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Autore Discussione: LEGGERE per capire... non solo la politica.  (Letto 131791 volte)
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« Risposta #165 inserito:: Settembre 07, 2008, 10:35:51 am »

Pontida vista da Edimburgo

Marco Simoni *


Alex Salmond è il primo ministro scozzese, un politico energico e carismatico che guida un governo di minoranza ed un partito che continua ad avere nel suo programma l’indizione di un referendum per l’indipendenza della Scozia. In questi giorni a Edimburgo, teatro di uno degli esempi recenti maggiormente citati di devolution, si tiene la più grande conferenza mai organizzata dalla associazione universitaria di studi europei (Uaces), e il primo ministro ha tenuto un orgoglioso discorso di benvenuto alle centinaia di docenti universitari giunti da tutto il mondo (con una eccezione: neanche un docente da università italiane nella lista dei partecipanti, il nostro governo, che ha ridotto al lumicino le risorse per la ricerca, potrebbe forse essere sensibile almeno al rischio della “brutta figura”).

La Scozia dal 1999 ha un suo parlamento ed un suo governo, con poteri superiori a quelli delle nostre regioni, in temi come la sanità, l’educazione, la polizia, l’ambiente. Le università, di altissima qualità (il principe William ha studiato a St. Andrews, appena più a nord di Edimburgo), erano completamente gratuite per gli studenti scozzesi a seguito di una decisione del parlamento di Edimburgo; ora le rette vanno pagate a rate dopo essersi laureati ed aver iniziato a lavorare. La finanziaria più recente, scritta da Salmond, prevede tra le altre cose un aumento delle risorse destinate alla assistenza sanitaria di base, in particolare nelle aree più povere, un aumento degli agenti di polizia, ed una diminuzione delle tasse sulle aziende dal tipico sapore conservatore.

Osservare da vicino questa devolution detta e fatta (era nel programma con il quale Blair vinse le elezioni nel 1997 e nel 1998 era già diventata operativa) porta a riflettere sulle enormi differenze con la retorica del federalismo imperante nel nostro paese da circa quindici anni, e sulle recenti proposte del governo. La Scozia ha una sua identità ed una sua storia di reame distinto da quello inglese. Costumi e tratti culturali unificano molto chiaramente un territorio vasto e lontano da Londra. Ma a parte i temi socio-culturali, che pure conservano la loro rilevanza, la differenza principale sta nel fatto che la Scozia, che ha voluto e ottenuto una ampia autonomia legislativa e impositiva, è uno dei territori più poveri del Regno Unito. Al contrario, i più ferventi sostenitori della necessità storica e delle virtù palingenetiche del federalismo in Italia sono i rappresentanti politici delle regioni ricche.

Negli scorsi mesi, a volte con inutili polemiche condite da interpretazioni dietrologiche, ci si è stupiti della propensione di una parte rilevante del Partito Democratico a tessere un dialogo con la maggioranza, e segnatamente con la Lega, al fine di arrivare ad approvare quel che viene chiamato “federalismo fiscale”, al momento ancora in forma di bozza presentata dal ministro Calderoli a ridosso di Ferragosto. Questa nuova riforma dovrebbe rendere completa la devolution di casa nostra, conferendo entrate fiscali dirette alle regioni, e condizionando trasferimenti a vantaggio delle regioni povere agli standard di efficienza delle regioni più virtuose. Una tabella pubblicata dagli esperti de lavoce.info, Giampaolo Arachi e Alberto Zanardi, mostra come le conseguenze distributive che si possono prevedere siano tutt’altro che marginali. In estrema sintesi, la nuova legge stabilisce il principio per il quale il costo unitario dei servizi deve essere uguale in tutt’Italia. La redistribuzione a favore delle regioni più povere coprirà solo questi “costi standard”, ossia i costi che sostengono per unità di prestazione le regioni maggiormente efficienti. Per dirla in maniera meno tecnica, la proposta suggerisce che un numero consistente di regioni italiane ha un livello di inefficienza nei servizi pubblici fondamentali che non va più tollerato, e pertanto le regioni più virtuose (e più ricche) devono chiudere i cordoni della borsa per costringere le regioni inefficienti a migliorare. La tabella pubblicata da lavoce.info mostra come siano due i gruppi di regioni che beneficerebbero dall’eventuale approvazione della riforma: le regioni del Nord, e le regioni della cintura rossa dell’Italia centrale ad eccezione dell’Umbria. In altre parole, sia il cuore elettorale della Lega (Lombardia e Veneto), che il cuore elettorale del PD (Toscana, Emilia Romagna, Marche - col Piemonte che fa riferimento ad entrambe le forze politiche, ed al momento è governato dal centrosinistra), avrebbero vantaggi netti in termini di risorse che anziché essere trasferite al sud, potrebbero rimanere nelle regioni d’origine. Per citare poche cifre, il Veneto e l’Emilia Romagna avrebbero rispettivamente circa 400 e 300 milioni di euro in più nelle loro casse rispetto ad oggi, mentre la Calabria e la Campania una decurtazione rispettivamente di circa 500 e 900 milioni di euro. Non serve la dietrologia per capire come mai il PD e la Lega possano trovare convergenze, basta guardare i numeri. Una strategia così radicale potrebbe anche avere successo, spingendo la classe politica meridionale a comportamenti più virtuosi, a reagire alla contrazione di risorse con un grande sforzo collettivo che migliori l'efficienza dei servizi, distribuendo le scarse risorse in base al merito e ai risultati. Come possa bastare ridurre le risorse a disposizione per migliorare i comportamenti individuali rimane tuttavia qualcosa che andrebbe spiegato. Al contrario, una maggiore scarsità di risorse potrebbe esacerbare il ricorso a pratiche clientelari, in una lotta per la sopravvivenza dai costi sociali molto pesanti. Ricerche recenti e ancora in corso alla London School of Economics, mostrano come la devoluzione di potere a livello locale abbia conseguenze virtuose solo in regioni relativamente ricche, mentre finisce per aumentare il peso dei rapporti clientelari, peggiorando livelli già bassi di etica pubblica e gestione della spesa, in regioni povere e con scarsa capacità amministrativa.

Credo comunque che vi siano pochi dubbi sul fatto che una contrazione così radicale di risorse pubbliche avrebbe effetti molto severi nel breve periodo. Una politica seria non dovrebbe nascondere questo dato, ma forse giustificarlo come l’amara medicina da prendere per sperare di cambiare il corso dello sviluppo del meridione. Spiegare come lo Stato debba allontanarsi (ancora di più) dai suoi territori in maggiore sofferenza sociale, nella speranza che sappiano rialzarsi da soli.

Per fare questo tuttavia, sarebbe necessaria, sia a destra che (in maniera diversa) a sinistra, una idea nazionale ed anche europea nella quale inscrivere questo progetto federalista, che parla in maniera ossessiva un linguaggio tecnico ma che, mutando sostanzialmente i principi di solidarietà economica, finisce per mutare profondamente il contratto sociale della nostra tradizione risorgimentale e repubblicana. Quale sia il posto di questa nuova Italia e di queste regioni nell’Europa del XXI secolo rimane invece una domanda senza risposta, così simile all'assenza di docenti da università italiane alla conferenza di Edimburgo di questi giorni. Al contrario, concludendo il suo discorso davanti alla platea degli europeisti, il primo ministro scozzese che sogna una Scozia indipendente ha fatto tre cose. Ha magnificato le tradizioni della sua terra “patria dell’Illuminismo”, che tanto ha contribuito al progresso europeo; ha indicato le sfide principali che vuole affrontare nel contesto globale: fare della Scozia la principale esportatrice di energia pulita; ha poi chiuso con quella retorica che funziona sempre quando è preceduta da contenuti seri, citando “l’istinto naturale” degli scozzesi di essere e sentirsi europei, perché quella europea “è la strada davanti” da percorrere tutti assieme. Mai Edimburgo sembrò così lontana da Pontida.

* docente di economia politica alla London School of Economics

Pubblicato il: 06.09.08
Modificato il: 06.09.08 alle ore 8.42   
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« Risposta #166 inserito:: Settembre 08, 2008, 10:18:12 pm »

Visco: i poveri pagheranno più tasse dei ricchi

Bianca Di Giovanni


Il gioco sull’Ici è di quelli ad alto rischio. In un carosello di assicurazioni (non tornerà mai) e ammiccamenti (magari qualcosa con il federalismo), torna sul tavolo la tassa appena eliminata (a spese dei Comuni). Ultima «trovata»: la service tax, un nome che piace anche a Tremonti, assicura il vulcanico ministro della semplificazione Roberto Calderoli. Un carosello fiscale che sembra un gioco, se non fosse che nasconde una trappola infernale e dolorosa. «La verità è che vogliono eliminare la progressività. Che significa? Detto in parole povere: che i ricchi pagheranno di meno dei poveri». È un attacco tranchant quello di Vincenzo Visco, viceministro al Tesoro nell’ultimo governo Prodi, finito più volte sotto il fuuoco di chi le tasse avrebbe voluto toglierle a tutti (meno che ai lavoratori dipendenti).

Il fisco torna al centro del dibattito, ma i toni con il centrodestra sembrano pacificati. Nuove tasse, ma nessuno si straccia le vesti. Come la vede?

«Solo il livello di analfabetismo a cui siamo arrivati può giustificare questo dibattito senza senso».

Perché senza senso?

«È ovvio che a livello locale le tasse servono per pagare i servizi. A che altro se no? Il problema è un altro. Gli esempi di imposte locali che esistino sono sostanzialmente di due tipi: sul valore del patrimonio e la quantità dei servizi. Tecnicamente si possono creare tante soluzioni diverse. La Thatcher si inventò la poll tax, sul numero di persone, e le si scaraventò contro un putiferio. La differenza tra le varie opzioni è semplice: quanto più si va verso forme di poll tax, cioè legate ai servizi, tanto più la tassa è regressiva. Cioè la pagano i poveri. Chiuso: è inutile fare tanti giri di parole».

Perché quella sul patrimonio è progressiva?

«Certo che è progressiva: per questo la vogliono abolire».

Quindi con il passaggio da Ici a «service» pagheranno meno i ricchi e più i poveri?

«A parità di gettito sì, è molto probabile. Questo è il motivo per cui in alcuni sistemi, come quello americano per esempio, c’è l’imposta sul patrimonio. È un modo per far pagare i ricchi».

Invece con la nuova tassa sui servizi?

«Bisogna vedere com la si costruisce: ci saranno vari riferimenti (metri quadrati, numero delle persone, quartieri). Viene fuori una tassa nuova, più complicatan e con ogni probabilità più spostata a favore di chi guadagna di più».

Lei è stato preso di mira per la riforma Irpef. Oggi Tremonti l’ha confermata e nessuno ha chiesto più nulla. Come si sente?

«Non mi sento in nessun modo: penso semplicemente che sia a destra che a sinistra si è persa ogni cognizione degli effetti distributivi dei sistemi fiscali. Inconsciamente passa una linea per cui le tasse devono essere pagate dai ceti medio-bassi. Io ho cercato di far pagare chi non pagava: per questo ho pagato».

Nessuno scandalo per la pressione fiscale che aumenta?

«È successo già nell’altra legislatura, io l’ho sempre detto. Hanno aumentato le tasse su imprese e alcune accise. La pressione complessiva non è aumentata perché si è allargata l’evasione».

Passiamo ad Alitalia: anche lei voleva fare una bad company e una newco. Come Berlusconi?

«Il mio piano era diverso per un fatto fondamentale: che l’azionariato di newco e bad company rimaneva lo stesso. Il 49% restava allo stato. Era stata una proposta di Micheli che avevo appoggiato. Quando siamo andati al governo la società era sostanzialmente fallita. Per capire bene bisogna partire dal 2001. All’epoca la società avrebbe potuto entrare a testa alta nel gruppo franco-olandese. Ma Berlusconi fermò tutto. Seguirono 5 anni di gestione irresponsabile. Si ricorda o no che addirittura Maroni ammise alle trattative un sindacato corporativo dei piloti che non aveva diritto. Quando siamo arrivati c’era poco da fare. La proposta che io e Padoa-Schioppa appoggiammo era quella della bad company e della newco con unico azionista il Tesoro. La newco era destinata ad aumentare valore: in questo modo si recuperava denaro per compensare il costo della bad company. Si sarebbe salvato tutto».

Perché non si realizzò?

«Perché bisognava riconoscere che la compagnia era sostanzialmente fallita: un passaggio molto difficile. Così si scelse la cessione in borsa e poi la gara».

Cosa pensa della soluzione di oggi?

«Io stimo sia Colaninno che Sabelli: sono due bravi manager. Ma il fatto è che la proposta Air France era migliore su tutti i fronti. I francesi avrebbero preso i debiti e avrebbero pagato di più e avrebbero lasciato molti meno esuberi. Era una proposta eccellente per le condizioni date. Per i privati è sicuramente un buon investimento, perché il valore patrimoniale crescerà di certo e per di più acquisteranno i cespiti della bad company a prezzi da liquidazione. Per i contribuenti il prezzo sarà alto».

Pubblicato il: 08.09.08
Modificato il: 08.09.08 alle ore 8.53   
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« Risposta #167 inserito:: Settembre 10, 2008, 04:37:11 pm »

L'ex titolare della Farnesina elogia il governo Prodi. il ministro: così perderete sempre

D'Alema, duello con Tremonti «Arroganti». «Non sei uno statista»

A Ballarò scontro su Alitalia, scuola e abolizione dell'Ici

 
 
ROMA — Un braccio di ferro fra «tosti», forse i più coriacei sullo schermo in entrambi gli schieramenti. E forse proprio per questo scelti per il primo scontro in tv dopo le vacanze. Giulio Tremonti e Massimo D'Alema si presentano eleganti a Ballarò, in giacca e cravatta, segno che le vacanze sono davvero finite. E subito affilano le armi. Comincia l'ex ministro degli Esteri. Riconosce che Silvio Berlusconi ha «una certa abilità », ad un certo punto ammette anche che è «un grande comunicatore ». Ma cerca di smontare tutto ciò che ha fatto finora il governo, nonostante il sondaggio di Pagnoncelli confermi che gode il favore della maggioranza degli italiani: «Se ha potuto fare certe cose nella manovra economica è perché Prodi ha lasciato i conti in ordine. E a Napoli, se si sono aperte le discariche, è perché Prodi aveva rimosso gli ostacoli che lo impedivano».

Insomma, se c'è una cosa che colpisce, dall'inizio alla fine del duello tv, è che D'Alema, per rispondere all'avversario, mette in mezzo spesso, quasi sempre, l'operato di Romano Prodi, ciò che ha lasciato in eredità a Berlusconi. A differenza di un Veltroni che, in campagna elettorale, aveva preferito non «aggrapparsi » a quei risultati, ma giocare tutta un'altra partita. Ma così è. La partita oggi è diversa. Lo sa bene anche Giulio Tremonti e accetta anch'egli di confrontarsi su Prodi: «Magari avessimo ereditato una situazione positiva. Avrei voluto che ci fosse stato il tesoretto». D'alema lo incalza sulla scuola: «Con il maestro unico, si è ridotta drasticamente l'offerta formativa». «Macché - risponde Tremonti -. Tornare dai giudizi al voto è stato un passaggio molto importante. Mica erano scemi quelli prima del '68». «Bossi ha fiuto: critica il maestro unico», lo interrompe D'Alema. «E infatti vi ha lasciato», ribatte il ministro dell'Economia. «Veramente ha abbandonato prima voi, nel primo governo Berlusconi, facendolo cadere», controribatte D'Alema. Si parla di indulto. Confessa l'ex ministro degli Esteri: «La nostra crisi di popolarità è cominciata quando lo concordammo insieme a Berlusconi. Abbiamo pagato solo noi, lui no».

E ancora su Napoli. Attacca Massimo: «Il governo ha utilizzato le forze armate a scopo di propaganda». Risponde Giulio: «Se andate avanti così, capite perché perdete le elezioni». Infine, la battaglia sull'Ici. Là dove rispunta di nuovo l'ombra di Prodi. Esulta Tremonti: «L'abbiamo finalmente abolita». Contrattacca D'Alema: «L'ex premier l'aveva già abolita in parte. Ma voi l'avete tolta anche per i ricchi. E quelli che non hanno una casa di proprietà?». Scoppia una baruffa sui ricchi e i poveri. Chi ha tassato di più gli operai, il centrodestra o il centrosinistra? Tremonti lanciando un affondo sostenendo che lo ha fatto di più Prodi aumentando le spese del riscaldamento... D'Alema cerca di difendersi, poi passa al contrattacco sul-l'Alitalia: «Noi siamo stati corretti, voi arroganti». «Ciò che dici non è da statista». Si passa ai saluti: «Fatelo amabilmente», invita Giovanni Floris. «Sarà difficile », commenta D'Alema. E stringe la mano a Tremonti guardando dall'altra parte.

Roberto Zuccolini
10 settembre 2008

da corriere.it
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« Risposta #168 inserito:: Settembre 10, 2008, 10:27:08 pm »

Fini ad An: «Basta usare la storia come arma impropria della politica»

Napolitano: «L'identificazione nella Costituzione in Italia è ancora una questione aperta. Nessuna polemica a Porta San Paolo»

 
ROMA (10 settembre) - «Basta usare la storia come arma impropria della politica». Gianfranco Fini cerca di mettere la parola fine alle polemiche scoppiate sulle dichiarazioni del sindaco di Roma Gianni Alemanno e del ministro della Difesa Ignazio La Russa sul fascismo. Parole anche per Maurizio Gasparri , capogruppo del Pdl al Senato nell'incontro avuto oggi. Tutti e tre, a suo giudizio, rei di non aver compreso fino in fondo di poter occupare oggi ruoli di tale rilievo istituzionale soprattutto degli sforzi di Fini per trasformare l'Msi prima in An e poi in una forza di destra moderna, moderata ed europea, fino all'ormai imminente approdo nel Pdl e quindi nella grande famiglia del Ppe.

l giudizio di Fini sulle esternazioni dei suoi "colonnelli" è stato severo. Ha ricordato loro le parole usate a Verona nel '98, alla Conferenza programmatica di An («Basta usare la storia come arma impropria») e declinate negli anni successivi sforzandosi di chiudere i conti con il passato con pesanti revisioni storiche: dall'insistita presa di distanza dagli errori del fascismo, al mea culpa sulle leggi razziali «vergogna incommensurabile», alla catalogazione di Benito Mussolini «non più grande statista», fino ad inserire nell'alveo di ciò che fu «male assoluto» parte dell'operato fascista, nella storica visita in Israele e prima della riconciliazione a lungo cercata con gli ebrei.

Al Capo dello comunità ebraica di Roma Riccardo Pacifici che ha chiesto chiarimenti dopo le esternazioni di Alemanno e La Russa Fini ha grantito che prenderà come si conviene le distanze dalle improvvide affermazioni dei suoi colonnelli nella sua prima uscita pubblica dopo la pausa estiva, sabato alla Festa di Azione Giovani Atreju.

Napolitano. «Credo che in Italia sia ancora una questione aperta la piena identificazione che ci dovrebbe essere da parte di tutti nei principi e nei valori della Costituzione repubblicana che sono rispecchiati nella Costituzione europea richiamata nel Trattato di Lisbona». Lo ha detto il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, rispondendo a una domanda dei giornalisti sulla caduta di tensione che c'è in vari paesi europei rispetto ai motivi originari che furono alla base della costruzione europea quale strumento per mettere fine agli orrori creati dalla guerra e dal nazi-fascismo.

Nessuna polemica. Il presidente della Repubblica invitato a commentare le polemiche che sono seguite al suo discorso dell'8 settembre a Porta San Paolo, ha rifiutato ogni commento ed ha sottolineato: «Ho solo espresso il mio punto di vista. Non ho fatto polemiche con alcuno, né ho tirato per la giacca nessuno, né ho risposto ad alcuno. Ho svolto il mio intervento per ultimo, come era previsto».

Ignazio La Russa,  dopo l'esecutivo di An alla Camera, non commenta le parole del presidente della Repubblica sulla Costituzione che non ha ancora avuto modo di conoscere. Ma, rispondendo ai giornalisti, sottolinea: «Quello che posso dire è che ho grande stima per il capo dello Stato».

Alemanno: sono fedele alla Costituzione. «Come sindaco e prima ancora come ministro, ho giurato sulla Costituzione. E come uomo di destra ho intenzione di rimanere fedele al mio giuramento». Alemanno ha cercato di chiudere così le polemiche di questi giorni su leggi razziali e fascismo. Alemanno però polemizza con i giornali. «I giornali non sono - ha detto - i veicoli migliori per fare riflessioni su cose che hanno portata storica. In futuro cercherò di trovare strumenti più adeguati per far capire le mie idee che non vogliono certo essere un ritorno al passato».

da ilmessaggero.it
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« Risposta #169 inserito:: Settembre 13, 2008, 11:54:22 am »

13/9/2008
 
Populismo e il passato che ritorna
 
 
 
 
 
GIAN ENRICO RUSCONI
 
Il Paese ha perso l’orientamento. Nessuno lo rappresenta più davvero. Testarde fazioni politiche contrapposte tengono in ostaggio la politica.

Il ceto degli intellettuali si è dissolto in singoli individui o in piccoli gruppi. Non solo ha perso valore la qualifica di destra o sinistra, non ci sono più conservatori e progressisti, ma si è smarrito il senso di ciò che tiene insieme questo Paese. Nessuno sa più dirne le ragioni, in modo convincente per tutti, pur facendo attenzione alle legittime differenze.

La storia nazionale è impunemente sequestrata da dilettanti e mistificatori. Ormai si può dire tutto su tutto - dall’8 settembre al terrorismo delle Brigate Rosse. Ciò che importa è il rumore mediatico che copre ogni altra voce e può contare sulla spossatezza degli studiosi seri. La serietà è diventata noiosissima in questo Paese: è intollerabile e incompatibile con il talk show permanente.

C’è in giro una pesante aria decisionista. A parole almeno. Comincia dai vertici dei ministri, indaffarati a fare proclami, cui non sappiamo che cosa davvero seguirà. Colpisce l’irresponsabilità e il dilettantismo di ministri che parlano (pensando in realtà soltanto ai media) come se tutto dipendesse dalle loro parole.

Come se la scuola - per fare un esempio - non fosse una grande complessa istituzione tenuta in piedi da migliaia di professionisti che hanno una loro competenza ed esperienza, di cui tener conto. No. Sono trattati come zelanti esecutori di decisioni calate dall’alto.

Ma da dove è spuntata fuori questa classe ministeriale? Da quale cultura? Dalla destra storica liberale? Dal fascismo riciclato democraticamente? No, per carità - si obietta subito -, non incominciamo con le genealogie ideologiche. Ciò che conta è «fare ordine» contro il «disordine della sinistra» - come dice il Cavaliere.

Mettere ordine, ripulire, punire, comandare. Se è il caso, mettere in galera clandestini, teppisti di stadio, prostitute di strada. Come se fossero la stessa cosa.

Naturalmente una società ordinata e sicura è un valore collettivo. E non finiremo mai di rimproverare la sinistra per essersi fatta scippare per malinteso «buonismo» questo valore. Per questo motivo non solo ha perso le ultime elezioni, ma adesso ha perso anche la testa. Infatti non sa più come reagire. A ogni iniziativa «d’ordine» ministeriale o governativa, balbetta e si divide.

Ma quali sono i valori della nuova destra populista che pretende di essere innanzitutto pragmatica, anti-ideologica? A prima vista sono i valori tradizionali di «Dio, patria e famiglia». Naturalmente al posto di Dio oggi si preferisce parlare di «radici cristiane»; l’idea di patria richiede qualche aggiustamento critico; soltanto la famiglia sembra mantenere le vecchie connotazioni. Ma è una pura finzione, se guardiamo ai comportamenti reali e non alle dichiarazioni fatte «per compiacere la Chiesa» (parole di Berlusconi).

In realtà la vera chiave della cultura politica di oggi è nel termine di «populismo» che va inteso non in modo generico, ma appropriato. Il populismo democratico ha quattro ingredienti: un popolo-elettore che tende a esprimersi in uno stile tendenzialmente plebiscitario con un rapporto di finta immediatezza con il leader; la dominanza di una leadership personale, gratificata di qualità «carismatiche»; un sistema partitico semplificato con un ricambio di élite politiche che è di supporto immediato al leader; il ruolo decisivo e insostituibile dei media allineati. Sottoprodotti di questa situazione sono la iperpersonalizzazione della politica e la sua spettacolarizzazione.

Gli elettori scelgono o si orientano al leader con aspettative di tipo decisionistico, per l’insofferenza verso le eccessive mediazioni parlamentari e le corrispondenti differenziazioni partitiche.

Da qui l’attivismo cui assistiamo quotidianamente. E le misure populistiche fatte appunto per soddisfare un immediato desiderio di ordine: contro la violenza di stadio come contro la prostituzione, indifferentemente.

Questo trattamento cui è sottoposto il Paese ha un costo alto: l’assenza di una vera soluzione dei problemi più gravi e strutturali (dalla giustizia alla scuola) che non possono essere risolti in stile populistico-decisionistico. È necessaria infatti una strategia capace di grande vero consenso, che è compatibile con le regole democratiche della maggioranza/minoranza. Altrimenti il paese si spezza nel profondo. Perde l’orientamento. È quanto sta accadendo.

Esattamente quindici anni fa molti di noi si sono chiesti se non cessassimo di essere una nazione. Allora c’erano le prime aggressive provocazioni antinazionali della Lega, i forti timori per una globalizzazione appena scoperta e la nuova inattesa visibilità degli immigrati. Al confronto di oggi quei problemi erano relativamente controllabili. Quello che non era prevedibile invece era l’implosione interna della nazione cui assistiamo oggi. Sì, forse, stiamo cessando di essere una nazione.

da lastampa.it
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« Risposta #170 inserito:: Settembre 15, 2008, 12:45:15 am »

Nazismo alla moda

Ascanio Celestini


«Se avesse trionfato il nazismo vestiremmo tutti quanti molto più elegantemente». Lo trovo scritto in un forum girando in rete.

La discussione inizia con la domanda: «come sarebbe stata l’Europa se avesse vinto il Hitler?». Ma siamo sicuri che il nazismo abbia perso la guerra?

In questa discussione dove gli interlocutori hanno nomi da libro di fantascienza, personaggi di mitologie tra il satanico e il ciberpunk, un po’ superuomo un po’ supermarket, vampiri postmoderni col cuore di panna... insomma, in questa chiacchierata non trovo l’odio tipico dei blog.

Qualche tempo fa su argomenti del genere ci si insultava senza alcuna diplomazia. Olio di ricino e bastonate nei denti virtuali scorrevano di riga in riga. Normalmente c’era nembo84 che avrebbe voluto appendere barsoom78 per i testicoli, barsoom78 rispondeva che non avrebbe mostrato le sue parti intime a nembo84 che a suo giudizio era piacevolmente interessato ai rapporti omosessuali, meinkampf89 citava Hitler in tedesco e ricordava a entrambi i loro rispettivi defunti. Tutto ciò accompagnato da “ebrei al rogo” e “boia chi molla”.

Adesso questi misteriosi scrittori della rete sono diventati politicamente corretti e parlano di abbigliamento. Tra le celle di questo forum ci si risponde con educazione, si avverte l’influenza del dibattito nella nuova destra. Forse i misteriosi barsoom78, nembo84 e meinkampf89 sono il ministro La Russa, il sindaco Alemanno e il presidente Fini. Li abbiamo sentiti scornarsi con garbo anche in questi ultimi giorni. Il primo ha dichiarato di fare un torto alla propria coscienza se non avesse ricordato che i fascisti dal loro punto di vista, combatterono credendo nella difesa della patria. Il secondo ha sostenuto che definire il fascismo “male assoluto” è un’affermazione ingenerosa nei confronti di tanti che aderirono a quell’esperienza in buona fede. E il terzo, dall’alto della sua abbronzatura frutto di bagnetti illegali all’isola del Giglio, ha bacchettato i suoi scolari dicendo che la nuova destra è antifascista.

Chissà che non siano proprio sotto falso nome a parlare di nazismo come di una linea di abbigliamento. Nel forum trovo qualcuno che scherza sulla stella gialla da cucire sul vestito, qualcun altro che lo rimprovera garbatamente per la sua ironia macabra, ma la discussione continua a ruotare attorno all’eleganza dell’abito. «Le uniformi naziste sono bellissime. Più belle anche di quelle dell’armata rossa», scrive un anonimo interlocutore al quale risponde un altro navigante della rete mettendo la fotografia di un Ss in posa da divo.

Per questo non mi stupisce che l’ex capitano delle Ss Erik Priebke intervenga in un concorso di bellezza. Un criminale nazista scappato in Argentina, arrestato poco più di una decina di anni fa e condannato per le sue responsabilità nell’eccidio alle Fosse Ardeatine, che viene invitato a presiedere una giuria di guardoni misuratori di tette e culi. Sbavatori di professione, esperti di chiappe a mandolino e turgidezza del capezzolo.

Credevo che fosse uno scherzo, “che sia una maniera di fargli scoppiare una vena?” ho pensato. E invece è tutto vero. Dalle agenzie apprendiamo che l’elegante vecchio non potrà raggiungere un paesino della Ciociaria dove si tiene una sfilata di carne umana in mutande e reggipetto. L’impedimento nasce da una fastidiosa condanna agli arresti domiciliari che lo tiene momentaneamente vincolato alla sua casa nel centro di Roma. Pare che abbia accettato di partecipare in videoconferenza. Un po’ come quella pubblicità dove un noto gestore telefonico approfitta di Gandhi per reclamizzare i suoi prodotti e il Mahatma parla davanti a una webcam nella sua casa, appare su megaschermi in America e sulla piazza rossa, sul computer portatile dei guerrieri con la lancia e sul telefonino di una coppietta al Colosseo. La pubblicità che si chiude con lo slogan “se avesse potuto comunicare così, oggi che mondo sarebbe?”

Penso che se ai tempi di Gandhi ci fosse stata questa tecnologia probabilmente lui non avrebbe potuto usarla. Forse avrebbe potuto usufruirne Hitler.
Lo avrebbe fatto sicuramente se avesse vinto la guerra, per tornare un attimo al discorso apparso nel forum virtuale. E a distanza di tanti anni il progresso ha premiato il nazismo permettendo al vecchio capitano di dare il suo giudizio sul corpo di giovani donne speranzose di approdare sulla passerella del Gabibbo o in qualche sculettante trasmissione dispensatrice di premi e barzellette. Una giusta ricompensa per il vegliardo che alla fine del marzo ’44 ebbe l’onore di vedere 335 corpi ammucchiati uno sull’altro in una cava lungo la via Ardeatina, corpi che sfilarono davanti a lui con le mani elegantemente legate dietro alla schiena, tenute strette da uno sfizioso filo di ferro.

Le iscrizioni a quell’atipico concorso vennero fatte in fretta. Kappler grazie all’aiuto di un manipolo di volenterosi scrisse la lista in poche ore nella notte tra il 23 e il 24. I partecipanti non dovettero nemmeno pagare una quota, né spendere soldi per il treno. Li andarono a prendere a casa con mezzi speciali come i vip. Condotti nella meravigliosa cornice della campagna romana sfilarono a gruppi di cinque. Giunti davanti alla giuria gli si chiedeva garbatamente di reclinare il capo in avanti per ricevere il colpo all’altezza della nuca. Chissà quante giovani miss conoscendo l’eccellente presidente che le giudicherà aspireranno a coronare la loro carriera con una pallottola che attraversa il cervelletto.

Purtroppo alle fosse Ardeatine Priebke ebbe la sfortuna di assistere a una sfilata di soli uomini. Maschi poco sensuali che non scoprivano nemmeno il ginocchio. Mentre altri suoi compagni di ventura avevano avuto il privilegio di veder sfilare delle magrissime miss sulla neve di Auschwitz. Sfilare nude senza straccetti che nascondevano interessanti particolari. Chissà se anche in quei luoghi ci si divertiva goliardicamente a assegnare premi? Chissà se si chiacchierava su questioni come le dimensioni perfette di seno, fianchi e sedere? Chissà se venivano invitati in giuria gli eminenti psicologi a disquisire di questioni come l’anoressia?

«Se avesse trionfato il nazismo vestiremmo tutti quanti molto piu’ elegantemente» scrive un anonimo sul forum. In attesa del lieto evento godiamoci questa bella giovinezza sculettante, quella ciociara per pochi fortunati e quella in diretta televisiva alla televisione nazionale. Carne per rallegrare gli animi alle nostre truppe, ventri per generare figli che daranno il sangue alla patria.

Pubblicato il: 14.09.08
Modificato il: 14.09.08 alle ore 8.15   
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« Risposta #171 inserito:: Settembre 22, 2008, 10:13:47 am »

22/9/2008
 
Giovani di An non è più tempo di elfi
 
 
MIGUEL GOTOR
 

Le recenti parole di Gianfranco Fini, opportunamente rivolte a una platea di giovani militanti di An, devono essere salutate con giubilo e rispetto dai democratici di questo paese: anche la destra deve riconoscersi «in pieno in alcuni valori della nostra Costituzione: libertà, uguaglianza, giustizia sociale. Valori che sono a tutto tondo antifascisti» e «non può esistere una democrazia che neghi l’antifascismo». Il presidente della Camera ha poi contestato le precedenti sortite di Alemanno e La Russa. Al sindaco di Roma, che ha distinto tra fascismo «complesso» e leggi razziali cattive, ha mandato a dire: «Le leggi razziali sono state un’infame abominia, ma il fascismo tutto è negativo, è stato una dittatura che ha negato alcune libertà fondamentali». E rivolto al ministro della Difesa, che nell’ambito di una cerimonia ufficiale in ricordo dell’8 settembre 1943 ha invocato rispetto per i caduti di Salò, ha dichiarato: «Fatta salva la buona fede, i resistenti stavano dalla parte giusta, i repubblichini dalla parte sbagliata». Si tratta di poche sentite parole, quelle giuste, che sembrano rispondere da destra - questa è la novità - a vent’anni di vulgata revisionista anti-resistenziale, di fascismo edulcorato, di strabismo indulgente, di terzismo cerchiobbotista, di anti-antifascismo. Era ora.

La Russa e Alemanno si sono prontamente riallineati alle parole del loro leader con una pirotecnica capovolta. Tuttavia, sorprende che il malumore più acuto sia serpeggiato presso alcuni giovani dirigenti di An, oggi chiamati a posti di responsabilità a livello nazionale, come il ministro della Gioventù Giorgia Meloni (classe 1977), o regionale, come la vicepresidente della Lombardia Viviana Beccalossi (classe 1971). La prima ha scritto una lettera ai giovani dell’organizzazione di An che dirige, dove, per quietare gli animi senza scollarsi troppo da Fini, ha giocato la carta di un giovanilismo supponente e rancoroso: basta con questa diatriba tra fascismo e antifascismo, tutto il resto è noia. La seconda, non ingessata dal ruolo ministeriale, è stata più netta e ha dichiarato che non sarà mai antifascista. Il tutto avviene sullo sfondo di una paradossale nostalgia del Ventennio che serpeggia tra i giovani di An, alimentata da gadget e magliette del tipo «Le radici profonde non gelano», «Cuore nero-nessuna resa», che, pur nella loro ambiguità citazionista, sono sufficientemente eloquenti per chi abbia voglia di intendere.

Pur comprendendo le ragioni tattiche di questo ritorno identitario alla vigilia dell’annessione di An in Forza Italia, sarebbe auspicabile da parte della Meloni e della Beccalossi una prova di maggiore coraggio e lungimiranza politica proprio in forza dell’età che hanno. Se il boccone amaro l’hanno ingoiato La Russa e Alemanno, loro sì reduci da una guerra feroce tra «cuori neri» e «cuori rossi» che oggi stiamo capendo quanto fosse strumentale e indotta da ambo le parti, alle due giovani dirigenti - che in quegli stessi anni assaporavano il gusto dei Plasmon - verrebbe voglia di chiedere una minore pigrizia e un impegno maggiori. E dunque che provino a liberarsi dai residui e dai complessi di un vittimismo aggressivo che allora serviva a giustificare la sprangata vendicatrice, oppure da quelle narrazioni e mitologie popolate da elfi, anelli e superomismi nietzscheani, che sono state una cosa tragicamente seria, ma oggi sembrano caricature in miniatura e non servono alla democrazia italiana. Il ricordo dovuto ai propri morti di ieri? Ma certo, esso è sacro, senza però dimenticare che, accanto a un Paolo Di Nella barbaramente ucciso, ci sarà sempre un Valerio Verbano a pareggiare i conti di quell’insensato gioco al massacro, avvenuto all’ombra delle stragi neofasciste e del terrorismo rosso. E allora, perché non provare a impiegare il senso dell’onore, della tradizione e della comunità per omaggiare la Costituzione antifascista? Perché non svolgere la vostra funzione dirigente per allargare la rappresentatività della Carta, affinché abbia un riconoscimento sempre più profondo, autentico e inclusivo?

Forse la nostra generazione non ha ancora perso, come cantava Gaber riferendosi alla sua, e l’impegno per un’Italia migliore resta davanti a noi. E quindi si vorrebbe consigliare loro di seguire il proprio capo, il nostro presidente della Camera, non per opportunismo, ma per etica del convincimento: ha fatto la scelta giusta.
 
da lastampa.it
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« Risposta #172 inserito:: Settembre 29, 2008, 11:56:30 pm »

Storchi: «1945, il vero sangue fu quello dei vincitori»


Bruno Gravagnuolo


Ci sono due leggende che la destra italiana ha messo in giro nel dopoguerra, rinsaldate dalla querelle aperta dal Sangue dei Vinti di Giampaolo Pansa.
La prima è che la Resistenza sia stata una mattanza indiscriminata contro fascisti e borghesi, finalizzata a un progetto rivoluzionario comunista.
La seconda è che gli aspetti scomodi e fratricidi del biennio 1943-45 siano stati nascosti dalla sinistra, all’insegna della retorica sulla Liberazione.

In realtà di tutto questo si è parlato fin dagli esordi del nuovo Stato. E battente è sempre stata la polemica mediatica di destra, nel denunciare gli «orrori» della «Resistenza rossa». Negli ultimi decenni poi una nuova storiografia di sinistra è tornata in modo serio sul problema: da Claudio Pavone, a Guido Crainz, a Mirko Dondi, a Dianella Gagliani, e a Massimo Storchi. Tutti studiosi venuti molto prima di Pansa sul tema, ma da lui citati solo di passata. Uno dei quali, Massimo Storchi, ha scritto l’ennesimo volume a riguardo: Il Sangue dei vincitori. Saggio sui crimini fascisti e i processi del dopoguerra (Aliberti, pp. 286, Euro 16, pr. di Mimmo Franzinelli). È un contributo decisivo, perché contestualizza le vendette partigiane. Focalizzando l’obiettivo sul «triangolo rosso» e in particolare su Reggio Emilia. Dove i fascisti, in funzione ausiliaria dei nazisti, spadroneggiarono, torturarono, massacrarono. E suscitarono una piena d’odio destinata a sboccare in resa dei conti col favore popolare. Non solo. Vi si racconta chi erano i carnefici saloini e poi gli episodi che a Reggio condussero una frazione minoritaria di comunisti all’omicidio di avversari. E si racconta della «giustizia negata» a entrambe le parti con l’amnistia di Togliatti, e delle sentenze che mandavano assolti i fascisti. Di tutto questo abbiamo parlato con Storchi, 53 anni, reggiano, già presidente dell’Istituto locale della Resistenza e responsabile del polo archivistico di Reggio Emilia. Uno che di documenti se ne intende. Sentiamo.

«Memoria, dolore, vendetta», recita il primo capitolo del suo libro sul 1943-45 a Reggio. Passioni che coincidono con un arco temporale più ampio. Cosa c’è alle spalle delle vendette partigiane?
«Nel cosiddetto triangolo rosso - Bologna, Modena, Reggio Emilia - vengono al pettine dopo la Liberazione i venti mesi dell’occupazione nazifascista. Assieme a quel che era successo venti anni prima. È la zona dove era stato più attivo lo squadrismo, la zona dei ras e degli agrari. Funestata da repressioni e violenze che alimentarono una forte emigrazione politica. Per non parlare del carcere e del tribunale speciale negli anni Trenta. Rese dei conti e vendette nascono da una memoria lunga e più breve. Basta scorrere una ad una le biografie delle vittime e gli antecedenti dei singoli episodi, come ho tentato di fare nei miei lavori».

Dai rapporti di polizia emerge l’intrico personale, familiare e di vicinato che, a partire dalla ferocia subìta, finisce per coinvolgere anche degli innocenti nelle vendette...
«Sì, ma occorre ricollocare il tutto nella società di allora, lontana anni luce dalla nostra. È un tessuto sociale sconvolto dalla guerra ai civili, lacerato dalla disoccupazione e dall’illegalismo. Parliamo di una civiltà contadina. E sono le comunità contadine che si vendicano e regolano i conti nelle campagne. All’indomani della Liberazione c’è la reazione alla pressione capillare esercitata dal fascismo prima, e dal nazifascismo poi. Che aveva sconvolto tutti i legami comunitari: spiate, tradimenti, rappresaglie, torture, sospetti. Seguiti dalle vendette sommarie. Dopo il 1945 la comunità ferita esplode, con scene di violenza e tripudio popolare oggi per noi incomprensibili. Ma la fiammata della violenza brucia se stessa e finisce lì. Con un picco di 315 morti nell’aprile maggio 1945 - a partire dal 22 aprile - e due morti nel settembre 1946. Su un totale di 456, a fine 1946».

Vendetta che finisce lì, non legata a un «progetto rivoluzionario»?
«Non c’era alcun progetto di tal tipo. Certo, c’era anche chi pensava che uccidere un padrone fosse legittimo, perché così si sarebbe fatto “come in Russia”. Ma erano casi psicologici individuali. Il movente diffuso era un altro. Si uccideva un padrone perché era stato uno squadrista oppure un brigatista nero, o un collaborazionista, o magari lo si pensava. In primo piano non c’era l’odio di classe, ma il passato più prossimo o più remoto»..

Sbaglia allora Pavone quando parla di guerra di classe nella Resistenza, accanto a quella civile e di liberazione?
«Pavone include la “guerra di classe” tra le motivazioni di scelta per la Resistenza. E in tal senso esisteva anche quel tipo di guerra. Tra i contadini della bassa padana che scelgono, oltre all’idea di cacciare i tedeschi, c’era il sogno di diventare padroni della terra. Il che non necessariamente coincide con l’odio di classe, o con un progetto di eliminazioni di classe. Però occorre distinguere. Un conto sono le uccisioni vendicative del 1945. Altro quelle del 1946, che colpiscono il liberale Ferioli, il sindaco Farri, l’ingegner Vischi e il prete Don Pessina».

Che cosa sono e da dove nascono questi omicidi?
«In questi casi si tratta di pezzi minoritari di partigianato che vanno per la loro strada. Strada opposta a quella scelta dal Pci. Con la copertura e l’omertà di figure interne agli apparati provinciali comunisti. Non a caso Togliatti viene proprio a Reggio nel settembre 1946, e fa il famoso discorso su “Ceti medi ed Emilia rossa”. Ma già il giorno prima, in una riunione con i sindaci locali e il segretario Nizzoli, alza la voce. E il succo del suo intervento è: stiamo facendo una politica del consenso e voi permettete l’uccisione di queste persone, un prete, un ufficiale, un sindaco socialdemocratico? O siete complici, oppure degli incapaci”. Dopodiché a Reggio non succede più nulla e sei mesi dopo vi sarà il cambio di segretario. Con Magnani al posto di Nizzoli».

Torniamo al terrore fascista. Potere battesimale della morte, vendetta preventiva prima della disfatta, sindrome autodistruttiva, o che altro?
«C’era tutto questo in quel terrore. E più volte sono gli stessi tedeschi a frenare i saloini. I nazisti avevano la loro prospettiva strategica “razionale”: rallentare e coprire col terrore la ritirata. I fascisti agivano in chiave solo distruttiva. Con tecniche inaudite, peggio della banda Carità. E poi i tedeschi reagivano alle loro perdite, e non a quelle dei fascisti. I fascisti colpivano per lo più vendicando i tedeschi, oltre che se stessi. Da veri collaborazionisti. Vissuti con odio dalla gente.

Ma chi erano i fascisti in quel frangente? Che tratto sociale e generazionale avevano?
«C’era la vecchia componente squadrista, e i giovani di Salò. Con una differenza. Un conto era l’esercito repubblicano. Altro i membri delle Brigate nere. Poi, persone di seconda fila, che erano state in panchina, e colsero un’occasione di promozione sociale, molti non proprio fascisti a tutto tondo in precedenza. Infine gli sbandati, che vengono dal sud. Il capo dei torturatori di Villa Cucchi a Reggio era un maggiore di Perugia: Attilio Tesei. Morì nel 1993 nel suo letto, senza aver fatto un giorno di galera».

C’era una quota di consenso per i fascisti?
«No. A Reggio gli iscritti nel biennio, pur in quel clima repressivo, non arrivano a 3500 unità».

Non c’era una società civile spaccata in due. Perchè dunque parlare di «guerra civile» e non prevalentemente di «guerra ai civili»?
«Tecnicamente ci sono italiani contro altri italiani, ecco perché. Certo, dietro i 10mila resistenti a Reggio ce ne sono almeno altri 40mila in retrovia, con il consenso della stragrande maggioranza della società reggiana. Sì, forse il concetto di guerra civile è da ripensare, almeno per quel che riguarda l’Emilia nel 1943-45. Quella fu inannzitutto guerra ai civili nazifascista. E liberazione da tale guerra. Diverso è il discorso successivo al 1945, concernente le vendette di tipo sociale. E però va ribadito: la vendetta si estingue subito e consuma se stessa. Senza veri prolungamenti politici».

Altro punto di rilievo è l’amnistia di Togliatti del 1946. Anche questa, con le sentenze che mandano assolti i fascisti, alimenta lo spirito di vendetta?
«In realtà no. Perché l’amnistia del giugno 1946 coincide con la fine delle vendette. Basta guardare l’andamento dei numeri e le date. Le uccisioni cessano via via che l’amnistia, con le sue “ingiustizie”, va a regime. È la controprova che non c’è progetto politico, né spirito di vendetta “strategico”. Contadini e cooperatori tornano a fare il loro mestiere, e rinunciano alle armi. Anche le sentenze benevole della Cassazione, o delle Corti di Assise Ordinarie, dopo quelle Straordinarie, non alimentano dopo il 1945 alcuna fiammata di giustizia in proprio. Malgrado i loro limiti, le prime sentenze sgonfiano l’ira popolare. Normalizzano la situazione. La sanzione morale degli assassini, almeno simbolicamente, vi fu. E alla gente, che voleva tornare a vivere, questo bastò».

Veniamo infine al clero nella Bassa padana. Come si schierò nel biennio 1943-45 e subito dopo?
«La Chiesa di Reggio Emilia non si compromise in alcun modo con Salò. Anche per via dell’omicidio di Don Pasquino Borghi nel gennaio 1944, colpevole di aver aiutato i partigiani. Era un clero vicino alla Resistenza, non fuori o contro. E che pagò il suo prezzo. Quanto all’omicidio politico di Don Pessina, unico e forse non premeditato, va inquadrato nel clima di scontro tra egemonie tra le due Chiese, quella cattolica e quella comunista. Il Pc.d’I. aveva più iscritti che a Torino negli anni Trenta. Benché fossero iscritti contadini e non operai, come rilevò con stupore Teresa Noce all’epoca. Vi furono conflitti e unità, tra cattolici e comunisti. Questa è la terra di Dossetti e... di Prodi. Lo stesso Don Pessina organizzava le mondine. E non vi fu mai una mattanza di preti».



Pubblicato il: 29.09.08
Modificato il: 29.09.08 alle ore 8.26   
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« Risposta #173 inserito:: Settembre 30, 2008, 12:18:54 pm »

Indignazioni a senso unico: Gasparri attacca l'Unità


Una vignetta riferita al ministro Renato Brunetta, pubblicata su  "Emme", supplemento satirico de l'Unità, ha scatenato l'ira della destra, in particolare del ministro Gasparri che si lamenta perché vi si vede un uomo che punta una pistola contro il ministro Brunetta. Una presa di posizione che suscita "sorpresa" nella direzione de l'Unità perché viene dagli «stessi ambienti che hanno sempre giustificato e tollerato gli espliciti riferimenti all'uso delle armi fatti da un autorevole esponente della maggioranza di governo, Umberto Bossi, in contesti non satirici ma evidentemente politici».

«La vignetta di Biani, nelle intenzioni dell'autore e nell'interpretazione che abbiamo dato come redazione - spiega Sergio Staino, che di "Emme" è il direttore - esprimeva solo il disagio, l'indignazione e il vaneggiamento folle e non certo condivisibile, che può provocare una strabordante polemica contro supposti fannulloni, in un paese come il nostro in cui invece sta crescendo la disoccupazione.
In questo specifico caso, il disagio profondo di una guardia giurata per la quale,il vecchio "ferro", strumento del suo lavoro, sottolineava la sua attuale situazione di disoccupato».

Per Gasparri, invece, «non si può non rilevare la pericolosa ambiguità della vignetta contro il ministro Brunetta pubblicata oggi nell'inserto satirico allegato all'Unità. Non so se il direttore del quotidiano l'ha vista prima che fosse pubblicata. Sotto il titolo "Guerre giuste", c'è l'immagine di una persona che, puntando una pistola, fa intendere che a Brunetta si potrebbe anche sparare». «In un paese in cui violenza e terrorismo hanno una drammatica storia e forse radici non completamente recise, si scherzi su tutto, ma non con le armi e le pistole puntate. Sono certo che il direttore de l'Unità, accortosi dell'errore, vorrà scusarsi con il ministro Brunetta», conclude Gasparri.

Nella nota di risposta della direzione si fa notare «che "Emme" è un settimanale satirico ("periodico di filosofia da ridere e politica da piangere", si legge accanto alla testata) e che, dunque, l'evidenza del contesto non può ingenerare alcun sospetto di "ambiguità" sugli intenti della vignetta. Contesto, quello di "Emme", che, per la storia e la qualità degli autori e dei collaboratori, è lontanissimo da suggestioni violente, come d'altra parte è confermato dai riconoscimenti che negli anni gli sono stati tributati.
Qualche giorno fa, il prestigioso "Premio Forte dei Marmi"».


Pubblicato il: 29.09.08
Modificato il: 29.09.08 alle ore 20.02   
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« Risposta #174 inserito:: Ottobre 03, 2008, 06:01:43 pm »

Il caso L'autista: pensavo dormisse, era lì immobile dal turno precedente

Per ore nessuno lo soccorre
Passeggero muore sul bus
Cardiopatico di 33 anni rimane accasciato sul sedile



ROMA — A lungo, troppo a lungo, accasciato immobile sul sedile di un autobus affollato, protagonista e vittima di una storia di indifferenza metropolitana, senza lieto fine: Giovanni M., giovane cardiopatico di 33 anni, è morto così, dopo una prolungata agonia sulla linea 105, percorso che dalla stazione Termini arriva fino a Grotte Celoni, estrema periferia sud della capitale.
 
La segnalazione è arrivata mercoledì da una passeggera di quell'affollatissimo autobus, che il giorno prima, intorno a mezzogiorno, era salita sul mezzo all'inizio di via Casilina, pochi metri da Porta Maggiore: «Un giovane, dall'aria per bene, era immobile, riverso sul sedile — ha raccontato — ma si capiva che non dormiva, gocciolava, non sembrava sudore, io ero sicura che fosse morto». Ma Giovanni, si capirà solo dopo, era invece ancora vivo. E magari una segnalazione tempestiva avrebbe potuto, chissà, salvargli la vita. La donna e un'altra passeggera raccontano di aver segnalato la cosa intorno alle 13 di martedì all'autista, il quale inizialmente avrebbe risposto così: «Sì sì... lo so, era già qui quando ho iniziato il turno, il collega mi ha avvertito che c'era un poveraccio che dormiva».

Poveraccio sì, ma non era sonno, era l'agonia di un malato che morirà alcune ore dopo nel vicino Policlinico Casilino. L'autobus, secondo il racconto della donna, si è finalmente fermato poco oltre la borgata di Torpignattara, di fronte a Villa De Santis, e lì tutti i passeggeri sono stati fatti scendere. Presi dalla fretta del quotidiano, non hanno nemmeno fatto in tempo a vedere l'arrivo di un'ambulanza, saliti subito sul bus successivo e convinti comunque che quel corpo immobile fosse già quello di un morto, accasciato su quel sedile fin dal turno precedente, su e giù per chissà quanto tempo per le strade di Roma senza che nessuno si accorgesse di nulla o intervenisse per dare un aiuto. «Un fatto del genere semplicemente non è accaduto, impossibile, una bufala», si affrettavano a spiegare dagli uffici di Atac Trambus mercoledì in serata, oltre 24 ore dopo il fatto.

Storia falsa dunque? «Questo non possiamo dirlo — la risposta — magari non è una storia falsa, solo che a noi non risulta. Nei fonogrammi quotidiani non c'è traccia di questo episodio. Oltretutto, se un caso del genere non porta disguidi al servizio, può essere che non venga segnalato». No, nessuna bufala: un rapporto di poche righe alla polizia di zona, delle ore 21 del giorno dopo l'accaduto, confermerà invece il decesso di Giovanni, ragazzo cardiopatico e già sottoposto in passato a un intervento chirurgico al cuore, ritrovato su un autobus dove si trovava da chissà quanto tempo.

Rinaldo Frignani
Edoardo Sassi
03 ottobre 2008

da corriere.it



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Razzismo, somala denudata a Ciampino
Scritte contro romeno carbonizzato


ROMA - Nuovi episodi di razzismo a Milano e a Fiumicino. Dopo il cinese picchiato da una gang di minorenni in un quartiere popolare della capitale, una donna somala di 51 anni, sposata con un italiano, ha denunciato di essere stata "tenuta nuda per quattro ore all'aeroporto di Ciampino" dal personale dello scalo che l'ha ingiuriata chiamandola negra.

A Sesto San Giovanni, nell'hinterland di Milano, sono comparse scritte ingiuriose contro il ragazzino romeno che ha perso la vita, alcuni giorni fa in un tragico incendio nell'ex area Falck. Le frasi ingiuriose sono state tracciate sui muri delle case di via Trento dove il giovane romeno è morto bruciato.

(3 ottobre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #175 inserito:: Ottobre 11, 2008, 03:50:28 pm »

11/10/2008
 
Nè panico nè populismo
 
 
 
VITTORIO EMANUELE PARISI
 
In questi giorni si è molto, e giustamente, parlato del pericolo che la crisi finanziaria mondiale finisca con l’alimentare un’ondata di panico irrazionale, la sola che sarebbe davvero in grado di mettere in ginocchio l’economia globale. Il monito appare sacrosanto, ma val la pena segnalare come, nella Penisola, insieme con il panico ciò che rischia di venire risvegliato e alimentato è quella miscela di populismo e anticapitalismo che troppe volte ha impedito che l’Italia potesse diventare quel Paese normale, o semplicemente moderno, in cui vorremmo vivere. Non c’è dubbio che i mercati finanziari, soprattutto quei segmenti che trattano i prodotti più innovativi e sperimentali, altamente redditizi e parimenti volatili, necessitino di una regolamentazione maggiore e più efficace. Il «mercato», d’altro canto, è un’istituzione, al pari dello Stato, e solo una visione ideologizzata dello Stato e del mercato hanno potuto lasciare intendere che l’uno potesse crescere e fortificarsi mentre l’altro andava in malora. In fondo, il caso italiano è paradigmatico (al negativo) di questa relazione. Le regole sono quindi necessarie e benvenute proprio laddove si scambiano valori finanziari, perché senza regole non ci può essere fiducia e qualunque anticipazione sul futuro rischia di tramutarsi in azzardo.

E alla politica spetta di dettare le regole e di farle applicare. Questo, insieme al rigore nel fornire informazioni non allarmistiche e alla garanzia che le istituzioni non saranno passive spettatrici di quanto sta avvenendo, va nella direzione di rassicurare l’opinione pubblica e di combattere il panico. Il messaggio appropriato è quello di spiegare che la politica può fornire nel breve periodo quei correttivi che consentano al mercato di ritrovare il suo autoequilibrio nel lungo periodo. Evidentemente, prospettare la necessità della temporanea chiusura dei mercati (anche se poi smentendo) o arrivare a «consigliare» quali titoli acquistare, come inopportunamente ha fatto il presidente del Consiglio, non solo travalica tale limite, ma finisce anche col sortire l’effetto opposto: alimentando la sfiducia nelle capacità autoregolatrici del mercato in un momento e in un Paese in cui essa è già molto bassa.

Questa è la stagione ideale per alimentare le culture politiche che guardano con sospetto all’economia di mercato, al capitalismo e al profitto.
Non occorrerà ricordare che la «grande crisi» alimentò il successo dei movimenti populisti e fascisti che dilagarono per l’Europa negli Anni 30 e il sospetto e il rancore verso le lobby finanziarie internazionali furono combustibile per l’ipernazionalismo e l’antisemitismo che questi movimenti rinfocolarono. Anche grazie all’Unione, oggi è più difficile che una simile deriva sia compiutamente possibile. In Italia, poi, è paradossale che il «rischio di un regime» sia il tormentone preferito di un leader populista quant’altri mai. Ma, se è significativo che i movimenti e partiti populisti, compresi quelli che non si collocano a destra, siano assai polemici verso l’Europa, è preoccupante che per questa via trovino spesso il varco per raggiungere i cuori dell’elettorato. La timidezza delle istituzioni europee, e la volontà dei governi di non andare oltre il coordinamento delle singole politiche nazionali nell’affrontare la presente crisi, rischia così di fornire legna al fuoco della polemica antieuropea e sostegno a chi se ne fa paladino. Troppo a lungo, infatti, si è argomentato che la realizzazione dell’Unione (e della moneta unica) fosse un frangiflutti contro i marosi della globalizzazione, per illudersi che essa possa uscire indenne da una eventuale crisi prolungata. Se alle istituzioni europee non sarà consentito di giocare un ruolo maggiore, è fin troppo facile prevedere che alle prossime elezioni i partiti populisti aumenteranno e di molto il loro consenso. Nel caso dell’Italia, poi, il rischio è che al danno dovuto alla crisi finanziaria globale si aggiunga la beffa della chiusura della timida stagione di liberalizzazione e deregolamentazione dell’economia (reale e non).

Un refrain in voga nelle ultime settimane è quello di un ritorno a un capitalismo più regolato, dopo gli anni di sbornia liberista, d’iperfinanza e di deregolamentazione selvaggia. Tutto molto giusto e condivisibile. Peccato che reaganismo e thatcherismo, qui da noi, abbiano imperato più nei dibattiti accademici e giornalistici che nella realtà. La nostra economia, quella reale in particolare, ma anche quella finanziaria, soffrono semmai di un eccesso di regolamentazione (per lo più cattiva) al punto che il mercato ne risulta asfittico e irrigidito. Guai se, sull’onda della giusta richiesta di una migliore e più efficace regolamentazione dei mercati per i prodotti finanziari più innovativi, prendesse corpo quella tendenza italiana al consociativismo e all’ipertrofia regolatoria che ben conosciamo e contro la quale lottano quotidianamente imprenditori e lavoratori. Quella che ci aspetta è quindi una lotta su due fronti. Contro gli effetti dell’iperfinanza globale che distrugge quella ricchezza che non crea, e contro chi non crede nella «distruzione creatrice» del capitalismo e nella virtù del mercato. Questo, signor Presidente, è il miglior modo «per evitare il panico e per ridare serenità agli italiani».
 
da lastampa.it
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« Risposta #176 inserito:: Ottobre 16, 2008, 11:59:25 pm »

IntERVista allo scrittore-PAPà

«Le aule per immigrati ci sono già. Capisco gli italiani che scappano»

Sandro Veronesi : «Quella della Camera non è la soluzione, se si vuole l'integrazione e non l'apartheid»

 
 
MILANO — Che ne pensa?
«Che il problema esiste, senza dubbio. E le classi separate, se è per questo, ci sono già».
Dice?
«Eh sì. Solo che non sono gli stranieri ad essere mandati via. Capita siano gli italiani, ad andarsene: per non lasciare i bambini in una classe a maggioranza straniera. È il dramma di noi genitori progressisti...». Sandro Veronesi, scrittore nonché papà di tre figli, in una pausa tra un impegno paterno e l'altro si concede un po' di (amara) ironia. «È come la storia del grembiule, sai la novità. I miei figli lo hanno portato, esiste in un sacco di scuole pubbliche italiane. Ed è utile, tra l'altro: non come uniforme, ma per evitare di sporcarsi i vestiti».
Ma le classi per stranieri?
«Vede, io abito a Prato, dove c'è una forte presenza di cittadini d'origine cinese che tendono storicamente a creare le cosiddette chinatown. Nelle scuole di quei quartieri accade spesso che i loro figli siano in maggioranza rispetto agli altri. E una buon parte di quei bimbi non parla italiano».
Lei cosa direbbe ai genitori che per questo portano via i loro figli?
«Cosa vuole, conoscendo la situazione specifica, forse fanno anche la cosa giusta. Abbandonati a se stessi, e potendo scegliere, mandano i figli altrove perché in effetti quel caso crea problemi: le prime classi dell'obbligo sono fondamentali, si rischia di restare indietro».
Quindi la mozione della Lega...
«Non ho dubbi, è sbagliata: sempre che si voglia l'integrazione e non l'apartheid. Perché ciò di cui parlo è il problema, non la soluzione. Se si vuole l'integrazione non si possono fare classi di soli stranieri, è folle».
Ma non diceva di capire i genitori italiani madrelingua che portano via i loro figli?
«Quella è la risposta di un cittadino lasciato da solo ad affrontare un problema del genere. La soluzione d'emergenza di una famiglia, progressista o meno. Ma non può essere il rimedio del governo».
E perché?
«Il Parlamento dovrebbe discutere, no? Già il fatto che si sia presentata una "mozione", senza approfondire il tema, sa di razzismo. Nel migliore dei casi, è la solita tendenza a semplificare le questioni complesse. A dare una risposta che vada bene in trenta secondi di Tg. Come se, davanti alla crisi finanziaria, avessero detto: e che problema c'è? Facciamo stampare altro denaro! Ecco, l'idea delle classi separate ha lo stesso grado di raffinatezza. Magari si poteva nel Medioevo, ora no. Del resto non esiste in nessun Paese d'Europa».
Quindi che si fa?
«Un sistema di integrazione. Insegnare l'italiano ai genitori, per cominciare.
O magari far fare agli ultimi arrivati un anno di servizio civile. Un problema nuovo richiede nuove risposte. Certo è più comodo ricreare artificialmente le condizioni di cinquant'anni fa, grembiule, maestro unico, voto in condotta, ma sono anacronismi. È anche questione di distribuzione delle classi. Se in una classe gli scolari di origine straniera sono una minoranza, in proporzione alla media nazionale, si può pensare a insegnanti di sostegno: a dare degli strumenti anziché toglierli, come mi pare sia la tendenza. I bambini vanno portati all'altezza degli altri, tra l'altro imparano le lingue in fretta. In Svezia hanno tanti immigrati turchi e a scuola insegnano lo svedese ai turchi e il turco agli svedesi. Non si dice sempre che bisogna imparare le lingue? E se gli italiani imparassero un po' di cinese o di arabo, non farebbe loro bene?».
C'è anche un problema educativo, no?
«Magari senza accorgersene, siamo a un passo dal razzismo. Non è prudente. Cosa penserebbe un bimbo che passasse davanti alla classe degli "stranieri"? Che se fa il cattivo lo mandano là? Un passo. E tanti possono varcare la linea, diventa molto meno grave perché hai fatto un passo, uno solo, una "ragazzata"! Io non so se sia un disegno o una deriva spontanea, ma tutto sembra andare in quella direzione, le aggressioni, le croci celtiche allo stadio, le sagome dei bimbi neri dipinti di bianco...Tutto finisce per avere un'aria di famiglia.
Stiamoci attenti».


Gian Guido Vecchi
16 ottobre 2008

da corriere.it
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« Risposta #177 inserito:: Ottobre 21, 2008, 11:45:42 am »

21/10/2008
 
Purché non diventi Gomorrismo
 
 
 
FRANCESCO LA LICATA
 
Sulla vicenda della fatwa pronunciata dalla mafia contro Roberto Saviano, «colpevole» di aver scritto un libro di successo, «reato» aggravato dalla parallela buona accoglienza riservata al film Gomorra tratto dal romanzo, si sono registrate reazioni non univoche, oscillanti tra le prevedibili provocazioni sgarbiane e la manifesta avversione di una classe politica che non gradisce - e non da ora - la denuncia dell’ignavia istituzionale nella lotta alle mafie. Nel complesso, però, attorno al giovane scrittore è sorto un vasto movimento di opinione che raramente, nel nostro Paese, abbiamo visto crescere nei confronti di personaggi protagonisti delle diverse stagioni dell’antimafia. È di ieri la notizia d’una raccolta di firme di solidarietà a Saviano che ha superato le 85 mila adesioni, mentre da Orvieto giunge l’eco della preparazione di notti bianche per il 25 e 26 ottobre. Per Gomorra si sono mobilitati ambienti mai sfiorati dalla passione antimafia: premi Nobel, associazioni studentesche, intellettuali e persino le tifoserie che in passato non hanno certo brillato per il sostegno alle forze dell’ordine.

Tutto ciò non può che esser salutato con soddisfazione e grande apprezzamento, perché - come ci hanno insegnato collaudati maestri - una simile mobilitazione non può che tornare utile alla lotta alla mafia, indispensabile per la riappropriazione, da parte della società civile, di rapporti improntati al rispetto della legalità e della legge. Sappiamo quanto i signori delle cosche preferiscano il silenzio timoroso al coraggio della denuncia. Ben venga, quindi, il clamore suscitato dalle parole dello scrittore: chi è maledetto dalla mafia è benedetto dai cittadini onesti. Ma c’è un motivo più profondo di soddisfazione nella svolta impressa dall’avventura di Gomorra. Ed è proprio l’inattesa presa di coscienza collettiva attorno al tema della battaglia antimafia, per troppo tempo ignorata, quando non addirittura avversata. Non si può, a fronte di tanto clamore, non pensare a vicende del passato e a uomini che, purtroppo, non hanno goduto di tanto afflato. Giovanni Falcone non era soltanto un giudice: era uno stratega che ha rivoluzionato la cultura della lotta al crimine organizzato e alle mafie, inventandosi strumenti operativi e legislativi prima inesistenti e riuscendo a portare alla sbarra, vincendo in Cassazione, l’intera Cosa nostra senza abbandonare di un millimetro il percorso del rispetto delle leggi. È stato l’uomo che ha ridato agli italiani la prospettiva di liberare dalla mafia la politica, l’economia e la società civile.

Eppure Falcone dovette abbandonare la Sicilia, dopo aver subìto umiliazioni e ingiusti attacchi. E anche quando andò via, non per sua scelta ma per incompatibilità col potere, fu salutato con scherno e additato come un soldato che abbandonava la trincea, dopo essersi «inventato» la bomba dell’Addaura «per fare carriera». Persino quando, con la giornalista Marcelle Padovani, scrisse il libro Cose di Cosa nostra fu redarguito pesantemente dall’«intellighentia illuminata» che scorgeva nella competenza del giudice e nelle sue parole ponderate un «Falcone stregato dalla mafia». Quando saltò per aria, in quel modo che sembrava un film, abbiamo assistito al tentativo di rimuoverlo dalla memoria collettiva. Operazione sventata dall’enorme peso di un uomo che - prima che in Italia - si era conquistato il rispetto di una grande democrazia come l’America, felice di ospitare il suo busto nell’atrio dell’FBI, a Quantico in Virginia.

Ecco perché non si può non essere felici della partecipazione collettiva in difesa di Saviano. La generosità, la solidarietà caratterizzano la civiltà di un Paese. Purché tutto non diventi moda o, se preferite, «Gomorrismo».
 
da lastampa.it
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« Risposta #178 inserito:: Novembre 04, 2008, 06:02:24 pm »

3 novembre 2008, 15.11.22


Ribelliamoci alle banche



Parlare di etica e moralità nel sistema bancario è come parlare di corda in casa degli impiccati. Voglio ricordare che ci sono banchieri che hanno guadagnato, l'anno scorso, qualcosa come 26 mila euro al giorno, quanto guadagna una famiglia in un anno, dove lavorano in due. Rispetto a questi guadagni enormi, non hanno prodotto quello che il mestiere del banchiere porta, ossia valutare il rischio del credito e aiutare le piccole medie imprese nel tessuto economico a svilupparsi. Le banche non danno credito a chi ne ha bisogno, richiedono anche il rientro dell'affidamento, soprattutto in momenti come questi, con un preavviso di 24 ore, cosi che molte piccole medie imprese sono strozzate dalle banche, cosi come i mutuatari, tre milioni e duecentomila famiglie, indebitati a tassi variabili per precise responsabilità delle banche.

Al Senato abbiamo fatto una serie di audizioni alla commissione finanze per capire qual'è lo stato reale dei fatti, perché c'è questa grande bolla speculativa partita dagli Stati Uniti d'America. Ricordiamo: i mutui subprime, i prodotti derivati, i prodotti fuori bilancio, che sono due volte il Pil del mondo. Sono venuti Draghi, governatore della Banca d'Italia, uomo di Goldman Sachs, quella banca che l'anno scorso ha dato 600 mila dollari di premio ad ogni dipendente, salvata da un signore di nome Polson, ossia il segretario del tesoro americano che decide quali sono le banche che devono fallire: di fatti la Lehman Brothers è fallita, GPMorgan e Goldman Sachs non sono fallite, appunto perché lui è parte in causa, siccome è stato presidente ed amministratore delegato, per 27 anni, della Goldman Sachs. Un intreccio incestuoso senza precedenti.

Tornando alle audizioni: dalla Consob, all'ISVAP, l'istituto di vigilanza sulle assicurazioni che dovrebbe essere sciolto, all'ABI, l'associazione bancari italiana, tutti hanno scaricato la responsabilità sugli altri. Quindi, non esiste un colpevole. Durante l'audizione ho chiesto al Presidente di “audire il Ris di Parma”: se c'è il delitto perfetto, quali sono i colpevoli? Questi non si trovano. Ci sono i fiancheggiatori, che sono le autorità di controllo, le banche centrali e le agenzie di rating, ci sono i mandanti, ossia le banche d'affari e i complici, però non si trova l'autore di questo delitto che mette in ginocchio l'economia sana degli Stati, anche dell'Italia. Molti imprenditori stanno soffrendo questa crisi, perché gli si tagliano i rubinetti del credito proprio nel momento in cui c'è maggior bisogno.

Quello che noi diciamo è: ribelliamoci alle banche se ci chiedono il rientro dell'affidamento con un preavviso di 24 ore. In questo momento non subiamo! Perché se il governo fa il decreto “Salva-Banche”, e impegna 40-60 miliardi di euro che andranno, come con l'Alitalia, sulle spalle dei contribuenti, ed emetteranno titoli pubblici per aumentare la grande mole del debito pubblico, che sono 1650 miliardi di euro, 28 mila euro ogni abitante, se si salvano le banche bisogna salvare anche le imprese e le famiglie. Il governo dovrebbe anche vigilare le banche, che non si fidano di loro stesse e hanno la pretesa che gli utenti, i consumatori e le piccole medie imprese si fidino di loro. Non si fidano di loro stesse, non prestano soldi neanche nel mercato interbancario, e preferiscono alimentare un fondo della BCE ad un tasso d'interesse inferiore di un punto e mezzo piuttosto che offrire capitale di rischio.
Come Italia dei Valori lo ripetiamo: è una vergogna. Abbiamo posto un atto d'accusa contro le autorità vigilanti alla Commissione finanze, e continueremo a difendere i diritti. L'appello che lanciamo, sia ai mutuatari, a chi ci ascolta, e alle piccole medie imprese, perché la Fiat non ha bisogno di aiuti ne raccomandazioni: ribelliamoci al potere delle banche, ribelliamoci alla dittatura di un sistema bancario che non ha molta differenza con il sistema mafioso.

Tre milioni e duecentomila famiglie, indebitate a tasso variabile, sono strozzate dalle banche. I tassi d'interesse sono troppo alti: rispetto al tasso IBOR sono più alti di un punto, rispetto a quello della BCE sono più alti di un punto e quindici. Stanno aumentando pignoramenti ed esecuzioni immobiliari in tutti i tribunali con punte dal 39 per cento.

Questo governo che salva le banche, che fa i decreti scritti sotto la loro diretta dettatura, si dovrebbe vergognare perché non sta facendo nulla ne per le piccole medie imprese ne per le famiglie che né avrebbero un urgente bisogno.


da italia dei Valori
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« Risposta #179 inserito:: Novembre 30, 2008, 11:08:42 pm »

Ai primi di ottobre, Giorgio Nugnes aveva spiegato il suo punto di vista a Repubblica

Adesso, nel viottolo davanti alla casa c'è una folla tesa e arrabbiata

"La mia colpa? Difendere la mia gente"

L'ultima intervista dell'assessore suicida

"La protesta pacifica serviva anche a evitare scontri peggiori"

Lo strano provvedimento di "divieto di dimora" a tempo

di CONCHITA SANNINO

 
NAPOLI - "Mi sono battuto contro la riapertura della discarica. E' vero. La giustizia mi accusa di avere organizzato blocchi stradali? Ma a volte questa resistenza pacifica evita un corpo a corpo più pericoloso. Ho sempre difeso fino in fondo la mia gente del mio quartiere".

Era il 7 ottobre quando Giorgio Nugnes, l'ex assessore suicida apriva le porte della sua casa di Pianura a Repubblica. Nugnes era da poche ore agli arresti domiciliari, ma sembrava saldo nella convinzione di uscire presto da quello scandalo. Cinquantadue giorni dopo, il viottolo di campagna in cui abitava con una vasta parentela di cugini e nipoti, è avvolto dalla tragedia. Una tragedia che colpisce ancora più duramente perché maturata in questo luogo che ispira pace e tranquillità, dove la gente come Nugnes, quando poteva, veniva qui a raccogliere frutta e castagne e, se andavi a trovarlo, ti offriva delle mele appena colte.

Il suo corpo l'hanno trovato a pochi metri dall'ingresso della palazzina gialla. Accanto una corda e lo sgabello usati per impiccarsi. "C'è voluta molta lucidità e perizia per concepire un gesto come questo" scuote la testa sconvolto padre Bruno Rossetti, parroco della chiesa di San Lorenzo che, insieme a Don Claudio De Caro e ad altri due affranti sacerdoti, hanno portato il primo conforto alla famiglia. Sua moglie Mimma, insegnante, una donna discreta e sempre distante dalla ribalta politica, i figli adolescenti Tommaso e Andrea avevano sofferto in questi mesi prima i conflitti e le guerriglie urbane intorno alla possibilità di riaprire la discarica di Pianura, poi erano stati colpiti dal blitz giudiziario e dalle dimissioni con le quali Nugnes aveva lasciato il suo ufficio di assessore comunale. E ancor, la tensione per questo complicato regime di arresti domiciliari, infine la tragedia di oggi.

La gente di Pianura è adirata contro giudici e forze dell'ordine. Ma punta il dito soprattutto su quel divieto di dimora che il giudice per le indagini preliminari gli aveva inflitto. Una scelta che la stessa procura aveva chiesto di attenuare proprio nelle ultime settimane. Lo conferma il procuratore aggiunto antimafia Franco Roberti: "E' una tragedia nella quale ogni valutazione oggi appare impropria. Ma vogliamo ricordare che, alle richieste di Nugnes la procura aveva valutato e poi concesso la possibilità per lui di rientrare nella sua casa e dimorare lì almeno la notte". Alla apertura dei pm, tuttavia, il gip aveva risposto con maggiore severità: Nugnes poteva dormire a casa solo lunedì, mercoledì e venerdì di ogni settimana dalle ore 20 alle 8 del mattino dopo. "Un provvedimento del tutto atipico" lo definiscono ora anche ufficiali di polizia giudiziaria abituati a dettare prescrizioni per camorristi e sorvegliati speciali.

E, intorno alle 15, un silenzio irreale circonda la casa dalla quale esce il feretro dell'assessore. Oltre un centinaio di persone si fanno il segno della croce. C'è chi mormora "assassini" e uno dei tanti consiglieri comunali presenti, racconta: "L'avevo visto due giorni fa ai piedi di palazzo San Giacomo (la sede del palazzo comunale di Napoli; ndr) dove ornai veniva come un ospite. Aveva detto: 'se pensano di farmi smettere con la politica o di farmi sentire un uomo distrutto, si sbagliano".

E allora, il 7 ottobre, nell'intervista agli arresti domiciliari, aveva detto: "Siamo cresciuti con l'olezzo della discarica a Pianura, non permetteremo che la riaprano". E alla fine aveva avuto anche ragione. La discarica non è stata riaperta, ma si è portata via la sua vita.

(29 novembre 2008)
da repubblica.it
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