendo i punti essenziali della vicenda, il giornale afferma senza mezzi termini: "Quest'uomo, è, come ha detto sua moglie Veronica, 'ridicolo', però è anche un pericolo pubblico".

La medesima tesi, cioè che Dino Boffo, dimettendosi dall'Avvenire per le polemiche scatenate dalle accuse di omosessualità contenute in un articolo del Giornale di Vittorio Feltri, di proprietà del fratello di Berlusconi, sia diventato "una vittima" del primo ministro, ossia che l'operazione abbia come mandante ultimo il presidente del Consiglio, è condivisa da altri organi di stampa stranieri, come il New York Times, che mette oggi in prima pagina le dimissioni di Boffo e anche nell'edizione internazionale (l'International Herald Tribune) fa un titolo a quattro colonne: "Giornale cattolico perde un round nelle guerre del sesso in Italia". L'autorevole quotidiano newyorchese sottolinea che il Giornale, "considerato il portavoce della coalizione di centro destra", ha pubblicato un "audace" editoriale che ha preso in giro l'accento "mitteleuropeo" di papa Benedetto XVI, "che è tedesco", e ha esortato la Chiesa cattolica a confrontare la sua "ipocrisia" sulla sessualità di preti dalla "debole carne" così come la sua storia di "sodomia e pedofilia con chierichetti", per poi passare agli attacchi personali contro Boffo.

Il messaggio degli attacchi al direttore dell'Avvenire, prosegue l'articolo, "è chiaro: che un giornale cattolico dovrebbe stare attento a non criticare la vita personale del primo ministro". La corrispondente Rachel Donadio sente anche il parere di Feltri, che afferma di avere pubblicato le notizie sui problemi giudiziari di Boffo "per interessare l'opinione pubblica e per vendere copie", dichiarando di non avere discusso la cosa con Berlusconi: "E' una domanda che trovo irrilevante se non ingiuriosa", dice il direttore del Giornale. Conclude il quotidiano di New York: "Critici e alleati di Berlusconi dicono che egli sta avventurandosi in acque pericolose con la Chiesa e fomentando un ambiente in cui tutte le critiche sono viste come atti di slealtà".

Il titolo del Wall Street Journal è "un direttore dà le dimissioni dopo un conflitto con Berlusconi", e l'articolo afferma che Boffo, "influente direttore di un quotidiano cattolico che aveva criticato la vita privata del primo ministro" italiano, è diventato "vittima di una guerra di giornali che ha aperto una crepa tra il Vaticano e il premier". Le dimissioni, prevede il quotidiano finanziario americano, "aumenteranno probabilmente le tensioni tra il Vaticano e Berlusconi". Parole analoghe usa il quotidiano spagnolo La Vanguardia: "Costretto a dimettersi dopo aver criticato lo stile di vita di Berlusconi, il direttore del giornale dei vescovi è vittima di una campagna di discredito". La notizia ha fatto il giro del mondo: ne parlano l'Irish Examiner in Irlanda, il Toronto Star in Canada, il Clarin in Argentina, il Guardian in Gran Bretagna, la Suddeutsche Zeitung e altri giornali in Germania. Altri due quotidiani britannici, il Telegraph e l'Independent, rivolgono invece l'attenzione alla proiezione del documentario "Videocracy" alla Mostra del Cinema di Venezia: il Telegraph riporta le accuse a Berlusconi di "censura" della pellicola, l'Independent la descrive come un ritratto "del volto comico ma sinistro dell'Italia" berlusconiana. Sempre l'Independent, in un secondo articolo, riferisce le dimissioni di Boffo, affermando che sono la prova che a questo punto "sono stati tolti i guantoni" nel confronto tra il Vaticano e il primo ministro italiano.

Sulla vicenda, lo spagnolo Periodico de Catalunya interviene con un'intervista a Concita De Gregorio, direttrice dell'Unità, che dice: "Boffo è il primo della lista". L'intervistatore le chiede se ha paura, e lei replica: "No, non ho paura. Ma Berlusconi ha scelto Feltri per dirigere il giornale della sua famiglia per attaccare tutta la stampa indipendente".

Il francese Le Monde pubblica oggi un pezzo dal titolo "Le scappatelle di Berlusconi imbarazzano la Chiesa e il Vaticano". Le dimissioni di Boffo vengono considerate una "prima vittoria del clan di Berlusconi nel conflitto in corso", scrive il quotidiano francese che ha intervistato anche il vaticanista di Repubblica Marco Politi. "Una parte della Chiesa non nasconde più il suo imbarazzo", continua il giornale che nota come la "moralità" del Cavaliere non sia l'unico punto di scontro. Anche la politica del governo sull'immigrazione, con la creazione del reato di clandestinità, ha provocato l'ira delle gerarchie ecclesiastiche.

(4 settembre 2009)
da repubblica.it