POCO LETTI (ARCHIVIO)

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Via Langer o via Craxi, le strade della politica

Toni Jop


Ma guarda: se si vuole intitolare una strada a Craxi non c’è problema, se invece, come si è visto a Bolzano, si intende marcare una via con una dedica ad Alexander Langer si rischia di andare a sbattere contro uno scalino imprevisto. Vogliono che la storia sia ricordata come piace a loro mentre per noi invocano un Alzheimer che, se non ci agitiamo, male non fa. Tanto, suggeriscono, il più pulito ha la rogna: vogliamo capirlo sì o no? No che non vogliamo, ma senza rabbia, senza rancore. Con lo stesso stile con il quale - tornando al caso della strada bolzanina dedicata a Langer, che mi fu amico per lunghi anni - vorrei spendere parole in controtendenza rispetto ai commenti radicati anche nel più benevolo punto di vista. Il bersaglio fin qui preso di mira dalla cronaca, per iniziare questa laboriosa risalita di sensi. Il consigliere comunale della Volkspartei che ha posto il veto sulla dedica della strada ad Alex Langer. Ha detto di no, ha manifestato ostilità nei confronti della figura politica che la proposta intendeva celebrare. Ha anche motivato formalmente la sua antipatica posizione, sostenendo che il suo cattolicesimo gli impediva di dedicare una strada a un uomo morto di suicidio. Una goffa pezza. Azione esecrabile, come si dice, per aver negato un gesto che appartiene in fondo al sacro campo dell'umana pietà, e anche per quella pezza d'appoggio. Il quadro politico si è schierato, con accenti diversi e in tempi diversi, in difesa del primato non dichiarato della «pietas» ed è riuscito a rendere inoffensivo il veto nonché a insonorizzare molto presto la cultura politica che quella obiezione rendeva esplicita. La questione, a questo punto, è stabilire se il «no» del rappresentante del grande partito di raccolta sudtirolese, sia stato il frutto di un bizzarro imbarbarimento privato, oppure l'iceberg di una cultura di ghiaccio che ha governato la separazione etnica e la soddisfazione corporativa dei singoli gruppi linguistici nel corso di questi lunghi anni.

In altre parole, conviene sapere se siamo di fronte a una responsabilità individuale oppure collettiva, meglio ancora, se l'atteggiamento manifestato da quel pezzo di Volkspartei in questa occasione sia coerente o meno con i passati comportamenti messi in campo non solo dalla Svp ma anche dagli altri partiti che si occupano di amministrare la serenità del gruppo italiano. Mentre Langer era vivo, ciò che diceva e faceva dispiaceva al cosiddetto «quadro politico», - leggere le cronache di allora per credere - con alcune rare e censurate eccezioni. Si era meritato dalla Svp l'appellativo infamante di «traditore» per aver sostenuto, lui di lingua tedesca, che la «proporzionale» - strumento di governo che aveva ed ha l'obiettivo di «risarcire», nella divisione delle risorse pubbliche, il gruppo di lingua tedesca - veniva applicata oltrepassando i principi costituzionali. Per lo stesso motivo, aveva anche lottato con forza contro il censimento etnico nominale che aveva il potere di incarognire e in alcuni casi di rendere opportunistica la scelta di appartenenza al gruppo linguistico tedesco. Langer non aveva solo messo in discussione il partito di raccolta di lingua tedesca; anche i partiti di lingua italiana dell'«arco costituzionale» venivano posti in mora da questa critica fondamentale: era una mina piazzata sotto i cordoni delle soggezione che legavano a filo doppio questi ultimi al potere della Svp. In fondo, a loro andava bene così: ciascuno si limitava ad amministrare il suo pezzetto di elettorato italiano sulla base della accettazione di una rigorosa separazione etnica alla quale la Volskpartei teneva più di ogni altra cosa. In cambio ne ricevevano un conferimento certo di risorse e la possibilità di sedere accanto alla Svp degni della sua considerazione come formali interlocutori del dibattito politico. Attaccare l'Svp, allora, significava attaccare il perno dell'intero quadro di riferimento, il soggetto che governava distribuendo legittimità politiche così come la Chiesa di qualche secolo fa distribuiva indulgenze.

Che lo facesse un «tedesco» era intollerabile, per questo su Langer vivo fu posto un primo veto: non doveva esistere e se qualcosa trapelava di questa esistenza negata era comunque degno di essere liquidato con una battuta sarcastica, niente di più. In consiglio provinciale, Alexander Langer era una presenza destabilizzante alla quale Silvius Magnano - leader morale e politico della Volkspartei e del governo - non rivolgeva mai la parola; ma fuori dal Consiglio, i partiti di lingua italiana lo vedevano come un pericolo incombente; persino il vecchio Pci-Kpi per lunghi anni sottoscrisse nei suoi confronti un ostracismo tenace e preferì leggere il movimento che Langer animava come un fenomeno di destra da seguire facendo appello a quella vigilanza che si attivava solo nei confronti delle minacce fondamentali della libertà. Vietato parlare con Langer, vietato riconoscerlo come interlocutore politico, vietato accettare la sua critica istituzionale, vietato stringere la mano alla cultura dei Verdi Alternativi che lui rappresentava. Nonostante la forza crescente di questo movimento interetnico, nonostante il credito europeo di Langer come uomo di pace e dei confini aumentasse di anno in anno, da una crisi internazionale all'altra. Gli impedirono di candidarsi come sindaco di Bolzano, per il semplice fatto che lo privarono dei diritti di cittadinanza passivi poiché si era rifiutato di dichiararsi questo o quello in un censimento nominale che lui aveva giudicato ingiusto e ostile alla cultura dello scambio.

Si uccise da lì a poco, schiantato dai suoi problemi psicologici e da questo ennesimo segno di rifiuto che lo aveva posto al di fuori della società sudtirolese, nonostante l'incrollabile tenacia con cui aveva tentato di farsi ascoltare, di far passare il senso delle sue ragioni. Perché, questo non lo dice nessuno, Alex amava la sua terra di un amore innamorato che chiedeva conferme, ricevute di ritorno mai arrivate. Gli rispose l'Alta Corte affermando che aveva subito un gravissimo torto: la decisione di impedirgli la corsa alle elezioni era incostituzionale. Peccato che nel frattempo se ne fosse andato dove la posta non arriva. Quando decise di togliersi la vita, Langer era, con Messner, il sudtirolese più famoso nel mondo, e non perché avesse scalato il palazzo della Provincia ma perché era diventato uno dei pochi intellettuali europei che avevano fatto della costruzione della pace una professione. Tuttavia, il ghiaccio non si era sciolto neppure dopo la sua morte: non ricordiamo iniziative pubbliche del Consiglio provinciale di Bolzano per ricordare la sua figura, per celebrarne la cultura e anche il centrosinistra di ora, pur promuovendo il via libera alla intitolazione della strada, lo ha fatto con compitezza doverosa più che con convinzione appassionata: non si trattava di dedicare una strada a Langer ma di restituirgli finalmente il riconoscimento che la sua terra gli ha negato in vita.

Ecco perché il mio più grande disagio in questa vicenda è venuto più dalla ipocrisia che ha recitato un quadro politicamente corretto piuttosto che dalla sciocca, impolitica opposizione espressa da un consigliere colpevole di non aver capito come i tempi stessero cambiando. La targa di Langer sta ora nascosta in un angolo di periferia della sua Bolzano. Ma noi, che sappiamo la storia per averla vissuta senza pregiudizi, abbiamo pazienza: verrà il momento in cui questa bellissima terra troverà il coraggio di aprire gli occhi.

Pubblicato il: 04.07.07
Modificato il: 04.07.07 alle ore 13.33   
© l'Unità.

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SALUTE

PSICHE
Se il malato è immaginario
di Simona Argentieri*
 


La medicina preventiva è una grande conquista.

Benvengano dunque tutte le iniziative che incoraggiano i cittadini a indagare sui possibili segni premonitori di malattia: dai danni respiratori dei fumatori al tumore al seno delle donne. Peccato però che non sia possibile prevenire il subdolo fenomeno correlato per cui ad affollare gli ambulatori deputati alla diagnosi precoce non sono i veri pazienti a rischio, ma gli ipocondriaci. Costoro sono perennemene assillati dall'idea di avere qualche grave affezione morbosa; se entrano in contatto con un malato, o anche se solo ne hanno notizia alla lontana, subito sentono gli stessi sintomi e pretendono le più minuziose indagini specialistiche. Apparentemente sono dei pazienti ideali, scrupolosi e collaborativi; spesso hanno addirittura una sofisticata, seppure ovviamente superficiale competenza, tale da rivaleggiare con i medici, ai quali vengono così fornite sottili esche diagnostiche. Ma ben presto si rivela il loro gioco maligno, il cui scopo inconscio è svalutare la capacità dei dottori e dimostrarne l'inadeguatezza. Il medico, per parte sua, considera i malati immaginari un'ineluttabile molestia e una perdita di tempo; ma non li può liquidare prima di avere escluso che un granellino di verità ci possa essere nelle loro pressanti richieste di cura.

In maggioranza, gli ipocondriaci sono maschi, più propensi - si dice - a spostare sulla concretezza del corpo le inquietudini profonde. Ma io penso piuttosto che le donne trasferiscano le ansie ipocondriache sui figli, vissuti in modo ambivalente come parte amata/odiata di sé, che tormentano e fanno tormentare mentre pretendono di proteggerli.

Gli ipocondriaci assillano i medici. Il paradosso è che talora si affannano intorno a un male fittizio, mentre negano qualche altro sintomo davvero preoccupante. Il meccanismo inconscio è quello di angosciarsi preliminarmente, per poi godere di una tregua dall'ansia, e quindi ricominciare cambiando il sintomo e magari il medico, ma non il meccanismo. Spostando l'angoscia su un qualche malanno immaginario - terribile ma eccezionale - che viene di volta in volta scongiurato, riescono a rimandare il vero problema: la consapevolezza di essere mortali.

*medico psicoanalista, membro delll'Associazione Italiana di Psicoanalisi e dell'International Psycho-Analytical Association


da espressonline

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2007-07-24 09:08

ANCHE BIBITE LIGHT AUMENTANO RISCHI PER IL CUORE


 ROMA - Per i numerosi fan delle bibite light sarà un duro colpo: secondo uno studio pubblicato da Circulation, la rivista dell'American Heart Association, consumare una o più soft drink al giorno, anche senza zucchero, aumenta il rischio di avere problemi cardiovascolari. I ricercatori dell'università di Boston hanno studiato 9mila persone di mezza età per quattro anni.

All'inizio dello studio, quelli che consumavano una o più bibite al giorno, sia light che normali, hanno mostrato un aumento del 48% della prevalenza di sindrome metabolica, un insieme di fattori (obesità, pressione alta, bassi livelli di colesterolo 'buono' ed altri) legati al rischio di diabete e problemi cardiaci. Dopo quattro anni, i partecipanti allo studio che non avevano sindrome metabolica all'inizio, hanno mostrato un aumento del rischio di svilupparla del 44% se erano consumatori abituali di soft drink.

Un'analisi limitata ai consumatori abituali, cioé a persone che dichiaravano di bere bibite almeno una volta al giorno, ha mostrato una percentuale di rischio maggiore fino al 60%. "Siamo stati molto colpiti dal fatto che non c'é nessuna differenza se nella dieta ci sono bibite con o senza zucchero - ha commentato Ramachandran Vasan, che ha coordinato lo studio - i risultati non sembrano essere influenzati dal resto della dieta dei soggetti, perché abbiamo tenuto conto nell'analisi anche di tutti i fattori alimentari".

Sulle spiegazioni per questo fenomeno non ci sono teorie universalmente accettate: secondo gli autori un ruolo potrebbe averlo il fatto che se si consumano liquidi non scatta il meccanismo di compensazione secondo cui, ad esempio, dopo un pasto abbondante se ne fa uno più scarso. 

da Ansa.

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Ovviamente, anche se aiuta, non può dare garanzie

Aids: prevenzione «chirurgica»

La tecnica utilizzata fin nell’Antico Egitto, può ridurre del 60 per cento le infezioni.

Può essere utile nei Paesi del terzo mondo 
Dal nostro inviato

SYDNEY – La circoncisione riduce del 60 per cento il rischio di infettarsi con il virus dell’Aids negli uomini giovani: più o meno la stessa efficacia di un vaccino (che, comunque, non esiste ancora). «E’ una delle scoperte importanti dell’anno – ha detto l’americano Anthony Fauci, direttore del National Institute of Allergy and Infectious Diseases di Bethesda, massimo esperto mondiale dell’Aids e consigliere del Presidente Bush su questi temi al congresso dell’International Aids Society in corso a Sydney. –Adesso dobbiamo rendere accessibile al mondo questi metodi di prevenzione la cui efficacia è ormai dimostrata». L’utilità della circoncisione per gli uomini è stata documentata da una serie di ricerche condotte in Kenia e in Uganda. Attualmente è in corso , sempre in Uganda , un altro studio che ha l’obiettivo di valutare l’impatto di questa tecnica sulla prevenzione dell’infezione nelle partner donne e i risultati saranno disponibili alla fine del 2007.

EBREI E MUSULMANI- La maggior parte degli uomini non è circoncisa, ma lo sono tutti i musulmani e gli ebrei. La tecnica ha origine nell’Antico Egitto e la prova più antica si ritrova in una tomba della Sesta Dinastia (2345-2181 a.C.) dove un dipinto mostra il rito eseguito su un uomo in piedi. Greci e Romani, invece, non si sottoponevano a questo intervento e agli uomini circoncisi non era permesso gareggiare alle Olimpiadi. La Genesi colloca l’origine del rito della circoncisione fra gli ebrei all’epoca di Abramo, attorno al 2000 a.C.. Uno scrittore ebreo del primo secolo sostiene che la circoncisione può avere numerosi vantaggi nel campo della salute, della pulizia in generale, della fertilità e come simbolo «della eliminazione di tutti i piaceri eccessivi e superflui». La circoncisione non religiosa, almeno nei Paesi anglosassoni, cominciò a diffondersi nel XIX secolo in un clima di paure che riguardavano soprattutto la masturbazione. Poi la maggior parte di questi paesi l’abbandonò a partire dagli anni Cinquanta, tranne gli Stati Uniti dove ancora il 60 per cento dei neonati è circonciso.

PORTA D’INGRESSO - Fin dal 1986, numerosi studi avevano dimostrato che la maggior parte degli uomini dell’Africa dell’est e del Sud dove la diffusione dell’Aids era molto elevata, non erano circoncisi. Un altro studio, che metteva a confronto indiani di religione induista (non circoncisi) e indiani di religione musulmana (circoncisi) , aveva evidenziato un maggiore rischio di infettarsi per i primi rispetto ai secondi, a parità di abitudini sessuali. Si è pensato allora che la circoncisione potesse ridurre il rischio grazie al fatto che viene asportata una parte di pelle che contiene le cosiddette isole di Langherans, cellule che costituiscono un bersaglio per il virus dell’Aids: durante il rapporto questo strato di pelle si ritrae e queste cellule sono esposte ai fluidi del partner eventualmente infetto.

SICUREZZA - «Il 30 per cento della popolazione maschile mondiale è circoncisa – ha ricordato Robert Bailey professore di Epidemiologia a Chicago durante il suo intervento al congresso . – In Africa lo sono il 67 per cento». Basandosi su queste cifre, Bailey ritiene che milioni di nuove infezioni potrebbero essere evitate grazie alla diffusione di questa tecnica, soprattutto nelle aree a alta diffusione della malattia. Esperti dell’Unaids, l’agenzia delle Nazioni Unite per l’Aids sottolineano, comunque, che la circoncisione riduce il rischio, ma non lo elimina completamente e ribadisce la necessità di una corretta informazione alla popolazione. Rimane il problema della sicurezza dell’intervento. Attualmente la maggior parte delle circoncisioni al mondo sono praticate da non medici e la procedura può comportare infezioni, sanguinamenti e danni al pene. Una diffusione di questa pratica deve quindi prevedere l’addestramento del personale, attrezzature chirurgiche e una assistenza adeguata. Tutto da organizzare soprattutto nei Paesi più poveri.

Adriana Bazzi
24 luglio 2007


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L'esperto dell'Iss: «A livello di prevenzione individuale le strategie però non devono cambiare: condom necessario»

A livello individuale non cambia niente

«Questi studi danno maggiore consistenza a un'ipotesi già nota» commenta Gianni Rezza, direttore del laboratorio di epidemiologia delle malattie infettive dell'Istituto Superiore della Sanità. « E sono importanti in termini di "grandi numeri", ma molto meno a livello indviduale».
«Riuscire a ridurre la diffusione del virus in grandi popolazioni in cui non si riesce a introdurre altre forme di protezione è molto importante, perchè può abbassare e rallentare in modo drastico la circolazione del virus, ma se trasferiamo la stessa riduzione su scala personale le cose cambiano drasticamente perchè si tratta di una riduzione che non fornisce ovviamente alcuna garanzia».
Il preservativo, insomma rimane indispensabile per proteggersi.
«I metodi di barriera classici, come il preservativo, rimangono irrinunciabili, anche per chii è circonciso, in caso di comportamenti a rischio. Per fare un'esempio» conclude l'esperto, «chi se la sentirebbe di attraversare una strada bendato sapendo che c'è una probabilità su due che passi di lì un'automobile a 100 all'ora proprio in quel momento?».

l.r.

 
da corriere.it

Admin:
I bambini israeliani sono i meno timidi: all'altro estremo i giapponesi

Il segreto della timidezza

La paura degli altri dipende in gran parte dall'ambiente.

Decisiva la famiglia ma anche la cultura del popolo cui si appartiene


STATI UNITI - La timidezza è uno degli stati emotivi più comuni e più misteriosi al tempo stesso. Tutti o quasi tutti noi l'abbiamo provata almeno qualche volta e, secondo alcuni studi elaborati da istituti statunitensi specializzati come il californiano Shyness Institute, riguarda davvero una grande fetta della popolazione. Il 50 per cento degli americani intervistati nel 2000 ha dichiarato di soffrire di timidezza cronica, un dato in aumento rispetto al 40 per cento registrato nel 1970. Un altro 40 per cento dichiara di essere stato timido e di aver superato il problema. Il 15 per cento dice di soffrire di timidezza solo in determinate occasioni. Solo un fortunato ma sparuto 5 per cento sostiene invece di non aver mai conosciuto questa sensazione.

LE CAUSE - Anche se il problema è noto, molto meno chiare sono le cause e i rimedi. Il dibattito sull'origine della timidezza è ancora aperto, ma l'ipotesi più accreditata ultimamente è che si tratti di una mescolanza tra genetica e ambiente familiare. In altre parole si può nascere con una predisposizione innata ma lo sviluppo in età giovanile di una vera timidezza o meno dipende soprattutto dai genitori e dalla cultura del Paese in cui si vive. Si sono rilevate per esempio anche notevoli differenze tra le popolazioni: i bambini israeliani sono i più fiduciosi e aperti, quelli giapponesi e di Taiwan i più timidi. In questo caso il fattore decisivo è la cultura generale di un popolo. Le società individualistiche sembra che favoriscano l'espressione personale, e quindi il superamento della timidezza più delle altre.

GRANDI E TIMIDI - La famiglia torna al centro dell'attenzione. Genitori ansiosi e stressati possono esasperare le inclinazioni del neonato e creare un bambino timido, che non prova piacere ma paura al contatto con gli altri. Se poi la timidezza sopravviene nella vita di un giovane o di un adulto, di sicuro la genetica non c'entra. Secondo Bernardo Carducci, direttore dello Shyness Research Institute dell'Università dell'Indiana, intervistato dal Times, dire che una persona nasce timida è un controsenso, poiché è una sensazione correlata al senso di sé, che l'essere umano sviluppa solo dopo i 18 mesi. Ad essere più precisi, dipende da tre caratteristiche che vanno oltre la normalità: un'eccessiva auto consapevolezza, una valutazione negativa di sé e una forte preoccupazione per se stessi. Tutto questo fa sì che il timido si senta sempre sotto osservazione e non riesca ad agire in modo naturale; sia, paradossalmente, troppo concentrato su di sé per essere socievole.

Francesca Martino
24 luglio 2007
 
da corriere.it

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