LA-U dell'OLIVO

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Titolo: Marco DAMILANO -
Inserito da: Admin - Luglio 08, 2007, 05:52:16 pm
AMORE E POLITICA / IL 'TRIANGOLO NERO'

Io, Daniela e Gianfranco
di Marco Damilano

Le nozze. Il tradimento.

L'emarginazione all'interno del Msi e di Alleanza nazionale.
Parla il primo marito della signora Fini


Colloquio con Sergio Mariani 

La vicenda tra me, Gianfranco e Daniela dovrebbe avere lui il coraggio di raccontarla. Io ho sempre avuto la dignità di viverla... Dieci giorni fa la separazione tra Gianfranco Fini e la moglie Daniela Di Sotto. Un passo politico, annunciato con un comunicato, l'ennesimo strappo del leader di An dal suo passato. E dal passato oggi riemerge il terzo lato del 'triangolo nero': Sergio Mariani, il primo marito di Daniela, all'epoca grande amico di Gianfranco. Protagonista di un episodio oscuro: il 10 marzo 1980 si sparò all'addome mentre Daniela stava andando dall'avvocato per ufficializzare la separazione e la sua relazione con Gianfranco. Da allora Mariani non ha mai parlato: rompe per la prima volta un silenzio lungo decenni perché, spiega, "mi ritrovo a vivere impotente uno scenario molto simile a quello di allora per colpa della protervia altrui". In questi anni Mariani, coinvolto in numerose vicende giudiziarie, è stato dirigente di An, è membro dell'Assemblea nazionale del partito e non ha mai smesso di frequentare Fini. Nel 2006 i rapporti si sono interrotti: "Fini sta rovinando la vita dei miei figli, delle persone che amo, di quelli con cui ho lavorato. So quanto mi può costare quello che dico, ma non ci sto. Non uscirò mai con i miei piedi dal partito".

Quando ha conosciuto i due Fini?

"Daniela l'ho vista nella sezione Msi del Quadraro, a Roma, dove c'era una forte presenza dei rossi. Una ragazza molto determinata, in realtà esprimeva una grande femminilità. Era, come si dice, da bosco e da riviera. Gianfranco l'ho incontrato nel '73 nella sede del Fronte della gioventù di via Sommacampagna. Vestiva in trench o con un cappotto di pelle nera. Frequentava la corporazione studentesca di cui era responsabile Maurizio Gasparri. Aveva una penna brillante, fiorivano i giornaletti, servivano persone che sapessero scrivere".

Lei era invece un uomo d'azione, diciamo così. La chiamavano Folgorino...

"Avevo partecipato al XXIX corso della Folgore ed ero molto rapido. Ma il mio vero soprannome era il Legionario, sono stato nella Legione straniera. A Roma sono arrivato nel 1972, dopo un mandato di cattura: a Milano avevo picchiato un ragazzo, gli avevo fatto parecchio male. Il Msi era monolitico, stretto attorno a Giorgio Almirante. Una volta le sue segretarie, le sorelle Ornella e Gila, ex combattenti della Rsi, mi chiesero davanti a lui: 'Se ti desse uno schiaffo, tu che faresti?'. E io: 'Glielo ridarei'. Almirante sorrise: capiva il carattere delle persone".

Chi c'era allora nel Fronte della gioventù?

"Tutti gli attuali dirigenti di An. Ero a fianco di Teodoro Buontempo, con lui nel '72 aprimmo la sede di via Sommacampagna 29, ho la residenza ancora lì, mai cambiata. Il partito per me è una comunità. Del fascismo mi piaceva il nome: le individualità unite per un obiettivo comune".

E Fini? Che ruolo aveva?

"Fini era emarginato, distaccato. E poi raccontava cose false: che proveniva dalla Giovane Italia di Bologna, che abitava in piazza di Torre Argentina e invece stava a Monteverde, che era figlio di un alto dirigente di una multinazionale del petrolio. Alcuni di noi sospettarono che fosse un infiltrato della polizia. Una sera decidono di dargli una lezione, bastonarlo. Salgo anch'io in macchina. Lui si accorge del pedinamento, scappa, si infila in un palazzo. Io lo seguo da solo, entro, scendo giù. Trovo Gianfranco rannicchiato in un sottoscala. Mi prende le gambe e mi dice: 'Sergio, che colpa ne ho se non ho il vostro coraggio?'. Mi sembrò un atto di sincerità. Ho visto il Fini sempre ingessato che si apriva. Diventammo amici".

Vi vedevate anche con Daniela?

"Mi sono sposato con lei nel 1976. Una volta andammo in tre a vedere 'Apocalypse Now' e Gianfranco e Daniela applaudirono la scena della cavalcata delle valchirie e degli elicotteri. Nella scena successiva, quando la vietnamita fa saltare in aria gli americani, in sala esplose un applauso contro di noi. Si accesero le luci, alcuni poliziotti ci protessero, ci allontanammo di corsa, mestamente".

In quegli anni Fini si dichiarava fascista?

"Fini non è mai stato fascista. Allora diceva di essere mussoliniano. Ma lui non è né fascista né mussoliniano. È una persona che ha un profondo culto della personalità: la propria. È il suo limite. Un uomo che non è all'altezza della libertà degli altri".

Mariani, lei è stato più volte condannato per atti di violenza. Mentre Fini oggi è uno statista. Non le pare di esagerare?

"Sì, è vero, ho praticato, anzi, ho vissuto la violenza. Il mio avversario era il nemico, quello dello slogan 'Uccidere un fascista non è reato'. Avevo accettato le regole del gioco. Dopo ho capito che erano condotte da organismi superiori, il sistema, ma nel 1974-75 si alza il livello dello scontro con la sinistra: dai cazzotti si passa ai bastoni - io usavo il manico di piccone, segato nell'ultima parte perché si spaccava con i colpi - poi le spranghe, i coltelli e infine le armi. Ci segnò la morte di Mario Zicchieri, 'Cremino', ucciso barbaramente a sedici anni. Il giorno prima aveva comprato un disco di Lucio Battisti, Daniela glielo aveva chiesto in prestito. Si era creata una organizzazione interna, il Msi per la lotta popolare, per condizionare il partito in una difesa più convinta dei suoi ragazzi e accettare la logica dello scontro. La maggioranza dei giovani aderì, anche Fini firmò il loro manifesto".

Fini estremista? Impossibile.

"Lo spinse il desiderio di essere accettato. Lo stesso che lo porta a proporre il Corano nelle scuole. La verità è che non è mai stato considerato da quelle frange, esattamente come oggi non lo accettano fino in fondo alcuni settori economici, finanziari, religiosi. Si dice che Fini sia una persona fortunata, ma in realtà è un utilizzatore del gratta-e-vinci della politica. Non si può non avere un progetto. Non si può passare da un estremo all'altro, con indifferenza. Quando a Fiuggi nacque An, volle spegnere la luce come simbolo del nuovo corso: l'ultimo dei messaggi che avremmo dovuto dare. Per lui, invece, si trattava di allontanare ogni cosa che avesse fatto parte del suo passato".

Quando seppe che Fini aveva una relazione con sua moglie Daniela?

"La loro conoscenza si approfondì in una visita alla tomba del Duce con un pullman di camerati romani nel 1979. Vivevamo insieme sotto lo stesso tetto, ma Daniela e Gianfranco avevano cominciato una relazione clandestina nella casa di una dipendente del 'Secolo', collega di Daniela. Venni a sapere qualcosa, chiesi spiegazioni e lei mi rispose: non è vero, te lo giuro sul nostro bambino morto. Ebbi uno scontro fisico con chi mi aveva raccontato quella cosa e aveva messo in dubbio la parola della mia donna. Io ho creduto a Daniela, in ogni caso".

Cosa successe il giorno della sparatoria?

"Non ricordo. È una rimozione. La vicenda si è svolta come tutti e tre sappiamo bene. Se sono arrivato a spararmi è perché Fini ha inciso pesantemente. Mi aveva portato di fronte al fatto di essere responsabile del fallimento del mio matrimonio. La colpevolizzazione mi ha messo in un profondo stato depressivo rispetto al quale non avevo possibilità di ritorno né di perdono di me stesso".

Prova rancore, odio nei loro confronti?

"Se Daniela quando eravamo ancora sposati si è innamorata di Fini non ha nessuna colpa, il sentimento non si può gestire. Il problema non sta nel tradimento dell'amore, ma nell'errore di Fini: il tradimento dell'amicizia, di un vincolo di comunità. Ma Fini ha già il potere e lo esercita. Chi si mette di traverso viene esautorato dagli incarichi politici. Il dopo fu ancora più imbarazzante: restai nel partito, non volevo andarmene per responsabilità che non avevo. Mi chiesero di trasferirmi al Nord, Fini non vedeva l'ora di allontanarmi da Roma. Almirante lo bloccò: 'Mariani non si muove '".

Lo ha mai affrontato?

"Sono cose che deve raccontare Fini. Il personaggio pubblico è lui. Oggi sono rabbioso per l'ingiustizia che sto subendo. Alcuni colonnelli sono affascinati dalla capacità di Fini di raggiungere gli obiettivi, forse sperano di vincere sulla ruota della fortuna. Sono l'unico dirigente dell'epoca che non è diventato parlamentare".

A causa delle condanne per violenza?

"No: era stato rotto un braccio a un ragazzo di Sommacampagna, corsi al liceo Plinio e picchiai il responsabile, fui preso dai carabinieri. Alemanno stava da quelle parti, fu arrestato anche lui e quando arrivai in caserma era legato con le manette al termosifone e lo stavano picchiando selvaggiamente. Poi è diventato ministro. Ai dirigenti di An chiedo: oggi tocca a me, quando toccherà a voi, per quello che rappresentiamo? Io pago per lesa maestà, per aver offeso questo imperatore che brilla di luce propria".

Perché esce allo scoperto?

"Sono di fronte al fallimento delle mie attività, senza colpa. Lavoro come intermediatore editoriale, per assicurarmi al minor costo possibile la stampa di manifesti, volantini, altre attività, per conto del partito. An mi deve 750 mila euro per quanto riguarda la Federazione romana, per le campagne elettorali provinciali del 2003 e europee 2004, più 90 mila per la campagna europea di Adolfo Urso. Ho attaccato un manifesto in cui denunciavo tutto. Ho sperato che Fini facesse qualcosa. Con lui ho continuato ad avere rapporti corretti fino all'estate 2006, quando vengono da me i carabinieri che indagano su Marco Buttarelli, segretario amministrativo di An di Roma. Buttarelli mi aveva dato il 10 per cento di quanto mi deve An: 70 mila euro, senza Iva, e non 84 mila che sarebbero state regolarmente fatturate da una delle società beneficiarie ed esecutrici del lavoro. La mia colpa è che non dico ai carabinieri a chi li ho dati. Faccio sapere a Fini che ho agito in modo corretto. Da questo momento si interrompe ogni rapporto".

Perché non li ha denunciati?

"I panni sporchi si lavano in famiglia. Di recente li ho citati in giudizio. Questi soldi mi sono dovuti non solo perché ho eseguito il lavoro, ma perché esisto. Dichiarerò ai quattro venti cosa è diventata An, quali ricatti governino il vivere sociale di un partito assolutamente non democratico. Non do la responsabilità solo a Fini. All'indomani del manifesto vengo chiamato da Donato La Morte, che mi chiede di mettere a posto la vicenda. Mi dicono che se ne occuperà l'avvocato Bongiorno. Giulia Bongiorno è persona spiritosa, cambiale in scadenza al partito: una che diventa deputata, ma non prende la tessera quasi che la nostra sia la storia di un branco di imbecilli. Ma la transazione è una colossale presa in giro".

La Bongiorno è il legale di Fini e signora nella separazione. Perché si lasciano oggi?

"La separazione è una tappa nel percorso di onnipotenza di quest'uomo. Lui l'aveva già lasciata negli anni Ottanta, ma Daniela non lo accetta. Se questo oggi avviene è per altri motivi. Chi ne deve trarre lezione sono gli altri dirigenti di partito: il fatto è di uno squallore terrificante, una violenza che questa donna sta subendo, con una vicenda giudiziaria ridicola che vede coinvolta Daniela, il fratello di Fini, la cognata di Fini, il segretario di Fini Checchino Proietti. Cosa farà ora Fini? Andrà all'anagrafe a cancellare il cognome del fratello? Licenzierà Checchino?".

Con Daniela oggi che rapporti ha?

"Due anni fa in un'intervista ha raccontato che ordinai una spedizione punitiva contro Fini. Ma ero in coma, non potevo ordinare nulla. Mi amareggia l'ignavia di un partito che non difende un suo dirigente dalle accuse perché provengono dalla donna del capo. Daniela ha anche rivelato la nascita del nostro figlio che ha vissuto dieci minuti in incubatrice. Non è così: purtroppo il bambino nacque morto. Ma non ho nessun odio nei suoi confronti. Vorrei solo che Daniela fosse più se stessa, che interpretasse una politica con lo stile che lei definiva borgataro e che non è denigrante: è un modo schietto di vivere".

Che cosa si aspetta ora da Fini?

"Si vuole dimostrare che talmente insignificante è il mio ragliare che il problema è solo avere la pazienza che io muoia. Io muoio, ma il mio ragliare lo farò pesare come il rullo di mille tamburi. Non sono una persona che capitola di fronte alla forza. Sono uno che combatte fino alla morte, e anche dopo. A questa violenza, questa sì non so dove Fini l'abbia imparata, io reagisco con la violenza che sapevo esprimere. Una volta si diceva: allo sfidante la scelta delle armi. Io non le ho scelte, le accetto. Quali che esse siano".

da espressonline


Titolo: Re: Marco Damilano: Io, Daniela e Gianfranco
Inserito da: Admin - Luglio 09, 2007, 12:00:35 am
8/7/2007 (8:23) - RETROSCENA

Campidoglio, la tentazione di Gianfranco
 
Il leader di An medita il ritorno dopo la sfida (persa) che lo lanciò
FEDERICO GEREMICCA


ROMA
Magari se ne parlerà davvero tra quattro anni, e allora siamo qui a discettare sul nulla, a costruire - cioè - scenari che non reggono e a ipotizzare una «battaglia per Roma» che per quell’epoca avrà cambiato protagonisti, tattica e possibile epilogo. Che però intorno al nulla abbiano già cominciato a tirar di sciabola leader del calibro di Veltroni e Fini (mentre si posizionano figure di peso come Gentiloni, Alemanno, Baccini e Gasbarra) è cosa che non quadra: e che fa venire il dubbio che la partita per la successione a Walter Veltroni al Campidoglio finirà per essere giocata, come i più ipotizzano, assai prima del 2011 (scadenza naturale del mandato di Veltroni, però ormai candidato alla guida del Pd e della coalizione che sfiderà il centrodestra alle prossime elezioni politiche).

In realtà, tutta la faccenda sarebbe rimasta lì - ovviamente in secondo piano rispetto alle solite emergenze della politica - se il coperchio dalla pentola già evidentemente in ebollizione non fosse stato sollevato proprio da uno che a Roma e alla corsa al Campidoglio deve gran parte di quello che è stato definito il suo sdoganamento: e cioè, Gianfranco Fini. «Quando fu rieletto al Campidoglio - ha ricordato un paio di giorni fa il leader di An - Veltroni disse che non avrebbe mai fatto il sindaco part-time perchè cosciente che amministrare Roma è un impegno totalizzante: il 14 ottobre diventa segretario del Partito democratico e candidato alla premiership, e mi auguro tenga fede all’impegno preso con i cittadini romani». Una puntualizzazione di ordine generale, di metodo, si potrebbe dire: se non fosse che il Secolo d’Italia ieri ha sistemato in prima pagina una bella foto del leader sopra il titolo «Roma, già al via le grandi manovre per il dopo-Walter». Con l’aggiunta: «E a destra c’è chi tifa Fini». Un po’ troppo, magari, per un appuntamento politico-elettorale al quale mancano, ufficialmente, quattro anni... Il fatto è che per Gianfranco Fini il Campidoglio è, allo stesso tempo, un ricordo dolcissimo ed una ferita ancora aperta. È una vicenda vecchia, ormai, certo, risalendo al freddo inverno del 1993: quando, avendo deciso di sfidare Francesco Rutelli nella prima campagna con elezione diretta del sindaco, incassò anzitutto lo sdoganamento da parte di Berlusconi («Se fossi un cittadino romano voterei per Fini») e poi quello degli elettori, visto che raggiunse al ballottaggio l’inimmaginabile tetto del 46,9%. Che a Movimento sociale italiano all’epoca ancora vivo e vegeto, è percentuale sulla quale non avrebbe scommesso nessuno.

E tutto questo, per altro, quattordici anni fa: con An non ancora nata e avendo per avversario un competitor abile come Rutelli. È evidente che oggi, a profilo democratico definitivamente acquisito e con di fronte uno sfidante che certo non avrebbe la caratura nè di Veltroni nè di Rutelli, appunto, le chance di vittoria sarebbero assai maggiori. E la tentazione infatti cresce... Ed il fatto è anche che, al di là dei bei ricordi, Gianfranco Fini sembra essere - anche sul piano strettamente personale - in una fase di grandi rivolgimenti e di possibili svolte. Abbandonato, dopo mesi e mesi di velenose polemiche, da uno dei più fedeli compagni di viaggio (Francesco Storace), separatosi dopo 25 anni dalla moglie Daniela e incerto se stare ancora lì ad aspettare che Berlusconi gli lasci la leadership del centrodestra oppure tentare un’altra via, Fini riflette da settimane intorno all’opportunità di ritentare il lancio dalla postazione che, in Italia come in Europa, è diventata ormai il miglior trampolino per tentare di conquistare la premiership. Non è soltanto la vicenda di Rutelli e Veltroni a ingolosire e tentare il leader di An: è anche la constatazione che nel gioco di società sull’ipotetico dopo-Berlusconi, molti puntano su proprio su personalità provenienti da esperienze istituzionali in Comuni e Regioni (due esempi per tutti: Roberto Formigoni e Letizia Moratti). E’ sufficiente, tutto questo, per dire che sarà appunto Gianfranco Fini il candidato del centrodestra nella prossima corsa al Campidoglio? Certamente no. Ma altrettanto certamente ce ne è quanto basta per sostenere che la tentazione è forte, e che se alla fine dovesse prevalere su ogni prudenza, la via per ottenere la nomination sarebbe naturalmente spianata: «Tornerebbe l’entusiasmo, sarebbe una scelta significativa per la città e tutta la classe dirigente sarebbe onorata di un impegno in prima persona del leader nazionale del partito», spiegava ieri al Secolo d’Italia Marco Marsilio, capogruppo di An in Campidoglio.

E lo stesso quotidiano del partito - per riverniciare una scelta che saprebbe comunque molto di passato - cita lo slogan con il quale i sondaggisti spiegano il crescente successo di Fini in ogni sondaggio: «È il nuovo che viene da lontano». Effettivamente, l’esser sceso in pista per il Campidoglio già 14 anni fa (e se si votasse nel 2011 gli anni diventerebbero 18!) non è il migliore dei viatici. Eppure non sarebbe questo - stando ad un suo ex amico ora diventato nemico - l’handicap maggiore per Fini. Dice infatti Francesco Storace, legittimamente spruzzando veleno qua e là: «Fini non è certo un uomo nuovo, come del resto non lo è Veltroni dall’altra parte. Ma il suo problema maggiore non sarebbe quello di sembrare una minestra riscaldata, quanto piuttosto il fatto che nel voto a Roma pagherebbe le scelte politiche sbagliate degli ultimi anni». «A Roma - annota Storace - non si vince senza i voti di Santa Romana Chiesa: e Gianfranco, con le sue uscite sulla procreazione assistita, sul Corano nelle scuole e sull’apertura agli immigrati, certo non è il massimo di garanzia per il Vaticano...». Sarà. Ma poichè in politica come nella vita spesso il problema è quello dell’alternativa, non è affatto detto che Fini preferisca star lì ad attendere l’eredità di Berlusconi (sono già 13 anni che gli fa da secondo, e potrebbe bastare) piuttosto che guidare le sue truppe alla «guerra di Roma». Questo, insomma, racconta chi gli è vicino. Per sapere come finirà, non resta che aspettare. E non quattro anni, naturalmente. Meno. Forse addirittura molto meno...

da lastampa.it


Titolo: Marco Damilano - Il pittore e il divo (Guttuso e Andreotti).
Inserito da: Admin - Novembre 02, 2007, 11:08:38 am
Il pittore e il divo

di Marco Damilano

Complimenti. Suggerimenti politici. Attestati d'affetto.

Dalle carte dell'archivio segreto di Andreotti, le lettere di Guttuso al potente dc.


Caro Presidente, carissimo Giulio...

Stimava il politico, stravedeva per la persona. Andava in estasi alla lettura dei suoi libri: "Si è conquistati dalla prosa, dall'ironia che affiora qui e là con discrezione. Se cominciassi a dirti delle tante illuminazioni avute sui fatti che ho vissuto, o delle parti che più mi hanno attratto o divertito non la finirei più. Mi sei stato sempre davanti agli occhi. Leggendoti, sentivo la tua voce...". E si infuriava se qualcuno osava criticare l'amico, al punto di fremere di rabbia per un editoriale di Sandro Viola su 'Repubblica' ('La politica di Giulio d'Arabia', 3 aprile 1986) sui rapporti tra il ministro degli Esteri italiano e Gheddafi: "Voglio esprimerti la mia solidarietà e il mio affetto, specie dopo quest'ultimo recente attacco di Viola, ignobile e vile. Io già da un po' di tempo non ho più voluto scrivere su 'Repubblica' per l'ambiguità sempre maggiore di quel giornale. Se ho qualcosa da dire lo passo all''Unità'. Ieri ho avuto una lunga conversazione con Bufalini, indignato come me, per gli attacchi alla tua persona e alla tua giusta politica. Accetta un abbraccio". Firmato: Renato Guttuso.


Il pittore del Pci e il sette volte presidente del Consiglio, personificazione del potere democristiano. L'intellettuale impegnato e il Cardinale della Repubblica, come lo chiamava Leo Longanesi. Guttuso e Giulio Andreotti. È noto il ruolo avuto dal senatore a vita durante la vicenda della conversione religiosa dell'artista nelle settimane prima della morte, avvenuta a Roma il 18 gennaio 1987: processi, risse sull'eredità, il cardinale Fiorenzo Angelini che celebra la messa di Natale nella casa romana del pittore siciliano nella splendida salita del Grillo e Andreotti sempre lì, sullo sfondo.

Ora è possibile ricostruire il rapporto tra i due personaggi grazie al carteggio conservato in due pesanti faldoni che 'L'espresso' ha potuto consultare: solo un frammento degli oltre 3.500 contenitori che compongono l'Archivio Andreotti
. Per decenni quell'archivio è stato un luogo dell'immaginario: l'Armadio dei misteri, in cui secondo la leggenda hanno trovato posto tutti gli scheletri d'Italia, i segreti, i dossier. Il Sifar, il golpe Borghese, il crack Sindona, il caso Moro, le stragi, la P2, Salvo Lima. Il senatore a vita Giulio AndreottiE poi gli scandali della prima fase della Repubblica, negli anni Cinquanta, Giovanni Battista Giuffrè il 'banchiere di Dio', monsignor Cippico, Fiumicino. Il Vaticano e gli Stati Uniti, gli arabi e gli israeliani, i preti e le spie, le crisi politiche: non c'è stato passaggio che non abbia visto Andreotti protagonista, sulla scena e più spesso nell'ombra a manovrare, trattare, distribuire le carte.

L'Archivio è da poche settimane custodito in un sotterraneo del cinquecentesco palazzo Baldassini in via delle Coppelle, nel cuore di Roma, esattamente a metà strada tra Camera e Senato, sede dell'Istituto storico Luigi Sturzo che raccoglie le memorie dei più importanti leader democristiani: una location che più andreottiana non si potrebbe. È stato il senatore, 89 anni il prossimo 14 gennaio, a donarlo all'istituto e a disporne il trasferimento durante l'estate dalla sede dove si trovava in precedenza, un appartamento in via Borgognona. I faldoni sono conservati in cassaforti semoventi con la scritta G. A. Dentro c'è di tutto: documenti, ritagli, lettere, videocassette, nastri sonori, litografie, foto. Un parco tematico della politica per storici, giornalisti, affidato alla cura della ricercatrice Luciana Devoti: un archivio anomalo, dato che il titolare è in piena attività, solo una settimana fa ha salvato il governo Prodi in una votazione al Senato e continua a rifornire il bunker di nuovi documenti. Da una cartellina spunta perfino, avvolta in una elegante confezione rossa, una tavoletta di cioccolato reperita chissà quando in un albergo di Cap Ferrat, in Costa Azzurra. Il divo Giulio l'ha pure assaggiata, prima di archiviarla: resta l'impronta di un morso. Diventerà una reliquia dell'andreottismo, culto che ha dominato la vita della Prima, della Seconda e di tutte le Repubbliche.

L'uomo delle amicizie inquinate, ma anche il protettore degli intellettuali lontani dalla sua parte. A curiosare tra le carte che raccolgono l'attività di Andreotti sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega al cinema negli anni Cinquanta si hanno molte sorprese.
La satira lo raffigurava come un ossessivo censore ("Ha finito di spogliare la corrispondenza?", chiede al segretario in una vignetta dell'epoca. "Bene, allora può togliere il paravento"), ma dall'archivio emerge il volto inedito di un Andreotti santo patrono di Cinecittà. Assediato da richieste di tutti i tipi: il ministro dell'Interno, il potente Mario Scelba, gli chiede di bloccare 'I pompieri di Viggiù', commedia del 1949 di Mario Mattoli, sospettato di infangare i vigili del fuoco e il braccio destro di Alcide De Gasperi, appena trentenne, replica che "l'asserito dileggio dei vigili del fuoco non appare giustificato: trattasi di evidente parodia". Un altro big dello Scudocrociato, il ministro dell'Istruzione Guido Gonella, reclama la mannaia della censura su 'Gioventù perduta' di Pietro Germi: "So della tua sensibilità di nuovo Torquemada, dalla quale siamo in molti ad attenderci presto un largo e attento riesame". Si fa vivo pure De Gasperi, con un foglietto scritto a mano, con matita blu, contro il film 'Persiane chiuse' di Luigi Comencini, sospetto di istigare alla prostituzione. E Andreotti tiene testa al suo principale: "Il film non contiene alcuna scena di sensualità morbosa o eccitante, e ha invece una chiara finalità ammonitrice per le migliaia di ragazze che sono tentate a varcare la soglia della prostituzione organizzata... Al soggetto ha collaborato la Onorevole Tina Merlin, che non credo possa essere accusata di propaganda favorevole alla prostituzione". Protesta anche monsignor Giovanni Battista Montini, il futuro papa Paolo VI, sostenitore del dialogo con la cultura laica: non vuole vedere attori in talare sugli schermi cinematografici. E Andreotti, addirittura, si arrabbia: "Per la gravità del rilievo il primo impulso di una certa meraviglia ha ceduto al desiderio di una più accurata indagine... Da 'Roma città aperta', indimenticabile esaltazione di figura di sacerdote, a 'Paisà', che contrappone ai furori della guerra l'oasi serena di un convento francescano, è tutta una serie di film che esaltano la funzione sacerdotale nei suoi aspetti religiosi e umani".

Ancora più sorprendente il rapporto che lega il cattolico Andreotti al comunista Guttuso. Una frequentazione che nasce grazie agli amici di Andreotti nel Pci, Paolo Bufalini, Antonello Trombadori, Tonino Tatò, si rafforza quando nel '76 Guttuso viene eletto senatore del Pci a Bagheria e che negli anni Ottanta diventa assidua. Un'amicizia che per Guttuso sconfina nella devozione, se non nell'adulazione. Con il pittore che spedisce un'acquasantiera "fresca di torchio" per la moglie del ministro, "donna Livia" e un bozzetto di una scena dell'Inferno dantesco con dedica. Oppure tempesta l'amico di biglietti vergati con calligrafia sottile, lodandolo senza pudore: "Carissimo Giulio, voglio esprimerti tutta la mia solidarietà, amicizia, ammirazione per il tuo comportamento da vero italiano, responsabile e intelligente, in tutta questa faccenda dalle tante facce", scrive il 14 ottobre 1985 durante il caso della nave da crociera Achille Lauro sequestrata dai terroristi palestinesi. Il 23 ottobre torna a farsi vivo: "In questi giorni ti sono stato vicino senza sosta, apprezzando ogni tuo gesto, scritto, discorso. So che fai ciò che è bene per il nostro Paese, per la sua dignità e per il suo sviluppo".

Nell'86 Andreotti deve formare un nuovo governo e Guttuso esulta: "Sono stato felice dell'incarico che ti è stato affidato, anche perché il momento difficile, i giochi di potere, hanno bisogno della tua accortezza e della tua capacità di ottenere risultati. Ho in te la più grande fiducia, oltre all'affetto che sai, e alla stima profonda". Con un desiderio espresso nel post scriptum: "Palpito un poco per gli Esteri. L'ideale sarebbe che tu alla Presidenza accoppiassi anche l'incarico agli Esteri". E quando nel 1984 Andreotti afferma che le due Germanie devono restare divise non fa mancare la sua approvazione: "Ho seguito la penosa canea che è seguita alle tue naturalissime e responsabili dichiarazioni sulla Germania. Sono cose che tutti sanno e che fingono di non sapere quando loro sembra opportuno. Abbiamo con te, finalmente, un Ministro degli Esteri. Purtroppo non abbiamo uno Stato. E il Capo del Governo (Bettino Craxi, ndr)? Glissons". A conferma dell'autentica venerazione che i comunisti di un certo tipo hanno sempre coltivato per Belzebù.

Più sobrio Andreotti. Una committenza (un ritratto di De Gasperi), una serata all'ambasciata di Ungheria sovietica per un'onorificenza attribuita al pittore, qualche telegramma per assicurare la presenza alle mostre fuori d'Italia. Tra il ministro e l'intellettuale che nei congressi del Pci invocava la "lotta ideologica contro il capitalismo" non c'è gara: di fronte al potere allo stato puro anche l'esponente della più raffinata egemonia culturale può apparire un cortigiano. È la storia di una parte della cultura italiana: ma almeno questo non è un mistero, né un segreto.

(01 novembre 2007)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Marco Damilano - Aspettando Luca
Inserito da: Admin - Dicembre 03, 2007, 10:24:16 pm
Aspettando Luca

di Marco Damilano

Tabacci attivissimo tessitore. Pezzotta ambasciatore verso i cattolici. Di Pietro pronto ad aggregarsi. Così si lavora al nuovo partito. Che nascerà a maggio. Quando Montezemolo scenderà in campo

L'Italia della società civile, che detesta la Casta dei politici ed è desiderosa di rimboccarsi le maniche. L'Italia popolare, lontana anni luce dal populismo targato Silvio Berlusconi. L'Italia reale, da contrapporre al Palazzo che ha perso contatto con la vita delle persone. L'Italia perbene: potrebbe essere questo lo slogan del nuovo polo della politica italiana, l'oggetto misterioso che suscita timori e speranze e prima ancora di essersi materializzato già scompone e ricompone vecchi partiti e nuove alleanze. Con l'obiettivo di arrivare alle due cifre elettorali: dal 10 per cento in su. E diventare il passaggio obbligato in cui si fanno e si disfano i governi.

Per vederlo nascere bisogna aspettare ancora qualche mese: la primavera 2008, per la precisione. In quel periodo sarà ormai chiaro con quale legge elettorale si tornerà a votare: se con il sistema tedesco o con la proporzionale corretta, oppure se la parola passerà ai cittadini con i referendum elettorali. E soprattutto, nel mese di maggio, scadrà il mandato da presidente di Confindustria di Luca Cordero di Montezemolo, con Emma Marcegaglia in pole position per sostituirlo in viale dell'Astronomia, prima donna ad arrivare alla guida degli industriali italiani. Da allora in poi, per il Signor Ferrari qualunque momento sarà buono per annunciare quello che nei palazzi romani è fin da ora dato per scontato: il suo fragoroso ingresso in politica.

Nell'ultimo fine settimana la possibilità che il presidente di Confindustria si butti nella mischia ha incassato un mezzo apprezzamento da Massimo D'Alema, che in realtà suona come un altolà, e una sprezzante battuta da parte di Marcello Dell'Utri, che però assomiglia molto a un esorcismo. "Montezemolo è una personalità, può dare un contributo, ma non lo vedo come l'uomo della Provvidenza", ha spiegato il ministro degli Esteri. "Se entra in politica farà l'ennesimo partitino dell'1 per cento", lo ha bocciato in tv il senatore, pronto a capeggiare il Partito della libertà accanto all'amico Silvio. Solo un assaggio di quello che potrebbe succedere tra qualche mese.


A luci spente, c'è un terzo personaggio che ha sondato di persona il presidente di Confindustria per capire cosa ci sia di vero dietro la sua voglia di scendere in politica: Walter Veltroni. Tra i due la frequentazione è assidua. L'ultima volta che si sono incontrati in pubblico, alla vigilia delle primarie che hanno incoronato il sindaco di Roma leader del Pd, Montezemolo si è sperticato in lodi: "Vorrei che la Ferrari si comportasse come l'amministrazione del Comune di Roma che ha rispettato gli impegni presi". Nei colloqui privati, però, la sintonia non si è trasformata in appoggio. Anzi, quando Veltroni si è spinto a ipotizzare per Luca i più alti incarichi governativi in caso di vittoria del Pd alle prossime elezioni, il presidente della Fiat ha ringraziato per aver pensato a lui, ma ha ribadito di volersi tenere le mani ben libere.

Mani libere è il filo che unisce tutti i potenziali partner di Montezemolo nell'impresa. Mani libere, giurano in corso Vittorio Emanuele, a due passi da piazza Navona, dove da qualche settimana si è trasferita la fondazione per il Sud con il suo presidente Savino Pezzotta, fondatore di Officina 2007, movimento 'per la buona politica' messo in piedi con Pellegrino Capaldo, esponente di spicco della finanza bianca, ottime entrature in Vaticano e nella Cei. Tra l'ex segretario della Cisl e l'uomo della Confindustria il dialogo è ormai quotidiano, con una perfetta divisione dei compiti: il primo pensa ai laici, il secondo cura i cattolici, uno garantisce l'establishment, l'altro gira le parrocchie dal Nord al Sud e scalda la base popolare. Mani libere, ripete Bruno Tabacci, uno dei motori dell'impresa, uomo di raccordo tra i diversi mondi che dovrebbero partecipare alla nuova formazione. La scorsa settimana l'attivissimo deputato dell'Udc ha incontrato Veltroni in Campidoglio. Per spiegargli che la nascita di un terzo partito tra il Pd e la nuova creatura berlusconiana è una chance che il sindaco di Roma dovrebbe considerare positivamente: l'unico partito in grado di strappare voti al Pdl del Cavaliere e di parlare alla stessa Italia moderata e governativa che ha avuto un brivido quando ha visto Berlusconi montare sul predellino. In più, potrebbe diventare l'unico alleato per Veltroni dopo le elezioni, al posto della sinistra radicale.

Il leader del Pd, però, non è molto convinto. Preferisce inseguire il pieno dei voti per il suo Pd. Teme che il Polo di centro finisca per togliere voti anche al nuovo partito, tanto più che intercetta anche i democristiani già delusi dalla convivenza con gli ex Ds. Per trattenere sotto il loft Marco Follini, che già aveva manifestato il suo disappunto e sembrava in partenza, è stato necessario affidargli l'incarico di responsabile dell'informazione del Pd. In agitazione anche il ministro Giuseppe Fioroni, il capo tribù dei popolari lasciati orfani da Franco Marini. Per non parlare delle aree più interessate al progetto di Pezzotta: dalla comunità di Sant'Egidio di Andrea Riccardi alle Acli a qualche pezzo di Cisl rimasto fedele all'ex segretario.

Nel centrosinistra non sono gli unici interessati all'operazione terzo polo. C'è Italia dei Valori di Antonio Di Pietro pronto ad aggregarsi. Un'adesione che esclude dalla partita Clemente Mastella, nonostante l'amicizia con Diego Della Valle: quasi una beffa per il ministro della Giustizia, l'ago della bilancia nella Seconda Repubblica che rischia di ritrovarsi a spasso nella Terza. Incompatibile con Di Pietro e impresentabile alla testa di un gruppo che vorrebbe proporsi come innovativo.

Ma il vero uragano si sta abbattendo sul disastrato centrodestra. L'epicentro è l'Udc: da un lato c'è Carlo Giovanardi che lo invita a entrare nel nuovo partito berlusconiano, dall'altro la coppia formata da Tabacci e dal boss del partito romano Mario Baccini che vanta tre senatori e dieci deputati e procede spedita verso la costruzione del terzo polo. In mezzo, c'è Pier Ferdinando Casini: di certo il suo partito traballa, è una nave un po' troppo stretta per far salire tutti, se dovesse nascere un terzo polo sarebbe costretto a rimettersi in gioco. Problema comune con Gianfranco Fini: difficile che il leader della destra possa partecipare a un'iniziativa centrista, anche se resta un interlocutore prezioso, specie dopo la rottura con il Cavaliere. Con Montezemolo e con Pezzotta i rapporti non si sono mai interrotti, a tenerli ci pensa Gianni Alemanno. Perfino in Forza Italia qualcosa si muove: il più rapido a uscire allo scoperto è stato Giuseppe Pisanu, da mesi in disgrazia alla corte del Cavaliere. "Nel nuovo partito dobbiamo riuscire a coinvolgere Montezemolo, Pezzotta, Mario Monti, Andrea Riccardi...", ha elencato l'ex ministro. Gli stessi nomi che dovrebbero costruire il polo centrista, guarda caso. Insieme a lui, Ferdinando Adornato, sempre più in rotta con il partito azzurro.

Personaggi in cerca di leader, pronti a imbarcarsi sul vascello terzopolista, se e quando partirà. In questi giorni il cellulare del segretario generale di Confindustria Maurizio Beretta è rovente. Beretta, già molto vicino a Franco Marini nella Dc, un passato tutto Rai, Dc e Fiat, come dire le grandi mamme d'Italia, è l'ambasciatore di Montezemolo con i palazzi romani. Anche se Luca non ne ha bisogno: nessuno lo ricorda, ma nel suo curriculum può vantare una prova d'eccezione: mettere in piedi una corrente nella Dc, come giocare i Mondiali di calcio in Brasile. "Compare Agnelli, scortato da Luca Cordero di Montezemolo che non è un incrociatore", scriveva Fortebraccio nei suoi corsivi sull''Unità'. Era il 1976-77, Luca allora trentenne era il campaign manager di Umberto Agnelli candidato al Senato nella Dc, catapultato dalle colline torinesi al collegio Labaro-Prima Porta, borgata romana alla periferia nord di Roma. Dopo le elezioni, Agnelli sembra destinato a un importante incarico ministeriale, ma il manuale Cencelli lo tiene fuori dal governo. Tocca a Montezemolo organizzare la corrente del Dottore: prima uscita, hotel Hilton di Roma. Gli Hiltoniani, li ribattezzano: ci sono i giovani deputati Gerardo Bianco, Roberto Mazzotta, Angelo Sanza, Mario Segni. Finisce male, però: "Se c'erano dubbi, erano svaniti quando i camerieri portarono i salatissimi conti del pranzo", raccontò uno dei presenti.

Oggi Bianco è coinvolto nel progetto di Pezzotta, Mazzotta è il presidente della Banca Popolare di Milano legatissimo a Tabacci, Segni è il motore dei referendum elettorali firmati anche da Montezemolo e Sanza, deputato di Forza Italia, ha già dichiarato che non seguirà Berlusconi nella nuova impresa. Luca ci può riprovare, con ben altri mezzi. Sempre che sia disposto a scendere in campo. E a pagare il conto.

(03 dicembre 2007)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Marco Damilano - A Nord non passeranno
Inserito da: Admin - Dicembre 10, 2007, 05:57:24 pm
A Nord non passeranno

di Marco Damilano


Il governo istituzionale sarebbe un golpe. E l'intesa Berlusconi-Veltroni una scelta autoritaria.

La Lega alza la posta: "Legge elettorale subito oppure si torni a votare".

Colloquio con Roberto Calderoli


Un governo di larghe intese in caso di caduta di Romano Prodi? «Sarebbe un colpo di Stato». Un accordo Veltroni-Berlusconi? Altro che inciucio: «Passeremmo dal bipolarismo al bi-autoritarismo. Roba che Chávez è un democratico, in confronto ». Roberto Calderoli, vicepresidente del Senato, capo dell'ala dura della Lega e padre dell'attuale legge elettorale, il Porcellum, racconta le macchinose trattative tra i partiti sulla riforme. E svela la diffidenza di Umberto Bossi nei confronti del Cavaliere: «Niente trattative sottobanco. Altrimenti ci arrabbiamo».

Tedesco, spagnolo, italo-tedesco: sulla legge elettorale è la fiera dei modelli da esportazione. A voi della Lega quale piace di più?
«Preferiamo la legge elettorale spagnola: proporzionale senza premio di maggioranza e senza sbarramento nazionale. Ma il problema è capire cosa farà la maggioranza. Veltroni si è presentato da noi, ha provato a passare dalla Seconda alla Terza Repubblica con il Pd, ma è già stato scaricato. Prima di tutto da una parte del suo partito, poi dal resto dell'Unione. Ora mi sembra che voglia proporre un sistema proporzionale, con l'indicazione del premier e una soglia di sbarramento. È un sistema identico a quello uscito dal patto di Gemonio tra noi e gli altri partiti della Casa delle libertà: perfetto».

L'incontro tra Berlusconi e Veltroni sembrava aver aperto la strada a un accordo tra i due grandi partiti. Cos'è che non vi piace in questo dialogo Pd-Forza Italia?
«Il dialogo torna utile a loro, a noi per ora sta bene. L'importante è che tutto venga fatto alla luce del sole. Niente trattative sottobanco: altrimenti ci arrabbiamo ».

Bossi si è arrabbiato parecchio, infatti: «Di Berlusconi non me ne frega niente», ha specificato. Temete di essere scaricati dal Cavaliere?
«Nessun timore. La nostra forza nelle regioni del Nord, la nostra concentrazione territoriale è fatta apposta per stabilire chi vince e chi perde a livello nazionale. È stato così sia alle elezioni con il maggioritario e il Mattarellum sia alle ultime elezioni. Non temiamo nessun isolamento, sono gli altri che dovrebbero decidere se conviene a loro mettersi contro la Lega. Noi decidiamo chi vince e chi perde. Sarebbe così anche con il sistema che uscirebbe in caso di vittoria dei sì ai referendum elettorali: nelle circoscrizioni del Nord bisogna passare sempre dalla Lega».

Alla vigilia della votazione del Senato sulla legge finanziaria lei spiegò che se il governo Prodi fosse rimasto in piedi per la Casa delle libertà sarebbe stata la fine: cancellata. Oggi al suo posto cosa c'è?
«Sono stato un profeta. Oggi c'è l'idea di fare opposizione al governo Prodi che è l'unica cosa che tiene uniti i vecchi partiti del centrodestra. E poi c'è Berlusconi che ha fondato un nuovo partito. Noi il partito unico che volevamo costruire l'abbiamo messo in piedi anni fa, quando abbiamo unito le leghe regionali e abbiamo fondato il grande partito del Nord. Ora anche Berlusconi ci prova ad andare oltre la sua creatura, auguri. Noi, come ha detto Bossi, restiamo fuori. E restiamo alleati di Berlusconi, questo è chiaro. Se poi lui si vuole chiamare Forza Italia o Partito della libertà o Partito del Popolo faccia pure, sono affari suoi».

Non avete voglia anche voi di mettervi in proprio e cambiare alleanze? Un polo di centro guidato da Luca Cordero di Montezemolo, per esempio, potrebbe interessarvi?
«La Lega è un partito popolano e popolare: quanto di più lontano ci sia dai poteri forti. Montezemolo è il rappresentante di quegli interessi che da sempre puntano a un potere fortemente centralizzato per poterlo controllare meglio. È il personaggio più trasversale in assoluto e dunque il nostro progetto è il più antitetico al loro».

In caso di caduta del governo Prodi, dopo le parole del presidente della Camera Fausto Bertinotti, bisognerebbe tornare subito a votare? Oppure sarebbe meglio un governo istituzionale?
«I governi tecnici sono i governi dei poteri forti. Noi su questo non siamo disposti ad aprire nessuna trattativa».

Non vi andrebbe bene neppure un governo istituzionale guidato dal suo presidente Franco Marini per fare le riforme che stanno a cuore alla Lega: la devolution, il Senato federale?
«Guardi, governi tecnici, governi istituzionali, larghe intese, unità nazionali, grandi coalizioni, quelle robe lì sono sempre la stessa cosa. Una grande coalizione poteva andare bene forse un anno e mezzo fa, subito dopo le elezioni, come aveva proposto Berlusconi. Adesso sarebbe un colpo di Stato».

Proseguire con questa legislatura è un golpe?
«Qualunque cosa diversa dal governo Prodi che non porti immediatamente alle elezioni è un colpo di Stato. È un effetto di questa legge elettorale, in cui c'è scritto che ciascuna coalizione deve presentarsi con l'indicazione di un candidato premier e su quella base, in caso di vittoria, prende un premio di maggioranza: alla Camera serve a raggiungere i 340 deputati. Ci sono parlamentari che siedono in Senato o a Montecitorio e hanno preso meno voti di quelli che stanno fuori e lo possono fare perché si sono candidati con Prodi a capo della coalizione che ha vinto le elezioni. Senza Prodi il Parlamento non è più legittimato».

Sul piano giuridico sono parole forti. E sul piano politico?
«Sul piano politico capisco che ci sia l'interesse a fare un governo di grande coalizione. Nell'attuale maggioranza il progetto di Veltroni è imbrigliato dai piccoli partiti, ma anche nella Cdl Berlusconi ha i suoi problemi con gli alleati. In un governo con tutti dentro il potere di ricatto dei piccoli viene meno e i partiti più grossi, il Pd e il partito di Berlusconi, potrebbero accordarsi per scrivere insieme finalmente la legge elettorale che più fa loro comodo».

Viene da chiedersi: perché non dovrebbero farlo?
«Sarebbe un colpo di Stato».

È questa la vostra paura: un patto Veltroni- Berlusconi che tagli fuori tutti?
«Con la legge attuale siamo in un sistema di bipolarismo, imperfetto quanto si vuole ma funzionante. Con i referendum passeremmo al bipartitismo, e non ci piace. Ma con un governo Veltroni- Berlusconi rischiamo il bi-autoritarismo. Roba che Chávez è un democratico, in confronto».

I due leader hanno la forza di dare vita a un'operazione del genere?
«Se devo giudicare da quello che vedo al Senato direi di no. Alla prima riunione della commissione dopo le consultazioni della scorsa settimana, Veltroni è stato preso a schiaffi dalla maggioranza. Una situazione kafkiana».

Il leader del Pd insieme alla legge elettorale vuole inserire nel pacchetto delle riforme anche la riduzione del numero dei parlamentari, i poteri del premier, il Senato federale. Siete d'accordo?
«Se ci mette dentro tutta questa roba il pacchetto diventa un pacco e noi non ci stiamo. C'è un problema di calendario: a metà gennaio la Corte costituzionale è chiamata a dare il via ai referendum. Il governo deve convocare la data della consultazione per legge tra il 15 aprile e il 15 giugno. A quel punto saremo già in campagna elettorale: c'è appena il tempo per il Senato e per la Camera di discutere sulla legge elettorale per evitare il referendum, tempo per fare altre cose non esiste».

Dunque, subito una nuova legge elettorale o meglio tornare a votare: la stessa posizione di Berlusconi. La Lega è già in campagna elettorale: nei piccoli comuni del Nord i sindaci leghisti hanno aperto la caccia all'immigrato...
«Non è vero. Lo Stato non riesce a rispondere ai problemi di sicurezza dei cittadini. I nostri sindaci e quelli di altri partiti dicono a chi non ha risorse: non venite qui. Bisogna cercare strade nuove».

Come quella indicata dal consigliere leghista di Treviso Giorgio Bettio: applicare la rappresaglia delle SS, punirne dieci immigrati per ogni torto subito da un italiano?
«Sciocchezze. E poi, come si sa, preferisco la legge del taglione ».
 
(06 dicembre 2007)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Marco Damilano - Riscossa in busta paga...
Inserito da: Admin - Dicembre 31, 2007, 04:57:37 pm
Riscossa in busta paga

di Marco Damilano

Rivedere il modello contrattuale. Riportare la scadenza a tre anni. Diminuire la pressione fiscale.

Il ministro spiega i progetti per il 2008.

Colloquio con Cesare Damiano 


Salari da alzare. Contratti da rivedere. E poi l'emergenza sicurezza nei cantieri. Il protocollo sul Welfare è stato appena approvato dal Parlamento ("Un accordo per niente scontato: durante la trattativa ci sono stati momenti drammatici, più volte ho temuto una rottura irreparabile. Con ostinazione si è raggiunto uno degli atti più significativi di questo governo") e il ministro del Lavoro Cesare Damiano già sfoglia l'agenda 2008 del governo Prodi, centrata su lavoro e stipendi, un pacchetto in grado di accontentare l'ala sinistra della maggioranza. Il ministro sfoggia ottimismo: "Rifondazione sa benissimo che stiamo applicando il programma, l'accordo è possibile. Sempre che non ci siano bandierine da innalzare".

Per gli italiani la notizia più importante del 2007 è il rogo della Thyssen Krupp. Le morti bianche sono una sconfitta anche per lei?
"La sicurezza nei luoghi di lavoro evidenzia una grande contraddizione. Il governo ha agito contro il lavoro nero e la precarietà. Abbiamo completato una legislazione d'avanguardia, con la legge 626 del '94 e la 123 del 2007. C'è l'assunzione di nuovi ispettori, nuove norme di coordinamento, le Asl che hanno il compito di controllare i luoghi di lavoro prevedono di passare nel 2008 da 70mila a 250mila ispezioni. E tuttavia la strage degli innocenti continua".

Di chi è la responsabilità? Delle imprese?
"Le leggi ci sono, sono buone, la responsabilità è di chi non le applica. Finché concepiremo la sicurezza come un costo e non come un investimento non andremo da nessuna parte. Abbiamo trovato una situazione pesante. Nell'edilizia, di cui il mio ministero ha competenza esclusiva, il 57 per cento delle aziende ispezionate risulta irregolare. In quattordici mesi, grazie alla norma che ci permette di chiudere aziende con più del 20 per cento dei lavoratori in nero, ne abbiamo chiuse più di 2800. Di queste, il 40 per cento ha riaperto regolarizzando tutti. Il resto sono aziende fittizie, malavitose , che abbinano l'attività dell'edilizia al caporalato e al riciclaggio. Sono dati agghiaccianti, la segnalazione di una devianza. Da quanto emerge dalle indagini della magistratura sulla Thyssen Krupp, è una devianza che si estende anche alle multinazionali: in Germania certe cose non si possono fare, in Italia un po' di più. Anche il controllo sindacale è indebolito dal ricatto occupazionale. Serve un riscatto di tutti".

Lei non ha voce in capitolo?
"Io avanzo una proposta forte: cambiare la normativa voluta dal centrodestra e da Tremonti secondo cui i maggiori incassi dell'Inail vanno alla contabilità generale e restituire una quota importante di queste risorse ai lavoratori sotto forma di indennizzi per gli infortuni e per le malattie professionali e alle imprese come incentivo a fronte della certificazione di un'accresciuta sicurezza".

L'emergenza di inizio anno è la questione salariale, segnalata da Mario Draghi e dalla Cgil. Cosa può fare il governo Prodi?
"Prima di tutto, va rivisto il modello contrattuale. Le parti sociali ne hanno già cominciato a discutere, il governo dovrà essere coinvolto rapidamente. Non faremo gli ufficiali pagatori delle decisioni altrui. La nostra proposta è riportare le scadenze contrattuali da quattro a tre anni, con una scadenza unificata in cui si rinnovano insieme normative e retribuzioni. Rivedere le clausole di moratoria: anziché tre mesi di anticipo, sei, nove mesi, un anno di anticipo per dare alle parti il tempo di discutere, verificare, farsi il contropelo. Adesso abbiamo contratti rinnovati anche due anni dopo la loro scadenza, deve diventare un fatto eccezionale".

Basterà ad alzare gli stipendi più bassi d'Europa?
"Per alzare le retribuzioni dobbiamo rinnovare i contratti avvicinando il più possibile l'inflazione programmata all'inflazione reale. E poi dilatare, potenziare, incentivare la contrattazione decentrata. Il protocollo sul welfare prevede 500 milioni di euro nel triennio 2008-2010 che consentono di farlo. I lavoratori avranno per la prima volta un salario di produttività pensionabile: un vantaggio importante per i giovani che entrano in fabbrica e che hanno il salario di produttività. Infine, agire sul fisco: si può diminuire la pressione fiscale sul lavoro dipendente, il governo nella Finanziaria ha già deciso di utilizzare nel 2008 la quota del surplus fiscale in questa direzione".

La questione salariale si intreccia con la questione operaia: l'anno si aprirà con lo sciopero dei metalmeccanici. Il ministro di Rifondazione Paolo Ferrero ha detto che i lavoratori dovrebbero fare come i camionisti, bloccare il paese. Condivide?
"Faccio il ministro, non indico scioperi e non partecipo a manifestazioni. Sono poco propenso alla propaganda...".

Però il problema dell'invisibilità dei lavoratori è reale...
"Certamente: dura da 25 anni, dalla sconfitta mondiale e locale del 1980, i controllori di volo con Reagan, i minatori con la Thatcher, i 35 giorni della Fiat conclusi con una sconfitta che portò a un ribaltamento dei rapporti di forza, anche per errori sindacali. Da lì è partito il neoliberismo che ha ridotto i diritti dei lavoratori ad appendice del successo delle imprese. Ho sempre cercato di combattere questa invisibilità: ho chiesto un canale Rai sul mondo del lavoro, senza risultati per ora, siamo entrati in contatto con il mondo della cultura e della fiction con il premio Cipputi per film, come quello di Francesca Comencini, che dimostrano un'attenzione al paese reale. E come governo abbiamo guardato agli anelli deboli della catena: gli anziani pensionati, di reddito basso, i giovani del lavoro discontinuo, le donne".

Troppo poco, anche secondo una parte del governo. Per Rifondazione il programma è stato disatteso: dovevate cancellare la legge 30 sul lavoro e invece è ancora lì. Dovevate combattere la precarietà e invece è aumentata. Tutte critiche che la chiamano in causa in prima persona.
"Il mio ministero è, forse, l'oscuro oggetto del desiderio. Ma è anche il ministero che sta applicando il programma di governo in modo graduale e preciso. La sinistra ha l'esigenza di piantare le bandiere, però Ferrero sa benissimo che nel programma non si parla di cancellare la legge 30, ma solo le norme più precarizzanti: sullo staff leasing, sul job on call lo abbiamo fatto, abbiamo rivisto efficacemente le normative sui contratti a termine, abbiamo sviluppato le tutele per malattia e maternità per i lavoratori a progetto... Non sono misure episodiche, sono in coerenza con il programma dell'Unione, il disegno riformatore di questo governo. Poi, per carità, io sono un pedemontano: mi si può dire di andare più veloce, ma non che procedo in una direzione sbagliata. La direzione giusta è questa, la sinistra radicale lo sa perfettamente".

A gennaio ci sarà la crisi su questi temi?
"Se non si tratta di occupare territori o di piantare bandierine non ci sono ostacoli per un accordo. Sulla legge 30 siamo già intervenuti, sui salari siamo in condizioni di operare. La crisi, semmai, si può aprire sulla legge elettorale che per i piccoli partiti è una questione di sopravvivenza. È vero, poi diventa difficile spiegarlo al paese. Magari si fa una crisi sulla legge elettorale dicendo che i problemi sono altri".

Lei è anche un esponente del Pd. È soddisfatto di questi primi mesi di vita? O è un partito troppo liquido, anche nel rappresentare il mondo del lavoro?
"La Cgil e il Pci sono stati la scuola culturale, politica e etica della mia vita. Mi hanno insegnato a ricercare il compromesso in senso alto, a essere uomo di frontiera, mai dogmatico. Ma quell'esperienza è svaporata da tempo. Gli anni della seconda Repubblica sono stati quelli del partito leggero, il partito dello staff, il partito di plastica. I Ds, soprattutto con la segreteria di Piero Fassino, hanno cercato di ritrovare un rapporto con il mondo del lavoro, in termini nuovi. Ci siamo impegnati per riconciliare il riformismo di sinistra e il sindacato: nel 2001, al congresso di Pesaro, solo sei dirigenti della Cgil firmarono la mozione di Fassino, tutti gli altri seguirono Cofferati. Se ci fosse stata oggi la stessa situazione di incomunicabilità con il mondo del lavoro, forse il protocollo sul Welfare avrebbe incontrato maggiori difficoltà. È un patrimonio importantissimo, sono sicuro che Veltroni non lo disperderà".

(27 dicembre 2007)

da repubblica.it



Titolo: Marco Damilano - Ricetta Bersani
Inserito da: Admin - Gennaio 11, 2008, 07:13:04 pm
Ricetta Bersani

di Marco Damilano

Sgravi fiscali ai lavoratori. Taglio delle spese. Riduzione delle accise sulla benzina.

Tassazione delle rendite. Abolizione del massimo scoperto sui conti correnti.

E al Pd il ministro dice...

colloquio con Pierluigi Bersani 


II 2008, spera Pierluigi Bersani, sarà "crucialissimo". Il ministro per lo Sviluppo economico anticipa le mosse del governo Prodi alle prese con la doppia verifica, i sindacati e i partiti della coalizione, e con la recessione in arrivo. In Italia l'anno si è aperto con l'allarme di Banca d'Italia: aumentano le famiglie in difficoltà con il mutuo o con il conto in rosso. "Se guardiamo alla situazione internazionale c'è qualcosa in più di un'ombra: i dati che arrivano dagli Usa segnalano un evidente rallentamento. Noi italiani siamo in questa dimensione mondo e siamo in movimento. Abbiamo recuperato quote di commercio internazionale, abbiamo fatto un'operazione risanamento come abbiamo visto in questi giorni. Ora dobbiamo dimostrare che soffriamo meno degli altri e che anzi possiamo fare un passo avanti. Ma se non pedaliamo la bicicletta che abbiamo allestito casca".

In realtà, rischia di cadere il governo. Sulla legge elettorale, per esempio.
"Riforme e governo sono priorità gemelle. Chiunque pensi in un anno così cruciale di lasciare inevasa la funzione di governo, di cancellare quel poco di certezza che c'è dà un pugno nello stomaco a questo paese".

"Chiunque" è generico. Con chi ce l'ha?
"Con chi pensa che ci possiamo concedere una bella vacanza dalle funzioni di governo. E non ho nessuna pretesa di indispensabilità...".

Parte la verifica con sindacati e partiti. Con quali carte vi presentate?
"Nessuna difficoltà a battezzare l'anno con il titolo che ci viene richiesto: alzare il potere d'acquisto. A patto, però, che non si perda il punto: la crescita, accompagnata da buone politiche redistributive. L'azione di governo deve mirare a una doppia coppia che si chiama innovazione-produttività e redistribuzione-potere d'acquisto e un'altra che si chiama risanamento-spesa pubblica e riforme-liberalizzazioni. Nessuna di queste misure, da sola, avrebbe senso. Con una premessa: la politica economica la fa il governo, con la sua maggioranza in Parlamento. Dentro questa politica c'è una larga fetta per la corresponsabilità delle parti sociali".

La Confindustria lega l'aumento dei salari alla produttività. È una richiesta accettabile?
"Lo dico agli industriali: non cadiamo nell'idea primo-novecentesca che la produttività sia data dallo sforzo muscolare degli operai. Non c'è dubbio che negli ultimi anni le imprese italiane si siano date una mossa: da quest'anno avranno strumenti potentissimi e nuovi, i crediti d'imposta per la ricerca, misure fiscali (Ires, Irap), i programmi di innovazione previsti da Industria 2015, misure sull'efficienza energetica, dall'edilizia alla mobilità sostenibile. Ora le imprese hanno gli strumenti e devono darsi dei target: per esempio sulla ricerca, per avvicinarsi agli obiettivi previsti dalla carta di Lisbona. Se c'è tutto questo, diventa giusto ancorare i nuovi contratti alla produttività del lavoro".

Su questo punto ci sarà battaglia nella maggioranza: Rifondazione si oppone.
"Rifondazione dice che va recuperata la produttività già data. Il tema può essere evaso nella contrattazione".

Il potere d'acquisto varia da regione a regione. Si può prevedere una flessibilità salariale a seconda del territorio?
"Lo sviluppo della contrattazione decentrata è in grado di risolvere questo problema. E da governante e da cittadino dico: attenzione, in un paese così diviso, non si può banalizzare il ruolo della contrattazione nazionale. Va oltre il dato economico, è una questione culturale".

I sindacati chiedono gli sgravi fiscali prima della trimestrale di cassa. Sono alla portata?
"Dobbiamo affidare alla leva fiscale quello che non è determinato dai contratti, meccanismi che redistribuiscano meglio il potere d'acquisto. E fare uno sforzo per ridurre la fiscalità sul lavoro dipendente. Si può partire nei prossimi mesi. Ma se si pretende che siano riforme strutturali e arrivare al pareggio di bilancio dobbiamo darci una prospettiva coerente, ricavare quote di queste risorse dalla riduzione della spesa dell'apparato pubblico. E fin da ora allestire misure sulla pubblica amministrazione che ci portino risorse già dal 2009".

Per esempio?
"Beni e servizi. Possiamo risparmiare miliardi di euro, centralizzando gli acquisti delle amministrazioni già dal 2009: è stato Francesco Giavazzi, non io, a ricordare che in Emilia-Romagna ha funzionato. I meccanismi di turn-over: dobbiamo bloccare il turn-over in modo generalizzato e sbloccarlo parzialmente solo in presenza di piani di riorganizzazione delle pubbliche amministrazioni. Il rapporto tra governo e enti locali va basato sulle migliori pratiche: il trasferimento delle risorse deve essere dato a quella che si è dimostrata come la migliore pratica. Riguarda la sanità o il numero dei dipendenti per prefettura, e così via. Sono cose che non si improvvisano: predisponiamo ora le misure, senza pescare, come al solito, nel recupero di evasione fiscale, che continuerà, ma non possiamo contare solo su Visco".

E il suo cavallo di battaglia, le liberalizzazioni?
"Dovremmo saltarci dentro con determinazione. In Parlamento si discute l'eliminazione del massimo scoperto dei conti correnti bancari, la riforma della distribuzione della benzina, semplificazioni amministrative di ogni tipo. E poi la riforma delle professioni, i servizi pubblici locali...".

La prima lenzuolata fu approvata con un blitz, per decreto. L'ultimo pacchetto, invece, è fermo in Senato. Colpa della maggioranza?
"La maggioranza ce l'abbiamo, la colpa è dei regolamenti parlamentari che non ti danno gli strumenti per governare. Qualsiasi riforma elettorale a fronte di questo modo di decidere non risolve nulla. È il vero baratro tra politica e società: non puoi stare tre anni a dire agli artigiani che gli togli il massimo scoperto in banca e poi non farlo mai, ci fai la figura di Stanlio e Ollio che salutavano e non partivano mai".

Rifondazione con Ferrero torna alla carica sulla tassazione delle rendite finanziarie. Assisteremo al remake di 'anche i ricchi piangano', come recitava un loro manifesto?
"Salvo poi accorgersi che magari non piangono solo i ricchi... Il problema esiste: io credo che la tassazione sulle rendite si dovrà fare, è una misura razionale. Bisogna solo cogliere l'attimo per farla, con il debito pubblico che abbiamo siamo molto esposti sulla percezione che di queste misure ha il mercato".

Teme che Rifondazione esca dal governo?
"In questo anno e mezzo abbiamo pagato la confusione delle lingue e un incedere contraddittorio. Se abbiamo passato indenni le spallate non è perché siamo grandi navigatori, ma perché siamo arrivati alla Finanziaria con quattro milioni e mezzo di lavoratori che votavano l'accordo, il protocollo firmato dalle parti sociali: era faticoso far saltare tutto. La società vera non ha fatto sponda a chi voleva dare la spallata".

Il 2008 si apre con la rivolta della Lombardia su Malpensa. Perché non riuscite ad avere un rapporto con il Nord?
"Il Nord è una metafora del rapporto con le forze produttive. Quando vengono qui, in camera caritatis, devono riconoscere che gli stiamo dando più degli altri. Ma c'è una remora politica, culturale, ideologica. Ci viene rimproverato di aver caricato nel governo pulsioni radicali. Noi dobbiamo sforzarci di dire che vogliamo aiutare le imprese che ci provano ad affrontare la sfida e che la pubblica amministrazione è al servizio e non al comando di queste imprese. Poi, certo, questi ceti devono prendersi le loro responsabilità. Rifiutare logiche regressive: non è buono solo l'immigrato della tua fabbrica. Il Nord che conosco io deve rifiutare la demagogia: non si può chiedere ad Alitalia di salvare Malpensa, nessuno può fare di Malpensa un hub senza che venga riorganizzato il sistema aeroportuale del Nord. Non si può ragionare in un sistema in cui ogni 50 chilometri c'è un aeroporto: queste cose il Nord deve dirsele, altrimenti faccio fatica a riconoscerlo".

Parliamo del Nord e si pensa alla Campania: i dirigenti del centrosinistra, Bassolino in testa, dovrebbero dimettersi?
"Sono stato anch'io amministratore locale: attenzione ai commissariamenti, la de-responsabilizzazione dei sindaci e dei presidenti di regione li porta inevitabilmente a mettersi dalla parte dei problemi e delle resistenze. Questa è una lezione strutturale della Campania: poi si discuterà degli errori soggettivi e della presenza della criminalità. Non capisco chi reclama dimissioni: dopo si discuterà, adesso bisogna chiedere a chi c'è di esercitare tutta la sua responsabilità per trovare una soluzione".

Nel Pd lei segnala l'assenza di laicità: è una bandiera incustodita?
"Un partito nuovo dovrebbe cominciare dandosi delle regole. Senza arrivare alla parola disciplina che urta, dovremmo darci qualche regola di coerenza associativa che ha anche una bocciofila. Non possiamo confondere Antigone con ciò che afferma la senatrice Paola Binetti. Antigone ci insegna che esiste una legge oltre la legge, un tema nobilissimo ma eccezionale. Chi le leggi le fa deve negoziare tenendo conto della coscienza di tutti. Altrimenti non affonda solo il Pd, si perde il senso dell'autonomia della politica e del suo ruolo".

Non è un allarme da poco...
"Il partito che facciamo è plurale se ognuno porta il vino schietto delle sue convinzioni, Binetti compresa. Ma servono regole per la discussione e la sintesi. Il posto dove discutere non c'è. Siamo nella fase costituente. Un partito non può fare solo politica geometrica, deve essere uno strumento di combattimento. Altrimenti si crea un regresso dei meccanismi di partecipazione, un vuoto d'aria. Attenti a non fare il partito liquido in un'Italia già frammentata, a non assecondare l'anarchismo. Bisogna mettere su un elemento di coesione, che coinvolga gli iscritti e i cittadini elettori".

Bersani, sarà lei l'arma segreta di D'Alema contro Veltroni?
"Cerco di pensare con la mia testa. Quando ci saranno le regole tirerò fuori le sette pagine che ho già scritto, che potrebbero diventare settanta. Ho in testa qualche idea: quando sarà il momento vorrei farla valere nel partito che ho contribuito a fondare".

(10 gennaio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Marco DAMILANO. Radical Walter
Inserito da: Admin - Maggio 12, 2008, 09:52:13 pm
Un democratico assedio a Walter

di Marco Damilano


Rivalità tra i leader. Correnti che si riorganizzano. Guerre intestine in periferia. Dopo la sconfitta elettorale, è partita la resa dei conti nel Pd. E Rutelli si prepara a guidare la fronda dei delusi da Veltroni  I veneti hanno già deciso di mettersi in proprio, in largo anticipo sugli altri. A Roma sono sbarcati in ventidue parlamentari eletti nelle liste del Partito democratico: quattordici deputati e otto senatori. Dopo due giorni, fiutata l'aria che tira, l'attivissimo Massimo Calearo ha lanciato l'idea ai colleghi che arrivano dalla stessa regione: "Perché non ci diamo un coordinamento?". E si è impegnato a cercare locali, segreterie e perfino un ufficio stampa. E meno male che nel Pd almeno uno spirito pratico è rimasto.

A Roma, dopo la sconfitta al ballottaggio per il Campidoglio, nel partito di Walter Veltroni è il momento dei veleni. Correnti vecchie e nuove che si organizzano. Rivalità tra leader non più trattenute dalla necessità di restare uniti in vista delle elezioni. Rapporti personali tra i capicorrente arrivati all'incomunicabilità assoluta, tanto per cambiare. Come dimostrano telefonate tipo quella di lunedì 5 maggio. Di prima mattina squilla il cellulare dell'ormai ex ministro dell'Istruzione Beppe Fioroni, l'uomo forte dei popolari. "Te la devi fare finita di attaccarmi tutti i giorni sui giornali", esordisce senza tanti complimenti l'interlocutore: un altro ex ministro, Massimo D'Alema. Fioroni non ci sta, replica a brutto muso: "Massimo, ti ho visto in tv con Lucia Annunziata e non sono d'accordo con te. Se vuoi rifare il Pci anni Settanta che dialoga con il centro di turno, l'Udc, io non ci sto. Non è il mio partito". Clic, comunicazione interrotta.

Ma il Pd, fragile creatura della politica italiana, rischia l'implosione soprattutto in periferia. Dove i gruppi locali si stanno organizzando per contare di più nel partito nazionale. E dove i dirigenti sono impegnati nella resa dei conti: per difendersi, in caso di sconfitta elettorale, o per attaccare il quartier generale, in caso di sconfitta altrui. Guerre intestine, dal Piemonte alla Sicilia. Shogun democratici, signori della guerra feudali che spadroneggiano sul loro territorio e non hanno più nessuna intenzione di fare da portatori d'acqua dei leader nazionali. Nel Sudoku che si è aperto nel partito di Walter Veltroni dopo il voto c'è anche questo: un intreccio tra correnti nazionali e notabilati locali. Una complicata geo-politica che fa sentire i suoi effetti a livello centrale.

Prendiamo una regione chiave come la Toscana. Il 13 aprile si è confermata una cassaforte di voti per il Pd, che da solo ha sfiorato quota cinquanta per cento: 46 per cento alla Camera, 47 al Senato. Numeri spropositati, subito rovesciati sul tavolo nazionale dal segretario regionale Andrea Manciulli: "Si è discusso troppo nei caminetti romani, ora basta. La Toscana vuole pesare". Manciulli, 38 anni, una laurea a Pisa e una specializzazione in storia dell'alimentazione all'École des hautes études en sciences sociales di Parigi, una carriera tutta all'ombra della Quercia, dalla federazione Ds di Valdicornia al vertice regionale, promosso durante la segreteria di Piero Fassino, è uno dei giovani leoni del Pd. Nella mappa correntizia nazionale figura come dalemiano, ma l'etichetta gli va stretta. Difende Veltroni, ma avverte: "La sconfitta nazionale è un campanello d'allarme anche per noi". In vista c'è la battaglia contro il centrodestra per palazzo Vecchio. Tra un anno si vota per il sindaco di Firenze e sono già scintille tra il primo cittadino uscente, il dalemiano Leonardo Domenici, e il presidente della Provincia, il rutelliano Matteo Renzi, classe 1975.

Nell'altra città-simbolo del Pd dove si vota tra un anno, Bologna, è guerra aperta tra il sindaco Sergio Cofferati e i capi del partito emiliano: il presidente della Regione Vasco Errani e il segretario regionale Salvatore Caronna, diessini di origine controllata, area D'Alema-Fassino, con il segretario cittadino Andrea De Maria a fare da mediatore. Uno scontro non solo bolognese: sotto le due torri vanno in scena tutti i dilemmi che dilaniano il loft romano. Proseguire sulla linea dell'andare da soli, come ha fatto Veltroni in campagna elettorale, o tornare alla politica delle alleanze, dall'Udc ai partiti della sinistra radicale, come vorrebbe D'Alema? Cofferati non ha dubbi: ha rotto con Rifondazione da tempo, non ha intenzione di tornare indietro. "Il Pd deve correre da solo. Chiedo di sapere cosa si intende fare entro l'estate". Altrimenti, sottinteso, rifiuterà di scendere in campo per la riconferma. Un ultimatum accolto gelidamente dai capi locali: "Cerca una scusa per non ricandidarsi, ha paura di perdere", malignano. E si affidano al loro nume tutelare, il vero leader del partito emiliano, l'ex ministro Pierluigi Bersani, il più esplicito a Roma nel ripetere che "la vocazione maggioritaria del Pd non può significare autosufficienza". Ovvero, bisogna tornare a parlare con Rifondazione e compagni e pure alla svelta.

Se questo è l'andazzo dove il Pd vince e governa, figuriamoci il resto. C'è la Campania di Antonio Bassolino che sembra i Balcani, con i baroni che partono dalla provincia alla conquista della regione, o di quel che resta: il salernitano Vincenzo De Luca (Ds, area Fassino), il casertano Sandro De Franciscis (ex Margherita, area Rutelli), il beneventano Mario Pepe (ex amico di Ciriaco De Mita, oggi chissà). C'è la Puglia dove il segretario regionale, il sindaco di Bari Michele Emiliano, è uscito malandato dal voto, in vista delle elezioni comunali del 2009, ed è messo sotto accusa dai maggiorenti ex Ds e ex Margherita. C'è la Calabria, dove impazza la guerra per bande. In piena campagna elettorale il segretario regionale Marco Minniti ha tolto la fiducia al presidente Agazio Loiero, annunciando l'imminente scioglimento del consiglio regionale? Il governatore calabro gli ha restituito la cortesia: basta vedere cosa è successo a Vibo Valentia, dove lo stesso giorno il Pd ha perso malamente le politiche e il centrosinistra allargato alle liste personali del governatore ha stravinto le provinciali con il 57 per cento. Quando si dice il controllo del voto.

Il rito della resa dei conti impazza anche in Sicilia, dove le elezioni non finiscono mai: tra un mese nell'isola si torna a votare, per le amministrative. Ma nel Pd sono troppo presi a rinfacciarsi uno addosso all'altro il disastro delle regionali, con il flop di Anna Finocchiaro. La settimana scorsa i vertici del Pd siciliano si sono affrontati in un'accaldata assemblea al Jolly Hotel di Palermo. Base scatenata: "In qualsiasi azienda dopo la débâcle si sarebbero dimessi tutti i dirigenti. Qui non è successo nulla". In prima fila, impietrito, l'ex presidente della commissione antimafia Beppe Lumia, dalemiano. Anche se a dare le carte nel Pd sono sempre gli ex democristiani e cislini Sergio D'Antoni e Luigi Cocilovo, un sodalizio indissolubile che si fa sentire anche nella capitale. Come si è visto al Senato quando si è trattato di indicare un nome per il posto di questore di palazzo Madama, incarico poco conosciuto ma delicato, da cui passano rimborsi, benefit e privilegi dei senatori. A sorpresa è stato eletto l'oscuro Benedetto Adragna, un massiccio agrigentino che segue D'Antoni in tutti i suoi traslochi politici, da Democrazia europea all'Udc, dalla Margherita al Pd. Premio fedeltà.

Una Babele di potentati da far girare la testa a Veltroni e che fotografa la scelta del Pd per i vertici nazionali: per ora non si tocca nulla. Gli assetti, gli equilibri devono restare invariati, fino al congresso del Pd, quando ci sarà. Come si è visto in Parlamento per l'elezione dei capigruppo Soro e Finocchiaro e dei vice-capogruppo, tutti confermati. Una situazione di stallo che mette in ansia veltroniani doc come Enrico Morando, preoccupati che nell'immobilismo a rimetterci sia proprio il carisma del leader. E qualcuno già si offre di mettere in piedi una corrente veltroniana e si candida a guidarla: l'ex sindaco di Bologna Walter Vitali, ad esempio. In pochi gli danno retta però, a partire da Veltroni.

Chi invece si è già mosso per riorganizzare le truppe è Francesco Rutelli. A soli sette giorni dalla sconfitta per il Campidoglio si è presentato al Senato, sorridente e rilassato, come se nulla fosse. La batosta romana ha sciolto definitivamente il patto generazionale con Veltroni, se mai era esistito. Rutelli si rimette in proprio. Riparte dalle mani libere e da una pattuglia di fedelissimi che non ci stanno a farsi stritolare dagli ex Ds o dagli ex popolari: Paolo Gentiloni, Linda Lanzillotta, Roberto Giachetti, Luigi Lusi, Donato Mosella, più i teodem Luigi Bobba e Paola Binetti. Con l'obiettivo di intercettare i delusi e gli esclusi dalla gestione Veltroni. Molti ex popolari guardano con interesse. Anche perché, in vista delle elezioni europee, i rutelliani sono pronti a rilanciare la questione spinosa della collocazione internazionale del Pd. Se Veltroni avesse vinto le elezioni, l'adesione al socialismo europeo sarebbe stata accettata da tutti, magari con qualche mugugno. Ma in queste condizioni, chi se la sente di morire socialdemocratico?

Rutelli no di certo: per ora si tratta di condurre una battaglia all'interno del Pd, proponendosi come il capofila degli anti-veltroniani, poi si vedrà. Intanto a Napoli, la settimana scorsa, un consigliere comunale è uscito dal Pd e ha rifondato il gruppo della Margherita. Rosario Giudice, si chiama, stravede per Rutelli: un anticipatore?

(08 maggio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Marco DAMILANO. Sinistra modello Nichi
Inserito da: Admin - Maggio 28, 2008, 11:18:08 pm
Sinistra modello Nichi

di Marco Damilano


Il progetto di Costituente. L'accordo con Fava. Il dialogo con Veltroni. La strategia di Vendola per conquistare la leadership del partito. E rilanciare le alleanze.

Per la sinistra è necessario ripartire dalle periferie, si è detto, e Nichi Vendola dà il buon esempio. Lunedì 19 maggio, per lanciare la candidatura alla segreteria di Rifondazione comunista, il presidente della Puglia ha scelto i tavolini tondi della discoteca romana Alpheus, di fronte al Gazometro, nel quartiere Ostiense prediletto dal regista turco Ferzan Ozpetek. Qui, come fate ignoranti, lo hanno ascoltato al buio per un'ora e 18 minuti l'ex segretario del partito Franco Giordano, l'ex sottosegretario Alfonso Gianni, l'ex vice-ministro degli Esteri Patrizia Sentinelli: i nuovi extraparlamentari.

Al confronto Andrea Alzetta detto Tarzan, faccia da pugile e maglietta con la scritta 'Il futuro non è più quello di una volta', sembra un lord inglese: lui nelle istituzioni c'è, consigliere comunale a Roma, super-votato dai centri sociali. Due giorni dopo Vendola è riapparso in un'altra periferia romana, nel rosso Tiburtino, per un'assemblea con il neo-coordinatore di Sinistra democratica (l'ex sinistra Ds) Claudio Fava, il verde Paolo Cento, il professor Paul Ginsborg e il prete di strada don Roberto Sardelli. La Costituente di sinistra che Vendola vorrebbe mettere in campo subito, a cominciare dalle elezioni europee del giugno 2009. E che trova il consenso di Fava e degli ex diessini.

Vendola e Fava, i leader potenziali della nuova Cosa che dovrebbe nascere alla sinistra del Pd, poeta il primo, scrittore e sceneggiatore il secondo, marciano uniti: prima di incontrarsi in pubblico si sono ripetutamente consultati in privato. E si sono divisi i compiti: a Fava, che fu scelto da Veltroni come guida dei Ds siciliani nel '99, tocca la marcatura del segretario del Pd. Incalzare Walter, riaprire il gioco delle alleanze, evitare l'introduzione di una soglia di sbarramento alle Europee
che sarebbe letale per i sogni di riscossa della sinistra. Vendola è obbligato a essere più prudente. "Con il congresso alle porte", spiega Antonello Falomi, l'uomo che ha scoperto Veltroni nella Fgci, oggi in Rifondazione, "se gli incollano l'etichetta di quello che vuole sciogliere il partito finisce male".

Il principale competitor per la segreteria, l'ex ministro Paolo Ferrero, non è ancora in corsa ufficialmente, fa il giro della Penisola, conta le truppe e intanto lascia che i suoi spargano veleni. "La candidatura di Vendola rappresenta una torsione presidenzialista", attacca la consigliera regionale toscana Roberta Fantozzi."Nessuno lo dichiara apertamente, ma io non vorrei ritrovarmi domani nel Pd", sospetta l'ex sottosegretaria all'Ambiente Laura Marchetti, pugliese come il governatore, insidiato anche in casa. "Basta con l'autocannibalismo", si difende l'interessato. "Non si rifonda la sinistra con gli abracadabra o con la falce e il martello". E sul Pd Vendola giura di non voler fare sconti: "È un partito alla deriva. Per fare un esempio: sui nomadi il sindaco di Salerno Vincenzo De Luca ha detto le stesse schifezze che dicevano i nazisti negli anni Trenta, prima delle deportazioni".

Un concerto del primo maggioToni ruvidi per il gentile Vendola che potrebbero non bastare per conquistare la maggioranza al congresso. Le mozioni sono diventate cinque, quella firmata da Franco Russo e Walter De Cesaris propone addirittura di non eleggere nessun segretario: tutto il potere ai soviet. Tutti contro tutti, e tutti uniti contro il leader di ieri, Fausto Bertinotti. Perfino Vendola, il più fedele, per far scattare l'applauso ai militanti in discoteca, ricorda il fratello scomparso dell'ex presidente della Camera. Un guazzabuglio, monitorato con attenzione dal Pd. La scissione del partito rosso dopo il congresso sembra inevitabile. Comunque vada, lo spezzone di Vendola si unirà al gruppo di Fava. Un possibile alleato dei democratici, certo. Ma nell'immediato un concorrente nello stesso bacino elettorale, per riportare a casa i voti di sinistra andati al Pd il 13 aprile. Compagni-coltelli, per Veltroni.

(27 maggio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Marco DAMILANO. Radical Walter
Inserito da: Admin - Settembre 04, 2008, 06:56:08 pm
Caro Walter comanda di più

di Marco Damilano


Basta col partito 'fru fru'. Meno immagine e maggior decisionismo. E D'Alema freni la sua corrente. Parla l'ex presidente del Senato. Colloquio con Franco Marini  Si definisce "un mezzo pensionato", ma a 75 anni Franco Marini è l'unico padre nobile del Pd ancora in piena attività. Ascoltato, temuto e un po' sconcertato: "Alla festa di Firenze, l'altra sera, ho dovuto tirare su il morale dei militanti". L'ex presidente del Senato dispensa ruvidi consigli.
A Veltroni: "Basta col partito fru fru, il leader deve mettere il petto avanti". A D'Alema: "Fare adesioni per Red è un errore". E agli ex colleghi sindacalisti: "Su Alitalia si deve chiudere la trattativa".

Il Pd sembra allo sbando, da Torino alla Sardegna. È preoccupato?
"La sconfitta elettorale è stata forte, poi abbiamo perso Roma: non mi colpisce la delusione, ma la continuità di questo stato d'animo. Devo dire che qualche incertezza della struttura nazionale del partito c'è, per i miei gusti, in un momento di difficoltà come questo, la vorrei vedere più determinata, più incisiva. Partendo un punto fermo: il Pd è ancora in fasce, Berlusconi gode di largo consenso, ma è in carica da tre mesi. Ogni giudizio definitivo è sbagliato".

In tanti si chiedono: Veltroni dov'è, che fa?
"Veltroni e il gruppo dirigente stanno lavorando. Si stanno facendo passi avanti, spero con buoni risultati. Questa idea del partito leggero, del partito 'fru fru', per me è stata una sofferenza. Non nego l'importanza dell'immagine. Però la ricchezza di un partito è la continuità della sua militanza. Non vorrei fare paragoni azzardati, ma la Lega è un partito che c'è, con i suoi militanti e amministratori, non è certo fru fru. Ora il rischio è stato superato".

Eccolo qui, il solito Marini che difende il ruolo dei partiti tradizionali...
"No, guardi, è esattamente il contrario, vedo un grande ritardo. Cos'è il Pd? L'unione dei vecchi partiti, Ds e Margherita? Spero proprio che non sia così, lo dico io che sono un partitista convinto. Bisogna strutturare il Pd come un partito aperto, che non si limita a mettere insieme quello che c'era. E accelerare sull'elaborazione culturale: ci devono ispirare i valori liberal-democratici e tenere assieme libertà e giustizia sociale. Anche Tremonti ha scoperto che il mercato non è la sola medicina dello sviluppo. Almeno nel suo libro: perché poi, nei comportamenti al governo, si è già contraddetto. Nell'attuale crisi non si è visto alcun intervento pubblico per stimolare lo sviluppo".

Da dirigente sindacale e politico conosceva ogni angolo della sua organizzazione. Dia un consiglio a Veltroni.
"Ci vuole un gruppo di dirigenti autorevoli che si occupino della vita interna del partito. Bene gli incarichi formali, ma serve un coordinamento rappresentativo di tutti, e si deve sapere che ci sono l'ascolto e le mediazioni, ma alla fine il segretario decide. Quando ci sono problemi, è il leader che deve mettere il petto avanti. Quando c'è la grana grossa, cresce il carisma e l'autorevolezza del capo che la affronta e risolve".

Per ora, sono cresciute soprattutto le correnti. Il Pd non c'è, le correnti sì.
"Le correnti, se nobilmente intese, sono positive per il pluralismo. A una condizione, però: che il partito sia forte".

Franco Marini assieme a Massimo D'Alema
e Walter Veltroni nel 1998Red, l'associazione che fa riferimento a Massimo D'Alema, è un'iniziativa nobile?
"Se Red è la fondazione Italianieuropei che ambisce a fare iniziative di stimolo, cultura, formazione sul territorio, nessuna obiezione. Se invece Red si mette a fare adesioni sarebbe un errore. Ma non credo che uno come D'Alema possa commetterlo".

Da più parti è stato invocato un congresso del Pd all'inizio del 2009. Per Goffredo Bettini si può fare. Condivide?
"Parlare di congresso è un non senso. Vedo come un limite che qualche dirigente abbia detto: 'Se lo vogliono, lo facciamo'. Il congresso si fa dopo il tesseramento, dopo le europee e le amministrative. Non possiamo tenere bloccato il partito per mesi mentre arriva questa sfida. Il problema del segretario non c'è, nomi alternativi a Veltroni non sono maturati. E la linea politica è quella delle ultime elezioni. La necessità di una verifica naturale della leadership e della linea ci sarà, non pro o contro Veltroni, come qualcuno teme e altri sperano, ma dopo il voto del 2009. Spero in un clima meno depresso di quello attuale".

Arturo Parisi, però, continua a bombardare il gruppo dirigente...
"A Parisi riconosco la coerenza. La sua è una posizione politica, altre non ne vedo, merita il confronto anche se non la condivido. L'Unione non era l'Ulivo. Un'alleanza così eterogenea ci ha portato alla crisi, dopo il modestissimo risultato elettorale del 2006. A Parisi dico che il luogo dove discutere c'è: l'assemblea programmatica in autunno. In quella sede dirò che il Pd può ripartire abbandonando l'idea chiusa di partito che somma solo le vecchie componenti. E se lo dico io, se mollo io su questo punto, Parisi può stare tranquillo".

Intanto Berlusconi vola nei sondaggi. E nel Pd ogni giorno c'è chi invita al dialogo. Violante sulla giustizia, Amato sulla sicurezza... E lei?
"L'Italia ha problemi seri. E un'opposizione che scelga di dire no a tutto è perdente. Certo, su alcuni temi bisogna essere più decisi. Sulle questioni economiche, per esempio. Abbiamo fatto una battaglia in Parlamento perché di fronte al rischio di una recessione ci fosse un'iniziativa del governo per pensioni e salari più bassi. Lo abbiamo detto, ma non è emerso con forza. C'è la manifestazione in arrivo, ma bisogna essere più incisivi".

Sulle intercettazioni sceglierete il dialogo?
"Come si può dire che il problema non esiste? La Costituzione garantisce il rispetto della privacy dei cittadini, il ddl di Mastella passò quasi all'unanimità alla Camera. Serve un punto di equilibrio tra le esigenze di indagine e il diritto del cittadino di non essere messo alla gogna".

Su Alitalia Epifani rifiuta il prendere o lasciare. Da ex sindacalista lo comprende?
"In una trattativa non si accetta mai l'aut aut, sarei un pessimo predecessore se dicessi il contrario. I sindacati hanno il diritto e il dovere di esaminare e approfondire il piano industriale, e quindi il destino dell'azienda. Ma poi, al punto in cui è arrivata l'Alitalia, per me i sindacati devono cercare il punto di intesa. La trattativa deve chiudersi presto nell'interesse del Paese. O c'è solo il fallimento".

Per Veltroni la nuova Alitalia è "una compagnia di bandierina". Condivide?
"Ho fatto per una vita il sindacalista. Devo vedere il piano industriale: se viene tutelato lo spessore di una compagnia nazionale, i sacrifici vanno affrontati".

In vista delle amministrative, il Pd deve corteggiare l'Udc?
"Siamo pronti a discutere con Casini, un'alleanza con lui farebbe bene a noi e al Paese. Il problema è vedere se l'Udc è maturo o continuerà a tenere le mani libere".

E con Di Pietro si può recuperare?
"Di Pietro mostra una voglia e un'aggressività verso il Pd che deve temperare, altrimenti non c'è spazio per grandi rapporti. Se facciamo passare la depressione ai nostri militanti, anche la forza di Di Pietro si sgonfierà automaticamente".

Le nuove alleanze si possono sperimentare in Abruzzo, la sua regione, dove si vota a novembre dopo l'arresto di Del Turco?
"Il guaio della sanità abruzzese viene dalla gestione precedente. Del Turco e gli altri sono amici indagati, non possono essere considerati colpevoli, ho fiducia che riescano a dimostrare la loro estraneità. Ma per il Pd le elezioni si faranno in un clima difficilissimo. Non accettiamo una nostra emarginazione, ma ci deve essere la nostra disponibilità a una candidatura che ci faccia ricomporre un'alleanza larga. Una regola che vale per ogni interlocutore: coinvolgere l'Udc sarebbe positivo. Questa condizione per ora non c'è".

Quando il Senato ha votato sul caso Englaro, il Pd ha abbandonato l'aula. Sui temi etici continuate a essere divisi?
"Non l'abbiamo fatto per sfuggire, ma perché ci sembrava più forte del no. E abbiamo approvato un ordine del giorno che impegna il Senato a decidere entro l'anno sul testamento biologico. Sono d'accordo con monsignor Fisichella: su vicende così dolorose va cercato un consenso largo. E io spero che si arrivi a fare subito una legge che copre un vuoto drammatico".

(04 settembre 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Marco DAMILANO. Radical Walter
Inserito da: Admin - Settembre 22, 2008, 10:31:44 pm
Processo al Pd

di Marco Damilano


Guerre intestine. Brusco calo dei consensi. A un anno dalle primarie il partito di Veltroni in crisi. Cinque esperti a confronto per individuare il colpevole  Walter VeltroniA Sinalunga, tra i colli senesi da dove ha preso origine nel Cinquecento la famiglia Veltroni, il leader del Partito democratico ha provato a rilanciare il suo progetto su nuove basi: opposizione dura al governo Berlusconi, una nuova tavola di valori in un paese che è "uno specchio rotto", che rischia "la decomposizione sociale e civile".

Parole forti, arrivate alla fine di settimane in cui ha rischiato di decomporsi soprattutto il Pd e la stessa leadership di Walter Veltroni. Sondaggi devastanti che danno il partito sotto il trenta per cento. Guerre tra capi al centro e in periferia, esplicita quella del battitore libero Arturo Parisi, sotterranea quella organizzata da Massimo D'Alema che si combatte perfino sul controllo delle tv satellitari: alla fine saranno due, una dalemiana e una veltroniana. E un leader che appare rinfrancato dal calore della base, ma che è stato criticato perfino per la scelta di acquistare un appartamento a New York per la figlia: dall'Africa a Manhattan. Cosa succede al Pd? Perché a quasi un anno di distanza dalle primarie che hanno incoronato Veltroni segretario il progetto non decolla? 'L'espresso' lo ha chiesto a cinque osservatori, cinque intellettuali non neutrali ma estranei a logiche di partito, chiedendo loro di svolgere i principali capi di imputazione per un partito che, se ancora non può essere giudicato colpevole, di certo rischia di essere processato dalla storia per aver consegnato a Silvio Berlusconi la più lunga stagione di potere.

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Il leader
Walter non comanda e non vedo eredi

Colloquio con Giovanni Sartori
Che giudizio dà sulla leadership di Veltroni?
"Il quesito è se Veltroni sia un buonista o un decisionista. Quando ha deciso di far correre il Pd da solo alle elezioni è stato un decisionista intelligente. Quella decisione è stata un giro di boa per la politica italiana, Veltroni passerà alla storia per la decisione di rompere con il prodismo, e quindi con i 'nanetti', con le coalizioni fatte per vincere le elezioni e incapaci di governare. Poi, però, ha fatto una assurda campagna elettorale tutta all'insegna del buonismo e, anche per questo, ha perso le elezioni alla grande. Vedeva le piazze piene e non si rendeva conto che equivalevano a urne vuote. Finita la campagna elettorale, ha tenuto una condotta oscillante. Ma non è tutta colpa sua, intendiamoci".

Di chi è la colpa?
"Il Pci funzionava con il centralismo democratico, ma il Pd non ha il modello del capo assoluto. Assomiglia molto di più alla Dc che si fondava sull'accordo tra i cavalli di razza per spartirsi le cariche a rotazione, a terna. L'attuale Pd, come la vecchia Dc, non consente la leadership. Prodi si è ritirato sull'Aventino, ma farà le sue vendette e intanto c'è Parisi che semina la via di Veltroni di piccole mine a ripetizione che in apparenza sono parisiane, ma che in realtà sono prodiane. E poi c'è l'insommergibile D'Alema, che trama molto per concludere poco. Da ultimo gli è sfuggita la presidenza della Repubblica. A maggior ragione, qualsiasi leader del Pd che non fa i conti con lui se lo trova tra i piedi. Nel partito è lui, D'Alema, che comanda. A differenza di Fassino, lui non si lascia accantonare".

Forse il problema è chiudere con questa generazione di ex Pci e voltare pagina.
"Sarebbe bello, ma i giovani non ci sono. Il Pd ha cooptato solo una ragazzina fiera di non sapere nulla di politica. E se i giovani non ci sono, tutti dovrebbero imparare dalla Lega che ha gli stessi dirigenti da vent'anni e passa senza che nessuno se ne lamenti. Anzi, con il tempo Castelli, per esempio, è diventato bravissimo".

Veltroni si paragona spesso a Obama: è un confronto che regge?
"Non hanno niente in comune. Veltroni viene da una scuola di partito, ha fatto il segretario dei Ds (anche se malissimo), il numero due del primo governo Prodi, e poi il sindaco di Roma. Insomma, è un politico di professione. Invece Obama ha soltanto studiato come si fa a scalare la presidenza degli Stati Uniti. Altrimenti non ha esperienza di nulla. Per me, poi, è un lavativo: non veniva neppure alle mie lezioni alla Columbia University...".

Insomma, al Pd non servirebbe un Obama...
"Per carità, ci mancherebbe solo questa. Il problema è che la vecchia macchina di addestramento del Pci non c'è più, così come non c'è più il clero di riserva, la vecchia Azione cattolica che forniva quadri al partito democristiano. I vecchi sono morti, i giovani valgono poco. Il nostro non è un problema di 'obamizzazione'".

A che serve fare le primarie per scegliere il leader, allora?
"A nulla: le primarie prodiane sono solo cerimonie di massa. Servono per plebiscitare un leader che è stato già deciso. Abbiamo perso anni di tempo con tutte queste storie, le primarie, le fusioni... Ma se un partito nasce a tavolino, i due partiti che lo hanno composto resteranno sempre due".

(19 settembre 2008)


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La classe dirigente
Vittime del modello Berlusconi

Colloquio con Giuseppe De Rita
"Il problema è che quando si fa un partito, prima di imbarcarsi nell'impresa, si deve decidere ex ante qual è la sua identità, il suo blocco sociale di riferimento, il programma, la forma-partito, liquido o non liquido... Tanto più se la qualificazione che hai deciso di darti, democratico, non ti qualifica affatto. Oppure si crede che una classe dirigente nasca per virtù autonoma, perché tanti giovani non vedono l'ora di fare i democratici? Si è pensato che l'operazione creasse i dirigenti. E invece era vero il contrario".

Il problema, forse, è che gran parte della classe dirigente del Pd arriva dal passato. Difficile che poi possano impersonare il nuovo...
"Non sono d'accordo. Saranno pure ex e post, ma sono gente brava, se si sono salvati dal disastro della prima Repubblica vuol dire che cretini non sono. Il problema non sono le debolezze personali, non è una questione soggettiva, a parte l'invecchiamento e la stanchezza di qualcuno. La vera questione è che anche a sinistra, nel Pd, hanno deciso una volta per tutte che ha vinto il craxismo. Tutto quello che sta succedendo è la sua vittoria postuma".

Cosa c'entra Craxi?
"Negli anni Ottanta fu Craxi a capire che per cambiare la politica italiana era necessario concentrare il potere. E per farlo serviva la verticalizzazione delle decisioni. E per verticalizzare, bisognava personalizzare la leadership. E per ottenere questi risultati bisognava utilizzare due leve: i media e soprattutto i soldi. Aveva in testa questa successione logica, per questo gli piacevano gli stivaloni, i templi greci al posto dei palchi congressuali, gli architetti, i media, l'amicizia con Berlusconi. Ed è caduto sui soldi. Il problema per il Pd è semplice: se seguono questo percorso per formare i loro dirigenti vanno a sbattere. Verticalizzano a parole, personalizzano su persone che poi non sono in grado di reggere la personalizzazione. C'è già Berlusconi che occupa quello spazio, nessuno ti permette di fare il verso al Cavaliere. Il Pd non può fare la copia di Berlusconi".


E cosa avrebbe dovuto fare, allora?
"Fare l'opposto: cambiare completamente gioco. Fare un gioco di poliarchia, di articolazione dei poteri. Reagire a una concezione monarchico-mediatica rivalutando la tradizione delle autonomie tipica dei cattolici e dei comunisti emiliani, costruire un partito federale, articolato. L'equivalente in politica del sistema di economia mista".

Però il sistema politico va in direzione opposta: liste bloccate, parlamentari scelti con il criterio della fedeltà e non della rappresentanza...
"I cicli della politica sono medio-lunghi. Abbiamo avuto un lungo ciclo di sistema proporzionale, poi un decennio di bipolarismo traballante, ora c'è questo ciclo fondato sul circuito verticalizzazione-personalizzazione del potere che non si ferma di certo ripristinando le preferenze alle elezioni europee. Non è così che rimetti in moto la formazione di una classe dirigente, ma facendo una politica che scommette sull'articolazione poliarchica del sistema, che c'è e va governata".

Le primarie, l'elezione diretta del leader del Pd, l'organizzazione all'americana del partito faranno nascere una nuova classe dirigente?
"No, al contrario. Al Pd pensano che sia un modello di successo. Lo è, infatti, ma solo per Berlusconi".
(19 settembre 2008)


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Il partito è rimasto ostaggio del suo passato

Colloquio con Ilvo Diamanti
"Per il Pd il territorio è un paradosso. Il nuovo partito è nato da un Pacs tra ex democristiani e post-comunisti. Culture e partiti che avevano con il territorio un rapporto pesante, con un radicamento profondissimo. Il problema è che il Pd avrebbe dovuto sottrarsi a questa eredità, per non rimanere ostaggio del suo passato, per smettere di essere il partito degli ex e dei post. E invece è nato tardi, dopo 12 anni di strappi, frenate e accelerazioni, dal primo Ulivo di Prodi del '95 al 2007, e alla fine non è stato costruito per andare davvero oltre il passato, ma in base a un accordo tra i vecchi gruppi dirigenti. Il risultato è un partito dalle radici troppo forti, dal fusto fragile e dai rami secchi. Con una presenza sul territorio indefinita. Con una concentrazione territoriale del voto ferma al Pci degli anni Cinquanta: se si osserva la geografia elettorale si vede che il Pd sembra il Pds senza la esse. E con i gruppi dirigenti dei Ds e della Margherita che, perlopiù, continuano a operare in modo distinto. Il Pd più che una fusione sembra una somma di partiti che, in più, si portano dietro le correnti dei vecchi partiti. Ma la somma è stata fatta a Roma, quando si è deciso un anno fa di fare primarie di partito 'chiuse', un solo candidato forte al centro, liste bloccate dovunque. Si è preferito evitare una competizione vera, anche dura, fra candidati, per paura di scompaginare, di aprire la strada agli outsider. Ma in questo modo le primarie perdono molto del loro significato".

Per mesi si è discusso di partito presidenziale, fondato sulle primarie, o partito degli iscritti, radicato sul territorio. Quale via si è scelta?
"È una discussione oziosa. Il partito degli iscritti aveva i difetti che sappiamo, cristallizzava gli equilibri interni. Ma non è stato seguito neppure l'altro modello. Si voleva un partito che agisse per campagne tematiche, che usasse le primarie per scegliere candidati e dirigenti? Sarebbe stato uno strumento di mobilitazione eccezionale. Invece le primarie per la scelta dei candidati sono state finora intermittenti. Si potevano utilizzare almeno per scegliere i candidati sindaci: nel caso di Roma non se n'è neppure parlato, accrescendo l'impressione che ci fosse uno scambio a livello nazionale tra il sindaco uscente, che andava a fare il segretario del partito, e il candidato che aveva già fatto il sindaco quindici anni prima. Si tende a concepirle più in modo plebiscitario che competitivo. Sembra che le primarie si possano fare solo se si conosce già il risultato".

Eppure il Pd poteva vantare i sindaci, i presidenti di Regione. Perché si sono eclissati?
"Perché giocano contro una concezione centralista del partito. La richiesta di un 'partito del Nord' nasce dal fatto che al Nord il Pd è considerato un partito romano, due volte su tre ha candidato alle elezioni un ex sindaco di Roma, anche Romano, inteso come Prodi, è stato vissuto come romano. Si parla di partito del Nord per segnalare che il reclutamento dei dirigenti andrebbe effettuato su base locale. In Francia i sindaci contano, molti presidenti della Repubblica sono stati sindaci. Negli Stati Uniti gli outsider arrivano dal territorio: Obama è il senatore dell'Illinois, la Palin è governatrice dell'Alaska. Nel Pd, invece, la personalizzazione è centralista. E la scelta del leader è preventiva. Veltroni è stato scelto a priori, 'prima' che venissero indette le primarie, i candidati scomodi sono stati incoraggiati a non candidarsi. Ora sento parlare di altri nomi, nel caso venisse sostituito Veltroni: Letta, Bersani. Ma è la stessa logica. Scelte preventive, fatte dai soliti noti. Nessuno che preveda la possibilità che il leader esca da una competizione vera e aperta. Obama da noi non avrebbe nessuna chance. Al massimo potrebbe entrare nel listino di un governatore o del segretario. Cooptato".

Come si può superare questo vizio?
"Il Pd dovrebbe essere aperto, contendibile, centrato sulla autonomia territoriale. Ciò che ora non è. Certo, fare un partito radicato sul territorio, aperto e contendibile da tutti è rischioso per un gruppo dirigente ossificato, con bassissimi tassi di ricambio, il partito dei soliti. Il territorio è una condanna. Una cartina di tornasole per un partito realizzato in 12 lunghi anni: troppi per realizzarlo, troppo pochi per ragionare su come farlo".

(19 settembre 2008)



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Le idee. Non si può vivere di sole passioni
di Edmondo Berselli

Si cercano idee per il Pd. Per fare opposizione in modo credibile. Intanto per svelare la montatura di un governo che mobilita il 60 per cento del consenso popolare, e non si sa perché. Si potrebbe cominciare dalla semplice constatazione delle prodigiose differenze fra il governo Prodi e il governo Berlusconi. Prodi: tutti gli indici in zona positiva (deficit e debito corretti al ribasso, crescita in rialzo, avanzo primario in ripresa, cuneo fiscale alle imprese, quattordicesima ai pensionati poveri) e giudizio catastrofico. Berlusconi: crescita sottozero e popolarità alle stelle.

Qualcosa non va, evidentemente. La verità è che nella partita fra le passioni e gli interessi Berlusconi ha puntato sugli interessi, per costruire il proprio blocco sociale. A questo si aggiunge il favore generato con la politica allarmistica sulla sicurezza (dove si distinguono gli ex missini) e sull'immigrazione (dove campeggiano i leghisti). Ebbene, di fronte a una strenua partita giocata con gli interessi, è piuttosto sfasato rispondere con il richiamo alle passioni.

Al momento serve a poco puntare sulle questioni riferibili alla sfera dei diritti, all'uguaglianza, all'emergere di nuove questioni culturali e sociali. Occorre rendersi conto alla svelta, e Veltroni ha compiuto qualche passo in proposito, che in questa fase si sta disputando un match mortale, quello che secondo il ministro Tremonti potrebbe portare dalla "luna di miele" alle "nozze d'argento", e quindi rendere il Pd quella "minoranza strutturale" paventata da D'Alema.

Il compito della dirigenza 'democrat' è disperante, perché l'opinione pubblica sembra essersi dimenticata dei fondamentali. Quindi occorre ricordarglieli. Toccare il nucleo duro dell'economia, mettere a fuoco la redistribuzione regressiva favorita dal governo, chiarire i costi del federalismo fiscale, mettere allo scoperto l'impoverimento delle famiglie. Altrimenti avrà sempre ragione Berlusconi, che di fronte ai dati allarmanti dell'andamento del Pil risponde che il paese è "solido". Dal suo punto di vista ha ragione: la solidità italiana è quella di ceti garantiti dall'assenza di concorrenza, dalle protezioni assicurate alle corporazioni.


Insomma, come direbbe un rinato divulgatore del marxismo più elementare, è il caso di tornare alle questioni di struttura, mentre finora il Pd si è distinto sulle questioni di sovrastruttura. Essere moderni, cioè pensare alle grandi domande sull'ambiente, sull'impronta ambientale, sui diritti individuali e collettivi, sul mutare delle culture, sull'inclusione, la laicità e la tolleranza non esime dall'obbligo di indicare qual è un modello di società desiderabile, anche e forse soprattutto dal punto di vista economico.

Altrimenti si lascia la guida del discorso economico a Tremonti e a tutti coloro, ex liberisti, che si sono accodati alla polemica contro il "mercatismo" sviluppata dal ministro dell'economia. E il Pd continuerà a produrre chiacchiere. Magari intelligenti, aperte, futuribili. Ma chiacchiere, cioè parole che di fronte ai problemi rocciosi dell'Italia contemporanea sembreranno evasive, labili, laterali. Mentre oggi, quel che conta è andare dritti al centro dei problemi, senza giustificazionismi, senza sociologismi, senza ipocrisie.

(19 settembre 2008)


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L'opposizione
Sono l'ombra del governo

Colloquio con Nadia Urbinati
"L'Italia mi appare come un paese docile, dove si ha quasi il timore di entrare in contrasto con la maggioranza. Si è sviluppato un comportamento per cui l'imperativo è non esagerare, come se ci fosse un'esagerazione nella libertà di opinione. È sorprendente come ogni dissenso sia considerato destabilizzante. Ma quello che è destabilizzante è che un'opposizione, politica e della società, non cerchi di reagire come la Costituzione prevede, e che invece voglia attutire i toni".

La prima strada tentata dal Pd è quella del governo ombra. È una via percorribile in Italia?
"La verità è che in Italia c'è poca dimestichezza con il confronto. Si preferisce cercare il compromesso, la mediazione, mettere in piedi commissioni bipartisan (come se la maggioranza non fosse forte abbastanza!). Anche il governo ombra evoca un modo compromissorio di gestire il rapporto tra maggioranza e opposizione, soprattutto perché il Pd non è ancora radicato nel paese. Non esiste il governo ombra senza partito. Diventa l'ombra del governo. La debolezza del Pd deriva anche dal fatto che manca di una leadership forte: Veltroni da solo (e spesso sotto torchio nel suo stesso partito) può fare ben poco. Il partito non è una costruzione burocratica. Il momento di fondazione è anche opera di una leadership carismatica, autorevole; e questo momento non c'è stato. Le polemiche tra sindaci, presidenti di regione e vertici nazionali dimostrano una mancanza di riconoscimento dell'autorità del partito".

Negli ultimi giorni, però, Veltroni ha alzato i toni contro il governo, ha attaccato Alemanno sull'antifascismo, si prepara alla manifestazione. È un'inversione di rotta?
"È positivo ora il tentativo di una ricucitura con la società civile e la volontà di avere una voce franca. Ma l'intenzione di andare a manifestare in piazza mi sembra dettata da una necessità più che da una scelta di obiettivi coerenti. Come i calabroni quando sbattono sui vetri della finestra chiusa senza trovare una via di uscita. È un agire contingente. C'è la contingenza di Alemanno che riabilita il fascismo e c'è la reazione contingente del Pd. C'è il federalismo della Lega che il Pd accetta come un dato di discussione, senza intraprendere un'analisi del federalismo nelle sue diverse forme e criticare duramente il federalismo inegualitario che si sta profilando; soprattutto senza neppure sollevare il problema che si sta mettendo in discussione la forma dello Stato, un fatto che non è secondario e che non dovrebbe appartenere alla politica ordinaria. Lo stesso sulla scuola: il ministro Gelmini non sta semplicemente rimettendo ordine, ma sta smantellando un patrimonio della nazione, costruito nel corso di decenni. Ma come si può trattare la scuola come qualcosa che un ministro fa e disfa a sua discrezione? La scuola non è della maggioranza. Queste cose il Pd non le dice. Procede a rimorchio su temi cruciali. Il governo ha un progetto organico di stravolgimento della nostra democrazia; il Pd dovrebbe opporre un contro-progetto altrettanto coerente, non semplicemente reagire alle contingenze. Fare, per ripetere le parole del presidente della Repubblica, una politica di patriottismo costituzionale. Ha una cultura politica assente o inadatta come chi deve orientarsi in un paese straniero e dispone solo di vecchie mappe. L'egemonia la fanno gli altri: di là c'è il liberalismo restauratore di Tremonti, di qua non c'è nessuna visione. Solo qualche parola presa dal bagaglio di vecchie memorie e piccole battaglie quotidiane".

(19 settembre 2008)


da espresso.repubblica.it


Titolo: Marco DAMILANO. Radical Walter
Inserito da: Admin - Ottobre 02, 2008, 04:09:05 pm
Si prende tutto Silvio

di Marco Damilano


Forza Italia e Alleanza nazionale si preparano alla fusione. Ma a condurre la partita sono il premier e i suoi uomini. Pronti ad accaparrarsi posti e incarichi. E in An cresce il malcontento  La prima riunione, il 17 settembre, è durata 40 minuti. Giusto il tempo di ascoltare l'inno, 'Azzurra libertà', il discorso del presidente, Silvio Berlusconi, poi tutti a casa. Doveva essere l'avvio dell'operazione Popolo delle libertà, verso il congresso del 2009 del nuovo partito che nascerà dalla fusione di Forza Italia e di Alleanza nazionale: ma del contributo di An non si è vista traccia.
 
"Fini è presente in spirito, qui tra noi", ha ricordato il Cavaliere prima di andarsene, con la formula che si usa per i cari estinti.
C'era anche il coordinatore forzista Denis Verdini, un evento raro. Il deputato toscano che conduce le trattative per conto di Forza Italia lavora in modo originale: non risponde mai al telefono. Ignazio La Russa lo chiama, lui si fa negare. Si vedono direttamente da Berlusconi e ci pensa Silvio. È stato così quando il ministro della Difesa, reggente di An, ha provato a organizzare la prima festa del Pdl nella sua Milano: per settimane Verdini lo ha fatto girare a vuoto, senza dire né sì né no, poi ha portato la faccenda al cospetto del Cavaliere. "Ignazio, sei matto, vuoi fare una festa politica il giorno di Milan-Inter?", ha domandato il premier. Ed è finita lì.

Sarà così anche per tutto il resto. Le tappe che porteranno alla formazione del Pdl sono già fissate: costituzione del comitato dei Cento, il parlamentino che deve gestire la transizione verso il nuovo partito, congresso tra gennaio e febbraio 2009, esordio alle elezioni amministrative di primavera e alle europee di giugno. Il comitato incaricato di scrivere lo Statuto del Pdl non si è mai riunito, ma nessuno se ne dà pena. Tanto, la legge aurea per aderire al primo partito italiano ("Siamo al 40 per cento, dobbiamo arrivare al 60", ordina il premier) è già stata scritta.

La spartizione dei posti e delle candidature tra i due soci fondatori, il 70 per cento a Forza Italia, il 30 ad An, che andrà ritoccata: "75 per cento a noi, 25 ad An", calcolano ora in via dell'Umiltà, sede del partito forzista, che si dovrà far carico di ospitare nella sua quota i piccoli, la Dc di Gianfranco Rotondi, i repubblicani di Francesco Nucara, Alessandra Mussolini, Daniela Santanchè.

Anche le altre regole, spiegano in Forza Italia, sono già stabilite: niente tessere, come sognavano quelli di An, ci sarà un albo degli elettori, dove si iscriveranno i cittadini che votano alle primarie per scegliere il candidato premier del Pdl, se mai si faranno, ovviamente. E niente elezione dei vertici regionali: la base voterà solo per scegliere i coordinatori cittadini e provinciali, poi stop, i segretari regionali saranno scelti dall'alto, da Berlusconi. C'è già chi scommette che saranno tutti targati Forza Italia. Altro che 70 e 30.

Un modello già collaudato in Forza Italia. "Silvio sa bene che c'è un solo partito che è rimasto al potere per decenni: la Democrazia cristiana. Era organizzata in correnti: per il Pdl, niente pasticci, bisogna seguire quella strada lì", racconta una vecchia volpe del firmamento forzista. Il Pdl sarà una federazione di correnti. Due partiti in uno, e tante fazioni.

In Forza Italia guidano il gioco i berlusconiani doc, i più vicini al cuore del leader. Verdini, l'uomo forte del partito, e il ministro Sandro Bondi. I ministri Angelino Alfano e Raffaele Fitto, neanche quarantenni, figli d'arte, ricchi di voti in Sicilia e in Puglia, con l'ambizione di durare al potere quanto i democristiani. Anche il senatore Gaetano Quagliariello, nonostante la passata militanza radicale, può vantare un nonno senatore Dc: partito come consigliere del presidente del Senato Marcello Pera, gli ha scippato la guida della fondazione Magna Carta e si è inserito nel gruppo di testa degli azzurri. Chiudono il giro stretto le ministreMara Carfagna e Mariastella Gelmini. In corsa per la presidenza di Campania e Lombardia.

Alle spalle preme la lobby vincente che sta conquistando i posti chiave. Gli ex socialisti craxiani che non hanno mai smesso di frequentarsi, tra la fondazione Free diRenato Brunetta e l'associazione Amici di Mario Rossi, poi Amici di Marco Biagi, di Maurizio Sacconi. Con Giulio Tremonti, l'asse del governo Berlusconi, che controlla la politica economica e le nomine che contano: quella di Stefano Parisi a direttore generale della Rai, per esempio.

Uno scontro sotterraneo, così funzionano le guerre di potere nel Pdl, si è consumato sul parcheggio del Pincio e sul futuro candidato alla presidenza della Regione Lazio: in pole position c'era il sottosegretario ai Beni culturali Francesco Giro, legato a Gianni Letta e ben visto dalle gerarchie vaticane, favorevole al parcheggio. Non aveva fatto i conti con il capogruppo alla Camera Fabrizio Cicchitto e con il fronte del no, da Carlo Ripa di Meana a Giuliano Ferrara, tutti già amici di Bettino.

Alla fine il parcheggio è stato bloccato e l'ascesa di Giro pure. Ora per la Regione Lazio si fa avanti un altro forzista: Alfredo Pallone, ex socialista, guarda caso. In confronto, l'area democristiana è inesistente. "Noi nel governo non ci siamo", si sfoga in privato l'ex presidente della Compagnia delle Opere Giorgio Vittadini. Non c'è Roberto Formigoni, in effetti. Nonostante il gran lavoro che sta facendo il suo fedelissimo Giancarlo Abelli, vice di Verdini all'organizzazione. A differenza di Verdini, lui passa il tempo al telefono: poco per ritagliarsi un ruolo, però.

In An stanno a guardare. E i malumori aumentano. Una settimana fa i dissidenti si sono visti a Selinunte, convocati dal deputato Nicolò Cristaldi. C'erano Mario Landolfi, Pasquale Viespoli, Gennaro Malgieri, Barbara Saltamarini, Adriana Poli Bortone e qualche altra anima in pena.

Dopo la polemica sull'antifascismo, con lo scontro tra Fini e la coppia La Russa-Alemanno, la prossima guerra si aprirà sui beni del partito. Sezioni, proprietà immobiliari acquistate a prezzi stracciati negli anni Settanta-Ottanta, quando nessuno voleva affittare una sala ai missini: la sede di via Sommacampagna a Roma, dove sono cresciuti Fini, Gasparri, Alemanno e tutti i dirigenti, che ancora oggi ospita Azione giovani, la sede di via Mancini del Msi e di An a Milano. E poi c'è il quotidiano 'Secolo d'Italia'. Per salvare il patrimonio La Russa ha già studiato la soluzione: una fondazione dedicata a Giorgio Almirante, per far contenti i nostalgici e mantenere integro il tesoretto che permetterà ai notabili di fare politica.

La vecchia fiamma sparirà dalla circolazione: alla festa dei giovani di An non si è più vista, a chiedere il sacrificio è stato Berlusconi in persona. "In cambio", ha promesso a Giorgia Meloni, "sarete voi a guidare il movimento giovanile del Pdl". An finisce con la nascita del Pdl, ma la fiamma potrebbe rinascere nel nome dello storico leader. I militanti saranno felici, Fini molto meno: con tutto quello che ha fatto per emanciparsi dalle sue radici, l'ultima cosa che vorrebbe è ritrovarsi con una fondazione Almirante tra i piedi.


(30 settembre 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Marco DAMILANO. Radical Walter
Inserito da: Admin - Ottobre 02, 2008, 05:20:20 pm
Radical Walter

di Marco Damilano


Prepara la manifestazione contro il governo. Dice che Berlusconi non è adatto al Quirinale. E avverte i compagni di partito: 'il leader resto io'. Così Veltroni sale sulle barricate. Colloquio con Walter Veltroni
 Veltroni parla durante il congresso del PD, nel febbraio 2008Stiamo assistendo al fallimento storico della destra... Nella stanza da segretario del Partito democratico Walter Veltroni tiene accesa la tv sulla Cnn: trasmette un discorso di Barack Obama sulla crisi di Wall Street. "La destra ha creato una condizione sociale difficile per i ceti medio bassi e un mercato finanziario senza controlli. Se gli americani sceglieranno Obama sarà un cambiamento radicale". Sul tavolo la copia de 'L'espresso' di due settimane fa con il titolo 'Processo al Pd'. Al leader non è piaciuto, si capisce. "Lasciamoci alle spalle la depressione, siamo in una fase nuova", assicura.

Anche in piena crisi Berlusconi mantiene livelli record di popolarità. È un paradosso?
"È fisiologico. In nessun paese al mondo chi vince le elezioni va in crisi quattro mesi dopo. Solo la nostra infantile fretta ci fa pensare il contrario. La crisi c'è, non è solo italiana. E può portare alla recessione: perdita dei posti di lavoro, chiusura delle aziende. Il governo ha fatto i fuochi d'artificio, sembrava Piedigrotta. Però ora si può guardare la situazione per quello che è davvero. Aumento delle tasse, altro che riduzione. Niente finanziamenti per le infrastrutture. Nessun intervento su salari e pensioni. Sulla scuola operazioni di puro taglio. Tasso di disoccupazione in aumento, consumi in discesa. Cresce un forte disagio sociale. Tra poco la gente si chiederà cosa ha fatto Berlusconi in Italia per andare contro il ciclo".

E voi siete pronti a intercettare il disagio? A giudicare dai sondaggi si direbbe di no.
"I sondaggi ci danno di nuovo in crescita, ma il punto è che serve tempo. Bisogna avere il fiato giusto, non pensare che sia la corsa dei cento metri. In Austria i socialdemocratici hanno perso il 6 per cento, è questo il momento storico che stiamo vivendo in Europa. In Italia, però, per la prima volta c'è un partito riformista più grande della somma dei partiti che lo costituivano. Si può ripartire da qui. Costruire un'alternativa di governo che per essere credibile dovrà essere di innovazione e riprendere il filo di quello che abbiamo fatto in questi mesi. Il 13 aprile i voti li abbiamo presi per i contenuti e i linguaggi nuovi che ci hanno ispirato dal discorso del Lingotto. Sia chiaro, nessuno ce li ha regalati".

I notabili del partito le chiesero di candidarsi per evitare il disastro.
"Mi avevano chiamato perché sapevano che non era facile vincere, altrimenti non si sarebbero rivolti a me, la metta pure così. Io ho trovato due partiti la cui somma faceva 22 per cento e siamo arrivati al 34. Non c'è dubbio, dopo le elezioni la spinta si è rallentata. Ora ci sono state le feste, la summer school, ci saranno le primarie dei giovani, la manifestazione, la conferenza programmatica. Da qui si può ripartire, se si ha la voglia di farlo. La nostra gente ha voglia di questo. Non di vecchi riti e vecchie dinamiche".

Intanto è lei il primo a tornare all'antico. Ha predicato la fine dell'anti-berlusconismo. E ora, invece, paragona Berlusconi a Putin.
"Nessuna discontinuità. Ho sempre detto che l'Italia attraversa una grave crisi democratica e che va cercata una convergenza con l'avversario per fare le riforme. Grazie alla nostra scelta di correre da soli alle elezioni si è raggiunto l'obiettivo storico di avere un Parlamento di tipo europeo. A fronte di questa apertura Berlusconi ha cominciato con una sarabanda di leggi fatte nel suo unico interesse e con un'offensiva di attacchi all'opposizione, ai sindacati, al Parlamento. È lui che è tornato al passato".

Lei andrà in piazza al Circo Massimo, dove la Cgil portò tre milioni di persone. Vuole giocare a fare il Cofferati, l'uomo del no?
"Siamo impazziti? Ci si indigna per una manifestazione? L'ha fatta anche Berlusconi, contro il primo governo Prodi che portò l'Italia nell'euro. Dietro il palco c'era scritto: 'Contro il regime, per la libertà'. Confermo: sono interessato a riscrivere le regole del gioco. Se arriverà un provvedimento che riduce il numero dei parlamentari, voteremo sì, non siamo sull'Aventino. Ma il Pd è insieme radicalità e riformismo. Non è la versione moderata, inciucista della tradizione democratica. È un partito che quando vengono violate le regole del gioco si alza in piedi. Non con lo spirito di Flores d'Arcais o della Guzzanti, che portano voti alla destra, ma con quello di un grande partito di alternativa di governo".

Pensa di rispolverare il fronte delle opposizioni, da Casini a Vendola? Sembra l'Unione...
"Non penso di tornare alla vecchia formula. Il Pd vive se coltiva l'innovazione, non la conservazione, il ritorno all'indietro. Prodi era un uomo dell'innovazione, ha fatto miracoli, ma aveva in maggioranza perfino quelli che trattavano con le Farc".

Arriva la riforma della giustizia. Il Pd appoggerà il referendum di Di Pietro sul lodo Alfano?
"Berlusconi vuole fare una riforma contro la giustizia, per riportarla sotto il controllo della politica. Noi convocheremo gli stati generali della giustizia: magistrati, avvocati, forze dell'ordine. E non appoggeremo il referendum: non è uno strumento utile".

La prossima partita sarà il presidenzialismo. Per Massimo D'Alema se ne può discutere. E per lei?
"Se in astratto mi chiede se il presidenzialismo mi inquieta, la mia risposta è no. Ma se la domanda è se in questo momento in Italia è giusto passare a un sistema presidenziale, rispondo ancora no. Le istituzioni sono figlie della cultura del tempo e in Italia, in questo momento, è necessario rafforzare le istituzioni di controllo".

La presidenza della Repubblica è tra queste?
"Oggi al Quirinale c'è Giorgio Napolitano, in precedenza ci sono stati Carlo Azeglio Ciampi, Oscar Luigi Scalfaro, persone che hanno fatto il bene del Paese. È un luogo dove devono esserci figure che garantiscano la Costituzione, conoscano le regole del gioco, rispettino le opinioni di tutti, accettino il dissenso. Tutto ciò che Berlusconi non è. Ho visto che oggi Bossi ha detto che per lui Berlusconi al Quirinale andrebbe bene. Per me no: non va bene. Per fortuna il problema non si pone: fino al 2013 al Quirinale ci sarà Napolitano, una garanzia per tutti".

Nel 2009 si vota per le elezioni europee e amministrative. È in gioco la leadership?
"Tre milioni e mezzo di persone mi hanno scelto perché sono un dirigente che pensa che la vita sia più ricca della politica, un antidoto al male che vedo in tanta parte della politica italiana: un morboso attaccamento alla dimensione del potere. Non me ne importa assolutamente nulla di quelli che fanno i conti sulle percentuali, sui risultati di questa o di quella elezione".

Però il Pd continua a essere una Babele. In Emilia i delegati disertano l'assemblea regionale che deve eleggere la direzione, in Campania, ad Acerra si parla di soldi in cambio di tessere. Dov'è Veltroni? Perché non interviene?
"Il segretario è intervenuto in tante circostanze, senza clamore. Fa notizia Acerra, ma non che per la prima volta in Campania un partito sta facendo un tesseramento come andrebbe fatto, con garanzie e controlli. Perché non fa la stessa domanda a Berlusconi? Per la destra si dà per scontato che non esista vita democratica. Sì, è vero, ad Acerra c'è stato un problema, come può esserci da altre parti, e dove ci sono interveniamo. E vedremo alla manifestazione se il Pd esiste o non esiste".

Che il Pd non esiste ancora lo dicono tanti sindaci, da Cacciari a Chiamparino. E infuria lo scontro tra le fazioni.
"In alcune situazioni locali il Pd non assomiglia ancora al Pd che vorrei. Ci sono zone in cui il Pd funziona, cresce. In altre, per esempio nel Mezzogiorno, bisogna imprimere un cambiamento più forte di gruppi dirigenti, immettere nuove energie. Come il sindaco di Gela Rosario Crocetta che ha annunciato la sua adesione".

Ha promesso che ci sarebbero state le primarie per scegliere dirigenti e candidati. Invece a Firenze per fare il sindaco corrono in quattro, a Bologna non si faranno. Primarie intermittenti?
"Abbiamo un regolamento che stabilisce le primarie per i nuovi eletti e per i sindaci in carica se viene richiesto da una quota definita degli organismi. Regole e intelligenza politica debbono sposarsi".

Si sarebbe evitata questa guerra sotterranea con un congresso?
"Ci ho riflettuto, ma pensi a cosa sarebbe successo se ora invece di fare l'opposizione avessimo fatto il congresso. Saremmo in mezzo alle discussioni interne. Per il vecchio approccio politico il partito è il luogo dove si discute, si litiga e ci si divide. Per me è uno strumento utile ai cittadini. Oppure diventa un pezzo della casta".

C'è una condizione per cui le diverrebbe insopportabile restare segretario?
"Se non potessi continuare a fare il Pd per cui sono stato eletto da tre milioni e mezzo di persone. Ma il problema non si pone".

Insomma, non vuole scappare al Polo Nord.
"È un viaggio che spero di fare. L'atteggiamento snob nei confronti del dramma dell'ambiente è qualcosa che i nostri figli non ci perdoneranno. Si fa ironia, come sull'Africa, Obama, il Pd. L'ironia è sempre rispetto alle cose nuove. Ma quando si farà la storia di questi anni si vedrà chi ha fatto le cose nuove. E chi ha tenuto il freno a mano alzato".

(02 ottobre 2008)


da espresoo.repubblica.it


Titolo: Marco DAMILANO - Se Casini studia da Prodi
Inserito da: Admin - Novembre 20, 2008, 11:37:40 pm
Se Casini studia da Prodi

di Marco Damilano


Mani libere nelle alleanze. Gioco di sponda con parte del Pd. Il sogno di guidare un nuovo centrosinistra. E annuncia: 'Dopo le europee nel partito cambia tutto'. 

All'ultima riunione dei big del partito ha annunciato una piccola rivoluzione: "Nelle prossime settimane cambieremo tutti i nostri segretari regionali. Con un unico criterio: la novità. Non devono appartenere alla nostra storia passata. Anche a livello locale dobbiamo tirare su una nuova classe dirigente". Il repulisti di Pier Ferdinando Casini è stato benedetto dai notabili che compongono la cabina di regia dell'Udc: un organismo informale che da qualche tempo si riunisce ogni mercoledì mattina, composto da personaggi che certo nuovi non sono ma che tutti (o quasi) sono accomunati dal non aver partecipato alle precedenti vicende del partitino centrista. Oltre a Casini e al segretario Lorenzo Cesa, a Rocco Buttiglione, Francesco D'Onofrio e Michele Vietti, ci sono due transfughi di Forza Italia, il dc di lungo corso Angelo Sanza e l'eterno liberal, prima di sinistra, poi di destra, ora di centro, Ferdinando Adornato, l'attivissimo Bruno Tabacci, l'inquieto Savino Pezzotta e il sopravvissuto Ciriaco De Mita che coccola l'ex delfino di Arnaldo Forlani con i suoi ragionamenti.

Sono gli uomini che dirigono l'operazione Udc 2: cambiare pelle al partito centrista che per quattordici anni, da quando cioè Casini andò a bussare alle porte di Silvio Berlusconi dopo la fine della Dc, è stato una specie di corrente esterna di Forza Italia, soprattutto a livello locale: chi non trovava posto tra gli azzurri si rifugiava nello scudocrociato. È andata così fino alle ultime elezioni, quando il Cavaliere ha espulso Pier dalla coalizione di centrodestra dopo il suo rifiuto di entrare nel Pdl. In quel momento è finito l'Udc prima maniera ed è partita la seconda fase: la più spericolata. Quella che può terminare con un disastro o con un trionfo, con la scomparsa degli ultimi eredi della Balena bianca dalla scena politica o con Casini a Palazzo Chigi.

Lo scenario è stato evocato da un ex amico di Pier, il sottosegretario Carlo Giovanardi, uscito dall'Udc per accasarsi da Berlusconi: "Casini sarà il prossimo candidato del centrosinistra, appoggiato da Massimo D'Alema. Ricoprirà la funzione che ebbe Prodi nel 1996 e nel 2006: con ottime prospettive, quindi", ha previsto il deputato modenese in un'intervista al 'Quotidiano Nazionale'. E già: in quelle due elezioni il Professore di Bologna, alla guida di una coalizione di centrosinistra, sconfisse Berlusconi. Antonio TabacciMusica per le orecchie dell'ex presidente della Camera: l'ennesimo segnale che dopo mesi di assalti berlusconiani al fortino centrista il clima sta cambiando. L'ultimo sgarbo, per esempio, è stato riassorbito come se nulla fosse. Una campagna acquisti ordita dai berlusconiani per sfilare qualche parlamentare all'Udc. Nella lista degli avvicinabili c'erano signori delle preferenze come il calabrese Mauro Tassone e il casertano Domenico Zinzi. Nessuno di loro, però, amava traslocare in compagnia. E così, alla fine, nel Pdl sbarcherà solo l'attuale portavoce dell'Udc, il deputato Francesco Pionati, l'ex mezzobusto del Tg1 metà uomo metà pastone. Un cambio di maglia che rischia di impensierire soprattutto il già fitto drappello di comunicatori del Pdl che si azzuffano per trenta secondi nei tg della sera, Cicchitto, Bocchino, Gasparri, Capezzone, Bonaiuti. Casini non ha fatto una piega. Anzi, la fuoriuscita di Pionati è la prova che si fa sul serio. Molto di più l'aveva impensierito lo strappo dell'Abruzzo. Qui, nella regione dove si vota tra pochi giorni per scegliere il successore di Ottaviano Del Turco, l'Udc aveva chiuso l'accordo con il Pdl. Da Roma, però, è arrivato il contrordine: Berlusconi in persona ha stracciato il patto già firmato dai vertici locali e ha espulso i centristi dalla coalizione. Non solo: ha fatto ponti d'oro ai centristi che abbandonavano l'Udc. Un gesto di arroganza che rischia di trasformarsi in un boomerang per il premier: i sondaggi più freschi danno il centrodestra in vantaggio di pochi punti sul centrosinistra. E l'Udc che corre da solo rimonta, ingrossando le sue liste di ex assessori e consiglieri regionali forzisti passati con Casini.

Un anticipo della futura strategia che Pier detta così: "La linea di Berlusconi nei nostri confronti per ora è stata questa: o entrate nel Pdl o non facciamo alleanze con voi. È una costrizione che spinge l'Udc a fare alleanze con altri. Se resistiamo e Berlusconi rinsavirà, come credo, noi dell'Udc potremmo tornare ad allearci con il Pdl. Ma anche con altri". Il Pd, certamente.

Un gioco a trecentosessanta gradi, al centro e in periferia. Mani libere e alleanze con chi ci sta, come solo il Psi di Craxi riusciva a fare negli anni Ottanta. In Piemonte le grandi manovre in vista delle amministrative della prossima primavera e soprattutto delle regionali del 2010 sono già cominciate: la scorsa settimana Vietti ha incontrato il rutelliano torinese Gianni Vernetti e il dialogo tra l'Udc e il sindaco Sergio Chiamparino è in pieno svolgimento. In Puglia, dove la gestione del partito è affidata a Sanza e l'Udc pesa circa l'otto per cento, si voterà per il Comune di Bari e in tutte le province e qui i centristi hanno trovato gli interlocutori ideali: gli uomini di Massimo D'Alema e di Enrico Letta, l'ala del Pd più interessata a trovare un'intesa con Casini. E nel gioco di riposizionamento si moltiplicano le sorprese: due settimane fa, per esempio, alcuni notabili dell'Udc pugliese, vogliosi di tornare nel Pdl e sensibili alle sirene del ministro berlusconiano Raffaele Fitto, invitano il siciliano Calogero Mannino a un'iniziativa, sicuri di trovare conforto nella loro linea. E invece, manco per sogno, anche il vecchio Lillo condivide in pieno le indicazioni di Casini, mani libere e nessuna alleanza privilegiata con il Pdl, i congiurati restano a bocca asciutta.

I siciliani si incontrano a Roma, lontani da occhi indiscreti. All'ultimo pranzo, in un ristorante a due passi dal Pantheon martedì 18 novembre, oltre a Mannino c'erano l'ex presidente della regione Totò Cuffaro e il segretario regionale Francesco Saverio Romano. Quarto commensale, unico non siciliano del tavolo, l'ex senatore Ugo Bergamo, attualmente componente del Consiglio superiore della magistratura: una presenza di certo non casuale. Perfino in Sicilia il partito si è spostato su una linea autonomista rispetto a Forza Italia: con il governatore Raffaele Lombardo a fare da mediatore.

Sull'Udc 2 Casini tiene unito il partito in vista delle prossime sfide elettorali: le amministrative e le europee. Ma il disegno è molto più ambizioso, quello che Bruno Tabacci definisce operazione White, la creazione di un nuovo partito di centro più grande dell'attuale Udc, alleato con il Pd in un nuovo centrosinistra: un Partito democratico che assomiglia più ai Red di D'Alema che all'attuale formazione guidata da Veltroni, però. Per forza: condizione indispensabile perché il progetto riesca è che alcuni settori del Pd dichiarino che il progetto è fallito e abbandonino la nave veltroniana. Le anime in pena non mancano. Un'anima in pena è l'ex segretario dell'Udc Marco Follini, che ormai non perde occasione per attaccare Veltroni e che negli ultimi tempi ha ricucito l'antico rapporto con Casini, dopo anni di incomunicabilità totale. Un altro leader in evidente sofferenza è Francesco Rutelli: per ora la lealtà nei confronti di Veltroni resta confermata, ma intanto non fa altro che frequentare cenacoli democristiani, nell'ultima settimana è stato avvistato perfino a un convegno organizzato da Publio Fiori e Bartolo Ciccardini, due simpatici reperti archeologici. E può vantare di essere stato il primo a parlare di alleanze di "nuovo conio" con l'Udc. Tentati dall'abbandono potrebbero essere i parlamentari teo-dem, Paola Binetti e Luigi Bobba, che con l'Udc e una bella parte del Pdl si sono già dichiarati disponibili a votare nelle prossime settimane i testi di legge più restrittivi sul testamento biologico, quelli che impediscono di interrompere alimentazione e idratazione come nel caso di Eluana Englaro. In dissenso dal resto del Pd. E infine, almeno nei piani di Tabacci, c'è l'approccio con la corrente di Enrico Letta, con cui Casini ha fatto tandem durante la vittoriosa campagna elettorale in Trentino: più un sogno che un progetto politico, almeno per ora. Con un timing obbligato: il momento delle scelte verrà dopo le europee, quando tutto, prevede Casini, si rimetterà in movimento. Prima è troppo presto: "Dobbiamo evitare di cadere nella trappola di Berlusconi che ci vorrebbe spingere a sinistra". Resistere al centro, come predicavano i padri democristiani, dunque. E cambiare pelle, modernizzarsi, aprirsi ai mondi più lontani. Sarà un caso, ma tra i collaboratori dell'ex presidente della Camera è entrato di recente Stefano Anastasia, un passato nel partito radicale e tra i giovani del Pci. A dimostrazione che nella squadra di Pier c'è posto per tutti, non solo per papa-boys e ex dorotei. Anche l'altro bolognese, Romano Prodi, si preparava a vincere così.

(20 novembre 2008)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Marco DAMILANO - Nichi fa marcia indietro
Inserito da: Admin - Novembre 24, 2008, 04:34:29 pm
Nichi fa marcia indietro

di Marco Damilano


Data della scissione, nome e il simbolo del nuovo partito erano pronti. Ma la minoranza di Rifondazione guidata da Vendola ha fatto un passo indietro. La separazione da Ferrero può attendere  È la storia di una scissione che non c'è. Tutto sembrava pronto per il grande passo. La data era già fissata: un'assemblea il 13 dicembre a Roma. Già allo studio il simbolo del nuovo partito e il nome, 'La sinistra'. Invece, tutto si è fermato. E la minoranza di Rifondazione guidata dal presidente della Puglia Nichi Vendola è stata costretta a un passo indietro: la separazione dal segretario Paolo Ferrero può attendere.

A mettersi in mezzo è stato il nume tutelare della corrente, Fausto Bertinotti. L'ex presidente della Camera nelle ultime settimane si è riavvicinato a Ferrero, dopo lo scontro al congresso di Chianciano di luglio. Incontri in pubblico, l'ultimo alla manifestazione degli studenti una settimana fa, e in privato. E poi la pubblicazione su 'Liberazione' delle '15 tesi' in cui Bertinotti scrive che "vanno evitate le scorciatoie politiciste" e che va contrastato il progetto di un'alleanza tra il Pd e un partito da far nascere alla sua sinistra: esattamente il progetto di Vendola e dei suoi.

Dopo lo stop Vendola ha dato il contrordine compagni: "Il mondo è cambiato, non possiamo fare un partitino". E ha seguito il consiglio del Subcomandante Fausto: aspettare le elezioni europee per la resa dei conti interna, non rompere prima.

Ferrero si difende cavalcando qualsiasi protesta: dopo il movimento degli studenti attende con ansia lo sciopero generale della Cgil.

Ed è volato a Berlino per incontrare Oskar Lafontaine, il leader di Linke, il partito della sinistra tedesca. Sperando di trovare conforto.

M. D.
(21 novembre 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Marco DAMILANO - Choc democratico
Inserito da: Admin - Dicembre 18, 2008, 12:00:29 am
Choc democratico

di Marco Damilano


La disfatta d'Abruzzo. Le inchieste giudiziarie. L'insidia di Di Pietro. I capicorrente sul piede di guerra. Così il Pd vive i giorni più neri. E gli uomini di Veltroni invocano una terapia d'urto  Abruzzo, Campania, Basilicata, Calabria, sta venendo giù tutto..., si dispera il senatore Giorgio Tonini, l'intellettuale che prepara i discorsi di Walter Veltroni, mentre martedì 16 dicembre sale sull'ascensore di largo del Nazareno che lo porta alla riunione del coordinamento nazionale del Pd.

Il day after, nella sede del partito di Walter Veltroni, è desolante. Si aggiorna il bollettino di guerra delle elezioni in Abruzzo: alla fine il Pd si ferma a quota 19,6, una percentuale che neppure le previsioni più catastrofiche davano per possibile, Italia dei Valori segue a un passo, al 15 per cento. In termini assoluti la sconfitta fa ancora più paura: alle elezioni politiche del 13 aprile, il Pd raccolse in Abruzzo 277 mila voti, in otto mesi ne ha persi per strada quasi 180 mila, precipitando a 106 mila, meno di quanto presero i Ds andando da soli alle ultime regionali del 2005, meno addirittura della Margherita rutelliana. Appena il tempo di riprendersi dalla batosta elettorale e arriva quella giudiziaria: richiesta di arresti domiciliari per il deputato Pd Salvatore Margiotta, manette nella notte per Luciano D'Alfonso, l'uomo forte del Pd in regione, l'emergente, sindaco di Pescara legato ai popolari di Franco Marini e Giuseppe Fioroni, nemico giurato di Ottaviano Del Turco, candidato unico alla segreteria regionale ed eletto trionfalmente con le primarie. E viene in mente una fotografia già ingiallita, eppure sono passati solo pochi mesi. La prima tappa del tour elettorale del pullman di Veltroni, proprio a Pescara, nella centralissima piazza della Rinascita, detta anche piazza Salotto.

A fare da controcanto, in quella mattina di sole gelido, domenica 17 febbraio, ci sono due cartelli dedicati ai notabili del Pd locale: 'No al petrolchimico di Ortona' e 'Del Turco, una riflessione politica ti renderebbe ancora uomo'. Il Del Turco in questione, Ottaviano, il governatore dell'Abruzzo, sta bene attento a non farsi vedere, resta nascosto dietro il palco, accanto al sindaco D'Alfonso, entrambi accucciati nei cappotti. Quando Veltroni li nomina, mezza piazza fa partire bordate di fischi. Una contestazione che non troverà spazio nelle cronache del giorno dopo, ma che oggi suona come una sinistra profezia: il viaggio di Veltroni, partito a Pescara, potrebbe interrompersi proprio a Pescara.

Nelle ore più amare della sua gestione, il leader è barricato in un bunker antico, quello del centro congressi di via dei Frentani, già storica sede della federazione romana del Pci, dove Veltroni aveva mosso i primi passi. Lì, nel sotterraneo, sotto la scritta 'Il mondo cambia', traccia di obamismo un po' surreale in questa situazione, mentre dall'Abruzzo arrivano dati sempre più allarmanti, per tre ore il segretario del Pd ascolta i lamenti della base, i coordinatori dei circoli arrivati da tutto il Lazio. "C'è stata la campagna elettorale, poi si è fermato tutto, chi ha votato alle primarie poi non ha preso la tessera del partito", racconta Silvia Calamante, circolo San Giovanni. L'intervento più applaudito è quello di Rocco Mauriani, segretario del Pd di Vicovaro: "Caro Veltroni, i compagni e gli amici di sempre ci guardano con uno smarrimento che spesso è anche il mio. Avevamo creduto in voi quando ci avete promesso un partito nuovo: ora siamo confusi e senza una visione". La sala approva, anche Veltroni batte le mani. In solitudine: i dalemiani non ci sono, i rutelliani neppure.

Una terapia d'urto. Una misura choc. "Qualcosa di straordinario", evocano gli uomini più vicini a Veltroni. Disfatta elettorale e questione morale si tengono insieme nei ragionamenti degli intimi del segretario che preparano la direzione di venerdì 19 dicembre, convocata un mese fa, annunciata come la sede in cui ci sarebbe stato finalmente il tanto atteso chiarimento tra Veltroni e Massimo D'Alema, e ora chissà. "La cosa peggiore sarebbe restare nella morta gora: fare finta che non è successo niente", avverte Roberta Pinotti, ministro-ombra della Difesa. "Abbiamo di fronte a noi due strade: lavorare per costruire il Pd sui tempi lunghi, senza avere paura delle batoste ma avendo il coraggio di scegliere. O non decidere nulla, dire che un giorno rompiamo con Di Pietro e il giorno dopo il contrario: ma in questo modo non diventeremo mai il partito a vocazione maggioritaria di cui abbiamo parlato tanto, e continueremo a perdere". Così, tra i veltroniani doc, avanza l'idea di 'un'unità di crisi', come la definisce la Pinotti, un gabinetto di guerra per reagire alla Caporetto elettorale e giudiziaria. Con pieni poteri affidati al generale in campo eletto con le primarie: Walter Veltroni. Repulisti della vecchia classe dirigente, facce nuove, giovani da mettere in campo. E una strategia politica da ripensare interamente: stop ai condizionamenti di Di Pietro.

Basterà a conquistare il consenso degli alti gradi dell'esercito democratico, da D'Alema a Marini? Da mesi i notabili più influenti preparavano un congresso da fare nel 2009, dopo le elezioni europee, con all'ordine del giorno un ribaltone della segreteria. Ma ora le cose potrebbero cambiare. Per i capicorrente del Pd non si tratta più di organizzare una resa dei conti per qualche punto decimale perso alle europee. Ora è in gioco la sopravvivenza, il destino stesso del partito e della sua classe dirigente. Rispetto al quale qualsiasi mossa è lecita: stringersi attorno a Veltroni, oppure accelerare le pratiche di sfratto dell'attuale segretario. Con il rischio, per politici ormai invecchiati e reduci da troppe battaglie, di restare per decenni "minoranza strutturale", come avvisa D'Alema. L'incubo dell'opposizione a vita.

(17 dicembre 2008)
da espresso.repubblica.it
Frammento di una possibile strategia di rimonta, la stessa che gli consigliano i collaboratori più stretti. Basta mediazioni estenuanti, basta con le facce logore al centro e in periferia, Veltroni cavalchi la sconfitta e si appelli alla base. "Siamo nell'emergenza, servono decisioni di emergenza", sprona Tonini: "Già era difficile fare il Pd in una situazione di normalità, l'identità culturale del partito, il suo profilo programmatico, il rapporto con la società che non raggiungiamo più. Ma ora se non facciamo qualcosa diventa impossibile: dobbiamo fare il sesto grado mentre la montagna ci sta venendo addosso". Solo una settimana fa i vertici del Pd hanno provato a mettere mano nelle situazioni locali più delicate, la Campania di Antonio Bassolino, il ginepraio delle primarie di Firenze, condizionate dalle inchieste della magistratura. Risultato: "Bassolino ci ha mandato a quel paese", ammette Tonini. "E se le cose stanno così, dovremo rendere più netta la distinzione tra il partito e gli amministratori locali. Ma, mettiamoci il cuore in pace, sarà una marcia lunga e molto dolorosa".



Titolo: Marco DAMILANO - Costituzione ad personam
Inserito da: Admin - Gennaio 02, 2009, 11:29:15 pm
Costituzione ad personam

di Marco Damilano


Liberismo. Federalismo. E infine Presidenzialismo.

Ecco l'Italia che progetta Silvio Berlusconi. Dopo aver regolato i conti con i magistrati. E messo il bavaglio alle intercettazioni. C'è chi si è già portato avanti con il programma.

Il ministro delle Politiche agricole, il super-leghista Luca Zaia, per esempio: di recente ha fatto togliere dal suo ufficio del ministero di via XX settembre la foto di Giorgio Napolitano, il capo dello Stato che rappresenta l'unità nazionale. Due istituzioni che nel 2009 potrebbero essere messe a rischio dalla girandola di riforme, costituzionali e non, che il centrodestra si prepara a mettere in campo nei prossimi mesi. Si comincia il 20 gennaio, quando il federalismo fiscale fortemente voluto dalla Lega arriverà alla prova dell'aula del Senato. Negli stessi giorni la Camera sarà impegnata in un altro disegno di legge che sta molto a cuore a Silvio Berlusconi, quello che vieta le intercettazioni. Per poi passare alle partite successive: la giustizia, con la riscrittura di alcuni articoli della Costituzione. E il piatto forte del menù berlusconiano: il presidenzialismo.

"L'obiettivo del nostro governo si può riassumere in tre parole: liberismo, federalismo, presidenzialismo". Lo dichiarò il Cavaliere nell'aula di Montecitorio, era il 2 agosto 1994, e non si può negare che almeno in questo sia stato coerente. L'elezione diretta del presidente della Repubblica è nei suoi piani da quando è entrato in politica, esattamente 15 anni fa, dal discorso della discesa in campo in tv, con la calza a coprire la telecamera e alle spalle una libreria, già allora presidenziale. E ha ripetuto il suo credo nella conferenza stampa di fine anno: "È una riforma essenziale". Per poi frenare sui tempi di realizzazione: "Non abbiamo ancora esaminato il tema, non lo faremo nemmeno nel 2009. Ma nella seconda parte della legislatura bisogna arrivarci".

Ma c'è chi pensa che in realtà il presidenzialismo potrebbe essere messo in cantiere già nella seconda metà di quest'anno. Uno dei più fieri oppositori di Berlusconi, il deputato centrista Bruno Tabacci, ne è convinto: "Conosco bene Silvio. Se la crisi economica dovesse aggravarsi nei prossimi mesi, la tentazione di trovare una via d'uscita istituzionale per lui diventerebbe irresistibile". E poi ci sono i tempi di approvazione: doppia votazione di Camera e Senato, a sei mesi di distanza. Se si cominciasse a discuterne nella seconda metà del 2009 la riforma arriverebbe ad approvazione alla fine del 2010, salvo intoppi: nella parte finale della legislatura, come annunciato dal Cavaliere, giusto in tempo per chiamare gli elettori a votare sul presidenzialismo all'italiana con il referendum confermativo previsto dall'articolo 138 della Costituzione. Un passaggio che il premier già mette nel conto, anzi, auspica. Qualcosa di simile solo al referendum del '46 in cui gli italiani decisero tra Monarchia e Repubblica: ma in questo caso la scelta sarebbe pro o contro il Cavaliere che sogna di passare alla storia come il fondatore della Terza Repubblica italiana. Eletto al Quirinale a furor di popolo.
 
A interrompere la sua marcia trionfale, però, ci sono numerosi ostacoli. Non solo gli istituti di garanzia previsti dalla Costituzione in vigore, a partire dall'attuale presidente della Repubblica. Non solo i partiti dell'opposizione, da Casini a Di Pietro passando dal Pd, che minacciano di fare le barricate e potrebbero ritrovarsi uniti dalla battaglia comune. A guastare i sonni del Cavaliere ci sono soprattutto i contrasti all'interno del centrodestra dove i presidenzialisti sono per ora in minoranza.

Nel governo siamo al bricolage costituzionale, al fai-da-te delle riforme. Ognuno ha la sua: la Lega è contraria all'elezione diretta del capo dello Stato e molto più interessata a portare a casa il federalismo fiscale. Per raggiungere l'obiettivo si sta ritagliando un inedito ruolo di mediazione con il Pd. Bossi, che nel governo Berlusconi è ministro delle Riforme, ha stoppato Berlusconi due volte in pochi giorni: la prima per bloccare la riforma della giustizia, che il premier voleva già prima di Natale per incassare il clima di discredito verso la magistratura provocato dalla guerra tra le procure di Salerno e di Catanzaro, la seconda per fermare sul nascere la tentazione presidenzialista del premier. "Berlusconi il Quirinale deve meritarselo sul campo. Si misurerà sulle riforme", avverte un altro ministro leghista, Roberto Calderoli. E già, perché dopo l'approvazione del federalismo da parte delle Camere arriverà il momento dei decreti di attuazione che spettano al governo: è lì che potrebbe scattare lo scambio. L'accelerazione dei decreti patteggiato con il via libera della Lega al presidenzialismo: la trattativa è aperta.

L'altro alleato di Berlusconi, Gianfranco Fini, ha accolto le esternazioni del premier con un gelido silenzio (a differenza del presidente del Senato Renato Schifani, come sempre fedele a palazzo Chigi). Per anni il presidenzialismo è stato il suo modello. Ma ora, da presidente della Camera, l'ex leader di An non perde occasione per professare la sua fede nel Parlamento e nel dialogo tra gli schieramenti: vedi la sua ultima uscita contro il "cesarismo" che ha fatto imbestialire Berlusconi.

A spaccare il centrodestra non c'è solo l'elezione diretta del capo dello Stato. Le intercettazioni sono un'ossessione per il Cavaliere che ne parla in tutte le occasioni: visite all'estero, conferenze stampa, cene private. Il disegno di legge uscito dal Consiglio dei ministri non va bene, troppo debole, ripete Berlusconi, "bisogna restringere le intercettazioni anche sulle indagini sui reati contro la pubblica amministrazione", ovvero escludere dal divieto solo i reati di mafia e terrorismo. L'opposto di quello che predica la presidente della commissione Giustizia Giulia Bongiorno, ex avvocato di Giulio Andreotti e deputato di An, che è anche legale di Gianfranco Fini, considerata tra i più vicini al presidente della Camera: "Le intercettazioni vanno regolate, limitate, ma non si può impedire ai magistrati di utilizzarle". Anche per reati come la corruzione, quelli che i falchi berlusconiani vorrebbero proibire.

Infine, nel calendario del 2009, ci sono i referendum elettorali di Mario Segni e Giovanni Guzzetta (un anno fa furono tra i motivi dell'uscita di Mastella dal governo Prodi, oggi non se li ricorda più nessuno) e la mini-riforma della legge elettorale per il Parlamento europeo. Per ora è finita nel cassetto l'idea iniziale di Berlusconi: soglia di sbarramento al 5 per cento e abolizione delle preferenze. La prima modifica serviva a eliminare l'Udc di Casini, la seconda a far rispettare a tavolino gli equilibri interni al Pdl: il 70 per cento degli eletti a Forza Italia, il 30 ad An. Con le preferenze il partito di Fini, molto più organizzato sul territorio, potrebbe strappare numerosi eletti in più e far entrare i forzisti in fibrillazione. Per questo, alla fine, non se ne farà niente. E poi, ragionano gli strateghi del premier, se alle elezioni europee dovesse tornare la frammentazione politica, con la rinascita di partiti e partitini, non sarebbe un male. Sarebbe un ottimo spot per la riforma presidenziale. Quella che dovrà trasformare la Repubblica italiana in una monarchia berlusconiana.

(02 gennaio 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Marco Damilano. Partita doppia
Inserito da: Admin - Febbraio 05, 2009, 04:52:33 pm
Partita doppia

di Marco Damilano


La legge per le europee cara a Veltroni. L'accordo sulla Rai. Poi le nuove regole parlamentari agognate da Berlusconi. L'asse bipartisan Silvio-Walter  Presenti 517, astenuti uno, hanno votato sì 25, hanno votato no 492, la Camera respinge... Montecitorio, pomeriggio di martedì 3 febbraio, fuori dal portone sotto il diluvio si disperdono gli ultimi, sparuti rappresentanti dei partiti della sinistra radicale, i grandi esclusi dalla riforma della legge elettorale europea che introduce la soglia di sbarramento del 4 per cento per entrare nel Parlamento di Strasburgo.

Dentro, nell'aula della Camera, si procede a colpi di emendamenti approvati o respinti con il 95 per cento e oltre dei presenti, quasi all'unanimità. Con Pdl, Pd, Lega, Udc e Italia dei Valori, tutti i gruppi rappresentati in Parlamento che, miracolo, votano insieme appassionatamente.
Un Veltrusconi allargato a Pier Ferdinando Casini, Umberto Bossi e perfino Antonio Di Pietro. A fare la parte della minoranza rimangono solo i radicali, come ai tempi dei governi di unità nazionale negli anni Settanta presieduti da Giulio Andreotti con l'appoggio del Pci, e i siciliani dell'Mpa di Raffaele Lombardo. La scena si ripete il giorno dopo a palazzo San Macuto: la commissione di vigilanza Rai teatro del tormentone Villari, il senatore campano ex Pd rimasto incollato alla poltrona della presidenza per oltre due mesi, elegge a sua guida Sergio Zavoli con i voti di tutti i presenti. In attesa di scegliere il nuovo consiglio di amministrazione Rai: anche in questo caso tutti insieme. O quasi.

È la grande novità di questa stagione politica. Voti bipartisan. Maggioranze schiaccianti. Parlamento unanime. Nessuna distinzione tra maggioranza e opposizione. Larghe, larghissime intese. Molto di più di un inciucio: un inciucio al quadrato, al cubo. Una Grande Coalizione non dichiarata, ma che sempre di più prende forma. Sulla legge elettorale europea. Sulla Rai e sugli uomini che comanderanno viale Mazzini. Ma non solo: nelle ultime settimane maggioranza e opposizione, gli uomini di Silvio Berlusconi e quelli di Walter Veltroni, hanno votato insieme sugli argomenti più disparati. Sulla ratifica del trattato di amicizia Italia-Libia, per esempio: il 21 gennaio la Camera l'ha approvato con 413 voti a favore, 63 contrari e 36 astenuti, con due soli voti contrari nel Pd, Furio Colombo e il giovane Andrea Sarubbi. Il giorno dopo arriva al Senato il ben più importante disegno di legge sul federalismo. Risultato:156 sì, 108 astenuti (i senatori del Pd), solo sei eroici dissidenti votano contro. Un'azione quasi démodé, ormai, nell'aula di palazzo Madama dove appena pochi mesi fa, all'epoca del governo Prodi, a ogni passaggio si andava al muro contro muro e si contavano i voti uno a uno.

La mania bipartisan gioca brutti scherzi: come quello di trascinare una parte dei deputati del Pd a dire no, astenersi o non partecipare al voto sulla mozione presentata dal presidente del loro stesso gruppo parlamentare Antonello Soro per costringere il governo a far dimettere il sottosegretario all'Economia Nicola Cosentino, accusato da sei pentiti di essere un fiancheggiatore del clan dei Casalesi, come ha scritto 'L'espresso'. Mozione respinta, con numerose astensioni e assenze determinanti tra i banchi del Pd e Idv che si vanno ad aggiungere ai colleghi del Pdl. Forse per ricambiare il voto con cui l'aula di Montecitorio ha respinto la richiesta d'arresto del deputato democratico Salvatore Margiotta: in quel caso è toccato al Pdl salvare l'esponente del Pd, con 430 no alle richieste dei magistrati, 21 contrari (i dipietristi) e tre astensioni. Una convergenza che fa ben sperare gli uomini della maggioranza berlusconiana incaricati di trattare con il Pd i dossier caldi sulla giustizia in arrivo: la legge sulle intercettazioni in calendario alla Camera, la riforma costituzionale con la separazione delle carriere e la riforma del Csm voluta dal Cavaliere.

A suggellare l'intesa maggioranza-opposizione, intanto, c'è la riforma dei regolamenti parlamentari in discussione al Senato. Raccontano che sia questa la vera merce di scambio tra Berlusconi e Veltroni. Il premier ha dato il via libera alla riforma della legge elettorale europea, con lo sbarramento del 4 per cento che Veltroni riteneva essenziale per fermare la concorrenza dei partitini di sinistra che avrebbero tolto voti al Pd. E il segretario dei Democratici ha acceso disco verde per la riscrittura delle regole del gioco parlamentare. Una riforma che il centrodestra considera decisiva, dato che nei nuovi regolamenti saranno contingentati i tempi per approvare i disegni di legge di iniziativa governativa: 60 giorni, come previsto dalla Costituzione per i decreti d'urgenza. Sessanta giorni, due mesi, per far approvare al Parlamento i provvedimenti che stanno più a cuore al premier. Più che una corsia preferenziale, una autostrada: quello che nessun presidente del Consiglio ha mai avuto, forse neppure sognato.

E poi, naturalmente, c'è la Rai. Terreno privilegiato di ogni intesa, grande o piccola che sia. Con la legge Gasparri che rende necessario il 'concorso' (leggi: spartizione) tra maggioranza e opposizione per eleggere il nuovo consiglio di amministrazione di viale Mazzini. L'elezione di Zavoli alla presidenza della commissione di Vigilanza è solo il primo passo, la settimana prossima arriveranno in tavola i bocconi più appetitosi: il presidente della Rai, il direttore generale e a seguire le poltrone di Saxa Rubra, la direzione del Tg1, il Tg2, il Tg3... Un menù di nomine da leccarsi i baffi, specie alla vigilia di elezioni europee e amministrative, che sta stressando all'inverosimile i palazzi del potere. Martedì 3 febbraio, per esempio, al primo piano di Montecitorio era possibile assistere a una istruttiva scenetta. In un corridoio, quello della sala della Regina, i deputati del Pd si erano riuniti con Veltroni per decidere il da farsi sulla legge elettorale europea. Nel corridoio opposto, quello che porta agli uffici del presidente della Camera Gianfranco Fini, è stato avvistato il direttore del Tg1 Gianni Riotta, in visita pastorale. Per ora è uscito dal toto-nomine, ma chissà. Tutto può essere: anche perché, fuori i secondi, nel Pd Goffredo Bettini è stato esautorato, la partita Rai è tornata nelle mani di chi è di casa in viale Mazzini.

Da un lato, Walter Veltroni, che di televisione pubblica si è nutrito fin da neonato, per ragioni familiari (il papà è stato il primo direttore del Telegiornale, la mamma una storica funzionaria Rai) e che nell'87 firmò il patto con Dc e Psi con cui il Pci conquistava per la prima volta la direzione di RaiTre e Tg3. Dall'altro, Gianni Letta, un altro che considera la Rai come il salotto di casa. A trattare sui nuovi nomi Rai saranno loro, il segretario del Pd e il sottosegretario di Berlusconi. E potrebbe finire con una sorpresa: la conferma di Claudio Petruccioli, ben visto anche da Berlusconi, e degli attuali vertici, compreso il direttore generale Claudio Cappon, uomo del centrosinistra ma vicino anche a Gianni Letta, frequentano la stessa parrocchia, Santa Chiara in piazza dei Giochi Delfici.

Personaggi miti, ecumenici. Uomini dell'armonia, perfettamente in linea con lo spirito dei tempi che impongono collaborazione. Per il bene del Paese. Per sopravvivere ai rovesci politici. Per non morire all'opposizione, parolaccia fuori corso nella stagione dell'unanimità.

(05 febbraio 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Marco Damilano Colloquio con Rosy Bindi
Inserito da: Admin - Febbraio 12, 2009, 06:58:50 pm
La Carta strappata

di Marco Damilano


Lo scopo di Berlusconi è svuotare la democrazia.

Rendere la società più disuguale. E aumentare ancor più il suo potere.

Parla l'ex ministro del Pd. Colloquio con Rosy Bindi 

Sul tavolo accanto alla scrivania di vicepresidente della Camera ci sono due testi: la Bibbia e la Costituzione. "E presto aggiungerò i documenti del Concilio". I punti di riferimento fondamentali per la cattolica Rosy Bindi: fedeltà ai propri valori di credente "che non si impongono per legge", fedeltà alla Carta del 1948 messa in pericolo in questi giorni: "Berlusconi ha usato la vita di Eluana contro gli equilibri istituzionali previsti dalla Costituzione".

Vita contro procedure istituzionali: è la partita che la politica ha giocato in queste settimane?
"È la contraddizione voluta e costruita da Berlusconi e dalla sua maggioranza. So bene che in un clima di emotività nazionale era difficile riflettere, ma ora che i toni si sono abbassati possiamo provare a chiederci: si può garantire la dignità e la vita di una persona mettendo a rischio i fondamenti della democrazia? Qui c'è ben altro che la ragione di Stato da difendere. Sul caso di Eluana il governo ha giocato una partita con le carte truccate. È stata usata una vita contro la Costituzione. L'obiettivo non era salvare una donna, ma perseguire ben altri scopi".

Quali?
"Quelli dichiarati dallo stesso Silvio Berlusconi. Nella conferenza stampa in cui ha usato parole irripetibili riferite a Eluana ha detto che il governo non può essere limitato nel suo potere di fare i decreti. E ha minacciato, in caso contrario, di ricorrere al popolo per cambiare la Costituzione. Ma la firma del presidente della Repubblica sui decreti non è un atto notarile: è la garanzia che il governo sta esercitando il suo potere nel rispetto dei valori costituzionali. Sono stata ministro per sei anni, sui decreti c'è sempre un dialogo tra il governo e il Quirinale. Non è mai successo invece che sui dubbi del presidente della Repubblica il governo costruisse uno show. Si è creato ad arte un pretesto, si è spettacolarizzato il dissenso di Giorgio Napolitano, si è fatto di tutto per farlo passare per uomo di parte. Sono arrivati a dire perfino che la sua è la parte della cultura della morte. Tutto per lanciare un unico messaggio al Paese: non si disturba il manovratore".

Però tra i cittadini aumenta la paura del futuro. E l'invocazione di un uomo che decida.
"Nella storia le svolte autoritarie arrivano spesso per la difficoltà a funzionare delle assemblee parlamentari, lo so bene. Per questo bisogna rapidamente agire per correggere il bicameralismo, riformare i regolamenti delle Camere, ridurre il numero dei deputati e senatori. Tutto per rendere più efficace la forma di governo parlamentare, che non può essere messa in discussione. Berlusconi pensa che chi vince le elezioni comanda il paese: questa è la profonda distanza tra lui e la Costituzione. So che anche in casa mia, nel Pd, qualcuno ha avuto simpatia per modelli presidenziali, l'elezione diretta del premier, il sindaco d'Italia. Ma questo non è tempo di presidenzialismo: in questo momento storico, con Berlusconi, con il conflitto di interessi, con i parlamentari nominati, con i pesi e i contrappesi vissuti con insofferenza, non ci sono in Italia le condizioni per alcun cedimento".

Ma l'attacco alla democrazia è solo un fatto di regole?
"La mia paura è che questo governo voglia approfittare della crisi economica per svuotare la democrazia. La democrazia disegnata dalla Costituzione è in crisi perché sono duramente colpiti i suoi principi di uguaglianza e di giustizia sociale che garantiscono la libertà degli individui. Al loro posto c'è il modello di società di questa destra. Lo vediamo sull'immigrazione, su come trattano il povero, il marginale, il diverso. Si utilizza la crisi per creare una società più disuguale, più immobile, con più privilegiati garantiti e con lo scatenamento della guerra tra i più poveri, i non tutelati. La destra mette insieme la difesa del proprio territorio, il liberismo straccione pronto a trasformarsi in protezionismo e l'imposizione della sua visione etica con una legge dello Stato".

Non lo fa solo la maggioranza. In queste settimane i cardinali Ruini e Poletto hanno teorizzato un principio: la legge dello Stato non può opporsi alla legge di Dio e della Chiesa, in caso di contrasto deve prevalere la legge di Dio. Cosa ne pensa la cattolica Bindi?

"Penso che la legge di Dio sia superiore alle leggi umane. Ma nessuno può pretendere che la propria visione sia interamente recepita da una legge dello Stato. Non puoi trasformare la legge superiore che guida le tue scelte e la tua coscienza in una legge dello Stato imposta anche a chi non la condivide. Laicità e democrazia non sono l'assenza di valori, ma la fatica di valori condivisi. Tenendo uniti due principi: il primato della coscienza e la non imposizione dei tuoi valori agli altri".

D'accordo, però torniamo nell'Italia 2009. Nel caso Englaro questi principi sono stati rispettati dalla gerarchia ecclesiastica e dal governo?
"Ho una gran paura: che per ottenere alcune leggi una parte della gerarchia ecclesiastica e del mondo cattolico resti in silenzio su i rischi che incombono sulla nostra democrazia. Non si può barattare un singolo principio con il valore della democrazia: se metti in pericolo la libertà degli altri prima o poi toccano anche la tua. È già successo: sono concordataria, ma ricordo che nel 1929 la Chiesa firmò il Concordato con Mussolini e solo due anni dopo il regime fascista fece chiudere i circoli dell'Azione cattolica. Questo dovrebbe mettere in guardia verso chi si propone di nuovo come l'uomo della Provvidenza. Lo dico alla mia Chiesa: solo con la democrazia e con la Costituzione tutto è possibile. Non si possono difendere i propri valori abbassando i principi di convivenza democratica, perché così anche la difesa della vita e della famiglia diventa un fatto puramente formale e alla fine se ne paga un prezzo ben più alto".

Berlusconi è in politica da 15 anni, siamo davvero alla sfida decisiva: cambio della Costituzione, spallata istituzionale, assalto al Quirinale?
"Eluana ne è la prova: se Berlusconi è arrivato a usare un caso così delicato con quella volgarità vuol dire che è disposto a tutto. Il suo è un annuncio: se non mi date i poteri di cui ho bisogno ricorrerò al popolo. Dimentica che nel 2006 il popolo italiano ha già bocciato a grande maggioranza la loro controriforma della Costituzione".

E il suo partito, il Pd, come si attrezza a questa sfida? Oscillate tra due estremi: un giorno Berlusconi è come un premier inglese, il giorno dopo lo si paragona a Putin. Questa settimana siete scesi in piazza per difendere la democrazia minacciata, ma con Berlusconi state votando la modifica della legge elettorale europea e sul federalismo leghista vi siete astenuti.
"Se andare in piazza serve a riprendere il cammino parlamentare sulla bozza Violante per rafforzare il Parlamento va benissimo. Se le intenzioni del governo sono altre ci opporremo con tutte le nostre forze. Su giustizia e intercettazioni nessuno di noi ha intenzione di fare l'inglese. Piacerebbe anche a me un centrodestra europeo, ma in Italia purtroppo non c'è. E noi dobbiamo ripartire dalla Costituzione: questa è la nostra missione.".

Per la verità, nelle manifestazioni del Pd si canta l'inno nazionale e c'è il tricolore sul palco, ma della Costituzione non si vede traccia.
"Benissimo: allora portiamo sul palco anche il testo della Costituzione. Ma il problema non è di simbologia: spesso facciamo fatica a definire l'identità culturale del Pd, ma gran parte della nostra identità è contenuta lì, in quelle parole".

In piazza ha parlato Oscar Luigi Scalfaro: non temete di tornare al vecchio anti-berlusconismo?
"Scalfaro è il simbolo dell'Assemblea Costituente. Il nostro obiettivo non è l'antiberlusconismo, è la difesa di principi fondamentali che sentiamo minacciati. E su questo speriamo di trovare tanti compagni di viaggio. Per esempio, Pier Ferdinando Casini: altrimenti che avrebbe fatto a fare la rottura con Berlusconi un anno fa? La sinistra, che spero ricostruisca una sua presenza politica e non si affidi alla difesa di piccole sigle dello zero virgola per cento. Le forze sociali: la Cisl di Pezzotta nel 2006 fu al nostro fianco nel referendum sulla Costituzione, mi chiedo dove sarà la Cisl di Bonanni. E altri compagni di strada inaspettati".

A chi si riferisce?
"Con Gianfranco Fini mi trovo a lavorare alla presidenza della Camera. Gli do atto di aver difeso il presidente della Repubblica e il Parlamento dall'aggressione del governo a colpi di decreto. E qui, a Montecitorio, la nostra sarà una vigilanza quotidiana".

(12 febbraio 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Marco DAMILANO - L'orgia del potere
Inserito da: Admin - Febbraio 14, 2009, 03:23:41 pm
L'orgia del potere

di Marco Damilano


Caso Englaro. Immigrati. Magistrati. Quirinale. La partita a tutto campo del premier. Per cambiare le regole e aprire la strada al presidenzialismo. Una sfida senza precedenti alle istituzioni  Silvio BerlusconiBerlusconi ha raggiunto tre risultati con un colpo solo: presentarsi come il paladino dei cattolici, mettere in grave difficoltà il presidente della Repubblica con la Chiesa e con il papa in persona, spingere verso l'isolamento Giorgio Napolitano in attesa delle prossime partite, quelle che veramente gli stanno a cuore... Il senatore del Pdl, profondo conoscitore dei segreti del Cavaliere, parla all'ingresso dell'aula di palazzo Madama, mentre ancora non si è calmata l'onda d'urto delle polemiche della sera precedente.

Quando alle 20,10 del 9 febbraio arriva la notizia che Eluana Englaro è morta, in Senato si sta procedendo a tappe forzate per l'approvazione del disegno di legge del governo che obbligherebbe i medici all'alimentazione della donna in stato vegetativo da diciasette anni. La prima reazione dei colonnelli del Pdl è senza freni inibitori: "Veronesi, ora smettila di ridere!", grida il livido Maurizio Gasparri all'indirizzo del professor Umberto Veronesi, senatore del Pd, che di certo non sta ridendo. Anche perché c'è davvero poco da stare allegri in questa serata di dolore per la famiglia Englaro e di tristezza per le istituzioni repubblicane, offese, umiliate, trascinate in una contesa sulla vita e sulla morte. "Un cinico, macabro esercizio di potere attorno al corpo di una persona", lo definisce il democratico Paolo Giaretta.

Con il centrodestra scatenato che urla verso i banchi del Pd l'insulto più sanguinoso: "Assassini". Il coro da stadio rimbalza sulla bocca del vicecapogruppo del Pdl, il senatore Gaetano Quagliariello, uno che vanta tra i suoi avi sindaci liberali di Salerno e un nonno senatore democristiano nella prima legislatura, ma che questa sera appare stravolto dall'odio: "Eluana non è morta. Eluana è stata ammazzata", urla dal suo banco. Concetto ribadito il giorno dopo dal quotidiano dei vescovi 'Avvenire': "Non morta, ma uccisa". E chi sarebbe l'uccisore? Il giallo viene svelato dal titolo ironico del quotidiano 'Il Giornale', il più in linea con gli umori del premier: "Complimenti Napolitano". Colpevole di non aver firmato il decreto del governo che avrebbe imposto ai medici la ripresa dell'alimentazione per la donna.

Frasi poi ammorbidite da Berlusconi, in una già ben collaudata tattica dello 'stop and go'. Ma che suonano così violente da segnare un punto di non ritorno. Lo scontro istituzionale più grave della storia repubblicana. Tale da far scolorire perfino il ricordo del contrasto tra il Cavaliere appena entrato in politica nel 1994 e l'allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, richiamato in piazza da Walter Veltroni giovedì 12 per una manifestazione in difesa della Costituzione.

Quindici anni fa Berlusconi era solo un outsider senza nessuna dimestichezza con i delicati meccanismi dello Stato. Oggi Berlusconi è un leader potente come nessun altro negli ultimi sessant'anni. Governa con una maggioranza docile a ogni volere, a colpi di fiducia: l'ultimo al Senato, sul decreto milleproroghe, pochi minuti dopo la discussione sul testamento biologico. E con l'opposizione del Pd incerta e divisa a ogni passaggio. Perfino in Mediaset torna a dettare la linea, eliminando le tradizionali foglie di fico professionali e politiche che nel corso dei decenni hanno garantito il volto pluralista della televisione berlusconiana: la sera del 9 febbraio, mentre a Udine si era appena consumata la fine di Eluana, i vertici Mediaset hanno preso atto delle dimissioni di Enrico Mentana dalla direzione editoriale e hanno sospeso 'Matrix'. Uno strappo clamoroso con il primo direttore del Tg5, commentato gelidamente dal premier: "Meglio così, non voglio una primadonna, meglio liberarci di chi non capisce le nostre esigenze". Largo a Maurizio Belpietro, Emilio Fede, Clemente Mimun, Giorgio Mulè, che le esigenze del premier le conoscono alla perfezione. E nella fascia oraria di seconda serata lasciata libera da 'Matrix' resterà su RaiUno senza più concorrenza, in beata solitudine, il sempre affidabile (per il premier) Bruno Vespa.

Eppure, nonostante un'occupazione del potere che conosce pochi spazi liberi, ormai, il Cavaliere continua a considerare ogni contrappeso, ogni forma di controllo, un impiccio, un muro da buttare giù. E resta ancora un ostacolo da superare, il più solido e autorevole e dunque il più scomodo: la presidenza della Repubblica affidata a Napolitano. Per dare la spallata al Quirinale il premier ha evitato lo scontro su giustizia e informazione, come sarebbe stato ovvio. E ha scelto di muovere l'assedio a Napolitano partendo da un terreno mai frequentato da lui: quello delle scelte etiche, la frontiera della morte, sempre esorcizzata dall'ultra-settantenne Berlusconi che nel 2006, in piena campagna elettorale, arrivò a dire: "Sotto il mio governo le aspettative di vita media si sono alzate". E infatti, il giorno prima del Consiglio dei ministri che ha approvato il decreto, nonostante il parere contrario di Napolitano, il sottosegretario Gianni Letta aveva sospirato con i suoi interlocutori vaticani: "Non so se riusciamo a convincere Silvio". E poi, opinioni personali del premier a parte, c'erano i sondaggi a favore di Beppino Englaro. "Ha cambiato idea quando gli abbiamo parlato. Lui ha capito", giura la sottosegretaria Eugenia Roccella.

A fare il miracolo, riuscire a interessare Berlusconi della sorte di Eluana Il ministro del Welfare Maurizio Sacconi(appena un mese fa aveva detto: "di questi casi non si fa carico l'esecutivo"), sono stati due laici trasformati in crociati: la Roccella, ex radicale diventata poi portavoce del Family Day, pupilla del cardinale Camillo Ruini. E il ministro del Welfare Maurizio Sacconi, cresciuto su posizioni laiciste, alla scuola di un anti-clericale dichiarato come Bettino Craxi, oggi convertito alle frequentazioni ecclesiastiche. Al punto da chiedere all'amico Raffaele Bonanni, segretario della Cisl e fervente cattolico, militante nel movimento dei neo-catecumenali, di essere introdotto in udienza con papa Ratzinger. E ora in Vaticano le simpatie vanno tutte al premier: "Berlusconi è un evangelizzatore, riesce a convincere più persone lui di quanto non riusciamo a fare noi", esagera ma fino a un certo punto un monsignore di curia.

Politica radicale: il corpo, la vita, la morte strumentalizzati come un'arma da gettare nelle polemiche politiche. Da una parte il destino di Eluana, dall'altra le istituzioni e la Costituzione, quella che il premier considera "filo-sovietica", "ispirata alla Carta dell'Urss del 1936". Riferimenti non certo casuali, nel momento di massimo scontro con Napolitano, il primo esponente del Pci arrivato al Quirinale. E che dimostrano come la vicenda Englaro sia per Berlusconi la prima tappa di un'offensiva tutta da costruire. Con l'obiettivo, prima di tutto, di trasformare il Pdl che sta per nascere nel partito personale del premier, una pura e semplice espansione di Forza Italia. Per far questo bisogna azzerare o quasi il ruolo del presidente della Camera Gianfranco Fini, l'unico che ha messo in discussione nel centrodestra lo strapotere berlusconiano: fino a questo momento è stato l'indiscusso numero due nel Pdl, ma sul decreto impropriamente definito salva-Eluana si è consumata la spaccatura più drammatica tra Fini e i ministri di An. Costretti a scegliere tra la fedeltà a Berlusconi e quella al presidente della Camera che appoggia Napolitano e che sul caso Englaro ha difeso il diritto del padre a dire l'ultima parola, gli uomini di An nel governo non hanno avuto dubbi. Tutti con Silvio: compreso Altero Matteoli, sempre vicino al leader, o la giovane Giorgia Meloni. Anche Andrea Ronchi, ministro in quota Gianfranco, ha convocato una riunione di circoli di An in una sala sotto il Gianicolo, aperta da un filmato con la foto di Eluana. Così il presidente della Camera accresce il suo prestigio fuori dal centrodestra, ma dentro è rimasto politicamente solo, senza partito, senza truppe, senza casa. Un esiliato, come negli struggenti versi della poetessa Anna Vukusa letti da Fini durante una cerimonia di commemorazione delle vittime delle foibe: "Il mio cuore di esule è una bianca conchiglia per ascoltare il mare che più non mi appartiene". E già: il mare dei post-missini, quelli alla Gasparri, sta per traslocare alla corte di Arcore.

Sbrigata la pratica Fini, si aprirà la partita vera: la riforma costituzionale che Berlusconi minaccia da mesi. Il premier ci pensa e ne parla da anni: una riscrittura dell'attuale Costituzione in senso presidenzialista, con il sogno di arrivare al Quirinale eletto da un plebiscito popolare. Ora, però, è arrivato il momento di passare dalle parole ai fatti. Anche perché la lentezza delle decisioni imposta dalle vecchie regole è un ottimo alibi per giustificare l'assenza del governo di fronte alla crisi economica. Una via d'uscita niente male per distogliere l'attenzione dell'opinione pubblica dal calendario infuocato dei prossimi mesi. L'esplodere del conflitto sociale, di cui la manifestazione organizzata dalla Fiom e dalla Funzione pubblica della Cgil per venerdì 13 febbraio è solo un anticipo. "Silvio sbaglia a lavorare per la separazione della Cgil dagli altri sindacati: è un altro consiglio strampalato che gli ha dato Sacconi dopo l'intervento su Eluana. Significa solo aumentare la tensione", si lamenta un esponente del Pdl. Ma il Cavaliere è già pronto a indicare il nome del colpevole dell'ondata di scioperi, manifestazioni e licenziamenti in arrivo. Non la sottovalutazione della crisi, non l'incapacità di Palazzo Chigi di trovare soluzioni straordinarie come in altri paesi europei. Ma, al solito, le istituzioni repubblicane che non consentono a Berlusconi di governare come vorrebbe.

Impossibile che Napolitano possa restare a guardare, dopo gli attacchi subiti negli ultimi giorni. Un fuoco di fila che ha l'obiettivo di indebolire la più alta forma di garanzia quando si arriverà a parlare di riforma della giustizia e separazione delle carriere. O quando si manifesterà lo stravolgimento dell'apparato delle forze dell'ordine pubblico voluto dalla Lega, con le competenze che dai prefetti passano ai sindaci o con la legalizzazione delle ronde padane. Passaggi strettissimi che metteranno ancora una volta di fronte Quirinale e palazzo Chigi. L'uomo della Costituzione e il Cavaliere che sogna di prenderne il posto. Pronto a utilizzare ogni occasione: il dramma di Eluana. O, come avverte qualcuno nel Pdl, l'interruzione traumatica della legislatura, con la richiesta di un nuovo voto popolare per la sua riforma costituzionale. Questioni di vita o di morte, per la Repubblica.

(13 febbraio 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Marco DAMILANO - Pasticcio Democratico
Inserito da: Admin - Febbraio 19, 2009, 06:34:18 pm
Pasticcio Democratico

di Marco Damilano


La sconfitta sarda. L'addio di Veltroni. Le mire dei capicorrente. I 30-40enni sul piede di guerra. È caos nel Pd. E anche il futuro del partito ora è a rischio  La manifestazione al Circo Massimo di ottobre 2008Il pacco di tesserine magnetiche giace lì, malinconicamente abbandonato in uno scatolone al pianterreno di largo del Nazareno: sopra c'è un'immagine della manifestazione del Circo Massimo dello scorso 25 ottobre. Tanta gente, le bandiere del Pd, la scritta 'Grazie"' e la firma di Walter Veltroni. In memoria dell'unica giornata davvero felice dei suoi 16 mesi di segreteria: il popolo democratico arrivato da tutta Italia per applaudire Veltroni su un podio in stile Obama, una pedana in mezzo alla folla. Era raggiante Walter, quel giorno. Al punto da strapazzare i suoi critici: "State sempre lì a ravanare, attaccati ai vostri schemini: dalemiani, veltroniani.". E invece, appena quattro mesi dopo, martedì 17 febbraio, il Circo Massimo è un ricordo sbiadito, di quelle bandiere non resta nulla. Al secondo piano del Nazareno si scatena la resa dei conti più drammatica, con le dimissioni di Veltroni dalla guida del partito nato dalle ceneri di Ds e Margherita.

È l'8 settembre del Pd. Lo sciogliete le righe. Il tutti a casa. Con l'incubo sempre più reale del crack. L'abisso: l'implosione del progetto, il dissolvimento del partito, la scomparsa della principale forza di opposizione. Anche se la guerra contro la destra berlusconiana che ha conquistato anche la Sardegna di Renato Soru continua, o dovrebbe continuare. Ma con chi? Nelle ore dell'abbandono di Veltroni i capi e i capetti, generali e caporali di questa armata allo sbando chiamata Pd, danno il peggio di sé. Generali in fuga. Colonnelli tentati dal salto di grado ma impauriti da se stessi. Attendenti di campo in ritirata. Sfrecciano le berline, sorride tirata Giovanna Melandri, sorride più largo Pierluigi Bersani, considerato il candidato numero uno alla successione in un congresso da convocare in autunno, dopo il nuovo prevedibile rovescio alle europee di giugno, è quasi allegra Anna Finocchiaro tra i banchi del Senato. E Paolo De Castro, l'ex ministro dell'Agricoltura che ora è presidente dell'associazione dalemiana Red, addirittura gongola: "E ora prendiamoci la segreteria!". Il 'partito romano', impersonato da Goffredo Bettini, si riunisce di buon mattino in un ufficio della Camera con il nucleo duro dei veltroniani della capitale: il presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti, il segretario regionale Roberto Morassut, il deputato Michele Meta. La notizia delle dimissioni di Veltroni non si è ancora diffusa, Bettini la confida ai suoi esattamente come fece quasi due anni fa quando li convocò per annunciare che aveva convinto l'allora sindaco a rompere gli indugi e candidarsi alla guida del Pd.


Sono in pochi, in quel momento, a conoscere le decisioni del segretario. Veltroni sceglie di lasciare la segreteria a notte fonda, quando i risultati elettorali della Sardegna hanno cominciato ad assumere i contorni della catastrofe, l'ennesima dopo la sconfitta alle elezioni politiche, la perdita del Campidoglio contro Gianni Alemanno e la batosta abruzzese di dicembre. Ma l'idea di dimettersi matura prima del voto sardo. Nel fine settimana il segretario fa un giro di telefonate con i dirigenti più vicini sparsi in giro per l'Italia. E lì si capisce che ha deciso di mollare. Chi lo ascolta resta colpito: il Walter bonaccione, ottimista di natura, non esiste più. Al suo posto c'è un uomo stanco, deluso, amareggiato, stufo marcio di guidare il partito in queste condizioni. "Guardate solo cosa è successo oggi", si lamenta: "La mattina presento il piano anti-crisi del partito e incasso l'interesse delle categorie produttive. Il pomeriggio D'Alema va a Bologna e lo smonta pezzo per pezzo. Io costruisco la mattina e questi disfano la sera". Ed è inutile chiedergli di sfidare gli avversari interni con un congresso straordinario. "Non me la sento, non è nelle mie corde la guerra casa per casa per conquistare un delegato in più", ammette Veltroni: "E poi, se anche vincessi, cosa cambierebbe? Il giorno dopo ricomincerebbero da capo". Concetti ripetuti al momento delle dimissioni: "Un gioco al massacro, non ci potevo più stare. Si attaccava me per far fallire il progetto del partito. E con la candidatura di Bersani otto mesi prima del congresso e in piena campagna elettorale si è passata la misura. Basta".

Basta con i giochi di corrente. Basta con il logoramento sotterraneo. Basta con le manovre di chi voleva arrivare alle elezioni europee con Veltroni segretario per poi dargli il benservito. La mossa del leader serve a spiazzare i suoi coetanei. "Me ne vado io, ma si è chiuso il ciclo di una generazione. Con me devono andarsene tutti". Un sacrificio personale per travolgere l'intero gruppo dirigente del Pd degli ultimi 15-20 anni, in particolare i 'compagni di scuola' nati alla politica nella Fgci e alle Frattocchie, cresciuti nel Pci di Enrico Berlinguer, saliti ai vertici del partito dopo la caduta del Muro, arrivati al potere negli anni Novanta, con l'Ulivo di Romano Prodi. La stirpe dei Veltroni e dei D'Alema, insomma. Al momento di lasciare, 'zio Walter' non trova il tempo neppure di una telefonata di cortesia per 'zio Massimo', l'ex amico eterno rivale: D'Alema apprende delle dimissioni di Veltroni dalle agenzie. Lo stesso accade ai ministri dello sfortunato governo ombra che nessuno informa dell'addio del leader. E al corpaccione del partito sparso per l'Italia: sindaci, presidenti di regione, presidenti di provincia, segretari regionali. La notizia dell'addio arriva in periferia con Internet o sulle agenzie. "C'è stato un totale blackout comunicativo", impreca un segretario regionale: "Noi chiamavamo e a Roma non ci rispondevano al telefono". Neppure un sms per avvisare che tutto era compiuto, il segno della confusione cui si è arrivati. Tutti a casa, il re è in fuga, l'esercito in rotta, le truppe sul territorio non sanno che fare.

Eppure, il Pd doveva essere "il più grande partito riformista che la storia d'Italia abbia mai conosciuto", come ripeteva enfaticamente Veltroni ancora pochi giorni fa. O meglio, "il partito del XXI secolo". Il partito capace di costruire una nuova identità nazionale. Il partito 'fratello maggiore' degli italiani: affettuoso, comprensivo, affidabile. Come il suo leader. Che per la conferenza stampa di congedo, il 18 febbraio, ha scelto di tornare nel tempio di Adriano dove aveva celebrato la trionfale elezione a segretario il 14 ottobre 2007. Quella sera nella sala risuonava la colonna sonora, 'Mi fido di te' di Jovanotti e 'Imagine' di John Lennon. E alla fine Veltroni era apparso tra le colonne doriche, con il verde del nuovo partito acceso alle spalle. "Da oggi deve far paura la parola conservazione", aveva proclamato: "Il Pd dovrà durare decenni, non nasce da un leader e per un leader, ma dalle persone reali di questo Paese".

Invece, tante persone reali in un pugno di mesi hanno smesso di votarlo. E ora il Pd rischia di non arrivare al secondo anno di vita, percorso da minacce di scissione e dalla rabbia dei militanti. Perfino sulle modalità della dipartita i capicorrente sono riusciti a litigare. Divisi tra i sostenitori di un'assemblea costituente da convocare subito per eleggere Dario Franceschini segretario di transizione in carica fino al congresso di autunno. E alcuni veltroniani che si battono per andare subito alla conta, lanciando fin da ora una nuova classe dirigente. "Non possiamo affrontare i prossimi mesi senza leader. I capi attuali, i cinquantenni-sessantenni, hanno il terrore di non tornare più al potere, misurano la loro durata in mesi, se non settimane, ma hanno fatto il loro corso. Devono passare la mano a una nuova generazione che abbia il tempo di lavorare", scandisce lo stratega di Walter, Giorgio Tonini. Un percorso condiviso in periferia, dai potenti segretari delle regioni rosse, l'emiliano Salvatore Caronna, il toscano Andrea Manciulli, preoccupati di ritrovarsi con un gruppo dirigente nazionale debole e delegittimato alla vigilia del delicato voto amministrativo a Bologna e a Firenze, determinati a mettersi di traverso rispetto al 'tavolo delle correnti' che gestisce il partito a Roma. Solamente silenzio, invece, dalle regioni del Sud: si possono solo immaginare i pensieri di Antonio Bassolino, da cui Veltroni aveva pubblicamente preso le distanze appena tre settimane fa. Oggi don Antonio è ancora lì, al suo posto di governatore campano, Veltroni no.

Una rivolta che monta di ora in ora. Il segretario della Lombardia Maurizio Martina è tra i più netti a invocare un cambio di tutta l'attuale leadership: "Questa vicenda segna il collasso di un'intera classe nazionale. E per il dopo non ce la caviamo più scegliendo pezzi di quella classe dirigente. Le dimissioni di Veltroni trascinano giù tutta quella generazione. La soluzione Franceschini sarebbe un arroccamento. Ma noi siamo in frontiera, la frontiera non può aspettare la transizione". Traduzione: niente Bersani, niente Franceschini, voltare subito pagina per salvare il Pd. La soluzione alternativa, spiega Martina, è fare subito un congresso, scegliere con le primarie un nuovo leader e consegnargli i pieni poteri. "Un segretario che faccia il salto generazionale, che non sia di Roma ma venga dal lavoro sui territori, che abbia capacità di fare squadra". L'identikit assomiglia molto a Martina, classe 1978, il giovane segretario regionale non si tira indietro: "Il caso del trentenne Matteo Renzi, vincitore delle primarie a Firenze conferma che i vecchi riti, le vecchie logiche non reggono più. E che la mia generazione non può più stare a guardare. Se c'è uno spiraglio per muoversi, questo è il momento. Meglio fare un tentativo che continuare così".

Nello stretto giro veltroniano i trenta-quarantenni da lanciare non mancano: il portavoce Andrea Orlando, il ministro ombra Andrea Martella, Nicola Zingaretti. Anche se non tutti brillano per tempismo. Nelle ore delle dimissioni di Veltroni, ad esempio, Zingaretti spedisce un comunicato alle agenzie. Sulla crisi del Pd? No: il presidente della Provincia di Roma preferisce esternare su Sanremo, sulla canzone di Pupo 'L'opportunità' che, a dire di Zingaretti, "è una canzone bellissima che illumina di speranza la cappa di angoscia e di paura che ci sta permeando". E chissà se intende riferirsi ad altre cappe, e ad altre opportunità.

Così, nella corsa del cambio generazionale, potrebbero spuntare fuori altri nomi. Alcuni già noti, come il dalemiano Gianni Cuperlo, tra i più apertamente critici della gestione Veltroni. Altri ancora poco conosciuti, come il deputato di prima legislatura Francesco Boccia: pugliese, 40 anni, un discreto passato da attaccante nel Bisceglie, quattro anni alla London School of Economics, vicino a Enrico Letta e stimato da D'Alema, cattolico e con una passione per il Labour Party, uno che non si è mai vergognato a definirsi ulivista e prodiano e per questo coltiva un buon rapporto anche con Arturo Parisi. E già: il caos rimette in gioco anche il professore sardo, la Cassandra che da mesi profetizzava il disastro in perfetta solitudine. La convocazione dell'assemblea costituente che lui invocava da mesi è una sua piccola soddisfazione.

I capi storici, D'Alema in testa, si giocano davvero l'ultima partita. Bersani è chiamato a mettere subito sul tavolo le sue famose idee, se le ha, e la sua candidatura. Franceschini deve dimostrare di essere un leader. Enrico Letta guarda in direzione Udc. Francesco Rutelli è già con un piede fuori... Nelle ore del cupio dissolvi si capisce finalmente l'angoscia di Veltroni: il timore di finire nei libri di storia come colui che ha liquidato in meno di un anno un patrimonio di idee e passioni lungo un secolo. Il Pd è il suo sogno spezzato, la sua sfida interrotta, come si intitolavano i volumi che dava alle stampe negli anni della lunga corsa verso la leadership. Ma il dramma è appena all'inizio. Come in un'oscura maledizione, in soli 12 mesi il Pd ha consumato progetti, speranze, ambizioni, leader: prima Romano Prodi, poi Riccardo Illy, Renato Soru, infine Walter Veltroni. Ora rischia di divorare se stesso. E quel che resta della sinistra italiana

(19 febbraio 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Marco DAMILANO - Casini al centro
Inserito da: Admin - Marzo 06, 2009, 12:09:52 am
Casini al centro

di Marco Damilano


Mano tesa agli scontenti del Pd Letta e Rutelli. Alleanze a tutto campo per le amministrative. Le manovre del leader Udc per un nuovo partito  Passa in un corridoio di Montecitorio Luciano Faraguti, che fu sottosegretario democristiano negli anni Ottanta nel governo Craxi, e si informa con i deputati dell'Udc: "È giunta l'ora?". La stessa domanda che si fanno il vercellese Roberto Rosso e il torinese Marco Calgaro, due deputati che militano in fronti opposti, il primo nel Pdl, il secondo nel Pd, ma che in comune hanno la lunga militanza nella Dc.

Già: è giunta l'ora di rifare il centro? Viene la nausea, se si pensa ai tentativi precedenti e tutti falliti: l'Udc di Francesco Cossiga, l'Udeur di Clemente Mastella, la Cosa bianca di Savino Pezzotta... Eppure mai come questa volta il progetto appare a portata di mano. Anche perché a tesserlo è ora un leader assai poco interessato alle fantasie e molto ai risultati concreti: Pier Ferdinando Casini.

Prudenza e controllo dei nervi, nessuna mossa avventata, sono le regole base del Casini-pensiero. Il leader dell'Udc è stato il più rapido a cogliere gli spazi che offre l'elezione di Dario Franceschini, un altro cavallino di razza Balena bianca, figlio di un notabile scudocrociato della rossa Emilia esattamente come Casini.

"Dario sarà costretto a spostare a sinistra la politica del Pd per rassicurare gli ex Ds che non è un moderato", ragiona l'ex presidente della Camera con i suoi. "Lascerà praterie di elettori delusi, noi dobbiamo saperne approfittare subito". Il primo appuntamento è la legge sul testamento biologico in arrivo nell'aula del Senato, su cui i centristi hanno preso una posizione netta, a favore del testo presentato dalla maggioranza di centrodestra: il Pd, invece, è diviso sul punto-chiave, la possibilità di rifiutare l'alimentazione e l'idratazione per chi ne faccia richiesta.

Alla Camera, invece, i centristi puntano a essere determinanti nel modificare il disegno di legge sulle intercettazioni, su cui il Pdl è spaccato. La manovra è affidata al braccio destro di Casini, il deputato Roberto Rao: con la mission di scompigliare il centrodestra, portare una parte di An e quasi tutta la Lega a votare gli emendamenti che allargano l'azione dei magistrati ed eliminano il carcere per i giornalisti che pubblicano le intercettazioni vietate.


Geometrie variabili, colpire a destra e a sinistra, allargare le contraddizioni dei due schieramenti. L'Udc prova a farlo da mesi ma ora, in vista delle elezioni di primavera, bisogna cominciare a raccogliere i frutti. "Con l'elezione di Dario alla guida del Pd il nostro progetto si è rafforzato e al tempo stesso ha rallentato", spiega Bruno Tabacci, il cervello dell'operazione, con un paradosso solo apparente. La segreteria Veltroni in rotta spingeva un bel pezzo di ceto politico a guardarsi intorno, in direzione Casini.

La segreteria Franceschini, nel breve periodo, blocca la transumanza. Ma aumenta le inquietudini dei personaggi che considerano esaurita l'esperienza del Pd e vorrebbero spostarsi al centro. Nelle ore in cui il Pd eleggeva leader Franceschini, Casini era a Todi per un convegno organizzato dal quotidiano 'Liberal', che nei piani doveva servire da vetrina per l'operazione neo-centrista.

Come dimostra la lista degli intervenuti: in testa, Francesco Rutelli e Enrico Letta. Due personaggi che nel partito guidato da Franceschini hanno qualche motivo in più per sentirsi a disagio. Rutelli vede assottigliarsi gli spazi di manovra: aveva concesso a Walter Veltroni cinque mesi di tempo, con il nuovo leader siamo scesi a cento giorni, ma la sostanza non cambia. L'ex sindaco di Roma, silenzioso nell'assemblea del Pd che ha eletto il segretario, si muove sempre di più per conto proprio: sulla legge sul testamento biologico, in arrivo al Senato, ha presentato emendamenti in dissenso dal resto del gruppo.

Ma la sorpresa arriva dal quarantenne Letta, che di Franceschini è il gemello politico, insieme hanno condiviso la militanza tra i giovani democristiani e poi la vice-segreteria nel Ppi di Franco Marini. L'ex sottosegretario di Romano Prodi ha convocato la sua corrente nella sede della Confcooperative e ha dettato la nuova linea: "Il Pd è ormai vicino alla soglia della sopravvivenza, superata quella non c'è possibilità di ritorno", ha scandito. "E noi non possiamo restare travolti, dobbiamo pensare al nostro futuro".

Di fatto, l'annuncio che anche Letta, come Rutelli, si prepara a dichiarare fallito il disegno del Pd in caso di risultato negativo alle elezioni europee. E che, a quel punto, la salvezza sarebbe costruire un nuovo partito di centro con l'amico Casini. La Kadima all'italiana, come il partito fondato da Sharon e da Peres in Israele.

Il nome di Letta è fondamentale per dare all'operazione un senso di novità: non la riedizione della vecchia Dc, e neppure un partitino trasformista che si allea con chi capita, ma un centro modernizzatore. In grado di interessare importanti pezzi di establishment: da Mario Draghi a Mario Monti. Per far capire che le intenzioni sono buone Pier ha spedito in avanscoperta il segretario dell'Udc Lorenzo Cesa: "Se si rimette tutto in discussione siamo pronti a rivedere nome e simbolo del partito", giura l'uomo di Casini. E il lavoro sotterraneo procede: telefonate, colloqui, scambi di informazioni.

C'è chi si sente già con un piede fuori dal partito di Franceschini. Per esempio, la teodem Paola Binetti: "Il banco di prova del Pd sarà il voto sul testamento biologico. E poi, la composizione delle liste per il Parlamento di Strasburgo: sarà lì che vedremo in che modo, con quali nomi e con quali idee il Pd intende stare in Europa", avverte la deputata dell'Opus Dei.

L'ala cattolica più militante reclama segnali da Franceschini: la libertà di coscienza sulla legge del fine vita e soprattutto qualche posto al sole nelle liste per le europee sarebbero gesti di buona volontà. In caso contrario, fa capire la Binetti, l'uscita dal Pd sarebbe inevitabile.

Problemi che non riguardano Casini. Le liste dell'Udc per le europee sono quasi pronte. In grande spolvero i siciliani, quelli più vicini al giovane segretario regionale Francesco Saverio Romano, per superare la stagione dell'impresentabileSalvatore Cuffaro. E una new entry ingombrante: il musulmano convertito e battezzato da papa Ratzinger Magdi Cristiano Allam.

Anche alle amministrative ci sarà un restyling nelle candidature. E alleanze spregiudicate, a tutto campo. In Campania sta nascendo una strana coppia, Ciriaco De Mita e Mara Carfagna, l'Udc correrà con il Pdl. A Bologna c'è l'amico di Pier, Giorgio Guazzaloca, a dare battaglia su due fronti a sinistra e a destra, con una lista civica.

L'esperimento più interessante è quello di Firenze. Tra Casini e il giovane Matteo Renzi, vincitore delle primarie nel Pd, l'annusamento era iniziato qualche settimana fa. I voti per Renzi sono arrivati dal mondo cattolico, compresa Comunione e liberazione che si è mobilitata. E ora il leader dell'Udc annuncia il sostegno per il presidente della Provincia fiorentina che bombarda il quartier generale del Pd. Due democristani alla conquista della città rossa, con gli ex Ds isolati nel loro partito e la destra all'opposizione. L'antipasto della nuova Italia neo-centrista che sogna Casini.

(04 marzo 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Marco DAMILANO - Avanti Berluscloni
Inserito da: Admin - Marzo 26, 2009, 04:18:48 pm
Avanti Berluscloni

di Marco Damilano


Scelti personalmente dal premier. Cresciuti a sua immagine e somiglianza. E ora pronti a correre alle europee. Per misurare popolarità. E potere futuro  Angelino Alfano e Silvio BerlusconiSi preparano a scendere in campo, come il loro Leader quindici anni fa. Hanno imparato come si fa dal Capo: sorriso stampato, faccia tosta, ottimismo. Alla fine della prossima settimana sfileranno sul palco della Fiera di Roma per il congresso di fondazione del Popolo della libertà, ottima occasione per mettersi in mostra. E poi sono pronti a candidarsi alle elezioni europee.

"Li metteremo in testa di lista, ministri e presidenti di regione, alle spalle di Berlusconi che sarà al primo posto in tutte le circoscrizioni", annuncia l'uomo dell'organizzazione di Forza Italia Denis Verdini, che sta per diventare coordinatore del Pdl, insieme a Ignazio La Russa e Sandro Bondi.

I ministri sono ineleggibili, spenderanno una fortuna per farsi eleggere in circoscrizioni immense e si dimetteranno un minuto dopo. Ma vale la pena: l'inutile corsa serve a misurare il peso degli aspiranti leaderini. Si vota con le preferenze, il terreno migliore per far vedere quanto valgono. Il ministro dell'Istruzione Mariastella Gelmini già accende i motori: "Se Berlusconi mi chiama, lo seguirò, come ho sempre fatto".

Raffaele Fitto, ministro delle Regioni, può contare su una collaudata macchina di voti personali e non ha problemi a gareggiare. Ci stanno pensando anche i due ministri prediletti dal Cavaliere: Mara Carfagna in Campania e Angelino Alfano in Sicilia. Prove generali di leadership.

Sono i forzisti di seconda generazione. Quelli nati e cresciuti interamente nell'era azzurra. Quelli che non sono ex qualcosa: né ex democristiani come Claudio Scajola, né ex socialisti come Fabrizio Cicchitto, né ex comunisti come Bondi, né ex casti come Roberto Formigoni. Sono forzisti e basta. Bellocci e sbarbati i ragazzi, sempre in tiro le ragazze.

Puledrini di pura razza berlusconiana, venuti dal nulla, plasmati a immagine e somiglianza del Cavaliere. I Berluscloni: gli invaders su cui il premier punta per creare la classe dirigente del futuro Pdl. E spegnere le ambizioni di pretendenti più blasonati come Gianfranco Fini e Giulio Tremonti.


L'ultimo esemplare della specie è l'ex portiere Giovanni Galli, lanciato nella partita per il sindaco di Firenze come candidato del Pdl contro Matteo Renzi che ha vinto le primarie nel Pd. È un caso da manuale, un esperimento da laboratorio. Faccia da bravo ragazzo, studi dai salesiani (come il premier), un campione calcistico (nel Milan berlusconiano), un discreto commentatore televisivo (su Mediaset), un signor nessuno come politico.

"Il nostro candidato sei tu", lo ha battezzato Silvio Berlusconi al telefono. Pochi minuti di conversazione con cui il premier ha esautorato la potente lobby che sosteneva la candidatura del deputato Gabriele Toccafondi: il sottosegretario-portavoce Paolo Bonaiuti, il vice-presidente della Camera Maurizio Lupi, il senatore Gaetano Quagliariello. L'unico a restare in piedi (almeno per ora) è il toscano Verdini, regista dell'operazione, che si è sbarazzato di qualche concorrente.

Ora tocca agli altri: "La prossima volta levate il palco della presidenza, sa di apparato", ha ordinato Berlusconi all'ultima riunione dei gruppi parlamentari del Pdl, seminando il panico nella banda dei quattro che guida i gruppi di Camera e Senato accomodata sul podietto: Cicchitto e Quagliariello più i colonnelli di An Maurizio Gasparri e Italo Bocchino. Alcuni di loro ricordano bene quello che accadde qualche mese fa quando, raccontano, Berlusconi annunciò al coordinatore di Forza Italia in Sardegna Piergiorgio Massidda che il candidato alla presidenza della regione contro Renato Soru sarebbe stato un certo Ugo Cappellacci. Massidda non riuscì a mascherare il disappunto: aumentato quando, al termine della riunione, fu rimosso dall'incarico. Sostituito proprio da Cappellacci.

Con quel pedigree (inesistente) non doveva andare da nessuna parte. Invece il risultato elettorale ha dato ragione al premier: lo sconosciuto 'Ugo-dì-qualcosa-anche-tu', soprannominato così perché nei comizi con Berlusconi faceva scena muta, ha stracciato il quotatissimo Soru. Una vittoria personale del Cavaliere, che arriva dopo quella in Abruzzo del candidato del Pdl

Gianni Chiodi, un altro oscuro notabile locale: la dimostrazione che si può trasformare un perfetto sconosciuto in un vincente.
Basta essere sfiorati dal tocco magico di Re Silvio.

Gianni Chiodi e Silvio BerlusconiI Berluscloni che si candideranno alle europee, poi, non sono tutti oggetti misteriosi. Nonostante i quarant'anni ancora da compiere, il pugliese Fitto sfoggia un curriculum da professionista del potere: figlio dello scomparso democristiano presidente della Regione Puglia, Salvatore, è stato consigliere regionale, parlamentare europeo (127 mila preferenze a 29 anni), presidente della Regione Puglia dal 2000 al 2005, oggi ministro. Nel governo Berlusconi gli ha assegnato un ruolo centrale: portabandiera degli interessi del Sud, per bilanciare la presenza della Lega e non dimenticare che il vero serbatoio di consensi per il Pdl sono le regioni meridionali, dove il partito berlusconiano nel 2008 ha superato il 40 per cento.

Anche il ministro della Giustizia Alfano può contare su una discreta dote di preferenze, fu eletto consigliere regionale in Sicilia nel '96, a soli 25 anni. Un mese fa Berlusconi gli ha affidato il compito di gestire il passaggio da Forza Italia al Pdl nell'isola, accompagnato dal sottosegretario Gianfranco Miccichè, suo rivale storico. La pax berlusconiana tra i due è la consacrazione definitiva del giovane Alfano: preparato, garbato, il berlusconiano dal volto umano. Il più richiesto dai forzisti di mezza Italia per i loro incontri, in testa alle classifiche di popolarità tra i ministri e di recente tirato in ballo da Berlusconi come suo possibile delfino. Se alle europee dovesse raccogliere una barca di voti, la sua carriera politica farebbe un altro salto importante.

La Gelmini è già in campagna elettorale: ha appena firmato con Roberto Formigoni un accordo con cui la Lombardia ottiene il federalismo scolastico, il passaggio di competenze dallo Stato al Pirellone di 170 istituti. "Qui c'è la realtà più virtuosa del paese", gongola il ministro, che si prepara a chiedere il voto dei lombardi alle europee, in vista delle regionali del 2010: difficile che Formigoni voglia candidarsi per un quarto mandato.

C'era lei, Mariastella, sotto il Predellino da cui è partita l'avventura del Pdl, in compagnia di Michela Vittoria Brambilla che alla vigilia del congresso del Pdl dovrebbe ottenere finalmente la promozione a ministro del Turismo cui tiene tanto. Mara Carfagna, invece, non ha dovuto aspettare un anno per entrare al governo, ma ora deve decidere cosa fare da grande: una candidatura alle europee significherebbe doversi finalmente confrontare con la caccia al voto, dopo anni di liste bloccate, in cui basta esserci per risultare eletti. Per Mara è pronta la candidatura nella circoscrizione Sud, trainata dal capolista Silvio. Se l'esperimento riesce, si può pensare al colpo grosso del 2010: la presidenza della regione Campania.

Così i Berluscloni scalano i vertici del Pdl, con la benedizione del Capo. "Berlusconi è l'unico stalinista ancora in circolazione", si lamenta un deputato forzista. "Si va avanti con le epurazioni improvvise e la promozione di personaggi a lui fedeli. Qualcuno ricorda un certo Antonione? Fece il coordinatore di Forza Italia, serviva per silurare Scajola ed è stato spedito a casa. Poi è arrivato il turno di Bondi-Cicchitto". Ora c'è la carica dei giovani da buttare nella mischia per scompigliare i giochi di chi pensa alla successione di Berlusconi. È tra di loro che bisogna pescare i delfini del Capo. Gi altri, Fini e Tremonti, si abituino a nuotare in un altro mare.

(20 marzo 2009)
da repubblica.it


Titolo: Marco DAMILANO - Colloquio con Giuseppe Pisanu
Inserito da: Admin - Aprile 19, 2009, 04:56:55 pm
Altolà alla Lega

di Marco Damilano


Non cedere alle minacce di Bossi.

Aprire il Pdl a Casini perché diventi un vero partito dei moderati.

Parla l'ex ministro: 'Al referendum voterei sì'.


Colloquio con Giuseppe Pisanu 

Al referendum sulla legge elettorale io voterò sì... Giuseppe Pisanu è il primo nome importante del Pdl a rompere gli indugi e schierarsi: voterà per abrogare il Porcellum, nonostante sia stato chiamato a garantirne per la prima volta l'applicazione alle elezioni del 2006 come ministro dell'Interno del governo Berlusconi, nonostante il fuoco di sbarramento della Lega che minaccia la crisi di governo. Avvertimenti che lasciano indifferente Pisanu, oggi presidente della commissione parlamentare Antimafia: "Non ci credo. Una crisi porterebbe a elezioni anticipate con la vittoria schiacciante del Pdl". E l'ex ministro, capofila della corrente delle colombe dentro Forza Italia, incassa con soddisfazione la svolta 'moderata' di Berlusconi.

È passato un anno dalle elezioni del 13 aprile 2008 che hanno aperto una nuova fase politica: che bilancio si può fare?
"Il dato più evidente è che il centrodestra si è rafforzato, pur perdendo una componente importante come l'Udc, mentre il centrosinistra si è indebolito, disarticolando la sinistra. Penso comunque che ancora a lungo si continuerà a parlare di bipolarismo e non di bipartitismo: infatti, la tradizione italiana, ma anche l'attuale cultura politica è più articolata, non mi sembra riconducibile a due soli partiti. Non a caso il tentativo di Veltroni è fallito: gli elettori di sinistra non sono disposti a farsi rinchiudere in un unico contenitore".

E sul versante opposto? Gli elettori moderati sono tutti rappresentati nel Pdl?
"Finché esisterà l'Udc, no. Personalmente, quando anni fa ho lanciato l'idea di un appello di Berlusconi a tutti i gruppi politici e a tutti gli elettori che si riconoscevano negli ideali del Partito popolare europeo, pensavo non solo a Forza Italia, all'Udc e ad An, ma anche ai cattolici del Pd e a personalità del mondo del lavoro e della cultura come Luca Cordero di Montezemolo, Savino Pezzotta e Andrea Riccardi. Sarebbe stato quello il partito dei moderati italiani. Ancora oggi per me è quello l'obiettivo strategico del Pdl. Peraltro, non mi sembra che gli ultimi movimenti di Berlusconi vadano in direzione opposta".

Il Pdl, dunque, non è un progetto concluso: le iscrizioni sono ancora aperte?
"Sì, assolutamente sì. Berlusconi ha indicato una fase di transizione di tre, quattro anni, per consentire al nuovo partito di darsi una cultura politica unitaria e una forma organizzativa di tipo democratico".

Il clima di unità nazionale vissuto durante il terremoto è esportabile ad altri campi?
"È evidente che nella solidarietà e nell'unità attorno al popolo abruzzese c'è una formidabile spinta emotiva. Però il terremoto può essere considerato come l'espressione estrema di quelle grandi emergenze che riguardano l'intero Paese e possono essere affrontate soltanto unendo le migliori risorse morali, intellettuali e politiche. Penso all'immigrazione, cioè all'esigenza concreta nei prossimi venti-trent'anni di attrarre e integrare in media 300mila immigrati l'anno per mantenere l'attuale livello di popolazione attiva e dunque di sviluppo economico-sociale. Penso alle riforme istituzionali o all'enorme minaccia del crimine organizzato: l'Italia è l'unico grande paese al mondo che ha sul proprio territorio tre mafie endogene con una forte proiezione internazionale e altre analoghe associazioni come la mafia russa, le triadi cinesi, i clan magrebini, nigeriani, rumeni, albanesi. Come si può affrontare un simile intreccio che condiziona pesantemente la vita economica del paese, corrompe la pubblica amministrazione e insidia la coesione sociale senza unità tra le forze politiche?".

Sull'immigrazione, però, la Lega presenta soluzioni molto diverse, con un certo successo.
"Quando vengono meno le grandi ideologie e non nasce una nuova cultura politica vincono le emozioni. La paura è un'emozione, come la speranza. In Italia oggi vince la paura, in America sta vincendo la speranza. L'emozione della speranza si può caricare di significati positivi e porta alla crescita della democrazia, la paura si carica di significati negativi e, come il sonno della ragione, genera mostri".

da espresso.repubblica.it


Titolo: Marco DAMILANO - Ora basta con le risse
Inserito da: Admin - Maggio 08, 2009, 04:54:36 pm
Ora basta con le risse

di Marco Damilano


Tutte le sinistre sono state sconfitte. E' ora di mettere in piedi il cantiere di una nuova sinistra.


Colloquio con Nichi Vendola  "Serve una stagione di semina per far nascere il partito di una sinistra nuova". Nichi Vendola, presidente della Puglia, capofila di Sinistra e Libertà dopo 18 anni in Rifondazione, prova a mettere ordine nel disastrato campo della sinistra.

Con la crisi e le tensioni sociali dovrebbe essere il vostro momento d'oro. E invece siete a rischio estinzione. Come mai?
"Siamo di fronte a un'ondata di piena della marea berlusconiana per ragioni di lungo periodo. Il mondo del lavoro ha conosciuto un bombardamento sociale e culturale. Oggi resta la precarietà: la paura di non trovare lavoro, di perderlo, di perdere la vita per mantenerlo".

Perché i ceti più popolari votano in gran parte a destra?
"Perché la sinistra appare inefficace, l'olimpiade della divisione e della rissa. Mentre il berlusconismo ti prospetta un sogno. Noi volevamo la scuola e la sanità pubblica, il lavoro per tutti. Berlusconi propone un sogno individuale: fare la velina alla scuola di Brunetta".

D'accordo: ma in due anni avete perso tre milioni di voti, come pensate di recuperarli?
"Abbiamo pagato la nostra incapacità di cambiare l'asse strategico del governo Prodi...".

Condivide il giudizio di Bertinotti: "Prodi spregiudicato uomo di potere"?
"Prodi ha dato una lettura sbagliata di quello che stava succedendo nelle viscere del Paese: la perdita di sicurezza, l'impoverimento del ceto medio. Non avrebbe dovuto insistere con il risanamento, oggi lo ammette anche D'Alema".

D'Alema sembra il più pronto a dialogare con voi. Lei ricambia?
"A me interessa il travaglio del Pd. Non sono felice che il Pd sia stato strangolato dal veltronismo e che oggi sia sottoposto a cure palliative, sbandato, senza ubi consistam. È una tragedia per tutti. In questo Paese ci sono troppi vuoti: il vuoto dell'opposizione, il vuoto della sinistra che non può essere colmato da Franceschini".

E da Di Pietro?
"Sto parlando di sinistra, Di Pietro non c'entra niente...".

Qual è la ricetta? Tornare tutti insieme con gli ex Ds del Pd?
"Non si tratta di tornare. Non ci sono operazioni di restauro da fare, anche se a sinistra sono in azione tanti restauratori delle vecchie glorie. Io mi auguro di mettere in piedi al più presto il cantiere di un nuovo partito. Tutte le sinistre sono state sconfitte, nessuna può vantare gli attrezzi giusti, ora serve meno spocchia: i riformisti si sono attribuiti le virtù del governo che si tramandavano di riformista in riformista, la sinistra radicale si è assegnata la virtù dell'innocenza che viene fatalmente ferita dalla prova del governo. È stato il trionfo della bandierina, ognuno ha alzato la sua. Ora basta".

Intanto la sinistra è in difficoltà specie al Sud. Al governo ci siete voi, ma la destra vola nei sondaggi. Si sente responsabile?
"Assolutamente no. Il Sud paga l'inquietudine. Una situazione in cui il dissenso è diventato pericoloso e una crisi coniugale fa più paura al governo di un terremoto".

E lei? Che partita gioca?
"Cerco parole nuove, senza le quali la sinistra non rinasce. Il vocabolario, il 'libro più prodigioso del mondo' come lo chiama il bambino Peppino Di Vittorio nella fiction tv. Ecco, io mi sento come quel bambino lì".

(07 maggio 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Marco DAMILANO - Altolà a Berlusconi
Inserito da: Admin - Maggio 14, 2009, 11:56:18 pm
Altolà a Berlusconi

di Marco Damilano


Nessun ribaltone, il ministro della Lega sbarra la strada a una possibile intesa con il Pd per fare una nuova legge elettorale.

Colloquio con Roberto Calderoli  Niente ribaltone.

Il ministro della Lega Roberto Calderoli, il padre del Porcellum, sbarra la strada a un?intesa trasversale per fare una nuova legge elettorale con il Pd. E avverte Berlusconi: «Se si mette alla guida del fronte del Sì, è matto».

Si possono evitare i referendum?
 «Ormai è tardi, non ci sono le condizioni. La soluzione più limpida era tornare al Mattarellum, quando l?ho proposto mi sono trovato davanti le Termopili, anche nel Pd solo due o tre erano d?accordo. La verità sul Porcellum è che ne dicono peste e corna, ma poi lo accarezzano tutti».

Che farà la Lega?
«La cosa più logica per arginare la deriva democratica sarebbe una nuova legge elettorale. Ma a questo punto meglio prevenire che curare, non si sa mai. La strada maestra è il boicottaggio, non andare a votare. Non è in ballo la qualità di una legge elettorale, se vincono i Sì cade la democrazia».

Esagerato: il Porcellum l?ha firmato lei, a votare sì è Berlusconi, il capo del governo di cui fate parte. Va bene la spregiudicatezza, però...
«Berlusconi guida un partito che ha un vantaggio di almeno 15 punti sul secondo, ha un interesse di parte ad appoggiare i referendum, legittimo. Capisco meno l?autolesionismo del Pd. Di Pietro, per esempio, ha cambiato idea. Ha raccolto le firme, ma oggi si rende conto che l?emergenza democratica c?è».

Boicotterete i ballottaggi del 21 giugno, il secondo turno delle amministrative?
«Siamo impegnati a vincere tutto al primo turno...».

Facciamo un?ipotesi: dopo le europee Berlusconi si mette in testa di incassare davvero anche i sì ai referendum.
«Non ci credo, non conviene neppure a lui. In un momento di crisi economica può realizzare il suo programma, se facesse diversamente sarebbe un matto. Cambiare la legge elettorale significa andare alle elezioni anticipate: una cosa demenziale».

Mica tanto. Berlusconi potrebbe scaricare la Lega e far eleggere un Parlamento tutto azzurro, in vista del Quirinale. Di fronte al pericolo farete la crisi di governo?
«Con questo scenario la crisi la fa il Pdl, non la facciamo noi. Noi siamo alleati fedeli, sentiamo che le nostre istanze stanno diventando patrimonio non solo del Nord, ma anche nel Centro e nel Sud».

Puntate al sorpasso del Pdl nelle regioni del Nord?
«Il sorpasso è già avvenuto, basta girare il Veneto per capirlo...».

Con quali conseguenze? Nel Pdl cresce l?insofferenza verso di voi. E c?è chi vorrebbe darvi qualche ceffone, come il governatore lombardo Roberto Formigoni.
«Verso Berlusconi noi siamo più leali di lui. Ma almeno Formigoni sa cos?è la politica. Nel Pdl se togliamo lui, Berlusconi e Tremonti, c?è il deserto di iniziative. Del Pdl non si vede niente. Uno come Brunetta fa il ministro, ma si è dimenticato di stare in un partito. Mentre noi della Lega non stiamo mai fermi, sempre in giro. Siamo noi il valore aggiunto del governo».

(14 maggio 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Marco DAMILANO - Dario contro Golia
Inserito da: Admin - Maggio 28, 2009, 10:22:39 pm
Dario contro Golia

di Marco Damilano


Un lungo tour elettorale. Comizi in paesi sperduti. Attacchi a Berlusconi. Per Franceschini alle Europee la posta è doppia: la tenuta del Pd e la sua leadership. Una sfida impossibile?  Dario FranceschiniE ora non dite più che il Pd non parla all'Italia profonda... Scherza Dario Franceschini infilandosi nella tasca dei pantaloni un sacchetto rosso portafortuna che gli regala una signora. E già, cosa c'è di più profondo di Sorgono, un pugno di paese con meno di 2 mila abitanti in provincia di Nuoro, nel cuore del Mandrolisai, il centro geografico della Sardegna, lontano dal mare, dai centri abitati, lontano da tutto? Arriva qui il segretario del Pd, dove mai leader nazionale ha messo piede, dopo due ore di strada con curve micidiali, fino alla stazioncina Desulo-Tonara inaugurata nel 1897 e ibernata nel tempo, da lì sale sul trenino per raggiungere una piccola folla che lo attende alle due del pomeriggio sotto il sole. Un vecchietto si avvicina: "Non andare via dopo le elezioni!". Franceschini sorride e sceglie questo luogo dimenticato per ammettere quello che finora ha sempre negato forse anche a se stesso: "Mi arrivano numerosi messaggi di questo tipo: non potete cambiare leader ogni tre mesi". Dario il giovane ripete ovunque che non si ricandiderà alla segreteria al congresso del Pd di autunno, ma sotto i 40 gradi di maggio spunta un miraggio, una tentazione, una speranza: "Beh, se il Pd alle europee prendesse il 45 per cento ci ripenserei...". E poi, più seriamente: "In ogni caso, non mi ritirerò a vita privata. Non andrò in Africa". La sfida delle elezioni del 6 e 7 giugno vale una carriera politica. Strano destino per questo professionista della politica, cresciuto fin da piccolo a pane e partito, un pollo da batteria democristiano allevato nelle segreterie e nelle partecipazioni statali, chiamato a salvare il progetto del Partito democratico da una sconfitta catastrofica che ne segnerebbe la prematura estinzione. Con la mission di rimotivare il popolo del centrosinistra disperso, che non si riconosce nelle sue bandiere, nei suoi capi, nelle parole d'ordine.

Franceschini ci prova. Con una campagna elettorale low profile, quasi dimessa. Passeggiate in bicicletta sulla via Emilia. Apparizioni in metro sulla linea Termini-Rebibbia di Roma. Tratte ferroviarie in seconda classe, affrontate senza aria condizionata e telecamere al seguito. Pic-nic con ricottina salata e porcetto in mezzo alla Barbagia. Comizi volanti a uso e consumo di poche decine di persone, per incontrare gli elettori dove vivono e lavorano: durante la tappa in Sardegna del 25 maggio 725 chilometri in otto ore, dal sud al nord dell'isola. Alla fine le mani strette sono meno dei chilometri percorsi, ma non importa. La "piccola" campagna elettorale è un messaggio in sé. Parla di un politico che si riavvicina alla sua gente in punta di piedi, con umiltà. Un segretario di prossimità, il buon vicino di pianerottolo. Il leader della porta accanto.

Funzionerà? Il primo a chiederselo è proprio Franceschini. "Berlusconi per 15 anni ha rovesciato i valori di questo Paese. Ho l'angoscia che possa esserci riuscito, ma io punto su un'Italia diversa. È un lavoro che richiede tempo, dopo le europee e le regionali dell'anno prossimo per tre anni non ci saranno più elezioni e avremo l'occasione di radicarci. Veltroni e il Pd nel 2008 hanno vinto nelle grandi città e nei comuni sopra i 100 mila abitanti, andiamo male nei piccoli centri dove l'unica forma di comunicazione è la televisione. Dal 1994 giochiamo con le regole truccate, solo lo snobismo di certa sinistra ci impedisce di dirlo". Valori è la parola chiave del Pd franceschiniano. In nome dei valori si accosta il pacchetto sicurezza del governo Berlusconi alle leggi razziali del fascismo, e pazienza se, al Nord, Sergio Chiamparino o Filippo Penati storcono il naso. In nome dei valori l'ex dc Franceschini ha commemorato il segretario del Pci Berlinguer a un quarto di secolo dalla scomparsa con toni che i ragazzi di Enrico, D'Alema, Veltroni, Fassino, non avevano mai usato, più preoccupati di prendere le distanze dalla pesante eredità del partitone rosso: "Forse sono l'unico segretario del Pd che può permettersi il lusso di parlare di Berlinguer e del Pci in quel modo. Ho voluto rispondere a un'altra mistificazione di Berlusconi: la storia del comunismo italiano non è identificabile con il comunismo sovietico", spiega Franceschini, che poco più che adolescente negli anni Settanta tifava per la solidarietà nazionale tra la Dc di Moro e Zaccagnini e il Pci berlingueriano.

In nome dei valori Berlusconi non è più il "principale esponente dello schieramento a noi avverso", come lo chiamava Veltroni, ma torna a essere "l'avversario", non è molto fine e fa poco riformista, ma va bene così, se si vuole evitare di consegnare all'astensionismo o ad Antonio Di Pietro altre fette di elettorato Pd. Quando si discute del Cavaliere e del caso Noemi, Franceschini, che ha la faccia da bimbo buono ma mite non è, estrae un sogno feroce, come quelli che il personaggio del suo romanzo, Ignazio Rando, appunta su cartoncini ingialliti: "Vedere la fine di Berlusconi. Craxi è finito da un momento all'altro, anche per Berlusconi potrebbe andare così: un crollo improvviso. E se dovesse cadere Berlusconi, verrebbe meno anche il suo modello. Fini e Tremonti l'hanno capito: sono uomini che vogliono un centrodestra europeo e normale, come quello di Cameron o della Merkel. In Italia invece la destra subisce il peso di Berlusconi ". Anche se poi Franceschini reagisce con chi nota che il presidente della Camera fa più opposizione a Berlusconi del Pd sulla laicità dello Stato o sugli immigrati: "Fini dice cose di semplice buon senso, quasi sempre il giorno dopo. Non l'ho mai sentito dire le cose giuste il giorno prima".

Il segretario gira l'Italia profonda, a Roma i problemi del Pd sono tutti ancora aperti. Le liste alle europee senza identità, con candidati deboli e poco riconoscibili in alcuni casi, fin troppo connotati in altri. L'assenza dalla campagna elettorale di alcuni leader importanti: Veltroni aveva accettato di partecipare a una passeggiata nel popolare quartiere romano di Testaccio con il suo successore alla segreteria del Pd e il capolista alle europee David Sassoli, ma poi ha fatto sapere che preferiva rinunciare. Le strategie pre-congressuali in pieno svolgimento: oltre alla super-annunciata candidatura di Pierluigi Bersani alla segreteria, si muovono i quarantenni legati alla stagione veltroniana che hanno organizzato un appuntamento per fine giugno al Lingotto di Torino, due anni dopo il discorso con cui Veltroni cominciò la sua corsa alla guida del Pd. Da lì potrebbe emergere un nome nuovo per la segreteria: Debora Serracchiani, lanciata due mesi fa da un intervento davanti a Franceschini e ora a caccia di voti per Strasburgo nella circoscrizione Nord- Est, ma già portata in giro anche in altre regioni dai veltroniani. "Ci sono persone che la pensano come me, in vista del congresso ci stiamo organizzando", si limita a dire Debora. Franceschini non scarta l'ipotesi, anzi: "Sarà interessante vedere quante preferenze prende la Serracchiani, sono curioso anch'io ". Anche se, in presenza di un risultato non catastrofico, tra il 26 e il 28 per cento, il segretario si aspetta di essere riconfermato. Con un patto tra i vecchi capicorrente, Massimo D'Alema e Franco Marini in testa, che potrebbero chiedergli di continuare per portare a termine l'operazione di salvataggio del Pd. E con un padre nobile sempre più corteggiato da Franceschini negli ultimi giorni: Romano Prodi. I due si sono incontrati nella casa bolognese del Professore, i rapporti personali non si sono mai interrotti: "Ci siamo mandati a quel paese tante di quelle volte che non c'è nessuna incomprensione tra noi", racconta il leader del Pd. Ora Dario si aspetta l'endorsement elettorale di Prodi a favore del "suo" Pd. E poi, subito dopo le elezioni, una ricucitura con altre forze politiche finora tenute ai margini. Bastone e carota: "Non c'è dubbio che uno come Vendola dovrebbe stare nel Pd. E che Di Pietro sta facendo qualche regalo a Berlusconi".

L'ultimo pensiero va ancora a lui, al premier- Papi: "Berlusconi vuole polarizzare, trasformare le elezioni europee in un giudizio sul suo operato, per portare a votare gli astenuti del suo campo, i delusi, i disinteressati ". Ed è l'ultimo incubo: gli elettori del Pd che si astengono, quelli del Pdl che accorrono alle urne per difendere Silvio. "Sono giorni decisivi per la democrazia di questo paese", ripete Franceschini. Che si batte con spavalda incoscienza contro il Golia di Arcore. E non teme di finire male. Perché, come dice un personaggio del suo romanzo, "nei miei sogni sono già morto tante volte". E, a voler essere ottimisti, "in piedi si è già in mezzo al cielo".

(28 maggio 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Marco DAMILANO - Colloquio con Michele Emiliano
Inserito da: Admin - Luglio 16, 2009, 11:54:34 pm
Noi pazzi moderati

di Marco Damilano


Costruire un partito aperto e anti-comunista. Impedire a Franceschini e Bersani di distruggere il Pd. Un errore bocciare Grillo. Parola di sindaco.

Colloquio con Michele Emiliano 
Michele Emiliano, appena rieletto sindaco di Bari con il 59 per cento dei voti, magistrato in aspettativa, segretario del Pd pugliese, è preoccupato. "Siamo in una situazione rischiosissima per chi ama il Pd. Vengono da me, mi dicono che il mio appoggio è decisivo e che devo decidere da che parte stare", racconta. Lui, intanto, insieme a Nichi Vendola ha mandato a casa un paio di assessori regionali sfiorati dalle inchieste sulla sanità. E spalanca le porte a Beppe Grillo nel Pd.

Com'è il congresso del Pd visto da Bari?
"Franceschini e Bersani mi sembrano Fast & Furious, ha presente, quelle macchine lanciate a folle velocità una contro l'altra. Vengono da me e mi chiedono: decidi con chi stare, il tuo appoggio è decisivo. A tutti ripeto: dovete fermarvi e stabilire i termini del congresso. Bersani deve capire che le primarie non vanno eliminate, sono un mezzo di validazione popolare dell'accordo sottoscritto dai militanti. Franceschini deve capire che con le primarie non si ribalta l'esito del congresso. Abbiamo l'estate per fare questo lavoro e creare più unità possibile".

A proposito: lei sta con Bersani o Franceschini?
"Bersani introduce contenuti importanti, non si va da nessuna parte con un partito non organizzato, lo dico da sindaco e da segretario regionale del Pd pugliese...".

Il doppio incarico che le chiedono di lasciare.
"Una sciocchezza. Il Pd deve essere il partito degli amministratori. O facciamo un salto indietro di anni, quando le segreterie comandavano e le istituzioni dovevano eseguire. Ho un'idea di partito aperto, con le primarie, con i leader di partito che fanno anche i sindaci. Ma su questo modello Bersani e Franceschini hanno le idee confuse".

Quali sono le altre condizioni che pone?
"A Bersani ho detto che deve lasciare le primarie e parlare del Mezzogiorno, altrimenti il mio voto non l'avrà. E poi c'è una cosa urgente, sul piano culturale".

Quale?
"Bersani deve assicurare il rinnovamento del partito a prescindere dalla componente Ds. Conosco tanta gente moderata, che vota a destra, che potrebbe aderire al Pd se fosse rassicurata che la nostra identità non sarà quella socialdemocratica ma democratica, in senso obamiano. Obama è giovane, nero, ambientalista, dialogante con l'Islam. Ed è anti-comunista. Ecco: dobbiamo finalmente avere il coraggio di dire che il Pd è un partito fraternamente anti-comunista".

Fraternamente, caro sindaco: come la prenderanno i militanti ex Pci?
"Il Pd deve sventolare la bandiera americana. Deve essere un partito europeo, occidentale, anti-comunista. Anch'io sono stato iscritto al Pci, ma avremmo imbracciato le armi per difendere l'Italia in caso di invasione sovietica. Il discorso più anti-comunista l'ha fatto Enrico Berlinguer a Mosca. Ai militanti post-comunisti bisogna dire di prendere atto di com'è fatto il Paese. Nella mia città per anni la sinistra si era presentata con slogan tipo 'l'altra Bari' e aveva sempre perso. Nel 2004, quando mi candidai a sindaco, feci scrivere sui manifesti: 'Io voto Bari'. D'Alema tirò un sospiro di sollievo: 'Per la prima volta chiediamo il voto alle persone che esistono, non a quelle che non ci sono'. Se cerchiamo italiani che non sono mai esistiti, non toglieremo l'egemonia culturale a Berlusconi. Berlusconi legge e interpreta il Paese, i suoi elettori a Bari votano per me. Sono persone normali, che non rubano, non si fanno pagare le donne da un altro, chiedono di essere governati. E noi rispondiamo con un congresso dove rispolveriamo la divisione tra ex Pci ed ex Dc?".

Sergio Chiamparino propone una mozione dei non allineati. Lei aderirà?
"Credo che serva un gruppo di autorevoli pazzi che si assumano il compito di prendere i nostri amici Franceschini e Bersani e impedire loro di distruggere il Pd. Ignazio Marino ritiri la sua candidatura e lavori con noi per questo obiettivo. Chiamparino, Cacciari, Matteo Renzi costruiscano un congresso che sia una proposta per il Paese e non una resa dei conti".

In Puglia c'è D'Alema, che secondo Debora Serracchiani, la pasionaria dell'area Franceschini, dovrebbe farsi da parte. È d'accordo?

"Sono un non dalemiano che presidia il Santo Sepolcro dei dalemiani. Per me, l'ho detto a Franceschini, non si rinnova il Pd senza D'Alema. È il pilastro del Pd, pensare di fare il Pd senza di lui è pazzesco. Ma D'Alema deve capire che non può fare come Bearzot che si è tenuto in squadra Zoff, Gentile, Cabrini fino alla fine. Fuor di metafora: D'Alema non ha esaurito la spinta, i dalemiani sì, la squadra deve cambiare, se si vuole evitare la sconfitta. Su questo sono convinto che D'Alema la pensi come me. Anzi, mi correggo, sono io che la penso come lui".

In Puglia lei, lo sceriffo anti-comunista, ha fatto asse con Vendola per mandare a casa mezza giunta regionale coinvolta nello scandalo Asl.
"È stata una decisione di Vendola, mi ha rovinato una vacanza in Sardegna... Ho cercato di evitare, senza mollare Nichi un attimo, che si potesse azzerare il lavoro di cinque anni. Nichi temeva che D'Alema non lo volesse più candidare per sostituirlo con Francesco Boccia e che facessero pagare a lui gli eccessi dei dalemiani, la questione morale. Io gli ho detto: devi trattare con D'Alema, non potrà che condividere le tue condizioni. Così è stato. Il vice di Vendola, Frisullo, se n'è andato, anche se sul piano giudiziario non c'è stato neppure un avviso di garanzia. Abbiamo fatto quello che si chiede alla politica: intervenire prima della magistratura".

Da ex magistrato: esiste una questione morale nel Pd?
"Non sono ex, sono in aspettativa. E in politica sono un berlingueriano puro. Il Pd deve fare della sobrietà una bandiera, anzi, della povertà. Anche perché i partiti poveri non sono: con il finanziamento pubblico, lo dico da segretario regionale, facciamo benissimo politica. Le nomine della sanità vanno strappate ai politici, le aziende municipalizzate vanno privatizzate: le nomine politiche sono un inquinamento".

La Puglia è un laboratorio del nuovo centrosinistra che va da Vendola all'Udc. È vero che D'Alema pensa di candidare Buttiglione alla Regione?
"Buttiglione? Lei mi vuole deprimere... Con l'Udc si può ragionare se il Pd torna a occupare il centro, ad attrarre i voti moderati. Se invece pensiamo di appaltare a un partito incontrollabile la loro rappresentanza ci mettiamo nelle mani di Casini. E siamo fritti".

Cosa pensa della corsa di Grillo alla segreteria?
"Si deve candidare. Dirgli che è un provocatore, liquidare la cosa con il regolamento congressuale, è un errore. L'ho conosciuto quando è venuto a Bari, è un uomo mite e gentile che vuole fare politica, diamogli una possibilità: io gli farei fare l'assessore all'Ambiente nelle mia giunta. È bravo, dobbiamo contrapporgli leader bravi e preparati. Cacchio!, se abbiamo paura di Grillo allora ha ragione lui, siamo il congresso del nulla".

E lei che farà? Il segretario regionale o punta a un ruolo più alto?
"In Puglia voglio che sia assicurata la linea del rinnovamento. E dopo due mandati mi sembra giusto che sia venuto il momento di portare la mia esperienza nel Pd nazionale. La mia disponibilità c'è. Fraterna".

(16 luglio 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Marco DAMILANO - La calda estate del Cavaliere
Inserito da: Admin - Luglio 16, 2009, 11:55:43 pm
La calda estate del Cavaliere

di Marco Damilano


La sentenza sul lodo Alfano. L'emergenza economica. Il gelo col Vaticano. Per il premier un percorso in salita. E un imperativo: far dimenticare gli scandali  Militari italiani in AfghanistanLa nomina è diventata operativa poco più di un mese fa, il 4 giugno. "Il dottor Alessio Quaranta è il nuovo Direttore generale dell'Enac nominato con decreto del presidente del Consiglio come previsto dalla legge istitutiva dell'ente", recita il comunicato dell'ente che vigila sull'aviazione civile. Curiosamente, però, del decreto di nomina non si trova traccia tra i comunicati ufficiali del Consiglio dei ministri e sul sito del governo. Peccato, perché il dottor Quaranta avrebbe tutti i requisiti per essere chiamato all'importante incarico, in sostituzione del suo predecessore Silvano Manera: una carriera tutta all'interno dell'Enac, da direttore della regolazione economica alla guida dell'ufficio relazioni internazionali. In più, cosa che non guasta, è figlio del consigliere di Stato Alfonso Quaranta, dal 2004 giudice della Corte costituzionale: una delle 15 toghe che sarano chiamate il prossimo 6 ottobre a sentenziare sulla costituzionalità o meno del lodo Alfano che garantisce l'immunità dai processi al presidente del governo cui si deve, tra l'altro, la nomina di Quaranta junior. Motivi di opportunità avrebbero potuto consigliare di soprassedere o rimandare, magari. Ma nelle stesse settimane il galateo istituzionale aveva già subito un altro pesante strappo, la cena rivelata da "L'espresso" in cui altri due giudici costituzionali, Luigi Mazzella e Paolo Maria Napolitano, si sono accomodati con Berlusconi, ufficialmente per discutere di riforma della giustizia. Con all'ordine del giorno l'abolizione dei pubblici ministeri e la nascita di un nuovo Consiglio superiore della magistratura. Presente anche il ministro Angelino Alfano, l'autore del lodo che protegge il premier dai processi.

Spenti i riflettori del G8, l'attenzione del Cavaliere ritorna all'ossessione di sempre: la giustizia, la magistratura da riportare sotto il controllo della politica, i processi da disinnescare. La legge sulle intercettazioni in commissione al Senato, destinata nei piani del governo a rapida approvazione prima della pausa estiva con relativo voto di fiducia, per ora è stata bloccata da un intervento del Quirinale, ma lo scontro è solo rinviato a settembre. Intanto, gli uffici del Ministero di largo Arenula stanno mettendo a punto il progetto di riforma del Csm. E anche in questo caso le tensioni con l'ordine giudiziario sono garantite.

E sì che nell'agenda d'estate del governo non mancherebbero capitoli più urgenti. La missione in Afghanistan, dopo l'attentato del 14 luglio in cui ha perso la vita il caporalmaggiore Alessandro Di Lisio. "La missione deve proseguire", ha subito esternato il premier, nelle stesse ore in cui a Washington l'amministrazione Obama si interrogava sulle possibile exit strategy. E poi l'emergenza economica, certificata perfino dal Dpef, il documento di programmazione economica presentato dal ministro Giulio Tremonti, "sarà l'ultimo, dall'anno prossimo si cambia". Nonostante l'accento messo sugli spiragli di ripresa nel 2010, il governo mette nero su bianco il Pil a meno 5,2 per cento, il debito record, il calo delle entrate fiscali rispetto ai primi cinque mesi del 2008, quando governava ancora Romano Prodi e sul fisco vigilava Vincenzo Visco. Contromossa tremontiana, lo scudo fiscale, la sanatoria con cui il ministro dell'Economia punta a un gettito di 3-5 miliardi di euro. Sul fisco si consuma l'ultima puntata della guerra sorda che contrappone da mesi il ministero di via XX settembre e Banca d'Italia, ovvero Tremonti e il governatore Mario Draghi. Uno scontro combattuto con il freddo linguaggio delle cifre, comunicati, analisi, interpretazioni, puntualizzazioni che nascondono ben più roventi distanze di valutazione sull'entità della crisi e sul modo di uscirne. A smentire l'ottimismo del governo, d'altra parte, non c'è solo la Banca d'Italia. Mentre Tremonti incontrava Confindustria e sindacati, martedì 14 luglio, è tornato a farsi sentire monsignor Mariano Crociata, il numero due della Cei, lo stesso che alla vigilia del G8 aveva tuonato contro il "libertinaggio" esibito in pubblico, chiara allusione ai festini di casa Berlusconi. Questa volta il vescovo siciliano ha puntato il dito sulle conseguenze sociali della recessione: "La crisi persiste e rischia di avere nei prossimi mesi il suo punto più critico. Il lavoro che già prima era precario, ora lo è di più. E non poche famiglie sono già entrate in una fase critica con ripercussioni gravi sul fronte degli affitti, dei mutui, dei debiti". Parole severe accompagnate da un significativo elogio per l'operato del governatore Draghi. E dire che Tremonti aveva appena finito di vantare la sintonia tra le conclusioni del G8 e l'enciclica sociale di papa Benedetto XVI.

La Chiesa, il mondo cattolico, continua a essere il fronte scoperto del rapporto tra il governo Berlusconi e l'opinione pubblica. E non basta accelerare l'approvazione della legge sul testamento biologico, molto gradita alle gerarchie ecclesiastiche, per recuperare la benedizione del Vaticano. Prima di tutto, perché l'accelerazione, in realtà, non c'è. A bloccarla è stato il presidente della Camera Gianfranco Fini, che non ha mai nascosto le sue perplessità sul testo restrittivo uscito dal Senato: "Nel merito avrei molto da dire", si è limitato a dichiarare il primo inquilino di Montecitorio annunciando che se ne riparlerà dopo l'estate. Come per il disegno di legge sulle intercettazioni, impantanato al Senato, anche per il bio-testamento si annuncia una vita parlamentare travagliata. E poi c'è il timore di Cei e Vaticano di non identificarsi totalmente con un personaggio come Berlusconi, condiviso perfino dai prelati più schierati con il centrodestra. "La Chiesa spagnola a distanza di decenni sta ancora pagando un prezzo altissimo per il suo appiattimento su Franco", spiega un monsignore: "E sul piano privato era un timorato di Dio, con l'immagine di santa Teresa d'Avila sulla scrivania".

Sarebbe troppo chiedere al Cavaliere di mettere i santini sul comodino di palazzo Grazioli per recuperare credito. Ma l'operazione sobrietà, a questo punto, si impone. Inaugurata durante la tre giorni dell'Aquila, le passeggiate dei grandi della Terra tra le macerie del capoluogo abruzzese, con la promessa del premier di passare il mese di agosto accanto agli sfollati. Un'estare pauperista e di lavoro, lontano dai complotti a mezzo stampa, dalle congiure di palazzo, dagli alleati poco affidabili, da escort e veline. Il dramma del terremoto, per il Cavaliere, coincide in fondo con il momento più felice dei suoi 15 mesi di palazzo Chigi. Le icone mediatiche che preferisce. Il presidente di tutti gli italiani vicino al popolo che soffre. Lo statista internazionale accolto nel club più esclusivo dei potenti del mondo. Ricominciare dall'Aquila per far dimenticare le tante riforme non realizzate, il piano casa che non c'è, e le domande imbarazzanti rilanciate perfino dai bollettini diocesani e parrocchiali. In attesa del risveglio autunnale: crisi economica e sentenza della Corte sul lodo Alfano, che brutta ripresa. Il dottor Quaranta, intanto, ringrazia.

(16 luglio 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Marco DAMILANO - Obiettivo Maximo
Inserito da: Admin - Agosto 04, 2009, 03:38:14 pm
Obiettivo Maximo

di Marco Damilano


Il lavorio dietro le quinte a favore di Bersani. I tour in giro per l'Italia a raccogliere consensi tra assessori e consiglieri. I trentenni fidati da far emergere. Un D'Alema scatenato. Prima di veleggiare nel Peloponneso

Massimo D'Alema con Pier Luigi BersaniRiceve una telefonata. Si alza di scatto. Fa su e giù intorno al tavolo del ristorante dove un gruppo di notabili fiorentini lo aspetta per cominciare la cena. Chiude il cellulare con un ruggito: "E anche questa l'abbiamo conquistata!". La segreteria regionale del Pd della Campania, si intende. E per sottolineare la portata della preda fa un gesto sorprendente: alza il pollice destro, in segno di vittoria. Una, due volte.

E chi l'ha mai visto il gelido Massimo D'Alema così voglioso di menare le mani, a sessant'anni entusiasta di accumulare le adesioni di consiglieri regionali, assessori, segretari di sezione come un ragazzino al primo congresso. L'ex premier si prepara a partire per un lungo giro in barca nel Peloponneso, "dove si sono combattute tutte le più grandi battaglie navali della storia". Ma la vera battaglia che lo appassiona non è quella di Salamina del 480 avanti Cristo, ha per posta in gioco la leadership del Pd.

L'ex premier sponsorizza Pier Luigi Bersani, cercando di non metterci troppo il cappello. "Finalmente si smetterà di parlare di dalemiani, che com'è noto non sono mai esistiti. Ora ci sono i bersaniani", ha annunciato la settimana scorsa a Firenze a una tavolata di amici e compagni, dall'ex sindaco Leonardo Domenici al potente assessore regionale Riccardo Conti, per nulla rassegnati a considerarsi inesistenti.

"Se vuoi farci vincere per qualche mese non devi farti vedere in giro", lo ha redarguito il prodiano Franco Monaco, schierato con Bersani. Vasto programma, non semplice da attuare. D'Alema gioca la partita del congresso da regista. Nello schieramento di Bersani è lui a trattare, accogliere gli incerti, rassicurare i dubbiosi, placare i famelici, dettare la linea. È stato lui, per esempio, a convincere Antonio Bassolino in Campania a fare un passo indietro e ad appoggiare per la segreteria della regione il giovane Enzo Amendola, presidente della dalemiana Red a Napoli, in passato critico con o' Governatore. Ed è lui che ha messo a tacere le ire dei dalemiani pugliesi esclusi dal rimpasto in regione voluto da Nichi Vendola. Anche perché il potere resta saldamente in mano all'ex premier: il sindaco di Bari Michele Emiliano e la nuova vice-presidente di Vendola, Loredana Capone, si sono schierati con Bersani.

Alla vigilia del congresso, D'Alema sa di essere rimasto a sinistra l'unico cavallo di razza in campo. I rivali degli anni Novanta-Duemila non ci sono più. Achille Occhetto? Se ne sono perse le tracce. Romano Prodi? Il 9 agosto compie settant'anni, viaggia tra Bologna e Pechino, ma si tiene alla larga dalla politica italiana. Walter Veltroni? Rilascia interviste per far sapere che ha chiesto di far parte della commissione parlamentare Antimafia. Resta solo lui, 'il mangialeader', come lo chiama Debora Serracchiani, l'ex figlio prediletto del partitone rosso che ormai si atteggia a grande saggio. Sempre più somigliante a Giulio Andreotti, tutto grandi scenari, manovre laterali e memorie del passato, piccoli contributi al monumento di se stesso. "La prima volta che misi piede nella direzione del Pci avevo 25 anni, ero intimidito da Pajetta, Amendola, Terracini, mi misi a prendere diligentemente appunti. Si alzò il compagno Robotti, venne da me e mi stracciò i fogli. 'Solo il verbalizzatore è autorizzato a scrivere'. Avevano in testa il Pci clandestino. Un altro vecchio del partito, Roario, uno che a 14 anni aveva ucciso un fascista, si era rifugiato a Mosca e considerava i dirigenti del Pci dei rammolliti, una volta mi disse: 'D'Alema, in questa banda di traditori tu sei un mezzo comunista'. Detto da lui era un complimento".

Il mezzo comunista lavora ventre a terra per vincere il congresso, per tramite di Bersani. Un attivismo che sta producendo i suoi frutti: negli ultimi giorni quasi tutti i segretari regionali uscenti e i presidenti di regione si sono schierati con l'ex ministro. Ma D'Alema ostenta prudenza: "Calma. Credo che Bersani andrà
meglio alle primarie e che Franceschini sarà una sorpresa tra gli iscritti. È il segretario uscente e con lui è mobilitata tutta la nomenclatura di quel palazzo, come si chiama?". Il Nazareno, il quartier generale del Pd dove D'Alema è sempre entrato di malavoglia, non ha neppure una stanza, uno strapuntino. E quando ha chiesto, durante la segreteria Veltroni, di dare una mano, neppure gli risposero. Teme, D'Alema, gli ex popolari schierati con Franceschini, Beppe Fioroni in testa, nelle regioni meridionali le tessere sono cresciute in modo sospetto. E conosce gli sgobboni ex Pci passati con Dario. "Uno come Fassino non lo trovi tanto facilmente in giro, è capace di farti cinque ore di telefonate consecutive.".

Voglia di rivincita, certo, con la gestione Veltroni che lo ha emarginato. Un disagio immortalato in un'immagine di inizio campagna elettorale 2008, quella del pullman veltroniano. Alla fiera di Roma l'ex sindaco di Roma da solo sul palco, in prima fila D'Alema ancora ministro degli Esteri, sul viso una smorfia schifata, sommerso da cartelli verdi con su scritto: 'Veltroni presidente'. In quella mattina Massimo non nascose il suo scetticismo: "Abbiamo due slogan: se vinciamo, 'Yes we can'. Se perdiamo, 'Yes weekend'". Oggi Veltroni, per l'appunto, passa i fine settimana a scrivere romanzi. Mentre D'Alema gira per i palchi delle feste dell'Unità, o Democratic Party come si chiamano adesso, a smontare pezzo a pezzo il Pd costruito dall'ex segretario: "Un partito fondato sul rapporto tra il leader, il popolo e i media. Un modello plebiscitario, berlusconiano: solo che dall'altra parte fa vincere, a noi ha fatto perdere".

In privato, ed è la prima volta che lo fa, D'Alema racconta che lui Veltroni voleva lanciarlo come candidato premier già nel 2005: "Berlusconi aveva fallito con il suo governo, se noi avessimo messo in campo un'innovazione avremmo vinto facilmente. Prodi, con tutti i suoi meriti, era la riproposizione di uno scontro di dieci anni prima. Ma non abbiamo avuto il coraggio di schierare Veltroni. C'era un problema, anche Fassino premeva per candidarsi, ma io avrei potuto pilotare l'operazione. Non l'ho fatto, lì ho sbagliato, dopo no". Le mie colpe si fermano qui, sembra dire l'ex premier, per tutto il resto rivolgetevi ad altri. "Le primarie del 2007 dovevano servire a Veltroni a costruire il partito, due, tre anni di tempo, in quel periodo noi al governo avremmo provato a scrivere una riforma elettorale alla tedesca capace di tenere dentro Rifondazione e coinvolgere l'Udc e la Lega. Invece si è presa la strada opposta, il dialogo con Berlusconi. Ricordo il pomeriggio che Veltroni annunciò che il Pd sarebbe andato alle elezioni da solo, mentre Mastella doveva decidere se dimettersi o restare. Chiamai subito Goffredo Bettini. 'Siete impazziti?', gli chiesi. Era chiaro che l'effetto di quelle parole sarebbe stata la crisi del governo Prodi. Mi rispose: 'Massimo, abbiamo deciso di accelerare. Il paese sceglierà tra Berlusconi e Veltroni. E noi vinceremo'".

Le cose sono andate diversamente, diciamo. E ora l'emergenza è mettere in campo un partito in grado di ripetere l'exploit del '94-'95, quando in pochi mesi il Pds riuscì a riprendersi dalla disastrosa sconfitta elettorale contro Forza Italia, votò la fiducia al governo Dini al posto del Cavaliere, fece l'alleanza con il centro rappresentato dai popolari, candidò Prodi a Palazzo Chigi alla guida di una coalizione chiamata Ulivo. Segretario della Quercia, guarda caso, era D'Alema. Il leader Massimo ipotizza lo stesso percorso. Primo, resuscitare il Pd, oggi agonizzante, con una nuova classe dirigente, Enzo Amendola in Campania, Stefano Fassina nel Lazio, Lorenzo Basso in Liguria, i trentenni della mozione Bersani che in caso di vittoria al congresso saranno chiamati subito alla sfida delle elezioni regionali 2010, "scelti tra quelli che non sono già parlamentari, contro la vergogna dei doppi incarichi e delle incompatibilità mai rispettate". D'Alema non lo dice, ma il riferimento va ai franceschiniani Sergio Cofferati e Debora Serracchiani, appena eletti al Parlamento europeo e in corsa in Liguria e Friuli per le segreterie regionali. "Ho visto che la Serracchiani nelle sue pagelle mi ha alzato il voto, da quattro a cinque. Le ha fatto bene andare a Strasburgo. Lì quando dici che sei della sinistra italiana in tutta Europa rispondono: D'Alema. Conoscono me, non i suoi amici.". Il secondo obiettivo è stringere l'alleanza con l'Udc: "Si fa con la politica, non con la politologia. In Puglia ci siamo riusciti". E con Pier Ferdinando Casini il dialogo non si è mai interrotto. "Ci frequentiamo da più di trent'anni. A Bologna, nel'77, parlammo insieme nel palazzo Re Enzo, io per la Fgci, lui giovane democristiano. Alle nostre spalle ci fu una scazzottata tremenda tra gli autonomi e il servizio d'ordine del Pci. Casini era un po' spaventato, mi chiedeva cosa stava succedendo, io lo tranquillizzavo".

Il terzo obiettivo, il più ambizioso, è non farsi trovare impreparati all'appuntamento clou dei prossimi mesi: il crollo di Berlusconi, se mai ci sarà. "Il Pd deve essere pronto, con serietà e forza", ripete D'Alema, che scruta con attenzione le mosse dei suoi interlocutori nel centro-destra, il presidente della Camera Gianfranco Fini, il ministro dell'Economia Giulio Tremonti. Era in prima fila ad ascoltarli, qualche settimana fa, al convegno inaugurale dell'associazione Italia Decide, presieduta da Luciano Violante, dalemiano ancora non convertito in bersaniano. Si parla di nuovi giri di escort in arrivo, dal sud al nord, c'è la tensione sociale che si farà sentire in autunno, le famose "scosse" profetizzate da D'Alema. "L'equilibrio su cui si regge il governo è instabile, la situazione non è più a lungo sostenibile". Di dopo-Berlusconi e di ipotetici governi istituzionali non si parla, ma l'ex premier ironizza su chi nel Pd invoca nuove elezioni anticipate in caso di caduta del Cavaliere: "Quando li sento dire queste cose mi chiedo se non siano pagati da Berlusconi".

Essere pronti, dunque, con Bersani segretario e D'Alema riserva istituzionale, l'unica carta che il Pd può giocare in caso di governissimi e altri cataclismi. Già: a sinistra è ancora in piedi solo lui, a destra i leader sono sempre gli stessi da quindici anni, Berlusconi, Fini, Bossi. Più che una vittoria, la spia della sconfitta storica di D'Alema, abilissimo nello sbarazzarsi degli avversari interni, drammaticamente impotente a buttare giù i nemici esterni. Così, nei prossimi mesi, D'Alema potrebbe vincere la battaglia interna con Bersani eletto segretario. Ma la guerra, quella vera, è tutta un'altra storia.

(31 luglio 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Marco DAMILANO - Pd, servono nuovi compagni di strada
Inserito da: Admin - Agosto 27, 2009, 11:39:15 pm
Pd, servono nuovi compagni di strada

di Marco Damilano


Il Partito democratico riconosca gli errori fatti e si apra ad altre forze. Franceschini troppo legato all?illusione bipartitista. Meglio Bersani. Parla il presidente del Trentino Lorenzo Dellai
 
Il Principe medita di scendere a valle: smettere di frequentare solo le montagne e le malghe dell'adorato Trentino e cominciare a proporsi fuori dai confini regionali. Per il centrosinistra potrebbe essere un'ottima notizia: l'ex democristiano Lorenzo Dellai, cinquant'anni da compiere a novembre, sindaco di Trento già nel 1990, il più giovane d'Italia, poi presidente della provincia autonoma trentina ininterrottamente dal 1998, è l'artefice di memorabili batoste elettorali ai danni del Pdl e della Lega, anche trenta punti di distacco. L'unico governatore del centrosinistra a uscire vittorioso in tutte le competizioni contro la coalizione berlusconiana nella landa nemica del Nord Est, con un suo partito, l'Unione per il Trentino, strettamente alleato con il Pd e con l'Udc.

Da qualche mese il padre del modello Trentino ("macché modello, siamo un piccolo territorio", sorride) gira l'Italia, tiene i contatti con i politici nazionali a lui affini, con il sogno di costruire quello che manca per tornare a vincere nella penisola: il partito del Centro riformista alleato stabilmente con la sinistra. «Il Pd ha fatto l'errore di cedere alle lusinghe berlusconiane del bipartitismo e ha perso. Ora dobbiamo mettere in campo una Grande Alleanza democratica con le forze che non si ritrovano nel Pd, a partire dalle formazioni territoriali. Il centrosinistra deve smettere di assistere nella marginalità al gioco degli altri. Al Nord rischiamo che il bipartitismo ci sia, quello tra Pdl e Lega, però".

Lei non ha aderito al Pd, ma segue il congresso da esterno. Cosa vede da spettatore?
"Sono molto interessato. Mi chiedo solo come sia stato possibile pensare di fare un congresso così lungo, mesi di discussioni, primarie, assemblee, quando siamo alla vigilia di uno scontro cruciale come le elezioni regionali.
Il rischio è che alla fine del congresso il Pd si trovi in una situazione ancora più difficile del punto di partenza. Con la destra che non è in crisi, anzi, si sta rafforzando".

Lei dalla tribuna per chi fa il tifo? Per Dario Franceschini, che è un ex dc di sinistra e cita don Lorenzo Milani come lei, per Pierluigi Bersani o per Ignazio Marino?
"Non parteggio. Dico però che Dario come segretario uscente deve difendere l'esperienza del Pd sviluppata fin qui e rimarcarne il valore. Mi sembra più legato alla precedente illusione bipartitista che vede come un pericolo tutto ciò che è fuori dal Pd. Io penso invece che non discutere sugli sbagli fin qui compiuti sarebbe un errore. Chi ha sviluppato una riflessione più profonda e aggiornata sui limiti del Pd è Bersani. Nella sua candidatura ha messo a tema l'esigenza di un rapporto con le rappresentanze politiche che non sono nel Pd ma possono essere compagni di strada. Anch'io penso che si debba ripartire di qui: per tornare a vincere il centrosinistra deve darsi un'articolazione molto diversa".

Quali sono stati gli errori del Pd?
"La fase di costruzione del Pd è stata molto mediatica e centralista, oggettivamente guidata da una logica tutta romana. Una logica che ha creato un rapporto non positivo con i territori che si sono sentiti mortificati. In più, pretendere di concentrare in un unico partito la ricchezza delle culture e delle tradizioni ha messo a rischio l'esistenza di filoni molto importanti nella storia italiana".

Si riferisce alla cultura cattolica? Il Pd ha digerito quel che restava della Dc?
"Non solo. Vedo in grande difficoltà anche la sinistra. Qui al Nord ambienti tradizionalmente di sinistra come il mondo delle fabbriche oggi si riconoscono nella Lega. Tutto questo ci dice che il progetto del Pd non poteva bastare per vincere e non serve più da solo per tornare a battere il centrodestra. C'è bisogno di dare voce a una parte fondamentale dell'elettorato che non si riconosce in quell'operazione: forze territoriali, culture politiche diverse. Dobbiamo mettere in campo una Grande Alleanza democratica con le forze che non si ritrovano nel Pd, in primo luogo i partiti territoriali. Finché non lo faremo il Pd giocherà a fare il miglior perdente, non a essere il partner di una coalizione vincente. Bisogna che gli amici del Pd si rendano conto che questo discorso è utile, non pericoloso".

Quando si sente parlare di nuove alleanze il pensiero corre subito all'Udc. Lei vorrebbe fare il pontiere tra Pier Ferdinando Casini e il Pd, come ha fatto in Trentino?
"A me piacerebbe creare un'area politica che superi l'Udc e che ancora non esiste: il centro riformista, il popolarismo senza tentazioni confessionali, il recupero dell'idea degasperiana del centro che guarda a sinistra". Lei cita il padre nobile De Gasperi, ma l'Udc sembra ispirarsi ad Andreotti, la politica dei due forni. Trattare con Pdl e Pd e vedere chi offre di più... "L'Udc legittimamente non ha ancora deciso che fare. Di certo non è disponibile a un'alleanza con il Pd, almeno per ora. Ne capisco le ragioni, i processi politici di cui parlo sono lunghi, bisogna costruirli con pazienza. I nuovi partiti non si fanno dal predellino. Anni di politica mediatizzata ci hanno abituato al contrario, ma io la penso così".

Chi sono i compagni di strada di questa nuova iniziativa? Francesco Rutelli?
"Leggo con interesse le sue dichiarazioni e mi sembra che vadano nella direzione giusta. Ma Rutelli è un dirigente importante del Pd, non si può chiedergli di abbandonare la sua postazione. Non si tratta tanto di scomporre quello che c'è quanto di fare quello che ancora non c'è. Non dobbiamo mettere insieme gli spezzoni delle vecchie nomenklature. Alla politica servono gli apporti che vengono dal territorio e le grandi tradizioni che devono innovarsi, cambiare linguaggio, ma che non possono essere azzerate se si vuole evitare che la politica sia pura amministrazione e gestione del potere".

Dalle elezioni europee di giugno in poi Berlusconi appare indebolito, eppure lei dice che la destra negli ultimi mesi si è rafforzata...
"Berlusconi si è indebolito, ma il berlusconismo è ormai un dato culturale, l'eventuale uscita di scena del presidente del Consiglio non porta automaticamente a niente se non c'è un'alternativa. Qui al Nord negli ultimi anni c'è stato uno tsunami, un cambiamento radicale della società in tutti i settori. La destra ha saputo interpretarlo, il centrosinistra ha fatto molta fatica con la sua logica centralista. In Trentino siamo stati in grado di vincere perché abbiamo offerto un'architettura politica che seguiva le richieste del territorio e non quelle nazionali. È da qui che si deve ripartire. Altrimenti, c'è qualcosa che non quadra: come mai con la crisi economica, gli scandali personali del premier, la contrapposizione tra la Lega e il Pdl il berlusconismo continua a intercettare il consenso? Forse, dico io, è sbagliato lo schema di gioco con cui lo stiamo affrontando. Allora proviamo a cambiarlo, per mettere in campo una reale alternativa ".

Esiste davvero la competition tra Pdl e Lega? O tutto finirà con la spartizione ad Arcore di qualche presidenza di regione?
"Potrebbe rivelarsi una spaccatura reale se il centrosinistra giocasse con più fantasia e coraggio, intervenendo nelle contraddizioni. Apprezzo l'iniziativa di Piero Fassino che in Veneto cerca di proporre uno schema nuovo". Corteggiare il suo amico, il governatore forzista Giancarlo Galan, e convincerlo a mollare la Lega? Non sembra uno schema nuovo. E neppure una mossa destinata al successo... "Non importa. Il punto è riprendere l'iniziativa politica. In Lombardia e in Veneto è possibile immaginare iniziative anomale senza pensare di capovolgere le situazioni in pochi mesi ma tentare almeno di esserci. Il centrosinistra deve smettere di assistere nella marginalità al gioco degli altri. Altrimenti, al Nord rischieremo che il bipartitismo ci sia: quello tra Pdl e Lega, però..."

(27 agosto 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Marco DAMILANO - Il diavolo in corpo
Inserito da: Admin - Settembre 03, 2009, 10:24:27 pm
Il diavolo in corpo

di Marco Damilano


Lo scontro con la Chiesa. Gli attacchi all'Europa. Il tentativo di bavaglio all'informazione. Il premier lancia la sua campagna di settembre. Ecco i suoi obiettivi
 
Mi raccomando, scrivetelo che io queste cose le dico sempre con il sorriso... Certo, Cavaliere, si figuri, come no. Con un bel sorriso, la sera del primo settembre, data anniversario dell'invasione nazista della Polonia e dell'inizio della Seconda guerra mondiale, Silvio Berlusconi in visita a Danzica, la città polacca da cui partì tutto, prova ad affossare alcune istituzioni uscite dalla vittoria delle democrazie nel conflitto più sanguinoso della storia.

L'Unione europea, per esempio. "Bloccheremo con il veto il funzionamento della Commissione Ue", minaccia il premier scatenando le reazioni di Bruxelles, alla vigilia del rinnovo del mandato da presidente del portoghese Josè Manuel Barroso. Berlusconi è infuriato per le dichiarazioni del portavoce Ue Johannes Leitenberger sulla libertà di espressione come "garanzia fondamentale dell'Europa". Dovrebbe essere la scoperta dell'acqua calda, e invece nel reame di Berlusconia isolato dal resto della comunità internazionale no, non si può dire, è una verità scomoda. Anche perché, sempre con il sorriso, nella stessa esternazione, l'uomo che guida il governo italiano attacca sul piano personale Carlo De Benedetti ("Un editore svizzero"), il direttore di "Repubblica" Ezio Mauro ("Evasore fiscale") e l'intera stampa internazionale, presa in blocco, come un unico soggetto ostile. Finito? Macché, sempre con il sorriso, il Cavaliere lancia l'avvertimento finale alle gerarchie ecclesiastiche, già stressate da una settimana difficile.

La legge sul testamento biologico, quella per cui Berlusconi appena sette mesi fa sfidò il Quirinale, provocò una crisi istituzionale e mobilitò il gruppo del Pdl al Senato chiamato a votare in poche ore il decreto salva-Eluana, poi approvata a Palazzo Madama, potrebbe tornare in discussione: "Ne parleremo alla Camera, io garantirò la libertà di coscienza dei deputati Pdl". Sciogliete le righe, altro sorriso berlusconiano, anche la Chiesa è servita. La dichiarazione di guerra di Danzica è conclusa. È la nuova strategia del premier, partorita nelle settimane estive con l'inner circle, dove sale sempre di più la stella di Niccolò Ghedini e tramonta malinconicamente l'influenza di Gianni Letta, l'ambasciatore dei tempi di pace esautorato in questa stagione di guerra sporca, senza quartiere. La strategia della tensione inaugurata al rientro delle vacanze venerdì 28 agosto. Quel giorno da Palazzo Chigi partono le querele contro il gruppo Espresso e i giornali internazionali che hanno ripreso le dieci domande sulle frequentazioni pericolose del premier, famose ormai in mezza Europa, ma mai riprese da un tg nazionale.

E sulla prima pagina del "Giornale", di nuovo affidato alle sottili cure di Vittorio Feltri, campeggia il titolo: "Il supermoralista condannato per molestie". Sottotitolo: "Dino Boffo, alla guida del giornale dei vescovi italiani e impegnato nell'accesa campagna contro i peccati del premier, intimidiva la moglie dell'uomo con cui aveva una relazione". Il caso Boffo serve a spiegare meglio di ogni altra cosa l'escalation del neo-berlusconismo, al cui confronto il "non faremo prigionieri" di Cesare Previti era un mazzo di rose. Chi è Dino Boffo, infatti? Molto più di un semplice direttore di "Avvenire". Da 15 anni è uno dei personaggi più influenti e potenti della Chiesa e, dunque, della nomenclatura italiana. L'uomo di fiducia del cardinale Camillo Ruini. La guida di un impero multimediale che raccoglie il quotidiano dei vescovi, la televisione satellitare Sat2000, il circuito radiofonico più i grandi eventi comunicativi, tutto centralizzato nella persona di Boffo. Il front runner delle grandi campagne della Cei ruiniana, dall'astensione sui referendum sulla fecondazione assistita nel 2005 al Family Day contro la legge sulle coppie di fatto proposta dal governo Prodi e dalla cattolicissima Rosy Bindi. Cosa pensi Boffo del Cavaliere, dell'anomalia berlusconiana e del conflitto di interessi, il direttore di "Avvenire" lo chiarisce una volta per tutte il 18 aprile 2006 parlando ex cathedra dal suo pulpito preferito, il forum con i lettori nella pagina delle lettere. "Sarà dura rimediare ai guasti che il gruppo di potere di Berlusconi ha recato alle istituzioni: la vergogna delle leggi ad personam, lo stravolgimento dei principi costituzionali", scrive il lettore Ranieri Marchi. "Mi preoccupa anche la corsa farisaica a dichiararsi figli devoti della Chiesa". Boffo, però, non ci sta. E replica in malo modo: "Il suo è un anti-berlusconismo istintivo, totale, fazioso". Quanto al rapporto con la Chiesa, Boffo non ha dubbi: "Il fenomeno della secolarizzazione in Italia era partito assai prima che Berlusconi invadesse l'etere con le sue tv. Abbiamo dimenticato la vicenda del divorzio e dell'aborto? Si ricorda quel ragionamento sibillino e falsamente democratico che dilagò anche in casa nostra, nel mondo cattolico, secondo cui si diceva: "Io non divorzierò mai, ma perché devo togliere questa possibilità ad altri?". Provi a pensare, amico caro, se l'inizio della crisi non fu piuttosto quello. Poi, certo, altro venne e fu la combustione generale".

Insomma, per Boffo in Italia c'è stata una sola, vera anomalia: il dialogo tra i cattolici e la sinistra. Un rapporto contro-natura, questo sì. In coerenza con questo dogma, per anni il fedelissimo di Ruini conduce "Avvenire" contro i cattolici democratici alla Prodi o alla Scoppola, l'Ulivo, i governi del centro-sinistra. E lancia nuove carriere politiche: nel centrodestra, in Forza Italia. Alla vigilia delle elezioni politiche 2006 dove sono in competizione Berlusconi e Prodi, per esempio, affida l'editoriale di orientamento al voto per i lettori alla laica Eugenia Roccella: "Il nostro problema, oggi, è non far scomparire la famiglia, la sacralità della vita, la dignità della persona. Ma per fare questo dobbiamo schierarci". Inutile dire da che parte: la Roccella, infatti, sarà scelta dalla Cei come portavoce del Family Day nel 2007 e da lì prenderà il volo. Oggi è deputata del Pdl e sottosegretaria al Welfare nel governo Berlusconi. Grazie a Boffo.

Un bel testacoda, dunque, che a finire nel mirino del "Giornale" sia finito proprio il nemico dei cattolici adulti, e per colpa di due interventi in quella rubrica dove per anni il direttore ha impartito vibranti lezioni agli anti-berlusconiani. Sono bastate due risposte ai lettori in rivolta per i silenzi della Chiesa sugli scandali sessuali di Berlusconi, il 24 e il 28 luglio, parole misurate e prudenti come sempre ("Uno scenario di potenziale desolazione"), ma per una volta esplicite, in difesa dei vescovi che nei giorni precedenti avevano condannato il premier. Pioveva, piovevano soprattutto nella redazione di "Avvenire" le lettere di parroci indignati per i comportamenti del premier e i silenzi della Chiesa, Boffo si è limitato ad aprire l'ombrello, ma per i falchi berlusconiani avrebbe dovuto giurare che c'era il sole, in molti d'altra parte in questo tempo sono disposti a farlo. Tanto è bastato nell'era del Berlusconi furioso per inserire Boffo nella lista dei cattivi. Il moralista, il cattocomunista da dileggiare sulla gazzetta della famiglia Berlusconi, da sbattere in prima pagina come omosessuale "attenzionato dalla Polizia" e"bugiardo". Una strategia della tensione e dell'intimidazione che non risparmia neppure gli ex amici. E che, in questo caso, è arrivata a sfiorare il soglio più alto, la figura del papa trascinata nella polemica per via di una telefonata al presidente della Cei cardinale Angelo Bagnasco. Per la Chiesa, nelle sue varie anime in contrasto tra loro, gli ultimi giorni rappresentano la fine di un'illusione a lungo coltivata negli ambienti ruiniani. "Per anni abbiamo pensato che la sinistra fosse ideologica, inaccessibile ai nostri messaggi. E che invece il centrodestra, la creatura berlusconiana, fosse una parete bianca, vuota, in cui ognuno poteva scrivere quello che voleva", spiega un monsignore. La speranza che nel vuoto di idee del Pdl fosse più facile per i vertici della Chiesa infilare progetti, risorse, classe dirigente. L'ultima settimana rappresenta un brusco risveglio. In pochi giorni la Lega ha invitato il Vaticano a prendersi gli immigrati in casa, il presidente della Camera Gianfranco Fini ha intimato ai vescovi a restare fuori dal dibattito sul testamento biologico. E Berlusconi, il nuovo uomo della Provvidenza benedetto dalla cordata Ruini, minaccia di rimettere in discussione il pacco di doni legislativi promesso alla segreteria di Stato vaticana.

Un assedio che costringe gli uomini del cardinale Tarcisio Bertone, numero due del Vaticano, filo-governativi, e l'ala dura della Cei, incarnata dai siciliani Mariano Crociata e Domenico Mogavero, a mettere da parte le rivalità esplose fragorosamente sui giornali e a fare quadrato. Per un'istituzione come la Chiesa, abituata a ragionare in millenni e non in anni, il dopo-Berlusconi è già un tema di attualità. Né è possibile farsi mettere sotto ricatto dal Cavaliere che consente la pubblicazione di informative per seminare la zizzania tra i pastori di Cristo, i pescatori di uomini chiamati ora a muoversi nel porto limaccioso dei dossier, e agita sondaggi sfavorevoli al Vaticano e favorevoli a lui. A dimostrazione che per il Berlusconi furioso non esistono contropoteri. Non lo possono essere i vescovi. Non può esserlo l'Europa, bollata come l'istituzione dei portavoce, un fantasma inesistente. Deve essere impedito che lo diventi la stampa che non è direttamente o indirettamente controllata. E tantomeno può sperare di arginare la strategia chi nell'entourage berlusconiano ha sempre consigliato cautela e rispetto per le istituzioni: Gianni Letta mai come ora in difficoltà. Berlusconi va alla guerra totale, contro il Vaticano, contro l'Europa, contro tutti. Sarà ricordata a lungo la dichiarazione di Danzica. E chissà se, alla fine, al Cavaliere resterà incollato il bel sorriso di quel giorno, il primo settembre.

(03 settembre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Marco DAMILANO - Le primarie? Potrei anche non votare
Inserito da: Admin - Settembre 04, 2009, 07:52:39 pm
Le primarie? Potrei anche non votare

di Marco Damilano


Quello in corso è tutto tranne un congresso. Il Pd non affronta i problemi reali. I tre candidati non mi convincono. L'amaro sfogo del fondatore dell'Ulivo. Colloquio con Arturo Parisi. In edicola da venerdì
 
La mia generazione ha perso. Non è più solo Giorgio Gaber a dirlo, lo ripete Arturo Parisi, l'inventore dell'Ulivo, l'amico di Romano Prodi, uno dei fondatori del Pd, l'unico ancora non schierato nello scontro congressuale. "Siamo alla fine di un ciclo cominciato nell'89. Preferisco dire che abbiamo perso piuttosto che fare finta di avere vinto", scandisce l'ex ministro della Difesa. Che annuncia: "Per ora non ci siamo. Alle primarie potrei decidere di non votare per nessuno".

Che cosa non le piace del dibattito nel Pd?
"Quale dibattito? Questo tutto è tranne quello che dovrebbe essere un congresso. Le primarie saranno un voto senza discussione. La rappresentazione del dibattito è interamente affidata ai media, dopo tanto parlare di partito forte. E dire che doveva essere il vero congresso fondativo".

Ha capito su cosa si dividono i candidati?
"Rispetto ai problemi che abbiamo di fronte il ritardo è cresciuto troppo. Se non riconosciamo che non abbiamo perso una battaglia ma una guerra non parliamo di nulla. Col Pd pensavamo di aver dato una risposta alla domanda di bipolarismo e di una alternativa di governo. Pretendevamo di farci passare per un partito nuovo, rispetto ai partiti e allo stesso Ulivo, e attrarre consensi nuovi. Dove abbiamo sbagliato?".

Bersani dice l'opposto: il Pd di Veltroni "ha scelto la scorciatoia del nuovismo". Ha perso per questo.
"Il nuovismo non è la novità. È la fuga nel virtuale per sfuggire al reale. Ma così, il congresso rischia di essere uno scontro tra l'iper-realismo di alcuni e il volontarismo, o, meglio, il velleitarismo di altri. Tra proposte che prendono a riferimento solo gli ultimi quattro mesi e altre che saltando tutto il Novecento tornano indietro di 150 anni, al Quarto Stato del socialismo nascente. Mentre dovremmo fare un'analisi rigorosa del nostro passato recente. E ammettere la sconfitta: si è chiuso un ciclo cominciato nel 1989".

Il Pd si è trasformato nella Cosa 3?
"Ho visto che un'iniziativa formativa del Pd si chiama Frattocchie 2.0, gli organizzatori ci tengono simpaticamente a sottolineare che non c'è nostalgia, e ci mancherebbe che ci fosse, la nostalgia! Non è un disegno, è una dinamica, l'esito inevitabile di un percorso che non si è voluto svolgere. Sono dati che parlano prima di tutto contro di me, contro l'illusione di facili scioglimenti e rimescolamenti. La mia ipotesi è al momento sconfitta".

E chi sono i vincitori?
"Non credo che chi come D'Alema ha difeso la continuità delle vecchie organizzazioni abbia avuto ragione. Hanno semplicemente avuto ragione su di noi. È venuta meno la legge elettorale, poi per consunzione la forza del progetto. Per definire il Pd restano le alleanze. L'Udc, Di Pietro, la Poli Bortone, i comuni in cui siamo alleati con la Lega: abbiamo messo la nostra identità nelle mani degli altri. Se a tenerci insieme non ci fosse Berlusconi e le storie passate rischieremmo di brutto".

La dichiarazione di sconfitta è un'ammissione dura per lei, l'inventore dell'Ulivo.
"Riconoscere le sconfitte è un dovere prima morale che intellettuale. Nel '98, quando cadde il primo governo Prodi, dissi che era meglio perdere che perdersi. Oggi aggiungo che l'unico modo per non perdersi è riconoscere che abbiamo perso. Ma è un sentimento che fa da sfondo a tutta la vicenda del Paese. Nel 2011 celebreremo l'unità d'Italia, la tensione risorgimentale è stata sostituita da ?gli italiani sono quelli che sono?. C'è un clima di resa, la resa della Repubblica e la resa del Pd si alimentano reciprocamente".

La meglio gioventù ha perso, servono i giovani tanto attesi, i ?piombini?, Civati, Serracchiani?
"Ai giovani si può chiedere una sola cosa: il rifiuto della resa. Ma il tema dell'età ha fatto irruzione nel congresso come semplice richiesta di accelerazione delle carriere. Sono quarantenni cui tocca fare la parte dei ragazzi, lo dice uno che è orfano di un uomo morto a 36 anni".

Da chi verrà il nuovo Pd, allora?
"Serve una nuova generazione politica che spera insieme perché ha sofferto insieme. Sarà formata dai nostri figli e dai nuovi italiani, arrivati da noi con il sangue, il dolore. Con loro dovremo fare i conti".

Il Pd si è trasformato nella Cosa 3?
"Ho visto che un'iniziativa formativa del Pd si chiama Frattocchie 2.0, gli organizzatori ci tengono simpaticamente a sottolineare che non c'è nostalgia, e ci mancherebbe che ci fosse, la nostalgia! Non è un disegno, è una dinamica, l'esito inevitabile di un percorso che non si è voluto svolgere. Sono dati che parlano prima di tutto contro di me, contro l'illusione di facili scioglimenti e rimescolamenti. La mia ipotesi è al momento sconfitta".

E chi sono i vincitori?
"Non credo che chi come D'Alema ha difeso la continuità delle vecchie organizzazioni abbia avuto ragione. Hanno semplicemente avuto ragione su di noi. È venuta meno la legge elettorale, poi per consunzione la forza del progetto. Per definire il Pd restano le alleanze. L'Udc, Di Pietro, la Poli Bortone, i comuni in cui siamo alleati con la Lega: abbiamo messo la nostra identità nelle mani degli altri. Se a tenerci insieme non ci fosse Berlusconi e le storie passate rischieremmo di brutto".

La dichiarazione di sconfitta è un'ammissione dura per lei, l'inventore dell'Ulivo.
"Riconoscere le sconfitte è un dovere prima morale che intellettuale. Nel '98, quando cadde il primo governo Prodi, dissi che era meglio perdere che perdersi. Oggi aggiungo che l'unico modo per non perdersi è riconoscere che abbiamo perso. Ma è un sentimento che fa da sfondo a tutta la vicenda del Paese. Nel 2011 celebreremo l'unità d'Italia, la tensione risorgimentale è stata sostituita da ?gli italiani sono quelli che sono?. C'è un clima di resa, la resa della Repubblica e la resa del Pd si alimentano reciprocamente".

La meglio gioventù ha perso, servono i giovani tanto attesi, i ?piombini?, Civati, Serracchiani?
"Ai giovani si può chiedere una sola cosa: il rifiuto della resa. Ma il tema dell'età ha fatto irruzione nel congresso come semplice richiesta di accelerazione delle carriere. Sono quarantenni cui tocca fare la parte dei ragazzi, lo dice uno che è orfano di un uomo morto a 36 anni".

Da chi verrà il nuovo Pd, allora?
"Serve una nuova generazione politica che spera insieme perché ha sofferto insieme. Sarà formata dai nostri figli e dai nuovi italiani, arrivati da noi con il sangue, il dolore. Con loro dovremo fare i conti".

Nell'attesa, alle primarie per chi voterà?
"Non sono un elettore di appartenenza come Marini, che ha detto di stare con Franceschini ma di preferire Bersani, e neppure di scambio come Rutelli e i suoi che per decidere hanno chiesto di capire cosa gli sarà dato. Sceglierò chi cercherà la vittoria nelle ragioni della sconfitta". C'è un candidato che preferisce? "Onestamente, devo dire di no. Per ora non ci siamo.

E se nessuno alla fine riuscisse a dimostrare questa consapevolezza potrei decidere, semplicemente, di non votare per nessuno".

(03 settembre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Marco DAMILANO - Se cade Silvio
Inserito da: Admin - Settembre 13, 2009, 10:02:31 pm
Se cade Silvio

di Marco Damilano


Nuove inchieste e rivelazioni. La tensione con Fini e il rischio di scissione nel Pdl. Le iniziative di Montezemolo e Casini. E il Cavaliere che medita elezioni anticipate  L'ordalia di primavera, la chiamano. I primi giorni della bella stagione, il 21 e 22 marzo 2010. Quando il ministro dell'Interno Roberto Maroni una settimana fa ha comunicato la data delle prossime elezioni regionali, i più sensibili osservatori delle cose di Palazzo hanno drizzato le antenne: come mai così presto? La Pasqua quest'anno cadrà il 4 aprile, ma che necessità c'era di fissare il voto a metà marzo, costringendo i partiti e i militanti a fare la campagna elettorale in pieno inverno? Era solo un pensiero fastidioso, un sospetto. Nessuno immaginava davvero che in soli sette giorni i rapporti interni al centrodestra sarebbero arrivati al punto di rottura, fino a rendere improvvisamente possibile un'eventualità che sembrava remota: le elezioni politiche anticipate, da tenersi negli stessi giorni delle regionali. "Vedo nuvole nere all'orizzonte", scruta i segni della fine dei tempi Mario Valducci, un forzista della prima ora, tra i più fedeli a Silvio Berlusconi. Perfino lui, ottimista di natura, si lascia andare alle profezie catastrofiche: "La ripresa di settembre è stata infernale. Un gran movimento di truppe, molta incertezza, un percorso accidentato. Chi può escludere in queste condizioni che tra qualche mese si torni a votare anche per il Parlamento?".

Un inferno, per il Cavaliere: i verbali dell'imprenditore Giampaolo Tarantini con l'elenco della 30 ragazze transitate a casa Berlusconi in cinque mesi, tutte puntigliosamente indicate con nome d'arte, tariffario e data di prestazione. Un bel carosello di Karen, Esther, Maristel, Hawa che entrano ed escono da palazzo Grazioli, la residenza del presidente del Consiglio, su macchine con i vetri oscurati, produzione in serie. Le rivelazioni dei pentiti a Palermo sulle stragi di mafia del 1992-93 e sulla nascita dei nuovi partiti della Seconda Repubblica, mentre si attende la sentenza d'appello sul senatore Marcello Dell'Utri già condannato a nove anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Convulsioni finali del berlusconismo su cui può arrivare a incendiare tutto, come un fiammifero in una petroliera, la sentenza della Consulta sulla costituzionalità del lodo Alfano prevista per il 6 ottobre, che il premier aspetta come il momento della verità, quello in cui può decidere di andare avanti con il suo governo. O, al contrario, di dichiarare guerra al mondo intero.

Chi può escludere, in questo scenario da ultimi giorni dell'Imperatore, che tutto si concluda con la prova finale, il giudizio di Dio, "l'ordalia" invocata da Gianfranco Fini? La sfida estrema, il plebiscito popolare con cui il Cavaliere vuole chiudere definitivamente i conti. Con i nemici tradizionali: la magistratura, la stampa non allineata, quelli che in democrazia sono i contropoteri e per Berlusconi rappresentano soltanto un pericolo da spazzare via. E con i nuovi complottatori, più interni che esterni, quelli che mirano a eroderne il potere fino a sostituirlo: il presidente della Camera in testa.

Non lo esclude nessuno, e infatti si stanno preparando tutti. Le scosse che agitano la politica non descrivono la normale ripresa di attività di una legislatura che ha appena raggiunto i 15 mesi di vita, con una maggioranza che a Montecitorio può contare su oltre 60 deputati di vantaggio e con il governo che avanza a colpi di voti di fiducia al minimo rischio di dissenso. Sono giorni di fibrillazione. Riunioni. Incontri. Conte dei fedelissimi. Un clima da fine legislatura. Con protagonisti vecchi e nuovi che si preparano a tutti gli esiti: un dopo Berlusconi che cominci fin da ora, con un imprevedibile rimescolamento degli schieramenti già in questo Parlamento. O che passi per traumatiche elezioni anticipate al buio.

"L'importante è evitare false partenze", hanno scherzato durante l'ultimo incontro gli emissari centristi con Luca Cordero di Montezemolo, un esperto del ramo. Il presidente della Fiat e della Ferrari, infatti, per ora resta ben nascosto nei box, si limita a far rombare il motore. Si consulta con un ristretto gruppo di amici legati all'Udc di Pier Ferdinando Casini. E con il presidente della Confcooperative Luigi Marino e l'ex segretario della Cisl Savino Pezzotta, due esponenti del mondo cattolico legati all'ala della Conferenza episcopale più vicina al cardinale Camillo Ruini, oggi furiosa con Berlusconi dopo la ferita delle dimissioni del direttore di 'Avvenire' Dino Boffo e alla ricerca di nuovi interlocutori politici. Sono loro a fare da mediatori tra i vertici della Chiesa italiana e l'ex presidente di Confindustria voglioso di scendere in pista. Intanto, si prepara con cura la prima uscita pubblica del think tank montezemoliano Italia Futura, sede in viale Parioli, il quartiere simbolo dell'alta borghesia romana, affidato ad Andrea Romano, storico e editorialista del 'Sole 24 Ore' con un passato nella fondazione dalemiana Italianieuropei: esordio il 7 ottobre nelle sale di palazzo Colonna, relatori il fondatore della Comunità di Sant'Egidio Andrea Riccardi (uomo di punta della stagione ruiniana) e, chi altrimenti?, il presidente della Camera Fini. Con cui l'uomo del cavallino rampante intrattiene lunghe e amichevoli conversazioni.

Montezemolo, Fini, Casini: un intreccio che ricorda il primo tentativo del presidente della Ferrari di affacciarsi alla politica. Era l'autunno 2007, Luca alla guida della Confindustria era a fine mandato e la tentazione di entrare in campo con un nuovo partito era irresistibile. Il momento sembrava favorevole, Berlusconi aveva appena lanciato il Pdl dal famoso predellino ricevendo una gelida risposta da parte dell'allora leader di An: "Siamo alle comiche finali", scandì Fini. Anche Casini era da tempo in rotta di collisione con il Cavaliere. I tre parevano destinati a incrociarsi nel progetto di un nuovo soggetto politico destinato a sfidare l'egemonia di Berlusconi nell'elettorato moderato. Poi si sa com'è finita: qualche settimana dopo il governo Prodi è caduto, Fini è tornato a più miti consigli ed è entrato nel Pdl, Casini ha divorziato dal centrodestra ed è andato al voto con il simbolo dell'Udc, Montezemolo è rimasto al pit-stop.

Ora la situazione si è pesantemente aggravata. E con i leader che fiutano l'aria di fine regime e si rimettono in movimento. Il più rapido, al solito, è stato il presidente della Camera. Appena qualche settimana fa la sua strategia sembrava consolidata: tempi lunghi per far crescere il suo progetto, la costruzione di un Pdl laico, liberale, modernizzante, pluralista, tutto il contrario dell'attuale partitone berlusconiano, insomma, e per consolidare la sua figura istituzionale in vista di futuri, più alti incarichi, senza perdere mai di vista la meta che ogni politico (Berlusconi compreso) sogna di conquistare, il Quirinale.

Negli ultimi giorni, però, il primo inquilino di Montecitorio ha sentito il bisogno di cambiare marcia, di dismettere i panni della terza carica dello Stato per rivestire quelli di capo politico. Colpa, certo, dell'assalto a freddo del 'Giornale' di Vittorio Feltri, flebilmente smentito da Berlusconi secondo un copione già collaudato con il povero Boffo. Un'aggressione in cui gli uomini di Fini leggono la volontà berlusconiana di azzerare politicamente il presidente della Camera, ricacciarlo verso un ruolo notarile, modello Schifani. "Il premier è entrato in una spirale complottista, una logica da bunker, è circondato da persone che alimentano questo clima e lo mettono in guardia dai presunti nemici", spiega il direttore di FareFuturo Alessandro Campi. I finiani si erano già attivati prima della sparata di Feltri, con un pranzo riservato, in apparenza per discutere della legge sul testamento biologico, che Fini considera il banco di prova su cui contare quanti condividono nel Pdl la sua idea di partito e quanti invece la contrastano. Ma in realtà la conta è già iniziata, e sul tema più scivoloso: il dopo-Berlusconi, "un processo che andrebbe gestito politicamente dallo stesso premier e che invece rischia di diventare distruttivo per tutti", attacca Campi. Quanti sarebbero i parlamentari del Pdl disposti a contrastare il Cavaliere in nome della legalità costituzionale difesa da Fini se si dovesse precipitare verso elezioni anticipate? Nel gruppo ristretto che circonda il presidente della Camera, informalmente, circola qualche numero: i fedelissimi di Fini, sulla carta, sono appena una trentina. Tra loro, l'avvocato Giulia Bongiorno, presidente della commissione Giustizia della Camera, il sottosegretario Adolfo Urso, l'ex radicale Benedetto Della Vedova, il direttore del 'Secolo' Flavia Perina, il siciliano Fabio Granata autore della proposta di legge sulla cittadinanza agli immigrati che ha fatto infuriare la Lega e non solo: sul sito del Pdl campeggia una frase di Berlusconi, "il voto agli immigrati è uno stratagemma comunista". Tutti schierati in difesa del loro leader, in attesa dell'intervento di Fini in prima persona nei sotterranei del Park Hotel dei Cappuccini di Gubbio, alla scuola di formazione del Pdl.

Ma il numero dei deputati attratti da Fini potrebbe aumentare in caso di scontro all'arma bianca tra il presidente della Camera e il presidente del Consiglio. Fino a sfiorare quota 60, intorno alla quale anche il più solido dei governi comincia a traballare. Non è un caso che negli ultimi giorni sia uscito allo scoperto il vice-capogruppo del Pdl Italo Bocchino, finiano a lungo piuttosto silenzioso e ora di nuovo loquace e in sintonia con il capo, anche lui finito subito nel tritacarne di Feltri. Uno scontro che può determinare il destino del Pdl, del governo, della legislatura. Con Fini e i suoi che si organizzano come una corrente, un partito nel partito che può avvalersi della fondazione FareFuturo e del patrimonio dell'ex Movimento sociale al sicuro. Senza escludere neppure l'ipotesi di una clamorosa scissione, nel caso la convivenza tra berlusconiani e finiani dovesse diventare impossibile.

Terremoti politici che aprono magici spazi di manovra per l'altro cinquantenne inquieto, a lungo considerato gemello del presidente della Camera, il leader dell'Udc Casini. Il partito centrista è impegnato nelle trattative sulle elezioni regionali: è determinante in almeno sette regioni e gioca su tutti i tavoli. In Campania, per esempio, potrebbe andare da solo. Nelle Marche e in Liguria è a un passo dall'accordo con il centrosinistra. Nelle regioni chiave, il Lazio, la Puglia, il Piemonte, la Calabria, il partito di Casini vende caro il suo appoggio, al Pd ma anche al Pdl.

Il felpato gioco dei due forni, specialità della casa che si apprende fin da piccoli alla scuola democristiana, potrebbe essere spazzato via dallo scontro totale provocato da nuove inchieste giudiziarie su Berlusconi e dalla bocciatura del lodo Alfano. Casini l'ha già detto: "In caso di emergenza potremmo fare una grande coalizione con la sinistra". Bruno Tabacci è più esplicito: "Serve un nuovo Comitato di liberazione nazionale da Berlusconi". Ora il momento sembra arrivato. Montezemolo, Fini, Casini ognuno per sé, marciare divisi per colpire uniti, la costruzione di un partito moderato contrapposto al polo populista Berlusconi-Lega. Non è tempo per raffinati esperimenti politici, però. Il dopo Cavaliere è già partito e sarà una guerra. L'unico che sembra rallegrarsene è lui, il premier. Che prepara le elezioni anticipate per spezzare i giochi di successione. L'ordalia di primavera.

(11 settembre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Marco DAMILANO - Bersani vuol fare centro
Inserito da: Admin - Settembre 15, 2009, 12:08:43 am
Bersani vuol fare centro

di Marco Damilano


Vincere le primarie. E cercare nuove alleanze. Tra il governatore Draghi e gli imprenditori. Cl e l'Udc. La lunga marcia del 'comunista emiliano' 

La nebbia filtrava dalle feritoie del castello, c'era il Po che rombava sotto le finestre e tra un bicchiere e l'altro uno dei commensali aveva un annuncio importante da fare. "Ho deciso: quando verrà il momento mi candiderò alla segreteria del Pd", comunicò Pier Luigi Bersani addentando una fetta di culatello ottimamente stagionato, nelle cantine di Zibello, la patria del pregiato salume. Mondo piccolo, luogo guareschiano, a brindare al grande passo di Bersani c'erano gli eredi di Peppone e di don Camillo: il presidente della Regione Emilia Vasco Errani e due democristiani di lungo corso, l'ex sindaco di Parma Elvio Ubaldi e l'amico Bruno Tabacci, molto più che un semplice deputato dell'Udc, l'esponente centrista più deciso ad allearsi con il Pd per costruire un nuovo centrosinistra.

Alla guida del Pd c'era ancora Walter Veltroni, sette mesi fa, e Bersani anticipava la sua candidatura a due uomini del Centro. L'anteprima della sua campagna congressuale e di quello che sarà il suo Pd in caso di vittoria, come l'ex ministro ha ripetuto l'altro giorno alla prima convention ufficiale della sua mozione al Palalido di Milano, davanti ai big che corrono per lui, Massimo D'Alema, Rosy Bindi, Enrico Letta: "Non tutto si gioca nei luoghi consueti della politica. Dobbiamo muoverci tra le istituzioni, le formazioni sociali, il mondo della cultura, gli ambienti autonomi da noi, ma non avversi. Bisogna andare sul confine".

Far cambiare posizione al Pd, dai margini in cui si trova ora al confine, la zona di frontiera da cui passa tutto: le nuove alleanze, per esempio con l'Udc, e poi progetti, strategie, uomini. È la zona in cui un pragmatico come Bersani pensa di poter dare il meglio di sé, molto più che come candidato segretario costretto a polemiche surreali come quella della pelata nascosta nella foto del manifesto pre-congressuale confezionato dall'agenzia pugliese Proforma, la stessa che ha curato in passato le campagne alle primarie di Nichi Vendola, Fausto Bertinotti ed Enrico Letta. In queste settimane, più che il confine, a Bersani tocca presidiare il fronte interno. Ci sono i voti dei circoli da conquistare, da contendere iscritto per iscritto allo schieramento di Dario Franceschini e al drappello pro Ignazio Marino. E poi ci saranno le primarie del 25 ottobre, in vista dell'appuntamento decisivo stanno nascendo in tutta Italia i comitati per Bersani. Una sfida che l'ex ministro affronta con il sigaro in mano e la polo bene in vista sotto la giacca: perfetto look da comunista emiliano, come ancora adesso ama definirsi.

I primi risultati confermano la sensazione: Franceschini è il segretario uscente, Bersani è il candidato da battere. E fin da ora prova a giocare la sua partita da segretario in pectore, quello chiamato a ricucire relazioni interrotte da tempo. Nelle ultime settimane solo in un'occasione il comunista emiliano ha rimesso l'abito istituzionale, la cravatta da ministro. Quando ha partecipato a fine agosto a un dibattito al Meeting di Rimini di fronte al governatore della Banca d'Italia Mario Draghi. Prima dell'evento pubblico davanti a migliaia di ciellini Bersani e Draghi si sono incontrati nella saletta vip della Fiera di Rimini e hanno chiacchierato a lungo. Non è una sorpresa per chi li conosce: nell'assoluta discrezione che circonda i rapporti del numero uno di via Nazionale, tra i due c'è una stima nata ai tempi del primo governo Prodi, quando Bersani era al suo esordio nazionale come ministro dell'Industria e Draghi era direttore generale del Tesoro con Carlo Azeglio Ciampi ministro.

Difficile non rintracciare l'eco delle considerazioni più recenti del governatore sugli effetti sociali della crisi economica negli interventi di Bersani. Ed è significativo che il bersaglio scelto per le polemiche più aspre del candidato alla segreteria del Pd sia Giulio Tremonti, da mesi impegnato in una sorda guerra contro l'inquilino della Banca d'Italia. "Qualsiasi cosa dica Tremonti in questo Paese, viene presa per buona", attacca Bersani: "Non ci sarà più il condono, giura, sei colonne sui giornali, farò il condono, cambia idea, otto colonne. Una volta, per esagerare, ha citato l'imperatore Eliogabalo e nessuno ha chiamato il 118". Su Tremonti, in controluce, si può perfino leggere una sottile incrinatura che divide Bersani dal principale sponsor della sua candidatura, D'Alema. Perché, con queste premesse, in caso di caduta di Berlusconi difficilmente un Pd guidato da Bersani potrebbe acconciarsi a sostenere un governo di emergenza economica guidato dall'attuale ministro dell'Economia, scenario che al contrario D'Alema non ha mai davvero escluso.

Ma la ripresa di attenzione verso un personaggio come Draghi e altri pezzi influenti dell'establishment economico è solo un tassello della strategia del confine. Ci sono le istituzioni con cui il Pd deve tornare a parlare, tipo la Banca d'Italia. E poi le formazioni sociali: gli imprenditori, i sindacati, oltre alla Lega delle Cooperative, in cui l'ex ministro è di casa. Con la Cgil e con la segreteria di Guglielmo Epifani il feeling va avanti da tempo, Bersani fu l'unico leader del Pd a partecipare già lo scorso inverno alla manifestazione della Fiom e del pubblico impiego. Avanzava in montgomery blu in mezzo a file di metalmeccanici infuriati. Anche se un bel pezzo di mondo sindacale oggi impegnato nel Pd è schierato con Franceschini: l'ex segretario della Cgil Sergio Cofferati, Paolo Nerozzi e Achille Passoni.

L'altra forza sociale con cui riprendere rapidamente il filo spezzato è il mondo cattolico, come consiglia la Bindi. Bersani può vantare da anni il buon rapporto con la galassia di Comunione e liberazione e Compagnia delle Opere: non a caso lo chiamano Cooperative e liberazione. "Se si fosse candidato alla segreteria del Pd nel 2007 saremmo stati pronti a votarlo", racconta l'ex presidente della Cdo, Raffaello Vignali, oggi deputato del Pdl. Difficile che la storia si ripeta, oggi Cl è di nuovo accasata comodamente nel Pdl berlusconiano. Però Bersani non demorde: nei suoi discorsi la parola 'sussidiarietà' non manca mai, lui che fa parte dell'intergruppo parlamentare dedicato al tema caro ai nipotini di don Luigi Giussani. All'incontro con cui lanciò la sua candidatura alla guida del Pd a Roma ottenne la partecipazione di un eminente della Curia, il cardinale Achille Silvestrini, ben addentro alle cose della politica italiana. Per concludere che "i nostri umanesimi hanno radici comuni, radici cristiane". Anche se per Bersani, come per tutti gli altri leader, il banco di prova su cui sarà valutato dalla Chiesa sarà la legge sul testamento biologico in arrivo alla Camera, per metà ottobre, nel bel mezzo della campagna delle primarie.

Un Pd da combattimento, predica l'uomo che punta a guidarlo, per ritornare al centro del ring. Prima di tutto, per non perdere rovinosamente le elezioni regionali della primavera 2010: una sconfitta segnerebbe la fine prematura della leadership del nuovo segretario Pd. Per questo proseguiranno i corteggiamenti in direzione Udc, partiti davanti al culatello. E poi, se l'operazione salvataggio funziona, bisognerà dedicarsi a cercare il candidato premier del nuovo centrosinistra chiamato ad affrontare la coppia Pdl-Lega. L'identikit è nella prefazione che Bersani ha scritto per il libro 'L'assedio' di Antonio Lirosi sulle liberalizzazioni. Il nuovo leader dovrà avere le stesse caratteristiche di Prodi: "Fortissima determinazione politica, conoscenza concreta della realtà e spiccata competenza sulle questioni economiche".

Praticamente un autoritratto.

(11 settembre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Marco DAMILANO - Ora facciamo centro
Inserito da: Admin - Ottobre 11, 2009, 10:55:21 pm
Ora facciamo centro

di Marco Damilano


Berlusconi blocca il Paese per proteggere i suoi interessi. Ma la maggioranza è in crisi. E un'alternativa è possibile. Colloquio con Bruno Tabacci
 
Se il presidente del Consiglio intende portare il Paese alle elezioni anticipate per difendere un solo interesse, il suo, si accomodi. Noi non abbiamo paura, siamo pronti a costruire l'alternativa... Bruno Tabacci, deputato dell'Udc, spina nel fianco del Cavaliere da più di una legislatura, non teme le minacce di Silvio Berlusconi e dell'alleato Umberto Bossi di ricorrere alla piazza e allo scioglimento delle Camere dopo la bocciatura del lodo Alfano votata dalla Consulta. E esulta: "Da anni il Cavaliere prova a trasformare l'Italia in una Repubblica presidenziale senza contrappesi. Ma la Corte gli ha detto che non può farlo".

Da mesi l'intero mondo politico ha segnato sull'agenda una data: il 6 ottobre, il giorno in cui la Corte costituzionale doveva pronunciarsi sul lodo salva-premier. Cosa significa ora questa sentenza di incostituzionalità?
"Si è creata questa attesa perché è stato Berlusconi a volerlo, come sempre accade quando c'è qualcosa che riguarda i suoi interessi personali. È da anni che tutto il mondo politico, le istituzioni, perfino il calendario dei lavori parlamentari sono legati alle sue vicende giudiziarie. Il percorso del lodo Alfano da questo punto di vista è esemplare. Il mio gruppo parlamentare, l'Udc, si astenne sul voto finale, uno dei pochi dove il governo non ha utilizzato il ricorso alla fiducia. Prendemmo questa decisione sofferta perché l'alternativa era un provvedimento che avrebbe bloccato oltre centomila processi. Di fatto si sarebbe inceppata l'intera macchina della giustizia italiana per bloccare un solo processo, quello di Milano sul caso Mills che vede coimputato Berlusconi. Di fronte a questo pericolo il lodo ci sembrò il male minore, anche se motivammo l'astensione dicendo: attenzione, serve una legge costituzionale. La sentenza della Corte ci ha dato ragione. Ma queste sono considerazioni giuridiche. La sostanza è politica".

Cosa rappresenta la bocciatura del Lodo, dopo mesi di tensioni, lo scandalo delle escort, le inchieste della stampa straniera, l'isolamento del governo sul piano internazionale? Qualcuno parla di fine del berlusconismo...
"Il senso politico è uno solo. Berlusconi ha tentato in questi anni di cambiare la Costituzione. Ha provato a rendere lettera morta la carta costituzionale e di introdurre una Repubblica presidenziale senza contrappesi. Il suo avvocato Gaetano Pecorella l'ha detto di fronte ai giudici della Corte: non potete togliere lo scudo del lodo perché altrimenti si va contro la volontà popolare. Immagino che nella Consulta siano inorriditi quando hanno sentito queste argomentazioni. La sentenza vuol dire questo: l'Italia è ancora una Repubblica parlamentare. I contrappesi ci sono e fanno il loro dovere. Per me deputato è un momento di respiro: da mesi viviamo nell'umiliazione della democrazia parlamentare, con i decreti e i voti di fiducia. Si costringe continuamente il capo dello Stato a un percorso accidentato sulla firma e la promulgazione delle leggi. Ora, invece, torna a funzionare la Costituzione che è stata scritta più di 60 anni fa con sapienza politica. Sono rinfrancato".

Berlusconi grida che la Corte ha smesso di essere un organo di garanzia, che i giudici sono di sinistra e che si appella all'elettorato: scendete in piazza per difendere il vostro premier. Preoccupato?
"Berlusconi non è in grado di ricorrere a nessuna piazza. La piazza, cioè gli italiani, teme per il posto di lavoro e per la crisi economica. Il Paese ha molti problemi. Berlusconi, che non è capace di risolverli, vorrebbe chiamarlo a difendere un solo interesse: il suo. Sarebbero manifestazioni convocate per difendere il Berlusconi imprenditore, non il politico. È stato l'imprenditore Berlusconi a finire sotto processo civile per il lodo Mondadori, per quella sentenza con cui ha ottenuto il controllo del gruppo editoriale e che è risultata alterata. È il Berlusconi imprenditore che è sotto inchiesta per la vicenda dei diritti televisivi. Ed è singolare che ricorra alla piazza contro una sentenza civile, lui che ha appena presentato querela contro ?Repubblica? e ?l'Unità?". Anche Bossi minaccia di portare la Lega in piazza in difesa del premier... "Bossi vede un Berlusconi seriamente indebolito e immagina di proteggerlo amorevolmente. Magari, in cambio, chiederà la presidenza della Lombardia per un varesotto suo amico...".

Berlusconi dovrebbe dimettersi?
"No. È meglio che resti al suo posto. Ha una maggioranza ampia, si concentri sulle cosa da fare. E affronti i processi con dignità, come hanno fatto altri politici al posto suo in passato".

Sicuramente, però, esce ferito da questa sentenza. Con il carisma dimezzato, anche nei confronti della sua maggioranza.
"La maggioranza è sfilacciata. Nelle ultime settimane in ogni votazione ha rischiato di andare sotto, a volte è stata salvata dalle assenze sui banchi del Pd. C'è stata un'azione di disinformazione, si è voluto far credere da parte del centrodestra che questa situazione dipendesse dalla pressione di una parte della stampa sui fatti privati di Berlusconi, ma non è così. C'è una parte della maggioranza che è in difficoltà per ragioni tutte politiche".

Motivo in più, dal punto di vista di Berlusconi, per tentare la strada del ricorso anticipato alle urne e rompere le eventuali manovre per la successione...
"Berlusconi non è in grado di far succedere nulla. E poi la procedura per lo scioglimento delle Camere è molto complessa: il governo dovrebbe venire in Parlamento ad autoaffondarsi, come nell'87 fece il governo Fanfani, dovrebbe chiedere ai suoi parlamentari di votargli contro. Non so in quanti lo seguirebbero. I deputati e i senatori del Pdl sanno bene che chi provoca le elezioni finisce per essere sconfitto". E se Berlusconi dovesse insistere? "In caso di dimissioni di Berlusconi, il presidente della Repubblica ha il dovere costituzionale di verificare se ci siano altre personalità che possano trovare una maggioranza in Parlamento. Anche in caso di elezioni anticipate, sia chiaro, si dovrebbe andare con un governo di garanzia, con un presidente del Consiglio diverso da Berlusconi e con nuovi ministri".

Qualche settimana fa il leader dell'Udc Pier Ferdinando Casini disse che in caso di forzature istituzionali si sarebbe trovata una maggioranza alternativa in Parlamento "in dieci minuti". Francesco Rutelli ha lanciato l'idea di un "governo del presidente" in carica per tre anni. È questa la vostra linea?
"Io credo che se Berlusconi dovesse sfidare il Paese e portare gli italiani a votare sulla sua persona alla guida di una coalizione con la Lega l'opposizione dovrebbe rispondere che non c'è nessuna paura del giudizio delle urne. Nessun timore, possiamo scontrarci a viso aperto".

Con quale formazione e con quali leader? Nelle ore in cui usciva la sentenza della Consulta Luca Cordero di Montezemolo ha presentato la sua associazione Italia Futura alla presenza di Fini. È l'anteprima di un rassemblement centrista?
"Dopo la vicenda del lodo Alfano il quadro della politica è destinato a mutare e deve cambiare anche l'assetto delle opposizioni. Il Pd ha in corso un congresso che porterà finalmente a un chiarimento delle loro posizioni. Con la vittoria di Pierluigi Bersani che mi sembra sicura si apriranno nuovi spazi di manovra al centro. In Italia dei Valori si è aperta una frattura tra chi sostiene la linea di Luigi De Magistris e un'ala più moderata. Ci sono le condizioni per costruire un'alternativa al berlusconismo che parta dal centro. L'unica che può vincere in questo Paese".

(08 ottobre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Colloquio con Giuseppe Pisanu Silvio fermati
Inserito da: Admin - Ottobre 16, 2009, 11:53:43 pm
Silvio fermati

di Marco Damilano


Napolitano non si discute.

Berlusconi deve fare un gesto di riconciliazione generale. E poi il tema delle riforme. I rapporti con l'Udc. Il futuro del Pd. Parla il presidente dell'Antimafia.

Colloquio con Giuseppe Pisanu
 
Giù le mani da Napolitano. Parola di Giuseppe Pisanu, presidente della commissione Antimafia, riserva di senso dello Stato nel Pdl, allergico ai falchi berlusconiani. "Berlusconi dovrebbe fare un gesto alto di riconciliazione generale: andare in Parlamento e riprendere il dialogo sulle riforme", consiglia l'ex ministro dell'Interno. Appello controcorrente, nella stagione più dura per i moderati del centrodestra. "È un tempo difficile per tutti. Il cortocircuito istituzionale è arrivato nel mezzo di una tempesta politica. Ora c'è il rischio che si rovesci sulla crisi economica e sociale provocando danni molto gravi".

Lei è testimone privilegiato della fine della prima Repubblica. Ci fu un complotto dei giudici per eliminare i partiti? E uno nel '94 per far cadere Berlusconi? E oggi c'è un complotto contro il governo?
"Il crollo della prima Repubblica fu determinato da sommovimenti profondi: la crisi delle ideologie, il declino dei partiti tradizionali, il decadimento dello spirito pubblico. Il giustizialismo arrivò nella fase finale e fece la sua parte. Nel '94 ci fu sicuramente una clamorosa iniziativa giudiziaria, poi finita nel nulla, che pugnalò alle spalle il presidente del Consiglio mentre presiedeva una conferenza internazionale. Oggi vedo il complotto delle circostanze avverse, ma non vedo la mano che lo guida. Anzi, penso che non ci sia".

Napolitano è sotto il tiro dell'ala dura del Pdl: non è super partes, dicono. Condivide?
"Il presidente Napolitano si è sempre saputo tenere al di sopra delle parti, tanto da meritarsi anche il riconoscimento di coloro che non lo avevano votato. Di questo vi è larga eco nella recente dichiarazione congiunta di Fini e Schifani".

Anche la Consulta è sotto attacco. Cosa bisognerebbe fare per svelenire il clima?
"Il punto più critico è la contrastata decisione della Corte sul lodo Alfano. Non contesto quella decisione, ma osservo che essa ci ha rimesso dinanzi al vuoto politico-istituzionale che si è creato in Italia dal 1993 con l'abolizione dell'immunità parlamentare. Qui è il primo problema e da qui bisogna partire".

A guidare l'attacco, spesso, c'è il premier. Che consigli darebbe a Berlusconi?
"Berlusconi non ha bisogno dei miei consigli. Comunque, al suo posto, avendo una maggioranza salda e senza alternative, io compirei un gesto alto di riconciliazione generale e sfiderei l'opposizione sui grandi problemi del Paese.
Chi è forte deve essere magnanimo".

Che tipo di gesto?
"Il ritorno in Parlamento per riprendere il dialogo avviato con il discorso programmatico di inizio legislatura ".

Ne è sicuro? Nel Pdl c'è chi ripete che le riforme vanno fatte da soli...
"Non posso condividere. Lo scontro rende difficile l'ordinaria attività di governo, figuriamoci quella straordinaria di riforma".

Sulla giustizia si parla di un pacchetto: separazione delle carriere tra giudici e Pm, nuove modalità di elezione della Consulta, prescrizioni più rapide. Sono misure urgenti?
"Non conosco pacchetti preconfezionati. La prima riforma da fare, che può spianare la strada ad intese più ampie, è la reintroduzione della immunità parlamentare, magari nella formula oggi ammessa (e mai contestata) agli euro-deputati. Ricordiamoci che per 45 anni l'immunità è riuscita a salvaguardare il delicato equilibrio tra politica e giustizia stabilito dai padri costituenti. La seconda riforma è il federalismo costituzionale, senza il quale sarebbe impossibile mettere in funzione il federalismo fiscale".

Si possono fare queste riforme senza il Pd?
"Il Pd non può andare a uno scontro interminabile e distruttivo fino alla conclusione della legislatura. Peraltro, ha già dimostrato notevole attenzione sia ai problemi del federalismo che a quelli del rapporto tra politica e magistratura".

Berlusconi ripete: sono l'unico eletto dal popolo. Bisogna adeguare la Costituzione e introdurre il presidenzialismo?
"La legge elettorale prevede l'indicazione del leader del partito, non l'elezione diretta del premier. Questa indicazione ha certamente un forte valore politico che nessuno può disconoscere. Quanto a una eventuale riforma di tipo presidenziale, già la Bicamerale D'Alema l'aveva ipotizzata, nel contesto di una più organica revisione della forma di Stato e di governo".

Lei è considerato uno degli esponenti del partito del ?buon senso?, come lo chiama Casini. Esiste davvero?
"Esistono i partiti rappresentati in Parlamento e, per fortuna, ci sono scorte di buon senso un po' dappertutto. Bisogna preservarle e metterle a frutto ovunque si trovino. Nel mio piccolo, ci provo ogni giorno".

Con Fini (e D'Alema) vi ritrovate ad Asolo a parlare di immigrazione. Anche sul testamento biologico la pensate allo stesso modo. È la prova di una sintonia politica?
"Sul fine vita la mia convinzione è che le scelte appartengono esclusivamente al malato, ai suoi parenti stretti, ai suoi medici ed eventualmente al suo assistente spirituale. Nessun altro può intromettersi nello spazio intimo del dolore, della cura e della morte. Lo riconosce di fatto l'articolo due della Costituzione, che stabilisce il primato della persona sullo Stato. In questa ottica, da cattolico, sono laicamente d'accordo con Fini".

Sul Pdl Fini ha detto che è "come la temperatura di Bolzano, non pervenuto". Lei come giudica il suo partito? Il triumvirato che lo guida va superato?
"In realtà, a parte la temperatura di Bolzano, Fini non ha fatto altro che ribadire le idee che aveva espresso tra gli applausi al congresso fondativo del Pdl. Il triumvirato è chiaramente una formula di transizione, in attesa che il partito si dia una cultura politica unificante e una forma democratica, procedendo dal basso verso l'alto. Non vedo una transizione breve...".

Elezioni regionali: è necessaria l'alleanza con l'Udc? E la richiesta della Lega sulla presidenza del Veneto è accettabile per il Pdl?
"Un'ampia alleanza con l'Udc è necessaria non solo per assicurarci la vittoria in alcune regioni, ma anche per ridare forza al voto cattolico del Pdl. In passato la vicinanza di questo partito ha incoraggiato il voto di tanti cattolici verso Forza Italia perché costituiva una sponda amica. Oggi la lontananza può contribuire a scoraggiarlo. Vale anche per il Veneto, dove, oltretutto, il Pdl è maggioranza e Galan ha ottenuto larghi consensi".

Lei ha sostenuto che l'allargamento del Pdl va esteso a personalità come Montezemolo e Riccardi, oggi animatori del pensatoio Italia Futura: l'invito è ancora valido?
"Non ho titolo per rivolgere un simile invito. Resto però dell'avviso che per diventare il partito dei moderati italiani il Pdl deve cercare energie nuove nel mondo cattolico e nella società civile". I movimenti centristi interessano l'Udc ma anche Rutelli. È credibile l'ennesimo tentativo di costruire il Grande Centro? "Fino a quando resterà in piedi la doppia possibilità della crescita in senso moderato del Pdl e dell'alleanza strategica con l'Udc, non vi saranno spazi praticabili per un'altra ipotesi moderata".

Che esito si augura dalle primarie del Pd?
"Prima vorrei vederci chiaro sulle prospettive del Pd a ?vocazione maggioritaria? concepito da Veltroni. In questo momento, mentre il bipolarismo italiano invece di maturare inselvatichisce, vedo emergere l'idea di una riorganizzazione del nostro sistema, in modo tale che a un numero limitato di partiti corrisponda però una più esauriente rappresentanza del pluralismo politico italiano. Se prevale questa idea, vincerà Bersani. In questo caso toccherà a lui dare risposte convincenti agli italiani che attendono una sinistra moderna".

Questo processo interessa anche il Pdl?
"Se i partiti politici non riusciranno a soddisfare la domanda di pluralismo che c'è nel paese sarà la partecipazione democratica a pagarne il prezzo".

(14 ottobre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Marco DAMILANO - Nel Pd saremo ingombranti
Inserito da: Admin - Novembre 05, 2009, 06:44:41 pm
Nel Pd saremo ingombranti

di Marco Damilano


L'ex ministro, capo dell'ala post-democristiana, assicura che non intende seguire Francesco Rutelli nella nuova impresa centrista e spiega: "Nel Pd di Bersani noi cattolici siamo troppi per essere indipendenti o indifferenti". Colloquio con Giuseppe Fioroni
 
"Nel Pd di Bersani noi cattolici siamo troppi per essere indipendenti o indifferenti. Al massimo, saremo ingombranti", assicura l'ex ministro Giuseppe Fioroni, capo dell'ala post-democristiana che non intende seguire Francesco Rutelli nella nuova impresa centrista fuori dal Partito democratico. Almeno per ora.

Rutelli ha lasciato il Pd denunciando il fallimento del progetto. Se ne andrà anche lei?
"Sono profondamente dispiaciuto dalla scelta di Francesco. È uno dei fondatori e ha creduto nel Pd più di me, all'inizio. Come allora forse ha avuto troppa fretta nel farlo nascere, così oggi è troppo affrettato nel dichiararlo fallito. C'è un fatto politico: nei gazebo hanno votato in tre milioni, nonostante tutte le traversie. Segno che i nostri elettori sanno che il Pd è nato e desiderano cresca bene. Non vogliono un Pd di Veltroni o di Bersani, ma il loro Pd. Un partito che sia uno strumento di partecipazione e non il megafono di un leader".

Anche lei, però, ha dato segni di insofferenza. Per la segreteria ha appoggiato Dario Franceschini. E ha fatto sapere di non sentirsi a casa in un Pd egemonizzato dagli ex ds...
"La sfida di Bersani è farci sentire tutti a casa. I grandi partiti popolari affrontano un congresso per arricchirsi: nessuno esce dal congresso così come è entrato, nessuno dei militanti, tantomeno può farlo il segretario. Bersani deve ricostruire un comune sentire del partito e apprezzare le differenze come una potenzialità del Pd. Deve organizzare un partito meno elitario e salottiero, meno condizionato dagli editoriali dei giornali e più vicino ai territori. È la carta che abbiamo per non fare la fine dell'Impero romano nell'era della decadenza, che aveva la presunzione di civilizzare il mondo e invece è stato cacciato dai barbari, come sta accadendo per noi in alcune zone conquistate dalla Lega".

Bersani ha ripetuto che sui temi etici serve una posizione unica del Pd. Lei condivide?
"La libertà di coscienza non può essere la foglia di fico che copre l'anarchia delle scelte. Ma sulla concezione della vita e della morte non decide l'iscrizione a un partito, ma il profondo della propria coscienza. È giusto e indispensabile avere una linea, ma ai singoli va riconosciuta la possibilità di esprimere la loro idea".

Altro retropensiero sulla segreteria Bersani: farà un partito di sinistra, lascerà all'Udc il compito di rappresentare il centro...
"Diamo tempo a Bersani di costruire il Pd, anche con il nostro contributo. Ma noi non possiamo assolutamente rinunciare a rappresentare i ceti moderati e i cattolici di questo paese. Per governare avremo bisogno dei loro consensi, non può essere un compito affidato a questo o quell'alleato".

Rutelli dice che voi ex dc siete irrilevanti nel Pd: "indipendenti di centrosinistra", vi chiama.
"Francesco mi conosce troppo bene, sa che non ho la vocazione a fare la mosca cocchiera. E il congresso dimostra nei fatti il ruolo che rivestiamo nel Pd. Siamo troppi per essere indipendenti o indifferenti. Al massimo, ingombranti".

Per dimostrarlo lei chiederà un incarico di peso?
"Cosa faremo insieme ce lo dirà Bersani. Ciascuno di noi non ha bisogno di gradi per contribuire alla crescita del Partito democratico, ma di una profonda e vera agibilità politica. E credo sia un'aspirazione legittima".

(05 novembre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Marco Damilano. Colloquio con Arturo Parisi
Inserito da: Admin - Gennaio 07, 2010, 11:49:37 pm
Commedia democratica


di Marco Damilano


Niente confronto. Niente primarie. Solo caccia ad alleanze per il potere.

L'ex ministro boccia Bersani. E accusa D'Alema.

Colloquio con Arturo Parisi
 

D'Alema? «Un professionista del "se po' fa", ricalca Andreotti. Dovrebbe almeno avere il coraggio di dirci che le primarie, la democrazia dei cittadini, per lui sono tutte boiate».
Bersani? «Apra un congresso che non c'è mai stato, perché il Pd è a rischio ». Arturo Parisi è allarmato dalla baruffa democratica sulle regionali, la considera l'anticipo di quello che succederebbe con il ritorno dei vecchi partiti. «Il cinismo di massa, il trasformismo. L'idea che tra destra e sinistra non ci sia più distinzione».

Perché questo clima da ultima spiaggia nel Pd ad appena due mesi dal congresso?
«La verità è che quello che chiamiamo congresso è stato tutto fuorché un congresso. Bersani aveva esordito dicendo che un confronto in contraddittorio tra i candidati avrebbe disorientato la nostra gente, meglio rinviarlo a dopo il voto dei circoli. Un'offesa all'intelligenza. Il tutto si è ridotto a tre monologhi di circostanza, svolti prima dei tg dell'ora di pranzo».

Proprio lei, l'inventore delle primarie, rimpiange le liturgie di partito?
«Di quei partiti ho molto rispetto ma nessuna nostalgia. Ma del confronto politico, sì, del valore che veniva dato alle parole, del senso storico delle scelte, talvolta prossimo al dramma, ma sempre comunque lontano dalla farsa».

Qual è la farsa in cui rischia di scivolare il Pd?
«Ripetere che al congresso ha vinto una linea e che quindi non va rimessa in discussione. Peccato che nessuno abbia avuto il coraggio di esplicitarla né prima né dopo, anche se intanto una linea veniva evocata in sottofondo, chiarissima».

Quale?
«Quella di Massimo D'Alema. È da mesi che mi aggrappo a una domanda: tutti sappiamo che D'Alema appoggia Bersani. Ma mi può dire Bersani se appoggia la linea di D'Alema?»

Come le ha risposto il segretario?
«Prima del voto con il silenzio. Dopo il voto con le parole di D'Alema. Come temevo, vedo D'Alema illustrare la sua linea a reti unificate, quasi che il segretario fosse lui».
Per citare una vecchia vignetta di Ellekappa: «D'Alema piange, dunque la linea è piangere».

Qual è la linea D'Alema, oggi?
«D'Alema parla chiaro, fin troppo: restituire ai partiti il loro ruolo centrale. Tornare alla democrazia della delega contrastando ogni tentazione di democrazia diretta dei cittadini. Abbandonare ogni illusione sulla preminenza del progetto e ridare forza ai soggetti, cioè ai partiti e ai capipartito, affidandosi alla loro saggezza e professionalità. Il ribaltamento del cammino di questi anni. Il peggio è che a parole si pretende di continuare a professare anche l'opposto. Le primarie, si dice, sono nel Dna del Pd, ma se poi si possono evitare, meglio. Oppure i governi debbono fondarsi sul voto degli elettori, ma se poi si può evitare di scomodarli, come in Sicilia, ancora meglio...».

Massimo D'Alema
In Puglia e altrove il Pd fatica sui candidati...
«In Sicilia non si capisce se siamo noi che li aiutiamo a governare, o loro che dovrebbero aiutarci a batterli. La Puglia, più che un laboratorio, rischia di diventare un modello per il Paese. La sola idea che la Poli Bortone possa guidare contro di noi la coalizione berlusconiana, dopo esserci stata proposta poco tempo fa come determinante per un'alleanza per il Sud, primo passo verso il fronte anti-berlusconiano lanciato da Casini, dice da sola dove conduce la politica del potere per il potere».

In che direzione?
«Al trionfo del trasformismo. Dopo mesi nei quali abbiamo cantato l'assoluta priorità del programma, sento ora il nostro Letta intonare il canto della priorità delle alleanze, ossia che l'unica cosa che conta è la vittoria. E questo nella regione di Tarantini e della D'Addario, della estesa commistione tra affari e sanità, senza che si capisca più quale sia la differenza tra destra e sinistra. Solo l'assoluto disinteresse per la Repubblica può spiegare perché si parta dalle alleanze e non dal cosa fare con gli alleati. Non so se continuando così perderemo. La mia paura è invece che ci perderemmo, anzi, che ci siamo già persi».

Anche l'Unione di Prodi andava da Bertinotti a Mastella. Che c'è di male ad allearsi con l'Udc?
«Nulla. Perché non dovrei confrontarmi con Casini, la cui qualità è assolutamente comparabile, e a volte superiore, a quella di molti miei compagni di partito? Il tema non è con chi, ma è su che cosa confrontarsi, e soprattutto perché incontrarsi».

Per alcuni dirigenti del Pd il modello Parisi ha consegnato l'Italia ai partiti personali, al berlusconismo...
«Quello che chiamano il mio modello è la democrazia maggioritaria, la democrazia chiesta coralmente dai cittadini in due referendum. Ed è quello che ha consentito al centrosinistra di vincere due volte le elezioni. Se in quel modello Berlusconi ha vinto è perché ha messo in campo un progetto nuovo con un soggetto nuovo. Noi invece abbiamo spesso detto di giorno cose che abbiamo contraddetto di notte».

La recente assemblea del Partito Democratico
Cosa dovrebbe fare D'Alema per sciogliere la contraddizione?
«Vuole cambiare il modello? Bene. Abbia il coraggio di dirlo con chiarezza: "Tredici anni fa a Gargonza, ho cercato di spiegarvelo con gentilezza. Visto che non capite, ve lo dico ora come meritate. Le primarie, il maggioritario, la democrazia dei cittadini? Sono tutte boiate". La ricreazione è finita».

Il suo è lo sfogo di un politologo, replicherebbe lui, ora deve tornare la politica...
«Ma la crisi della politica è prima di tutto crisi dei politici. La realtà è che nemmeno D'Alema pretende più di parlare a nome di un'aristocrazia, ma solo come espressione al più di una corporazione. Le virtù che mette in campo non sono le grandi virtù dei tempi delle grandi scelte, ma le piccole virtù dei professionisti del "se po' fa", dei politici che sanno con chi e come si può trattare su ogni cosa, quelli che ricalcano il proprio profilo su quello di Andreotti. Ma Andreotti ha elaborato il suo realismo per conservare un potere che deteneva. Qui si pretende invece di imitarlo per conquistare un potere che non abbiamo».

In caso di sconfitta alle regionali torna in pericolo la vita del Pd?
«Vinca o non vinca questo Pd a rischio lo è già. Se nella stagione rosa dell'idealismo il rischio fu la retorica e la propaganda, la delega ai professionisti rischia ora di portarci sulla scia del loro realismo al cinismo di massa, al trasformismo. Come il clericalismo per la religione, è il politicismo che affossa la politica, che è progetto, mobilitazione delle coscienze, orientamento delle passioni».

Ecco Parisi, la solita Cassandra...
«Io sento il peso di giornate che si consumano nella menzogna. L'anno appena finito è stato segnato come mai dalla resa. La resa all'omologazione: tutti sono uguali. La resa all'idea che il Sud è il Sud ed è meglio farsene una ragione, che l'Italia è l'Italia e di più non può dare. E alle spalle non abbiamo più, come ai tempi dell'Ulivo, una società in crescita che sentiva la "Canzone popolare", come il canto di una marcia contro il blocco della vecchia politica. Oggi non dobbiamo solo liberare la società dal blocco della politica, e non basta neppure rimuovere Berlusconi. La crisi è di una società più povera non solo sul piano economico, ma culturale, civile, morale. Nel pieno della sua crisi, perfino privata, Berlusconi ha disvelato la crisi che coinvolge tutti. E noi del Pd pensiamo davvero che una cooperativa di professionisti, validata da una delega per di più neppure esplicita, sia in grado di affrontare questa tempesta?».

Già: cosa può fare un povero segretario di partito, Bersani, in queste condizioni?
«Bersani deve farsi carico per primo di questa domanda. Ora non è più quel saggio ministro che ha dimostrato di essere, è il capo politico del partito. Apra lui ora quel congresso che non c'è mai stato. Ha la piena responsabilità e tutte le capacità per essere quel che è richiesto a un segretario. Le primarie non lo hanno chiamato ad essere nel Pd quel che Cesa è nell'Udc...».

Scommette ancora su questo Pd?
«Un partito è una comunità di persone. Se avremo finalmente il coraggio di aprire un confronto vero, riconoscendo che il partito nuovo che avevamo annunciato non è ancora nato, sapremo ritrovare i sentimenti e le parole che ci hanno scaldato i cuori».

(07 gennaio 2010)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Marco DAMILANO - È asse tra Fini, Casini e D'Alema. Per fermare il Cavaliere
Inserito da: Admin - Gennaio 15, 2010, 02:53:04 pm
La triplice santa alleanza


di Marco Damilano

Regionali. Giustizia. Nuove regole.

È asse tra Fini, Casini e D'Alema. Per fermare il Cavaliere
 

Invocano in pubblico lo Spirito Santo, che venga ad assisterli, «perché il suo popolo non perisca nel male», come recita l'antico canto liturgico. Lo chiama in soccorso Gianfranco Fini, durante un eccitante convegno sulla legislazione, che il presidente della Camera utilizza per lanciare il primo siluretto del nuovo anno all'indirizzo di Silvio Berlusconi: «È una mitologia pensare che si possa governare facendo affidamento solo sul voto popolare e scavalcando il Parlamento». Parole non casuali, nelle ore in cui l'avvocato del premier Niccolò Ghedini cucina il nuovo marchingegno salva-Berlusconi: un decreto, subito ritirato, che sospendeva i processi del Cavaliere per tre mesi, giusto il tempo della campagna elettorale. Accanto a Fini il predecessore Pier Ferdinando Casini annuisce vistosamente. E quando Fini nomina lo Spirito, Casini si unisce: «Abbiamo bisogno di essere illuminati ».

La terza persona della Trinità non c'è, è rappresentata nella sala della Lupa da Luciano Violante. Ma gli altri due lo tengono ben presente: l'ex premier, aspirante presidente del Comitato parlamentare sui servizi segreti, Massimo D'Alema. Perché tocca a loro, alle tre volpi ingrigite della Seconda Repubblica, provare a modificare nelle prossime settimane lo schema della politica italiana. Marciare divisi, almeno nella maggior parte dei casi, per colpire uniti. Con l'ambizione comune di scompaginare gli attuali schieramenti, regolare i conti interni, ridisegnare le regole del gioco. Fino a costituire un partito, trasversale. Un Tripartito. Il Tripartito Fini-Casini-D'Alema è già entrato in azione, almeno a dare retta alle voci che accompagnano il convulso rebus delle candidature alle elezioni regionali. «Se Emma Bonino nel Lazio dovesse perdere c'è una parte del Pd che già si prepara tra pochi mesi ad entrare in giunta con Renata Polverini», ha confidato ad alcuni amici un importante dirigente del Pd romano. Nella vertiginosa eventualità che pochi mesi dopo il voto si possa verificare una spaccatura tra l'ala berlusconiana del Pdl e gli uomini di Fini più vicini alla segretaria dell'Ugl candidata alla presidenza del Lazio, sostenuta dall'Udc di Casini. Roba da fantapolitica. Se non fosse che l'incredibile scenario ha appena preso corpo in Sicilia. Qui il governatore Raffaele Lombardo, eletto 20 mesi fa con il 65 per cento dei voti con una coalizione di centrodestra, ha ribaltato la sua maggioranza, ha scaricato mezzo Pdl e ha messo su una nuova giunta con l'appoggio esterno di una parte del Pd. A benedire l'operazione, la settimana scorsa, è volato il presidente della Camera in persona, ospite di Lombardo a Palermo per una festosa colazione a base di tè e biscotti: «Un laboratorio importante, per fare finalmente le riforme che la Sicilia attende da anni», ha approvato Fini.

D'Alema con Lombardo aveva già parlato, assicurando il suo occhio di riguardo per la manovra. E infatti il capogruppo del Pd all'Assemblea regionale siciliana Antonello Cracolici, dalemiano di stretta osservanza, è il sostenitore più sfegatato del ribaltone. E pazienza se il partito si è diviso in quattro. L'Udc di Casini non c'è, per ora è stato escluso dall'accordo. Ma il purgatorio centrista, si può scommettere, non durerà a lungo. Perché intanto Pier ha portato a casa un risultato di bandiera: in Sicilia i due schieramenti storici non ci sono più. Estinti. Polverizzati. Al loro posto, la nuova politica. Quella che si vorrebbe costruire nel resto d'Italia. L'era dei partiti Avatar. Con una faccia da mostrare agli elettori. E i leader che manovrano indisturbati le loro creature virtuali nella sala di comando, al riparo da primarie, elezioni dirette, suggestioni obamiane e altre americanate. Laboratorio della nuova stagione è il Lazio, dove Fini e Casini si sono alleati sotto le bandiere della Polverini e D'Alema sostiene la Bonino. «Sparge sale sulle ferite», spiega un deputato del Pd: «Azzera il gruppo dirigente romano, ancora di fedeltà veltroniana. E si intesta la paternità della candidatura radicale: se la Bonino vince Massimo dirà che è stata un'idea sua, se perde riscuoterà la gratitudine di Fini e Casini che l'hanno presa come una desistenza mascherata: un nome di prestigio ma non imbattibile a Roma, dove il voto dei preti conta qualcosa».

E dire che il capogruppo del Pd in Campidoglio, Umberto Marroni, ultra-dalemiano, non voleva sentirne parlare: «Candidare la Bonino nel Lazio? Sarebbe come mettere un dito nell'occhio al Vaticano ». Fedele alla linea togliattiana dell'incontro con i cattolici: non informato del contrordine compagni, evidentemente. Più complicato per gli scienziati delle nuove alleanze far reagire le alchimie della politica in Puglia. Qui l'asse si sposta: D'Alema e Casini da una parte, Fini dall'altra. Massimo e Pier da mesi sognano di costruire la nuova Santa Alleanza. «La sinistra blairiana e il centro riformista», sintetizza Angelo Sanza, plenipotenziario dell'Udc nel Tavoliere. C'era un piccolo ostacolo da rimuovere, l'attuale governatore Nichi Vendola. Inviso a entrambi: Casini, si racconta, per l'ostilità di Nichi il rosso alla privatizzazione dell'Acquedotto pugliese che fa gola al gruppo Caltagirone, D'Alema per la rapidità con cui Vendola ha licenziato dalla sua giunta gli assessori (dalemiani) lambiti dalle inchieste sulla sanità. Tra i due il più duro con Vendola, a sorpresa, è il suo ex compagno di partito D'Alema, mentre Casini forse avrebbe potuto appoggiarlo, come in Piemonte con Mercedes Bresso. E invece D'Alema è riuscito a trascinare tutto il Pd nazionale nella contesa sul suo territorio: in altre regioni in bilico, il Lazio, la Campania, la Calabria, attendono la fine della guerra pugliese. Clan e tribù, una situazione balcanica in cui ora l'ex premier confessa di non capirci più tanto neppure lui: come se il maresciallo Tito assistesse da vivo alla frantumazione della Jugoslavia. E il rivale Vendola ironizza ferocemente sulle sue qualità di stratega: «D'Alema è partito con il realismo. Poi è passato all'iper- realismo. Ed è arrivato al surrealismo».

Il terzo uomo, il presidente della Camera, si è tirato fuori dalla bagarre delle regionali, chiusa per lui con piena soddisfazione: Renata Polverini candidata nel Lazio (con il sì di Casini), Giuseppe Scopelliti in Calabria, e lo spettacolo di un Pdl a corto di personalità quando deve cercarle tra gli ex Forza Italia. «In una regione simbolo come la Campania non si è trovato un nome più forte del socialista Stefano Caldoro», fa notare l'intellettuale di Farefuturo Alessandro Campi. Ma per la terza carica dello Stato il problema resta il rapporto con Berlusconi. Sulla questione giustizia, scelta dal Cavaliere - come poteva essere altrimenti?- come terreno per riportare il partito sotto la sua leadership. In quarantott'ore la recita del dialogo, messa in scena per tutte le vacanze di Natale, si è rivelata per quello che era: una presa in giro. Al suo posto, la solita girandola di provvedimenti ad personam: il processo breve al Senato, peggiorato dall'emendamento dell'ex An Giuseppe Valentino, che estende la tagliola dei tempi dalle persone fisiche a quelle giuridiche, società del premier comprese.

E poi l'ipotesi di un decreto per sospendere i processi per tre mesi, escogitato da Ghedini, che aveva riportato alle stelle la tensione tra Palazzo Chigi e il Quirinale. Risultato: commissioni e aule parlamentari intasate da leggi sempre più macchinose, costrette a discutere di un solo tema, la giustizia. L'unico che stia davvero a cuore a Berlusconi. Un'ossessione. Una bulimia. Come dimostra il simpatico dono distribuito dal premier ai presenti durante il vertice a Palazzo Grazioli di ripresa delle attività: al posto di banali orologi, un fascicoletto con il sunto di un capitolo dell'ultimo libro di Bruno Vespa, quello dedicato al processo Mills, con l'autodifesa di Berlusconi, la stessa che difficilmente potrà essere ascoltata in tribunale. Un bignamino da imparare a memoria e ripetere in tutte le sedi. Non facile per Fini fare da argine al Cavaliere scatenato. Sul decreto Ghedini il presidente della Camera ha posto un'unica condizione per farlo passare, in sintonia con le preoccupazioni di Giorgio Napolitano: «Il presidente firmerà il decreto, io ti darò copertura politica. Ma tu devi far ritirare il processo breve al Senato che sta provocando la reazione di tutto il mondo giudiziario. Non puoi volere tutto», ha spiegato Fini a Berlusconi. Niente da fare: il premier non si fida, i sondaggi gli hanno restituito forza, vuole chiudere la partita con tutti i mezzi a disposizione. Un inasprimento che rende ancora più urgente per Fini l'esigenza di trovare nuovi alleati, uscire dal recinto del Pdl, sempre più soffocante. La settimana prossima il presidente della Camera riceverà a Montecitorio il cardinale Camillo Ruini, unico cervello politico della Chiesa in servizio. Un incontro che segna la fine di mesi di freddezza tra Fini e i vertici ecclesiastici, dopo le polemiche sul testamento biologico, molto gradito da Casini.

E con D'Alema continua il lavoro delle fondazioni Farefuturo e Italianieuropei. «Il presidente della Camera è il motore delle riforme, il catalizzatore del dialogo», spiega il leader dell'Udc. Sulla legge elettorale tedesca, che piace a Casini e a D'Alema, Fini in passato si è dimostrato poco entusiasta. Ma potrebbe cambiare idea: un pragmatico come lui non si impunta su un modello istituzionale. Ed è in ottima compagnia. Fini, Casini e D'Alema sono tre professionisti di partito che marciano in parallelo da più di trent'anni, da quando Massimo dirigeva la Fgci, Gianfranco il Fronte della Gioventù e Pier il movimento giovanile della Dc. Ora sono alla svolta di una lunga carriera. Costruire l'asse portante di un nuovo sistema o rassegnarsi a un futuro di notabilato. Possono diventare il triangolo magico della Terza Repubblica, se mai nascerà. O finire per rappresentare il volto di una politica senza più baricentro.

(14 gennaio 2010)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Marco DAMILANO - Così il leghista conquista il Veneto
Inserito da: Admin - Marzo 18, 2010, 10:49:49 pm
Gran buffet Zaia

di Marco Damilano


Un libretto elogiativo a spese del ministero.

Ricchi incarichi al clan di Treviso.

Boom di eventi per il cuoco di fiducia.

Così il leghista conquista il Veneto
 

Si vanta di aver preparato il prosecco per George Clooney e il baccalà per Werner Herzog, ha gestito catering alla Mostra del cinema di Venezia e alle Olimpiadi di Vancouver, ma nessuno è profeta in patria e di Tino Vettorello, in Veneto, sanno ben poco. "Ciao a tutte le sposine! Ho sentito parlare del catering Tino Eventi di Treviso, ma non ho trovato informazioni. Qualcuna lo conosce?", si informa la futura sposa Chiara sul forum Matrimonio.it. Passa qualche settimana e risponde Chivan: "Ho lavorato con loro. Da fuori tutto appare ben curato, il servizio al tavolo, l'insieme armonioso. E invece non hanno una grande organizzazione e neppure un grande rispetto per le persone". Conclude Chiara: "Ci hanno fatto perdere un mese. Trattano male i dipendenti e anche i clienti". A meno che non ti chiami Luca Zaia e di mestiere fai il ministro delle Politiche agricole. Perché Tino, incontentabili queste ragazze, è il ristorante preferito dove il ministro della Lega ama mangiare e ricevere. Ed è un tassello importante del suo sistema. Quello che ha trasformato lo sconosciuto Vettorello, macellaio di San Polo di Piave con locale a Ormelle, in una macchina da soldi. E che ora gira a pieno regime per raggiungere l'obiettivo della vita: portare l'ex ragazzo di Godega alla conquista del Veneto, tramutarlo nel Doge del Carroccio.

"Par el so' 'vivo interessamento'/casca la neve, cresse el frumento/nasce i putini, more i porsei, canta la lòdola, se mucia i schei...", recitava una filastrocca degli anni Settanta quando il bello e il cattivo tempo in regione lo faceva Antonio 'Toni' Bisaglia, il padrone della Dc, gran intenditore di grappe, una montagna di preferenze. Sul frumento e sui porsei, i suini, ci siamo, gli schei non mancano. Rispetto alla ricetta degli antichi maestri dorotei, che non amavano l'apparire, Zaia il giovane ha introdotto due novità: la cura ossessiva della propria immagine. E l'attenzione privilegiata per la sua provincia, il trevigiano, e per i suoi sodali. Ben ricompensati per la fedeltà.

Una settimana fa, con la Lega che in Veneto vola nei sondaggi, quasi dieci punti sopra il Pdl, la Procura di Venezia ha chiesto di saperne di più sull'opuscolo 'Il Welfare dell'Italia'. Stampato a spese del ministero, fa parte dell'accordo tra Buonitalia e Federsanità per "promuovere la dieta mediterranea". Costo: 3 milioni di euro. Il libretto, 32 pagine, 500 mila copie in italiano e in inglese, si legge nel contratto, sarà diffuso "con distribuzione di massa in Italia e in America". Per ora è arrivato in massa nelle case delle famiglie venete, in piena campagna elettorale. Copertina: Zaia in gessato scuro e fazzoletto verde di ordinanza, che brinda con un calice di vino. Titolo: 'La salute vien mangiando'. E siccome viene anche l'appetito, ecco le foto del ministro tra forme di parmigiano, tartufi, frutta e salumi. Altro che dieta mediterranea, un'abbuffata di voti, si spera. Grazie all'involontario contribuente.

Il ministro nega indignato ogni responsabilità e reclama chiarimenti. Non sarà difficile averne, dato che il libretto è stato prodotto in casa. La Federsanità è presieduta da Angelo Lino Del Favero, direttore generale dell'Asl 7 Veneto Pieve di Soligo, in provincia di Treviso, un feudo del ministro-candidato. E il committente del progetto è il presidente di Buonitalia Walter Brunello. Trevigiano doc anche lui, naturalmente. Come il radicchio. E come Zaia.

Doppiezza padana: in Veneto sbraitano contro Roma ladrona, nella capitale non disdegnano le delizie di Roma godona. Macchine ad alta cilindrata, appartamenti in centro, stipendi da favola, voli in business class. Favori, regalie, elargizioni agli amici degli amici. Viva il campanile, a spese dello Stato.

Buonitalia, società del ministero delle Politiche agricole interamente pubblica, nata nel 2002 per valorizzare l'agroalimentare made in Italy, è il cuore del sistema Z. Il motore, la centrale operativa. Il primo anello della catena clientelare, pardon alimentare. Perfino il sito della società, a lungo oscurato, è stato ristrutturato un mese fa, giusto in tempo per le elezioni, affidato alla City Center, agenzia di Treviso, che cura la comunicazione della gloria locale, indovinate chi. Se clicchi sopra il credit ti rimandano direttamente al sito di Zaia, così non si perde tempo. E Brunello, il presidente di Buonitalia, è un perfetto esemplare della nuova razza padana, il leghista di lotta e di sottogoverno.

Una carriera all'ombra di Zaia: con Luca vice-presidente del Veneto, è il responsabile dell'azienda regionale di promozione turistica. E quando il suo padrino in camicia verde approda al ministero di via XX settembre, nel 2008, Brunello lo segue a Buonitalia. A Paese, il centro del trevigiano dove risiede, tiene parcheggiata o a disposizione della moglie l'auto di servizio, una Bmw X3 bianco latte ("Come quella del ministro", raccontano). A Roma, dove guadagna 160 mila euro l'anno più l'affitto di una casa in centro, si sente un novello Marco Polo sulla via della Seta e si allarga: l'ultima assunzione è il leghista tirolese Franz Mitterrutzner, nominato direttore con un contratto di quattordici mensilità e quasi 8 mila euro al mese per non meglio precisati incarichi ("Assistere il presidente sia in fase preparatoria che durante lo svolgimento delle riunioni di lavoro..."). E può contare su una formidabile leva economica a sua disposizione: 50 milioni di euro per progetti di promozione dell'agroalimentare, stanziati già nel 2005 dal ministero dell'Agricoltura insieme all'Economia e mai spesi, in attesa dei bandi di gara.

Con Zaia e Brunello la musica cambia e partono i finanziamenti. Sponsorizzazioni. Tour promozionali. Contributi a pioggia, su cui arrivano le interrogazioni del deputato Pd Emanuele Trappolino. Progetti per lo più gestiti dall'Aicg, l'associazione che raggruppa alcuni consorzi alimentari, dove gli uomini di Zaia sono ben rappresentati: ai rapporti istituzionali c'è il trevigiano Luca Giavi, l'uomo del radicchio, a occuparsi dei progetti Buonitalia il direttore del consorzio prosciutto di San Daniele, Mario Cicchetti.

Un pacchetto che si ripete: affidamento del progetto, società e agenzie per allestimento e catering, quasi sempre le stesse. La veneta Publitour cura gli allestimenti, per esempio. Ma il vero beneficiario di Buonitalia, nella quasi totalità dei casi, è lui, il cuoco di Odelle, il Vissani della Lega, il ruspante Vettorello. La sua Tino, nata nel 2007 con un unico socio, Vettorello, e appena sette dipendenti, nel 2008 quando Zaia diventa ministro decolla. È lui che cura i pacchi dono del ministero a Natale. Ed è lui, soprattutto, che fa il pieno degli eventi targati Buonitalia: catering degli stand ai Mondiali di nuoto (insieme alla Relais di Stefano Ottaviani, genero di Gianni Letta), della Mostra del cinema di Venezia, degli Internazionali di tennis e del giro d'Italia. Solo nell'ultimo mese una tripletta: i suoi camerieri con il logo Tino Eventi hanno sfamato gli atleti italiani alle Olimpiadi a Vancouver, i visitatori della Bit a Milano e della fiera internazionale del biologico a Norimberga. Povero Tino, non ha più tempo per organizzare neppure un matrimonio come si deve. Per fortuna alla guida della regione sta per arrivare l'amico Zaia. E allora sai che tavolate.

(18 marzo 2010)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Marco DAMILANO - Maratoneta Bersani
Inserito da: Admin - Marzo 25, 2010, 10:17:56 pm
Maratoneta Bersani

di Marco Damilano


Il Pd è già in ripresa. E prepara l'alternativa. Ma il tramonto del berlusconismo sarà un percorso lungo e agitato, non una bolla che scoppia all'improvviso. Intervista al leader del Partito democratico
 
Alla fine della campagna elettorale più pazza del mondo, la lista del Pdl esclusa a Roma, i talk show della Rai oscurati, i ministri in corteo, il segretario del Pd Pier Luigi Bersani, alla sua prima campagna da leader nazionale, ragiona sul dopo voto: "Berlusconi ha di nuovo spinto sull'acceleratore della sua anomalia populista. Ancora una volta la scelta di campo, il bene e il male, con me o contro di me. Ha fatto il capopopolo, il capolista, il caporedattore del Tg1, tutto tranne che il capo del governo. Con in più il giuramento dei candidati governatori nelle mani dell'Imperatore, gli insulti ai questori, la restrizione degli spazi di informazione, la riduzione della politica a comizio: il suo". E il Pd? "Si è percepita una nostra capacità di ricomporci, di metterci all'altezza della sfida", afferma Bersani, prudente: "I motori hanno cominciato a girare. Diciamo la verità: solo due mesi fa nessuno ci avrebbe scommesso un euro. Erano i giorni in cui si parlava di caos nel partito. Ma io ero sereno".

Bill Emmott ha scritto che "la bolla Berlusconi sta per scoppiare": condivide?
"Penso, e non da oggi, che Berlusconi non può più tirare la palla avanti, non ha più niente da dire sul futuro. È un surfista, sta sull'onda, ma prima o poi l'onda incontra la spiaggia. Il partito che ha fondato sul predellino è sbandato alla prima curva. Questo è importante anche per noi, dobbiamo sapere che per batterlo serve il passo dell'alpino. Però voglio essere sincero: sono un ottimista strategico, ma non credo a uno scoppiare delle bolle...".

Berlusconi ha trasformato il voto regionale in una scelta di campo: in caso di sconfitta dovrebbe dimettersi?
"Non andiamo al voto per chiedere la caduta del governo. Ci aspettiamo che gli italiani scrivano al presidente del Consiglio una brusca letterina: così le cose non vanno. Nel caso le cose dovessero andar male per loro vedremo cosa succederà nel loro mondo. Mi sembra che da quelle parti, penso a Fini o alla Lega, non ci sia una grande chiarezza su cosa fare dopo il voto".


Che timidezza, segretario. Sembra quasi che lei tema un crollo improvviso del berlusconismo che potrebbe piovervi addosso.
"Nessuno si illuda che il tramonto del berlusconismo sia un processo lineare. Sarà invece un percorso agitato, e avrà un carattere di pericolo. Più sentirà il consenso sfuggirgli di mano, più Berlusconi cercherà di stringere i bulloni. Noi dobbiamo saper cogliere questa fase di crisi non essendo speculari. Dobbiamo dire la nostra su come vogliamo la fase successiva, il dopo".

Lei sta battendo molto sulla Lega: "Che pena vedere il Carroccio che tiene la sedia dell'Imperatore", ha esclamato l'altro giorno alla Camera. Se Bossi dovesse vincere in Veneto e Piemonte il rischio secessione diventa concreto?
"La rottura dello spirito civico, la frantumazione corporativa, l'atomizzazione della società, la fine della solidarietà tra le diverse regioni sono fenomeni molto profondi cui non si possono dare risposte retoriche, la Lega è solo una parte di questa vicenda. Se andiamo al cuore, Berlusconi regge perché esiste la Lega. È la Lega che deve spiegare come mai da partito anti-burocratico e moralizzatore si è ridotto a votare tutte le più vergognose leggi ad personam".

Cosa ha pensato quando ha visto Berlusconi e Bossi abbracciati sul palco di Roma?
"Mi hanno fatto venire in mente una canzone di Vasco Rossi: "Toglimi di dosso quelle mani che mi dai". Bossi è determinante per la tenuta del governo e detta le scelte. Qualche mese fa Berlusconi voleva le elezioni anticipate e Bossi glielo ha impedito. "Stai fermo lì", gli ha detto. Prende tempo e si prepara al dopo anche lui. Ora vuole vincere le regionali, e poi...".

E poi? Cosa c'è nel day after delle regionali? Per Berlusconi c'è il presidenzialismo.
"Non prendiamolo solo sul serio, facciamo almeno metà e metà. Lui stesso non ha le idee chiare, non sa che fare... Per noi al primo posto c'è la riforma della legge elettorale. Quella attuale fa schifo, lo dicono tutti. Cambiamola sulla base di un criterio: restituire ai cittadini il potere di scegliere i parlamentari, con riferimento al territorio. Qualcosa di simile al Mattarellum, che dia spazio ai collegi uninominali. Discutiamo di riduzione del numero dei parlamentari, federalismo, costi della politica. E confrontiamoci sulle riforme economiche e sociali".

Chi sono gli interlocutori? Fini? La Lega? "Io guardo con grandissimo interesse a chi intende non andare alla deriva plebiscitaria, a tutti quelli che hanno a cuore un moderno taglio costituzionale. Dobbiamo accorciare le distanze con quel mondo che si sta allontanando da Berlusconi".

Da "Italia Futura" di Luca Cordero di Montezemolo è arrivato un appello all'astensione. È un altro segnale di crisi del berlusconismo?
"Ci sono settori di gruppi dirigenti, e non mi riferisco tanto a Montezemolo, che sono rapidamente passati dalla fase del turibolo, l'incensamento del governo, alla denuncia che la politica litiga, che sono tutti uguali, che non fanno le cose che interessano alla gente. Io respingo queste critiche al mittente: non è consentito a nessuno di fare di tutta l'erba un fascio. C'è un'opposizione che da mesi chiede al governo di discutere sui temi concreti, inascoltata. E c'è una maggioranza che ha in mano tutto, cento voti di scarto alla Camera, e non realizza nulla. Se finalmente qualcuno ha trovato il coraggio di dire che le cose non vanno sa con chi prendersela".

E voi del Pd? Cosa farete fino al 2013?
"La cosa più importante è metterci politicamente in una chiave di futuro. Solo così possiamo accelerare la convergenza con altre forze che vogliono aprire una nuova fase. Dobbiamo essere pronti. E dobbiamo lavorare per rendere credibile quello che c'è".

Non vi sentite ancora pronti? Non siete ancora credibili? Ammissione onesta ma pesante...
"Ragazzi, non lo dico io! Sono gli italiani che in più di un'elezione hanno detto che non siamo a posto. Le elezioni regionali sono una tappa importante per dire che abbiamo fatto un passo avanti decisivo, che c'è un'inversione di tendenza. Abbiamo saldato il viola con il blu e il rosso, la legalità e i diritti, la democrazia e il lavoro. Se dividiamo queste due questioni per noi è la fine. Se sono unite, abbiamo la prateria".

Qual è stata la difficoltà più grande di questi primi mesi di segreteria?
"Temevo che non si riconoscesse il filo logico della nostra azione. Il rischio che tutto fosse scambiato per un'azione politicistica. Ma io ero tranquillo perché sapevo che alla fine saremmo stati competitivi. Oggi abbiamo una presenza forte del Pd, ma non esclusiva, abbiamo compattato le forze di opposizione, arrestando la divisione, lo sbandamento, quello che sui giornali avete chiamato caos".

Però il caos c'era davvero. In Puglia gli elettori erano molto più agitati e hanno sconfessato l'intero gruppo dirigente. Nel Lazio Emma Bonino si è candidata da sola. A Bologna il sindaco si è dimesso dopo un anno...
"Veniamo da una fase dove abbiamo navigato in acque agitate. Le sconfitte elettorali, la fase congressuale. C'era da costruire un clima in cui tutti insieme nel Pd fossimo responsabili di quello che era avvenuto, compresi gli errori. Così come mi auguro che dopo il voto ci sia una responsabilità collettiva di quello che abbiamo fatto tutti insieme in queste settimane".

Con quale risultato si sentirebbe al sicuro?
"La maggioranza delle regioni in palio. Un obiettivo che appena due mesi fa sembrava irraggiungibile".

Se il miracolo si compie griderà: "Ho vinto io"?
"Sono un segretario che non si toglie i sassolini dalle scarpe. Se cammini e corri non si sentono...".

Sulle alleanze avete fatto la giravolta: eravate partiti all'insegna dell'asse con l'Udc di Pier Ferdinando Casini, vi ritrovate in coppia con Di Pietro...
"Suggerisco di vedere le cose per il lungo. Quando si parla di Udc non si deve dimenticare che alle ultime elezioni regionali i centristi erano ovunque alleati con la destra e oggi sono in parte da soli, in parte con noi e solo in alcune regioni vanno con il Pdl. Una fetta di elettorato moderato non va più dietro Berlusconi. E non solo per tattica".

Però la Cei è intervenuta sull'aborto, invitando di fatto i fedeli a non votare per la Bonino. Avete rinunciato a rappresentare anche i cattolici?
"Non vogliamo incrociare il messaggio della Chiesa solo sul versante sociale. Esiste un tema antropologico, una questione enorme alla frontiera tra la vita e la morte, c'è la necessità di un confronto tra i grandi umanesimi che affondano nel personalismo cristiano, e a noi in questa discussione interessa esserci. Il punto è che la Chiesa ha il dovere di indicare i principi non negoziabili, anche con radicalità. Ma l'autonomia della politica è ragionare sulle soluzioni più utili, trovare decisioni transitorie e fallibili, magari con sofferenza. La legge 194, ad esempio, è un punto di equilibrio. In questi anni gli aborti in Italia sono diminuiti, prima c'erano più aborti e più sofferenza. Utilizzare tecniche meno invasive per il corpo della donna non significa banalizzare il dolore di una scelta. La Chiesa ha il diritto di ribadire la sua posizione, ma dietro l'aborto ci sono millenni di clandestinità, lavoriamo tutti insieme per limitare questo dramma".

In molti vorrebbero vedere Bonino e Vendola nel Pd: dopo il voto riaprirà le iscrizioni?
"Al congresso dissi che il Pd avrebbe dovuto essere il protagonista della costruzione di un campo largo dell'alternativa, senza pretendere di assimilare tutti. Con la Bonino e i radicali c'è un rapporto amichevole, franco, di autonomia reciproca. Non sono biodegradabili ed è un complimento. Per Vendola il discorso è diverso: vedo una prospettiva comune tra noi e lui. Via via, nei modi giusti, senza annessioni, dobbiamo riaprire il cantiere del partito".

Non abbiamo mai nominato D'Alema e Veltroni: la ruota gira anche per loro?
"Chi c'è, chi non c'è, chi comanda davvero nel Pd... sono tutte polemiche mediatiche. C'è bisogno di tutti e tutti devono aiutare a far girare la ruota".

Di lei Giuliano Ferrara ha scritto: "Bersani è una cara persona, un emiliano, gente seria ma inetta nella guerra, nella comunicazione politica". A urne chiuse si dovrà ricredere?
"Non c'è bisogno di aspettare l'esito del voto. Mussolini, Nenni, Dossetti e oggi Prodi sono tutti della mia regione. È che spesso non ce lo fanno fare. Ma quando c'è da combattere, combattiamo".

(25 marzo 2010)
da epresso.repubblica.it


Titolo: Marco DAMILANO - L'analisi severa del presidente Pd Rosy Bindi
Inserito da: Admin - Aprile 01, 2010, 07:43:34 am
Cronaca di una Waterloo

di Marco Damilano

Mancanza di un progetto alternativo a Berlusconi e Bossi.

Incapacità di interpretare il rapporto con la società.

L'analisi severa del presidente Pd Rosy Bindi
 


Non c'è un dato economico e sociale del Paese che sia migliorato, dovrebbero perdere voti. E invece loro acquistano consensi e noi siamo lì, fermi. Non siamo riusciti a trasmettere un'idea di società alternativa a quella su cui Berlusconi e la Lega prendono i voti».

L'analisi delle regionali di Rosy Bindi, presidente del Pd, è preoccupata: il centrosinistra perde perché da tempo ha smarrito il contatto con la società italiana. Qualcosa di molto più profondo e radicale di una semplice défaillance del Pd, che non si risolve con un cambio al vertice: «Per favore, non ricominciamo con il tormentone. È dal 2007 che ogni anno mettiamo in discussione la leadership. Fermiamo questa corsa suicida. E torniamo a riflettere, con serietà, su cosa è successo in Italia negli ultimi vent'anni».

Lei conosce e combatte la Lega almeno dall'inizio degli anni Novanta, quando era segretaria della Dc veneta, ha assistito all'alba del fenomeno. Oggi cosa c'è nel voto del Nord per il partito di Bossi?
«La Lega resta un movimento di protesta capace come nessun altro di interpretare le inquietudini del suo elettorato, in un tempo segnato dalla paura. Lucra voti senza risolvere i problemi, senza portare a compimento nessuna riforma. Non c'è più sicurezza in questo Paese, e non c'è il federalismo. Eppure la gente continua a votarla. La stessa cosa che succede per Berlusconi: nonostante l'evidente declino della sua leadership, nonostante il fallimento del suo governo, nessun italiano oggi può dire di stare meglio di ieri, scopriamo che trasformare le elezioni regionali in un referendum sulla sua persona ancora una volta ha funzionato. Dobbiamo chiederci il motivo».

Forse perché voi dell'opposizione fate peggio di lui. In Francia l'astensionismo ha colpito il centrodestra al potere, qui colpisce anche la minoranza e il Pd.

«Non condivido un giudizio così netto. Rispetto alle elezioni europee siamo riusciti a evitare di farci chiudere nella trincea delle regioni centrali, non siamo la Lega appenninica come qualcuno ci rappresenta. Ma non sfuggo al problema: anzi, è proprio questo il punto fondamentale da cui deve partire la nostra riflessione. Perché se il Paese sta male, se non c'è un lavoratore o un imprenditore che possa sentirsi gratificato da questo governo, Berlusconi e la Lega continuano a vincere? E rendono marginali i politici più responsabili del centrodestra come Gianfranco Fini, che gode del mio apprezzamento ma è in posizione minoritaria nel suo partito».

Qual è il loro segreto? O la vostra colpa?
«Me lo vedo già il dibattito interno al mio partito. Coalizione sì coalizione no, andare con Di Pietro o con Casini, organizzati sul territorio o con Internet... Io spero invece che si abbia il coraggio finalmente di alzare il tiro. La partita è culturale, si gioca su un'idea dell'Italia. È qui che noi veniamo a mancare: finora noi non siamo riusciti a trasmettere un'idea di società alternativa a quella su cui Berlusconi e la Lega prendono i voti. Dobbiamo reinterpretare il rapporto tra politica e società».

Forse per trasmettere un'idea diversa dovreste partire da una diversa classe dirigente. Bersani sarà messo in discussione?
«Sarebbe un errore gravissimo. Guardi, è dal 2007 che perseguiamo questa strada. Quell'anno il centrosinistra perse un turno di elezioni amministrative, si disse che il governo Prodi era finito e si passò a eleggere Veltroni segretario del Pd con le primarie. Poi Veltroni ha perso in Sardegna e si è dimesso, e così via. Ogni anno cambiamo leader, ora non ricominciamo con il tormentone. Fermiamo questa corsa suicida. E andiamo in profondità: la nostra proposta, il progetto che non si vede. Una nuova classe dirigente non si inventa, non si improvvisa, nasce se si fanno partire progetti politici innovativi. Altrimenti restano i vecchi attori».

Lei parla di errori di lungo periodo. Ci sono stati sbagli in questa campagna elettorale? Candidature poco convincenti come la Bonino?
«Prima del voto ho detto apertamente che in una regione come il Lazio e in una città come Roma la candidatura di Emma Bonino non era la migliore che potessimo mettere in campo. È stata frutto di un caso e non di una scelta. Come dice il blogger Zoro, “c'avevamo solo quella”. Però devo rendere onore alla combattente. Siamo andati al fotofinish grazie alla battaglia della Bonino, nonostante i soliti pregiudizi su di lei agitati a poche ore dal voto in modo pretestuoso. E poi dobbiamo riflettere su come abbiamo governato il Sud, dati i risultati in alcune regioni come Campania e Calabria».

Vendola è tra i leader del futuro? Potrebbe entrare nel Pd?
«Vendola è già tra i leader, ed è apprezzato dal Pd, magari senza l'entusiasmo di qualche suo esponente. In questa campagna elettorale abbiamo ripreso i rapporti con la sinistra di governo, siamo un cantiere aperto. Ma attenzione a sciogliere partiti per poi rifondarli, è da anni che lo facciamo, dentro una logica tutta interna al sistema politico. Vendola vince in Puglia perché ha saputo comunicare ai suoi elettori una speranza, non un'organizzazione. È quello che dobbiamo fare in tutto il paese».

C'è un nuovo arrivato a sorpresa nel campo dell'opposizione, il movimento di Beppe Grillo: è possibile considerarlo un interlocutore?
«Noi dobbiamo parlare con tutto ciò che appare nella società. In Piemonte il movimento di Grillo ha preso il 4 per cento, incredibile è la sorpresa, un partito dovrebbe capire in anticipo quello che si muove nell'elettorato. E lo dico della regione che mi ha fatto soffrire di più, con Mercedes Bresso che ha governato con grande serietà. È un voto anti-sistema, come l'astensione. A pagare il prezzo più alto siamo noi che scommettiamo sulla politica e ha avvantaggiato la destra che ha un'anima anti-sistema. Però alcune istanze vanno ascoltate. E trovo positivo l'ingresso nelle istituzioni. Chi è in consiglio regionale non può più dire vaffa, deve trovare soluzioni».

In Parlamento si riapre il dibattito sulle riforme. Pdl e Lega chiedono al Pd di non tirarsi indetro. Raccoglierete l'invito?
«Inizia una stagione senza elezioni nazionali, c'è la possibilità di fare le riforme e io spero che si facciano. Ma con la schiena dritta. Nessun cedimento. Prendiamo il presidenzialismo: il Pd non è disponibile a costituzionalizzare la svolta populista e autoritaria di Berlusconi. Lo dico perché vedo anche in casa nostra qualche cedimento culturale: la simpatia rafforzata con i radicali e il presunto scambio con una legge elettorale complica le cose. Ma se qualcuno vuole percorrere questa strada lo farà senza di me».

E sulle alleanze? Riprenderà il cammino con l'Udc di Casini?
«Se l'Udc lavora a migliorare il bipolarismo siamo disponibili. Se pensano di togliere il potere di scelta ai cittadini e restituirlo ai partiti sarebbe una strada sbagliata. Le elezioni regionali confermano che i cittadini vogliono contare con il loro voto e apprezzano il bipolarismo: è un percorso segnato».

Nessuno nel Pd è antiberlusconiano quanto lei. Dopo queste elezioni è ancora sicura che l'anti-berlusconismo sia un'arma efficace?
«L'anti-berlusconismo è il presupposto dell'alternativa. Ma noi negli anni abbiamo comunicato soltanto il presupposto e non l'alternativa. È chiaro che se continuiamo a fare la foto a Berlusconi, gli italiani non smetteranno di rispecchiarsi in lui e nella sua foto. È tempo di scattare un'altra fotografia».

(31 marzo 2010)
da espresso.it


Titolo: Marco DAMILANO - Chi può battere Silvio
Inserito da: Admin - Aprile 10, 2010, 11:12:38 pm
Chi può battere Silvio

di Marco Damilano

Dopo la sconfitta alle regionali, nel centrosinistra si apre la caccia al leader per la sfida elettorale del 2013.

Un sondaggio esclusivo tra gli elettori su sette possibili candidati
 

La Grande Partita è cominciata un istante dopo la chiusura delle urne, appena acquisito l'ultimo risultato delle elezioni regionali. Ognuno si organizza come può e come sa. Con le armi convenzionali, mettendo in campo la forza di un partito tradizionale. Con gli strumenti offerti dai tempi nuovi: fondazioni, associazioni, think tank trasversali, comitati elettorali mascherati da fabbriche. Molto Internet: blog, circoli su Facebook, appelli su YouTube. E la cara, vecchia politica delle alleanze: annusare i potenziali sostenitori senza darlo troppo a vedere. La posta in gioco è semplice: chi guiderà il centrosinistra nella sfida contro Silvio Berlusconi nel 2013, quando il Cavaliere si candiderà a palazzo Chigi per la sesta volta consecutiva dal 1994, sempre che non riesca a trasformare l'Italia in una Repubblica presidenziale e provi a fare rotta sul Quirinale a furor di popolo?

I RISULTATI DEL SONDAGGIO: Chi può sfidare Berlusconi? (vedi su espresso.repubblica.it)

Dovrebbe essere una questione da abc della politica: prepararsi per tempo, costruire una candidatura vincente con il giusto tempo a disposizione, come succede in tutte le democrazie occidentali. In Francia il nuovo inquilino dell'Eliseo sarà scelto nel 2012, ma le manovre nella gauche per indicare il candidato da contrapporre a Nicolas Sarkozy sono già in pieno svolgimento, come se si votasse domani. In Inghilterra il 6 maggio il povero David Cameron finalmente potrà affrontare il Labour Party nelle elezioni legislative dopo essersi allenato per cinque, interminabili anni: è stato nominato candidato dei conservatori a Downing Street nel 2005, quando era una giovane promessa, nell'attesa ha fatto i capelli bianchi. In Italia le liturgie sono più complesse e meno trasparenti. E per capire la strategia dei Presidenziabili, i potenziali candidati, bisogna imbarcarsi in giri tortuosi.

L'unico che prende di petto la questione è il leader di Italia dei Valori Antonio Di Pietro: "Alle elezioni regionali siamo arrivati all'ultimo giorno utile. In molti casi i candidati del centrosinistra erano improvvisati e il risultato si è visto: il partito più forte è diventato quello dell'astensione e della protesta. Non possiamo ripetere l'errore: io, Bersani, Vendola e gli altri leader della coalizione dobbiamo trovare un nome entro quest'anno, proporlo al Paese e farlo crescere. Se non si semina per tempo non si raccoglie". Nel Pd condivide l'urgenza il vice-segretario Enrico Letta, a lungo indicato tra i papabili: "Una cosa è chiara: nel 2013 il nostro avversario sarà ancora una volta Berlusconi. Le formule del passato non bastano più, dobbiamo ripensare le nostre alleanze e ritrovare lo spirito che portò il centrosinistra al governo guidato da uomini come Romano Prodi e Carlo Azeglio Ciampi". Il segretario del Pd Pier Luigi Bersani, fino alle regionali il numero uno nella lista dei possibili candidati premier, dopo il voto non certo esaltante per il suo partito si è fatto prudente: "Per il futuro non posso escludere nulla". Schermaglie che nascondono l'incertezza. E che la confusione nel campo del centrosinistra sia grande lo dimostra anche il sondaggio "L'espresso-Swg" pubblicato in queste pagine.

Alla domanda su quale nome potrebbe battere Berlusconi, il 18 per cento indica il presidente della Fiat Luca Cordero di Montezemolo, considerato il più attrezzato a intercettare una parte dell'elettorato che oggi si riconosce nel centrodestra, il preferito nelle fasce di età più anziane, over 65. Solo l'11 per cento vede come sfidante Bersani, tallonato dal rieletto presidente della Puglia Nichi Vendola: se votassero solo gli elettori del centrosinistra, come potrebbe accadere se il candidato premier fosse scelto con le primarie, la partita sarebbe tra loro due. Segue a poca distanza un nome a sorpresa, il governatore della Banca d'Italia Mario Draghi. E poi il comico Beppe Grillo, che nelle regioni dove si è presentato con il suo Movimento a cinque stelle è stata la vera rivelazione delle regionali, la pasionaria del Pd Rosy Bindi, in pole position tra le donne del centrosinistra e lo scrittore di "Gomorra" Roberto Saviano, i cui appelli per la legalità fanno sempre il pieno di sostenitori. Una classifica che dimostra soprattutto il senso di spaesamento che abita tra gli elettori. Il dato più interessante da registrare, infatti, è che per un terzo del campione, il 33 per cento, nessuno di questi nomi è quello giusto: bisogna cercare ancora. Il leader, insomma, non si vede, non c'è.

Eppure alcuni dei candidati in pectore sono già da tempo in movimento. Il più imperscrutabile è il numero uno della lista, Cordero di Montezemolo. Il suo impegno diretto in politica è sempre stato escluso, ma intanto da sei mesi l'ex presidente di Confindustria gira l'Italia per le iniziative della sua associazione Italia Futura. Convegno d'esordio a Roma, nella cornice di palazzo Colonna, sulla mobilità sociale, parola d'ordine promettente: "L'Italia è un paese bloccato, muoviamoci!". Seconda uscita a Napoli, su scuola e istruzione. Prossima tappa a Bologna, a metà mese, per parlare di sanità. Temi scelti con cura, quasi un programma di governo, che mister Ferrari giura di voler affidare al dibattito pubblico, senza doppi fini: "È possibile parlare di politica senza passare per golpisti? ". In mezzo qualche intervista televisiva, rimbrotti ai partiti con strizzate d'occhio all'antipolitica: "L'impopolarità della classe politica sta aumentando, non dobbiamo restare passivi spettatori di quello che sta accadendo: grandi promesse, grandi proclami e poi l'incapacità di fare le riforme. La società civile non può rimanere indifferente", ha tuonato il 19 novembre all'Università Cattolica a Roma. Appelli culminati alla vigilia del voto regionale con gli articoli firmati da Andrea Romano e Carlo Calenda sul sito di Italia Futura, un invito esplicito all'astensione: "Se la politica si trasforma in un cine-panettone, meglio smettere di comprare il biglietto". L'interesse di Montezemolo per la politica non è una novità: se ne parla almeno dal 2007, da quando l'allora presidente di Confindustria nella relazione di fine mandato sparò a zero sulla "casta" dei politici di professione e sul governo Prodi. E il Professore cominciò a sfotterlo: negli incontri a palazzo Chigi lo chiamava "signor Primo ministro". Meno chiaro il progetto: l'idea di proporsi come federatore di un nuovo partito di centro che dovrebbe partire dall'Udc di Pier Ferdinando Casini, passare per Francesco Rutelli e arrivare dalle parti di Gianfranco Fini, è sempre stata più un'ipotesi giornalistica che una realtà ed esce ancora più indebolita dal risultato delle regionali. Ma anche l'ambizione di diventare il perno di un vagheggiato dopo-Berlusconi, deve fare i conti con un problema non trascurabile: il Cavaliere è ancora qui, vivo e vegeto, più forte di prima.

In queste condizioni il Montezemolo tour sembra destinato a durare ancora per un po'. Anche se tra i sostenitori della necessità di trovare un nome esterno ai partiti per la futura candidatura a premier c'è un insospettabile come Di Pietro: "Serve una figura di alto profilo, non possiamo essere né io né Bersani. Una personalità che ridia al paese pacificazione, serenità, fiducia. Che sappia parlare di occupazione, lavoro, sicurezza, ambiente e abbia la professionalità per gestire situazioni e emergenze senza diventare un fantoccio nelle mani dei partiti. Una storia non ideologica". Un identikit che calza perfettamente addosso a Mario Draghi, se non fosse che il governatore di Banca d'Italia non ha nessuna intenzione di farsi coinvolgere nelle beghe politiche, impegnato com'è in una partita molto più delicata e strategica, la difficile corsa per la presidenza della Banca centrale europea dove il sostegno del governo italiano è essenziale. E dunque il candidato fantasma agitato dal leader di Italia dei Valori serve a ottenere un risultato di breve periodo: sbarrare la strada ai nomi che si stanno facendo avanti nel centrosinistra. Il governatore della Puglia Vendola, per esempio, nasconde a stento la sua voglia di gareggiare dopo la doppia vittoria, contro Massimo D'Alema e lo stato maggiore del Pd alle primarie e contro il Pdl. Non a caso il più rapido a sondare il potenziale avversario è stato proprio il Cavaliere. Il premier è stato il primo a farsi vivo con il governatore con l'orecchino dopo la rielezione. Il cellulare di Vendola ha squillato di buon mattino. "Nichi, come stai? Complimenti, hai fatto una campagna elettorale eccezionale. E poi, hai visto, non ci siamo mai attaccati sul piano personale... ".

Tra i due la simpatia risale a qualche anno fa, cementata da un intermediario, il fondatore del San Raffaele don Luigi Verzè, amico di entrambi. E Berlusconi riconosce a Vendola alcuni ingredienti che gli sono familiari: il fiuto per il pubblico, le doti di combattente, una biografia anomala. Il fattore leader che Vendola intende mettere a frutto nelle prossime settimane. In Puglia ha sepolto le strutture di partito con l'invenzione della Fabbrica, che da semplice comitato elettorale si sta trasformando in qualcosa di più ambizioso: un modello da esportare in tutta Italia. Una rete di fabbriche di Nichi, da costituire in ogni regione, circoli destinati a trasformarsi al momento opportuno nel motore della candidatura di Vendola alle primarie del centrosinistra. Per ripetere l'operazione già riuscita in Puglia. Spaccare il Pd e trascinare una parte dei suoi quadri a sostenere l'uomo della sinistra radicale che ormai acchiappa consensi anche tra i moderati e perfino tra i dalemiani di strettissima osservanza: "Sono sempre stato dalla sua parte", fa sapere in ogni dove il senatore del Pd Nicola La Torre.

Resta l'incognita Pd. Il convitato di pietra: nessun aspirante candidato alla sfida contro Berlusconi può rinunciare al sostegno del partito più grande, ma lo schema secondo cui spetta al segretario dei Democratici l'indicazione del leader della coalizione è uscito seriamente ammaccato dal voto regionale. Anche perché il partito solido invocato da Bersani in molte zone non si è visto. Nelle due regioni chiave, il Piemonte e il Lazio, l'analisi del voto del Pd è poco confortante. Nella regione espugnata da Roberto Cota gli assessori della giunta Bresso sono stati quasi tutti trombati in modo inglorioso: l'uomo chiave, il potente vice-presidente e assessore al Bilancio Paolo Peveraro ha raggranellato a Torino appena 2300 preferenze, una miseria. A Bussoleno, il comune simbolo del movimento No Tav, il Pd si è fermato al 14 per cento. La metà della lista Grillo che in Val di Susa ha conquistato il 28 e che nel capoluogo ha preso più voti dell'Udc: una beffa, se si pensa agli infiniti tavoli di trattativa di Bersani con i centristi. Nel Lazio, al contrario, sono rientrati in consiglio regionale gli assessori della giunta Marrazzo al gran completo: quindici eletti, tutti uomini, roba da rimpiangere le liste bloccate, che almeno costringono a nominare qualche giovane donna.

Alcuni di loro hanno avuto la bella idea di affiggere un manifesto per ringraziare gli elettori, come se il disastro romano del Pd non li riguardasse: centomila voti in meno nella Capitale rispetto alle europee di un anno fa, addirittura trecentomila in meno rispetto al 2008, consensi dimezzati. Un partito da rifare. In mano ai potentati locali nelle regioni centro-meridionali, senza radici nella società dove ha pure ben governato (vedi Piemonte), in calo nelle tradizionali roccaforti, con l'eccezione della Toscana del signor Enrico Rossi, il trionfo della normalità. E dilaniato dalla ripresa delle ostilità a Roma: i veltroniani in guerra con il segretario, D'Alema insoddisfatto, i quarantenni che scalpitano. Un film già visto, quello che portò in pochi mesi alle dimissioni di Veltroni. Per sfuggire allo stesso destino Bersani ha una sola carta a disposizione: fare il leader, trovare un progetto e magari anche la figura di un candidato premier su cui portare tutto il partito. Ma il nome ancora non c'è, è tutto da inventare. E intanto il presidenzialismo targato Berlusconi-Bossi corre più veloce della maledetta Tav.

(07 aprile 2010)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Marco DAMILANO - Pronti al partito di Nichi?
Inserito da: Admin - Agosto 05, 2010, 03:30:20 pm
Pronti al partito di Nichi?

di Marco Damilano (02 agosto 2010)

Mentre il Pdl si dissolve e Bersani prende tempo, Vendola è pronto per la sfida. Con lui stanno già Cofferati e Bettini, probabile l'appoggio di Veltroni e Franceschini. E perfino l'ambasciatore americano...

Si ritroveranno dalla stessa parte dopo che per decenni l'antipatia personale e l'ideologia li ha divisi su tutto. Dopo l'estate due capi storici della sinistra italiana, due ex sindacalisti della Cgil, Sergio Cofferati e Fausto Bertinotti, si uniranno per la prima volta nella lotta. Un endorsement neppure tanto mascherato per l'ospite d'onore dell'incontro: il candidato ufficiale per la leadership del centrosinistra, il governatore della Puglia Nichi Vendola.

'E se Nichi riesce a far stare allo stesso tavolo quei due, ogni impresa diventa possibile', gongola un ambasciatore vendoliano.
Miracoli di San Nichi.

Fino a poche settimane fa sembrava davvero impossibile che Vendola si candidasse alla leadership dell'Italia che non vuole morire berlusconiana con qualche possibilità di successo. Troppo meridionale. Troppo comunista. Troppo cattolico. Troppo gay. Ma ora che il treno è partito, dopo la convention a Bari del suo movimento, la Fabbrica, si scopre che Vendola fa paura.

In largo del Nazareno, la sede del Pd di Pier Luigi Bersani, la sola idea di essere chiamati a contendergli la guida della coalizione scatena il panico. Pienamente giustificato: quando sul tavolo del segretario del Pd è arrivato il primo sondaggio il risultato è stato da brivido. Se si votasse oggi il governatore pugliese vincerebbe le primarie battendo il candidato del Pd. Per questo da giorni i bersaniani si affannano a spiegare che a norma di statuto il candidato premier del centrosinistra sarà il segretario, ma senza troppa convinzione. Anche perché l'operazione Nichi è pianificata in ogni dettaglio. Mentre le manovre per bloccarlo, finora, sono confuse e improvvisate.

Per scalare il Pd, la ricetta di Nichi è addirittura banale. Ripercorrere le tappe che nel 2008 hanno portato un certo Barack Obama dall'anonimato alla conquista della nomination democratica contro Hillary Clinton, fino alla Casa Bianca. Partire da Terlizzi per approdare a Palazzo Chigi non è esattamente la stessa cosa, certo, ma l'identificazione di Vendola con il presidente nero è totale. E c'è poco da scherzare, perché l'ex comunista con l'orecchino convertito ai dogmi della politica americana, presidenzialismo e personalizzazione, ha incuriosito un importante amico dell'Obama originale, l'ambasciatore americano David Thorne, che lo ha voluto conoscere di persona.

E ci credono i Nichi boys, tutti pugliesi (anzi, baresi), agguerriti e trentenni, precari e creativi, rappresentativi della loro generazione, che hanno studiato la 'mission impossible' di Obama fin nei particolari. Come si è capito alla kermesse delle Fabbriche di Nichi a Bari, dove i due seminari più affollati sono stati quelli dedicati all'analisi del modello americano (titolo: Win for left), affidati a due giovani ricercatori Mattia Diletti e Mattia Toaldo.

Una campagna fondata su tre pilastri: la comunicazione, i comitati di base, la leadership carismatica. Un vascello agile, 'un soft power' (egemonia, si sarebbe detto un tempo), lo definisce Vincenzo Cramarossa, 33 anni, studi di politiche del lavoro alla London School of Economics e a Milano alla scuola di Pietro Ichino e Michele Salvati, motore organizzativo delle Fabbriche. A curare l'immaginario (tradotto in vendolese: 'la narrazione') ci pensa Silvio Maselli, 35 anni appena compiuti, un passato alla Fandango e un incarico di prima fila nella Puglia di Vendola, la direzione della Apulia Film Commission, la fondazione regionale nata nel 2007 con un budget di un milione di euro per attrarre investimenti nel campo audiovisivo e diffondere le location pugliesi nel mondo. Lo spin doctor, il David Axelrod di Vendola, è un ragazzo di 26 anni, Dino Amenduni: 'I nostri punti di forza? L'attivazione giovanile, la creazione di un nuovo senso di comunità e di appartenenza, i comitati elettorali atipici, la delega della decisione sul piano organizzativo e creativo'. Tutte cose che dovrebbero fare i partiti, se ancora esistessero.

Amenduni lavora per l'agenzia Proforma che ha curato anche l'ultima campagna elettorale del Pd ma alla domanda sul perché quelle di Vendola siano da tutti considerate belle e efficaci e quelle del Pd da dimenticare risponde semplicemente: 'Nichi è più facile da comunicare. E ha un'identità politica definita'. L'appartenenza come risorsa, non come zavorra, come pensavano i tanti leader light e trasformisti dell'ultimo decennio. In più, a fare da supporto, un gruppo di intellettuali, possibilmente non ancora logorati dai soliti circuiti accademico-editoriali, un think tank che ha il compito di animare il dibattito di idee attorno alla candidatura Vendola (nome in codice: Nichi-pedia), perché le parole e le idee contano in politica, peccato che la sinistra non se ne ricordi più. Una società di fund raising internazionale a trovare le risorse per una campagna che non si annuncia breve.
 
E una spregiudicata azione di conquista del campo avversario (ovviamente il Pd), in cui andare a pescare consensi e accordi. Ma di questo si occupa Vendola in persona, che fa politica fin da bambino e quando ci si mette sa essere più spregiudicato del suo maestro.
Massimo D'Alema, già.

Altro che sinistra radicale: i Franco Giordano e i Gennaro Migliore restano defilati, a Bari l'unica maglietta di Che Guevara la indossava un ragazzo del Pd. Per conquistare la leadership Nichi l'americano punta a conquistare il campo riformista: 'Un riformismo vero, non scolorito, per chiudere il trentennio conservatore', spiegano alla Fabbrica. In casa del Pd il governatore pugliese ha messo a segno qualche colpo a effetto: il sindaco di Bari Michele Emiliano si è schierato apertamente dalla sua parte, nononostante i violenti scontri degli ultimi mesi, l'emergente consigliere regionale lombardo Giuseppe Civati è stato ospite alla Fabbrica, un gruppo di senatori del Partito democratico ha voluto incontrarlo. Tra loro, la prodiana Albertina Soliani e Paolo Nerozzi, per anni potente uomo macchina del sindacato del pubblico impiego e mente politica della Cgil.

Poi ci sono gli elefanti del Pd da attrarre nella rete. Di Cofferati si è già detto, e sarebbe una sorpresa vederlo dalla parte di Vendola. In privato si dice pronto al sostegno un peso massimo come Goffredo Bettini. Il presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti ci sta riflettendo.

Walter Veltroni guarda a Vendola con una punta di invidia: pesca nel suo stesso vocabolario, ma con in più la voglia di giocare all'attacco ('Scompaginare il centrosinistra'), una mentalità corsara e da combattimento che è sempre mancata all'ex sindaco di Roma. E alla fine Veltroni e Dario Franceschini, i due primi segretari del Pd, potrebbero ritrovarsi a far votare per Vendola. Il governatore va a caccia di consensi perfino nei sancta sanctorum dalemiani. Ad affiancarlo come consigliere c'è Franco Neglia, nome importante del Pci-Pds di Bari. Tra gli esperti invitati alla Fabbrica ci sono i giovani economisti Salvatore Monni e Alessandro Spaventa (figlio dell'ex ministro Luigi), relatori nei convegni della fondazione dalemiana Italianieuropei. E negli ultimi giorni Vendola ha incassato l'appoggio inatteso del braccio destro di D'Alema, Nicola Latorre: 'Vendola raggiunge un mondo che il Pd non raggiunge, sarebbe una follia escluderlo. E il prossimo leader andrà scelto con le primarie'. Chissà quanto apprezza il suo capo. Una prima vittoria è già arrivata: il verbo di Vendola, presidenzialismo e carisma, è già imitato dai settori del Pd più lontani da lui. L'incontro di fine agosto organizzato da Enrico Letta in Trentino, VeDrò, sarà dedicato quest'anno al tema della leadership. Titolo: 'The leader is...'.

Laboratori modellati a somiglianza della Fabbrica. Un trampolino di lancio per il giovane Letta che qualcuno vede come il vero competitore di Vendola se si dovessero fare le primarie: Bersani in quel caso si ritirebbe in un ruolo di regista della coalizione. E la sfida nazionale ricalcherebbe alla perfezione quella pugliese, dove il lettiano Francesco Boccia è stato sconfitto due volte da Vendola. E dire che D'Alema si ostina a chiamare tutto questo poesia: 'Non ne abbiamo bisogno'. È prosa, invece. La dura battaglia di Vendola per conquistare il potere. Da sinistra.

http://espresso.repubblica.it/dettaglio/pronti-al-partito-di-nichi/2131780//0


Titolo: Marco DAMILANO - Arriva la Lega sud
Inserito da: Admin - Agosto 30, 2010, 04:44:56 pm
Arriva la Lega sud

di Marco Damilano

Bossi spinge Berlusconi verso le elezioni. Per diventare il padrone assoluto del Nord e sbarcare nel meridione.

Con una carta a sorpresa: il ministro Roberto Maroni

(30 agosto 2010)

Uno sbarco dei Mille al contrario, un 1860 alla rovescia, organizzato con perfetto senso della storia un secolo e mezzo dopo. Con le camicie verdi al posto di quelle rosse, Roberto Maroni al posto di Nino Bixio, il Senatur invece del Generale.

Giuseppe Garibaldi ha unito l'Italia, Umberto Bossi la disferà con una seconda spedizione dal Nord al Sud, questa volta elettorale: candidare la Lega su tutto il territorio nazionale con il verbo del federalismo, ognun per sè. In Calabria sono già pronti: ad aprile il senatore leghista Enrico Montani, piemontese di Verbania, è stato inviato tra la gente in Aspromonte, novello cacciatore delle Alpi, per aprire ufficialmente il tesseramento della Lega Calabria Federalista, avamposto del Carroccio in terra jonica. Forte degli 8500 voti, l'uno per cento, raccolto alle elezioni europee del 2009. Una miseria, per ora, rispetto ai granai di consensi delle regioni native, il Lombardo- Veneto: ma l'ascesa del partito dalla Val Brembana ai palazzi romani insegna che se si semina bene il tempo della mietitura verrà. E per Bossi i prossimi mesi sono quelli della raccolta decisiva. Lega Pigliatutto.

E Umberto di nuovo guerriero. «Il Capo è tornato a ruggire», esulta un deputato che lo ha seguito tra le feste di partito, le serate di miss Padania e le esternazioni fino alle ore piccole dove il fondatore del Carroccio si è rimesso a dettare l'agenda della politica nazionale, con il consueto aplomb padano.

Gianfranco Fini? «Vuole i matrimoni tra omosessuali, dà di matto». Denis Verdini? «Un democristiano di merda». Con Pier Ferdinando Casini, potenziale alleato di ritorno del Cavaliere, Bossi è stato più sintetico: «Uno stronzo ». Meno male, la forma non è andata perduta. In vista di elezioni da fare il prima possibile, al massimo all'inizio del 2011, anche a costo di scompaginare i piani di Silvio Berlusconi, che il voto anticipato per castigare i ribelli finiani lo minaccia ma con qualche preoccupazione, visti i sondaggi per il Senato. Numeri che danno a rischio la maggioranza del Cavaliere a palazzo Madama se dovesse correre un Terzo polo. E che, al contrario, fanno ingolosire la Lega, data intorno al 13 per cento nazionale, con punte del 15 in Emilia Romagna e per la prima volta rilevata nel centrosud, in Calabria, in Abruzzo, in Sardegna. Percentuali che in caso di flop berlusconiano nella tombola dei premi regionali per il Senato consegnerebbero al Carroccio la golden share per fare qualsiasi maggioranza. Oltre a un possibile sorpasso sul Pdl nelle regioni del Nord.

Ad Alzano Lombardo, minuscolo centro bergamasco, è già successo: alle regionali lombarde di primavera la Lega ha toccato il 35 per cento, il Pdl si è bloccato al 23. Qui, alla Berghem Fest, nell'ultima settimana sono sfilati ben quattro ministri: oltre a Bossi, Calderoli e Maroni. Più Giulio Tremonti, festeggiato in Cadore dallo stato maggiore leghista per il suo compleanno. La foto di gruppo del governo ideale da fare dopo le elezioni: un monocolore padano con il Gran Valtellinese al centro. Un incubo per Berlusconi che non dimentica l'avvertimento di un amico democristiano: «Attento, Silvio, i leghisti ti sono vicini, certo. Ma a distanza di pugnale». Oggi Alzano, domani l'intero Nord, l'Italia, i leghisti ci credono. Al punto di mettere da parte, rapidamente, i dissensi e le rivalità personali emersi all'inizio dell'estate, nei giorni del caso Brancher (l'ambasciatore di Berlusconi presso la Lega nominato ministro, costretto a dimettersi e poi condannato a due anni per ricettazione e appropriazione indebita). La tensione tra le due anime del movimento era salita al livello di guardia. Da un lato, il grosso degli amministratori locali e dei gruppi parlamentari, l'apparato riunito attorno a Calderoli e a Giancarlo Giorgetti, il silenzioso e potente presidente della commissione Bilancio della Camera, uno dei pochi ammessi a contraddire Bossi. Dall'altro, la Sacra Famiglia che fa da cordone sanitario al Senatur, composta dalla vice-presidente del Senato Rosy Mauro, dai capogruppo Federico Bricolo (fedelissimo del governatore veneto Luca Zaia) e Marco Reguzzoni e da Manuela Marrone, tra i cinque fondatori della Lega con il primo statuto del 1986 e soprattutto moglie del ministro: la custode della purezza padana.

http://espresso.repubblica.it/dettaglio/arriva-la-lega-sud/2133154/24


Titolo: Marco DAMILANO - E ora B. sembra Andreotti
Inserito da: Admin - Settembre 21, 2010, 05:18:35 pm
E ora B. sembra Andreotti

di Marco Damilano

Per la prima volta il Cavaliere ha ammesso che nell'elettorato italiano si è aperto un buco nero, in cui neppure lui ci si raccapezza più. Così, nell'incertezza dei sondaggi, tira a campare inseguendo qualche straccio di deputato centrista

(13 settembre 2010)

Il titolo del "Giornale" di oggi è degno delle surreali vignette di Giovannino Guareschi sui comunisti nel '48 («Obbedienza cieca pronta assoluta. – Contrordine compagni! La frase pubblicata sull'Unità: "In ogni paese bisogna organizzare una grande fetta dell'Unità", contiene un errore e pertanto va letta: "In ogni paese bisogna organizzare una grande festa dell'Unità"»). «Caro Silvio, ora ci dica cosa succede», reclama Vittorio Feltri. Laddove la presa di distanza del Direttore dal Cavaliere è tutto in quel "lei" dato a Berlusconi, così diverso dall'affettuoso e confidenziale "tu" che in genere circonda il Capo («Silvio, mandali tutti a casa»).

E già, caro Silvio, che succede?

Silvio ha risposto ieri, dal palco della festa dei giovani del Pdl. Non sarà vero, come ha detto Fini a Mirabello, che il Pdl non c'è più. Però, ha spiegato Berlusconi, se si andasse a votare ora «ci sarebbe un aumento dell'astensione terrificante». Per la prima volta il Cavaliere ammette che nell'elettorato italiano si è aperto un buco nero, in cui neppure lui ci si raccappezza più. Neanche i suoi sondaggi riescono a decifrare cosa si stia muovendo nella pancia del Paese. E allora è meglio restare fermi e al diavolo Feltri e la sua voglia di resa dei conti. Contrordine forzisti, non si vota più.

Così finisce qualcosa di più profondo del Pdl. Arriva al capolinea l'idea del Berlusconi invincibile. E il sogno del nuovo miracolo italiano. D'accordo, già si era capito da tempo che sarebbe finita così. Però fa comunque impressione questo Berlusconi normalizzato, il Berlusconi andreottiano che tira a campare, il Cavaliere tornato con i piedi per terra che si acconcia al pallottoliere di Palazzo e insegue qualche straccio di deputato centrista per fare maggioranza, il caro Silvio che assume il linguaggio e gli esasperanti tatticismi dei professionisti della politica.

Il sondaggio curato da Demos e commentato da Ilvo Diamanti su "Repubblica" di oggi fotografa il cambio di stagione. Il Pdl per la prima volta è sotto il 30 per cento, il partito di Fini che neppure è nato supera già il 6 per cento. Peggio ancora per il Cavaliere l'indice di gradimento dei politici più popolari. Al primo posto l'odiato Tremonti, seguono Vendola e Chiamparino, quindi Fini. Berlusconi è in fondo, dopo Bersani e prima di Veltroni. Una geografia politica terremotata, in cui saltano schemi e gerarchie consolidate.

Sarà per questo che ieri mattina, dopo aver raccontato barzellette su Hitler e dopo aver consigliato ai giovani di emigrare all'estero («datevi una caratura internazionale»: chissà se lo avrà consigliato anche all'ex valletta di Telecafone Francesca Pascale, estasiata in prima fila), Berlusconi si è rifugiato nel solito, vecchio, rassicurante anti-comunismo e passa la paura. «Organizzeremo il Pdl con un team che girerà le case degli italiani e distribuirà il Libro nero del comunismo o anche una sola dispensa, oppure il cd Urla dal silenzio sulla Cambogia e Ho Chi Min...».

Se ci fosse stato ancora bisogno di un motivo per cui Fini non vuole più mettere piede a palazzo Grazioli, eccolo qui. In attesa che perfino Feltri, deluso, si metta a gridare: il Pdl non esiste più.

 
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Titolo: Marco DAMILANO - Veltroni: via B. e poi primarie
Inserito da: Admin - Ottobre 08, 2010, 12:55:42 pm
Veltroni: via B. e poi primarie

di Marco Damilano

Una nuova maggioranza per fare la riforma elettorale. Quindi gli elettori del centrosinistra scelgano il candidato premier. E chi vince, vince. Parla l'ex segretario del Pd

(07 ottobre 2010)

Siamo alla fine dell'era berlusconiana? Finisce un governo o qualcosa di più? Walter Veltroni ragiona sui giorni più confusi della politica italiana. "Berlusconi non è un semplice governo, è una stagione della politica italiana", scandisce l'ex segretario del Pd. "L'Italia ha conosciuto diversi ventenni: il fascismo, il terrorismo, il pentapartito del Caf, ora il berlusconismo che ha riscritto un sistema di valori. Berlusconi è un teorico della falsificazione, in modo infantile scarica le colpe del suo fallimento sugli altri, sui complotti dei magistrati. Una parte del Paese ha creduto che Berlusconi avrebbe modernizzato l'Italia. Ma ora che il "sogno" berlusconiano non c'è più, si apre una fase molto pericolosa. L'Italia è un paese a rischio". La soluzione è "un governo di emergenza che cambi la legge elettorale. Fatto cadere Berlusconi, dovremo costruire una coalizione. E solo allora sceglieremo il candidato premier, con le primarie". Bersani? "Chiunque possa vincere".

Lei parla di Italia a rischio. Qual è il pericolo?
"Mettiamo insieme i fatti. Debito pubblico record, crescente distanza tra Nord e Sud, criminalità sempre più arrogante, altro che "il governo che ha sconfitto la mafia". La ripresa della violenza, della questione morale, un disagio sociale diffuso. Si sta sfarinando l'idea della comunità, al suo posto c'è una difesa dell'identità dominata dalla paura, introdotta da Berlusconi e Lega. Come buttare una bomba atomica nel tessuto della società civile. L'Italia è a rischio perché siamo in una fase di transizione, come la fine degli anni Sessanta con piazza Fontana o negli anni Settanta con il rapimento Moro o il '92-'93 delle stragi, pagina su cui non mi rassegno a verità di comodo. Con l'aggravante della potenza informativa berlusconiana. E il rischio che prevalga la rabbia sulla ragione, le urla disperate di Grillo e della Lega che non sono la soluzione. Sono tra i primi ad aver scoperto le potenzialità della Rete. Ma è una politica fragile quella che si affida unicamente ai sondaggi e ai blog per capire cosa si muove nella società".

E dire che Berlusconi alla Camera l'ha citata come un avversario ideale, quando nel 2008 Pd e Pdl si confrontarono alle elezioni...
"Chi gli ha scritto quel discorso voleva fargli citare Calamandrei... Con il Pd volevamo introdurre una novità rivoluzionaria: basta con le coalizioni "contro" qualcuno, facciamo un'alleanza "per", riformista. In risposta, Berlusconi fece il predellino e il Pdl. Ora il Pdl è in crisi perché era un'alleanza contro".

Oggi, però, Pd e Pdl sono morti, o non stanno molto bene. A destra lo dice Fini, a sinistra lei.
"Io e Fini diciamo cose molto diverse. In lui c'è una rottura profonda con Berlusconi, crea un partito nuovo. Io, al contrario, non ho ragioni di conflitto con il segretario del mio partito. Parlo per rafforzare il Pd".

Sarà, ma nel Pd l'hanno accusata di fare il gioco di Berlusconi.
"Mi ha molto sorpreso questa reazione, che ha un brutto sapore di tempi andati. Il documento dei 75 non conteneva critiche né richieste di congressi o cambio di leadership. È un documento unitario, se si concepisce l'unità non come unanimismo, ma come rispetto e valorizzazione delle differenze. Quello che non è stato unitario sono state le reazioni. Quando ero segretario nacque l'associazione Red, con tanto di tesseramento e di tv, e a pochi giorni dal voto in Sardegna Bersani rilasciò un'intervista titolata: "Con Walter ci sono solo i suoi supporter". Io però non ho mai detto che così si faceva il gioco dell'avversario. Avrei forse dovuto aspettare la prossima sconfitta per poi sparare alle spalle del segretario? No, il momento di discutere è adesso".

Si discute di un governo per fare una nuova legge elettorale, con Pd, Fini e Casini: è realistico?
"Noi dobbiamo batterci per due obiettivi. Primo: far cadere Berlusconi, con uno spostamento di forze nella società e non solo con alleanze di Palazzo. Qualcuno tra noi ha pensato (e ha detto) con troppa facilità che questo stava per accadere. Secondo: si può andare a votare con questa legge elettorale? No, sarebbe una follia, fa schifo anche a Casini e Fini che l'hanno approvata. Serve un governo di emergenza di pochi mesi per rifare la legge elettorale". Siamo alla fine dell'era berlusconiana? Finisce un governo o qualcosa di più? Walter Veltroni ragiona sui giorni più confusi della politica italiana. "Berlusconi non è un semplice governo, è una stagione della politica italiana", scandisce l'ex segretario del Pd. "L'Italia ha conosciuto diversi ventenni: il fascismo, il terrorismo, il pentapartito del Caf, ora il berlusconismo che ha riscritto un sistema di valori. Berlusconi è un teorico della falsificazione, in modo infantile scarica le colpe del suo fallimento sugli altri, sui complotti dei magistrati. Una parte del Paese ha creduto che Berlusconi avrebbe modernizzato l'Italia. Ma ora che il "sogno" berlusconiano non c'è più, si apre una fase molto pericolosa. L'Italia è un paese a rischio". La soluzione è "un governo di emergenza che cambi la legge elettorale. Fatto cadere Berlusconi, dovremo costruire una coalizione. E solo allora sceglieremo il candidato premier, con le primarie". Bersani? "Chiunque possa vincere".

Il problema è "quale" legge elettorale.
"Serve il rispetto di due principi essenziali: il governo deve essere scelto dai cittadini. E i parlamentari devono essere votati e non più nominati. Con collegi uninominali e con primarie fissate per legge".

Si può fare un governo così senza Berlusconi, o addirittura contro?
"Berlusconi non può gridare al tradimento. Gli italiani li ha traditi lui: due anni fa lo hanno votato per governare, non per fare altre elezioni".

Sui principi che lei indica il Pd è diviso. C'è chi vuole l'opposto: un governo eletto non dai cittadini, ma dal Parlamento, cioè dai partiti.
"In questa idea c'è l'illusione di ritrovare un mondo scomparso da tempo. Si vuole tornare in un luogo che non esiste più, quello dei partiti pesanti che facevano e disfacevano i governi e occupando impropriamente, come denunciò Berlinguer, spazi della società civile. E invece serve una democrazia più forte perché più lieve. E il bipolarismo è il bambino da salvare. Berlusconi ha impedito il bipolarismo civile. Ma dopo di lui si tornerà a votare, con una nuova legge. E finalmente si confronteranno una destra europea e un centrosinistra riformista".

Guidato da chi? Bersani è il suo segretario, ma è anche il suo candidato premier?
"Il centrosinistra è da anni una formazione calcistica, parliamo solo di nomi...".

Ma è stato lei a invocare il "papa straniero". In contrasto con lo statuto in cui c'è scritto che il candidato premier è il segretario...
"Ho parlato di papa straniero per stabilire, una volta per tutte, che io non sono in corsa. Per il futuro dico che, fatto cadere Berlusconi, dovremo costruire una coalizione. E solo allora sceglieremo il nome del candidato premier, con le primarie".

Insisto: Bersani? Casini? Vendola?
"Per me, chiunque possa vincere. Dividersi ora su un nome sarebbe pazzesco".

E con quale programma? Per esempio: il Pd darà sempre ragione alla Cgil? O è disposto a riconoscere le ragioni di Sergio Marchionne?
"All'Italia a rischio serve un Pd che faccia una rivoluzione democratica. Con due punti cardine: lotta alla precarietà e legalità. Il punto non è dare ragione a Marchionne, ma costruire un nuovo patto sociale e fiscale. E ripensare il ruolo dei sindacati, che non possono limitarsi a organizzare i pensionati, devono riprendere la rappresentanza dell'interesse generale del Paese, in particolare dei meno tutelati e garantiti, a cominciare dall'esercito di milioni di precari".

Con Berlusconi deve andare in pensione la generazione che a sinistra ha provato a combatterlo? Nel '94 lei aveva 39 anni, Massimo D'Alema 45. Più o meno l'età dei Miliband, oggi.
"Nel centrosinistra abbiamo cambiato sei o sette leader, nel centrodestra sono rimasti sempre gli stessi. Abbiamo rottamato fin troppo. E far terminare la nostra generazione con Berlusconi sarebbe la certificazione finale della subalternità al berlusconismo. La mia generazione politica è nata in un passaggio storico, la trasformazione del Pci in Pds. Non abbiamo mai detto di voler cambiare i dirigenti, volevamo cambiare la storia. Invito i giovani a fare lo stesso: sono le idee che fanno la leadership, non il contrario. E poi vedo in giro tanti giovani vecchi, nuovi solo all'anagrafe".

   
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Titolo: Marco DAMILANO - Chiesa, vade retro Berlusconi
Inserito da: Admin - Ottobre 15, 2010, 10:55:29 pm
Chiesa, vade retro Berlusconi

di Marco Damilano

Il Vaticano si interroga sul dopo Silvio. E cerca nuovi referenti. Con un occhio alla possibile intesa Pd-Udc-Rutelli

(13 ottobre 2010)


Per mesi si sono frequentati tra i corridoi di marmo dell'universtà Gregoriana, nell'auditorium della Cei in via Aurelia e nella sede dell'Abi, l'Associazione bancaria italiana, Palazzo Altieri in piazza del Gesù, indirizzo altamente evocativo dato che da lì la Dc per mezzo secolo ha fatto il bello e il cattivo tempo. Vescovi, esponenti dell'associazionismo bianco e politici di tutti gli schieramenti. Incontri preparatori, li definiscono in gergo curiale, in vista della Settimana sociale della Chiesa italiana, gli stati generali del mondo cattolico inaugurati giovedì 14 ottobre a Reggio Calabria dal discorso del presidente della Cei cardinale Angelo Bagnasco. Ma l'ambizione è molto più vasta: voltare pagina. Chiudere una lunga stagione e iniziarne una nuova.

"Un'agenda di speranza per il Paese", si intitola il documento di 30 pagine distribuito a oltre mille delegati di tutte le diocesi. La speranza dei cattolici di tornare a calcare da protagonisti, e non più solo da comprimari, la scena politica. Il sogno di aprire una fase nuova, simile a quella post-fascista, quando dopo lunga attesa i cattolici approdarono alla guida del Paese. L'agenda di un'Italia senza il Cavaliere. Oltre Berlusconi, dopo Berlusconi. Un'agenda in cinque punti: intraprendere, educare, includere le nuove presenze, slegare la mobilità sociale, completare la transizione istituzionale. Il manifesto della Chiesa italiana per il post-berlusconismo, alternativo ai cinque punti su cui il premier ha chiesto la fiducia alle Camere. Con qualche sorpresa. I "principi non negoziabili", per esempio, sbandierati per anni dalla gerarchia ecclesiastica come unico criterio di giudizio elettorale per i politici, la difesa della vita, la difesa della famiglia, la scuola cattolica, arrivano in fondo al documento, nella penultima pagina. Le priorità sono altre: lavoro e fisco, educazione, immigrazione.

La novità più grande è nell'ultimo punto, il più politico, le riforme. "Serve qualcosa di più di una buona manutenzione istituzionale. Va completata la transizione istituzionale", si legge nel testo. E la soluzione indicata, una volta tanto, non lascia dubbi: "L'incertezza scaturisce dal mancato completamento del modello competitivo che rafforza i ruoli del governo, dell'opposizione e dell'elettore. Bisogna consentire in modo pieno e trasparente agli elettori di scegliere leader e partito (o coalizione) di governo prima del voto, per permettere un chiaro giudizio dei governati sui governanti".

Un bel cambio di rotta. Il bipolarismo all'italiana agonizza, il Pdl non c'è più, dopo Fini lo ammette anche Berlusconi, il Pd vagheggia alleanze da Casini e Vendola, nelle aule parlamentari proliferano le compagnie di ventura, spesso formate da un singolo condottiero. Ma dalla Cei invece, e proprio in questo momento, giunge una benedizione piena per la competizione a due tra gli schieramenti, uno vince l'altro perde. Grande centro addio? E stop al modello tedesco, ai terzi poli, al sogno di Casini di fare da ago della bilancia tra Pdl e Pd? "La democrazia competitiva è come la Champions League: la finale si gioca in due, al torneo ci si può iscrivere in quindici o in cinquanta. L'importante è che alla fine si sappia chi ha deciso cosa, come avviene a livello amministrativo con i sindaci", risponde il sociologo Luca Diotallevi, vice-presidente del comitato organizzatore della Settimana sociale.

Cinquantenne, umbro di Foligno, cresciuto nella Fuci, è l'ideologo del nuovo corso della Cei modello Bagnasco: riaprire le porte alla politica. Oddio, fa notare Diotallevi, non che i cattolici abbiano mai smesso di contare: "Da quando c'è il bipolarismo alle elezioni due volte ha vinto il centrodestra, due volte il centrosinistra, in tutti i casi, lo dimostrano le ricerche di D'Alimonte e Mannheimer, i cattolici praticanti sono stati decisivi. Ma ora, dicono il papa e il cardinal Bagnasco, di fronte a problemi nuovi serve una generazione politica nuova. Una generazione, attenzione: non solo né innanzitutto schieramenti o partiti nuovi".


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Titolo: Marco DAMILANO - Bersani tenta il miracolo
Inserito da: Admin - Ottobre 30, 2010, 12:33:04 am
Bersani tenta il miracolo

di Marco Damilano (26 ottobre 2010)


Il rischio c'è. A Milano, ad esempio, in vista delle primarie del 14 novembre per il candidato da contrapporre a Letizia Moratti, i sondaggi danno quasi alla pari il nome ufficiale del Pd, l'architetto Stefano Boeri, e l'avvocato Giuliano Pisapia, candidato della sinistra vendoliana. "E se dopo la Puglia dovessimo perdere le primarie anche a Milano verrebbe giù tutto", ammettono in largo del Nazareno. Per questo i circoli del Pd sono impegnati come mai negli ultimi anni a sostegno dell'esterno Boeri. A Torino, dove si vota in primavera per il Comune, i notabili del Pd sono divisi tra chi vorrebbe candidare il rettore del Politecnico Francesco Profumo, chi spinge per primarie a tre con Roberto Placido, Davide Gariglio e Roberto Tricarico, e chi vorrebbe mettere in campo il pezzo da novanta Piero Fassino, con l'appoggio dell'uscente Sergio Chiamparino. A Bologna c'era la candidatura del super-popolare Maurizio Cevenini, ma un improvviso malore l'ha rimessa in discussione. E a Napoli si faranno le primarie, tra l'ex ds Umberto Ranieri, legato a Giorgio Napolitano, e i due ex bassoliniani Nicola Oddati e Andrea Cozzolino. Ma con quale schema di gioco non si sa.

Rese dei conti locali che la segreteria del Pd fatica a controllare. Troppo impegnata a spegnere le tensioni tra i big del partito. L'operazione "Nuovo Ulivo" dispiace a molti. A Veltroni, che non smette di invocare il papa straniero, il candidato extra-politico per la guida del centrosinistra alle elezioni che ha le sembianze di Luca di Montezemolo. Ma il Nuovo Ulivo non entusiasma neppure il principale azionista del Pd, Massimo D'Alema. Convitato di pietra al pranzo Bersani-Vendola. "Nichi, guarda che Massimo non ti vuole bene", ha spiegato il segretario. Bella notizia, si dirà: ma forse Bersani intendeva dire che anche con lui i rapporti non sono più idilliaci. Nel Pd aumenta l'insofferenza verso le manovre dell'ex premier, la triangolazione di D'Alema con Casini e soprattutto con Gianfranco Fini (i due si vedono nel fine settimana ad Asolo per il convegno delle fondazioni Italianieuropei e Farefuturo). Relazioni che anche Bersani ha preso a coltivare in prima persona. E un Bersani che dà prova di volersi emancipare dalle tutele e giocare la sua partita da leader non riscalda troppo D'Alema. Al punto che l'hanno sentito lamentarsi: "Che torno a fare in Parlamento? Sono sempre all'estero, ormai ho una dimensione internazionale...".

Per ora è appena una tentazione, clamorosa: l'ex premier potrebbe decidere di passare la mano, di non candidarsi alle prossime elezioni. Per dare una lezione ai rottamatori alla Matteo Renzi che lo vorrebbero spedire in pensione. E mettersi alla finestra, come riserva della Repubblica, in attesa di qualche alto incarico istituzionale. Chissà se per Bersani è una buona o una cattiva notizia.

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Titolo: Marco DAMILANO - Casini in vista
Inserito da: Admin - Dicembre 16, 2010, 10:00:42 pm
Casini in vista

di Marco Damilano

Le lusinghe di Berlusconi azzoppato alla Camera. Le aperture della Lega.

Così il capo dell'Udc conquista la leadership del centro e diventa il perno dei giochi politici.

Intanto con Fini e Rutelli dà vita al Polo della Nazione

(16 dicembre 2010)

L'aveva annunciato agli amici la notte prima della battaglia: "Domani, comunque vada, sarà un successo". Convinto che, in ogni caso, il 14 dicembre avrebbe rappresentato il capolinea per Silvio Berlusconi, costretto a inseguire il voto dell'ultimo degli Scilipoti per sopravvivere. E quando nell'aula l'ha visto soffrire appeso alle bizze dei peones, ha capito che la fase del berlusconismo onnipotente e trionfante è finita. E che se il Cavaliere vuole un finale di partita sereno, una dignitosa pensione, da lui dovrà passare. Mentre nell'aula di Montecitorio volavano ceffoni e pallottolieri, un solo uomo poteva passeggiare tra le macerie del centrodestra vistosamente soddisfatto. Un teorico del lento strangolamento dell'avversario, scuola democristiana, molto più efficace del beau geste generoso ma inutile di moda a destra, tra i finiani. No, a cercare la bella morte Pier Ferdinando Casini non ci ha mai tenuto. E ha considerato un piccolo trionfo personale il pellegrinaggio di Berlusconi tra i banchi dell'Udc. Il Cavaliere sale da Casini a votazione non ancora conclusa, sotto gli occhi dello sconfitto Gianfranco Fini. Pacche, buffetti, battute ("Pier, ma perché non ti tingi i capelli? Sembri più catacombale di me..."), tutti i deputati centristi abbracciati intorno al loro leader e al premier come giocatori di rugby in pacchetto di mischia, Ferdinando Adornato che si affanna a saltellare come su di una scaletta invisibile per farsi notare da quel Berlusconi che aveva mollato tre anni fa e che forse, chissà, tornerà alleato.

Fosse stato per il Cavaliere quei 35 deputati non sarebbero mai dovuti esistere: assorbiti nel 2008 nel Pdl, come An, e destinati a essere triturati e digeriti. O lasciati fuori dal Parlamento, per mancato raggiungimento del quorum. Invece Pier è lì, e il voto della Camera del 14 dicembre gli spalanca magnifiche sorti. La maggioranza berlusconiana si è dissolta, impossibile governare. Fini, l'altro aspirante leader del terzo polo, ha messo in gioco nella sfida mortale con il Cavaliere gran parte della sua credibilità politica. Mentre Casini non aveva nulla da perdere, lui la sfiducia l'ha già votata quasi 40 volte dall'inizio della legislatura, e molto da guadagnare. La ripresa di un corteggiamento serrato da parte del Pdl. La caduta del veto della Lega nei suoi confronti, pochi istanti dopo il voto, con Umberto Bossi che prova a ritagliarsi il ruolo di gran mediatore in una nuova maggioranza Pdl-Lega-Udc. La riconquista della centralità politica, insomma, da cui si gestiscono tutte le manovre.

Un anno fa, giusto di questi tempi, Pier aveva lanciato l'idea di un nuovo Cln anti-berlusconiano, candidandosi a guidarlo. Il ruolo gli è stato poi soffiato da Fini e a lungo Casini ha accettato di fare da comprimario. Ora le parti si invertono: "Dal 14 dicembre", ha spiegato il leader ai suoi, "io non parlo più a nome solo dell'Udc, ma di tutta l'area centrale, da Fini a Rutelli. Berlusconi ci offrirà l'impossibile, ma noi dobbiamo resistere sulla nostra linea di sempre: non entriamo in questo governo a fare da stampelle, magari in vista di scelte dolorose imposte dalla crisi economica. Vorrebbero condividere con noi il prezzo elettorale di una patrimoniale che colpirà imprese e famiglie al Nord, ma il giochino non riuscirà. Se Berlusconi vuole davvero aprire una pagina nuova la strada è sempre la stessa: deve dimettersi e lanciare un governo di unità nazionale con dentro le forze responsabili, compreso il Pd. Se non lo farà ci saranno le elezioni: ma sarà chiaro che se si va al voto è tutta colpa sua".

Eppure Berlusconi ha già squadernato il suo bouquet: unione dei moderati, nuovo programma di governo con aperture sulla legge elettorale, e nuova compagine ministeriale, ovvero più poltrone per tutti, nel governo e non solo. Virtualmente in palio è la presidenza della Camera, in caso di dimissioni di Fini, che potrebbe andare a Rocco Buttiglione. Nel governo traballa il ministro dello Sviluppo, l'inesistente Paolo Romani: il suo incarico è stato già offerto al transfuga del centrosinistra Massimo Calearo, decisivo per salvare il governo, ma potrebbe tornare utile per accontentare i centristi in crisi di astinenza da potere.

   
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Titolo: Marco DAMILANO - Fini rilancia: "Fli non muore"
Inserito da: Admin - Febbraio 27, 2011, 05:49:39 pm
Fini rilancia: 'Fli non muore'

di Marco Damilano

I ritorni nel Pdl? «Un delirio, frutto di allucinazioni o malafede»

Berlusconi? «Vuole uno stato di conflitto perenne, un'ordalia infinita».

Futuro e Libertà? « Andiamo avanti verso una destra liberale: sarà una traversata nel deserto ma c'è in gioco un grande progetto politico».
Parla il presidente della Camera

(24 febbraio 2011)

No, non mi sento uno sconfitto. Mi sento in battaglia, fermamente intenzionato a combattere per un'altra idea di centrodestra. Saranno gli elettori a dire alla fine se questa idea ha cittadinanza. O se l'unico centrodestra possibile in Italia è quello di Berlusconi e di Bossi". Si scioglie il gruppo di Futuro e Libertà al Senato, continua il transito di ex fedelissimi verso Palazzo Grazioli, ma visto da vicino il presidente della Camera non sembra affatto il politico finito di cui sghignazzano i peones del Pdl alla buvette di Montecitorio. Calma zen, determinato, in un lungo colloquio Gianfranco Fini ripercorre il suo anno più burrascoso, dalla nascita di Fli fino al travaglio di questi giorni. Gelide considerazioni su chi se ne va: "Un delirio: frutto di allucinazione collettiva, o di malafede". E la consapevolezza che la strada è ancora molto lunga: "Una traversata nel deserto a piedi, l'esito è tutt'altro che scontato. In gioco c'è molto di più di un gruppo parlamentare: c'è un progetto politico ambizioso e, banalità, il futuro della persona che anima il progetto. Comunque Fli non vuole partecipare allo scontro quotidiano tra berlusconiani e anti-berlusconiani: sono due facce della stessa medaglia".

Un progetto che per Fini viene da lontano: "Non c'è nessuna improvvisazione, come qualcuno pensa: prima di essere brutalmente estromesso dal Pdl, con la fondazione Farefuturo avevo cercato di proporre un centrodestra sensibile ai diritti civili, rispettoso delle istituzioni, innovativo sull'integrazione degli stranieri". Nessuna volontà di rottura, all'inizio. Neppure nella direzione Pdl dello scontro pubblico con Berlusconi, quello del "che fai mi cacci?", finito sulle magliette dei giovani finiani: "Non sapevo cosa avrebbe detto Berlusconi quella mattina, quel che è successo è stata una sorpresa anche per me. La verità è che sono stato messo alla porta: Berlusconi è talmente l'opposto dei valori liberali che sbandiera da non poter tollerare alcun tipo di dissenso".

La traversata nel deserto parte da lì. Insieme al mix di attacchi contro chi non si piega e di lusinghe verso chi torna indietro che fanno parlare al fondatore di Fli di "armi seduttive del potere finanziario e mediatico". Mai si è visto un presidente della Camera denunciare l'esistenza di deputati disposti alla campagna acquisti, ma Fini puntualizza: "Mi sono meravigliato a vedere le mie frasi così tradotte: deputati comprati. Il mio ragionamento è più ampio: il conflitto di interessi esiste, lo sa bene anche la sinistra che quando ha governato ha ignorato la questione, in una fase in cui la messa all'indice di chi si oppone diventa il tratto distintivo, contrastare il gigante comporta gravi rischi. Ma la nuova anima del berlusconismo non è il conflitto di interessi, è l'oggettivo interesse al conflitto. C'è un interesse al conflitto permanente per creare uno stato di tensione, una perenne ordalia in cui si fa vivere agli italiani sempre l'ultima ora della campagna elettorale decisiva. Berlusconi alza muri per far dimenticare i suoi fallimenti, scava fossati contro i nemici: i comunisti, i giornalisti, i magistrati, gli alleati infedeli, Santoro, Fini... Va ben oltre il conflitto politico: come ha sottolineato il capo dello Stato, il pericolo è scatenare un conflitto istituzionale. Berlusconi ha delle istituzioni la stessa idea che ha del Pdl: una concezione proprietaria che lo porta ad attaccare i giudici, la Consulta, la Camera, fino a lambire il Quirinale".

Oggi, però, imprevedibilmente il principale nemico dell'uomo di Arcore è diventato il leader della destra italiana, ieri delfino in pectore, ora accusato di ogni nefandezza, compresa quella di aver stretto un patto occulto con le toghe per bloccare ogni riforma sulla giustizia. "Risibile", reagisce Fini: "Io vado fiero di aver esercitato, nella fase in cui ero determinante nel Pdl, un notevole potere di interdizione per bloccare presunte riforme che non avevano nulla a che fare con l'interesse generale". Sul caso Ruby il presidente della Camera sgombra il campo dai sospetti: "Non è né saggio né giusto auspicare che Berlusconi possa essere costretto a rassegnare le dimissioni per via giudiziaria. Berlusconi va sconfitto politicamente, con le elezioni". E ripete quello che dichiarò a vicenda appena scoppiata, quattro mesi fa: "Se quella telefonata c'è stata, ci sarebbe un uso privato di incarico pubblico". "Nulla da aggiungere oggi, se non che sottoscrivo in pieno quanto ha detto il capo dello Stato: l'imputato ha diritto di difendersi nel processo, non dal processo. Ed è un'ipocrisia dire: il giudice naturale è il Tribunale dei ministri. Se fosse davvero così basterebbe che il Pdl chiedesse alla Camera l'autorizzazione a procedere in tal senso. Altrimenti è tutto un infingimento. Un gioco degli specchi".

 
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Titolo: Marco DAMILANO - Opposizione - Allora, lo trovate un leader?
Inserito da: Admin - Aprile 25, 2011, 12:24:37 pm
Opposizione

Allora, lo trovate un leader?

di Marco Damilano

Berlusconi crolla in tutti i sondaggi. Il Pdl è diviso. La maggior parte degli italiani vorrebbe voltare pagina.

Ma né il Pd né gli altri partiti riescono ancora a coagulare questo potenziale di consenso verso un'alternativa

(22 aprile 2011)

Ostruzionismo parlamentare, manifestazioni di piazza, campagne di affissione, tentativi di spallata, maratone televisive.
Perfino una seduta collettiva di psicanalisi, e per una volta non è un modo di dire: nella sala del Mappamondo al piano nobile di Montecitorio la settimana scorsa c'erano un centinaio di persone ad ascoltare lo psicanalista lacaniano Massimo Recalcati, invitato a parlare dell'odio in un seminario organizzato dal Pd sulle passioni degli italiani. Le provano tutte per mandare a casa Silvio Berlusconi, non c'è che dire, fedeli al mandato del segretario Pier Luigi Bersani: "Quello non molla, noi dobbiamo durare un minuto più di lui".
Le altre opposizioni non sono da meno.

C'è Antonio di Pietro con i referendum su acqua e legittimo impedimento (quello sul nucleare che avrebbe consentito di raggiungere il quorum previsto per la validità è stato furbescamente disinnescato dal governo), ci sono Pier Ferdinando Casini e Francesco Rutelli in campagna elettorale per il Terzo Polo, c'è Gianfranco Fini che riceve l'Associazione nazionale magistrati nel giorno di massimo scontro tra Berlusconi e le toghe, Nichi Vendola gira l'Italia come un predicatore, Luca Cordero di Montezemolo attacca la politica economica del governo e incombe... Anche se poi, alla prova dei fatti, l'affondo più doloroso per il Cavaliere arriva da una figura che a rigore non appartiene alla minoranza, anzi, non rappresenta una parte: il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, tocca a lui ripulire la lista di Milano del Pdl dal kamikaze anti-pm e avvertire il premier che sulla giustizia il Quirinale non potrà tacere.

L'Opposizione c'è, l'Alternativa ancora tarda ad arrivare. Perché, a differenza di quanto avveniva fino a pochi mesi fa, sarebbe a dir poco ingeneroso sostenere che in Parlamento l'opposizione, anzi, le opposizioni, siano assenti o poco combattive. Nel corso della legislatura alla Camera sono riuscite a mandare il governo sotto per ben 72 volte. E durante le votazioni sulla prescrizione breve, per esempio, hanno dato battaglia sulle procedure, emedamento per emendamento, guidati da un professionista del cavillo regolamentare come il deputato Roberto Giachetti, vecchia scuola radicale. Ma quando si è votato a scrutinio segreto è arrivata la sorpresa più amara: invece di perdere consensi la maggioranza ne ha guadagnati, almeno sei deputati dell'opposizione nell'anonimato si sono aggiunti a Pdl e Lega, forse di più. E il catenaccio berlusconiano non sarà un bello spettacolo a vedersi, 314 deputati tenuti insieme dai Responsabili, ma può bastare per provare ad aprire nuovi fronti. "Dopo la giustizia Berlusconi tenterà di eliminare la legge sulla par condicio. E poi passerà a modificare la legge elettorale, per tagliare le gambe al nascente Terzo Polo", prevede il giovane stratega dell'Udc Roberto Rao.

Basta opporsi nelle aule parlamentari, meglio uscire e andare in piazza. Nel Pd si sono scontrati sull'alternativa due big come Massimo D'Alema e Rosy Bindi, per arrivare alla saggia conclusione che si possono fare entrambe le cose. E infatti, dal 13 febbraio, il giorno della manifestazione delle donne, la più affollata e coinvolgente, al Palasharp convocato da Libertà e Giustizia (5 febbraio), ai cortei per la Costituzione (12 marzo), alla Notte bianca per la democrazia (5 aprile), che hanno visto sfilare insieme esponenti della sinistra radicale e deputati di Futuro e libertà, per non parlare delle manifestazioni convocate da Pd, Idv, Emergency, Popolo Viola, giovani precari, non c'è stato fine settimana che sia trascorso senza le piazze piene di manifestanti contro il governo. E la stanchezza si avverte anche tra i più entusiasti.

Una mobilitazione che ricorda un'altra stagione, il biennio 2001-2003. Anche in quella stagione c'era Berlusconi al governo, alle prese con le leggi ad personam, e l'opposizione in piazza nelle sue varie sfaccettature: i girotondi di Nanni Moretti, la Cgil di Sergio Cofferati, i no global, i pacifisti. Ma in quel caso le piazze raggiunsero l'obiettivo di risvegliare i partiti. E il centrosinistra vinse tutte le elezioni intermedie, le amministrative, le europee, le regionali, era in attesa del suo candidato premier, Romano Prodi, e coltivava un progetto, l'alleanza tra l'Ulivo e Rifondazione. Mentre oggi, nonostante gli ultimi sondaggi che danno in testa sia pure di poco la coalizione di centrosinistra (il 43,3 contro il 41,3 del Pdl-Lega) e largamente in testa con una grande alleanza allargata al Terzo Polo, il 54,5, non si vede all'orizzonte un leader, un progetto, e neppure un'alleanza.

Alle amministrative del 15 maggio, nelle grandi città dove il voto è politicizzato, Torino, Napoli, Bologna, Milano dove la partita è decisiva per il governo nazionale, il centrosinistra e il Terzo polo Udc-Fli-rutelliani corrono divisi, in attesa dei ballottaggi. Nessun laboratorio di nuove alleanze, almeno nei comuni che contano. Niente di paragonabile alle elezioni di Brescia nel 1994 dove l'allora Pds e il Ppi candidarono sindaco Mino Martinazzoli, anticipando di qualche mese l'alleanza dell'Ulivo. Tra Bersani e Casini, per ora, la frequentazione è assidua soprattutto nei convegni e nelle presentazioni dei libri dove fanno coppia fissa. Uno snervante corteggiamento, per il matrimonio non è ancora tempo. Eppure, come ha detto Massimo D'Alema in un dibattito con Paolo Flores D'Arcais, "c'è un arco di forze che va dalla destra democratica di Fini alla sinistra radicale che vale il 60 per cento del Paese". Certo: il problema è come metterlo insieme. Perché, per ora, è uno schieramento "contro". E D'Alema, da sempre considerato il più inciucista dei leader della sinistra, è oggi l'esponente più anti-berlusconiano del Pd.

Se sul fronte alleanze siamo ancora alle buone intenzioni, sul programma l'opposizione è al libro dei sogni. Quello del Pd si chiama Pnr, Programma nazionale di Riforma per l'Italia, in risposta al Pnr presentato da Giulio Tremonti. Quando il responsabile economico del partito Stefano Fassina ha protestato con il "Corriere" per lo scarso spazio dedicato dal quotidiano all'evento di una conferenza stampa del Pd, si è beccato una gelida replica di Ferruccio De Bortoli: "Le vostre proposte sono così innovative che passano inosservate. E lei sa che il "Corriere" è aperto a ogni vostro contributo. Anche il più inutile". In linea con una perfida battuta riservata ai Bersani boys in tv da Francesco Storace: "So' ragazzi che studiano". Bravi, preparati, assenti dal dibattito politico, senti dire di loro.

Il Pnr ombra del Pd contiene, ad avere la pazienza di leggerlo, alcune buone idee (per esempio, l'introduzione del salario minimo per i lavoratori esclusi dal contratto nazionale), accanto a impegni a dir poco generici e per di più espressi con un linguaggio di non facile presa ("Va abbandonata la strada iniqua ed inefficiente dei tagli ciechi e riavviata e potenziata un'analisi approfondita di tutte le poste del bilancio pubblico attraverso processi di spending review...").

Problema di comunicazione? Sì, certo. Non bastava la massiccia campagna di affissione del segretario Bersani, quella con il leader un po' dimesso in maniche di camicia e la scritta "Oltre", ora ci si mettono anche i candidati sindaco del centrosinistra a fare la felicità dei blogger con i loro slogan strampalati. Medaglia d'argento, il prefetto Mario Morcone, in corsa a Napoli con questo biglietto da visita: "Genio e regolatezza". Geniale, in effetti. Medaglia d'oro, il manifesto di Virginio Merola, candidato sindaco a Bologna: "Se vi va tutto bene, io non vado bene", con sottolineatura del "non". Un capolavoro di messaggio negativo, quello che resta di una macchina propagandistica leggendaria che ha fatto la storia della comunicazione politica in Italia fino all'avvento di Berlusconi. E meno male che negli ultimi mesi il Pd si è dotato di un'apposita struttura (ribattezzata Gamma, per contrapporla alla Delta di palazzo Grazioli) che ha la missione di curare la guerriglia comunicativa dei democratici su Internet. La tv del Pd YouDem riflette la sensazione di un partito ripiegato su se stesso, con i dirigenti della segreteria impegnati in una continua opera di promozione di se stessi e delle loro iniziative. Cosa arrivi di tutto questo attivismo agli elettori e ai settori della società interessati è un mistero. Alla regola dell'autoreferenzialità non sfugge neppure un personaggio schivo come Bersani, onnipresente su Youdem, sui manifesti, a dire la sua sullo scibile umano. E mentre il segretario chiede a gran voce le elezioni anticipate l'ex segretario Walter Veltroni si fa vivo firmando un appello con Giuseppe Pisanu per un "governo di decantazione".

Una Babele che non riguarda solo il Pd. In Futuro e libertà gli scontri tra l'anima movimentista di Fabio Granata e di Flavia Perina e quella filo-berlusconiana di Adolfo Urso e Andrea Ronchi sono pane quotidiano. A Milano il Terzo Polo si è diviso sul candidato sindaco, in testa c'era il popolarissimo Bruno Tabacci, che però aveva il difetto di essere un fuoriuscito dell'Udc. E la scelta è caduta sull'ex Pdl Manfredi Palmeri, di sicuro non un peso massimo.

Perfino la stella di Vendola sembra appannata. Mentre i sondaggi segnalano un possibile exploit delle liste a cinque stelle, il movimento di Beppe Grillo, dopo il risultato a sorpresa di un anno fa alle elezioni regionali. Se i grillini toccheranno percentuali significative nelle grandi città, a Milano, Torino, Bologna, al vasto schieramento di opposizione che insegue D'Alema si aggiungerà un nuovo soggetto che non può essere incasellato nei vecchi schieramenti. Un problema in più. In attesa che si affronti, finalmente, la madre di tutte le questioni: la leadership. Dopo le amministrative diventerà una necessità. Non si può combattere Berlusconi senza un leader, un progetto, un'alleanza. Nel '95, all'epoca del patto vincente tra D'Alema e i cattolici democratici del Ppi, la scelta di candidare Prodi fu determinante per l'invenzione dell'Ulivo e per il progetto di portare l'Italia nell'euro. Oggi il paradosso è che un'opposizione così ridotta è comunque in testa ai sondaggi e potrebbe espugnare tra tre settimane qualche città importante. Ma l'alternativa al berlusconismo ancora non c'è.

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Titolo: Marco DAMILANO - B. muore e il veleno è Santanchè
Inserito da: Admin - Giugno 01, 2011, 06:09:50 pm
Esclusivo
(25 maggio 2011)

'B. muore e il veleno è Santanchè'

di Marco Damilano

«Non ha mai capito niente di politica. E' ambiziosa, ma è pura plastica senza contenuto. Ha plagiato il Cavaliere, stanco e invecchiato: quasi una circonvenzione di incapace. E presto lo tradirà», Parla  Paolo Cirino Pomicino: uno che la conosce molto bene


Onorevole Paolo Cirino Pomicino, lo ammetta: tutta colpa sua? «Sì, lo confesso. Sono io il colpevole dell'ascesa di Daniela Garnero Santanchè. Fui io a presentarla a Silvio Berlusconi nel Duemila. Attraccammo alla Certosa, Silvio indossava un kaftano bianco, Daniela era emozionata». Attraverso la carriera della Crudelia del Pdl, l'ex ministro, uno dei potenti della Prima Repubblica, ripercorre vent'anni di berlusconismo. Miseria senza nobiltà.

Quando conobbe la Santanchè?
«Nel 1988, ero ministro della Funzione pubblica. Lei era fascista fino all'inverosimile, non lo nascondeva».

E lei invece aveva fama di tombeur de femmes...
«Una fama usurpata, ma quella volta respinsi ogni provocazione. Anche perché non era rivolta a me, ma a un ministro».

D'accordo: ma allora perché era così amico della Santanchè?
«Ho sempre avuto attenzione per le pecorelle smarrite...».

A quale ovile voleva portarla?
«La mia megalomania mi spingeva a pensare che le avrei insegnato cos'è la politica vera. E invece scoprii quasi subito che Daniela era puro marketing, il prodotto non c'era. Una volta la chiamai ladra di cognomi perché usava quello dell'ex marito. Mi rispose: "Santanchè non è un cognome, è un brand"».

Aveva già le idee chiare. Altri segnali di ambizione?
«Nel '95 mi assillò perché partecipassi alla giuria di una gara culinaria da lei presieduta. Mi fecero assaggiare pietanze immangiabili, finché me ne portarono una disgustosa ed esclamai: "Fa schifo!". Mi arrivò un pugno, era lei: "Zitto, è il mio piatto, devi farmi vincere". Vinse, infatti. E poiché presiedeva la giuria fece consegnare il premio al compagno Canio Mazzaro. Lui, il mio più caro amico, commentò: "La tua amica non conosce vergogna..."».

Girare con Pomicino in quegli anni, però, era un atto di coraggio...
«Daniela diceva che i suoi referenti politici erano Andreotti e Cirino Pomicino, uno sotto processo per mafia, l'altro per corruzione.
Ma lo faceva per acquistare credito. Stare con me le consentiva di entrare in politica. Nel '99 fu eletta consigliera provinciale a Milano. E poi la presentai a Berlusconi. Con Silvio magnificai le sue qualità: la tenacia, l'ambizione che in quel momento non era ancora sfrenata, la rapidità di intelligenza che può diventare una circostanza aggravante...».

Un anno dopo, infatti, diventò deputato, in quota An.
«E lì cominciarono scene indimenticabili. Un giorno mi si presentò la seguente visione: Daniela scosciata intenta a farsi fare una pedicure, dietro di lei un professore di storia con un libro in mano che le raccontava le guerre di indipendenza. Il poveretto era stato assunto per farle ripetizioni di storia, nonostante la Santanchè vantasse una laurea in scienze politiche».

E lei, invece, su quale materie doveva esibirsi?
«Ero il ghost writer, scrivevo i discorsi. Una fatica allucinante! Le avevo suggerito di entrare in commissione Bilancio».

Voleva continuare a dettare legge tramite la sua amica?
«Io dettavo una sola cosa, i suoi discorsi. Lei li scriveva e poi li rileggeva ad alta voce in casa, costringendo la mia compagna a cronometrarla per restare nei tempi della Camera. Una volta Publio Fiori in aula la elogiò sarcasticamente: "Ottimo intervento, onorevole Pomicino"».

Lei invece era fuori dal Parlamento. Chissà la frustrazione!
«Assolutamente no perché intanto ero diventato Geronimo. I rapporti si guastarono quando tornai in Parlamento. Frequentando uomini di potere si era convinta di essere una delle donne più influenti d'Italia. Mi disse che avrebbe potuto scatenarmi contro i poteri dello Stato.
Il 9 aprile 2007, mentre entravo in sala operatoria per il trapianto di cuore, rivelò a una persona vicina di sperare che io non mi risvegliassi più. Mai sentito un politico augurare la morte a un collega».

Come si spiegò questo odio?
«Nascondeva una preoccupazione: morto io non avrei più potuto rivelare le cose che sapevo della sua vita privata».

A cosa si riferisce?
«Non dico nulla. Sono un gentiluomo napoletano: della sua vita privata non parlerei e non parlerò».

   
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Titolo: Marco DAMILANO - Non stupitevi se tra un mese succederà qualcosa di serio ...
Inserito da: Admin - Giugno 04, 2011, 07:30:06 pm
Se B. finisce col 'botto'

di Marco Damilano

Non bisogna illudersi che la nomina di Alfano esaurisca le strategie del premier.

Nelle istituzioni si parla chiaramente di un uomo ormai capace di tutto: «Non stupitevi se tra un mese succederà qualcosa di serio...»

(03 giugno 2011)

Il Grande Sconfitto è lì, a un passo, circondato da babbione e prefetti in pensione che Gianni Letta gli presenta indefessamente per evitare che si senta solo. Nei giardini del Quirinale, festa della Repubblica, Giorgio Napolitano, Re Giorgio, riceve seduto l'omaggio di alte cariche e vip, una fila interminabile di ambasciatori, giornalisti, attori, accanto a lui Silvio Berlusconi appare isolato e irrequieto. Un uomo delle istituzioni, una vita al servizio dello Stato e un'onorata carriera politica alle spalle, osserva la scena. Conosce bene Berlusconi e non trattiene l'inquietudine: «Quell'uomo non mollerà ed è capace di tutto. Temo che nelle prossime settimane possa perfino succedere qualcosa di brutto».

Cos'è ancora in grado di fare un premier che ha perso le elezioni amministrative in casa, a Milano e ad Arcore, a Napoli e in Sardegna, e che nell'ultimo vertice internazionale, al G8 di Deauville, si è coperto di ridicolo informando Barack Obama dell'esistenza in Italia di una dittatura dei giudici di sinistra? «Non sia superficiale: quell'orrenda figuraccia in favore di telecamera non si spiega, in effetti. A meno che...».

A meno che? Il servitore dello Stato esita un istante. E' abituato a pesare bene le parole. Passano Matteo Renzi con la moglie, il ministro Raffaele Fitto e Mariastella Gelmini con le ballerine ai piedi, Cesare Geronzi e Umberto Vattani. Il tono si abbassa ancora di più: «A meno che quella scena non serva a dire al presidente degli Stati Uniti e al mondo intero: guardate, in Italia siamo in una condizione di anomalia democratica, non vi stupite se tra un mese succederà qualcosa di serio. Uno scossone, un botto». Sì, c'è anche questo da registrare nel crepuscolo del berlusconismo. Presagi. Pensieri oscuri. Scenari drammatici che si accavallano sui prati del Quirinale in una festa della Repubblica con pochi precedenti.

Se chiedi cosa succederà ora ai massimi esponenti di maggioranza e opposizione la risposta è la stessa: chissà. E' l'incertezza che avvolge tutti gli interpreti di questo psicodramma, paragonabile solo alla stagione '92-'93, la fine traumatica della Prima Repubblica. Il protagonista numero uno, Berlusconi. E gli antagonisti, il campo dell'opposizione che appare sorpreso più che preparato, diviso tra chi si aggrappa ai vecchi schemi tattici e chi vorrebbe cavalcare l'onda. Per evitare che la personale e politica via Crucis di Silvio Berlusconi si trasformi in un Calvario per il Paese. Che ancora una volta la questione privata del Cavaliere finisca per coinvolgere tutti.

La prima stazione che Silvio deve affrontare è il Pdl in implosione. Il primo partito italiano è balcanizzato. L'Imperatore vacilla, valvassori e valvassini ricontrattano le loro rendite. Gianni Alemanno vorrebbe un cambio del nome; Ignazio La Russa un congresso; Franco Frattini un direttorio; Roberto Formigoni evoca le primarie: e Giuliano Ferrara ha già pubblicato sul "Foglio" il regolamento della corsa, da tenersi il 2 ottobre, con tanto di versamento di 5 euro. Macché, si infuria il direttore del "Giornale" Alessandro Sallusti, «il berlusconismo non si può ridurre a norme rigide e statutarie, primarie, riti pazzeschi, assemblee interminabili». «La verità è che Berlusconi non può fare nulla, è bloccato dagli ex fascisti alla La Russa: da quando ce li siamo messi in casa abbiamo perso», riassume il capo dei peones Mario Pepe. «Ognuno difende se stesso, cambiare significa rinunciare ai privilegi», scuote la testa il sottosegretario Guido Crosetto.

Il berlusconismo non più vincente si impantana negli organigrammi: Angelino Alfano al partito, Lupi o Cicchitto al governo, Claudio Scajola da recuperare, perché altrimenti l'incidente diventa inevitabile. Perfino le deputate Papi Girls, vista la mala parata, cercano nuovi protettori per tornare in Parlamento. Berlusconi, da solo, non garantisce più. La seconda stazione della via Crucis è il rapporto tra Silvio e la Lega. Pesa il passato: il ricordo del 1994, rottura e ribaltone, ha condizionato le mosse di Berlusconi e di Bossi in tutti questi anni. E pesa anche il futuro: se si apre il dopo- Berlusconi comincia anche il dopo-Bossi e nessuno meglio del Senatur lo sa. Ma non si può più fermare il distacco tra l'uomo di Arcore e la Lega, ferita dalle amministrative. Il 19 giugno il Carroccio si riunirà sul pratone di Pontida, alla vigilia del voto parlamentare sulla verifica di governo. In assenza di fatti nuovi il Senatur potrebbe decidersi a staccare la spina, sulla spinta della base.

I colonnelli sono divisi: tra chi spinge a proseguire e chi vorrebbe ripartire dall'incontro tra Bossi e Gianfranco Fini del novembre scorso, quando si ragionò di altri, possibili inquilini di Palazzo Chigi. Giulio Tremonti. E Roberto Maroni. Ed è questa la terza tappa del Calvario berlusconiano. Una maggioranza che non c'è più nel Paese, come ha fatto tempestivamente notare Giuseppe Pisanu, senatore del Pdl. E che rischia di non esserci più neppure in Parlamento. L'ennesima verifica parlamentare prevista per fine giugno, innescata dalla richiesta del Quirinale di un passaggio alle Camere dopo l'ingresso dei Responsabili in maggioranza, potrebbe trasformarsi nell'occasione per la resa dei conti.

Ma anche la legge sulla prescrizione breve, in arrivo al Senato, potrebbe funzionare da detonatore. Per Berlusconi è la quarta stazione. La Lega è decisa a sbarrare la strada a nuove leggi ad personam: «Basta con il Parlamento bloccato sui problemi personali del premier». No alla prescrizione breve, percorso rallentato sulla riforma della giustizia. Il ministro Alfano ha già avvertito il presidente dell'Assocazione magistrati Luca Palamara: «Tieniti in forma, saranno due anni di combattimento».

Il ring per Silvio sarà il Tribunale di Milano, dove è ripreso il processo Ruby, quinta fermata nella via Crucis berlusconiana. Prevedibile che si diradino le apparizioni del Cavaliere in aula di giustizia. La claque di Daniela Santanchè, visto il risultato, è già tornata a casa. Tutta l'attenzione di Berlusconi è spostata altrove: al 16 giugno, giorno previsto per il verdetto d'appello sul lodo Mondadori. Non meno di 500 milioni, si prevede, da versare alla Cir di Carlo De Benedetti (in primo grado furono stabiliti 750 milioni di euro) come risarcimento per la sentenza comprata che consegnò la Mondadori a Berlusconi. In vista della batosta il premier ha convocato un consiglio di famiglia, con i figli di primo e di secondo letto. Per discutere su quali pezzi cedere e su come ripartire la restante quota del patrimonio.

E' la stazione più dolorosa, la sesta. Sono in gioco gli affetti più cari, altro che il sindaco di Milano o di Napoli. Il core business per cui Silvio Berlusconi è entrato in politica diciassette anni fa. E dire che da ben altre operazioni economiche sarebbe atteso Berlusconi. Una manovra da 40 miliardi di euro, «tempestiva, strutturale, credibile», senza tagli lineari, come quella richiesta dal governatore Mario Draghi nelle ultime considerazioni finali del suo mandato in Banca d'Italia prima di assumere la guida della Bce. Una doppia croce, per Berlusconi. Una nuova stangata, per di più firmata dall'odiato Tremonti, ormai in testa alla black list di Palazzo Grazioli, accusato di essere tra le cause della sconfitta.

Troppo sordo alle richieste di un'immediata riforma fiscale, troppo deciso a blindare il suo operato in difesa dei conti pubblici, troppo evidente l'ambizione di guidare un governo di unità nazionale: senza Berlusconi e con l'astensione del Pd, sempre che il Pd riesca ancora a orientarsi nella Babele postelettorale. Nell'attesa, Giulio Tremonti ignora Berlusconi e coltiva le relazioni con antichi avversari: lungo colloquio con Romano Prodi nei Giardini del Quirinale. Con una signora che alle loro spalle invano provava a farsi notare: la presidente della Confindustria Emma Marcegaglia. Finito? No, il peggio per il premier deve ancora arrivare: ci sono i referendum del 12 giugno sull'acqua pubblica e sul legittimo impedimento cui si è aggiunto, a sorpresa, il sì della Cassazione che ha dato il via libera al quesito sul nucleare,nonostante il tentativo del governo di evitarlo con un decreto ad hoc. Un altro brutto ceffone per Berlusconi. E ora il quorum che sembrava un miraggio diventa a portata di mano e potrebbe essere il rovescio fatale per il premier. Con la credibilità internazionale crollata al livello più basso, perfino oltre il discredito registrato due anni fa dai dispacci americani pubblicati da Wikileaks («Berlusconi è un clown che ha creato un tono disgraziatamente comico alla reputazione italiana»).

Doveva esserci il Quirinale, al termine del percorso del Berlusconi trionfante. Arrivato alla stazione finale della via Crucis, invece, per Berlusconi c'è l'amara scoperta di un Paese che non ride più alle sue barzellette, non crede più alle sue promesse, gli volta le spalle nella capitale del Nord da cui tutto era partito nel 1994. Il carisma del vincitore è svanito, il terremoto di maggio maturato nella società italiana dopo mesi di manifestazioni e di indignazione ha appena cominciato a provocare i suoi effetti. Dove porterà, e in che modo, però, è ancora tutto da vedere. Le scosse sono appena cominciate. Botti a parte.

 
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Titolo: Marco DAMILANO - Tabacci: 'Tremonti, vieni fuori'
Inserito da: Admin - Giugno 10, 2011, 06:31:08 pm
Tabacci: 'Tremonti, vieni fuori'

di Marco Damilano

Il declino del berlusconismo ormai è sotto gli occhi di tutti. E la crisi economica rischia di strozzare il Paese. Quindi il ministro dell'economia deve avere il coraggio di fare un passo avanti. Parla la mente più acuta del Terzo Polo

(09 giugno 2011)

Nello studio Pisapia, a parlare con Giuliano non ancora proclamato sindaco, si è emozionato quando ha rivisto la stanza dov'era entrato da imputato, ad inizio anni Novanta. Pisapia era il suo avvocato nei processi Mani pulite. E oggi Bruno Tabacci si commuove, assapora aria di rivincita. Per lui è pronto l'incarico di super-assessore al Bilancio nella nuova giunta, un'operazione che potrebbe fare da laboratorio a scelte nazionali, con cui il sindaco arancione dimostra di voler sparigliare. "Il Tremonti di Pisapia", l'hanno già ribattezzato. Nell'attesa, Tabacci si appella al Tremonti reale: "Venga in Parlamento ad aprire una nuova fase politica".

Perché al Nord, non solo a Milano, l'asse Berlusconi-Lega perde consensi?
"Perché è vero quello che ha detto il governatore Mario Draghi: il Paese non cresce. E al Nord avvertono più di altri quanto sia lontana dalla realtà la macchina propagandistica di questi anni: siamo i migliori, siamo i primi d'Europa. Al Nord fanno i conti con le favole, dall'ampolla del dio Po agli atei devoti di rito celtico. Negli ultimi quattro lustri la Germania ha riunificato il Paese, Berlino è passata dai Vopos e dal filo spinato a essere la capitale d'Europa, l'economia sociale di mercato tedesca è la locomotiva del continente. Noi, negli stessi lustri, abbiamo realizzato il paradosso di un capo del governo che si paragonava a De Gasperi e che si è comportato da venditore di almanacchi. Di favola in favola nei bar della Padania hanno appreso che il Parlamento aveva creduto alla versione che Ruby fosse la nipote di Mubarak. Ora c'è la disillusione".

Un mito, però, resta in piedi: la riforma fiscale. Il governo riuscirà a presentarla?
"Sono il primo a sostenere una riforma fiscale su modello di quella americana: esaltare detrazioni e deduzioni per accertare la posizione reale del contribuente e non quella virtuale. Ma noi viviamo in un paese in cui il sommerso sfiora il 30 per cento del Pil: c'è una sensazione di disuguaglianza che può sfociare nell'odio sociale. Annunciare la riforma fiscale crea lo stesso effetto dello spostamento dei ministeri al Nord sventolato dalla Lega. Milano e la Brianza ne fanno volentieri a meno: per questa bella idea i leghisti dovrebbero inseguire Bossi e Calderoli sul prato di Pontida. Maroni no, è diverso: sbaglia quando cade nella retorica dei respingimenti, ma è un ministro egregio".

L'uomo chiave è Tremonti. Che voto gli dà?
"Non ho risparmiato critiche a Tremonti in questi anni. E lui è permaloso: una volta che parlavo alla Camera fece finta di stare al telefono per non sentirmi. Ma gli riconosco la gestione oculata della spesa. I tagli lineari sono il suo punto debole, chi guida la politica economica ha il dovere di scegliere: definire i capitoli di bilancio, quelli che vanno sostenuti e quelli che vanno tagliati. Il suo punto di forza? Il prestigio internazionale. Se in seguito a un'incertezza la speculazione o le agenzie di rating ci mettessero sotto tiro avremmo un rialzo del costo del debito rilevante".

Rino Formica ha scritto che Tremonti nel governo è "superiore al suo capoufficio" e si chiede se ha la voglia e la forza per mettere le carte in tavola: lo farà?
"Ho conosciuto Tremonti all'inizio degli anni Ottanta. Io ero a fianco del ministro Giovanni Marcora, lui lavorava con Formica ministro delle Finanze. Sei mesi fa sono andato da lui per dirgli: è il tuo momento. Questo Paese ha bisogno di respirare, di uscire dalla logica delle opposte tifoserie. Tremonti, insieme al professor Mario Monti, ha una grande credibilità internazionale. Ora deve scommettere sul terreno della politica. Non solo deve evitare di assecondare le scorribande di Berlusconi che ancora una volta tenta il triplo salto mortale. Questa volta deve venire in Parlamento, metterci la faccia. E compiere un'operazione di verità".

Può un governo traballante scrivere una manovra di 40 miliardi?
"No, con questa compagnia non si fa nessuna manovra, sia pure spalmata in tre anni. Il voto parlamentare del 14 dicembre era drogato, la fiducia presa per tre voti con l'innesto dei Responsabili ha dato a Berlusconi la sensazione di essere ancora in sintonia con gli italiani. E' il contrario: lo dimostra il fatto che ha perso perfino ad Arcore e a Olbia, il pianerottolo di casa...".

     
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Titolo: Marco DAMILANO - L'uomo che sussurrava ai potenti
Inserito da: Admin - Giugno 25, 2011, 06:42:51 pm
L'uomo che sussurrava ai potenti

di Marco Damilano

Alter ego di Letta. Regista di mezzo governo. Ispiratore dei manager pubblici.

Bisignani è l'uomo ombra della seconda Repubblica.

E ora fa tremare il sistema Berlusconi

(23 giugno 2011)

Al suo successo avevano contribuito una congerie di potentati difficilmente collegabili tra loro, ma che lui era sempre riuscito a usare, manovrandoli come pedine su un'immaginaria scacchiera del potere...". Martedì 21 giugno, solstizio d'estate, il calendario segna san Luigi Gonzaga, ma il san Luigi di piazza di Spagna, confessore di ministre e di boiardi di Stato, non può più rispondere: è agli arresti domiciliari. E qualcuno nei palazzi romani rilegge l'incipit di un romanzo anni Ottanta denso di spioni, cardinali, belle donne, in cui l'autore sembrava volersi descrivere, consegnare la verità più profonda su di sé.

"Il sigillo della porpora", si intitolava quella spy-story all'italiana che fu presentata al teatro Eliseo, e peccato che non ci fosse ancora "Cafonal" a immortalare la scena: il ministro degli Esteri Giulio Andreotti recensore entusiasta ("Il gelido protagonista si commuove solo quando gli uccidono la figlia: una pagina di toccante ed eloquente umanità"), il giovane e rampante Giuliano Ferrara, il re dei critici Enzo Siciliano, e in mezzo a loro lo scrittore, il 35enne Luigi Bisignani. Di quella serata indimenticabile resta qualche scatto, null'altro.

Dalla condanna per la tangente Enimont a due anni e sei mesi (1994) Bisignani è scomparso dalle cronache: un'ombra che ha attraversato l'intera Seconda Repubblica. E ora l'Ombra torna alla luce, con l'inchiesta di Napoli dei pm Curcio e Woodcock, nel pieno di una nuova traumatica transizione politica. Spiega un notabile a Montecitorio: "Siamo come all'8 settembre: una corte in fuga, un governo che si dissolve, eserciti in rotta. Pezzi di Stato contro pezzi di Stato, apparati contro apparati. Una guerra di tutti contro tutti, che si può concludere solo con un ricambio di classe dirigente. O che soffocherà tutti nei suoi miasmi".

Nei palazzi rileggono i verbali dell'inchiesta e riconoscono in controluce nella storia di Bisignani la parabola della politica di questi vent'anni. "Ai tempi di Andreotti, Bisignani era un piglia e porta. Stava in anticamera ed eseguiva. Su uno come Geronzi, Giulio ironizzava: "E' come un taxi, anche se conserva la ricevuta"", spiega un ex democristiano di rango. "Dirigenti pubblici, banchieri, consiglieri di Stato, i De Lise, i Calabrò, i Catricalà, erano guidati dai politici. Svaniti i partiti con la bufera Tangentopoli hanno dovuto trovarsi altri referenti".

Interessi senza volto. Comunanze e affinità che sostituiscono le sedi visibili. Filiere trasversali. Come quella, ad esempio, personificata da Cesare Previti: in apparenza dormiente e condannato, ma ancora abbastanza influente da far inserire nelle liste per la Camera del Pdl Alfonso Papa, il magistrato distaccato nel ministero di via Arenula e oggi deputato Pdl amante di Rolex e di Jaguar di cui i pm napoletani hanno richiesto l'arresto.

La filiera che più si sente minacciata e desiderosa di protezione, però, è un'altra: bastava vedere il balletto improvvisato da Berlusconi nell'aula del Senato, un inconsueto giro di strette di mano tra i banchi del governo per arrivare a stringere davanti a tutti quella del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, il dottor Gianni Letta. A legare il sodalizio tra i due, un quarto di secolo fa, fu Bisignani. All'imprenditore di Arcore serviva un presidio a Roma. E Bisignani non ebbe esitazioni, indicò a Silvio l'uomo giusto: il dottor Letta, appunto.

Letta da direttore del "Tempo" diventa il decoder di Berlusconi nella capitale, e poi il gran ciambellano di Palazzo Chigi, il governante che nessuno ha votato e di cui nessuno conosce le idee politiche e che pure viene candidato alle più alte cariche. L'inchiesta Bisignani lo fulmina alla vigilia della possibile consacrazione istituzionale, la nomina a senatore a vita e perfino il Quirinale. E se Letta risolve i problemi di Berlusconi, l'Ombra Bisignani è il personaggio che spiccia le faccende di mezzo governo, dei vertici degli enti pubblici, del Gotha dell'impresa privata e dei servizi segreti, da Cesare Geronzi a Fabrizio Palenzona.

A lui si affidano i ministri e le ministre di Berlusconi: a Gigi si rivolge con familiarità il titolare della Farnesina Franco Frattini, a lui ricorre il trio rosa Stefania Prestigiacomo, Mara Carfagna, Mariastella Gelmini. Più confidenziale Stefania ("Se escono le intercettazioni sono rovinata"), più prudente Mara, più ambiziosa Mariastella. Ruota attorno all'ufficio di piazza Mignanelli lo stato maggiore della corrente del Pdl Liberamente ("Forse avrebbero dovuto chiamarsi Bisignanamente", maligna un deputato).

Vicino a Bisignani è il titolare delle Infrastrutture Altero Matteoli, tramite il braccio destro Erasmo Cinque. Mentre tra i finiani di Futuro e libertà, capolavoro, si abbeverano ai consigli di Gigi entrambe le anime: il falco Italo Bocchino e la colomba Andrea Ronchi, ministro nel 2008 per grazia ricevuta, forse non solo di Gianfranco Fini.

A Palazzo Grazioli l'Ombra può contare sulla vecchia conoscenza Daniela Santanchè: fu lui il regista dell'operazione Destra, quando la Sarah Palin di Cuneo si candidò premier con il partito di Francesco Storace, fu ancora lui a spingerla a fondare l'agenzia Visibilia, per raccogliere pubblicità per "Libero" degli Angelucci. E c'è il sindaco di Roma Gianni Alemanno, che a leggere la testimonianza del suo ex capo di gabinetto Maurizio Basile, usava cenare a casa della mamma di Bisignani, la signora Vincenzina, per discutere del Gran premio a Roma e chiedere a san Luigi di intercedere presso Flavio Briatore.

L'aggancio giusto per la F1, manco a dirlo: il figlio di Bisignani lavora in Ferrari e con il presidente del Cavallino Rampante c'è una vecchia simpatia. "Di casa a New York come a Parigi, amante delle lunghe gita in bicicletta e della scultura moderna, Luca Cordero di Montezemolo è diventato un manager tenace con un notevole carisma che, a sentire i sondaggi, l'ha imposto come uno degli italiani più conosciuti", magnificava l'allora redattore ordinario dell'Ansa Bisignani in un sobrio lancio del 15 novembre 1991.

Ma c'era da capirlo: emarginato nell'agenzia dopo lo scandalo P2, costretto a occuparsi di camionisti o di poco eccitanti convegni come quello su "Etica e professione" ("Il giornalista deve liberarsi dai cordoni ombelicali del potere economico e politico", tuonava), era stato salvato da Montezemolo: "Nell'89, in occasione dei Mondiali di calcio, noi dell'organizzazione ottenemmo il suo distacco dall'Ansa", ha dichiarato l'ex presidente di Confindustria interrogato dai pm sulle richieste di raccomandazione per l'amico Gianni Punzo e per l'ex compagna Edwige Fenech.

Naturale un po' di gratitudine, anche se sono trascorsi vent'anni. Come appare del tutto normale, nel Bisi-mondo, la rete ai vertici di Eni, Enel, Finmeccanica, Poste, Ferrovie. E la pubblicità di 100 mila euro arrivata dall'Eni a Dagospia per interessamento di san Luigi. Più complicato da spiegare, perfino per un professionista del potere come Bisignani, perché il direttore generale della Rai Mauro Masi si rivolgesse a lui per farsi scrivere la lettera con cui puntava a licenziare Michele Santoro, lo chiamasse con l'assiduità del molestatore e con toni non certo da grand commis: "Je stamo a spaccà er culo". "Mi occupavo di Rai perché ero convinto che Masi non fosse all'altezza", ha provato a giustificarsi il povero Bisignani. E sì che Gigi ha fatto con Mauro coppia fissa: entrambi legati a Lamberto Dini e a Letta, senza trascurare la rive gauche. Tra il 2006 e il 2008 Masi è stato capo di gabinetto di Massimo D'Alema vice-premier del governo Prodi.

E anche Bisignani poteva vantare ottima accoglienza dalle parti dell'ex leader Ds: fu lui a portare il direttore dell'Aise, il generale Adriano Santini, dal presidente del Copasir. "Il generale mi chiese una mano per la sua carriera e mi chiese di parlare bene di lui con Letta. Chiesi a D'Alema se potevo portargli Santini, lui mi disse di sì", ha raccontato a Curcio e Woodcock. Anche in questo caso, giurano i protagonisti, nulla di strano: "Conosco Bisignani da 35 anni", ha testimoniato D'Alema. "Lui conosceva mio padre, era presidente della commissione Finanze della Camera, Bisignani era il portavoce del ministro". Nel '77 D'Alema aveva 28 anni ed era il capo dei giovani comunisti, Bisignani ne aveva appena 23 ed era il più giovane piduista. Vite parallele, in un'Italia in cui tutti si conoscono. E in cui, nonostante l'alternanza dei diversi schieramenti al governo, certi nomi non tramontano mai.

Ora siamo alla vigilia di un nuovo cambio. Se n'è discusso tre mesi fa, sussurra chi sa, in un incontro a porte chiuse all'Aspen sul tema della riforma dei servizi segreti. Pochi gli invitati, c'erano D'Alema e Giuliano Amato, c'era il prefetto Gianni De Gennaro, incrollabile punto di riferimento di questi anni travagliati anche oltre Atlantico, c'era il presidente dell'Istituto Giulio Tremonti, da molti indicato come il vero beneficiario di un terremoto che fa vacillare i suoi avversari nel governo. Assente il procuratore aggiunto di Milano Francesco Greco, che indagò su Bisignani ai tempi Enimont e alle cui analisi il ministro dell'Economia è molto attento. In questi ambienti c'è preoccupazione per le conseguenze dell'inchiesta e si discute già della fase successiva: un governo del Presidente.

"Berlusconi doveva avere il coraggio di voltare pagina. All'Italia serve un governo forte e credibile e il Cavaliere non ha più carte da giocare", ripetono. Il premier non ci sente, prova a blindarsi nel bunker di Palazzo Chigi tra un voto di fiducia e l'altro, aggrappato a una maggioranza nel caos e a un Letta vistosamente indebolito. Tremonti al Senato per il dibattito sulla verifica non si è fatto neppure vedere. E l'Ombra, intanto, continuerà a far tremare con le sue rivelazioni. Il più consapevole che il game is over, la storia è finita, è proprio lui, Bisignani. "Ora che dalla cima si poteva guardare indietro, gli capitava spesso di chiedersi, rabbrividendo, se avrebbe sfidato ancora l'azzardo come gli era capitato tante volte durante l'ascesa", aveva scritto Bisignani nel suo primo romanzo. Ma adesso il suo azzardo coinvolge un intero Sistema.

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Titolo: Marco DAMILANO - Ora Bersani chiuda la ditta
Inserito da: Admin - Settembre 02, 2011, 06:10:29 pm
Ora Bersani chiuda la ditta

di Marco Damilano

"Il caso Penati non è isolato. Nel Pd sono rimaste le dorsali organizzative del Pci. Anche per fare affari. E se non ce ne liberiamo, ci schiacceranno". Parla Arturo Parisi, che per primo pose la questione morale nel centrosinistra

(01 settembre 2011)

Aziende che si fanno partiti. E partiti che si fanno azienda, per "fare gli affari propri e dettare le regole di tutti". "Conta poco che siano Compagnia delle Opere-Pdl, Fininvest-Forza Italia o Coop-Ds", il caso Penati non è isolato, avverte Arturo Parisi, il padre dell'Ulivo. "E' la confusione tra gli interessi economici privati e l'esercizio dei poteri pubblici che va combattuta, a destra e a sinistra", dice il professore, impegnato a raccogliere le firme per il referendum che cancella il Porcellum e restituisce ai cittadini la scelta dei parlamentari.

Lei per primo parlò di questione morale a sinistra quando Unipol provò a scalare la Bnl. Il caso Penati le dà ragione?
"Le ragioni di allora sono destinate ad apparire sempre più evidenti, messe di nuovo alla prova di fatti non del tutto chiariti, meno che mai compresi. Gli stessi nomi: Coop, Unipol, Bnl. Gli stessi tipi di connessioni e triangolazioni tra dirigenti e organizzazioni, politiche, economiche. E la stessa confusione tra morale e politica, come se il problema fosse di comportamenti individuali, l'eterna lotta tra il bene e il male, l'illusione di distinguere i buoni dai cattivi".

E invece, qual è il problema?
"Che Penati sia colpevole o innocente dal punto giudiziario lo può decidere solo la magistratura. Il problema sul quale dobbiamo interrogarci è però nitidamente politico, riguarda la confusione, il conflitto e la distinzione tra interesse generale e interesse individuale e di parte. La confusione tra gli interessi economici privati e l'esercizio dei poteri pubblici. E' questa confusione che ha raggiunto con Berlusconi il suo massimo. E' questo conflitto che ho denunciato e denuncio ovunque si manifesti. Nella sinistra come nella destra. In Berlusconi, ma non meno in chi denuncia Berlusconi".

Per Enrico Berlinguer, lo disse trent'anni fa a Eugenio Scalfari, la questione morale era l'occupazione dello Stato da parte dei partiti. Parole attuali?
"Più attuali che mai. Ma alla occupazione e usurpazione delle funzioni pubbliche si aggiunge ora un nuovo rischio. Ancor più pericoloso. Mentre la presenza della mano pubblica si riduce in Occidente e in Italia, si apre, magari in nome del principio di sussidiarietà verticale, uno spazio che in troppi si propongono di conquistare. Esattamente come nella Russia post-sovietica, nuovi soggetti e nuovi poteri si fanno avanti per conquistare gli spazi abbandonati. Guai se questi soggetti fossero aggregati bifronti politico-economici, che pretendono contemporaneamente di fare gli affari propri e dettare le regole di tutti. Sarebbe il ritorno al feudalesimo".

Chi sono gli "aggregati bifronti"?
"Che siano aziende che si fanno partiti, o partiti che si fanno aziende fa poca differenza. Così come poco conta che siano la Compagnia delle Opere- Pdl, Fininvest-Forza Italia o Coop-Ds".

Quali sarebbero le conseguenze?
"In Italia, come in Russia, la Repubblica che doveva essere dei cittadini, da oligarchia dei partiti diventerebbe confederazione di oligarchi. Capi fazione e insieme riferimento di organizzazione economiche. Regolati da se stessi si spartirebbero lo spazio pubblico abbandonato dallo Stato: previdenza, sanità, istruzione, fino alla Difesa, senza un potere superiore capace di regolarli. A dispetto dei socialisti difensori dello Stato e dei liberali guardiani del mercato".

Torniamo a Penati: è un caso isolato?
"Fino a quando non ho conosciuto Filippo Penati, per i miei ricordi di liceale i Penati erano gli spiriti protettori della famiglia e dello Stato, degli altari e dei focolari. Anche i partiti, soprattutto quelli antichi, hanno i loro Penati, ai quali i funzionari prestano giuramento, esattamente come facevano un tempo i magistrati. Il problema non è perciò capire quanti siano i Filippo Penati nel Pd, ma quali siano i Penati del Pd...".

E quali sono i numi tutelari del Pd?
"E' appunto questo il problema. Capire se e in che misura il Pd abbia ereditato il modello di partito-subcultura, nato per difendere e organizzare la condizione operaia, in una prospettiva rivoluzionaria, e ora diventato una sovrastruttura autonoma"

Quella che Bersani chiama la Ditta: gli ex Pci-Pds-Ds-Pd?
"Sì, la dorsale organizzativa, e l'habitat di chi viene da quella storia, il quadro dirigente, le sedi, i simboli, le parole, le abitudini".

Cosa dovrebbe fare Bersani?
"Chiedere a Penati un impegno ancora più preciso sulla rinuncia alla prescrizione. Solo l'indagine giudiziaria può metterci nelle condizioni di capire se siamo di fronte ad una deviazione individuale rilevante sul piano penale, o di fronte alla irrisolta questione del rapporto tra partito ed organizzazione economica".

Cosa rischia il Pd in questa vicenda?
"Il rischio maggiore è finire schiacciato sul proprio passato, che agli occhi dei più resta il passato della catena di comando che governa il partito, più o meno rinnovato grazie a nuovi matrimoni".

Lei raccoglie le firme per abrogare il Porcellum: c'è un nesso con la questione morale?
"L'indignazione, lo scandalo dei cittadini crescono ogni giorno di più, alimentati dalla crisi economica. E' urgente che la piazza che si sta mettendo in moto ritrovi nel Parlamento un interlocutore in cui possa riconoscersi. Oggi questo interlocutore si è logorato oltre misura: i parlamentari sono considerati una casta separata di privilegiati, dileggiati ogni giorno dalle stesse forze che li hanno ridotti così. Se questo è accaduto è a causa di quella vergogna che Calderoli ha definito una porcata. Abbiamo il dovere di consentire ai cittadini di dire basta. O quella legge la abrogate voi, o lo facciamo noi con l'arma che la Costituzione mette nelle nostre mani: il referendum".

Su questa battaglia nel Pd lei è partito isolato, ora c'è la corsa a firmare. Cosa si aspetta dai vertici del suo partito?
"Che seguano i dirigenti che li hanno preceduti e soprattutto gli elettori. Visto che non sono riusciti a precederli".

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Titolo: Marco DAMILANO - Tutto crolla: ora Monti, Letta o elezioni
Inserito da: Admin - Novembre 03, 2011, 11:36:55 pm
Tutto crolla: ora Monti, Letta o elezioni

di Marco Damilano

Berlusconi sotto processo a Cannes, mentre a Roma la maggioranza si sta squagliando: perfino Stracquadanio e Paniz l'hanno mollato. Oltre ai sei i transfughi sicuri, ce ne sono altri in odore di fuga. In campo tre ipotesi: l'ex commissario Ue (lo vorrebbe Napolitano), il sottosegretario Gianni (lo sognano i pidiellini impauriti) e il voto in primavera (sempre più probabile)

(03 novembre 2011)

La prima pagina del 'Foglio' di oggi è da incorniciare, per gli amanti del genere. «Vi spiego la Rivoluzione», titola il quotidiano di Giuliano Ferrara. Sottotitolo: «Frattini racconta il decretone».

Povero Frattini, innocuo, inutile, inconsapevole, non sapeva chi fosse Lavitola quando incontrava insieme a lui ministri degli Esteri e capo dello Stato, oggi lo mandano allo sbaraglio a magnificare tutto compunto una rivoluzione che non c'è. «Per un magico incastro siamo nelle condizioni di fare le riforme liberali che non siamo riusciti a fare per diciassette anni. Quasi non ci credo».

Ecco, continui a non crederci, ministro: infatti il decreto non c'è, le riforme neppure, la rivoluzione figuriamoci. E l'unico incastro, tragico, è quello che avviluppa il destino personale di Silvio Berlusconi al Titanic Italia a rischio affondamento.

Nell'ora della verità di una classe dirigente ecco cosa succede. Lite ferina tra premier e ministro Tremonti. Ministri che quasi vengono alle mani. Peones della maggioranza fuori controllo, chi si appella, chi minaccia, chi abbandona la nave.

Giorgio Stracquadanio scende giù dal predellino e sale sulla tolda degli ammutinati del Pdl: Dio ce le conservi a lungo. Maurizio Paniz, tra tutti gli argomenti buoni per prendere le distanze dal Cavaliere, sceglie il più sorprendente (per lui): eccessiva confusione tra pubblico e privato. Forse gli hanno detto che Ruby non era la nipotina di Mubarak?

Tutti traditori, li scomunica il "Giornale", povero Silvio circondato dalle vipere, e avrebbe anche le sue buone ragioni: ma solo in una situazione libica i pasdaran di Gheddafi si trasformano nei capi della rivolta, solo in una corte ci si fa largo a colpi di complotti, pugnali e veleni.

E' l'inamovibilità, l'insostituibilità del Capo, teorizzata dai suoi cortigiani, che produce la congiura come unica strada al cambiamento. E il segretario del Pdl Alfano, chiamato a rappresentare il nuovo, esprime così il futuro progetto del Pdl: «Dobbiamo arrivare fino a Natale». In confronto il tirare a campare di Andreotti era un modello di lungimiranza, di follia visionaria.

Ma Alfano è fin troppo ambizioso, a questo punto. Il governo non arriva a Natale, non c'è più: la sua incapacità di venire a capo di uno straccio di misura che non siano le solite annunciate liberalizzazioni-dismissioni, più il Piano del Sud (ancora? Eh no, basta!) è certificata anche da Ferrara. «Il berlusconismo è in minacciosa agonia negoziale», barrisce l'Elefantino. Il Pdl ha fatto un milione di tessere ed è un formicaio impazzito e friabile, una terra di conquista facile da espugnare. Occhio alla gran sapienza dei democristiani antichi, tipo Paolo Cirino Pomicino, attivissimo nell'allargare lo smottamento dei frondisti. L'agonia, come la chiama Ferrara, prosegue con il vertice di Cannes in cui Berlusconi e Tremonti, come una coppia di sposi reduce dai piatti che volano, sono costretti a presentarsi cordiali e sorridenti.

E poi ci sarà un passaggio parlamentare ad alto rischio, visto che il numero dei peones disposti a votare un nuovo governo cresce di ora in ora. Sì, ma quale? C'è un'ipotesi "alta", un governo presieduto da Mario Monti e appoggiato da tutti i partiti: una tregua con un personaggio di indiscusso prestigio internazionale che consentirebbe alle forze politiche di delegare a una figura extraistituzionale il compito di mettere la faccia sulle misure lacrime e sangue e nel frattempo di riorganizzare le truppe in vista del 2013.

Sarebbe il Governo del Presidente, perché in questo caso il garante politico di Monti sarebbe, più che mai, Giorgio Napolitano.

E c'è un'ipotesi "bassa", un governo presieduto da Gianni Letta, chiamato ad allargare l'attuale maggioranza: recuperare Fini, tornare a parlare con Casini, ottenere un atteggiamento meno ostile dal Pd. Un berlusconismo dolce, felpato, moderato, rassicurante, per tornare a votare in tempi rapidi, nel 2012.

I due scenari, al momento, presentano pari difficoltà e pari possibilità di riuscita, perché troppe sono le incognite: fino a che punto arriverà lo smottamento del Pdl? Cosa farà la Lega (la seconda anima del Carroccio, quella rappresentata da Bobo Maroni, tace da giorni)?

E così è ancora probabile che alla fine la via d'uscita sia un'altra: scioglimento delle Camere e elezioni subito, anche a gennaio sotto la neve, con il governo Berlusconi in carica.

Sarebbe la più naturale, in un altro paese, in un'altra fase storica, in un'altra vita. Ma questa ci è data da vivere. E, come osserva questa mattina un pidiellino lucido e onesto come Giuliano Cazzola, «è inutile cercare la bella morte e insistere finché non siamo schiattati».

Ma questa di Berlusconi non è una bella morte, è una brutta, bruttissima fine.

(Ps: E le opposizioni? E il Pd? E' vicino il momento della verità anche per loro)

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Titolo: Marco DAMILANO - Il governo dei morti viventi
Inserito da: Admin - Novembre 04, 2011, 02:47:44 pm
Regime

Il governo dei morti viventi

di Marco Damilano

Dopo le ultime defezioni «il tema non è più se cadiamo, ma solo come». A dirlo, di nascosto, è un ministro.

Che aggiunge: «Nell'ultimo consiglio notturno a Palazzo Chigi, si è parlato pochissimo del dramma economico e moltissimo di Antonione».
Cioè uno dei deputati in fuga

(04 novembre 2011)

Sarà il governo di Ognissanti. Nel senso che, se vedrà la luce, sarà stato concepito nella festa di Halloween, la celebrazione di tutti i santi del calendario nella liturgia cattolica: l'ora delle streghe per Silvio Berlusconi, un giorno da incubo, incollato al computer come un passeggero al finestrino di un aereo che precipita, con il listino di Borsa che va giù senza fine, lo spread che divora manovre economiche una dopo l'altra e i rendimenti vicini al punto di non ritorno del 7 per cento. Ma il governo di Ognissanti anche nel senso che, a vario titolo, da ministri o da sostenitori, nelle intenzioni dovrebbe coinvolgere tutti i mammasantissima di maggioranza e di opposizione. Con la benedizione dall'Alto, del Quirinale.

Il governo attuale, quello di Berlusconi, è da notte dei morti viventi. Sforna misure epocali, ma chi le approverà? "Alla Camera, virtualmente, non abbiamo più la maggioranza. Il tema non è se cadiamo, ma come", ammette perfino un ministro. "Nel vertice notturno che ha preceduto il Consiglio dei ministri non si parlava di spread. Si parlava di Antonione". Antonione chi? Il deputato triestino Roberto Antonione, già coordinatore di Forza Italia, che nel bel mezzo del caos ha mollato il Pdl e Berlusconi. Il primo di una lunga serie: "E' Pier Ferdinando Casini in persona che sta facendo le trattative. Ce li sta sfilando uno a uno", impreca un notabile azzurro. "Pier è l'anti-Verdini". In nome della sopravvivenza della legislatura, con un governo da mettere su in pochi giorni per arrivare al 2013.

Un governo del Presidente? Quello, si direbbe, è già attivo. Perché, alla vigilia del vertice del G20 di Cannes, Giorgio Napolitano è stato costretto a entrare in campo ben al di là degli stretti confini della moral suasion. Telefonate, consultazioni, indicazioni minuziose sulle tecnicalità per il pacchetto delle misure da prendere con gli uomini del governo e un sondaggio sulle parole d'ordine della manifestazione del Pd di sabato 5 novembre in piazza San Giovanni, con il consiglio di tenere la massima prudenza. Un filo diplomatico per mettere su "una nuova prospettiva di larga condivisione delle scelte", come recita la nota del Quirinale del primo novembre, senza escludere nessuno, neppure i più ostili alle larghe intese come il leader di Idv Antonio Di Pietro. La certificazione ufficiale che nei colloqui tra il presidente della Repubblica e i capipartito la possibilità di un governo di salvezza nazionale è ben più che un'ipotesi di scuola.

"Si va finalmente verso quel governo al quale abbiamo lavorato in queste ultime settimane. E speriamo che non sia troppo tardi", spiega Enrico Letta, il numero due del Pd ma soprattutto l'interlocutore più ascoltato di Napolitano nel partito guida dell'opposizione in questa fase. Anche a costo di dover scontare qualche nota stonata con il numero uno del partito, il segretario Pier Luigi Bersani. Una settimana fa, di fronte al primo show down delle Borse e all'ultimatum della coppia Merkel-Sarkozy che avevano spinto il governo Berlusconi a scrivere la famosa lettera d'intenti all'Unione europea, i vertici del Pd avevano parlato due lingue diverse sulla linea da tenere in caso di crisi. "Elezioni subito", aveva tuonato Bersani precipitandosi in sala stampa nonostante l'influenza.

"Un governo di unità nazionale", aveva immaginato Letta nelle stesse ore, dopo essere stato convocato dal Quirinale. Con i sondaggi che danno il centrosinistra in vantaggio di dieci punti sulla coalizione Pdl-Lega e il Pd sopra il partito berlusconiano, l'interesse immediato di Bersani resta quello di andare a votare subito. E anche nel Pd c'è chi considera i diktat della Banca centrale europea e della Germania un prezzo troppo salato da pagare. "C'è la catastrofe Berlusconi, ma c'è anche la catastrofe Europa", dice per esempio il dalemiano Nicola Latorre, "Berlusconi si è piegato acriticamente a decisioni inaccettabili, se fossimo noi al governo dovremmo provare a contrastare la Merkel". Ma ora il Pd si è ricompattato e Bersani ha assicurato al Quirinale: in caso di governissimo il partito non si tirerà fuori. Sull'impresa più importante, quella che vale una generazione politica, portare al sicuro l'Italia dall'attacco della speculazione e aprire finalmente la stagione del dopo-Berlusconi, il Pd non può permettersi di sbagliare.

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Titolo: Marco DAMILANO - Ma B. è ancora al potere
Inserito da: Admin - Dicembre 16, 2011, 05:08:42 pm
Ma B. è ancora al potere

di Marco Damilano

Niente legge sul conflitto di interessi. Niente asta per i canali tivù. Un suo uomo al Tg1 dopo Minzolini. Un altro suo uomo, Catricalà, ai vertici di Palazzo Chigi. E l'ex ministro Paolo Romani rimasto al fianco di Passera...

(14 dicembre 2011)

Se ne sta lì, seduto disciplinatamente al suo banco, terzo emiciclo da destra, quarta fila, infilato tra il capogruppo del Pdl Fabrizio Cicchitto e il segretario del partito Angelino Alfano. Il deputato semplice Silvio Berlusconi prende appunti, vota la fiducia al governo, si astiene dalle polemiche. Nel Pdl, vedendolo così mansueto, lo paragonano al dottor Hannibal Lecter, il cannibale. In apparenza diventato buono, ma sempre pronto a colpire.

L'ex premier ha festeggiato, si fa per dire, il primo mese di lontananza da Palazzo Chigi in modo tradizionale: presentando l'ultimo libro di Bruno Vespa nella solita cornice del teatro di Adriano a due passi da Montecitorio. Ed è sembrato che nulla fosse cambiato. Anche sul sito del Pdl va tutto come prima: in home page c'è un Silvio rassicurante ("L'Italia ce la farà") con "i risultati del nostro governo", come se fosse ancora in carica quello Pdl-Lega. Anche se i rapporti con l'amico Umberto Bossi sono ai minimi storici e il leader della Lega si è spinto a osare l'indicibile, "Berlusconi comunista", una contraddizione in termini, una bestemmia. Ma l'ex alleato non sembra preoccuparsi più di tanto. Se il Carroccio intende tornare a cavalcare la secessione si accomodi, lui, Berlusconi, si sente ancora il leader della maggioranza. Dal suo punto di vista, non ha mai abbandonato il governo. E non ha tutti i torti.

Nei primi anni Novanta, il Cavaliere non era ancora ufficialmente sceso in politica ma dettava la linea al pentapartito, stabiliva l'agenda dei lavori parlamentari e arrivava a sostituire i ministri: quando, per esempio, cinque ministri dc si dimisero contro la legge Mammì e furono sostituiti in poche ore, o quando il repubblicano Giuseppe Galasso fu eliminato dal ministero delle Poste e al suo posto entrò il socialdemocratico Carlo Vizzini (destinato, nella seconda Repubblica, a una bella carriera parlamentare con Forza Italia).

Oggi Berlusconi torna a questo modello antico e collaudato: in più, rispetto a vent'anni fa, può vantare il gruppo parlamentare più numeroso, riconvertito in partito-azienda, con la missione di difendere la ragione sociale dell'impegno del Cavaliere in politica, gli affetti più cari: Mediaset e le sue tv.

Un fronte su cui ad Arcore non si aspettano nessuna sorpresa negativa, in realtà. L'ultima conferma è arrivata la scorsa settimana, quando il neo-presidente dell'Authority sull'Antitrust Giovanni Pitruzzella, nominato il 18 novembre al posto di Antonio Catricalà, amico e avvocato del presidente del Senato Renato Schifani, nella sua prima uscita pubblica si è affrettato a garantire che niente sarà toccato sulla fusione tra Mediaset e la Dmt, la società di torri per le trasmissioni tv che controlla quasi 3 mila stazioni e 2 mila siti sul territorio nazionale. La nuova società controllerà l'80 per cento del mercato, insieme a Raiway: un duopolio, o meglio un monopolio privato, che ricalca alla perfezione il mercato televisivo e pubblicitario instaurato in Italia dalla legge Mammì in poi. L'Antitrust, assicura Pitruzzella, si limiterà a prendere atto delle decisioni precedenti, "troveremo la via più saggia e giuridicamente ineccepibile", ha dichiarato alla "Stampa" l'11 novembre. Ad Arcore possono stare tranquilli.

Il fattore B. pesa ancora di più sulla questione del beauty contest per le frequenze televisive. Sull'assegnazione dei sei multiplex a Mediaset e Rai senza gara, valore stimato almeno un miliardo di euro (ma c'è chi ipotizza che le entrate per lo Stato sarebbero molto più consistenti: 4-5 miliardi di euro), il super-ministro Corrado Passera per ora non si è espresso. Al suo posto ha parlato un finto Passera su Twitter, ripreso da agenzie e televisioni, ancora più evasivo dell'originale. E soprattutto è intervenuto il diretto interessato, cioè Berlusconi: "L'asta non si può fare, andrebbe deserta". Un diktat che lascia ben poche illusioni agli operatori concorrenti, da Sky a Ti-media, sulla possibilità che il governo Monti decida di riaprire il pacchetto e di mettere in gara le frequenze. "Un'eventuale asta", dicono, "non potrebbe esserci prima della primavera 2012: viene a cadere l'argomento di chi vorrebbe inserire i ricavi attesi dallo Stato nella manovra in discussione alle Camere in questi giorni".


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Titolo: Marco DAMILANO - Che cos’è l’Anti-politica
Inserito da: Admin - Dicembre 26, 2011, 04:14:59 pm
« Hallelujah

Che cos’è l’Anti-politica »

La normalità al potere

Marco DAMILANO

Si è presentato nelle case degli italiani all’ora di cena, nei tg delle otto, con un semplice buonasera. Niente retorica, neppure un sorriso, solo alla fine una battuta in puro stile anglosassone. Buonasera, eccomi qua, sono il professor Mario Monti: l’Ufo del Palazzo romano, il Supermario di Bruxelles, descritto nei giorni scorsi come il salvatore della Patria sceso in terra (dagli adulatori, già schierati in forze) o come il capo del complotto demo-pluto-ecc. (dalla ridotta della Valtellina berlusconiana), si è mostrato infine con il volto dell’italiano normale chiamato a fare uno sforzo straordinario.

Il cambio di stile è rivoluzionario. Bastava vedere, qualche minuto prima, il videomessaggio del premier uscente. E dire che Silvio Berlusconi, almeno in questo caso, aveva tentato di indossare i panni dello statista buono che per generosità e amore nei confronti del Paese fa un passo indietro. Niente da fare: sia pure moderato nella forma, il Cavaliere del congedo era il solito Berlusconi che abbiamo conosciuto in questi anni. Ego straripante, tutto un ripetere la parola Io, diminutivo di dio, assolutamente convinto di sé e della propria funzione provvidenziale per l’Italia, anche quando i fatti si sono incaricati di smentirlo così pesantemente. «Quando si sente dire che serve un governo tecnico al Consiglio dei ministri ci mettiamo a ridere. Non vedo nessun tecnico in giro che abbia la mia stessa autorevolezza personale e politica», aveva ridicolizzato la sola ipotesi di essere sostituito l’uomo di Arcore il 9 settembre, appena due mesi fa, ad Atreju, la festa dei giovani del Pdl a Roma. Ieri sera, forse, avrebbe voluto ripeterlo. E invece gli toccava ripetere meccanicamente responsabilità e generosità, termini a lui ignoti.

La parola io non esiste, invece, per il professor Monti. Non perché sia privo di autostima: anzi, se c’è una cosa che unisce il premier incaricato a quello uscente è proprio la certezza di essere un numero uno, un’eccellenza. Ma oggi è il tempo dell’emergenza, per affrontarla servono gli uomini normali, come altre volte nella storia. L’entrata in scena di Monti fa la stessa impressione che dovette fare nel 1945 l’arrivo al Viminale dopo il ventennio fascista di personaggi come Ferruccio Parri, il comandante partigiano Maurizio, l’azionista che fu il primo presidente del Consiglio dopo la Liberazione, o come Alcide De Gasperi, che era stato deputato del Parlamento austriaco. Austeri, sobri, anti-retorici, non a caso marchiati all’epoca come stranieri, o addirittura invasori, da una parte del Paese. I nostalgici del lungo e tragico carnevale mussoliniano, i qualunquisti di Guglielmo Giannini, progenitore dei Feltri, dei Sallusti, dei Ferrara di oggi.

Anni fa il filosofo Remo Bodei in “Il noi diviso” le definì passioni grigie, le virtù degli eroi borghesi, inevitabilmente minoritarie, eppure essenziali nei momenti di emergenza: «scarsamente diffuse in Italia, respingono il fanatismo e l’estremismo, prediligono l’efficienza e la normalità. Pongono in primo piano i diritti e i doveri, la ragionevolezza, l’onestà, la serietà. Si presentano grigie e impiegatizie, modeste e di routine soltanto a coloro che considerano la democrazia un regime orientato dai gusti volgari e dalle opinioni superficiali delle folle o retto da potenti lobbies che manipolano spregiudicatamente il consenso». Eroi come Rosario Livatino, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giorgio Ambrosoli che nella lettera-testamento alla moglie Anna aveva lasciato detto di educare i figli al dovere verso il loro Paese, «si chiami Italia o si chiami Europa».

Italia e Europa sono oggi la posta in gioco. E già ieri sera il professor Monti, con sobrietà e severità, senza darlo a vedere, ha dichiarato chiusa l’era del Truman Show, il mondo a parte dei ristoranti pieni propagandati fino a una settimana fa. Via all’operazione verità, a una cura dolorosa ma necessaria. Con «un’accresciuta attenzione all’equità sociale», un modo garbato per dire che in questi anni l’attenzione è stata nulla. E «un futuro concreto di dignità e di speranza», un cammino faticoso da compiere tutti insieme, non la scorciatoia virtuale di un miracolo che non c’è mai stato.

Un cammino pieno di ostacoli, di serpenti sotto le foglie. La prima mina da disennescare spetta allo stesso Monti, quando presenterà la lista dei ministri: il suo sarà il governo dei competenti, per fortuna, ma i competenti – si spera – non si trovano solo alla Bocconi o alla Cattolica ma anche in qualche università pubblica, non sono solo di sesso maschile, non sono solo uomini di una certa età. Il governo Monti non può nascere lontano, troppo lontano dal vento di cambiamento che ha soffiato in questi ultimi mesi: il movimento delle donne, le elezioni di Milano e di Napoli, i referendum, il modello Pisapia, l’esigenza di ritrovare una partecipazione civile. Il secondo rischio è legato al primo: la cessione di sovranità della politica, con pesanti ripercussioni sulla democrazia. Un pericolo ben presente nell’intervento del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano: oggi c’è bisogno di uno sforzo comune, poi le forze politiche torneranno a dividersi alle elezioni, senza confondersi e senza perdere la loro identità. La scelta di Monti arriva dopo la dissoluzione del Pdl (mesi di «rotture e tensioni», ha fatto notare il capo dello Stato), l’arbitro Napolitano ha fischiato la sospensione della partita per inagibilità del campo, troppi fallacci, troppe scorrettezze, troppo fango. Ora arriva il Commissario, a ripulire, a ricominciare, a ricostruire. E poi, dopo la tregua, la partita dovrà riprendere: si spera con magliette pulite, regole del gioco rispettate, squadre rimaneggiate con nuovi acquisti, nuovi allenatori, nuovi giocatori.

È questa la sfida che si apre da questa mattina. Per l’Italia è «la sfida del riscatto», come ha detto ieri sera Monti. Per la politica la tregua è la grande occasione: dimostrare di essere all’altezza, trovare la capacità di autoriformarsi, quella che i partiti non sono riusciti a mettere in campo da soli, senza essere costretti dalla forza dei fatti. Quanto sta accadendo è poco rassicurante: paletti, condizioni, veti reciproci, veleni, tentazioni di delimitare la sfera di azione del nuovo governo. Sul ministero della Giustizia, ad esempio, ieri sera circolava addirittura la voce che il Pdl avesse proposto come nome tecnico il magistrato Augusta Iannini, capo dipartimento di via Arenula, la moglie di Bruno Vespa. La solita partita sulla Giustizia, il ricatto berlusconiano su cui andò a infrangersi anche la Bicamerale. E il Cavaliere ha già avvertito: senza di me il governo non ha la maggioranza.

Si vedrà nelle prossime ore. Lo scontro è tra chi vuole un governo forte che consenta ai partiti di rinnovare la politica prima di ridare la parola ai cittadini e chi lo vuole fin da ora trasformare in un governicchio natalizio, un decreto sui conti pubblici e via. Se fosse così, il tentativo Monti si ridurrebbe a ben poca cosa: una manovra salva-Italia, qualche mese di governo dell’economia e poi si tornerà a votare. Ma le ambizioni del Professore sembrano ben altre. Sono le ambizioni straordinarie di un uomo normale. La normalità al potere.

da - http://damilano.blogautore.espresso.repubblica.it/2011/11/14/la-normalita-al-potere/


Titolo: Marco DAMILANO - L’Ufo Monti e il fantasma di Hammamet
Inserito da: Admin - Dicembre 26, 2011, 04:16:39 pm
L’Otto Novembre

Hallelujah »

L’Ufo Monti e il fantasma di Hammamet

Marco Damilano

Il Fantasma si è materializzato ieri notte, alle undici e mezzo passate, nella sala di Palazzo Madama in cui da più di due ore andava avanti il confronto tra Silvio Berlusconi e i senatori del Pdl. Un dialogo duro, drammatico, finalmente sincero. Tra un premier febbricitante, confuso, eppure deciso a resistere, e i colonnelli e i peones che, dopo anni di silenzio, prendono la parola e provano a dire come la pensano.

“Presidente”, esclama Domenico Nania, ex An, contrario al governo Monti come i suoi capicorrente La Russa e Matteoli, “non dare retta a quelli che ti chiedono un passo indietro. Ricorda cosa capitò a Craxi nel 1992: rinunciò alla guida del governo a favore di Amato e firmò la sua fine. Guarda cosa gli successe: le inchieste, le condanne, l’esilio, Hammamet”.

Eccolo il fantasma, l’incubo di Berlusconi che non si può evocare in queste giornate di passione: lo spettro di Bettino, Hammamet, la stazione di vacanze tunisina che è diventata sinonimo di fuga, spoliazione del potere, malattia, morte. La paura di Berlusconi di fare la fine di Craxi: perdere il governo, le aziende, il potere, tutto.

Chiede la parola il senatore Ferruccio Saro, favorevole alle larghe intese. Lui nel 1992-93 c’era, era il vice-presidente socialista della giunta regionale del Friuli. “Presidente, non ascoltare chi ti consiglia di resistere a tutti i costi. Se Craxi avesse cercato una soluzione politica finché era in tempo avrebbe salvato il Psi e forse anche se stesso. Invece si fece condizionare da chi lo spingeva a non mollare, chi lo trascinò sulla strada del capro espiatorio, con il poker d’assi contro Di Pietro e i giudici di Milano. Gli stessi che negli anni successivi non sono mai andati a trovarlo ad Hammamet”.

Berlusconi china il capo. Tra quelli che non hanno più rivisto Craxi c’è anche lui: volò ad Hammamet solo per i funerali del capo socialista, nel 2000. E forse ricorda che accade sempre nella storia, chi è stato traditore sarà tradito, e chi ha beneficiato dell’amico in rovina sarà lasciato da chi gli sta vicino.

La riunione si scioglie a mezzanotte con la proposta del premier di mettere in pista il nome del sempreverde Lamberto Dini. All’uscita dal Senato il fantasma Craxi torna ad agitarsi: una piccola folla riconosce Berlusconi, gli gridano “vergogna, buffone” mentre sale in macchina. L’hotel Raphael, quello delle monetine del ‘93, dista pochi metri. Quel giorno di un crudele aprile l’imprenditore Berlusconi andò a portare la sua solidarietà all’amico Bettino, e fu una delle ultime volte che si videro.

Questa mattina i fantasmi non erano ancora del tutto spariti a Palazzo Madama. Ma intanto è apparso l’Ufo. Alle 10 e 42 è entrato in aula il neo-senatore Mario Monti. Accolto dall’assemblea con un timido applauso, con l’eccezione dei leghisti rimasti fermi, quasi a rispettare l’understatement del nuovo collega. L’Ufo in visita nei palazzi del potere romano era vestito di blu e moderatamente sorridente. Il primo a stringergli la mano è stato, guarda caso, l’ex socialista Saro. Poi il leghista Castelli, i democratici Soliani, Del Vecchio, Procacci e Sanna, l’udc Serra. L’Ufo si è mosso, impercettibilmente, per salutare il novantenne Emilio Colombo, senatore a vita come lui. Si è acceso solo quando ha visto arrivare Emma Bonino, commissaria europea insieme a lui dal ‘94 al ‘99. C’è stato un abbraccio e perfino un bacio. Allora anche la senatrice Maria Pia Garavaglia del Pd ha preso coraggio e si è slanciata tra le braccia dell’Ufo, stampandogli sulla guancia due baci. Parla con Gasparri e bacia pure Dini. Alle 10.49, sette minuti dopo, l’Ufo è uscito, mentre Ciarrapico, il senatore nostalgico del Duce, inveiva contro “cento figli di puttana” che la sera prima l’hanno fischiato, con Berlusconi. Sette minuti senza sedersi, senza sfiorare un seggio del Senato, senza mostrare emozioni: l’Ufo è planato, ma non ancora atterrato.

In queste ore c’è chi a Palazzo Grazioli si illude di far fallire l’operazione Monti mettendo in campo un nome alternativo: Angelino Alfano o Giuliano Amato. Napolitano parla con i grandi del mondo, da Obama a Sarkozy, Monti parla con il governatore della Banca d’Italia, Berlusconi parla con La Russa e con Baccini. Come previsto il Pdl si sta sfaldando nel peggiore dei modi: arrivano notizie di senatori che vengono alle mani nella mensa di Palazzo Madama, Frattini chiama fascista La Russa, Ignazio replica: “Frattini chi?”.

Finisce ingloriosamente una storia, ma non è terminata l’agonia del Pdl. C’è ancora una notte e l’intera giornata di domani. Ore tormentate, durante le quali il fantasma di Craxi ad Hammamet continuerà a turbare i sonni di Berlusconi. E l’Ufo Monti aspetta di atterrare tra noi, poveri abitanti del pianeta Italia.

DA - http://damilano.blogautore.espresso.repubblica.it/2011/11/11/lufo-monti-e-il-fantasma-di-hammamet/


Titolo: Marco DAMILANO - Silvio mi disse: sono più forte di Craxi
Inserito da: Admin - Febbraio 02, 2012, 10:44:25 am

Silvio mi disse: sono più forte di Craxi

(19 gennaio 2012)

Il nuovo libro di Marco Damilano (Laterza)


"Nel '90 Berlusconi aveva cominciato a maturare l'idea che il sistema fosse alla fine. Ricordo una colazione con lui a casa mia. "Sai", mi disse, "se volessi farei il culo a Craxi domani mattina, perché io ho molto più potere di lui, con il Milan, le mie tv, lo faccio fuori in cinque minuti"". Carlo De Benedetti, il presidente del gruppo Espresso-Repubblica, nel 1992-93 è considerato da Craxi e Andreotti il capo del partito trasversale che sponsorizza l'azione dei magistrati. "Pensavano che fossi il diavolo", spiega l'Ingegnere nel libro di Marco Damilano. "E invece avevano il nemico in casa: Berlusconi è l'unico che ha tratto vantaggio dall'operazione Mani Pulite".

Un sorprendente racconto sulla fine della Prima Repubblica. Le confidenze di Gianni Agnelli, l'incontro con Bossi ("Gli chiesi: "Voglio sapere da lei una sola cosa, dove lo mette il debito pubblico?" Mi rispose: "A Roma". Capii che non valeva più la pena di parlargli"), la guerra sulla Mondadori: "Andreotti mi chiamò a Palazzo Chigi e mi disse: "Che cosa perdete tempo e soldi con gli avvocati? Ci pensiamo noi. Quando lei uscirà da questa stanza troverà nell'anticamera chi le può dare una mano". Uscii, ad aspettarmi c'era Luigi Bisignani".

Giudizi spiazzanti: "Consideravo Craxi un bandito con atteggiamenti fascistoidi. "Guardi", ti diceva, "lei di politica non capisce un cazzo". Ma negli anni Ottanta era difficile dargli torto nell'esigenza di modernizzazione del Paese". Le inchieste che travolgono l'intero establishment: "All'improvviso è crollato il sistema delle alleanze. Ognuno ha cominciato a giocare per sé perché ognuno aveva la coscienza sporca. Ci siamo trovati di fronte a Di Pietro che faceva paura". Il dramma di Gardini: "Lo incontrai tre giorni prima che si sparasse, si confidò: "Non posso pensare a finire in carcere, non credo che reggerei"". La conclusione amara: "Cos'è rimasto di Tangentopoli? Niente. La bufera è passata. E in questa Italia immutabile, a lungo ha vinto Berlusconi".


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Titolo: Marco DAMILANO - Dell'Utri esulta, Berlusconi no
Inserito da: Admin - Marzo 10, 2012, 04:14:33 pm
La sentenza

Dell'Utri esulta, Berlusconi no

di Marco Damilano


La Cassazione ha deciso: processo da rifare per l'ex cofondatore di Forza Italia accusato di mafia.

Resta quindi il buio sul presunto patto iniziale tra Cosa Nostra e Fininvest.

Ma tra l'Italia di Borsellino e quella che considera Mangano un eroe la partita ormai è chiusa da anni

(10 marzo 2012)

Raccontano che il senatore Marcello Dell'Utri negli ultimi anni ha preso l'abitudine di leggere i giornali saltando le prime venti pagine e andando direttamente al calcio. Probabilmente per evitare di imbattersi in notizie sgradite, quelle che lo hanno riguardato in questi lustri. Ora potrà immergersi nelle prime pagine, finalmente positive. Come la sentenza della Cassazione che ha annullato le due condanne di Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa.

Il clan berlusconiano esulta e Maristella Gelmini, forse ignorando il significato della parola, invoca la restituzione dell'«onore» a Dell'Utri. Lasciamo perdere l'onore e la Gelmini e andiamo al punto: se il senatore fosse stato condannato l'intera storia del berlusconismo sarebbe stata riscritta. Una sentenza della Cassazione, definitiva, avrebbe certificato che alle origini dell'Impero del Biscione c'era stato un patto occulto con Cosa Nostra simboleggiato da Dell'Utri e dalla presenza dello stalliere Vittorio Mangano ad Arcore. Per Berlusconi sarebbe stato qualcosa di peggio della condanna su Mills, almeno sul piano simbolico. L'annullamento del processo consente invece di tenere in piedi il mito dell'imprenditore che si è fatto da sé, per i suoi tifosi. Ma non cancella, anzi, aumenta il mistero di quegli anni Settanta in cui Berlusconi circolava con baffetti e basette, con una pistola sul tavolo, e il futuro senatore era il suo solerte assistente personale. «Come ha fatto i soldi?», si chiede Nanni Moretti nel "Caimano". La domanda continua a restare senza risposta.

E' Mangano, defunto da molti anni, il vero vincitore. E' stato il suo silenzio a salvare Dell'Utri. E il senatore, riconoscente, lo ha sempre definito il mio eroe. Per il Dottore, al contrario, la condanna era arrivata già molti anni fa. Quando Berlusconi, con l'aria di promuoverlo, lo aveva scaricato. Molti anni fa, nel 1994. Eppure Dell'Utri era stato il più convinto sostenitore della necessità di scendere in politica. L'ex dc milanese Ezio Cartotto ha raccontato che il capo di Publitalia gli parlò per la prima volta di un partito guidato da Berlusconi addirittura nell'estate 1992, quando l'amico Craxi era ancora in sella. E toccò a lui, nel 1993-94, mettere in piedi la prima ossatura di Forza Italia. Ma dopo la vittoria elettorale, quando arrivò il potere, Dell'Utri fu tenuto lontano da tutti i posti che contavano. Non divenne ministro, al contrario di Cesare Previti che fu proposto addirittura per il ministero della Giustizia e finì alla Difesa. E non divenne neppure segretario o coordinatore di Forza Italia, come sperava. Berlusconi lo tenne lontano da tutto. E con il passare degli anni, e con l'arrivo dei processi, aumentava la distanza. Dell'Utri scelse la via della difesa nel processo, e questo gli va sicuramente riconosciuto. Mentre Previti, al contrario, pretese leggi ad personam e si fece scudo del mandato parlamentare fino alla condanna definitiva. In comune, raccontano, i due hanno l'odio per Gianni Letta: l'ultimo arrivato che è riuscito a prendere il loro posto come braccio destro del Cavaliere.

Così, piano piano, la figura di Dell'Utri si è rimpicciolita. In molti si sono quasi dimenticati di lui. Con i suoi circoli inesistenti, i suoi falsi diari di Hitler, le sue iniziative destinate al fallimento. Fino al coinvolgimento nella P3, dove appariva come un mediocre affarista, dedito al piccolo cabotaggio, più che una sofisticata mente criminale.

Giganteggiava, per paradosso, solo nell'aula del tribunale di Palermo, nei racconti dei pentiti. E Berlusconi di lui ha parlato solo una volta, anzi ha taciuto: quando nel 2002 i giudici andarono a Palazzo Chigi per interrogarlo. E il premier sull'amico si avvalse della facoltà di non rispondere. Nessun tentativo di difesa, neppure una parola. Perché? Perché Dell'Utri è stato tenuto lontano, al contrario di Previti o di Verdini? Come se il berlusconismo fosse capace di affiancarsi a chiunque e di digerire tutto: da Cosentino alle Olgettine. Ma Dell'Utri no. Dell'Utri è rimasto lì, come un'Ombra. Il custode dei segreti. La cattiva coscienza della storia italiana di Silvio. Il Mistero Dell'Utri continuerà, anche dopo lo stop della Cassazione. Perché non spetta ai magistrati riscrivere la storia né guidare le rivoluzioni politiche, almeno questo l'abbiamo capito in questi venti anni di Tangentopoli. Proprio per questo, però, non abbiamo bisogno di un processo per decidere da che parte stare. Non abbiamo bisogno di restare nella dinamica delle assoluzioni e delle condanne. Non è una sentenza in tribunale che può cambiare il giudizio storico e politico. Non è un processo annullato che può mutare la sostanza. Tra l'Italia di Paolo Borsellino e quella che considera Mangano un eroe la partita è chiusa, da molti anni. Sentenza di condanna o no.

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Titolo: Marco DAMILANO - Adesso Monti è un po' nei guai
Inserito da: Admin - Aprile 02, 2012, 12:07:31 am
Politica

Adesso Monti è un po' nei guai

di Marco Damilano

Per il governo è ufficialmente finita la luna di miele. E non stiamo parlando solo della riforma del lavoro: a ostacolare il premier ci sono anche la Rai, la giustizia, la legge sulla corruzione e le nomine. E al professore non basta attaccarsi ai sondaggi

(29 marzo 2012)

Spero che restino leali...", ripete in privato Mario Monti a proposito dei partiti che sostengono il governo, ora che la luna di miele dei primi cento giorni è finita e che si trova ad affrontare la crescente insofferenza dei suoi sostenitori. Premier in bilico tra la Prima e la Terza Repubblica. Tra gli elogi di Barack Obama al vertice internazionale di Seul e una petulante telefonata da Roma di Fabrizio Cicchitto che minaccia sfracelli del Pdl sulla giustizia e che lo obbliga a uscire dalla sala del summit impedendogli di ascoltarli.

Tra il fantasma di Giulio Andreotti che riappare sul palcoscenico con il suo maledetto "tirare a campare" ("un illustrissimo", lo definisce il suo successore a Palazzo Chigi in Asia, identico al Divo Giulio per calma zen e ironia sferzante) e la spinta a procedere con rapidità verso il futuro: riscrittura della Costituzione formale, nella seconda parte che regola il funzionamento delle istituzioni, da assegnare ai partiti, e cambiamento della Costituzione materiale, fine dell'obbligo di concertazione con le parti sociali, l'eliminazione dell'articolo 18 che, ha fatto notare il vecchio socialista Rino Formica sul "Foglio", senza proclamarlo svuota di senso il caposaldo della Carta del 1948, la Repubblica fondata sul lavoro. "Forse troppi fronti aperti, in un colpo solo", si allarma un deputato del Terzo Polo tra i più legati a Monti. "Sfidare insieme sindacati e partiti è nel carattere del professore, fermamente convinto delle sue posizioni. Ma fossi in lui proverei a evitarlo".

Non c'è molto tempo. Alla fine della legislatura manca meno di un anno, ma il governo capirà quali sono i suoi margini di manovra nel prossimo mese. Quanto basta per spedire il disegno di legge Fornero in Senato, e vedere che effetto fa. "Se c'è la volontà della maggioranza la riforma si può approvare in tempi brevi", garantisce il sottosegretario ai Rapporti con il Parlamento Giampaolo D'Andrea, unico politico di esperienza della compagnia governativa, area Pd. Non sarà facile, però, in un mese che sarà interrotto da festività religiose e civili e soprattutto dalla campagna per il voto amministrativo, con il Pdl che ha scelto la modifica dell'articolo 18 come terreno di scontro elettorale con il Pd. Recita Angelino Alfano, come fosse una filastrocca: "La Fiom condiziona la Cgil, che trascina il Pd, che blocca il governo Monti. Dunque, Monti rischia di vedere frenate le sue scelte dalla Fiom. Non possiamo accettarlo". Viste da Pier Luigi Bersani le cose stanno all'opposto: "Non credo che Monti sia la Thatcher, come ha scritto qualche giornale straniero. Deve sapere che porterà a casa la sua riforma, ma che in Parlamento sarà modificata. E' la democrazia".

Come se non bastasse lo scontro sul lavoro, c'è l'urgenza dei partiti di battere un colpo sulle riforme istituzionali, dopo il diluvio di parole senza risultato degli ultimi anni. Il 16 febbraio i leader di maggioranza, l'Abc (Alfano, Bersani, Casini) si incontrarono e poi annunciarono la fumata bianca: raggiunto l'accordo, in 15 giorni partirà l'esame della riforma costituzionale al Senato. Da quell'annuncio è trascorso oltre un mese e mezzo, nel frattempo non è successo nulla, e ora ci risiamo: altro vertice tra i big e gli esperti capeggiati da Luciano Violante, nuovo comunicato congiunto, tabella di marcia invariata. "Tra 15 giorni la riforma della Costituzione andrà in discussione a Palazzo Madama", tornano a giurare i capipartito. Sicuri di riuscire ad approvare in prima lettura la riduzione del numero dei parlamentari e il superamento del bicameralismo, come ha promesso Renato Schifani a Giorgio Napolitano. Per poi passare al piatto forte, la riforma elettorale. Col grande ritorno della proporzionale che fa esultare Pier Ferdinando Casini.

Finito? No, perché per il governo in arrivo ci sono almeno altre due scadenze impossibili da evitare. Il 28 marzo è terminato il mandato del consiglio di amministrazione Rai presieduto da Paolo Garimberti. E alla Camera c'è in discussione il disegno di legge anti-corruzione che suscita le ire del Pdl, al punto da mettere in discussione il ruolo del ministro Paola Severino. Perché l'articolo 18 sarà pure materia negoziabile, ma non si possono toccare queste materie senza gli uomini del Cavaliere: giustizia e informazione, le due grandi ossessioni dell'epoca berlusconiana. E nel Pdl temono che il premier voglia riequilibrare l'impopolarità a sinistra provocata dal dissenso con Cgil e Pd con un intervento sulla Rai e con l'introduzione di nuovi reati contro la corruzione politica. "Non vorrei che Monti si comportasse come quell'arbitro che concede un calcio di rigore inesistente contro una squadra e poi, per compensare, si inventa un altro rigore, questa volta nell'area opposta. Sarebbe un doppio errore", spiega il vicecapogruppo Osvaldo Napoli.

Lo scambio, riequilibrare lo scontro con il Pd sull'articolo 18 con un provvedimento sulla Rai indigesto al Pdl, magari con un decreto che commissariasse l'azienda, era stato in effetti consigliato al premier, ma in questa situazione è sembrato un azzardo. Meglio rinunciare, in questo ingorgo di decreti, provvedimenti, voti di fiducia. In questo revival di Prima Repubblica, in cui tornano di moda spettacoli andreottiani: dall'estero il premier che minaccia la crisi, a Roma i partiti della maggioranza che sgomitano per allargare i propri spazi. E con lo spread tra Monti e i partiti che aumenta.

"Nonostante alcuni giorni di declino a causa delle nostre misure sul lavoro questo governo sta godendo un alto consenso nei sondaggi, i partiti no", sibila il professore da Tokyo. Non esattamente un complimento. Ma il premier avverte la grande voglia dei professionisti della politica di riportarlo a quote più umane. Magari attribuendogli disegni politici da manovratore di Transatlantico. "C'è un Willy il coyote che aveva preparato una trappola contro di noi del Pd e contro la Cgil, ma ha mancato l'obiettivo di dividerci", ha scandito Massimo D'Alema all'ultima direzione del Pd. E' a lui che molto probabilmente si riferisce, a Monti. E' lui, secondo D'Alema, che ha provato a separare il Pd dalla Cgil.

Eppure, fino a 20 giorni fa, i partiti stavano bene attenti a non attaccare frontalmente il premier tecnico, osannato dalle più importanti cancellerie e dalla stampa internazionale. E sfogliavano con un certo spavento le rilevazioni su una futuribile lista Monti. Con l'avvicinarsi delle amministrative, però, Bersani e Alfano sentono il bisogno di uscire dalla paralisi. La bozza di nuova legge elettorale, con l'addio al maggioritario e al bipolarismo, riflette l'equilibrio del terrore tra i partiti, la grande paura di sparire, o almeno di crollare rovinosamente nel 2013. Ecco una legge che agli occhi dei segretari ha un pregio indiscutibile: nessuno vince, ma nessuno perde. E dopo il voto la parola tornerà ai partiti, come nella Prima Repubblica. Con la differenza che nel primo cinquantennio di vita repubblicana il 40 per cento del Parlamento restava fuori dall'area di governo: il Pci a sinistra, il Msi a destra. Mentre ora che i partiti sono ridotti in gran parte a cartelli elettorali senza identità precise e senza barriere ideologiche, ogni alleanza, ogni gioco è possibile. Sarà un tripudio di fantasia.

Basta parlare con il terzo partner della maggioranza, Casini, il più soddisfatto del trio, per capire dove si andrà a parare. Il leader dell'Udc sminuisce perfino i pochi, timidissimi elementi di maggioritario sopravvissuti nella bozza. Il premio di 36 seggi per il partito che arriva primo (forse attribuiti anche al secondo)? "Non lo chiamerei premio, sarà al massimo un premietto...".

L'obbligo per i partiti di indicare il nome del loro candidato premier, una novità spuntata negli ultimi giorni e interpretata da qualcuno come un altolà a Monti che come senatore a vita non può correre alle elezioni? "Ragazzi, ma è solo un dettaglio!", minimizza Casini. "Sì, se il Pd fosse il primo partito Bersani potrebbe ricevere dal capo dello Stato l'incarico di formare il nuovo governo. Ma se non riuscisse a trovare una maggioranza si farebbe un bel giro e poi sarebbe costretto a rinunciare. I giochi si faranno tutti in Parlamento, punto". Mani libere, maggioranze variabili, aghi della bilancia: un armamentario da prima, primissima Repubblica. Che però, per paradosso, potrebbe aprire la strada alla conferma della Grande Coalizione anche nella prossima legislatura. Altro che "breve eccezione", se nessuno vince le elezioni i partiti potrebbero ritrovarsi con Monti a Palazzo Chigi forever. E il problema di tirare a campare diventerebbe tutto loro.

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Titolo: Marco DAMILANO - Prodi: 'Dove sbaglia Bersani'
Inserito da: Admin - Maggio 11, 2012, 12:00:09 am
Prodi: 'Dove sbaglia Bersani'

di Marco Damilano

«Il segretario del Pd dice di voler fare come Hollande, ma la riforma elettorale che lui stesso ha proposto ci farebbe finire come la Grecia, non come la Francia». Parla l'ex premier: dei partiti, di Grillo e di molto altro

(10 maggio 2012)

La rivolta contro l'Europa tedesca, la vittoria di Beppe Grillo, la legge elettorale elaborata dai partiti della maggioranza in Italia "che rischia di allontanarci dalla Francia e di portarci verso la Grecia: come fa Bersani a dire che vuole fare come Hollande, con la legge elettorale che lui ha proposto e che sostiene?". Romano Prodi si muove su scala globale, salta da un aereo all'altro: la scorsa settimana un viaggio nell'Africa profonda, ad Addis Abeba per la conferenza internazionale organizzata dalla fondazione per la Collaborazione dei popoli da lui presieduta, a Wolisso, quasi tre ore di auto dalla capitale dell'Etiopia, per visitare l'ospedale del Cuamm-Medici per l'Africa, l'ong cattolica di Padova, un gioiello italiano. Ritorno a Bologna e nuova partenza: a Vienna per un dialogo con il cardinale Christoph Schönborn, a Bruxelles per un meeting con i focolarini, a Oxford dai gesuiti per la prestigiosa John Henry Newman Lecture con un intervento su "Christianity and Globalization", appuntamenti cui il cattolico Prodi tiene moltissimo. Senza perdere di vista l'Europa elettorale in tempesta: in Francia, in Grecia, in Germania. E in Italia.

C'è un filo che lega la Francia, le elezioni in Grecia e il nostro voto: una rivolta contro l'Europa targata Merkel?
"In Grecia la spiegazione del voto è chiarissima. C'è un livello di sofferenza della popolazione molto elevato, si poteva porre rimedio al dissesto dei conti molto prima, non è stato fatto per esclusivi motivi di politica interna tedesca. Una preoccupazione per il futuro che arriva dopo anni in cui in Europa la ricetta per vincere le elezioni è stata cavalcare tutte le paure. La paura degli immigrati, la paura della Cina... Non parlerei di rivolta anti-europea. C'è una reazione contro la politica, contro l'establishment e dunque anche contro l'Europa".

Beppe Grillo ha girato le piazze chiedendo l'uscita dell'Italia dall'euro...
"Sì, ma l'attacco all'euro è solo una carta in più, in un pacchetto di fuoriuscite ci metti anche la moneta. L'Europa è l'osso aggiunto, ma la carne del successo di Grillo è un'altra, è la polemica contro i partiti. Si cominciò con gli attacchi alla Casta, poi sono arrivati gli scandali legati ai rimborsi e al finanziamento pubblico che hanno allargato l'indignazione della gente e lo spazio di Grillo".

E' solo anti-politica? Oppure sono umori che vanno ascoltati?
"Io Grillo l'ho ascoltato, l'ho incontrato quando ero a Palazzo Chigi. Lui poi buttò tutto in ridicolo dicendo che dormivo mentre lui parlava... Non solo in Italia ma in tutta Europa la reazione dell'opinione pubblica va ascoltata nella parte propositiva. La sofferenza comune è troppo forte. Certo, non bisogna cedere alla demagogia o a chi vuole tornare allo Stato spendaccione, alla spesa pubblica fuori controllo. Ma la sofferenza della gente va ascoltata da chi fa politica".

A Parigi c'è stato un presidente eletto pochi minuti dopo la chiusura dei seggi, ad Atene c'è il caos. A chi si avvicina di più l'Italia: alla Francia o alla Grecia?
"Nella sostanza, nella tenuta del Paese siamo più vicini alla Francia. Nell'anarchia dei partiti, nel ribollire del sistema politico siamo più vicini alla Grecia. Per decidere in che direzione andremo dipende tutto dalla legge elettorale: è quella riforma che ci porta verso la Francia. O verso la Grecia".

La proposta di legge elettorale fin qui studiata dai partiti della maggioranza prevede il ritorno alla proporzionale, la fine delle coalizioni obbligate, il modello tedesco. In che direzione ci porta?
"Il modello tedesco ormai non regge più neppure in Germania. Un tempo entravano nel Bundestag tre o quattro partiti, adesso sono sei, otto, ci sono i Pirati che superano la soglia di sbarramento, ci saranno ripensamenti anche lì. Più in generale, le leggi elettorali non sono fatte per fotografare gli equilibri politici tra i partiti, servono per trasformare il voto dei cittadini in un progetto di governo. Momenti di frammentazione politica come quello che stiamo vivendo, con l'esplosione delle liste, obbligano i partiti a cercare l'unità, un riaccorpamento. O con il doppio turno alla francese o con altri meccanismi. La riforma elettorale di cui si è parlato per mesi invece ci avvicina alla Grecia. Come fa il mio amico Bersani a dire che vuole fare come Hollande, guardare ad alleanze di centro e di sinistra, con la legge elettorale che lui ha proposto e che sostiene?".

 
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Titolo: Marco DAMILANO - D'Alema: 'Grillo porta al crac'
Inserito da: Admin - Maggio 27, 2012, 09:55:36 am
Intervista

D'Alema: 'Grillo porta al crac'

di Marco Damilano


"Se nel 2013 il fenomeno esplodesse a livello nazionale con parole d'ordine come l'uscita dall'euro o il rifiuto di pagare il debito pubblico, per il Paese sarebbe il disastro. E L'Italia nella sua storia non è aliena dal buttarsi nel caos". Parla l'ex presidente del Consiglio ed ex ministro degli Esteri

(23 maggio 2012)

Pubblichiamo qui di seguito ampi stralci dell'intervista di Marco Damilano a Massimo D'Alema. La versione integrale è in edicola sull'Espresso di venerdì.

All'indomani delle elezioni amministrative Massimo D'Alema, il più tenace difensore del sistema dei partiti, alza la diga contro l'anti-politica: «E' stato un voto tra il rischio greco e la possibilità francese. Non ci sfuggono i segnali di malessere e le domande di cambiamento che sono rivolte anche a noi, ma quello che più mi ha impressionato è vedere come gran parte dell'informazione abbia assegnato la vittoria a Grillo. Non dovrebbero esserci dubbi su chi ha vinto le elezioni: il centrosinistra e il Pd sono passati da 54 a 98 sindaci. E invece questa notizia è stata completamente occultata da una parte della stampa».

Parma non conta nulla? Eppure sembra una metafora dell'Italia: un Comune governato dalla destra, in dissesto e sotto inchiesta. Chi voleva l'alternativa avrebbe dovuto rivolgersi al Pd. E invece...
«Parma non è un caso esemplare, è l'eccezione. A Parma non governavamo da dieci anni e dietro al candidato 5 Stelle si è schierato tutto il centrodestra. Personalmente non sono affatto stupito di quel voto. Noi abbiamo vinto a Brindisi, Alessandria, Lucca, nel resto del Paese. E c'è qualche eccezione che deve far riflettere».

Tutto bene, dunque? Non la preoccupa che un elettore su due sia rimasto a casa? La crisi del sistema non riguarda anche il Pd?
«Certamente c'è una crisi del sistema politico, c'è un distacco preoccupante tra cittadini e istituzioni, ma noi rappresentiamo l'unica forza nazionale, l'unica possbilità di dare una guida politica al Paese. Naturalmente non da soli, in una situazione estremamente difficile, con un grave malessere sociale e con forze che agiscono per smantellare l'unica prospettiva politica in campo».

Quali forze?
«Una parte della borghesia italiana. Quelli che dicono: meglio Grillo del Pd. Quelli che giocano sul patto tra gli industriali e gli indignati. Per quale prospettiva è difficile dirlo. Ci sono molti progetti velleitari, accorati appelli in direzione di Montezemolo, c'è chi attende l'arrivo del Cavaliere bianco, tutto purché non si esca a sinistra dalla crisi del berlusconismo. Anche Berlusconi fu un modo di non uscire a sinistra dalla crisi della Prima Repubblica. L'errore politico che commettemmo allora, nel 1994, fu l'illusione dell'autosufficienza della sinistra. Non ci accorgemmo che il mondo conservatore e anticomunista non aveva più rappresentanza politica ma non per questo aveva smesso di essere la maggioranza dell'elettorato. C'era un vuoto e fu riempito da Berlusconi. Per evitare di ripetere l'errore dobbiamo costruire un asse di governo basato sull'alleanza tra progressisti e moderati».

Lei ha definito Grillo «un impasto tra Bossi e il Gabibbo». Dopo Parma lo ripeterebbe?
«Guardi che non è un insulto... Bossi ha fondato un grande partito che ha governato l'Italia per dieci anni. E il Gabibbo è un personaggio che ha attecchito... Mi riferisco alla violenza verbale, all'uso dell'insulto. E comunque il populismo non è un caso solo italiano. La radice culturale è l'anti-politica, ma adesso che il grillismo esprime sindaci, diventa un fenomeno politico. Ora, dobbiamo renderci conto che noi siamo un grande Paese europeo, con vincoli economici internazionali. E dobbiamo immaginarci cosa potrebbe succedere se nel 2013, nel compiacimento generale, un fenomeno di questo tipo dovesse esplodere a livello nazionale con parole d'ordine come l'uscita dall'euro o il fatto che non dobbiamo pagare il debito pubblico. Capisco che tutto questo faccia divertire i media e che la sinistra vecchia, noiosa e burocratica venga presa a ceffoni... Ma dobbiamo tutti renderci conto che se dovesse vincere una forza di questo tipo per l'Italia sarebbe il crac».

Al crac ci siamo già arrivati, per colpa - anche, non solo - della classe politica...
«Questo lo può dire il cittadino arrabbiato, che fa bene a esserlo, anche se magari dovrebbe arrabbiarsi con se stesso se ha votato per Berlusconi o per Bossi. Il governo Prodi nel 2008 ha lasciato l'Italia con un debito al 103,5 per cento e 34 punti di spread, come la Germania. E' profondamente ingiusto e non onesto verso la storia reale del nostro Paese mettere nello stesso mazzo tutti i politici. In questo modo si colpisce la democrazia, che consiste nella capacità di distinguere e nel diritto di scegliere. Quando viene meno questo, scatta il qualunquismo e si apre la strada a ogni tipo di avventura. Con tutta la saggezza di questo mondo, con l'equilibrio e l'apertura alla società civile e alle competenze che abbiamo sempre dimostrato, chiedo alla borghesia, agli imprenditori, ai grandi editori: con chi volete governare l'Italia? Qual è il disegno? Dove si vuole arrivare? Prima di bombardare l'unica prospettiva di governo bisognerebbe pensarci bene».

O noi o il crac: è una Maginot. Avete detto per anni che non si vince con l'antiberlusconismo e ora vi buttate sull'anti-antipolitica?
«L'Italia nella sua storia non è aliena dal buttarsi nel caos. E noi abbiamo l'unico progetto positivo per governare il Paese. Collegare il nostro Paese al nuovo corso della politica europea, aperto dalla vittoria del socialista Hollande. Noi siamo una grande forza responsabile che rappresenta il nesso tra il centrosinistra europeo e l'Italia. E poi occorre un programma di lungo periodo che non è fatto soltanto di riforme liberali, ma di giustizia sociale, valorizzazione del lavoro, riequilibrio della pressione fiscale per ridurre quella che grava sulle famiglie, perché se non ripartono i consumi non riparte l'economia. Qualcosa di sinistra».

Alleanze: pensa a una coalizione che vada da Casini a Vendola?
«Il tema non è assemblare consensi e dissensi, ma mettere in campo la nostra prospettiva di governo. Il tempo è ora. E' un obbligo per noi e per tutti. Se Montezemolo o Passera pensano di candidarsi devono dirlo adesso, con chiarezza. Non è più la stagione delle furbizie. Ora governa Monti, poi ci sarà un dopo Monti che va preparato da adesso, con senso di responsabilità. Dobbiamo dire fin da ora innanzitutto ai cittadini italiani, ma anche ai nostri partner internazionali e ai mercati, dove vogliamo andare, quali sono le opzioni in campo. Noi siamo la principale».

Attorno alla candidatura a premier di Bersani? Oppure si scalda qualcun altro?
«Abbiamo un partito in cui il segretario viene eletto dal popolo tramite le primarie, è la regola più importante dello Statuto, ed è il nostro candidato premier. Ci sono due possibilità di derogare: o dall'interno, chiedendo un nuovo congresso, o dall'esterno, se resta il Porcellum e un altro partito ci contesta la guida della coalizione. In quel caso, si farebbero le primarie di coalizione».

A D'Alema, cresciuto nei partiti di un tempo (sezioni, organizzazione, funzionariato), uno per cui la politica coincide con la vita, che impressione fanno i grillini che spendono poche centinaia di euro, che non hanno una sede e che non conoscono il loro leader?
«Anche nella politica che ho fatto io c'erano i sacrifici... Quella politica dei partiti era fatta da cittadini, il Pci aveva due milioni di iscritti, non erano tutti funzionari, la struttura professionale organizzata era necessaria per consentire di fare politica soprattutto a gente che veniva dagli strati più umili della popolazione. Il che è molto più difficile quando non ci sono i partiti. Io guardo al fenomeno del Movimento 5 Stelle con sincera curiosità intellettuale. Tolte le volgarità e le violenze, anche con simpatia. Mi interessano tutte le forme di passione politica, l'unica cosa che mi spaventa è l'apatia, la rinuncia. Chiunque fa politica è un patrimonio e poi preferisco avere queste energie dentro le istituzioni anziché averle fuori. Se governi sei obbligato al realismo. E io aspetto i 5 Stelle alla prova del governo».

     Massimo D'Alema

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Titolo: Marco DAMILANO - Nasce l'alleanza No Monti
Inserito da: Admin - Agosto 27, 2012, 05:29:39 pm
Politica

Nasce l'alleanza No Monti

di Marco Damilano

Di Pietro. La Fiom. I delusi di Sel. I movimenti. Forse anche Grillo. L'area d'opposizione all'attuale governo inizia a organizzarsi per dire no alla grande coalizione. Obiettivo: 150 deputati, per diventare decisivi in Parlamento

(27 agosto 2012)

L'alleanza è stata conclusa mesi fa, nella casa molisana di Antonio Di Pietro, davanti a un piatto di arrosticini. Nessun problema per l'ex pm venuto dalle campagne intendersi con un altro personaggio di estrazione popolare, sudore e maglietta della salute sempre in vista sotto la camicia, il reggiano Maurizio Landini, segretario nazionale della Fiom, guida delle tute blu, la bestia nera di Sergio Marchionne. Lo si è visto a Taranto, nei giorni del caso Ilva, quando Di Pietro e Landini hanno parlato lo stesso linguaggio. «Siamo con i lavoratori e con la magistratura», ha provato a disegnare la quadra il capo dell'Idv. «Difendiamo i posti di lavoro, ma mai faremo uno sciopero contro la magistratura», ha fatto eco il leader dei metalmeccanici. E ora che le elezioni sono davvero vicine il Patto degli arrosticini assomiglia a qualcosa di più di una semplice sintonia: l'embrione di un partito, destinato ad allargarsi. Quelli che la Grande coalizione mai. Gli indignados di casa nostra: contro i partiti, il governo tecnico, l'Europa dello spread e della finanza. E contro il Quirinale di Giorgio Napolitano, accusato di voler guidare la transizione anche dopo il voto. Il partito dei No Monti. In crescita.

Gli ultimi sondaggi prima della pausa ferragostana quotano questa area stabilmente sopra il 25 per cento, più di un quarto dell'elettorato, con l'Idv intorno al 6-7 per cento e il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo che sfiora il 20. Nella rilevazione Ipsos datata 10 agosto tra i ceti produttivi la lista del comico genovese supera il 21,7 per cento, a un'inezia dal Pd (21,8). Segno che nonostante i passi falsi della giunta Pizzarotti a Parma e le prime crepe tra militanti e eletti, l'appeal elettorale del logo grillino resta intatto. E che lo schieramento ostile al governo Monti sia in ascesa (senza contare, sul fianco destro, la Lega e la Destra di Francesco Storace) lo ha riconosciuto lo stesso premier al meeting di Rimini quando ha segnalato l'avanzata dei partiti no euro, e non sembrava riferirsi soltanto al resto del continente. Per i partiti della strana maggioranza, il Pdl, l'Udc e soprattutto il Pd, è il convitato di pietra, l'ospite sgradito di qualsiasi discorso futuro: la legge elettorale, il nuovo Parlamento, le alleanze che verranno. E l'elezione del prossimo presidente della Repubblica.

Per ora è un fronte eterogeneo, liquido, in cui convivono tante cose contraddittorie. I frequentatori del blog di Grillo, gli arrabbiati contro la casta dei politici, con i comunicati del Leader che si fanno sempre più minacciosi («Il Movimento 5 Stelle è il cambiamento che non si può arrestare, è il segno dei tempi...»). I firmatari dell'appello del "Fatto quotidiano" di solidarietà con i giudici di Palermo che indagano sulla trattativa Stato-mafia (in testa il pm Antonio Ingroia) sotto attacco dopo il ricorso del Quirinale presso la Consulta sulle intercettazioni del presidente Napolitano con Nicola Mancino: 150 mila firme solo nella settimana di Ferragosto, intellettuali, artisti, giornalisti, tantissimi cittadini comuni, nessun politico. Ma anche i metalmeccanici della Fiom. I professori che lavorano per dare vita a un soggetto politico sotto la bandiera dei Beni comuni con il nome di Alba (Marco Revelli, Paul Ginsborg, Ugo Mattei). Di Pietro e i suoi, unica opposizione parlamentare a Monti (oltre al Carroccio). Ma nella polemica contro l'accordo tra Pd-Pdl-Udc rientrano anche figure importanti del Pd, come il fondatore dell'Ulivo Arturo Parisi. "Il partito della Costituzione", lo ha definito qualcuno. E c'è già chi si esercita sui nomi dei possibili leader. «E se fosse il pm di Palermo Antonio Ingroia il candidato premier di 5 Stelle, Idv e di qualcun altro ancora?», si è chiesto ad esempio via twitter l'ex presidente della Rai Claudio Petruccioli alludendo al presidente emerito della Consulta Gustavo Zagrebelsky che su "Repubblica" ha criticato l'iniziativa del Quirinale contro la Procura di Palermo. «Una minchiata», gli hanno risposto (sempre su twitter). Ma intanto il dubbio è stato lanciato.

Alleanze mobili, rimescolamento di carte a sinistra. L'intesa tra Pier Luigi Bersani e Nichi Vendola di un mese fa sembrava mettere a rischio la sopravvivenza di Idv, già minacciato dalla concorrenza grillina. Invece ha aperto sorprendenti spazi di manovra. «Nichi ha firmato l'annessione di Sel da parte di Bersani. E l'unica forza in campo non subalterna alla destra montiana diventa l'Idv di Di Pietro». Parola di un insospettabile, il direttore di "Altri" Piero Sansonetti, storica voce della sinistra radicale e garantista doc, feroce critico del protagonismo politico delle toghe. «Sì, sono contro il manettarismo. Ma Di Pietro è rimasto l'unica forza cui la sinistra possa guardare». Nel partito di Vendola, manco a dirlo, si è aperto il dibattito. Con il consigliere regionale lombardo Giulio Cavalli in rivolta contro Vendola: «Il voto utile in salsa postveltroniana non ci interessa. Qualcuno alzi la voce per chiedere l'unità della sinistra con la parte (di sinistra) del Pd, con Fds, Verdi e Idv». E poi c'è la Sicilia: in vista delle elezioni regionali di autunno (la prova generale delle politiche) Sel e Idv potrebbero ritrovarsi ad appoggiare Claudio Fava contro il candidato del Pd-Udc Rosario Crocetta. Ingroia? Corteggiatissimo, da più parti: anche Fabio Granata di Fli gli ha chiesto di candidarsi, ottenendone un rifiuto.

A Vasto, un anno fa, fu scattata la foto dell'alleanza Bersani-Vendola-Di Pietro, destinata a trasformarsi in un tormentone e infine stracciata dai contraenti. A fine settembre l'ex pm scatterà la nuova istantanea. Nel manifesto della festa di Idv Di Pietro figura in mezzo a una riedizione del "Quarto Stato" di Pellizza da Volpedo, lui con la giacca sulle spalle, accanto un operaio con il casco in testa, una mamma con figlia, alle spalle una coppia gay. Sul palco sarà con il leader della Fiom Landini e con il vice-presidente di Confindustria Vincenzo Boccia. Per Tonino è lo sbocco di una strategia che va avanti da anni, oltre trecento assemblee con gli operai davanti alle fabbriche, da Nord a Sud.«Il governo Monti è un fallimento, il premier fa come Berlusconi, si rivende che siamo fuori dalla crisi», spiega l'ambasciatore dipietrista presso la classe operaia Maurizio Zipponi, ex Fiom. «Noi siamo un partito nuovo, la parola sinistra non parla più ai lavoratori, al ceto medio impoverito». Ma anche Landini sta pilotando la sua organizzazione fuori dal recinto sindacale: all'ultimo incontro della Fiom in un albergo romano c'erano anche intellettuali come Stefano Rodotà e Paolo Flores D'Arcais, applauditissimi. Il leader non intende entrare in politica ma chiede «una rappresentanza per il mondo del lavoro» e tesse la tela a tutto campo. Alla festa della Fiom di Torino ci sarà Maurizio Pallante, fondatore del movimento per la Decrescita felice (più anti-montiano di così!), indicato da Grillo come il professore che deve svelare i segreti delle macchine amministrative ai consiglieri comunali eletti con 5 Stelle.

Grillo è il potenziale leader dello schieramento No Monti. «Con Di Pietro si sono parlati, c'è un accordo di non belligeranza, non spararsi addosso», raccontano, «anche perché i due crescono insieme nei sondaggi».Marceranno divisi, giurano, non ci sarà nessuna lista unitaria dei No-Monti alle elezioni. Ma tutto può cambiare, e rapidamnente: con una riforma elettorale per andare al voto in autunno che premi i partiti di governo e penalizzi le forze anti-sistema. Oppure con una richiesta di aiuto dell'Italia all'Europa che renderebbe indispensabile il proseguimento della grande coalizione che regge il governo Monti. «Né Grillo né Di Pietro sono sprovveduti: l'esigenza di fare qualcosa insieme diventerebbe irrefrenabile», ragiona chi li conosce bene. Obiettivo: mettere su un fronte che alle elezioni potrebbe valere 150-160 deputati e 80 senatori. Una forza in grado di condizionare il Parlamento appena eletto quando si tratterà di prendere le decisioni più importanti, all'inizio della legislatura: il nuovo governo e il successore di Napolitano al Quirinale. Pro o contro Monti, pro o contro le euro-ricette, pro o contro il presidenzialismo di fatto che ha caratterizzato l'ultima fase del settennato di Napolitano: da queste scelte passerà il bipolarismo prossimo venturo.

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Titolo: Marco DAMILANO - Quattro avversari per Bersani
Inserito da: Admin - Dicembre 08, 2012, 05:43:09 pm
Analisi

Quattro avversari per Bersani

di Marco Damilano


Vinte le primarie, restano un po' di ostacoli. A iniziare da Renzi, che ha perso ma non scomparirà affatto. Poi c'è Grillo, che l'altra sera ha brindato. E D'Alema, l'oligarchia che non vuole mollare. Infine Monti, o meglio il partito del governo

(03 dicembre 2012)

Pier Luigi Bersani ha vinto, stravinto, Matteo Renzi ha perso, è apparso «un ragazzetto ambizioso», parole sue. Ha vinto, ancora una volta, chi partecipa, chi fa la fila per votare, chi ha montato i gazebo e chi li ha smontati. E ha vinto una concezione della politica che ha tenuto insieme per tutta la durata della campagna per le primarie i duellanti: in politica si rischia, vince chi ha coraggio, chi non resta nell'angolo già assegnato ma prova a fare un passo oltre.

Per Renzi era una possibilità, per Bersani una necessità. Non si poteva restare aggrappati a un articolo dello statuto mentre intorno il mondo crollava. Merito del segretario averlo capito ed essere riuscito a cambiare strada con convinzione.

Nel 2007 il primo leader venuto dall'Emilia aveva rifiutato di candidarsi alle primarie contro Veltroni, «si rischia di disorientare l'elettorato», si era giustificato. Nel 2009, quando ha corso per la segreteria, ha lasciato che gli uomini della sua mozione dichiarassero che la prima cosa da fare era smantellare il metodo delle primarie per la scelta del segretario, «si rischia di consegnare a cittadini estranei il potere di eleggere il nostro leader», dicevano. Ancora oggi, a vittoria acquisita, Bersani ha ripetuto di non voler essere «un uomo solo al comando».

Le intenzioni sono ottime, nel Paese di Berlusconi, ma il candidato premier sbaglia il bersaglio: in una democrazia matura le idee camminano sulle gambe delle persone, una democrazia che funziona ha bisogno di leader, di capi. «Ogni Stato non può non avere un governo, costituito da un ristretto numero di uomini che a loro volta si organizzano attorno a uno dotato di maggiore capacità e chiaroveggenza. Finché sarà necessario uno Stato, finchè sarà storicamente necessario governare gli uomini, qualunque sia la classe dominante, si porrà il problema di avere dei capi, di avere un capo». Parola di Antonio Gramsci, in un articolo su "Ordine Nuovo" del primo marzo 1924, intitolato "Capo".

Bersani, da stasera, non può e non deve nascondersi. E' lui il Capo del centrosinistra. Sua la responsabilità di programmi, alleanze, candidature. E' il Capo grazie a un sistema che nella cultura da cui proviene non esisteva: le primarie, la competizione, il conflitto tra persone. Mitterrand negli anni Sessanta aveva combattuto contro il presidenzialismo di De Gaulle, definì la Quinta Repubblica «un colpo di Stato permanente». Però fu grazie al presidenzialismo che la sinistra francese potè andare al potere nel 1981 e Mitterrand regnare all'Eliseo per quattordici anni.

Similmente l'incolore Hollande è diventato presidente e governa la Francia dall'Eliseo. Così oggi Bersani deve ringraziare le primarie se può puntare a Palazzo Chigi dopo le elezioni del 2013. Se avesse fatto un congresso per riaffermare la sua leadership ne sarebbe uscito in realtà indebolito, l'avrebbero masticato e sputato. Grazie alle primarie inventate anni fa dal tenace, testardo, solitario Arturo Parisi e sostenute da Romano Prodi, grazie a quell'intuizione avversata dall'intero gruppo dirigente, grazie ai milioni di votanti dei gazebo il segretario-candidato potrà domani sfidare i suoi avversari. I Quattro Cavalieri dell'Apocalisse.

Il primo Cavaliere, il rivale delle primarie Matteo Renzi si è rivelato l'avversario migliore, perché il più leale e coraggioso. Fino al discorso di questa sera, un unicum nella politica italiana. Un giovane politico che chiede scusa, che dice: ho sbagliato io, che non ci gira intorno e ripete: non volevo fare testimonianza, volevo vincere e invece ho perso. Basta questa dichiarazione per spiegare perché Renzi non esce stasera di scena, anzi. Avesse vinto il sindaco di Firenze staremmo a commentare un terremoto. Invece, pochi minuti dopo la chiusura delle urne, il sistema ha rifiatato. Tirano un sospiro di sollievo la Camusso e Casini che hanno scelto al primo e al secondo turno le interviste in tv della domenica pomeriggio per denunciare il pericolo Renzi, con sintonia sospetta. Respirano i berlusconiani che già stasera tornano sul classico di sempre: attenzione, tornano i comunisti. L'onda del cambiamento non è riuscita a buttare giù la fortezza, ma c'è e ha già modificato in profondità il volto del Pd. «Ho tre cose dalla mia parte: l'entusiasmo, il tempo, la libertà». L'entusiasmo l'abbiamo visto, il tempo c'è tutto, Renzi ha 37 anni e può aspettare il prossimo giro che non tarderà ad arrivare, la libertà è già il rifiuto di infilarsi in un ticket o in un organigramma romano. L'annuncio di mani libere, in vista delle battaglie future. Gli altri cavalieri non combattono a viso aperto. Anzi, in qualche caso, si travestono da amici, da alleati. C'è il Cavaliere Nero dell'anti-politica: stasera anche Beppe Grillo può rallegrarsi, temeva una vittoria di Renzi e lo aveva dimostrato, con Bersani torna tutto sui binari prestabiliti. Il partito contro il movimento, la casta dei politici di professione contro i cittadini, le sezioni contro l'on line. Sbaglierebbe chi leggesse nella bella giornata delle primarie la soluzione a tutti i mali di cui soffre la politica. Il calo di votanti si è visto anche nei gazebo. E se non cambia la legge elettorale nelle prossime settimane Bersani sarà chiamato a nominare i suoi gruppi parlamentari: uno spettacolo che se gestito male da solo può ridare spazio alle truppe dell'antipolitica.

E qui arriva il Cavaliere Rosso: il gruppo dirigente del Pd, la vecchia guardia del partito. Ieri sera ballavano e si toccavano e si trattenevano a stento dalle risate, sembravano naufraghi scampati a un disastro. Massimo D'Alema riemerso dall'esilio sparava a zero sui giornalisti che hanno creato Renzi, come se tutte le energie che è riuscito a mobilitare il sindaco fossero un prodotto dei media. «La parola rottazione non gli ha portato bene», ha sogghignato il leader Massimo. Ma non è vero: Renzi ha perso le primarie, forse, il giorno che ha vinto la sua battaglia, quando Veltroni e D'Alema nel giro di poche ore hanno annunciato il loro ritiro dal Parlamento. Se avessero resistito, se Bersani avesse dovuto fare la sua corsa con D'Alema arrampicato sulle sue spalle non ci sarebbe stata partita. E ora, di nuovo, tocca a Bersani arginare le spinte di una classe dirigente che passata la paura spingerà per tornare ai riti antichi. Le liturgie correntizie, i bilancini tra le correnti, gli organigrammi concordati tra i notabili.... Per un mese al Nazareno non ci sono state più riunioni, grazie alle primarie. Per quaranta giorni Bersani ha assaporato il gusto della solitudine del potere, Miguel Gotor, il suo consigliere numero uno, non l'ha scelto nessuno e non ha nessun ruolo nel partito, esattamente come i ragazzi Moretti, Speranza e Giuntella, la guardia scelta del segretario. E ora? Si ritornerà ai balletti della solita nomenclatura?

Infine c'è l'ultimo Cavaliere da affrontare, il più insidioso perché si presenta con il mantello bianco. Ne ha parlato Eugenio Scalfari su "Repubblica": «L'ideale sarebbe Monti presidente del Consiglio di un governo guidato dal Pd». Difficile da vedersi, perché un governo Monti bis non sarebbe affatto guidato ma subito dal Pd. Il partito del Monti bis, dei Casini e dei Montezemolo, tifava paradossalmente per Bersani: perché un partito che resta nei suoi confini, nella tradizione della vecchia sinistra incapace di allargare i consensi e per di più alleata con Vendola, fa comodo a tutto l'establishment che punta a costruire una terza forza. Il Partito del Governo che stabilisce chi è legittimato a stare in maggioranza e chi no. Il Partito della Palude, pronto a entrare in azione già nelle prossime ore quando il Senato sarà chiamato a votare sulla nuova legge elettorale. E si vedrà lì, a Palazzo Madama, se il popolo dei gazebo è in grado di modificare le scelte politiche. Oppure se dopo aver votato per primarie all'americana ci ritroveremo invischiati in un sistema all'italiana.

Il Quinto Cavaliere, quello non c'è, speriamo. Speriamo che il Cavaliere di Arcore non venga resuscitato. Speriamo che venga almeno evitato il remake del '94, comunisti contro berlusconiani. Il Pdl sta offrendo uno spettacolo deprimente, il crepuscolo del Caimano, ancor più soffocante se contrapposto agli elettori che alla luce del sole sono andati a scegliere il loro leader.

Nessuno, però, può rallegrarsi del vuoto che si viene a creare dove c'è il blocco sociale che da decenni egemonizza il Paese, a volte appoggiando il moderatismo aperto alle riforme della Dc, altre volte sostenendo le peggiori avventure. Non si può certo chiedere a Bersani di farsi carico anche di questo problema, risolvere la crisi della destra. Ma non si deve dimenticare che è nel vuoto che si annidano i pericoli peggiori.

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Titolo: Marco DAMILANO - Intanto Bersani fa la squadra
Inserito da: Admin - Dicembre 08, 2012, 05:44:01 pm

Scenari

Intanto Bersani fa la squadra

di Marco Damilano


Mentre Berlusconi cerca di far cadere il governo, il segretario del Pd prepara i nomi del prossimo esecutivo. Un mix di vecchie glorie e volti nuovi. Eccoli

(07 dicembre 2012)

Dopo le primarie avanza una creatura mitologica metà persona e metà metafora. Post-comunista e cattolico, con l'accento emiliano, ma con i piedi piantati nel Sud, dove Pier Luigi Bersani ha fatto il pieno. E' l'Homo Bersanianus, il volto del Pd uscito vincente contro Matteo Renzi.
E Bersani già prepara il suo Squadrone, al governo e al partito, un mix di vecchio (Massimo D'Alema agli Esteri, Walter Veltroni alla Cultura), di usato sicuro e di nuovo. Ecco i nomi di candidati e aspiranti. Con un punto interrogativo: ma Monti ci sarà?

QUIRINALE
Romano Prodi. Il Professore, ufficialmente inviato dell'Onu in Sahel, ha rotto il lungo silenzio sulla politica italiana per votare alle primarie. Per dire che «Renzi ha un futuro», che Bersani «è fortissimo» e che «i veri sconfitti» sono quelli che non volevano le primarie nel Pd, e non c'è bisogno di aggiungere altro: Tutankamon Prodi non dimentica e non perdona. Con il centrosinistra che vede la maggioranza, salgono le sue quotazioni per il Quirinale. Con Bersani il rapporto è ottimo, l'unico ministro a restargli vicino nel momento amaro della caduta.
Nel 2013 si può ricostruire un tandem emiliano.

GOVERNO
Vasco Errani. Il presidente dell'Emilia è in testa alla lista di un ipotetico governo Bersani, l'ambasciatore del segretario (con Berlusconi quando governava, con Monti, con Renzi), l'amico più fidato, il suo Gianni Letta. Potrebbe essere il sottosegretario alla presidenza o andare al Viminale.
Fabrizio Barca. Il ministro di Monti più apprezzato da Bersani. Radici familiari nel Pci, formazione tecnocratica, la scorsa settimana ha teorizzato controcorrente che in Italia non si fanno poche riforme: «Il problema è che se ne fanno troppe. Da vent'anni il Paese vive in uno stato di perenne riforma senza visione». C'è chi lo vorrebbe candidare al Campidoglio ma per lui si prepara il ministero dello Sviluppo, o addirittura la poltronissima dell'Economia.
Stefano Fassina. Il responsabile Economia, bestia nera dei liberal Pd alla Pietro Ichino e dei liberisti alla Francesco Giavazzi, convinto della necessità di «rottamare l'agenda Monti». Potrebbe andare al Welfare e Lavoro, al posto della detestata Elsa Fornero.
Miguel Gotor. Romano con padre spagnolo, storico di santi e eretici cinquecenteschi, esegeta delle lettere di Moro e inventore del bersanese come categoria di studio ha guidato il comitato Bersani for premier. Potrebbe diventare ministro dell'Istruzione.
Guglielmo Epifani. L'ex leader della Cgil è stato tra i grandi elettori di Bersani, il tramite con l'organizzazione guidata da Susanna Camusso. Il seggio in Parlamento è sicuro, il posto nel governo possibile.
Emanuele Fiano. Milanese, esponente della comunità ebraica, è il responsabile sicurezza, cura i rapporti con i servizi.
Andrea Orlando. Spezzino, gran navigatore di correnti e di segreterie, da Fassino a Veltroni a Bersani, è il responsabile Giustizia, aspira al ministero di via Arenula.
Francesco Boccia. Combattivo deputato pugliese, area Enrico Letta, spesso in polemica con i giovani turchi (Fassina-Orfini), coltiva stretti legami con imprese, banche e finanza. In corsa per un dicastero economico.
Matteo Colaninno. L'ex presidente dei giovani industriali nel governo ombra di Veltroni fu ministro dello Sviluppo economico, quando il padre guidò la cordata della nuova Alitalia. Conflitto di interessi?
Vincenzo De Luca. Il sindaco di Salerno ha consegnato a Bersani un plebiscito nella sua città, nonostante le critiche feroci contro i giovani di largo del Nazareno: «Fallofori in processione». Potrebbe essere richiamato a Roma come esponente del Sud bersaniano in un ministero di peso: le Infrastrutture.
Paola De Micheli. Ruspante deputata piacentina, come il segretario, da lei difeso con grinta in tv. Qualcuno l'ha definita «l'Amazzone di Bersani». Potrebbe essere ricompensata con un posto di governo.
Laura Puppato. La sfidante alle primarie, più contro Renzi che contro Bersani. Sarà ricompensata: ministro dell'Ambiente.

 
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Titolo: Marco DAMILANO - Ora il Pd ha le convulsioni
Inserito da: Admin - Marzo 01, 2013, 12:11:06 am
Lo tsunami

Ora il Pd ha le convulsioni

di Marco Damilano


Chi pensa a un governissimo con Berlusconi. Chi continua a puntare su Grillo nonostante il niet.

Chi vorrebbe solo far la festa a Bersani.

Nel partito che 'è arrivato primo ma non ha vinto' siamo alla resta dei conti

(28 febbraio 2013)

Pier Luigi Bersani beve, pronuncia a fatica altri due concetti, il capo ufficio stampa del partito Roberto Seghetti lo vede in difficoltà, lo soccorre con un altro bicchiere d'acqua, il segretario va avanti. Altro che non vittoria, martedì 26 febbraio alle cinque della sera il candidato premier dei progressisti è il ritratto della sconfitta. La voce impastata, gli occhiali tormentati, le rughe improvvisamente visibili che gli invadono il volto. E il peggio deve ancora arrivare: perché alla prima apparizione pubblica del dopo-voto segue il rito più antico e crudele, la specialità della Ditta: l'auto-critica, la flagellazione, il processo al capo sconfitto o, almeno, non vittorioso.

In largo del Nazareno si rivedono tutti i capi storici, «un clima surreale», racconta chi c'era, «D'Alema e Veltroni sono arrivati insieme, si sono seduti vicini, mi sono voltato e se ne erano andati via, senza parlare».

Per Bersani è un doppio fronte aperto, doloroso e precario. Fino alle quattro del pomeriggio di lunedì 25 febbraio, i maledetti instant-poll che gli assicuravano la vittoria anche al Senato e senza soccorsi centristi, era il premier in pectore del «primo governo di sinistra», come lo aveva definito qualche suo consigliere nelle interviste della vigilia dimenticando l'Ulivo di Romano Prodi, la parentesi di Massimo D'Alema a Palazzo Chigi e molto altro. Ora è un leader chiamato a dover gestire una situazione drammatica per formare un nuovo governo, "responsabilità" è la parola più ricorrente nei conciliaboli, ma anche un segretario che per tre mesi ha potuto contare su una pax interna senza precedenti, le correnti scompigliate, i capi storici in disarmo, la nuova leva dei dirigenti ambiziosi e rampanti tutti schierati dalla sua parte.

Un uomo solo al comando, che oggi si ritrova solo nei panni amari della sconfitta. «Dobbiamo cambiare tutto», mormora perfino il giovane Tommaso Giuntella, uno dei portavoce del leader nella vittoriosa campagna per le primarie, più bersaniano del segretario. Forse perché ora che i voti si contano nello staff del capo ci si accorge che in tanti sono mancati all'appello. «Io che non ero neppure candidato ho fatto la campagna elettorale, ma mi sono accorto che non la faceva nessuno», riflette un vecchio saggio come Pierluigi Castagnetti. Un altro cane sciolto che si è tirato fuori prima del voto, Arturo Parisi, l'inventore dell'Ulivo, aveva già fiutato l'aria dopo il comizio di piazza Duomo in cui era salito sul palco Romano Prodi: «Forse vogliono condividere con tutti le responsabilità del risultato». Negativo.

Una vittoria mancata che, forse, comincia nel momento più bello della carriera politica di Bersani, la notte del 2 dicembre 2012, il trionfo su Matteo Renzi alle primarie. In quel momento Bersani si sentiva predestinato a Palazzo Chigi. «Ora non ci ammazza più nessuno», ripeteva.
Con qualche buona ragione: il Pdl era in rotta, alle prese con il tormentone interno, Berlusconi si candida o non si candida, il premier Mario Monti non si era ancora messo in testa di salire in politica o almeno non lo aveva ancora dichiarato. E il leader di 5 Stelle Beppe Grillo compariva solo on line, per scomunicare i dissidenti interni, sembrava avviato in una deprimente contesa i Favia e le Salsi, nulla di interessante per il Paese.

E' nel punto di massimo vantaggio che Bersani e i suoi hanno preso la decisione che si è rivelata catastrofica: restare immobili, aspettare seraficamente la data del voto che avrebbe consegnato magicamente il governo e il potere ai democratici e ai progressisti. Una strategia attendista e rassicurante: gli italiani hanno paura della crisi, serve qualcuno che li tranquillizzi, eccomi qua, ci penso io, comunicava il faccione di Bersani sui manifesti e negli spot, in nome dell'Italia giusta.

«E invece abbiamo sbagliato la lettura. Le primarie sono state fondamentali, se non le avessimo fatte saremmo stati spazzati via.Ma è da decenni che questo partito ha un problema con i ceti popolari. Siamo rimasti paralizzati perché incapaci di intercettare il disagio sociale», attacca il neo-deputato Matteo Orfini, capofila con Stefano Fassina e con Andrea Orlando della corrente dei Giovani Turchi, i trentenni-quarantenni del Pd, l'ala gauchista del partito che ha eletto almeno 50 deputati. «Il fenomeno Grillo è prosperato nell'anno del governo Monti, quando noi ci siamo dovuti far carico di riforme dolorose mentre altri erano liberi di intercettare la rivolta contro l'austerità e il rigore. C'era una parte del partito che ci spiegava ogni santo giorno che dovevamo farci guidare da Monti, che senza il centro non si poteva governare, ci sventolavano contro i mercati e le cancellerie internazionali. E noi, per senso di responsabilità, abbiamo passato un anno a discutere e corteggiare Monti e Casini che arrivano a malapena al 10 per cento dell'elettorato. E abbiamo ignorato il 25 per cento che ha votato Grillo».

Senza contare i mali che arrivano da lontano: «Nell'iconografia del partito il Mezzogiorno non esiste, tranne la Finocchiaro», elenca Orfini. «Nelle regioni rosse Grillo ha dilagato, segno di una difficoltà di rinnovamento. E in Lombardia ha rivinto l'asse Pdl-Lega».

Un'analisi condivisa da un altro neo-deputato, Giuseppe Civati detto Pippo, 37 anni, rottamatore della prima ora in tandem con Matteo Renzi (poi i due si sono divisi), tra i primi a lanciare l'allarme su Grillo già mesi fa con un libro ("La rivendicazione della politica"): «Sono voti nostri». «Serve una mossa. Una zampata», dice ora. In direzione di Grillo: la linea abbozzata da Bersani nelle prime ore del dopo-voto. Smetterla con la fase della chiusura (Grillo è un fascista, un amico di Casa Pound...), che si è rivelata inutile già in campagna elettorale, e inaugurare una strategia dell'attenzione (come avrebbe fatto Aldo Moro: altri tempi, altre stagioni, però). Un governo con un programma minimo, 4-5 punti in tutto, riduzione del numero dei parlamentari (serve una riforma della Costituzione, con una doppia lettura delle Camere), fine del bicameralismo, drastico taglio ai costi della politica (rimborsi elettorali, stipendio di deputati e senatori, abolizione delle province), riforma della legge elettorale. E qualche intervento sul lavoro, per uscire dalla vaghezza delle proposte elettorali («Un po' di lavoro», si sbilanciava appena il segretario). Un'apertura di credito al Movimento 5 Stelle, con tanto di offerta di un incarico istituzionale, la presidenza della Camera per un grillino (o per la neo-deputata grillina Marta Grande: sullo scranno che fu di Nilde Jotti e di Irene Pivetti).

«Una proposta di movimento e di combattimento», riassume il consigliere di Bersani Miguel Gotor, appena eletto senatore. «La novità è che sono cambiati i rapporti di forza, Monti e Casini non ci sono più, dobbiamo sfidare Grillo». E l'accordo con Berlusconi? Baciare il giaguaro anziché il rospo? «L'idea di fare la grande coalizione con il Pdl come in Germania è ridicola. Fare il governissimo sarebbe la fine», replica Gotor.

Un'analisi condivisa dal vice-segretario Enrico Letta, a lungo considerato come l'esponente del Pd più vicino a Monti: «Questi quattordici mesi che abbiamo alle spalle segnano le nostre mosse di oggi. Abbiamo visto che con Berlusconi non si possono fare accordi, ha fatto tutta la campagna elettorale come se lui fosse sempre stato all'opposizione, assegnandoci la croce di aver votato i provvedimenti più impopolari del governo. E la candidatura di Monti ha bruciato la possibilità di fare un nuovo governo tecnico. Resta solo una strada: un governo di minoranza, che cerca i voti in Senato di volta in volta. E per farlo bisogna garantirsi almeno la non belligeranza di Grillo: se lui vuole può mettere a ferro e a fuoco Palazzo Madama e paralizzare tutto».

Una strada molto stretta. Ci sono molti dubbi che Bersani abbia la fantasia politica necessaria per percorrerla, la capacità di movimento che la situazione richiede. Soprattutto se il Pd si divide: i notabili più influenti del partito, gli stessi che non volevano le primarie, giudicano l'apertura a Grilllo come l'ultima follia del segretario. Nel sinedrio dei capi, per ora, sono solo sfumature. D'Alema non ha parlato, Veltroni neppure. Solo Luciano Violante è uscito allo scoperto, per dire che si deve parlare con tutti, giaguaro Berlusconi compreso. E altri si mettono di traverso rispetto all'ipotesi di un asse Pd-5 Stelle. «Che facciamo? Dopo aver inseguito per vent'anni la Lega con il federalismo ora ci buttiamo su Grillo?», sbotta l'ex dc Giuseppe Fioroni.

Una sola cosa tiene uniti tutti i big attorno al segretario: il no alle elezioni anticipate. D'Alema le considera una catastrofe, da evitare a qualsiasi costo, compreso l'accordo con il Cavaliere. In pole position per Palazzo Chigi c'è Giuliano Amato, azzoppato nella corsa per il Quirinale. Ma i giovani non ne vogliono sentir parlare. La divisione Grillo sì-Grillo no è anche generazionale: «Mai con il Pdl», ripete Orfini. «E subito volti nuovi alle presidenze dei gruppi di Camera e Senato, aprire la stagione congressuale con un gruppo dirigente interamente nuovo». E nuovo segretario, perché «è finita un'epoca». Il giovane turco si traveste da rottamatore. Mentre il rottamatore doc Matteo Renzi mantiene la linea che si è dato dopo la sconfitta alle primarie: lealtà con Bersani, aspettare che il polverone si posi e poi affondare il colpo. Sapendo che la richiesta di un suo impegno nazionale nelle prossime settimane diventerà irresistibile anche tra i quadri più fedeli a Bersani, nelle regioni rosse sconvolte da Grillo. In Toscana il sindaco di Firenze aveva già trionfato alle primarie.

In Emilia c'è il sindaco di Reggio Emilia Graziano Del Rio, renziano della prima ora, che spinge per un cambiamento rapido di leadership, cui si è aggiunto anche il primo cittadino di Bologna Virginio Merola, super-bersaniano. E c'è chi ipotizza scenari ancora più hard. «Fossi in Bersani metterei Grillo di fronte alla responsabilità di essere il primo partito italiano e gli offrirei l'onore (provocatoriamente) di esprimere una proposta per il governo, un nome condiviso con noi», dice un altro new entry, il segretario del Pd di Forlì Marco Di Maio, classe 1983, interprete degli umori della nuova onda di trentenni del Pd alla Camera: i grillini democratici. «Oppure per il governo metterei in campo un nome nuovo. Per il partito c'è una sola cosa da fare: un congresso subito con Renzi segretario. Perché altrimenti perderemo tutte le elezioni del 2013 e del 2014». Lo tsunami 5 Stelle è arrivato nel cuore del Pd.


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Titolo: Marco DAMILANO - Renzi: 'Io sono pronto'
Inserito da: Admin - Marzo 14, 2013, 11:21:41 pm
Esclusivo

Renzi: 'Io sono pronto'

di Marco Damilano

«Sarà una legislatura breve. Ma spero possa almeno fare una riforma elettorale perché i cittadini scelgano il prossimo Sindaco d'Italia. E se ci saranno le condizioni, mi candiderò». Parla l'ex sfidante di Bersani

(13 marzo 2013)

Sulla scrivania del suo ufficio a Palazzo Vecchio, accanto alla stanza di Leone X, Matteo Renzi gioca con i pennarelli e sfoglia le foto dei cardinali in conclave. E' reduce da una discussione in famiglia sul nuovo papa, il sindaco di Firenze, cattolico praticante, lo vorrebbe aperto sulle questioni etiche, un papa "rottamatore". Ma in politica depone la sua antica bandiera: «Rottamazione non comunica speranza. Ora è il momento di dire un'altra parola: lavoro. E' meno sexy, ma incrocia la vita degli italiani. Insieme a una radicale riforma della politica». Renzi si butta a sinistra, in vista della futura corsa elettorale. Che il sindaco vede sempre più vicina.

Cosa rischia l'Italia in queste settimane?
«C'è un clima pericoloso. Da giorni discutiamo dei presidenti delle Camere, intanto lo spread con la Spagna si riduce, se la Pubblica amministrazione non paga i debiti ci saranno 300-500 mila disoccupati in più nei prossimi mesi. E la politica sottovaluta l'emergenza. La notizia della settimana è Bridgestone che chiude a Bari, non Grillo che chiude a Bersani. Si può fare con un mese di ritardo un governo che affronti la crisi. Oppure nominare in 48 ore un governo che vivacchia. Il punto è: un governo per fare cosa?».

Cosa metterebbe nell'agenda Renzi?
«Al primo posto, il lavoro. Ci sono tre milioni di disoccupati, il 40 per cento di giovani. Sto preparando un Job Act: un piano per il lavoro. Sarà innovativo. Noi ci siamo divisi tra la Cgil e Ichino e abbiamo dimenticato cose molto concrete: 20 mila cantieri fermi, lo 0,7 per cento del Pil, bloccati dal patto di stabilità, lo ricorda il presidente dell'Anci Graziano Del Rio. Investimenti sull'innovazione digitale, sull'agroalimentare, progetti per gli investitori stranieri. Al Job Act stanno lavorando imprenditori, docenti, manager, neo-parlamentari: un volume corposo, lo presenteremo tra aprile e maggio...».

Che caso: giusto in tempo per la campagna elettorale!
«Io spero che sia in tempo per un governo che queste cose le faccia. Partendo dalle esperienze di chi vive in queste realtà, non dal pensiero di un funzionario di partito chiuso in un centro studi che immagina come deve funzionare il mondo. La sfida del Pd è questa: essere il partito del lavoro».

Bersani ha fatto tutta la campagna elettorale sul lavoro. Risultato: i disoccupati ma anche gli operai hanno votato per Grillo.
«Non si vince con il programma, ma con la speranza. Molti dicono: al Pd è mancata la tecnologia di Grillo. Non è vero, è mancata la passione che una parte di quel mondo esprime. Abbiamo parlato molto di giaguari da smacchiare e poco di asili nido. Otto milioni di cittadini non hanno votato Grillo perché avevano letto il libro di Casaleggio sulla guerra mondiale, ma perché trasmette un cambiamento. E trovo singolare che il Pd non riesca a comunicare che i suoi nuovi parlamentari, giovani e donne, sono più interessanti del fenomeno di colore dei deputati di 5 Stelle. Sono quasi tutti bersaniani: perché non li valorizzano? Sono migliori del Pd che va in televisione».

Sul tentativo di Bersani di fare un governo lei si mostra più che scettico: è ancora l'uomo giusto per gestire questa fase?
«Prendo atto della strategia di Bersani di aprire a Grillo. Gli ho detto: in bocca al lupo, faccio il tifo per te. Ma mi sembra improbabile che ci riesca. O Grillo cambia idea o noi cambiamo strategia».

In che direzione?
«Ah no, le formule non mi riguardano. Faccia Bersani. Accanto al lavoro serve una riforma della politica che comprenda la nuova legge elettorale, la riduzione dei parlamentari, l'abolizione delle province e del finanziamento dei partiti».

Grillo chiede a Bersani di non accettare i rimborsi elettorali, in Rete gira l'apposito modulo: Bersani dovrebbe firmarlo?
«Più inseguiamo Grillo più gioca la sua partita. Bersani dovrebbe abolire il finanziamento, non firmare il foglio di Grillo che sarebbe un nuovo cedimento. Non servirà a fare la pace con Grillo, ma almeno faremo la pace con gli italiani. La mia proposta di abolizione aiuta Bersani...».

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Titolo: Marco DAMILANO - Tra Angelino e Silvio è un divorzio di convenienza
Inserito da: Admin - Novembre 19, 2013, 05:12:06 pm
Analisi
Tra Angelino Alfano e Silvio Berlusconi è un divorzio di convenienza

Il vicepremier presenta il Nuovo Centrodestra mentre il Cavaliere rifonda Forza Italia. Ma la rottura tra i due è solo temporanea, e da entrambe le parti si parla di una prossima coalizione. Per questo la sinistra farebbe bene a non esultare

di Marco Damilano


Si lasciano, tra lacrime, crolli di stanchezza, platee vocianti, urla di tradimento. Ma è una rottura distante anni luce dallo strappo violento che allontanò nel 2010 Gianfranco Fini da Silvio Berlusconi. Quello tra Il Cavaliere e Angelino Alfano è un chiarimento all'insegna dell'ambiguita', non della chiarezza, un addio che assomiglia tanto a un arrivederci, un gioco di apparenze e di sottintesi. Lo dice lo stesso Berlusconi, nel discorso della mattina al Consiglio nazionale della rinata Forza Italia: "Il gruppo che nasce oggi apparirà come un sostegno alla sinistra, ma dovrà per forza fare parte in futuro della coalizione dei moderati". E lo ripete l'ex delfino Alfano nella accaldata conferenza stampa del pomeriggio alla sala stampa estera, per paradosso davanti al palazzo di via dell'Umiltà che è stato fino a due mesi fa sede del Pdl: "In futuro saremo accanto a Forza Italia in una grandissima coalizione che superi la sinistra". Il punto, come sempre in politica, è quanto è lontano il futuro, e chi guiderà la partita.
"Siamo qui per annunciare pubblicamente la nascita dei gruppo parlamentari del Nuovo Centrodestra, una decisione che mai credevamo di dovere assumere che nasce dalla scelta di non aderire a Forza Italia". Così Angelino Alfano nel corso della conferenza stampa presso la sala stampa estera, presentando il Nuovo Centrodestra. "Una scelta - ha aggiunto - che facciamo con amarezza ma anche grande amore per l'Italia"

La lunga mattina del funerale di Forza Italia si apre al Palazzo dei congressi dell'Eur con una compagnia variopinta. Vecchie glorie come Antonio Martino e nuove creature mediatiche, le ragazze con gli zatteroni che ripetono a tutti di studiare alla Luiss e i fratelli Zappacosta che cosi piccoli hanno già imparato a inveire sui giornalisti, "state dando un pessimo spettacolo", loro invece si che se ne intendono. Arriva Marcello Dell'Utri, il fondatore della vecchia Forza Italia nella sala Botticelli con gli uomini di Publitalia, la nuova nasce con il suo concorso esterno. E poi la Biancofiore, la Santanche, la Santelli unica sottosegretaria presente in autoblu, i campani guidati da Mara Carfagna scendono da un pullman chiamato Angelino...

Angelino non lo invoca nessuno, neppure Berlusconi lo nomina. Anche se diretto a lui è l'affondo più duro, "difficile sedere allo stesso tavolo del Consiglio dei ministri con il Pd che vuole mandarmi via dal Parlamento", e la platea si infiamma, grida la parola troppo spesso trattenuta" traditori! "Non fate dichiarazioni nei loro confronti, non allargate il solco", spegne l'incendio Berlusconi. Pur di tenere con sè i transfughi, si mette la mano sul cuore, avrebbe accettato un coordinamento con "tutte le aree rappresentate", il caminetto delle odiate correnti. Mai visto così in difficoltà, "i club si chiameranno Forza Silvio, ne ho bisogno", ammette, "qui mancano quelli che si sono allontanati per motivi politici verso un'altra vita", si fa sfuggire a un certo punto, l'ombra del tempo che passa, della fine, della morte, che appare alla fine come un lampo sul viso di Berlusconi, costretto a interrompere il discorso.

Il futuro, al contrario, è la carta che può giocare Alfano, finora l'unica. "Siamo noi il centrodestra del futuro", snocciola svelto come al solito il leader del Nuovo centro destra. Come una scioglilingua o una sciarada politica, "vogliamo un nuovo grande centrodestra, di cui il nuovo centrodestra che nasce oggi sarà parte". Il lodo Alfano? Mai esistito. La manifestazione dei deputati del Pdl al tribunale di Milano? "Cose del passato, noi siamo il futuro", giura l'ex delfino. Che vanta: "Sono stato l'unico segretario del Pdl e ho raggiunto un milione di aderenti". Di un partito chiuso e defunto senza rimpianti da una parte e dall'altra. Sono soddisfazioni.

Per il resto è impossibile trovare differenze tra Silvio e Angelino. D'accordo sull'Europa, su cui Berlusconi tiene un passaggio del suo discorso non banale, già proteso a recuperare voti no euro persi in direzione Grillo. "L'austerità è folle e premia solo la Germania", dice l'ex premier. "Crediamo nell'Europa, ma non siamo eurotappetini", fa eco il vice-premier. Affetto, paragoni paterni, "lui mi ha dato tanto, io glio ho dato tutto", Spike Lee citato a piene mani, "abbiamo fatto la cosa giusta"...Neppure uno iota di distanza tra i due su giustizi e voto sulla decadenza di Berlusconi dal Senato. Anche sul destino del governo Letta, in fondo, Forza Italia non esce per ora dalla maggioranza, resta in attesa, nelle prossime settimane si vota su Cancellieri, decadenza, legge di stabilità. E poi ci saranno le primarie del Pd.

A dividere i due, Silvio e Angelino, è il tempo. Berlusconi sente che il suo scivola via rapidamente e ha un gran voglia di voto anticipato in tempi brevi. Alfano, al contrario, deve consolidare il suo nuovo partito e togliere truppe e voti ai berlusconiani, chiede dodici mesi di tempo, "un patto con gli italiani", che per lui è un patto di sopravvivenza. Si dicono addio nel presente per rivedersi nel futuro: vicino o lontano che sia. Non è una soluzione per il Partito del governo, trasversale almeno quanto quello della Crisi di cui parla Alfano. Il Pdl in preda a una contraddizione irrisolvibile, due linee contrapposte prigioniere di un unico partito, prova a scioglierla scindendo in due la società. Un partito tutto di lotta e uno tutto di governo, destinato a ritrovarsi. Non è un gioco delle parti, ma farebbe malissimo la sinistra a esultare: le due anime prima o poi torneranno alleate e utilizzeranno l'abito che in quel momento farà più comodo. Mentre in queste larghe intese sempre più strette, diciamo pure defunte, il Pd rischia di dover cantare e portare la croce, governare accollandosi i sacrifici economici, la difesa dei ministri furbetti,tutto ciò che è indigesto all'elettorato del centrosinistra. A meno che non sia Renzi a dire che dopo la giornata di oggi non si potrà far finta che non sia successo nulla.

16 novembre 2013 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/palazzo/2013/11/16/news/angelino-alfano-presenta-il-nuovo-centrodestra-1.141347


Titolo: Marco DAMILANO - Berlusconi decadence
Inserito da: Admin - Novembre 30, 2013, 05:23:14 pm
Analisi
Berlusconi decadence

Venti anni di jingles («Dai Forza Italia/che siamo tantissimi...»), rivoluzioni liberali, promesse tradite, «meno tasse per tutti», contratti con gli italiani, barzellette, corna, bunga bunga, lifting, bandane, vulcani in eruzione, inciuci con gli avversari, leggi ad personam, lodi Schifani, lodi Alfano, editti bulgari, patonze che devono girare. E di golpe giudiziari

di Marco Damilano
   
«Vede, io sono un pratico, ma anche un sognatore: spero che venga fuori una nuova classe politica senza cadaveri nell'armadio, le mani pulite, poche idee ma chiare, capacità di farsi capire in modo comprensibile...». È prima, molto tempo prima che arrivi la discesa in campo, per Silvio Berlusconi l'avventura politica parte in largo anticipo. Ne parla nell'estate 1977 a Mario Pirani, inviato di “Repubblica”. Berlusconi in quel momento ha appena quarant'anni, non ha ancora dato il via libera alle trasmissioni di TeleMilano (i programmi partiranno un anno dopo, il 7 settembre 1978), non si è ancora iscritto alla loggia massonica P2 di Licio Gelli (lo farà pochi mesi dopo, il 26 gennaio 1978), è solo un palazzinaro molto ambizioso. Ha comprato una quota del 12 per cento del “Giornale”, il quotidiano diretto da Indro Montanelli che dà voce all'elettorato moderato e anti-comunista.

L'intervista esce venerdì 15 luglio 1977, a tutta pagina, con il titolo “Quel Berlusconi l'è minga un pirla”. In quelle risposte a Pirani c'è già tutto il Berlusconi-pensiero, rimasto immutato per decenni. L'orgoglio di chi si è fatto da solo: «Io sono un prima-generazione. Ho decollato come industriale attorno al '60 senza conoscenze, appoggi, aiuti. Mi è andata bene». Modesto e sincero, al solito, sorvola sulla Banca Rasini, le 22 holding da cui è nata la Fininvest, la presenza nella villa di Arcore del mafioso Vittorio Mangano e la figura di Marcello Dell'Utri che gli fa da assistente.

Il futuro Cavaliere parla di politica. Per i nuovi politici Berlusconi promette di impegnarsi «non certo pagando tangenti, ma mettendo a disposizione i mass-media. In primo luogo Telemilano, che sto riorganizzando e che diventerà un tramite tra gli uomini politici che dimostreranno di non avere divorziato dall'economia e dalla cultura e l'opinione pubblica». «Sono politici che si sanno presentare in modo chiaro e immediato, facendosi capire dalla gente, e non come Moro, che ogni volta che apre bocca ci vuole un esercito di esegeti per interpretarlo. Questi capi storici hanno il culo per terra ma ingombrano la porta». Una condanna terribile, perché dieci mesi dopo ci penseranno le Brigate rosse a sgombrare il passaggio con il rapimento e l'omicidio dello statista democristiano.

Oggi il Berlusconi decaduto torna lì, alla fine degli anni Settanta, al ruolo di extraparlamentare, estremista di centro, ferocemente anti-comunista. In mezzo ci sono i suoi venti anni in Parlamento, i quattro governi (il primo nel 1994, i due nella legislatura 2001-2006, l'ultimo durato dal 2008 al 2011), la Forza Italia creata, disciolta e risorta, una permanenza al potere che avvicina Berlusconi agli inamovibili della Prima Repubblica, tipo Giulio Andreotti. Venti anni di jingles («Dai Forza Italia/che siamo tantissimi...»), rivoluzioni liberali promesse e tradite, sei per tre («meno tasse per tutti»), contratti con gli italiani, barzellette, corna, bunga bunga, lifting, bandane, vulcani in eruzione, inciuci con gli avversari, leggi ad personam, lodi Schifani, lodi Alfano, editti bulgari, patonze che devono, e come potrebbe essere altrimenti, girare. E di golpe giudiziari.

C'è il primo Berlusconi, quello della guerra-lampo, il blitzkrieg mediatico, il colpo grosso 1994 (vedi l'instant-libro del magico trio Corrias-Gramellini-Maltese). La conquista della maggioranza dei seggi con due mesi di campagna elettorale, dal 26 gennaio, giorno della discesa in campo con videomessaggio, al 27 marzo, la data delle elezioni, e con una coalizione a geometria variabile, al Nord con Bossi, al Sud con Fini, al centro con Casini e Mastella, ospitati in lista come figli superstiti di Mamma Dc.

Golpe giudiziario, per vent'anni Berlusconi e gli uomini del suo partito e il gigantesco apparato mediatico da lui controllato hanno ripetuto questa definizione in modo ossessivo, martellante, asfissiante. «C'è stata un'azione unidirezionale da parte di certa magistratura che ha fatto fuori solo una classe politica, guarda caso quei partiti di tradizione occidentale e democratica che hanno garantito per tanti anni la democrazia nel nostro Paese», ha sintetizzato il Cavaliere. Il 1992-93, gli anni del Terrore, «quando un cittadino rinchiuso nella patria galera, trattato come un cane in un canile, non accettando più questa condizione, rinunciava alla sua vita» (9 luglio 1998). «I partiti che per cinquant'anni hanno permesso di vivere nella democrazia  sono stati messi da parte. Sono sopravvissute solo le persone che in quei partiti erano più vicini alla sinistra» (4 luglio 1998). «Io sono considerato l'usurpatore della sinistra. Quando decisi nel '94 di scendere in campo la sinistra, dopo Tangentopoli, aveva il potere nelle mani» (24 aprile 2008). «Oggi è in atto un tentativo di golpe giudiziario come quello che ci fu con Tangentopoli» (8 aprile 2011). Fino a sabato scorso, quando a proposito del voto sulla sua decadenza Berlusconi è tornato a invocare il colpo di Stato.

Eppure nel 1994 è proprio lui il gran beneficiato del crollo dei partiti. Nell'anno del terrore, il 1993, preparava il suo partito e sprizzava ottimismo, in una lunga intervista alla “Stampa” a Sergio Luciano, datata 9 febbraio e titolata: «Basta con i politici di mestiere». «Se sono ottimista? Certo che lo sono, e ne ho ben ragione: gli imprenditori, quelli veri, sono condannati ad essere ottimisti. E se ti prende lo sconforto, non devi mostrarlo a chi lavora con te, ai tuoi clienti, al mercato: devi portare un messaggio di fiducia, ritrovare il sorriso. Altrimenti non sei un vero leader, e chi non è leader non è un imprenditore completo». Sulla politica, spiegava, «un modo per rinnovare è certamente il ricambio delle classi dirigenti, l'alternanza al potere. Credo che tutti gli imprenditori, quelli veri, sarebbero felicissimi di non interessarsi di politica e concentrarsi sulle loro aziende. Ma quando la politica ostacola lo sviluppo, gli imprenditori devono preoccuparsi... Non mi piace immaginare una classe politica. È questo il punto: sarebbe auspicabile che la carriera politica non esistesse più. A governare dovrebbe essere chiamato chi, essendo affermato in una professione, dopo aver governato possa tornare a svolgerla come prima».

Eccolo qui, fissato una volta per tutte il manuale dell'imprenditore prestato alla politica, le regole della discesa in campo. Primo: attaccare la classe politica in blocco, senza distinzioni di destra e di sinistra, di riformisti e di conservatori. A Berlusconi va consegnato il copyright di una parola che avrà un grande successo negli anni successivi: casta. Secondo: alludere al fatto che ci sono uomini volenterosi e pronti a impegnarsi fuori dalla politica, basta andarseli a cercare. Terzo: giurare che no, mai e poi mai c'è un interesse a fare politica in prima persona, io sono qui soltanto a dare una mano, da cittadino impegnato, da civil servant... Lo ripeterà sempre, anche oggi che è un politico come tutti gli altri, anzi, più esperto di tutti gli altri in manovre e trappole parlamentari, più di un Giulio Andreotti, mago delle leggi ad personam, campione del trasformismo dei Razzi e degli Scilipoti (e dei De Gregorio per cui è sotto processo a Napoli), attaccato a regolamenti, cavilli e codicilli per non farsi buttare fuori dal Senato.

Il Berlusconi allo stato nascente, quello della rivoluzione liberale, degli Urbani e dei Martino, dei Caligaris e delle Titti Parenti, ma anche dei Previti e di Dell'Utri, dura a Palazzo Chigi una sola stagione. Rivoluziona per sempre la politica, con i sondaggi di Gianni Pilo, l'inno di Forza Italia, il kit del candidato, dopo di lui in tanti anche a sinistra faranno a gara per somigliargli. Ma il governo crolla subito e non per certo per l'avviso di garanzia di Napoli, a Palazzo Chigi è una rissa continua, il principale alleato, l'Umberto, gira le piazze del Nord a tuonare contro «la porcilaia fascista» e il «piduista di Arcore». Il Berlusconi scintillante lascia il posto al Berlusconi nel deserto, l'opposizione, il duro apprendistato della politica. Con l'obiettivo di sempre, sedersi al tavolo e contare per salvare se stesso e le sue aziende. La grandi intese si potrebbero fare già nel 1996 con il tentativo Maccanico, e poi nella Bicamerale di Massimo D'Alema sulla giustizia, fino al 1998 però il Cavaliere è sparito dai radar, è già finito, in declino, perfino malato. A rimetterlo in sella ci pensano gli avversari della sinistra, Bertinotti fa cadere Prodi, D'Alema si allea con Cossiga. Berlusconi ritorna.

La terza fase è il Berlusconi liftato, in bandana, aspirante statista internazionale, tra l'amico Vladimir e l'amico George, il premier della legislatura più lunga (2001-2006),  in mezzo a scontri di civiltà interni e esterni, il G8 di Genova e le Twin Towers, la guerra in Afghanistan e quella in Iraq, affrontati con lo spirito di sempre, il Berlusconesque, le leggi ad personam, le corna ai vertici europei, la legge Gasparri sui media respinta da Carlo Azeglio Ciampi al Quirinale. «Nel mondo fatato di Berlusconi», scrive Edmondo Berselli su “Repubblica” il 24 febbario 2004, «in una realtà senza contraddittorio, senza il fastidio della mediazione, il leader è atteso a qualsiasi performance. Non si limita infatti a scrivere le parole dell' ultimo disco di Mariano Apicella, a versare lacrime napoletane, ma sotto le telecamere, con la camicia fuori dai pantaloni, esegue un brano, Meglio 'na canzone, con l' ex posteggiatore partenopeo, del tutto incurante (a quanto pare) che l'esibizione finisca su Striscia la notizia. I problemi eventualmente deflagrano allorché l' esibizione improvvisata tocca tematiche per lui misteriose: come quando per compiacere Vladimir Putin riduce la tragedia cecena alla stregua di "leggende", e viene rimpallato aspramente dall' Unione europea.

Funziona male il suo umorismo casereccio quando oltrepassa limiti insidiosi del politicamente opportuno, come con l' eurodeputato tedesco Schultz, ridotto a figurante cinematografico nel ruolo del kapò. Oppure quando si inventa una cattedra in storia delle religioni e tratta la storia dell' Islam come il prodotto di un profeta minore... A rigor di termini, trasformare l' antipolitica in una politica è peggio che un crimine pubblico, potrebbe essere un errore logico. A rigor di logica, Berlusconi ha perso, perde e perderà. Nel mondo delle cose, battere l' antipolitica sarà un lavoro durissimo».

Profezia felice. Nel 2006 Berlusconi perde, infatti, ma per pochi voti e con i pozzi avvelenati per lunghissimi anni dalla nuova legge elettorale detta Porcellum. La Magna Carta del berlusconismo: deputati e senatori nominati, i parlamentari scelti come un cast televisivo, il riccone e la bellona, l'uomo dei rifiuti e il re delle cliniche, la definitiva discesa agli inferi del sistema che prepara il ritorno, la quarta fase, il Berlusconi più nichilista che abbiamo conosciuto.

Quello che rivince nel 2008 le elezioni, si gioca la carta del patriottismo repubblicano, a Onna con il fazzoletto tricolore al collo dopo il terremoto, il giorno dopo però c'è la festa di Casoria dalla neo-maggiorenne Noemi Letizia. Maggiorenni e minorenni, feste e cene eleganti, il divorzio a mezzo stampa di Veronica Lario, il ciarpame senza pudore, mentre il Paese cade nella recessione più cupa della storia e il Pdl destinato a far tremare il mondo affonda nella rissa perfino fisica tra i due fondatori, Berlusconi e Gianfranco Fini che si accapigliano davanti alle telecamere.

Nel 2011 sembra finita, e forse lo è davvero, quando il Cavaliere lascia Palazzo Chigi per il governo tecnico presieduto da Mario Monti.

E invece no, c'è il nuovo giro del 2013, l'ultima volta da candidato, con poltrone da spolverare e promesse sempre più mirabolanti da gettare nella mischia della cosa che ancora oggi Berlusconi sa fare meglio, la campagna elettorale.

Fino a oggi, all'uscita di scena dalle aule parlamentari per ritornare in piazza, in campagna elettorale, con una nuova sigla identica a quella del 1994, quando Berlusconi predicava un nuovo partito «senza cadaveri nell'armadio, anche se c'è qualcuno che vede dei cadaveri dove ci sono stampelle o al massimo abiti», diceva in quella campagna elettorale del 1994, una classe dirigente di «uomini nuovi e preparati» e soprattutto «con le mani pulite». Il partito che Silvio Berlusconi aveva già in mente nel 1977, per conquistare l'Italia.

Venti anni dopo siamo ancora lì, nell'eterno presente ossessivo del Cavaliere che coincide con la paralisi di una Nazione.
27 novembre 2013 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/palazzo/2013/11/27/news/quel-berlusconi-l-e-minga-un-pirla-1.143056


Titolo: Marco DAMILANO - Romano Prodi: "Battiamo la Merkel"
Inserito da: Admin - Maggio 24, 2014, 06:14:33 pm
Anticipazione
Romano Prodi: "Battiamo la Merkel"
«Italia, Francia e Spagna devono unirsi per una politica di ripresa e di sviluppo». L'ex presidente del Consiglio parla degli scenari europei in vista del voto e del semestre italiano

Di Marco Damilano
22 maggio 2014

«Italia, Francia e Spagna devono unirsi per una politica di ripresa e di sviluppo. Preparare un piano di rilancio, discuterlo e proporlo insieme, così da arrivare al Consiglio europeo di ottobre come la sede in cui si prendono le decisioni, non come a un convegno di studio».

Romano Prodi in un'intervista a “l'Espresso” nel numero in edicola domani, descrive gli scenari per il voto europeo e per il semestre italiano. Su cui pesa l'effetto della crisi: «I governi sono stati danneggiati dalla cattiva gestione della crisi, non è colpa dell’Europa, ma dell’assenza di Europa. Tutto è stato deciso in base agli interessi dei singoli Paesi, il che nella situazione attuale significa che tutto è stato deciso dalla Germania. I Paesi più periferici sono stati danneggiati da una politica volutamente recessiva che ha favorito i tedeschi, con un gigantesco surplus commerciale».

I danni fatti dai tedeschi. L’alleanza da stringere con Francia e Spagna. L'assenza di leader con una visione di Europa. L'ex presidente del Consiglio parla della situazione politica attuale. E su di sè dice: "Non uso il social network, la politica è un'altra cosa"

E ancora:
«In Germania l’area del populismo e del nazionalismo è ricoperta dalla Merkel La difesa degli interessi nazionali tedeschi ha stroncato sul nascere qualsiasi possibile movimento interno anti-europeista, ma ha acceso i populismi in tutti gli altri Paesi. A Bruxelles negli ultimi anni ha comandato solo un Paese, la Germania si è permessa perfino di dare lezioni di morale, inaccettabili. Io da presidente della Commissione europea ho sempre trattato ogni Paese con rispetto, non ho mai dato lezioni a nessuno».

L'ARTICOLO INTEGRALE SU ESPRESSO +

Cosa resta della classe dirigente europea?
«Molto poco. Oggi non vedo leader visionari, solo politici nazionali. Le democrazie europee soffrono di mancanza di visione, di un accorciamento dell’orizzonte politico che non ti fa guardare oltre le prossime elezioni, i sondaggi, lo spazio del risultato istantaneo e immediato...»

Ma la crescita dei partiti populisti secondo Prodi obbligherà il parlamento europeo a una grande coalizione: «Quando parlo di grande coalizione più che all’Italia penso alla Germania, dove democristiani e socialdemocratici governano insieme...».

Da premier conquistò l’Expo 2015 per Milano. Come ha vissuto gli ultimi arresti?
«Come si dice nel linguaggio popolare, mi sono davvero cadute le braccia. C’erano già stati numerosi ritardi e problemi, ma mi ha fatto male anche sul piano personale vedere il ritorno in scena di personaggi di venti anni fa. La corruzione è difficilissima da inseguire, va prevenuta e debellata prima che si sviluppi. Dopo è troppo tardi. Mi auguro che le nuove misure ipotizzate siano efficaci, ma il danno per l’Italia c’è già».
© Riproduzione riservata 22 maggio 2014

Da - http://espresso.repubblica.it/palazzo/2014/05/22/news/prodi-battiamo-la-merkel-1.166476


Titolo: Marco DAMILANO - Il piano di Matteo Renzi dopo il trionfo
Inserito da: Admin - Maggio 30, 2014, 07:39:30 pm
Scenari
Il piano di Matteo Renzi dopo il trionfo Due mesi per realizzare le promesse
Enti locali. Magistrati. Burocrazia. Rai. È qui che il presidente del Consiglio deve intervenire prima dell’estate. Mentre pensa ad allargare la maggioranza anche a sinistra e cerca di conquistare posti importanti nella Commissione Ue

di Marco Damilano
30 maggio 2014
   
E adesso? «E adesso la rottamazione può iniziare, il bello deve ancora cominciare...». Lo ripete in pubblico come ha fatto nella notte di domenica 25 maggio, mentre dirigenti e candidati del Partito democratico esultavano come sopravvissuti a un disastro aereo, increduli. Il successo travolgente alle elezioni europee, oltre il quaranta per cento, è arrivato inaspettato anche per Matteo Renzi, che alla vigilia delle elezioni consultava i sondaggisti compulsivo, preoccupato. Il momento più incerto era stato l’ultimo incontro prima del voto al Quirinale con Giorgio Napolitano: un colloquio teso, a tratti drammatico, con lo spread in risalita e la minaccia di Beppe Grillo di organizzare una manifestazione di piazza contro il Presidente. Che fare, se lo scenario di un successo del Movimento 5 Stelle si fosse avverato?

Ora invece, finalmente, il governo può decollare. In appena sei mesi, una campagna d’Italia, Renzi ha conquistato il centro dell’elettorato italiano, da sindaco di Firenze a segretario del Pd a premier e leader di un partito votato da un italiano su quattro. Percentuali raggiunte in Italia solo dalla vecchia Democrazia cristiana.

Renzi rifiuta il paragone, ma del vecchio Scudocrociato intende ricalcare l’ossatura, la centralità, il blocco sociale, il ruolo nazionale, la capacità di essere il partito di tutti gli italiani. Forza Italia, in fondo, era stato l’ultimo slogan elettorale della Balena bianca prima di diventare il nome della creatura berlusconiana. «Voglio essere il presidente di tutti», rivela ora Renzi, improvvisamente ecumenico. Non in contrasto con l’identità precedente di rottamatore, anzi.

I due volti del premier, la calma forza tranquilla modello Mitterrand con cui si è presentato all’indomani del voto e l’irruenza con cui ha conquistato il potere, convivono nel momento decisivo, i prossimi due mesi, quando il governo dovrà trasformare in realtà i tanti annunci degli ultimi cento giorni. Con l’apertura di nuovi fronti. «La questione più rilevante resta la crescita economica. Le priorità sono ora la riforma della pubblica amministrazione e la riforma della giustizia, con un’esigenza di velocizzazione che va finalmente soddisfatta», spiega il sottosegretario alla presidenza Graziano Delrio, «il metronomo di Renzi», l’ha definito il francese “Le Figaro”. «E poi l’Europa: Matteo non interpreterà il semestre di presidenza europea nel senso della gestione, soprattutto dopo il risultato del voto, ma nel segno della rinascita del sogno. Serve un rinascimento europeo». E se lo dice Delrio, campione di under statement, figuriamoci Supermatteo.

Il pubblico impiego e i magistrati, non solo la giustizia civile ma anche quella penale, sono i prossimi terreni di intervento (e di scontro), che vanno a sommarsi a quelli già previsti nel decreto Irpef degli 80 euro, volano della campagna elettorale renziana: i 700 milioni di tagli alla spesa pubblica che gli enti locali devono presentare prima dell’estate, i 700 milioni delle regioni e quelli dello Stato centrale, i 150 milioni che la Rai dovrà reperire dalla cessione di Raiway e dalla scure sulle sedi regionali. L’elenco dei potenziali obiettivi è destinato ad aumentare se si aggiungono l’obbligo di trasparenza per gli enti locali, con tutte le spese da pubblicare on line, e la cessione delle aziende municipalizzate che il governo punta a sfoltire da ottomila a mille. E poi le prefetture, da ridurre. Gli uffici provinciali della ragioneria centrale, via. Accorpamenti, fusioni, eliminazioni...

Per ogni passaggio, sono annunciati sindacati in rivolta, e poi sindaci magistrati, il partito di viale Mazzini, «anche se i segnali sono positivi», si dice fiducioso Delrio, «non sono i tagli lineari del passato, sono misure intelligenti, si sa che le risorse finiscono nelle tasche dei cittadini e nell’abbassamento delle tasse». Al momento della presentazione del decreto Renzi ha affrontato il primo scontro, con i tecnici della Ragioneria centrale: nei piani del premier c’è il progetto di spostarla dal ministero dell’Economia e portarla sotto il controllo diretto di Palazzo Chigi. Ora toccherà a ogni ministero indicare l’entità dei tagli. La più rapida, e per questo molto apprezzata da Renzi, è stata il ministro della Difesa Roberta Pinotti, che è riuscita a ridurre in poche ore 400 milioni di investimenti, per di più con il consenso della struttura.

Per trovare risorse per la crescita c’è la carta, per ora coperta, degli investimenti privati nelle infrastrutture pubbliche: convincere gli investitori internazionali, fondi pensione, grandi compagnie bancarie e assicurative che conviene investire in Italia, non solo nelle grandi opere. Il pessimo spettacolo delle tangenti sugli appalti dell’Expo non ha aiutato, ma il successo del Pd può rilanciare l’impegno personale del premier con gli operatori internazionali. Infine, la sfida più importante, voltare pagina in Europa, basta con l’austerità, via libera alle spese per gli investimenti. Si può fare grazie al credito accumulato da Renzi, «ha preso la testa della sinistra europea», ha scritto “Le Monde”, «con un mix di pragmatismo e di faccia tosta». Uno scenario italiano: Renzi ha conquistato partito e governo nel vuoto lasciato dalle precedenti leadership, in Europa guida l’unico partito di governo uscito indenne dalle elezioni, la sola formazione di centro-sinistra a vincere in un panorama disastroso.

Il premier si prepara a muovere all’attacco delle istituzioni europee: una casella di serie A nella Commissione europea, da affidare a un politico di peso e non a un tecnocrate e neanche a un notabile da sistemare, modello Antonio Tajani. Massimo D’Alema? Enrico Letta? Deciderà Renzi, professionista della politica, il primo che ha capovolto anni di retorica sugli imprenditori e i professori scesi (o saliti, nel caso di Mario Monti) in campo.

«Non ci siamo mai sottratti a rivendicare la dignità della politica», spiega Delrio. Nell’agenda del governo ci sono la legge elettorale e la prima lettura della riforma costituzionale del Senato, firmata dal ministro Maria Elena Boschi, in attesa al Senato: le modifiche sono già scritte, devono essere solo presentate. Il passaggio politicamente più delicato perché dal successo dell’operazione dipendono il proseguimento della legislatura e anche, in parte, le future decisioni di Giorgio Napolitano. Le elezioni europee rappresentano per il presidente un punto di svolta, la possibilità di guardare ai prossimi mesi con maggiore fiducia, dopo il fallimento del governo Monti e del governo Letta e la paralisi dei partiti sulle riforme. Sempre che non tornino a farsi sentire le resistenze trasversali della minoranza Pd e di Forza Italia. Al Senato i numeri sono risicati, nell’ultima votazione in commissione il testo Boschi è stato accompagnato da un ordine del giorno del leghista Roberto Calderoli che diceva il contrario.
Già finita la festa per Tsipras: Renzi strega un pezzo di Sel
Sel prosegue sulla via di un soggetto unitario nato dalla lista Tsipras ma si perde un pezzo. Il capogruppo Migliore propone il partito unico, sì, ma "con il Pd". La deputata Piazzoni pronta a lasciare

Per questo bisogna tornare all’idea originaria, ipotizzata al momento della nascita del governo Renzi e rinviato al dopo-elezioni europee. Allargare la maggioranza, a sinistra. Prima del voto era in incubazione un nuovo gruppo parlamentare con una parte di Sinistra e libertà di Nichi Vendola e transfughi grillini. Una gamba sinistra della maggioranza, da affiancare alla gamba destra, quella dell’Ncd di Angelino Alfano, uscito dal voto ai minimi termini e con potere contrattuale azzerato. Il progetto può riprendere con maggiore forza: quel che resta di Scelta civica, polverizzata dal voto, si dissolverà nel Pd, a sinistra la lista Tsipras ha superato il quorum del quattro per cento e ha dato un segno di vita, ma anche in Sel c’è chi vorrebbe confluire nel Pd. Con la possibilità di qualche new entry nel governo, se ad esempio il ministro Maurizio Lupi dovesse dimettersi per restare in Europa. Tasselli da inserire in un paziente mosaico, Renzi il rottamatore deve lasciare il posto al premier costruttore, per consolidare il suo quaranta per cento in un blocco sociale in grado di durare anni. Scomporre le macerie e ricomporre il nuovo, per trasformarsi in SuperMatteo, il presidente di tutti.

© Riproduzione riservata 30 maggio 2014

Da - http://espresso.repubblica.it/palazzo/2014/05/29/news/il-piano-di-matteo-renzi-dopo-il-trionfo-due-mesi-per-realizzare-le-promesse-1.167584?ref=HRBZ-1


Titolo: Marco DAMILANO - Matteo Renzi vuole un "nemico a sinistra".
Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2014, 11:59:19 am
Analisi
Matteo Renzi vuole un "nemico a sinistra". Mentre il Pd è già scomparso nel nulla
Nel fine settimana la piazza romana della Cgil e la Leopolda fiorentina del premier si sono dimostrati due mondi distanti. E da nessuna parte si sono visti i simboli dei democratici. Perché è già in atto il passaggio all'"oltre Pd" voluto da Renzi. Che non includerà la sinistra-sinistra

di Marco Damilano
26 ottobre 2014

«Siamo ai primi posti di Trending Topics con l'hashtag #Leopolda5, dobbiamo battere Matteo Salvini. Chiedo a tutti uno sforzo: diamoci sotto con gli hashtag!». Venerdì sera alla stazione Leopolda, invitando la platea a mobilitarsi, la deputata Lorenza Bonaccorsi aveva individuato il nemico e il terreno di gioco: la Lega e le citazioni su twitter. Ma si sbagliava. Tutto il fine settimana, l'Ottobre democratico, dimostra che la sfida è da tutta un'altra parte. Nessun avversario per Matteo Renzi, a destra. Il nemico è a sinistra.

Nessun nemico a sinistra. Era il dogma del Pci, attentissimo a non far germogliare nessun concorrente sul fianco sinistro, al punto di combattere una guerra di posizione perfino nelle aule parlamentari, per evitare che qualche gruppo di radicali o di demoproletari riuscisse a sedersi alla sinistra del grande partito della classe operaia.

Il dogma di Matteo Renzi è l'opposto: ben venga l'avversario a sinistra. Come si è visto questa mattina, quando in conclusione della Leopolda 2014 il premier-segretario ha sfidato la minoranza del Pd a lasciare il partito. «Lì c'è la nostalgia, qui il futuro. Lì c'è la sinistra che quando vede un iPhone chiede dove mettere il gettone, o se ha una macchina fotografica digitale prova a infilare il rullino. Io non ho paura se a sinistra si organizza qualcosa di diverso. Sarà bello vedere chi vincerà: decideranno i cittadini». Un esplicito invito alla scissione.

Nel discorso conclusivo alla Leopolda 5, Matteo Renzi spiega che "la sinistra di allora non votò" l'art. 18 e difenderlo oggi "sarebbe come pensare di prendere un iPhone e dire dove lo metto il gettone del telefono?". "Le forme di tutela - ha precisato - non devono valere solo per chi ha più di 15 dipendenti"      

La sinistra del gettone e del rullino, ieri, si era ritrovata in piazza San Giovanni, alla manifestazione della Cgil. Mai così tanti, negli ultimi anni. Volti di italiani perbene. Lavoratori sfiancati dalla crisi. Mani ruvide. Felpe logorate da mille cortei. Stanchezza negli occhi. Autolesionismo comunicativo puro, tipo Citto Maselli in carrozzina con una coperta sul palco, e gli antichi capi reduci da mille sconfitte, senza mai ammettere il dubbio.

Per esempio, la semplice consapevolezza che se Renzi è arrivato così facilmente a Palazzo Chigi c'è anche una responsabilità di una generazione a sinistra che ha sbagliato tutto, quando è stata all'opposizione e quando è stata al governo, quando per due volte ha fatto cadere Romano Prodi, per dire.

Una manifestazione più sfibrata che rabbiosa. E tutt'altro che bellicosa nei confronti del premier, in realtà. Certo, il coro «Matteo-Matteo vaffanculo», con in testa, chissà perché, quelli dell'Alpaa, il sindacato dei produttori agroalimentari e ambientali. E la pettorina di Staino per il servizio d'ordine: «Maledetti toscani». E il militante che estrae dal portafoglio la tessera del Pd con la scritta “Italia giusta”: «Eccomi, sono uno che ha votato Renzi ma non lo rifarà. Sono uno dei 400mila che non rinnoverà l'iscrizione». Ma anche un sentimento rarefatto, più di rassegnazione che di furore, più di attesa che di scissione. Un po' calma forza tranquilla, come la Cgil è sempre stata nella storia, un po' la paura di non essere più considerati un pezzo importante del Paese. E la voglia di dire: ci siamo.

Umori difficili da interpretare. «Il cielo è lo stesso di dodici anni fa, le bandiere anche, il governo è di un altro colore, questo è un problema», si lasciava andare Sergio Cofferati a confronti con la sua manifestazione al Circo Massimo del 2002 contro Berlusconi. La novità: sinistra contro sinistra, Cgil contro Pd. I dirigenti più lucidi politicamente erano già al dopo-manifestazione. «Abbiamo vinto la prova della piazza, ma ora dobbiamo riaprire il tavolo e dialogare. Non andiamo avanti con il muro contro muro o peggio fare finta di fare il muro contro muro», spiegava Carla Cantone. «È la piazza più affollata degli ultimi dieci anni», osservava Paolo Nerozzi, ex big di Corso d'Italia ed ex senatore del Pd. «Se Renzi è intelligente, oltre che furbo, la ascolterà».

L'unico ad aver sommato le due cariche, ex segretario della Cgil e ex segretario del Pd, Guglielmo Epifani, si proponeva come mediatore tra le due piazze, San Giovanni e la Leopolda: «Da ex sindacalista in quota socialista sono abituato a partecipare a manifestazioni contro il governo in cui c'era il mio partito...». Sul palco si stava sgolando la segretaria Susanna Camusso, senza il feeling con la piazza di altri leader carismatici. Gli altri, la minoranza Pd, i Cuperlo, i Fassina, i Civati, e poi i Vendola e le Pollastrini, occupano il ruolo di Gennaro Migliore e di Andrea Romano alla Leopolda, ceto politico in cerca di posizionamento, al più tollerati. Il carisma del Capo è tutto per il leader della Fiom Maurizio Landini, in felpa scura.

Tra le due piazze, San Giovanni e Leopolda, c'è una distanza più lunga di quella di un viaggio in treno Roma-Firenze. O di quello in pullman che questa mattina all'alba ha trasportato i lavoratori della Thyssen di Terni fino alle porte della grande ex stazione ferroviaria, tempio del renzismo. Dentro, il parterre affollatissimo delle ultime due edizioni. Carro del vincitore gonfio, strapieno all'inverosimile. La certezza di essere nel vento della storia, dalla parte dei vincenti. Arrivare primi come mito fondativo. La Leopolda raccontata come l'Apple di Steve Jobs, una start up di successo. Tutti in modalità «Stay foolish, Stay hungry», anche se poi l'Affamato è uno solo.

Dis-intermediazione alla Leopolda è una parola chiave, il contrario esatto dei delegati sindacali modello Cgil. La Leopolda è un gigantesco social network che si fa in carne e ossa, dove tutti si parlano per far vedere la loro conversazione agli altri (i tavoli di lavoro circolari con i ministri alla pari degli altri sono la materializzazione della fine delle gerarchie), dove i colloqui e gli incontri sono rapidi, veloci, leggeri, a volte profondi, altre superficiali, come nello spazio di un tweet. E si parla solo di una cosa: che fa Matteo? Ti è piaciuto Matteo? Quant'è bravo Matteo.

«Matteo Renzi questa mattina ha la camicia azzurra, tutti a cambiarsi», legge un tweet dal palco la solita Bonaccorsi. Simpatico, no? Il culto della personalità renziano si muove su linguaggi diversi dal passato, in un'identificazione totale, assoluta tra il Capo e il suo popolo, senza mediazione. Raccontano di telefonate di Renzi per riempire la sala all'inverosimile, forse preoccupato di un confronto con la piazza rossa. E delle future cene di auto-finanziamento con gli imprenditori: qualcuno aveva proposto che ai tavoli ci fossero anche i deputati del territorio, da Palazzo Chigi è arrivato il contrordine. C'è solo Matteo.

Parlano i neo-miglioristi, nel senso di Gennaro Migliore, il bertinottiano-vendoliano che ora è qui a vantare la sua coerenza e cita il ragù di Eduardo («'O rraù ca me piace a me m' 'o ffaceva sulo mammà...») per dire che, di destra o di sinistra, qualcuno il ragù dovrà prepararlo. Parlano i ministri al gran completo. Anche Dario Franceschini? Sì, anche lui. E un renziano della prima ora grida: «Ci vorrebbe il caterpillar!». Non ha capito che il vento è cambiato. Una sfilata, un congresso nel congresso, la Leopolda sembra già oltre il Pd, un partito di governo, anzi, il Partito Unico di Governo. Parla il Leader, Matteo-Uno-di-Noi, ti spiazza con l'Ucraina e la Russia e il Mozambico, un anno fa erano dossier fuori portata, oggi Renzi ci tiene a sollevarsi da terra, a presentarsi come uno statista internazionale, uno che va da Angela (Merkel) a dire: «ho preso più voti di te» e all'Europa ricorda «meno vincoli e meno austerità». Il cuore è un altro. Battere e ribattere sugli intellettuali che sembrano «il pensionato del cantiere», quello che scuote la testa perché non va mai bene nulla. E l'attacco alla sinistra, mai così diretto e violento.

"Il Pd ha portato a casa qualcosa come 11 milioni e rotti di voti" dice Matteo Renzi al pubblico della Leopolda. E aggiunge di essersi tolto una soddisfazione - "banale" - nel corso di uno degli ultimi Consigli Europei, dicendo in particolare ad Angela Merkel: "Io rappresento il partito più votato. Tu hai preso 10,6 milioni di voti, noi 11,2: sono cose che capitano. Quindi abbiate rispetto per il mio paese e per il mio partito". Il premier, poco prima, si era espresso sulle divisioni in atto nel Pd: "Noi siamo quelli delle porte aperte, non quelli che buttano fuori"
      
Nel lungo fine settimana, tra San Giovanni e Leopolda, spariscono i due soggetti politici che hanno monopolizzato la politica italiana degli ultimi due decenni. Il primo è il Cavalier Silvio Berlusconi, insieme al suo centrodestra. Nessuno lo nomina, né la piazza rossa né la platea in camicia bianca di Firenze, è un pezzo di passato. L'unico a evocarlo è Franceschini, quando dice: «Dobbiamo superare il modello televisivo degli ultimi vent'anni». Nessuno lo ha avvertito, ahilui, che Barbara D'Urso, nel pantheon renziano, è ben più considerata di Mario Luzi.



Il secondo scomparso nel nulla è il partito che Renzi formalmente guida, il Pd. Nessuna bandiera del partito, né di qua né di là. Non c'è il Pd nella piazza rossa, non c'è il Pd alla Leopolda, inteso come simboli, parole d'ordine, classe dirigente. E così l'Ottobre del centrosinistra consegna un ultimo paradosso. Nell'Italia di Renzi la destra non c'è più, polverizzata, disintegrata (dis-intermediata?), non c'è l'anti-politica e il Movimento 5 Stelle.

E non c'è più neppure il Pd così come è stato nell'ultimo decennio, il soggetto politico del centro-sinistra. Al loro posto potrebbero nascere, in un tempo neppure troppo lungo, due nuovi partiti. Un partito di sinistra-sinistra, magari guidato da Landini e aperto a spezzoni dell'attuale Pd, per dare risposta a una domanda di rappresentanza politica e sociale che arriva dalla grande piazza di ieri. E un nuovo partito, la grande coalizione renziana, un nuovo centro di governo che spazia da destra a sinistra, da Che Guevara a Madre Teresa come nella canzone di Jovanotti citata da Andrea Romano, uno che Veltroni lo odiava, e invece.

Tra le due formazioni non ci sarebbe partita. Renzi è l'unico leader generalista in campo, in grado di parlare alle famiglie Rai e Mediaset, gli altri sono al massimo canali tematici, che parlano solo al loro pubblico: gli operai, gli intellettuali, gli impauriti da una modernità percepita soprattutto come perdita di diritti e non espansione di possibilità. Resta da vedere se tutta l'Italia possa esaurirsi in queste due piazze. E se si possa fare un partito della Nazione senza dare rappresentanza alla sofferenza, al dolore, alla capacità di riscatto e di speranza che abitava in piazza San Giovanni. Lì c'è un apparato in via di estinzione, del gettone e del rullino. Ma anche un'energia etica senza cui non si fa il partito di tutti, ma solo di qualcuno. Magari i soliti.

© Riproduzione riservata 26 ottobre 2014
Da - http://espresso.repubblica.it/palazzo/2014/10/26/news/matteo-renzi-vuole-un-nemico-a-sinistra-mentre-il-pd-e-gia-scomparso-nel-nulla-1.185552?ref=HEF_RULLO


Titolo: Marco DAMILANO - Sergio Mattarella Presidente della Repubblica
Inserito da: Admin - Gennaio 31, 2015, 04:42:54 pm
Sergio Mattarella Presidente della Repubblica
Quell'uomo invisibile della Dc. Ma non incolore
Nessuna rissa nei talk show, nessuna presenza televisiva, pochissime foto recenti: il nuovo inquilino del Colle è lontanissimo dalla politica recente. Una riservatezza che ha le sue radici nella sinistra cattolica democristiana di cui è stato esponente e figlio. E che lo porterà, si spera, ad essere un inflessibile custode della Repubblica

Di Marco Damilano
31 gennaio 2015

«Non ci sono le immagini». Nelle ultime ventiquattr'ore uno spettro si aggira per gli studi televisivi e le redazioni dei giornali. Il fantasma del nuovo presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Non esistono sue dichiarazioni televisive, risse in un talk show, foto sotto l'ombrellone. Disperazione tra i cronisti. Ieri, a quanto raccontano, si era concordato un set in una via del centro di Roma, al riparo dai curiosi, per scattare qualche foto del nuovo Capo dello Stato da spedire sui circuiti internazionali alla grande stampa estera. Niente da fare, il candidato ha fatto sapere che preferiva aspettare.

Un silenzio più forte di tante vacuità, un'assenza che riscatta da sola l'ansia di visibilità di un'inutile classe dirigente. Leggerà una pagina dell'Ecclesiaste, pronosticano gli amici, nel suo primo discorso da presidente in Parlamento: «Vanità delle vanità, tutto è vanità...». Oppure, laicamente, potrebbe anche citare il siciliano Franco Battiato, per dire come sarà la sua presidenza: «Ne abbiamo attraversate di tempeste e quante prove antiche e dure ed un aiuto chiaro. Da un'invisibile carezza di un custode».

Ha saputo martedì, ufficialmente, di essere candidato alla presidenza della Repubblica, quando l'ha chiamato il numero due del Pd Lorenzo Guerini. Con il grande elettore Matteo Renzi si è sentito due giorni dopo. Non ha chiesto nulla, non ha fatto nulla per ricevere la carica. Com'era successo nel 2008, quando era stato escluso dalle liste per il Parlamento. Non aveva chiesto deroghe nel nuovo Pd e i suoi colleghi di partito che oggi si spelleranno le mani lo avevano escluso. Ha continuato a lavorare all'ultima sentenza nella foresteria della Corte costituzionale dove è andato a vivere due anni fa dopo la morte della moglie Marisa. La sua Santa Marta, come quella in Vaticano di papa Bergoglio, in linea con quanto disse anni fa a proposito dell'occupazione del potere: «Un partito, un politico, nelle istituzioni si deve sentire ospite, anche se protagonista». Sarà ospite, in punta di piedi, e non un padrone di casa, anche nel palazzo di fronte. Il Quirinale.

«C'è l'amico Mattarella che farà il suo intervento...». È il 28 febbraio 1984, sono le nove del mattino quando Amintore Fanfani invita alla tribuna il primo iscritto a parlare della giornata al XVI congresso della Dc, nel grande catino del Palaeur. «Prima di dargli la parola ci consentirà di ricordare, nel suo nome, un uomo che si è sacrificato nell'interesse dell'Italia, della Sicilia e del Partito». I non molti presenti si alzano in piedi in omaggio di Piersanti Mattarella, il presidente della regione Sicilia ucciso da un delitto politico-mafioso quattro anni prima. Sul palco, davanti alla nomenclatura del partito, c'è un uomo di quasi 43 anni, gli occhiali spessi, i capelli già candidi sul volto ancora da ragazzo. Comincia a parlare: «La ringrazio, ben sapendo che questi applausi, ovviamente, non riguardano assolutamente me...». E conclude: «Non voglio essere né illusorio, né fuori dalla realtà: tanti hanno in questi giorni ricordato saggi greci, antichi filosofi, io vorrei più modestamente richiamare la preghiera di Francesco che non chiedeva tanto di essere aiutato quanto di aiutare, che non chiedeva tanto di ricevere quanto di dare, che non chiedeva tanto di essere compreso quanto di comprendere...»

Non ha mai parlato in pubblico di quel giorno che gli ha cambiato la vita, il 6 gennaio 1980, il giorno dell'Epifania. Il massacro del fratello Piersanti davanti alla sua famiglia, quel corpo che Sergio prova a soccorrere mentre la vita scivola via. Fino a quel momento Sergio Mattarella era stato un tranquillo professore universitario di diritto parlamentare con studio in via della Libertà, la stessa del fratello, davanti a casa. A sparare è il killer dagli occhi di ghiaccio e dalla strana andatura, che cammina a balzi, «un robot che sparava come se sparasse a una pietra o una sedia», testimoniò la vedova Irma Chiazzese. «Zio, corri giù, c'è stato un incidente a papà», lo chiama il nipote Bernardo. «La scena che gli si para davanti, con quell'auto crivellata di colpi e piena di sangue, è violenta, allucinante, insostenibile», scrive Giovanni Grasso in "Piersanti Mattarella. Da solo contro la mafia" (Edizioni San Paolo). «È come se avessimo accompagnato papà fino alla fine», racconta la figlia di Piersanti Maria. È quel giorno di violenza inaudita, di vittoria della politica sporca e della mafia che eliminano la migliore classe dirigente negli anni Settanta e Ottanta, il sentimento di quelle ore, sempre custodito con pudore, che spinge Sergio all'impegno politico. «Senza la guerra io sarei rimasto un intellettuale...», scriveva il 28 novembre 1943 Giaime Pintor al fratello Luigi. La vita, i fratelli, il sangue, la politica. La nuova Resistenza, la chiama Sandro Pertini in quegli anni drammatici.

In uno dei rarissimi testi in cui parla del fratello, pubblicato sul sito del Movimento studenti di Azione cattolica, Sergio Mattarella scrive: «Piersanti non aveva la vocazione a diventare un eroe. Era una persona normale che amava la vita e il futuro, amava sua moglie e i suoi figli, era aperto di carattere, allegro nei rapporti personali, anche sul lavoro. Ma avvertiva fortemente il senso della dignità propria e di quella del ruolo che rivestiva; si rifiutava di piegarsi alla prepotenza, alla sopraffazione della mafia o alla minaccia della violenza; non aveva intenzione di far finta di non vedere. Era consapevole del pericolo che poteva aver di fronte ma sapeva che si deve vivere in maniera decorosa, potendo essere sempre orgogliosi delle proprie scelte... Ricordare le persone che affermavano il rispetto delle regole per il bene di tutti, il bene comune, e il cui assassinio ha punteggiato dolorosamente la storia del nostro paese, significa condividerne valori e criteri di comportamento: il messaggio che riceviamo da Piersanti Mattarella risiede nella convinzione che la vita va impiegata spendendo bene, evangelicamente, i talenti che si sono ricevuti».

Vale come un auto-ritratto. I talenti ricevuti da spendere, i valori da rimettere in gioco, sono la stella polare del giovane Mattarella, figlio del ministro Bernardo, uno dei fondatori della Dc, membro dell'Assemblea Costituente, eletto il 2 giugno 1946 con 38.764 voti. Studiano a Roma, nel collegio di San Leone Magno. Il fratello Piersanti è uno dei giovani dirigenti dell'Azione cattolica negli anni Cinquanta, Sergio è un ventenne che negli anni del Concilio, il rinnovamento della Chiesa, è responsabile degli studenti cattolici del Lazio con l'assistente don Filippo Gentiloni (futura firma del "Manifesto" per le questioni religiose e zio di Paolo, il ministro degli Esteri), conosce preti come don Luigi Di Liegro, che sarà il carismatico e amatissimo direttore della Caritas romana, e don Alessandro Plotti, futuro vescovo di Pisa. «Erano gli anni di papa Giovanni XXIII e di Paolo VI, gli anni del Concilio: anni di entusiasmo, di speranza, di innovazione», scrive. Sono gli anni della Meglio Gioventù versione cattolica, letture, incontri, amicizie, «gli anni della mia formazione: hanno disegnato il mio senso della vita e la mia fisionomia come persona», scrive Mattarella.

La politica è sempre stata di casa. Il padre è un notabile della Dc, accusato negli anni Sessanta di vicinanza alla mafia da Danilo Dolci che viene condannato per diffamazione. Accuse poi riprese dagli esponenti del Psi craxiano negli anni Ottanta quando Sergio dà vita alla prima giunta Dc-Pci a Palermo con il sindaco Leoluca Orlando (l'attuale), suo grande amico prima di una rottura dolorosa. «In Italia tutti sanno che i cognomi di Orlando e Mattarella erano indicati in una precedente generazione come autorevoli amici degli amici», scrive don Gianni Baget Bozzo sull' "Avanti!".

Anche il numero due del Psi Claudio Martelli picchia duro sulle famiglie Mattarella e Orlando «consigliori» dei mafiosi. «Mattarella ha scritto la replica su un foglietto: disgusto e disprezzo...», scrive sul suo diario l'allora capo ufficio stampa della Dc Giuseppe Sangiorgi. Tanto più che le minacce della mafia continuano. «Dovete proteggere Sergio», implora il segretario della Dc Ciriaco De Mita, il leader di riferimento, la moglie Marisa, sorella della moglie di Piersanti. «Mattarella è andato un attimo in casa sua prima di una cena ufficiale. A casa ha trovato la moglie in lacrime. Pochi minuti prima aveva ricevuto una telefonata anonima: suo marito, le hanno detto, con la lista che sta facendo per le elezioni di Palermo farà la stessa fine del fratello Piersanti».

Piersanti era il più promettente e intelligente tra gli allievi di Aldo Moro, aveva rotto con la Dc di Vito Ciancimino e di Salvo Lima e aperto al Pci siciliano negli anni della solidarietà nazionale, era già stato deciso che sarebbe tornato a Roma come deputato quando l'omicidio di Moro lo convinse a restare in Sicilia. Una scelta che gli costò la vita. Anche Sergio, eletto alla Camera nell'83, milita nella piccola corrente morotea. I suoi amici sono tutti nella Lega democratica, si chiamano Tina Anselmi, Maria Eletta Martini, lo storico Pietro Scoppola, il costituzionalista Leopoldo Elia con cui ingaggia a cena epiche gare di nozionismo. Sugli articoli della Costituzione tedesca? No, su chi conosce più formazioni di calcio a memoria, testimonia l'amico Pierluigi Castagnetti. Moro doveva diventare presidente della Repubblica già nel 1971, fu bruciato a voto segreto dalla destra Dc che gli preferì Giovanni Leone. E nel 1978, come disse Sandro Pertini, "lui, non io, vi parlerebbe da questo posto, se non fosse stato barbaramente assassinato".

Mattarella al Quirinale è una silenziosa rivincita. Da Moro Mattarella sembra aver ereditato la timidezza davanti alle telecamere («Moro deve compiere un sovrumano sforzo di eroica volontà per presentarsi alla televisione», scriveva Vittorio Gorresio). La riservatezza: entrate nella leggenda di Moro con il soprabito d'estate sul lungomare di Terracina fotografato da Vezio Sabatini per un servizio di Guido Quaranta su "Panorama".

L'ispirazione politica: l'apertura a sinistra, l'idea della fragilità della democrazia italiana, attraversata da nemici occulti. Le mafie, le massonerie, le P2. «Occorre recuperare credibilità e questo vuol dire soprattutto moralità», dice Mattarella in quel lontano discorso al congresso della Dc del 1984. «Moralità significa uno sforzo intenso e particolare contro la corruzione. Moralità significa, in alcune zone del Paese ma ormai in tutto il Paese, una lotta intensa, seria, autenticamente rigorosa, nei confronti della mafia, della camorra e di tutte le altre forme di criminalità organizzata. Significa avere una continua attenzione per evitare che si ripetano infiltrazioni o presenze e inquinamenti come quella che ci ha dolorosamente colpiti e preoccupati e inquieti, la scoperta delle trame della loggia P2». Ma la questione morale, come già avvertiva Berlinguer, non è solo lotta alla corruzione e alla mafia: «Significa avere rispetto della articolazione della società, liberando e risparmiando spazi da una eccessiva presenza del pubblico e della politica. Significa che alla frammentazione del Paese non si dà soltanto una pur necessaria risposta istituzionale ma anche una risposta di linea politica, far rivivere nel nostro Paese un più intenso, più completo, più vasto senso della convivenza, del pubblico interesse, dell'interesse generale: il bene comune».

Un democristiano anomalo, l'ha presentato Renzi. E qualcuno già lo chiama «un presidente alla memoria». Mattarella, piuttosto, è un rappresentante tipico del cattolicesimo democratico e della sinistra dc, sinistra a pieno titolo inserita nelle culture progressiste del Paese, la via democristiana alla democrazia. Una cultura politica fortissima che è moderazione, equilibrio, dialogo con l'avversario, senso delle istituzioni e dello Stato. In una parola: mediazione. Parola-chiave della politica anni Sessanta-Settanta che funzionava quando la Dc e i partiti rappresentavano il collegamento privilegiato tra il Palazzo e la società. Ma che si trasforma in immobilismo e infine palude quando il sistema è ormai paralizzato e non c'è più nulla da mediare.

La sinistra Dc che era stata la parte più avanzata e riformista del partito diventa alla fine degli anni Ottanta sinonimo di irresolutezza, indecisione, mancanza di coraggio, di generali senza truppe incapaci di strappare. Mattarella non fa eccezione. E questo spiega all'inizio degli anni Novanta la separazione, la rottura tra i maestri del cattolicesimo democratico che appare estenuato e le generazioni più giovani che si impegnano nei movimenti anti-mafia, nella Rete di Orlando uscito dalla Dc o nei comitati per i referendum elettorali o del nascente Ulivo.

La Dc va in crisi quando il Paese si disgrega sotto mille spinte populiste e territoriali, vedi la Lega al Nord. Mattarella resta fedele alla sua vecchia impostazione, ma appare quasi un sopravvissuto, un politico d'altri tempi. Il suo cattolicesimo adulto, tormentato, inquieto, vicino alla sensibilità del cardinale Carlo Maria Martini che incontra più volte, «la spiritualità del conflitto», come la chiama Scoppola, è minoritario nella stagione dei meeting di Comunione e liberazione a Rimini. E non ha niente a che fare con la politica personalizzata, urlata, ammiccante. «La sobrietà di vita è una delle cifre degli statisti», ha detto nel mese di luglio ricordando l'amico Giovanni Goria alla Camera che fu il premier più giovane della storia repubblicana (fino a Renzi) e morì prematuramente. Ma la sua non è una sobrietà alla Mario Monti, non si traduce in un loden, neppure la sobrietà è esibita. È un uomo in grigio. Un uomo invisibile. Ma non spento, per nulla incolore o malinconico.

Potrebbe sottoscrivere quanto disse Enrico Berlinguer a Giovanni Minoli: «La cosa che mi infastidisce di più è quando scrivono che sarei triste, perché non è vero». Di ironia sottile, fredda, anglosassone. Di passione contenuta, intransigente. Per questo temuto da Silvio Berlusconi. Il suo anti-berlusconismo non è politico, va molto al di là della decisione di dimettersi da ministro per protestare contro la legge Mammì sulle tv nel 1990. È un anti-berlusconismo etico, una scala di valori contrapposta, inconciliabile con l'Arcore style. È (anche) a lui che si riferiva quando attaccava «Il bombardamento commercializzato dei modelli di vita che ha accentuato il pericolo del conformismo». Alternativo antropologicamente al berlusconismo, al fighettismo, al libertinismo, specie quello intellettuale.

Sembrava destinato a un tranquillo notabilato, lui che leader non è mai stato, «cammina nella penombra», lo descrive l'amico Angelo Sanza. Invece a richiamarlo in servizio per la politica attiva è stato un leader molto lontano da lui, per stile, mentalità, cultura, anche se non per origine e provenienza. Si è sempre detto che Renzi era l'erede di Berlusconi, ma la scelta di Mattarella fa intuire un'altra parentela, un'altra famiglia di provenienza, anche se misconosciuta. Il cattolicesimo democratico, che ha sempre militato dalla parte opposta del berlusconismo. Una stirpe fondata esattamente un secolo fa, con il discorso di Caltagirone del 1905 di un altro siciliano, don Luigi Sturzo. Potenza delle culture politiche, capaci di sopravvivere alle stagioni, agli inverni più rigidi, alle tempeste più violente. Alle prove antiche e dure. Un secolo dopo, ecco un altro cattolico, siciliano, il primo al Quirinale. Proiettato verso il futuro.

Il figlio della Repubblica si affida a un padre. L'uomo del Selfie fa eleggere l'uomo senza immagini. Nel modo opposto allo stile dell'eletto. Mai e poi mai Sergio Mattarella avrebbe usato i metodi di Renzi: forzature, spintoni, spallate, rovesciamenti di campo. L'irruenza, il contrario della prudenza mattarelliana. Renzi usa uno dei migliori esponenti della Prima Repubblica per chiudere per sempre con la stagione della Seconda e prepararsi a fondare la Terza.

Sergio Mattarella, eletto presidente questa mattina di un sabato, il 31 gennaio 2015, potrebbe essere il capo dello Stato che celebrerà nel settantesimo anniversario dalla nascita della Repubblica insieme al referendum popolare che ne dichiarerà il (parziale) mutamento. Garante della Costituzione in vigore e di quella che verrà, come ha detto Renzi. E forse mostrerà al premier nato trentacinque anni dopo le parole del grande storico cattolico francese Henri-Irénée Marrou sulla conoscenza storica, il senso di ciò che accade, la piccola politica delle miserie quotidiane e la grande storia: «non viviamo soltanto per costruire e distruggere questi edifici provvisori, come una generazione di termiti, ma per dare un senso, riconoscere un valore al pellegrinaggio, a volte trionfale, a volte doloroso, che l'umanità compie da sempre attraverso il corso della sua storia». Sarà il mite, invisibile custode della Repubblica. Anche inflessibile (speriamo).

© Riproduzione riservata 31 gennaio 2015

Da - http://espresso.repubblica.it/palazzo/2015/01/31/news/sergio-mattarella-presidente-della-repubblica-quell-uomo-invisibile-della-dc-ma-non-incolore-1.197194?ref=HRBZ-1


Titolo: Marco DAMILANO - L'intervista alla presidente della Commissione parlamentare...
Inserito da: Admin - Giugno 27, 2015, 10:27:19 am
Campidoglio

Rosy Bindi: «E' ora di una Svolta Capitale Marino e il Pd facciano un passo indietro»
Il Partito Democratico e il sindaco di Roma hanno reagito alle inchieste.
Ma non basta. Occorre un cambiamento di sistema. A cominciare dai finanziamenti ai partiti.
L'intervista alla presidente della Commissione parlamentare Antimafia

Di Marco Damilano
18 giugno 2015

Rosy Bindi, presidente della Commissione parlamentare Antimafia, in una lunga intervista a Marco Damilano su “l'Espresso” in edicola domani chiede «una reazione di sistema» dopo le inchieste di Mafia Capitale. «Va affermata l’autonomia tra i partiti e le istituzioni. Faccio un esempio: Matteo Orfini è il commissario del Pd di Roma, non il commissario del Comune. Deve spiegare come vuole cambiare il Pd di Roma, facendo tesoro del rapporto di Fabrizio Barca, ma non spetta a lui indicare di quante commissioni debba essere composto il consiglio comunale del Campidoglio. La prima qualità del cambiamento è la netta distinzione tra partito e istituzioni. Le risposte sul funzionamento del Comune io le voglio sentire da Marino e dai suoi assessori».

Le risposte di Marino le sono sembrate sufficienti?
«Marino rivendica giustamente di non essere parte del sistema e ha avuto problemi anche per questo motivo. Ha tentato di cambiare, gli va riconosciuto, la reazione è stata forte. Ora però dovrebbe riconoscere lui stesso di non avere avuto modo di rendersi conto di dove si trovava, senza invocare il fattore tempo come attenuante. Deve riflettere sull’opportunità politica delle scelte da fare che non sono dettate da responsabilità personali che Marino non ha. Non è l’onestà, è la sua capacità di controllare gli appalti che è in discussione».

Dovrebbe dimettersi?
«Se ci fosse la consapevolezza che con una scelta politica si può evitare la vergogna dello scioglimento della Capitale d’Italia per mafia, il sindaco e il Pd dovrebbero fare un passo indietro».

Rosy Bindi: «Il Pd e Marino facciano un passo indietro»
Il Partito Democratico e il sindaco di Roma hanno reagito alle inchieste. Ma non basta. Occorre un cambiamento di sistema. A cominciare dai finanziamenti ai partiti. Parla il presidente della Commissione parlamentare Antimafia

Ci sono gli estremi per sciogliere Roma per mafia? Per Renzi no...
«Non so su quali elementi possa fare questa affermazione. Io mi rifiuto di parlare senza aver potuto leggere la relazione prefettizia... Ma una risposta va data anche se non ci sono elementi evidenti per sciogliere. Perché comunque la situazione non può restare così com’è. Non si può interpretare un eventuale mancato scioglimento come un’assoluzione. Non si può dire: tutto a posto, non siamo inquinati... La politica deve immaginare soluzioni innovative». La Bindi pensa a «una sorta di “amministrazione controllata”. Non si scioglie il Comune, non si manda a casa il sindaco, ma si pongono condizioni molto stringenti e si nomina una commissione di garanzia che affianchi e controlli l’amministrazione con precise competenze tecniche».

Un commissariamento della politica?
«Al contrario: l’amministrazione eletta democraticamente resta al suo posto e la politica viene affiancata dagli organi dello Stato. Se io fossi il sindaco di Roma sarei la prima a chiederlo. Un bagno di umiltà sarebbe utile per tutti».

ESPRESSO+ LEGGI L'INTERVISTA INTEGRALE

Analizzando il quadro emerso dalle indagini, la Bindi spiega: «Non ci sono partiti. Ci sono i potentati, i capi bastone, le carriere personali, le cordate. Non c’è militanza, c’è il professionismo della politica. E c’è l’inganno ipocrita del finanziamento lecito. Dice Alemanno: quanto ho ricevuto da Buzzi era tutto dichiarato. Anche Marino dice: finanziamenti puliti, tutti dichiarati. Ma mi domando: nessuno si è chiesto l’origine di quei soldi? Io credo che vada rivista la legge sul finanziamento dei partiti che il Parlamento ha appena approvato. Almeno in un punto fondamentale: non si può permettere a una cooperativa o a un’azienda di finanziare gli esponenti politici di un’amministrazione con cui ci sono interessi economici e si partecipa a gare d’appalto. Finisce per essere qualcosa che droga la politica e il mercato».

Prima dell’arresto Buzzi partecipò a una cena di auto-finanziamento con Renzi.
«È stato assicurato che quei soldi saranno restituiti e va benissimo, questa è la risposta. Ma poi devi conoscere chi sono i tuoi finanziatori, prima di invitarli. Lo stesso è avvenuto a Venezia, con lo scandalo Mose. Bisogna ricostruire una comunità politica rispetto al modello del partito comitato elettorale, perché americani non lo saremo mai. Formare una leva di politici che non scambino la politica per un mestiere che dà da vivere grazie al meccanismo delle nomine e dell’occupazione delle istituzioni. Devono essere i militanti che scelgono i loro dirigenti, non i dirigenti che creano i loro militanti».

Bindi spiega di non avere sentito Renzi dopo l’inserimento di Vincenzo De Luca nella lista di impresentabili dell’Antimafia. E di non essersi pentita di quella scelta. Lei ha chiesto le scuse del Pd. «Vedo che ora si preferisce il silenzio. Posso capire, ma io mi rivolgerò a un organo di garanzia del mio partito. In sede politica voglio che mi sia riconosciuto che non ho mai usato la mia carica istituzionale per una lotta politica interna. Come si è potuta pensare una cosa del genere? È l’offesa più infamante. La mia formazione e i miei maestri mi hanno educato al rispetto delle istituzioni. Non posso vivere questo valore in conflitto con l’appartenenza al mio partito».

L'intervista integrale su l'Espresso in edicola venerdì 19 giugno e, da oggi, online su Espresso+

© Riproduzione riservata
18 giugno 2015

Da - http://espresso.repubblica.it/palazzo/2015/06/18/news/rosy-bindi-e-ora-di-una-svolta-capitale-marino-e-il-pd-facciano-un-passo-indietro-1.217654


Titolo: Marco DAMILANO - Matteo Renzi è caduto dal cavallo della Rai
Inserito da: Admin - Agosto 09, 2015, 11:11:31 am
Matteo Renzi è caduto dal cavallo della Rai
Da sempre le svolte politiche maturano in Parlamento e nei partiti, ma poi si sperimentano nella tv pubblica.
Così le sue nomine, dai consiglieri a Campo Dall'Orto, mostrano l'invecchiamento precoce della rivoluzione renziana

Di Marco Damilano
06 agosto 2015

«Sono dolente che per il modo con cui si svolgono le cose non mi sia possibile darle le consegne e porgerle di persona il mio saluto augurale: voglia credere che questo, anche se dato per lettera, è fervidissimo e che per l'affetto che ho preso alla Rai in 15 mesi di Presidenza mi dà una sincera soddisfazione di sapere che passa nelle sue mani esperte...». Era l'inizio di agosto anche allora, quasi settant'anni fa. Il 2 agosto 1946: con un biglietto su carta intestata dell'Eiar corretta a macchina con la scritta "Il Presidente Rai", il primo presidente dell'azienda dopo la Liberazione del 1945 Arturo Carlo Jemolo salutava il suo successore, Giuseppe Spataro.

Jemolo era uno storico e giurista insigne, fuori dai partiti. Spataro era uno dei fondatori della Dc (le prime riunioni clandestine del partito si erano svolte nella sua casa romana), il sottosegretario per la stampa e l'informazione, un notabile potente che per tutta la sua presidenza (1946-1950) resterà deputato e nella direzione di piazza del Gesù.

Confermata la giornalista come presidente della Rai ora tocca alla casella del direttore generale, che sarà Antonio Campo Dall’Orto. Sorvolando sui debiti lasciati a La7

Eccolo tracciato, una volta per tutte, il DNA della Rai. Regola numero uno: le nomine da sempre si fanno in estate, all'inizio di agosto. Regola numero due: le svolte politiche maturano in Parlamento e nei partiti, ma si sperimentano prima nelle stanze della grande azienda del servizio pubblico.

Di cosa parliamo, quando parliamo di Rai? Le nomine in viale Mazzini eccitano la fantasia di politici, giornalisti e operatori del settore più di Sanremo, campionato di calcio e premio Strega messi insieme ma raccoglie l'indifferenza del pubblico. Sbagliando, però. La Rai anticipa e riflette la politica, più che lo schermo e uno specchio.

Il Tesoro indica la direttrice di Rainews. Per il Dg, invece, Renzi vuole Antonio Campo Dall’Orto, ex La7. Il sindacato dei giornalisti Rai protesta: «Non spetta al governo fare il nome». Per il Cda polemiche sui pensionati eletti, per la legge Madia dovranno lavorare gratis

Nel 1945-46 l'epurazione di Jemolo e l'arrivo di Spataro anticipa in Rai la lunga stagione politica dell'egemonia democristiana. Nel 1961 viene nominato direttore generale un fiorentino di 41 anni che si chiama Ettore Bernabei. Direttore del “Popolo”, uomo di Amintore Fanfani, sembra l'ennesimo democristiano parcheggiato in Rai in vista di altri incarichi. Invece durerà fino al 1974. E sotto la sua guida da «tiranno illuminato», come lo definirà molti anni dopo Andrea Barbato, la televisione diventerà uno dei motori della modernizzazione italiana e strumento decisivo di lotta politica.

Nel 1975, quarant'anni fa, c'è la prima riforma della Rai. Viene limitato il potere del governo e della Dc (con gli alleati minori, i socialisti, i famelici socialdemocratici) di nominare i vertici di viale Mazzini. La nomina del Cda Rai viene consegnata al Parlamento, alla commissione parlamentare di vigilanza in cui c'è anche il Pci di Berlinguer che quell'anni stravince le elezioni amministrative e aspira a diventare forza di governo. «La Rai comincia a riflettere la dialettica culturale e sociale del Paese e la sua articolazione diventa più complessa, meno monopolitica e centralizzata», esulta il giovane responsabile stampa del Psi che si chiama, indovinate?, Fabrizio Cicchitto. E nasce la sequenza Fibonacci di viale Mazzini, il numero magico 732111: sette consiglieri Dc, tre socialisti, 2 comunisti, uno a testa al Psdi, Pri e Pli. Un anno dopo partono il Tg1 democristiano (direttore il moroteo Emilio Rossi, ferito alle gambe dalle Br nove mesi prima della strage di via Fani) e il Tg2 laico, con la direzione di Andrea Barbato.

Lo spin doctor di Matteo Renzi e quello di Fitto. L’ex deputato forzista Mazzuca. La storica dell’arte vicina a Orfini. L’ex presidente della Fnsi. La commissione di Vigilanza elegge il Cda Rai. E l’unico che viene dalla tv è Freccero, eletto dai 5 stelle e da Sel

Una breve stagione di libertà e di concorrenza, la professionalità del Tg1, il più autorevole canale di informazione e il Tg2 corsaro di Barbato, nell'Italia degli anni Settanta delle radio libere, dei primi esperimenti di tv via cavo e della scalata di Silvio Berlusconi. Alla fine di luglio 1977, sempre in estate, il Pci rientra per la prima volta nella lottizzazione: direttore dell'informazione regionale è il dc irpino Biagio Agnes, il condirettore è il capo della Federstampa, appena assunto in Rai, il “compagno scomodo” Sandro Curzi. «Lottizzano anche i comunisti», titola il “Corriere” (29 luglio 1977).

Domenica 7 dicembre 1986 è un'altra data storica per la tv italiana: per la prima volta l'Auditel fotografa i rapporti di forza tra la Rai e la Fininvest, il cavallo di viale Mazzini ne esce agonizzante, l'audience del servizio pubblico è appena tre punti sopra quella del Biscione. «La Rai era in gravissima crisi, doveva cercare una fetta di pubblico molto fedele ma che fino a quel punto era rimasto escluso dalla yv», ha ricordato Enrico Menduni, all'epoca consigliere di amministrazione in quota Pci.

«Gli unici erano i comunisti. Furono loro i nostri “taxi della Marna”, gli arruolati dell'ultima ora che ci fecero vincere la battaglia decisiva». Decidono in tre, a tavola, nella saletta riservata di un ristorante del centro di Roma: il dc Agnes, il socialista Enrico Manca (quello che ha cacciato Beppe Grillo dalla tv di Stato) e il comunista Walter Veltroni, giovane responsabile informazione di Botteghe Oscure.

Al Pci va la direzione di Raitre con Angelo Guglielmi e la direzione del tg3 con Curzi: le due anime, l'intellettuale di avanguardia e il giornalista di partito. Il Pci riporta una paradossale vittoria nel momento del suo minimo elettorale, alla vigilia del crollo del muro di Berlino e del cambio del nome. Per il sistema politico la tripartizione Dc-Psi-Pci è la lottizzazione perfetta. E invece è vicina la fine, Tangentopoli e la Seconda Repubblica. I partiti tradizionali spariscono dalla scena in pochi mesi. Al loro posto i due super-partiti che si sono formati sulle guerre mediatiche ed editoriali degli anni Ottanta-Novanta: il partito Rai, la sinistra Dc, il Pci. E il partito Fininvest di Berlusconi, Gianni Letta, Confalonieri, i socialisti, la destra dc. Il bipolarismo all'italiana, prima che dalle leggi elettorali, nasce dalla televisione. Ancora pensate che la tv non c'entri nulla con il resto del Paese?

Nel 1993 c'è un ritorno all'antico modello Jemolo, la Rai dei professori fuori dai partiti. Dura pochissimo. E nel 2005 la legge Gasparri consacra il ritorno in grande stile della lottizzazione partitica, con la vigilanza che elegge il cda e il governo che sceglie il direttore generale. A ciascuno il suo: ex direttori di giornali di partito, ex parlamentari, ex capi uffici stampa. E tutti contenti.

Arriviamo, finalmente, a oggi. Cosa dice questa tornata di nomine in viale Mazzini dello stato di salute del governo Renzi e della politica italiana? Il premier gioca a dire che non è colpa sua se è stato costretto a scegliere i nomi con i metodi del passato perché la legge Gasparri non è stata eliminata: la colpa è sempre colpa degli altri. Ma se non cambia la musica, cambiano i suonatori. E il concerto, già mediocre, rischia di trasformarsi in un'assordante cacofonia. Partiamo dalle dichiarazioni di principio: «Fuori i partiti dalla Rai.
La governance della Tv pubblica dev’essere riformulata sul modello Bbc (Comitato Strategico nominato dal Presidente della Repubblica che nomina i membri del Comitato Esecutivo, composto da manager, e l’Amministratore Delegato). L’obiettivo è tenere i partiti politici fuori dalla gestione della televisione pubblica».

Recitava così il punto numero 17 del programma dei cento punti presentato da Renzi alla stazione Leopolda nel 2011. In quell'edizione l'economista Luigi Zingales (nominato in seguito dal governo Renzi nel cda Eni da cui si è di recente dimesso) era stato travolto dagli applausi quando aveva tuonato contro i premiati per fedeltà al boss partitico di turno: «L’Italia è governata dai peggiori. L’80 per cento dei manager dichiara che la principale strada per arrivare al successo è la conoscenza di una persona importante, poi ci sono lealtà e obbedienza, la competenza arriva solo quinta».

Conoscenza o competenza? Guelfo Guelfi, per provenienza geografica, si presenta dal nome e dal cognome. La sua unica competenza, pare, sono le campagne di comunicazione della provincia di Firenze presieduta da Renzi. Ex lottacontinuista di piazza, testimone al processo Sofri-Calabresi, ma i giudici credettero a Leonardo Marino e non a lui, oggi è stato collocato nel cda Rai, una perfetta parabola craxiana.

Rita Borioni, nominata dal giovane turco Orfini, confessa di candidamente di non vedere Sky e ha all'attivo in tv il programma Stendhal per Red-tv, la rete di D'Alema che ha seguito il destino di tutte le iniziative del leader massimo, cioè il disastro. E di lei si potrebbe dire quello che gridava nel 1958 il capogruppo del Pci Pietro Ingrao nell'aula di Montecitorio chiedendo di sapere «a che titolo» il ministro delle Finanze Giulio Andreotti avesse nominato il suo collaboratore Franco Evangelisti nel cda della Rai: «Per quale merito? Nessuno riesce a saperlo. Per capacità giornalistiche? Non risulta a nessuno. Per doti particolari di amministratore? Non abbiamo notizie. Almeno informateci su questo punto!». Chissà cosa risponderebbe oggi Orfini. Perché sulla Rai, ahinoi, le domande sono sempre le stesse. Solo che cala la qualità delle risposte.

Il merito? Ciascuno può giudicare: i successi del sindacato giornalisti guidato da Franco Siddi, la qualità dei consigli di Paolo Messa all'Udc e al ministro Corrado Clini, gli ascolti di Rainews 24 della neo-presidente, la bravissima Monica Maggioni, le copie vendute dai giornali del simpaticissimo Arturo Diaconale e di Giancarlo Mazzuca, il bilancio di La7 diretta da Antonio Campo Dall'Orto, altro uomo della Leopolda.

Nel 2011 si chiedeva al raduno renziano: «Chi sono le persone che ispirano i giovanissimi?», con una risposta esattamente all'insegna dell'innovazione: «Le ricerche dicono: gli amici, il papà, la mamma». Rimane Carlo Freccero, indicato dal Movimento 5 Stelle (e da Sel) che ha compiuto la prima vera operazione politica della legislatura, semplice, pulita: votare il migliore. Perché c'è il merito, non sempre uno vale uno, Freccero per genio e sregolatezza vale tutti gli altri consiglieri messi insieme. Ed è stato lui a definire il renzismo in un'intervista a Daniela Preziosi sul "Manifesto" (30 ottobre 2014) come «fanfanismo digitale»: «Renzi fa un racconto consolatorio, una storia a lieto fine, come una soap opera. C'è la crisi e la gente non vuole essere angosciata. Il politico oggi ha il compito di tranquillizzare, infondere fiducia. Come le monarchie di una volta».

In ogni caso, come si dice, non è colpa dei nominati ma di chi ce li ha messi. E le nomine Rai mostrano l'invecchiamento precoce della rivoluzione renziana. Più che fanfanismo digitale è craxismo terminale. Non si vede per ora un disegno, un progetto, un'idea. Orfini vorrebbe essere il nuovo Togliatti, ma qui non ci sono le masse proletarie da portare nei luoghi di potere per combattere i comitati d'affari della borghesia. Non c'è la borghesia e neppure i partiti, ma piccoli circuiti di amici che si auto-assegnano qualche identità di circostanza per coprire il vuoto. Dalla grande massoneria alle loggette di provincia. Dalle sezioni del grande Pci al potere spartito con la playstation, davanti a un bigliardino. Dai potenti sindacati anni Settanta ai professionisti della (s)concertazione. Dai grandi quotidiani alle gazzette senza lettori e forse senza redattori. Dai poteri forti alle micro-lobby romane. Dal professionismo al rampantismo...

L'ennesima spartizione agostana dal 1946 a oggi, il delitto di mezza estate del 2015 è l'auto-rappresentazione di un potere in crisi, di una classe dirigente evaporata. E Matteo Renzi che si era candidato a fare la rottamazione, ancora una volta, dimostra che è più facile galleggiare sul nulla, cullarsi sui vizi del passato piuttosto che provare a costruire una nuova classe dirigente. Questa nuova-vecchia Rai è per paradosso la più anti-renziana che si possa immaginare, nel senso del Renzi prima maniera che sfoggiava autonomia, coraggio, capacità di dire di no al capo. Mentre ora il Renzi 2 sta per mettere la faccia e la firma su una nuova stagione di conformismo. L'ideologia delle buone notizie, come si chiamava ai tempi di Bernabei e della Dc, che però, almeno, sapevano raccontare il Paese.

Il cavallo di bronzo dello scultore Francesco Messina di fronte al palazzo del potere Rai di viale Mazzini è piazzato lì a testimoniare le tristi sorti dei conquistatori della tv di Stato. Nelle intenzioni dovrebbe rappresentare un destriero rampante, ma nell'immaginario si è capovolto nel suo opposto: l'ippogrifo che non riesce ad alzarsi in volo, il cavallo morente. Un simbolo rovesciato. Come il renzismo di oggi.

© Riproduzione riservata
06 agosto 2015

Da - http://espresso.repubblica.it/palazzo/2015/08/06/news/renzi-e-caduto-dal-cavallo-della-rai-1.224479?ref=HRBZ-1


Titolo: Marco DAMILANO - Vatileaks, la rete di Francesca Chaouqui: tutti i nomi ...
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 04, 2015, 07:07:38 pm
Retroscena

Vatileaks, la rete di Francesca Chaouqui: tutti i nomi dietro la scalata della Papessa
L'ascesa della donna oggi al centro degli scandali vaticani si fonda anche su una lunga serie di amicizie, reali o millantate, all'interno del mondo dei salotti romani e della politica.
Ecco chi sono i suoi contatti


Di Marco Damilano
03 dicembre 2015

È l’Italia delle trame e delle truffe, delle millanterie e delle vanità, delle amicizie che si capovolgono in ricatti, delle fraternità e delle maschere. Il processo in Vaticano scaturito dall’uscita dei libri sui soldi della Santa Sede dei due giornalisti Emiliano Fittipaldi e Gianluigi Nuzzi si sta avvitando in un labirinto di contraddizioni. E nel cuore del groviglio, come nella visione apocalittica, c’è una giovane donna. Con un talento naturale per occupare il centro della scena, come racconta l'Espresso nel suo articolo di copertina in edicola da venerdì 4 dicembre e già online su Espresso+. 

Salì su un vero palcoscenico il 15 gennaio 2014, al teatro Parioli, nel ruolo di Marion Holmes, la segretaria di Winston Churchill. Lo spettacolo si intitolava “Colpevole o innocente?”. Profetico: colpevole o innocente Francesca Immacolata Chaouqui? La Papessa, la chiama il marito Corrado Lanino, informatico, indagato con lei dalla procura di Roma per associazione a delinquere: avrebbero ricattato Paolo e Silvio Berlusconi, e non solo. Con la sua feroce determinazione a emergere, Francesca è soprattutto un personaggio che racconta l’Italia di oggi. Un mondo di faccendieri, spioni, nobili, cardinali, rampanti, carrieristi.

Nella rete della Papessa e personaggio-chiave per la sua ascesa è la contessa Marisa Pinto Olori del Poggio. La contessa è figura importante del panorama romano. Il marito Luigi, scomparso molti anni fa, stampatore del “Sole 24 Ore”, aveva in confidenza Gianni Agnelli e Andreotti. Amica della regina di Giordania e di re Juan Carlos, nominata grand'ufficiale della Repubblica da Ciampi, nel suo club Diplomatia si riuniscono ambasciatori, docenti, imprenditori: Umberto Vattani, Rocco Cangelosi, Vittorio Grilli.

Gianni Letta è un amico. Luigi Bisignani più ancora: «Gigi è il re di questo mondo», raccontano. Più amico di tutti è il cardinale francese Jean-Louis Tauran, per tredici anni (dal 1990 al 2003) ministro degli Esteri vaticano. Il 13 marzo 2013 sarà lui ad annunciare al mondo dalla basilica di San Pietro l’elezione a papa di Bergoglio. Oggi Tauran è il Camerlengo della curia, il solo a restare in carica in caso di morte del papa. Immancabile commensale nella villa di Bel Poggio della contessa. Anche lui è personaggio decisivo: il vero sponsor della nomina a sorpresa di Francesca nella Cosea, la ristretta commissione vaticana di otto persone che studia gli affari economici del Vaticano su incarico di Bergoglio. Insieme ad altre amicizie importanti come monsignor Robert Murphy, assistente del cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato. Finora nessuno di loro è stato tirato in ballo nel processo vaticano.

Vatileaks, la rete di potere della papessa Francesca Immacolata Chaouqui
Faccendieri, spioni, finanzieri, cardinali. Un circolo che si estende dal Vaticano fino ai nuovi potenti italiani. Tra millanterie e assalto al cielo ecco la storia della PR cosentina

Nella rete ci sono l’avvocato dai mille rapporti Patrizio Messina, Paolo Messa, animatore della fondazione “Formiche”, ora nel cda della Rai in quota centrista. E un pezzo di mondo renziano.

A partire da Marco Carrai, vertice del sistema Leopolda, ambasciatore di Matteo Renzi tra i poteri economici e internazionali, desideroso di accreditarsi in Vaticano. «Con Marco non c’è un rapporto professionale, è un amico...», ha detto la Chaouqui in tv a “Ballarò”. Dopo la messa-party in terrazza che fa infuriare il papa, a Palazzo Chigi arrivano informazioni riservate: meglio non frequentare la Chaouqui. Il sottosegretario Luca Lotti interrompe ogni contatto, Carrai no. Cinque mesi dopo Francesca e il marito sono tra gli invitati al matrimonio di “Marchino” a San Miniato a Firenze con Francesca Campana.

Non è l’unico contatto con il mondo renziano. Per l’accusatore e co-imputato nel processo vaticano monsignor Vallejo Balda la Chaouqui chiede soldi per gli incontri dell’associazione per bambini down di Andrea Conticini, cognato del premier.

Vatileaks, che tentazione copiare il bavaglio
C’è il rischio che l’Italia segua il cattivo esempio vaticano. E diventi più “braghettone” della Chiesa

Dal maggio 2014 il suo incarico alla Cosea è finito, arriva il momento di far fruttare le relazioni, gli amici di governo, come li chiamano Francesca e il marito in privato. Con Bisignani la frequentazione si fa assidua. Ora l’inchiesta della procura di Roma, ben più del processo in Vaticano, dovrà stabilire chi sia davvero Francesca Immacolata Chaouqui: una millantatrice o una ricattatrice? Colpevole o innocente? Apparenza o realtà?


Il dossier integrale su l'Espresso in edicola da venerdì 4 dicembre e già online su Espresso+
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03 dicembre 2015

Da - http://espresso.repubblica.it/archivio/2015/12/03/news/vatileaks-la-rete-di-francesca-chaouqui-tutti-i-nomi-dietro-la-scalata-della-papessa-1.241997


Titolo: MARCO DAMILANO Referendum, la grande assenza del M5S
Inserito da: Arlecchino - Novembre 05, 2016, 11:00:42 am
ANALISI

Referendum, la grande assenza del M5S
I pentastellati si battono ma senza troppo clamore: niente piazze, niente dibattiti in tv, niente contaminazioni con gli altri oppositori.
E a un mese dal voto sono il grande assente dalla campagna sulla modifica della Costituzione

DI MARCO DAMILANO   
02 novembre 2016

C’è un buco vistoso nella campagna referendaria del No, un’assenza che pesa perché non riguarda un partitino dello schieramento politico o un’associazione che rappresenta solo se stessa. Il Movimento 5 Stelle è dato dai sondaggi testa a testa con il Partito democratico, vincente in un ipotetico ballottaggio con la legge elettorale Italicum, è considerato il punto di riferimento naturale di tutti gli oppositori del governo guidato da Matteo Renzi.

E dunque dovrebbe essere scontata la leadership grillina del fronte che vuole sconfiggere il premier il 4 dicembre. E invece no. È come se questo scontro M5S non lo sentisse suo. Il Movimento lotta, si batte, ma senza troppo clamore. Resta in un ruolo laterale, se non marginale. Sorprendente, per un soggetto politico ormai abituato in tre anni di vita a occupare il centro del ring.

Sul sito beppegrillo.it negli ultimi giorni l’unico voto che davvero ha occupato i pensieri dei capi del Movimento Beppe Grillo e Davide Casaleggio è stato quello per il regolamento e per il "non statuto" di M5S, per cui era previsto un quorum di votanti elevatissimo, il 75 per cento degli aventi diritto su 130mila iscritti. E poi la proposta parlamentare per dimezzare l’indennità dei deputati, portata dai dal gruppo M5S nell’aula di Montecitorio e rispedita in commissione fino a data da destinarsi. Per assistere allo spettacolo, martedì 25 ottobre, si è scomodato Beppe Grillo, in tribuna sopra i seggi del Pd, meno di trenta minuti per assistere a schermaglie regolamentari, fischi, applausi e infine il rinvio scontato.

Il Comico lì, incuriosito, divertito, le mani giunte, composto, docile alle severe regole che imbrigliano gli invitati ad assistere alle sedute della Camera, se n’è andato in punta di piedi, senza nessuna concessione alla piazza, anche perché la folla dei militanti convocata per l’occasione era ridotta a pochi intimi.

L’immagine di un Movimento non più extra-parlamentare, quasi istituzionale, con Grillo in tribuna e Luigi Di Maio a presiedere l’aula. Anche in questo caso, il riferimento al No referendario è stato ridotto al minimo sindacale. Più preoccupati i deputati del Pd, che temevano la trappola. Inseguire i grillini sulla strada dei tagli allo stipendio dei parlamentari? Oppure schierarsi contro, con il rischio però di indebolire l’argomento più forte con cui Renzi sta girando l’Italia per chiedere un voto favorevole al referendum: il taglio delle poltrone e la cancellazione dell’indennità per i futuri senatori-consiglieri regionali?

Tutto rinviato al dopo 4 dicembre. Fino a quella data l’agenda di Renzi e del Pd è piena. Quella di Grillo e di M5S è vuota. Al momento non è in programma nessuna grande manifestazione di M5S a favore del No referendario, o almeno qualcosa di paragonabile allo Tsunami Tour di Grillo che nel 2013 cambiò il corso delle cose, trascinando il Movimento al risultato di otto milioni di voti alle elezioni politiche (da zero). L’unica iniziativa resta finora il giro in moto coast-to-coast, tra spiagge, stabilimenti, bagnini e ombrelloni del deputato romano Alessandro Di Battista, modello Che Guevara: ma appartiene a una stagione finita, un’altra canzone, «un’estate fa». Nella versione autunnale, il Movimento ha abbandonato le strade e i mercati, ha dovuto affrontare le spine del governo, lo psicodramma di Roma con Virginia Raggi, l’addio di Federico Pizzarotti a Parma, il misto di ammirazione e sospetto che nel Movimento circonda la sindaca di Torino Chiara Appendino. E rifiuta di farsi trascinare troppo nella battaglia referendaria. Anche nei match in tv sul referendum finora gli esponenti del Movimento spiccano per assenza. Al punto che Renzi ha provato a sfidare Grillo al duello nel salotto di Bruno Vespa a "Porta a Porta". Un invito speculare a quello arrivato dal fronte opposto, dal capo leghista Matteo Salvini, che ha provato a coinvolgere i grillini in una giornata del No, con tutti i leader in campo senza distinzione di partito o di schieramento. Nessuna risposta.

Nei prossimi giorni il silenzio finirà. E anche M5S si mobiliterà massicciamente per il No: nessun dubbio. La prospettiva di far perdere Renzi vale l’impegno di qualche comizio e di qualche uscita televisiva. Ma l’assenza di questi mesi racconta qualcosa di significativo sull’identità attuale del Movimento. E sulla sua sotterranea ma visibile conversione alle tattiche e alle strategie di Palazzo, il calcolo delle convenienze di parte, l’odiato politichese.

Nella vittoria del No c’è qualcosa che conviene al M5S e qualcosa che non conviene. Conviene, naturalmente, la sconfitta di Renzi. Le cancellerie europee temono il rovescio del premier e del Sì al referendum non tanto per il blocco del cammino delle riforme, con le attuali istituzioni l’Italia è rimasta nel club delle maggiori potenze per decenni, ma perché la considerano l’anticamera di un possibile governo grillino. Dentro M5S, però, sono molto più prudenti. Di Battista l’ha già detto in pubblico: se i Sì dovessero perdere, dovrebbe nascere un governo di scopo per fare una nuova legge elettorale che potrebbe contare sulla benevolenza del Movimento.

Di Maio, il vice-presidente della Camera, dato fino a pochi mesi fa come il sicuro candidato premier dei grillini alle prossime elezioni, è altrettanto circospetto. Nessuno, per ora, ha chiesto la fine anticipata della legislatura e nuove elezioni. Conviene non identificarsi totalmente con la campagna del No perché in ogni discussione di merito l’elettorato e la base di M5S tendono a dividersi: così è stato sulle unioni civili o sull’immigrazione, così potrebbe essere anche sulla riforma della Costituzione, come dimostrano i sondaggi che danno una parte di elettori grillini tentati dal voto favorevole. Non conviene partecipare alla campagna referendaria mescolandosi agli altri leader del No: Salvini, Renato Brunetta e Massimo D’Alema. Per fedeltà al dogma del Movimento, mai fare alleanze con altri partiti, e perché non si partecipa a un fronte così trasversale e variegato se la vittoria non è poi così sicura. Si sa, meglio vincere da soli che perdere insieme ad altri.

Combattere l’avversario negando la sua dignità. È una china italiana e mondiale. Che uccide la democrazia
Conviene, infine, ma nessun grillino lo confermerà mai, tenere in vita la legge elettorale Italicum, piuttosto che assistere a una modifica che avrebbe l’obiettivo di rendere impossibile una vittoria elettorale di M5S, anzi, di consegnarlo all’irrilevanza parlamentare. A differenza di Renzi, che è condannato a vincere pena la catastrofe politica, il Movimento ha due risultati a disposizione: vincere, ovviamente, ma anche arrivare secondo, egemonizzando però tutto ciò che sta all’opposizione del premier.

Il successo del Sì spingerebbe Renzi a blindare l’attuale sistema: legge elettorale a doppio turno, premio di seggi al partito che arriva primo, un largo numero di eletti per chi arriva secondo, le elezioni che si trasformano in un duello tra due listoni nazionali. In questo momento ne esistono solo due: il partito di Renzi e i Cinque Stelle. Per questo, l’atteggiamento di M5S in questa campagna referendaria sembra ripercorrere quello tenuto da Renzi durante le elezioni amministrative. Il premier si fece vedere in campagna elettorale, a Roma e a Torino, per lo spazio di una serata: per non mettere la faccia su un risultato che prevedeva negativo per lui e per il suo partito, certo, ma soprattutto perché riteneva di giocarsi la partita decisiva sul referendum.

Allo stesso modo i grillini si sono spesi allo stremo in primavera sulle elezioni amministrative e appaiono molto meno appassionati ora che si vota sulla riforma della Costituzione. Il Movimento che dice no è riluttante ad assumersi la leadership del No, ancora vacante. Il Movimento che è nato nelle piazze e sulla Rete sposta le sue battaglie nelle aule parlamentari e attende il 4 dicembre con apparente noncuranza. Il Movimento che disprezzava le alchimie della politica si muove con un occhio al No e uno al Sì, per tenere unito il suo elettorato e preparare lo scontro finale, alle elezioni politiche. In altri tempi, si sarebbe definita posizione agnostica. M5S gioca di attesa. E il fronte del No, privato dell’onda d’urto grillina, teme di scoprirsi più debole.

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Da - http://espresso.repubblica.it/palazzo/2016/11/01/news/referendum-la-grande-assenza-del-m5s-1.287021?ref=fbpr


Titolo: Marco DAMILANO - Preferivate Renzi o la grande bonaccia?
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 06, 2017, 02:36:52 pm
Politica   
Preferivate Renzi o la grande bonaccia?
Al posto del temuto Giudizio Universale del dopo-referendum arriva a sorpresa la Grande Restaurazione: il congresso di Vienna dopo la caduta del Napoleone di Rignano sull’Arno

Di Marco Damilano   
03 gennaio 2017
   
«Ricostruire da zero Stromboli. Ricostruire da zero l’Italia. Un nuovo modo di vivere, una nuova luce, nuovi abiti, nuovi suoni, un nuovo modo di parlare, nuovi colori, nuovi sapori... Tutto nuovo!». Era il 1993, Nanni Moretti affidava al personaggio del sindaco di Stromboli in “Caro Diario” il manifesto ideale degli anni che sarebbero venuti: fare tabula rasa del vecchio, ricostruire da zero, tutto nuovo. E vennero i sindaci e la fantasia al potere nelle città, e poi l’Imprenditore con il suo nuovo modo di parlare in politica, i nuovi suoni, i nuovi inni: «Forza alziamoci, il futuro è aperto entriamoci...».

E ora invece il futuro si chiude, con il 2017 si avverte inconfondibile l’atmosfera dell’indietro tutta, il cambiare verso ma in retromarcia, la nostalgia dell’antico, il fascino imprevisto della conservazione. Sigillato il 20 dicembre dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo discorso nel Salone dei Corazzieri del Quirinale alle alte cariche dello Stato, finora il più importante del suo settennato. Quando al tirar le somme di un anno drammatico, vissuto sullo scontro da fine-mondo sul voto referendario, il Capo dello Stato ha soavemente sepolto trenta, forse quarant’anni di progetti, propositi, velleità di Riforma costituzionale. «Il testo vigente - conservato inalterato dal voto popolare - costituisce la Costituzione di tutti gli italiani, che tutti dobbiamo amare e rispettare», ha scandito con mitezza Mattarella. Allitterazione a parte (costituisce la Costituzione), sono parole definitive, pronunciate di fronte a una platea di ministri, parlamentari, vertici militari, prefetti, magistrati, alte burocrazie: il Contesto che regge e governa lo Stato. «Il testo conservato inalterato dal voto popolare». Quella riga (il testo conservato, anzi, di più, inalterato, ovvero non alterato, non adulterato, integro, intatto, per di più con il voto popolare), avverte che siamo giunti all’ultima stazione di un lungo percorso che non ha portato da nessuna parte. La transizione italiana, per ora, si ferma qui, al punto di partenza. Addio nuovo.

Per capire quale sia lo stato d’animo degli inquilini del Palazzo devi raccogliere le confessioni di un ministro, riconfermato nel governo Gentiloni: «Con Matteo Renzi il Consiglio durava un quarto d’ora, parlava solo lui. Quando qualcuno di noi si dilungava a presentare un provvedimento veniva subito interrotto: “Faccio io la sintesi!”. I minuti finali li dedicava a darci i compiti mediatici: “Tu vieni con me in conferenza stampa. Tu invece vai questa sera in tv, da Vespa. E domani fai un’intervista con un quotidiano del Nord...”. Da quando c’è Paolo, abbiamo ripreso a parlare tutti...». O quelle del dirigente di un’importante azienda pubblica: «C’è un clima di sollievo. Fino a qualche settimana fa ogni iniziativa doveva essere comunicata a Palazzo Chigi e se Renzi decideva di partecipare doveva essere mediaticamente trasformata in un evento, “senza precedenti”, si capisce. Ora siamo tornati alla normalità...».

Al posto del temuto Giudizio Universale del dopo-referendum arriva a sorpresa la Grande Bonaccia. La Tregua. La Restaurazione, forse: il congresso di Vienna dopo la caduta del Napoleone di Rignano sull’Arno. «I vostri sovrani, nati sul trono, possono lasciarsi battere venti volte e rientrare sempre nelle loro capitali», aveva confidato l’Imperatore francese al conte di Metternich nel 1813. Una lezione destinata a durare: il leader che non è «nato sul trono» per rimanere al potere è costretto al movimento perpetuo, alla destabilizzazione di ciò tutto che è ordine costituito, istituzione. A essere sempre nuovo: il Nuovo.

Il referendum del 4 dicembre ha sconfitto, anzi, ha travolto questa idea di cambiamento perenne provocato dall’alto, da una leadership personalistica e ambiziosa. Ma il ritorno al Vecchio non riguarda solo la politica italiana. Perché anche la novità più dirompente di questo tempo, l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca, «non è tanto sisma quanto sismografo dei mutamenti sociopolitici in corso. I quali, almeno in America e in Occidente, si profilano come tecnicamente reazionari», si legge nell’editoriale dell’ultimo numero di “Limes” (11/2016). Una reazione contro la globalizzazione che «negli anni Novanta era asso pigliatutto, misura di tutte le cose». Oggi invece si indeboliscono i flussi finanziari, i traffici internazionali, gli investimenti esteri. Tornano gli interessi nazionali: come prima, più di prima.

In Italia il fenomeno significa la chiusura di una lunga stagione che ha preceduto il Pd renziano, il Movimento 5 Stelle, e anche il berlusconismo. L’ideologia del Nuovo (le nuove istituzioni, i nuovi partiti, le nuove leadership, i nuovi comportamenti politici) ha modellato tutte le identità politiche degli ultimi decenni: la sinistra, la destra, il centro. Nuova la Grande Riforma istituzionale lanciata nel dibattito da Bettino Craxi con un articolo sul quotidiano del Psi “L’Avanti” intitolato “Ottava legislatura” il 28 settembre 1979: «Una legislatura già nata sotto cattivi auspici vivrà con successo se diventerà la legislatura di una grande Riforma che abbracci l’ambito istituzionale, amministrativo, economico-sociale e morale». Parole riprese in modo letterale da Renzi durante la presentazione del suo governo al Senato il 24 febbraio 2014: «Propongo a questo Senato di essere la legislatura della Svolta». Nel frattempo però le legislature erano diventate diciassette.

Il Nuovo è stato il mito fondativo delle leadership degli ultimi decenni. Ciriaco De Mita, combattivo, orgoglioso (e alla fine vincente) sostenitore della conservazione della Carta con Renzi nello studio tv di Enrico Mentana, spiegò l’11 aprile 1983 in un colloquio con Eugenio Scalfari su “Repubblica” la novità della Democrazia cristiana da lui guidata: «Destra e sinistra sono schemi mistificanti. Non ci si distingue più in quel modo. La vera dialettica è tra vecchio e nuovo». (Intervista lungimirante, perché De Mita consegnava a Scalfari un suo tormento: «Temo il rifiuto della politica per colpa dei politici. Badi, il qualunquismo di trent’anni fa riguardava gruppi sociali culturalmente impreparati, ma oggi il rifiuto della politica è un campanello d’allarme molto più preoccupante perché proviene da gruppi sociali avvertiti, culturalmente e professionalmente qualificati». L’anti-politica sembrava lontana, Beppe Grillo faceva il comico. E commentò negli studi Rai qualche settimana dopo il tracollo elettorale della Dc di De Mita, due milioni di voti persi, in un’atmosfera da lutto televisivo nazionale: «Calma, ci sono gli ultimi seggi di Lourdes e Fatima, chissà, un miracolino...»).

Nuova fu la Svolta di Achille Occhetto, la Cosa post-comunista, nata dopo il crollo del muro di Berlino nel 1989. «Un nuovo inizio che ha in sé il meglio della nostra tradizione», la definì con un capolavoro di illusionismo verbale (il nuovo è il meglio del vecchio) il leader di fronte al Comitato centrale del Pci inferocito per aver appreso del cambio del nome e del simbolo senza una discussione. Al successivo congresso di Bologna, nel 1990, Occhetto volò ancora più in alto, citando l’Ulisse di Alfred Tennyson: «Venite amici/ che non è mai troppo tardi per scoprire un nuovo mondo./Io vi propongo di andare più in là dell’orizzonte conosciuto...». Oltrista, fu definita la creatura di Occhetto, la Quercia che per fare il partito nuovo si apriva alla società civile e si batteva per la riforma del sistema politico, il triangolo magico del rinnovamento a sinistra negli anni Novanta e Duemila, dall’Ulivo fino al Pd. Svoltista, anzi, nuovista, neologismo inventato dal “Manifesto” e fatto proprio dai nemici del leader. «Sei tecnicamente obsoleto», gli dirà Massimo D’Alema al momento di spodestarlo dalla segreteria nel 1994, ma il discorso con cui il lider Maximo lancia la sua candidatura alla segreteria è una requisitoria contro «il nuovismo esteriore di chi sostiene che è finita l’epoca dei partiti politici e che essi hanno un senso soltanto come partito del leader». Notazione destinata a una certa fortuna. E anche D’Alema userà la categoria del Nuovo quando toccherà a lui la conquista del potere: «la nuova Italia per la nuova Roma», fanno scrivere sotto la sua foto da candidato al consiglio comunale di Roma nel 1997 gli spin Claudio Velardi e Fabrizio Rondolino (nella battaglia referendaria del 2016 iper-renziani). E la riforma costituzionale della Bicamerale da lui presieduta è, inutile dirlo, la «Grande occasione». Perduta.

Nuovo è, e figuriamoci, il Cavaliere dell’eterno presente che dal 1994 scende in campo in politica, lui il nuovo che avanza preconizzato da Michele Serra. Il mix perfetto dell’impresario: serialità e novità, essere sempre uguali e sempre nuovi, ricominciare sempre da zero, il berlusconismo non ha mai un passato, declina i tempi al futuro, è un eterno presente, è il colpo di lifting permanente che restituisce come nuovo il leader al suo popolo. E nuovi, nuovissimi gli ultimi arrivati, il grillismo che vuole aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno, il renzismo della rottamazione dove tutto è inedito, mai visto, mai udito, «siamo quelli che non c’eravamo prima», ripete il sindaco di Firenze al momento della scalata al potere nazionale. L’anagrafe come garanzia di novità e di purezza. Conclusa nel rovescio del 4 dicembre.

Nessun Paese ha consumato tante leadership nuove, e in così poco tempo, come l’Italia. Esaurita l’analisi del voto referendario bisognerà pur chiedersi se dopo tanto discorrere, ci sia qualcosa di più profondo nella vittoria massiccia del No. La diffidenza, se non il rifiuto, verso la parola Riforma, che negli anni Settanta e Ottanta significava miglioramento delle condizioni di vita e oggi per molti si è capovolta in un annuncio di peggioramento: meno diritti, più precarietà. E la bocciatura del Nuovo e dei novatori, all’interno di una situazione troppo grande per loro. «Negli ultimi decenni abbiamo assistito a un rovesciamento semantico per cui con rivoluzione si intende in realtà il suo contrario, la distruzione di ogni progetto, di ogni sviluppo coerente di visione del futuro. Una specie di anti-rivoluzione o rovesciamento del pensiero rivoluzionario concepito come passaggio da 2.0 a 2.1...», ha scritto lo storico Paolo Prodi appena scomparso in uno dei suoi ultimi libri, “Il tramonto della rivoluzione”. È il nuovo senza progetto che consuma se stesso e provoca le cause della sua dissoluzione.

Tornerà nel 2017, forse, la legge elettorale proporzionale. E i governi di coalizione. E il manuale Cencelli per fare le nomine (ammesso che sia mai caduto in disuso). E i ministri senza portafoglio. E i vertici notturni. E le verifiche programmatiche. E i caminetti dei capicorrente, che possono lasciarsi battere venti volte e sempre rientrare, come monarchi decaduti. Tutto questo, però, non basterà a restituire all’Italia la felicità perduta. E di tutto questo, almeno in parte, porta la responsabilità il nuovo avanzato, che non avanza più.

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03 gennaio 2017

Da - http://espresso.repubblica.it/palazzo/2016/12/29/news/preferivate-renzi-o-la-grande-bonaccia-1.292509?ref=HRBZ-1



Titolo: Marco DAMILANO - Quattro leader stanchi per le città al voto
Inserito da: Arlecchino - Giugno 11, 2017, 05:58:20 pm
AMMINISTRATIVE 2017

Quattro leader stanchi per le città al voto
Le elezioni di domenica, che coinvolgeranno nove milioni di italiani, sembrano non interessare i partiti, che dopo il naufragio del sistema tedesco pensano solo all'appuntamento nazionale.
Domenica 11 dalle 23 analisi e commenti sul voto

DI MARCO DAMILANO
09 giugno 2017

Nel bel mezzo di uno scontro politico termo-nucleare, la tela del Gbr (il Grillo-Berlusconi-Renzi) che si lacera nell'aula di Montecitorio, l'Accordone sulla legge elettorale tedesca strappato con un giro di valzer all'italiana, di quelli che durante le guerre ottocentesche e novecentesche hanno fatto impazzire austriaci e germanici, l'Italia che non conclude mai un conflitto con gli stessi alleati con cui l'ha iniziato, ecco – ce lo siamo tutti dimenticato – arriva anche il turno delle elezioni amministrative.

Nulla in confronto alle elezioni inglesi con la resurrezione della sinistra, la new old left di Jeremy Corbin, o il primo turno delle legislative francesi con la leadership di Emmanuel Macron, d'accordo. Ma in ogni caso nove milioni di elettori al voto, sessantaquattromila candidati, oltre mille comuni, venticinque di capoluogo: tra questi Genova, Palermo, Parma, Verona. E poi Padova, la Taranto dell'Ilva, la Trapani degli scandali politico-mafiosi, L'Aquila del dopo-terremoto mai iniziato. E Lecce, Frosinone, Lucca, Piacenza, Gorizia...

Verona al voto, divisa più che mai
La Lega ha perso il suo ruolo centrale. E il risultato è del tutto imprevedibile. 
Con sei possibili ballottaggi

Elezioni quasi dimenticate dai leader. Troppo impegnati a Roma, a organizzare la data del voto nazionale, il 24 settembre molto gettonato è naufragato alla Camera con il voto segreto del Trentino. Pochissimi comizi: ancora una volta, come successe nel 2013, in piazza si è visto quasi unicamente Beppe Grillo, in Sicilia e in Piemonte, a Taranto dove si era avventurato in solitudine nel gennaio 2013. Ma le piazze non sono piene come allora e il comico trasformato in capo-partito se n'è lamentato.

Federico Pizzarotti
Parma, le elezioni comunali dell'incertezza: tra ex grillini, Pd spaccato e destra nel caos

Pizzarotti e la sua lista di fuoriusciti del M5S. I democratici divisi. Il centrodestra in mezzo al guado e i grillini ridotti a poca cosa. Nella città emiliana le prossime comunali sono un vero terno al lotto
Cinque anni fa furono proprio le elezioni amministrative nelle stesse città in cui si torna a votare domenica 11 giugno a lanciare il Movimento 5 Stelle. Vittorioso al ballottaggio a Parma, città simbolo, nell'Emilia rossa ma governata da un centro-destra spendaccione e indagato, con il debuttante assoluto Federico Pizzarotti. Una vittoria clamorosa, in quel 2012 che funzionò da incubatore di tanti fenomeni: governava Mario Monti con i suoi tecnici, i partiti della maggioranza, l'Abc (Alfano-Bersani-Casini, che potenza evocativa questi acronimi!) aspettava anche allora, come oggi, la data del voto. E intanto M5S conquistò Parma. Quel pomeriggio, alla conferenza stampa post-voto, il segretario del Pd Pier Luigi Bersani si presentò nella sala di largo del Nazareno. Non lo dirà, pensai quando entrò sotto le telecamere, non farà l'errore di dirlo... E invece lo disse: «Non è vero che il Pd perde ovunque contro Grillo. A Garbagnate e a Budrio abbiamo vinto». Soddisfazioni.

Qualche mese fa, lanciando la sua candidatura a premier del centrosinistra contro Bersani, il sindaco di Firenze Matteo Renzi spiegò: «Ho deciso di candidarmi dopo la sconfitta di Parma. Non voglio che succeda anche a livello nazionale: sogno un Pd che vince con il 40 per cento, non uno che perde contro Grillo con il 25».

Le elezioni dell'11 giugno non avranno lo stesso significato e le stesse conseguenze, ma sono importanti per valutare lo stato di salute dei quattro partiti che avevano firmato il patto sul sistema elettorale tedesco, tradendolo alla prima curva. Grillo non è più un outsider, rischia di non andare ai ballottaggi nei comuni più importanti, amara rischia di essere Parma, dove Pizzarotti nel frattempo uscito dal Movimento dopo essere stato sospeso minaccia di vincere senza il Movimento (c'è vita fuori da M5S), amarissima forse la sua Genova, dove il fondatore del Movimento è arrivato a capovolgere il risultato della Rete per portare al comune la candidatura di Luca Pirondini.

Genova, corsa a tre per la poltrona di sindaco: tra Pd e M5s, la destra gode
Il tribunale dà ragione alla candidata esclusa dal Movimento 5 Stelle, che ora dovrà affrontare il problema. E mentre anche la sinistra si spacca, a poter fare il colpaccio nella roccaforte rossa è la destra
Berlusconi corre con il centrodestra unito a Genova con Marco Bucci (competitivo), in apparenza unito a Padova con l'uscente leghista Massimo Bitonci che però fu sfiduciato dai forzisti, sotto mentite spoglie e trainato da Totò Cuffaro a Palermo, con Marco Ferrandelli (che cinque anni fa era il candidato del Pd di Bersani). Salvini deve difendere le roccaforti leghiste e sconfiggere il fuoriuscito e nemico Flavio Tosi che a Verona corre con la candidatura della fidanzata Patrizia Bisinella, senatrice che a Roma appoggia il governo Gentiloni, o comunque non vota la sfiducia.

Renzi è alla sua prima vera prova elettorale da semplice segretario del Pd, senza la presidenza del Consiglio, senza il doppio incarico. Non si è dedicato molto alla campagna elettorale: pochi i tweet, le comunicazioni social, i discorsi indirizzati all'elettorato. Forse perché nelle grandi città al voto è rispuntata la cara vecchia coalizione di centrosinistra. A Genova, per sostenere Gianni Crivello, assessore del Pd, uomo del cuore rosso antico della città, più Corbin che Macron, si sono mobilitati Bersani e Massimo D'Alema, gli scissionisti: è uno di loro, della Ditta.
Elezioni comunali a Palermo: i partiti cambiano ma i candidati restano gli stessi

Cinque anni dopo, i sondaggi per le amministrative danno ancora per favoriti Leoluca Orlando e Fabrizio Ferrandelli. Stesse facce ma con casacche diverse, come nell'Opera dei pupi
A Palermo il Pd è sparito nelle accoglienti liste civiche che appoggiano l'eterno Leoluca Orlando, sindaco già nel 1985 con la Dc, quando Renzi aveva dieci anni. In qualche altra città si sperimenteranno alleanze spurie con pezzi di Forza Italia, ma al ballottaggio. E c'è l'attesa di un risultato positivo per il Pd che rilanci il partito dopo le batoste di un anno fa (Roma e Torino alle sindache di M5S) e del referendum elettorale. C'è aria di macchine stanche, di apparati arrugginiti, di leader svogliati. Di sciogliete le righe in vita di elezioni nazionali che sembravano vicine e che si sono all'improvviso allontanate. E poi ci sarebbero le città con i loro problemi, le speranze, le sofferenze, il territorio nazionale cicatrizzato a stento dopo mille ferite e da ricostruire. Ma di questo quasi nessuno ne ha parlato. E dopo la notte di domenica si tornerà alla Camera. A ricominciare la guerriglia sulla legge elettorale.

AMMINISTRATIVE 2017
© Riproduzione riservata 09 giugno 2017

Da - http://espresso.repubblica.it/palazzo/2017/06/09/news/quattro-leader-stanchi-per-le-citta-al-voto-1.303814?ref=HEF_RULLO


Titolo: Marco DAMILANO - PALAZZO Elezioni 2018, la carica dei micro partiti In vista
Inserito da: Arlecchino - Settembre 25, 2017, 11:31:09 am
PALAZZO
Elezioni 2018, la carica dei micro partiti
In vista delle politiche del prossimo anno si moltiplicano le piccole formazioni. Che erodono i voti alle grandi. Ecco perché costruire una maggioranza diventa sempre più difficile.

DI MARCO DAMILANO
21 settembre 2017

Il 29 settembre si ricomincia, con tutta la solennità che merita l’evento. Istituto Luigi Sturzo, nel cuore di Roma, tra la Camera e il Senato, nel palazzo in cui riposano le carte e sono conservati gli archivi di alcuni tra i più importanti leader democristiani, compreso Giulio Andreotti. Qui si ritroveranno Paolo Cirino Pomicino, classe 1939, e Ciriaco De Mita, che il 2 febbraio compirà 90 anni e intende festeggiar li come ha trascorso quasi tutta la sua esistenza: in campagna elettorale, a contatto con la sua gente, forse addirittura da candidato, a caccia di voti. In una formazione che dovrebbe pescare in quell’area indistinta tra quello che fu l’Udc di Pier Ferdinando Casini e l’Ncd-Ap di Angelino Alfano, in via di sbriciolamento a destra e a sinistra. E poiché partito chiama partito e corrente chiama corrente, ecco la riunione, il giorno dopo, dei cattolici democratici che militano nel Pd e nel centrosinistra riuniti attorno all’associazione Argomenti 2000 e al deputato Ernesto Preziosi.

Dopo un quarto di secolo rinasce la Dc e questa forse è la volta buona, dopo tanti tentativi falliti negli ultimi venti anni. C’è la legge proporzionale, e poi una soglia di sbarramento quasi impercettibile, del tre per cento alla Camera, se non ci sarà nessuna riforma elettorale, e in tanti sperano di superarla. Perfino Matteo Renzi parla di alleanze da fare in Parlamento dopo il voto. E allora perché mai non dovrebbe presentarsi, anzi concorrere, si usava dire nel linguaggio dei cavalieri antichi, un partito dichiaratamente democratico-cristiano, proprio ora che dopo la parentesi chiamata Seconda Repubblica quel modo di fare politica torna prepotente e vincente?

Sono le foto di gruppo che arrivano dalla Sicilia, dove le liste per le elezioni del 5 novembre si moltiplicano e un creativo come l’ex presidente della regione poi condannato per favoreggiamento alla mafia Totò Cuffaro immagina il voto disgiunto, Vittorio Sgarbi per la presidenza della regione e la formazione dell’ex rettore dell’università di Palermo Roberto Lagalla che corre per il centrodestra per i candidati all’Assemblea regionale. E la moltiplicazione dei partiti che sul piano nazionale si sta già sviluppando a destra, a sinistra, al centro, l’effetto classico del formicaio impazzito. Il risultato è stato fotografato dai primi sondaggi della ripresa autunnale, firmati da Ilvo Diamanti e da Nando Pagnoncelli. Sarebbero almeno sei i partiti a superare la soglia di sbarramento del tre per cento prevista alla Camera dall’attuale legge elettorale: M5S (primo partito virtuale), Pd, Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia, Mdp. E altri tre o quattro sono quelli compresi tra il due e il tre per cento, con l’ambizione dunque di superare il muro che divide il paradiso dell’accesso in Parlamento dall’inferno dell’esclusione: Alternativa popolare di Angelino Alfano, Sinistra italiana di Nicola Fratoianni, Campo progressista di Giuliano Pisapia, da solo, senza allearsi con Mdp.


Il dato più importante e nuovo, però, non è l’elenco dei partiti in aumento, tutti attratti dal miraggio di superare la soglia di sbarramento, ma il consenso per le liste maggiori che si va assottigliando di mese in mese. Il Pd era al 30 per cento un anno fa, prima della sconfitta al referendum costituzionale del 4 dicembre e della scissione di Pier Luigi Bersani, è sceso al 28 per cento a maggio, ora supera di poco il 26. M5S si appresta a scegliere Luigi Di Maio come candidato premier, fino a pochi mesi fa sarebbe stato un passaggio che i poteri politici e economici avrebbero seguito con attenzione spasmodica, provando a capire se i post-grillini avevano davvero le carte in regola per Palazzo Chigi. Ora la nomina di Di Maio è stata assorbita con uno sbadiglio, si parla di un partito che oscilla tra il 28 e il 26 per cento, in discesa, comunque lontano dalla prospettiva di governare da solo. Numeri che rivelano come, dopo una legislatura di scontri furibondi su ogni aspetto dello scibile e del vivere umano, dal maltempo ai vaccini, i due principali partiti italiani siano tornati più o meno alle percentuali di cinque anni fa, il punto di partenza. Insieme Pd e M5S arrivano a stento a rappresentare la metà dell’elettorato. Alle loro spalle la situazione non cambia: c’è il derby nel centrodestra tra Forza Italia e la Lega di Matteo Salvini, ma a quote modeste. I due partiti mettono insieme tra un quarto e un terzo dell’elettorato, soltanto uniti a Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni superano il 30 per cento e si avvicinano al 35. In ogni caso, molto lontani dal premio di maggioranza che tocca a chi supera il 40 per cento del voto di lista per la Camera nell’attuale legge elettorale.

Aiuto, mi si sono ristretti i partiti. I grandi sono diventati piccoli. I medio-grandi sono scesi a medio-piccoli. E i piccoli sono decisamente troppi. Ad ammetterlo è il testimone più inaspettato, il segretario del Pd Renzi: «Il nostro zoccolo duro è tra il 20 e il 25 per cento. Partiamo da lì», analizza l’ex premier studiando i sondaggi. Si può crescere, certo, ma sono le percentuali che aveva il Pd di Bersani e che il sindaco rottamatore Renzi all’epoca considerava misere. La metà, in ogni caso, dell’ormai mitologico 40 per cento conquistato alle elezioni europee del 2014.

È la fotografia di uno stallo dell’elettorato che spiazza sia i fautori del maggioritario - quelli che la notte delle elezioni bisogna sapere chi ha vinto al primo exit poll - sia i pasdaran della Grande coalizione, quelli che tifano per un nuovo patto del Nazareno, l’accordone tra Pd e Forza Italia, tra Renzi e Berlusconi, in nome delle riforme, da fare in Parlamento, lontano dagli elettori. Il caos italiano mette fuori gioco sia gli anglosassoni, che sognavano di trasformare Montecitorio in Westminster (è quasi avvenuto il contrario: il Parlamento inglese rischia di somigliare a quello italiano), sia i presidenzialisti alla francese o all’americana, sia gli innamorati del modello tedesco e delle grandi coalizioni della Germania di Angela Merkel.

Il sistema maggioritario, infatti, non esiste più, il bipolarismo è stato cancellato dall’avvento del terzo incomodo, il movimento di Beppe Grillo e di Davide Casaleggio che impedisce la sfida a due centrosinistra-centrodestra, e non ritornerà senza una legge che premi il primo classificato o riduca a due nel ballottaggio i contendenti come succede nella Francia del sistema elettorale a doppio turno, e come prevedeva l’Italicum bocciato dalla Consulta (e non dal voto degli italiani, come ripetono gli ultrà renziani). Anche in Francia, nel primo turno delle elezioni presidenziali, il voto si era diviso: Emmanuel Macron aveva raccolto il 24 per cento, Marine Le Pen il 21. Ma fa parte del gioco, le alleanze si fanno nelle urne nel secondo turno e sono gli elettori a dare le carte e a confluire sui due candidati che sono rimasti nella partita. Il sistema presidenziale, cui si allude da almeno dieci anni con l’introduzione delle primarie per la scelta del candidato-premier, o con l’inserimento del nome del leader nel simbolo elettorale, non esiste in Italia e non ci sarà nelle prossime elezioni: fasullo il problema del candidato premier, in un sistema proporzionale Renzi, Di Maio, Salvini o il nome prescelto da Berlusconi per guidare Forza Italia al posto suo, Antonio Tajani o Paolo Del Debbio o Mara Carfagna, possono essere al massimo capilista, volti mediatici da spedire nei talk, ma non possono aspirare a una legittimazione diretta dell’elettorato. Non lo prevede la Costituzione, che assegna il potere di designare il presidente del Consiglio al presidente della Repubblica, e neppure la logica numerica e politica dell’attuale legge elettorale.

I grandicoalizionisti, i sostenitori del Nazareno-bis tra Renzi e Berlusconi, sono invece smentiti nei desideri di una nuova alleanza Pd-Forza Italia dall’aritmetica: la sommatoria di una coalizione Renzi-Berlusconi si ferma nel migliore dei casi al 42 per cento. Se un simile partito si presentasse alle urne, per ipotesi di scuola, prenderebbe a malapena il premio di maggioranza. Ma poiché nella realtà questa alleanza elettorale non esiste, bisogna rassegnarsi all’evidenza che senza fatti nuovi i due partiti insieme controlleranno solo un pezzo minoritario di Parlamento. Per arrivare alla maggioranza dovranno trovare nuovi compagni di strada, cioè fare le alleanze che sono odiate da Renzi almeno quanto da M5S. Per ora la grande coalizione di cui si parla non è grande e non è neppure coalizione. È piccola, piccolissima.

È l’effetto della difficoltà dei partiti principali, ma anche della proliferazione dei micro-partiti che erodono il consenso alle forze più grandi. La nascita al centro di un partito neo-democristiano, con o senza Alfano, minaccia di togliere qualche altro voto prezioso a Forza Italia e perfino al Pd. La marcia su Roma minacciata da Forza Nuova per l’anniversario dell’avvento del fascismo, o le azioni di Casa Pound, sono il segnale che la campagna elettorale è cominciata anche per le forze di estrema destra: vanno anche loro a caccia del tre per cento, strappano consensi a Giorgia Meloni, ma potrebbero anche pescare nell’elettorato più arrabbiato e radicale del Movimento 5 Stelle.

A sinistra, infine, tutti a parole giurano di voler sostenere Giuliano Pisapia, ma a indicare la strategia ci pensa Massimo D’Alema: scontro voto su voto, casa su casa, per portare voti da Pd e Mdp, utili per eliminare Renzi. Anche l’ex sindaco di Milano è ormai rassegnato a questo esito: «Con la proporzionale il nostro ruolo è quello di sfidanti del Pd. Siamo antagonisti con Renzi», ripete Pisapia davanti alle platee delle feste del Pd. Qualche sera fa si è confrontato con Graziano Delrio alla festa di Reggio Emilia, un duello felpato tra due personaggi simili (due ex sindaci, medico il ministro, avvocato il leader di Campo progressista, amici di Romano Prodi, sobri e solo in apparenza dimessi). È stata «una fumata grigia», ha scritto la “Gazzetta di Reggio”, la tonalità preferita dai due, che però potrebbe tornare utile nello scenario post-elettorale, quando «sarà la coalizione a decidere chi è il premier», ha detto Pisapia e «Renzi sceglierà per il bene del Paese», si è smarcato Delrio, ammettendo che la questione di chi sarà il nome per Palazzo Chigi dopo il voto c’è e non è affatto scontato che la scelta sia quella del segretario del Pd. Anche perché un presidente del Consiglio c’è, Paolo Gentiloni, e altri nomi potrebbero aggiungersi, da Marco Minniti allo stesso Delrio.

Di certo il maggioritario è morto e anche la grande coalizione non sta molto bene. E chi vorrà fare un governo nella prossima legislatura, con la benedizione del Quirinale, dovrà armarsi di pazienza e di microscopio. Incollare i pezzetti, come un collage, incastrare i tasselli, come un mosaico. Nella nuova stagione dei micro-partiti le maggioranze si faranno così. E chi pensava di essere autosufficiente, termine che in politichese allude alla pretesa di onnipotenza, di comandare da soli, è destinato ad accelerare la frantumazione. La complessità di una politica composta di piccoli partiti e forse anche di piccole idee, piccoli leader. Il caos.
POLITICHE 2018

© Riproduzione riservata 21 settembre 2017

Da - http://espresso.repubblica.it/palazzo/2017/09/21/news/elezioni-2018-la-carica-dei-micro-partiti-1.310201?ref=HEF_RULLO


Titolo: Marco DAMILANO - L'occasione perduta
Inserito da: Arlecchino - Novembre 07, 2017, 11:56:46 am
ANALISI

L'occasione perduta
Dal voto siciliano escono una destra risorta e un Pd a pezzi.
Ma anche le elezioni del 2018 rischiano di trasformarsi per il partito di Renzi in un naufragio

DI MARCO DAMILANO

I dati delle elezioni regionali in Sicilia non sono ancora definitivi, ma già qualcuno azzarda a proiettarli sullo scenario nazionale. Con questi risultati, analizza Youtrend, 12 o 14 collegi siciliani andrebbero al centrodestra, 6 o 8 al Movimento 5 Stelle, zero al Pd. Nell'isola la somma dei voti conquistati da Nello Musumeci (centrodestra) e Giancarlo Cancelleri (M5S) fa settantacinque per cento. E la situazione del X municipio di Roma, Ostia, è riassunta così dal titolo di Repubblica.it : «Casapound decisiva per il ballottaggio M5S-Fratelli d'Italia». Un tempo l'ago della bilancia erano i centristi, i moderati alla Pier Ferdinando Casini, oggi l'equilibrio lo deciderà il neo-fascista Simone Di Stefano, chiamato a scegliere se appoggiare la candidata del movimento anti-politico o quella della formazione post-fascista.

La sinistra non è pervenuta, in tutte le sue molteplici e litigiose forme. Le elezioni del 5 novembre ricordano per certi versi le consultazioni amministrative dell'autunno 1993. Si votava a Roma, Napoli, Genova, Venezia, per l'ultima volta prima del voto politico dell'anno successivo, con una nuova legge elettorale appena approvata per fotografare gli equilibri esistenti, il Mattarellum, con la Dc in via di trasformazione verso il Ppi che puntava a essere il perno del nuovo assetto politico. Invece nel voto amministrativo il centro scomparve dai radar, escluso dai ballottaggi nelle principali città. A Roma la Dc si era affidata al prefetto Carmelo Caruso, che si piazzò distante dal verde progressista Francesco Rutelli e dal segretario del Msi Gianfranco Fini, ammesso per la prima volta al ballottaggio. Qualche giorno dopo Silvio Berlusconi dichiarò che se fosse stato un elettore romano avrebbe votato per Fini, e nacque il centrodestra italiano. La Dc, invece, restò fuori da tutto e dichiarò che a Roma avrebbe votato scheda bianca, così come oggi il Pd rifiuta di prendere posizione a Ostia. In Sicilia il rettore Fabrizio Micari è il nuovo prefetto Caruso.

«Dio si è voltato dall'altra parte», fu sentito mormorare il segretario della Dc dell'epoca Mino Martinazzoli. Chissà se Matteo Renzi farò altrettanto. Di certo è da un anno che per il leader del Pd non ne va bene una. Il referendum del 4 dicembre, la madre di tutte le sconfitte. Le elezioni amministrative, con la sconfitta di Genova. Le elezioni regionali in Sicilia. E, prima ancora, il voto del 2016 in cui il Pd perse Roma e Torino e restò fuori dal ballottaggio a Napoli. Più grave delle sconfitte elettorali, c'è il disorientamento strategico. Il Pd di Renzi, versione 40 per cento del 2014, puntava a raccogliere voti in tutte le direzioni: nel centrodestra lasciato orfano da Silvio Berlusconi, nel voto del 2013 per il Movimento 5 Stelle che ancora non si era consolidato, tra i moderati e i centristi. Scontando la possibilità di perdere qualche elettore a sinistra, anzi, sperando che questo potesse avvenire.

Oggi quella prospettiva è sparita: Renzi rientra nei confini del Pd 2012-2013, quello di Pier Luigi Bersani che l'allora sindaco di Firenze voleva rottamare. La destra è risorta, in tutte le sue incarnazioni. Forza Italia ha preso ieri una percentuale più alta del Pdl del 2012 guidato da Angelino Alfano. Matteo Salvini oltrepassa lo stretto. Il Movimento 5 Stelle in Sicilia è un partito di massa, l'unico in circolazione. A Ostia e non solo avanza una destra ancora più brutta e inquietante di quelle già conosciute.

In questa situazione diventa complicato giocare l'unica carta realisticamente a disposizione di Renzi: fare un passo indietro, rinunciare a correre da candidato premier e costruire una coalizione più grande, dal centro alla sinistra, guidata da Paolo Gentiloni. Perché il Pd sta male, ma anche la coalizione di centrosinistra dal voto siciliano esce a pezzi. Alfano perde in casa e non entrerà in Assemblea regionale. La sinistra di Claudio Fava anche se sommata al Pd non basterebbe per risalire dal terzo posto in Sicilia e probabilmente anche fuori. E così anche le elezioni del 2018 rischiano di trasformarsi per il Pd in un naufragio con spettatore, la metafora dell'esistenza di Hans Blumernberg. Laddove gli spettatori sono gli elettori del Pd, della sinistra, di Renzi, costretti ad assistere a un'inedita gara elettorale centrodestra-Movimento 5 Stelle, impotenti. E il quadriennio di Renzi assomiglia sempre di più a una grande occasione perduta.

© Riproduzione riservata 06 novembre 2017

Da - http://espresso.repubblica.it/palazzo/2017/11/06/news/l-occasione-perduta-1.313585?ref=fbpe


Titolo: Marco DAMILANO. Centrosinistra, Prodi si tira fuori dalla contesa: Una tragedia
Inserito da: Arlecchino - Novembre 12, 2017, 12:31:15 pm
Centrosinistra, Prodi si tira fuori dalla contesa: "Una tragedia, Italia al baratro"
Il retroscena. L'ex premier resiste a tutti i tentativi di coinvolgerlo nello scontro.
Il gelo con Renzi, il pessimismo sulla durata della nuova legislatura e quel richiamo a Ciampi: "Lui sapeva mettersi in discussione"

Di MARCO DAMILANO
09 novembre 2017

IERI mattina alle 12, quando Romano Prodi è sceso dal Frecciargento che lo portava da Bologna a Roma, ad accoglierlo al binario 3 ha trovato un operaio in tuta arancione che lo ha inseguito speranzoso: "Professo', così nun potemo annà avanti...". Il lavoratore è in buona compagnia, è solo l'ultimo a strattonare l'ex premier, il fondatore dell'Ulivo, a chiedergli un impegno diretto per evitare che il Pd e il centrosinistra si infrangano alle elezioni del 2018 sulla catastrofe della divisione annunciata.

Prodi è a Roma, ieri un giro intorno alla Camera, una tappa dal barbiere, qualche incontro riservato. Oggi parteciperà a un dibattito sull'Europa con il ministro Carlo Calenda e il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani, aperto da Paolo Gentiloni. Convegni, seminari, presentazioni di libri. Niente politica, però. Il Professore resiste, è sfuggito al pressing della minoranza Pd di Andrea Orlando che gli chiedeva una presa di posizione dopo il risultato delle elezioni siciliane: "Se dicessi anche una sola sillaba verrebbe interpretato come un mio desiderio di tornare in campo". In privato, confida la sua preoccupazione. "È una tragedia", dice agli amici più stretti. Parla dell'Italia, non del Pd, ma chissà che le due cose non coincidano. "Quale progetto ha l'Italia in Europa, nel Mediterraneo? Ne parlerà qualcuno nella prossima campagna elettorale? Qualche giorno fa un investitore di un importante fondo di Singapore mi domandava notizie su quello che succederà, ma tutto questo nel dibattito non entra, non esiste".

La tenda prodiana resta piantata lontana dalle vicende interne del centrosinistra. Almeno in apparenza. In realtà, c'è stato un momento prima dell'estate che sembrava potesse realizzarsi l'operazione nuovo Ulivo: un listone con il Pd di Matteo Renzi, la formazione di Giuliano Pisapia e gli scissionisti di Mdp (escluso D'Alema) per puntare al premio di maggioranza che sarebbe scattato superando la soglia del 40 per cento, prevista nella legge elettorale in vigore in quel momento, il Consultellum. Del nuovo Ulivo Prodi avrebbe fatto il padre nobile. Di questo avevano parlato il Professore e Arturo Parisi con Renzi il 16 giugno, l'ultimo faccia a faccia tra l'ex premier e il segretario del Pd. Renzi si era impegnato a tentare, poi è calato il gelo. La tenda di Prodi si è allontanata. E il Professore ha cominciato ad assistere con pari disincanto agli altri tentativi di cui pure qualcuno gli attribuisce la paternità: Pisapia e la sua lunga assenza dalla scena, Bersani e la sua voglia di rivalsa su Renzi, un'ipotetica lista europeista di Emma Bonino. L'approvazione del Rosatellum ha fatto il resto: "Non ci saranno coalizioni, ma al massimo apparentamenti ", osserva deluso Parisi. "Ci riproveranno a chiedere l'appoggio di Romano. Ma non c'è più tempo. E non c'è fiducia. Renzi non si fida troppo di noi e noi non ci fidiamo di lui", dice un prodiano di rango. Per ora, dunque, Prodi resta fuori. Al pari degli altri nomi che contano del ristretto club dei fondatori del Pd: Walter Veltroni, Enrico Letta.

Una sfiducia partita almeno un anno fa. Il 14 novembre 2016, nella Sala della Maggioranza in via XX Settembre, nel cuore del ministero dell'Economia, per commemorare Carlo Azeglio Ciampi a due mesi dalla scomparsa si riunì un parterre di relatori composto da Prodi, Mario Draghi, Giorgio Napolitano, Giuliano Amato, il ministro Pier Carlo Padoan, il governatore di Banca d'Italia Ignazio Visco, di fronte a Sergio Mattarella. C'era ancora il governo Renzi, ma nessun renziano di rango era presente in sala, nessun ministro tranne il padrone di casa Padoan e l'allora sottosegretario Claudio De Vincenti. Dal tavolo una commemorazione non formale. "Per decidere bisogna conoscere, per discutere bisogna accettare di essere messi in discussione ", disse Prodi. "Chiesi a Ciampi di entrare nel governo con profondo imbarazzo, perché era già stato presidente del Consiglio, lui accettò di scendere uno scalino, cosa non facile". Draghi elogiò il metodo Ciampi di leadership, "un particolare modo di gestire il governo, di lealtà e di rispetto tra i ministri", esaltando i risultati raggiunti dal governo Prodi. E Amato "la competenza tecnica e l'acume politico ".

Al referendum sulla Costituzione mancavano ancora due settimane, ma in quegli interventi c'era già il passo successivo, l'identikit e il profilo di un governante molto lontano da Renzi, più simile semmai a quello di Gentiloni, come se la vittoria del No fosse già stato acquisita. Lo strappo tra Renzi e un pezzo di establishment legato al centrosinistra e i padri fondatori del Pd si è consumato in quelle settimane. È prevedibile che nei prossimi giorni il pressing su Prodi si farà asfissiante, da parte di Renzi e dei bersaniani che lanciano Pietro Grasso. Ma la coalizione per ora non si vede ed è lontanissima dal nuovo Ulivo vagheggiato mesi fa. Non c'è un candidato premier e non c'è un'alleanza. E in tanti scommettono che la prossima legislatura sarà breve, brevissima, forse più corta di quelle 1992-94, 1994-96, 2006-2008. È più opportuno restare in attesa di un secondo giro, che potrebbe portare il nome di Mario Draghi. L'operaio del treno, insomma, dovrà ancora portare pazienza, e non solo lui. Sempre che, intanto, non venga giù tutto.

© Riproduzione riservata 09 novembre 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/11/09/news/centrosinistra_prodi_si_tira_fuori_dalla_contesa_una_tragedia_italia_al_baratro_-180622305/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P3-S1.8-T1


Titolo: Marco DAMILANO - Yalta 2018, il nuovo muro, l’Italia che non c’è ...
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 04, 2017, 11:17:35 pm
EDITORIALE

Yalta 2018, il nuovo muro, l’Italia che non c’è
Il mondo ha vissuto in questi anni un nuovo conflitto mondiale. Combattuto non più con gli eserciti e con le truppe di occupazione, ma con i mercati e con il terrorismo globale. Ha vinto la finanza, ha perso il ceto medio.
E oggi siamo alla ricerca di un nuovo ordine. Ma di tutto questo non si ha traccia nel nostro dibattito politico

DI MARCO DAMILANO
01 dicembre 2017

L’Italia fu il paese occidentale in cui gli effetti della Guerra fredda si fecero sentire più in profondità, assieme alla Germania. Come disse il presidente della Repubblica Francesco Cossiga in un’intervista a The Independent, era il 23 ottobre 1990, rilasciata alla vigilia della sua visita in Inghilterra: «Due paesi sono stati spaccati da una cortina di ferro: la Germania sul piano territoriale, e l’Italia politicamente, moralmente, ideologicamente. Io non so dove la cortina di ferro sia caduta più pesantemente. Non viene mai sottolineato che il crollo del muro di Berlino è anche il crollo di un muro invisibile. Oltre alla Germania, anche noi siamo stati liberati e riunificati. Anche per noi la guerra è quasi finita».

C’era un muro immateriale che tagliava in due il Paese. Nel 1945, nella grande spartizione del mondo tra le potenze anglo-americane e l’Unione sovietica di Stalin all’Italia, nazione sconfitta e devastata, era toccata la collocazione occidentale. Un’intera classe dirigente, politica, economica, imprenditoriale, culturale, Alcide De Gasperi e Raffaele Mattioli, Aldo Moro e Enrico Cuccia, Giulio Andreotti e Guido Carli, si abituò a muoversi per decenni all’interno di questo perimetro, chiedendosi quale ruolo potesse avere l’Italia in un campo di gioco ristretto ma strategico. Un ruolo importante, fondato sulla posizione geografica, la doppia frontiera tra est e ovest, l’Oriente interno rappresentato dal Pci, e tra nord e sud, tra l’Europa e il Mediterraneo. Chiara era la direzione di marcia, il modello sociale, il progetto in cui svolgere manovre, scontri di potere, richieste di voto. Così l’Italia che aveva perso la guerra vinse il dopoguerra, sviluppando un sistema industriale moderno che non aveva mai avuto e il sistema democratico garantito dai partiti e dalle istituzioni repubblicane e costituzionali. Una democrazia fragile, a sovranità limitata, perché gli accordi di Yalta non ammettevano forzature. E quando qualcuno provava a oltrepassare il confine, il muro invisibile, la reazione era immediata e brutale. Vedi il misterioso incidente di Enrico Mattei o le influenze esterne nei giorni del sequestro di Aldo Moro.

Appare indubitabile che il mondo abbia vissuto in questi anni un nuovo conflitto mondiale. A pezzetti, come ha detto Papa Francesco, asimmetrico, combattuto non più con gli eserciti e con le truppe di occupazione, ma con i mercati e con il terrorismo globale. Ha vinto la finanza, ha perso il ceto medio, in tutto l’Occidente. E oggi siamo alla ricerca di un nuovo ordine, una nuova Yalta, con i nuovi protagonisti raccontati sul numero dell'Espresso in edicola da domenica 3 dicembre da Dario Fabbri, Orietta Moscatelli e Federica Bianchi.

Nel 1945 i leader di Regno Unito, Unione Sovietica e Stati Uniti si riunirono per dividere il mondo in zone di influenza. Oggi altri tre grandi stanno provando a creare un nuovo ordine: Putin, Jinping e Trump. E c'è un grande assente: l'Europa e con lei l'Italia, dove questi temi non sono neppure sfiorati dalla campagna elettorale. La "nuova Yalta" è la copertina del nuovo numero dell'Espresso, che dedica ampio spazio ai ritratti dei nuovi potenti e alle loro idee e strategie. Poi l'inchiesta sulla commissione delle banche e i suoi silenzi; la caccia agli outsider da parte dei partiti; il reportage dalla Polonia, dove il movimento femminista è in prima linea per la difesa della democrazia da governo e fascisti. E infine l'intervista allo scrittore americano Lansdale realizzata da Gianni Cuperlo
   
L’America, potenza egemone del precedente assetto, vive una crisi interna, di identità e di missione nel mondo, simile a quella dell’Impero inglese settant’anni fa. Mantiene il suo status ma è avviluppata a Donald Trump come «marinai incatenati alla nave che affonda: non possono liberarsi e non ammetteranno mai che hanno un idiota al potere», lo dice Joe R. Landsdale a Gianni Cuperlo in un'intervista ospitata nel nuovo numero del nostro settimanale.

La Cina di Xi Jinping avanza la sua candidatura alla conquista perfino dell’immaginario globale, oltre che della tecnologia, della ricerca, della robotica. E Vladimir Putin occupa stabilmente il posto che fu dell’Urss, alla guida di una nuova «Internazionale dei regimi autoritari», come scrive Bernard Guetta. Alle loro spalle, anzi, al fianco, c’è l’immenso continente indiano del premier Modi.

C’è l’Africa che è il terreno di contesa tra le nuove superpotenze. Il rimescolamento delle alleanze in Medio Oriente porta a convergenze inaspettate: per Israele la Siria e Assad non sono più nemici, a mediare ci pensa Putin, che a Mosca riceve per la prima volta il monarca saudita Salman d’Arabia.

E poi c’è l’Europa con le sue divisioni.

Francia e Germania fanno sistema, uniscono le forze. Non è più un asse fondato su leadership e carismi personali, sulla memoria tragica del conflitto mondiale, come avvenne con Helmut Kohl e François Mitterrand, i due paesi mettono insieme le loro strutture statuali e economiche, si attrezzano a reggere urti e incertezze, come quella che ora avvolge il governo di Angela Merkel. Mentre il giovane Emmanuel Macron prova a dettare i tempi e i modi della nuova Europa: più protezione per i cittadini, perché l’Europa non può più essere avvertita come una matrigna lontana e cattiva, disinteressata alle sorti dei suoi cittadini, più sicurezza, con il progetto della difesa comune, più opportunità di ricerca e di investimenti tecnologici. Solo alla fine di questo percorso si può pensare a una riforma dei trattati, a cambiare il soffitto, il vertice della costruzione europea. Intanto Francia e Germania marciano unite in Africa, alla conquista di nuovi mercati e di nuove sfere di influenza.

Parliamo di questo in Italia? No. Di tutto questo non si ha traccia nel nostro dibattito politico, alla vigilia del voto 2018. Nelle cancellerie internazionali si guarda con interesse e curiosità, e con qualche preoccupazione, all’esito delle elezioni, «anche se sappiamo che gli italiani sono campioni nell’arte della resilienza», scherza un ambasciatore europeo di lungo corso spedito dal suo paese nella prestigiosa sede diplomatica a vigilare e informare su quanto si muove a Roma. È vero, ma l’assenza di dibattito sul ruolo dell’Italia nella nuova spartizione dovrebbe spaventare ben più dell’eventualità di restare senza un governo dopo il voto. Nel quadro della vecchia Yalta, in fondo, i governi andavano e venivano e poteva capitare che le crisi ministeriali durassero mesi, in modo indolore. Ma il sistema reggeva, all’ombra delle superpotenze e della presenza sul territorio nazionale del Vaticano e del papato, inteso non come guida della Chiesa universale ma come papa italiano, attore insieme globale e locale.

È un’altra carta che non c’è più. Il piemontese-argentino Jorge Mario Bergoglio è il meno italiano dei papi stranieri e dopo quarant’anni di assenza di italiani dal soglio di Pietro si prepara un conclave futuro dove i cardinali della penisola conteranno ancora di meno.

La vecchia Yalta attraversava sistemi politici e economici, la nuova Yalta è assente dai radar, gli attori della campagna elettorale oscillano tra la ricerca di punti di riferimento esterni (Renzi con Macron, Berlusconi con la Merkel, i 5 Stelle e la Lega con Putin) e l’incapacità di interrogarsi su dove si colloca il nostro paese e la sua classe dirigente diffusa nell’ordine mondiale che si sta costruendo. Perfino la polemica sulle fake news, da questo angolo visuale, ha qualcosa di fastidioso e di retrò. Vengono tirate in ballo le grandi potenze, le agenzie di spionaggio e di manipolazione come quelle mosse dallo zar di Mosca, e non ci si accorge che è finita la stagione in cui l’Italia, al pari della Germania, era popolata da spie e agenti degli apparati internazionali. All’epoca il nostro paese presidiava un confine strategico e centrale, oggi è finito nell’angolo marginale della foto di gruppo, non aspira più a una parte di protagonista nel nuovo assetto. Abbiamo perso (ancora una volta) la guerra, ma questa volta stiamo perdendo anche il dopoguerra.

E perde di senso anche continuare a chiedere a quale schieramento appartieni, se stai con Berlusconi o con Di Maio, se con Renzi o con la formazione che sta nascendo alla sinistra del Pd. In passato le coalizioni si facevano tra chi era al di qua o al di là del muro. Più facile, o più scomodo, a seconda dei punti di osservazione. Ma se si evade la domanda, se si rimuove il contesto in cui cade lo scontro elettorale italiano, se i personaggi del teatrino si agitano come burattini senza filo e senza progetto, qualunque alleanza e qualunque schieramento diventa possibile. E l’Italia potrebbe diventare il laboratorio di inedite formule politiche, una strana democrazia.

Nell’indifferenza verso il nuovo muro invisibile che ci attraversa: «C’è una linea immaginaria eppure realissima, una ferita non chiusa, un luogo di tutti e di nessuno di cui ognuno, invisibilmente, è parte: è la frontiera che separa e insieme unisce il Nord del mondo, democratico, liberale e civilizzato, e il Sud, povero, morso dalla guerra, arretrato e antidemocratico. È sul margine di questa frontiera che si gioca il Grande gioco del mondo contemporaneo». Lo scriveva Alessandro Leogrande, che ci ha lasciato troppo presto, maledizione.

© Riproduzione riservata 01 dicembre 2017

Da - http://espresso.repubblica.it/attualita/2017/12/1/news/yalta-2018-il-nuovo-muro-l-italia-che-non-c-e-1.315177?ref=HEF_RULLO


Titolo: Marco DAMILANO - Attacco di Forza Nuova, libertà di stampa e antifascismo ...
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 06, 2017, 08:59:34 pm
EDITORIALE

Attacco di Forza Nuova, libertà di stampa e antifascismo coincidono, oggi ancora di più
Ci vogliono mettere sotto assedio per le nostre idee e per le nostre inchieste. Per questo non è possibile nessuna timidezza: bisogna schierarsi

DI MARCO DAMILANO
06 dicembre 2017

Abbiamo il senso delle proporzioni e in prima battuta volevamo evitare di ricorrere alla terminologia anni Settanta, tipo “vile attacco fascista contro la stampa democratica”. Perché noi giornalisti dell'Espresso e di Repubblica siamo contemporanei, viviamo e raccontiamo questa mondo, condividiamo le speranze e le inquietudini dei nostri lettori, lanciamo domande più che offrire risposte preconfezionate. E invece Forza Nuova, CasaPound e i loro camerati vivono in un'altra epoca, fatta di chiusure, confini, muri, difesa della sacra razza e del sacro suolo, intolleranza verso le critiche, le inchieste.

Neppure una riga di pubblicità per chi sbandiera lugubri simbologie del passato, avevamo pensato in un primo momento. Ma poi scorrono quelle immagini di uomini con il volto coperto che urlano in un luogo di lavoro, nel cortile di ingresso di una redazione. Quel post su facebook di Forza Nuova, partito che fu rappresentato in Parlamento europeo, il cui leader Roberto Fiore provò a candidarsi nel 2006 con quel Berlusconi che oggi definiscono «falsa opposizione», quelle parole che esaltano apertamente la violenza («Roma e l'Italia si difendono con l'azione, spalla a spalla, a calci e pugni...»). E allora no, non si può accettare di banalizzare anche questo episodio, come accade con le parole in libertà degli squadristi da tastiera. Quando lo squadrismo supera il virtuale e non si vergogna di toccare materia incandescente, tipo intimidire l'uscita di un giornale, è un livello che si alza, un confine che viene abbattuto.

Ci vogliono mettere sotto assedio, come hanno impunemente scritto, perché siamo giornalisti. Ci attaccano per le nostre idee, sullo ius soli, e per le nostre inchieste, quella firmata da Giovanni Tizian, Stefano Vergine e Andrea Palladino sui finanziamenti e sulle origini delle fortune economiche dell'estrema destra . Provano a intercettare un clima di intolleranza e di odio più ampio nei confronti di chi fa il nostro lavoro, il mestiere di informare. In un paese in cui la stampa e i giornalisti sono stati sotto il tiro, e spesso vittime, di terroristi rossi e neri, logge occulte, mafia e camorra. Ce lo siamo dimenticati, in questa Italia immersa nel presente, senza memoria. Eppure i nemici della libertà intuiscono istintivamente dove devono colpire, sanno che ogni attacco alla stampa è un anticorpo che viene meno, una parte di convivenza civile che viene eliminata, un pezzo di democrazia ferita. Per questo non è possibile nessuna timidezza, nessuna esitazione, bisogna schierarsi. Libertà di stampa e antifascismo coincidono, oggi ancora di più.

© Riproduzione riservata 06 dicembre 2017

Da - http://espresso.repubblica.it/attualita/2017/12/06/news/attacco-di-forza-nuova-liberta-di-stampa-e-antifascismo-coincidono-oggi-ancora-di-piu-1.315643?ref=fbpe


Titolo: Marco DAMILANO - Previsioni politiche per il 2018, l'anno della grande incognita
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 07, 2018, 11:39:45 am
Previsioni politiche per il 2018, l'anno della grande incognita
Gli anni che si concludono con l'otto portano con sé novità e rivolgimenti: la Costituzione del '48, le rivolte degli studenti e l'immaginazione al potere del '68, la tragica fine di Aldo Moro nel '78 e l'inizio della Grande Crisi nel 2008. E questo non fa eccezione: ecco le elezioni, con un governo in carica che potrebbe resistere agli umori delle urne

Di MARCO DAMILANO
02 gennaio 2018

«Vi ringrazio per queste due ore di inesistenza», così il maestro Nicola Piovani ha ringraziato il pubblico romano che il giorno di Santo Stefano aveva affollato il suo concerto, ironizzando su chi aveva detto anni fa che solo le cose accadute in televisione esistono davvero. Quel signore che la pensa così lo conosciamo tutti bene e nel 2018, forse, tornerà, se non alla guida del governo, ad avere un ruolo centrale nella politica italiana. Ma l’idea dell’inesistenza, o meglio di ciò che non esiste all’apparenza ma che ha una dura sostanza nella realtà, mi sembra la sintesi perfetta dell’anno che si chiude e di quello che si apre.

Nel 2017 quel che non si è visto, e che dunque non esiste per il sistema mediatico, ha avuto una sua forza, la forza delle cose. Paolo Gentiloni, il presidente del Consiglio italiano che si è tornato a chiamare così dopo anni in cui tutti ci eravamo abituati a chiamarlo premier, un altro caso di non-esistenza (quella carica in Italia non c’è), non ha rilasciato in dodici mesi una sola intervista a un giornale e si è concesso solo un paio di uscite televisive.

"Questa legislatura travagliata è stata fruttuosa. La verità è che l'Italia si è rimessa in moto dopo la più grave crisi dal dopoguerra". Così Paolo Gentiloni durante la consueta conferenza stampa di fine anno del presidente del Consiglio dei ministri, che sarà anche l'ultima di questa legislatura
   
Ha governato con l’invisibilità, il non apparire, eppure ha scalato i sondaggi di gradimento. Il suo governo, nato per durare pochissimo, scavalla la legislatura appena finita, resta in vita anche a Camere sciolte, le sue sono non-dimissioni che lo mettono in condizione di dirigere il timone nei mesi della campagna elettorale. In Europa quello presieduto da Gentiloni non è certo il governo più instabile o provvisorio. Nel quartetto dei grandi paesi Ue, la Francia vive la stagione del presidente jupitérien Emmanuel Macron, il personaggio politico dell’anno, in compenso però la Germania dell’ex invulnerabile Angela Merkel è senza un nuovo governo da settembre e per la grande coalizione più piccola della storia se ne riparla dopo le feste, e la Spagna è nella spirale centrifuga della secessione catalana, aiutata dagli errori di Mariano Rajoy, un premier che vive in uno stato di sospensione.

L’Italia, abituata a convivere con la crisi, si appresta al voto con il governo Gentiloni non-sfiduciato, non-dimissionario, non-candidato a essere riconfermato o meno dal voto degli italiani, eppure baciato dal favore dei pronostici: se dopo il voto di marzo non fosse possibile un’altra maggioranza e un altro governo resterebbe in carica lui, almeno fino a metà 2018, e poi chissà.

L’inesistenza, o meglio esistere senza apparire, diventa una virtù. È andata al potere, giusto mezzo secolo dopo quello che si diceva dell’immaginazione, lo slogan più citato, imitato, sbeffeggiato, tradito del 1968, anno di cortei, manifestazioni, scontri di piazza, contestazioni studentesche, lotte operaie, sogni spezzati. Il sogno di Martin Luther King, ucciso a Memphis il 4 aprile, quello di Robert Kennedy, assassinato il 6 giugno mentre festeggiava a Los Angeles la vittoria delle primarie in California che lo avrebbe lanciato verso la nomination democratica per la Casa bianca, quello di Alexander Dubceck sul versante opposto di Jalta, il blocco sovietico intangibile e stritolato nella morsa del muro di Berlino (costruito sette anni prima) e dei carri armati del partito fratello di Mosca.

È l’irresistibile fascino degli anni che si concludono con il numero otto. L’anno spaccatutto, l’anno fine del mondo, almeno dal 1848 che si apre con la pubblicazione del manifesto del partito comunista di Karl Marx e Friedrich Engels a Londra il 21 febbraio e da quel momento in poi gli spettri della rivoluzione cominceranno ad aggirarsi in tutta Europa, compresa l’Italia divisa in staterelli. Nel 1918, un secolo fa, di nuovo lo spettro torna a volteggiare tra la Russia appena conquistata dai bolscevichi e la Germania. Per noi è anche l’anno della fine della Grande Guerra e della retorica sulla vittoria mutilata che anticipa il reducismo e il fascismo. Termina in otto l’anno della vergogna, quello delle leggi razziali (1938), e dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana (1948) con il primo grande scontro elettorale (18 aprile 1948).

In tutti questi eventi c’è sempre stato un palazzo di inverno da espugnare, un potere da conquistare, un cielo cui dare l’assalto. La pretesa della politica di avere l’egemonia sul resto della società che aveva incontrato il sarcasmo di Pier Paolo Pasolini sui sessantottini che da allora in poi sono rimasti in servizio permanente effettivo: «generazione sfortunata!/Io invecchiando vidi le vostre teste piene di dolore/dove vorticava un’idea confusa, un’assoluta certezza,/una presunzione di eroi destinati a non morire - /oh ragazzi sfortunati, che avete visto a portata di mano /una meravigliosa vittoria che non esisteva!».

Una presunzione ferita in modo irrimediabile nel 1978 italiano, quando tutti insieme, padri e figli, si ritrovarono di fronte al trauma del cadavere infilato in un bagagliaio dell’uomo politico più influente e importante (non il più potente, aveva provato a spiegarlo Moro alle Brigate rosse che vedevano in lui il capo italiano del Sim, lo Stato imperialista delle multinazionali). «Questo fagotto gettato dietro il sedile posteriore della Renault color amaranto parcheggiata in via Caetani è il corpo di Aldo Moro», scrisse quel giorno nel suo pezzo Miriam Mafai su "Repubblica", come farà anni dopo il poeta Mario Luzi: «Acciambellato in quella sconcia stiva, crivellato da quei colpi, è lui, il capo di cinque governi, punto fisso o stratega di almeno dieci altri, la mente fina, il maestro sottile di metodica pazienza: lui - come negarlo? - quell’abbiosciato sacco di già oscura carne...». In quello stesso giorno, il 9 maggio 1978, la mafia fece uccidere a Cinisi Peppino Impastato.

Poche settimane dopo, si dimette il presidente della Repubblica Giovanni Leone, sostituito dal partigiano Sandro Pertini, chiamato a 82 anni a salvare di nuovo la Repubblica. Ma il potere si sta spostando, non appartiene più ai partiti e alla politica, in Italia e nel resto dell’Occidente. C’è il potere del corpo che ribalta l’assunto sessantottino del privato è pubblico: la rivincita della vita sulla politica, i diritti civili che entrano nell’agenda delle priorità, con la legge sull’aborto e sulla chiusura dei manicomi, ma anche l’introduzione del servizio sanitario nazionale che nonostante tutto mezzo Occidente invidia all’Italia. E c’è il potere dell’anima, il ritorno del Dio morto, frettolosamente sepolto e poi risorto come motore geopolitico in Medioriente con l’Iran dell’ayatollah Khomeini e in Europa con l’elezione del papa polacco Karol Wojtyla.

Spinte che fanno naufragare e crollare le ideologie novecentesche, i progetti di palingenesi, il mito dell’uomo nuovo e della società nuova, lasciando in campo un unico sistema vincente, il modello della globalizzazione finanziaria che abbatte i confini degli Stati e le appartenenze identitarie. Ma nel 2008, un altro anno con l’otto, anche questo mito è caduto, quando i dipendenti della Lehman Brothers sono usciti dai loro uffici di Manhattan con gli scatoloni pieni delle loro cose. Quello che abbiamo vissuto in Occidente nel decennio successivo e che stiamo vedendo nell’ultimo anno, da quando Donald Trump ha fatto il suo ingresso alla Casa bianca, è il periodo della fragilità dei potenti. Sempre più ansiosi di visibilità, in mostra sui social, e sempre più inadeguati a fronteggiare le dinamiche che loro stessi hanno scatenato. Dietro i fenomeni di populismo o di anti-politica c’è l’incapacità di governo e la frustrazione generata dall’impossibilità per la politica di realizzare anche soltanto in parte le promesse messe in circolo nelle campagne elettorali. Mentre trionfano gli autocrati, da Putin a Xi Jinping a Erdogan, che rispondono almeno a un bisogno di sicurezza e di certezze.

È l’Ottovolante, il circuito senza via di uscita e pericoloso delle democrazie occidentali: la politica è fallita e in tanti non ne avvertono più la necessità, gli elettori scelgono di votare sempre di meno e se nonostante tutto vanno alle urne si dice che il loro responso è stato sbagliato. Ma solo la politica può gestire il mostro che ha creato, la frammentazione degli interessi, la polverizzazione degli elettori in mille questuanti ciascuno con il suo desiderio da reclamare. E la trasformazione dei leader in followers, inseguitori delle mode del momento, depositari del senso comune.

L’immaginazione è arrivata al potere nel momento in cui il potere della politica non c’era più o stava svanendo. Ma ora va ricostruito, è questa la lezione che arriva anche dall’in-esistente Gentiloni. Che resterà tale anche in campagna elettorale e farà bene: per tenersi in riserva della Repubblica se non dovesse uscire dalle urne una maggioranza pronta a governare e perché non è scontato che il gradimento nei sondaggi possa trasformarsi automaticamente in consenso.

La campagna elettorale sarà il momento di quanti esistono, mediaticamente. Matteo Renzi ha la squadra, i ministri del governo Gentiloni, ma non ha il capitano, perché lui è meno spendibile di un anno fa. Luigi Di Maio del Movimento 5 Stelle si ritrova nella situazione opposta: è un capitano che si atteggia a candidato premier ma non ha una squadra. Infine c’è Silvio Berlusconi, il massimo teorico della regola di cui ha parlato Nicola Piovani (ciò che non va in tv non esiste): lui non ha né la squadra, perché l’alleanza con Matteo Salvini è un cartello elettorale e i nomi che circolano per la guida del governo, da Antonio Tajani all’ex comandante generale dei carabinieri Leonardo Gallitelli, per ora sono virtuali, e non ha il capitano, perché non può candidarsi in prima persona. Berlusconi è l’inesistente al potere: non c’è ma c’è, è un non-candidato ma conterà molto di più di quasi tutti gli altri candidati.

La sconfitta di tutti sarebbe il crack del sistema. In una campagna elettorale cominciata nel peggiore dei modi, con il Parlamento uscente che ha cancellato dal suo angolo visuale gli ottocentomila bambini in attesa della legge sullo ius soli e ius culturae, come sono spariti dalla visibilità mediatica, ma non dalla realtà, i migranti che continuano a sbarcare sulle coste italiane, i ragazzi protagonisti e vittime della criminalità a Napoli e in Campania che non sono creati dalla fantasia degli sceneggiatori di “Gomorra”, i lavoratori dei fast job usa e getta, le periferie chiamate a fare da fondale per i talk sulla crisi. Tutti in apparenza non-esistenti, eppure reali. Siamo tutti sull’Ottovolante, appena partito e già vengono le vertigini. Non si può neppure dire: fermate il 2018, voglio scendere! Si può solo sperare che non succeda un grande 8.

© Riproduzione riservata 02 gennaio 2018

Da - http://espresso.repubblica.it/palazzo/2018/01/02/news/previsioni-di-inizio-anno-qui-succede-un-grande-8-1.316636?ref=RHRR-BE


Titolo: MARCO DAMILANO L'Italia fratturata dove sono in crisi anche i corpi intermedi
Inserito da: Arlecchino - Marzo 19, 2018, 10:46:59 am
EDITORIALE

L'Italia fratturata dove sono in crisi anche i corpi intermedi

Chiesa, industriali, sindacati, magistratura. Dopo il voto anche la società è divisa.
Specchio della politica paralizzata. E del governo impossibile

DI MARCO DAMILANO
16 marzo 2018

Tutti aspettano le consultazioni, quel momento informale in cui le delegazioni dei partiti sfilano davanti al presidente della Repubblica nello studio della Vetrata al Quirinale, quando prendono forma indicazioni, decisioni, veti e si compone la maggioranza che sosterrà il futuro governo di fronte alle Camere. C’è da chiedersi, però, se questa volta sia una prassi superata, o da rivedere, alla luce del terremoto elettorale del 4 marzo.

Comporre la maggioranza: una politica (impossibile, per ora), una di scopo, una à la carte. Una maggioranza qualunque. È l’impasse del sistema politico provocata dal trionfo elettorale dei due vincitori, il Movimento 5 Stelle e la Lega di Matteo Salvini, non così forti però da produrre una maggioranza autonoma, auto-sufficiente, in grado di governare senza alleanze spurie e sgradite. Uno stallo e una situazione inedita che potrebbero estendersi già dalla prossima settimana al livello istituzionale: l’elezione dei presidenti di Camera e Senato, il ruolo del Quirinale come motore per far partire la legislatura e il nuovo governo, le scadenze del nuovo Parlamento di cui in pochi sono disposti a parlare in pubblico e che invece nei palazzi tengono banco perché sono imminenti.

A due settimane dal voto i partiti usciti vincenti dalle urne si ritrovano impossibilitati nel formare un governo. Ma nel Paese ci sono fratture ancora più profonde, come quelle tra l'elettorato e i cosiddetti "corpi intermedi" come i sindacati, la Chiesa, il mondo delle imprese, la magistratura. Mondi travolti dal voto e ora divisi, spaccati, rimescolati. Nuove alleanze si formano e vecchi sodalizi sono stati sciolti. L'Espresso racconta queste fratture, simbolo di un'Italia spezzata e di un governo forse impossibile. Il direttore Marco Damilano spiega cosa trovate sul nuovo numero in edicola da domenica 18 marzo

L’elezione di un giudice della Corte costituzionale al posto di Giuseppe Frigo, che si è dimesso quattordici mesi fa. L’elezione dei membri laici del nuovo Consiglio superiore della magistratura che dovrà governare le toghe nei prossimi quattro anni, con tante nomine importanti, a partire dalla designazione del successore alla guida della procura di Roma di Giuseppe Pignatone, in scadenza per limiti di età. La nomina del nuovo Consiglio di amministrazione Rai, quello attuale termina il suo mandato in estate, il nuovo sarà formato con i criteri della nuova legge voluta dal governo di Matteo Renzi: quattro membri eletti da Camera e Senato, due scelti dal Consiglio dei ministri su proposta del ministro dell’Economia, più uno votato dai dipendenti della Rai. Anche questa, come tante, era una legge che presupponeva maggioranze forti, leader stabili pronti ad prendersi tutto, con poche garanzie nei confronti delle minoranze, e oggi potrebbe rivelarsi una beffa per chi l’ha voluta, il premier venuto da Rignano. In gioco, ci sono il controllo della magistratura e dell’informazione pubblica. E poi Cassa depositi e prestiti, i cui vertici sono a fine corsa. E non è finita: nel 2019 ci sarà il grande risiko degli incarichi europei, dopo le elezioni del nuovo Parlamento Ue. Presidenza del Parlamento, presidenza della Commissione, nuovi commissari. E, infine, l’addio di Mario Draghi alla presidenza della Bce con la necessità di proporre un nome italiano per il Comitato esecutivo della Banca.

In ciascuno di questi passaggi servono maggioranze semplici, maggioranze qualificate, governi in grado di prendere decisioni. Ma le parole maggioranza e governo sembrano un miraggio in questa convulsa fase post-elettorale. Nessuno sembra in grado di raggiungere il magico numero che porta alla fiducia parlamentare di un nuovo governo, tutti hanno voglia di potere e di comando, ma in pochi desiderano davvero governare.

Per molti anni la maggioranza parlamentare è stata lo specchio di una maggioranza nel Paese, di un blocco sociale di riferimento. Un reticolo di associazioni, categorie, mondi di rappresentanza di valori e di interessi, lobby che come per incanto, come per effetto di una mano invisibile simile a quella del mercato di Adam Smith, tutte insieme componevano la Maggioranza. A tutto questo si riferiva l’espressione maggioranza silenziosa, evocata dal presidente Usa Richard Nixon negli anni Settanta: quel centro della società che è stabile e governativo per sua natura, gli elettori moderati che non si iscrivono a partiti, che non militano e che non si mobilitano, che restano a casa quando le piazze si riempiono, ma che fanno la differenza alle urne. La maggioranza silenziosa cui si è appellato Renzi per ben due volte, in occasione del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016 e del voto politico del 4 marzo, uscendone drammaticamente sconfitto.

La novità di questi anni è infatti che non solo in Italia ma in tutta Europa la maggioranza silenziosa non esiste più. O meglio, si rivolge verso i valori opposti da quelli frequentati in passato: la rivolta al posto della moderazione, l’instabilità in luogo della stabilità, l’opposizione invece del governo. Si è visto in Inghilterra con la Brexit e in Usa con la vittoria di Donald Trump: anche se poi i risultati delle urne, con queste motivazioni, consegnano al sistema più problemi che soluzioni.

A venire meno, in questa condizione inedita, sono tutti i canali di collegamento tra politica e società, i mediatori sociali, i corpi intermedi, come si sarebbe detto un tempo. Se non c’è più la Maggioranza, sono loro i primi a essere scossi, scissi, colpiti al cuore nella loro funzione di rappresentanza: i sindacati, le cooperative, le associazioni di categoria di lavoratori e di imprenditori, e di commercianti, coltivatori diretti, pensionati, studenti.

Attraversati da una crepa che li divide all’interno, una separazione, una frattura tra i vertici, i dirigenti che si sentono ancora parte dell’antica classe dirigente, istituzionale per definizione, e la loro base che invece non si riconosce più nella mediazione, usufruisce di vantaggi e servizi garantiti dall’appartenenza all’associazione, ma vota e si comporta in modo autonomo, indipendente, solitario, al contrario di quanto avveniva in passato, quando candidare un esponente di Confindustria o della Cgil o della Compagnia delle Opere di Comunione e liberazione significava per un partito conquistare in partenza milioni di voti. Cuius regio, eius religio, si diceva un tempo. Se conquistavi il principe, o un presidente di categoria, convertivi al voto un intero popolo.

I corpi intermedi sono finiti sotto tiro negli ultimi anni, anche in un Paese come l’Italia che ha sempre potuto vantare una presenza e una vivacità della società civile, e un suo protagonismo politico, superiore per numeri e per qualità rispetto ad altri paesi europei. Una società civile che in molti casi ha svolto una funzione di supplenza della politica: vertici sindacali (Sergio Cofferati, Guglielmo Epifani, ma anche Sergio D’Antoni) e confindustriali (Alberto Bombassei, Federica Guidi) chiamati a ruoli politici, i progetti agitati da parti opposte (Italia futura di Luca Cordero di Montezemolo di cui era motore organizzativo il ministro Carlo Calenda, la coalizione sociale dell’allora capo della Fiom Maurizio Landini) destinati a fallire ma significativi di un movimento. I magistrati entrati in politica per fondare un partito e sostituirsi ai politici di professione: Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris, Antonio Ingroia. Il serbatoio inesauribile di figure politiche e di voti prodotto dal mondo cattolico nelle sue varie sfumature, dopo la fine della Dc venticinque anni fa.

«Il messaggio di accoglienza di papa Francesco non è stato accolto. E per questo anche noi dobbiamo fare una lettura profonda». Parla Andrea Riccardi, fondatore di Sant'Egidio. E sull'Espresso in edicola da domenica 18 marzo, l'inchiesta sulla crisi dei "corpi intermedi"

La disintermediazione ha colpito al cuore questo sistema di consenso e la prima vittima è stato proprio il leader che di questo nuovo verbo aveva fatto una bandiera, Matteo Renzi. È stato lui il presidente del Consiglio che ha sbarrato la sala verde di Palazzo Chigi alla concertazione delle parti sociali, lui a disertare sistematicamente le assemblee di Confindustria e dei sindacati, lui a dichiarare chiusa quella stagione a sinistra. Uno strappo compiuto nel momento di massima mediocrità delle organizzazioni sociali, prive di leadership forti e riconosciute, di agganci con le loro basi sociali, in mezzo a una sfida senza precedenti nel mondo del lavoro. Il risultato, in ogni caso, è l’atomizzazione dei legami, la solitudine di imprenditori, lavoratori, autonomi, precari, tutti votano da soli, senza essere rappresentati da nessuno.

Il voto può essere letto anche così. E questo spiega perché i vertici sindacali e confindustriali si sono affrettati, dopo il voto, a inseguire i loro elettori che erano andati da una parte opposta rispetto alle indicazioni della vigilia. Un caso di collateralismo alla rovescia.

Resiste meglio di altri il mondo cattolico nelle sue varie ramificazioni. Forse perché in quel caso la crisi è arrivata prima. Forse perché questo voto è il vero, effettivo debutto sulla scena della Chiesa italiana formato Bergoglio, coincide con i cinque anni di pontificato di papa Francesco. La Conferenza episcopale ha scontato anni di sbandamento: il dopo-Ruini, il cardinale che muoveva i politici come pedine e ha prodotto il conformismo di associazioni e centri culturali, con i loro esponenti appassiti e esangui.

Il vecchio establishment ecclesiastico è stato spazzato via dalla rivoluzione di Bergoglio, prima che dalla tempesta del 4 marzo, e ha già attraversato (non ancora concluso) il suo passaggio nel deserto. La Chiesa si ritrova all’appuntamento del dopo 4 marzo più debole e più sola, sconfitta almeno nel nord chiuso alle ragioni dell’accoglienza e della solidarietà verso i migranti, sfidata dal vento di destra nazionalista e clericale che Salvini ha agitato in piazza Duomo giurando sul Vangelo. Il distacco dalla propria base di fedeli domenicali, nel Nord della Lega e nel Sud dei Cinque stelle, coinvolge anche le gerarchie ecclesiastiche e i cenacoli intellettuali che si sono fatti sempre più ristretti.

Ma la Chiesa può tentare di interpretare la società italiana meglio di altre agenzie, il Paese reale contrapposto al Paese legale, che in fondo è una delle eredità del cattolicesimo italiano del secolo scorso, però Viste dalla società, le fratture del 4 marzo sono più profonde perfino di quelle che dividono gli schieramenti politici oggi in Parlamento, come raccontano le pagine che seguono, un’inchiesta sull’Italia sconvolta e lacerata del dopo-voto, in cui è svanita la stessa idea di Maggioranza, ma resta irrisolta la questione della rappresentanza. È l’altra faccia di questa stagione di individui soli, che si affidano ai social network nell’anonimato della loro esistenza per far sentire la loro voce.

Ricostruire, ricucire le fratture, era un’urgenza non soltanto metaforica già due anni fa, all’epoca della terrificante sequenza di terremoti nell’Italia centrale. Oggi è più che mai un’emergenza, come sa bene chi per dovere istituzionale ha il compito di trovare un percorso nelle macerie, l’inquilino del Quirinale Sergio Mattarella.

Sull'Espresso in edicola da domenica 18 marzo l'inchiesta sulla crisi di rappresentanza d Chiesa, associazioni di industriali, sindacati e magistratura
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Da - http://espresso.repubblica.it/palazzo/2018/03/15/news/l-italia-fratturata-dove-sono-in-crisi-anche-i-corpi-intermedi-1.319650?ref=HE


Titolo: Marco DAMILANO - Ritrovare Moro: a 40 anni dal sequestro l'Italia è di nuovo...
Inserito da: Arlecchino - Marzo 19, 2018, 10:50:51 am
INGRANDIMENTO

Ritrovare Moro: a 40 anni dal sequestro l'Italia è di nuovo in un momento cruciale
I quarant'anni del suo rapimento coincidono con le elezioni del 4 marzo 2018 e con l’apertura di una fase politica molto delicata, come quella di allora.
Nuove elezioni che sembrano chiudere una fase di lungo periodo, quello che cominciò dopo la morte del leader della Dc

DI MARCO DAMILANO     
15 marzo 2018

Moro tra i militari, Moro tra la gente, Moro in auto scoperta, Moro con le bacchette che mangia giapponese. Affacciato da un balcone sopra la scritta “Viva Moro”, inchinato, reclinato, omaggiato da politici locali, vescovi, ambasciatori, insegnanti, imprenditori, poveracci.

Scorro per ore e ore, sul computer, sugli album, sui ritagli, le foto di Aldo Moro, dopo aver letto la sua corrispondenza riservata con Eugenio Scalfari, Indro Montanelli, Alberto Ronchey, Vittorio Gorresio. Nel suo archivio personale, conservato nel centro di documentazione di Oriolo Romano che porta il nome dell’ex senatore del Pci Sergio Flamigni, sono raccolte quindicimila immagini: diapositive, fotogrammi, gli scatti ufficiali in bianco e nero degli anni Cinquanta e le polaroid a colori sbiaditi degli anni Settanta, le foto comparse sulla stampa italiana e internazionale del Presidente, ritagliate, incollate e conservate. Mucchietti di carta, con le graffette colorate e ora arrugginite. In una scatola che contiene articoli ingialliti c’è un biglietto del sarto Randolfo Conti, via Duilio 7, nel quartiere romano di Prati, con la fattura per un abito e fodera due petti con gilet, costo 15 mila lire, datata 11 giugno 1955. Quando Moro giura da ministro della Giustizia, il 6 luglio, deve ancora compiere quarant’anni.

L’immagine pubblica esisteva già anche in una stagione in cui pensavamo non ci fosse. Moro si ripete, si replica, sempre uguale, sempre identico a se stesso, sempre rigorosamente vestito di scuro e in giacca e cravatta, così, per quindicimila volte, e sempre diverso, impercettibilmente in movimento, come lo era quella politica, la sua politica. Messe tutte insieme, in ottomila giorni di quei 23 anni fanno in media quasi due foto al giorno, sono il film di un uomo totalmente dedito alla politica, al governo, al potere, ma anche della vita collettiva degli italiani, di trent’anni di progresso, di benessere, di sviluppo, di protagonismo nel mondo, e poi di improvvisa cupezza e depressione.

Quando il grigio era il colore dominante si intuiva una febbrile vitalità, verso gli anni Settanta le tinte si fanno plumbee. Di tutti questi momenti Moro era stato il garante, lui a tenere in equilibrio la crescita economica e la maturazione democratica che l’Italia non aveva mai avuto. Fino ai due ultimi scatti, quarant’anni fa, i due dei 55 giorni del rapimento nel covo delle Brigate rosse, dopo la strage di via Mario Fani del 16 marzo 1978 con l’omicidio dei cinque agenti della scorta: Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera, Francesco Zizzi. Lo ricordano tutti, in camicia, anche i più giovani che non c’erano. In pochi, invece, ricordano oggi chi era Aldo Moro, la sua politica, il suo progetto, il suo metodo.


I quarant’anni del suo rapimento coincidono con le elezioni del 4 marzo 2018 e con l’apertura di una fase politica molto delicata, come quella di allora. Nuove elezioni che sembrano chiudere una fase di lungo periodo, quello che cominciò dopo la morte di Moro. La fine della Repubblica dei partiti, rappresentativi della società in ogni sua piega, e l’emergere di leader e movimenti che si sono proposti di rappresentarsi da soli, seguendo il «moto indipendente delle cose» di cui aveva parlato Moro nel 1975.

Dopo Moro è finito il suo partito, la Democrazia cristiana. Dopo Moro è finito il Pci. Il segretario Enrico Berlinguer morì nel 1984, ma tutto era terminato la mattina del 16 marzo 1978, con la violenta estromissione dalla scena del presidente democristiano che aveva strappato a Berlinguer qualcosa di più importante di un partner privilegiato: l’alleato indispensabile, insostituibile. Dopo Moro è finito anche Bettino Craxi. Moro era il potere fragile, Craxi il potere forte. Moro aveva capito che il potere si stava disgregando. Craxi, invece, pensava che solo il potere valesse, la conquista delle posizioni, lo sfondamento nelle linee avversarie, a qualunque costo, con qualsiasi mezzo. Furono sconfitti entrambi.


Nessuno può dire cosa sarebbe successo se Moro non fosse stato rapito quella mattina di marzo, mentre andava a votare la fiducia al governo Andreotti. I segnali non erano positivi e la decisione del Pci di entrare in maggioranza per la prima volta dall’inizio della guerra fredda nel 1947 era messa a dura prova. Nell’intervista pubblicata postuma da Eugenio Scalfari nell’ottobre 1978, una rielaborazione di un colloquio che si era svolto nello studio di via Savoia il 18 febbraio, un mese prima del sequestro, il presidente della Dc sembrava ipotizzare una coabitazione al governo, una grande coalizione all’italiana. Finita la fase dell’emergenza, sarebbe cominciata quella dell’alternanza: «Se continua così, questa società si sfascia, le tensioni sociali, non risolte politicamente, prendono la strada della rivolta anarchica, della disgregazione. Se questo avviene, noi continueremo a governare da soli, ma governeremo lo sfascio del paese. E affonderemo con esso». Corrado Guerzoni, il portavoce di Moro, ha testimoniato che alla fine del colloquio il Presidente fece un gesto inatteso, strinse con la mano un braccio di Scalfari.

Nell’ultimo discorso ai parlamentari democristiani, il 28 febbraio 1978, sedici giorni prima del rapimento, Moro aveva invitato i suoi amici di partito a guardare fuori dal Palazzo, nel cuore dell’emergenza italiana, «l’emergenza reale che è nella nostra società»: «C’è la crisi dell’ordine democratico, crisi latente, con alcune punte acute. Il dato serpeggiante del rifiuto dell’autorità, il rifiuto del vincolo, la deformazione della libertà che non sa accettare né vincoli né solidarietà. Immaginate cosa accadrebbe in Italia, in questo momento storico, se fosse condotta fino in fondo la logica della opposizione, da chiunque essa fosse condotta, da noi o da altri, se questo Paese dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili, fosse messo ogni giorno alla prova di una opposizione condotta fino in fondo...». E aveva concluso: «Se non avessimo saputo cambiare la nostra posizione quando era venuto il momento di farlo, noi non avremmo tenuto, malgrado tutto, per più di trent’anni la gestione della vita del Paese. È la nostra flessibilità, più che il nostro potere, che ha salvato fin qui la democrazia italiana...».

Nel quarantesimo anniversario del rapimento, in un nuovo momento di passaggio, nell’Italia «dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili» di nuovo in bilico, in questi giorni di crisi che come quarant’anni fa richiedono più flessibilità che esercizio cieco del potere. In tutto l’Occidente le innovazioni non sono più governate dalla politica, la politica è apparenza di potere ma non sostanza. La politica non è più sfida di cambiamento dell’esistente, ma appiattimento sull’istante. La politica non coltiva più la speranza, ma la paura e la rabbia dei cittadini. Genera frustrazione negli elettori, promette quello che non riesce più a dare e prova a guadagnare consenso sulla frustrazione che ha generato.

Per questo Moro va ritrovato, come scriveva Leonardo Sciascia nella prima pagina del suo libro dedicato al sequestro: «un tempo da ritrovare». Moro va strappato dal caso Moro, l’immagine del prigioniero cui è stato consegnato dai terroristi. Lo Stato non riuscì a farlo ma noi possiamo oggi liberarlo e riconsegnato alla politica, all’Italia di oggi di cui aveva capito molto, quasi tutto. Il leader che per la politica era vissuto e infine morto e che nella politica, tuttavia, non aveva mai esaurito la sua persona. «La verità, cari amici, è più grande di qualsiasi tornaconto», scrisse Moro in una delle sue ultime lettere disperate dal covo delle Br al deputato dc Riccardo Misasi. «Datemi da una parte milioni di voti e toglietemi dall’altra parte un atomo di verità, ed io sarò comunque perdente. Lo so che le elezioni pesano in relazione alla limpidità ed obiettività dei giudizi che il politico è chiamato a formulare. Ma la verità è la verità».

Negli ultimi giorni della sua vita, in maniche di camicia, con un foglio di carta a quadretti e una penna come sola arma a disposizione per farsi sentire, con la coscienza come unica voce da ascoltare, Aldo Moro aveva concluso che tutto si racchiudeva in questo, un atomo di verità. Ciò che manca oggi a una politica che si percepisce come onnipotente, forte di consensi e successi, che si auto-celebra per i milioni di voti raccolti, ma che non possiede un atomo di verità sul Paese e su se stessa. E dunque è destinata a essere perdente, sempre.
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Da - http://espresso.repubblica.it/attualita/2018/03/14/news/ritrovare-moro-a-40-anni-dal-sequestro-l-italia-e-di-nuovo-in-un-momento-cruciale-1.319553?ref=HEF_RULLO


Titolo: Marco DAMILANO - La sinistra che sta facendo finta di niente dopo la batosta...
Inserito da: Arlecchino - Aprile 17, 2018, 09:00:41 pm
La sinistra che sta facendo finta di niente dopo la batosta elettorale deve cambiare
Lo sconquasso non è cominciato con Renzi ma ha radici più lontane.
Eppure gli ultimi anni sono stati una grande occasione perduta

DI MARCO DAMILANO
09 aprile 2018

Il mare calmo non ha mai fatto buoni marinai, ha scritto il segretario reggente del Pd Maurizio Martina su Repubblica (4 aprile) riportando le parole che gli ha detto un compagno. Il compagno ha ragione: mai il mare è stato così burrascoso per il centrosinistra italiano, arrivato al minimo storico della sua lunga storia. Ma è anche vero che mai, invece, è stato così tranquillo nella classe dirigente del partito, che al di là di qualche articolo e proclama si sta rivelando incapace di affrontare una crisi così grave, potenzialmente letale, in termini culturali prima ancora che politici.

Una grande bonaccia delle Antille, come quella che descrisse Italo Calvino nel 1957 a proposito dell’immobilismo e della paralisi del Pci togliattiano. È lo spettacolo stupefacente di queste settimane: l’analisi del voto inesistente, la reazione dei gruppi dirigenti burocratica, i capicorrente che continuano a operare nelle loro manovre esiziali come se nulla fosse successo, intellettuali di area silenti, l’incapacità di sfuggire alla morsa della domanda che rimbalza nei talk televisivi, allearsi o no con uno dei vincitori del 4 marzo. Un dilemma posto dallo stesso segretario dimissionario Matteo Renzi all’indomani del voto, per sfuggire a un più pesante quesito: che fare ora del Pd? Domanda che va allargata al resto della sinistra: i fuggiaschi di Liberi e Uguali, gli scissionisti e i paladini della nuova sinistra, tutti insieme hanno raccolto una miseria elettorale, ancor più evidente in presenza di milioni di voti in uscita dal Pd, ma per nulla disponibili ad accasarsi in un’altra formazione di sinistra, nuova, vecchia, post o ex che sia. E dopo il voto sono spariti.

I democratici dovevano rinnovare la sinistra e invece l’hanno riportata al passato tenendola bloccata su divisioni figlie di tradizioni superate. E no, non possono stare insieme quelli che vogliono dar voce ai nuovi sfruttati e quelli che cercano voti nell’elettorato filo berlusconiano
È questo paesaggio mutato nella società, prima ancora che in Parlamento, che nessuno vuole vedere e che dovrebbe essere il punto di partenza. Guardiamoli da vicino, i numeri spaventosi del voto del 4 marzo che in tanti vorrebbero dimenticare. Tra gli italiani in cerca di occupazione o disoccupati, il 9 per cento ha votato per il Pd, il 6 per cento per la formazione guidata da Pietro Grasso, il 47 per cento per il Movimento 5 Stelle (il 18 per cento per la Lega di Matteo Salvini). Tra i dipendenti del pubblico impiego, tradizionale roccaforte della sinistra, il 19 per cento ha votato per il Pd, il 6 per Liberi e Uguali, il 27 per M5S, percentuali che si ripetono con stacchi ancora maggiori per i dipendenti del settore privato. L’unica categoria in cui il Pd supera M5S sono i pensionati.

Ricavo questi dati dallo studio curato dai ricercatori di Youtrend Matteo Cavallaro, Lorenzo Pregliasco e Giovanni Diamanti (“La nuova Italia”, Castelvecchi) appena pubblicato. «Dall’analisi dei flussi risulta che solo la metà degli elettori del Pd nel 2013 e nel 2014 ha confermato il voto nell’ultima tornata elettorale. Questo calo è omogeneo in tutti i settori sociali, ma il Pd vede il suo consenso ridimensionato soprattutto tra i dipendenti pubblici, storicamente una componente fondamentale del blocco sociale degli schieramenti di centrosinistra», si legge nell’analisi. «L’impatto di questo cambiamento non deve essere sottovalutato: è per natura, se non per portata, comparabile a quello del dissolversi delle Zone Rosse del Paese affrontato nel capitolo sull’analisi geografica del voto. Si definisce così un nuovo equilibrio nel blocco sociale del Pd: il tradizionale “tridente” costituito da pensionati, dipendenti del settore privato e dipendenti del settore pubblico esce dalle elezioni 2018 vistosamente ridimensionato nelle sue due componenti attive nel mercato del lavoro. Di converso, la categoria socioprofessionale presso la quale il Pd riesce a contenere meglio le perdite è quella degli imprenditori e dei lavoratori autonomi. In questo modo il Pd si avvicina maggiormente, seppur attraverso una dolorosa cura dimagrante, all’equilibrato interclassismo che si potrebbe supporre essere adeguato a un vero “Partito della Nazione”; ma ciò sembra verificarsi al - carissimo - prezzo della perdita dell’egemonia politica su importanti componenti della società italiana, sia in termini territoriali che in termini socio-professionali». Una conclusione amara e beffarda: il partito della Nazione alla fine è nato, ma per sottrazione, non per espansione. In formato bonsai: una piccola nazione.

È l’effetto di un doppio sconquasso: uno più recente e un altro di più lungo periodo. Quello recente porta il segno e il volto di Matteo Renzi e si riassume in un pugno di settimane, tra la fine del 2016 e l’inizio del 2017, tra la sconfitta al referendum sulla Costituzione (4 dicembre 2016) e la scissione di Pier Luigi Bersani (19 febbraio 2017, con l’uscita dei bersaniani all’assemblea nazionale dell’hotel Parco dei Principi, nonostante gli ultimi tentativi, compreso l’accorato appello del fondatore Walter Veltroni).

In quelle settimane è finito il sogno del Pd come soggetto in grado di riunire tutte le anime del centrosinistra italiano e di fare da motore di un cambiamento del sistema politico italiano in senso europeo, un confronto tra due riformismi, uno di sinistra e uno di stampo liberale, conservatore, popolare. Il terremoto di più lungo periodo ci dice che quel sistema europeo da tempo non esiste più. È entrato in crisi ovunque, nei suoi elementi fondanti. È in crisi il centrodestra di governo, resiste in Germania con Angela Merkel, ma solo trasformando la grande coalizione Cdu/Csu-Spd in un centrosinistra all’italiana, la formula inventata da noi da democristiani e socialisti fin dall’inizio degli anni Sessanta che ha retto con alterne vicende la politica nazionale per più di cinquant’anni.

Ovunque il vecchio polo conservatore è assediato dalle voci più radicali, quello che è successo oggi in Italia, con la Lega di Matteo Salvini che ha superato Forza Italia, potrebbe riproporsi domani in altri paesi europei. I nuovi vincitori, ed è la seconda novità, conquistano consensi nei tradizionali territori sociali della sinistra. Effetto della globalizzazione e dei suoi esiti malgestiti, come l’immigrazione, l’impossibilità per un’intera generazione di inserirsi in modo stabile e dignitoso nel nuovo mercato del lavoro e l’impoverimento del ceto medio, e dell’afasia della sinistra europea sulle urgenze del nuovo secolo.

Il Pd è finito perché travolto da un cambiamento epocale, eppure era stata l’unica forza politica riformista del continente ad avvertire la tempesta in arrivo. Nella lunga stagione dell’Ulivo di Romano Prodi e di Arturo Parisi che aveva preceduto la fondazione del Pd, e poi nel 2007 con la nascita del partito di Veltroni, l’intuizione che fosse necessario andare oltre la socialdemocrazia europea e mettere insieme culture politiche tradizionalmente divise, poteva rappresentare un modello nuovo e vincente, com’è sembrato essere il giovane principe arrivato da Firenze per conquistare il cuore del potere. Gli ultimi tre anni rappresentano un’enorme occasione perduta. Neppure un istante di attenzione è stato dedicato da Renzi e dal suo gruppo di comando a costruire un’elaborazione culturale, un’organizzazione territoriale, una classe dirigente locale e nazionale, i tre fondamenti di qualsiasi impresa politica. Mentre molto tempo si è perduto nell’eliminazione delle voci scomode, nel formare una militanza cieca e conformista, agitata sui social con i metodi peggiori della Casaleggio associati, per poi perdere di vista ogni progetto di cambiamento e ridursi al ristretto gruppo dei fedelissimi del Capo.

Oggi è necessario cancellare l’equivoco, scrive Massimo Cacciari sull’Espresso. Sciogliere il Pd, questo Pd. E affrontare la questione più drammatica, l’assenza di un partito socialista, riformista, laburista, liberal, democratico, chiamatelo come volete, nel momento in cui ce ne sarebbe più bisogno, quando si fa più drammatica una doppia emergenza, quella economica, con il ceto medio-alto coinvolto negli effetti della crisi dell’ultimo decennio, e quella democratica, di una rappresentanza ormai avvertita come lontanissima dai cittadini comuni.

Non bisogna lasciar passare la vergogna invano, aggiunge Paola Natalicchio, una delle giovani voci più interessanti della nuova sinistra, amministratrice di un grande comune del Sud, la Molfetta di Gaetano Salvemini e di don Tonino Bello, nella Puglia che ha rappresentato un laboratorio di innovazione tra il 2005 e il 2015 e che oggi è passata in blocco con il Movimento 5 Stelle.

Non si può perdere anche questa dolorosa occasione, l’irrilevanza e lo spettro dell’estinzione, per provare almeno a ricostruire qualcosa. L’idea di fare il partito dell’establishment restando all’opposizione non sembra una trovata brillantissima. Allearsi con quel che resta di Forza Italia contro il blocco populista Lega-M5S è la soluzione finale per perdere anche quei milioni di voti rimasti. Restare all’opposizione e non vedere l’ora che nasca un governo Salvini-Di Maio, come si è spinto a dire un capogruppo del Pd, significa agire per istinti autolesionistici.

Non sciogliere per non scegliere è la blindatura di gruppi dirigenti sconfitti in tutte le versioni, quella rottamatrice renziana, quella arcaica del culto della Ditta degli scissionisti, quella vetero-ideologica, piagnona e protestataria. Proviamo a ripartire con qualche provocazione e con quel tanto di spregiudicatezza che la situazione richiede. E perfino, se lo scenario non fosse così malinconico, con il divertimento di immaginare che la politica sia ancora un regno delle possibilità e non della necessità.

© Riproduzione riservata 09 aprile 2018

Da - http://espresso.repubblica.it/palazzo/2018/04/09/news/la-sinistra-che-sta-facendo-finta-di-niente-dopo-la-batosta-elettorale-deve-cambiare-1.320333


Titolo: DaMilano ricorda Aldo Moro: "Senza di lui la democrazia è diventata più debole
Inserito da: Arlecchino - Maggio 10, 2018, 09:08:37 pm
4 MAGGIO 2018

'Un atomo di verità', Damilano ricorda Aldo Moro: "Senza di lui la democrazia è diventata più debole"
"Un atomo di verità" (Feltrinelli) è il titolo dell'ultimo libro di Marco Damilano, direttore de l'Espresso, che dal palco del Teatro Argentina di Roma ha ricordato Aldo Moro come uomo e come politico, rapito e ucciso dalla Brigate Rosse. Il suo corpo fu ritrovato il 9 maggio 1978, dopo 55 giorni di prigionia. A 40 anni dalla sua morte, Damilano, con la regia di Antonio Sofi e in collaborazione con l'Archivio Flamigni, ha voluto rendere omaggio a una figura politica che ha segnato la storia dell'Italia. Un viaggio nella memoria raccontato attraverso parole, documenti inediti, fotografie, immagini, musiche e letture. "Questa serata è necessaria per liberare Moro -  ha detto Damilano -. Dobbiamo raccontare cosa ha perso l'Italia senza di lui, cosa è stato spezzato in quella giornata del 16 marzo 1978, la giornata in cui noi che eravamo bambini e siamo diventati improvvisamente grandi e la democrazia italiana è diventata più debole".

Da - https://video.repubblica.it/politica/un-atomo-di-verita-damilano-ricorda-aldo-moro-senza-di-lui-la-democrazia-e-diventata-piu-debole/303818/304449?ref=tbl


Titolo: Marco DAMILANO - La Brutta Estate della Repubblica: i tre fallimenti che portano
Inserito da: Arlecchino - Maggio 12, 2018, 05:46:53 pm
La Brutta Estate della Repubblica: i tre fallimenti che portano alla svolta traumatica

Moderare la Lega, costituzionalizzare il M5S, cambiare la strategia del centrosinistra: erano le ipotesi per una conclusione razionale della crisi. Non sono andate in porto. Sull'Espresso in edicola da domenica 13 maggio, un'ampia analisi sulla situazione politica

DI MARCO DAMILANO
11 maggio 2018

La coda delle auto impazzite lungo il Corso, a soffocare i palazzi della politica come un cappio, la pioggia insistente e sporca, l’odore acre del fumo di un autobus in fiamme non ancora sparito dal cielo sopra Palazzo Chigi e Montecitorio, i parlamentari appena nominati e già a rischio di estinzione, a caccia di un taxi con le scarpe immerse nelle pozze.

Sono le scene che anticipano la svolta politica epocale, l’incubazione del governo Lega-M5S, in un clima cupo degno di “Blade Runner”, in cui - finalmente si può dire - stiamo vedendo cose che voi umani non potete immaginare, come direbbe un androide piombato nei palazzi della politica italiana nei giorni in cui si dissolve il sistema.

Il parlamentare del Movimento 5 Stelle che si informa sullo stipendio. I deputati del Pd che vanno dai colleghi di Forza Italia supplicandoli di pregare Silvio Berlusconi a cambiare idea e permettere di far partire il governo. La massa dei neoeletti che si aggira, si accalca, ruota su se stessa, anime in pena, una folla di peones, ignavi, inconsapevoli, terrorizzati dai giochi di guerra dei loro stessi capi. «Ho spinto il pulsante del seggio con cui si vota una sola volta, ma almeno mi sono tolto la soddisfazione», mi racconta Nicola Pellicani, giornalista, deputato del Pd, animatore del festival della politica di Mestre, non sai se più ironico o amareggiato. Intorno a lui, volti inquieti, il presidente della Camera Roberto Fico trascinato dai commessi, il leghista Giancarlo Giorgetti astuto come una volpe nel deserto, stratega di rotture e ricuciture, i berlusconiani che chiedono a Berlusconi la grazia di non portarli a nuove elezioni imprevedibili, dalle conseguenze incalcolabili, per il sistema e per loro...

Siamo alla settimana chiave, quella che potrebbe portare alla fine della crisi politica e alla creazione di un governo Lega e M5S. L'Espresso dedica la copertina, firmata da Makkox, proprio alla situazione politica con il titolo "Odio l'estate" che mostra 4 leader politici come bambini in spiaggia, sorvegliati dall'occhio vigile dell'unico adulto, il presidente Mattarella. All'interno trovate un'ampia analisi sulla stagione di fuoco che attende il nostro Paese e sui pericoli di un esecutivo giallo-verde. Il nuovo numero de L'Espresso lo trovate in edicola domenica 13 maggio con Repubblica e il resto della settimana da solo
   
Lo scenario del “tutti a casa”, come nell’estate del 1943. Qui per fortuna non ci sono bombardamenti di Roma, solo un autobus in fiamme a pochi passi da via Rasella con i muri ancora bucati dalle schegge dell’esplosione, e il vertice dello Stato è saldamente presidiato dal galantuomo Sergio Mattarella. Un presidente lasciato solo anche dal partito che ne volle fortemente l’elezione al Quirinale nel 2015, il Pd, e dal leader di allora e di oggi, Matteo Renzi, al momento decisivo, quando si trattava di difendere l’equilibrio delle istituzioni da una doppia sciagura, il governo Lega-M5S o nuove elezioni anticipate. Un presidente lasciato solo come non mai, in una situazione senza precedenti, tra veti e minacce, impossibilitato di costruire un sentiero di ragionevolezza.

Ho visto Mattarella la mattina del 9 maggio, nelle ore decisive della scelta, in via Michelangelo Caetani, nel luogo dove quaranta anni prima era stato ritrovato cadavere il suo maestro politico, Aldo Moro. Quarant’anni fa quell’omicidio segnò la fine della Prima Repubblica, quel corpo ha continuato a pesare come un fantasma sulle degenerazioni successive e sul vuoto di questi ultimi anni. Ho visto Mattarella salutare Paolo Gentiloni, nelle ultime ore del suo governo, con qualcuno che già gli chiedeva sottovoce di prendere in mano il Pd, e poi Fico e la presidente del Senato Elisabetta Casellati, in verde oliva abbagliante.

Questi politici sono troppo piccoli per gestire una crisi del genere
Il nostro Paese è arrivato all'ultimo atto di una catastrofe istituzionale che matura da anni. E sarebbe troppo facile prendersela solo con i "nani" che occupano la scena oggi
Ho visto questo uomo dai capelli imbiancati, carico di emozioni trattenute e di pudori segreti, con quella riservatezza che lo porta a tacere del suo dolore personale - è il fratello di Piersanti Mattarella che cadde sotto i colpi di un killer mai punito, uno di quei «progetti eversivi, finalizzati a destabilizzare le istituzioni e a disarticolare la nostra convivenza» di cui ha parlato il presidente nella sede più toccante, di fronte ai parenti delle vittime nella giornata del 9 maggio. Difficile intuire i pensieri del presidente di fronte alla lapide che ricorda Moro, «il tenace costruttore dei tempi nuovi nella stagione dell’imbarbarimento della vita politica e civile», come lo ha definito, impossibile sfuggire alla tentazione di chiedersi di fronte a quali segni di imbarbarimento ci troviamo di fronte oggi, in questa nuova prova della democrazia italiana, la crisi politica che si avvita fino a diventare crisi istituzionale, crisi di sistema, con la messa in dubbio del patrimonio più rilevante che la Repubblica custodisce: la fiducia, la certezza dei cittadini che la loro partecipazione e il loro voto contano qualcosa. Senza il rispetto, la cura di questo patrimonio, la democrazia è una regola vuota.

Sono stati questi i pensieri del presidente Mattarella, lasciati intuire nelle parole dedicate ai parenti delle vittime del terrorismo rosso e dell’eversione nera, della mafia e degli apparati dello Stato deviati. Al termine di questi due mesi che hanno visto cadere una dopo l’altra tutte le ipotesi che avrebbero consentito un’uscita dalla crisi rispettosa del voto degli italiani, ma anche di una esigenza di continuità repubblicana, costituzionale, europea.

La prima era la cosiddetta “costituzionalizzazione” del Movimento 5 Stelle. Una strada che è stata percorsa con pazienza e con tenacia, e che fino a un certo punto aveva dato i suoi frutti. Una strada coerente con la nostra storia nazionale che ha visto più volte l’ingresso in scena di forze anti-sistema dotate di grande consenso e che poi sono state incluse nelle responsabilità di governo. Era evidente già prima del voto del 4 marzo che il dopo-elezioni sarebbe stato vinto da chi sarebbe riuscito a costituzionalizzare il Movimento 5 Stelle.

Luigi Di Maio, strappando con la fase embrionale di M5S dominata da Beppe Grillo, si era messo l’abito buono per incamminarsi in questo percorso: la moderazione, la scelta dei candidati, l’ostentato rispetto istituzionale nei confronti del Quirinale, il silenzio imposto alle voci più estremiste del movimento dovevano coronare la sua marcia trionfale verso Palazzo Chigi. Dopo settanta giorni di quel Di Maio resta un leader imbronciato, costretto a confessare la sua ingenuità, in stato di totale inferiority complex, avrebbe scritto il sommo Gianni Brera, nei confronti della squadra della Lega e del suo bomber Matteo Salvini. È stato lui, il leader leghista, a costituzionalizzare alla fine il Movimento 5 Stelle, o meglio a trascinarlo in un rapporto di collaborazione e di competizione che nell’uno e nell’altro caso ha come posta in gioco la distruzione e l’irrilevanza di tutte le altre forze in campo.

La seconda ipotesi riguardava la Lega. Un’evoluzione dell’ex partito di Umberto Bossi in senso europeo, più sul modello dei governi di Lombardia e Veneto che su quello del capo nazionale Salvini. Anche in questo caso, però, il successo elettorale della soluzione più radicale impersonata dal leader leghista spinge nella direzione opposta. Oggi la Lega è un partito che punta a occupare l’intero polo di centrodestra, qualcosa di impensabile nell’Europa occidentale, con un sistema di alleanze internazionali ribaltato rispetto alla fedeltà atlantica e al cammino di integrazione europea.

La crisi del sistema Italia
Il Parlamento è stato svuotato da anni, 
il governo è assente, la presidenza della Repubblica è coinvolta nell’impasse. 
Lo stallo politico è diventato istituzionale. E può avere effetti gravissimi
Dagli Stati Uniti alla Russia di Vladimir Putin. E dal rapporto privilegiato con Angela Merkel e Emmanuel Macron a un occhio di attenzione verso l’internazionale No Euro composta da Marine Le Pen, Alternative für Deutschland, Orbán, austriaci, olandesi, che già vede nell’Italia il modello di successo, il brand di riferimento. In un momento delicatissimo, in cui il futuro governo dovrà presiedere a tutte le scelte e le nomine Ue dei prossimi mesi: la commissione, il membro italiano del board della Banca centrale europea mentre Mario Draghi è in uscita, il turno elettorale della primavera 2019, con il nuovo Parlamento da indicare.

Negli ambienti economici si guarda con qualche fiducia a Giancarlo Giorgetti, nome conosciuto da anni, rassicurante per banca e finanze, autonomo nei giudizi e per nulla appiattito su Salvini. Ma le rassicurazioni si fermano qui, su tutto il resto c’è allarme rosso: i decreti attuativi delle ultime riforme dei governi Renzi e Gentiloni, come quella sul diritto fallimentare, la legge di bilancio, la debolezza dell’Italia nelle sedi europee.

La terza ipotesi di razionalità del sistema prevedeva la presa d’atto del declino berlusconiano, rimasto invece fino all’ultimo in campo a dare o a togliere le carte.

E, infine, un ripensamento radicale delle politiche e degli uomini all’interno del Partito democratico. Una riflessione sui cinque milioni persi alle elezioni. Un vero passo laterale del leader di ieri Renzi. Un dibattito reale sui motivi della sconfitta, i ceti sociali di riferimento, l’identità programmatica e ideale, i mondi che da anni si sentono abbandonati dal principale partito del centro-sinistra italiano. Quello che abbiamo cercato di fare con L’Espresso in queste settimane con gli interventi raccolti nella sezione che abbiamo chiamato “La traversata nel deserto”. Invece, dopo qualche giorno di smarrimento, è ricominciata l’illusione di sentirsi il centro del mondo. La mancanza di una comunicazione adeguata alla gravità del momento, per continuare sulla strada delle battute, la gara del tweet più acuto, e soprattutto l’assenza di una strategia politica che vada oltre l’autocompiacimento.
Per la prima volta, in questi due mesi, i capi del principale partito della sinistra italiana, architrave per anni del sistema politico, hanno lavorato non per dividere e separare il fronte avversario, come avrebbe fatto di istinto qualunque dirigente politico alle prime armi, ma addirittura per saldare, per fondere due partiti che almeno in partenza non sembravano una cosa sola, Lega e M5S. E, al tempo stesso, hanno lavorato in modo autolesionistico per isolare il Pd, mai come oggi senza alleati, dopo averlo separato da un bel pezzo dell’elettorato, in compagnia dei masochisti raggruppati sotto le insegne di Liberi e Uguali. Hanno tutti ottenuto il risultato che volevano: chi il suicidio, chi la nascita del fronte unico Lega-M5S, complimenti. Ci sarà ben poco da godere in questo spettacolo, però.

L’ultima ipotesi, questa non ancora smentita dai fatti, riguarda la società italiana. Che si ritrova due mesi dopo dimenticata dalla classe politica, vincitori e vinti, e sottoposta a nuovi stress. Nei prossimi giorni, con la formazione del nuovo governo, sono in arrivo altre prove micidiali. In questi casi si usa fare un omaggio alla maturità del popolo italiano, e non è un atto rituale perché il giudizio non può dipendere dal fatto che la scelta elettorale ci sia piaciuta o no.

Tuttavia ci saranno nuovi stress, nuove delusioni, scenari imprevedibili e in ognuno di questi passaggi ognuno di noi sarà chiamato ad attingere al serbatoio di valori di cui dispone.

Resistere alla tentazione di difendere un vecchio sistema indifendibile, ma anche alle sirene, le lusinghe e le minacce del nuovo. Per far passare anche questa estate che assomiglia molto a un inverno della Repubblica.

© Riproduzione riservata 11 maggio 2018

Da - http://espresso.repubblica.it/palazzo/2018/05/11/news/la-brutta-estate-della-repubblica-i-tre-fallimenti-che-portano-alla-svolta-traumatica-1.321769?ref=RHRR-BE