POCO LETTI (ARCHIVIO)
Arlecchino:
Controllare questo tipo di animali renderà controllabile la minaccia
Un pipistrello il portatore del virus Marburg
Ricercatori hanno trovato il virus in pipistrelli della frutta: ora si potrà capire come si diffondono epidemie di febbri emorragiche
ATLANTA (USA) - Alcuni già la chiamano la «Stele di Rosetta» dei virus emorragici. La scoperta fatta dai ricercatori dell'Istituto Francese di Ricerca per lo Sviluppo (Ird) insieme al Centro di Controllo delle malattie infettive (Cdc) di Atlanta e al centro internazionale di ricerche mediche di Franceville nel Gabon (Cirmf) che il virus Marburg (chiamato così perché la prima infezione di questo tipo fu diagnosticata nella città tedesca di Marburg in Germania nel 1967) virus analogo al più ben noto Ebola, è presente in una specie di pipistrelli della frutta africani, potrebbe infatti spiegare l'origine di organismi causa di febbri pericolosissime e incurabili.
LO STUDIO - Da anni ricercatori di tutto il mondo sono alla caccia dell'ospite in cui i virus emorragici come Marburg o Ebola rimangono vivi e silenti prima di esplodere in pericolosissime epidemie che hanno tassi di mortalità anche dell'80-90% (per intenderci la temutissima influenza spagnola che nel 1918 provocò oltre 50 milioni di morti, aveva un tasso di mortalità di circa il 5%).
Lo studio pubblicato dal Public Library of Science journal (PLoS One) suggerisce che il virus di Marburg potrebbe essere molto più comune di quanto si pensi. Lo studio però suggerisce che tenere sotto controllo la popolazione di pipistrelli della frutta portatrice sana del virus potrebbe rendere meno pericolosa la minaccia di epidemie.
Attualmente non esiste cura per l'infezione provocata da Marburg come pure da Ebola. Una volta infettati con il contatto con fluidi di persone ammalate sopraggiungono prima febbre e mal di testa, poi la progressiva liquefazione degli organi interni.
La morte sopraggiunge in genere dopo 8 o 9 giorni di atroci sofferenze.
Marco Letizia
23 agosto 2007
da corriere.it
Admin:
Un metodo applicabile anche a sclerosi multipla o schizofrenia
Scoprire l’Alzheimer in sessanta secondi
Grazie alle mappe magnetiche del cervello potrebbe diventare relativamente semplice identificare il disturbo fin dall’inizio
Sessanta secondi per svelare i primi segni di malattie del sistema nervoso come l’Alzheimer, la sclerosi multipla o la schizofrenia: lo promette un nuovo test in sperimentazione negli Stati Uniti, capace di registrare e analizzare i deboli campi magnetici che si creano quando le cellule nervose sono in attività. L’esame si chiama appunto magnetoencefalografia, in sigla Meg (giusto per ricordare, l’Eeg, l’elettroencefalogramma rileva invece l’attività elettrica del cervello): potrebbe essere perfezionato e messo a disposizione dei neurologi e degli psichiatri nel giro di uno o due anni. I risultati delle prime prove saranno pubblicati sul prossimo numero del Journal of Neural Engineering e lasciano intendere che il test, grazie alla sua facilità e rapidità di esecuzione, rappresenterà una vera e propria rivoluzione nella diagnosi precoce di alcune malattie neurologiche.
CONFRONTI - Un gruppo di ricercatori dell’Università del Minnesota a Minneapolis, coordinati da Apostolos Georgopulos, hanno analizzato con la Meg i deboli campi magnetici che si producono quando i neuroni si «accoppiano»: confrontando le mappe , ottenute quando a lavorare è un cervello sano, con quelle rilevate in persone affette da malattie del sistema nervoso, come appunto l’Alzheimer, gli studiosi sono riusciti a individuare le mappe comunemente associate con queste patologie. Utilizzando queste mappe su 142 pazienti, hanno diagnosticato la presenza di malattia nel 90 per cento dei casi.
IN FUTURO - «Adesso stiamo continuando gli studi – ha commentato Georgopulos – e vogliamo acquisire dati da un maggior numero di pazienti. Ma il test potrebbe entrare nella pratica clinica nel giro di uno o due anni». Oltre alla facilità e rapidità di esecuzione, la Meg ha anche il vantaggio di non essere invasiva per il paziente: si esegue applicando all’esterno della testa alcuni sensori capaci di rilevare i campi magnetici e di trasmetterli a un decodificatore che li trasforma in una mappa cerebrale colorata. E non solo: potrà evitare al medico lunghi e complessi esami per la valutazione del comportamento del paziente alla ricerca dei primi segni di malattia, a volte persino poco attendibili. La possibilità di identificare una malattia al suo esordio potrà consentire al medico di mettere in atto trattamenti di riduzione del danno o terapie riabilitative che ne rallentino quanto meno la progressione.
Adriana Bazzi
24 agosto 2007
da corriere.it
Admin:
Importantissima la visita del dentista almeno ogni sei mesi
Tumori orali: fondamentale la prevenzione
Possono essere colpiti la lingua e tutte le altri parti della bocca.
Fumo, alcol e cure dentali non appropriate le cause principali
I tumori della bocca sono un argomento di cui si parla molto poco, ma che rappresentano una realtà che può essere terribile. Eppure la loro prevenzione è relativamente semplice: i fattori di rischio principali sono il fumo (non solo quello di sigaretta, ma anche di pipa e di sigaro), l'alcol e le protesi o le cure dentali non ben eseguite o non perfettamente adatte alla bocca del paziente. Una protesi che «batte» continuamente su una parte delle lingua, per esempio, può causare a lungo andare la formazione di un tumore in quella porzione di tessuto, e lo stesso può valere, per esempio, per un'otturazione che ha bisogno di una «messa a punto».
Se la prevenzione passa per l'astensione dal fumo e dall'alcol e da cure dentali ben eseguite, la diagnosi precoce si avvale dell'abitudine a esaminare il proprio cavo orale e della visita periodica dal dentista, almeno una volta ogni sei mesi, come spiega il dottor Roberto Callioni, presidente dell'Andi (Associazione Nazionale Dentisti Italiani), in un'intervista video.
E vale davvero la pena pensare alla prevenzione e alla diagnosi precoce di questi tumori, perchè una cura, chirurgica o radioterapica locale, precoce, può essere poco traumatizzante, ma quando, per esempio, la porzione di lingua da asportare è estesa, le conseguenze sulla masticazione, sulla parola, e sulla qualità di vita in generale, possono essere pesanti.
da corriere.it
Admin:
TERAPIA INTENSIVA / UN ESPERIMENTO AMERICANO
Ritorno dall'aldilà
di Jerry Adler
Bill Bondar era clinicamente morto. Restava solo l'attività cerebrale. Lo hanno raffreddato. Ed è risorto.
Ecco come Bill Bondar sa esattamente dove è morto: sul marciapiede antistante la sua casa in una comunità di pensionati nella regione meridionale del New Jersey. Erano le 22,30 di sera del 23 maggio, un mercoledì, e Bondar aveva 61 anni. Era un programmatore informatico in pensione che amava suonare il basso. Era alto 1,83, pesava 104 chili e nel corso degli ultimi anni era calato di 25. Quella sera era appena tornato a casa da una jam session con due suoi amici e all'improvviso, mentre scaricava la macchina, il suo cuore si è fermato. Non era ancora in morte cerebrale, che implica l'interruzione permanente delle funzioni cerebrali, né nella morte legale, quella dopo la quale si è pronti per il cimitero. Era tuttavia morto abbastanza da spaventare sua moglie Monica, che qualche istante dopo lo ha trovato a terra privo di conoscenza, senza respiro, senza polso. I suoi occhi erano aperti, ma "vitrei come due biglie", dice Monica: "Senza più vita. Erano gli occhi di un morto".
Sappiamo che cosa è accaduto a Bondar. Il suo medico, Edward Gerstenfeld dell'ospedale dell'Università della Pennsylvania, in seguito ha accertato che la sua arteria sinistra anteriore discendente era occlusa al 99 per cento da una placca che lasciava libero un passaggio non più grande di un capello. Un'occlusione di tal fatta in quell'arteria, la più grande tra quelle che alimentano il cuore, è soprannominata dai cardiologi la crea-vedove. Un minuscolo coagulo incastratosi in quel punto ha generato una breve alterazione del ritmo cardiaco, nota come fibrillazione, prima di fermarlo del tutto. Nel giro di una ventina di secondi, i 100 miliardi di neuroni del cervello di Bondar hanno esaurito tutto l'ossigeno residuo disponibile, interrompendo gli incessanti scambi di cariche elettriche che noi sperimentiamo come stato di coscienza. Il suo respiro si è arrestato non appena egli è entrato in uno stato di quiescenza più profondo del sonno.
Ogni giorno, migliaia di volte in una stessa giornata, il cuore di qualcuno smette di battere. Per un infarto, un coagulo che occlude un'arteria coronaria, o una moltitudine di altre situazioni, difetti congeniti, un'anomala composizione chimica del sangue, uno stress emotivo, uno sforzo fisico. Senza un'opportuna rianimazione cardiovascolare, la finestra per la sopravvivenza si chiude in cinque minuti circa.
Da quanto tempo non leggete un articolo sull'infarto nel quale non si parli di grassi saturi? La nostra epoca è ossessionata dalla salute, ma quando questa viene meno, l'ultimo baluardo di difesa si trova soltanto nelle sale del pronto soccorso, dove i medici pattugliano il confine tra la vita e la morte, un confine che ormai considerano labile, sempre meno precisamente delineato, sempre più elastico. Questa è invece la storia di ciò che accade quando il cuore si arresta. È la storia delle nuove ricerche sulle cellule cerebrali, su come muoiono, su come qualcosa di così semplice, come abbassare la temperatura corporea, può servire a mantenerle in vita. Questa ricerca potrà alla fine salvare fino a 100 mila vite ogni anno. Ma inizia con la sfida a qualcosa che i dottori hanno imparato quando ancora frequentavano la facoltà di medicina: dopo cinque minuti senza battito, il cervello inizia a morire, seguito subito dopo dal muscolo cardiaco, i due organi più voraci e consumatori di ossigeno del nostro corpo, vittime del loro stesso appetito. Ma la mancanza di ossigeno è soltanto l'inizio di una reazione a cascata, dentro e fuori le cellule, che può aver luogo nelle ore, e perfino nei giorni, immediatamente seguenti. Morire diventa pertanto un processo complicato. Chissà come Bondar ha trovato una via di uscita.
Monica ha cercato immediatamente di ricordare quanto aveva appreso in un corso di rianimazione cardiovascolare frequentato qualche decina di anni prima. Si è chinata sul marito e ha iniziato a esercitare pressioni sul suo torace. Poi è corsa in casa a chiamare il numero delle emergenze, il 911, e al centralinista ha gridato con voce affannosa: "Mio marito sta morendo!". La stazione di polizia di West Deptford è situata ad appena tre isolati di distanza e nel giro di due minuti dalla telefonata, tre agenti sono arrivati con un defibrillatore. Hanno sistemato le ventose sul petto di Bondar e gli hanno dato due scosse elettriche, ripristinando il battito cardiaco. Immediatamente dopo sono arrivati i paramedici, lo hanno attaccato a una bombola di ossigeno e lo hanno portato in un ospedale degli immediati dintorni. Da lì a un'ora Bondar era 'in condizioni stabili'. Il battito cardiaco e la pressione del sangue erano tornati vicini alla norma. Ma era ancora in coma. È stato a quel punto che Monica ha preso la decisione che può avergli salvato la vita: ha chiesto che suo marito fosse trasportato al Penn, il più importante ospedale universitario della regione, situato a 15 miglia di distanza.
Lance Becker, direttore del Centro di scienze della rianimazione del Penn, ha in mente da tempo i mitocondri, le strutture tubolari situate all'interno delle cellule che racchiudono le membrane nelle quali l'ossigeno e il glucosio si combinano per produrre l'energia che il corpo utilizza per muovere qualsiasi cosa, dalle molecole attraverso le membrane cellulari fino ai bilancieri. Becker crede che siano proprio i mitocondri l'elemento chiave che gli consentirà un giorno di triplicare il tempo massimo durante il quale un essere umano può rimanere privo di battito cardiaco ed essere rianimato senza problemi. Che la soglia dei cinque minuti non sia assoluta è noto da tempo, e tutte le eccezioni paiono avere a che fare con le basse temperature. Bambini caduti in acqua gelida, per esempio, sono sopravvissuti per un tempo inaspettatamente lungo, e Becker spera di poter utilizzare proprio questo effetto ipotermico per salvare tante vite. Cinque minuti senza ossigeno sono effettivamente un lasso di tempo fatale per le cellule cerebrali, ma la morte può subentrare ore o perfino giorni dopo. I medici da tempo sanno che le conseguenze di un'ischemia si palesano soltanto col passare del tempo. "Nella metà dei casi di arresto cardiaco, riusciamo a far ripartire il cuore, ad avere una buona pressione sanguigna e ogni cosa che funziona a dovere". dice Terry Vanden Hoek, direttore del Centro di rianimazione d'urgenza dell'Università di Chicago: "E ciò nonostante nel giro di poche ore la situazione precipita e il paziente muore".
Capire perché e come ciò accada, tuttavia, ha richiesto tempo. Robert Neumar, un giovane e brillante neuroscienziato, ha simulato l'arresto cardiaco nei topi, poi li ha rianimati, quindi a intervalli regolari ha esaminato in che condizioni si trovano i neuroni. E ha scoperto che erano del tutto normali fino a 24 ore dopo l'ischemia. Nelle 24 ore ancora successive, invece, subentrava qualcosa di inspiegato e iniziavano a deteriorarsi. Alle stesse conclusioni è giunto James R. Brorson dell'Università di Chicago che ha svolto ricerche sulle cellule neurali cresciute in laboratorio: se le si priva di ossigeno per cinque minuti, o anche più a lungo, non accade nulla.
La morte cellulare non è un evento, bensì un processo, e in linea di principio qualsiasi processo può essere interrotto. Tale processo pare avere inizio nei mitocondri, che controllano il meccanismo di autodistruzione cellulare noto con il termine di apoptosi. L'apoptosi è un'operazione naturale che serve a distruggere ed eliminare le cellule che non sono più necessarie o che sono state danneggiate. Le cellule tumorali, che altrimenti potrebbero essere eliminate dall'apoptosi, sopravvivono disattivando i loro mitocondri e i ricercatori stanno studiando in che modo riattivare questi ultimi. Becker, invece, sta facendo esattamente il contrario: cerca di evitare che le cellule colpite da anossia commettano, per così dire, un vero suicidio.
Fino a poco tempo fa era opinione comune che l'apoptosi non potesse, una volta iniziata, essere arrestata. Essa comporta una sequenza alquanto complessa di reazioni a catena, tra le quali infiammazione, ossidazione, cedimento della membrana cellulare, nessuna delle quali pare rispondere alle terapie tradizionali. Becker considera la morte cellulare in caso di arresto cardiaco come un processo in due fasi, che inizia con la privazione di ossigeno che predispone le cellule all'apoptosi. Quando poi il cuore riparte e il paziente riceve ossigeno in abbondanza nei polmoni, si innesca quello che è detto danno da riperfusione. In pratica, ciò che è necessario a salvare la vita del paziente finisce col porvi fine, pregiudicandone la sopravvivenza o uccidendolo del tutto. I ricercatori hanno rovistato in tutto il loro arsenale di farmaci alla ricerca di un modo efficace per interrompere questa reazione a catena. Nel corso degli anni hanno sperimentato varie tecniche su circa 100 mila pazienti in tutto il mondo. Nessuna però ha dimostrato beneficio alcuno, secondo quanto ha dichiarato Michael Lincoff, direttore della Ricerca cardiovascolare alla Cleveland Clinic. Una cosa sola è parsa funzionare, qualcosa di talmente ovvio e low-tech che i medici stentano ad accettarla: l'ipotermia, l'abbassamento della temperatura corporea provocato di proposito, fino a raggiungere una temperatura di 33 gradi. La ricerca condotta da una équipe europea nel 2002 ha permesso di constatare risultati positivi nel corso di uno studio su svariate centinaia di pazienti in arresto cardiaco: quelli il cui corpo era stato raffreddato hanno avuto un tasso di sopravvivenza maggiore e un danno cerebrale minore rispetto a un gruppo di controllo.
La prima importante conferenza internazionale sul raffreddamento corporeo si è svolta in Colorado nel febbraio scorso. Nonostante gli studi favorevoli e il fatto che tali tecniche abbiano ricevuto l'avallo dell'Associazione americana di cardiologia, "la gente stenta a credere che qualcosa di così semplice come il raffreddamento possa fare davvero una grande differenza", ha detto l'organizzatore della conferenza, Daniel Herr del Washington Hospital Center di Washington. I due più importanti produttori di apparecchiature per l'ipotermia, Medivance Inc. e Gaymar Industries, dicono che soltanto 225 ospedali sugli oltre 5.700 presenti negli Stati Uniti hanno installato i macchinari necessari. Lo scetticismo dei più è dovuto al fatto che nessuno capisce molto bene come funzioni. "In breve: non sappiamo ancora perché funziona", ha detto il neuroscienziato della Penn Robert Neumar.
Il Centro di rianimazione di Becker coordina con il reparto di pronto soccorso un protocollo per raffreddare i pazienti in arresto cardiaco. Dal 2005 a oggi soltanto 14 pazienti hanno soddisfatto i criteri necessari per esservi sottoposti: otto di loro sono sopravvissuti, sei dei quali con un recupero completo. Nessuno però sa quanti altri pazienti siano stati trattati nel resto del paese.
Bondar è arrivato al Penn all'1.30 di notte circa, ancora in coma. Una volta presa la decisione di raffreddarne il corpo, l'équipe di medici gli ha somministrato in endovena una soluzione salina fredda - due litri a circa 4 gradi Celsius - e lo ha avvolto in una ragnatela di tubi pieni di acqua fredda. Becker è dell'idea che raffreddare il corpo dei pazienti ancora prima (l'ideale sarebbe mentre raggiungono l'ospedale in ambulanza) avrebbe un'efficacia anche superiore. Parte del lavoro di ricerca del suo laboratorio consiste nel mettere a punto una miscela a base di soluzione salina e ghiaccio che possa essere iniettata da un paramedico. Bondar è stato mantenuto in ipotermia a circa 33 gradi Celsius per quasi un giorno intero, poi è stato lentamente riportato alla temperatura normale. È rimasto stabile, ma senza reazione, nei tre giorni successivi.
Il primo giugno, nove giorni dopo essere morto, Bill è tornato a casa. Gerstenfeld gli ha impiantato un defibrillatore, gli ha ripulito l'arteria bloccata e gli ha inserito uno stent per mantenerla aperta. "È perfettamente a posto", ha detto: "Era morto, anche se solo per qualche minuto. In realtà, avrebbe potuto andare molto peggio: avrebbe potuto essere morto-morto".
hanno collaborato Matthew Philips, John Raymond e Julie Scelfo
2007, 'Newsweek' - 'L'espresso'
traduzione di Anna Bissanti
Tre passi per risorgere
Inducendo l'ipotermia in un paziente rianimato dopo un arresto cardiaco, i medici sono in grado di ridurre la morte cellulare e di migliorare le possibilità di un recupero completo.
Le tecniche tradizionali di rianimazione innescano
un meccanismo autodistruttivo delle cellule detto apoptosi. Raffreddare il corpo significa inibire tale processo. Ecco come:
1 Iniezione di soluzione salina
Prima di tutto i medici iniettano endovena due litri di una soluzione salina ghiacciata.
2 Raffreddamento rapido
Si introduce acqua fredda in circolo in tubi collegati a cuscinetti applicati al torace e alle gambe
del paziente. I cuscinetti imbottiti raffreddanti sono formati da tre strati: uno isolante, un film sottile, uno strato adesivo
3 Ipotermia
La temperatura corporea interna è portata a circa 33 gradi Celsius e mantenuta tale per 24 ore.
Quasi quasi mi faccio ibernare
Gente che ritorna dall'aldilà. Senza ricordare nulla. Ma se la morte è un processo, molti rimangono convinti che, nonostante la mancanza di polso, di respiro o di qualche funzione cerebrale percepibile, qualcosa di vitale permanga. Questa è la convinzione che spinge alcune persone a pagare affinché il loro corpo dopo la morte sia congelato in nitrogeno liquido: la speranza che un giorno possano essere scongelati e riportati alla vita. L'Alcor Foundation di Scottsdale, in Arizona, ha in lista 825 aspiranti clienti che hanno sottoscritto un contratto, e ne ha ibernati già 76. E non si tratta in tutti i casi di corpi interi: alcune persone scelgono di farsi congelare soltanto la testa che, a parte il fatto di costare molto meno che congelare un corpo intero, si iberna in tempi molto più rapidi, abbassando così il rischio di danno inferto alle cellule dal ghiaccio. Nessuno sa, però, ancora come scongelare un corpo congelato, per non parlare di una testa. Ma gli aspiranti ibernati di Scottsdale confidano nella scienza. Una possibilità ancorché assai remota, secondo Tanya Jones, funzionario capo operativo di Alcor, è quella di prelevare una cellula dalla testa e clonare un nuovo corpo al quale attaccarla. L'altra possibilità potrebbe essere quella di effettuare una scansione tridimensionale dell'intera disposizione molecolare del cervello, e inserirla in un computer che in un secondo tempo possa, in via del tutto ipotetica, ricostruire la mente, o come un'entità fisica vera e propria, o come un'intelligenza priva di corpo nel cyberspazio. Roba da fantascienza. Ma Ralph Merkle, membro del consiglio di amministrazione di Alcor, ha utilizzato questa idea per divulgare una quarta definizione di morte: morte teoretica dell'informazione, che designerebbe il momento nel quale il cervello soccombe alle spinte dell'entropia e la mente non può più essere ricostituita. Soltanto allora, dice Merkle, si è morti davvero, morti per sempre.
da espressonline.it
Admin:
Adolescenti virtuali
Giovanni Bollea
Cosa penso dell’adolescenza attuale? Ebbene, io sono sempre più convinto che pensare all’adolescenza oggi, significhi soprattutto pensare all’importanza biologica dei processi del pensiero: percezione, memoria, immaginazione, che sfociano, appunto, nel pensiero dal quale poi parte l’azione; il mondo interiore ha, quindi, un’importanza vitale per la formazione della personalità che si forma attraverso un processo di adattamento, il quale a sua volta si manifesta in due momenti: ritiro dal mondo esterno e ritorno ad esso con la propria padronanza e capacità di critica.
Ma il mondo della percezione e quello del pensiero sono entrambi fattori di regolazione dell’io e di quel processo di adattamento che consiste, appunto, nel ritirarsi prima dalla realtà per poterla criticare, e poi ritornarvi per poterla dominare meglio.
Ma oggi, in particolare, l’adolescente ha bisogno che la percezione e l’immaginazione lo aiutino a orientarsi nelle visoni spazio-temporali, dalle quali è continuamente stimolato. Un processo di interiorizzazione che deve creare un rapporto tra adattamento, sintesi e differenziazione della realtà. Ma è il pensiero che, già nell’adolescenza, deve subito creare un ponte fra tutti questi elementi! E quanto più un ragazzo si differenzia e si autonomizza nelle sue percezioni meditate, tanto più diventa indipendente dagli stimoli eccessivi e scoordinati dell’ambiente e dalle tecnologie che lo influenzano. È così che si crea il suo rapporto con l’azione: azione che, per questo motivo, potrà essere negativa o positiva. Ma se le funzioni come il controllo selettivo, l’esame della realtà, la possibilità di vedere il mondo in modo obiettivo e l’astrazione controllata sono disturbate, a tutto ciò corrisponderà un insuccesso nell’adattamento, perché la conoscenza è sempre legata alle condizioni esistenziali di ogni individuo. L'adolescente deve, quindi, essere aiutato a raggiungere una funzione ottimale del suo pensiero razionale che è determinato dalla sua maturità, dalla sua forza e dalla struttura del suo «io». Tutto questo per poter arrivare a un vero adattamento alla realtà in cui vive.
Ma quando vediamo i ragazzi vivere, invece, vite parallele come nel mondo virtuale di Internet o in un programma come «Second life», che fortunatamente va diminuendo, nei blog o nei loro interminabili viaggi nella rete, questo equilibrio si rompe, perché manca il collegamento tra percezione e pensiero. E non solo: mancando la critica nell’accettazione fra elementi razionali ed elementi irrazionali, la loro ragione può soccombere di fronte all’irrazionalità. Questo è il vero pericolo.
I nuovi neuropsichiatri devono quindi organizzarsi per creare nei bambini e ragazzi un processo di conoscenza e di critica nelle relazioni con l’ambiente e con le nuove tecnologie, che adesso per molti di loro, ormai, sostituiscono addirittura la vita affettiva e cioè la famiglia. È perciò sempre valido il significato che Freud dava alle parole «ragione», «intelligenza» e «spirito scientifico», usandole come sinonimi. Dobbiamo subito lavorare tutti per capire e lottare contro l’irrazionalità implicita nella psicologia di massa, con la quale i nostri bambini e adolescenti devono scontrarsi ogni mattina, quando si alzano dai loro sonni sempre meno tranquilli.
Mi sembra che, dal lato pragmatico e pratico la nuova Neuropsichiatria infantile debba lavorare affinché la scuola sia modernizzata e si cambino i programmi che devono diventare realisticamente internazionali. Una scuola aperta a nuove sollecitazioni positive e mai negative, che guidi i giovani in questo salto epocale, ma sempre con l’aiuto dei genitori.
Ecco come aiutare oggi l’adolescenza!
Questo rapporto genitori-scuola deve essere molto più frequente, almeno tre o quattro sedute mensili organizzate dalle scuole con la costante presenza della madre. Per informarsi sulle novità negative e positive delle realtà che circondano i loro figli. Il genitore inoltre ne deve sempre conoscere amici e compagni e dare possibili giudizi, negativi o positivi, sul gruppo scolastico. Sapere se c’è e come è formato il «branco» e inoltre informarsi sulle famiglie e il lavoro dei genitori.
Il rapporto padre-figlio, come insisto da anni, deve allargarsi: il genitore deve parlare della vita sociale e di quella politica. Dei doveri e dei compiti di un buon cittadino e aiutare a sviluppare vari tipi di associazioni. E non solo quelle educative e sportive, ma culturali, artistiche, musicali; creando nello stesso tempo spazi di aggregazione per i ragazzi e associazioni che si occupino dei più bisognosi, le quali possono così avviarli a un vero volontariato, sviluppandone varie forme.
Ma soprattutto scoprire a ogni costo se e come circola la droga fuori e dentro la scuola, individuandone gli studenti spacciatori per poi denunciarli. Insegnare a non fidarsi completamente dei figli tranquilli e cosiddetti «puliti». Perché tali si mostrano ai propri genitori, mentre sono attentissimi a non farsi scoprire sotto l’effetto di alcol e droga. Oggi hanno imparato infatti a nascondersi in maniera così accorta da trasformare i genitori nei loro più convinti difensori. Nonostante tutto ciò, dovete fare leva su quella parte positiva e valida che le statistiche ci danno all’86%, appartenenti comunque a famiglie con genitori non separati. Diamo loro stimoli e interessi pratici e realistici, considerandoli perciò dei veri cittadini già a 16anni, preparandoli al voto amministrativo, che li aiuterà a prendere coscienza delle loro responsabilità in campo sociale votando poi a 18 anni alle politiche.
Personalmente sto lottando dal 2001 affinché questa mia richiesta diventi una legge ben codificata e strutturata.
Voi però dovete anche lottare affinché il «branco» non si imponga e i reality show vengano trasmessi il meno possibile, che il programma «Sècond life» sia abolito in quanto portatore di atteggiamenti schizoidi, derivati da un vero e proprio pericolo di sdoppiamento della personalità.
Ma attenzione ai blog: l’uso deve essere controllato, ma non demonizzato, essendo ormai diventati i sostituti del diario personale che, se una volta era segreto e nascosto, oggi è visitato da chiunque possa dare loro l’impressione di strapparli a quella pericolosa solitudine che li allontana sia dall’autorealizzazione, sia dall’autoaffermazione. Se sappiamo tutti che internet è uno strumento prezioso, sappiamo anche che può allontanare sempre di più l’individuo da quell’autonomia dell’io che se si lascia influenzare dalle percezioni e dagli istinti, deve anche riuscire lui stesso a influenzarli, con i propri personali metodi di difesa. Ecco i miei pensieri sull’adolescenza attuale. Pensieri che sono iper-semplificazioni da elaborare, ma ricordatevi che le misure correttive non sono mai sufficienti.
E se quanto ho proposto potesse realizzarsi varrebbe ancora il leit-motiv dominante nella mia lunga esperienza di neuropsichiatra infantile. «Un bambino felice sarà un adulto maturo». E, riguardo all’adolescenza, «un adolescente felice sarà un cittadino maturo».
Ed ora voglio aggiungere che un consiglio, un aiuto ben dato sono come una poesia che libera la tensione e fa sentire più felici. Il mio messaggio è perciò questo: aiutare i bambini e ragazzi a stare meglio insieme agli altri e a vivere nel gruppo. Per far questo dovete imparare a prevenire in loro lo sviluppo delle tendenze antisociali senza ricorrere a proibizioni categoriche e scontate e non convincenti. Imparate a gestire i loro sensi di colpa lasciando nei bambini quella piccola ma sana aggressività spontanea che li difenderà nella vita sia prima che dopo l’adolescenza. Ricordatevi che fallire l’assistenza di un bambino significa perdere una battaglia ma non la guerra, e quindi continuate a lottare senza arrendervi mai anche dopo una terapia che non si è risolta come speravate. Imparate a trasmettere loro la capacità di stare soli che è il contrario dell’angoscia di «essere» soli, cercando sempre di entrare in contatto con il loro vero Sé. Tenendo però sempre conto del loro falso Sé. E ricordatevi inoltre che oggi esiste una larga fascia di adolescenti molto positivi che reagisce agli input negativi riuscendo a combattere le spinte autodistruttive più aggressive e a far migliorare i rapporti con famiglia, scuola e società. La mia speranza solo apparentemente scontata è che troviate giorno dopo giorno la stessa forza per far varare e poi osservare quelle leggi che ho chiesto poc’anzi. Senza usare violenza ma con la convinzione: attraverso la cultura del linguaggio.
E non dimenticate mai quello che ho già detto: un bambino felice e un adolescente felice saranno uomini e cittadini maturi.
Intervento pronunciato da Giovanni Bollea al Congresso europeo di neuropsichiatria infantile di Firenze
Pubblicato il: 01.09.07
Modificato il: 01.09.07 alle ore 8.38
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