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Autore Discussione: Marco DAMILANO -  (Letto 65440 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Agosto 27, 2009, 11:39:15 pm »

Pd, servono nuovi compagni di strada

di Marco Damilano


Il Partito democratico riconosca gli errori fatti e si apra ad altre forze. Franceschini troppo legato all?illusione bipartitista. Meglio Bersani. Parla il presidente del Trentino Lorenzo Dellai
 
Il Principe medita di scendere a valle: smettere di frequentare solo le montagne e le malghe dell'adorato Trentino e cominciare a proporsi fuori dai confini regionali. Per il centrosinistra potrebbe essere un'ottima notizia: l'ex democristiano Lorenzo Dellai, cinquant'anni da compiere a novembre, sindaco di Trento già nel 1990, il più giovane d'Italia, poi presidente della provincia autonoma trentina ininterrottamente dal 1998, è l'artefice di memorabili batoste elettorali ai danni del Pdl e della Lega, anche trenta punti di distacco. L'unico governatore del centrosinistra a uscire vittorioso in tutte le competizioni contro la coalizione berlusconiana nella landa nemica del Nord Est, con un suo partito, l'Unione per il Trentino, strettamente alleato con il Pd e con l'Udc.

Da qualche mese il padre del modello Trentino ("macché modello, siamo un piccolo territorio", sorride) gira l'Italia, tiene i contatti con i politici nazionali a lui affini, con il sogno di costruire quello che manca per tornare a vincere nella penisola: il partito del Centro riformista alleato stabilmente con la sinistra. «Il Pd ha fatto l'errore di cedere alle lusinghe berlusconiane del bipartitismo e ha perso. Ora dobbiamo mettere in campo una Grande Alleanza democratica con le forze che non si ritrovano nel Pd, a partire dalle formazioni territoriali. Il centrosinistra deve smettere di assistere nella marginalità al gioco degli altri. Al Nord rischiamo che il bipartitismo ci sia, quello tra Pdl e Lega, però".

Lei non ha aderito al Pd, ma segue il congresso da esterno. Cosa vede da spettatore?
"Sono molto interessato. Mi chiedo solo come sia stato possibile pensare di fare un congresso così lungo, mesi di discussioni, primarie, assemblee, quando siamo alla vigilia di uno scontro cruciale come le elezioni regionali.
Il rischio è che alla fine del congresso il Pd si trovi in una situazione ancora più difficile del punto di partenza. Con la destra che non è in crisi, anzi, si sta rafforzando".

Lei dalla tribuna per chi fa il tifo? Per Dario Franceschini, che è un ex dc di sinistra e cita don Lorenzo Milani come lei, per Pierluigi Bersani o per Ignazio Marino?
"Non parteggio. Dico però che Dario come segretario uscente deve difendere l'esperienza del Pd sviluppata fin qui e rimarcarne il valore. Mi sembra più legato alla precedente illusione bipartitista che vede come un pericolo tutto ciò che è fuori dal Pd. Io penso invece che non discutere sugli sbagli fin qui compiuti sarebbe un errore. Chi ha sviluppato una riflessione più profonda e aggiornata sui limiti del Pd è Bersani. Nella sua candidatura ha messo a tema l'esigenza di un rapporto con le rappresentanze politiche che non sono nel Pd ma possono essere compagni di strada. Anch'io penso che si debba ripartire di qui: per tornare a vincere il centrosinistra deve darsi un'articolazione molto diversa".

Quali sono stati gli errori del Pd?
"La fase di costruzione del Pd è stata molto mediatica e centralista, oggettivamente guidata da una logica tutta romana. Una logica che ha creato un rapporto non positivo con i territori che si sono sentiti mortificati. In più, pretendere di concentrare in un unico partito la ricchezza delle culture e delle tradizioni ha messo a rischio l'esistenza di filoni molto importanti nella storia italiana".

Si riferisce alla cultura cattolica? Il Pd ha digerito quel che restava della Dc?
"Non solo. Vedo in grande difficoltà anche la sinistra. Qui al Nord ambienti tradizionalmente di sinistra come il mondo delle fabbriche oggi si riconoscono nella Lega. Tutto questo ci dice che il progetto del Pd non poteva bastare per vincere e non serve più da solo per tornare a battere il centrodestra. C'è bisogno di dare voce a una parte fondamentale dell'elettorato che non si riconosce in quell'operazione: forze territoriali, culture politiche diverse. Dobbiamo mettere in campo una Grande Alleanza democratica con le forze che non si ritrovano nel Pd, in primo luogo i partiti territoriali. Finché non lo faremo il Pd giocherà a fare il miglior perdente, non a essere il partner di una coalizione vincente. Bisogna che gli amici del Pd si rendano conto che questo discorso è utile, non pericoloso".

Quando si sente parlare di nuove alleanze il pensiero corre subito all'Udc. Lei vorrebbe fare il pontiere tra Pier Ferdinando Casini e il Pd, come ha fatto in Trentino?
"A me piacerebbe creare un'area politica che superi l'Udc e che ancora non esiste: il centro riformista, il popolarismo senza tentazioni confessionali, il recupero dell'idea degasperiana del centro che guarda a sinistra". Lei cita il padre nobile De Gasperi, ma l'Udc sembra ispirarsi ad Andreotti, la politica dei due forni. Trattare con Pdl e Pd e vedere chi offre di più... "L'Udc legittimamente non ha ancora deciso che fare. Di certo non è disponibile a un'alleanza con il Pd, almeno per ora. Ne capisco le ragioni, i processi politici di cui parlo sono lunghi, bisogna costruirli con pazienza. I nuovi partiti non si fanno dal predellino. Anni di politica mediatizzata ci hanno abituato al contrario, ma io la penso così".

Chi sono i compagni di strada di questa nuova iniziativa? Francesco Rutelli?
"Leggo con interesse le sue dichiarazioni e mi sembra che vadano nella direzione giusta. Ma Rutelli è un dirigente importante del Pd, non si può chiedergli di abbandonare la sua postazione. Non si tratta tanto di scomporre quello che c'è quanto di fare quello che ancora non c'è. Non dobbiamo mettere insieme gli spezzoni delle vecchie nomenklature. Alla politica servono gli apporti che vengono dal territorio e le grandi tradizioni che devono innovarsi, cambiare linguaggio, ma che non possono essere azzerate se si vuole evitare che la politica sia pura amministrazione e gestione del potere".

Dalle elezioni europee di giugno in poi Berlusconi appare indebolito, eppure lei dice che la destra negli ultimi mesi si è rafforzata...
"Berlusconi si è indebolito, ma il berlusconismo è ormai un dato culturale, l'eventuale uscita di scena del presidente del Consiglio non porta automaticamente a niente se non c'è un'alternativa. Qui al Nord negli ultimi anni c'è stato uno tsunami, un cambiamento radicale della società in tutti i settori. La destra ha saputo interpretarlo, il centrosinistra ha fatto molta fatica con la sua logica centralista. In Trentino siamo stati in grado di vincere perché abbiamo offerto un'architettura politica che seguiva le richieste del territorio e non quelle nazionali. È da qui che si deve ripartire. Altrimenti, c'è qualcosa che non quadra: come mai con la crisi economica, gli scandali personali del premier, la contrapposizione tra la Lega e il Pdl il berlusconismo continua a intercettare il consenso? Forse, dico io, è sbagliato lo schema di gioco con cui lo stiamo affrontando. Allora proviamo a cambiarlo, per mettere in campo una reale alternativa ".

Esiste davvero la competition tra Pdl e Lega? O tutto finirà con la spartizione ad Arcore di qualche presidenza di regione?
"Potrebbe rivelarsi una spaccatura reale se il centrosinistra giocasse con più fantasia e coraggio, intervenendo nelle contraddizioni. Apprezzo l'iniziativa di Piero Fassino che in Veneto cerca di proporre uno schema nuovo". Corteggiare il suo amico, il governatore forzista Giancarlo Galan, e convincerlo a mollare la Lega? Non sembra uno schema nuovo. E neppure una mossa destinata al successo... "Non importa. Il punto è riprendere l'iniziativa politica. In Lombardia e in Veneto è possibile immaginare iniziative anomale senza pensare di capovolgere le situazioni in pochi mesi ma tentare almeno di esserci. Il centrosinistra deve smettere di assistere nella marginalità al gioco degli altri. Altrimenti, al Nord rischieremo che il bipartitismo ci sia: quello tra Pdl e Lega, però..."

(27 agosto 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #31 inserito:: Settembre 03, 2009, 10:24:27 pm »

Il diavolo in corpo

di Marco Damilano


Lo scontro con la Chiesa. Gli attacchi all'Europa. Il tentativo di bavaglio all'informazione. Il premier lancia la sua campagna di settembre. Ecco i suoi obiettivi
 
Mi raccomando, scrivetelo che io queste cose le dico sempre con il sorriso... Certo, Cavaliere, si figuri, come no. Con un bel sorriso, la sera del primo settembre, data anniversario dell'invasione nazista della Polonia e dell'inizio della Seconda guerra mondiale, Silvio Berlusconi in visita a Danzica, la città polacca da cui partì tutto, prova ad affossare alcune istituzioni uscite dalla vittoria delle democrazie nel conflitto più sanguinoso della storia.

L'Unione europea, per esempio. "Bloccheremo con il veto il funzionamento della Commissione Ue", minaccia il premier scatenando le reazioni di Bruxelles, alla vigilia del rinnovo del mandato da presidente del portoghese Josè Manuel Barroso. Berlusconi è infuriato per le dichiarazioni del portavoce Ue Johannes Leitenberger sulla libertà di espressione come "garanzia fondamentale dell'Europa". Dovrebbe essere la scoperta dell'acqua calda, e invece nel reame di Berlusconia isolato dal resto della comunità internazionale no, non si può dire, è una verità scomoda. Anche perché, sempre con il sorriso, nella stessa esternazione, l'uomo che guida il governo italiano attacca sul piano personale Carlo De Benedetti ("Un editore svizzero"), il direttore di "Repubblica" Ezio Mauro ("Evasore fiscale") e l'intera stampa internazionale, presa in blocco, come un unico soggetto ostile. Finito? Macché, sempre con il sorriso, il Cavaliere lancia l'avvertimento finale alle gerarchie ecclesiastiche, già stressate da una settimana difficile.

La legge sul testamento biologico, quella per cui Berlusconi appena sette mesi fa sfidò il Quirinale, provocò una crisi istituzionale e mobilitò il gruppo del Pdl al Senato chiamato a votare in poche ore il decreto salva-Eluana, poi approvata a Palazzo Madama, potrebbe tornare in discussione: "Ne parleremo alla Camera, io garantirò la libertà di coscienza dei deputati Pdl". Sciogliete le righe, altro sorriso berlusconiano, anche la Chiesa è servita. La dichiarazione di guerra di Danzica è conclusa. È la nuova strategia del premier, partorita nelle settimane estive con l'inner circle, dove sale sempre di più la stella di Niccolò Ghedini e tramonta malinconicamente l'influenza di Gianni Letta, l'ambasciatore dei tempi di pace esautorato in questa stagione di guerra sporca, senza quartiere. La strategia della tensione inaugurata al rientro delle vacanze venerdì 28 agosto. Quel giorno da Palazzo Chigi partono le querele contro il gruppo Espresso e i giornali internazionali che hanno ripreso le dieci domande sulle frequentazioni pericolose del premier, famose ormai in mezza Europa, ma mai riprese da un tg nazionale.

E sulla prima pagina del "Giornale", di nuovo affidato alle sottili cure di Vittorio Feltri, campeggia il titolo: "Il supermoralista condannato per molestie". Sottotitolo: "Dino Boffo, alla guida del giornale dei vescovi italiani e impegnato nell'accesa campagna contro i peccati del premier, intimidiva la moglie dell'uomo con cui aveva una relazione". Il caso Boffo serve a spiegare meglio di ogni altra cosa l'escalation del neo-berlusconismo, al cui confronto il "non faremo prigionieri" di Cesare Previti era un mazzo di rose. Chi è Dino Boffo, infatti? Molto più di un semplice direttore di "Avvenire". Da 15 anni è uno dei personaggi più influenti e potenti della Chiesa e, dunque, della nomenclatura italiana. L'uomo di fiducia del cardinale Camillo Ruini. La guida di un impero multimediale che raccoglie il quotidiano dei vescovi, la televisione satellitare Sat2000, il circuito radiofonico più i grandi eventi comunicativi, tutto centralizzato nella persona di Boffo. Il front runner delle grandi campagne della Cei ruiniana, dall'astensione sui referendum sulla fecondazione assistita nel 2005 al Family Day contro la legge sulle coppie di fatto proposta dal governo Prodi e dalla cattolicissima Rosy Bindi. Cosa pensi Boffo del Cavaliere, dell'anomalia berlusconiana e del conflitto di interessi, il direttore di "Avvenire" lo chiarisce una volta per tutte il 18 aprile 2006 parlando ex cathedra dal suo pulpito preferito, il forum con i lettori nella pagina delle lettere. "Sarà dura rimediare ai guasti che il gruppo di potere di Berlusconi ha recato alle istituzioni: la vergogna delle leggi ad personam, lo stravolgimento dei principi costituzionali", scrive il lettore Ranieri Marchi. "Mi preoccupa anche la corsa farisaica a dichiararsi figli devoti della Chiesa". Boffo, però, non ci sta. E replica in malo modo: "Il suo è un anti-berlusconismo istintivo, totale, fazioso". Quanto al rapporto con la Chiesa, Boffo non ha dubbi: "Il fenomeno della secolarizzazione in Italia era partito assai prima che Berlusconi invadesse l'etere con le sue tv. Abbiamo dimenticato la vicenda del divorzio e dell'aborto? Si ricorda quel ragionamento sibillino e falsamente democratico che dilagò anche in casa nostra, nel mondo cattolico, secondo cui si diceva: "Io non divorzierò mai, ma perché devo togliere questa possibilità ad altri?". Provi a pensare, amico caro, se l'inizio della crisi non fu piuttosto quello. Poi, certo, altro venne e fu la combustione generale".

Insomma, per Boffo in Italia c'è stata una sola, vera anomalia: il dialogo tra i cattolici e la sinistra. Un rapporto contro-natura, questo sì. In coerenza con questo dogma, per anni il fedelissimo di Ruini conduce "Avvenire" contro i cattolici democratici alla Prodi o alla Scoppola, l'Ulivo, i governi del centro-sinistra. E lancia nuove carriere politiche: nel centrodestra, in Forza Italia. Alla vigilia delle elezioni politiche 2006 dove sono in competizione Berlusconi e Prodi, per esempio, affida l'editoriale di orientamento al voto per i lettori alla laica Eugenia Roccella: "Il nostro problema, oggi, è non far scomparire la famiglia, la sacralità della vita, la dignità della persona. Ma per fare questo dobbiamo schierarci". Inutile dire da che parte: la Roccella, infatti, sarà scelta dalla Cei come portavoce del Family Day nel 2007 e da lì prenderà il volo. Oggi è deputata del Pdl e sottosegretaria al Welfare nel governo Berlusconi. Grazie a Boffo.

Un bel testacoda, dunque, che a finire nel mirino del "Giornale" sia finito proprio il nemico dei cattolici adulti, e per colpa di due interventi in quella rubrica dove per anni il direttore ha impartito vibranti lezioni agli anti-berlusconiani. Sono bastate due risposte ai lettori in rivolta per i silenzi della Chiesa sugli scandali sessuali di Berlusconi, il 24 e il 28 luglio, parole misurate e prudenti come sempre ("Uno scenario di potenziale desolazione"), ma per una volta esplicite, in difesa dei vescovi che nei giorni precedenti avevano condannato il premier. Pioveva, piovevano soprattutto nella redazione di "Avvenire" le lettere di parroci indignati per i comportamenti del premier e i silenzi della Chiesa, Boffo si è limitato ad aprire l'ombrello, ma per i falchi berlusconiani avrebbe dovuto giurare che c'era il sole, in molti d'altra parte in questo tempo sono disposti a farlo. Tanto è bastato nell'era del Berlusconi furioso per inserire Boffo nella lista dei cattivi. Il moralista, il cattocomunista da dileggiare sulla gazzetta della famiglia Berlusconi, da sbattere in prima pagina come omosessuale "attenzionato dalla Polizia" e"bugiardo". Una strategia della tensione e dell'intimidazione che non risparmia neppure gli ex amici. E che, in questo caso, è arrivata a sfiorare il soglio più alto, la figura del papa trascinata nella polemica per via di una telefonata al presidente della Cei cardinale Angelo Bagnasco. Per la Chiesa, nelle sue varie anime in contrasto tra loro, gli ultimi giorni rappresentano la fine di un'illusione a lungo coltivata negli ambienti ruiniani. "Per anni abbiamo pensato che la sinistra fosse ideologica, inaccessibile ai nostri messaggi. E che invece il centrodestra, la creatura berlusconiana, fosse una parete bianca, vuota, in cui ognuno poteva scrivere quello che voleva", spiega un monsignore. La speranza che nel vuoto di idee del Pdl fosse più facile per i vertici della Chiesa infilare progetti, risorse, classe dirigente. L'ultima settimana rappresenta un brusco risveglio. In pochi giorni la Lega ha invitato il Vaticano a prendersi gli immigrati in casa, il presidente della Camera Gianfranco Fini ha intimato ai vescovi a restare fuori dal dibattito sul testamento biologico. E Berlusconi, il nuovo uomo della Provvidenza benedetto dalla cordata Ruini, minaccia di rimettere in discussione il pacco di doni legislativi promesso alla segreteria di Stato vaticana.

Un assedio che costringe gli uomini del cardinale Tarcisio Bertone, numero due del Vaticano, filo-governativi, e l'ala dura della Cei, incarnata dai siciliani Mariano Crociata e Domenico Mogavero, a mettere da parte le rivalità esplose fragorosamente sui giornali e a fare quadrato. Per un'istituzione come la Chiesa, abituata a ragionare in millenni e non in anni, il dopo-Berlusconi è già un tema di attualità. Né è possibile farsi mettere sotto ricatto dal Cavaliere che consente la pubblicazione di informative per seminare la zizzania tra i pastori di Cristo, i pescatori di uomini chiamati ora a muoversi nel porto limaccioso dei dossier, e agita sondaggi sfavorevoli al Vaticano e favorevoli a lui. A dimostrazione che per il Berlusconi furioso non esistono contropoteri. Non lo possono essere i vescovi. Non può esserlo l'Europa, bollata come l'istituzione dei portavoce, un fantasma inesistente. Deve essere impedito che lo diventi la stampa che non è direttamente o indirettamente controllata. E tantomeno può sperare di arginare la strategia chi nell'entourage berlusconiano ha sempre consigliato cautela e rispetto per le istituzioni: Gianni Letta mai come ora in difficoltà. Berlusconi va alla guerra totale, contro il Vaticano, contro l'Europa, contro tutti. Sarà ricordata a lungo la dichiarazione di Danzica. E chissà se, alla fine, al Cavaliere resterà incollato il bel sorriso di quel giorno, il primo settembre.

(03 settembre 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #32 inserito:: Settembre 04, 2009, 07:52:39 pm »

Le primarie? Potrei anche non votare

di Marco Damilano


Quello in corso è tutto tranne un congresso. Il Pd non affronta i problemi reali. I tre candidati non mi convincono. L'amaro sfogo del fondatore dell'Ulivo. Colloquio con Arturo Parisi. In edicola da venerdì
 
La mia generazione ha perso. Non è più solo Giorgio Gaber a dirlo, lo ripete Arturo Parisi, l'inventore dell'Ulivo, l'amico di Romano Prodi, uno dei fondatori del Pd, l'unico ancora non schierato nello scontro congressuale. "Siamo alla fine di un ciclo cominciato nell'89. Preferisco dire che abbiamo perso piuttosto che fare finta di avere vinto", scandisce l'ex ministro della Difesa. Che annuncia: "Per ora non ci siamo. Alle primarie potrei decidere di non votare per nessuno".

Che cosa non le piace del dibattito nel Pd?
"Quale dibattito? Questo tutto è tranne quello che dovrebbe essere un congresso. Le primarie saranno un voto senza discussione. La rappresentazione del dibattito è interamente affidata ai media, dopo tanto parlare di partito forte. E dire che doveva essere il vero congresso fondativo".

Ha capito su cosa si dividono i candidati?
"Rispetto ai problemi che abbiamo di fronte il ritardo è cresciuto troppo. Se non riconosciamo che non abbiamo perso una battaglia ma una guerra non parliamo di nulla. Col Pd pensavamo di aver dato una risposta alla domanda di bipolarismo e di una alternativa di governo. Pretendevamo di farci passare per un partito nuovo, rispetto ai partiti e allo stesso Ulivo, e attrarre consensi nuovi. Dove abbiamo sbagliato?".

Bersani dice l'opposto: il Pd di Veltroni "ha scelto la scorciatoia del nuovismo". Ha perso per questo.
"Il nuovismo non è la novità. È la fuga nel virtuale per sfuggire al reale. Ma così, il congresso rischia di essere uno scontro tra l'iper-realismo di alcuni e il volontarismo, o, meglio, il velleitarismo di altri. Tra proposte che prendono a riferimento solo gli ultimi quattro mesi e altre che saltando tutto il Novecento tornano indietro di 150 anni, al Quarto Stato del socialismo nascente. Mentre dovremmo fare un'analisi rigorosa del nostro passato recente. E ammettere la sconfitta: si è chiuso un ciclo cominciato nel 1989".

Il Pd si è trasformato nella Cosa 3?
"Ho visto che un'iniziativa formativa del Pd si chiama Frattocchie 2.0, gli organizzatori ci tengono simpaticamente a sottolineare che non c'è nostalgia, e ci mancherebbe che ci fosse, la nostalgia! Non è un disegno, è una dinamica, l'esito inevitabile di un percorso che non si è voluto svolgere. Sono dati che parlano prima di tutto contro di me, contro l'illusione di facili scioglimenti e rimescolamenti. La mia ipotesi è al momento sconfitta".

E chi sono i vincitori?
"Non credo che chi come D'Alema ha difeso la continuità delle vecchie organizzazioni abbia avuto ragione. Hanno semplicemente avuto ragione su di noi. È venuta meno la legge elettorale, poi per consunzione la forza del progetto. Per definire il Pd restano le alleanze. L'Udc, Di Pietro, la Poli Bortone, i comuni in cui siamo alleati con la Lega: abbiamo messo la nostra identità nelle mani degli altri. Se a tenerci insieme non ci fosse Berlusconi e le storie passate rischieremmo di brutto".

La dichiarazione di sconfitta è un'ammissione dura per lei, l'inventore dell'Ulivo.
"Riconoscere le sconfitte è un dovere prima morale che intellettuale. Nel '98, quando cadde il primo governo Prodi, dissi che era meglio perdere che perdersi. Oggi aggiungo che l'unico modo per non perdersi è riconoscere che abbiamo perso. Ma è un sentimento che fa da sfondo a tutta la vicenda del Paese. Nel 2011 celebreremo l'unità d'Italia, la tensione risorgimentale è stata sostituita da ?gli italiani sono quelli che sono?. C'è un clima di resa, la resa della Repubblica e la resa del Pd si alimentano reciprocamente".

La meglio gioventù ha perso, servono i giovani tanto attesi, i ?piombini?, Civati, Serracchiani?
"Ai giovani si può chiedere una sola cosa: il rifiuto della resa. Ma il tema dell'età ha fatto irruzione nel congresso come semplice richiesta di accelerazione delle carriere. Sono quarantenni cui tocca fare la parte dei ragazzi, lo dice uno che è orfano di un uomo morto a 36 anni".

Da chi verrà il nuovo Pd, allora?
"Serve una nuova generazione politica che spera insieme perché ha sofferto insieme. Sarà formata dai nostri figli e dai nuovi italiani, arrivati da noi con il sangue, il dolore. Con loro dovremo fare i conti".

Il Pd si è trasformato nella Cosa 3?
"Ho visto che un'iniziativa formativa del Pd si chiama Frattocchie 2.0, gli organizzatori ci tengono simpaticamente a sottolineare che non c'è nostalgia, e ci mancherebbe che ci fosse, la nostalgia! Non è un disegno, è una dinamica, l'esito inevitabile di un percorso che non si è voluto svolgere. Sono dati che parlano prima di tutto contro di me, contro l'illusione di facili scioglimenti e rimescolamenti. La mia ipotesi è al momento sconfitta".

E chi sono i vincitori?
"Non credo che chi come D'Alema ha difeso la continuità delle vecchie organizzazioni abbia avuto ragione. Hanno semplicemente avuto ragione su di noi. È venuta meno la legge elettorale, poi per consunzione la forza del progetto. Per definire il Pd restano le alleanze. L'Udc, Di Pietro, la Poli Bortone, i comuni in cui siamo alleati con la Lega: abbiamo messo la nostra identità nelle mani degli altri. Se a tenerci insieme non ci fosse Berlusconi e le storie passate rischieremmo di brutto".

La dichiarazione di sconfitta è un'ammissione dura per lei, l'inventore dell'Ulivo.
"Riconoscere le sconfitte è un dovere prima morale che intellettuale. Nel '98, quando cadde il primo governo Prodi, dissi che era meglio perdere che perdersi. Oggi aggiungo che l'unico modo per non perdersi è riconoscere che abbiamo perso. Ma è un sentimento che fa da sfondo a tutta la vicenda del Paese. Nel 2011 celebreremo l'unità d'Italia, la tensione risorgimentale è stata sostituita da ?gli italiani sono quelli che sono?. C'è un clima di resa, la resa della Repubblica e la resa del Pd si alimentano reciprocamente".

La meglio gioventù ha perso, servono i giovani tanto attesi, i ?piombini?, Civati, Serracchiani?
"Ai giovani si può chiedere una sola cosa: il rifiuto della resa. Ma il tema dell'età ha fatto irruzione nel congresso come semplice richiesta di accelerazione delle carriere. Sono quarantenni cui tocca fare la parte dei ragazzi, lo dice uno che è orfano di un uomo morto a 36 anni".

Da chi verrà il nuovo Pd, allora?
"Serve una nuova generazione politica che spera insieme perché ha sofferto insieme. Sarà formata dai nostri figli e dai nuovi italiani, arrivati da noi con il sangue, il dolore. Con loro dovremo fare i conti".

Nell'attesa, alle primarie per chi voterà?
"Non sono un elettore di appartenenza come Marini, che ha detto di stare con Franceschini ma di preferire Bersani, e neppure di scambio come Rutelli e i suoi che per decidere hanno chiesto di capire cosa gli sarà dato. Sceglierò chi cercherà la vittoria nelle ragioni della sconfitta". C'è un candidato che preferisce? "Onestamente, devo dire di no. Per ora non ci siamo.

E se nessuno alla fine riuscisse a dimostrare questa consapevolezza potrei decidere, semplicemente, di non votare per nessuno".

(03 settembre 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #33 inserito:: Settembre 13, 2009, 10:02:31 pm »

Se cade Silvio

di Marco Damilano


Nuove inchieste e rivelazioni. La tensione con Fini e il rischio di scissione nel Pdl. Le iniziative di Montezemolo e Casini. E il Cavaliere che medita elezioni anticipate  L'ordalia di primavera, la chiamano. I primi giorni della bella stagione, il 21 e 22 marzo 2010. Quando il ministro dell'Interno Roberto Maroni una settimana fa ha comunicato la data delle prossime elezioni regionali, i più sensibili osservatori delle cose di Palazzo hanno drizzato le antenne: come mai così presto? La Pasqua quest'anno cadrà il 4 aprile, ma che necessità c'era di fissare il voto a metà marzo, costringendo i partiti e i militanti a fare la campagna elettorale in pieno inverno? Era solo un pensiero fastidioso, un sospetto. Nessuno immaginava davvero che in soli sette giorni i rapporti interni al centrodestra sarebbero arrivati al punto di rottura, fino a rendere improvvisamente possibile un'eventualità che sembrava remota: le elezioni politiche anticipate, da tenersi negli stessi giorni delle regionali. "Vedo nuvole nere all'orizzonte", scruta i segni della fine dei tempi Mario Valducci, un forzista della prima ora, tra i più fedeli a Silvio Berlusconi. Perfino lui, ottimista di natura, si lascia andare alle profezie catastrofiche: "La ripresa di settembre è stata infernale. Un gran movimento di truppe, molta incertezza, un percorso accidentato. Chi può escludere in queste condizioni che tra qualche mese si torni a votare anche per il Parlamento?".

Un inferno, per il Cavaliere: i verbali dell'imprenditore Giampaolo Tarantini con l'elenco della 30 ragazze transitate a casa Berlusconi in cinque mesi, tutte puntigliosamente indicate con nome d'arte, tariffario e data di prestazione. Un bel carosello di Karen, Esther, Maristel, Hawa che entrano ed escono da palazzo Grazioli, la residenza del presidente del Consiglio, su macchine con i vetri oscurati, produzione in serie. Le rivelazioni dei pentiti a Palermo sulle stragi di mafia del 1992-93 e sulla nascita dei nuovi partiti della Seconda Repubblica, mentre si attende la sentenza d'appello sul senatore Marcello Dell'Utri già condannato a nove anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Convulsioni finali del berlusconismo su cui può arrivare a incendiare tutto, come un fiammifero in una petroliera, la sentenza della Consulta sulla costituzionalità del lodo Alfano prevista per il 6 ottobre, che il premier aspetta come il momento della verità, quello in cui può decidere di andare avanti con il suo governo. O, al contrario, di dichiarare guerra al mondo intero.

Chi può escludere, in questo scenario da ultimi giorni dell'Imperatore, che tutto si concluda con la prova finale, il giudizio di Dio, "l'ordalia" invocata da Gianfranco Fini? La sfida estrema, il plebiscito popolare con cui il Cavaliere vuole chiudere definitivamente i conti. Con i nemici tradizionali: la magistratura, la stampa non allineata, quelli che in democrazia sono i contropoteri e per Berlusconi rappresentano soltanto un pericolo da spazzare via. E con i nuovi complottatori, più interni che esterni, quelli che mirano a eroderne il potere fino a sostituirlo: il presidente della Camera in testa.

Non lo esclude nessuno, e infatti si stanno preparando tutti. Le scosse che agitano la politica non descrivono la normale ripresa di attività di una legislatura che ha appena raggiunto i 15 mesi di vita, con una maggioranza che a Montecitorio può contare su oltre 60 deputati di vantaggio e con il governo che avanza a colpi di voti di fiducia al minimo rischio di dissenso. Sono giorni di fibrillazione. Riunioni. Incontri. Conte dei fedelissimi. Un clima da fine legislatura. Con protagonisti vecchi e nuovi che si preparano a tutti gli esiti: un dopo Berlusconi che cominci fin da ora, con un imprevedibile rimescolamento degli schieramenti già in questo Parlamento. O che passi per traumatiche elezioni anticipate al buio.

"L'importante è evitare false partenze", hanno scherzato durante l'ultimo incontro gli emissari centristi con Luca Cordero di Montezemolo, un esperto del ramo. Il presidente della Fiat e della Ferrari, infatti, per ora resta ben nascosto nei box, si limita a far rombare il motore. Si consulta con un ristretto gruppo di amici legati all'Udc di Pier Ferdinando Casini. E con il presidente della Confcooperative Luigi Marino e l'ex segretario della Cisl Savino Pezzotta, due esponenti del mondo cattolico legati all'ala della Conferenza episcopale più vicina al cardinale Camillo Ruini, oggi furiosa con Berlusconi dopo la ferita delle dimissioni del direttore di 'Avvenire' Dino Boffo e alla ricerca di nuovi interlocutori politici. Sono loro a fare da mediatori tra i vertici della Chiesa italiana e l'ex presidente di Confindustria voglioso di scendere in pista. Intanto, si prepara con cura la prima uscita pubblica del think tank montezemoliano Italia Futura, sede in viale Parioli, il quartiere simbolo dell'alta borghesia romana, affidato ad Andrea Romano, storico e editorialista del 'Sole 24 Ore' con un passato nella fondazione dalemiana Italianieuropei: esordio il 7 ottobre nelle sale di palazzo Colonna, relatori il fondatore della Comunità di Sant'Egidio Andrea Riccardi (uomo di punta della stagione ruiniana) e, chi altrimenti?, il presidente della Camera Fini. Con cui l'uomo del cavallino rampante intrattiene lunghe e amichevoli conversazioni.

Montezemolo, Fini, Casini: un intreccio che ricorda il primo tentativo del presidente della Ferrari di affacciarsi alla politica. Era l'autunno 2007, Luca alla guida della Confindustria era a fine mandato e la tentazione di entrare in campo con un nuovo partito era irresistibile. Il momento sembrava favorevole, Berlusconi aveva appena lanciato il Pdl dal famoso predellino ricevendo una gelida risposta da parte dell'allora leader di An: "Siamo alle comiche finali", scandì Fini. Anche Casini era da tempo in rotta di collisione con il Cavaliere. I tre parevano destinati a incrociarsi nel progetto di un nuovo soggetto politico destinato a sfidare l'egemonia di Berlusconi nell'elettorato moderato. Poi si sa com'è finita: qualche settimana dopo il governo Prodi è caduto, Fini è tornato a più miti consigli ed è entrato nel Pdl, Casini ha divorziato dal centrodestra ed è andato al voto con il simbolo dell'Udc, Montezemolo è rimasto al pit-stop.

Ora la situazione si è pesantemente aggravata. E con i leader che fiutano l'aria di fine regime e si rimettono in movimento. Il più rapido, al solito, è stato il presidente della Camera. Appena qualche settimana fa la sua strategia sembrava consolidata: tempi lunghi per far crescere il suo progetto, la costruzione di un Pdl laico, liberale, modernizzante, pluralista, tutto il contrario dell'attuale partitone berlusconiano, insomma, e per consolidare la sua figura istituzionale in vista di futuri, più alti incarichi, senza perdere mai di vista la meta che ogni politico (Berlusconi compreso) sogna di conquistare, il Quirinale.

Negli ultimi giorni, però, il primo inquilino di Montecitorio ha sentito il bisogno di cambiare marcia, di dismettere i panni della terza carica dello Stato per rivestire quelli di capo politico. Colpa, certo, dell'assalto a freddo del 'Giornale' di Vittorio Feltri, flebilmente smentito da Berlusconi secondo un copione già collaudato con il povero Boffo. Un'aggressione in cui gli uomini di Fini leggono la volontà berlusconiana di azzerare politicamente il presidente della Camera, ricacciarlo verso un ruolo notarile, modello Schifani. "Il premier è entrato in una spirale complottista, una logica da bunker, è circondato da persone che alimentano questo clima e lo mettono in guardia dai presunti nemici", spiega il direttore di FareFuturo Alessandro Campi. I finiani si erano già attivati prima della sparata di Feltri, con un pranzo riservato, in apparenza per discutere della legge sul testamento biologico, che Fini considera il banco di prova su cui contare quanti condividono nel Pdl la sua idea di partito e quanti invece la contrastano. Ma in realtà la conta è già iniziata, e sul tema più scivoloso: il dopo-Berlusconi, "un processo che andrebbe gestito politicamente dallo stesso premier e che invece rischia di diventare distruttivo per tutti", attacca Campi. Quanti sarebbero i parlamentari del Pdl disposti a contrastare il Cavaliere in nome della legalità costituzionale difesa da Fini se si dovesse precipitare verso elezioni anticipate? Nel gruppo ristretto che circonda il presidente della Camera, informalmente, circola qualche numero: i fedelissimi di Fini, sulla carta, sono appena una trentina. Tra loro, l'avvocato Giulia Bongiorno, presidente della commissione Giustizia della Camera, il sottosegretario Adolfo Urso, l'ex radicale Benedetto Della Vedova, il direttore del 'Secolo' Flavia Perina, il siciliano Fabio Granata autore della proposta di legge sulla cittadinanza agli immigrati che ha fatto infuriare la Lega e non solo: sul sito del Pdl campeggia una frase di Berlusconi, "il voto agli immigrati è uno stratagemma comunista". Tutti schierati in difesa del loro leader, in attesa dell'intervento di Fini in prima persona nei sotterranei del Park Hotel dei Cappuccini di Gubbio, alla scuola di formazione del Pdl.

Ma il numero dei deputati attratti da Fini potrebbe aumentare in caso di scontro all'arma bianca tra il presidente della Camera e il presidente del Consiglio. Fino a sfiorare quota 60, intorno alla quale anche il più solido dei governi comincia a traballare. Non è un caso che negli ultimi giorni sia uscito allo scoperto il vice-capogruppo del Pdl Italo Bocchino, finiano a lungo piuttosto silenzioso e ora di nuovo loquace e in sintonia con il capo, anche lui finito subito nel tritacarne di Feltri. Uno scontro che può determinare il destino del Pdl, del governo, della legislatura. Con Fini e i suoi che si organizzano come una corrente, un partito nel partito che può avvalersi della fondazione FareFuturo e del patrimonio dell'ex Movimento sociale al sicuro. Senza escludere neppure l'ipotesi di una clamorosa scissione, nel caso la convivenza tra berlusconiani e finiani dovesse diventare impossibile.

Terremoti politici che aprono magici spazi di manovra per l'altro cinquantenne inquieto, a lungo considerato gemello del presidente della Camera, il leader dell'Udc Casini. Il partito centrista è impegnato nelle trattative sulle elezioni regionali: è determinante in almeno sette regioni e gioca su tutti i tavoli. In Campania, per esempio, potrebbe andare da solo. Nelle Marche e in Liguria è a un passo dall'accordo con il centrosinistra. Nelle regioni chiave, il Lazio, la Puglia, il Piemonte, la Calabria, il partito di Casini vende caro il suo appoggio, al Pd ma anche al Pdl.

Il felpato gioco dei due forni, specialità della casa che si apprende fin da piccoli alla scuola democristiana, potrebbe essere spazzato via dallo scontro totale provocato da nuove inchieste giudiziarie su Berlusconi e dalla bocciatura del lodo Alfano. Casini l'ha già detto: "In caso di emergenza potremmo fare una grande coalizione con la sinistra". Bruno Tabacci è più esplicito: "Serve un nuovo Comitato di liberazione nazionale da Berlusconi". Ora il momento sembra arrivato. Montezemolo, Fini, Casini ognuno per sé, marciare divisi per colpire uniti, la costruzione di un partito moderato contrapposto al polo populista Berlusconi-Lega. Non è tempo per raffinati esperimenti politici, però. Il dopo Cavaliere è già partito e sarà una guerra. L'unico che sembra rallegrarsene è lui, il premier. Che prepara le elezioni anticipate per spezzare i giochi di successione. L'ordalia di primavera.

(11 settembre 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #34 inserito:: Settembre 15, 2009, 12:08:43 am »

Bersani vuol fare centro

di Marco Damilano


Vincere le primarie. E cercare nuove alleanze. Tra il governatore Draghi e gli imprenditori. Cl e l'Udc. La lunga marcia del 'comunista emiliano' 

La nebbia filtrava dalle feritoie del castello, c'era il Po che rombava sotto le finestre e tra un bicchiere e l'altro uno dei commensali aveva un annuncio importante da fare. "Ho deciso: quando verrà il momento mi candiderò alla segreteria del Pd", comunicò Pier Luigi Bersani addentando una fetta di culatello ottimamente stagionato, nelle cantine di Zibello, la patria del pregiato salume. Mondo piccolo, luogo guareschiano, a brindare al grande passo di Bersani c'erano gli eredi di Peppone e di don Camillo: il presidente della Regione Emilia Vasco Errani e due democristiani di lungo corso, l'ex sindaco di Parma Elvio Ubaldi e l'amico Bruno Tabacci, molto più che un semplice deputato dell'Udc, l'esponente centrista più deciso ad allearsi con il Pd per costruire un nuovo centrosinistra.

Alla guida del Pd c'era ancora Walter Veltroni, sette mesi fa, e Bersani anticipava la sua candidatura a due uomini del Centro. L'anteprima della sua campagna congressuale e di quello che sarà il suo Pd in caso di vittoria, come l'ex ministro ha ripetuto l'altro giorno alla prima convention ufficiale della sua mozione al Palalido di Milano, davanti ai big che corrono per lui, Massimo D'Alema, Rosy Bindi, Enrico Letta: "Non tutto si gioca nei luoghi consueti della politica. Dobbiamo muoverci tra le istituzioni, le formazioni sociali, il mondo della cultura, gli ambienti autonomi da noi, ma non avversi. Bisogna andare sul confine".

Far cambiare posizione al Pd, dai margini in cui si trova ora al confine, la zona di frontiera da cui passa tutto: le nuove alleanze, per esempio con l'Udc, e poi progetti, strategie, uomini. È la zona in cui un pragmatico come Bersani pensa di poter dare il meglio di sé, molto più che come candidato segretario costretto a polemiche surreali come quella della pelata nascosta nella foto del manifesto pre-congressuale confezionato dall'agenzia pugliese Proforma, la stessa che ha curato in passato le campagne alle primarie di Nichi Vendola, Fausto Bertinotti ed Enrico Letta. In queste settimane, più che il confine, a Bersani tocca presidiare il fronte interno. Ci sono i voti dei circoli da conquistare, da contendere iscritto per iscritto allo schieramento di Dario Franceschini e al drappello pro Ignazio Marino. E poi ci saranno le primarie del 25 ottobre, in vista dell'appuntamento decisivo stanno nascendo in tutta Italia i comitati per Bersani. Una sfida che l'ex ministro affronta con il sigaro in mano e la polo bene in vista sotto la giacca: perfetto look da comunista emiliano, come ancora adesso ama definirsi.

I primi risultati confermano la sensazione: Franceschini è il segretario uscente, Bersani è il candidato da battere. E fin da ora prova a giocare la sua partita da segretario in pectore, quello chiamato a ricucire relazioni interrotte da tempo. Nelle ultime settimane solo in un'occasione il comunista emiliano ha rimesso l'abito istituzionale, la cravatta da ministro. Quando ha partecipato a fine agosto a un dibattito al Meeting di Rimini di fronte al governatore della Banca d'Italia Mario Draghi. Prima dell'evento pubblico davanti a migliaia di ciellini Bersani e Draghi si sono incontrati nella saletta vip della Fiera di Rimini e hanno chiacchierato a lungo. Non è una sorpresa per chi li conosce: nell'assoluta discrezione che circonda i rapporti del numero uno di via Nazionale, tra i due c'è una stima nata ai tempi del primo governo Prodi, quando Bersani era al suo esordio nazionale come ministro dell'Industria e Draghi era direttore generale del Tesoro con Carlo Azeglio Ciampi ministro.

Difficile non rintracciare l'eco delle considerazioni più recenti del governatore sugli effetti sociali della crisi economica negli interventi di Bersani. Ed è significativo che il bersaglio scelto per le polemiche più aspre del candidato alla segreteria del Pd sia Giulio Tremonti, da mesi impegnato in una sorda guerra contro l'inquilino della Banca d'Italia. "Qualsiasi cosa dica Tremonti in questo Paese, viene presa per buona", attacca Bersani: "Non ci sarà più il condono, giura, sei colonne sui giornali, farò il condono, cambia idea, otto colonne. Una volta, per esagerare, ha citato l'imperatore Eliogabalo e nessuno ha chiamato il 118". Su Tremonti, in controluce, si può perfino leggere una sottile incrinatura che divide Bersani dal principale sponsor della sua candidatura, D'Alema. Perché, con queste premesse, in caso di caduta di Berlusconi difficilmente un Pd guidato da Bersani potrebbe acconciarsi a sostenere un governo di emergenza economica guidato dall'attuale ministro dell'Economia, scenario che al contrario D'Alema non ha mai davvero escluso.

Ma la ripresa di attenzione verso un personaggio come Draghi e altri pezzi influenti dell'establishment economico è solo un tassello della strategia del confine. Ci sono le istituzioni con cui il Pd deve tornare a parlare, tipo la Banca d'Italia. E poi le formazioni sociali: gli imprenditori, i sindacati, oltre alla Lega delle Cooperative, in cui l'ex ministro è di casa. Con la Cgil e con la segreteria di Guglielmo Epifani il feeling va avanti da tempo, Bersani fu l'unico leader del Pd a partecipare già lo scorso inverno alla manifestazione della Fiom e del pubblico impiego. Avanzava in montgomery blu in mezzo a file di metalmeccanici infuriati. Anche se un bel pezzo di mondo sindacale oggi impegnato nel Pd è schierato con Franceschini: l'ex segretario della Cgil Sergio Cofferati, Paolo Nerozzi e Achille Passoni.

L'altra forza sociale con cui riprendere rapidamente il filo spezzato è il mondo cattolico, come consiglia la Bindi. Bersani può vantare da anni il buon rapporto con la galassia di Comunione e liberazione e Compagnia delle Opere: non a caso lo chiamano Cooperative e liberazione. "Se si fosse candidato alla segreteria del Pd nel 2007 saremmo stati pronti a votarlo", racconta l'ex presidente della Cdo, Raffaello Vignali, oggi deputato del Pdl. Difficile che la storia si ripeta, oggi Cl è di nuovo accasata comodamente nel Pdl berlusconiano. Però Bersani non demorde: nei suoi discorsi la parola 'sussidiarietà' non manca mai, lui che fa parte dell'intergruppo parlamentare dedicato al tema caro ai nipotini di don Luigi Giussani. All'incontro con cui lanciò la sua candidatura alla guida del Pd a Roma ottenne la partecipazione di un eminente della Curia, il cardinale Achille Silvestrini, ben addentro alle cose della politica italiana. Per concludere che "i nostri umanesimi hanno radici comuni, radici cristiane". Anche se per Bersani, come per tutti gli altri leader, il banco di prova su cui sarà valutato dalla Chiesa sarà la legge sul testamento biologico in arrivo alla Camera, per metà ottobre, nel bel mezzo della campagna delle primarie.

Un Pd da combattimento, predica l'uomo che punta a guidarlo, per ritornare al centro del ring. Prima di tutto, per non perdere rovinosamente le elezioni regionali della primavera 2010: una sconfitta segnerebbe la fine prematura della leadership del nuovo segretario Pd. Per questo proseguiranno i corteggiamenti in direzione Udc, partiti davanti al culatello. E poi, se l'operazione salvataggio funziona, bisognerà dedicarsi a cercare il candidato premier del nuovo centrosinistra chiamato ad affrontare la coppia Pdl-Lega. L'identikit è nella prefazione che Bersani ha scritto per il libro 'L'assedio' di Antonio Lirosi sulle liberalizzazioni. Il nuovo leader dovrà avere le stesse caratteristiche di Prodi: "Fortissima determinazione politica, conoscenza concreta della realtà e spiccata competenza sulle questioni economiche".

Praticamente un autoritratto.

(11 settembre 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #35 inserito:: Ottobre 11, 2009, 10:55:21 pm »

Ora facciamo centro

di Marco Damilano


Berlusconi blocca il Paese per proteggere i suoi interessi. Ma la maggioranza è in crisi. E un'alternativa è possibile. Colloquio con Bruno Tabacci
 
Se il presidente del Consiglio intende portare il Paese alle elezioni anticipate per difendere un solo interesse, il suo, si accomodi. Noi non abbiamo paura, siamo pronti a costruire l'alternativa... Bruno Tabacci, deputato dell'Udc, spina nel fianco del Cavaliere da più di una legislatura, non teme le minacce di Silvio Berlusconi e dell'alleato Umberto Bossi di ricorrere alla piazza e allo scioglimento delle Camere dopo la bocciatura del lodo Alfano votata dalla Consulta. E esulta: "Da anni il Cavaliere prova a trasformare l'Italia in una Repubblica presidenziale senza contrappesi. Ma la Corte gli ha detto che non può farlo".

Da mesi l'intero mondo politico ha segnato sull'agenda una data: il 6 ottobre, il giorno in cui la Corte costituzionale doveva pronunciarsi sul lodo salva-premier. Cosa significa ora questa sentenza di incostituzionalità?
"Si è creata questa attesa perché è stato Berlusconi a volerlo, come sempre accade quando c'è qualcosa che riguarda i suoi interessi personali. È da anni che tutto il mondo politico, le istituzioni, perfino il calendario dei lavori parlamentari sono legati alle sue vicende giudiziarie. Il percorso del lodo Alfano da questo punto di vista è esemplare. Il mio gruppo parlamentare, l'Udc, si astenne sul voto finale, uno dei pochi dove il governo non ha utilizzato il ricorso alla fiducia. Prendemmo questa decisione sofferta perché l'alternativa era un provvedimento che avrebbe bloccato oltre centomila processi. Di fatto si sarebbe inceppata l'intera macchina della giustizia italiana per bloccare un solo processo, quello di Milano sul caso Mills che vede coimputato Berlusconi. Di fronte a questo pericolo il lodo ci sembrò il male minore, anche se motivammo l'astensione dicendo: attenzione, serve una legge costituzionale. La sentenza della Corte ci ha dato ragione. Ma queste sono considerazioni giuridiche. La sostanza è politica".

Cosa rappresenta la bocciatura del Lodo, dopo mesi di tensioni, lo scandalo delle escort, le inchieste della stampa straniera, l'isolamento del governo sul piano internazionale? Qualcuno parla di fine del berlusconismo...
"Il senso politico è uno solo. Berlusconi ha tentato in questi anni di cambiare la Costituzione. Ha provato a rendere lettera morta la carta costituzionale e di introdurre una Repubblica presidenziale senza contrappesi. Il suo avvocato Gaetano Pecorella l'ha detto di fronte ai giudici della Corte: non potete togliere lo scudo del lodo perché altrimenti si va contro la volontà popolare. Immagino che nella Consulta siano inorriditi quando hanno sentito queste argomentazioni. La sentenza vuol dire questo: l'Italia è ancora una Repubblica parlamentare. I contrappesi ci sono e fanno il loro dovere. Per me deputato è un momento di respiro: da mesi viviamo nell'umiliazione della democrazia parlamentare, con i decreti e i voti di fiducia. Si costringe continuamente il capo dello Stato a un percorso accidentato sulla firma e la promulgazione delle leggi. Ora, invece, torna a funzionare la Costituzione che è stata scritta più di 60 anni fa con sapienza politica. Sono rinfrancato".

Berlusconi grida che la Corte ha smesso di essere un organo di garanzia, che i giudici sono di sinistra e che si appella all'elettorato: scendete in piazza per difendere il vostro premier. Preoccupato?
"Berlusconi non è in grado di ricorrere a nessuna piazza. La piazza, cioè gli italiani, teme per il posto di lavoro e per la crisi economica. Il Paese ha molti problemi. Berlusconi, che non è capace di risolverli, vorrebbe chiamarlo a difendere un solo interesse: il suo. Sarebbero manifestazioni convocate per difendere il Berlusconi imprenditore, non il politico. È stato l'imprenditore Berlusconi a finire sotto processo civile per il lodo Mondadori, per quella sentenza con cui ha ottenuto il controllo del gruppo editoriale e che è risultata alterata. È il Berlusconi imprenditore che è sotto inchiesta per la vicenda dei diritti televisivi. Ed è singolare che ricorra alla piazza contro una sentenza civile, lui che ha appena presentato querela contro ?Repubblica? e ?l'Unità?". Anche Bossi minaccia di portare la Lega in piazza in difesa del premier... "Bossi vede un Berlusconi seriamente indebolito e immagina di proteggerlo amorevolmente. Magari, in cambio, chiederà la presidenza della Lombardia per un varesotto suo amico...".

Berlusconi dovrebbe dimettersi?
"No. È meglio che resti al suo posto. Ha una maggioranza ampia, si concentri sulle cosa da fare. E affronti i processi con dignità, come hanno fatto altri politici al posto suo in passato".

Sicuramente, però, esce ferito da questa sentenza. Con il carisma dimezzato, anche nei confronti della sua maggioranza.
"La maggioranza è sfilacciata. Nelle ultime settimane in ogni votazione ha rischiato di andare sotto, a volte è stata salvata dalle assenze sui banchi del Pd. C'è stata un'azione di disinformazione, si è voluto far credere da parte del centrodestra che questa situazione dipendesse dalla pressione di una parte della stampa sui fatti privati di Berlusconi, ma non è così. C'è una parte della maggioranza che è in difficoltà per ragioni tutte politiche".

Motivo in più, dal punto di vista di Berlusconi, per tentare la strada del ricorso anticipato alle urne e rompere le eventuali manovre per la successione...
"Berlusconi non è in grado di far succedere nulla. E poi la procedura per lo scioglimento delle Camere è molto complessa: il governo dovrebbe venire in Parlamento ad autoaffondarsi, come nell'87 fece il governo Fanfani, dovrebbe chiedere ai suoi parlamentari di votargli contro. Non so in quanti lo seguirebbero. I deputati e i senatori del Pdl sanno bene che chi provoca le elezioni finisce per essere sconfitto". E se Berlusconi dovesse insistere? "In caso di dimissioni di Berlusconi, il presidente della Repubblica ha il dovere costituzionale di verificare se ci siano altre personalità che possano trovare una maggioranza in Parlamento. Anche in caso di elezioni anticipate, sia chiaro, si dovrebbe andare con un governo di garanzia, con un presidente del Consiglio diverso da Berlusconi e con nuovi ministri".

Qualche settimana fa il leader dell'Udc Pier Ferdinando Casini disse che in caso di forzature istituzionali si sarebbe trovata una maggioranza alternativa in Parlamento "in dieci minuti". Francesco Rutelli ha lanciato l'idea di un "governo del presidente" in carica per tre anni. È questa la vostra linea?
"Io credo che se Berlusconi dovesse sfidare il Paese e portare gli italiani a votare sulla sua persona alla guida di una coalizione con la Lega l'opposizione dovrebbe rispondere che non c'è nessuna paura del giudizio delle urne. Nessun timore, possiamo scontrarci a viso aperto".

Con quale formazione e con quali leader? Nelle ore in cui usciva la sentenza della Consulta Luca Cordero di Montezemolo ha presentato la sua associazione Italia Futura alla presenza di Fini. È l'anteprima di un rassemblement centrista?
"Dopo la vicenda del lodo Alfano il quadro della politica è destinato a mutare e deve cambiare anche l'assetto delle opposizioni. Il Pd ha in corso un congresso che porterà finalmente a un chiarimento delle loro posizioni. Con la vittoria di Pierluigi Bersani che mi sembra sicura si apriranno nuovi spazi di manovra al centro. In Italia dei Valori si è aperta una frattura tra chi sostiene la linea di Luigi De Magistris e un'ala più moderata. Ci sono le condizioni per costruire un'alternativa al berlusconismo che parta dal centro. L'unica che può vincere in questo Paese".

(08 ottobre 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #36 inserito:: Ottobre 16, 2009, 11:53:43 pm »

Silvio fermati

di Marco Damilano


Napolitano non si discute.

Berlusconi deve fare un gesto di riconciliazione generale. E poi il tema delle riforme. I rapporti con l'Udc. Il futuro del Pd. Parla il presidente dell'Antimafia.

Colloquio con Giuseppe Pisanu
 
Giù le mani da Napolitano. Parola di Giuseppe Pisanu, presidente della commissione Antimafia, riserva di senso dello Stato nel Pdl, allergico ai falchi berlusconiani. "Berlusconi dovrebbe fare un gesto alto di riconciliazione generale: andare in Parlamento e riprendere il dialogo sulle riforme", consiglia l'ex ministro dell'Interno. Appello controcorrente, nella stagione più dura per i moderati del centrodestra. "È un tempo difficile per tutti. Il cortocircuito istituzionale è arrivato nel mezzo di una tempesta politica. Ora c'è il rischio che si rovesci sulla crisi economica e sociale provocando danni molto gravi".

Lei è testimone privilegiato della fine della prima Repubblica. Ci fu un complotto dei giudici per eliminare i partiti? E uno nel '94 per far cadere Berlusconi? E oggi c'è un complotto contro il governo?
"Il crollo della prima Repubblica fu determinato da sommovimenti profondi: la crisi delle ideologie, il declino dei partiti tradizionali, il decadimento dello spirito pubblico. Il giustizialismo arrivò nella fase finale e fece la sua parte. Nel '94 ci fu sicuramente una clamorosa iniziativa giudiziaria, poi finita nel nulla, che pugnalò alle spalle il presidente del Consiglio mentre presiedeva una conferenza internazionale. Oggi vedo il complotto delle circostanze avverse, ma non vedo la mano che lo guida. Anzi, penso che non ci sia".

Napolitano è sotto il tiro dell'ala dura del Pdl: non è super partes, dicono. Condivide?
"Il presidente Napolitano si è sempre saputo tenere al di sopra delle parti, tanto da meritarsi anche il riconoscimento di coloro che non lo avevano votato. Di questo vi è larga eco nella recente dichiarazione congiunta di Fini e Schifani".

Anche la Consulta è sotto attacco. Cosa bisognerebbe fare per svelenire il clima?
"Il punto più critico è la contrastata decisione della Corte sul lodo Alfano. Non contesto quella decisione, ma osservo che essa ci ha rimesso dinanzi al vuoto politico-istituzionale che si è creato in Italia dal 1993 con l'abolizione dell'immunità parlamentare. Qui è il primo problema e da qui bisogna partire".

A guidare l'attacco, spesso, c'è il premier. Che consigli darebbe a Berlusconi?
"Berlusconi non ha bisogno dei miei consigli. Comunque, al suo posto, avendo una maggioranza salda e senza alternative, io compirei un gesto alto di riconciliazione generale e sfiderei l'opposizione sui grandi problemi del Paese.
Chi è forte deve essere magnanimo".

Che tipo di gesto?
"Il ritorno in Parlamento per riprendere il dialogo avviato con il discorso programmatico di inizio legislatura ".

Ne è sicuro? Nel Pdl c'è chi ripete che le riforme vanno fatte da soli...
"Non posso condividere. Lo scontro rende difficile l'ordinaria attività di governo, figuriamoci quella straordinaria di riforma".

Sulla giustizia si parla di un pacchetto: separazione delle carriere tra giudici e Pm, nuove modalità di elezione della Consulta, prescrizioni più rapide. Sono misure urgenti?
"Non conosco pacchetti preconfezionati. La prima riforma da fare, che può spianare la strada ad intese più ampie, è la reintroduzione della immunità parlamentare, magari nella formula oggi ammessa (e mai contestata) agli euro-deputati. Ricordiamoci che per 45 anni l'immunità è riuscita a salvaguardare il delicato equilibrio tra politica e giustizia stabilito dai padri costituenti. La seconda riforma è il federalismo costituzionale, senza il quale sarebbe impossibile mettere in funzione il federalismo fiscale".

Si possono fare queste riforme senza il Pd?
"Il Pd non può andare a uno scontro interminabile e distruttivo fino alla conclusione della legislatura. Peraltro, ha già dimostrato notevole attenzione sia ai problemi del federalismo che a quelli del rapporto tra politica e magistratura".

Berlusconi ripete: sono l'unico eletto dal popolo. Bisogna adeguare la Costituzione e introdurre il presidenzialismo?
"La legge elettorale prevede l'indicazione del leader del partito, non l'elezione diretta del premier. Questa indicazione ha certamente un forte valore politico che nessuno può disconoscere. Quanto a una eventuale riforma di tipo presidenziale, già la Bicamerale D'Alema l'aveva ipotizzata, nel contesto di una più organica revisione della forma di Stato e di governo".

Lei è considerato uno degli esponenti del partito del ?buon senso?, come lo chiama Casini. Esiste davvero?
"Esistono i partiti rappresentati in Parlamento e, per fortuna, ci sono scorte di buon senso un po' dappertutto. Bisogna preservarle e metterle a frutto ovunque si trovino. Nel mio piccolo, ci provo ogni giorno".

Con Fini (e D'Alema) vi ritrovate ad Asolo a parlare di immigrazione. Anche sul testamento biologico la pensate allo stesso modo. È la prova di una sintonia politica?
"Sul fine vita la mia convinzione è che le scelte appartengono esclusivamente al malato, ai suoi parenti stretti, ai suoi medici ed eventualmente al suo assistente spirituale. Nessun altro può intromettersi nello spazio intimo del dolore, della cura e della morte. Lo riconosce di fatto l'articolo due della Costituzione, che stabilisce il primato della persona sullo Stato. In questa ottica, da cattolico, sono laicamente d'accordo con Fini".

Sul Pdl Fini ha detto che è "come la temperatura di Bolzano, non pervenuto". Lei come giudica il suo partito? Il triumvirato che lo guida va superato?
"In realtà, a parte la temperatura di Bolzano, Fini non ha fatto altro che ribadire le idee che aveva espresso tra gli applausi al congresso fondativo del Pdl. Il triumvirato è chiaramente una formula di transizione, in attesa che il partito si dia una cultura politica unificante e una forma democratica, procedendo dal basso verso l'alto. Non vedo una transizione breve...".

Elezioni regionali: è necessaria l'alleanza con l'Udc? E la richiesta della Lega sulla presidenza del Veneto è accettabile per il Pdl?
"Un'ampia alleanza con l'Udc è necessaria non solo per assicurarci la vittoria in alcune regioni, ma anche per ridare forza al voto cattolico del Pdl. In passato la vicinanza di questo partito ha incoraggiato il voto di tanti cattolici verso Forza Italia perché costituiva una sponda amica. Oggi la lontananza può contribuire a scoraggiarlo. Vale anche per il Veneto, dove, oltretutto, il Pdl è maggioranza e Galan ha ottenuto larghi consensi".

Lei ha sostenuto che l'allargamento del Pdl va esteso a personalità come Montezemolo e Riccardi, oggi animatori del pensatoio Italia Futura: l'invito è ancora valido?
"Non ho titolo per rivolgere un simile invito. Resto però dell'avviso che per diventare il partito dei moderati italiani il Pdl deve cercare energie nuove nel mondo cattolico e nella società civile". I movimenti centristi interessano l'Udc ma anche Rutelli. È credibile l'ennesimo tentativo di costruire il Grande Centro? "Fino a quando resterà in piedi la doppia possibilità della crescita in senso moderato del Pdl e dell'alleanza strategica con l'Udc, non vi saranno spazi praticabili per un'altra ipotesi moderata".

Che esito si augura dalle primarie del Pd?
"Prima vorrei vederci chiaro sulle prospettive del Pd a ?vocazione maggioritaria? concepito da Veltroni. In questo momento, mentre il bipolarismo italiano invece di maturare inselvatichisce, vedo emergere l'idea di una riorganizzazione del nostro sistema, in modo tale che a un numero limitato di partiti corrisponda però una più esauriente rappresentanza del pluralismo politico italiano. Se prevale questa idea, vincerà Bersani. In questo caso toccherà a lui dare risposte convincenti agli italiani che attendono una sinistra moderna".

Questo processo interessa anche il Pdl?
"Se i partiti politici non riusciranno a soddisfare la domanda di pluralismo che c'è nel paese sarà la partecipazione democratica a pagarne il prezzo".

(14 ottobre 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #37 inserito:: Novembre 05, 2009, 06:44:41 pm »

Nel Pd saremo ingombranti

di Marco Damilano


L'ex ministro, capo dell'ala post-democristiana, assicura che non intende seguire Francesco Rutelli nella nuova impresa centrista e spiega: "Nel Pd di Bersani noi cattolici siamo troppi per essere indipendenti o indifferenti". Colloquio con Giuseppe Fioroni
 
"Nel Pd di Bersani noi cattolici siamo troppi per essere indipendenti o indifferenti. Al massimo, saremo ingombranti", assicura l'ex ministro Giuseppe Fioroni, capo dell'ala post-democristiana che non intende seguire Francesco Rutelli nella nuova impresa centrista fuori dal Partito democratico. Almeno per ora.

Rutelli ha lasciato il Pd denunciando il fallimento del progetto. Se ne andrà anche lei?
"Sono profondamente dispiaciuto dalla scelta di Francesco. È uno dei fondatori e ha creduto nel Pd più di me, all'inizio. Come allora forse ha avuto troppa fretta nel farlo nascere, così oggi è troppo affrettato nel dichiararlo fallito. C'è un fatto politico: nei gazebo hanno votato in tre milioni, nonostante tutte le traversie. Segno che i nostri elettori sanno che il Pd è nato e desiderano cresca bene. Non vogliono un Pd di Veltroni o di Bersani, ma il loro Pd. Un partito che sia uno strumento di partecipazione e non il megafono di un leader".

Anche lei, però, ha dato segni di insofferenza. Per la segreteria ha appoggiato Dario Franceschini. E ha fatto sapere di non sentirsi a casa in un Pd egemonizzato dagli ex ds...
"La sfida di Bersani è farci sentire tutti a casa. I grandi partiti popolari affrontano un congresso per arricchirsi: nessuno esce dal congresso così come è entrato, nessuno dei militanti, tantomeno può farlo il segretario. Bersani deve ricostruire un comune sentire del partito e apprezzare le differenze come una potenzialità del Pd. Deve organizzare un partito meno elitario e salottiero, meno condizionato dagli editoriali dei giornali e più vicino ai territori. È la carta che abbiamo per non fare la fine dell'Impero romano nell'era della decadenza, che aveva la presunzione di civilizzare il mondo e invece è stato cacciato dai barbari, come sta accadendo per noi in alcune zone conquistate dalla Lega".

Bersani ha ripetuto che sui temi etici serve una posizione unica del Pd. Lei condivide?
"La libertà di coscienza non può essere la foglia di fico che copre l'anarchia delle scelte. Ma sulla concezione della vita e della morte non decide l'iscrizione a un partito, ma il profondo della propria coscienza. È giusto e indispensabile avere una linea, ma ai singoli va riconosciuta la possibilità di esprimere la loro idea".

Altro retropensiero sulla segreteria Bersani: farà un partito di sinistra, lascerà all'Udc il compito di rappresentare il centro...
"Diamo tempo a Bersani di costruire il Pd, anche con il nostro contributo. Ma noi non possiamo assolutamente rinunciare a rappresentare i ceti moderati e i cattolici di questo paese. Per governare avremo bisogno dei loro consensi, non può essere un compito affidato a questo o quell'alleato".

Rutelli dice che voi ex dc siete irrilevanti nel Pd: "indipendenti di centrosinistra", vi chiama.
"Francesco mi conosce troppo bene, sa che non ho la vocazione a fare la mosca cocchiera. E il congresso dimostra nei fatti il ruolo che rivestiamo nel Pd. Siamo troppi per essere indipendenti o indifferenti. Al massimo, ingombranti".

Per dimostrarlo lei chiederà un incarico di peso?
"Cosa faremo insieme ce lo dirà Bersani. Ciascuno di noi non ha bisogno di gradi per contribuire alla crescita del Partito democratico, ma di una profonda e vera agibilità politica. E credo sia un'aspirazione legittima".

(05 novembre 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #38 inserito:: Gennaio 07, 2010, 11:49:37 pm »

Commedia democratica


di Marco Damilano


Niente confronto. Niente primarie. Solo caccia ad alleanze per il potere.

L'ex ministro boccia Bersani. E accusa D'Alema.

Colloquio con Arturo Parisi
 

D'Alema? «Un professionista del "se po' fa", ricalca Andreotti. Dovrebbe almeno avere il coraggio di dirci che le primarie, la democrazia dei cittadini, per lui sono tutte boiate».
Bersani? «Apra un congresso che non c'è mai stato, perché il Pd è a rischio ». Arturo Parisi è allarmato dalla baruffa democratica sulle regionali, la considera l'anticipo di quello che succederebbe con il ritorno dei vecchi partiti. «Il cinismo di massa, il trasformismo. L'idea che tra destra e sinistra non ci sia più distinzione».

Perché questo clima da ultima spiaggia nel Pd ad appena due mesi dal congresso?
«La verità è che quello che chiamiamo congresso è stato tutto fuorché un congresso. Bersani aveva esordito dicendo che un confronto in contraddittorio tra i candidati avrebbe disorientato la nostra gente, meglio rinviarlo a dopo il voto dei circoli. Un'offesa all'intelligenza. Il tutto si è ridotto a tre monologhi di circostanza, svolti prima dei tg dell'ora di pranzo».

Proprio lei, l'inventore delle primarie, rimpiange le liturgie di partito?
«Di quei partiti ho molto rispetto ma nessuna nostalgia. Ma del confronto politico, sì, del valore che veniva dato alle parole, del senso storico delle scelte, talvolta prossimo al dramma, ma sempre comunque lontano dalla farsa».

Qual è la farsa in cui rischia di scivolare il Pd?
«Ripetere che al congresso ha vinto una linea e che quindi non va rimessa in discussione. Peccato che nessuno abbia avuto il coraggio di esplicitarla né prima né dopo, anche se intanto una linea veniva evocata in sottofondo, chiarissima».

Quale?
«Quella di Massimo D'Alema. È da mesi che mi aggrappo a una domanda: tutti sappiamo che D'Alema appoggia Bersani. Ma mi può dire Bersani se appoggia la linea di D'Alema?»

Come le ha risposto il segretario?
«Prima del voto con il silenzio. Dopo il voto con le parole di D'Alema. Come temevo, vedo D'Alema illustrare la sua linea a reti unificate, quasi che il segretario fosse lui».
Per citare una vecchia vignetta di Ellekappa: «D'Alema piange, dunque la linea è piangere».

Qual è la linea D'Alema, oggi?
«D'Alema parla chiaro, fin troppo: restituire ai partiti il loro ruolo centrale. Tornare alla democrazia della delega contrastando ogni tentazione di democrazia diretta dei cittadini. Abbandonare ogni illusione sulla preminenza del progetto e ridare forza ai soggetti, cioè ai partiti e ai capipartito, affidandosi alla loro saggezza e professionalità. Il ribaltamento del cammino di questi anni. Il peggio è che a parole si pretende di continuare a professare anche l'opposto. Le primarie, si dice, sono nel Dna del Pd, ma se poi si possono evitare, meglio. Oppure i governi debbono fondarsi sul voto degli elettori, ma se poi si può evitare di scomodarli, come in Sicilia, ancora meglio...».

Massimo D'Alema
In Puglia e altrove il Pd fatica sui candidati...
«In Sicilia non si capisce se siamo noi che li aiutiamo a governare, o loro che dovrebbero aiutarci a batterli. La Puglia, più che un laboratorio, rischia di diventare un modello per il Paese. La sola idea che la Poli Bortone possa guidare contro di noi la coalizione berlusconiana, dopo esserci stata proposta poco tempo fa come determinante per un'alleanza per il Sud, primo passo verso il fronte anti-berlusconiano lanciato da Casini, dice da sola dove conduce la politica del potere per il potere».

In che direzione?
«Al trionfo del trasformismo. Dopo mesi nei quali abbiamo cantato l'assoluta priorità del programma, sento ora il nostro Letta intonare il canto della priorità delle alleanze, ossia che l'unica cosa che conta è la vittoria. E questo nella regione di Tarantini e della D'Addario, della estesa commistione tra affari e sanità, senza che si capisca più quale sia la differenza tra destra e sinistra. Solo l'assoluto disinteresse per la Repubblica può spiegare perché si parta dalle alleanze e non dal cosa fare con gli alleati. Non so se continuando così perderemo. La mia paura è invece che ci perderemmo, anzi, che ci siamo già persi».

Anche l'Unione di Prodi andava da Bertinotti a Mastella. Che c'è di male ad allearsi con l'Udc?
«Nulla. Perché non dovrei confrontarmi con Casini, la cui qualità è assolutamente comparabile, e a volte superiore, a quella di molti miei compagni di partito? Il tema non è con chi, ma è su che cosa confrontarsi, e soprattutto perché incontrarsi».

Per alcuni dirigenti del Pd il modello Parisi ha consegnato l'Italia ai partiti personali, al berlusconismo...
«Quello che chiamano il mio modello è la democrazia maggioritaria, la democrazia chiesta coralmente dai cittadini in due referendum. Ed è quello che ha consentito al centrosinistra di vincere due volte le elezioni. Se in quel modello Berlusconi ha vinto è perché ha messo in campo un progetto nuovo con un soggetto nuovo. Noi invece abbiamo spesso detto di giorno cose che abbiamo contraddetto di notte».

La recente assemblea del Partito Democratico
Cosa dovrebbe fare D'Alema per sciogliere la contraddizione?
«Vuole cambiare il modello? Bene. Abbia il coraggio di dirlo con chiarezza: "Tredici anni fa a Gargonza, ho cercato di spiegarvelo con gentilezza. Visto che non capite, ve lo dico ora come meritate. Le primarie, il maggioritario, la democrazia dei cittadini? Sono tutte boiate". La ricreazione è finita».

Il suo è lo sfogo di un politologo, replicherebbe lui, ora deve tornare la politica...
«Ma la crisi della politica è prima di tutto crisi dei politici. La realtà è che nemmeno D'Alema pretende più di parlare a nome di un'aristocrazia, ma solo come espressione al più di una corporazione. Le virtù che mette in campo non sono le grandi virtù dei tempi delle grandi scelte, ma le piccole virtù dei professionisti del "se po' fa", dei politici che sanno con chi e come si può trattare su ogni cosa, quelli che ricalcano il proprio profilo su quello di Andreotti. Ma Andreotti ha elaborato il suo realismo per conservare un potere che deteneva. Qui si pretende invece di imitarlo per conquistare un potere che non abbiamo».

In caso di sconfitta alle regionali torna in pericolo la vita del Pd?
«Vinca o non vinca questo Pd a rischio lo è già. Se nella stagione rosa dell'idealismo il rischio fu la retorica e la propaganda, la delega ai professionisti rischia ora di portarci sulla scia del loro realismo al cinismo di massa, al trasformismo. Come il clericalismo per la religione, è il politicismo che affossa la politica, che è progetto, mobilitazione delle coscienze, orientamento delle passioni».

Ecco Parisi, la solita Cassandra...
«Io sento il peso di giornate che si consumano nella menzogna. L'anno appena finito è stato segnato come mai dalla resa. La resa all'omologazione: tutti sono uguali. La resa all'idea che il Sud è il Sud ed è meglio farsene una ragione, che l'Italia è l'Italia e di più non può dare. E alle spalle non abbiamo più, come ai tempi dell'Ulivo, una società in crescita che sentiva la "Canzone popolare", come il canto di una marcia contro il blocco della vecchia politica. Oggi non dobbiamo solo liberare la società dal blocco della politica, e non basta neppure rimuovere Berlusconi. La crisi è di una società più povera non solo sul piano economico, ma culturale, civile, morale. Nel pieno della sua crisi, perfino privata, Berlusconi ha disvelato la crisi che coinvolge tutti. E noi del Pd pensiamo davvero che una cooperativa di professionisti, validata da una delega per di più neppure esplicita, sia in grado di affrontare questa tempesta?».

Già: cosa può fare un povero segretario di partito, Bersani, in queste condizioni?
«Bersani deve farsi carico per primo di questa domanda. Ora non è più quel saggio ministro che ha dimostrato di essere, è il capo politico del partito. Apra lui ora quel congresso che non c'è mai stato. Ha la piena responsabilità e tutte le capacità per essere quel che è richiesto a un segretario. Le primarie non lo hanno chiamato ad essere nel Pd quel che Cesa è nell'Udc...».

Scommette ancora su questo Pd?
«Un partito è una comunità di persone. Se avremo finalmente il coraggio di aprire un confronto vero, riconoscendo che il partito nuovo che avevamo annunciato non è ancora nato, sapremo ritrovare i sentimenti e le parole che ci hanno scaldato i cuori».

(07 gennaio 2010)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #39 inserito:: Gennaio 15, 2010, 02:53:04 pm »

La triplice santa alleanza


di Marco Damilano

Regionali. Giustizia. Nuove regole.

È asse tra Fini, Casini e D'Alema. Per fermare il Cavaliere
 

Invocano in pubblico lo Spirito Santo, che venga ad assisterli, «perché il suo popolo non perisca nel male», come recita l'antico canto liturgico. Lo chiama in soccorso Gianfranco Fini, durante un eccitante convegno sulla legislazione, che il presidente della Camera utilizza per lanciare il primo siluretto del nuovo anno all'indirizzo di Silvio Berlusconi: «È una mitologia pensare che si possa governare facendo affidamento solo sul voto popolare e scavalcando il Parlamento». Parole non casuali, nelle ore in cui l'avvocato del premier Niccolò Ghedini cucina il nuovo marchingegno salva-Berlusconi: un decreto, subito ritirato, che sospendeva i processi del Cavaliere per tre mesi, giusto il tempo della campagna elettorale. Accanto a Fini il predecessore Pier Ferdinando Casini annuisce vistosamente. E quando Fini nomina lo Spirito, Casini si unisce: «Abbiamo bisogno di essere illuminati ».

La terza persona della Trinità non c'è, è rappresentata nella sala della Lupa da Luciano Violante. Ma gli altri due lo tengono ben presente: l'ex premier, aspirante presidente del Comitato parlamentare sui servizi segreti, Massimo D'Alema. Perché tocca a loro, alle tre volpi ingrigite della Seconda Repubblica, provare a modificare nelle prossime settimane lo schema della politica italiana. Marciare divisi, almeno nella maggior parte dei casi, per colpire uniti. Con l'ambizione comune di scompaginare gli attuali schieramenti, regolare i conti interni, ridisegnare le regole del gioco. Fino a costituire un partito, trasversale. Un Tripartito. Il Tripartito Fini-Casini-D'Alema è già entrato in azione, almeno a dare retta alle voci che accompagnano il convulso rebus delle candidature alle elezioni regionali. «Se Emma Bonino nel Lazio dovesse perdere c'è una parte del Pd che già si prepara tra pochi mesi ad entrare in giunta con Renata Polverini», ha confidato ad alcuni amici un importante dirigente del Pd romano. Nella vertiginosa eventualità che pochi mesi dopo il voto si possa verificare una spaccatura tra l'ala berlusconiana del Pdl e gli uomini di Fini più vicini alla segretaria dell'Ugl candidata alla presidenza del Lazio, sostenuta dall'Udc di Casini. Roba da fantapolitica. Se non fosse che l'incredibile scenario ha appena preso corpo in Sicilia. Qui il governatore Raffaele Lombardo, eletto 20 mesi fa con il 65 per cento dei voti con una coalizione di centrodestra, ha ribaltato la sua maggioranza, ha scaricato mezzo Pdl e ha messo su una nuova giunta con l'appoggio esterno di una parte del Pd. A benedire l'operazione, la settimana scorsa, è volato il presidente della Camera in persona, ospite di Lombardo a Palermo per una festosa colazione a base di tè e biscotti: «Un laboratorio importante, per fare finalmente le riforme che la Sicilia attende da anni», ha approvato Fini.

D'Alema con Lombardo aveva già parlato, assicurando il suo occhio di riguardo per la manovra. E infatti il capogruppo del Pd all'Assemblea regionale siciliana Antonello Cracolici, dalemiano di stretta osservanza, è il sostenitore più sfegatato del ribaltone. E pazienza se il partito si è diviso in quattro. L'Udc di Casini non c'è, per ora è stato escluso dall'accordo. Ma il purgatorio centrista, si può scommettere, non durerà a lungo. Perché intanto Pier ha portato a casa un risultato di bandiera: in Sicilia i due schieramenti storici non ci sono più. Estinti. Polverizzati. Al loro posto, la nuova politica. Quella che si vorrebbe costruire nel resto d'Italia. L'era dei partiti Avatar. Con una faccia da mostrare agli elettori. E i leader che manovrano indisturbati le loro creature virtuali nella sala di comando, al riparo da primarie, elezioni dirette, suggestioni obamiane e altre americanate. Laboratorio della nuova stagione è il Lazio, dove Fini e Casini si sono alleati sotto le bandiere della Polverini e D'Alema sostiene la Bonino. «Sparge sale sulle ferite», spiega un deputato del Pd: «Azzera il gruppo dirigente romano, ancora di fedeltà veltroniana. E si intesta la paternità della candidatura radicale: se la Bonino vince Massimo dirà che è stata un'idea sua, se perde riscuoterà la gratitudine di Fini e Casini che l'hanno presa come una desistenza mascherata: un nome di prestigio ma non imbattibile a Roma, dove il voto dei preti conta qualcosa».

E dire che il capogruppo del Pd in Campidoglio, Umberto Marroni, ultra-dalemiano, non voleva sentirne parlare: «Candidare la Bonino nel Lazio? Sarebbe come mettere un dito nell'occhio al Vaticano ». Fedele alla linea togliattiana dell'incontro con i cattolici: non informato del contrordine compagni, evidentemente. Più complicato per gli scienziati delle nuove alleanze far reagire le alchimie della politica in Puglia. Qui l'asse si sposta: D'Alema e Casini da una parte, Fini dall'altra. Massimo e Pier da mesi sognano di costruire la nuova Santa Alleanza. «La sinistra blairiana e il centro riformista», sintetizza Angelo Sanza, plenipotenziario dell'Udc nel Tavoliere. C'era un piccolo ostacolo da rimuovere, l'attuale governatore Nichi Vendola. Inviso a entrambi: Casini, si racconta, per l'ostilità di Nichi il rosso alla privatizzazione dell'Acquedotto pugliese che fa gola al gruppo Caltagirone, D'Alema per la rapidità con cui Vendola ha licenziato dalla sua giunta gli assessori (dalemiani) lambiti dalle inchieste sulla sanità. Tra i due il più duro con Vendola, a sorpresa, è il suo ex compagno di partito D'Alema, mentre Casini forse avrebbe potuto appoggiarlo, come in Piemonte con Mercedes Bresso. E invece D'Alema è riuscito a trascinare tutto il Pd nazionale nella contesa sul suo territorio: in altre regioni in bilico, il Lazio, la Campania, la Calabria, attendono la fine della guerra pugliese. Clan e tribù, una situazione balcanica in cui ora l'ex premier confessa di non capirci più tanto neppure lui: come se il maresciallo Tito assistesse da vivo alla frantumazione della Jugoslavia. E il rivale Vendola ironizza ferocemente sulle sue qualità di stratega: «D'Alema è partito con il realismo. Poi è passato all'iper- realismo. Ed è arrivato al surrealismo».

Il terzo uomo, il presidente della Camera, si è tirato fuori dalla bagarre delle regionali, chiusa per lui con piena soddisfazione: Renata Polverini candidata nel Lazio (con il sì di Casini), Giuseppe Scopelliti in Calabria, e lo spettacolo di un Pdl a corto di personalità quando deve cercarle tra gli ex Forza Italia. «In una regione simbolo come la Campania non si è trovato un nome più forte del socialista Stefano Caldoro», fa notare l'intellettuale di Farefuturo Alessandro Campi. Ma per la terza carica dello Stato il problema resta il rapporto con Berlusconi. Sulla questione giustizia, scelta dal Cavaliere - come poteva essere altrimenti?- come terreno per riportare il partito sotto la sua leadership. In quarantott'ore la recita del dialogo, messa in scena per tutte le vacanze di Natale, si è rivelata per quello che era: una presa in giro. Al suo posto, la solita girandola di provvedimenti ad personam: il processo breve al Senato, peggiorato dall'emendamento dell'ex An Giuseppe Valentino, che estende la tagliola dei tempi dalle persone fisiche a quelle giuridiche, società del premier comprese.

E poi l'ipotesi di un decreto per sospendere i processi per tre mesi, escogitato da Ghedini, che aveva riportato alle stelle la tensione tra Palazzo Chigi e il Quirinale. Risultato: commissioni e aule parlamentari intasate da leggi sempre più macchinose, costrette a discutere di un solo tema, la giustizia. L'unico che stia davvero a cuore a Berlusconi. Un'ossessione. Una bulimia. Come dimostra il simpatico dono distribuito dal premier ai presenti durante il vertice a Palazzo Grazioli di ripresa delle attività: al posto di banali orologi, un fascicoletto con il sunto di un capitolo dell'ultimo libro di Bruno Vespa, quello dedicato al processo Mills, con l'autodifesa di Berlusconi, la stessa che difficilmente potrà essere ascoltata in tribunale. Un bignamino da imparare a memoria e ripetere in tutte le sedi. Non facile per Fini fare da argine al Cavaliere scatenato. Sul decreto Ghedini il presidente della Camera ha posto un'unica condizione per farlo passare, in sintonia con le preoccupazioni di Giorgio Napolitano: «Il presidente firmerà il decreto, io ti darò copertura politica. Ma tu devi far ritirare il processo breve al Senato che sta provocando la reazione di tutto il mondo giudiziario. Non puoi volere tutto», ha spiegato Fini a Berlusconi. Niente da fare: il premier non si fida, i sondaggi gli hanno restituito forza, vuole chiudere la partita con tutti i mezzi a disposizione. Un inasprimento che rende ancora più urgente per Fini l'esigenza di trovare nuovi alleati, uscire dal recinto del Pdl, sempre più soffocante. La settimana prossima il presidente della Camera riceverà a Montecitorio il cardinale Camillo Ruini, unico cervello politico della Chiesa in servizio. Un incontro che segna la fine di mesi di freddezza tra Fini e i vertici ecclesiastici, dopo le polemiche sul testamento biologico, molto gradito da Casini.

E con D'Alema continua il lavoro delle fondazioni Farefuturo e Italianieuropei. «Il presidente della Camera è il motore delle riforme, il catalizzatore del dialogo», spiega il leader dell'Udc. Sulla legge elettorale tedesca, che piace a Casini e a D'Alema, Fini in passato si è dimostrato poco entusiasta. Ma potrebbe cambiare idea: un pragmatico come lui non si impunta su un modello istituzionale. Ed è in ottima compagnia. Fini, Casini e D'Alema sono tre professionisti di partito che marciano in parallelo da più di trent'anni, da quando Massimo dirigeva la Fgci, Gianfranco il Fronte della Gioventù e Pier il movimento giovanile della Dc. Ora sono alla svolta di una lunga carriera. Costruire l'asse portante di un nuovo sistema o rassegnarsi a un futuro di notabilato. Possono diventare il triangolo magico della Terza Repubblica, se mai nascerà. O finire per rappresentare il volto di una politica senza più baricentro.

(14 gennaio 2010)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #40 inserito:: Marzo 18, 2010, 10:49:49 pm »

Gran buffet Zaia

di Marco Damilano


Un libretto elogiativo a spese del ministero.

Ricchi incarichi al clan di Treviso.

Boom di eventi per il cuoco di fiducia.

Così il leghista conquista il Veneto
 

Si vanta di aver preparato il prosecco per George Clooney e il baccalà per Werner Herzog, ha gestito catering alla Mostra del cinema di Venezia e alle Olimpiadi di Vancouver, ma nessuno è profeta in patria e di Tino Vettorello, in Veneto, sanno ben poco. "Ciao a tutte le sposine! Ho sentito parlare del catering Tino Eventi di Treviso, ma non ho trovato informazioni. Qualcuna lo conosce?", si informa la futura sposa Chiara sul forum Matrimonio.it. Passa qualche settimana e risponde Chivan: "Ho lavorato con loro. Da fuori tutto appare ben curato, il servizio al tavolo, l'insieme armonioso. E invece non hanno una grande organizzazione e neppure un grande rispetto per le persone". Conclude Chiara: "Ci hanno fatto perdere un mese. Trattano male i dipendenti e anche i clienti". A meno che non ti chiami Luca Zaia e di mestiere fai il ministro delle Politiche agricole. Perché Tino, incontentabili queste ragazze, è il ristorante preferito dove il ministro della Lega ama mangiare e ricevere. Ed è un tassello importante del suo sistema. Quello che ha trasformato lo sconosciuto Vettorello, macellaio di San Polo di Piave con locale a Ormelle, in una macchina da soldi. E che ora gira a pieno regime per raggiungere l'obiettivo della vita: portare l'ex ragazzo di Godega alla conquista del Veneto, tramutarlo nel Doge del Carroccio.

"Par el so' 'vivo interessamento'/casca la neve, cresse el frumento/nasce i putini, more i porsei, canta la lòdola, se mucia i schei...", recitava una filastrocca degli anni Settanta quando il bello e il cattivo tempo in regione lo faceva Antonio 'Toni' Bisaglia, il padrone della Dc, gran intenditore di grappe, una montagna di preferenze. Sul frumento e sui porsei, i suini, ci siamo, gli schei non mancano. Rispetto alla ricetta degli antichi maestri dorotei, che non amavano l'apparire, Zaia il giovane ha introdotto due novità: la cura ossessiva della propria immagine. E l'attenzione privilegiata per la sua provincia, il trevigiano, e per i suoi sodali. Ben ricompensati per la fedeltà.

Una settimana fa, con la Lega che in Veneto vola nei sondaggi, quasi dieci punti sopra il Pdl, la Procura di Venezia ha chiesto di saperne di più sull'opuscolo 'Il Welfare dell'Italia'. Stampato a spese del ministero, fa parte dell'accordo tra Buonitalia e Federsanità per "promuovere la dieta mediterranea". Costo: 3 milioni di euro. Il libretto, 32 pagine, 500 mila copie in italiano e in inglese, si legge nel contratto, sarà diffuso "con distribuzione di massa in Italia e in America". Per ora è arrivato in massa nelle case delle famiglie venete, in piena campagna elettorale. Copertina: Zaia in gessato scuro e fazzoletto verde di ordinanza, che brinda con un calice di vino. Titolo: 'La salute vien mangiando'. E siccome viene anche l'appetito, ecco le foto del ministro tra forme di parmigiano, tartufi, frutta e salumi. Altro che dieta mediterranea, un'abbuffata di voti, si spera. Grazie all'involontario contribuente.

Il ministro nega indignato ogni responsabilità e reclama chiarimenti. Non sarà difficile averne, dato che il libretto è stato prodotto in casa. La Federsanità è presieduta da Angelo Lino Del Favero, direttore generale dell'Asl 7 Veneto Pieve di Soligo, in provincia di Treviso, un feudo del ministro-candidato. E il committente del progetto è il presidente di Buonitalia Walter Brunello. Trevigiano doc anche lui, naturalmente. Come il radicchio. E come Zaia.

Doppiezza padana: in Veneto sbraitano contro Roma ladrona, nella capitale non disdegnano le delizie di Roma godona. Macchine ad alta cilindrata, appartamenti in centro, stipendi da favola, voli in business class. Favori, regalie, elargizioni agli amici degli amici. Viva il campanile, a spese dello Stato.

Buonitalia, società del ministero delle Politiche agricole interamente pubblica, nata nel 2002 per valorizzare l'agroalimentare made in Italy, è il cuore del sistema Z. Il motore, la centrale operativa. Il primo anello della catena clientelare, pardon alimentare. Perfino il sito della società, a lungo oscurato, è stato ristrutturato un mese fa, giusto in tempo per le elezioni, affidato alla City Center, agenzia di Treviso, che cura la comunicazione della gloria locale, indovinate chi. Se clicchi sopra il credit ti rimandano direttamente al sito di Zaia, così non si perde tempo. E Brunello, il presidente di Buonitalia, è un perfetto esemplare della nuova razza padana, il leghista di lotta e di sottogoverno.

Una carriera all'ombra di Zaia: con Luca vice-presidente del Veneto, è il responsabile dell'azienda regionale di promozione turistica. E quando il suo padrino in camicia verde approda al ministero di via XX settembre, nel 2008, Brunello lo segue a Buonitalia. A Paese, il centro del trevigiano dove risiede, tiene parcheggiata o a disposizione della moglie l'auto di servizio, una Bmw X3 bianco latte ("Come quella del ministro", raccontano). A Roma, dove guadagna 160 mila euro l'anno più l'affitto di una casa in centro, si sente un novello Marco Polo sulla via della Seta e si allarga: l'ultima assunzione è il leghista tirolese Franz Mitterrutzner, nominato direttore con un contratto di quattordici mensilità e quasi 8 mila euro al mese per non meglio precisati incarichi ("Assistere il presidente sia in fase preparatoria che durante lo svolgimento delle riunioni di lavoro..."). E può contare su una formidabile leva economica a sua disposizione: 50 milioni di euro per progetti di promozione dell'agroalimentare, stanziati già nel 2005 dal ministero dell'Agricoltura insieme all'Economia e mai spesi, in attesa dei bandi di gara.

Con Zaia e Brunello la musica cambia e partono i finanziamenti. Sponsorizzazioni. Tour promozionali. Contributi a pioggia, su cui arrivano le interrogazioni del deputato Pd Emanuele Trappolino. Progetti per lo più gestiti dall'Aicg, l'associazione che raggruppa alcuni consorzi alimentari, dove gli uomini di Zaia sono ben rappresentati: ai rapporti istituzionali c'è il trevigiano Luca Giavi, l'uomo del radicchio, a occuparsi dei progetti Buonitalia il direttore del consorzio prosciutto di San Daniele, Mario Cicchetti.

Un pacchetto che si ripete: affidamento del progetto, società e agenzie per allestimento e catering, quasi sempre le stesse. La veneta Publitour cura gli allestimenti, per esempio. Ma il vero beneficiario di Buonitalia, nella quasi totalità dei casi, è lui, il cuoco di Odelle, il Vissani della Lega, il ruspante Vettorello. La sua Tino, nata nel 2007 con un unico socio, Vettorello, e appena sette dipendenti, nel 2008 quando Zaia diventa ministro decolla. È lui che cura i pacchi dono del ministero a Natale. Ed è lui, soprattutto, che fa il pieno degli eventi targati Buonitalia: catering degli stand ai Mondiali di nuoto (insieme alla Relais di Stefano Ottaviani, genero di Gianni Letta), della Mostra del cinema di Venezia, degli Internazionali di tennis e del giro d'Italia. Solo nell'ultimo mese una tripletta: i suoi camerieri con il logo Tino Eventi hanno sfamato gli atleti italiani alle Olimpiadi a Vancouver, i visitatori della Bit a Milano e della fiera internazionale del biologico a Norimberga. Povero Tino, non ha più tempo per organizzare neppure un matrimonio come si deve. Per fortuna alla guida della regione sta per arrivare l'amico Zaia. E allora sai che tavolate.

(18 marzo 2010)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #41 inserito:: Marzo 25, 2010, 10:17:56 pm »

Maratoneta Bersani

di Marco Damilano


Il Pd è già in ripresa. E prepara l'alternativa. Ma il tramonto del berlusconismo sarà un percorso lungo e agitato, non una bolla che scoppia all'improvviso. Intervista al leader del Partito democratico
 
Alla fine della campagna elettorale più pazza del mondo, la lista del Pdl esclusa a Roma, i talk show della Rai oscurati, i ministri in corteo, il segretario del Pd Pier Luigi Bersani, alla sua prima campagna da leader nazionale, ragiona sul dopo voto: "Berlusconi ha di nuovo spinto sull'acceleratore della sua anomalia populista. Ancora una volta la scelta di campo, il bene e il male, con me o contro di me. Ha fatto il capopopolo, il capolista, il caporedattore del Tg1, tutto tranne che il capo del governo. Con in più il giuramento dei candidati governatori nelle mani dell'Imperatore, gli insulti ai questori, la restrizione degli spazi di informazione, la riduzione della politica a comizio: il suo". E il Pd? "Si è percepita una nostra capacità di ricomporci, di metterci all'altezza della sfida", afferma Bersani, prudente: "I motori hanno cominciato a girare. Diciamo la verità: solo due mesi fa nessuno ci avrebbe scommesso un euro. Erano i giorni in cui si parlava di caos nel partito. Ma io ero sereno".

Bill Emmott ha scritto che "la bolla Berlusconi sta per scoppiare": condivide?
"Penso, e non da oggi, che Berlusconi non può più tirare la palla avanti, non ha più niente da dire sul futuro. È un surfista, sta sull'onda, ma prima o poi l'onda incontra la spiaggia. Il partito che ha fondato sul predellino è sbandato alla prima curva. Questo è importante anche per noi, dobbiamo sapere che per batterlo serve il passo dell'alpino. Però voglio essere sincero: sono un ottimista strategico, ma non credo a uno scoppiare delle bolle...".

Berlusconi ha trasformato il voto regionale in una scelta di campo: in caso di sconfitta dovrebbe dimettersi?
"Non andiamo al voto per chiedere la caduta del governo. Ci aspettiamo che gli italiani scrivano al presidente del Consiglio una brusca letterina: così le cose non vanno. Nel caso le cose dovessero andar male per loro vedremo cosa succederà nel loro mondo. Mi sembra che da quelle parti, penso a Fini o alla Lega, non ci sia una grande chiarezza su cosa fare dopo il voto".


Che timidezza, segretario. Sembra quasi che lei tema un crollo improvviso del berlusconismo che potrebbe piovervi addosso.
"Nessuno si illuda che il tramonto del berlusconismo sia un processo lineare. Sarà invece un percorso agitato, e avrà un carattere di pericolo. Più sentirà il consenso sfuggirgli di mano, più Berlusconi cercherà di stringere i bulloni. Noi dobbiamo saper cogliere questa fase di crisi non essendo speculari. Dobbiamo dire la nostra su come vogliamo la fase successiva, il dopo".

Lei sta battendo molto sulla Lega: "Che pena vedere il Carroccio che tiene la sedia dell'Imperatore", ha esclamato l'altro giorno alla Camera. Se Bossi dovesse vincere in Veneto e Piemonte il rischio secessione diventa concreto?
"La rottura dello spirito civico, la frantumazione corporativa, l'atomizzazione della società, la fine della solidarietà tra le diverse regioni sono fenomeni molto profondi cui non si possono dare risposte retoriche, la Lega è solo una parte di questa vicenda. Se andiamo al cuore, Berlusconi regge perché esiste la Lega. È la Lega che deve spiegare come mai da partito anti-burocratico e moralizzatore si è ridotto a votare tutte le più vergognose leggi ad personam".

Cosa ha pensato quando ha visto Berlusconi e Bossi abbracciati sul palco di Roma?
"Mi hanno fatto venire in mente una canzone di Vasco Rossi: "Toglimi di dosso quelle mani che mi dai". Bossi è determinante per la tenuta del governo e detta le scelte. Qualche mese fa Berlusconi voleva le elezioni anticipate e Bossi glielo ha impedito. "Stai fermo lì", gli ha detto. Prende tempo e si prepara al dopo anche lui. Ora vuole vincere le regionali, e poi...".

E poi? Cosa c'è nel day after delle regionali? Per Berlusconi c'è il presidenzialismo.
"Non prendiamolo solo sul serio, facciamo almeno metà e metà. Lui stesso non ha le idee chiare, non sa che fare... Per noi al primo posto c'è la riforma della legge elettorale. Quella attuale fa schifo, lo dicono tutti. Cambiamola sulla base di un criterio: restituire ai cittadini il potere di scegliere i parlamentari, con riferimento al territorio. Qualcosa di simile al Mattarellum, che dia spazio ai collegi uninominali. Discutiamo di riduzione del numero dei parlamentari, federalismo, costi della politica. E confrontiamoci sulle riforme economiche e sociali".

Chi sono gli interlocutori? Fini? La Lega? "Io guardo con grandissimo interesse a chi intende non andare alla deriva plebiscitaria, a tutti quelli che hanno a cuore un moderno taglio costituzionale. Dobbiamo accorciare le distanze con quel mondo che si sta allontanando da Berlusconi".

Da "Italia Futura" di Luca Cordero di Montezemolo è arrivato un appello all'astensione. È un altro segnale di crisi del berlusconismo?
"Ci sono settori di gruppi dirigenti, e non mi riferisco tanto a Montezemolo, che sono rapidamente passati dalla fase del turibolo, l'incensamento del governo, alla denuncia che la politica litiga, che sono tutti uguali, che non fanno le cose che interessano alla gente. Io respingo queste critiche al mittente: non è consentito a nessuno di fare di tutta l'erba un fascio. C'è un'opposizione che da mesi chiede al governo di discutere sui temi concreti, inascoltata. E c'è una maggioranza che ha in mano tutto, cento voti di scarto alla Camera, e non realizza nulla. Se finalmente qualcuno ha trovato il coraggio di dire che le cose non vanno sa con chi prendersela".

E voi del Pd? Cosa farete fino al 2013?
"La cosa più importante è metterci politicamente in una chiave di futuro. Solo così possiamo accelerare la convergenza con altre forze che vogliono aprire una nuova fase. Dobbiamo essere pronti. E dobbiamo lavorare per rendere credibile quello che c'è".

Non vi sentite ancora pronti? Non siete ancora credibili? Ammissione onesta ma pesante...
"Ragazzi, non lo dico io! Sono gli italiani che in più di un'elezione hanno detto che non siamo a posto. Le elezioni regionali sono una tappa importante per dire che abbiamo fatto un passo avanti decisivo, che c'è un'inversione di tendenza. Abbiamo saldato il viola con il blu e il rosso, la legalità e i diritti, la democrazia e il lavoro. Se dividiamo queste due questioni per noi è la fine. Se sono unite, abbiamo la prateria".

Qual è stata la difficoltà più grande di questi primi mesi di segreteria?
"Temevo che non si riconoscesse il filo logico della nostra azione. Il rischio che tutto fosse scambiato per un'azione politicistica. Ma io ero tranquillo perché sapevo che alla fine saremmo stati competitivi. Oggi abbiamo una presenza forte del Pd, ma non esclusiva, abbiamo compattato le forze di opposizione, arrestando la divisione, lo sbandamento, quello che sui giornali avete chiamato caos".

Però il caos c'era davvero. In Puglia gli elettori erano molto più agitati e hanno sconfessato l'intero gruppo dirigente. Nel Lazio Emma Bonino si è candidata da sola. A Bologna il sindaco si è dimesso dopo un anno...
"Veniamo da una fase dove abbiamo navigato in acque agitate. Le sconfitte elettorali, la fase congressuale. C'era da costruire un clima in cui tutti insieme nel Pd fossimo responsabili di quello che era avvenuto, compresi gli errori. Così come mi auguro che dopo il voto ci sia una responsabilità collettiva di quello che abbiamo fatto tutti insieme in queste settimane".

Con quale risultato si sentirebbe al sicuro?
"La maggioranza delle regioni in palio. Un obiettivo che appena due mesi fa sembrava irraggiungibile".

Se il miracolo si compie griderà: "Ho vinto io"?
"Sono un segretario che non si toglie i sassolini dalle scarpe. Se cammini e corri non si sentono...".

Sulle alleanze avete fatto la giravolta: eravate partiti all'insegna dell'asse con l'Udc di Pier Ferdinando Casini, vi ritrovate in coppia con Di Pietro...
"Suggerisco di vedere le cose per il lungo. Quando si parla di Udc non si deve dimenticare che alle ultime elezioni regionali i centristi erano ovunque alleati con la destra e oggi sono in parte da soli, in parte con noi e solo in alcune regioni vanno con il Pdl. Una fetta di elettorato moderato non va più dietro Berlusconi. E non solo per tattica".

Però la Cei è intervenuta sull'aborto, invitando di fatto i fedeli a non votare per la Bonino. Avete rinunciato a rappresentare anche i cattolici?
"Non vogliamo incrociare il messaggio della Chiesa solo sul versante sociale. Esiste un tema antropologico, una questione enorme alla frontiera tra la vita e la morte, c'è la necessità di un confronto tra i grandi umanesimi che affondano nel personalismo cristiano, e a noi in questa discussione interessa esserci. Il punto è che la Chiesa ha il dovere di indicare i principi non negoziabili, anche con radicalità. Ma l'autonomia della politica è ragionare sulle soluzioni più utili, trovare decisioni transitorie e fallibili, magari con sofferenza. La legge 194, ad esempio, è un punto di equilibrio. In questi anni gli aborti in Italia sono diminuiti, prima c'erano più aborti e più sofferenza. Utilizzare tecniche meno invasive per il corpo della donna non significa banalizzare il dolore di una scelta. La Chiesa ha il diritto di ribadire la sua posizione, ma dietro l'aborto ci sono millenni di clandestinità, lavoriamo tutti insieme per limitare questo dramma".

In molti vorrebbero vedere Bonino e Vendola nel Pd: dopo il voto riaprirà le iscrizioni?
"Al congresso dissi che il Pd avrebbe dovuto essere il protagonista della costruzione di un campo largo dell'alternativa, senza pretendere di assimilare tutti. Con la Bonino e i radicali c'è un rapporto amichevole, franco, di autonomia reciproca. Non sono biodegradabili ed è un complimento. Per Vendola il discorso è diverso: vedo una prospettiva comune tra noi e lui. Via via, nei modi giusti, senza annessioni, dobbiamo riaprire il cantiere del partito".

Non abbiamo mai nominato D'Alema e Veltroni: la ruota gira anche per loro?
"Chi c'è, chi non c'è, chi comanda davvero nel Pd... sono tutte polemiche mediatiche. C'è bisogno di tutti e tutti devono aiutare a far girare la ruota".

Di lei Giuliano Ferrara ha scritto: "Bersani è una cara persona, un emiliano, gente seria ma inetta nella guerra, nella comunicazione politica". A urne chiuse si dovrà ricredere?
"Non c'è bisogno di aspettare l'esito del voto. Mussolini, Nenni, Dossetti e oggi Prodi sono tutti della mia regione. È che spesso non ce lo fanno fare. Ma quando c'è da combattere, combattiamo".

(25 marzo 2010)
da epresso.repubblica.it
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« Risposta #42 inserito:: Aprile 01, 2010, 07:43:34 am »

Cronaca di una Waterloo

di Marco Damilano

Mancanza di un progetto alternativo a Berlusconi e Bossi.

Incapacità di interpretare il rapporto con la società.

L'analisi severa del presidente Pd Rosy Bindi
 


Non c'è un dato economico e sociale del Paese che sia migliorato, dovrebbero perdere voti. E invece loro acquistano consensi e noi siamo lì, fermi. Non siamo riusciti a trasmettere un'idea di società alternativa a quella su cui Berlusconi e la Lega prendono i voti».

L'analisi delle regionali di Rosy Bindi, presidente del Pd, è preoccupata: il centrosinistra perde perché da tempo ha smarrito il contatto con la società italiana. Qualcosa di molto più profondo e radicale di una semplice défaillance del Pd, che non si risolve con un cambio al vertice: «Per favore, non ricominciamo con il tormentone. È dal 2007 che ogni anno mettiamo in discussione la leadership. Fermiamo questa corsa suicida. E torniamo a riflettere, con serietà, su cosa è successo in Italia negli ultimi vent'anni».

Lei conosce e combatte la Lega almeno dall'inizio degli anni Novanta, quando era segretaria della Dc veneta, ha assistito all'alba del fenomeno. Oggi cosa c'è nel voto del Nord per il partito di Bossi?
«La Lega resta un movimento di protesta capace come nessun altro di interpretare le inquietudini del suo elettorato, in un tempo segnato dalla paura. Lucra voti senza risolvere i problemi, senza portare a compimento nessuna riforma. Non c'è più sicurezza in questo Paese, e non c'è il federalismo. Eppure la gente continua a votarla. La stessa cosa che succede per Berlusconi: nonostante l'evidente declino della sua leadership, nonostante il fallimento del suo governo, nessun italiano oggi può dire di stare meglio di ieri, scopriamo che trasformare le elezioni regionali in un referendum sulla sua persona ancora una volta ha funzionato. Dobbiamo chiederci il motivo».

Forse perché voi dell'opposizione fate peggio di lui. In Francia l'astensionismo ha colpito il centrodestra al potere, qui colpisce anche la minoranza e il Pd.

«Non condivido un giudizio così netto. Rispetto alle elezioni europee siamo riusciti a evitare di farci chiudere nella trincea delle regioni centrali, non siamo la Lega appenninica come qualcuno ci rappresenta. Ma non sfuggo al problema: anzi, è proprio questo il punto fondamentale da cui deve partire la nostra riflessione. Perché se il Paese sta male, se non c'è un lavoratore o un imprenditore che possa sentirsi gratificato da questo governo, Berlusconi e la Lega continuano a vincere? E rendono marginali i politici più responsabili del centrodestra come Gianfranco Fini, che gode del mio apprezzamento ma è in posizione minoritaria nel suo partito».

Qual è il loro segreto? O la vostra colpa?
«Me lo vedo già il dibattito interno al mio partito. Coalizione sì coalizione no, andare con Di Pietro o con Casini, organizzati sul territorio o con Internet... Io spero invece che si abbia il coraggio finalmente di alzare il tiro. La partita è culturale, si gioca su un'idea dell'Italia. È qui che noi veniamo a mancare: finora noi non siamo riusciti a trasmettere un'idea di società alternativa a quella su cui Berlusconi e la Lega prendono i voti. Dobbiamo reinterpretare il rapporto tra politica e società».

Forse per trasmettere un'idea diversa dovreste partire da una diversa classe dirigente. Bersani sarà messo in discussione?
«Sarebbe un errore gravissimo. Guardi, è dal 2007 che perseguiamo questa strada. Quell'anno il centrosinistra perse un turno di elezioni amministrative, si disse che il governo Prodi era finito e si passò a eleggere Veltroni segretario del Pd con le primarie. Poi Veltroni ha perso in Sardegna e si è dimesso, e così via. Ogni anno cambiamo leader, ora non ricominciamo con il tormentone. Fermiamo questa corsa suicida. E andiamo in profondità: la nostra proposta, il progetto che non si vede. Una nuova classe dirigente non si inventa, non si improvvisa, nasce se si fanno partire progetti politici innovativi. Altrimenti restano i vecchi attori».

Lei parla di errori di lungo periodo. Ci sono stati sbagli in questa campagna elettorale? Candidature poco convincenti come la Bonino?
«Prima del voto ho detto apertamente che in una regione come il Lazio e in una città come Roma la candidatura di Emma Bonino non era la migliore che potessimo mettere in campo. È stata frutto di un caso e non di una scelta. Come dice il blogger Zoro, “c'avevamo solo quella”. Però devo rendere onore alla combattente. Siamo andati al fotofinish grazie alla battaglia della Bonino, nonostante i soliti pregiudizi su di lei agitati a poche ore dal voto in modo pretestuoso. E poi dobbiamo riflettere su come abbiamo governato il Sud, dati i risultati in alcune regioni come Campania e Calabria».

Vendola è tra i leader del futuro? Potrebbe entrare nel Pd?
«Vendola è già tra i leader, ed è apprezzato dal Pd, magari senza l'entusiasmo di qualche suo esponente. In questa campagna elettorale abbiamo ripreso i rapporti con la sinistra di governo, siamo un cantiere aperto. Ma attenzione a sciogliere partiti per poi rifondarli, è da anni che lo facciamo, dentro una logica tutta interna al sistema politico. Vendola vince in Puglia perché ha saputo comunicare ai suoi elettori una speranza, non un'organizzazione. È quello che dobbiamo fare in tutto il paese».

C'è un nuovo arrivato a sorpresa nel campo dell'opposizione, il movimento di Beppe Grillo: è possibile considerarlo un interlocutore?
«Noi dobbiamo parlare con tutto ciò che appare nella società. In Piemonte il movimento di Grillo ha preso il 4 per cento, incredibile è la sorpresa, un partito dovrebbe capire in anticipo quello che si muove nell'elettorato. E lo dico della regione che mi ha fatto soffrire di più, con Mercedes Bresso che ha governato con grande serietà. È un voto anti-sistema, come l'astensione. A pagare il prezzo più alto siamo noi che scommettiamo sulla politica e ha avvantaggiato la destra che ha un'anima anti-sistema. Però alcune istanze vanno ascoltate. E trovo positivo l'ingresso nelle istituzioni. Chi è in consiglio regionale non può più dire vaffa, deve trovare soluzioni».

In Parlamento si riapre il dibattito sulle riforme. Pdl e Lega chiedono al Pd di non tirarsi indetro. Raccoglierete l'invito?
«Inizia una stagione senza elezioni nazionali, c'è la possibilità di fare le riforme e io spero che si facciano. Ma con la schiena dritta. Nessun cedimento. Prendiamo il presidenzialismo: il Pd non è disponibile a costituzionalizzare la svolta populista e autoritaria di Berlusconi. Lo dico perché vedo anche in casa nostra qualche cedimento culturale: la simpatia rafforzata con i radicali e il presunto scambio con una legge elettorale complica le cose. Ma se qualcuno vuole percorrere questa strada lo farà senza di me».

E sulle alleanze? Riprenderà il cammino con l'Udc di Casini?
«Se l'Udc lavora a migliorare il bipolarismo siamo disponibili. Se pensano di togliere il potere di scelta ai cittadini e restituirlo ai partiti sarebbe una strada sbagliata. Le elezioni regionali confermano che i cittadini vogliono contare con il loro voto e apprezzano il bipolarismo: è un percorso segnato».

Nessuno nel Pd è antiberlusconiano quanto lei. Dopo queste elezioni è ancora sicura che l'anti-berlusconismo sia un'arma efficace?
«L'anti-berlusconismo è il presupposto dell'alternativa. Ma noi negli anni abbiamo comunicato soltanto il presupposto e non l'alternativa. È chiaro che se continuiamo a fare la foto a Berlusconi, gli italiani non smetteranno di rispecchiarsi in lui e nella sua foto. È tempo di scattare un'altra fotografia».

(31 marzo 2010)
da espresso.it
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« Risposta #43 inserito:: Aprile 10, 2010, 11:12:38 pm »

Chi può battere Silvio

di Marco Damilano

Dopo la sconfitta alle regionali, nel centrosinistra si apre la caccia al leader per la sfida elettorale del 2013.

Un sondaggio esclusivo tra gli elettori su sette possibili candidati
 

La Grande Partita è cominciata un istante dopo la chiusura delle urne, appena acquisito l'ultimo risultato delle elezioni regionali. Ognuno si organizza come può e come sa. Con le armi convenzionali, mettendo in campo la forza di un partito tradizionale. Con gli strumenti offerti dai tempi nuovi: fondazioni, associazioni, think tank trasversali, comitati elettorali mascherati da fabbriche. Molto Internet: blog, circoli su Facebook, appelli su YouTube. E la cara, vecchia politica delle alleanze: annusare i potenziali sostenitori senza darlo troppo a vedere. La posta in gioco è semplice: chi guiderà il centrosinistra nella sfida contro Silvio Berlusconi nel 2013, quando il Cavaliere si candiderà a palazzo Chigi per la sesta volta consecutiva dal 1994, sempre che non riesca a trasformare l'Italia in una Repubblica presidenziale e provi a fare rotta sul Quirinale a furor di popolo?

I RISULTATI DEL SONDAGGIO: Chi può sfidare Berlusconi? (vedi su espresso.repubblica.it)

Dovrebbe essere una questione da abc della politica: prepararsi per tempo, costruire una candidatura vincente con il giusto tempo a disposizione, come succede in tutte le democrazie occidentali. In Francia il nuovo inquilino dell'Eliseo sarà scelto nel 2012, ma le manovre nella gauche per indicare il candidato da contrapporre a Nicolas Sarkozy sono già in pieno svolgimento, come se si votasse domani. In Inghilterra il 6 maggio il povero David Cameron finalmente potrà affrontare il Labour Party nelle elezioni legislative dopo essersi allenato per cinque, interminabili anni: è stato nominato candidato dei conservatori a Downing Street nel 2005, quando era una giovane promessa, nell'attesa ha fatto i capelli bianchi. In Italia le liturgie sono più complesse e meno trasparenti. E per capire la strategia dei Presidenziabili, i potenziali candidati, bisogna imbarcarsi in giri tortuosi.

L'unico che prende di petto la questione è il leader di Italia dei Valori Antonio Di Pietro: "Alle elezioni regionali siamo arrivati all'ultimo giorno utile. In molti casi i candidati del centrosinistra erano improvvisati e il risultato si è visto: il partito più forte è diventato quello dell'astensione e della protesta. Non possiamo ripetere l'errore: io, Bersani, Vendola e gli altri leader della coalizione dobbiamo trovare un nome entro quest'anno, proporlo al Paese e farlo crescere. Se non si semina per tempo non si raccoglie". Nel Pd condivide l'urgenza il vice-segretario Enrico Letta, a lungo indicato tra i papabili: "Una cosa è chiara: nel 2013 il nostro avversario sarà ancora una volta Berlusconi. Le formule del passato non bastano più, dobbiamo ripensare le nostre alleanze e ritrovare lo spirito che portò il centrosinistra al governo guidato da uomini come Romano Prodi e Carlo Azeglio Ciampi". Il segretario del Pd Pier Luigi Bersani, fino alle regionali il numero uno nella lista dei possibili candidati premier, dopo il voto non certo esaltante per il suo partito si è fatto prudente: "Per il futuro non posso escludere nulla". Schermaglie che nascondono l'incertezza. E che la confusione nel campo del centrosinistra sia grande lo dimostra anche il sondaggio "L'espresso-Swg" pubblicato in queste pagine.

Alla domanda su quale nome potrebbe battere Berlusconi, il 18 per cento indica il presidente della Fiat Luca Cordero di Montezemolo, considerato il più attrezzato a intercettare una parte dell'elettorato che oggi si riconosce nel centrodestra, il preferito nelle fasce di età più anziane, over 65. Solo l'11 per cento vede come sfidante Bersani, tallonato dal rieletto presidente della Puglia Nichi Vendola: se votassero solo gli elettori del centrosinistra, come potrebbe accadere se il candidato premier fosse scelto con le primarie, la partita sarebbe tra loro due. Segue a poca distanza un nome a sorpresa, il governatore della Banca d'Italia Mario Draghi. E poi il comico Beppe Grillo, che nelle regioni dove si è presentato con il suo Movimento a cinque stelle è stata la vera rivelazione delle regionali, la pasionaria del Pd Rosy Bindi, in pole position tra le donne del centrosinistra e lo scrittore di "Gomorra" Roberto Saviano, i cui appelli per la legalità fanno sempre il pieno di sostenitori. Una classifica che dimostra soprattutto il senso di spaesamento che abita tra gli elettori. Il dato più interessante da registrare, infatti, è che per un terzo del campione, il 33 per cento, nessuno di questi nomi è quello giusto: bisogna cercare ancora. Il leader, insomma, non si vede, non c'è.

Eppure alcuni dei candidati in pectore sono già da tempo in movimento. Il più imperscrutabile è il numero uno della lista, Cordero di Montezemolo. Il suo impegno diretto in politica è sempre stato escluso, ma intanto da sei mesi l'ex presidente di Confindustria gira l'Italia per le iniziative della sua associazione Italia Futura. Convegno d'esordio a Roma, nella cornice di palazzo Colonna, sulla mobilità sociale, parola d'ordine promettente: "L'Italia è un paese bloccato, muoviamoci!". Seconda uscita a Napoli, su scuola e istruzione. Prossima tappa a Bologna, a metà mese, per parlare di sanità. Temi scelti con cura, quasi un programma di governo, che mister Ferrari giura di voler affidare al dibattito pubblico, senza doppi fini: "È possibile parlare di politica senza passare per golpisti? ". In mezzo qualche intervista televisiva, rimbrotti ai partiti con strizzate d'occhio all'antipolitica: "L'impopolarità della classe politica sta aumentando, non dobbiamo restare passivi spettatori di quello che sta accadendo: grandi promesse, grandi proclami e poi l'incapacità di fare le riforme. La società civile non può rimanere indifferente", ha tuonato il 19 novembre all'Università Cattolica a Roma. Appelli culminati alla vigilia del voto regionale con gli articoli firmati da Andrea Romano e Carlo Calenda sul sito di Italia Futura, un invito esplicito all'astensione: "Se la politica si trasforma in un cine-panettone, meglio smettere di comprare il biglietto". L'interesse di Montezemolo per la politica non è una novità: se ne parla almeno dal 2007, da quando l'allora presidente di Confindustria nella relazione di fine mandato sparò a zero sulla "casta" dei politici di professione e sul governo Prodi. E il Professore cominciò a sfotterlo: negli incontri a palazzo Chigi lo chiamava "signor Primo ministro". Meno chiaro il progetto: l'idea di proporsi come federatore di un nuovo partito di centro che dovrebbe partire dall'Udc di Pier Ferdinando Casini, passare per Francesco Rutelli e arrivare dalle parti di Gianfranco Fini, è sempre stata più un'ipotesi giornalistica che una realtà ed esce ancora più indebolita dal risultato delle regionali. Ma anche l'ambizione di diventare il perno di un vagheggiato dopo-Berlusconi, deve fare i conti con un problema non trascurabile: il Cavaliere è ancora qui, vivo e vegeto, più forte di prima.

In queste condizioni il Montezemolo tour sembra destinato a durare ancora per un po'. Anche se tra i sostenitori della necessità di trovare un nome esterno ai partiti per la futura candidatura a premier c'è un insospettabile come Di Pietro: "Serve una figura di alto profilo, non possiamo essere né io né Bersani. Una personalità che ridia al paese pacificazione, serenità, fiducia. Che sappia parlare di occupazione, lavoro, sicurezza, ambiente e abbia la professionalità per gestire situazioni e emergenze senza diventare un fantoccio nelle mani dei partiti. Una storia non ideologica". Un identikit che calza perfettamente addosso a Mario Draghi, se non fosse che il governatore di Banca d'Italia non ha nessuna intenzione di farsi coinvolgere nelle beghe politiche, impegnato com'è in una partita molto più delicata e strategica, la difficile corsa per la presidenza della Banca centrale europea dove il sostegno del governo italiano è essenziale. E dunque il candidato fantasma agitato dal leader di Italia dei Valori serve a ottenere un risultato di breve periodo: sbarrare la strada ai nomi che si stanno facendo avanti nel centrosinistra. Il governatore della Puglia Vendola, per esempio, nasconde a stento la sua voglia di gareggiare dopo la doppia vittoria, contro Massimo D'Alema e lo stato maggiore del Pd alle primarie e contro il Pdl. Non a caso il più rapido a sondare il potenziale avversario è stato proprio il Cavaliere. Il premier è stato il primo a farsi vivo con il governatore con l'orecchino dopo la rielezione. Il cellulare di Vendola ha squillato di buon mattino. "Nichi, come stai? Complimenti, hai fatto una campagna elettorale eccezionale. E poi, hai visto, non ci siamo mai attaccati sul piano personale... ".

Tra i due la simpatia risale a qualche anno fa, cementata da un intermediario, il fondatore del San Raffaele don Luigi Verzè, amico di entrambi. E Berlusconi riconosce a Vendola alcuni ingredienti che gli sono familiari: il fiuto per il pubblico, le doti di combattente, una biografia anomala. Il fattore leader che Vendola intende mettere a frutto nelle prossime settimane. In Puglia ha sepolto le strutture di partito con l'invenzione della Fabbrica, che da semplice comitato elettorale si sta trasformando in qualcosa di più ambizioso: un modello da esportare in tutta Italia. Una rete di fabbriche di Nichi, da costituire in ogni regione, circoli destinati a trasformarsi al momento opportuno nel motore della candidatura di Vendola alle primarie del centrosinistra. Per ripetere l'operazione già riuscita in Puglia. Spaccare il Pd e trascinare una parte dei suoi quadri a sostenere l'uomo della sinistra radicale che ormai acchiappa consensi anche tra i moderati e perfino tra i dalemiani di strettissima osservanza: "Sono sempre stato dalla sua parte", fa sapere in ogni dove il senatore del Pd Nicola La Torre.

Resta l'incognita Pd. Il convitato di pietra: nessun aspirante candidato alla sfida contro Berlusconi può rinunciare al sostegno del partito più grande, ma lo schema secondo cui spetta al segretario dei Democratici l'indicazione del leader della coalizione è uscito seriamente ammaccato dal voto regionale. Anche perché il partito solido invocato da Bersani in molte zone non si è visto. Nelle due regioni chiave, il Piemonte e il Lazio, l'analisi del voto del Pd è poco confortante. Nella regione espugnata da Roberto Cota gli assessori della giunta Bresso sono stati quasi tutti trombati in modo inglorioso: l'uomo chiave, il potente vice-presidente e assessore al Bilancio Paolo Peveraro ha raggranellato a Torino appena 2300 preferenze, una miseria. A Bussoleno, il comune simbolo del movimento No Tav, il Pd si è fermato al 14 per cento. La metà della lista Grillo che in Val di Susa ha conquistato il 28 e che nel capoluogo ha preso più voti dell'Udc: una beffa, se si pensa agli infiniti tavoli di trattativa di Bersani con i centristi. Nel Lazio, al contrario, sono rientrati in consiglio regionale gli assessori della giunta Marrazzo al gran completo: quindici eletti, tutti uomini, roba da rimpiangere le liste bloccate, che almeno costringono a nominare qualche giovane donna.

Alcuni di loro hanno avuto la bella idea di affiggere un manifesto per ringraziare gli elettori, come se il disastro romano del Pd non li riguardasse: centomila voti in meno nella Capitale rispetto alle europee di un anno fa, addirittura trecentomila in meno rispetto al 2008, consensi dimezzati. Un partito da rifare. In mano ai potentati locali nelle regioni centro-meridionali, senza radici nella società dove ha pure ben governato (vedi Piemonte), in calo nelle tradizionali roccaforti, con l'eccezione della Toscana del signor Enrico Rossi, il trionfo della normalità. E dilaniato dalla ripresa delle ostilità a Roma: i veltroniani in guerra con il segretario, D'Alema insoddisfatto, i quarantenni che scalpitano. Un film già visto, quello che portò in pochi mesi alle dimissioni di Veltroni. Per sfuggire allo stesso destino Bersani ha una sola carta a disposizione: fare il leader, trovare un progetto e magari anche la figura di un candidato premier su cui portare tutto il partito. Ma il nome ancora non c'è, è tutto da inventare. E intanto il presidenzialismo targato Berlusconi-Bossi corre più veloce della maledetta Tav.

(07 aprile 2010)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #44 inserito:: Agosto 05, 2010, 03:30:20 pm »

Pronti al partito di Nichi?

di Marco Damilano (02 agosto 2010)

Mentre il Pdl si dissolve e Bersani prende tempo, Vendola è pronto per la sfida. Con lui stanno già Cofferati e Bettini, probabile l'appoggio di Veltroni e Franceschini. E perfino l'ambasciatore americano...

Si ritroveranno dalla stessa parte dopo che per decenni l'antipatia personale e l'ideologia li ha divisi su tutto. Dopo l'estate due capi storici della sinistra italiana, due ex sindacalisti della Cgil, Sergio Cofferati e Fausto Bertinotti, si uniranno per la prima volta nella lotta. Un endorsement neppure tanto mascherato per l'ospite d'onore dell'incontro: il candidato ufficiale per la leadership del centrosinistra, il governatore della Puglia Nichi Vendola.

'E se Nichi riesce a far stare allo stesso tavolo quei due, ogni impresa diventa possibile', gongola un ambasciatore vendoliano.
Miracoli di San Nichi.

Fino a poche settimane fa sembrava davvero impossibile che Vendola si candidasse alla leadership dell'Italia che non vuole morire berlusconiana con qualche possibilità di successo. Troppo meridionale. Troppo comunista. Troppo cattolico. Troppo gay. Ma ora che il treno è partito, dopo la convention a Bari del suo movimento, la Fabbrica, si scopre che Vendola fa paura.

In largo del Nazareno, la sede del Pd di Pier Luigi Bersani, la sola idea di essere chiamati a contendergli la guida della coalizione scatena il panico. Pienamente giustificato: quando sul tavolo del segretario del Pd è arrivato il primo sondaggio il risultato è stato da brivido. Se si votasse oggi il governatore pugliese vincerebbe le primarie battendo il candidato del Pd. Per questo da giorni i bersaniani si affannano a spiegare che a norma di statuto il candidato premier del centrosinistra sarà il segretario, ma senza troppa convinzione. Anche perché l'operazione Nichi è pianificata in ogni dettaglio. Mentre le manovre per bloccarlo, finora, sono confuse e improvvisate.

Per scalare il Pd, la ricetta di Nichi è addirittura banale. Ripercorrere le tappe che nel 2008 hanno portato un certo Barack Obama dall'anonimato alla conquista della nomination democratica contro Hillary Clinton, fino alla Casa Bianca. Partire da Terlizzi per approdare a Palazzo Chigi non è esattamente la stessa cosa, certo, ma l'identificazione di Vendola con il presidente nero è totale. E c'è poco da scherzare, perché l'ex comunista con l'orecchino convertito ai dogmi della politica americana, presidenzialismo e personalizzazione, ha incuriosito un importante amico dell'Obama originale, l'ambasciatore americano David Thorne, che lo ha voluto conoscere di persona.

E ci credono i Nichi boys, tutti pugliesi (anzi, baresi), agguerriti e trentenni, precari e creativi, rappresentativi della loro generazione, che hanno studiato la 'mission impossible' di Obama fin nei particolari. Come si è capito alla kermesse delle Fabbriche di Nichi a Bari, dove i due seminari più affollati sono stati quelli dedicati all'analisi del modello americano (titolo: Win for left), affidati a due giovani ricercatori Mattia Diletti e Mattia Toaldo.

Una campagna fondata su tre pilastri: la comunicazione, i comitati di base, la leadership carismatica. Un vascello agile, 'un soft power' (egemonia, si sarebbe detto un tempo), lo definisce Vincenzo Cramarossa, 33 anni, studi di politiche del lavoro alla London School of Economics e a Milano alla scuola di Pietro Ichino e Michele Salvati, motore organizzativo delle Fabbriche. A curare l'immaginario (tradotto in vendolese: 'la narrazione') ci pensa Silvio Maselli, 35 anni appena compiuti, un passato alla Fandango e un incarico di prima fila nella Puglia di Vendola, la direzione della Apulia Film Commission, la fondazione regionale nata nel 2007 con un budget di un milione di euro per attrarre investimenti nel campo audiovisivo e diffondere le location pugliesi nel mondo. Lo spin doctor, il David Axelrod di Vendola, è un ragazzo di 26 anni, Dino Amenduni: 'I nostri punti di forza? L'attivazione giovanile, la creazione di un nuovo senso di comunità e di appartenenza, i comitati elettorali atipici, la delega della decisione sul piano organizzativo e creativo'. Tutte cose che dovrebbero fare i partiti, se ancora esistessero.

Amenduni lavora per l'agenzia Proforma che ha curato anche l'ultima campagna elettorale del Pd ma alla domanda sul perché quelle di Vendola siano da tutti considerate belle e efficaci e quelle del Pd da dimenticare risponde semplicemente: 'Nichi è più facile da comunicare. E ha un'identità politica definita'. L'appartenenza come risorsa, non come zavorra, come pensavano i tanti leader light e trasformisti dell'ultimo decennio. In più, a fare da supporto, un gruppo di intellettuali, possibilmente non ancora logorati dai soliti circuiti accademico-editoriali, un think tank che ha il compito di animare il dibattito di idee attorno alla candidatura Vendola (nome in codice: Nichi-pedia), perché le parole e le idee contano in politica, peccato che la sinistra non se ne ricordi più. Una società di fund raising internazionale a trovare le risorse per una campagna che non si annuncia breve.
 
E una spregiudicata azione di conquista del campo avversario (ovviamente il Pd), in cui andare a pescare consensi e accordi. Ma di questo si occupa Vendola in persona, che fa politica fin da bambino e quando ci si mette sa essere più spregiudicato del suo maestro.
Massimo D'Alema, già.

Altro che sinistra radicale: i Franco Giordano e i Gennaro Migliore restano defilati, a Bari l'unica maglietta di Che Guevara la indossava un ragazzo del Pd. Per conquistare la leadership Nichi l'americano punta a conquistare il campo riformista: 'Un riformismo vero, non scolorito, per chiudere il trentennio conservatore', spiegano alla Fabbrica. In casa del Pd il governatore pugliese ha messo a segno qualche colpo a effetto: il sindaco di Bari Michele Emiliano si è schierato apertamente dalla sua parte, nononostante i violenti scontri degli ultimi mesi, l'emergente consigliere regionale lombardo Giuseppe Civati è stato ospite alla Fabbrica, un gruppo di senatori del Partito democratico ha voluto incontrarlo. Tra loro, la prodiana Albertina Soliani e Paolo Nerozzi, per anni potente uomo macchina del sindacato del pubblico impiego e mente politica della Cgil.

Poi ci sono gli elefanti del Pd da attrarre nella rete. Di Cofferati si è già detto, e sarebbe una sorpresa vederlo dalla parte di Vendola. In privato si dice pronto al sostegno un peso massimo come Goffredo Bettini. Il presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti ci sta riflettendo.

Walter Veltroni guarda a Vendola con una punta di invidia: pesca nel suo stesso vocabolario, ma con in più la voglia di giocare all'attacco ('Scompaginare il centrosinistra'), una mentalità corsara e da combattimento che è sempre mancata all'ex sindaco di Roma. E alla fine Veltroni e Dario Franceschini, i due primi segretari del Pd, potrebbero ritrovarsi a far votare per Vendola. Il governatore va a caccia di consensi perfino nei sancta sanctorum dalemiani. Ad affiancarlo come consigliere c'è Franco Neglia, nome importante del Pci-Pds di Bari. Tra gli esperti invitati alla Fabbrica ci sono i giovani economisti Salvatore Monni e Alessandro Spaventa (figlio dell'ex ministro Luigi), relatori nei convegni della fondazione dalemiana Italianieuropei. E negli ultimi giorni Vendola ha incassato l'appoggio inatteso del braccio destro di D'Alema, Nicola Latorre: 'Vendola raggiunge un mondo che il Pd non raggiunge, sarebbe una follia escluderlo. E il prossimo leader andrà scelto con le primarie'. Chissà quanto apprezza il suo capo. Una prima vittoria è già arrivata: il verbo di Vendola, presidenzialismo e carisma, è già imitato dai settori del Pd più lontani da lui. L'incontro di fine agosto organizzato da Enrico Letta in Trentino, VeDrò, sarà dedicato quest'anno al tema della leadership. Titolo: 'The leader is...'.

Laboratori modellati a somiglianza della Fabbrica. Un trampolino di lancio per il giovane Letta che qualcuno vede come il vero competitore di Vendola se si dovessero fare le primarie: Bersani in quel caso si ritirebbe in un ruolo di regista della coalizione. E la sfida nazionale ricalcherebbe alla perfezione quella pugliese, dove il lettiano Francesco Boccia è stato sconfitto due volte da Vendola. E dire che D'Alema si ostina a chiamare tutto questo poesia: 'Non ne abbiamo bisogno'. È prosa, invece. La dura battaglia di Vendola per conquistare il potere. Da sinistra.

http://espresso.repubblica.it/dettaglio/pronti-al-partito-di-nichi/2131780//0
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