LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => ICR Studio. => Discussione aperta da: Admin - Aprile 16, 2008, 12:23:34 pm



Titolo: LEGGERE per capire... non solo la politica.
Inserito da: Admin - Aprile 16, 2008, 12:23:34 pm
16/4/2008
 
Sindrome di Amleto
 

EMANUELE MANCUSO

 
Nella legislatura 1996-2001, il centrosinistra, che aveva vinto le elezioni, travagliato da crisi e difficoltà varie, espresse tre presidenti del Consiglio: Prodi, D’Alema e Amato. Nelle elezioni del 2001, segretario dei Ds Veltroni, l’Ulivo non si alleò con Rifondazione comunista, responsabile della crisi del primo governo e non candidò né Prodi, né D’Alema, né Amato. Veltroni propose come leader il sindaco di Roma, Rutelli, che ottenne il consenso della coalizione ma non degli elettori. In quella campagna elettorale l’Ulivo esaltò i risultati ottenuti dai suoi governi sul terreno del risanamento dei conti pubblici e dell’impegno internazionale (soprattutto nel Kosovo) ma non candidò nessuno dei protagonisti di quella politica. Veltroni, prima del voto, lasciò la segreteria dei Ds e si candidò a sindaco di Roma. Il Cavaliere vinse. Come sappiamo, nel 2005, Berlusconi dopo cinque anni di governo era in difficoltà, Prodi ricompose la sua coalizione includendo la sinistra radicale e per un soffio vinse le elezioni.

Ma il governo non ha retto, dopo due anni si sono sciolte le Camere e il 13 aprile abbiamo votato. Intanto era nato il Pd, Veltroni non più sindaco di Roma (si ricandida Rutelli) guida il nuovo partito impegnato subito nella campagna elettorale. La coalizione prodiana però si scompone: il Pd si allea con Di Pietro e incorpora i radicali, il Partito socialista si presenta «solo», la sinistra-sinistra si unifica nell’Arcobaleno. Ma nella campagna elettorale, come nel 2001, il presidente del Consiglio sparisce. Qual è il giudizio del Pd sull’opera del suo governo non si capisce: si recita l’Amleto dell’essere e non essere.

Tutti, Pd e Arcobaleno, pensano che la presa di distanza da Prodi, senza chiarire le ragioni, basti a superare le difficoltà. Del resto il Pd e l’Arcobaleno sono formazioni la cui identità richiama «l’essere e non essere». E il risultato è quello che conosciamo. A conti fatti, il centrosinistra, nel suo complesso, rispetto al 2005 ha perso il 5,7 per cento. Su questo dato però non si ragiona. Invece bisogna ragionare. Se la sconfitta della sinistra radicale avesse prodotto la vittoria del Pd, i leader di questo partito potrebbero parlare di successo della loro strategia. Ma le cose non stanno così: la sinistra radicale ha perso 7 punti e il Pd rispetto all’Ulivo ne ha guadagnati 3.

Alcuni giornali sommariamente hanno fatto grossi titoli dicendo che «La sinistra è fuori del Parlamento». Ma quale sinistra? È vero che Veltroni ha detto e ridetto che il Pd non è un partito di sinistra, ma non si può certo dire che in quel partito, la cui identità è incerta, non ci siano forze di sinistra! Lo stesso Veltroni ha chiesto al socialista Zapatero messaggi di auguri per le elezioni, a Roma è arrivato il sindaco di Parigi, socialista e gay, per la campagna di Rutelli, abbiamo letto dichiarazioni di appoggio al Pd dei leader del partito socialista europeo: ma il Pd non è un partito di sinistra. Tuttavia l’assenza nel Parlamento dei socialisti e della sinistra radicale, che certo non spariscono dalla società, pone dei problemi. Li pone alla sinistra radicale che non può riversare sulle spalle di Veltroni la sua sconfitta. È una spiegazione infantile. Se la tua esistenza dipende da chi non ti vuole in vita c’è qualcosa di sbagliato in come tu vivi. Lo stesso ragionamento va fatto per i socialisti. Ma il Pd non può dire: tutto questo non mi interessa.

Io non credo negli scenari prefigurati da Cossiga, il quale teme che a sinistra si verifichi una deriva estremista e addirittura terroristica. Ma il problema c’è. L’esigenza di incanalare movimenti, tensioni e pulsioni sociali e politiche, che possono esprimersi sul terreno extraparlamentare, nell’ambito della dialettica democratica e parlamentare, sarà un tema di questa legislatura. Insomma, pensare che la storia della sinistra si sia conclusa è un errore che può pagare il Paese. Il tema semmai è un altro: quale sinistra è possibile dopo questo risultato elettorale? Un tema su cui occorre discutere.
 
da lastampa.it


Titolo: Roberto Cotroneo. Come sopravvivere alla coppia B&B
Inserito da: Admin - Aprile 16, 2008, 06:36:13 pm
Come sopravvivere alla coppia B&B

Roberto Cotroneo


In qualche modo bisognerà farcela. Da qualche parte una possibilità c’è. Per tutti quelli che martedì 15 aprile, come in un romanzo di Kafka, si sono svegliati, e si sono accorti, in un momento, che da ieri, l’Italia sarà di nuovo berlusconiana c’è bisogno di una terapia di sostegno, di un appoggio, di una ragione. Molti vagano increduli, altri sfogliano nervosamente vecchi giornali per ricordarsi com’era solo due anni fa, altri ancora credono che con questa maggioranza “stabile” nessuno ce la farà, perché gli anni potrebbero essere cinque, non uno di meno, e si dovrebbe camminare nella valle del regno di Berlusconi fino al 2013.

Fino al 2013 con Bossi e Cicchitto, con Fini e Maroni, con la Carfagna e Bondi, con Borghezio e Calderoli. Fino al 2013 con Gasparri, con Alemanno, con Lombardo. Fino al 2013 tutti là appassionatamente, o magari anche no, magari anche a litigare ogni tre minuti, ma certi che questa volta il potere se lo tengono stretto e si governa fino alla fine. E se qualcosa va fatto, allora non bastano palliativi facili. E ci sono una serie di strategie che si possono adottare da subito.

1. Evitare le trasmissioni televisive politiche. Innanzi tutto «Porta a Porta». Cominciare a pensare con determinazione che la politica non esiste più in quella forma, e che se ne può fare a meno. Rimuovere, se è possibile. Guardare in televisione solo film e naturalmente molto sport. Occuparsi più di calcio mercato che di toto ministri, ostentare un'indifferenza totale verso qualsiasi tipo di nomina pubblica o istituzionale, per chi vive a Roma tenersi lontani da piazza Montecitorio, perché non vengano pensieri angosciosi.

2. Darsi un'anima internazionale. Le prime tre pagine di qualsiasi quotidiano lasciarle direttamente all’edicolante. Se è opportuno munirsi di una piccola taglierina per rendere l'operazione più semplice. Almeno una volta a settimana immergersi nella lettura di Limes e occuparsi di esteri con passione e competenza. Sapere tutto dell'Africa, della Cina, del Sudamerica. Non sapere nulla della politica interna, tanto non c’è che da incavolarsi. E poi l’opposizione in Parlamento e solida e compatta, e ci penseranno loro. Ovvio. Per quanto riguarda i telegiornali, saltando i primi quindici minuti si dovrebbero evitare le cose peggiori. Dunque Tg1 e Tg5 iniziano per definizione alle 20 e 15 e il Tg2 alle 20 e 45. Desintonizzare per principio Rete 4 dal proprio televisore per non incappare neppure casualmente in Emilio Fede. Se usate internet per informarvi, è preferibile togliere dalla home page la pagina del Corriere o di Repubblica on line, e metterci quella del Paìs.

3. Pensare il meno possibile. Non è opportuno andare a riposarsi, o fare immediate vacanze, in eremi umbri e toscani, in luoghi di riflessione, o in regioni, comuni e provincie amministrate dal centro sinistra in modo particolarmente efficace. Provoca stati d’ansia. Provoca stati d’ansia anche finire in luoghi amministrati dal centro destra, perché poi si capisce cosa ci aspetta. Stare a casa propria è molto meglio. E circondarsi di feticci e simboli rilassanti e positivi. Con pochi euro e possibile farsi stampare una gigantografia di Obama da appendere in salotto, ma senza la frase «we can».

4. Molta natura. La natura funziona sempre. E soprattutto non l'ha inventata Berlusconi, fino a prova contraria. Passeggiate, studio degli insetti, della flora e della fauna. Per chi ama il mare sono indicate lunghe passeggiate sulla spiaggia. Basta che non sia la Costa Smeralda.

5. Molta natura, ma evitare accuratamente le passeggiate per la pianura Padana, o lungo gli argini del Po. Si rischia di incontrare gente con l’armatura che riempie ampolle dal fiume. E vengono inquietanti pensieri.

6. Trovarsi un hobby. Può essere uno sport, ma anche no, ovviamente. Indicati sport ossessivi senza attinenza con la cronaca politica. Il calcio ad esempio non è molto indicato. Meglio il golf. E può funzionare anche il Polo. Per chi non riesce a fare a meno di pensarci, a Berlusconi e Bossi al governo, potrebbero andare bene anche gli scacchi, la dama, il backgammon, e in genere i videogiochi. Da evitare assolutamente i giochi da tavolo. Sopra ogni cosa il “Monopoli”.

7. Allontanarsi il più possibile dalla contemporaneità. Non leggere saggi sull'Italia di oggi, darsi alla magia della letteratura. Esotismo, esotismo e ancora esotismo. Imparare a ballare, per chi non sa farlo. Balli di coppia, scegliendo accuratamente partner che non siano di centro sinistra. Perché poi si finisce per parlare solo di Berlusconi. Tutti i balli vanno bene, eccetto quelli da viveur anni Sessanta. Per chi con il ballo ha dei problemi, imparare a suonare uno strumento, o perfezionarlo è un buon modo per dimenticare. Iscriversi a una stagione di concerti, rigorosamente musica classica. Rarefazione e distanza fanno bene, meglio la musica barocca. Il rigore e le geometrie di Bach fanno illudere di vivere in un Paese migliore.

8. Per chi è single, il vecchio metodo di trovarsi subito un fidanzato o fidanzata potrebbe essere di aiuto. Ma attenzione. Meglio uno straniero o una straniera. Per motivi immaginabili, non pensano troppo a Berlusconi, e non sanno quasi chi siano Bossi o Maroni. Se proprio non si può andare oltre Italia, scegliere anime gemelle nell’area dell’astensionismo. Niente politica, per favore.

9. E niente cultura. Leggere libri certo. Ma meglio non frequentare presentazioni di testi impegnati, cineforum, teatro sperimentale, o musicisti contemporanei. Finisce che ti senti di nicchia. E non va bene affatto.

10. Attendere. Con pazienza. Non c’è altra possibilità. Ascoltare la radio di notte. È raro che telefoni Berlusconi a quell’ora durante i programmi.
Uscire circospetti, provare a sorridere, nonostante tutto. Convincersi che pioverà per cinque anni, più o meno. Perché è andata così. L’importante, come dice il poeta Paolo Conte, è che piova sugli impermeabili, e non sull’anima.


Pubblicato il: 16.04.08
Modificato il: 16.04.08 alle ore 8.19   
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Titolo: POPULIVISMO: Cgil, il successo della Lega era nell’aria, bastava girare nelle..
Inserito da: Admin - Aprile 17, 2008, 12:33:38 pm
L’intervista

Cremaschi e il boom della Lega operaia: «Marxisti di destra. E Tremonti non sbaglia»

Il leader dell’estrema sinistra nella Cgil: l’Arcobaleno ha ottenuto zero


ROMA—«Nel 2006 Prodi diventò presidente del Consiglio grazie al voto degli operai. Gli stessi che questa volta hanno scelto in massa la Lega, mandando a Palazzo Chigi Berlusconi». Per Giorgio Cremaschi, segretario nazionale della Fiom e capo della minoranza di estrema sinistra della Cgil, «il successo della Lega era nell’aria, bastava girare nelle fabbriche».

Perché gli operai hanno scelto il partito di Umberto Bossi?

«Lo avevano già fatto nel 2001. È un voto di protesta che dice ai partiti di sinistra: "Non vi siete occupati di noi". Il segnale c’era già stato con i fischi dell’assemblea di Mirafiori del 7 dicembre 2006».

Ma perché proprio la Lega?

«Perché assomiglia di più a un partito marxista-leninista: ha una fortissima identità ma al tempo stesso un grande pragmatismo».

Solo per questo?

«No. La Lega dà una forte risposta, sia pure di destra, a chi si sente minacciato dalla globalizzazione. E nel centrodestra il libro di Tremonti, anche se un po’ spregiudicato, è però intelligente».

Lei è d’accordo con Tremonti?

«Condivido il giudizio negativo su quello che lui chiama mercatismo e io preferisco chiamare liberismo, ma non le proposte».

Se tutti questi operai che prima votavano per la sinistra ora scelgono la Lega, significa che la Lega è di sinistra?

«No. Anche un partito di destra può essere un partito popolare».

Allora gli operai sono diventati di destra?

«No. Sono rimasti di sinistra ma hanno punito chi li ha traditi». Anche la Sinistra arcobaleno? «Era la forza politica meno credibile. Aveva portato in piazza un milione di persone su salari e precarietà, ma nel governo ha ottenuto zero. Poi ha commesso anche delle stupidaggini, come lo slogan "Anche i ricchi piangano"».

Ma non hanno votato neppure per Marco Ferrando e per i partiti della falce e martello.

«Gli operai non votano per formazioni elitarie».

Rosi Mauro, segretario del sindacato della Lega, dice che il Carroccio ha sempre interpretato i bisogni operai, ma che il suo sindacato è stato discriminato.

«Rosi Mauro me la ricordo fin da quando, molti anni fa, era una delegata della Uilm. Il Sinpa non ha mai sfondato perché fare sindacato non è una cosa semplice. Detto questo, chiunque oggi dice "Mettiamo alla prova la rappresentatività del sindacato" fa una cosa giusta. Non si deve nemmeno avere il sospetto che il gioco sia truccato».

E quindi?

«Se il governo fa una legge sulla rappresentatività sindacale, anche se per fini diversi dai miei, mi sta bene. Ci vogliono elezioni delle Rsu senza quote riservate a Cgil, Cisl e Uil. Ci vuole un rinnovo periodico delle deleghe, ogni 3-4 anni. E infine regole per garantire che il finanziamento sia trasparente».

Che linea deve avere la Cgil?

«La deve decidere un congresso. So che la mia posizione è ultraminoritaria, ma sono per una Cgil conflittuale. Ma non quella di Cofferati del 2002-2003. Non dobbiamo fare la grande opposizione politica a Berlusconi, ma tornare nelle fabbriche e batterci per il salario».

Ma dove la vede tutta questa voglia di conflitto? Il voto ha punito le forze antagoniste.

«Un operaio può votare Lega e fare tantissimi scioperi. Dopo l’autunno caldo, alle amministrative del 1970 a Mirafiori il primo partito risultò la Dc. Gli operai hanno votato Lega, ma se Berlusconi e Confindustria non aumenteranno loro i salari, il conflitto scoppierà».

Perché invece i dipendenti pubblici continuano a votare in maggioranza per il Pd?

«Perché si sentono più tutelati. Nel sindacato si deve aprire una discussione vera su questo. Non voglio fare i discorsi di Ichino sui fannulloni, ma nel mondo del lavoro convivono sacche di privilegio accanto a condizioni inaccettabili».

Il sindacato è una casta?

«Sì se ci si riferisce a un apparato di 20 mila persone e ai suoi meccanismi di autoriproduzione, no se si allude a privilegi economici. Io prendo 2 mila euro al mese e quando incontro un segretario nazionale del sindacato tedesco o inglese che guadagna 5-6 volte tanto mi prende per un pezzente».

Senta, ma non sarà che alla fine il sindacato non rappresenta più gli operai, ma soprattutto dipendenti pubblici e pensionati?

«I pensionati hanno un peso abnorme e danno al sindacato una connotazione di lobby politico-sociale alla quale non corrisponde una forza sindacale».

Enrico Marro
17 aprile 2008

da corriere.it


Titolo: Beppe Grillo attacca Veltroni «Ha riesumato Silvio, una salma politica»
Inserito da: Admin - Aprile 17, 2008, 02:19:01 pm
Voto, il day after sul blog: «Loro non molleranno mai, noi neppure»

Beppe Grillo attacca Veltroni «Ha riesumato Silvio, una salma politica»

Il comico genovese: «Il leader del Pd ha fatto cadere il governo: lui, non Mastella»


MILANO - Non perde la sua vena polemica Beppe Grillo nel day after delle politiche 2008. Dalle colonne del suo blog il comico genovese fa un'analisi del voto e se la prende con il leader sconfitto. «Veltroni (alias Topo Gigio, per l'occasione Grillo rispolvera un vecchio personaggio, ndr) ha fatto il miracolo», scrive il comico. Quale? «Aver riesumato una salma politica». L'accusa di Grillo a Veltroni è di aver resusciato Berlusconi (il nome del suo personaggio è testa d'Asfalto, ndr).

«MIRACOLO» - «Era l'autunno del 2007 - scrive Grillo -. Testa d'Asfalto regalava la pasta a un centinaio di pensionati in periferia di Milano. Fini e Casini lo avevano abbandonato. Una vecchia gloria sul viale del tramonto. Topo Gigio ha fatto il miracolo. Il suo primo atto politico è stato di riesumare una salma politica». Il comico ricorda gli approcci tra i due leader e «la foto della stretta di mano tra i due dopo una conversazione strettamente privata sulla nuova legge elettorale». «Sembravano Garibaldi e Vittorio Emanuele II a Teano - ironizza Grillo -. Lo psiconano aveva un'aria incredula. Non poteva immaginare che i pidini fossero così coglioni».

«VELTRONI IL MIGLIOR ALLEATO DEL PDL» - Nel governo di centrosinistra, sottolinea Grillo, Veltroni non si preoccupò di interpellare i piccoli partiti su una legge che li avrebbe fatti scomparire. «Topo Gigio - si legge sul blog del comico - è stato il miglior alleato del PDL. Ha fatto cadere il Governo: lui, non Mastella. Ha perso le elezioni in modo disastroso. Ha cancellato la sinistra e i verdi. Si può fare. Se fossi Berlusconi lo farei vice presidente del Consiglio».

LEGGE ELETTORALE - Grillo non perde occasione per ricordare che «la legge elettorale è incostituzionale». «Ci hanno trattati come bestie che possono fare solo una X su un simbolo. E la X l'abbiamo messa lo stesso perché siamo condizionati da mezzi di informazione anti democratici». «Senza libera informazione non c’è democrazia - concluide Grillo nel suo post -. Loro non molleranno mai, noi neppure».


15 aprile 2008

da corriere.it


Titolo: Giampiero Rossi. Voglia di legalità, così la Lega raddoppia a «Stalingrado»
Inserito da: Admin - Aprile 17, 2008, 03:17:23 pm
Voglia di legalità, così la Lega raddoppia a «Stalingrado»

Giampiero Rossi


Tra Milano e Sesto San Giovanni non c’è soluzione di continuità. Ma Sesto non è Milano, è diversa. Certo, nella Stalingrado d’Italia non ci sono più le grandi fabbriche che sfidarono il Terzo Reich, ma la città medaglia d’oro resta ancora un caposaldo del lavoro, come dimostra il flusso di pendolari equamente distribuito nei due sensi, da e verso Milano. La storica capacità di ospitare l’innovazione e un patrimonio quasi irripetibile di aree dismesse ha permesso di affrontare il nuovo secolo con una nuova pelle. E una trasformazione urbanistica di qualità ha permesso di attirare le sedi di aziende multinazionali e anche l’università statale. E chi poteva immaginarselo ai tempi in cui il tempo era scandito dalle sirene della Falck, della Breda, della Marelli?

Ma neanche queste trasformazioni economiche hanno cancellato da Sesto i tratti sociali e politici di sempre: «Una rete associativa e solidaristica formidabile, fatta di circoli, associazioni, teatri e iniziative d’ogni genere - spiega Giancarlo Pelucchi, dirigente della Cgil regionale e figlio del fondatore della storica Libreria Sestese - che rende questo Comune da tutto l’hinterland». Altro che dormitorio di Milano, insomma, Sesto è sveglissima e vivace, anche se gli operai sono assai meno. «Ma questa non è Liverpool - sottolinea ancora Pelucchi - qui c’è stato un graduale ricollocamento, la città è ripartita anche senza fabbriche». Come è possibile, allora, che anche qui le urne abbiano premiato la Lega e bocciato la sinistra? Anche le mura di Stalingrado stanno scricchiolando?

«Leggete i numeri», è l’invito quasi sorpreso di Laura Barat, segretaria cittadina del Pd. E in effetti il voto dice che il partito di Veltroni è il primo della città con il 37,41% dei consensi contro il 32.99% del Pdl. Non è una conferma, è una conquista, perché dalla prima metà degli anni novanta era il partito di Berlusconi ad avere la maggioranza relativa. «Partivano da un 30% e grazie alla nostra capacità di coinvolgimento e siamo riusciti a crescere», insiste la dirigente democratica. Ma coinvolgere chi? «Il terreno di riferimento è sempre quello, la straordinaria rete associativa di sesto, anche se dovremo interrogarci su quella fetta di città che ha scelto la Lega».

Ecco il punto: la Lega. Anche qui. È vero, ha rastrellato meno che nel resto della provincia (10.88%) ma è pur sempre un raddoppio. Che suona ancora più come uno schiaffo se accostato al drammatico ridimensionamento della sinistra, che dal 15% della somma di Prc, Pdci e verdi passa al 5,17% di un cartello che ha coinvolto anche fuoriusciti dei Ds del calibro di Antonio Pizzinato, ex leader Cgil e sestese eccellente. «Si capiva che le cose non andavano bene - dice lui stesso - quando negli ultimi giorni ai mercati vedevi la gente andare verso i leghisti, questa è stata la manifestazione elettorale del profondo malessere che vive molta gente. Ma dovremo ricostruire un soggetto della sinistra europea del ventunesimo secolo...».

Qualcosa di simile era già accaduto nel 1994, con la prima ondata berlusconiana, ma poi la Lega ritornò a numeri meno ambiziosi. Ma che volti ha il malessere di una città di 80.000 abitanti che sta meglio di tante altre dal punto di vista economico e occupazionale e che vanta un livello di coesione sociale invidiabile? «La Lega interpreta a modo suo la preoccupazione della gente per la sicurezza - dice il sindaco Giorgio Oldrini - in una città dove il 12% della popolazione e il 20% degli iscritti alle scuole viene da tutto il mondo. Noi qui abbiamo portato da 9 a 16 milioni di euro la spesa sociale a sostegno della persona, i nostri asili e le nostre case popolari sono aperte a chi ne ha bisogno, indipendentemente dal passaporto, offriamo scuola, doposcuola, assistenza di ogni tipo agli immigrati e a tutti i cittadini che ne hanno bisogno. Però dico da “comunista di culla” - conclude indicando il prezioso ritratto di Marx, regalo di un ricco imprenditore - questo sforzo di solidarietà diventa insostenibile se non è accompagnato da risposte sul fronte della legalità e della sicurezza. Inutile girarci attorno. E sono convinto, come dimostra il voto, che il Pd si proprio la mescola di culture in grado di trovare questa sintesi senza cadere nella semplificazione leghista».

E se questa sintesi non verrà prodotta in fretta continuerà l’avanzata della Lega e della destra anche a Stalingrado? «Dovremo darci da fare perché ciò non accada - dice pacato Giovanni Bianchi, segretario provinciale del Pd che rivendica l’invenzione del concetto di “sestesità” - ma quello che si è verificato, come nel 1994, è un fenomeno arrivato dall’alto, che investe la sfera mediatica e quindi ha attecchito anche in un territorio connotato come quello di Sesto. Ma ricordo anche che già nel 1996 Pizzinato ed io riconquistammo i collegi di Camera e Senato. Quindi - conclude - anche se a volte l'immagine mangia il territorio, dopo un po’ il territorio torna se stesso».

Pubblicato il: 17.04.08
Modificato il: 17.04.08 alle ore 13.01   
© l'Unità.


Titolo: Piero Ignazi. L'inganno populista
Inserito da: Admin - Aprile 18, 2008, 12:24:53 am
Piero Ignazi

L'inganno populista


L'attacco di Berlusconi a Napolitano e ai magistrati frutto di una cultura che rifiuta l'esistenza di autorità terze e autonome.

Quando verrà eletto il nuovo presidente americano, come sempre, non ci sarà nessuna proclamazione solenne. I 'grandi elettori', coloro ai quali spetta formalmente di sigillare il voto popolare, non si riuniscono mai a Washington per la cerimonia ufficiale; rimangono ciascuno nei loro Stati ed effettuano la proclamazione riunendosi nella capitale dello Stato.

Perché questa separazione fisica tra l'eletto e gli elettori? Perché, come avevano prescritto i padri fondatori della Costituzione americana nella loro ammirevole saggezza, un uomo investito di tanto potere qual è il presidente, è meglio non senta troppo dappresso il calore e l'entusiasmo degli elettori: può essere inebriato dal sostegno della folla e indotto a travalicare i limiti posti al proprio potere. Del resto già gli antichi romani facevano sfilare i condottieri vittoriosi lungo i fori imperiali accompagnati da uno scudiero che, reggendogli l'alloro, gli sussurrava "memento te esse hominem": ricordati che sei un uomo, non un dio immortale. I costruttori della democrazia americana conoscevano bene i rischi dell'entusiasmo popolare: temevano lo stordimento procurato da una folla osannante, la debordante pulsione ad assecondare i suoi desideri, l'identificazione del proprio volere con la volontà generale. Per questo hanno tenuto lontano il loro presidente dall'assemblea degli elettori.

Separare, dividere, controbilanciare i poteri: questa la triade costituzionale americana. Dagli Stati Uniti ci separa un oceano di tradizioni e di cultura politica, ma alcuni insegnamenti hanno valore universale. L'importanza dei checks and balances e dell'austerità del potere, connessa con la diffidenza per l'adulazione del (e dal) popolo, sono tra questi. Insegnamenti purtroppo trascurati nel nostro Paese. Da circa un ventennio, in Italia la separatezza tra i poteri e il rispetto per le rispettive sfere di intervento si sono attenuate. La magistratura, ad esempio, si è investita del ruolo salvifico di
 'fare giustizia' della criminalità organizzata, lasciata prosperare dal potere politico, e poi dei partiti stessi. Ma questi interventi, spesso debordanti e troppo esposti ai sentimenti del pubblico, almeno si ispiravano all'imperio della legge e perseguivano interessi generali e collettivi. Il peggio è venuto dal crollo dei partiti storici della cosiddetta prima Repubblica. Per quanto fossero corretti e autoreferenziali avevano però tutti un impianto cultuale solido e avevano assimilato, volenti o nolenti i principi fondamentali della democrazia parlamentare. La loro scomparsa e l'irruzione degli Hyksos leghisti e forzitalioti hanno messo in tensione il sistema istituzionale.

I nuovi arrivati erano estranei alla cultura politica liberal-democratica per quanto ne vantassero l'appartenenza. Erano, tecnicamente, populisti. Valorizzavano la sovranità popolare al di sopra - e quindi contro - la divisione dei poteri. L'appello al popolo doveva sormontare le resistenze degli organi costituzionali qualora questi si opponessero al volere della folla medianicamente e mediaticamente interpretata dal leader, dal capo.

Le convulsioni successive alla caduta del primo governo Berlusconi nel dicembre 1994 rappresentarono la prova generale del sorgere di questa visione stringentemente populista del sistema politico italiano. In questa visione il potere giudiziario diventava illegittimo perché privo di una unzione popolare. Come si permettono dei magistrati 'indipendenti' dal volere del popolo, di giudicare gli eletti del popolo? Il cortocircuito populista era innescato.

Nel suo furore iconoclasta il populismo tracima su ogni istituzione e ogni contropotere. Non può esistere una autorità terza, autonoma, indipendente, che controbilanci le altre. Tutti i poteri devono promanare da una sola fonte - il popolo - e ad essa adeguarsi. Di conseguenza, la Corte costituzionale è un'arma impropria del conflitto politico, non un organo di garanzia. E laPresidenza della Repubblica un covo di nemici del popolo, non un'istituzione di equilibrio, di unità e di raccordo. In fondo, l'attacco ad alzo zero di Silvio Berlusconi al Quirinale e agli altri organi dello Stato è perfettamente coerente con la sua cultura politica e con quella di buona parte del suo schieramento. Per loro il voto assume il valore di un'ordalia terrena, di uno scontro assoluto e totale; non è uno strumento per la scelta dei rappresentanti ed, eventualmente, del governo che, comunque, devono essere controllati e limitati da altri poteri.

È quest'incomprensione di fondo dei principi del costituzionalismo da parte di buona parte della classe politica italiana che rende instabile il nostro sistema; e, purtroppo, ancora diverso da tutti quelli delle democrazie consolidate.

(17 aprile 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Il leader dell'Idv seccato per l'incontro con Casini. "Poteva incontrare me..."
Inserito da: Admin - Aprile 18, 2008, 12:30:58 pm
POLITICA

L'ex pm conferma l'allenza ma "chiarire linea del Pd su giustizia, informazione e conflitto di interessi.

Altrimenti gruppi parlamentari autonomi"

Di Pietro affonda il gruppo unico "Chiediamo incontro con Veltroni"

Il leader dell'Idv seccato per l'incontro con Casini. "Poteva incontrare me..."

In ballo anche un milione di euro di rimborsi per il funzionamento dei gruppi

di CLAUDIA FUSANI

 

ROMA - "Cerchiamo un matrimonio di affetto e non di puro interesse. C'è una parte del Pd che ci vuole e una che non ci vuole. Quale prevale?". A tre giorni dallo scrutinio elettorale, forte di un buon successo personale di fronte a un Pd in cerca di assestamento, Antonio Di Pietro convoca una conferenza stampa per mettere in chiaro alcune questioni, "confermare l'alleanza" ma anche alzare paletti. Primo fra tutti: "Chiediamo di incontrare il segretario Veltroni - dice Di Pietro - per avere chiarimenti". Ad esempio: "Il loft ha parlato di governo-ombra. Noi dell'Italia dei valori non ne sapevamo nulla. Quale incarico è previsto per noi? Oppure intende farlo con l'Udc per mettere Cuffaro alla giustizia".

Da qui, da questo incontro, passa il destino dell'alleanza Pd-Idv e la promessa, sottoscritta prima del voto, di dare vita a un gruppo parlamentare unico. Un patto che Di Pietro conferma e caldeggia parlando di "alleanza programmatica" e di obiettivi condivisi come "un modello politico riformatore". E però, si scalda il leader dell'Idv, "visto che Veltroni ha già incontrato Casini vorrei che incontrasse anche noi per parlare, appunto, di governo ombra. E per sapere quale linea su giustizia, informazione e conflitto di interessi.... Se poi la linea del Pd non sarà compatibile con la nostra, noi faremo il nostro gruppo autonomo". Insomma, il gruppo unitario si vede "prima nei contenuti che nel contenitore". La posta in palio è molto di più di quello che sembra. Non è solo Di Pietro che se ne va per conto suo e lascia il Pd, tanto perso per perso... Riguarda, ad esempio, la progettualità politica futura del partito democratico.

Prima della conferenza stampa Di Pietro aveva riunito l'esecutivo del partito. L'ex pm ha illustrato due ipotesi: quella di dar vita ad un gruppo unico insieme al Pd e quella di costruire un gruppo autonomo. L'idea di andare da soli è sembrata prevalere anche per motivi tecnici: l'opposizione ha più gruppi e quindi più forza durante le riunioni della capigruppo delle due camere.

L'ex pm ne ha fatto, con i suoi, anche una questione di visibilità: "A che ci serve questo gruppo unico? Io
voglio parlare e se mi nascondo non mi vedono neppure. Voglio sapere chi sarà nominato alla Commissione giustizia e chi alla Commissione di vigilanza Rai". Insomma, Di Pietro - e chi è stato eletto con lui, da Beppe Giulietti a Evangelisti, da Pancho Pardi a Silvana Mura - ci vogliono essere e vogliono contare.

Opportunità politiche e visibilità a parte, nella scelta potrebbe pesare anche la questione puramente economica. "Non siamo certo qui a fare una questione per tre segretarie e quattro cadreghine (seggiole ndr)" precisa Beppe Giulietti. A prescindere dal gruppo unico, Idv incasserà circa 20 milioni di rimborsi elettorali ogni anno per tutta la legislatura (a cui si aggiungono, per i prossimi tre anni, gli altri rimborsi della legislatura appena conclusa).

Dando vita ai propri gruppi parlamentari alla Camera e al Senato rimborsi e benefici sono destinati ad aumentare. L'ex pm ha 29 deputati e 14 senatori e servono soldi per metterli in condizione di lavorare: segreterie, portaborse, consulenti, auto, uffici. Così, nel caso desse vita ai propri gruppi, tra Camera e Senato Italia dei valori riceverà complessivamente più di 1.000.000 di euro l'anno nonché i fondi necessari ad assumere una ventina di persone, addetti alle segreterie, uno ogni tre eletti (9-10 alla Camera;4-5 al Senato).

Avere i gruppi garantisce anche un segretario di presidenza sia a Montecitorio che a palazzo Madama: per ognuno oltre 4.000 euro al mese di indennità, la possibilità di assumere almeno 5 persone, l'utilizzo dell'auto di servizio e altri benefit. Politicamente la costituzione del gruppo consente di avere un rappresentante negli uffici di presidenza di tutte le
commissioni e giunte. Insomma, tra un rimborso e l'altro, si tratta di un milione di euro che altrimenti sarebbero andati al Pd e al funzionamento dei 335 deputati democrat. Dal punto di vista dei tesorieri, fa la sua differenza.

(17 aprile 2008)

da repubblica.it


Titolo: Il sindaco di Genova: "Perso il nord perché il Pd non è un partito federale"
Inserito da: Admin - Aprile 18, 2008, 12:32:26 pm
Il sindaco di Genova: "Perso il nord perché il Pd non è un partito federale"

Marta Vincenzi, primo cittadino del capoluogo ligure, analizza il risultato dell week end elettorale.

«Non abbiamo avuto il tracollo, ma la situazione politica è seria e abbiamo perso il Senato».

Tuttavia la Liguria può essere il punto di ripartenza della sinistra «ammesso che si voglia rileggere i bisogni della gente»

di Donatello Alfonso


 Genova dove il centrosinistra regge «perché la gente sente di essere governata, e riconosce con il voto qualcosa che trova tutti i giorni, pur con i limiti che sicuramente ci sono». Genova che può essere, ancora una volta, un punto di ripartenza della sinistra «ammesso che si voglia definire sinistra la capacità di rileggere i bisogni della gente; e per farlo abbiamo bisogno di tutti, anche di quelle forze della sinistra che non sono più rappresentate in parlamento, ma negli enti locali sì, e dove devono restare, a partire dalla mia giunta», dice la sindaco di Genova Marta Vincenzi.

La prossima visita del presidente Giorgio Napolitano, il prossimo 25 aprile, può essere il momento di coesione di tutte le forze politiche intorno alla Costituzione che, sia chiaro, può essere migliorata, ma deve restare come elemento chiave del paese. Però stiamo attenti, aggiunge la sindaco: «Non abbiamo avuto il tracollo, però la situazione politica è seria. E il Pd non è riuscito a sfondare, in Liguria in particolare dove si è perso il Senato. Bisogna quindi ridefinire una leadership regionale; che non significa dire chi deve fare una cosa piuttosto che l'altra, ma che i vertici non devono essere costituiti da replicanti. Se no, significa non aver capito»

Sindaco Vincenzi, lunedì ha detto «venite tutti a Genova che è la città più democratica d'Italia». In effetti il Pd ha avuto quasi il 44% al Senato, sfiorando il 50% insieme con i dipietristi, e lasciando l'Arcobaleno al 4...
«E' vero che a Genova il dato non è omogeneo rispetto al resto del nord, fatta eccezione per Torino. Anche se anche qui c'è stato un crollo della sinistra, forse abnorme anche di fronte alla delusione per la presenza conflittuale nel governo Prodi. Genova, peraltro, ha retto: di fronte all boom dell'appartenenza territoriale, penso che abbia pagato la sensazione che questa città, pur con alcuni problemi, sia governata, e da forze politiche ben precise. E quindi sia stata premiata questa sensazione di appartenenza, nel momento in cui si dice basta ad un paese instabile».

Una soddisfazione ma anche un bel problema, per voi del Pd.
«Sì, perché dietro al crollo della sinistra radicale c'è da interrogarsi molto, e il Pd per primo. Io già nella mia campagna da sindaco, un anno fa, vedevo il malessere di una politica che non riusciva a entrare in sintonia con le parole e i concetti della gente. Un cambiamento culturale che fa piazza pulita dello spirito pubblico. E nemmeno il Pd è stato all'altezza».

Veltroni non ha capito?
«Penso che Veltroni abbia fatto la miglior campagna possibile, ma non è bastato. Il Pd comincia bene ma non sfonda. Forse per mancanza di tempo è mancata la costruzione di un partito federale, che nello statuto c'era, era uno degli elementi più forti. Io ero stata tra i firmatari della necessità di creare un Pd del Nord, non certo per fare la secessione; ma per stare sul territorio. Questo non lo abbiamo fatto».

E quindi?
«E quindi non possiamo dire che sia stata una vittoria. C'è bisogno di ridefinire una leadership regionale, il che non significa dire chio dovrà fare una cosa piuttosto che un'altra, ma...».

Quindi non è un sollecito a chi gestisce il Pd ligure ad andarsene?
«Io dico che la nuova leadership regionale non deve essere costituita da replicanti. Se no, significa non aver capito cosa è successo».

Sindaco, lei cos'ha capito? Degli operai dell'Ilva che votano Lega, ad esempio?
«Non c'è più una lettura tradizionale. Si difende il lavoro ma in una situazione in cui manca la sensazione di sicurezza, anche quella di essere governati, ci si arrabbia per i soldi che se ne vanno in tasse e quindi vanno a Roma. Una poltiglia sociale, come si è detto, che porta a questi risultati».

Ma la sinistra che è sparita dalle camere volete recuperarla?
«Prima di tutto chiediamoci cos'è oggi la sinistra. nella capacità di rileggere i bisogni della gente, prima di tutto; di sicuro abbiamo bisogno di tutti, di forze rappresentate in Parlamento e altre no».

Sindaco, il 25 aprile qui ci sarà il presidente Napolitano. La sinistra può ripartire da Genova, in questa occasione?
«Sarà un buon inizio se si accentuerà nel 25 aprile l'esigenza di fare riferimento alla forza della Costituzione nel momento in cui si parla dell'inizio di una nuova repubblica. La Costituzione può essere migliorata, certo, ma è un qualcosa di imprescindibile, un patrimonio nazionale, la carta con cui presentarci in Europa. Vorrei che il 25 aprile ci fossero, insieme a Napolitano, tutti gli eletti di ogni schieramento, che si sentano rappresentati nel presidente».

(17 aprile 2008)

da genova.repubblica.it


Titolo: "Votiamo Cgil in azienda e Bossi nell'urna. Che c'è di strano?
Inserito da: Admin - Aprile 18, 2008, 02:20:37 pm
POLITICA

Le tute blu lombarde contro i flussi di extracomunitari

E i camalli di Genova accusano il governo Prodi: "Ha messo fuori i delinquenti"

Gli operai Fiom che votano a destra "Così protetti da tasse e criminalità"

"Votiamo Cgil in azienda e Bossi nell'urna. Che c'è di strano?

La prima ci dà il contratto, la seconda la garanzia che i soldi restino al Nord"

dal nostro inviato PAOLO GRISERI



 BRESCIA - L'importante è saper rispondere alla domanda: "Mi conviene?". Paolo, ad esempio, ha capito che gli conviene votare Bossi perché la Lega lo protegge. Ha 22 anni, sta appoggiato al muro insieme ai coetanei durante la pausa mensa alla Innse Berardi, 250 metalmeccanici specializzati alla periferia di Brescia. Da chi ti protegge la Lega? "Dagli extracomunitari". Ne hai bisogno alla tua età? "Non è bello doversi difendere quando vai alla stazione". Che cosa vuol dire che la Lega ti difende? "Che, bloccherà i flussi, non li lascerà più entrare in Italia".

Il capannello aumenta, la discussione si anima, Enrico contesta: "Tutte balle, ti lasci riempire la testa dalla tv. Non siamo a Chicago, dov'è tutta 'sta criminalità? E poi i criminali non ci sono in Italia? Prova ad andare in Sicilia". "Quelli almeno sono nostri e ce li curiamo noi. Ma dobbiamo preoccuparci anche di quelli che esportano gli altri?". E' facile sfottere Paolo. Christian scioglie la tensione con la battuta vincente: "Vuoi bloccare l'ingresso in Italia agli extracomunitari proprio tu che sei dell'Inter?".

Paolo sembra soccombere. Ma l'aiuto vero gli arriva da Gianni, un ragazzo di 32 anni che a queste elezioni non ha votato. Un grillino adirato con la Casta? "No, non ho votato perché non posso ancora. Sono albanese, sono arrivato nel '99. Il mio vero nome è Hashim ma siccome è troppo complicato, tutti mi chiamano Gianni". Quando potrai votare per chi voterai? "Per il partito che sceglieranno la maggioranza degli italiani". In questo momento è la destra. Ti andrebbe bene la destra? "Perché no?". Forse perché potrebbe bloccare l'ingresso degli stranieri alle frontiere. "E allora? Io sono entrato, in autunno sono arrivati anche mia moglie e i miei figli. Se non arrivano tanti altri a farci concorrenza è meglio".

Così, in dieci minuti di chiacchiere da bar, Paolo e Gianni fanno a pezzi quel che resta del concetto di solidarietà, caro alla Dc di Martinazzoli, che ha governato queste terre durante la prima repubblica, come alla Fiom di Giorgio Cremaschi, che continua a governare il sindacato di fabbrica con il 70% dei voti alle elezioni delle rsu.

Votano Fiom in azienda e Bossi nell'urna? "Dov'è il problema? Si vede che la Fiom e Bossi gli servono". Angelo, delegato a un passo dalla pensione, sa che la sua è una risposta provocatoria. Ma anche profondamente vera. "Da queste parti - spiega - le aziende hanno fame di operai specializzati. Qui i contratti integrativi sono ricchi, arriviamo a strappare aumenti di 2-3 mila euro all'anno".

Tute blu quasi benestanti, ben diverse da quelle che, sull'altro lato della strada, costruiscono i camion all'Iveco, la vecchia e gloriosa Om, e portano a casa i salari degli operai Fiat. "Alla Innse - aggiunge Angelo - molti abitano nei paesi delle valli bresciane. Con il passare del tempo si sono fatti la villetta a schiera. Una conquista che adesso hanno paura di perdere con l'aumento del costo della vita". Qui si chiede ai comunisti di contrattare l'aumento con il padrone, perché loro sono ancora i più bravi nel settore ("tremila euro all'anno, sputaci sopra"), e si chiede a Bossi di realizzare il federalismo fiscale. Il comunista ti porta i soldi ma è la Lega che li difende.

La sirena del federalismo, ad esempio, è quella che ha attirato Giovanni, contadino cuneese prestato all'industria della gomma. Arriva davanti al bar "Sporting", il ritrovo degli operai sul piazzale della Michelin di Cuneo, e spiega la sua soddisfazione: "Finalmente abbiamo vinto, adesso si può fare il federalismo fiscale". Che cosa vuol dire? "Che siamo padroni a casa nostra, che le tasse restano qui e non vanno a Roma. Con tutte quelle che paghiamo io e mia moglie per l'azienda agricola".

Giovanni ha 49 anni e, come molti da queste parti, ha iniziato a compiere le sue scelte politiche nel ventre della Balena bianca: "Qui - ricorda - votavano tutti Dc, anzi votavano tutti Coldiretti", la potente associazione dei contadini democristiani. Rotto quel contenitore, Giovanni è diventato un leghista moderato. Uno che dice: "All'inizio votavo Lega per protesta. Poi mi sono un po' allontanato quando dicevano che volevano la secessione".

Ma anche lui, quando si tratta di scegliere il sindacato, finisce per affidarsi a Cgil, Cisl e Uil. Gaspare e Luigi, delegati di fabbrica, raccontano del flop del SinPa, il sindacato dei leghisti: "Nel 2000 aveva fatto il pieno alle elezioni del consiglio di fabbrica, avevano il 33% dei voti. Poi sono rapidamente spariti. Quello del sindacalista non è un ruolo che si improvvisa. Non basta dire "Roma ladrona" per chiudere un contratto". Per il momento, comunque, sono i partiti del centrodestra più dei sindacati del Carroccio a mettere in crisi i sindacati confederali. A Brescia, dove lo straordinario è la regola, la detassazione promessa da Berlusconi ha fatto breccia. Aldo, delegato della Fim dell'Innse, ammette sconsolato: "Quello è stato un colpo da maestro".

La Lega è forte, i messaggi del centrodestra bucano il video, ma la sinistra delle fabbriche dov'è finita? Sam, 35 anni, lavora alla Michelin di Cuneo insieme a un gruppo di altri ragazzi di colore. "Arriviamo tutti dal Benin, siamo in Italia da molti anni, abbiamo preso la cittadinanza. Abbiamo sempre votato Rifondazione". Ma? "Questa volta non lo abbiamo più fatto. Ci siamo riuniti per parlarne. Una parte ha scelto il Pd perché sperava di bloccare Berlusconi. Ma alcuni hanno proprio deciso di smetterla con la sinistra. Votano Berlusconi perché la sinistra litiga troppo, non si trova mai d'accordo su nulla".

Per guardare in faccia la delusione della sinistra radicale basta andare a Genova, nel cuore del Porto, roccaforte dei camalli della Compagnia unica dove su sette delegati di area Cgil quattro sono di Rifondazione due dei Ds e due di Lotta Comunista. Mauro spiega la sconfitta dell'Arcobaleno: "A Genova si dice: "Ci hanno presi nella lassa", ci hanno fregati. Molti hanno votato Pd credendo che tanto il 4 per cento alla Camera si faceva e che Veltroni fosse vicino a Berlusconi nei sondaggi. Invece non era vero niente".

Basta l'ingenuità a spiegare tutto? "No che non basta. Ne abbiamo parlato martedì tra di noi. Rifondazione ha sbagliato". Dove ha sbagliato? "Ad esempio con l'indulto". Ma l'indulto, una volta non era una legge di sinistra? "Lo dici tu. Ma quale sinistra? Ha messo fuori i delinquenti altro che sinistra". Forse non sarà solo per questo che nei seggi di Crevari, storico quartiere partigiano di Genova, la Lega batte la Sinistra arcobaleno 486 a 358. Sarà anche perché "un partito come Rifondazione non può votare a favore della guerra", come dice Matteo, operaio all'Iveco di Brescia. O perché "non si raccolgono i voti nelle fabbriche promettendo di cambiare la legge 30 sul precariato per poi non fare nulla", come rimpiange Luca che scarica container al porto.

Così finisce che la delusione ti lascia a casa (a Genova l'astensione coincide con i 40 mila voti persi dall'Arcobaleno) o ti getta nelle braccia di Ferrando e Turigliatto: "Almeno loro la guerra non l'hanno votata", si consola Matteo all'Iveco. Il risultato è che la Lega avrà quattro ministri e l'Arcobaleno non c'è più. "Adesso tocca a Bossi mantenere le promesse", dice Alberto, della Fiom di Brescia. Ma anche lui sa che è una magra consolazione: "Sai come andrà a finire? Che quando la gente che ha votato Lega si incazzerà verrà da noi a chiederci di fare gli estremisti, la lotta dura e i blocchi stradali".

(18 aprile 2008)

da repubblica.it


Titolo: Saviano: «Io, deluso dall'inerzia della politica, non farò mai il sindaco»
Inserito da: Admin - Aprile 18, 2008, 05:49:06 pm
Incontro alla scuola Livatino

Saviano agli studenti: «Io, deluso dall'inerzia della politica, non farò mai il sindaco»

L'arrivo dello scrittore è una sorpresa per i ragazzi dell'istituto vandalizzato: quando vedono Roberto scatta la caccia all'autografo 

 
 
NAPOLI - Sapete una cosa? I boss del clan Mazzarella, quello che comanda qui a San Giovanni, allevavano squali e piranha nei loro garage». Lo scrittore cita il loro quartiere, e il nome della famiglia malavitosa che lo inquina, e tra gli studenti si diffonde un sonoro mormorio: è una platea sensibile, attenta, quella di una scuola di frontiera che ai ripetuti atti di vandalismo subiti ha risposto a suon di seminari e ore speciali di dibattito sulla legalità. «I camorristi vogliono ostentare il loro potere, impressionare la gente. Capisco che possiate subire il loro fascino anche a me è successo, lo ammetto: oggi però, piuttosto che negare il loro ascendente, preferisco lavorare, e scrivere, per smontarlo».
 
Quando l'auto della scorta parcheggia e fa scendere Roberto Saviano nel cortile dell'istituto professionale «Livatino », nessuno degli studenti raccolti nell'aula magna sa qual è il nome del relatore invitato a parlare di camorra. L'arrivo dello scrittore è una sorpresa per tutti: per motivi di sicurezza solo il preside Aristide Ricci e il gruppo di insegnanti impegnate nel progetto «I giovani e le periferie» sono al corrente della notizia. Quando gli studenti vedono Saviano, l'applauso scatta fragoroso, lungo e spontaneo: tutti in piedi, la sorpresa sul volto, per salutare quello che, a giudicare dall'entusiamo, per loro è un eroe.

Quasi due ore di intenso dibattito, in cui lo scrittore, sollecitato dalle domande dei ragazzi, descrive le dinamiche della criminalità organizzata, i loro affari, i loro interessi, anche internazionali: «Pensate che un'intercettazione ha rivelato che dopo l'11 settembre un clan di Nola sperava di poter fare affari sfruttando la ricostruzione dei luoghi devastati dall'attentato terroristico». Saviano non si sottrae quando gli studenti parlano di «politica corrotta» e «responsabilità dello Stato»: «Gli ultimi anni sono stati dolorosi.

Chiara Marasca

18 aprile 2008

da corrieredelmezzogiorno.corriere.it


Titolo: I sindaci del Nord: «Facciamo un Pd "padano"»
Inserito da: Admin - Aprile 18, 2008, 06:01:24 pm
I sindaci del Nord: «Facciamo un Pd "padano"»


I sindaci del Nord, da Cacciari a Chiamparino, l’avevano buttata là subito dopo la discesa in campo di Veltroni. E ora dopo il boom della Lega tornano alla carica. «Serve un Pd tagliato per il Nord», dicono. E sono in parecchi a pensare che i democratici, pur rimanendo federati a livello nazionale, dovrebbero mettere in piedi la loro costola padana autonoma.

«Un Pd del Nord? È un progetto giusto, lo dico da anni – ricorda il sindaco di Venezia Massimo Cacciari – Ed è certamente realizzabile, basta volerlo». A volerlo, è il sindaco di Bologna Sergio Cofferati: «Io penso a un Pd federale e non confederato – spiega – che guardi a una dimensione macro-regionale». Ma Cacciari mette già i paletti: «l'Emilia Romagna – dice – non c'entra nulla con il Pd del Nord, è un problema del lombardo-veneto». Chiude il cerchio Sergio Chiamparino, primo cittadino torinese: «Autonomia e decentramento servono non a chiudersi nelle ridotte valligiane ma per fare, realizzare, stare nella competizione».

Ma quella di un Pd del Nord non è solo un’idea dei sindaci. Anche chi sta a Roma sente che è arrivato il momento di una svolta. «Non c'è dubbio – spiega il vicepresidente della Camera Pierluigi Castagnetti – che ci sono delle peculiarità territoriali che non possono non condizionare l'offerta politica e la domanda di federalismo sta crescendo in termini molto forti». D’accordo anche Marina Sereni, vicecapogruppo uscente del Pd alla Camera: «Ci sono – spiega – somiglianze su tematiche economiche, sociali e infrastrutturali che giustificano una scelta di questo tipo e conseguentemente una maggiore autonomia di elaborazione e di organizzazione al Pd sul territorio».

I segretari regionali del Pd si incontreranno per la prima volta dopo le elezioni il prossimo lunedì. Non a caso, a Milano.

Pubblicato il: 18.04.08
Modificato il: 18.04.08 alle ore 16.42   
© l'Unità.


Titolo: Il Nord e il Pd
Inserito da: Admin - Aprile 18, 2008, 06:02:40 pm
POLITICA L'EDITORIALE

Il Nord e il Pd


NEL Paese che cambia, ci sono riforme che non costano nulla, se non un atto di coraggio. Esempio: andare da un notaio, e firmare l'atto di nascita del Partito Democratico del Nord, federato al partito nazionale, con il sindaco di una grande città come segretario. Una forza politica leale a Veltroni ma autonoma, coerente col Pd nei valori ma indipendente nelle sue priorità e nei suoi programmi, soprattutto insediata nella zona italiana del cambiamento, e capace di una sua specifica rappresentanza: in uomini, interessi, esigenze e problemi.

Tutto questo non nella convinzione che il Nord si sia consegnato alla destra per sempre. Anzi. Il voto, rovesciando il cannibalismo con cui Berlusconi si cibò della Lega nei primi anni della sua avventura, vede, al Senato, il Pdl calare di 70mila voti in Piemonte, di 254mila in Veneto, di 236mila in Lombardia, a vantaggio della rimonta bossiana. E il Pd, che cresce di 295mila consensi in Lombardia e di 72mila in Piemonte, è pari ad ognuno dei suoi avversari in tutto il Nordest, ed è addirittura primo in tutti i capoluoghi veneti, Vicenza, Verona e Treviso compresi.

Ma il nuovo partito "metropolitano" non arriva al popolo minuto del capitalismo personale che innerva di innovazione e modernità l'area della Pedemontana, né al reddito fisso nordista colpito dalla crisi nella sua rappresentatività sociale. Non è vero che questo sistema economico e sociale rifiuta la politica, perché nella presenza capillare della Lega unita al populismo berlusconiano ha cercato comunque una ipotesi politica di rappresentazione, di interpretazione e di tutela del suo mondo.

Il problema della sinistra è che è esterna prima ancora che estranea a questa trasformazione molecolare del lavoro e della produzione, perché ferma ad una concezione fordista, "evoluzionista", dove la piccola impresa è solo l'impresa da piccola e non un soggetto della modernità, che opera nei luoghi del cambiamento, produce beni immateriali come informazione, servizi, finanza, conoscenza: leve di nuove figure professionali, nuovi saperi, nuovi diritti, nuove domande.

Da questa metropoli diffusa, come anche da Milano, la sinistra non può rimanere fuori, se vuole essere credibile come soggetto del cambiamento. Non può regalarla alla destra, né può pensare che la destra sia lì per caso. Un'offerta di culture diverse può arricchire la zona più ricca d'Italia, nell'interesse del Paese. Forse il Pd del Nord non servirà per vincere, ma servirà per vivere, o almeno per capire.


(18 aprile 2008)

da repubblica.it


Titolo: L'ITALIA DOPO LE ELEZIONI La comunità e il mercato
Inserito da: Admin - Aprile 18, 2008, 10:53:26 pm
L'ITALIA DOPO LE ELEZIONI

La comunità e il mercato


di Dario Di Vico


Il successo del centrodestra per le sue dimensioni si presta a riflessioni di lungo periodo sui rapporti tra politica e società civile. E vale la pena iniziare addirittura dal compito di mediare le relazioni tra individuo e mercato che il sindacato e la sinistra sociale si sono assunti nel Novecento. Quando hanno caricato su di sé, in maniera pressoché istituzionale, l'onere di rallentare la velocità del cambiamento ed evitare l'impatto violento tra le leggi dell'economia e la condizione del singolo. Per una lunga fase questa dialettica degli opposti è riuscita a generare un valore aggiunto e il nostro compromesso sociale che esaltava funzione e ruolo dei corpi intermedi è stato persino lodato dall'Europa come pratica d'eccellenza. La storia degli accordi di moderazione salariale degli anni Novanta e l'appoggio convinto della sinistra politica all'ingresso nell'euro (in precedenza il Pci si era opposto allo Sme) segna forse il punto più alto di questa esperienza.

Il compromesso sociale all'italiana non ha retto però alla prova della nuova modernità. Innanzitutto il filtro gauchista e sindacale si è ispessito fino a trasformarsi in ostruzione e potere di veto. In termini economici tutto ciò ha reso prima elevato e poi insostenibile il costo della non modernizzazione e il differenziale di competitività con i sistemi fratelli. Sull'altro versante le dinamiche di globalizzazione e la finanziarizzazione dell'economia hanno inasprito la percezione del mercato. Il padrone è diventato invisibile e l'economia si è fatta canaglia. Sono fioriti neologismi come ipercapitalismo, turboliberismo e via di questo passo a segnalare la distanza siderale tra il potere del denaro e la sua utenza di massa. Agli occhi di consistenti quote di popolazione il mercato, che per almeno 20 anni era cresciuto nella considerazione dell'opinione pubblica fino a diventare valore in sé, ha cominciato a perdere appeal. La richiesta di allargamento degli spazi di libertà economica ha cominciato a risuonare alle orecchie dei vinti della globalizzazione non più come elogio dello spontaneismo economico, inclusione, allargamento delle chance, riduzione del potere statale ma al contrario come dittatura dell'economico, supremazia della ragion globale sulla condizione del singolo. Esemplare di questo cambio di percezione è il titolo, «La solitudine del cittadino globale », che venne messo qualche anno fa alla traduzione italiana di uno dei primi volumi di Zygmunt Bauman.

Ma il cittadino globale — sia il metalmeccanico di Mirafiori o l'artigiano di Schio che con il loro voto hanno reso possibile il successo della Lega Nord — non vuole vivere da solo e chiede perentoriamente nuovi filtri, nuovi strumenti di intermediazione tra lui e il dio mercato. La competizione globale lo terrorizza, la strumentazione politica e sindacale del secolo scorso gli pare obsoleta, i modernisti non riescono a scaldargli il cuore e così riscopre i valori del territorio e della comunità. E ricrea le condizioni, dopo la morte della Dc, di un nuovo interclassismo, stavolta su base dell'identità locale. Comunità è già di per sé una parola che suona calda e le prime analisi dei flussi elettorali ci dicono che riesce addirittura a sostituire nel cuore degli operai rossi la mitica Classe perché evoca una solidarietà collettiva che promette di accompagnarlo dalla culla alla tomba, come si vantava di saper fare la socialdemocrazia dei tempi d'oro.

Il rischio che la comunità sostituisca la vecchia sinistra e le confederazioni del lavoro, che il verde subentri al rosso ma che i costi della non modernizzazione invece di scendere salgano, c'è tutto. E del resto mentre sindacati e imprenditori del '900 avevano nel fordismo almeno una grammatica comune, oggi è difficile rintracciare un alfabeto della globalizzazione nel quale si possano riconoscere le parti in causa, i ceti medi padani impauriti e le élite cosmopolite che dormono in Italia una notte su tre. La forza di coesione rappresentata dall'identità di territorio se giocata contro l'integrazione e l'apertura del sistema Paese può rivelarsi un gigantesco autogol, la moltiplicazione di tante piccole società chiuse capaci tutt'al più di rallentare i tempi del proprio inevitabile declino. Ma non è detto che sia così. Il senso di appartenenza a una comunità può anche rappresentare un fattore competitivo e la straordinaria storia dei distretti industriali sta lì a dimostrarlo. Perché non resti un'esperienza isolata forse tocca a quelli che polemicamente vengono chiamati i mercatisti un sovrappiù di elaborazione culturale. La capacità di prospettare al cittadino impaurito un mercato capace di fornire comunque una seconda chance.


18 aprile 2008

da corriere.it


Titolo: PIETRO GARIBALDI. Certamente non è un buon momento per i sindacati italiani...
Inserito da: Admin - Aprile 19, 2008, 12:14:49 pm
19/4/2008
 
La crisi che verrà
 
PIETRO GARIBALDI

 
In questi anni ai sindacati e ai rappresentanti dei datori di lavoro spettava il compito di riformare il modello contrattuale.

Questa importante riforma non è invece ancora stata portata a termine. E' un'occasione mancata. Non è semplice dire quanto del mancato accordo sul modello contrattuale sia addebitabile ai sindacati e quanto ai rappresentanti dei datori di lavoro. E' però indubbio che le divisioni all'interno dei sindacati confederali hanno pesato molto.

Certamente non è un buon momento per i sindacati italiani. La trattativa per la vendita di Alitalia a Air France, al di là dei sussulti della politica, ha subito un'interruzione cruciale quando la compagnia francese si è ritirata improvvisamente davanti alle richieste dei sindacati di Alitalia. Questa settimana, con il sorprendente risultato delle elezioni e la sonora sconfitta della Sinistra Arcobaleno, il sindacato ha poi visto sparire dal prossimo Parlamento italiano un suo storico alleato.

In un'importante parte della società vi è un diffuso malessere per il ruolo dei sindacati. Universalmente riconosciuti come organizzazioni con formidabili capacità di mobilitazione delle masse, i sindacati sono spesso visti dall'opinione pubblica come una forza conservatrice. L'immagine diffusa è quella di un potere che protegge gli interessi di una minoranza di lavoratori super tutelati e impiegati nella grande industria e nel settore pubblico, ma troppo poco riformista quando si tratta di difendere i lavoratori più giovani, spesso occupati in condizioni precarie e bloccati in una trappola di contratti a tempo determinato. Questo sentimento di sfiducia verso i rappresentanti dei lavoratori ha recentemente spinto Stefano Livadiotti a intitolare un libro sul sindacato «l'altra casta», da affiancare alla prima casta, quella politica di cui tanto si è parlato in questi ultimi anni.

Dei sindacati non si può certamente fare a meno e una società senza sindacati non sarebbe una società migliore. In molti momenti della storia repubblicana, e negli anni bui del terrorismo in particolare, i sindacati hanno avuto un ruolo fondamentale. Oggi però devono diventare più rappresentativi.

Un problema di rappresentanza esiste però anche tra i datori di lavoro. Così come molti sindacati finiscono per identificarsi soltanto con una piccola parte di lavoratori e pensionati, anche le associazioni dei datori di lavoro danno voce solo a una piccola parte del mondo delle imprese.

Uno dei problemi italiani è l'ossessione della concertazione. Quei lunghi tavoli di discussione a Palazzo Chigi sono un'abitudine tutta nostra e spesso poco utile. Sarebbe importante che sindacati e datori di lavoro si concentrassero esclusivamente sui problemi legati al mondo delle aziende e dei lavoratori e al sistema di relazioni industriali, lasciando al Parlamento e alle forze politiche il compito di comporre gli interessi complessi delle società moderne.


Pietro.garibaldi@carloalberto.org

da lastampa.it


Titolo: Bonanni: Sterile populismo, la Fiom: "Risponderemo sciopero per sciopero" (sic)
Inserito da: Admin - Aprile 19, 2008, 04:27:23 pm
POLITICA

Dure repliche di Cgil, Cisl e Uil all'attacco del presidente di Confindustria

Bonanni: "Sterile populismo", la Fiom: "Risponderemo sciopero per sciopero"

I sindacati a Montezemolo "Estremista, soffia sul fuoco"

 

ROMA - L'attacco di Montezemolo ha suscitato la pronta reazione dei sindacati. Tra sarcasmo e dichiarazioni battagliere, i "professionisti del veto e del no", come li ha definiti il presidente uscente degli industriali, accettano la sfida e rilanciano. Molto dura la replica del leader della Cgil, Gugliemo Epifani. "Con le sue dichiarazioni il presidente di Confindustria sta soffiando sul fuoco di una condizione sociale molto pesante con un linguaggio estremista e, come spesso gli capita in quest'ultima fase, senza alcun rispetto per il ruolo degli altri soggetti sociali: atteggiamento, questo sì, di casta".

"La Cgil - prosegue il segretario - lo lascia solo in questo esercizio di estremismo e non si fa trascinare sul terreno della rissa ma lavorerà, come sempre, per migliorare le condizioni retributive e i diritti dei lavoratori, a partire dai temi della sicurezza sul lavoro. Lo lasceremo solo anche nella scelta di campo politica che ha prontamente assunto". Montezemolo però, conclude Epifani, "dovrebbe spiegare cosa significa confondere il voto dei lavoratori, la loro adesione al sindacato, che non è stata messa in discussione, e gli interessi dell'impresa".

Attacca anche Giorgio Cremaschi, della segreteria nazionale della Fiom (i metalmeccanici Cgil): "La sfida di Montezemolo è totalmente accettata, fabbrica per fabbrica, sciopero per sciopero". Sarcastico il commento del leader della Uil, Luigi Angeletti. "Lavoratori più vicini agli industriali che ai sindacati? Se fosse così - dice - saremmo tutti contenti. Gli industriali trattassero meglio i lavoratori, così questi saranno ancora più vicini...". Poi aggiunge: "Gli dessero più soldi, visto che li pagano molto poco". No comment invece per quanto riguarda le affermazioni di Montezemolo sui sindacati "professionisti del veto": "Montezemolo è a fine mandato - ha chiuso Angeletti - vediamo cosa dice il prossimo presidente".

Dura replica anche da parte del segretario della Cisl Raffaele Bonanni. "Si tratta di un attacco ingeneroso e generico - ha detto - chi è senza colpa scagli la prima pietra. Così facendo - ha aggiunto il leader della Cisl - si bloccano solo i necessari processi di riforma e si fa il gioco di chi non vuole cambiare nulla. Non è con il populismo o peggio cavalcando le campagne strumentali contro il sindacato che si risolvono i problemi del Paese e delle imprese".

(19 aprile 2008)

da repubblica.it


Titolo: Penati: creiamo come loro una classe dirigente legata al territorio.
Inserito da: Admin - Aprile 19, 2008, 04:28:44 pm
Il presidente pd della Provincia di Milano: qui si vive l'Europa come portatrice di insicurezza

«Non serve un ufficio a Milano. Imitiamo la Lega»

Penati: creiamo come loro una classe dirigente legata al territorio.

Sì alla formula federale

 
 
MILANO — Non dice «l'avevo detto » per non sembrare presuntuoso. Ma l'aveva detto davvero e in tempi non sospetti: che «il problema è il Nord», che i leghisti «non sono soltanto zoticoni», che «le nostre Regioni hanno bisogno di sentirsi più rappresentate » e perfino «che bisogna cacciare gli ambulanti e gli abusivi». Filippo Penati, una vita nel Pci, sindaco di Sesto San Giovanni, poi segretario provinciale del Pd milanese, oggi presidente della Provincia, guarda avanti facendo notare che «oggi c'è un novità».

Che anche altri si sono accorti che la Padania esiste?
«No. La novità sta nel fatto che, come spiegano bene il sindaco Sergio Cofferati e il presidente Vasco Errani, si è esteso anche all'Emilia Romagna il tema che credevamo riguardasse i lombardi, i veneti e poco più».

Quale tema? «La Padania non è un luogo geografico, ma un luogo politico con una dimensione territoriale in cui esiste omogeneità di problemi».
Quali problemi, allora?
«Il principale è che si sente il bisogno di un partito federale che si occupi più da vicino del Nord. Cofferati ed Errani pongono giustamente la questione: bisogna riconoscere la specificità del Nord e serve una politica che dia risposte specifiche».

Perché la Lega avanza?
«La Lega è il termometro che misura una febbre. Credo che uno dei problemi sia l'essere venute a mancare le categorie classiche: una volta c'erano i salariati e i datori di lavoro».

I padroni e gli operai? «Esatto. Oggi non ci si riconosce in queste classi: soprattutto perché si sono riunificate le modalità di lavoro ed, essendo proliferate le piccole e medie imprese, sono venute meno le ragioni di contrapposizione tra gli uni e gli altri. L'altro aspetto riguarda la comune attenzione prestata ai fenomeni della globalizzazione, per quanto riguarda il sistema economico, e la preoccupazione per i flussi migratori che in queste zone provocano insicurezza più che altrove».

Qui si svela il leghista Penati.
«Non sono leghista, ma questo è il punto. La gente da noi si chiede se l'Europa, su cui tutti avevamo scommesso come momento di rilancio e grande opportunità, è quella che fissa il prezzo delle zucchine o che governa il flusso ad esempio dei romeni. Abbiamo allargato ad altre nazioni, va tutto bene, ma siamo esposti a processi che forse ci sono scappati di mano».

L'Unione e l'allargamento ad altre nazioni sono diventate un problema?
«Per certi versi, qui il sistema delle imprese vive l'Europa come fonte di ulteriori lacci e come soggetto che ha portato insicurezze, perché la presenza non controllata di alcuni cittadini oggi non più extracomunitari ha creato fattori di insicurezza. La politica non dà risposte, quindi prevale nel cittadino il suo appartenere a una regione, più che a una classe sociale».

Ed è per questo che la Lega prende piede?
«Quello alla Lega non è un voto di protesta. Ma è il riconoscimento che c'è una forza che si occupa di questo malessere, di questo malumore diffuso da tempo e per questo ancora più radicato».

Sto per chiederle se lei ha votato Lega o Pd.
«Non scherziamo. La Lega sbaglia nelle risposte, che sono quasi sempre demagogiche e non condivisibili. Ma è innegabile che loro non girino la testa dall'altra parte».

Il Pd, invece?
«Le cose dette da Veltroni in campagna elettorale e scritte nella proposta del Pd hanno fatto fare un balzo in avanti notevole alla sinistra. C'è una nuova attenzione, ma certo non si può fare tutto in pochi mesi. L'importante, ora, è continuare su questa strada radicandosi sul territorio: come sapeva fare il Pci e come ha fatto la Lega selezionando e formando nel giro di pochi anni una classe dirigente che ha un legame fortissimo con la sua zona e i suoi elettori».

E, poi, costruire il partito federale?
«Non nel senso di una forma organizzativa, però. Non come quando i nostri ministri ci dicevano: "Veniamo ad aprire un ufficio a Milano". Non si chiede un decentramento del quartier generale, serve un partito che attorno alla proposta sul Nord annunciata da Veltroni costruisca una nuova classe dirigente e dia risposte alle urgenze di questi territori».

Elisabetta Soglio
19 aprile 2008

da corriere.it


Titolo: Rusconi: «Questa destra è la rivolta dei territori»
Inserito da: Admin - Aprile 20, 2008, 11:56:10 am
Rusconi: «Questa destra è la rivolta dei territori»

Bruno Gravagnuolo


«Siamo in bilico su una doppia possibilità. O Berlusconi e Bossi riescono a trovare un compromesso accettabile sull’interesse generale del paese, oppure, come temo, si andrà verso la catastrofe». C’è allarme nelle parole di Gian Enrico Rusconi, germanista, politologo, storico, attualmente a Berlino come «Gast-Professor» alle Freie Universität, dove riusciamo a intercettarlo tra una lezione e l’altra. La sua tesi post-elettorale sull’Italia che va a destra suona: «Il governo Prodi ha dato un’immagine pessima di sé, di là dei suoi veri pregi e difetti. La sinistra dal canto suo ha abbandonato insediamenti e territori. E la Lega è la vera vincitrice. Contro il mercatismo, il globalismo e il venir meno delle tutele identitarie ed economiche».

E allora, dopo l’analisi della sconfitta e delle sue cause da dove ricominciare? Per Rusconi occorre innanzitutto vedere come evolverà il rapporto Bossi-Berlusconi. Per nulla pacifico e anzi dirompente. Poi l’opposizione vedrà come inserirsi nella partita. Senza cedere a ricatti o a cooptazioni, ma esibendo una «sua» idea dell’interesse pubblico e nazionale. E facendola valere sul piano programmatico, parlamentare e organizzativo. A cominciare dai territori, abbandonati all’avversario. Nel frattempo però si deve registrare bene l’accaduto, fotografare i soggetti sociali in campo. E cercare di spiegare bene il tutto, a se stessi e agli altri. All’Europa, che sempre meno capisce l’anomalia italiana. E ai tedeschi, che, dice sempre il professore, «vivono l’Italia con strisciante estraneità e ci considerano tutti berlusconiani. Immagini con che gioia da parte mia!». Sentiamo Rusconi allora.

Cominciamo da una domanda vecchia ma ancora buona: la Lega è di destra oppure no? Il politologo Sartori e l’ex ministro leghista Maroni lo negano. E lei?
«Modo non giusto di porre la questione. Parlerei di protezionismo sociale a favore di tutti quelli che non ce la fanno, dal piccolo imprenditore all’operaio sottopagato. E con il territorio a fare da argine, da barriera. In questo senso vanno le sortite di Tremonti contro il mercatismo, che avevano centrato il bersaglio. Mi chiedo e le chiedo, questo protezionismo sociale e locale è di destra o di sinistra?»

Il segno prevalente è di destra: individualismo proprietario. Anche se non possiamo fermarci qui. In fondo lo stesso fascismo non era sociale e autarchico?
«Certo, ma usciamo dallo schematismo. Sono esplosi i problemi della piccola gente che ha perso fiducia nella sinistra e nel sindacato. E questa massa d’urto medio-bassa va al di là del nucleo proprietario. Il vero problema è la fine dell’universalismo democratico, di sinistra. Che teneva insieme borghesia imprenditoriale e ceti subalterni. È questo che la gente dei territori rifiuta».

Bene, ma come è successo tutto questo? Colpa del mercatismo, e delle violente politiche di rigore monetarista e di bilancio fatte proprie dalla sinistra?
«Fino a ieri il territorio era rimasto fuori dalle preoccupazioni “borghesi” o di sinistra. Il fascismo non è mai stato territorialista, ma nazionale. Oggi invece proprio la contrapposizione tra locale e globale fa saltare la distinzione destra/sinistra, le polarità che prima si confrontavano sullo stato. Inoltre, che fine hanno fatto le buone amministrazioni di sinistra e il loro mito? Anche quest’eredità s’è fatta scippare la sinistra!»

Insisto: la sinistra non ha finito col soffocare i territori in nome del mercato universale e del rigore?
«Era inevitabile, ma il difetto è stato nel messaggio, nell’incapacità di comunicare. Il che è stato vissuto come abbandono, da parte dei ceti radicati sul territorio. Si è data l’impressione di voler enfatizzare i benefici del mercato universale, dall’immigrazione, all’innovazione, agli scambi, alla moneta. A detrimento del quotidiano e delle identità locali. Ovvio che il rigore fiscale e i tagli di spesa soffocano i territori! Ma allora, o si faceva una politica diversa, oppure si dovevano convincere i soggetti sociali nelle aree locali. Come? Con la capacità organizzativa e di rappresentanza solidale. E poi nessuno osa dirlo: il governo Prodi ha mandato dei segnali catastrofici. E ha avuto un’immagine peggiore di quel che è stato. Aggiungo una cosa: il vecchio socialismo riusciva a differire i bisogni sul domani radioso. A persuadere, e a dare identità. Oggi c’è una mutazione antropologica, il domani non è più un argomento, e le emergenze ci stanno tutte addosso, instantaneamente».

Ma il vecchio socialismo democratico faceva lievitare i redditi. Oggi invece da sinistra non si tutelano né i redditi, né i territori. E vince il liberismo territoriale e proprietario. Non è per questo che i ceti medio bassi vanno a destra, e finiscono in bocca alla Lega?
«Questo è un dato di fatto incontrovertibile, anche se ce ne siamo resi conto tradivamente. Lo sfondamento egemonico della cultura liberista a misura di territori, e a danno della sinistra, è stato evidente. Magari Gad Lerner non se ne rendeva conto, ma molti lo avevano capito, benché lo dicessero sottovoce. Adesso però la vera domanda è un’altra: la sinistra può ancora recuperare oppure è troppo tardi?»

E cosa si risponde?
«Dipende prima di tutto da questo governo. Ce la farà a superare la conflittualità interna con la Lega o no? Da queste prime battute di confronto con Bossi, parebbe di no. Guardi, tra il leghismo e il berlusconismo non c’è coincidenza. E Berlusconi non lo ha ancora capito. Prevedo forte tensione tra le due realtà, anche pensando alla profonda personalizzazione dell’incontro-scontro tra i due leader. Con Berlusconi che si dichiara garante in prima persona del rapporto con Bossi. E Bossi che dice: mi fido solo di lui, parlo solo con lui. Ma con entrambi che tagliano fuori gli altri alleati. Ciò corrisponde tra l’altro a una acuta degenerazione iper-personalistica della politica, che inficia l’immagine del centrodestra. Roba devastante».

Duello intestino, che potrebbe far saltare la coalizione?
«A mio avviso i due leader non capiscono affatto ciò che si sta profilando, anche perché non si aspettavano questo exploit leghista. Sono stupiti entrambi».

C’è il rischio di un’implosione italiana, magari su federalismo fiscale e secessione strisciante? Detto diversamente: andremo più verso la Baviera o verso l’ex Jugoslavia?
«Né l’uno, né l’altro esito. Intanto la destra dovrebbe aver imparato le lezioni del governo Prodi, e del precedente centro destra: non litigare e non mettere in piazza i contrasti. Per quanto riguarda la Baviera o un possibile Lombardo-Veneto, bisogna stare attenti. Non si possono fare paragoni insostenibili, e immaginare analogie tra Cristiano Sociali bavaresi e Lega che radicalmente altra cosa. Il punto è: La Lega resterà un partito rivendicativo e conflittuale, oppure metterà capo a un vero progetto regionale? I Cristiano sociali in Germania governano un Land. Uno stato storico: la Baviera. Questi invece parlano di Padania, che francamente non esiste, meno che mai nei termini della Baviera, che ha mille anni! I leghisti stanno rivalutando il sociale privato e comunitario. Ma dovrebbero riscoprire il senso del pubblico, ricrearlo, per fondare un futuribile Lombardo-Veneto. Non dico nazione, dico “pubblico”. Interesse generale, articolato sul territorio».

La vedo dura.
«Sì, non hanno gli strumenti per farlo. Al massimo sono in grado di esprimere comunitarismo. Questo però è un problema di tutti, da nord a sud. E qui apro e chiudo una parentesi: non capisco perché Bassolino non abbia avuto il buon gusto civico di dimettersi. Di là delle sue colpe o meno. Tornando alla destra però, il governo si gioca tutte le sue carte esattamente su questo: il senso pubblico. O ne esibiscono un esempio plausibile, o finirà male. Con la frantumazione generale, magari non Jugoslava, che mi parrebbe esagerata...»

Deve essere la sinistra o quel che ne resta, a farsi banditrice di un nuovo senso pubblico nazionale?
«Il vero dilemma è: dare una mano a un eventuale progetto di questo tipo o no? E qui subentra il timore di favorire l’avversario. Cosa che non varrebbe altrove, perché ad esempio la Baviera non s’è mai scontrata violentemente con lo stato, e lì non avrebbero mai detto le cose intollerabili di un Bossi sui fucili, neanche per scherzo. La Baviera si distingue, dentro un’idea comune di stato. Ma non si contrappone. E oggi anche grazie alle doti mediatrici della Merkel».

Lega dissolutiva o federalmente compatibile?
«O Berlusconi e Bossi si reinventano un senso pubblico di corresponsabilità che rilegittima lo stato, o viceversa si va al logoramento progressivo. Quanto alla sinistra, deve corresponsabilizzarsi anch’essa, a certe condizioni beninteso».

E se invece si spartiscono l’Italia frantumando interessi e territori, e all’insegna di presidenzialismo o premierato?
«Allora sarà il disastro, ma se è così lo vedremo entro quindici giorni».

Pubblicato il: 19.04.08
Modificato il: 19.04.08 alle ore 10.18   
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Titolo: Quel che resta dei Verdi
Inserito da: Admin - Aprile 20, 2008, 11:57:15 am
Quel che resta dei Verdi

Luigi Manconi


Quella dei Verdi italiani è una vicenda malinconica, malinconicissima. La sua penultima tappa, (l’inchiesta giudiziaria su Alfonso Pecoraro Scanio) è, in realtà, la meno significativa: se non perché un destino maligno ha voluto maramaldeggiare su una formazione politica che comunque vede esaurirsi il proprio ciclo. E perché, poi, l’inchiesta di Henry John Woodcock raggiunge Pecoraro che, tra i politici italiani (Antonio Di Pietro compreso) è il meno sensibile, per così dire, alle garanzie e alle tutele previste dal procedimento penale. Così che la presunzione di innocenza che vale nei confronti di Pecoraro mai è stata invocata dallo stesso a salvaguardia dei propri avversari politici. Ritengo, d’altra parte, che quella presunzione di innocenza verrà confermata, probabilmente, dallo sviluppo ulteriore delle indagini: e Pecoraro - credo, spero - verrà prosciolto. E infatti i comportamenti di Pecoraro, più che a fattispecie di reato, sembrano rimandare a modelli di azione politica, a uno stile di vita pubblica e a forme di relazione che richiamano la categoria di “familismo amorale” (nel suo significato originario).

Eche - con la leadership pecorariana - sono diventati metodo di gestione del partito dei Verdi.
Premesso ciò, va detto che questa vicenda giudiziaria è solo un brutto finale di una storia - quella, appunto, dei Verdi italiani - che, col rovinoso risultato elettorale del 13/14 aprile, può considerarsi, se non esaurita, assai prossima a esserlo (aldilà dei sussulti di sopravvivenza che pure potrebbe avere in futuro). Ed è un vero peccato, oltre che una sconfitta politica che considero assai grave e che riguarda non solo i Verdi: così come considero disastrosa l’esclusione dal Parlamento di Rifondazione Comunista. Quest’ultimo fatto merita un ragionamento specifico, che svilupperò nei prossimi giorni; qui tratto in primo luogo dei Verdi perché più li conosco e più mi sono stati a cuore. Ora il rischio (altissimo) è che le grandi questioni ambientali, che giocano un crescente ruolo cruciale per il destino del pianeta e di chi lo abita, una volta usciti di scena i Verdi, non vengano assunte da altri con sufficiente forza e convinzione (e capacità di imporle all’agenda politica).

Insomma per quanto paradossale possa apparire, la scomparsa dei Verdi italiani lascia un vuoto incolmabile. Sia chiaro: questo vuoto non si apre oggi. Chi scrive si dimise da Portavoce nazionale dei Verdi quasi un decennio fa, a seguito del deludente risultato ottenuto alle Europee del 1999: ma quello sconfortante 1,8% venne ridotto da chi mi seguì (Grazia Francescato, e poi fino a oggi, Pecoraro) a dimensioni ancora più modeste (intorno all’1%, o giù di lì, nelle successive elezioni politiche, dove il simbolo dei Verdi si appaiava ad altri simboli: quello dei socialisti e, addirittura, quello del Pdci). Evidentemente, già quel 1,8% era risibile: ma quando, nel 2001 e nel 2006, i risultati delle liste unitarie con socialisti e comunisti italiani furono ancora più esigui, il destino del partito ambientalista appariva definitivamente segnato. E a spiegarlo non vale, certo, la responsabilità peraltro assai rilevante, dell’attuale gruppo dirigente. Già in precedenza, altri leader, di notevole solidità culturale e politica (da Alex Langer a Francesco Rutelli, da Gianni Mattioli a Massimo Scalia a Edo Ronchi) non erano riusciti a proiettare i Verdi fino alla soglia del 4% e a dar loro un ruolo politico nazionale simile a quello giocato in altri paesi europei. Sembra difficile dire, quindi, che la colpa sia tutta, e nemmeno prevalentemente, di gruppi dirigenti inadeguati.

Si deve tornare, allora, all’interpretazione elaborata da alcuni dei Verdi che si dimisero dal partito tra la fine degli anni ‘90 e i primi del 2000. Quell’interpretazione era così riassumibile: l’ecologia è un tema troppo grande per affidarlo a un partito del 2%. Detto in altri termini, in Italia non ha senso culturale, né spazio politico né autonomia di programma e di iniziativa, né - infine - possibilità di ottenere estesi consensi un partito monotematico concentrato interamente sulla questione ambientale. La prova provata risale a molti anni fa e ai primi passi dei Verdi italiani.

Nel 1985, alle elezioni amministrative, pur presenti solo in otto regioni, i Verdi ottengono il 2,5%. A distanza di pochi mesi, nell’aprile del 1986, si verifica uno dei massimi disastri ambientali della modernità (l’esplosione nella centrale nucleare di Chernobyl). Questo evento, così drammaticamente evocativo dei temi “verdi”, incrementa di appena lo 0,1 la percentuale elettorale conseguita dai Verdi alle elezioni politiche del giugno del 1987: ma nel novembre dello stesso anno, l’80,6% degli italiani approva il referendum abrogativo del nucleare. Si manifesta allora, per la prima volta, quello scarto profondissimo tra sentimento e opinione, da una parte, e scelta di voto, dall’altra; scarto che, nel ventennio successivo, non verrà mai colmato e nemmeno ridotto. Nel 2000, appena prima delle elezioni regionali, dove i Verdi conseguono poco più del 2% dei voti, oltre il 78% degli italiani dichiara di apprezzare l’iniziativa delle “domeniche a piedi”, voluta dal ministro verde dell’Ambiente. E, infine, alle elezioni politiche del 2001 - a ridosso delle vicende della “mucca pazza” e dell’elettrosmog - mentre una parte significativa degli italiani percepiva, con particolare intensità, quelle minacce alla salute, una quota rilevante di elettori verdi sceglieva - serenamente, suppongo - altri simboli. Si confermava, dunque, quella duplice e convergente difficoltà a tradurre in partecipazione politico-organizzativa l’apprezzamento per le battaglie condotte e a trasferire nell’urna elettorale l’adesione emotivo-culturale al messaggio condiviso (la sicurezza alimentare, per esempio).

La ragione principale di tale limite va individuata nella struttura del sistema politico italiano: in particolare, nel sovraffollamento di quello spazio tra centro democratico e sinistra tradizionale dove i Verdi inevitabilmente si collocavano; e nella sovrapposizione dei temi trattati e di quanti si candidavano a trattarli. Basti pensare a come le questioni di diritto e di libertà, affrontate in Germania e in Francia principalmente dai Verdi, nel nostro Paese risultavano “contese” tra questi ultimi, Rifondazione e i radicali. Insomma, in Italia, nel corso degli ultimi due decenni, i cittadini, anche quelli che condividono gli obiettivi dei Verdi, hanno ritenuto che le offerte elettorali di altre formazioni fossero - proprio sul piano elettorale - più meritevoli di consenso: forse perché ritenute maggiormente efficaci. Cinque, sei anni fa, fummo in molti, sulla base di tale ragionamento - e dell’assunto per il quale l’ecologia è un tema troppo grande per affidarlo a un partito del 2% - a immaginare che potesse essere il Partito democratico la casa al cui interno alloggiare comodamente (e se necessario scomodamente e conflittualmente) la questione ambientale, come una delle grandi tematiche intorno alle quali aggregare il nuovo partito riformatore. Un luogo dove la cultura ecologista avrebbe potuto incontrare altre culture della trasformazione e dell’innovazione sociale ed economica e dei diritti di cittadinanza.

E per questo si è lavorato. Oggi, il bilancio che si deve trarre è decisamente negativo: i Verdi come partito autonomo monotematico rischiano di esaurirsi definitivamente. (A Roma non avranno alcun consigliere comunale). Già la precedente alleanza con i Comunisti autoritari del Pdci alle elezioni del 2006 ne aveva gravemente compromesso l’identità: quest’ultima, nel corso della più recente campagna elettorale, è letteralmente evaporata. Certo, questo non significa ancora la sparizione dei Verdi: il “paradigma Giorgio La Malfa” insegna che - con il controllo del simbolo, del nome e della tesoreria - si può andare avanti per decenni. Ma i Verdi non sono paragonabili a un detrito del Partito repubblicano e, dunque, la loro sorte non dovrà essere la medesima. Centinaia di militanti che si dichiarano Verdi continuano e continueranno a operare, spesso positivamente. Tuttavia, è vero che un partito che aveva corruscamente proclamato la propria autonomia e che risulta l’appendice più marginale e inerte di un cartello elettorale sconfitto, è difficile che possa ritrovare una identità e un ruolo significativi. E si è trattato, palesemente ed esclusivamente, di un mero cartello elettorale, dal momento che non si è stati capaci o non c’è stato il tempo - sempre che fosse possibile - di combinare virtuosamente le rispettive culture di origine e di trarne un soggetto nuovo.

Ma il bilancio negativo non si ferma qui. All’interno del Partito democratico, la componente ambientalista, pur presente, non sembra ancora in grado di orientarne né il programma politico né il discorso pubblico. La presenza, all’interno del gruppo dirigente, di ambientalisti di notevole qualità (come Ermete Realacci e Roberto Della Seta) non sembra oggi in grado di connotare la fisionomia del Pd. Per lo meno, non lo è stato fin’ora: ma - guai a dimenticare questo dato - siamo appena agli inizi di un percorso inevitabilmente lungo e, pertanto, non solo è lecito ma è anche doveroso avere fiducia. Ma questo impone un salto di qualità a tutti coloro che hanno a cuore la questione ecologica/economica/energetica come non uno dei temi, ma il tema cruciale del presente e del futuro. Si pensi all’emergenza-cereali, e alle sue esplosive implicazioni a livello planetario ma anche locale (ne ha scritto su questo quotidiano Vittorio Emiliani): su essa non una parola - e come poteva essere altrimenti? - nel corso della campagna elettorale; ma certo non si potrà continuare a tacere. In ogni caso, sarà innanzitutto il Partito democratico il luogo nel quale necessariamente queste tematiche dovranno essere trattate, tradotte in obiettivi programmatici, fatte oggetto di vertenze e di conflitti. Questo richiede che il Partito democratico si ponga anche il problema dei Verdi. E che i Verdi di buona volontà e di rette intenzioni si pongano il problema del Partito democratico.

Pubblicato il: 19.04.08
Modificato il: 19.04.08 alle ore 10.18   
© l'Unità.


Titolo: Per il federalismo fiscale solidarietà da 15 miliardi ...
Inserito da: Admin - Aprile 20, 2008, 12:04:40 pm
Per il federalismo fiscale solidarietà da 15 miliardi

di Dino Pesole
 

Riparte il cantiere del federalismo fiscale, sulla spinta del successo ottenuto dalla Lega nord.
Ed emerge subito una prima, rilevante questione da risolvere: la consistenza del fondo perequativo che dovrà garantire le Regioni del Sud, soprattutto nella fase di passaggio dal vecchio al nuovo sistema. Lo stesso premier in pectore, Silvio Berlusconi, ha parlato di «federalismo solidale» e di «fiscalità compensativa».

E si fa strada l'ipotesi di affiancare al modello di perequazione nazionale disciplinato dallo Stato, modelli di perequazione finanziati dalle Regioni, per assicurare agli enti locali le risorse per esercitare le funzioni loro conferite. L'ipotesi di base prevede l'istituzione di un fondo perequativo, per il solo fabbisogno sanitario, di 13 miliardi, cui andrebbe ad aggiungersi un costo di circa 1-2 miliardi per l'Irpef.

Si parte dal corposo dossier messo a punto alla fine del 2005 dall'Alta Commissione sul federalismo fiscale, presieduta da Giuseppe Vitaletti. Obiettivo principale è colmare il vuoto normativo determinato dalla mancata applicazione del nuovo Titolo V della Costituzione, nella parte in cui si stabilisce che i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni «hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa», stabiliscono e applicano «tributi ed entrate proprie» e dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali «riferibili al loro territorio».
Il lavoro della commissione Vitaletti può costituire una base di partenza, soprattutto laddove prevede una stretta correlazione tra il prelievo fiscale e il beneficio connesso alle funzioni esercitate. I tributi propri non potranno rappresentare la principale fonte della finanza regionale, «che dovrà essere costituita in gran parte da compartecipazioni». Il tutto in ossequio alla più recente giurisprudenza della Corte Costituzionale (sentenza n.37 del 2004). La disciplina transitoria dovrà consentire «l'ordinato passaggio dall'attuale sistema, caratterizzato dalla permanenza di una finanza regionale e locale ancora in piccola parte derivata, e da una disciplina statale unitaria di tutti i tributi».

I tributi propri regionali (l'Irap rientra nella competenza statale) dovranno essere istituiti con legge regionale, mentre il fondo perequativo, in ossequio all'articolo 119 della Costituzione (terzo comma), dovrà essere fissato con legge dello Stato «senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante». Nella scorsa legislatura, su questo fronte non si son fatti passi in avanti. Gli elettori hanno respinto la "devolution" varata dal centro destra, e il disegno di legge approvato dal governo Prodi il 1° agosto 2007 è rimasto impantanato alla Camera fino allo scioglimento anticipato del Parlamento.

Ora con il cambio di maggioranza e il nuovo governo Berlusconi pronto a insediarsi, si comincerà da capo. Al quartier generale della Lega il punto fermo è il progetto deliberato dal Consiglio della Lombardia il 19 giugno 2007, in cui si dispone che una parte cospicua della ricchezza prodotta resti sul territorio. Parola d'ordine, evocata del resto a più riprese nei giorni scorsi da Umberto Bossi. Il sistema delle compartecipazioni regionali vede l'Iva al primo posto, con una quota non inferiore all'80%, ma alle Regioni dovrebbe affluire anche il gettito delle accise, dell'imposta sui tabacchi e di quella sui giochi.




ATTUAZIONE TITOLO V

Il Senato delle Regioni

L'Alta Commissione sul federalismo fiscale Istituita nel 2003, la Commissione presieduta da Giuseppe Vitaletti lavorò per due anni e e produsse un dossier di 118 pagine con le indicazioni per adeguare il modello di federalismo fiscale all'articolo 119 della Costituzione.

Autonomia tributaria
La Commissione riconobbe che gli enti territoriali e locali godono di un livello significativo di autonomia tributaria (pari al 47% nelle Regioni, al 44% nelle Province e al 46% nei Comuni). Per rendere funzionante il nuovo Titolo V della Costituzione veniva indicata la necessità di istituire un Senato federale

Patto di stabilità
Secondo la Commissione il finanziamento degli enti territoriali mediante entrate tributarie proprie potrà favorire un uso più efficiente delle risorse, ma per rispettare il patto di stabilità interno «appare essenziale il riconoscimento agli amministratori locali di un effettivo potere fiscale». Dunque, oltre alle compartecipazioni, maggiori tributi propri che tuttavia non potranno rappresentare la principale fonte della finanza regionale
 
da ilsole24ore.com
18/04/2008


Titolo: Di Pietro: Silvio? Mai dialogo. L'Idv non è la Lega del Pd: loro solo una lista
Inserito da: Admin - Aprile 21, 2008, 01:51:20 am
INtervista all'ex pm

Di Pietro: Silvio? Mai dialogo

La sua è una «dittatura dolce»

«L'Idv non è la Lega del Pd: loro solo una lista civica»

 
 
ROMA — Antonio Di Pietro, è di nuovo scontro sulla sicurezza: a Roma in un giorno un'anziana uccisa e una giovane violentata. «Dicevano che bisognava allontanare dalle istituzioni i cosiddetti giustizialisti e ora invece Berlusconi rilancia strumentalmente il tema della sicurezza. Con la complicità del sistema dell'informazione, che non fa sapere ai cittadini la verità...».

E qual è la verità?
«Che è stato proprio il Cavaliere dal 2001 al 2006 ad aver creato insicurezza. Agli italiani non importa nulla della separazione delle carriere, chiedono più poliziotti nelle strade, rimpatrio immediato dei clandestini, inasprimento dei reati contro i bambini e le donne...».

Mentre lei sciorina il suo programma, il Pdl accusa l'ex sindaco di Roma.
«Veltroni non troverà in me un esponente critico, è stato un buon sindaco per la sua città e un riformista coraggioso per la coalizione. Noi siamo il partito del fare, il Pdl è quello delle parole. Bisogna ridurre da tre a due i gradi di giudizio e varare una legge di una riga per l'esecuzione anticipata della pena, dopo il primo grado di giudizio, per i reati più gravi...».

Consigli a Berlusconi, visto che siete all'opposizione.
«Non per questo rinuncio alle mie battaglie. Col suo conflitto di interessi, il controllo globale dell'informazione e la sua idea di giustizia Berlusconi è un pericolo. Il suo ritorno è l'avvento della dittatura dolce, vuol riformare la legge sulla par condicio e andare alla resa dei conti con la magistratura. La sua politica si basa sul libero arbitrio, dando dell'eroe a Mangano ha rivalutato la classe mafiosa. Tocca a noi aprire gli occhi ai cittadini».

Anche se Veltroni decidesse di dialogare con Berlusconi sulle riforme?
«Noi non potremmo mai offrire fiducia al governo Berlusconi. Già due volte ha detto che dialogava sulle riforme e si è sporcato le mani. Se la magistratura non si adegua lui la porta dallo psichiatra? Bene, per me il dialogo si è fermato lì».

Si dice che non voglia fare il gruppo unico col Pd perché da sola l'Idv ottiene cinque milioni di rimborsi in più.
«È squalificante e riduttivo, i soldi non vanno a noi ma all'attività del gruppo. Io ho detto che siamo pronti a unirci in Parlamento sulla base del programma, però una annessione non giova a Veltroni. La verità è che c'è una parte del Pd che vede come una liberazione la possibilità che il gruppo unico non si faccia».

Marini? D'Alema? Parisi?
«Vedo due anime, una isolazionista e l'altra aperta a una nuova alleanza. Noi siamo disposti a costruirla da subito con un percorso costituente che può arrivare fino al partito unico, però non devono chiuderci le porte. Se il gruppo non si fa subito perché hanno bisogno di chiarirsi le idee noi gli diamo il tempo ma loro devono darci i ruoli che ci spettano, nel governo ombra e in Parlamento ».

Quali e quanti posti, ministro?
«Se Veltroni intende riservarci un angolino in un cassetto, tipo usa e getta, fa un dispetto a tutti quegli italiani che hanno visto nell'Idv una possibilità di riscatto. Isolarci sarebbe un grave errore, come lo è stato l'ostracismo in campagna elettorale ».

Veltroni disse che non vedeva bene per lei il ministero della Giustizia. Aspira a farlo almeno nel governo ombra?
«Dagli incarichi che ci verranno affidati capiremo quale dialogo Veltroni vuole aprire con noi. Ci sono ruoli che spettano all'opposizione, a cominciare dalla presidenza degli istituti di vigilanza».

È disposto ad allearsi con l'Udc, come piacerebbe a D'Alema?
«Se Casini sottoscrive un impegno formale a non candidare persone condannate allora sì. L'alleanza bisogna allargarla ai moderati e ai cattolici o abbiamo perso in partenza».

L'Idv è la Lega del Pd?
«Con tutto il rispetto per gli elettori della Lega, il partito di Bossi è una lista civica che porta avanti i meri interessi di un territorio, noi invece siamo radicati da Mondovì a Canicattì». E l'attacco di Montezemolo al sindacato? «La diagnosi è condivisibile, l'operaio non si sente rappresentato da questa classe dirigente sindacale. Ma una cosa è portare in ospedale un malato e un'altra è affidarlo per le cure a Dracula».

Monica Guerzoni
20 aprile 2008

da corriere.it


Titolo: In una scuola a Napoli. Temi choc: «La Camorra ci protegge»
Inserito da: Admin - Aprile 21, 2008, 05:28:45 pm
In una scuola a Napoli

Temi choc: «La Camorra ci protegge»

«C'è gente che odia la camorra, io invece no, anzi a volte penso che senza la camorra non potremmo stare»



NAPOLI - «La camorra ci protegge, e se qualcuno vuole farci male i clan ci difendono». Parole scritte, secondo quanto pubblica il quotidiano Il Mattino, in un tema in classe da una alunna di 13 anni della scuola «Salvo D'Acquisto» di Miano, periferia nord del capoluogo campano. «Quando esco - scrive un coetaneo - vedo nel mio quartiere grandi mappaglie di persone che spacciano, ma a noi della zona ci proteggono». Temi scritti nella stessa scuola in cui è stato realizzato un fotoromanzo anticamorra. «Nel mio quartiere vedo di tutto, come droga, spacciatori ecc., ma non mi spavento. Noi cittadini siamo abituati - scrive un terzo alunno - C'è gente che odia la camorra, io invece no, anzi a volte penso che senza la camorra non potremmo stare, perché ci protegge tutti, pure il fatto che che tutti pagano il pizzo non è giusto, ma chi paga resta protetto». «Se qualcuno di un'altra zona avesse l'intenzione di farci del male o di ricattarci - scrive ancora la tredicenne - loro ci difendono, ma se c'è tra loro una discussione non guardano in faccia proprio a nessuno e ci vanno di mezzo persone innocenti».

LA DROGA - Temi che mostrano, fra l'altro, una vera conoscenza del fenomeno: «La camorra a Miano c'è e noi la conosciamo bene - scrive un altro ragazzino - perché si svolge tutto davanti a noi, come per esempio a spacciare la droga che è una cosa che noi vediamo tutti i giorni. Molti ragazzi cominciano a spacciare a 13 anni, diventano più importanti, e una volta che ci sei entrato non ne esci più e se provi a uscirne vieni ucciso».

IL RETTORE - Padre Fabrizio Valletti, rettore gesuita della chiesa Santa Maria della Speranza di Scampia, commenta così questi temi: «Non mi meraviglia. Sono elaborati del vissuto giovanile. Il sistema criminale di cui parliamo fornisce risposte concrete, spesso garantisce stabilitá economica e punti di riferimento territoriali. Bisogna partire da queste analisi, per moltiplicare punti di aggregazione e centri di formazione permanenti nelle aree di periferia». L'istituto per la verità è lo stesso dove i ragazzi hanno realizzato un fotoromanzo anticamorra per dire no alla criminalità e alle violenze striscianti che spesso subiscono solo perché studiano nel quartiere.


21 aprile 2008

da corriere.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI. Alitalia, i nomi dei colpevoli.
Inserito da: Admin - Aprile 22, 2008, 12:08:18 pm
ECONOMIA IL COMMENTO

Alitalia, i nomi dei colpevoli

di MASSIMO GIANNINI


ORA saranno soddisfatti. I "difensori della nazione" e i "paladini dell'occupazione". Il Pdl che ha appena vinto le elezioni e il sindacato che ha appena perso la faccia. Il ritiro di Air France significa la fine dell'Alitalia e certifica la sconfitta dell'Italia.

Si compie il destino di un'azienda depauperata e depredata da decenni di cattiva gestione finanziaria e di pervasiva "usucapione" politica. Si chiude nel peggiore dei modi un "buco nero" costato alla collettività 15 miliardi in 15 anni, 270 euro per ogni cittadino, neonati compresi.

Solo le false anime belle, adesso, possono far finta di meravigliarsi per la rottura decisa dai francesi. Cosa si aspettavano, dopo che una partita strategica come Alitalia è stata giocata strumentalmente in un'ottusa campagna elettorale, come un derby pecoreccio tra Malpensa e Fiumicino? Cosa speravano, dopo che il futuro industriale del nostro vettore aereo è stato consumato inopinatamente in un assurdo negoziato "peronista", come una banale vertenza sui taxi? In questo sciagurato Paese, purtroppo, funziona così. Ma nel resto d'Europa, evidentemente, il mercato ha ancora le sue regole, i suoi tempi, i suoi effetti.

Ci sono nomi e cognomi, nell'elenco dei colpevoli di questo bruciante fallimento del Sistema-Paese. Sul fronte politico, Berlusconi ha brillato per l'insostenibile leggerezza con la quale ha maneggiato l'affare Ali-France, e per l'insopportabile cinismo con il quale ha sventolato il pretestuoso vessillo dell'"italianità" a fini di marketing elettorale. La sua crociata anti-francese non ha conosciuto confini diplomatici né limiti etici. In un vortice di annunci auto-smentiti, ha posto veti impropri. Ha inventato cordate improbabili, a metà tra il pubblicistico e il familistico. Ha messo in pista concorrenti immaginari, come l'Aeroflot dell'amico Putin, che gentilmente si è prestato al gioco nella ridente cornice sarda di Villa Certosa, dove il luogo della vacanza personale si traveste da sede della rappresentanza istituzionale. Jean-Cyrill Spinetta ha sopportato anche troppo le intemperanze del premier in pectore. Piuttosto che perdere altro tempo e farsi dire no dal nuovo governo, ha preferito giocare d'anticipo.

Sul fronte sindacale le colpe sono anche più gravi. Epifani, Bonanni e Angeletti, e con loro la colorita galassia degli "autonomi", hanno brillato per l'inaccettabile miopia con la quale hanno affrontato la drammatica crisi dell'Alitalia, alla quale hanno dato da sempre il loro fattivo contributo. Per troppi anni, dai tempi di Aquila Selvaggia, le confederazioni e i mille cobas sparsi nei nostri cieli hanno usato la compagnia come una zona franca, nella quale i livelli retributivi e le quote occupazionali erano le sole "variabili indipendenti" da tutti gli altri parametri aziendali: dall'efficienza del servizio alla produttività del lavoro. Cgil, Cisl e Uil si sono distinte per l'intollerabile demagogia con la quale hanno cercato fino all'ultimo di intralciare il piano industriale dell'unico partner di livello mondiale che aveva accettato di sporcarsi le mani nel disastro dell'Alitalia. All'insegna della più insensata difesa corporativa. Dal cargo, da salvare nonostante abbia 5 aerei con un organico di 135 piloti e fatturi 260 milioni con una perdita di 74 milioni. Ad Alitalia Servizi, da salvare grazie a Fintecna in un'operazione impensabile perfino al tempo dell'Efim e degli altri carrozzoni pubblici delle PpSs. Anche in questo caso, Spinetta non poteva continuare con questo indecoroso tira e molla. Ha preferito anticipare i tempi, con tanti saluti alla gloriosa Triplice.

Il governo Prodi non ha gestito al meglio questa privatizzazione. Ma Tommaso Padoa-Schioppa ha avuto almeno il merito di aprire la "pratica", dopo un'intera legislatura nella quale il vecchio governo della Cdl si era ben guardato dal farlo. E di avvisare tutti una settimana prima del voto: "Serve un segnale immediato - aveva detto all'Ecofin in Slovenia - perché se la decisione sull'offerta Air France viene rimandata a dopo le elezioni il commissario sarà inevitabile". Così è stato. Così sarà. Ora l'Alitalia svola verso il baratro. In cassa ci sono soldi per un altro mese, non di più. Il Consiglio dei ministri che si riunirà oggi può fare solo due cose: approvare il prestito-ponte da 100 milioni, e decidere il commissariamento della compagnia. In ogni caso, è una lezione amarissima per tutti. Per il leader del centrodestra che ora dovrà evitare almeno il fallimento, dopo aver dimostrato tutta la sua improvvisazione politica e il suo ritardo di fronte alle sfide del libero mercato. E per i leader confederali, che non sono stati capaci di cogliere "l'ultima chiamata" e hanno mostrato tutto il loro incolmabile deficit culturale rispetto alle logiche della globalizzazione.

In questa fiera delle irresponsabilità, ancora una volta, le due "caste" hanno dato il peggio di sé. Sulle spalle dell'Italia, che vorrebbero "rialzare". E sulla pelle dei lavoratori, che dovrebbero tutelare.

(22 aprile 2008)

da repubblica.it


Titolo: POPULIVISMO: per capire... I ragazzi e la camorra: quelle voci lontane
Inserito da: Admin - Aprile 22, 2008, 03:22:19 pm
I ragazzi e la camorra: quelle voci lontane

Enrico Fierro


Se fossimo uomini d’onore dovremmo chiedere scusa ad Anna, Antonio ed Elisa.
Dovremmo chinare la testa di fronte alle loro vite e alle loro angosce che non abbiamo saputo vedere, sfiorati come eravamo dalle nostre vuote certezze di cartapesta. E dovremmo farlo con l’umiltà di chi, pur avendo tutti gli strumenti (gli studi, il mestiere, il potere, la responsabilità), non si è accorto neppure della loro esistenza. «Noi» siamo i privilegiati, quelli che lavorano nei giornali, quelli che qualche libro lo hanno letto, noi siamo quelli che stanno nelle università, quelli che si sono fatti eleggere al Comune, alla Regione, alla Camera.

«Noi» siamo quelli che, in un modo o nell’altro, esercitano un potere. «Noi» siamo quelli - democratici e di sinistra, illuminati e progressisti - che dopo quel 14 aprile che somiglia sempre più ad un modernissimo e tragico 18 aprile, oggi hanno scoperto l’est e l’ovest del Nord. Con la meraviglia dell’entomologo che osserva un insetto mai visto prima, abbiamo ammesso che sì, quel pezzo d’Italia non lo conoscevamo e ne ignoravamo il malessere. «Noi» siamo quelli - nei giornali, democratici, illuminati e pure di sinistra, nei partiti che vogliono cambiare l’Italia e nei luoghi che contano - che oggi dovrebbero umilmente prendere atto del proprio fallimento. Perché sappiamo poco di un altro malessere, quello che cova nelle viscere profonde del Sud. Sappiamo poco di «loro». «Loro» (Anna, Antonio, Elisa e gli altri) sono i ragazzi e le ragazze della scuola «Salvo D’Acquisto» di Miano, che una brava giornalista, Daniela De Crescenzo ci ha raccontato su un grande giornale del Sud, Il Mattino. Daniela ha letto i temi nei quali questi ragazzi parlano della Camorra. Quella «mappaglia di persone che vedo nel mio quartiere, che spacciano ma a noi ci proteggono», come scrive la tredicenne Anna.

Miano, periferia nord di Napoli, quartiere stretto tra Scampia e Secondigliano, qui vivono 30mila persone, il 30% sono disoccupati, i giovani non possono neppure permettersi il lusso di sperare nel futuro perché il 50% di loro è senza lavoro. La gente si «arrangia», tanti mangiano il «pane» della camorra. «Molti ragazzi cominciano a spacciare a tredici anni - scrive Alberto - e diventano importanti». «Penso che senza la camorra non potremmo stare perché ci protegge tutti, pure il fatto che tutti pagano il pizzo non è giusto, ma chi paga resta protetto», si legge nel tema di Antonio. Pensieri di ragazzi costretti a vivere in quartieri dove manca tutto, con case brutte, palazzoni orrendi, quartieri dove l’unico Stato (con le sue leggi, la sua polizia, le sue tasse, le opportunità di lavoro, di arricchimento e di felicità che offre) è la Camorra. A Miano, come a Secondigliano e Scampia, pochi anni fa si è combattuta una guerra spietata tra clan - i Di Lauro e gli “spagnoli” - per il controllo del traffico di droga. Tutto sotto gli occhi di questi ragazzini. La Camorra l’hanno vista, osservata, spesso sono stati inebriati dalla sua aura di potenza, di ricchezza e di ascesa sociale. Un «palo» (l’ultimo gradino della complessa scala camorrista), uno che deve controllare che nella zona non entrino estranei («sbirri» o membri di altri clan) guadagna fino a 150 euro al giorno. Può comprarsi la maglietta «Dolce e Gabbana», svettare sul motorino, farsi una dose di coca. «Quando scendo vedo i bambini, perché sono i bambini che spacciano, in grandi macchine. Uno qualsiasi che lavora non se le può permettere», si legge in un tema. Già, a Miano - come a Scampia, Secondigliano e negli altri quartieri-stato della camorra -, chi ha la fortuna di avere un lavoro è uno «qualsiasi». Questo vedono i bambini in un quartiere grande come una cittadina di quel Nord (operoso, spina dorsale del Paese, realtà dalla quale ripartire, e vai con tutte le dotte, allarmate e ripetitive analisi di questi giorni) che non conoscevamo. Ma sappiamo cosa è diventata Napoli, eterna e tragica metafora del Sud? No, non lo sappiamo, o facciamo finta di non saperlo, perché ci siamo aggrappati alle nostre certezze e non abbiamo visto, non abbiamo ascoltato, non ci siamo allarmati di fronte alle cose che esperti, scrittori, magistrati ci dicevano. Nell’aera metropolitana che si muove attorno alla città vivono 4 milioni di abitanti (un terzo del Belgio, dieci volte più del Lussemburgo, poco meno della Nuova Zelanda), il 30% ha precedenti di polizia, la camorra conta 78 clan organizzati con 3mila affiliati, ma il numero di quanti vivono dell’«indotto» criminale è ben più alto. Franco Roberti, il procuratore distrettuale antimafia di Napoli, da tempo ci avverte che la camorra non è affatto una «emergenza», «ma è parte integrante, anche con le sue faide più sanguinose e con i suoi delitti più efferati, della storia di Napoli ed è elemento costitutivo della societa` dell’area metropolitana sviluppatasi intorno» alla città. Una camorra forte anche economicamente. In Campania il rapporto tra fatturato criminale e Pil è pari al 32% (in Sicilia siamo al 39 e in Calabria addirittura al 120%). Questa è l’Italia dove vivono Anna, Alberto, Elisa e i ragazzi di Miano. «La sera - scrive Annalisa - vedo gente che si scambiano dosi sotto al mio balcone, mia madre mi chiede di andare a buttare la spazzatura e mi trovo una montagna più alta di me». Non abbiamo visto, non abbiamo ascoltato, non abbiamo capito, chi poteva (la politica, democratica, progressista e illuminata) non è riuscita ad offrire un «pizzico» di felicità ai ragazzi di Miano. E il futuro non promette nulla di buono. È il Nord la nuova frontiera da conquistare. Napoli, il Sud, Annalisa e i ragazzi di Miano sono stati cancellati dall’agenda della politica.

Pubblicato il: 22.04.08
Modificato il: 22.04.08 alle ore 9.38   
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Titolo: Massimo Franco. Pasticci e paradossi. Scelte politiche
Inserito da: Admin - Aprile 23, 2008, 11:10:40 am
Scelte politiche

Pasticci e paradossi


di Massimo Franco


Qualcuno ha parlato di una specie di Consiglio dei ministri per procura. Un governo di centrosinistra che decide un provvedimento voluto da Silvio Berlusconi; e per di più con il dubbio corposo che incontrerà l’ostilità dell’Unione europea. Ma non è la sola anomalia che spunta intorno alla tormentata vicenda di Alitalia. L’impressione è che Romano Prodi non volesse il commissariamento della compagnia di bandiera come ultimo lascito del proprio governo; e che Berlusconi non intendesse iniziare il terzo mandato con Alitalia sull’orlo del fallimento.

Il prestito di 300 milioni di euro concesso ieri sera da Palazzo Chigi fotografa questo pasticcio un po’ paradossale. Assicura alla società ossigeno per un paio di mesi. E concilia questi due interessi convergenti, confidando di non entrare in rotta di collisione con le direttive europee: speranza tutta da verificare. Ma per il modo in cui la polemica fra nuova e vecchia maggioranza ristagna, si intuisce che gli scenari peggiori non sono scongiurati. Ed ognuno si prepara ad attribuirne la responsabilità all’avversario.

La gravità della situazione è segnalata dalla spiegazione del prestito- ponte: «motivi di ordine pubblico». E il fronte berlusconiano proietta anche sul dopo voto le accuse preelettorali sulla trattativa con Air France. Quanto si sta delineando, insiste, è la conseguenza di una scelta compiuta maldestramente da Prodi e dal ministro dell’Economia, Tommaso Padoa- Schioppa. Il dettaglio singolare è che l’estrema sinistra sembra dare in qualche misura ragione al fronte berlusconiano, additando Alitalia come una conferma del fallimento della politica economica del Pd. Lo stesso ministro uscente Antonio Di Pietro critica il prestito deciso dai propri alleati.

Prodi e Walter Veltroni replicano sottolineando che della cordata alternativa evocata da Berlusconi non c’è ancora traccia. Elencano le pressioni politiche che a loro avviso hanno spaventato i francesi fino a provocare l’interruzione delle trattative. Fanno notare che in nome dell’«italianità» si è detto no ad Air France, ma stranamente non si esclude un’intesa con la compagnia russa Aeroflot. In realtà, tutti sono consapevoli che si tratta di scenari aleatori.

Perché si mettano insieme dei nuovi compratori, si calcola che occorreranno mesi. Per questo, gli uomini di Berlusconi hanno invocato «risorse congrue». E «noi abbiamo aderito alla richiesta di Berlusconi», ha dichiarato ieri sera Prodi: forse anche perché il Pd non voleva trovarsi l’Alitalia commissariata mentre si vota per il sindaco di Roma. Ma non c’è soltanto il fantasma dei licenziamenti e di una sospensione dei voli: bisogna tenere conto dei vincoli di Bruxelles. Proprio ieri il presidente della Commissione, José Manuel Barroso, ha annunciato che il commissario italiano destinato a succedere a Franco Frattini avrà la delega dei trasporti.

La decisione è stata presa senza informare il governo italiano: una procedura che ha irritato Prodi, il quale forse ha indovinato un gioco di sponda col centrodestra italiano. In teoria, infatti, l’incarico a un esponente vicino al Cavaliere potrebbe aiutare palazzo Chigi a tentare un salvataggio di Alitalia assecondato dalle istituzioni europee. Il fallimento viene scansato come un epilogo estremo e remoto. Ma in realtà, ci si prepara comunque a un ridimensionamento secco. Tutti ammettono che, se per miracolo si materializzerà un compratore, tre o quattro mila persone potrebbero essere licenziate: sempre che non si arrivi all’amministrazione controllata o peggio. È probabile che fino al ballottaggio di domenica e lunedì per il Campidoglio, la schermaglia non farà passi avanti. C’è solo da sperare che dopo, il ritorno alla realtà non sia troppo traumatico.

23 aprile 2008

da corriere.it


Titolo: I prodiani non esistono (io l'ho sempre detto: ulivisti anche senza Prodi ndr).
Inserito da: Admin - Aprile 24, 2008, 09:01:18 am
24/4/2008
 
I prodiani non esistono
 
ROMANO PRODI

 
Caro direttore,
anche se non mi sfuggono le regole che governano il mercato dei media, per cui bisogna sempre andare alla ricerca di notizie forti, di risse e di litigi perché altrimenti le vendite calano (poi, stranamente le vendite calano lo stesso, ma questo è un altro discorso…), rilevo che il «clamoroso» articolo di Geremicca sulle tensioni tra i «prodiani» e il sindaco di Bologna pubblicato ieri dal suo giornale torna su notizie più volte smentite.

Perché sia definitivamente chiaro, ribadisco ancora una volta - e spero sia l’ultima - che l’ipotesi di candidarmi a primo cittadino della mia città è del tutto lontana dai miei progetti e dai miei pensieri.

Così come mi fa piacere confermare ancora in questa occasione la mia stima per Sergio Cofferati, con il quale, a dispetto di quanti vanno sostenendo il contrario, continuo ad intrattenere rapporti improntati alla massima lealtà ed amicizia.

Colgo inoltre l’opportunità di questa lettera per una breve dissertazione.

Non sono mai intervenuto, in tutti questi anni, per correggere un vezzo giornalistico che, purtroppo, ha dilagato: quello di ricorrere, in mancanza di mie prese di posizione o di mie indicazioni su determinati argomenti, alla categoria dei cosiddetti «prodiani». Ebbene credo che sia giunto il momento, viste anche le mie recenti decisioni, che sia io oggi a dare una notizia agli amici giornalisti: i prodiani non esistono! E non esistono per il semplice motivo che io non ho voluto, quando in tanti mi esortavano a farlo, fondare un mio partito, così come non ho mai voluto che in mio nome sorgessero correnti.

Ho sempre chiesto a chi lavorava con me, ai miei più stretti collaboratori lealtà e coerenza su un solo progetto: quello del Partito Democratico. Credo di esprimere un sentimento comune a tutti quelli che, a seconda dei momenti e delle stagioni, si sono sentiti etichettare come prodiani, chiedendovi: per favore, chiamateci semplicemente «democratici».
 
da lastampa.it


Titolo: Rinaldo Gianola. La cordata di don Salvatore
Inserito da: Admin - Aprile 24, 2008, 11:57:18 pm
La cordata di don Salvatore

Rinaldo Gianola


A volte ritornano. Anzi, per la verità, non se ne sono mai andati. Nella stagione del «nuovo» centrodestra non vorremmo apparire pregiudizialmente anti-berlusconiani, ma poi sono i fatti, purtroppo, che ci tirano per la giacca.

Chi è il primo imprenditore a spendersi per la cordata italiana di Berlusconi per la privatizzazione di Alitalia? Salvatore Ligresti. Si poteva immaginare, e illudersi, che l’appello di Berlusconi stimolasse la mobilitazione immediata di Montezemolo, Della Valle, Benetton, Marchionne, Tronchetti Provera o almeno di Abete.

E invece niente: si parte da Ligresti. Altri, forse, si aggregheranno. Ma è il costruttore di Paternò a tracciare il solco. Non parla mai, ma quando lo fa lascia il segno.

Ora, con la crisi drammatica in cui versa l’Alitalia, non bisognerebbe guardare troppo per il sottile. Chi ci mette i soldi è benvenuto.
E poi Berlusconi deve avere un certo feeling con Don Salvatore, la cui leggenda di costruttore iniziò con la ristrutturazione di un sopralzo nella popolare Porta Genova, a Milano, e oggi arriva fino ai grattacieli «storti» di Libeskind che non piacciono allo statista di Arcore. D’altra parte se per il futuro premier e per l’amico Dell’Utri lo stalliere mafioso Mangano era «un eroe», la presenza nella cordata tricolore di Ligresti, visto il suo passato con la giustizia, è un fattore di garanzia.

Con Ligresti non siamo alla Terza Repubblica, come si illude qualche commentatore, siamo invece alla restaurazione della Prima Repubblica, alla commistione tra politica e affari come filosofia imprenditoriale e come azione di governo. Il costruttore, che vuole dare «una mano ad Alitalia, per il Paese, la compagnia, i lavoratori» forse pensando che un favore concesso oggi al premier produrrà grandi vantaggi domani quando ci sarà da costruire una città per l’Expo 2015, è da oltre trent’anni uno dei padroni di Milano.

Il suo potere non venne scalfito nemmeno negli anni di Mani Pulite, nemmeno quando il 16 luglio 1992 finì a San Vittore e ne uscì solo dopo mesi di carcere e soprattutto dopo aver firmato una deposizione in cui svelava i rapporti con Bettino Craxi, l’utilizzo delle mazzette per controllare appalti e licenze edilizie. Condannato a due anni e quattro mesi di reclusione con affidamento ai servizi sociali, poi coimputato con l’ex finanziere Sergio Cusani e lo stesso Craxi nell’inchiesta Eni-Sai, quindi scampato con patteggiamenti vari nelle inchieste per tangenti a Pieve Emanuele, per i lavori al Tribunale di Milano, per lo scandalo della vendita del patrimonio immobiliare Ipab. Sono tutti episodi che avrebbero abbattuto un mulo, ma non Ligresti. Che anzi, dopo Tangentopoli, riuscì a risollevare il suo gruppo dalle difficoltà in cui era precipitato grazie a un forte sostegno di Mediobanca, rafforzando la sua posizione nelle assicurazioni e nella finanza. D’altra parte il costruttore non è il tipo da arrendersi davanti alle inevitabili sorprese e alle disgrazie della vita: nel 1981 la moglie Antonietta Susini fu vittima di un rapimento terminato con il suo rilascio, dopo il pagamento di un riscatto.

Dei presunti rapitori, indicati all’epoca dei fatti come mafiosi, due furono assassinati, un terzo scomparve nel nulla. Con questo curriculum, arricchito da aristocratiche frequentazioni (la famiglia nera dei La Russa, dall’avvocato Antonino fino al figlio Ignazio risciacquato nelle acque di Fiuggi e oggi destinato al ministero della Difesa, e quei maghi della Borsa come Michelangelo Virgillito e Raffele Ursini da cui “acquistò” il primo pacco di azioni Sai), era naturale che fosse accolto con tutti gli onori tra i padroni del Corriere della Sera. Ligresti è stato ed è un personaggio di primissimo piano del potere: capace un tempo di stringere alleanze con Pirelli, De Benedetti, Cuccia e oggi di posizionarsi nei salotti dove si prendono le decisioni che contano. Certo, nell’assenza generale degli imprenditori tutti pronti a giurare fedeltà ad Alitalia ma nessuno disposto a scendere davvero in pista, la novità di Ligresti non va sottovalutata.

È il segno che Berlusconi sta chiamando a raccolta gli amici fidati ai quali è pronto a chiedere oggi un sacrificio, un impegno, che sarà certo ricompensato in futuro. Fino a ora nel pasticcio della cordata berlusconiana conta molto di più l’outing di Ligresti che non l’opera del cosiddetto superconsultente, e ipervalutato, Bruno Ermolli.

Lo sforzo di Berlusconi, inoltre, non avrebbe solo la finalità di mettere una pezza al dramma Alitalia, ma vorrebbe usare questa emergenza per dimostrare la sua vocazione di una politica aperta, capace di coinvolgere tutte le forze possibili per risolvere il caso. Tanto per capirci, nell’entourage berlusconiano nessuno si sorprenderebbe se il capo chiedesse (o magari lo ha già fatto) un impegno anche a Carlo De Benedetti per Alitalia, anche se per l’Ingegnere potrebbe ripetersi il rischio di trovarsi l’opposizione della sua adorata Repubblica, come avvenne nel 2005 quando Berlusconi era pronto a investire nel fondo M&C lanciato dallo stesso De Benedetti ma poi non se ne fece nulla per la ribellione delle redazioni dei suoi giornali.

Ma le cose, in politica come negli affari, cambiano velocemente. De Benedetti, nei prossimi anni, punterà sull’energia (proprio ieri è arrivato il via libera al suo rigassificatore di Gioia Tauro) e la sanità, settori dove la politica conta molto. Alla domanda di una valutazione sull’ipotesi di una cordata italiana, ieri l’Ingegnere ha risposto con un «no comment». Ma l’asso da giocare può essere solo quello di una grande banca.

Se Berlusconi, a fronte di un piano industriale credibile che certo non può fare Ermolli e di uno sbocco internazionale, riuscisse a convincere Intesa SanPaolo o Unicredit a entrare in azione, allora il quadro potrebbe cambiare. Solo con il volenteroso Ligresti il cavaliere non andrà lontano. Anche per oggi non si vola.

Pubblicato il: 24.04.08
Modificato il: 24.04.08 alle ore 13.09   
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Titolo: Alessandro Trocino. Offerta a Ichino. Ma lui resta nel Pd
Inserito da: Admin - Aprile 25, 2008, 12:00:29 am
Poltrone

La scelta del neo senatore: continuerà a lavorare per costruire il nuovo Dna della politica del lavoro

Offerta a Ichino. Ma lui resta nel Pd

Letta propone un ministero. Il giuslavorista si consulta con Veltroni


MILANO — Già qualche giorno fa si era parlato di un'offerta di un ministero da parte di Silvio Berlusconi a Pietro Ichino, giuslavorista neo eletto nelle file del Partito democratico. E il professore aveva cortesemente declinato l'invito. Ieri la richiesta è arrivata ufficialmente attraverso una telefonata di Gianni Letta, indiscrezione ripresa da La7. Ichino ha preso tempo ma, dopo essersi consultato con Walter Veltroni, ha deciso di continuare a lavorare per il Pd, sia pure con una logica del tutto diversa da quella della vecchia sinistra.

Il tentativo di Berlusconi di avere un membro dell'opposizione nel governo evoca il caso Kouchner, l'esponente socialista nominato ministro degli Esteri dal presidente francese Sarkozy. Ma già qualche giorno fa il docente di Diritto del Lavoro aveva spiegato, sul sito www.pietroichino.it: «Un mio coinvolgimento nel governo Berlusconi non è pensabile, per le profonde differenze che dividono il suo programma da quello che ho contribuito a fondare e nelle cui liste sono stato eletto». Detto questo, però, Ichino aggiungeva: «Questo non toglie che tra la maggioranza e il Pd possano verificarsi delle convergenze su singole materie di politica del lavoro».

D'accordo con Walter Veltroni, Ichino aveva spiegato di essere «pronto a cooperare con la maggioranza, nel rispetto dei rispettivi ruoli per il progresso del nostro Paese».

Ieri Letta, incaricato di tessere i rapporti tra gli alleati e con l'opposizione, ha ribadito la richiesta del Cavaliere, lasciando a Ichino «tutto il tempo necessario per decidere». Il professore si è detto lusingato dell'offerta e ha chiesto qualche giorno prima di dare una risposta definitiva. Poi si è consultato con il leader del Pd Walter Veltroni e ha deciso di continuare la sua strada nel partito del centrosinistra. Agli amici ha anticipato che proseguirà nell'impegno a costruire il Dna della politica del lavoro del nuovo partito su basi profondamente diverse rispetto a quelle della vecchia sinistra.

Quella sinistra che non lo ha mai molto amato a causa del suo sostegno alla legge Biagi. Una legge sulla quale, ha spiegato, c'è stato un «fenomeno di faziosità bipartisan. Ne hanno fatto un simbolo a destra e a sinistra, come se quella legge avesse segnato una svolta epocale. Che invece non c'è stata affatto».

Polemiche aveva suscitato anche la sua richiesta di allontanare i dipendenti statali «fannulloni». A causa delle sue battaglie per la riforma del mercato del lavoro, il senatore del Pd ha subito anche minacce da parte delle Br.

Alessandro Trocino
24 aprile 2008

da corriere.it


Titolo: Una lettera a Veltroni...
Inserito da: Admin - Aprile 25, 2008, 12:03:19 pm

Una lettera a Veltroni...



On. Veltroni,

mi chiamo Walter come Lei e sono un elettore di centro destra. sono stato anche un amministratore comunale e provinciale nella mia città Novara. Walter come Lei saprà dervia dalla radice tedesca Walt (potente). Questo nome era assegnato dai padri per buon augurare il futuro ai propri figli. Lei ha avuto la potenza di spazzare via la sinistra antagonista che ha fatto per ben due volte cadere Prodi. Non é sttao mastella e tutti noi lo sappiamo bene, ma Lei ha avuto un merito che le riconosco: racchiudere l'anima degli italiani in 4 forze poltiche, lasciando sull'uscio tutti gli altri. Bene, se vorrà incere le prossime elezioni dovrà scendere dagli stereotipi della sinistra e tornare tra la gente del nord. sa perché la lega ha avuto un sacco di voti? perché la lega é l'unico partito popolare e populista rimasto.

Neanche il berlusca ha potuto tanto ed infatti, ha perso 800.000 voti. Qui da me tuti sapevano che la Lega avrebbe fatot il pieno. Primo perchè il berlusca sta sulle balle a tanti, secondo perchè i lavoratori, ed io sono uno di quelli, erano stufi di prendere le tranvate sulle gengive da parte di prodi & co. Lei avrebbe dovuto dire: faremo una patrimoniale sulle banche e faremo pagare alla banche i sacrifici dei lavoratori! Invece, Lei non l'ha detto e i settentrionali hanno votato lega, perché in questo fottuto paese il fondo lo si fa sempre ai più deboli, mai ai più forti. Lei avrebbe dovuto dire: I clandestini li mandiamo a casa, invece non l'ha detto, la Lega si! Lo sa che un clandestino si rivolge alle asl autocertifica che é disoccupato e non paga nessuna prestazione? I poveri cristi invece, si rivolgono alle asl, non hanno detrazioni e pagano tutto! bella giustizia sociale vero?

Lei avrebbe dovuto dire cose che non ha detto e si é fatto scavalcare a sinistra dalla lega! Dirà che farnetico; forse. Ho molti amici nel PD per i miei anni di militanza politica. Quest'autunno fui invitato ad un loro pre congresso e fui lasciato libero di esprimere la mia oipinione. Prefigurai, come Cassandra, la vostra sconfitta, e le sconfitte dei prossimi anni se non cambierete.

Sapete come si fa a vincere le elezioni? assumete un elettore di centro destra, uno come me, una persona semplice, del popolo e fatevi insegnare a parlare alla pancia dle paese, e poi non vi leccherete più le ferite provocate dal berlusca. Prodi ha fatto solo danni per due anni e pretendevate di farlo dimenticare mettendolo in soffitta? Sbagliato! Lo ricordavamo benissimo e lo abbiamo ricordato anche nelle urne. Non fate un PD del nord fareste l'ennesima cazzata! Io ho conosciuto personalmente Bossi, quando stava bene. E' un animale politico attento e furbo, sa quando parlare alla pancia e quando alla testa. Lei é un uomo capece ed intellegente l'ammiro sinceramente, ma é ancora troppo infarcito di buonismo di sinistra e questo paese ha bisogno di essere governato prendendo a calci nel culo un pò d'italiani che ne hanno approfittato. Impari a parlare il linguaggio della gente, come faceva peppone e tornerà a guadagnare voti, altrimenti assuma un elettore di centro destra e le faremo, gratis, un corso accelerato.

Spero di rivederla a Novara come durante la sua campagna elettorale, meno buono ma con le idee più chiare.

Arrivederci
Valter

Valter - 21-04-2008 - 20:53:47


da www.veltronipresidente.it


Titolo: Grillo e la liberazione, l'Italia si spacca
Inserito da: Admin - Aprile 25, 2008, 12:15:03 pm
25/4/2008 (6:44)

Grillo e la liberazione, l'Italia si spacca
 
Beppe Grillo in piazza San Carlo a Torino

L'appello di Napolitano: la data è solonne, manteniamo sempre viva la memoria

FLAVIA AMABILE & ALESSANDRA PIERACCI


ROMA
La campagna elettorale e l’anti-politica saranno le protagoniste di questo 25 aprile. A Milano per la prima volta si scenderà in piazza senza un sindaco fra la folla e a Roma si discute della provocazione di Luca Romagnoli della Fiamma Tricolore che chiede la cancellazione della Festa facendo insorgere il Pd e la sinistra. E così appare anche più forte il richiamo del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che ricorda che il 25 aprile è «una data solenne» e chiede agli italiani di mantenere «costantemente viva la memoria» degli ideali di quell’epoca e soprattutto ai giovani di «contrastare i nuovi autoritarismi e integralismi, che rappresentano la negazione dei principi e dei valori che ispirarono la lotta per la Liberazione».

Ma intanto in tutt’Italia i riflettori mediatici saranno puntati anche su una Liberazione diversa, quella di Grillo, che sarà a Torino oggi pomeriggio. Il comico ha mobilitato 400 piazze e annuncia centomila persone per il V2-Day, una manifestazione per «una libera informazione in un libero Stato». «Il 25 aprile - spiega il comico - ci siamo liberati dal nazifascismo. Sessantatré anni dopo possiamo liberarci dal fascismo dell’informazione».

Grillo chiede ai suoi di firmare a favore di tre referendum: «per l’abolizione dell'ordine dei giornalisti, l’abolizione dei finanziamenti pubblici di un miliardo di euro all'anno all'editoria, l’abolizione della legge Gasparri e del duopolio Partiti-Mediaset», annuncia dal suo sito. A firmare accanto a tanti altri, ci sarà anche Antonio Di Pietro, ministro uscente e leader dell’Idv, sempre attento a presidiare le piazze dell’anti-politica che lo hanno premiato alle elezioni. In realtà anche tra i fans di Grillo non mancano le polemiche. A Genova gli «aggrillati» si sono divisi in due piazze con un seguito di accuse e querele e due manifestazioni distinte.

Il V2-Day contro l’informazione è stato accolto con un attacco da parte di alcuni giornali. «Il Giornale» è andato a scavare nel passato del comico, il settimanale «Panorama» ha fatto un calcolo scoprendo che da quando ha aperto il blog le sue entrate sono raddoppiate, «Il Riformista» lo accusa di «minacce in stile Br» ai giornalisti e «Repubblica» parla dell’«ennesima provocazione» nei confronti della Resistenza e che «ovunque si fronteggeranno le folle chiamate a raccolta dal comico genovese con quelle che intendono ricordare la Liberazione».

Dal suo blog Grillo risponde, al suo solito: «tutte str...dettate dalla paura e dagli interessi di bottega» perché «il V2-Day è la continuazione della Liberazione e non vuole fronteggiare proprio nessuno che si ispiri a quella data. I partigiani, gli operai, gli uomini liberi del 25 aprile sono nostri fratelli. Il 25 aprile non è di proprietà degli intellettuali di sinistra, una definizione corrispondente a un vuoto pneumatico».

Silvio Berlusconi ancora una volta non sarà in piazza oggi. «Lavoro, lavoro, lavoro, considerandomi in debito con gli italiani che hanno deciso di liberarci dalle dittature che incombevano sul nostro Paese». Non ci sarà nemmeno Fausto Bertinotti per la prima volta perché aveva annunciato di voler prendere qualche giorno di ferie. Ci sarà invece Gianni Alemanno, che andrà a Palidoro vicino Roma, per ricordare Salvo D’Acquisto il brigadiere dei carabinieri ucciso lì dai nazisti.

Il segretario Udc Lorenzo Cesa chiede «una riflessione» sul 25 aprile «che vada oltre le celebrazioni formali: la destra estremista e antisemita rappresenta, oggi come allora, un elemento di grave pericolo per la vita delle istituzioni» ma il riferimento al ballottaggio a Roma per l’elezione del sindaco è troppo evidente per non venire sommerso di critiche da parte di tutti i politici da Fi a An con Teodoro Buontempo che chiede: «Dica apertamente se vuole votare a sinistra».

da lastampa.it


Titolo: La sindrome di Enea
Inserito da: Admin - Aprile 26, 2008, 09:41:44 am
La sindrome di Enea


Silvano Andriani


Dopo la sconfitta elettorale del 2001, sulle colonne di questo giornale, l’avevo chiamata «sindrome di Enea». Si tratta della tendenza della sinistra italiana a ritenere di dovere andare al governo per salvare il Paese, mettersi sulle spalle il vecchio Anchise per portarlo fuori dalla città in fiamme. Salvo ad accorgersi, dopo, di aver preso sulle spalle non il proprio padre, ma il proprio avversario politico. Era capitato negli anni 70, si era ripetuto negli anni 90 ed è successo ancora.

Anche questa volta, quando ci chiederanno cosa ha fatto di significativo il governo Prodi, diremo che ha risanato il bilancio pubblico evitando al paese la catastrofe finanziaria verso la quale era stata avviata. So bene che Togliatti era un grande estimatore di Quintino Sella, ma mi appare innaturale una sinistra che sembra avere come principale vocazione quella di essere l’erede della destra storica.

Veltroni ha cercato di cambiare aria: ha parlato non di catastrofi, ma addirittura di un possibile miracolo italiano.

Se qualcuno pensava che in due mesi di campagna elettorale si potesse annullare il doppio svantaggio derivante dalla straordinaria capacità del governo uscente di perdere consenso e da un deficit culturale accumulato nel giro di molti anni, si faceva delle illusioni. Si è riuscito semplicemente a cambiare la conformazione del campo di gioco nel quale si svolgerà il confronto politico e non mi pare poco.

Quanto al deficit culturale, in esso vi è una componente tipicamente italiana che proviene dalla storia della sinistra italiana che comporta una scarsa dimestichezza col pensiero riformista del Novecento sia con quello di provenienza socialdemocratica, dei Myrdall e dei Tinberghen, sia con quello liberaldemocratico dei Keynes e dei Beveridge e che porta anche a non distinguere bene, talvolta, nel grande mare della tradizione liberale tra liberaldemocratici e liberisti. La seconda componente riguarda invece la sinistra europea.

È evidente che stiamo assistendo alla crisi della cultura della destra neo-liberista che ha dominato negli ultimi trenta anni e del modello di sviluppo nato dalle politiche da essa adottate. È fallita l’idea di potere governare il mondo imponendo un unico modello di democrazia. L’aumento delle disuguaglianze ed il conseguente irrigidirsi delle strutture della società vanifica la promessa di rendere attraverso il mercato le persone in grado di realizzare le proprie capacità e di essere valutati secondo i propri meriti. Le crisi finanziarie stanno sgretolando il mito dei mercati come meccanismi razionali e capaci di autoregolarsi ed i grandi scandali societari il mito della capacità dei mercati di controllare le imprese.

Un sondaggio Financial Times/Harris Poll

del Luglio scorso mostra che il consenso al processo di globalizzazione nei Paesi avanzati dell’Europa è diventato nettamente minoritario, fanno eccezione solo i Paesi nordici che hanno mantenuto un assetto di tipo socialdemocratico, mentre un sondaggio più recente ci dice che negli Usa il 58% degli intervistati valuta negativamente l’attuale processo di globalizzazione e solo il 28% lo valuta positivamente.

In questi frangenti ci si aspetterebbe che la sinistra stesse vincendo alla grande, invece in Europa perde quasi dappertutto e, se si votasse ora, perderebbe quasi certamente anche in Inghilterra. Di fronte ai fallimenti del neo-liberismo ed alla crescita di insicurezza nelle condizioni di lavoro, di vita e di ordine pubblico che la globalizzazione provoca per la maggioranza della popolazione la sinistra risulta spiazzata dal prevalere al suo interno di una cultura, anch'essa di origine anglosassone, la cosiddetta terza via, sostanzialmente acritica, se non apologetica. Quando Tony Blair ha risposto a chi denunciava la crescita delle disuguaglianze e della povertà, per le quali l’Inghilterra è ora ai massimi livelli in Europa, che riducendo i guadagni di Beckam non si risolvono i problemi del Paese, ha dato prova non solo di un certo cinismo, ma anche di incapacità a comprendere le contraddizioni ed i guasti provocati dal tipo di sviluppo in atto. Barak Obama, accusando Bill Clinton di essere stato uno degli artefici della finanziarizzazione dei sistemi economici, ha detto semplicemente ciò che altri, come il Nobel J. Stiglitz, aveva già affermato dissociandosi a suo tempo dal governo di Clinton.

Giulio Tremonti nel suo recente libro svolge una critica radicale dell'attuale modello di sviluppo. E, nel tentativo disperato di attribuirne la responsabilità alla cultura di sinistra, compie una vera e propria acrobazia intellettuale inventando perfino lo slogan «dal comunismo al consumismo». Nel libro mancano parole chiave: Reagan, Thatcher, Friedman, neo-liberismo, neo-con, tutte le parole che attestano l’innegabile matrice di destra del modello di sviluppo attuale. Il mito del mercato autoregolato e l’ideologia individualista sono tipici della cultura della destra. Il travisamento compiuto da Tremonti è tuttavia facilitato dalla subalternità che la cultura della sinistra ha dimostrato finora. Le sue conclusioni mi sembrano assai discutibili, ma egli ha ragione a vantarsi di essere stato negli ultimi anni l’unico personaggio politico italiano a svolgere una critica dell’attuale processo di globalizzazione. Qualcuno, con altro taglio, lo ha fatto anche a sinistra, ma si tratta in genere di intellettuali che non fanno più parte dell’establishment politico e sono rimasti inascoltati.

Il Partito Democratico ha inevitabilmente sinora concentrato l’attenzione sulla conformazione del sistema politico italiano e su temi di più facile comunicazione nella campagna elettorale. Da ora dovrebbe affrontare i temi più generali che sono di fronte all’impegno di rinnovare la cultura e le politiche riformiste, a cominciare dall’impegno a superare il deprimente provincialismo che ha portato ad escludere completamente la dimensione internazionale dal dibattito politico. Con i tempi che corrono il riformismo in un Paese solo mi sembra un’idea peregrina.

La rivoluzione in atto nel sistema politico italiano sta portando all’emergere di una nuova generazione di dirigenti della sinistra. Finalmente. Ma le nuove generazioni se vogliono davvero candidarsi a svolgere un ruolo politico devono farlo non semplicemente attraverso l’anagrafe, ma producendo un nuovo pensiero e, sopratutto dopo una sconfitta elettorale, una critica esplicita del passato. Mi pare sia giunto il tempo di alzare la celata e mostrare il proprio viso.

Pubblicato il: 25.04.08
Modificato il: 25.04.08 alle ore 8.10   
© l'Unità.


Titolo: Il 25 aprile secondo Beppe Grillo «Siamo noi i nuovi partigiani»
Inserito da: Admin - Aprile 26, 2008, 09:55:52 am
Sul palco a Torino allestito in piazza San Carlo

ATTACCA IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

Il 25 aprile secondo Beppe Grillo «Siamo noi i nuovi partigiani»

Seconda edizione del V-Day, dedicata a un'informazione «degna di Ceausescu e Pol Pot».

Banchetti in 450 piazze

«Guerra di cifre e giallo sulle firme»


TORINO - Beppe Grillo, appena salito sul palco allestito in piazza San Carlo, rivolgendosi alla folla di grillini che lo applaude, inizia la sua manifestazione con un pensiero rivolto a quanti in piazza Castello manifestando per la festa della Liberazione. «Dedichiamo questa manifestazione -ha aggiunto Grillo- a coloro che stanno manifestando nell'altra piazza, noi siamo la naturale continuazione dei nostri nonni, di quei valori di quella gente che ha combattuto, ha perso la vita per lasciarci una nazione più libera o quasi. Se avessimo un decimo di cuore di quelle persone o un centesimo di coglioni di quelli noi compiremo un lavoro per loro».

I NUMERI - «Da una stima dicono che in questa piazza siamo in 120-140 mila». Così azzarda Beppe Grillo. Ma la piazza, secondo le forze dell'ordine, al massimo o può contenere tra 45-50 mila persone ed essendo affollata, gli osservatori dell'ordine pubblico stimano tra 40-50 mila presenze. Poche migliaia di persone, invece, sono rimaste in piazza Castello a seguire la manifestazione per il 25 aprile, indetta dal Comitato della Regione Piemonte per l'affermazione dei valori della Resistenza.

L'ATTACCO AL PRESIDENTE - E dopo aver salutato con entusiasmo solo quelle che lui definisce le «televisioni libere» e cioè Al Jazeera, Cnn, Bbc, la tivù australiana attacca: «Il presidente Napolitano dovrebbe essere il presidente degli italiani, non dei partiti. I partiti non ci sono più». Questo a proposito del mancato referendum sulla legge elettorale. «Il presidente della Repubblica, «Morfeo» Napolitano, dorme, dorme, poi esce e monita. Il referendum sulla legge elettorale andava fatto prima delle elezioni non dopo perchè farlo dopo è come mettersi un preservativo dopo che si è trombato».

CELENTANO - «Quello che vuol dire Grillo è che bisogna fare qualcosa prima che sia troppo tardi per controbilanciare la falsità delle cose che quotidianamente ci propinano». Così Adriano Celentano intervenuto al V-day di Torino con un contributo video. «Stiamo andando incontro - ha detto Celentano - alla scomparsa delle cose che custodiscono il sentimento dell'essere umano. Non è vero - ha aggiunto - che Grillo è l'antipolitica, che Grillo è contro il governo, lui anzi vuole dare una mano a chi vuole abbassare la tasse. E io credo - ha concluso - che tra poco le tasse si azzereranno perché le pagheremo direttamente agli editori dei giornali liberando il governo dall'infamia». Un saluto a Grillo è stato portato anche dal magistrato di Catanzaro, Luigi de Magistris mentre non c'è Clementina Forleo. «Quella gran donna - ha annunciato il comico genovese - non è potuta venire a Torino».

GIORNALI - «Vorrei un giornale pagato da chi lo legge e non dai finanziamenti pubblici». Grillo, citando i tre referendum per l'abolizione dei finanziamenti pubblici all'editoria, per l'abolizione dell'Ordine dei giornalisti e della legge Gasparri, ha ricordato: «Non esiste e non può esistere un Ordine. Chiunque deve essere libero di scrivere. Perché mai ci deve essere un Ordine dei giornalisti e non un Ordine dei poeti?». Grillo ha poi urlato: «Basta con le cose del passato, se vogliamo un Paese giovane e dinamico dobbiamo dire basta». E poi rincara:«Nei cda dei giornali ci sono le banche, i partiti, gli industriali con le pezze al culo che chiamano i giornalisti e gli dicono chi intervistare e dettano le scalette, ma da oggi tutto questo inizierà a finire». Elencando i finanziamenti pubblici che vengono dati a tutti i giornali italiani, Beppe Grillo se la prende in particolare con l'Unità e dice: «È L'Unità il giornale che ieri ci ha messo in prima pagina dicendo che siamo contro i valori della Resistenza. Un giornale che prende soldi per stampare 120 mila copie, ne vende 70 mila e le altre le butta in discarica. Noi disboschiamo la Val d'Aosta per finanziare quelli lì». Grillo attacca anche la legge Gasparri: «È un affronto alla democrazia e alla libertà» e che fa sì che Berlusconi possa avere «in un Paese civile tre televisioni, 20 giornali ed essere presidente del Consiglio. Non esiste al mondo».

TRAVAGLIO - «Questa giornata deve essere un atto d'amore per l'informazione e per i giornalisti che la danno. Dedichiamo questa giornata a Enzo Biagi ed Indro Montanelli». Così Marco Travaglio ha concluso a Torino il suo intervento sul palco di piazza San Carlo davanti a quanti, numerosissimi, hanno partecipato al secondo V-Day di Beppe Grillo. «Anch'io scrivo sui giornali italiani, sui giornali che prendono i fondi per l'Editoria ed io auspico che non ci siano più questi finanziamenti. Come? Basterebbe imporre un tetto della pubblicità in televisione». Sulla proposta di abolizione dell'Ordine dei giornalisti, Travaglio ha ricordato che «Noi abbiamo un Ordine che non era riuscito nemmeno ad espellere un giornalista che faceva la spia con i soldi del Sismi. Questo è l'ordine che va abolito, ma l'idea in se non era sbagliata». Per il giornalista torinese il referendum più importante tra quelli proposti da Grillo è però quello relativo alla cancellazione della Gasparri: «È un passaggio fondamentale. Se si riuscirà a cancellare la Gasparri si risolveranno molti problemi dell'informazione». «Quello di oggi deve essere un Vaff... ad un sistema che ci fa conoscere i servi ma non contro tutta l'informazione. Questa deve essere invece un atto d'amore per l'informazione».


IL SALUTO - «Oggi è iniziato qualcosa che porteremo avanti con le liste civiche»: è il commiato di Beppe Grillo alla piazza. «Ragazzi dai 20 ai 40 anni entreranno nei Comuni - ha detto - Si inizia da lì la politica. Saremo cittadini informati dentro i Comuni». Poi ha congedato il pubblico dicendo: «Siete stati meravigliosi. Non c'è stato alcun incidente. Se vi portate via l'immondizia siete perfetti».

LE REAZIONI - Il presidente dell’Ordine dei giornalisti, Lorenzo Del Boca, risponde a Beppe Grillo che da Torino ha criticato il sistema dell’informazione italiana. «L’Italia è l’unico Paese al mondo dove una persona, come Beppe Grillo, può andare in giro a dire che l’Ordine dei giornalisti è stato creato dal Fascismo e secondo quelle logiche - ha detto Del Boca -; quando, invece, è nato nel 1963 da un’apposita legge. Questo significa non conoscere la storia, significa sbagliare. Quindi, al "Vaffa" di Grillo dovrei forse rispondere «ma Vaffa tu!’».

CALDEROLI - «Caro Grillo lei è un Catone mai eletto da nessuno, che fa i soldi sul qualunquismo, alla stessa maniera di quelli che vorrebbe combattere. Alcuni spunti positivi li ha anche avuti, in termini di discussione, però oggi, mi spiace, da parte mia non riceverà un V2 quale quello che oggi lei ha celebrato, ma riceverà un V3, al cubo, che poi lei capirà benissimo. Continui a fare il comico, perché di politici comici ne abbiamo già abbastanza, compreso magari il sottoscritto...». Così il senatore Roberto Calderoli, coordinatore delle Segreterie Nazionali della Lega Nord e vice presidente del Senato.

DI PIETRO- «Nel nostro Paese c'è un monopolio dell'informazione, pubblica e privata. Oggi più che mai aggravato dal fatto che la vittoria di Berlusconi porta al governo una persona che ha il controllo dell'informazione pubblica e privata. E ha già detto che non vuole risolvere il suo conflitto di interessi, né vuole dare retta alla direttiva europea in materia di informazione». Antonio Di Pietro ha spiegato così la sua decisione di firmare a Milano per i tre referendum proposti da Beppe Grillo: per l'abolizione dell'Ordine dei giornalisti, contro il finanziamento pubblico all'editoria e contro la legge Gasparri. Per l'Idv, «l'informazione deve essere trasparente, indipendente e plurale».


25 aprile 2008



Titolo: C'è spazio per una sinistra. Di governo e del socialismo europeo
Inserito da: Admin - Aprile 26, 2008, 09:57:36 am
C'è spazio per una sinistra. Di governo e del socialismo europeo

di Maurizio Mesoraca



Il problema che si pone oggi, dopo questa pesante sconfitta elettorale è: c’è ancora in Italia uno spazio significativo per un partito di Sinistra? La mia risposta è “Si”, ma per una sinistra di governo e collocata nella famiglia del Socialismo europeo.
D’altra parte è questo quello che succede nel panorama Europeo, dove i partiti di sinistra con queste caratteristiche, sono al governo o primo partito di opposizione, vedi Inghilterra, Spagna, Germania e così via.
Una sinistra radicale, antagonista o che guardasse all’indietro alla falce e martello, ha solo la possibilità di essere una forza residuale o di pura testimonianza.
Non è stata questa, d’altra parte, la scelta che avevamo fatto con Mussi, promuovendo il movimento di Sinistra Democratica. Poi ci si è fatti risucchiare nella terra di “nessuno” e abbiamo pagato come gli altri.
Noi dobbiamo riprendere quella che era la nostra funzione: unire la sinistra e rinnovarla, aggiungo io, profondamente, nel progetto, nel radicamento sociale, negli uomini.
Lo spazio c’è se sapremo interpretare le trasformazioni che sono intervenute nella società nell’ultimo decennio.
Essa sta ormai navigando verso una divisione che ammette due ceti: quelli popolari e quelli dei ricchi. In mezzo c’è un arcipelago che prima rappresentava la classe media e ora rappresenta il ceto “indistinto”, senza cioè un’identità, ma anche senza una rappresentanza ideale e politica precisa. Questo ceto, proprio perché indistinto, si riconosce  per la gran parte, in tutto e il contrario di tutto.
È un mondo questo che include impiegati, insegnanti, autonomi, artigiani, commercianti, piccole e medie imprese che vivono di lavoro e spesso in simbiosi con i loro dipendenti.
Per queste categorie, assieme ai ceti popolari, dobbiamo avere una proposta economica e politica, e soprattutto dobbiamo esercitare un impegno quotidiano per dare risposte coerenti con le loro esigenze.
È qui la partita si gioca sul piano della credibilità delle proposte e dei gruppi dirigenti, che li vogliono rappresentare.
Con la caduta delle ideologie non ci sono più classi, tranne alcuni settori particolari, che sono automaticamente orientate, a destra, al centro, a sinistra. Ci sono delle risposte di centro, di destra e di sinistra. Sta alla sinistra, quindi, saper dare risposte convincenti e coerenti con un disegno complessivo della trasformazione del nostro paese in chiave democratica e socialista.
Una questione specifica e fondamentale è quella cattolica. In Italia non ci si può rapportare col mondo cattolico come hanno fatto Zapatero e Boselli, accettando o alimentando uno scontro di natura quasi ideologica.
La risposta allora è quella data dai DS che hanno rinunciato ad una identità di sinistra, fondendosi con la Margherita, pensando di includere la cultura cattolica? No, non credo funzionerà, perché rappresenta una fusione forzata e fuori dalla cultura europea. Noi dobbiamo essere Laici ma dialogare costantemente e proficuamente con il mondo cattolico, sviluppando la via che avevano già tracciato Gramsci e Berlinguer e che ha trovato nel concordato uno sbocco rispettoso e ragionevole.
D’altra parte gli ideali evangelici e quelli di ispirazione socialista, sono in gran parte più affini di tante altre culture. Le differenze vengono fuori quando le questioni si affrontano, da una parte e dall’altra, in termini di ideologie e di potere.
Io ho cercato di offrire qualche modesta riflessione ad una discussione che non è facile, ma che deve essere fatta e deve coinvolgere tutti, senza schematismi e rendite di posizione. Con quel risultato, tutto e tutti dobbiamo metterci in discussione.
Di una cosa sono certo: la sinistra non si riprenderà e non riprenderà il suo ruolo in Italia ed in Europa, se continuerà a rappresentare solo una serie di “minoranze”: immigrati, precari, gay, operai in termini classici, o con l’occhio rivolto al mondo prima del 1989. Questa visione di parte, penso sia stata il motivo principale della nostra sconfitta elettorale del 14 aprile.
Noi dobbiamo guardare al futuro, cercando di costruire una Sinistra moderna, democratica ed europea, capace di darsi una missione. Garantire il benessere economico e sociale alla stragrande maggioranza del paese e, allo stesso tempo, i diritti ed i doveri fondamentali dei cittadini a cominciare dal lavoro, e proseguendo con la salute, l’istruzione, la sicurezza dei più esposti, e nel contempo, ridurre al minimo le disuguaglianze, le povertà, le precarietà, le ingiustizie, le differenze tra le varie parti del paese, prima fra tutte quelle tra il Nord ed il Mezzogiorno.
In tutto ciò il ruolo della cultura è importante quanto quello della politica. Sono queste idee utopiche? No, se sono perseguite con coerenza, impegno, passione ideale e amore per il proprio paese, per la realtà in cui si vive.

da sinistra-democratica.it


Titolo: Edmondo Berselli. Qui si è perso il territorio
Inserito da: Admin - Aprile 26, 2008, 10:03:47 am
Edmondo Berselli

Qui si è perso il territorio


A mano a mano che si approfondiscono le analisi del voto, le elezioni del 13 e 14 aprile rivelano sfumature nuove. Uno degli aspetti più interessanti è la differente prestazione del Partito democratico nelle aree metropolitane e nella provincia. Si tratta di una situazione 'americana': come i democratici negli Stati Uniti, il Pd è il partito delle città, anche nel Nord leghista. Il suo messaggio raggiunge i ceti qualificati, penetra nell'universo della popolazione a elevato livello di istruzione, mobilita settori rilevanti del lavoro dipendente qualificato e ad alto reddito.

Il che complica l'analisi. Vale a dire che non esiste soltanto una frattura sociale, politica ed economica sull'asse Nord-Sud, che prossimamente potrebbe far sentire i sui effetti nelle relazioni interne all'alleanza berlusconiana (come farà il Cavaliere a tenere insieme il federalismo fiscale nordista di Umberto Bossi e le clientele meridionali del siciliano trionfante Raffaele Lombardo?). Esiste anche una classica frattura fra città e non-città, fra assetti metropolitani e provincia. I nostri democratici, a cominciare da Walter Veltroni, riescono a farsi intendere nei centri maggiori, dove l'apertura delle classi sociali più dinamiche trova il modo di reagire agli esiti contemporanei della globalizzazione con creatività e ricerca di competitività. Invece la provincia è terreno di conquista del centrodestra; nelle regioni settentrionali ha successo il proselitismo leghista, con il lavoro davanti alle fabbriche, con i gazebo vicini alle polisportive e nei bar delle bocciofile.

Questa distinzione è inevitabilmente approssimativa, ma chiarisce almeno una delle ragioni dell'affermazione della macchina berlusconiana. Anche se in modo incerto, il Pd ha cercato di accreditarsi come un partito modernizzante, capace di intercettare la spinta di un'Italia che non accetta di restare ai margini dell'Europa. Nello spirito del partito di Veltroni c'è l'accettazione del mercato e della concorrenza come contesti in cui si esprime il merito, cioè una forma attualizzata di perseguimento dell'eguaglianza. Ma se nella metropoli diffusa e anche nella "megalopoli padana" appena descritta da Giuseppe Berta nel suo libro 'Nord' questo messaggio è stato raccolto, c'è tutta una fascia territoriale in cui le conseguenze della globalizzazione vengono osservate con inquietudine.

Per questo nelle aree non metropolitane ha successo il modello costruito empiricamente da Silvio Berlusconi, con l'ausilio intellettuale di Giulio Tremonti. Il Pdl e la Lega si caratterizzano come il soggetto di una 'modernizzazione reazionaria', che tende a marginalizzarsi rispetto ai grandi flussi della globalizzazione, ma offre una rassicurazione ai ceti intimoriti dalla violenza del cambiamento. Forza lavoro operaia messa in crisi dalle ristrutturazioni aziendali, piccole imprese sballottate dal mercato, pensionati intimoriti dalle tendenze inflazionistiche e dal problema della sicurezza quotidiana, ceti medi insofferenti del degrado urbano, tutti trovano una risposta alla propria condizione di 'uomini spaventati' (secondo una definizione di Ilvo Diamanti).

Per certi versi, questo rende ancora più difficile il ruolo del Pd. Perché fare breccia nelle frange modernizzanti della società italiana è tutto sommato agevole. Ma per contendere il consenso alla Lega e al Pdl sul territorio occorre qualcosa che al momento il Pd non ha. Cioè una presenza quotidiana sui luoghi, nella vita delle persone, nelle realtà di incontro sociale. Le elezioni hanno mostrato che non sembra possibile né condurre una campagna tutta basata sull'idea e la struttura del partito leggero, cioè mediatico e quindi volatile, né il ritorno volontaristico al lavoro politico capillare come faceva il vecchio Pci.

Ma se oggi la politica risulta modellata, plasmata in profondità dal territorio, cioè dalla dimensione geografica e spaziale, occorre agire presto per 'territorializzare' l'iniziativa politica. Questo può essere realizzato mobilitando le risorse migliori e più efficienti, dalsindaco di Torino Sergio Chiamparino al sindaco di Salerno Vincenzo De Luca, e chiedendo alla rete istituzionale un coordinamento, una rete nuova di competenze messe in comune. Ma forse è venuto anche il momento di pensare a un partito federalizzato, il Pd del Nord, del Centro e del Sud, con strutture innovative e leadership territoriali che affianchino e sostengano il leader centrale. Pier Luigi Bersani a Milano, Enrico Letta a Firenze, Massimo D'Alema per le regioni meridionali. Che sarebbe anche una buona idea per ridimensionare, mettendole sotto controllo, la questione settentrionale, la questione romana e la questione meridionale.

(24 aprile 2008)

da espresso.repubblica.it



Titolo: Tutti in festa ma divisi
Inserito da: Admin - Aprile 26, 2008, 02:46:53 pm
26/4/2008
 
Tutti in festa ma divisi
 
 
 
MATTIA FELTRI
 
Mi sono rivolto a tutti gli italiani», ha detto il presidente Giorgio Napolitano al culmine del suo generoso e onesto sforzo. Ma le piazze ieri erano centinaia, luoghi fisici e luoghi dello spirito, ognuno di noi con la sua celebrazione, ortodossa o no, minoritaria, personale e pure la celebrazione del nulla. Molti sanno vagamente quale sia la ricorrenza, molti sanno che è un giorno di ozio, e si organizzano la sacrosanta gita fuori porta. Qualcuno era sceso nelle strade, nottetempo, per affiggere manifesti di solidarietà ai combattenti delle nuove Brigate rosse sotto processo; qualcuno, a Milano, si era armato di bombolette spray per imprimere sui muri l’identità del nuovo assassino della libertà: Confindustria. Qualcuno, in Friuli, ha stampato e distribuito volantini neonazisti: «Achtung Banditen. Traditore della patria». Qualcuno, a Roma, dal centro del corteo, ha fischiato e insultato i fratelli Alberto e Piero Terracina, scampati ad Auschwitz, per la colpa di essere ebrei come gli ebrei che «occupano la Palestina».

Qualcuno, a Genova, ha contestato il cardinale Angelo Bagnasco, presidente dei vescovi italiani, per le posizioni della Conferenza episcopale sugli omosessuali, sulle coppie di fatto, sull’aborto, sulla procreazione assistita. Qualcuno, a Firenze, è andato a deporre mazzi di fiori sulle tombe dei soldati americani. Qualcuno, a Cuneo, ha partecipato alla cerimonia di intestazione dei giardini pubblici a Claus von Stauffenberg, l’ufficiale tedesco che per qualche ora credette di aver ucciso Adolf Hitler nella Tana del lupo e di averne rovesciato la dittatura. Ognuno aveva la sua piazza, il suo vecchio e nuovo nemico, la sua calda memoria oppure il suo fresco rancore. È stato un 25 Aprile tutto sommato calmo, e paradossalmente frantumato. Beppe Grillo ha fatto esultante la conta dei presenti, che erano molti, e si è proclamato figlio e nipote dei partigiani di oltre sessant’anni fa; i nuovi fascisti stanno nelle redazioni, ha detto, e si ripromette di spazzarli via.

Chissà quanti del suo popolo erano lì per l’ultima Resistenza e quanti per godere dello show.

È la cronaca che si trascina appresso la storia, la tira per i capelli, se la ridisegna addosso.

I ragazzi dei centri sociali hanno mostrato i pugni alla sinistra sconfitta ed extraparlamentare per indicargli come si sta in piazza.
Il ballottaggio di Roma, vibrante e patetico, ha costretto i leader del Partito democratico ad argomentazioni lise: arrivano i fascisti, arriva la marea nera.
Silvio Berlusconi ha lavorato al governo e si è intrattenuto per il caffè col nostalgico Giuseppe Ciarrapico.
Roberto Maroni ha tosato l’erba.
Fausto Bertinotti si è chiuso nel silenzio.
Il neofascista Luca Romagnoli era dolente perché la data gli ricorda «violenza e sconfitta».

E siccome è la festa di tutti, tutti hanno fatto festa, a modo proprio, insieme con un ricordo, con un feticcio, con uno spettro o con niente.

 
da lastampa.it


Titolo: RETROSCENA, COME LA BASE PUO' ESSERE MANIPOLATA
Inserito da: Admin - Aprile 27, 2008, 11:20:47 am
27/4/2008 (7:8) -

RETROSCENA, COME LA BASE PUO' ESSERE MANIPOLATA

Altro che libertà del web i potenti ci sguazzano
 
Rodotà avverte: "La tecnologia illude di aprir porte, ma spesso chiude in stanze vuote"
 
Gli studiosi: democrazia diretta? Si rischia il populismo

ANNA MASERA


TORINO

La libertà è partecipazione, è il ritornello di una vecchia canzone di Giorgio Gaber.
In quest’era digitale, ci si casca volentieri nella retorica tecno-entusiastica di Beppe Grillo sulla grande libertà di informazione e possibilità di partecipazione democratica resa possibile da Internet. O meglio dal «Web 2.0», termine di moda per definire quella rete sociale globale che celebra il trionfo dei «dilettanti» e dà l’illusione ai singoli cittadini di contare allo stesso livello dei governi e delle multinazionali, almeno online. Ma attenzione, avvertono gli studiosi del fenomeno, a non confondere le straordinarie potenzialità del mezzo con una conquista di e-democrazia, tutt’altro che raggiunta. Anzi: sempre più un miraggio.

«Il fenomeno Grillo in Italia» è una forma di «cyberpopulismo», democrazia plebiscitaria elettronica che trova in Internet uno strumento non meno adeguato della vecchia tivù, sostiene Carlo Formenti, autore di Cybersoviet (sottotitolo «Utopie postdemocratiche e nuovi media»). Secondo Formenti la retorica del Web 2.0 sta alimentando illusioni sulle prospettive della democrazia digitale. Grillo attribuisce ai nuovi media elettronici un ruolo rivoluzionario puntando sulla «postdemocrazia come utopia»: dove le decisioni non vengono prese a colpi di maggioranze o minoranze, ma all’unanimità, attraverso il convincimento reciproco e l’attribuzione di leadership nei confronti di chi si conquista la fiducia del gruppo. Ma attenzione: da una parte i blogger in vetrina riducono la sfera pubblica a sommatoria di conversazioni private e indeboliscono la capacità di influire sul sistema politico e mediatico. Dall’altra non ci sono garanzie di trasparenza, che deve essere «asimmetrica»: controllo dei governi che devono operare in una «casa di vetro», ma tutela per il diritto alla privacy dei cittadini.

I cybersoviet sono le comunità virtuali create dal popolo della rete. E di conseguenza la democratizzazione del Web 2.0 non prelude a una presa del potere dai parte dei produttori/consumatori, bensì «all'espropriazione capitalistica dell'intelligenza collettiva generata dalla cooperazione spontanea e gratuita di milioni di donne e uomini».

La tecnologia «dà l'illusione di aprire le porte alla libertà, ma poi spesso ci si ritrova in stanze vuote chiuse a chiave» avverte Stefano Rodotà, ex Garante per la privacy. Un esempio? The Economist cita la falsa e-democrazia di un indirizzo Internet diponibile per comunicare con un premier, che in realtà collega i cittadini solo a un computer: in cambio di questa promessa di accesso, subiamo la volontà di controllo di governi e aziende. «Il potere politico ed economico sa oggi infinitamente più cose sui cittadini di quante essi non ne sappiano sui potenti».

Dal Web 2.0 emergono nuove disuguaglianze, smentendo il mito di una nuova «giustizia distributiva»: il cosiddetto «digital divide» non si riferisce solo a chi ha e chi non ha accesso a Internet, ma alla stratificazione sociale che si crea fra differenti categorie di utenza: l’élite rispetto alla massa. «E’ ora di decostruire l’inganno del Web 2.0», sintetizza il teorico dei media australiano-olandese Geert Lovink, nella raccolta di interventi dal titolo «Web 2.0: Internet è cambiato. E voi?») di Vito di Bari. «Invece di celebrare i “dilettanti”, dobbiamo sviluppare una cultura di Internet che aiuti i “dilettanti” (in maggioranza giovani) a diventare “professionisti”». Perché Beppe Grillo riempie le piazze, ma sono sempre troppo poche le voci che chiedono ai governi di adottare e applicare regole chiare e condivise per l’e-democrazia.

www.lastampa.it/masera


Titolo: Vicenza, vince il movimento. E chi lo ha ascoltato
Inserito da: Admin - Aprile 28, 2008, 10:00:17 pm
Vicenza, vince il movimento. E chi lo ha ascoltato


A metà marzo, avevano presentato la loro lista “Vicenza Libera”. I No dal Molin erano scesi in campo per costruire una città libera «dai disastri naturali, dalla cementificazione, dalle servitù militari, da coloro che vogliono svenderla», insomma una «Vicenza libera di poter costruire da sè il proprio futuro». A guidare la lista come candidata sindaco c’era Cinzia Bottene, una dei leader del movimento che da oltre un anno si batte contro l’ampliamento dell’aeroporto militare Dal Molin.

Al primo turno avevano raccolto un risultato più che dignitoso, un 5 per cento che aveva marcato a chiare lettere il fatto che a Vicenza la protesta del comitato No Dal Molin ha messo radici. E infatti, in controtendenza con il voto di pancia, il voto di appartenenza e le strumentalizzazioni delle altre campagne elettorali, a Vicenza ha vinto chi ha parlato di contenuti veri.

Achille Variati, vicentino, 55 anni, una laurea in matematica e un lavoro in banca, è in politica dagli anni Ottanta, già sindaco della città dal 1990 al ’95, è diventato consigliere regionale, prima nelle fila del partito Popolare poi in quelle della Margherita, ora del Pd. Vince al ballottaggio con il 50,5%, beneficiando dell’appoggio dei No Dal Molin che hanno riversato su di lui le speranze di vedere lo stop allo sciagurato progetto della base. Ma certo, non si sono ammorbiditi. E cinque minuti dopo la proclamazione di Variati sulla poltrona di primo cittadino, gli mandano un messaggio. Tanti auguri, in sostanza, ma ora si rispettino i patti.

«Se sarò sindaco – precisava Variati a pochi giorni dal ballottaggio – promuoverò in consiglio comunale una delibera di segno opposto a quella che ha dato il via libera al progetto e organizzerò una consultazione popolare per dare alla città la possibilità, fin qui negata, di dire sì o no a questo progetto di costruzione della nuova base militare americana al Dal Molin. E per far sì che questa operazione abbia un senso, chiederò con fermezza allo Stato e alle autorità americane una sospensione nell’esecuzione dei lavori, così da rispettare i tempi – il più possibile brevi – dell’espressione della volontà vicentina». Insomma, un referendum, e il rispetto della volontà popolare.

Ora i No Dal Molin non perdono tempo a ricordargli quelle parole: «La vicenda Dal Molin – scrivono sul www.nodalmolin.it – è stata determinante nel risultato delle elezioni amministrative vicentine. Ha vinto chi, in campagna elettorale, si è dichiarato contrario al progetto statunitense. Ora ci aspettiamo il rispetto del patto che Achille Variati ha fatto con la città: il nuovo consiglio comunale dovrà immediatamente annullare l’ordine del giorno che esprimeva parere favorevole all’installazione militare».

Dopo due mandati saldamente nelle mani di Lega e Forza Italia, dopo le decisioni «che la giunta passata ha accettato supinamente», Vicenza finalmente cambia rotta. Il Tar del Veneto, nel frattempo, ha stabilito che il ministero della Difesa dovrà mettere a disposizione degli avvocati delle associazioni che si battono contro l’ampliamento della base tutto il carteggio tra il governo italiano e il Pentagono. Documenti che finora nessuno aveva mai potuto vedere.

Pubblicato il: 28.04.08
Modificato il: 28.04.08 alle ore 19.56   
© l'Unità.


Titolo: Francesco, il giorno più amaro "Capire perché ci hanno punito" (ti hanno... ndr)
Inserito da: Admin - Aprile 29, 2008, 10:59:55 am
POLITICA

Rutelli chiama Alemanno: "I miei auguri nell'interesse della città"

"Abbiamo perso sulla sicurezza, anche se ci sono state strumentalizzazioni"

Francesco, il giorno più amaro "Capire perché ci hanno punito"

di ALESSANDRA LONGO

 

ROMA - Alle 18.30 Francesco Rutelli affronta lo stesso martirio che è toccato a Walter Veltroni solo due settimane fa. Si fa strada tra facce tese, deluse, piangenti e siede con il suo foglietto di appunti che è una sentenza crudele. Ci sono 55mila voti di differenza sulla città di Roma tra lui e Nicola Zingaretti, neopresidente della Provincia: "Bisogna capire che cos'è successo", dice. Un voto disgiunto che fa male, che suona come uno sfregio, una scomunica personale.

Ma questo è un pensiero trattenuto, le parole escono filtrate, frutto del sangue freddo o forse solo della stanchezza che ancora soffoca la rabbia: "Nella mia vita pubblica ho avuto molte soddisfazioni e successi. Oggi è il giorno della sconfitta e provo un'amarezza grande". Non si può sempre vincere, mettiamola così. Ma è dura entrare in quella sala. E' dura ammettere che Roma, la tua città, la tua "passione", ti ha voltato le spalle, salvando però il collega diessino candidato alla Provincia ("Per fortuna, almeno lui ce l'ha fatta..."). E' dura quando sei stato due volte sindaco, hai sfidato Berlusconi sfiorando il successo, sei appena uscito dall'ultimo governo con le cariche di vicepremier e ministro della Cultura, è dura aggrapparti all'ultima della speranze, la più piccola, la più modesta, le circoscrizioni: "Speriamo che nei Municipi che sono in ballo finisca bene".

Quando arriva a spiegare l'inspiegabile, a sottoporsi al rito democratico e autoflagellante della presa d'atto, ha già chiamato il vincitore, il nuovo inquilino del Campidoglio, Gianni Alemanno, l'alleato di Bossi al governo, il politico di destra, il ragazzo dei campi hobbit e delle croci celtiche: "Ti faccio i miei auguri nell'interesse della città". Chissà quanto gli è costato prendere quel telefono, chiuso nella sua stanza, le segretarie a vigilare fuori dalla porta: "Non disturbate Francesco, lasciatelo in pace". Selva di microfoni appoggiati sul tavolo, talmente tanti che lui cerca di fare dell'ironia: "Ho bisogno di qualche centimetro. Siate carini, spostateli un po' questi microfoni, sennò dove metto le mie carte?". In piedi accanto a Rutelli c'è Linda Lanzillotta, con una camicia di seta rossa, e poi Patrizia Sentinelli, con una borsa rossa. E poi ancora Renzo Lusetti che di rosso ha la cravatta. La senatrice Binetti rimane all'aria aperta e, in assoluta controtendenza, prefigura scenari meravigliosi per il suo leader: "Torna una risorsa al Pd". Le "carte" di Rutelli sono in realtà poche righe di cortesia: "Ringrazio gli elettori e le elettrici che mi hanno votato, i militanti e le militanti che hanno generosamente condotto questa campagna al mio fianco". Sì, è andata male, davvero male: "Le elezioni le ha vinte Alemanno". Secco, senza giri di parole.

Se non altro non c'è il rimorso: "Ho fatto il mio dovere, mi sono messo a disposizione della coalizione e di Roma, con passione, senza risparmio". Perché i romani l'hanno abbandonato? Si è fatto, a caldo, un'idea: "Ho perso sulla sicurezza". Lo hanno penalizzato, dice, le immagini di una città violenta (che poi le statistiche smentiscono ma chi vota non le legge, si affida alle proprie paure), quell'ultimo stupro commesso dal cittadino rumeno, un altro viottolo buio dove si è scatenato l'inferno, lo stesso patito dalla signora Reggiani. Modalità che si ripetono, fatti di cronaca orrendi. "Ci sono state strumentalizzazioni - accusa Rutelli - ma occorre riflettere molto seriamente sui limiti del centrosinistra in materia di sicurezza". Alemanno, con la sua controffensiva militare, è stato ritenuto più credibile, Zingaretti, come suggerisce Massimo Brutti, anche lui al capezzale dello sconfitto, non è stato invece vissuto come responsabile dell'ordine pubblico, e dunque non ha pagato prezzo.

Che non fosse "una passeggiata" Rutelli l'aveva detto: "O vinco subito o saranno dolori perché tira un vento di destra". Effetto trascinamento delle politiche, anzi "effetto bandwagon", come lo chiamano gli esperti, salti sul carro del vincitore perché è più grande e più comodo, soprattutto quando il vincitore di Palazzo Chigi, Berlusconi, fa irritualmente capire che dialogherà solo con un sindaco di suo gradimento. Ma ha poi un senso andare a ricercare lontano i meccanismi che hanno portato alla disfatta? Rutelli non esagera, non si accanisce sulla malasorte. Succede. Succede di perdere anche "per una richiesta, per certi versi naturale, di discontinuità". Forse non doveva correre lui questa battaglia ma ha accettato perché glielo hanno chiesto, perché, in realtà, nessuno lo voleva fare ("France', se per caso ti andasse..."). E' stato vissuto come la continuità doppia: continuità con il governo Prodi, continuità con Walter Veltroni che lo aveva consacrato in un Palalottomatica gremito: "Sarà un grande sindaco".

Invece volevano la discontinuità. Sull'altare della svolta, la gente è sembrata dimenticare gli anni di buona amministrazione, il Giubileo senza incidenti, l'orgoglio di un Auditorium dove si fa la fila per ascoltare gratis lezioni di storia e di matematica. Pietro Barrera, storico capo gabinetto di Rutelli, ha gli occhi cerchiati, cerca le ragioni della sconfitta e le trova soprattutto in questa voglia di voltare pagina. Ha fatto più presa la campagna di Alemanno che diceva: "Roma cambia". Mentre è evidente che la città delle Fosse Ardeatine, dei mille ebrei deportati ad Auschwitz, non risponde più agli appelli antifascisti, non si turba se tra gli sponsor di Alemanno c'è gente che fa ancora il saluto romano e venera il Duce o regala stampelle a Rita Levi Montalcini invitandola a tornare nel ghetto.

Centomila elettori del centrosinistra si sono astenuti, non sono andati a votare per il ballottaggio, "forse un contraccolpo al risultato nazionale". C'è anche questo nei pochi appunti di Rutelli. E c'è il doveroso finale di speranza che parla di "energie importanti", di una fede "immutata" nel Pd e nel suo progetto. Si fa così, si abbozza, anche quando "l'amarezza è grande", anche quando ti dicono che "c'è chi ha votato Zingaretti e Alemanno", una scelta che è un messaggio di disagio, di rancore. Davvero "un voto inimmaginabile", commenta con gli occhi lucidi Lanzillotta che fiuta anche, nella sconfitta annunciata, "qualcosa di organizzato".

Ridotto all'osso il rito dei riflettori, Rutelli si chiude nuovamente nella sua stanza. Con lui la moglie Barbara, Gentiloni, Lusetti, Vincenzo Vita. I ragazzi dello staff mettono negli scatoloni pacchi di volantini ormai inutili. Goffredo Bettini viene intercettato dai cronisti che gli si fanno sotto. Quasi tra sé e sé commenta: "Tutto il mondo mi rompe i coglioni". Si spengono presto le luci al comitato elettorale. Roma cambia.

(29 aprile 2008)

da repubblica.it


Titolo: "I poteri forti sono stati decisivi mio marito non li garantiva"
Inserito da: Admin - Aprile 30, 2008, 07:21:27 pm
POLITICA

Barbara Palombelli ha parlato della sfida di Roma nella sua trasmissione

"Chi ha interesse sapeva che Berlusconi avrebbe avversato un sindaco Pd"

"I poteri forti sono stati decisivi mio marito non li garantiva"

di ANTONIO DIPOLLINA

 
ROMA - Una partenza con gli "auguri sinceri" al vincitore e la speranza che l'"adorata Roma" non perda il suo valore principale, ossia la concordia. Ma poi, via, dentro la polemica rivendicando almeno un paio di volte un concetto forte: "Tutti avevano capito che il nuovo governo avrebbe avversato il sindaco di centrosinistra: questo ha pesato sul voto di chi gestisce molti interessi a Roma". Prima dice così, Barbara Palombelli, moglie dello sconfitto candidato Rutelli, ai microfoni di Radiodue, impegnata ieri come ogni giorno nel suo "28 minuti". Poi precisa che quelli che si sono indirizzati su Alemanno per paura di spiacere a Berlusconi sono "i poteri forti". Quali? "I giornali, eccetera: hanno tutti nome e cognome".

La Palombelli ha dedicato l'intera puntata al voto di Roma, aveva come ospiti Bianca Berlinguer e l'euforico direttore del Tg2 Mauro Mazza: quest'ultimo si è concesso la gag alla quale tutti pensavano, ascoltando il programma, ossia dire alla conduttrice "la prossima volta però le domande sulle elezioni romane le faccio io a te, sicuramente le tue risposte saranno più interessanti delle mie". Palombelli ha ammiccato ("Faccio il mio mestiere di cronista della politica") ma come detto ieri è stata una conduttrice molto partecipe. Ha rivelato che a mo' di consolazione ha scherzato col marito sul fatto che quindici anni di potere di sinistra a Roma stavano pericolosamente avvicinandosi come durata al ventennio del fascismo in Italia, ha detto la sua nel dibattito prolungato, soprattutto con la Berlinguer, sulle ragioni della sconfitta globale del centrosinistra: oppure sulla difficoltà in futuro di trovare un equilibrio per una metropoli che deve coniugare sicurezza dei cittadini e tolleranza.

E Alemanno? La Palombelli dice: "L'ho incontrato l'ultima volta al derby Roma-Lazio", e qui Mazza affonda il colpo: "E nemmeno quella volta credevi che avrebbe vinto la Lazio". Ma, assorbite le gag, è tornato il concetto dei poteri forti (o di chi "ha molti interessi su Roma") che hanno voltato le spalle a Rutelli. Infine una sorta di ammonimento ai vincitori: con i chiari di luna in arrivo, "la crisi dell'Alitalia, l'Unicredit che compra Capitalia e si parla di migliaia di esuberi tra i colletti bianchi delle banche, la richiesta di trasferire una rete Rai a Milano, insomma con tutto questo Roma sarà un problema enorme da gestire nei prossimi anni". E in chiusura l'annuncio: "Da domani basta politica qui in trasmissione, per alcuni giorni parleremo di libri".

(30 aprile 2008)

da repubblica.it


Titolo: Tonino l'antagonista
Inserito da: Admin - Aprile 30, 2008, 07:26:36 pm
Tonino l'antagonista


di Antonio Carlucci


Collaborazione sulle riforme. Ma no secco a nuove regole ad personam. L'opposizione secondo il leader Idv. Colloquio con Antonio Di Pietro

La vittoria con il raddoppio dei voti e l'arrivo alla Camera di 28 deputati e a Palazzo Madama di 14 senatori. E la sconfitta, secca, della coalizione di centrosinistra di cui Italia dei Valori faceva parte. Antonio Di Pietro racconta il dopo elezioni e gli obiettivi che si pone. A cominciare dai rapporti con il Partito democratico e l'opposizione che vuole fare.

Ministro Di Pietro, chi ha votato Italia dei Valori?
"Abbiamo raddoppiato i consensi intercettando un voto di fiducia della società civile e del mondo della Rete. È il consenso per come il nostro partito ha portato avanti da una parte i problemi della sicurezza e della giustizia, e dall'altra la capacità di creare rapporti sul territorio, anche quando non eravamo noi al governo locale, per far nascere infrastrutture che fossero un reale beneficio per i cittadini. In questa ottica molti italiani che avevano votato la sinistra radicale e antagonista in funzione anti-Berlusconi o che avevano votato a destra pensando di essere così dalla parte della legalità hanno intravisto in Italia dei Valori un partito post ideologico in grado di parlare a tutta la società italiana".

Tanti voti, ma alla fine la sconfitta politica della coalizione. E adesso come userà i voti e i parlamentari?
"Intanto, sentiamo tutto il peso della affermazione del partito che comunque mette all'angolo tutti coloro che avevano consigliato a Walter Veltroni di non allearsi con noi. Da un punto di vista generale dobbiamo seguire l'indicazione degli elettori ed arrivare a un bipartitismo perfetto in cui due grandi formazioni non ideologiche sappiano interpretare la società contemporanea in senso liberale e si confrontino da un punto di vista riformista - noi e il Partito democratico - o conservatore. Fanno così americani, inglesi, francesi, spagnoli, ciascuno con il carattere della propria nazione. Noi pensiamo di lavorare per un modello in cui lo sviluppo economico e la crescita si accompagnino alla solidarietà che presuppone giustizia nella redistribuzione delle risorse".

Questo da un punto generale. Poi c'è la realtà nuova alle porte con Italia dei Valori che deve decidere se sciogliersi dentro il Pd, oppure camminare fianco a fianco con formazioni distinte?
"L'alleanza con il Pd resta il perno della nostra politica. Dunque si può, anzi si deve, costruire una casa comune di IdV e Pd nei tempi che la politica consentirà".

Che tipo di casa comune immagina?
"In prospettiva si deve arrivare ad un'unica realtà politica".

Un solo partito?
"Sì, un solo partito riformista di cui noi vogliamo essere i costruttori insieme al Pd. E che sia il punto di arrivo del processo cominciato con le elezioni. Quello che non condivido è che il punto di arrivo - la casa comune - sia il punto di partenza. Ha il sapore dell'annessione, con una una formazione che fagocita l'altra perché è più grande. È come se Italia dei Valori chiedesse al Pd si sciogliersi ed entrare nel nostro partito in Molise solo perché siamo più grandi e abbiamo tolto la Regione al centrodestra".

Sullo sfondo si intravedono anche problemi di posti e di visibilità.
"Io non ho questi problemi, tanto che ho lasciato a Veltroni, in quanto leader della opposizione, la libertà di decidere chi si deve occupare di che cosa nel futuro Parlamento. Come vede ci comportiamo già come fossimo in una casa comune. Così Veltroni ha la possibilità di far entrare in campo altri partiti dell'opposizione".

Quale sarebbe la sua reazione se degli incarichi destinati alla opposizione fossero affidati da Veltroni al partito di Casini invece che a uomini di Italia dei Valori?
"Dipende solo da chi si deve occupare di che cosa. Le faccio due esempi. Se il leader dell'opposizione dovesse scegliere Bruno Tabacci per occuparsi di problemi economici non avrei nulla da ridire, ma se fosse scelto Cuffaro per questioni attinenti alla giustizia e alla legalità sarebbe un colpo mortale alla alleanza con il Pd".

Martedì 29 comincia la nuova legislatura. Che tipo di opposizione si appresta a fare il suo partito?

"Costruttiva sulla politica del fare, radicale sull'etica e sui valori. In particolare, spianeremo la strada a provvedimenti sensati in materia di sicurezza, di infrastrutture, di sviluppo dell'economia. Sicuramente daremo il nostro contributo su tutte le riforme, anche costituzionali, necessarie. Ma su tutti quei temi - penso al conflitto di interessi, alle leggi ad personam, all'informazione, ai diritti - in cui la maggioranza cercherà di scrivere regole a suo uso e consumo e del suo leader noi ci opporremo in Parlamento e nel Paese".

In campagna elettorale, ed anche subito dopo, i toni nei confronti di Silvio Berlusconi sono stati all'insegna della moderazione. Solo Italia dei Valori ha strillato al ritorno del Caimano. Perché questa scelta?
"Il raddoppio dei voti indica che una parte degli italiani ritengono che Berlusconi ancora oggi non fa politica per servire il Paese ma per i suoi interessi personali, a cominciare da quelli del rapporto con la giustizia".

Ma li ha già risolti nell'altra legislatura con le leggi ad personam.
"No, li ha risolti nella legislatura appena finita perché il governo di centrosinistra non ha avuto il coraggio di fare quello che doveva in termini di conflitto di interessi, legge sulla informazione, riforma della giustizia, sicurezza. È così paradossale che proprio in questi giorni il centrodestra si atteggia a paladino della difesa dei cittadini avendo compiuto sfracelli sostenendo l'indulto con una maggioranza inciucista trasversale, bloccando la giustizia, aprendo le porte senza alcun filtro ai romeni che oggi vorrebbero cacciare. È davvero incredibile come gestendo potenti apparati di informazione stiano riuscendo a passare per vittime. Eppure sono i carnefici".

(28 aprile 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: «No a una fase di mugugni, chi ha altre idee parli chiaro»
Inserito da: Admin - Aprile 30, 2008, 11:23:52 pm
«No a una fase di mugugni, chi ha altre idee parli chiaro»

Andrea Carugati


Senatore Tonini, il Pd risponde nel day after di Roma con la conferma di Anna Finocchiaro come capogruppo al Senato. Come va letto questo segnale?
«Come un atto di grande compattezza e coesione attorno alla proposta del segretario Veltroni, che prevede la conferma dei capigruppo uscenti. Il segnale è chiaro: metterci subito a lavorare in Parlamento. Subito dopo la fiducia al governo Berlusconi vareremo l’altro strumento-chiave della nostra opposizione, il governo ombra. Poi seguirà, entro l’estate, il rinnovamento degli organismi di partito, per superare la fase provvisoria».

Veltroni ieri ha proposto un congresso a breve, anche entro il 2008. Che senso ha questa proposta?
«Veltroni ha fatto bene a proporlo, perché dobbiamo evitare un pericolo mortale: una lunga fase di mugugni e mezze recriminazioni, sassi lanciati e mani nascoste. Non ci possiamo permettere una fase di autologoramento. Dunque, se c’è l’esigenza di una verifica democratica è bene farla subito e nel modo più ampio e aperto possibile: con un congresso. Se ci sono altre idee su come andare avanti vengano allo scoperto. Altrimenti si procede nella linea che abbiamo presentato agli elettori, e che ha avuto un riscontro positivo anche nella sconfitta, visto che il Pd è stato votato da un italiano su tre».

Eppure oggi governano Berlusconi e Alemanno...
«Non siamo ancora riusciti a sfondare al centro, ma era difficile poter sperare in un risultato tondo in un colpo solo: dovevamo fare due cose, salvare il progetto del Pd dalla crisi dell’esperienza di governo e vincere. Il primo obiettivo l’abbiamo pienamente raggiunto. Adesso bisogna lavorare per il secondo obiettivo, ma senza demolire il primo».

Ritiene che qualcuno nel partito voglia fare marcia indietro sullo stesso progetto del Pd?
«Nessuno vuole tornare indietro. È invece aperta la discussione su come colmare il gap che ancora ci separa dal governo. C’è chi, come Veltroni, vuole valorizzare la nostra vocazione maggioritaria del Pd, come i grandi partiti europei. Altri invece pensano alla costruzione di alleanze in più direzioni, secondo uno schema più tradizionale. Queste due linee prevedono due ipotesi diverse anche per quanto riguarda la riforma elettorale. Discutiamone in un congresso, non a mezza bocca».

Però la proposta di un congresso subito incontra resistenze: D’Alema, Marini...
«L’importante è che la proposta Veltroni l’abbia fatta, così ha sgomberato il campo da qualunque sensazione di arroccamento. Ora ci sarà tempo e modo per riflettere».

Quanto pesa il voto di Roma dentro il Pd?
«È stata una botta molto forte, anche dal punto di vista simbolico. Ma quel voto va interpretato, visto che lo stesso giorno Zingaretti ha vinto in città. Gli elettori hanno scelto la discontinuità al termine di un ciclo politico. Forse è stato un errore riproporre un ex sindaco, anche se è stato un grande sindaco: i cittadini non votano mai in nome del passato, ma del futuro. La nostra è sembrata una proposta legata al passato, anche se avevamo messo in campo la personalità più forte».

Ha contato la scelta del candidato a porte chiuse, senza primarie?
«Avevamo immaginato di avere più tempo per preparare il dopo-Veltroni: ma il precipitare degli eventi ci ha portato a scegliere in fretta, anche sacrificando la democrazia. Questo elemento ha pesato».

Quali errori vede nella strategia del Pd dalle primarie in poi?
«Sulle scelte di fondo non vedo errori. Le amministrative della scorsa primavera hanno segnalato una caduta verticale del consenso alla nostra azione di governo: il Comitato dei 45 decise, su proposta di Prodi, di eleggere direttamente un segretario per salvare il progetto del Pd dalla crisi dell’esperienza di governo».

E dopo le primarie che errori avete fatto?
«Quando si sperimenta è possibile sbagliare: un messaggio, una candidatura, ma sono dettagli. La strada intrapresa è giusta, l’errore più grave e imperdonabile sarebbe mollare perché ci siamo accorti che la strada è in salita. Ma lo sapevamo: ci vuole il passo del montanaro, i polmoni allenati. Il voto di tre giorni fa è anche quello di Vicenza e di Sondrio, città dove eravamo al 30% al primo turno e poi abbiamo vinto il Comune. Se sapremo fare un’opposizione coerente con la campagna elettorale, di merito, per noi la strada sarà aperta. La vicenda Alitalia ci mostra un governo già in stato confusionale ancor prima di nascere...»

A proposito di gruppi dirigenti: si parla di un ridimensionamento di Bettini e Franceschini...
«Veltroni farà una proposta complessiva sui nuovi assetti di vertice all’assemblea nazionale. Siamo tutti al servizio di un progetto più grande di noi, tutto il resto viene dopo».


Pubblicato il: 30.04.08
Modificato il: 30.04.08 alle ore 8.14   
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Titolo: Nicola Cacace. La Lezione della Sconfitta
Inserito da: Admin - Aprile 30, 2008, 11:28:50 pm
La Lezione della Sconfitta

Nicola Cacace


Le sconfitte fanno male se non si sa metterle a frutto. Come avviene dopo un brutto incidente - scendendo a 50 all’ora in bici ed essendo finito in ospedale, da allora uso i freni molto più di prima - la lezione può anche risultare vitale. Se il centrosinistra avesse vinto o perso per il rotto della cuffia ci saremmo salvati l’anima e avremmo tirato avanti come prima o peggio. Così non è e, dico, per fortuna.

Qui mi concentro su due grosse mancanze della nostra politica responsabili dell’80% delle sconfitte, nazionale e romana, che appaiono slegate tra loro ma che slegate non sono, sicurezza ed equità e sui mutamenti di rotta che il Pd e la sinistra devono imprimere da subito alle loro politiche.

Sulla sicurezza la destra ha un vantaggio storico, Legge ed Ordine è da anni un suo slogan, che, alla luce delle nuove forme di insicurezza, ha assunto un peso non facile colmare. Nostra colpa specifica è stata non capire i cambiamenti strutturali che da venti anni a questa parte la criminalità ha subito. Primo cambiamento è stato l’apporto che una immigrazione vorticosa, mal gestita e peggio contenuta ha avuto sulla criminalità: col 7% di immigrati il loro contributo si aggira intorno al 30% degli arresti e la cosa è abbastanza naturale se solo si considerano le condizioni di estremo disagio in cui molti immigrati vivono. Secondo cambiamento deriva dai luoghi in cui la criminalità si esercita, mentre prima, in Italia come nel resto del mondo, i crimini si concentravano nelle aree metropolitane, da qualche tempo l’intero territorio ne è investito. Anche per le maggiori protezioni delle aree centrali più ricche, la criminalità si è diffusa nelle periferie e nelle province pacifiche e sicure sino ad ieri. Questo ha aumentato enormemente il numero di persone coinvolte ed ha “abbassato” il livello sociale dei colpiti; a differenza di ieri quando erano pochi e benestanti quelli che dovevano guardarsi dal crimine, oggi sono milioni quelli più colpiti dalla insicurezza. Basta guardare al boom di voti di Alemanno nelle periferie romane che prima guardavano a sinistra per convincersi. In conclusione, anche se l’Italia ha tassi di criminalità non superiori alle medie europee, la condizione di insicurezza vissuta sulla pelle da milioni di cittadini è una nuova realtà che solo tardivamenente, e pochi a sinistra tra cui i sindaci di Bologna e di Padova, hanno colto nella loro gravità. Lasciando alla Lega e ad An un vantaggio difficile da colmare senza correzioni serie di politiche, di inclusione e di sinistra, ma efficaci nel rassicurare i cittadini.

Altra grossa mancanza delle nostre politiche è culturale: il ritardo di analisi, denuncia e cura delle crescenti iniquità che la globalizzazione e la finanziarizzazione stanno portando all’interno dei nostri Paesi. La globalizzazione ha ridotto i divari tra Paesi ma aumentato quelli all’interno dei Paesi. Il problema riguarda l’Italia ma non solo, anche l’America del presidente Clinton e la Gran Bretagna di Tony Blair poco o niente hanno fatto per ridurre la deriva dei divari crescenti di redditi e di ricchezza. Pochi dati per una realtà arcinota: in Italia, tra il 2001 ed il 2006 i salari reali non sono cresciuti mentre i profitti delle imprese sono raddoppiati. Il 5,3% di aumento reale del Pil in quel periodo sono andati tutti a profitti e rendite. Naturalmente la distribuzione di ricchezza tra benestanti da un lato e operai e ceti medi dall’altro ne ha sofferto, secondo la Banca d’Italia il 10% delle famiglie oggi possiede quasi il 50% della ricchezza nazionale. Negli Usa tra il 1980 e il 2000 i guadagni dei dirigenti sono passati da 30 volte a 120 volte quelli medi (Economist, 20 gennaio 2007). Tony Blair ha battuto ogni record: nei suoi 11 anni di governo i patrimoni dei 1000 inglesi più ricchi, stazionario sotto la Thatcher, è addirittura quadruplicato (Sunday Times, cittato su Repubblica del 28 aprile).

Se operai e ceti medi vedono i loro redditi peggiorare e quelli di ricchi e super ricchi crescere, ma perché mai devono votare a sinistra?

Non è giusto dire che l’equità aveva lo stesso peso nei programmi del Pd e del Pdl. È giusto dire che sia nei comportamenti concreti della Casta - tutti hanno votato scala mobile e altri privilegi dei parlamentari - sia nel dibattito politico elettorale, il tema dell’equità sociale non è apparso centrale né nei comizi, tantomeno nell’azione di governo. Oggi che molte differenze tra destra e sinistra non sono più rilevanti come ieri, si pensi alla sicurezza, la coesione sociale e l’equità sono tra le poche differenze identitarie da far emergere con molta più determinazione e chiarezza di prima.

Pubblicato il: 30.04.08
Modificato il: 30.04.08 alle ore 8.14   
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Titolo: Federalismo con garante al Quirinale
Inserito da: Admin - Aprile 30, 2008, 11:32:19 pm
30/4/2008
 
Federalismo con garante al Quirinale
 
 
GIOVANNI GUZZETTA*
 

Il ministero per le Riforme a Bossi suggella lo straordinario successo elettorale della Lega e ne conferma il principale contenuto programmatico: un federalismo spinto. Sono vent’anni che la Lega calca la scena politica. Ha ottenuto indubbi successi, ma il cuore della battaglia per il decentramento non è ancora stato raggiunto. Solo il «federalismo fiscale» sembra poter soddisfare l’obiettivo di imprimere al nostro regionalismo una svolta in senso competitivo, differenziato, eventualmente anche asimmetrico. Tra i possibili modelli, il federalismo «competitivo» è senz’altro il più «centrifugo». Spinge molto verso concorrenza e differenziazione territoriale. I suoi teorici confidano che ciò crei degli shock positivi che, alla lunga, avvantaggino tutti. Non entro nel merito politico della questione. Constato che questa prospettiva è perseguita da Bossi ormai da anni e che essa ha dalla sua almeno un argomento: dal 2001 l’art. 119 Cost. (sulla fiscalità locale) non ha ancora ricevuto attuazione.

Ci sono due modi per affrontare questa sfida. Il primo è difensivo. Arginare il più possibile il cammino riformistico. È, a mio parere, una strada perdente. Rischia di produrre l’ennesima riforma frutto di veti incrociati, una soluzione né carne né pesce, che costringerebbe così la Corte costituzionale a rattoppare i vari pasticci, come fa ormai da anni. La seconda strada è quella di «andare a vedere» e promuovere un federalismo funzionante, partendo da una seconda Camera che offra alle spinte territoriali un luogo per fronteggiarsi ed equilibrarsi a vicenda. Il solo dossier «federalismo» però non basta a scongiurare aggressive spinte centrifughe. La storia costituzionale insegna che le esperienze federali e regionali funzionano se alla dinamica del decentramento corrisponde un solido impianto delle istituzioni nazionali. In Italia questo solido impianto non esiste, così come non c’è un sistema partitico stabilizzato.

La fragile semplificazione politica, risultata dalle ultime elezioni, non basta né per evitare l’instabilità né per contenere le spinte al decentramento estremo. Il rischio di sfaldamento politico e sfilacciamento economico-territoriale è in agguato. La Francia è un esempio di coesione istituzionale. Attraverso riforme istituzionali ben congegnate ha guarito, più di 40 anni fa, il sistema politico dalla malattia dell’instabilità congenita. La stessa che ha l’Italia. Anche molti ordinamenti federali o regionali (come gli Usa) si sono orientati verso meccanismi di legittimazione immediata dei vertici istituzionali. Paesi come il Belgio, all’opposto, rischiano di continuo che l’instabilità governativa si saldi con le spinte secessionistiche, con conseguenze imprevedibili.

Per l’Italia di oggi c’è una via maestra per perseguire questa coesione istituzionale. Consiste nell’elezione diretta del titolare dell’indirizzo politico, possibilmente del Presidente della Repubblica. Un Capo dello Stato legittimato direttamente dai cittadini (con un Parlamento conseguentemente rafforzato) è la più sicura garanzia per preservare l’unità nazionale e dare continuità all’indirizzo di governo, sperimentando contemporaneamente un federalismo avanzato. Varie personalità del riformismo si sono pronunziate per il modello francese. E alle elezioni entrambi gli schieramenti hanno avuto il merito di guidare i partiti verso scelte coraggiose. Bisogna perseverare in quel coraggio e dar vita a una grande e organica riforma dello Stato che lo attrezzi per le sfide che da tempo ci sono state lanciate sullo scenario globale. Ci troviamo nella fortunata circostanza che il mandato dell’attuale Presidente della Repubblica finirà insieme con quello del Parlamento appena eletto. Approvando la riforma subito, il prossimo Presidente potrebbe essere scelto non dal futuro Parlamento, ma dai cittadini tutti.

* Presidente del Comitato promotore dei referendum elettorali
 
da lastampa.it


Titolo: Sabina Guzzanti: sulla stampa Grillo sbaglia
Inserito da: Admin - Maggio 01, 2008, 07:39:13 pm
Sabina Guzzanti: sulla stampa Grillo sbaglia

Toni Jop


Le ragioni della sinistra, le ragioni del paese, le ragioni di Roma, le ragioni della democrazia: dunque, vediamo, al momento di questo repertorio non ci resta granché. Certo, sono cose che non muoiono mai ma, come si diceva, in scaffale c’è quasi niente in attesa di nuovi arrivi.

Se crede, abbiamo tuttavia a disposizione Le ragioni dell’aragosta le quali, non sarà Das Kapital e nemmeno i Quaderni del carcere, a detta di molti non sono così lontane dalle nostre. Certo si tratta di un film, con tutti i limiti delle immagini rispetto alla infinita duttilità della parola ma, si fidi, ne trarrà beneficio poiché illustra con stile garbatoamaro un problema politico dei nostri giorni: come articolare un’azione collettiva che punti a cambiare la realtà in assenza di riferimenti organizzativi di massa. Contando, ovviamente, sugli affetti e sulla condivisione. Fine del gioco, speriamo che a Sabina Guzzanti, regista del bel film ora venduto in Dvd, sia d’accordo con lo spot perché, a volte basta niente, non ci va di starle sulle balle, non ci va soprattutto di fare la fine delle compagne aragoste. Intanto, eccovi Sabina Guzzanti, la regista, autore di satira messa fuori da tutte le tv del regno dai tempi del Primo Impero dei Biechi Blu.

Ecco la prima domanda banale, oggi una specie di bestemmia, se ci pensate, in questi tempi che, tra una sberla e l’altra, hanno omologato il feeling della sinistra all’altezza del locale delle caldaie: come stai?
«Ah, bene, tutto sommato bene. Anzi, direi bene...»

Ok, sei matta come un cavallo...
«Forse sì e forse no. Dopo i risultati elettorali ho visto in tv un bel po’ di gente di sinistra sorridente, senza tracce di un qualche colpo ricevuto. L’altra sera ho rivisto persino Lucia Annunziata in un brodo di giuggiole. Non capisco allora perché noi dovremmo farci il sangue cattivo...»

Ho visto anch’io, da Vespa, scene di una gioia di sinistra, sincera, stabile come un bel giorno di primavera. Beati loro...
«È gente contenta perché in Parlamento si sta bene. Soldi e garanzie, è umano essere contenti. Del resto anch’io, come ti ho detto, sto bene, è come se fossi insensibile...

Sarà per le troppe botte...
«Neanche per sogno. Siamo al capolinea e sono di buonumore, ora diventerà d’obbligo riflettere su cosa significhi oggi essere socialisti...»

E chi se lo immaginava che eri iscritta alla sezione Rosa Luxemburg? Insomma te lo aspettavi che le cose andassero come sono andate...
«Esatto. Lo sapevo che sarebbe successo...»

La prossima volta, via Mannheimer e le sue tabelle e dentro Sabina con le sue profezie, comprese le aragoste...
«Ripeto: era nell’aria, un passo necessario, ora sarà il caso che nascano nuovi soggetti politici...»

Ancora? Magari c’è già qualcuno pronto a celebrare i funerali della prima vera novità del panorama politico italiano, il Partito Democratico...e tu chiedi novità...A proposito: ricordo che avevi annunciato che non avresti votato, questa volta...
«E invece ho votato, anche Pd. Ma non lo voto più, non a queste condizioni. Per me, devono fare autocritica sia i dirigenti del Pd che quelli di Rifondazione: non mi risulta che si siano mai impegnati fino in fondo per far saltare la legge Gasparri, argomento che la sinistra ha accuratamente evitato. Sarà chiaro che una delle chiavi di questa sconfitta, forse la principale, è proprio l’informazione, o meglio la non informazione che ha investito la stragrande maggioranza dei cittadini? Nossingori: questa era la strada per definire l’identità del Pd, della sinistra in generale ma l’hanno evitata. In più, non puoi puntare a chiarire la tua identità ricorrendo al linguaggio della sicurezza che la destra ha elaborato sulla paura. Ma insomma...»

Per quanto riguarda il voto al Pd, sta tranquilla, non credo che te lo chiederanno a breve. Non vedi l’ora che facciano la festa a Veltroni?
«Per niente. Non sono d’accordo con chi addebita a Veltroni la responsabilità di quel che è accaduto. Anzi: era il meglio che si poteva avere, ma era solo, gli altri erano molto peggio e non si può costruire quella forza politica con un uomo solo. Rutelli è meglio che lo lascino stare, ha fatto le sue furbate tra pacs e fecondazione, non piaceva né a destra né a sinistra. Speriamo non lo riciclino, sarebbe una pessima mossa».

Forse non vedi l’ora che facciano la festa all’Unità. Tu che sei stata al primo V-Day e condividi la strategia del Grillo dovresti apprezzare la sua scelta di gettare ai pesci, come ha fatto in pubblico, anche questa testata accusata di succhiare vergognosamente denaro pubblico...
«Beh no. Intanto al secondo V-Day non c’ero e poi Grillo è Grillo e io sono io. Ha pregi e difetti. Su alcune cose concordo, altre non le condivido. Per esempio, sulla questione del finanziamento pubblico della carta stampata io sono perché sia confermato, che vada aggiustato in modo che non aiuti la sopravvivenza di finte testate. Anzi, mi piacerebbe che venisse spostata per legge molta pubblicità dalla tv alla carta stampata e la pubblicità è meglio dei soldi pubblici, non credi?»

Certo che sei dispettosa e impertinente. Col cavolo che torni in tv con questo carattere...
«Senti questa: stavo lavorando a una cosa su La7. Dopo le elezioni hanno mandato a casa il direttore e quindi...»

Poco male, puoi sempre contare sul pesce grosso, la Rai...
«Da dove manco dal 2003, come no. Però ho visto che riabilitano Saccà, ma è evidente che quello che ho fatto io è ben più grave di quello che ha fatto lui...».

Ora capisco il tuo buonumore: tra Berlusconi e Alemanno, Gasparri e La Russa così in prima fila, ti ritrovi un sacco di carne al fuoco, come e più che ai bei tempi. Hai visto qualcuno del nuovo serraglio di fronte al quale ti sei detta: orpo, questo è una miniera d’oro?
«È vero, son tornati. Mi ha colpito Giordano, il direttore del Giornale. Ma è fin troppo facile, un lavoro come si dice di bassa soddisfazione, in due settimane butto giù una sceneggiatura di cinque ore. Abbiamo tutto il tempo per fare le cose con calma».


Pubblicato il: 01.05.08
Modificato il: 01.05.08 alle ore 6.34   
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Titolo: Dalla parte dei salari
Inserito da: Admin - Maggio 01, 2008, 07:41:13 pm
Dalla parte dei salari

Giorgio Tonini


Ai cantieri navali di Fano, il settore che tira di più è quello degli yacht di lusso. Per comprare il modello più «economico» bisogna staccare un assegno da cinque milioni e mezzo di euro. E bisogna mettersi in fila, c’è da aspettare qualche anno. Perché nel mondo - solo due su dieci di questi giocattoli vengono comprati da italiani - per fortuna i ricchi aumentano.

Dico per fortuna non solo perché, come ci ha insegnato Olof Palme, dobbiamo combattere la povertà e non la ricchezza. Ma anche perché questi ricchi capricciosi consentono di vivere e prosperare ad una dinamica filiera di vivacissime medie imprese italiane, a loro volta traino di uno sciame di piccolissime aziende artigiane. La ristrutturazione del nostro sistema produttivo, in questi anni, è avvenuta proprio così: attorno a qualche migliaio di medie imprese che hanno imparato a nuotare nel mare aperto della globalizzazione, facendo della qualità la loro carta vincente e dell'integrazione con un alone di piccole e microimprese il loro nuovo modello organizzativo.

Gli operai dei cantieri di Fano guadagnano meno di mille euro al mese. Per comprare le favolose barche che producono non gli basterebbero 400 anni di lavoro. Molti di loro sono extracomunitari: e così il cerchio della globalizzazione si chiude. I poveri del mondo vengono da noi a produrre i giocattoli di lusso per i ricchi del mondo. Ma ci sono ancora tanti operai italiani. Per i quali è forse ancora più difficile vivere con quella cifra. Eppure, le indagini sociometriche ci dicono che la maggior parte di loro, in Italia, vota a destra. Quasi nessuno ha votato la Sinistra Arcobaleno. In tanti, ma minoranza, hanno votato il Pd.

Perché non abbiano votato la Sinistra Arcobaleno è presto detto. Perché parlare loro di lotta di classe, o di ripudio della globalizzazione, è semplicemente insensato. Loro vivono di globalizzazione. Ed hanno interiorizzato, tanto più quanto più l’impresa in cui lavorano è piccola, la cultura delle compatibilità. Sanno bene che se vai fuori mercato ti devi cercare un altro posto di lavoro e difficilmente lo troverai a condizioni migliori. La battuta di Bertinotti contro Veltroni che aveva annunciato la candidatura dell’operaio della Thyssen e del giovane imprenditore («uno dei due è di troppo») alla loro concreta esperienza di vita non dice nulla, è vuota ideologia.

Dall’altra parte, la destra propone loro la detassazione degli straordinari e magari, un domani, delle tredicesime. Solo gli straordinari, sono quasi uno stipendio l’anno in più. Quattro miliardi di euro l’anno, a favore del lavoro. A noi democratici non piace questa soluzione, perché frammenta il mondo del lavoro, identifica l’aumento di produttività solo con l’aumento di orario, perché è tendenzialmente unilateralista, cioè ignora o quanto meno marginalizza la contrattazione collettiva e perché, come ha bene evidenziato Pietro Ichino, è pure maschilista, dato che gli straordinari li fanno quasi solo gli uomini e quasi mai le donne. Ma a molti operai la proposta della destra è piaciuta e piace, perché ha il pregio di essere terribilmente concreta.

La nostra proposta è certamente migliore: è la proposta di riformare la struttura delle relazioni industriali, enfatizzando il ruolo della contrattazione di secondo livello, aziendale e territoriale, l’unica in grado di incentivare la produttività, di concepirla non come mero aggravio del tempo di lavoro, ma come miglioramento della sua qualità, e di ridistribuirla, destinandone una quota significativa al salario e non solo al profitto. Ma la nostra proposta ha un difetto, che è poi anche il suo pregio: presuppone un accordo tra le parti sociali, un impegno in prima persona del sindacato e poi anche un nuovo modo di contrattare, più aderente ai luoghi di lavoro e quindi allo stesso tempo più democratico e più competente. Ce la faremo a dimostrare ai lavoratori italiani che la proposta migliore può essere anche concreta e che loro non devono scegliere tra l’uovo oggi e la gallina domani? Questa è la sfida dinanzi alla quale ci troviamo. Questa è la strada da percorrere per conquistare i consensi che ci mancano, anche nel mondo del lavoro, che non è più altra cosa dal mondo dell’impresa. Auguriamoci, in questo Primo Maggio, di riuscire insieme ad esserne capaci.

Pubblicato il: 01.05.08
Modificato il: 01.05.08 alle ore 6.33   
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Titolo: Berlusconi convince Montezemolo. Sarà ambasciatore del Made in Italy
Inserito da: Admin - Maggio 01, 2008, 09:58:01 pm
POLITICA

L'ex presidente di Confindustria collaborerà con l'esecutivo "per spirito di servizio"

Proseguono a ritmo frenetico gli incontri per la formazione del governo

Berlusconi convince Montezemolo

Sarà ambasciatore del Made in Italy

 
ROMA - Ambasciatore del Made in Italy nel mondo: questo, nelle intenzioni di Silvio Berlusconi il futuro di Luca Cordero di Montezemolo. Il leader del Pdl, che lo avrebbe voluto nel suo governo, ha modificato la sua proposta. E oggi, dopo un incontro a Palazzo Grazioli, l'ex presidente di Confindustria ha dato la sua disponibilità a collaborare "per spirito di servizio" con l'esecutivo. Per il Cavaliere, dal punto di vista dell'immagine, è comunque un bel risultato. Intanto proseguono con ritmo frenetico gli incontri per definire la squadra dei ministri.

L'accordo è stato trovato nel pomeriggio. Berlusconi ha illustrato a Montezemolo il programma che intende portare avanti nei primi cento giorni: detassazione degli straordinari, abolizione dell'Ici ed altri provvedimenti ribaditi in campagna elettorale. Poi i due hanno parlato della creazione di una figura capace di rappresentare ai massimi livelli il nostro Paese, i suoi prodotti e il suo stile nel mondo: una sorta di ambasciatore del Made in Italy e dell'Italia. Un incarico non ufficiale e nemmeno di governo. Una sorta di collaborazione super partes con l'esecutivo. "Sarai il nostro fiore all'occhiello nel mondo, con i successi che hai riportato", ha detto il presidente del Consiglio in pectore. E Montezemolo, "per spirito di servizio", ha garantito la sua disponibilità ad assumere questo ruolo.

Sono giornate intensissime per il leader del Pdl. E i numerosi incontri non sono certo semplici da gestire, anche per un politico navigato come il Cavaliere. ''Ci sono da dire tanti no, ed è una cosa dolorissima'', ha confessato Berlusconi.

Oggi il presidente del Consiglio in pectore ha avuto numerosi faccia a faccia con gli esponenti dei partiti della coalizione. La vittoria a Roma di Gianni Alemanno, possibile ministro del Welfare, ha creato qualche tensione con An. Il partito di Fini, che dovrebbe piazzare Altero Matteoli alle Infrastrutture, Ignazio La Russa alla Difesa e Adriana Poli Bortone alle Politiche comunitarie o alle Pari opportunità, non chiede necessariamente quel Ministero, ma rivendica comunque un incarico di pari importanza. In alternativa, la rinuncia sarebbe compensata in qualche modo con una più nutrita pattuglia di viceministri.

La Lega ostenta sicurezza. Umberto Bossi garantisce che la squadra padana è fatta e non cambierà. Maroni andrà al Viminale, Roberto Calderoli (o lo stesso Bossi) alle Riforme e Luca Zaia all'Agricoltura. Roberto Castelli, invece, dovrebbe fare il viceministro alle Infrastrutture con delega al Nord.

Tra i forzisti, punti fermi del prossimo esecutivo restano Gianni Letta, come sottosegretario unico a Palazzo Chigi, Giulio Tremonti, come ministro dell'Economia e Franco Frattini agli Esteri. Claudio Scajola dovrebbe tornare alle Attività produttive, anche se non è escluso un suo incarico come ministro della Giustizia, dove resiste anche la candidatura di Elio Vito. Se non dovesse diventare guardasigilli, l'ex capogruppo di Forza Italia andrebbe ai Rapporti con il Parlamento al posto di Paolo Bonaiuti, che diventerebbe portavoce del governo.

Tra le caselle date per sicure, Mariastella Gelmini all'Istruzione e Sandro Bondi ai Beni culturali. Michela Brambilla resta in corsa per il ministero dell'Ambiente, Stefania Prestigiacomo è in bilico tra le Politiche comunitarie e il rientro alle Pari opportunità. Alla Famiglia dovrebbe andare Mara Carfagna, mentre la Salute, tramontata l'ipotesi Maurizio Lupi, potrebbe andare ad un tecnico. Quanto a Roberto Formigoni, il governatore della Lombardia rimarrà al suo posto, ma sarà anche vicepresidente di Forza Italia con la promessa di una ricandidatura nel 2010.

(30 aprile 2008)

da repubblica.it


Titolo: Il liberismo e la speranza
Inserito da: Admin - Maggio 02, 2008, 10:50:25 am
Occasioni perdute

Il liberismo e la speranza

di Francesco Giavazzi


Da una quindicina d’anni su questo giornale mi batto per il mercato, per le liberalizzazioni, per uno Stato meno invasivo. Sostengo i benefici della concorrenza e dell’apertura agli scambi, non per scelta ideologica ma perché penso che mercati aperti e concorrenza siano lo strumento per sbloccare un Paese nel quale la mobilità sociale si è arrestata e il futuro dei giovani è sempre più determinato dal loro censo, non dal loro impegno o dalle loro capacità. Nel frattempo nel mondo sono successe alcune cose. La globalizzazione dei mercati ha consentito a mezzo miliardo di persone di uscire dalla povertà: nel 1990 le famiglie in condizioni di povertà estrema erano, nel mondo, una su tre; oggi poco meno di una su cinque.

Ma con la globalizzazione si sono accentuate le diseguaglianze, soprattutto nei Paesi ricchi e poco importa che il motivo non siano le importazioni cinesi, ma piuttosto le nuove tecnologie che premiano chi ha studiato e penalizzano il lavoro non specializzato. (Negli Stati Uniti il salario orario di un lavoratore che ha smesso di studiare a 16 anni nel 1972 era, ai prezzi di oggi, 15 dollari; 11 nel 2006. Quello di un laureato è invece aumentato da 24 a 30 dollari l’ora). Come osservavano già tre anni fa Massimo Gaggi e Edoardo Narduzzi («La fine della classe media») in occidente è sparita la classe media tradizionale, quella che per mezzo secolo è stata il collante del sistema politico: al suo posto è nata una società nella quale chi ha scarsa istruzione è angosciato e cerca qualcuno che lo protegga. E non sempre il mercato dà buona prova di sé. Negli Stati Uniti è inciampato in un paio di infortuni.

Nel 2002 le frodi degli amministratori di Enron, Tyco e WorldCom. Oggi la crisi innescata dai mutui «subprime»: se non fossero tempestivamente intervenute le banche centrali, cioè lo Stato, i mercati rischiavano di precipitare. Talora un mercato neppure esiste, come nel caso dell’energia: prezzi e forniture di gas — l’80% dell’energia utilizzata in Italia—sono determinati da un cartello dominato dalla Russia. Pensare di aprire quel mercato alla concorrenza è un’illusione un po’ infantile, almeno fino a quando non avremo costruito una decina di rigassificatori e ci vorranno, se tutto va bene, un paio di decenni. La Cina non consente che il valore della sua moneta sia determinato dal mercato. Per mantenere un tasso di cambio sottovalutato accumula una quantità straordinaria di euro e di dollari. La crescita cinese continua a dipendere dall’industria e dalle esportazioni. A parole il partito comunista si dice preoccupato della crescente diseguaglianza, ma poi non fa quasi nulla per correggere il tiro e spingere la domanda interna, soprattutto i servizi, in primis la sanità. Sempre più i mercati aperti spaventano gli elettori. Nella campagna elettorale americana sia Obama che Hillary Clinton parlano con accenti critici della globalizzazione e si guardano bene dall’attaccare i sussidi pubblici che rendono ricchi gli agricoltori Usa a spese del resto del mondo, ad esempio dei coltivatori di cotone egiziani.

In Francia Sarkozy a parole (e non sempre) predica il mercato, ma provate ad aprire una linea aerea e a chiedere uno slot per un volo Linate-Charles De Gaulle: lo otterrete, ma alle 6 del mattino. La maggioranza degli italiani ha votato per un candidato, Silvio Berlusconi, che si è impegnato a salvare — con denaro pubblico — un’azienda che perde un milione di euro al giorno: non ho visto nessuno sfilare perché le nostre tasse vengono usate per tenere in piedi un’azienda da anni decotta. (Ho invece visto i tassisti romani festeggiare il nuovo sindaco della città che due anni fa aveva manifestato solidarietà per la violenta protesta dei tassisti contro le liberalizzazioni di Bersani). Insomma, il mondo sembra andare in una direzione diversa da quella auspicata da chi, come me, vorrebbe meno Stato e più mercato. I cittadini non sembrano preoccuparsene: anzi, premiano chi promette «protezione» dal vento della concorrenza. Che cosa non abbiamo capito, dove abbiamo sbagliato? Alcuni ritengono che il problema nasca dall’errato accostamento di «concorrenza » e «mercato».

Concorrenza significa regole: in assenza di regole non è detto che il mercato produca una società migliore di quella in cui vivremmo se venissimo affidati ad uno Stato benevolente. Affinché il mercato, la globalizzazione diventino popolari è necessario «governarli». E’ certamente vero, ma anche un po’ illuminista. Vedo anti-globalizzatori che occupano le piazze, ma non vedo cittadini che manifestano perché il Doha Round non fa un passo. La decisione dei capi di Stato dell’Ue di cancellare la concorrenza dai principi irrinunciabili stabiliti dal nuovo Trattato europeo è passata inosservata. Insomma, non mi pare che i cittadini reclamino più regole: la protezione che chiedono —e che alcuni politici promettono—è quella dei dazi e dei vincoli all’immigrazione, non l’antitrust. A me pare che i liberisti debbano porsi un compito più modesto: spiegare ai cittadini che l’alternativa al mercato, al merito, alla concorrenza è una società in cui i privilegi si tramandano di generazione in generazione, i fortunati e i prepotenti vivono tranquilli, ma chi nasce povero è destinato a rimanerlo, indipendentemente dal suo impegno e dalle sue capacità. Convincerli che il modo per difendere il proprio tenore di vita è chiedere buone scuole, non dazi.

Il «miracolo economico» italiano degli anni ’50 e ’60 fu il frutto del mercato unico europeo (e della lungimiranza di alcuni leader della Democrazia Cristiana che alla fine della guerra capirono l’importanza di entrare subito nella Cee). La caduta delle barriere doganali e l’ampliamento della domanda consentirono alle nostre imprese di allargare le fabbriche e raggiungere una dimensione che ne determinò il successo. La crescita tumultuosa di quegli anni creò opportunità per tutti. Non ho dati, ma penso che se qualcuno allora avesse chiesto agli italiani che cosa pensavano dell’apertura degli scambi, la maggior parte avrebbe risposto favorevolmente. L’Europa di allora è il Brasile, l’India, la Cina dei giorni nostri, ma i più oggi le considerano minacce, non opportunità. Mi pare che l’Italia si trovi in un «cul de sac». Da un decennio abbiamo smesso di crescere: dieci anni fa il nostro reddito pro-capite era simile a Francia e Germania, 27% più elevato che in Spagna, 3% più che in Gran Bretagna.

In questi anni abbiamo perso dieci punti rispetto a Francia e Germania, siamo stati raggiunti dalla Spagna e di nuovo superati dalla Gran Bretagna. Quando un Paese non cresce le opportunità scompaiono e ciascuno si tiene stretto quello che ha: mentre mercato, merito, concorrenza—i fattori la cui assenza è all’origine della mancata crescita—spaventano. I cittadini preoccupati chiedono protezione, qualcuno la promette e il Paese si avvita. (Il paragone, lo so, indispettisce, ma la storia del declino dell’Argentina —un Paese che ai primi del ’900 era ricco quanto la Francia—inizia, con Peron, proprio così). Il tentativo di convincere la sinistra che mercato, merito e concorrenza sono gli strumenti per sbloccare l’Italia—devo ammetterlo — è fallito. Con Prodi la sinistra ha perso un’occasione storica: anziché sbloccare la società ha essa pure offerto protezione. Ma chi ha protetto? Non chi temeva la globalizzazione — che infatti si è fatto proteggere dalla Lega—ma il sindacato, anzi i suoi leader. Temo ci vorrà qualche legislatura per riparare questo errore.

I nuovi interlocutori dei «liberisti» (come sostiene da qualche tempo Franco Debenedetti) oggi sono i «protezionisti»: sbagliano la diagnosi, ma hanno saputo cogliere e interpretare meglio della sinistra le angosce di tanti cittadini. E tuttavia la risposta alla «mobilità planetaria» non può essere il congelamento della mobilità domestica. Una società congelata non solo è ingiusta: si illude di proteggersi, in realtà spreca le sue risorse migliori e deperisce. E’ un lusso che forse possono permettersi gli Stati Uniti: per l’Italia sarebbe un suicidio.

30 aprile 2008

da corriere.it


Titolo: «Il Fronte della gioventù ? Mi ha trasmesso valori. (??!! ndr).
Inserito da: Admin - Maggio 03, 2008, 10:45:38 am
«Il Fronte della gioventù ? Mi ha trasmesso valori. Nulla a che vedere con il fascismo»

Meloni: «Martiri anche le vittime del Fdg»

La deputata del Pdl: molti i nostri morti per cui la società non ha versato una lacrima

 
 
ROMA- «Anche i giovani militanti del Fronte della gioventù che morirono assassinati sono martiri dell'Italia, non della Destra». Lo ha detto la deputata del Pdl ed ex vicepresidente della Camera, Giorgia Meloni, da qualche anno uno dei nomi emergenti di An. «Se rinnegassi il Fronte della gioventù - ha spiegato la parlamentare intervenendo al programma web KlausCondicio - rinnegherei me stessa. Tutto ciò che mi porto dentro di pulito, di autentico, di ideale me lo ha insegnato il Fronte della Gioventù».


IL CASO DI NELLA - La Meloni è cresciuta nel movimento giovanile dell'Msi ed è stata al vertice del gruppo giovani di An. Conosce dunque bene la realtà di un movimento che, soprattutto negli anni settanta, è stato in dura contrapposizione con i movimenti studenteschi e i gruppi della sinistra. E tra i nuovi martiri la deputata pidiellina inserisce ad esempio Paolo Di Nella, rimasto nel cuore di molti militanti, a partire dal neosindaco di Roma, Gianni Alemanno, che porta al collo una collanina con la croce celtica che apparteneva proprio al giovane ucciso nel 1983, a colpi di spranga alla testa, mentre attaccava dei manifesti. «Fu ucciso a soli 20 anni - ha sottolineato la Meloni -, una morte ancora oggi rimasta impunita».


«IL FASCISMO? NON C'ENTRA NULLA» - La parlamentare ha poi spiegato cosa abbia significato per lei quell'esperienza politica. «Eravamo ragazzi con un'idea della ribellione finalizzata a costruire un mondo diverso, ragazzi che consideravano e considerano ancora il potere come uno strumento e non un obiettivo. Il Fronte della gioventù è la mia storia». «Per noi la violenza non è mai stata uno strumento dell'agire politico - ha aggiunto -. Al contrario c'è tanta nostra gente che si è dovuta difendere, poichè veniamo dalla storia di una comunità politica che, per un certo periodo del suo percorso, è stata considerata un bersaglio da tutti. La storia di quei ragazzi che morivano a 16 anni in mezzo alla strada ed era normale perchè ammazzare un fascista non era reato. Erano ragazzi nati nel 1965, venti anni dopo il fascismo, che non c'entravano nulla con il fascismo e per i quali la società non ha versato una lacrima. Io dico che storie analoghe ci sono state anche dall'altra parte della barricata e che solo oggi si sta rendendo giustizia a tutti quei ragazzi».


02 maggio 2008

da corriere.it


Titolo: Furti, stupri e altre percezioni
Inserito da: Admin - Maggio 04, 2008, 11:38:46 am
4/5/2008
 
Furti, stupri e altre percezioni
 
LORENZO MONDO
 

Ricordate? Fino a ieri, chi tendeva a minimizzare l’influenza dell’immigrazione incontrollata sulla criminalità, esortava a distinguere tra la realtà effettiva e la «percezione» che ne avevano i cittadini. Assegnando alla parola percezione un significato limitante, di sensazione avulsa anziché corroborata dai fatti, si finiva per accusare di imbecillità le persone che nei quartieri più poveri e disagiati ma anche nelle villette isolate del ceto medio, dovevano affrontare gravi problemi di ordine pubblico. Le aggressioni, i furti, il degrado ambientale, l’inosservanza discriminante delle regole (a partire dalla corsa in tram e autobus senza pagare il biglietto), il consiglio rivolto da carabinieri impotenti ai cittadini, di chiudersi in casa tra le inferriate...

Non erano e non sono ansietà generate dai pregiudizi e dai sogni. D’altra parte, cade in una patente contraddizione chi, commuovendosi per il presunto rigore della legge contro gli immigrati, è forzato a considerare che essi concorrono per un terzo a intasare le nostre carceri. Avviene forse per caso? I dati più recenti forniti dal ministero dell’Interno segnalano che negli ultimi mesi si è avuta ad opera degli stranieri un’impennata dei furti e delle rapine, e una crescita costante delle violenze sessuali.

Adesso, dopo il risveglio dovuto al terremoto elettorale, tutti sembrano prenderne atto. Quasi tutti, perché non manca chi si esibisce ancora in parole e ragionamenti strani. La violenza sulle donne? Non bisogna esagerare e gettare la croce sugli stranieri, tenendo conto che la maggior parte di questi reati si consumano tra italiani dentro le mura domestiche. Ma come si fa a tirare in ballo queste abiezioni sommerse, per lo più non denunciate, per sottovalutare quelle che avvengono per le strade e nei viali ad opera di estranei? E siamo sicuri che nelle famiglie degli immigrati, a qualunque specie appartengano, intercorrano rapporti immacolati? In ogni caso, ci troviamo di fronte a una sommatoria di reati ai quali non si deve concedere tregua. Distinguere e sottilizzare comporta una perversione del sentimento di equità e di tolleranza. Non finiscono di stupire, in materia così grave, gli esercizi sofistici che mal si distinguono da una irrimediabile insipienza.
 
 
da lastampa.it


Titolo: D'Alema chiude al dialogo: a destra logiche padronali
Inserito da: Admin - Maggio 05, 2008, 12:44:32 pm
Il centrosinistra «Clima bipartisan? Non è facile, l'esperienza è stata negativa»

D'Alema chiude al dialogo: a destra logiche padronali

Non si deve rincorrere il Pdl sulla sicurezza. Sul Pd: bisogna allearsi, con il 33% non si è autosufficienti


ROMA — Massimo D'Alema, ovvero la voglia di voltare pagina. Lo fa capire con chiarezza riuscendo ad infilare, incalzato da Lucia Annunziata a In mezz'ora, tutto ciò che voleva dire sulla crisi del centrosinistra. E del Pd. Partito, certo, che è anche il suo. Ma al momento soprattutto di Walter Veltroni. E dice cose che non faranno tanto piacere al segretario del Pd, in particolare quando fa notare che una forza che naviga attorno al 33 per cento «non può essere autosufficiente », ma deve allearsi. E quando sostiene che si è sbagliato a rincorrere la destra sul tema della sicurezza. L'analisi del voto la fa subito, senza giri di parole: «La sconfitta è stata grave». E non ci si illuda su facili inversioni di rotta: «La crisi è di lungo periodo perché la sintonia tra Berlusconi e il Paese, cominciata nel '94, non è mai finita. Serve quindi avviare una riflessione approfondita». E qui si toglie il primo sassolino dalle scarpe: «Peccato che fino a poco tempo fa quando dicevo queste cose venivo coperto di insulti».

Come quando, aggiunge, sosteneva un'altra cosa, in questo caso sulla Lega: «Per 15 anni ho detto che era una costola del mondo operaio e sono stato attaccato con durezza. Adesso, leggo, hanno scoperto che gli operai votano per la Lega». Fatto sta che ora al potere c'è proprio il Carroccio insieme al Pdl e che bisogna capire come contrastare questo blocco. D'Alema non è affatto convinto che con Berlusconi si possa instaurare facilmente un clima bipartisan per le riforme: «L'esperienza che ho avuto è stata negativa. Del resto la destra una visione padronale delle istituzioni. È come un istinto, non so se riusciranno a dominarlo». E il Cavaliere viene definito «capo dei poteri deboli », dato che «in Italia il capitalismo non è riuscito ad esprimere poteri forti». La strategia per vincere deve quindi cambiare.

Via allora alle alleanze con le altre forze dell'opposizione, che in pratica si riducono in Parlamento alla sola Udc (a parte Di Pietro con il quale il Pd si è presentato alle ultime politiche). È qui che cominciano le critiche più severe a Veltroni: «Bipolarismo non significa necessariamente bipartitismo. Anche il Pdl senza la Lega non avrebbe vinto. Dove si vota con un sistema basato sulle coalizioni chi ha il 33 per cento sbaglierebbe se alla vigilia del voto sostenesse l'autosufficienza ». E la sinistra radicale? Occorre un dialogo: «Non è più in Parlamento, ma non è scomparsa. Si tratta di una forza elettorale di circa tre milioni di voti che si è dispersa in parte anche nell'astensione. Le cose che hanno radici nel Paese non scompaiono».

Ma, soprattutto, bisogna cambiare discorso. Ad esempio, sulla sicurezza, guai a rincorrere lo schieramento opposto: «Quando si diffonde un sentimento di paura, se la risposta è la repressione e la chiusura, la destra è sempre più credibile di noi, anche se le soluzioni che offre sono illusorie. A noi spetta invece di costruire un'altra risposta che si basi sull'integrazione e il governo dei flussi di immigrazione». Alla fine il ministro degli Esteri (ancora per pochi giorni) torna sugli attacchi della Libia a Calderoli, ministro in pectore, ribadendo il «no» ad ogni ingerenza, ma precisando anche che nel 2006 il leghista sbagliò ad indossare quella maglietta con una vignetta anti-islamica. Il futuro di Massimo D'Alema? «Non sono antagonista di nessuno, non aspiro a cariche. Voglio solo esprimere ed esprimerò le mie opinioni». Fatto che forse lo rende ancora più «pericoloso » per chi nel suo partito la pensa diversamente.

Roberto Zuccolini
05 maggio 2008

da corriere.it


Titolo: Alemanno nei luoghi della memoria "La Resistenza non si discute"
Inserito da: Admin - Maggio 05, 2008, 10:58:17 pm
POLITICA

Tour del sindaco nei posti simbolo di Roma, omaggio alle Fosse Ardeatine

"Condannare qualsiasi forma di estremismo ideologico e totalitarismo"

Alemanno nei luoghi della memoria "La Resistenza non si discute"

E sulla Festa del cinema: "Scriverò ad ambasciatore Usa, nessuno vuole autarchia"

 
ROMA - "I valori della Resistenza non si discutono, sono valori di libertà contro gli occupanti. Non c'è nessuna polemica, ma grande rispetto e radicamento". Il neosindaco di Roma, Gianni Alemanno, un passato nell'Msi e un presente nella destra sociale di An, parla così di quanti sono caduti durante la lotta di Liberazione dal nazifascismo. Ma il primo cittadino respinge al mittante anche le accuse di "liste nere" per le star hollywoodiane, a proposito della Festa di Roma.

Sulla Resistenza/1. "I valori della Resistenza - continua Alemanno dopo aver deposto una corona di alloro ai piedi del monumento di Porta San Paolo - non devono essere messi in discussione dalle opere di chiarimento storiografico e di ricucitura nazionale, perché sono fondativi della Costituzione. Credo che ciò che ho detto sia condiviso da tutta An. Nella destra italiana non esiste spazio per la difesa del totalitarismo". Per il sindaco, però, bisogna anche fare luce sulla "componente dell'odio e della guerra civile, condannando gli abusi che furono fatti da tutte le parti". Senza però mettere in discussione i valori della Resistenza "che sono costitutivi della stato repubblicano".

Sulla Resistenza/2. Dopo l'altare della Patria e Porta San Paolo tocca alle Fosse Ardeatine, altro luogo simbolo. Alemanno le definisce "una ferita nel cuore di Roma", un richiamo "di quello che accade in una città quando perde la libertà e la capacità di autogoverno. Ecco perché dobbiamo essere presenti qui e rinnovare la memoria". Anche scrivendo nel registro delle presenze "mai più Roma dovrà subire questa aggressione. In ricordo di tutti i martiri".

Sul Papa. Nel corso del suo giro per rendere omaggio ad alcuni dei luoghi simbolo, Alemanno dice la sua sul rapporto con il Vaticano, capitolo di importanza cruciale per un sindaco della capitale: "Ho una grandissima stima nei confronti di Papa Ratzinger e penso che il rapporto tra il sindaco della città di Roma, il Vaticano e tutto il mondo cattolico, vada profondamente ricostruito dopo tante tensioni e difficoltà".

Sulla comunità ebraica. Poi è la volta della sinagoga. Dopo le polemiche in campagna elettorale Alemanno trova ad attenderlo il presidente della comunità ebraica di Roma Riccardo Pacifici. "Noi riconosciamo alla Comunità ebraica il ruolo di coscienza di Roma, di memoria e di presenza di tutti quelli che sono stati i momenti terribili di questa città" dice il sindaco.

Sui fatti di Verona. L'attualità incalza. E il brutale pestaggio di Verona consegna ad Alemanno l'occasione per condannare "qualsiasi forma di estremismo ideologico a prescindere dalla parte da cui proviene. Ci sono frange estremiste a destra come a sinistra ma sono più espressione di emarginazione urbana che di vera politica. Faremo di tutto perchè la violenza politica scompaia definitivamente da tutte le nostre città. Da Verona come da Roma".

Sul cinema. Ecco le parole di Alemanno sulla questione: "Scriverò oggi una lettera sia all'ambasciatore degli Stati Uniti, sia al Corriere della Sera - dichiara, incalzato dai cronisti - per spiegare che nessuno vuole l'autarchia cinematografica".

(5 maggio 2008)

da repubblica.it


Titolo: Roberto Cotroneo. Il salotto immaginario
Inserito da: Admin - Maggio 05, 2008, 11:09:41 pm
Il salotto immaginario

Roberto Cotroneo


Ernesto Galli della Loggia sul "Corriere della sera" indicava un elemento tra i motivi della sconfitta della sinistra: il fatto che il partito democratico sia "lontano dalle masse e vicino ai salotti". Galli della Loggia non è l’unico ad affermare questo; nei giorni scorsi tutti i commentatori, anche i più sofisticati, dopo aver fatto analisi del voto attente e puntuali, aver controllato seggi e tessuti sociali, centro e periferie, alla fine questa frasona, diciamo così, l’hanno tirata fuori. Come un dato incontrovertibile, come un fatto che si spiega da sé. I salotti. La sinistra va nei salotti e non si occupa del popolo, delle masse e dei poveretti. E i salotti, a furia di frequentarli, si finisce che un po’ anche ti rimbambiscono.

Perché sono come corti di Bisanzio: molli, tentatori, ambigui, zeppi di intellettuali che si trascinano da un divano all’altro, mangiando la solita tartina, quel "Gauche Caviar", quel "Toskaner Fraktion" che alla sinistra non fa bene. E certo poi che in realtà cosa vai a lamentarti dopo. Se sei abituato a frequentare solo intellettuali raffinati, a fare il cicisbeo tra una terrazza al Pantheon e una a piazza san Babila, passando per qualche giardino sul mare di Capalbio, poi è ovvio che vincono quegli altri. Che invece loro non fanno salotto, neanche sulle sedie provano a poggiarsi. Nel centro destra bevono solo Tavernello: sono veri, popolari, conoscono tutte le strade nome per nome delle periferie delle grandi città, peggio di un Tom Tom, che sanno che cosa è la gente, quella vera. Non sono dei ricchi camuffatti da intellettuali di sinistra.

Ora, l’analisi della sconfitta della sinistra è una cosa seria. E Galli della Loggia ha ragione a dire che la sinistra italiana, nei suoi vertici, è sempre stata élitaria e molto borghese. E non valeva solo per il Pci, ma anche per il gruppo del Manifesto e persino per i gruppetti di Lotta Continua.

Ma i salotti per favore no. Quelli non ci sono. Diciamolo a chi ci legge e che magari vive a Domodossola o a Potenza. I salotti, le terrazze, i giardini sul mare, tutta questa roba qui, non esiste nel modo in cui è descritta. Tutto parte dalla "Terrazza" un bel film di Ettore Scola, datato 1980, dove si faceva il verso, con ironia e intelligenza, a un certo mondo intellettuale italiano, che in quegli anni si frequentava, si vedeva, perché alla fine degli anni Sessanta e negli anni Settanta, esisteva un’intensa vita culturale e sociale nel nostro paese. Allora poteva accadere che in cene allargate di amici, accanto ad Alberto Moravia o a Enzo Siciliano, o a Mario Schifano, o a Bernardo Bertolucci, capitasse anche il politico o l’alto dirigente di partito. Capitava di assistere a discussioni e dibattiti come ai soliti birignao.

Poi tutto questo via via è andato sfumando. I salotti, quelli dove si ritrovano potenti, e algidi intellettuali della sinistra sono scomparsi. E l’unica notizia di salotti che possediamo, come una sorta di mitologia, è quello di Maria Angiolillo a Roma, ai piedi di Trinità dei Monti. Salotto immortalato, da un grande della fotografia di cronaca come Umberto Pizzi. Lì si che si vedono i politici, e talvolta qualche intellettuale di turno (quei pochi ancora non estinti) pronti a fermarsi davanti al flash del fotografo, a sancire che loro nel potere ci sono, che loro frequentano i luoghi giusti, e che loro contano. E se vi andate a vedere i reportage dei salotti di questi ultimi anni, utilizzando quella preziosa fonte di informazione che è Dagospia, il sito di Roberto D’Agostino, troverete che questi signori sono quasi tutti di destra: politici di destra, potenti di destra, e via dicendo.

Di salotti di sinistra non se ne vede uno. In compenso di feste di destra è pieno lo stivale: con ricevimenti, balli & sballi scatenati, champagne senza barbera, cibo in quantità, acconciature improbabili, balconate a vista delle signore, perizomi e tanga en plein air, sguardi alcolici già a metà serata, nodi delle cravatte troppo allentati.

E alla fine sono sempre gli stessi. Gente che ha vinto le elezioni perché non è elitaria, non è triste e pensosa, non scrive libri, e non collabora a seriosi convegni, ma che sulle periferie e la gente si è distratta almeno quanto il centro sinistra. Perché, eccetto Alemanno che per adesso alle feste non si è visto, tutti gli altri ci sono: da An a Forza Italia, ça va sans dire, fino alla Lega Nord, che a Ponte di legno non si sa come gozzoviglia, ma a Roma certo non si distingue da tutti gli altri e al suo nord est ci pensa quanto basta. Al punto che ormai si fanno le mappe sul dove si possono trovare a cena i dirigenti di An, e non si è visto un solo ristorante del Tiburtino, o di Tor Bella Monaca, note zone periferiche della capitale, ma semmai posticini da 250 euro a testa, dove notoriamente si incontrano cittadini disagiati che ti spiegano i loro perché, e le loro sofferenze.

Intanto Gianfranco Fini viene fotografato mentre si fa qualche giorno al Luxury Hotel Quisisana di Capri, e mentre la sinistra ripassa l’opera omnia di Anthony Giddens con letture a voce alta in qualche misterioso salotto, a destra passano da Ischia a Capri, da Taormina a San Vito lo Capo, dall’Isola d’Elba a Portorotondo e a Cala di Volpe, dove le ostriche, come si sa, costano anche meno che nelle trattorie del Trullo (altro quartiere abbandonato dal salottismo di sinistra) e i millésime non sono più quelli di una volta, e qualche Cristal sa anche di tappo.

Nel frattempo però tocca sorbirsi pure questo tormentone di Capalbio e dell’Ultima spiaggia, la piccola Atene del Mediterraneo, terra di Achille Occhetto, di Alberto Asor Rosa, e di Claudio Petruccioli, oltre che di Francesco Rutelli e Ferdinando Adornato e un sacco di gente, che avendo casa a Roma ha finito per trovarsi un luogo di vacanza in un posto decente a circa due ore di macchina (se non c’è traffico). Si potrà anche pensare che c’è gente che va all’Ultima spiaggia per frequentare e conoscere, ma siccome (mi dicono) è un posto da trenta ombrelloni, il mare è così così, e il ristorante non è certo il "Gambero Rosso" di Pierangelini a San Vincenzo, non è che poi c’è proprio da sgomitare per andarci. Sarà per la linguina alle vongole di Capalbio che la sinistra ha perso le elezioni? E se così fosse, perché allora Geronimo La Russa, figlio di Ignazio, ha già dichiarato che espugneranno Capalbio? Cosa faranno? Verrà lanciata un’Opa degli ombrelloni? Con i furbetti del centro destra che rastrellano le prime file ?

Mentre si attende la scalata a Capalbio, a Roma ormai è ora dell’aperitivo, i salotti aprono attorno alle dieci della sera, e tutti i dirigenti della sinistra, oltre che i quadri medi, si preparano a tramisgrare per divani e terrazze, o prenotano ristoranti importanti e guardano con il solito disprezzo tutto il centro destra, che ora che ha vinto, è costretto a coccolare con l’attenzione che si merita il suo elettorato, prenotando mega sale da banchetti tutte rigorosamente negli hinterland più degradati, o come si direbbe a Roma, oltre il raccordo anulare. E dopo mezzanotte, finiti i gamberetti surgelati in salsa rosa, inizia l’altra salsa, quella che si balla, e se c’è tempo anche il trenino con la samba. E vai col tango. Direbbe Staino.

roberto@robertocotroneo.it


Pubblicato il: 05.05.08
Modificato il: 05.05.08 alle ore 8.20   
© l'Unità.


Titolo: Claudio Fava. Sd saprà capire e ricominciare?
Inserito da: Admin - Maggio 07, 2008, 04:26:07 pm
Sinistra democratica

Lun, 05/05/2008 -

Sd saprà capire e ricominciare?
 
di Claudio Fava*


E’ bene a Sinistra Democratica discutere su ciò che è accaduto e sulle cose che dovremo decidere. Ed è bene che ciò si faccia in punta di verità, affrontando intanto una domanda dolorosa ma necessaria: abbiamo fatto bene ad andarcene dai DS? A cercare una strada nostra e a rifiutare l’approdo ecumenico nel Partito Democratico?

Io sono convinto di sì. Il progetto del PD (e lo dico senza che ciò suoni da conforto per i nostri errori) ha rivelato le contraddizioni, le semplificazioni e le reticenze che avevamo previsto con largo anticipo. Se fossimo rimasti dentro, magari con il pretesto di dar vita alla sinistra del PD, oggi saremmo ridotti a una delle molte correnti incattivite di quel partito, accanto a veltroniani, dalemiani, amici di Letta, ex popolari, fedeli di Prodi e reduci di Rutelli. Roba da nozze con i fichi secchi.

Bene facciamo a non nutrire rimpianti. E bene faremo a non emulare il Pd nei sui vizi. Per cui, compagni e amici, facciamo sforzo di sincerità. Siamo rimasti – nelle forme organizzative, nei rapporti personali, nell’elaborazione della nostra attività – la mozione di minoranza di un partito (che nel frattempo aveva cessato di esistere). Di più. Siamo stati percepiti come una somma di mozioni: ci battevamo, con onesta generosità, per una sinistra unita e plurale ma intanto facevamo fatica a elaborare il lutto dai DS, dalle sue formule congressuali, dalle sue pratiche autoreferenziali. Abbiamo continuato a coltivare con religiosa sacralità i concetti di “area”, “sensibilità”, “componente”: categorie che forse un tempo hanno avuto una loro ragione d’essere, ma che oggi fanno parte di un malinconico rituale politico.

Sia chiaro: non si tratta di rifiutare una dialettica forte, vera e perfino aspra sulle cose da fare, sui gesti da compiere, sui riferimenti culturali e politici da assumere: si tratta di non incartare questa dialettica in un gioco delle parti. E’ ciò che ci mandano a dire gli elettori smarriti, quelli migrati altrove o rimasti a casa: dateci un segno che una nuova stagione della politica non sarà soltanto la somma di vecchie liturgie e di vecchi gruppi dirigenti. Ci chiedono un segno concreto che sappia mettere in discussione linguaggi, categorie, pratiche. Quel segno, diceva bene Carlo Leoni qualche giorno fa, passa anche attraverso la capacità di rivedere e di rilanciare le forme della partecipazione alla vita di Sinistra Democratica.

Ed è questo un punto discriminante. Di fronte al comprensibile passo indietro di Fabio Mussi dai ritmi e dalle responsabilità della sua funzione di coordinatore, vogliamo ridurre questa partecipazione a una frettolosa contabilità di assemblee locali per eleggere il nuovo coordinatore del movimento? Magari per tornare a contarci e ricontarci? Tutto qui? Credo che sarebbe ingeneroso nei confronti di Mussi, come se davvero il colpo d’ala di Sinistra Democratica sia legato alla scelta d’un nuovo “leader”, dimenticando che Fabio - responsabile come tutti noi per le scelte, i ritardi e gli errori di questa fase – più di noi ha saputo mantenere in questi mesi la linea di una assoluta, intransigente coerenza con il progetto fondativo del nostro movimento. Ma sarebbe ingeneroso anche nei confronti della nostra gente che chiede protagonismo e partecipazione sulla politica nel suo complesso. Sulle cose da fare. Sui terreni concreti su cui misurarsi. Sul modo di rendere il Sinistra Democratica un luogo inclusivo, aperto, contaminato e finalmente arricchito anche da chi non proviene dall’esperienza dei DS.

Partecipare vuol dire allargare, aprire, condividere. Anche per questo non mi riconosco più in un dibattito su quale debba essere la nostra tradizione politica di riferimento: se quella comunista, quella socialista, l’ambientalista… E’ un vecchio gioco, una collezione di nomi e di memorie che alla fine non produce nuova politica ma solo gestione dell’esistente. Qualcuno crede che verremo giudicati per un’astratta evocazione delle categorie del socialismo o del comunismo, o piuttosto per le scelte, i gesti, le azioni? A Vicenza s’è vinto non per aver messo al centro le proprie tradizionali appartenenze ma perché un candidato sindaco, e la coalizione che lo appoggiava, ha detto ciò che il governo Prodi non aveva saputo dire, ovvero sulla base militare di Dal Molin non decideranno gli americani ma i vicentini, con un referendum che restituirà a ciascuno di loro piena sovranità sulla loro vita.

E’ stata una battaglia ascrivibile al socialismo europeo? Alla falce e martello? Gli elettori non se lo sono chiesti. Si sono chiesti semplicemente se questa sinistra li avrebbe saputi tutelare e rappresentare di fronte all’arroganza di quella base.

Insomma, cari compagni, abbiamo o no l’umiltà e il coraggio di comprendere cosa ci sia dietro quel “tre” politico che ci è stato assegnato alle ultime elezioni? Gli italiani ci mandano a dire che questo è un paese diseguale, sgraziato, confuso, ingenuo, un paese di caste e non di classi, un paese in cui stanno male, malissimo, il laureato disoccupato, il ceto medio con stipendi in caduta liberta, l’operaio che rischia di crepare in fabbrica, il ricercatore universitario a 800 euro al mese, il precario invecchiato in attesa del posto fisso, il commerciante meridionale condannato a pagare il pizzo...

Gli elettori di sinistra che ci hanno voltato le spalle non vogliono sapere se faremo parte della famiglia del socialismo europeo o dell’internazionale comunista, e nemmeno se falce e martello saranno ancora un minuscolo logo in fondo al nostro simbolo come le prescrizioni di un medico. Vogliono sapere chi siamo, cosa vogliamo fare per questo paese, come ci faremo carico della sua concreta, drammatica richiesta di cambiamento. Vogliono sapere in che modo crediamo di ricostruire una forma della politica che parta dal basso e dagli altri, non da noi stessi.

Gli elettori di sinistra ci chiedono di aprire le nostre finestre e di guardare fuori, per capire cosa accade oltre la linea del nostro consueto orizzonte. Che è cosa più complicata e meno rituale del semplice “ritorno sul territorio”. Mayakowski, poeta e comunista, alla fine si ammazzò perchè stufo di un comunismo fatto di regole, liturgie e primi della classe. Ma prima ci mandò a dire, in un solo verso, tutta la sua rabbia, tutta la sua disperazione, tutta la sua verità: “Esci partito dalle tue stanze, torna amico dei ragazzi di strada”.

*del Direttivo di Sinistra Democratica

da sinistra-democratica.it


Titolo: Il centralismo carismatico
Inserito da: Admin - Maggio 07, 2008, 11:51:55 pm
 
Il centralismo carismatico

di Francesco Cundari | 28 aprile 2008


Nella nuova stagione, nel nuovo bipolarismo, ma soprattutto nel nuovo partito che Walter Veltroni ha guidato alle elezioni del 13 e 14 aprile, a quanto pare, non è previsto il dissenso.

Non sono ammesse critiche da parte di eletti, elettori o dirigenti del Pd, che sarebbero un segno di resistenza al cambiamento, manovre di apparato, trame di palazzo. Insomma, un complotto. E non sono ammesse critiche neppure dalla stampa.
“I giornali abbondano di rampogne e di suggerimenti nei suoi confronti – ha provato a dire sabato un giornalista dell’Unità – ad esempio il Riformista…”. La frase è rimasta in sospeso. “Liberiamoci dai condizionamenti dei giornali che vengono letti prevalentemente da quelli che fanno politica – lo ha interrotto Veltroni – il Riformista, peraltro di proprietà di un parlamentare eletto dal Pdl, vende 2000 copie e fa la spiega a noi che abbiamo preso 12 milioni di voti. Mi verrebbe da dire: per prima cosa pensa a vendere di più tu”.

Il lettore dell’Unità non saprà mai di quali “rampogne” e di quali “suggerimenti” parlasse il giornalista, né cosa avesse da dire il Riformista al segretario del Pd. Chiarito che il quotidiano diretto da Antonio Polito non ha titolo per parlare, infatti, l’intervista passa serenamente oltre.
L’evocazione del Riformista serve soltanto ad ammonire i lettori dell’Unità a non giocare con quei bambini, a non parlarci, ma soprattutto a non ascoltarli. Fa parecchio freddo, in questa nuova stagione. E’ bene rientrare in casa presto, senza fermarsi a parlare con gli sconosciuti.

Se il nuovo corso non prevede critiche, figurarsi se prevede autocritiche. Il voto del 13 e 14 aprile ha lasciato il Pd al 33,1 per cento, consegnato a Silvio Berlusconi la più solida maggioranza di sempre, ridotto all’impotenza l’Udc, cancellato la Sinistra arcobaleno. Quello che esce dalle urne è il parlamento più a destra nella storia della Repubblica. Grazie al voto utile, il Pd ha raccolto buona parte del 7 per cento perduto in appena due anni dalla Sinistra arcobaleno, eppure ha guadagnato soltanto l’1,9 rispetto al 2006 (e avendo nelle sue liste i Radicali, questa volta). La verità è che il Partito democratico non solo non ha sfondato al centro, non ha compiuto alcuna rimonta, non ha strappato al Pdl nemmeno un decimale di punto (e non è mai stato, sia detto per inciso, a “due punti di distacco” dall’avversario). La verità è che è accaduto l’esatto contrario: è il Pdl che ha strappato consensi al Pd, sfondando al centro ed espellendone l’avversario (che ha compensato le perdite a spese della Sinistra arcobaleno). Eppure, nell’intervista all’Unità, l’unica conclusione che Veltroni trae dall’esito del voto è questa: “Non si torna indietro. Strategia, scelte programmatiche e linguaggio sono giusti”.

Quanto la disfatta subita sia da addebitare all’esperienza del governo Prodi e quanto alle scelte di Veltroni, naturalmente, può e deve essere oggetto di una discussione approfondita (e magari, per l’occasione, si potrebbe discutere pure delle rispettive responsabilità nella caduta dell’esecutivo). Certo è che dopo i ballottaggi, quale che sia il risultato, una simile discussione non sarà più rinviabile. E dovrà essere approfondita, serena, pluralistica – certamente – ma anche libera. Libera, innanzi tutto, dall’asfissiante cappa di conformismo che sin qui ha caratterizzato la dialettica interna ed esterna al Pd, ben oltre la misura che le difficoltà del governo prima e la campagna elettorale poi avrebbero giustificato.
Quello che proprio non si può fare è negare l’evidenza. Continuare a raccontarsi la favola della grande rimonta e del successo oltre ogni previsione. La campagna elettorale è finita. E non sarà arrotondandosi il risultato dello 0,9 – come fa Veltroni sostenendo che il “primo dato” da considerare è che “abbiamo un partito riformista del 34 per cento” – o sostenendo che il raffronto non va fatto con le politiche del 2006, bensì con le provinciali del 2007, che si costruiranno le fondamenta di un roseo avvenire.

Terminati i ballottaggi, definitivamente chiusa questa interminabile campagna elettorale, non ci saranno più alibi. Scriviamo di proposito prima di conoscere il risultato del voto nella capitale, augurandoci che Francesco Rutelli vinca. Ma sentire da Veltroni che l’eventuale sconfitta in Campidoglio non è da addebitare a lui perché non è lui il candidato sindaco – dopo avergli sentito ripetere per tutta l’intervista che la sconfitta alle politiche è da addebitare al governo guidato da Romano Prodi, che non ci risulta fosse il candidato premier – lascia molto, ma molto perplessi. Ed è addirittura scandaloso che Veltroni metta tra le principali colpe dell’ex premier persino l’indulto, dopo avere partecipato alle manifestazioni per l’indulto e per l’amnistia. Un comportamento che ricorda quello di John Belushi in Animal House, quando va a consolare il ragazzo in lacrime dinanzi all’automobile che gli amici hanno ridotta un rottame, gli mette una mano sulla spalla, lo guarda negli occhi e gli dice: “Vedi, hai commesso un errore. Ti sei fidato di noi”. Proprio così: ti sei fidato di noi. Come l’inno del Pd.

La verità è che la leadership veltroniana si è tradotta sin qui in una sorta di centralismo carismatico, o forse dovremmo dire di cesarismo burocratico, capace di sommare in sé i peggiori vizi dei vecchi partiti comunisti e dei nuovi partiti personali modello Forza Italia (o Italia dei Valori, che è lo stesso). Dunque non deve stupire che alla scelta di andare da soli, proprio come nel 2001, seguano ora la chiusura identitaria e la lotta contro il regime. “Ho chiesto a molti colleghi stranieri – dice Veltroni – cosa sarebbe successo se nel loro paese un candidato avesse eletto a eroe un mafioso.

Mi hanno risposto dicendo che sarebbe una cosa incompatibile con qualsiasi carica pubblica. In Italia invece questo è possibile”. Finita la nuova stagione, si torna ai girotondi. E anche più indietro, fino agli avanzi scaduti del vecchio Pci post-berlingueriano. Per dirla con le parole di Veltroni, si torna alla lotta contro “la volgarizzazione della società, la spietata individualizzazione, il genocidio di ogni idea di regola e di spirito pubblico”. Ma la strada della chiusura identitaria e del culto della propria diversità, che non ha funzionato nemmeno con Enrico Berlinguer, suona semplicemente grottesca se ripercorsa oggi, assieme a Massimo Calearo.

La verità è che non si può annunciare un partito democratico, aperto e radicato, se in quello stesso partito nessuno – nemmeno la realtà – ha diritto di mettere in discussione la parola, le scelte e i risultati del leader. E questa non è una critica a Veltroni.

da www.leftwing.it


Titolo: Raffaele e le anime nere di Verona educazione di un neonazista
Inserito da: Admin - Maggio 08, 2008, 06:31:24 pm
CRONACA

Nella antica scuola della città, dove studiavano la vittima e il carnefice

Viaggio in una comunità che si specchia nei suoi giovani alla ricerca delle radici dell'odio

Raffaele e le anime nere di Verona educazione di un neonazista

dal nostro inviato GIUSEPPE D'AVANZO

 
VERONA - Nicola e Raffaele - Nicola dieci anni prima di Raffaele, dieci anni prima di essere ucciso da Raffaele - hanno studiato nello stesso liceo, lo "Scipione Maffei", fiero di essere il più antico liceo d'Italia. Nato nel 1804, promosso da Bonaparte, il "Maffei" è orgoglioso della sua storia bicentenaria, ma anche delle virtù custodite, generazione dopo generazione, in una carta dei valori che onora "lo spirito critico; la laboriosità; la legalità; l'assunzione di responsabilità; la coscienza dei diritti e dei doveri".

È un impegno che si respira nelle aule dell'antico convento domenicano annesso alla Chiesa di Santa Anastasia, a due passi da Piazza Erbe, da Piazza dei Signori, dal cuore storico di Verona. Il liceo non è un luogo abitato da svuotati, sprecati. Né è attraversato dall'"analfabetismo emotivo", dalla "follia morale", dall'"ospite inquietante" del nichilismo, o come più vi piace definire l'infelice condizione giovanile del nostro Paese. Al "Maffei" si discute molto. Si lavora molto. Si impara a dare forma di parola alle emozioni, nutrimento e argomenti per le passioni e le idee.

Qui è radicata la consapevolezza che la democrazia sia "ars dubiae". Si ha fiducia "nella tolleranza, nel rispetto, in una solidarietà generosamente disponibile, in un reale e radicale rispetto di se stessi e degli altri". Sono pratiche quotidiane e non predicazione (gli studenti, per dire, si tassano ogni anno di 250 euro e quest'anno hanno deciso spontaneamente di aumentare l'obolo di solidarietà). E allora bisogna chiedersi dove nasce la muffa aggressiva che ha rovinato i giorni di Raffaele e spezzato la vita di Nicola?

"Ce lo siamo chiesti - dice con "doloroso stupore" il preside Francesco Butturini - e ancora ci interrogheremo con i docenti, gli studenti, i genitori. Ci siamo chiesti se abbiamo fatto tutto quanto in nostro potere per educare gli studenti alla buona cittadinanza. Noi crediamo di aver sempre cercato attraverso l'insegnamento quotidiano e le attività educative complementari, che qui non sono poche, di inculcare negli allievi i principi della civile convivenza. Non è stato sufficiente per insegnare a Raffaele ciò che è lecito, ciò che non lo è, ciò che non è nemmeno pensabile o ipotizzabile. Mi sento sconfitto, come ho detto ai ragazzi, ma non complice. Non siamo stati né indifferenti né distratti. Quando Raffaele si rifiutò di entrare in sinagoga durante un viaggio di studio; quando affrontò il presidente dell'associazione vittime della strage di Bologna rivendicando l'innocenza di Luigi Ciavardini, segnalammo quell'atteggiamento alla famiglia. Al contrario, la questura non ci informò che Raffaele era indagato da un anno. Avremmo potuto fare di più e continueremo a farlo nel dialogo e nel confronto con i ragazzi. Senza dimenticare Raffaele. Non intendiamo abbandonarlo in questo momento e speriamo che Raffaele accolga il nostro invito; comprenda il suo tragico errore; accetti di incamminarsi su una strada radicalmente differente da quella finora seguita".

* * *

Il preside non vuole e forse non può dire di più. Il deficit del circuito istituzionale e mediatico (perché la Digos non allertò la scuola? perché i giornali cittadini non diedero conto, come d'abitudine, dei nomi degli indagati?) descrive un'occasione perduta di "recupero", di disvelamento, ma non spiega le ragioni della "caduta" di Raffaele in un "rito della crudeltà", per nulla occasionale o impulsivo, che nel tempo si è esercitato nel cuore di Verona contro "i negri"; i capelluti "comunisti" dei centri sociali; tre paracadutisti delle Folgore nati al Sud; un povero cristo con la maglia del Lecce; un tipo che mangiava un kebab; un ragazzino maldestro nell'usare lo skateboard. Pedina, "soldatino" - Raffaele - di una cerchia che, visitata dai poliziotti, disponeva di manganelli, pugnali, coltelli, un'accetta e di libri che negavano l'Olocausto, di bandiere con la croce uncinata, di foto di Hitler e Mussolini. L'aula della II E, che Raffaele frequenta (o frequentava), è al di là dell'antico chiostro in fondo al corridoio. I compagni e le compagne di Raffaele hanno come il muso. In questi giorni i giornalisti, protestano, hanno manipolato le loro opinioni, le hanno rimaneggiate per creare uno sciocco sensazionalismo. Non vogliamo difendere Raffaele, dicono, perché quel che ha fatto è gravissimo e se ne deve assumere tutto il peso, ma se ci chiedete se fosse un mostro, allora no, noi dobbiamo rispondere che non lo era, che non si è mai comportato da mostro. Era in modo radicale di destra e discuteva con chi non lo era, o era di sinistra, senza aggressività. Si è rifiutato di entrare in sinagoga, ma siamo abbastanza certi che, se avesse avuto un compagno di banco ebreo, non lo avrebbe maltrattato o deriso a scuola, dove il suo comportamento è stato sempre corretto. Questo vuol dire, chiedono, assolvere Raffaele? Vuol dire raccontare, dicono, quel che sappiamo di lui. Che non era tutto. Purtroppo.

* * *

Accanto alla fontana senz'acqua del chiostro, Giulia Tombari e Simone D'Ascola provano a ragionare - ancora una volta, in questi giorni - su quei perché. Come è potuto accadere a un loro compagno di scuola? Giulia è minuta, nervosa, stanca. Dice parole secche e sincere. Le accompagna con un gesto. Indica il grande arco che dà sulla strada. "Qui non c'è spazio per l'ignoranza che produce l'ottusa violenza senza scopo di Raffaele. Raffaele è stato travolto da quel che c'è là fuori, oltre quel cancello. Se un responsabile e una responsabilità si deve cercare, va trovata non in questo liceo, ma nella città. In quella Verona dove può capitare - e capita spesso - che si senta dire in autobus "non siedo qui, accanto a questo negro" e nessuno che, intorno, disapprovi o censuri quelle parole... Magari chi le ascolta, non oserebbe mai pronunciarle, ma le giustifica". Simone è alto, allampanato, meno disinvolto di Giulia. Come Giulia, ha idee lucide e asciutte. "In questa storia, si usano le parole per nascondere quel che è accaduto e ancora può accadere. Si dice: Raffaele era un bullo. Non lo era. Si dice: è un delinquente. Non lo era. Si dice: è solo una mela marcia, è un caso isolato. È falso che sia la sola mela marcia del cesto, il caso non è isolato ma addirittura, nella sua assurdità, ordinario. Si dice: la politica non c'entra. E invece, c'entra, eccome, se politica è l'odio per il diverso, se politica è un'ideologia diffusa là fuori - anche Simone indica l'arco, il cancello, la strada - che legittima chi vuole liberarsi di chi non è uguale a te, per colore della pelle, per convinzioni, per religione, per la lunghezza dei capelli. Tutto questo ha un nome: razzismo, xenofobia. Se si usano le parole appropriate, le ragioni della morte di Nicola - e di quel ha combinato Raffaele con i suoi amici - saranno evidenti. È quel che dovreste fare: chiamare le cose con il proprio nome".

* * *

Chiamare le cose con il loro nome. È naturale pensare che sia un buon consiglio mentre si risale via Massalongo e poi corso Santa Anastasia verso Piazza Erbe. Come appare necessario rimettere insieme la realtà di un corpo sociale che solitamente si offre frammentata, sconnessa, quasi in penombra, occultata da parole accortamente ambigue. Chiamare le cose con il loro nome, dunque. Le violenze e i pestaggi nel cuore di Verona sono comuni e ritualizzati. Piazza Viviani, via Mazzini, Veronetta, Volto San Luca, Corso Cavour, piazza Erbe ne sono state le scene negli ultimi mesi.

Puoi essere picchiato per un nonnulla. Puoi prendere una bottigliata in testa per un amen. Non importa la ragione occasionale. Non è quello che conta. Non è per lo spino rifiutato che muore Nicola. Nicola muore, dicono, "perché ha il codino", perché dunque è diverso, perché "non è conforme" e gli (improvvisati o professionali) addetti al futuro della città e alla custodia del suo passato e delle sue risorse escludono i diversi: "diverso - dice il procuratore Guido Papalia - è non solo il diverso per razza, ma diverso perché si comporta il mondo diverso; pensa diversamente; ha un atteggiamento diverso; si veste in modo diverso e quindi non può convivere nel centro della città che i razzisti vogliono chiusa ai diversi". In uno stato di smarrimento sociale, si radunano per difendersi le persone spaventate - la paura è coltivata con sapienza a Verona che molto ha faticato per raggiungere il benessere di oggi. Passano all'azione in nome di "un'identità minacciata". Identità, insegna Zygmunt Bauman, è un concetto agonistico. È come un grido di battaglia. Fragile e perversamente "coraggioso", Raffaele sente quel grido, lasciata l'aula del "Maffei" e le fatiche democratiche di "maffeiano".

Lo sente allo stadio dove impiccano il fantoccio di un calciatore "negro". Lo ascolta forte nella propaganda dei "nazistoni" del "Blocco studentesco". Lo intende nello stile di vita dei suoi compagni di bevute e di scorribande notturne tra le stradine della città. Afferra quel sentimento nella pianificazione del prossimo pestaggio, nelle risate, nella soddisfazione che segue. Raffaele avverte soprattutto che quel che fa, quel che pensa è condiviso perché in città c'è un sentimento che non lo biasima e non lo biasimerà. Hanno ragione Giulia e Simone.

È "politico" tutto questo? Quale ipocrita può negarlo: certo che lo è. E non vuol dire che ci sia un partito politico, una fazione di un partito politico, un gruppuscolo che organizza o programma quelle violenze. Vuol dire che c'è a Verona una "cultura" dell'esclusione che irrigidisce e sorveglia il confine tra "noi" e "loro" e "loro" diventano anche quei veronesi - moltissimi, e tra i moltissimi Nicola - che rifiutano o non avvertono il "potere seduttivo" di quell'"appartenenza".

Chiamare le cose con il loro nome. È difficile contestare che il sindaco di Verona, Flavio Tosi, alimenti la "naturalezza" di quel grido di battaglia "identitario". Che diffonda il presupposto che "si appartiene per effetto della nascita". Non per altro, qualsiasi cosa tu sia e faccia. Flavio Tosi non è un fascista. È un leghista che ama i fascisti, li coccola, li asseconda, forse cinicamente se ne serve. Oggi che la tragedia si è consumata, è evasivo, a volte frivolo, a volte ringhioso quando gli si ricorda che appena in dicembre ha sfilato accanto a nazisti del Veneto Fronte Skinheads; che appena qualche anno fa (11 settembre 2005) offrì le sue parole solidali - con una visita in carcere - a cinque giovani fascisti che avevano massacrato e accoltellato due ragazzi di sinistra, frequentatori di un centro sociale.

Tosi ha grandi ambizioni politiche (sarà il nuovo governatore del Veneto nel 2010?) e questa storia tragica, da cui non riesce a uscire senza danno pubblico o con un alleato in meno, può azzopparlo. L'opposizione gli ha chiesto che si scusi di quelle spensieratezze. Tosi non ha trovato ancora la forza di farlo. Chiamare le cose con il proprio nome. Verona - città straordinariamente generosa nella solidarietà e nel volontariato - assiste al suo incrudelimento distratta, indifferente, senza rimorso o colpa. Guarda da un'altra parte per non vedere, per non vedersi, per non interrogarsi. Come il vescovo, monsignor Giuseppe Zenti. Scrive ai giovani della città. Immagina di inviare sms per conto di Nicola. Scrive: "Abbiate fiducia nelle grandi vette. Valorizzate i giorni della giovinezza. Fatevi onore. Fateci vedere quanto valete. Realizzate una vita di grande qualità, degna dell'essere giovani".

Come se esistessero soltanto le scelte personali e non anche le responsabilità collettive, i modelli culturali, i quadri pubblici, l'assenza della benché minima opera di manutenzione sociale (senso civico, legalità). Come se Nicola e Raffaele non fossero caduti su quella "trincea profonda e invalicabile scavata in città tra il "fuori" e il "dentro" di un territorio e di una comunità". Al portone del Bra, ricorda Francesco Butturini, è scolpita una frase dell'Amleto: "Non c'è mondo, fuori di questa città". C'è a Verona chi sembra crederlo per davvero. Raffaele lo ha creduto. Troppo facile ora dirlo solo un delinquente. Troppo ingiusto dire, la morte di Nicola, "un caso isolato".

(8 maggio 2008)

da repubblica.it


Titolo: Il solito colpo per salvarsi dalle promesse
Inserito da: Admin - Maggio 12, 2008, 11:49:05 pm
Il solito colpo per salvarsi dalle promesse

Stefano Fassina


Ci risiamo. Il Governo Berlusconi IV ripete, senza fuochi d’artificio, il canovaccio del Berlusconi II di sette anni fa. Allora, la grancassa era il Tg1 della sera ed il nostro ministro dell’Economia era dotato di colorati grafici per denunciare il «buco» nei conti pubblici. Oggi, si accontenta di Rai Tre e rinuncia all’ausilio degli strumenti didattici di un tempo per annunciare che «l’andamento delle entrate fiscali non è buono…insomma, tesoretto zero». Cambiano i salotti televisivi, ma l’obiettivo è lo stesso: cercare appigli per giustificare l’impossibilità di soddisfare la valanga di irresponsabili promesse fatte durante la campagna elettorale.

Il tentativo del ministro Tremonti non regge. La prima obiezione che viene da fare al ministro è la seguente: quali elementi di novità ha oggi rispetto ad un mese fa quando, insieme al leader del suo schieramento, faceva campagna elettorale? L’Istat non ha ancora pubblicato la stima del Pil per il primo trimestre 2008 (lo farà il 23 maggio). Pertanto, per l’anno in corso, rimane valida la previsione contenuta nella Relazione Unificata del 18 marzo (+0,6%), dato in linea con le più recenti previsioni di consenso (si veda The Economist di questa settimana). Quindi, nessuna novità dall’economia reale. I dati di finanza pubblica disponibili dopo il 14 Aprile - il fabbisogno di cassa dello Stato (la differenza tra entrate effettivamente riscosse e spese realmente effettuate) e le entrate fiscali dei primi quattro mesi dell’anno - sono entrambi migliori delle previsioni, nonostante il forte rallentamento dell’economia. In particolare, il fabbisogno cumulato da gennaio ad aprile migliora di quasi 3 miliardi di euro il risultato raggiunto nel corrispondente periodo del 2007, anno chiuso con un deficit di 8 miliardi inferiore a quello previsto per quest’anno. Le entrate da Gennaio ad Aprile aumentano con un passo doppio rispetto all’andamento nominale dell’economia: +7% le prime; +3,6 la seconda. È vero che l’Iva da scambi interni nel mese scorso -come indicato nel comunicato del Vice Ministro Visco di fine aprile- è calata rispetto allo stesso mese del 2007. Tuttavia, è anche vero, ma il nostro ministro dimentica di dirlo, che Irpef, Ires, Irap, imposte di registro e contributi sociali vanno a gonfie vele.

La seconda obiezione viene direttamente dalla Commissione Europea che nei giorni scorsi ha chiuso la procedura d’infrazione per deficit eccessivo aperta, guarda caso, nel 2005, riconoscendo il risanamento strutturale della finanza pubblica compiuto dal Governo Prodi. I dati dovrebbero essere noti, ma vale la pena ricordarli: grazie al recupero di evasione fiscale, il debito pubblico nel 2007 è tornato lungo un sentiero discendente, dopo l’impennata del 2005 registrata sotto la gestione Tremonti. La spesa primaria corrente è stata stabilizzata, dopo un aumento di 2,5 punti di Pil dal 2001 al 2005 o, se si vuole considerare un indicatore meno sensibile al ciclo, dopo aver toccato tassi di crescita doppi rispetto al biennio 2006-2007.

In sintesi, l’extragettito oggi esiste. Ed esiste anche il tesoretto, perché, oltre al miglior andamento delle entrate, le previsioni di spesa riportate nella Relazione Unificata sono, per usare un eufemismo, estremamente prudenziali (il misurato predecessore di Tremonti a via XX Settembre l’aveva anche scritto nella sua Nota introduttiva all’ultima Relazione Unificata). E la conferma non viene dai gossip, tra l’altro fondati, riportati da autorevoli quotidiani. Viene dai dati sul fabbisogno e dalle previsioni di istituzioni indipendenti (Commissione Europea, Ocse, Fondo Monetario), migliori di quelle elaborate dalla Ragioneria Generale dello Stato.

Infine, sulle strade alternative al tesoretto per finanziare le riduzioni di imposte e gli aumenti di spesa promessi in campagna elettorale. Ci piace il Tremonti paladino dei consumatori contro le banche ed i monopolisti petroliferi. Ci piace, perché segnala di voler proseguire il lavoro avviato dal Governo Prodi e dai ministri del Pd. In particolare, il lavoro avviato attraverso le riforme della tassazione sulle imprese (Ires, Irpef, Irap), riforme che hanno spostato carico fiscale per circa un miliardo di euro dalle micro, piccole e medie imprese alle banche e alle assicurazioni. E avviato attraverso gli interventi per la portabilità e la rinegoziazione dei mutui e per la riduzione dei costi dei conti correnti. Quindi ci piace Tremonti in versione Robin Hood all’assalto dell’establishment. Tuttavia, temiamo che sia solo demagogia. Infatti, per rendere credibile i suoi propositi, il pugnace ministro dovrebbe illustrare quali misure per la concorrenza intende introdurre per evitare che eventuali minori costi oggi per famiglie ed imprese siano più che compensati domani data la forza di market makers di banche ed imprese petrolifere. In ogni caso, la demagogia regna sovrana poiché l’eventuale tosatura delle rendite godute dalle imprese in oggetto non ha l’ordine di grandezza necessario per finanziare gli oltre 7 miliardi di promesse prioritarie (abolizione completa dell’Ici, detassazione degli straordinari, bonus bebè, pacchetto sicurezza) in programma, per ora, nei primi Consigli dei ministri del Berlusconi IV.

Insomma, come sfrontatamente ha ammesso il Ministro Tremonti dalla docile Lucia Annunziata: «un conto è fare campagna elettorale e un conto è essere al governo». Ma la demagogia ha le gambe corte. Può essere utile, sostenuta dalle batterie di fuoco mediatico controllate dal Grande Capo, a vincere le elezioni. Poi, alle prova del Governo, per quanta manipolazione facciano le televisioni e i giornali controllati o per convenienza allineati al Presidente del Consiglio, si scioglie come neve al sole, come avvenuto dal 2001 al 2006. Tuttavia, non illudiamoci, non basterà a vincere al prossimo giro elettorale. Per vincere domani, dobbiamo essere in grado di riconoscere, oggi, giorno per giorno, la realtà dei problemi e saper proporre valide soluzioni alternative. Addossare le cause di tutti i principali problemi del Paese a Berlusconi, come abbiamo spesso fatto nel precedente quinquennio governato dalla destra, perdendo un occasione decisiva per rinnovare cultura politica e classi dirigenti, non basterà ad affermare un progetto riformista, neanche la prossima volta.
www.stefanofassina.it

Pubblicato il: 12.05.08
Modificato il: 12.05.08 alle ore 9.32   
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Titolo: Sicurezza a passo di carica
Inserito da: Admin - Maggio 13, 2008, 08:22:07 am
12/5/2008
 
Sicurezza a passo di carica
 
 
 
 
 
CARLO FEDERICO GROSSO
 
Se riuscirà ad approvare, a metà settimana, il ventilato provvedimento lampo in materia di sicurezza il governo Berlusconi avrà fatto tombola, dimostrando, almeno su questo punto, un’efficienza davvero stupefacente. Unica incognita è se il Presidente della Repubblica, al quale compete controfirmare i decreti-legge, sarà d’accordo nel riconoscere l’esistenza dei motivi d’urgenza.

Al di là della forma del provvedimento, importante per chi, iniziando a governare, vuole dimostrare rapidità ed efficienza, la riforma del sistema sicurezza risponde a esigenze sentite da molta gente. Non è in effetti tollerabile che delinquenti pericolosi, arrestati dalla polizia, siano immediatamente scarcerati dai giudici, che i processi vengano celebrati dopo mesi anche quando vi è flagranza di reato, che i condannati non vadano in carcere perché coperti da troppi premi e benefici. Ben vengano, pertanto, giudizi immediati, razionali restrizioni della legislazione premiale, limitazioni nell’impiego della sospensione condizionale della pena.

Semmai, possono preoccupare altri aspetti. Di fronte alla prospettiva delle menzionate riforme, ci si deve domandare se il sistema carcerario sarà in grado di reggere all’impatto di tante contemporanee novità. È stata compiuta, ad esempio, una seria previsione di quanto potranno incidere sulla popolazione carceraria, e pertanto sulla tenuta delle strutture penitenziarie, i provvedimenti prossimi venturi? Sono stati calcolati quanti nuovi posti carcere saranno necessari? Si sono ipotizzate le misure idonee a fronteggiare eventuali rivolte dei detenuti?

Ed ancora. Si è valutato quanto i nostri Tribunali, che già oggi, molte volte, arrancano inseguendo gli arretrati, potranno reggere all’urto dell’accelerazione di molti processi? Si è pensato a come affrontare in tempi rapidi i nuovi, inevitabili, problemi di organizzazione degli uffici? Non vorrei che, come molte volte è accaduto nel passato, l’ansia di approvare rapidamente una riforma inducesse a trascurare le sue ricadute pratiche, determinando, quantomeno nell’immediato, il suo fallimento.

Si ipotizza, inoltre, di aumentare le sanzioni per i reati di allarme sociale. Dati i tempi, può essere una strada percorribile, anche se raramente in passato misure di questo tipo sono risultate utili. Si deve in ogni caso ricordare che, cambiando le pene, occorre essere attenti a non sbagliare le loro dimensioni. Se si sbaglia, l’aumento anziché disincentivare i delinquenti può diventare criminogeno. Se, per esempio, la sanzione prevista per il sequestro di persona o per la violenza carnale diventa troppo simile a quella dell’omicidio, al delinquente potrebbe risultare indifferente sequestrare e violentare ma poi anche uccidere.

Che dire, infine, delle misure previste in tema di immigrazione ed espulsione degli stranieri? Le novità sembrano di una durezza mai vista. Si parla di introdurre il reato di ingresso abusivo, di concedere la residenza soltanto allo straniero che dispone di uno stipendio lecito e di una casa, di espellere chiunque si trovi in Italia illegalmente, di confiscare l’alloggio a chi affitta ai clandestini, addirittura di sospendere Schengen.

Bloccare gli sbarchi illegali costituisce una priorità. Può darsi che di fronte al dilagare della delinquenza, alla conseguente insicurezza dei cittadini, all’efferatezza di taluni crimini, i provvedimenti ipotizzati corrispondano a sentimenti diffusi. Il problema, come sempre, è peraltro trovare un equilibrio fra le esigenze contrapposte: tutela dei cittadini ed istanze umanitarie, difesa sociale e necessità di coprire i posti di lavoro non occupati dagli italiani, tutela della cittadinanza e globalizzazione dei rapporti economici, politici e sociali, controllo degli stranieri ma rigorosa salvaguardia dei diritti fondamentali della persona e nessuna compressione delle garanzie costituzionali. Quest’ultimo profilo è irrinunciabile. Mai, ad esempio, controllo coatto del Dna per gli stranieri che chiedono il ricongiungimento familiare, una vecchia ma sciagurata idea della Cdl.

Berlusconi sta puntando in alto. Vuole farcela velocemente dove il governo di centrosinistra, che ha dimenticato per strada l’ottimo pacchetto sicurezza elaborato fra mille difficoltà dal ministro Amato e per responsabilità della sinistra radicale non è riuscito a convertire in legge un suo importante decreto sull’espulsione degli stranieri, ha clamorosamente fallito. Il tempo ci dirà se le misure che la destra sta predisponendo risolveranno quantomeno alcuni dei problemi del Paese. Se nel primo Consiglio dei ministri il nuovo esecutivo riuscirà davvero ad approvare il provvedimento attorno al quale sta lavorando, si dovrà comunque riconoscere che il passo di chi ora governa è, per il momento, ampiamente accelerato rispetto al passato. Il Partito democratico si appresti pertanto, con la dovuta umiltà, a una lunga traversata del deserto.

 
da lastampa.it


Titolo: Gentiloni «Non servono martiri televisivi O metteranno Raitre sul rogo»
Inserito da: Admin - Maggio 13, 2008, 03:56:12 pm
13 maggio 2008

AREA RASSEGNA STAMPA | Rassegna stampa

Gentiloni «Non servono martiri televisivi O metteranno Raitre sul rogo»

Intervista di Maria Teresa Meli - Il Corriere della Sera


ROMA — Paolo Gentiloni, lei che è stato ministro delle Comunicazioni che giudizio dà del caso Travaglio?
«Penso che Cappon e Fazio abbiano fatto bene a prendere le distanze e a fare le loro scuse. Non mi scandalizzerei se sulla Rai si facessero inchieste che riguardano le più alte cariche dello Stato, ma trovo assolutamente ingiustificabile che si lancino accuse in diretta Tv senza contraddittorio e in prima serata».

Voi del centrosinistra state demonizzando Travaglio...
«Io personalmente non demonizzo nessuno. Escludo però che si possa usare in quel modo la televisione. E non mi piace la tendenza, che già vedo, a trasformare in nemici coloro che prendono le distanze da Travaglio».

A chi si riferisce?
«Grillo e Di Pietro ne hanno dette di tutti i colori e Fazio Paolo Ruffini, che hanno preso le distanze da Travaglio, passano per collaborazionisti. Su questa strada non andiamo lontano. E purtroppo l'eccesso di vocazione al martirio finisce per ottenere l'effetto opposto a quello desiderato: può essere utilizzato per colpire le cose migliori che ci dà il nostro servizio pubblico».

Che intende dire? Ha paura che l'intemerata di Travaglio si ritorca contro Rai 3?
«Rai 3 è il pezzo di tv italiana che assomiglia più al servizio pubblico. È diventata la terza rete generalista nel nostro Paese. Il suo programma di punta è quello di Fazio e non vorrei che la vocazione al martirio di Travaglio portasse al rogo il conduttore di quella trasmissione e Ruffini e, magari, diventasse pretesto per epurazioni al vertice. Insomma, io voglio un Paese normale in cui Travaglio può rivolgere accuse a chicchessia ma non può farlo in prima serata davanti a più di quattro milioni di telespettatori senza che qualcuno possa replicargli».

Ma sulla Rai opposizione e maggioranza non potrebbero dialogare?
«Difficile che la coperta del dialogo possa coprire la vergogna del conflitto di interessi. Ma trovo che almeno sulle regole per la Rai ci si possa confrontare e trovare delle proposte di compromesso politico. Tre settimane fa il presidente Petruccioli ha ipotizzato di non procedere immediatamente alla nomina del nuovo Cda rai. Ha proposto di verificare prima se non si possa modificare la legge Gasparri che fa sì che la Rai sia subordinata ai partiti e governata dall'indecisione. Ecco secondo me questa proposta potrebbe essere un buon punto di partenza per il confronto».


da www.ulivo.it/gw/producer/dettaglio.aspx?id_doc


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Titolo: L'antifascismo con la destra al potere
Inserito da: Admin - Maggio 13, 2008, 04:04:41 pm
13/5/2008
 
L'antifascismo con la destra al potere
 
GADI LUZZATTO VOGHERA

 
Un ex fascista alla presidenza della Camera, uno alla guida della capitale del Paese, tutto questo in una Repubblica fondata sui valori della resistenza. Paura degli ossimori? Paura di un ritorno al passato? In fondo, l’affermazione dei peggiori regimi fascisti europei è passata attraverso normali percorsi democratici e non dopo sanguinosi golpe militari.

Non è mai bene ricorrere ai déjà vu nell’analisi delle situazioni politiche, e francamente la strategia di gridare «al lupo» per i trascorsi della nuova leadership della destra italiana non ha ottenuto risultati soddisfacenti negli ultimi quindici anni. A sinistra si è preferito chiudersi a riccio, a difesa di una «democrazia fondata sui valori dell’antifascismo», si è optato per la demonizzazione dell’avversario, concepito come una sorta di alieno, e alla lunga si è perso il contatto con la realtà sociale del Paese.

La sinistra ha abdicato alla sua vocazione principale: elaborare una proposta di governo partendo da un’analisi spassionata della realtà economica e sociale, indirizzando le scelte verso un riequilibrio delle disparità sociali. Più risorse e più servizi a chi sta male (agli emarginati, alle classi disagiate, ai malati, agli anziani, alle giovani famiglie), in un’ottica riformista. Giacché oggi tutta la sinistra è fondamentalmente riformista, anche perché una sinistra «rivoluzionaria» non riuscirebbe a garantirsi un futuro politico (a meno che non si scelga la strada delle Brigate Rosse, che tuttavia più che rivoluzionarie sono criminali).

Al governo la sinistra ha assunto la faccia seriosa di chi si occupa con competenza di risanamento dei conti, senza concedere nulla ai numerosi segnali d’allarme lanciati dalla società e in questo modo ha rinunciato ad ascoltare la società stessa, preferendo assumere l’atteggiamento (assai snob e paternalistico e assai poco di sinistra) di chi ti governa e ti educa perché «lui sa» qual è il bene per te. E - d’altra parte - la sinistra antagonista al governo ha tristemente continuato a dispensare i suoi «no» a tutto, senza riuscire in alcun modo a incidere su problemi cronici del nostro Paese quali la carenza di infrastrutture e di un sistema di trasporti integrato, la programmazione di una strategia energetica di lungo periodo, la riorganizzazione del sistema di smaltimento dei rifiuti, il risanamento del territorio, l’attuazione di una strategia dell’accoglienza e dell’integrazione dei migranti, la riorganizzazione del sistema di sicurezza nel territorio nazionale con la semplificazione e la razionalizzazione dei nostri corpi di polizia (siamo l’unico Paese al mondo con almeno una decina di corpi separati che si detestano e spesso si ostacolano).

Di fronte a questa Waterloo politica, ha ancora senso chiedersi se ci fanno paura gli ex fascisti al governo? Ha senso fare gli offesi se Berlusconi o la Moratti non partecipano alle celebrazioni per il 25 Aprile? Forse sarebbe più utile - nel mantenere il riferimento ai valori della democrazia fondata sulla resistenza antifascista - smettere di «celebrare» la memoria e cominciare a lavorare sulla memoria stessa per fare sì che questa diventi uno strumento utile per interpretare la realtà del presente. Oggi, che si affaccia sulla scena politica un partito nuovo (ed è veramente nuovo) come il Pd, radicato nel territorio, con un seguito consistente e con una prospettiva di cinque anni di lavoro organizzativo e di opposizione costruttiva; oggi, che al governo c’è una destra che non compie l’errore di richiamarsi al passato remoto delle radici fasciste; oggi è possibile costruire un ragionamento più compiuto sulle ferite lasciate in questo Paese dal suo passato fascista. Lo si dovrà fare per forza, perché si affaccia nel breve periodo l’inderogabile compito di mettere mano a una revisione profonda della nostra Costituzione, e se la sinistra rimarrà legata a una visione retorica e celebrativa del passato non riuscirà a contribuire in prospettiva e a incidere sull’elaborazione di un patto costitutivo condiviso.
 
da lastampa.it


Titolo: Franceschini Opposizione, gli errori da evitare (E QUELLI GIà COMMESSI?)
Inserito da: Admin - Maggio 13, 2008, 04:40:52 pm
Opposizione, gli errori da evitare

Dario Franceschini



Caro Furio,

ho letto con attenzione la tua lettera e ti ringrazio perché mi hai dato l’occasione per riflettere e anche per cercare di spiegare cosa intendevo dire con la frase che tu hai citato, necessariamente stringata come è inevitabile in un’intervista.

Dopo la tormentata esperienza della precedente legislatura, abbiamo deciso di voltare pagina rispetto all’esperienza del vecchio centrosinistra.

In questi anni le differenze profonde tra noi e i nostri alleati hanno reso faticosissima l’azione di governo, paralizzata da una continua, estenuante, ricerca della mediazione. Troppa eterogeneità programmatica, dalla politica estera a quella economica, al tema della sicurezza: la vecchia coalizione non è riuscita nemmeno ad approvare il decreto presentato dopo la terribile aggressione di Giovanna Reggiani.

Allora per quale ragione Di Pietro e Diliberto, Mastella e Pecoraro militavano nello stesso campo? Così differenti nella visione della società, nel progetto di governo che cosa, dunque, li accomunava? Senza dubbio il sentirsi radicalmente alternativi a Berlusconi e al centrodestra.

In questo senso, credo sia innegabile, il principale collante della vecchia coalizione era l’anti-berlusconismo.

Quel modello consisteva in una sorta di santa alleanza di tutti coloro che non si riconoscevano nel Cavaliere, a prescindere dall’identità di vedute e di proposte per il futuro del Paese. Un’alleanza “contro” e non “per”.

Ma essere “contro” non basta. Abbiamo preso atto che non è sufficiente essere alternativi a Berlusconi per governare insieme. Cito un altro esempio: negli ultimi giorni della precedente legislatura la sinistra radicale ha votato contro il decreto di rinnovo di tutte le nostre missioni militari internazionali. Una posizione lontana anni luce dalla nostra, dall’idea che la pace si persegue con senso di responsabilità, con la consapevolezza che lavorare per una soluzione politica non significa ritirare unilateralmente la nostra presenza militare.

Anche il conflitto di interessi, se vogliamo, è stato una vittima della rissosità della coalizione. Un testo era stato approvato in commissione, ritenuto troppo blando dal Pdci ed eccessivamente punitivo da Udeur e socialisti. Il provvedimento era comunque stato faticosamente ricalendarizzato per Gennaio ma è caduto il Governo.

Ora la domanda che dobbiamo farci e su cui dobbiamo riflettere e chiarirci nel partito è se vogliamo proseguire nella strada imboccata, sapendo che ci aspetta un cammino lungo e difficile, o se invece dobbiamo archiviare la fase della “vocazione maggioritaria” come una parentesi e rimetterci a lavorare per costruire una coalizione più larga possibile contro la destra, magari questa volta da Casini a Ferrero.

Io non ho dubbi: il lavoro per rendere il nostro paese più moderno e europeo, basato su due grandi partiti alternativi e alcune forze intermedie e non su una miriade di sigle, è appena cominciato e deve proseguire. Sarebbe stato bello farlo da una posizione di maggioranza ma abbiamo il dovere di farlo anche dall’opposizione, con iniziativa politica e ridiscussione delle regole istituzionali e elettorali.

Leggo poi una tua orgogliosa rivendicazione dell’esperienza de l’Unità che, come vostro affezionato lettore, posso sottoscrivere. In questi anni ho sempre letto con piacere e attenzione gli articoli di Sylos Labini, Biagi, Stajano, Modigliani, Sartori, Stille, Chierici e di tanti altri, anche quando non li condividevo.

Il vostro giornale è una voce preziosa, che arricchisce il pluralismo informativo di questo Paese. E In questa fase in cui il Partito Democratico sta avviando una riflessione sul voto e sulle prospettive, state dando un contributo importante di analisi competenti e appassionate, di approfondimenti e provocazioni.

Dobbiamo certo capire dove abbiamo sbagliato, perché una parte così rilevante del paese ha apprezzato la nostra iniziativa ma non ci ha votato. Francamente non credo che fra in nostri errori ci sia la carenza di anti-berlusconismo e che la ricetta sia quella di aumentarne le dosi. Non si tratta di indulgente buonismo perché è anzi nostra ferma intenzione fare un’opposizione senza sconti. Semplicemente penso che l’urgenza sia un’altra, e cioè quella di tornare a sintonizzarci con la società italiana, di comprendere le paure e le domande che la attraversano. Il sentimento di insicurezza, il timore per un possibile peggioramento delle condizioni di vita che attanaglia le famiglie. La richiesta di innovazione e semplificazione che arriva dal mondo della piccola e media impresa, le ansie del ceto medio, e di un mondo operaio che ha preferito votare lega. Dobbiamo insomma incrociare un’Italia profonda, mettendo da parte anche un certo immotivato complesso di superiorità, la convinzione di rappresentare comunque, magari ingiustamente incompresi dal popolo, la parte migliore del Paese. Guai ad assecondare la caricatura per cui gli elettori della Pdl sono tutti xenofobi, evasori o tele-dipendenti. La nostra scommessa in questa legislatura dovrà anzi essere quella, con le idee e i comportamenti, di convincerne molti delle nostre ragioni. Solo così torneremo a vincere.

Pubblicato il: 13.05.08
Modificato il: 13.05.08 alle ore 8.37   
© l'Unità.


Titolo: Condannati al dialogo
Inserito da: Admin - Maggio 14, 2008, 07:05:58 pm
14/5/2008
 
Condannati al dialogo
 
 
 
 
 
LUIGI LA SPINA
 
Gli apprezzamenti si sprecano e le interpretazioni pure. La nuova incarnazione berlusconiana, quella dialogante ed ecumenica, riscuote ampi consensi e solleva speranze persino un po’ affrettate. Si parla addirittura di una nuova fase della politica italiana, dopo 15 anni di scontri ideologici durissimi, di colpi bassi, di attacchi personali.

Le aperture allo schieramento avversario che hanno caratterizzato il discorso con cui il premier ha presentato alle Camere il suo nuovo governo vengono spiegate con la forza che gli deriva da una ampia maggioranza parlamentare, dall’omogeneità politica nel ministero, dalle difficoltà dell’opposizione. Ma anche dalla consapevolezza di quanto siano gravi ed urgenti i problemi che l’Italia deve risolvere e di come sia arduo cercare di affrontarli senza un clima di rispetto e di collaborazione, sia pure in ruoli diversi, tra istituzioni, partiti, forze sociali.

Difficile prevedere se questa specie di «luna di miele» parlamentare durerà a lungo o si infrangerà di fronte alle prime concrete scelte governative sulla sicurezza, sull’economia, sullo Stato sociale. È possibile che le buone, reciproche intenzioni siano sopraffatte, abbastanza presto, dagli egoismi partitici e dalle convenienze personali. Lo scetticismo, nato nella Grecia antica, sembra aver trovato in Italia la sua patria d’elezione. Poiché le prediche, soprattutto in politica, non servono a nulla, gli ottimisti possono contare solo una eventualità per confortare le loro speranze: una coincidenza di interessi tra i due maggiori partiti presenti in Parlamento.

L’Italia è ferma e, quindi, in un declino relativo non solo nel mondo, ma anche in Europa. Dall’inizio del secolo il bilancio, piuttosto disperante, è ormai chiaro. La crescita dell’economia è nettamente inferiore a quella degli altri Paesi del nostro continente. Le infrastrutture, cioè strade, ferrovie, trasporto aereo e marittimo sono assolutamente insufficienti per consentire la competitività delle nostre aziende sui mercati. Il caso Alitalia è l’emblema di una vera crisi nazionale, in questo campo. Il sistema dell’istruzione, quella della scuola secondaria e dell’università, squassato da riforme contraddittorie e continue, non assicura ai giovani competenze che si richiedono per lavori qualificati, corrispondenti alle attese di chi ha investito, per molti anni, nella formazione personale. Il divario economico e sociale fra il Sud e il Nord d’Italia, in questi anni, si è approfondito e anche qui, la questione della spazzatura in Campania può essere presa a simbolo di una generale, drammatica condizione, tra criminalità organizzata e degrado civile.

Di fronte a questo quadro che sarebbe sbagliato ritenere troppo pessimistico, il sistema politico, sempre dal 2000 in poi, non ha prodotto una riforma dello Stato che potesse sveltire il processo di decisione da parte della classe politica: dai poteri del premier al bicameralismo perfetto, dal federalismo a una buona legge elettorale. Brutte mezze riforme si sono succedute, con risultati o insufficienti o addirittura negativi. Le corporazioni, dal pubblico impiego ai professionisti e, persino, quelle dei taxisti hanno sempre sconfitto qualsiasi tentativo di limitare i loro privilegi. La giustizia non è diventata, in questi anni, né più celere né più certa. Nel frattempo, tra cittadini e classe politica è aumentato il distacco, con aspetti di sfiducia e di qualunquismo inquietanti.

Ecco perché, forse per la prima volta nella nostra storia recente, si può verificare, in questa legislatura, una vera coincidenza di interessi tra maggioranza ed opposizione. Berlusconi sa che neanche il grande divario parlamentare tra i due schieramenti gli sarà sufficiente per garantire al suo governo il successo. Veltroni ha bisogno di dimostrare che solo un’opposizione diversa, propositiva e non aspramente ostile, può accreditare una nuova identità, finora molto confusa e astratta, al partito dei riformisti italiani.

Il vero banco di prova di questa intesa bilaterale, però, non saranno, molto probabilmente, i prossimi concreti provvedimenti del Berlusconi quarto: quelli sulla sicurezza e sull’economia, dalla totale soppressione dell’Ici alle tasse ridotte sugli straordinari. Ma il clima di dialogo tra maggioranza e opposizione, nonostante il voto in contrasto su queste misure, si prolungherà fino al vero possibile accordo, quello sulle due leggi elettorali, per il voto europeo e per quello nazionale. In modo che si possa evitare il referendum.

Per il presidente del Consiglio, questa scadenza, infatti, costituisce l’unico elemento sul quale non ha, per i prossimi mesi, il pieno controllo. Nella sua maggioranza, tra l’altro, le idee in proposito non convergono totalmente e il risultato della consultazione potrebbe non corrispondere alle sue attese. Anche perché è prevedibile che il Pd si lanci in una robusta e popolare campagna per l’approvazione dei quesiti, nel tentativo di ottenere una sia pure parziale rivincita sull’esito delle legislative. D’altra parte, Veltroni spera di ridurre il carattere esasperatamente proporzionalista del suffragio europeo, perché potrebbe sottrarre al suo partito quella fetta di consensi acquistati, un mese fa, dalla propaganda per «il voto utile». Quale migliore occasione, allora, per utilizzare il clima di dialogo instaurato ieri alla Camera al fine di raggiungere un obiettivo che conviene a tutti e due?
 
da lastampa.it


Titolo: Paolo Barnard. Considerazioni sul V-day
Inserito da: Admin - Maggio 15, 2008, 11:02:37 am
Considerazioni sul V-day

di Paolo Barnard


Cari amici,
sono Paolo Barnard, giornalista ex inviato di Report e scrittore (Perché ci Odiano ecc.), impegnato da molti anni nei temi che ci stanno a cuore. Queste righe sono un appello molto più che accorato, sono piuttosto un grido per ostacolare la rovinosa deriva nella quale la Società Civile Organizzata italiana* è franata, e di cui il terribile V-day di Beppe Grillo è solo l’espressione più visibile.

Sta accadendo che noi, la Società Civile Organizzata di questo Paese, ci stiamo facendo annullare dai metodi e dalle strutture di rapporto di alcune personalità divenute nostri leader, e dal fumo negli occhi che costoro sono riusciti a soffiarci. Siamo ridotti oggi a poca cosa, ci stiamo auto consegnando all’irrilevanza, nonostante l’apparenza sulla superficie sembri dimostrare l’esatto contrario. Eravamo invece l’unica speranza rimasta a fronteggiare il trionfo internazionale del Sistema massmediatico e neoliberista, davvero l’ultima spiaggia. L’annullamento di quella speranza è per me una tragedia enorme, ma è indicibilmente più tragico che questa rovina si stia consumando per mano dei nostri stessi leader alternativi e con il nostro pieno ed euforico consenso. Questo, mentre il Sistema se ne sta tranquillo a guardare in piacevole stupore (il Sistema, amici, quello vero, quello che non sta a Palazzo Chigi).

E’ accaduto che noi, gli antagonisti, abbiamo riprodotto al nostro interno le medesime strutture del Sistema che volevamo contrastare.

* per Società Civile Organizzata si intendono sia i pochi attivisti che i tanti simpatizzanti raccoltisi attorno ai Movimenti e ai gruppi di protesta italiani.

L’annullamento verticale
Anche fra noi dilaga oggi la struttura chiamata Cultura della Visibilità, che è la cultura dei Personaggi, cioè dei Vip, e che nel nostro caso è rigorosamente alternativa, certo, ma sempre identica all’equivalente struttura del Sistema massmediatico. E cioè la nefasta separazione fra pochi onnipresenti famosi, e tanti seguaci. Ne siamo pervasi totalmente.
I nostri Personaggi e gli eventi che essi gestiscono (i Grillo, Travaglio, Guzzanti, Strada, Zanotelli, Ciotti, Moretti ecc., con le loro marce, manifestazioni, spettacoli di piazza, film ecc.) producono singolarmente cose (talvolta) egregie, ma collettivamente fomentano quella struttura compiendo un danno devastante, e che pochi ancora comprendono nella sua ampiezza e implicazioni. Quale danno? Essi di fatto svuotano l’Io dei loro seguaci impedendogli di divenire singole entità autonome e potenti, rendendoli (rendendoci) un esercito di anime incapaci, dunque minando la Società Civile Organizzata e la speranza che essa rappresenta. Ecco come:

1) I Personaggi, ponendosi come tali, inevitabilmente ci trasmettono la sensazione di sapere sempre più di noi, di poter fare più di noi, di contare più di noi, di aver sempre più carisma di noi, più coraggio, più visibilità. E più sapere, capacità, importanza, carisma, coraggio e visibilità noi gli attribuiamo meno ne attribuiamo a noi stessi. Il paragone inevitabile fra la nostra (generalmente fragile) autostima e l’immagine di ‘grandezza’ dei Personaggi, fra il nostro limitato potere e quello invece di chi è famoso, è ciò che finisce per annullarci. Tantissimi di noi infatti pensano “ma da solo cosa posso mai fare? cosa conto? chi mi ascolta?”, e in sol colpo ci auto annulliamo. Smettiamo così di pensare e di agire autonomamente e corriamo ad affidarci ai suddetti Personaggi, che prontamente ci forniscono un pensare e un agire preconfezionati, che noi fotocopiamo in un’adesione adorante e acritica. E questa è, insieme, una rovina per noi e la salvezza del Sistema, per le ragioni che esporrò a breve.

Riguardatevi la folla del V-day di Bologna e ragionate solamente su tutte quelle mani alzate e sulle ovazioni. Cosa trasmettevano se non una colossale attribuzione di potere a coloro che cavalcavano quel palco?
Abbiamo così ricreato una verticalità e nuove Caste. E’ tutto lì, la cosa peggiore è proprio questa. La loro imponenza, cultura, e visibilità rimpiccioliscono noi, che deleghiamo loro praticamente tutto.
E infatti in assenza dei personaggi, delle loro analisi e delle loro iniziative, la maggioranza di noi diviene inerte, anzi, scompare. Ecco perché le migliaia di noi che si riversano nelle piazze ogni anno sembrano regolarmente sparire nel nulla all’indomani. Ecco perché questa Società Civile non cambierà alcunché.

Beppe Grillo, come tutti i trascinatori, fa crescere (o piuttosto fanatizza?) alcuni suoi attivi seguaci ma contemporaneamente svuota centinaia di migliaia, ed ecco il fumo che egli ci getta negli occhi quando ci convince invece che tanto sta accadendo.
E non fatevi ingannare dal fatto che i nostri Personaggi denunciano cose spesso sacrosante, o che alcune loro iniziative sono anche benefiche. Questo vi oscura una visione più obiettiva, poiché siete assetati di qualcosa che finalmente spezzi il Sistema e vi gettate con entusiasmo sulla prima offerta disponibile che ‘suoni’ come giusta. Ma il giusto che costoro invocano e operano è ben poca cosa di fronte al danno che nell’insieme (e più o meno consapevolmente) essi causano attraverso l’annullamento di così tanti. Esattamente come nel caso, a voi noto, dell’ingannevole giustezza e natura benefica dei cosiddetti aiuti al Terzo Mondo: ineccepibili e sacrosanti all’apparenza, ma nella realtà essi sono la vera causa della rovina e della morte di milioni di derelitti nel mondo.

2) Tutti i sopraccitati Personaggi, dai comici ai preti ai giornalisti, hanno dato l’avvio in Italia a una forsennata industria della denuncia e dell’indignazione, ovvero la febbre della denuncia dei misfatti politici a mezzo stampa o editoria, con tanto di pubblici inquisitori che ne sfornano a ritmo incessante, nella incomprensibile convinzione che aggiungere la cinquecentesima denuncia alla quattrocentonovantanove in un martellamento ossessivo serva a cambiare l’Italia. Eppure, che la politica italiana fosse laida, ladra e corrotta, milioni di italiani lo sapevano benissimo già prima che molti di questi industriali dell’indignazione nascessero, e assai poco è cambiato. Allora, a che serve procedere compulsivamente ad aggiungere denuncia e denuncia e indignazione a indignazione? In realtà questo modo di agire serve a giustificare (oltre agli incassi degli autori) l’auto assoluzione di masse enormi di italiani, noi italiani come sempre entusiasti di incolpare qualcun altro, e mai noi stessi e la nostra becera inerzia, per ciò che accade. E badate bene che è proprio questa auto assoluzione scodellataci dai nostri Personaggi che ci annulla ulteriormente, poiché ci impedisce di imbatterci nell’unica verità in grado di farci agire, e cioè che alla fine della strada la responsabilità ultima per tutto quello che accade di sporco e corrotto in questo Paese è nostra. Direbbe Truman: The buck stops here.

La vera Casta in Italia sono i milioni di bravi cittadini che evadono più di 270 miliardi di euro all’anno, quelli che fanno politica una volta ogni cinque anni, quelli che ogni cinque anni consegnano masse di potere a pochi rappresentanti e poi si occupano solo dei fatti propri (come affidare a un bambino le chiavi del magazzino della Nutella e non controllarlo più, e poi lamentarsi che il bimbo ha finito col papparsela tutta). Ma anche quelli che, e parlo ora delle adoranti folle del V-day, si sentono 'belle anime' in lotta per Un Mondo Migliore perché si riversano nelle piazze ad applaudire l'istrione egomaniacale di turno, ma che chissà perché non compaiono mai nei luoghi del grigio vivere quotidiano a fare il lavoro noioso, paziente, un po' opaco dell'impegno civico, del controllo sui poteri, della partecipazione continua, del reclamo incessante di standard morali e democratici, e della creazione di consenso fra la vera Casta.
E invece a braccetto con l’industria della denuncia e dell’indignazione ci auto assolviamo e ci ri-annulliamo.
Si doveva fare altro.

La struttura orizzontale*. Solo Fonti, non Star.
Dovevamo invece essere aiutati a crescere per divenire ciascuno singolarmente il Personaggio di se stesso, il Leader di se stesso, il Travaglio-Grillo-Ciotti-Zanotelli ecc. di se stesso. Dovevamo imparare a ‘scrivere’, ciascuno di noi a suo modo, il ‘libro’ della propria denuncia dei fatti e della propria analisi accurata dei fatti, dovevamo imparare a fare ogni giorno il nostro personale Tg, ad essere i presidenti del consiglio di noi stessi, i politici di noi stessi, unici e soli referenti di noi stessi, a credere solo nella propria verità, senza mai, mai e mai aderire acriticamente alla verità di alcuno, chiunque esso/a sia, qualunque sia la sua fama, provenienza, carisma o potere. Ciascuno di noi sul proprio palco, sotto i propri riflettori, in prima serata, non importa quanto colti, quanto intelligenti, quanto connessi, poiché l’unico motore del nostro agire doveva essere la fede nell’insostituibile importanza di ciascuno di noi.

Non dovevamo permettere la nascita di Star alternative perennemente citate, adorate, ospitate in tv, inseguite nelle piazze fin al delirio da stadio, e detentori del ‘cosa si deve fare’, se non addirittura dell’organizzazione nostro futuro. Semmai esse dovevano invece fungere da semplici individui che si mettevano a nostra disposizione unicamente come fonti. Semplici fonti, da consultare con sana distanza, da usare come si usa Google, ovvero pagine fra le tante di una enciclopedia che può esserci utile ma il cui ruolo doveva rimanere più modesto. A scintillare non dovevano essere i Grillo e i Travaglio, doveva essere ogni singola persona comune, per sé, in sé. Tutto ciò, in un rapporto sempre e solo orizzontale.

Solo il percorso sopraccitato avrebbe garantito la nascita di un insieme di cittadini capaci di agire sempre, indipendentemente da qualsiasi cosa, capaci di combattere anche da soli, anche in assenza dei trascinatori, per sé e con sé, dunque potenti, affidabili e durevoli, sani in una dialettica sociale sana. Gente in grado di analisi attente e indipendenti di ogni evento, alla ricerca della giusta soluzione, e che mai si farebbe trascinare dall’errore fatale dell’adesione acritica all’analisi di qualcun altro.

Questo avrebbe fatto tremare i palazzi, questo li avrebbe spazzati via, questo e solo questo avrebbe cambiato la nostra Italia.
* ho preso in prestito il termine ‘orizzontale’ da uno scritto di  Gherardo Colombo, che ringrazio. nda

Il gregge e il precipizio.
Fra i nostri Vip alternativi si agitano alcuni personaggi meschinamente in malafede, ed è davanti agli occhi di tutti. Altri sono meno equivoci, ma tristemente incapaci di vedere una verità che vale la pena ripetere: non possono incitare le persone ad agire mentre, per i motivi sopraccitati, li svuotano della capacità di agire. Il V-day e i suoi Vip hanno offerto uno spettacolo indecente quando incitavano la cittadinanza a fare politica dopo averla per anni annullata fino all’intontimento. Ed eccolo l’intontimento risultante: sentiamo e accettiamo da costoro cose che solo pochi anni fa ci avrebbero fatto trasecolare e indignare, come:

- le proposte di omologazione culturale degli immigrati che neppure Le Pen ha mai fatto;
- l’esaltazione del criminale di guerra Tony Blair come leader illuminato (sic) e della Fallaci come “unica vera giornalista italiana”;
- la schedatura del DNA;
- l’assoluzione delle condotte disumane e dei crimini internazionali d’Israele perché “sappiamo di cosa sono capaci gli arabi”;
- l’inammissibile retorica sull’esistenza di un presunto ‘regime’ in Italia, che offende la memoria dei milioni che sono morti sotto le vere torture nelle vere carceri dei veri regimi, e che espone la frode di certi nostri attuali ‘oppositori del regime’ perennemente in prima serata Tv, o nei salotti letterari, o nelle piazze o sui maggiori quotidiani nazionali, quando non mi risulta che Steve Biko o Santiago Consalvi o ancor prima Gramsci o i fratelli Rosselli si siano mai opposti in quel modo ai rispettivi regimi;
- e poi guazzabugli sgangherati di concetti come democrazia e partecipazione, con, solo per citare un esempio recentissimo, sconsolanti assurdità come questa (profferta da una fra i nostri idoli in prima serata): “L’Italia non è una democrazia, lo dimostra il fatto che dopo ogni inchiesta di Report non accade mai nulla!”. E’ desolante che questa opinion leader alternativa confonda una trasmissione Tv col risultato di un referendum. E’ a questo livello di competenza che affidiamo le nostre convinzioni? E non si tratta di bazzecole; immaginate solo come avrebbe ironizzato quella stessa opinion leader se Calderoli avesse detto “L’Italia non è una democrazia, lo dimostra il fatto che dopo ogni denuncia della Padania non accade mai nulla!”.
- cadute di stile terribili, come l’augurio di morte al politico urlato dal palco e accolto dall’applauso scrosciante (sic) del pubblico dei ‘giusti e nuovi cittadini’;
- tirate isteriche all’insegna del miglior imperialismo culturale in pieno stile Bush/Huntington spacciate per difesa dei diritti umani e della legalità in Afghanistan;
- intolleranza ed esclusione delle opinioni dissidenti espresse dall’interno da parte dei grandi paladini anti imperialisti come Lettera 22 o Peacereporter o il Manifesto, o Diario, o Liberazione o Radio Popolare, esattamente come accadrebbe su Libero, il Foglio, Matrix o a Porta a Porta;
- il noto programma d’inchiesta “coraggioso” che sopravvive e prospera 4 anni in prima serata Tv sotto il governo Berlusconi, mentre il noto ‘oppositore del regime’ pontifica che “chi non ha il guinzaglio in televisione in questo momento non lavora e chi ci lavora in un modo o nell’altro un suo guinzaglio ce l’ha….”, salvo poi rifiutarsi con spregio e arroganza di spiegare questa contraddizione;
- il giornalista moralizzatore che salta dalla RAI a Mediaset alla RAI al parlamento europeo a suon di denaro pubblico e con mandato popolare, per poi dire grazie tante e piantarci in asso per riprendersi il suo giocattolo preferito alla faccia del nostro mandato e dei nostri soldi;
- il quotidiano ‘diverso’ e i suoi fans che abbracciano l’eroe Calipari perché ha salvato una di loro, ma che alla domanda “cosa avreste detto di questo ‘sbirro’ se fosse morto salvando Quattrocchi o Agliana?” si rifiutano sia di rispondere che di aprire una riflessione tremendamente importante;
- i preti attivisti che chiedono ai potenti del mondo il ripudio, senza se né ma, dell’imperialismo, del capitale selvaggio, dei mercati di armi, delle mafie, in quanto irriformabili e osceni, ma che non accennano ad alcun ripudio senza se né ma del loro Vaticano, non meno irriformabile e osceno;
- gli insulti a raffica come strumento dialettico del nuovo Guru, in totale sintonia con le dialettiche ‘celoduriste’;
- il pressappochismo delle denunce, le sparate nel mucchio, l’urlo come garante di affidabilità di un’affermazione, che ha rimpiazzato del tutto l’analisi critica con cui dovremmo sezionare ciascuna affermazione prima di promuoverla a verità. E tanto, tristemente, altro.

E noi in deliquio per questa roba, la chiamiamo rivoluzione, democrazia, giustizia.
Ma proprio più nessuno si sta rendendo conto che il V-day è stato lo scioccante apogeo di questa disastrosa deriva? O che Beppe Grillo è andato fuori di testa, detto come va detto, che si sente e si pone come l’Unto del Signore che salverà l’Italia (vi ricorda qualcuno?). Quell’uomo dilaga e straripa e mescola e pasticcia e spara e si contraddice e impera e fa e disfa, e persino delira di un futuro a sua immagine per tutti, e ce lo sta imponendo a urli e insulti.
Noi persone civicamente impegnate siamo finiti a berci tutto questo senza neppure più vederlo. E il pericolo è che un affidamento così sciagurato a figure così ipertrofiche con tali metodi e con quella struttura di relazione verticale ci sta portando tutti insieme nel baratro, al loro seguito.

I sonni tranquilli del Potere.
Vi prego di riflettere. Credete veramente che il Potere sia così sciocco e impreparato da poter essere, non dico sconfitto, ma anche solo disturbato da questo sgangherato esercito alla deriva? Ma credete veramente che coloro che in soli 35 anni hanno saputo ribaltare due secoli e mezzo di Storia, coloro che hanno reso di nuovo plausibile l’inimmaginabile nella quotidiana vita di 800 milioni di cittadini occidentali, coloro che muovono 1,5 trilioni di dollari di capitale al giorno, coloro che tengono ben salde nelle loro mani tutte le leve della nostra Esistenza Commerciale stiano perdendo anche un singolo secondo di sonno per noi e per i nostri Guru? Ma avete un’idea di come lavorano questi? Dovete capire, proprio visualizzare, il potere di chi è riuscito in un attimo della Storia a compattare migliaia di destre economiche eterogenee sotto un’unica egida e sotto un pugno di semplicissime ma ferree regole, per poi travolgere il pianeta ribaltandolo da cima a fondo. Il Potere è ed è stato coeso, annullando ogni individualismo fra i potenti, è ed è stato disciplinato all’inverosimile, ossessivamente preciso in ogni analisi, immensamente competente, sempre silenzioso, al lavoro 24 ore su 24 senza mai un respiro di pausa, comunicatore raffinato, con a disposizione i cervelli più abili del pianeta e mezzi colossali. Aprite gli occhi. Secondo voi questa immensa macchina infernale può preoccuparsi dell’incedere di un nugolo di personaggi o istrioni più o meno credibili con al seguito una minoranza di adepti/fans/seguaci persi nell’ingenua buona fede quando non già del tutto disattivati dei loro stessi leader?
E allora capite la mia disperazione nel vedere che forze già così fragili e sparute come le nostre vengono eviscerate e si fanno eviscerare dall’interno? Vi prego, fermatevi, fermiamoci tutti.

L’unica speranza.
Dobbiamo fermarci, fermare tutta la nostra macchina di oppositori civici, Movimenti inclusi, e guardarci dentro. Forse non siamo tanto migliori o differenti dal Sistema che vorremmo contrastare, dalle persone che tanto detestiamo. Forse abbiamo replicato il loro sciagurato modello di rapporti, e per alcuni dei nostri leader alternativi vale la considerazione di Brecht che “Il nemico talvolta marcia alla vostra testa”.
Io ho suggerito una strada, che è quella descritta precedentemente, e cioè il percorso di crescita individuale in consapevolezza e in autostima di ciascuna persona in assenza di Guru e di Vip, e in assoluta orizzontalità critica. Ma con un’aggiunta: è ora di piantarla con questa febbre autoassolutoria nutrita dall’industria della denuncia per nutrire le sue Star e che paralizza noi. Lo sappiamo già alla nausea cosa non va, basta. E’ ora di farsi carico, e prima di tutto

-          FARSI CARICO DEI PROPRI TALENTI, NON IMPORTA SE MOLTI O POCHI, CON PARI DIGNITA' RISPETTO A CHIUNQUE ALTRO

-          FARSI CARICO DELLE PROPRIE RESPONSABILITA', SENZA SCARICARE LE COLPE SOLO SUI POTENTI

-          E POI ACCETTARE CIASCUNO DI NOI DI PAGARE OGNI PREZZO LUNGO LA STRADA PER UN MONDO MIGLIORE

-          E INFINE CREARE CONSENSO FRA LA GENTE SUI VALORI COMUNI E SU QUEI PREZZI DA PAGARE

-          DIVENIRE IN ALTRE PAROLE CITTADINI ADULTI CHE, SENZA GURU E SENZA VIP, SAPPIANO PARTECIPARE IN ORIZZONTALE

Grazie per avermi letto.

Paolo Barnard
dpbarnard@libero.it   

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Titolo: Travaglio, la «talpa» dei boss e il giallo della vacanza siciliana
Inserito da: Admin - Maggio 15, 2008, 12:49:43 pm
Il «tramite»: un ex maresciallo che dovrà scontare 4 anni e 6 mesi per favoreggiamento

Travaglio, la «talpa» dei boss e il giallo della vacanza siciliana

D'Avanzo: conto pagato da un condannato per mafia. La replica: falso

 

ROMA - La botta è di quelle che fanno rumore. Marco Travaglio, il giornalista paladino del giustizialismo che si è fatto tanti ammiratori e diversi nemici con le sue denunce, ora subisce l'«effetto letale del metodo Travaglio». E proprio lui, Marco Travaglio - che giovedì scorso, ad «Annozero», ha ricostruito i rapporti avuti nel '79 dal presidente del Senato Renato Schifani con Nino Mandalà, allora solo futuro boss di Villabate poi accusato di mafia nel 1998 - adesso è costretto a difendersi pubblicamente per un episodio circoscritto alla sua vita privata. Lo deve fare per forza dopo l'affondo di un altro giornalista della giudiziaria di razza, Giuseppe D'Avanzo di «Repubblica », che lo tira in ballo e lo strapazza per le sue vecchie e non dimenticate frequentazioni con personaggi poi condannati al processo per le «talpe» alla procura di Palermo.

Correva l'anno 2002. Era l'estate in cui il giornalista Travaglio con la sua famiglia, moglie e due figli, inizia ad andare in villeggiatura a Trabìa in compagnia di un noto sottufficiale della Guardia di Finanza: si tratta di quel maresciallo in forza alla Dia, Giuseppe Ciuro, sempre elegante e disponibile con tutti i giornalisti di giudiziaria di passaggio a Palermo, che poi verrà condannato anche in appello a quattro anni e sei mesi per violazione del sistema informatico della procura di Palermo e favoreggiamento dell'ingegner Michele Aiello.

Sì, l'ingegner Aiello, il «re delle cliniche» che a gennaio del 2008 è stato condannato in primo grado a 14 anni per associazione di stampo mafioso e truffa nel dibattimento sulle «talpe» che ha coinvolto con una pesante sentenza (5 anni per favoreggiamento di singoli mafiosi) anche l'ex governatore dell'Udc Totò Cuffaro. Per Travaglio il colpo è duro anche perché si tratta, ma solo in apparenza, di «fuoco amico». Sull'onda delle polemiche innescate dalla vicenda Schifani, si muove infatti D'Avanzo, autore di tante inchieste sulla mafia e molto stimato negli ambienti giudiziari di mezza Italia, che senza troppi complimenti fa a pezzi il metodo Travaglio: quello, scrive, che «solo abusivamente si definisce giornalismo di informazione». Ma la botta vera arriva ieri quando D'Avanzo, per dimostrare come «il metodo Travaglio» possa coinvolgere tutti noi, tira fuori un verbalino rimasto in naftalina dal 2003: l'estate in cui gli investigatori di Palermo mettono sotto intercettazione il telefonino del maresciallo Ciuro mentre dialoga amichevolmente col giornalista durante la comune villeggiatura a Trabìa.

Ciuro poi, ma la ricostruzione di D'Avanzo è controversa, avrebbe chiesto all'ingegnere Aiello di saldare il conto dell'albergo. Racconta Travaglio, che ieri non è stato affatto contento di leggere sul giornale per il quale collabora un attacco così duro e che nega di essersi fatto pagare alcunché: «Quella fu una esperienza davvero fantozziana. A una cena, dopo un convegno, chiesi a Pippo Ciuro, un vero personaggio perché aveva collaborato anche con Giovanni Falcone, di indicarmi un posto per le vacanze in Sicilia. Lui mi disse che c'era un posto vicino a quello in cui di solito andavano lui e il pm Antonino Ingroia, di cui era collaboratore. Così, per mail, mi mandò un depliant di un albergo, se non ricordo male si chiama Torre del Barone, che però era veramente troppo lussuoso per me. Ma lui, davanti alle mie obiezioni, mi disse di non preoccuparmi perché le tariffe non sarebbero state poi così care. Mi fidai. Quando poi sono andato a pagare, alla reception la signorina mi ha presentato un conto pazzesco, il doppio del previsto. Sei o sette anni fa, devo aver pagato l'equivalente di otto, dieci milioni...Telefonai a Ciuro e gli dissi: "E meno male che me lo hai segnalato tu 'sto posto!". E lui: "Paga, paga. Che poi magari ti fanno lo sconto un'altra volta". Insomma, io mi sono pagato tutto di tasca mia e di questo Aiello non ho mai sentito parlare, almeno fino al giorno del suo arresto... Io comunque in quel posto non ci sono mai più tornato visto che la sòla l'avevo già presa».

L'anno successivo, mese di agosto del 2003, Travaglio torna in vacanza in Sicilia: «Andai con la famiglia per dieci giorni al residence Golden Hill di Trabìa dove di solito alloggiavano Ciuro e Ingroia e ci fu quella buffa storia dei cuscini poi finita nei brogliacci delle intercettazioni. Io chiamai Ciuro e gli dissi: "Qui manca tutto. I cuscini, la macchinetta del caffé perché i precedenti affittuari si erano portati via tutto. Poi gli ospiti del residence mi aiutarono: chi con un cuscino, chi con la Moka... ». E l'affondo di D'Avanzo? «Ecco, se non fosse per la mascalzonata che ha fatto adesso questo signore contro di me ci sarebbe solo da ridere». Ma al Golden Hill chi pagò il conto? Risponde Travaglio: «Io ho pagato la prima volta il doppio di quanto stabilito e per il residence ho saldato il conto con la proprietaria. Tutto di tasca mia, fino all'ultima lira e forse se cerco bene trovo pure le ricevute. Ma poi vai a sapere cosa cavolo diceva questo Ciuro al telefono. Magari millantava come fece con Aiello quando gli raccontò che lui e Ingroia avevano ascoltato a Roma un pentito il quale, in realtà, non si era mai presentato ». Anche se dopo il suo arresto non ha più visto il giornalista Travaglio, l'ex maresciallo Ciuro ricorda bene quella vacanza al «Golden Hill» con Travaglio e il dottor Ingroia durante la quale «si stava insieme, si giocava a tennis e si facevano lunghe chiacchiere a bordo piscina ma poi ognuno faceva la sua vita anche perché c'erano i figli piccoli».

E il conto? «Di questa vicenda io non ne so niente, lui ebbe i contatti con la signora del residence. Per il pagamento se l'è vista lui, io non me ne occupai ». Più di un dubbio, invece, ce l'ha l'avvocato Sergio Monaco, difensore di Aiello: «Premesso che non sono io la fonte di D'Avanzo, che non conosco, posso solo dire che l'ingegner Aiello conferma che a suo tempo fece la cortesia a Ciuro di pagare un soggiorno per un giornalista in un albergo di Altavilla Milicia. In un secondo momento, l'ingegnere ha poi saputo che si trattava di Travaglio». Qui finisce la storia di una vacanza di tanti anni fa, uno di quegli episodi che possono capitare a chiunque ceda alla tentazione di mischiare villeggiatura, amicizie di lavoro e qualche equivoco di troppo.

Ricorrendo alla saggezza di Pietro Nenni, istillata ai giovani socialisti a un congresso del Psi, si potrebbe parafrasare: «A fare a gara a fare i puri, troverai sempre uno più puro che ti epura».

Dino Martirano
15 maggio 2008

da corriere.it


Titolo: Albert Einstein... liquida come infantili le "leggende" della Bibbia.
Inserito da: Admin - Maggio 17, 2008, 12:23:40 am
2008-05-16 16:48

LETTERA DI EINSTEIN SU DIO VENDUTA A LONDRA PER 214.000 EURO


 LONDRA - La lettera in cui Albert Einstein afferma che Dio "non è nient'altro che l'espressione e il prodotto delle debolezze umane" e la Bibbia è "una raccolta di leggende dignitose ma primitive" è stata venduta dalla casa d'aste londinese Bloomsbury per 170.000 sterline (207.600 se si contano le spese varie aggiunte), poco meno di 214.000 euro. La quotazione prevista era di 8.000 sterline.

Dopo un'asta movimentata la lettera, del 1954, è andata a un collezionista privato, afferma il Guardian.

La lettera fu scritta a mano in tedesco dal teorico della Relatività il 3 gennaio del 1954, quindici mesi e mezzo prima della sua morte avvenuta a Princeton negli Stati Uniti.

E' indirizzata al filosofo Eric Gutkind, che gli aveva spedito copia di un suo libro sulla Bibbia. Nella missiva il fisico liquida come infantili le "leggende" della Bibbia e sottolinea che "per quanto sottile sia nessuna interpretazione può modificare quel dato".

"Per me - dice inoltre all'amico filosofo - la religione ebraica è al pari di tutte le altre un'incarnazione delle più infantili superstizioni.
E per me il popolo ebraico, al quale sono contento di appartenere e con cui sento una profonda affinità mentale, ha le stesse qualità di tutti gli altri popoli. In base alla mia esperienza non sono meglio degli altri gruppi umani anche se la mancanza di potere li protegge dai peggiori cancri. Non vedo in essi nulla di eletto". 

da ansa.it


Titolo: FILIPPO DI GIACOMO - I cattolici del settimo nano
Inserito da: Admin - Maggio 17, 2008, 09:17:55 am
16/5/2008
 
I cattolici del settimo nano
 
 
FILIPPO DI GIACOMO
 

Per Tonino Tatò, era una certezza. In Italia, scriveva il cattolico più amato dalla sinistra, si può benissimo governare senza i preti ma è impossibile governare contro i preti. Anche tramite l’utilizzo di questa ricetta, dopo aver sanato l’annosa ferita stalinista con la Chiesa cattolica, nel 1975 e nel 1984 Berlinguer e il suo Pci riuscirono a ottenere un risultato elettorale che si aggirava intorno al 35%. I tempi non devono essere poi così cambiati se, applicando la stessa formula, Berlusconi è riuscito a raggiungere più o meno lo stesso risultato nell’aprile del 2008, vincendo la recente tornata elettorale. Visto che le cose stanno proprio così, e visto che in tanti constatano l’assenza della «componente cattolica» nell’attuale Consiglio dei ministri, ne consegue che alla lista dei sei partiti morti a causa del mal di quorum bipolaristico deve essere aggiunto anche il nome di un altro illustre scomparso. Il settimo nano, ormai estinto, è quel cattolicesimo politico che negli ultimi tre lustri abbiamo spesso e volentieri osservato imbrigliato in una serie di polarizzazioni sterili, mediaticamente efficaci, facilmente sospettabili di essere sempre imposte - dall’alto e dai soliti due o tre personaggi - sulla testa dei cattolici italiani e dei loro 226 vescovi, strategicamente ordinati all’interno di un’imbarazzante e muscolare presenza politica.

A quanto pare, il Cavaliere dopo aver pesato il valore aggiunto dell’Udc all’interno della sua coalizione, si è astenuto da ogni patto politico con chiunque sfoderasse il convinto cipiglio, e la luccicante corazza, del cattolico da combattimento. «L’Udc merita di crescere e non di sparire», «Berlusconi pare abbia somatizzato l’idea che i cattolici siano politicamente inaffidabili», hanno fatto rimbalzare da Avvenire, prima e dopo le elezioni, la mente e il braccio degli eventi di piazza e di immagine by cardinale Ruini. Invece, a questo giro e nonostante le profferte, nessuna delle forze cha hanno composto il Pdl ha fatto campagna elettorale prendendo in leasing l’identità cattolica. Per una così sana omissione, l’attuale premier e i suoi sono stati certamente aiutati dal ruolo che si sta pazientemente ritagliando l’attuale presidente della Conferenza episcopale italiana, notoriamente più preoccupato di far sentire la voce dei vescovi piuttosto che far vedere i loro muscoli.

Con l’astensione Berlusconi-Bagnasco, a metà aprile, durante le ultime elezioni, si è incrinato dunque quello specchio, pedissequamente osservato dai giornali e dalle forze politiche, dove è apparsa sempre e unicamente un’immagine di Chiesa carica di soldi e di potere. È un’immagine artefatta, creata dalla politica grazie al Concordato del 1984 e per comprenderlo sarebbe sufficiente andare a rileggere ciò che Tarcisio Bertone, allora docente di diritto pubblico ecclesiastico, scriveva nei suoi contributi ai quattro volumi di Il diritto nel mistero della Chiesa. In applicazione della teoria del «Tevere più largo» così cara a Spadolini, è stata l’Italia a chiedere che Vaticano e Santa Sede rimanessero confinati nel loro ruolo soprannazionale, e che le vicende di casa nostra fossero trattate da italiani e tra italiani. La necessità di autorizzare il presidente della Cei a un ruolo così marcatamente pubblico è stata un regalo, forse il meno utile, che la politica italiana ha concesso ai cittadini credenti di questo Paese. Il cardinale Angelo Bagnasco sembra molto intenzionato a voler abituare laici e credenti a un parsimonioso utilizzo del qualificativo «cattolico». Un termine questo che il rappresentante dei nostri vescovi associa sempre in riferimento a coloro che, qualunque partito scelgano nel segreto dell’urna, ricorrono però al cattolicesimo per vivere e impegnarsi a far funzionare in senso democratico, legale e solidale il sistema di valori e di relazioni che fanno pulsare il cuore del nostro Paese. Speriamo che sia ben comprensibile anche a coloro che, a Genova e a Savona, promettono manifestazioni e contestazioni contro il Papa ed i vescovi. Perché andare contro i preti, credendo che il cattolicesimo politico italiano sia solo nostalgia, è un errore che nessuno può ancora permettersi.
 
da lastampa.it


Titolo: Travaglio fa outing: ho votato Di Pietro
Inserito da: Admin - Maggio 17, 2008, 09:20:01 am
IL GIORNALISTA di scena alla stampa estera

Travaglio fa outing: ho votato Di Pietro

«Sono un liberale-conservatore». E sulla polemica con D'Avanzo: «Mi detesta anche se mi conosce appena»

 

ROMA - Marco Travaglio di scena alla stampa estera per raccontare anche le vicende di cui è stato protagonista proprio in questi giorni, il caso Schifani e le polemiche cresciute sui giornali: ma si tratta di una pura casualità, visto che l'incontro, spiegano, era stato fissato già da tempo, circa un paio di mesi fa. Travaglio è apparso sereno e rilassato davanti ai colleghi stranieri, ha risposto alle loro domande e ha dato un quadro della situazione politica italiana dove «l'opposizione è sparita» e dove ancora mancano le leggi per regolare il conflitto d'interessi e gli assetti radiotelevisivi. Critico verso quel centrosinistra che, secondo lui, ha spianato la strada alla schiacciante vittoria elettorale del Popolo della Libertà e di Silvio Berlusconi.

L'OUTING - Ma per chi vota Travaglio? «Sono un liberale-conservatore vicino alle posizioni di Barbara Spinelli e di Giovanni Sartori e alle ultime elezioni ho votato Antonio Di Pietro», risponde. «I giornalisti in sala - ha commentato al termine dell'incontro - erano attenti e interessati ai fatti e soprattutto alla loro veridicità e non alle vicende private di chi li racconta come invece accade da noi». Un riferimento al duro attacco lanciato da Giuseppe D'Avanzo dalle colonne di Repubblica che ha parlato di «metodo Travaglio», citando fonti secondo le quali il giornalista si sarebbe fatto pagare una vacanza da personaggi legati alla mafia. «Un falso, cui lui stesso dice di non credere. Evidentemente mi detesta anche se mi conosce appena. Ci siamo incontrati due-tre volte, scambiandoci un semplice saluto. Per quanto mi riguarda non odio nessuno. In ogni caso, lui e chi ha contribuito a diffondere calunnie nei miei confronti ne risponderanno in tribunale».

Travaglio ha confermato di aver ricevuto la solidarietà di numerosi colleghi e personaggi come lo scrittore Antonio Tabucchi. Ha infine ringraziato Michele Santoro che, ieri, in apertura della puntata di Annozero, lo ha difeso a spada tratta, incoraggiandolo ad andare avanti perché secondo lui ha la gente dalla sua parte.


16 maggio 2008

da corriere.it


Titolo: Il dolce stil nuovo inaugurato dal Cavaliere rischia di sembrare stucchevole
Inserito da: Admin - Maggio 17, 2008, 11:18:30 am
POLITICA

Il dolce stil nuovo inaugurato dal Cavaliere rischia di sembrare stucchevole

Dalla faziosità isterica, dagli insulti in aula, si è passati all'euforia del galateo

Dal turpiloquio all'effetto melassa quando la politica non ha misura

di FILIPPO CECCARELLI

 

SE NE trovasse uno disposto a difendere le proprietà integrative e anche curative della melassa! Liquido denso e appiccicoso ricavato dalla canna da zucchero o dalla barbabietola. Nel giro di un paio di settimane si sono scagliati contro la melassa Gianfranco Fini, il comunista Sgobio, il presidente veneto Galan, la dilibertiana Palermi, il dipietrista Donadi, tutti contro la melassa da più parti evocata a proposito dei rapporti fra governo e opposizione.

E un po' si capisce anche. Il dolce stil nuovo inaugurato l'altro giorno alla Camera con tanto di citazione berlusconiana di Guido Cavalcanti, rischia di risultare appunto troppo dolce, o per meglio dire troppo sdolcinato, smanceroso, stucchevole. Così ieri pure Veltroni, dopo aver incontrato il presidente del consiglio, ha voluto apporre il suo sigillo su tale espressione impegnativamente figurata: "Non è democrazia quella che confonde i ruoli e fa melassa sul piano programmatico".

Metafora per metafora, o fantasia per fantasia, tra le proprietà terapeutiche di questo zuccherosissimo alimento ci sarebbe quella di alleviare parecchi dei malanni che affliggono il sistema politico italiano: acidosi, anemia, coliche, crampi, edemi, insonnia, nervosismo, reumatismi, stipsi. Nei fumetti di Topolino e Paperino compare spesso uno sgocciolante barattolo di melassa. L'ipotesi che qui ci si sforzerebbe di sostanziare è che l'obiettivo stato melassico che si registra da più parti in qualche modo preesiste alle nuove relazioni tra governo e Pd; e che gli intenti politici veltrusconiani, senz'altro degni di nota, hanno comunque assegnato alla pretesa svenevolezza un rango che questa si era già conquistata per conto proprio sul piano degli atteggiamenti, delle rappresentazioni emotive e più in generale delle modalità espressive, dal linguaggio alle immagini.

Vedi, ad esempio, lo scambio civettuolo di bigliettini nell'aula di Montecitorio fra il presidente e le sue deputate, o la neo-ministro Carfagna che nel delineare i compiti del suo nuovo impegno istituzionale menziona quello di "coccolare" le donne, per non dire l'intensa produzione poetica dell'onorevole Bondi che in tal modo è arrivato a rivolgersi al collega Cicchitto: "La mia fede è la tenerezza dei tuoi sguardi". Ma vedi anche, sempre nel passato prossimo, l'insistita ostensione della nipotina di Prodi, anche con maglietta "Nonno for president"; la commozione di Fassino davanti alla vecchia tata a "C'è posta per te", o D'Alema che così si auto-presentava: "Fratello maggiore di Walter e zio di Dario".

Uno sciroppone sentimentale, un andazzo all'acqua di rose, un autentico giulebbe - termine di derivazione araba appropriatamente utilizzato dalla senatrice Finocchiaro nei giorni scorsi - che adesso cerca la sua degna certificazione nel trionfante dialogo bypartisan; così come, da un più malizioso punto di vista, la trova nel sospetto inciucio.

Molto dipende, è vero, dai due protagonisti. Sia Berlusconi che Veltroni appaiono particolarmente adatti a questo nuovo clima di reciproche dolcezze. Il primo perché viene dalla cultura della pubblicità che tutto edulcora in nome del consumo; il secondo perché in un certo modo ha riempito il vuoto del comunismo facendosi artefice ed esecutore di una ideologia umanitaria a cui è stato attribuito il nome di "buonismo".

Eppure sembra anche, l'odierna e paventata melassa, una reazione del tutto speculare, ma altrettanto vistosa, all'isterica faziosità che s'è respirata negli ultimi anni - e basti pensare agli spettacoli continuamente offerti dal ceto politico nelle aule parlamentari: tifo da stadio, striscioni, bandiere, coretti, muggiti, mascherate, gestacci, turpiloquio. Come se l'Italia fosse comunque destinata a sbandare fra estremi, ora il fiele ora il miele, un tempo la bile e adesso, di colpo, il rispetto, il confronto, il galateo, l'euforia delle buone maniere, Calderoli che si scusa con i libici, sindaci e presidenti di assemblee a disposizione di tutti i cittadini, i parlamentari a messa a inizio legislatura con il cardinal Bertone e monsignor Fisichella, Berlusconi che benevolmente scherza su Veltroni e lo invita a colazione.

Ragioni profonde e complesse hanno l'aria di governare questo processo, con le sue inesorabili oscillazioni. Ma gli effetti sono in ogni caso abbastanza curiosi. La Russa e Bocchino si fanno allegri scherzi notturni, come pure si consegnano l'un l'altro pubblici doni. Esaurita la saga fotografica e iper-famigliare di Ceppaloni, rapidamente dimentichi del fango di Vallettopoli, i rotocalchi femminili si buttano a pesce su baby-Fini e baby-Casini: nascite, battesimi, quadretti di pubblica intimità. La deputata radicale Poretti annuncia una favola scritta per la sua bimba su Montecitorio, anzi "Montecitopo". Durerà il suo tempo, ma intanto è tutto un dispiego di affettuosità e tenerezze. E non manca mai l'occasione per qualche iniziativa benefica, naturalmente con torte e candeline.

E tuttavia, per quanto ottima per dolci, la melassa è sempre collosa e alla lunga anche nauseabonda. Fino a prova contraria, si sta più o meno misteriosamente consolidando una stagione di abbracci, carezze, baciamano, buffetti, lacrime, bronci, perdoni, buoni propositi, sogni e confessioni. Lo stile del discorso pubblico ha fatto suoi i codici della vita personale. Con l'incontro tra Berlusconi e Veltroni questo c'entrerà poco, o invece tantissimo, tutto accogliendosi con temperato scetticismo. L'importante, al solito, è non sfondare troppo impetuosamente la soglia del grottesco.

(17 maggio 2008)

da repubblica.it


Titolo: «Microcrediti per rimpatriare i clandestini, Roma guardi Madrid»
Inserito da: Admin - Maggio 18, 2008, 11:23:54 am
«Microcrediti per rimpatriare i clandestini, Roma guardi Madrid»

Toni Fontana


«La politica del governo italiano favorisce l’insorgere di sentimenti xenofobi. Anche la Spagna sta cercando di favorire il ritorno in patria degli immigrati rimasti disoccupati in seguito al rallentamento dell’economia, ma concede loro microcrediti e sussidi per permettere loro di tornare in patria e avviare un’attività economica. El Paìs seguirà con molta attenzione la situazione italiana. Non vogliamo che da noi accada ciò che è successo a Napoli e a Roma». È l’opinione di Vicente Jimenez Navas, condirettore de El Paìs.

Da giorni il suo giornale, in prima pagina, pubblica un titolo sull’Italia. Quello di ieri recitava: L’Italia apre la caccia ai immigrati irregolari...

«Sì, effettivamente siamo molto interessati alle notizie che provengono dall’Italia, in special modo all’arrivo di Berlusconi al governo. Il tema dell’immigrazione attira la nostra attenzione perché i problemi di Italia e Spagna si assomigliano. Entrambi i paesi sono frontiere dell’Europa».

Le soluzioni proposte dai due governi però sembrano molto differenti. La vice presidente De la Vega ieri ha attaccato la politica del governo italiano.

«Certo, quello di Berlusconi è un governo di destra, che comprende anche esponenti neo-fascisti, ed esprime indirizzi politici xenofobi. Tra le politiche dei due paesi la differenza è abissale. El Paìs analizzerà attentamente come Roma affronta il problema e non nascondiamo la preoccupazione per un certo scivolamento a destra della politica europea e, in special modo, di quella italiana, vista la composizione del governo. Anche in Spagna, tuttavia, si stanno rafforzando le politiche per il contenimento dell’immigrazione clandestina».

Quali sono le linee guida delle politiche del governo di Madrid..

«Zapatero sta affrontando il problema dell’immigrazione partendo dalla situazione economica. I più colpiti dal rallentamento economico e dall’aumento della disoccupazione saranno moltissimi immigrati. I mezzi che vengono adottati da Zapatero in questa fase non sono di carattere repressivo, come in Italia, ma di protezione sociale, per evitare che un’ampia parte della popolazione, quella più debole, possa essere doppiamente colpita».

Vengono ad esempio concessi microcrediti.

«Esattamente, questo è uno dei mezzi per favorire il ritorno degli immigrati, queste iniziative sono state annunciate da Zapatero nel discorso di investitura dopo la vittoria elettorale. Agli immigrati verranno concessi microcrediti per permettere loro di tornare nei loro paesi e avviare una piccola attività economica. E poi è prevista la «capitalizzazione» dei sussidi di disoccupazione, il denaro che gli immigrati prenderebbero in seguito alla perdita del lavoro, viene dato “una tantum” per favorire il ritorno con una piccola, ma significativa cifra in tasca. Certo, occorre verificare che, una volta presi i soldi, l’immigrato non torni in Spagna un mese dopo».

In alcune interviste esponenti del governo spagnolo parlano di espulsioni.

«Non mi risulta. In questo momento il governo sta cercando di favorire il ritorno degli immigrati, ma non punta su espulsioni di massa che sarebbero assolutamente inaccettabili e scatenerebbero polemiche. Una simile scelta non verrebbe accettata da gran parte degli elettori e della sinistra spagnola».

Dunque El Pais terrà informati i suoi lettori sulla situazione italiana?

«Non so se pubblicheremo tutti i giorni un reportage da Roma e dall’Italia però sicuramente seguiremo con moltissima attenzione tutto ciò che sta succedendo. Quello dell’immigrazione è certamente un serio problema anche in Spagna ora che la nostra economia comincia a dare sintomi di rallentamento, però noi, intendo dire il quotidiano El Paìs, pensiamo che non si debba affrontare questo tema accusando gli immigrati. Occorre trovare altri mezzi come la collaborazione dei paesi da dove arrivano per favorire il controllo delle frontiere e mezzi di protezione sociale soprattutto per evitare problemi come quelli che stanno emergendo in Italia, a Napoli e Roma, dove una parte disagiata della popolazione vede gli immigrati come un nemico. Provvedimenti come quelli che stanno per essere adottati dal governo di Roma favoriscono il nascere di sentimenti xenofobi».

Pubblicato il: 17.05.08
Modificato il: 17.05.08 alle ore 8.14   
© l'Unità.


Titolo: Celentano: Silvio è cambiato, io ci credo (lui ironizza il corriere specula).
Inserito da: Admin - Maggio 18, 2008, 11:27:36 am
La lettera - L'artista e i giudizi sul discorso d'insediamento del presidente del Consiglio

Celentano: Silvio è cambiato, io ci credo

«In Parlamento ha scelto i toni giusti. Ma il merito è anche di Veltroni, il primo a rispettare il suo rivale»

 
DI ADRIANO CELENTANO


Caro direttore,

se non è un bluff, come sospetta Di Pietro, forse Silvio ci sta dimostrando che l'uomo quando vuole sa anche cambiare.
E non è poco, se si pensa che la storia si regge sugli errori precedenti e addirittura, sui crimini precedenti. Quasi come se l'uomo, specialmente quello stupiens del futuro, non potesse fare a meno di uccidere.

Non potesse fare a meno di stuprare, avvelenare l'aria che respiriamo, rubare i bambini o venderli già da quando sei incinta.
Insomma a quanto pare le cose non sono cambiate da quando Caino uccise suo fratello. Ma il discorso e i toni di Silvio in Parlamento mi sono piaciuti. Direi che aveva anche un certo fascino da grande attore. Certo è presto per dirlo, ma il buongiorno a volte si vede dal mattino. E il merito forse sarà anche un po' di Veltroni, che già in campagna elettorale aveva iniziato questo tipo di politica all'insegna del rispetto per l'avversario, pur combattendolo. Ricordo quando Berlusconi pubblicamente strappò il programma del Partito democratico. Per tutta risposta Veltroni, nonostante la delusione che si leggeva nei suoi occhi per l'affronto subìto, esordì con una frase che oserei dire storica per quanto era spiazzante: «Noi invece il suo programma lo leggiamo», disse il Weltro inconsapevole di quale peso fosse portatore quella sua frase, che come una pietra tombale sembrava sentenziare la fine degli insulti. E il Parlamento, almeno nel primo giorno, ne ha dato una prova.

Era bello vedere il nuovo modo di Berlusconi e il silenzio attento di una sinistra pronta a captare ogni minima innovazione da qualunque parte provenisse.
A partire dal suo leader che ascoltava a testa bassa vicino a un Franceschini assorto e riflessivo e, il bel gesto di Anna Finocchiaro nel riconoscere al «nano» un'altezza fino ad allora sconosciuta. Una stretta di mano schietta e sincera, nella quale, fra i complimenti, erano compresi anche quelli che lo mettevano in guardia per la grossa responsabilità che gli hanno dato gli italiani. Tutto, insomma, sembrava a posto come in un copione perfetto dove ognuno aveva la sua parte: il buono che apriva al dialogo e la geniale impennata del cattivo Di Pietro che insinuava il sospetto di una trappola in cui «l'Italia dei valori non ci sta». Naturalmente subito seguita da un mormorio di dissenso, che persino quello è apparso diverso e innovativo. Come innovativo e in splendida forma direi, è apparso il coraggioso Casini, per la sua imperterrita coerenza, quando in modo pacato e simpatico ha replicato alla piccola gaffe di un Fini, colto in atteggiamento tenero ed entusiasta come quello di un bambino al suo primo giorno di scuola, ma soprattutto di fronte alla nuova playstation. Quella del Parlamento, che può essere la più veloce di tutte o la più lenta, a seconda da chi la guida.

E Fini, del quale invidio la sua simpatica dialettica, non ho dubbi che la guiderà nel migliore dei modi.
Accidenti! Mentre scrivo vedo che c'è un disturbo alla Rai, forse è l'antenna, che fastidio, se c'è una cosa che dovrebbe essere libera da ogni disturbo è proprio la Rai... perché ti deconcentra... non mi ricordo più cosa stavo scrivendo ah si, dicevo che le cose stanno camb... ah ma il difetto è solo su Raitre, infatti vedo una scritta a tutto schermo che dice: CANCELLATO, mentre sul Corriere di oggi leggo che non è stato cancellato il disturbo, ma è stato cancellato invece un programma di informazione importante come Primo piano da sempre attribuito alla testata diretta da Antonio Di Bella. «Questo è ciò che ha deciso il Consiglio Rai alla fine del suo mandato». Ma questi qua, alla fine del loro mandato non potevano sfogare la loro stoltaggine in altro modo anziché concentrarsi sul come nascondere la verità alla gente?... La grandezza di questa colossale cazzata sta nel fatto di avere preso una decisione così ISTERICA e imbecille proprio alla fine del loro mandato. Un gesto di una tale idiozia che non può non configurarsi in una vera e propria pugnalata alla schiena di Berlusconi, per farci credere che lui non è cambiato. Ma io insisto e il mio sesto senso mi dice, anche se il mattino è cominciato da poche ore, che lui invece è cambiato. Insomma gli uomini cambiano, pare. C'è chi di fronte a un successo diventa umile e saggio e chi invece non riesce a trattenere quella dose di ipocrisia e anche di arroganza come ad esempio La Russa, per il quale ho sempre nutrito una certa simpatia, ma fortemente in ribasso da quando l'altra sera a Porta a Porta, in virtù della sua nuova investitura come ministro della Difesa si atteggiava, con due centimetri di cerone mai messo prima, a spargere parole di insegnamento a Casini, che di tutto aveva bisogno tranne che dei suoi appunti. Ecco un esempio tipico di come il successo ti può confondere: prima della nomina sei simpatico perché parli come ti viene, senza controllare le espressioni in quanto essendo spontaneo sono tutte giuste.

Poi improvvisamente diventi ministro della Difesa, ti metti due dita di cerone, vai a Porta a Porta con la faccia di cera e dici a Casini che ha sbagliato a correre da solo mentre invece ha avuto il coraggio di fare ciò che pochi politici sono all'altezza di fare, prova ne è che i suoi elettori l'hanno ampiamente premiato. Insomma La Russa, tu devi subito rimediare prima che sia tardi. Non devi più metterti il cerone altrimenti perdi quelle caratteristiche che fanno di te il personaggio che sei e non un manichino della Difesa.
Devi farlo subito altrimenti Fiorello non ti imita più e sarebbe un disastro non solo per te, ma anche per lui...


18 maggio 2008

da corriere.it


Titolo: IL GOVERNO E L’ICI Federalismo a singhiozzo
Inserito da: Admin - Maggio 18, 2008, 11:51:04 am
IL GOVERNO E L’ICI

Federalismo a singhiozzo

di Francesco Giavazzi


Nella cittadina americana in cui vivo, nello stato del Massachusetts, il sindaco ha deciso di costruire una nuova scuola. Sostituirebbe un edificio del 1970, che funziona ma comincia a mostrare i suoi anni. Costo stimato del progetto, circa 200 milioni di dollari (130 milioni di euro). Poiché negli Usa le scuole sono interamente finanziate dalle città — non solo gli edifici, anche gli stipendi degli insegnanti— per far fronte a questa spesa il sindaco ha deciso di aumentare per qualche anno l'Ici. (Oggi l'aliquota è l'1%, non del valore catastale, come in Italia, ma del valore di mercato della casa, aggiornato ogni anno tenendo conto dei prezzi di abitazioni simili vendute nel corso dell'anno).

I cittadini (circa 80.000 famiglie) si sono ribellati e hanno chiesto un referendum. Il 20 maggio voteranno su tre proposte: (1) accettare la decisione del sindaco, (2) cancellare il progetto della nuova scuola e non aumentare l'Ici, (3) accettare l'aumento dell'Ici, ma destinare il maggior gettito all'assunzione di nuovi professori per migliorare la qualità delle loro scuole. (Sul sito internet del Massachusetts, www.mass.edu/mcas, si può consultare una classifica delle scuole dello Stato, compilata sulla base di un test che viene svolto ogni anno dagli allievi di ciascuna scuola. Si è osservato che, se le scuole di una città peggiorano, il prezzo delle case scende, il gettito dell'Ici si riduce e la città declina). Questo è federalismo! «Crescere vuol dire incentivare forme di autogoverno federalista», ha detto Silvio Berlusconi la scorsa settimana presentando il suo programma al Parlamento.

Ma allora perché il primo atto del nuovo governo è la cancellazione dell’Ici? Di tutte le imposte l'Ici è la più federalista, e anche la più efficiente. Il gettito non va a Roma, rimane ai Comuni. E se con quel gettito il sindaco non aggiusta le strade, i cittadini, incontrandolo in piazza, possono chiedergliene conto e avvisarlo che se continua così non verrà certo rieletto. Chi può controllare come sono utilizzate le imposte che affluiscono al governo centrale? A chi può rivolgersi il cittadino se pensa che i servizi che riceve dallo Stato centrale non valgano le tasse che paga al governo di Roma? Ieri il sottosegretario Vegas ha detto che i Comuni verranno compensati per il gettito perduto. Doppio errore: innanzitutto perché se così fosse le tasse evidentemente non scenderebbero. E poi perché quel sindaco che non aggiusta le strade potrebbe dire che non è colpa sua, ma del governo che gli lesina risorse.

Come ha scritto l’ex-rettore dell’università di Padova, Gilberto Muraro (www.lavoce.info), «l'abolizione dell'Ici è una vittoria dell'apparenza sulla sostanza. Il minor gettito dei Comuni sarà compensato con trasferimenti dal centro. Ma l'Ici si autocontrolla, perché il sindaco deve soppesare la popolarità resa dai maggiori servizi con l’impopolarità creata dalla più pesante imposta. Un sussidio per definizione non basta mai sul piano politico e genera una domanda unanime di incremento, alimentando tensioni tra centro e periferia». Fanno bene Berlusconi e Tremonti a iniziare tagliando le tasse. Purché lo facciano davvero, non per finta: lo avessero fatto nel 2001, forse cinque anni dopo non avrebbero perso le elezioni. Ma qualcuno mi spiega perché di tutte le imposte vogliono cominciare proprio dall'Ici?

18 maggio 2008

da corriere.it


Titolo: Moretti, la destra e il premier "Berlusconi? Pessimo da sempre"
Inserito da: Admin - Maggio 18, 2008, 11:54:09 am
Il regista a Cannes per presentare la nuova edizione del suo Festival di Torino

"Maroni ora è ministro ma prima parlava come tutti i leghisti. E' poco credibile"

Moretti, la destra e il premier "Berlusconi? Pessimo da sempre"
 

 CANNES - Maroni è poco credibile, Berlusconi "è stato pessimo per quindici anni", la destra italiana "è difficile che possa cambiare qualcosa". Non si risparmia nei giudizi Nanni Moretti, che oggi a Cannes ha incontrato i giornalisti per presentare la nuova edizione del Festival del cinema di Torino (21-19 novembre) da lui diretto. Un'occasione specifica che poi si è trasformata, come spesso accade con il regista, in un'opportunità per chiacchierare di temi d'attualità. E di politica.

"Maroni? Poco credibile". Come fa Roberto Maroni, il ministro della sicurezza, "a stigmatizzare" le violenze accadute a Napoli? "Come può essere credibile - dice Moretti - un rappresentate della Lega che per vent'anni ha parlato come sappiamo. Quando la Lega parla di fucili, la consideriamo un'innocua battuta, ma le parole pesano e ora che sono ministri, sempre con quelle cose sempre verdi addosso, non sono credibili".

Pessimista su Berlusconi. "Non ragiono con i pregiudizi ma con i giudizi - osserva il regista a proposito del presidente del Consiglio - ebbene per me, per quindici anni, Berlusconi è stato pessimo. Mi sembra difficile che cambi qualcosa".

"Con la destra non cambierà nulla". Parlando "di questa destra italiana, dal punto di vista politico, culturale, morale, parole da scrivere tra molte virgolette, è difficile che possa cambiare qualcosa", ha detto Moretti, aggiungendo che "le differenze tra le due coalizioni restano comunque". E ancora: "E' assurdo che in Italia chi ricordi che Berlusconi ha tre televisioni e forse anche di più, viste certe intercettazioni con i dirigenti Rai, una cosa democraticamente scandalosa, venga considerato banale e noioso, e purtroppo non soltanto a destra. Si dice che Sarkozy sia come Berlusconi - conclude Moretti - ma invece non c'entra proprio niente".

"Fiducia in Gomorra e Il Divo". E' politico, per il regista, anche selezionare per il concorso due film come Gomorra e Il Divo. "La polemica sui panni sporchi che si lavano in casa è montata dai giornali - commenta - sono però due film che aspetto e su cui punto con speranza e con fiducia e lo dico sinceramente. Gomorra me lo volevo vedere appena uscito, purtroppo dovevo partire e non ho potuto, ma ci andrò lunedì". Parole che poco dopo ha ripetuto allo scrittore Roberto Saviano, apparso nel locale sulla spiaggia dove era in corso il party del festival di Moretti. Con due uomini a scortarlo e l'attore Toni Servillo, Saviano si è intrattenuto a lungo col regista, ricevendo i complimenti per i suoi interventi in televisione.

Festa di Roma, "proposte rimangiate". Sulla Festa del cinema di Roma, Moretti osserva che "le stesse persone che hanno fatto certe proposte, dopo qualche ora se le sono rimangiate perché non avrebbe senso dedicarla solo al cinema italiano. Forse più che una proposta era una fantasia".

Torino 2008. Quanto al festival di Torino, poche le anticipazioni visti i mesi che ancora mancano alla nuova edizione. Confermate tutte le sezioni, dal concorso l'Amore degli inizi (quello sul primo film), dal panorama documentari ai Fuori concorso, mentre le retrospettive mostreranno le opere di Roman Polansky e Jean Pierre Melville.

(17 maggio 2008)

da repubblica.it


Titolo: Il Pd, i Radicali e la Sinistra
Inserito da: Admin - Maggio 21, 2008, 12:01:48 am
Politica
 
Il Pd, i Radicali e la Sinistra

Angiolo Bandinelli


Luigi Manconi commenta su l’Unità (6 maggio) l’Assemblea dei Mille promossa a Chianciano dai radicali. L’evento, a suo giudizio, costituisce un momento di riflessione e un punto di partenza importante per le sinistre alternative e ambientaliste, ma anche per il Partito Democratico. Manconi si chiede infatti cosa si debba fare perché, da una parte, il Pd possa rappresentare le nuove domande «di innovazione e di equità, di nuovi diritti e di garanzie sociali, di ambientalismo intelligente e di autodeterminazione individuale e collettiva, di libertà di ricerca scientifica e di imprenditoria», e dall’altra come far sì che «i soggetti politici rimasti esclusi dal Parlamento non si limitino al (...) ritorno al sociale» e, tanto meno, «all’esaltazione della propria vocazione minoritaria, tentata dalla irriducibilità di un destino di opposizione permanente o di una testimonianza residuale». A suo avviso, occorre che «le istanze, e i militanti, dell’ambientalismo trovino spazio - e se lo conquistino, se necessario - all’interno del Pd; e che le istanze, e i militanti, che fanno riferimento a Rifondazione Comunista e alla Sinistra Democratica trovino spazio - e se lo conquistino, se necessario - all’interno del Pd».

Se questi sono gli obiettivi che le sinistre alternative e il Pd devono porsi, il partito radicale può rappresentare, prosegue Manconi, «il crocevia non solo politico, ma anche culturale e, se posso dire, concettuale» adeguato a raggiungerli: i radicali hanno spesso fornito alle sinistre democratiche contenuti e modelli di iniziativa, è dunque concepibile che possano oggi «funzionare, anche organizzativamente, come tramite del rapporto tra Partito Democratico e gli altri, e tra iniziativa parlamentare e iniziativa extraparlamentare».

Manconi però avverte: ciò non significa «che i radicali debbano fungere da contenitore di queste complesse operazioni». Benissimo: i radicali non si sono mai sognati di assolvere a questo compito. E tuttavia anche sul terreno degli strumenti e dei modelli organizzativi - non solo, cioè, per ciò che riguarda i contenuti - hanno fornito suggestioni che Manconi avrebbe dovuto prendere in considerazione: proprio a Chianciano si è discusso - forse non adeguatamente - se la forma associativa radicale non sia la più conveniente anche alla prospettiva da lui indicata.

L’associazionismo radicale ha due cardini: la doppia tessera e la struttura (ma il termine è improprio) denominata «galassia». Prendere la tessera radicale è molto più che un fatto simbolico, ma anche assai meno che l’accettazione di un vincolo esclusivo, come per la tessera di tutti gli altri partiti. Statutariamente, la tessera radicale obbliga solo al pagamento della quota di iscrizione. Non chiede altro all’iscritto, le stesse deliberazioni assunte nei congressi a maggioranza dei tre quarti vincolano solo gli organi dirigenti. E tuttavia, nonostante questa elasticità e larghezza di maglie, la tessera radicale costituisce una forte attestazione di volontà politica, di condivisione dell’iniziativa comune. Queste modalità potrebbero essere un punto di partenza per l’incontro-aggregazione di quanti siano interessati alla realizzazione degli obiettivi indicati da Manconi: ciascuno ancorato alla propria «fedeltà» ma anche aperto a quella attestata dalla doppia tessera. Il secondo cardine della modellistica radicale è la cosiddetta «galassia». La galassia radicale è una costellazione di associazioni che hanno legami politicamente saldi ma operativamente distinti (non separati) con il Partito Radicale Transnazionale Nonviolento e con Radicali Italiani. Gli esempi più noti sono, evidentemente, Nessuno tocchi Caino, cui si deve la lunga e vincente battaglia all’Onu per la Moratoria della Pena di morte, e l’Associazione Coscioni, con le sue iniziative sui temi etici e «sensibili».

All’interno delle sinistre, dal Pd alle forze alternative, non si è mai pensato di mettere in piedi qualcosa di analogo, preferendo la struttura “leninista” del partito monolitico e monocentrico. Ancora oggi, il Pd pensa di avviare il riscatto puntando sul “radicamento” territoriale; si tratta sempre della logica delle sezioni, dei circoli, privi di autonomia e strettamente subordinati al centro, inadatta ad accogliere altri soggetti e forze. Mi pare di sentire che alcuni tentativi di superamento della crisi e della sconfitte elettorale si muovono invece contrapponendo all’inadeguato «radicamento» territoriale la rinascita delle correnti. Questa via è solo il prodromo di faide e lotte di potere, senza reale capacità e volontà di innovare sia sui contenuti che sui modelli di aggregazione richiesti dalla necessità di far nascere classi dirigenti nuove, motivate, pronte ai mutamenti richiesti dall’opinione pubblica e insieme articolate attorno ad un obiettivo politico unitario da definire in assise, in congressi mirati ed inclusivi.

Questo, non di più ma neanche di meno, offrono i radicali alla sinistra. Perché non discuterne? Credo ne valga la pena.
Angiolo Bandinelli fa parte della Direzione Radicali italiani

Pubblicato il: 20.05.08
Modificato il: 20.05.08 alle ore 8.53   
© l'Unità.


Titolo: Carlo Rognoni. Cari giornalisti, attenti ai padrini
Inserito da: Admin - Maggio 21, 2008, 12:08:54 am
Cari giornalisti, attenti ai padrini

Carlo Rognoni


Vi sembra normale che dei giornalisti si appellino all’opinione pubblica, ai partiti, per difendere i propri interessi professionali?
E vi sembra normale che degli uomini politici ne approfittino per conquistare sul campo dei meriti rispetto ai giornalisti, gli diano retta, e cerchino di intervenire nelle scelte editoriali di una azienda? Se non fosse la Rai, sia quei giornalisti sia quei politici sembrerebbero vivere ai confini della realtà. I primi, accusati di non saper difendere il proprio mestiere, che si regge sull’indipendenza e sull’autonomia dai poteri, politici e non. I secondi, responsabili di ingerirsi in argomenti che non competono loro.

Ma siamo in Rai! E la decisione di opporsi a un piano editoriale, o anche solo all’idea di spostare l’orario di un programma, diventa una occasione non per un eventuale sacrosanto confronto sindacale, ma per la comparsa di padrini, non importa se di destra o di sinistra.

Pur di accattivarsi l’appoggio esterno, di alcuni parlamentari, si è disposti perfino a tradire alcuni principi elementari del buon giornalismo: si raccontano mezze verità, si nascondono dei fatti, si ricorre alla tecnica dello spot pubblicitario, che notoriamente fa appello ai sentimenti e all’emozione piuttosto che all’informazione rigorosa. E ci sono dei parlamentari che pur di guadagnarsi “una comparsata” in tv sono pronti a difendere per principio, senza saper bene quel che dicono, le spinte più corporative, magari contrabbandate come difesa del pluralismo.

Ecco così che una decisione presa dal consiglio di amministrazione della Rai, dopo mesi di confronto, conclusasi con l’idea di mettere comunque al primo posto del nuovo piano editoriale il tema informazione, considerato il più qualificante per un servizio pubblico pluralista, diventa il suo contrario, la penalizzazione dei servizi giornalistici. Alla faccia della correttezza dell’informazione! La Rai - come si sa - fa sempre notizia quando la polemica aleggia. È un piatto gustoso sul quale buttarcisi con ingordigia quando poi ci si può inventare che una trasmissione viene cancellata perché chi la conduce magari non gode della stessa simpatia politica di chi va a sostituirla in palinsesto. È quello che ha fatto il Corriere della Sera inventandosi che Veltroni preferiva la Dandini alla Berlinguer! Cattivo giornalismo richiama cattivo giornalismo?

E tutto questo perché? Perché la trasmissione di Primo piano viene chiusa! Falso. Viene spostata alla mezzanotte. Vero. Ma per capire che cosa ha davvero deciso il cda della Rai, anche questa notizia non basta.
Nel discutere i palinsesti dell’autunno 2008 e della primavera 2009, il cda ha deciso finalmente di provare a rompere con le cattive abitudini: con i programmi di prima serata che durano troppo più del previsto e invadono - a volte annullandola - la seconda serata; con telegiornali che si sovrappongono e che raramente rispecchiano gli orari fissati; con programmi culturali che cominciano ben al di là della mezzanotte quando meriterebbero una messa in onda in ore decenti; una informazione regionale e locale debole e che va potenziata.

Convinti che l’informazione sia un plus per il servizio pubblico ecco che si è deciso di dedicare una prima serata della Reteuno proprio ai servizi giornalistici, affidandola al telegiornale. È una sfida che giustamente farebbe tremare le vene ai polsi di chiunque. Mettere in palinsesto nel prime time un programma di informazione sulla rete ammiraglia - con l’obiettivo di un ascolto che superi il 18 per cento - vuol dire impegnare risorse, intelligenze, cultura e creatività come non si è mai fatto. La prospettiva fa così paura da meritare la minaccia di tre giorni di sciopero?
Per la terza rete si è deciso di investire su una offerta di mezz’ora di informazione in più al mattino - tanto per cominciare. E poi per evitare telegiornali a orari ballerini e che per di più si accavallano l’uno sull’altro dopo la mezzanotte ecco che il cda ha deciso di dare tutta l’informazione Rai dalla mezzanotte in avanti proprio solo al Tg3.

Pur di difendere l’esistente si è arrivati a dire che questo piano editoriale è figlio di un consiglio che sta per scadere e che quindi non ha il potere di imporre alcunché. Una evidente mascalzonata, come se i cda non fossero titolati a prendere decisioni fino all’ultimo. Senza contare che il piano editoriale è stato approvato in gennaio! Già ma dichiarazioni come queste servono: non tanto a screditare le scelte fatte quanto a dare man forte a chi - per esempio Gasparri - non vede l’ora di cambiare l’attuale cda con la sua pessima legge. Non era l'Usigrai che qualche tempo fa chiedeva un passo indietro dei partiti dalla gestione del servizio pubblico?

Sono fra quelli che ha molto apprezzato l’idea di mettere la questione Rai al centro del dialogo fra maggioranza e opposizione. La Rai se vuole sopravvivere dignitosamente nel nuovo scenario digitale ha bisogno di tutto tranne che dell'invadenza partitocratica. Bene dunque se il Pd insiste e ottiene che per avviare il dialogo sulle riforme si cominci con l’impegno a cambiare la Gasparri. Coerenza vorrebbe, tuttavia, che nessun politico del Pd pensasse di poter dare lui indicazioni sui palinsesti. Questo ultimo episodio di “cattiva intelligenza” fra giornalismo e politica è una ragione in più per cambiare in fretta le norme della governance del servizio pubblico.

Pubblicato il: 20.05.08
Modificato il: 20.05.08 alle ore 8.53   
© l'Unità.


Titolo: Abbattere i muri...
Inserito da: Admin - Maggio 22, 2008, 10:06:30 am

Abbattere i muri....

21 maggio 2008, 12.52.21 | ranvit


A Ballaro' ieri sera, Veltroni ha spiegato perchè il Pd deve "collaborare" con la maggioranza per modernizzare l'Italia : innanzi tutto sveltendo l'azione istituzionale mediante l'abbattimento del numero dei parlamentari, la trasformazione del Senato in istanza regionale togliendogli la facoltà di approvare le leggi, i regolamenti perlamentari che rafforzino il potere del premier e riconoscano la funzione dell'opposizione etc etc. A chi gli chiedeva quali vantaggi ne ricaverebbe il Pd, ha risposto che in primis ne sarebbe avvantaggiato il Paese....cosa che qualsiasi cittadino dovrebbe apprezzare. Ma anche il Pd stesso perchè se i muri restano alti....dall'altra parte sono di piu'! Ha inoltre ricordato che la sinistra soffre di tafazzismo...se si vince si discute per 12 mesi, se si perde per altrettanti mesi o forse per 24 o 36... Condivido al 100% tale atteggiamento di Veltroni e mi piacerebbe che il Circolo ne tenesse conto.....invece che partecipare ad alzare i muri.....


da pdobama.ning.com/forum/topic


Titolo: Per Veltroni la strategia di Zapatero
Inserito da: Admin - Maggio 22, 2008, 10:09:24 am
21/5/2008
 
Per Veltroni la strategia di Zapatero
 
 
 
FRANCESCO RAMELLA
 
L’incontro di venerdì scorso tra Berlusconi e Veltroni segna il primo passo concreto verso un nuovo stile di rapporti tra maggioranza e opposizione. La strategia del dialogo inaugurata dal segretario del Pd ricorda molto quella di Zapatero all’indomani della disfatta del Partito socialista (Psoe) nelle elezioni del 2000. Una sconfitta che consegna al Partito popolare di Aznar (Pp) la maggioranza assoluta dei seggi parlamentari e porta la distanza tra i due partiti spagnoli oltre il 10% (nel 1996 era appena dell’1,2%). L’oposición útil lanciata dal neoeletto segretario socialista rappresenta una risposta alla crisi del Psoe ed è parte d’un disegno complessivo di rinnovamento del partito. Segna altresì una svolta nell’opposizione al governo Aznar, fino ad allora mirata prevalentemente a squalificare l’avversario politico.

La nuova linea tende ad accreditare il Psoe come una forza politica dialogante e responsabile sui temi di maggiore rilevanza nazionale, quali la lotta al terrorismo, la riforma del sistema giudiziario e le politiche per l’immigrazione. I socialisti si rendono disponibili a sostenere l’esecutivo sulle politiche di interesse generale, dimostrandosi capaci di anteporre le esigenze dei cittadini a quelle della competizione interpartitica. Senza per ciò rinunciare a differenziarsi dal governo, avanzando misure alternative a quelle della maggioranza. Non evitano neppure di scontrarsi frontalmente sulle decisioni impopolari assunte da Aznar (ad esempio sull’intervento in Iraq o sulla riduzione dei sussidi di disoccupazione). Questa strategia si rivela ben presto molto efficace, soprattutto presso l’elettorato moderato. I socialisti riescono rapidamente a ridurre il divario di consensi, riconquistando nel 2004 - complice l’attentato islamico alla stazione di Madrid - il governo del Paese. E tuttavia non va sottaciuto che l’oposición útil inizialmente incontra notevoli resistenze all’interno del Psoe: viene scambiata per un’opposizione debole.

Come si vede le analogie con il caso italiano non sono poche, e la dirigenza del centro-sinistra farebbe bene a tenerle presenti. Perché un’opposizione responsabile e costruttiva, in grado di recuperare iniziativa politica, è qualcosa di molto diverso da ogni forma di «melassa programmatica» e di «inciucismo» all’italiana. Al contrario, risulta utile per le sfide che il Pd deve oggi affrontare sul versante della strategia politica e della strutturazione del nuovo partito. Per fronteggiare le quali è necessario impostare un’opposizione «a doppio binario». Capace di ridare ai democratici un ruolo propulsivo nelle istituzioni e nella società, riguadagnando consensi sia tra gli elettori di centro sia tra quelli (delusi) di sinistra. Sul piano parlamentare e programmatico questo significa adottare un mix di confronto-scontro con il governo: dialogando in positivo sulle riforme istituzionali e sulle principali emergenze del Paese, ma contrapponendosi (anche radicalmente) sulle questioni in cui le distanze con la maggioranza risultano inconciliabili. Un modo di fare opposizione tutt’altro che facile. Niente affatto soft.

Per essere efficace, questa politica a doppio binario, oltre a un «governo-ombra», richiede anche un «partito-ombra». La costruzione, cioè, di una macchina organizzativa radicata nei territori, in grado di accompagnare - come un’ombra - le trasformazioni delle società locali. Per conseguire questo obiettivo non basta collocarsi responsabilmente nelle istituzioni, è necessario anche recuperare capacità di rappresentanza sociale, stimolando il reclutamento e la partecipazione degli iscritti. Lo stesso fece Zapatero nei primi anni della sua segreteria, rivitalizzando la militanza interna e utilizzandola massicciamente nella campagna elettorale del 2004. Una campagna condotta non solo sui media (vecchi e nuovi) ma anche porta a porta, per spiegare ai cittadini il nuovo corso socialista. Si tratta di sfide difficili. Non c’è dubbio. Che tuttavia il «nuovo centro-sinistra» deve affrontare se vuole dimostrare di essere credibile come forza di opposizione e di governo (alternativo). Laddove, in passato, è riuscito solamente nel compito opposto: stare al governo e all’opposizione... di sé stesso.
 
da lastampa.it


Titolo: L'accordo con le banche? Minestra riscaldata
Inserito da: Admin - Maggio 22, 2008, 11:02:00 pm
L'accordo con le banche? Minestra riscaldata


A sentire i proclami di governo, per chi è vittima del caro-mutui la soluzione è arrivata: nessun problema per il passaggio al tasso fisso e ritorno alle rate del 2006, se poi i tassi medi del periodo sono stati più elevati, basterà allungare la durata del mutuo. E qui sta l’inghippo. A denunciarlo sono alcune associazioni di consumatori che, calcolatrice alla mano, hanno fatto le pulci al provvedimento.

Martedì il governo, scrive l’Aduc in una nota, «ha sbandierato un accordo con l'associazione delle banche prevedendo un risparmio pari a circa 850 euro all'anno per 1.250.000 famiglie circa. Peccato – aggiunge – che la notizia sia falsa: nel comunicato dell'Abi - spiega l'associazione - si legge che l'accordo non prevede alcun risparmio, ma solo una dilazione nel pagamento». In sostanza, «si concede un ulteriore finanziamento: le famiglie, quindi, non risparmieranno alcunché, ma pagheranno ulteriori interessi». Gli fa eco l'Adiconsum: «I consumatori – dice il presidente Paolo Landi – devono essere consapevoli che ciò che non viene pagato nella rata dovrà essere pagato a fine mutuo caricato degli interessi: parlare, quindi – conclude Landi – di benefici di 800-1000 euro è assolutamente fuori luogo». Insomma, non si paga quest’anno, ma si pagherà tutto, e con gli interessi, negli anni in più in cui il mutuo verrà allungato.

Ma c’è dell’altro. L’altra grande novità spacciata dal governo è quella della possibilità di cambiare mutuo da tasso variabile a tasso fisso. Peccato che l’avesse già fatto il decreto Bersani. «Ormai abbiamo 50-60 mila rinegoziazioni in corso dei mutui a seguito della nostra legge che porta il mio nome», dice l’ex ministro alle Attività Produttive. Quello del governo Berlusconi, insomma, è «un bel rilancio mediatico di un'operazione già in corso».

Pubblicato il: 22.05.08
Modificato il: 22.05.08 alle ore 16.33   
© l'Unità.


Titolo: Enrico Fierro. Sceneggiate napoletane
Inserito da: Admin - Maggio 22, 2008, 11:53:23 pm
Sceneggiate napoletane

Enrico Fierro


Il miracolo di San Silvio non c’è, e del resto nessuno - propaganda politica a parte - a Napoli se l’aspettava. Il programma per far uscire la città dall’eterna emergenza rifiuti è basato su una filosofia da lacrime e sangue. Insomma, la cartolina della «finestra a Marechiaro» - tanto cara al Berlusconi di qualche anno fa - è cancellata, al suo posto un futuro pieno di incognite e carico solo di amare certezze: discariche e inceneritori. Perché, volato a Napoli con l’intero governo, Berlusconi ha dovuto prendere atto di una realtà gravissima che ha già travalicato i limiti della decenza civile.

Accantonato battute e promesse, messo da parte il cantore Apicella, Berlusconi ha capito che la partita che si gioca sui rifiuti è difficilissima. Ma con quali carte, il presidente del Consiglio intende giocarla? Alcune delle decisioni contenute nei 17 articoli del disegno di legge, si ispirano ai vari decreti varati dal governo Prodi, altre sono nuove, altre ancora sono discutibili. Una decisione, la più importante, raccoglie consensi bipartisan e apprezzamenti unanimi: la nomina di Guido Bertolaso a sottosegretario con ampie deleghe e poteri. Il Capo della Protezione civile si è già occupato di rifiuti a Napoli dal 5 maggio al 7 luglio scorso. La sua fu una esperienza infausta: aveva un piano per la riapertura di alcune discariche ma fu bloccato da una raffica di veti, anche questi bipartisan, litigò col ministro Pecoraro Scanio e fu scarsamente sostenuto dal governo che lo aveva nominato. Questa volta, assicurano sia al governo che all’opposizione, Bertolaso farà bene. Il suo compito è da far tremare le vene ai polsi: entro 30 mesi, ha detto Berlusconi, deve assicurare la fuoriuscita dall’emergenza, assicurare l’apertura di almeno otto discariche e l’apertura di quattro termovalorizzatori. Quella sulle discariche è l’aspetto più spinoso. Berlusconi non ha indicato dove saranno costruite, i luoghi sono top-secret e i siti verranno sorvegliati dall’esercito. Siamo di fronte ad una massiccia militarizzazione del territorio, scelta non apprezzata dall’intero Consiglio dei ministri e contestata dallo stesso ministro della Difesa Ignazio La Russa. Il Pd tace. Come si farà a tenere segreta la localizzazione delle aree è un mistero. Cosa penserà la gente sui territori quando vedrà muoversi mezzi pesanti, tecnici, camion che trasportano materiali e movimentano terra? Le indiscrezioni raccolte parlano dell’apertura di una discarica per ognuna delle cinque province della regione, più altre tre per arrivare a contenere almeno 10 milioni di tonnellate di rifiuti. Non è ancora chiaro se la discarica di Chiaiano (area nord di Napoli) aprirà. È destinata ad accogliere 700mila tonnellate e da giorni è presidiata dai cittadini del quartiere. Che non potranno più opporsi e impedire l’inizio dei lavori. Questo dice una norma annunciata nel decreto nella quale si prevede l’arresto e una condanna fino a cinque anni per chi impedisca l’ingresso nelle discariche ritenute aree di interesse strategico. Quanto questa norma sia concretamente applicabile è tutto da vedere, quanto la militarizzazione delle aree attorno ai siti riuscirà ad evitare blocchi e manifestazioni lo si capirà nei prossimi giorni.

Ma sulle discariche c’è un nodo da sciogliere, ed è enorme in un territorio ampiamente devastato dalle ecomafie ed avvelenato dalle politiche di questi anni. Cosa arriverà in quegli enormi buchi? È prevedibile che arrivi di tutto: rifiuti «tal quale», indifferenziati e non trattati, perché l’obiettivo prioritario è uscire dall’emergenza, senza eccessivi riguardi per quello che accadrà sul territorio campano negli anni a venire. E qui si entra nel vivo di un altro annuncio di Berlusconi: la trasformazione dei sette impianti di Cdr (destinati alla produzione di combustibile da rifiuti) in impianti di compostaggio. Non sappiamo quale sia il quadro dello stato attuale dei Cdr che i tecnici hanno fornito al governo, sappiamo che quegli impianti erano obsoleti già prima di entrare in funzione (basta leggere le carte e le perizie tecniche della maxi-inchiesta della procura partenopea). In questi anni sono stati supersfruttati ed hanno prodotto solo rifiuti impacchettati, 6 milioni di ecoballe che sono una emergenza nell’emergenza. Chiuderli e destinarli alla produzione di compost (fertilizzante per l’agricoltura) appare una impresa ardua e pone una domanda: negli inceneritori arriveranno rifiuti non trattati? Infine gli inceneritori: quello di Acerra, sono le stime del Commissariato, è pronto all’85% ed occorreranno almeno altri diciotto mesi perché possa entrare in funzione. Era stato progettato per bruciare ecoballe, verrà riconvertito in corso d’opera, come?, per bruciare cosa? Ma di impianti per trasformare i rifiuti in energia, è la promessa di Berlusconi, ne verranno costruiti altri, uno a Salerno (pronto fra trenta mesi) uno a Santa Maria La Fossa (già presente nel piano Impregilo-Fibe ma i cui lavori non sono mai iniziati) e uno nella città di Napoli, dove però non esiste un’area in grado di ospitare impianti del genere.

Il piano rifiuti del governo è pronto, le ambiguità sono tante, troppi i problemi non risolti, tantissimi i rischi, ma c’è un punto a favore di Berlusconi, ed è il coro di apprezzamenti ricevuti dal Pd e dalle associazioni ambientaliste. Un coro forte e chiaro, che non abbiamo visto all’azione negli anni scorsi. Tempi passati, quando ad ogni accenno di apertura di discarica vedevi all’opera sindaci ed esponenti politici di destra guidare le proteste, e così per gli inceneritori, e così per Pianura, fino a chiedersi perché per affrontare in modo civile e moderno la questione rifiuti a Napoli siano passati 14 anni ed altri ancora ne dovranno passare.

Pubblicato il: 22.05.08
Modificato il: 22.05.08 alle ore 12.02   
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Titolo: Minniti: «Ci sarà il collasso del sistema giudiziario»
Inserito da: Admin - Maggio 24, 2008, 01:06:12 am
Minniti: «Ci sarà il collasso del sistema giudiziario»

Massimo Solani


«Una parte significativa del pacchetto sicurezza è la trasposizione testuale di quanto era contenuto nel pacchetto Amato, che avevamo costruito con un lavoro durato mesi in collaborazione con sindaci e presidenti di Regione». Ha un rimpianto Marco Minniti, ministro dell’Interno del governo ombra e vice di Giuliano Amato nei giorni del naufragio del pacchetto sicurezza proposto dal governo Prodi. «Aver bloccato quelle norme che rispondevano ad una esigenza reale del paese - spiega - ha fatto sì che toccasse alla destra affrontare quelle questioni, con l’approccio che tutti possiamo oggi valutare. La nostra incapacità ha pesato inevitabilmente anche sul risultato delle elezioni: era chiaro ed evidente che il tema della sicurezza sarebbe stato centrale in campagna elettorale».

Onorevole Minniti, quali sono le parti del nuovo pacchetto sicurezza “fotocopiate” dal testo Amato?
«Tutta la partita sull’impegno contro la criminalità organizzata, ad esempio, nelle prime bozze non c’era. È stata inserita successivamente e su nostro input, sia le norme che riguardano l’abolizione del patteggiamento in appello per i reati di mafia sia quelle per lo snellimento delle pratiche di confisca dei beni mafiosi. E poi la banca dati del Dna, i nuovi poteri ai sindaci, la cooperazione con le polizie municipali, la distruzione delle merci contraffatte e le norme studiate per la tutela dei minori. Segno che avevamo fatto un buon lavoro, ma è un dato di rimpianto ulteriore. E lo dico anche ai colleghi della sinistra radicale che allora non compresero sino in fondo l’importanza di queste norme. Noi non siamo riusciti a produrre un risultato serio, pur avendo capito l’importanza della partita».

Nel testo licenziato mercoledì, però, c’è molto altro. E di differente. Specie in materia di immigrazione.
«La cosa che divide in maniera netta le loro scelte dalle nostre è il modo di intendere la lotta all’immigrazione clandestina e alla criminalità. Noi la riteniamo fondata su due binari paralleli: quello della integrazione di coloro che vengono per lavoro e quello dell’allontanamento di quanti invece delinquono. Il governo Berlusconi, seguendo la strada del reato di immigrazione clandestina, ha scelto di cavalcare una bandiera politica più che uno strumento davvero efficace».

Si mette sullo stesso piano tanto gli immigrati irregolari che delinquono quanto quelli che invece lavorano e hanno una casa. Hegel direbbe che è “la notte dove tutte le vacche sono nere”.
«Esattamente. Quando mi oppongo all’introduzione del reato di immigrazione clandestina non lo faccio per motivi ideologici, come dice Maroni. Anzi, io vedo molta ideologia nella loro proposta. Il mio è un no che nasce da due elementi fondamentali: quel reato, per come è proposto, è inefficiente e controproducente».

Andiamo per ordine. Perché inefficiente?
«Dire che la clandestinità è un reato significa passare dall’allontanamento per via amministrativa a quello per via giudiziaria, trasferendone la competenza al sistema giudiziario italiano con i suoi tempi, e soprattutto le sue regole: che prevedono tre gradi di giudizio. Per cui nessuno potrà più essere espulso prima della sentenza definitiva espressa dalla Cassazione. Pensiamo soltanto a quanto tempo ci vorrà prima che l’allontanamento diventi effettivo, se poi lo sarà mai. Tutto questo senza parlare del rischio collasso di un sistema giudiziario già gravemente in difficoltà. Un pericolo peraltro denunciato anche dall’Associazione Nazionale Magistrati».

E perché controproducente?
«Perché è uno strumento cieco, che mette insieme cose che insieme non possono stare. Mette insieme gli immigrati che sono già in Italia, che lavorano ed hanno una casa (come prescrive la Bossi-Fini), con coloro che compiono reati. Le badanti con i clandestini che fanno gli scippi o compiono gli stupri. Questo significa che se ospito a casa mia una badante irregolare posso essere perseguito per il reato di favoreggiamento, come se io fossi trafficante di uomini. Un rischio che riguarda i cittadini comuni, dobbiamo dirlo con chiarezza. Prendiamo la misura della confisca degli appartamenti affittati ai clandestini: per la norma sono sullo stesso piano la vecchietta che affitta una stanza alla colf extracomunitaria e senza permesso di soggiorno agli aguzzini che cedono un materasso a 200 euro al mese in una camera con altre venti persone. Gente che si arricchisce sfruttando la disperazione dei più deboli».

Pubblicato il: 23.05.08
Modificato il: 23.05.08 alle ore 14.57   
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Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO Speriamo che sia tombola
Inserito da: Admin - Maggio 24, 2008, 10:28:29 pm
24/5/2008
 
Speriamo che sia tombola
 
 
 
 
 
CARLO FEDERICO GROSSO
 
Con i provvedimenti approvati tre giorni fa la destra ha centrato la tombola. In campagna elettorale Berlusconi aveva promesso interventi rapidi e rigorosi su sicurezza e immigrazione.

Interventi legislativi molto rigorosi sono stati approvati, addirittura, nella prima riunione del Consiglio dei ministri.

Non tutte le decisioni sono state assunte con lo strumento del decreto legge come in un primo tempo si ipotizzava di fare, perché il Presidente della Repubblica ha giustamente richiesto il rispetto dei requisiti d’urgenza previsti dalla Costituzione. Il pacchetto delle misure approvate appare peraltro, nel suo complesso, coerente con gli scopi prefissi. Si tratta di un pacchetto di provvedimenti chiaramente di destra, ma da un governo di destra che cos’altro ci si doveva aspettare? Fanno il loro mestiere. Se dal loro punto di vista lo fanno bene, tanto di cappello.

Alcune delle misure approvate potrebbero essere condivise da chiunque. Chi potrebbe contestare, ad esempio, l’opportunità di punire con sanzioni adeguate chi guida ubriaco o, guidando in tale condizione, cagiona la morte di qualcuno?

O discutere la ragionevolezza di colpire chi affitta in nero la casa a clandestini, di frenare i matrimoni di convenienza degli stranieri, di stroncare l’utilizzazione dei minori nell’accattonaggio o nelle attività illegali? Chi potrebbe criticare provvedimenti che riducono le agevolazioni processuali nei confronti dei mafiosi o facilitano la confisca dei loro beni? Alcune novità erano, per altro verso, già state previste dal pacchetto Amato, come il potenziamento dei poteri dei sindaci in materia di ordinanze urgenti per motivi di sicurezza, o erano contenute in altri disegni di legge del centrosinistra, come l’istituzione della banca dati del Dna in funzione anticrimine. Spiace, soltanto, che la passata maggioranza non sia stata in grado di farli approvare dal Parlamento.

Altri provvedimenti sono invece palesemente inaccettabili. Non mi convince, ad esempio, l’introduzione del reato d’immigrazione clandestina, che rischia di trasformare assurdamente in un crimine, e per tutti, l’ingresso in Italia senza documenti regolari, o, ancora di più, la circostanza aggravante prevista per chi, clandestino, commette determinati delitti, discriminando in questo modo gli autori dei reati in ragione di una mera loro condizione personale. Mi preoccupa l’imposizione, sia pure a certe condizioni, ma senza adeguate garanzie, del prelievo del Dna in ipotesi di ricongiungimento familiare. Temo, soprattutto, che l’insieme dei provvedimenti ipotizzati fomenti ulteriormente xenofobia e razzismo, caccia alle streghe ed emarginazione, già pericolosamente esplosi in alcuni drammatici episodi d’inaccettabile violenza contro cittadini europei di etnia diversa dalla nostra.

Al di là della valutazione di ciascuno specifico provvedimento approvato dal governo, l’approccio complessivo ai temi di sicurezza e giustizia suscita, per altro verso, interrogativi e curiosità. Il governo prevede nuovi reati, aumenti di pena, pugno d’acciaio, manganelli. Se il pacchetto delle nuove misure servirà a dare sicurezza ai cittadini, perché, tuttavia, non apprezzarlo per quel che potrà garantire su tale piano? Ma qualcuno ha calcolato l’impatto complessivo delle nuove norme sul sistema di ordinaria giustizia del Paese? Qualcuno ha contato quanti poliziotti e quanti giudici saranno necessari per arrestare, processare e condannare i nuovi criminali, quanti denari e risorse serviranno per espellerli? Quante nuove prigioni dovranno essere costruite per tenere ristretti gli arrestati e i condannati?

Il problema è di fondamentale importanza. Rischia di diventare drammatico se si considera che il pacchetto di misure approvate contempla ulteriori nuovi reati rispetto a quelli già indicati, come l’ostacolo allo smaltimento di rifiuti, e che si prospettano per il futuro ulteriori innovazioni, come un maggior numero di processi per direttissima, meno sospensioni condizionali della pena, aumenti delle pene previste dal codice penale, riduzione dei benefici penitenziari. La palla, a questo punto, dovrebbe passare al ministro della Giustizia, ai dirigenti degli uffici giudiziari, ai vertici di polizia e carabinieri. Essi dovranno stabilire con quali strumenti legislativi, con quale organizzazione, con quali impegno di uomini e risorse saranno in grado di garantire se e quando le nuove norme ed i nuovi istituti troveranno applicazione. Forse, allo scopo, sarà addirittura necessario approntare l’indispensabile riforma generale del sistema giustizia italiano.

Se a causa della ristrettezza dei bilanci, dell’impaccio delle procedure, del sovraccarico del lavoro giudiziario, delle carenze degli uffici, del numero limitato dei magistrati e delle forze dell’ordine impegnate la riforma dovesse fallire, come è accaduto altre volte, ci troveremmo di fronte ad una novella legislativa esclusivamente di facciata. Nella sostanza, un’ennesima truffa per i cittadini. Ecco la ragione per la quale, dopo lo stupore e in certo senso l’ammirazione per l’attivismo governativo della prima ora, c’è grande curiosità per quanto potrà accadere concretamente nei mesi prossimi venturi.
 
da lastampa.it


Titolo: Nucleare revival rischioso
Inserito da: Admin - Maggio 24, 2008, 10:31:42 pm
Nucleare revival rischioso

Vittorio Emiliani


Gli industriali hanno fama di gente pragmatica, che guarda al profitto, certo, ma anche alla realtà che sta dietro ai comizi e agli illusionismi.
Stupisce pertanto questa entusiastica adesione di massa al revival berlusconiano del nucleare senza fare i conti con almeno cinque dati di fatto: 1) i tempi di realizzazione che non sono certo i cinque anni sbandierati dal ministro Scajola; 2) il reperimento dei siti sicuri - almeno cinque, per ora - in un Paese fortemente sismico. 3) I costi reali delle centrali nucleari e dell’energia che se ne ricava; 4) la disponibilità decrescente, e quindi il costo crescente, dell’uranio; 5) il problema angoscioso della eliminazione delle scorie.

I tempi: non ci vogliono meno di 8-10 anni per realizzare e rendere operativa una centrale nucleare, dopo essersi procurate, a caro prezzo, le tecnologie, e quindi la data del 2013 indicata da Claudio Scajola riguarda forse la posa della prima pietra per «un gruppo di centrali».

I siti: tutta l’Italia è o altamente sismica (Sicilia, Calabria, Umbria, Marche, Abruzzo, Campania, Friuli, l’intera dorsale collinare e montana dell’Appennino, ecc.) o mediamente sismica, cioè soggetta a terremoti, forti o fortissimi. Fanno eccezione la chiostra delle alte vette alpine dove però non mi sembra utile collocare centrali nucleari e la Sardegna che ha una formidabile vocazione turistica. Né credo che il governo Berlusconi voglia «militarizzare» il territorio nazionale anche per le centrali atomiche, imponendole con l’esercito.

I costi: è un altro elemento che molti politici trascurano e che gli industriali non possono sottovalutare. Non è un caso se in Europa soltanto la Finlandia sta costruendo una centrale atomica; se negli Stati Uniti non si realizza più un reattore dal lontano 1979 e se, nel mondo più sviluppato, unicamente Francia e Giappone puntano, per scelte ormai vecchie, sul nucleare. Difatti, secondo i dati dell’International Energy Agency, la quota mondiale di energia primaria così prodotta non arriva al 7%. La stessa Francia, decantata come nuclearista, ricava da questa fonte soltanto una parte del proprio fabbisogno energetico e ha superato i costi altissimi di impianto e di gestione mettendoli a carico, totalmente, del bilancio dello Stato che li ricomprende nei programmi militari della «force de frappe». Quanto ai costi dell’energia così prodotta, negli Usa hanno calcolato che una nuova centrale atomica, operante nel 2010, produrrebbe elettricità che costa oltre 6 cents di dollaro per chilowattora, contro i 5 cents di costo di quella da gas, i 5,34 cents dell’elettricità da carbone e i 5,05 di quella derivata dall’eolico ritenuta una fonte costosa e che però, come il solare, non ha fine.

L’uranio: le riserve planetarie di questo minerale stanno calando e si prevede che fra un quarantennio esso sarà praticamente esaurito, come l’oro, il platino e il rame. Quindi l’uranio residuo è destinato a rincarare sempre più, aggiungendo nel tempo costi a costi. Con quale competitività delle centrali così alimentate? È vero che le centrali di terza e poi quarta generazione (queste ultime prevedibili, peraltro, nel 2030) necessiteranno di meno uranio e tuttavia il problema, per un certo numero di anni ancora, rimarrà cruciale. Come ha ammesso lo stesso «guru» dell’atomo, l’americano Richard Garwin, in una conferenza tenuta l’altro ieri a Roma.

Le scorie: infine, c’è un problema che tutto il mondo, e l’Italia in particolare, non ha ancora risolto efficacemente, ed è quello dello smaltimento delle scorie. Non sappiamo tuttora dove collocare in sicurezza quelle delle centrali atomiche pionieristiche di tanti decenni fa. Berlusconi e Scajola manderanno stavolta l’esercito a Scanzano Jonico nel Materano per imporre il maxi-deposito sotterraneo di scorie nucleari rifiutato a furor di popolo nel 2003? Sempre Richard Garwin, ha ammesso che, al momento, «le scorie sono una grana».

Insomma, questa del nucleare rischia di essere, ad avviso di molti esperti, una scorciatoia comiziesca, illusoria, ma con un business industriale che certamente fa gola. Il guaio maggiore è un altro: è probabile che essa distolga l’Italia dalla ricerca e dall’utilizzo delle fonti rinnovabili per le quali siamo già in gravissimo ritardo rispetto alla Germania (che vende a tutto il mondo, noi inclusi, quelle tecnologie) e alla Spagna dove abbiamo fatto emigrare il Nobel Carlo Rubbia. In una bella intervistata rilasciata il 30 marzo a Giovanni Valentini della “Repubblica”, Rubbia ha detto alcune cose decisamente interessanti. Intanto che il nucleare «sicuro» non esiste (ogni cento anni un incidente è possibile) e che semmai c’è un nucleare «innovativo» costituito da centrali al torio «un elemento largamente disponibile in natura, per alimentare un amplificatore nucleare», si tratta di un «acceleratore, un reattore non critico, che non provoca cioè reazioni a catena». Siamo a tecnologie sperimentali utilizzabili per ora su di una scala limitata. Ma non credo che il ministro Scajola alludesse a questo tipo di centrali al torio, parlando di «nuova generazione». Sarebbe utile saperlo.

Carlo Rubbia, si sa, punta moltissimo sul solare e dà notizia che in soli diciotto mesi, nel deserto americano del Nevada (su progetto spagnolo, si badi bene), si costruirà con 200 milioni di dollari di investimento un impianto da 64 megawatt per l’energia solare. Sono impianti che si vanno diffondendo sempre più e che quindi andranno a costare sempre di meno, all’opposto di quelli nucleari. Ora, per rifornire di elettricità un terzo dell’Italia, in luogo di 15 centrali nucleari da un gigawatt, basterebbe - afferma lo scienziato triestino - un anello solare grande come il raccordo di Roma. Una fonte che il Paese del sole utilizza ancora troppo poco, che è senza fine nei secoli e per la quale non dovremo pagare bollette alla natura. Certo, ci sarà un discreto impatto ambientale e paesaggistico, ma, in cambio di una sicurezza assoluta, di una totale mancanza di inquinamento ambientale e di una disponibilità diffusa di energia, è un prezzo che si può pagare. La «voglia di nucleare» non ci farà perdere altri anni e anni nella giusta direzione del solare e di altre fonti rinnovabili? La Germania, uno dei Paesi più pragmatici e meglio governati del mondo, ci indica questa strada. Lo stesso Richard Garwin, «padre» della bomba all’idrogeno, invita, non per caso, a non trascurare affatto le fonti rinnovabili. Un conto sono i comizi, un altro le concrete fattibilità.

Pubblicato il: 24.05.08
Modificato il: 24.05.08 alle ore 7.58   
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Titolo: L’immigrato come pericolo
Inserito da: Admin - Maggio 24, 2008, 10:33:46 pm
L’immigrato come pericolo

Luigi Manconi - Federica Resta


Come ossessivamente preannunciato, il primo Consiglio dei ministri del governo di centrodestra ha affrontato il nodo della sicurezza, che è stato al centro della campagna elettorale di tutte le forze politiche, fino al punto di rendere luogo comune l’affermazione - del tutto opinabile - che «la sicurezza non è di destra né di sinistra»: quasi a sollecitare una convergenza unanime su un tema rispetto al quale nessuno intende lasciare il monopolio all’avversario.

Ed è singolare che tale esigenza di sicurezza sia avvertita come prioritaria proprio in una fase storica in cui, in Italia, si registra una netta flessione del tasso di criminalità, a dimostrazione di come la percezione di sicurezza sia influenzata da una serie complessa di fattori: dalla rappresentazione mediatica alle politiche urbanistiche e del lavoro, dalla fragilità dei legami sociali alle carenze del nostro processo penale. C'entrerà qualcosa, ad esempio, il fatto che - come rilevato dal Centro di ascolto radicale sull'informazione radiotelevisiva - la "copertura", a opera dei principali telegiornali, di fatti di cronaca nera è più che raddoppiata nell'ultimo quinquennio? In ogni caso, si tratta di un tema particolarmente complesso, suscettibile quanto altri mai di strumentalizzazione. Non a caso, i provvedimenti in materia di pubblica sicurezza sono stati, tradizionalmente, l'occasione per introdurre norme derogatorie ai principi dello stato di diritto.

E se già in età illuministica, si qualificava la prevalenza della ragion di Stato come il tratto essenziale del trattamento dei delitti contro l'ordine e la sicurezza pubblici, essa si è confermata tale anche nella storia successiva, sino ai giorni nostri. L'impatto sociale e politico di questi provvedimenti spiega quindi perché, da almeno quattro legislature, ciascun governo di ogni colore, abbia puntualmente presentato il proprio 'pacchetto sicurezza', con norme più o meno condivisibili. Fondamentale criterio di valutazione è la capacità di quelle misure di garantire insieme rigore e integrazione, provvedimenti penali e politiche sociali, prevenzione e inclusione, non riducendo dunque l'esigenza di sicurezza a mera questione criminale. In questa direzione si muoveva ad esempio il pacchetto sicurezza varato dal Governo di centrosinistra nella legislatura appena conclusasi, che affrontava il tema nella molteplicità dei suoi aspetti. Riconoscendo che le fonti di allarme sociale non sono riducibili alle migrazioni o ai c.d. quality-life crimes ma comprendono anche la criminalità dei colletti bianchi, il caporalato e la violenza in famiglia. E che meritevole di tutela non è soltanto un astratto concetto di ordine pubblico o decoro urbano, ma anche la trasparenza del mercato, il risparmio, la dignità della persona e in particolare del migrante, soprattutto se vittima di reati. Quest'idea era sottesa infatti a norme come quella estensiva del permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale ai migranti vittime di violenza in famiglia, alla proposta dell'introduzione di una norma incriminatrice del caporalato, o alla riforma della disciplina del falso in bilancio, così da conferirle il rigore necessario, tanto più in seguito alla sostanziale depenalizzazione attuata dal Governo di centrodestra nel 2002. Quest'impostazione era tanto più apprezzabile in un contesto normativo, quale quello italiano, segnato dalla tendenza alla differenziazione dell'intervento penale a seconda del tipo di autore coinvolto: da un lato norme inflessibili per i reati 'di strada' o comunque più 'visibili', e dall'altro discipline indulgenti fin quasi all'impunità per i colletti bianchi. La linea politica del pacchetto sicurezza del Governo precedente era tanto più condivisibile quanto più contrapposta a un clima sociale, politico, ideologico, caratterizzato dalla semplicistica identificazione delle cause dell'insicurezza nel debole - il migrante, l'outsider sociale, il mendicante - o comunque in chi viene percepito come 'diverso', con esiti inevitabilmente discriminatori. E, dunque, risulta totalmente infondata - e maliziosamente suggerita - la presunta affinità tra le misure previste dal centrosinistra e quelle approvate ieri dal primo Consiglio dei ministri del governo di centrodestra. Le misure sembrano incentrate prevalentemente sul concetto di "comportamento antisociale" e sulla diffidenza verso i migranti, rappresentati come prima fonte di pericolo per la sicurezza collettiva.

Si introduce così non solo un'aggravante relativa allo status di migrante irregolare, ma si prospetta anche - sia pur attraverso un disegno di legge - un autonomo delitto di immigrazione clandestina, sul modello di quanto previsto (addirittura!) in materia di terrorismo e di criminalità organizzata. Ciò viola non solo il diritto fondamentale all'emigrazione - se inteso non come diritto alla fuga ma come possibilità di raggiungere una terra dove vivere con dignità - ma anche il monito della Consulta, che proprio nel 2007 ha sollecitato il legislatore a rispettare criteri di proporzionalità e ragionevolezza nella disciplina dell'immigrazione (da considerare dunque non solo dal lato 'interno', come questione di ordine pubblico, ma anche come libertà). E se il rispetto dei principi non bastasse, si consideri la dubbia efficacia delle norme proposte: il nodo dell'immigrazione irregolare non si risolve certo con l'incarcerazione di massa ma con l'incentivazione del rimpatrio volontario e con gli accordi di riammissione. Inoltre, si estende da 2 a 18 mesi la durata della detenzione (amministrativa!) dei migranti nei CPT, anche nei casi di meri ostacoli tecnici (e non di resistenza, come prevede la bozza di direttiva europea) all'identificazione. Come si può giustificare la detenzione per un anno e mezzo di chi non abbia commesso alcun reato, motivata solo da circostanze estranee al comportamento individuale, quale l'impossibilità di identificare il migrante? Ancora, non viola forse il diritto alla difesa, la preclusione della possibilità di partecipare al ricorso per coloro ai quali sia stato negato l'asilo? Ed è compatibile con il diritto comunitario, la previsione dell'allontanamento coattivo 'per motivi imperativi di pubblica sicurezza' dei cittadini UE, solo perché carenti dei mezzi di sussistenza o pericolosi per "la moralità pubblica e il buon costume"? Al di là della loro dubbia legittimità, queste norme esprimono una concezione del rapporto tra libertà e sicurezza come un gioco a somma zero, in cui la garanzia della seconda comporta inevitabilmente la violazione delle libertà e dei diritti sanciti come inviolabili dalla Costituzione, dal diritto internazionale e dal diritto comunitario. Basti pensare che, proprio in tema di libera circolazione dei cittadini comunitari, i Trattati definiscono l'area europea come "spazio comune di 'libertà, sicurezza e giustizia', coniugando dunque istanze che devono necessariamente contemperarsi e mai porsi in conflitto. Neppure quando a prevalere è la domanda di sicurezza, dotata di una forza, anche simbolica, davvero 'dominante'. Insomma il nodo da sciogliere è il seguente: fino a che punto sia possibile garantire ai cittadini la sicurezza, senza per questo limitare le libertà di tutti e i principi di giustizia su cui si basa il nostro Stato sociale di diritto.

Che è 'di diritto' perché non riconosce altra fonte del potere se non la legge, ed è sociale fintantoché afferma i bisogni reali di tutti, come diritti universali. Spetta all'opposizione, allora, farsi carico di queste istanze, non senza ripensare a fondo il contenuto e il significato della categoria di sicurezza. Siamo infatti certi che quanto invocano i cittadini sia un astratto diritto alla sicurezza, e non, invece, una più concreta sicurezza dei diritti? E, primi fra tutti, i diritti all'eguaglianza, alla dignità, e alla libertà. Ovvero i fondamenti più solidi della sicurezza individuale e collettiva.

Pubblicato il: 24.05.08
Modificato il: 24.05.08 alle ore 7.59   
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Titolo: Fini: «I parlamentari dovranno lavorare di più»
Inserito da: Admin - Maggio 25, 2008, 05:42:47 pm
E sul dialogo con il Pd: sì, ma va evitato il cortocircuito tra due livelli che sono distinti

«I parlamentari dovranno lavorare di più»

Il presidente di Montecitorio, Fini: le Camere siano operative dal lunedì al venerdì, non tre giorni alla settimana

 

ROMA — «L'Italia è stata per decenni avvolta nella melassa del compromesso a tutti i costi, della non decisione. Oggi non è più così. Berlusconi ha capito benissimo che si governa assumendosi la responsabilità delle decisioni. Anche dolorose. Il Pd di Veltroni ha capito a sua volta perfettamente che è stata ormai superata la soglia oltre la quale la non decisione delegittima tutti, chi governa e chi sta all'opposizione, il Parlamento come il resto delle istituzioni. E da questo nuovo clima ritengo, anche per l'esistenza di almeno due condizioni concrete, che possa scaturire veramente una legislatura costituente, capace di dare un nuovo volto all'assetto del nostro Stato».

Detto questo, per il presidente della Camera, esiste almeno un rischio da evitare: il dialogo fra maggioranza e opposizione «non deve diventare consociativismo, scadere nell'inciucio, evitare il corto circuito fra due livelli che devono restare distinti, l'azione di governo e il dialogo istituzionale». Perché viceversa «dovremmo fronteggiare due errori speculari: la tentazione di ritenersi autosufficienti, anche sulle riforme, da parte del centrodestra; quello di confondere la battaglia sui singoli provvedimenti del governo con il piano delle riforme da parte del Pd».

Nella sua prima intervista da presidente di Montecitorio, Gianfranco Fini, parla anche del ruolo del Parlamento, della Camera che dirige, per sollecitare una maggiore produttività («i parlamentari devono essere presenti e lavorare dal lunedì al venerdì, non tre giorni alla settimana»), ma anche per chiarire che «la politica deve avere dei costi, se vuole essere veramente efficace: il problema, il vero costo, che poi produce la "casta", è quello della improduttività. Il primo dei buoni esempi che devono dare i parlamentari è il dovere della presenza, ma essere in grado di adempiere bene al lavoro legislativo ha indubbiamente dei costi. Oggi gli italiani avvertono un gap di decisioni, di atti forti da parte dello Stato, ma il diritto- dovere di governare è speculare al diritto-dovere di controllo che il Parlamento deve esercitare sull'azione dell'esecutivo».

Presidente, lei dice di essere fiducioso sul dialogo istituzionale fra Veltroni e Berlusconi. Ci dica perché.
«Innanzitutto perché si asseconda una scelta degli italiani. Il voto ha dimostrato che c'è voglia di semplificazione e un grande bisogno di colmare un deficit, un gap, di cultura di governo. È stato maggiormente premiato chi si proponeva realmente come forza di governo, è rimasto senza rappresentanza chi lo era solo a parole».

Lei ha parlato di due condizioni che la fanno essere ottimista.
«La prima è il testo Violante, sul quale nella scorsa legislatura si è realizzata una convergenza bipartisan e che può essere una buona base di partenza. La seconda è che i programmi del Pdl e del Pd, sulle riforme, sono largamente convergenti. Sono due fatti che autorizzano fiducia».

Il dialogo è partito dai regolamenti parlamentari. Forse è un po' poco.
«Siamo all'inizio e l'argomento è comunque importantissimo. Migliorare in senso razionale l'attività delle Camere significa migliorare l'immagine delle nostre istituzioni, renderle più produttive, celeri. Mi auguro che il confronto possa estendersi al ruolo delle commissioni, che devono riacquistare una centralità, nel processo legislativo, che si è appannata con il tempo».

Lei è stato fra i promotori del referendum sulla legge elettorale. Lo considera ancora valido?
«È indubbio che si svolgerà nel 2009, a meno di cambiamenti della legge elettorale vigente. Ma è altrettanto indubbio che è cambiato lo scenario, l'ho detto anche al professor Guzzetta. Oggi la priorità sono le riforme del sistema e io considero le regole sul voto un problema successivo, spero che gli amici del referendum se ne rendano conto».

Lei parlava di un gap di decisioni forti: sono state prese e a Napoli siamo alla guerriglia urbana.
«Pensare che una democrazia non sia più tale quando fa ricorso all'uso legittimo della forza, per impedire manifestazioni non autorizzate, significa predicare al vento la cultura della legalità, del diritto e della convivenza civile. Su rifiuti e sicurezza si è superata la soglia: o si governano queste emergenze o viene meno il ruolo dello Stato. Stato non può essere solo il participio passato del verbo essere. Su tanti altri settori e argomenti la soglia non è ancora stata superata, ma siamo all'allarme rosso».

Nel giorno del suo insediamento lei ha promesso di essere il garante di tutti. È difficile spogliarsi dell'abito dell'uomo di parte?
«Difficile, ma doveroso. Del resto posso dire in coscienza di averlo già fatto come ministro degli Esteri: rappresentavo, o cercavo di farlo, l'intero Paese. Ma deve essere chiaro che il ruolo di garanzia non può essere meramente notarile: il presidente della Camera, come del resto hanno fatto i miei predecessori, ha il dovere di contribuire al dibattito politico e culturale del Paese. E questo è un ruolo cui non intendo rinunciare. Faccio solo un esempio immediato: la proposta di Raffaele Bonanni sulla partecipazione agli utili societari da parte dei lavoratori ritengo valga più di una riflessione passeggera».

Dal voto sono state tagliate fuori, senza acquisire rappresentanza parlamentare, molte forze della sinistra. Le dispiace, c'è una riflessione da fare?
«Le leggi elettorali non sono buone o cattive in sé, sono solo il termometro del livello di consenso del Paese. In Francia il Fronte nazionale è stato escluso dalla rappresentanza anche avendo consensi elettorali molto alti. Credo che il deficit di rappresentanza di una parte della società possa essere colmato proprio dal ruolo del Parlamento, che è il luogo principe per capire, ascoltare e farsi interprete delle proposte che arrivano dal tessuto sociale. E qui si ritorna al ruolo centrale delle commissioni, all'importanza delle audizioni, a un procedimento legislativo che non può essere solo calato dall'alto».

Lei è presidente della Camera, il suo amico Gianni Alemanno è sindaco di Roma. L'accreditamento culturale della destra italiana è completato?
«Ritengo sia un percorso esaurito, ormai siamo davvero in una fase post-ideologica».

Eppure è bastato ad Alemanno dire che Mussolini ha modernizzato il Paese per suscitare polemiche.
«In tutte queste polemiche c'è come sempre un mix di disinformazione e di malafede. Valutare la storia è compito degli storici. Il paradosso è che se si parla di Giolitti o di Garibaldi ci si appella agli storici, se si parla del Ventennio c'è subito chi attribuisce valenza politica a un giudizio storico. Il che non significa auspicare rimozione, oblio, ma semplicemente dire che la storia è dietro di noi».

Quando nascerà veramente il nuovo partito del centrodestra?
«È già nato nelle urne, ora si tratta solo di battezzarlo, stabilirne le regole di funzionamento. Ci sono delle resistenze delle nomenklature interne, sia in An che in Forza Italia. Ma sono ottimista perché c'è una doppia spinta: dall'alto, mia e di Berlusconi, e dal basso, quella dei nostri elettori».

Si è scritto che il «Secolo d'Italia» sta per chiudere. Vero?
«Certamente il Secolo non sarà chiuso, soprattutto per il contributo culturale che ha dato e continuerà a dare, ma non più come quotidiano d'area».

Marco Galluzzo
25 maggio 2008

da corriere.it


Titolo: Genova: Tangenti, le scuse della Vincenzi alla città
Inserito da: Admin - Maggio 25, 2008, 05:48:29 pm
Genova

Il presidente dell'ospedale Bambin Gesù di Roma porta «Il processo» di Kafka all'interrogatorio con il gip

Tangenti, le scuse della Vincenzi alla città

Il sindaco resiste e punta al rimpasto. Francesca: mai preso soldi. Profiti: Bertone non c'entra

Il cambio di assessori potrebbe non riguardare solo i due che sono stati indagati per l'inchiesta sugli appalti delle mense

DAL NOSTRO INVIATO


GENOVA — I politici del centrosinistra l'hanno messo in conto: martedì prossimo sarà un giorno difficile. La giunta di Marta Vincenzi riunirà il consiglio comunale per chiedere scusa alla città proprio poche ore dopo che il giudice delle indagini preliminari Roberto Fucigna avrà deciso se rimettere o no in libertà i cinque arrestati (quattro in carcere, uno ai domiciliari) per lo scandalo sugli appalti pilotati delle mense scolastiche. Dall'una cosa dipende il futuro politico di Genova, dall'altra la sorte di un'inchiesta che sembra dilagare ogni giorno di più. Ieri gli ultimi due interrogatori di garanzia: per Stefano Francesca (pd, ex ds in cella), portavoce del sindaco Vincenzi, accusato di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione, e per Giuseppe Profiti (ai domiciliari per turbativa d'asta), l'uomo voluto dal segretario di Stato Vaticano Tarcisio Bertone alla guida dell'ospedale Bambin Gesù.

«Ho sbagliato a partecipare a certi incontri. Ma quello che ci dicevamo erano solo parole, cose dette in prospettiva. Mi hanno offerto soldi per la campagna elettorale ma ho capito che non era opportuno prenderli. Non ho mai intascato un euro». Un dettaglio che in realtà nemmeno l'accusa gli contesta. Perché secondo il pm Francesco Pinto il braccio destro del sindaco avrebbe accettato la promessa (e non intascato) di 20 mila euro l'anno dall'imprenditore della ristorazione Roberto Alessio. Contropartita: fargli ottenere l'appalto da 29 milioni di euro delle mense scolastiche a Genova quando sarebbe diventato capo di Gabinetto dell'amministrazione, progetto poi andato in fumo a favore della carica di portavoce. ù

Davanti alle contestazioni più dure, ieri, Francesca avrebbe scaricato le responsabilità sull'amico ds Massimo Casagrande, ex consigliere comunale ds, arrestato con le stesse accuse di Francesca. Avrebbe fatto parte del gioco, secondo la procura, anche un altro ex consigliere comunale ds e tutto il gruppo sarebbe stato in contatto con Profiti, «uomo di garanzia», stando alla definizione dello stesso imprenditore Alessio, per un altro appalto (che Alessio ha vinto e che poi è stato annullato dal Tar): quello delle mense della Asl 2 di Savona, diretta dall'amico di Profiti Alfonso Di Donato, a sua volta indagato per turbativa d'asta. Il presidente del Bambin Gesù, sostiene il pm Pinto, avrebbe commesso il reato di turbativa d'asta quando era dirigente regionale. Ma lui ieri ha negato ogni coinvolgimento. Si è presentato all'interrogatorio con «Il processo» di Kafka fra le mani, ha scherzato con i giornalisti e al gip ha spiegato di aver «sempre fatto tutto nella trasparenza e nella legalità. Mai — ha fatto mettere a verbale — il cardinale Bertone mi ha detto una parola né sulla gara né sui partecipanti ».

Alessio lo indica come garante di un'operazione illecita? «Alessio è convinto di aver subito un torto dal Tar», dice. «Non si è mai rassegnato a perdere la gara». Anche Marta Vincenzi non si rassegna. Ieri, in un vertice di giunta allargato a tutta la maggioranza e ai segretari di partito ha prima annunciato di voler gettare la spugna («mi presento martedì in consiglio dimissionaria») e poi si è lasciata convincere a non mollare («chiederò scusa alla città per il danno alla sua immagine e alla credibilità, ma me la sento, vado avanti»). Un rimpasto, a questo punto, è per tutti «inevitabile». E lo stesso centro sinistra annuncia: «Probabilmente non riguarderà solo i due assessori indagati».

Giusi Fasano
25 maggio 2008

da corriere.it


Titolo: LORENZO MONDO. Naufraghi tra rifiuti e ideologie
Inserito da: Admin - Maggio 25, 2008, 05:56:09 pm
25/5/2008 - PANE AL PANE
 
Naufraghi tra rifiuti e ideologie
 

LORENZO MONDO

 
L’Italia sta naufragando e quelli spaccano in quattro i capelli dell’ideologia; anziché dare una mano, intralciano le operazioni di salvataggio con le loro oziose e noiose cantilene. Come aprono bocca, accreditano fuor di misura agli occhi degli italiani le iniziative di Berlusconi. All’indomani del Consiglio dei ministri tenuto a Napoli, fioccano dalla sinistra radicale le accuse di autoritarismo e addirittura di latente fascismo. Rigettano l’annunciata politica sull’immigrazione, un fenomeno che, proprio perché finora mal governato, mette a repentaglio la sicurezza dei cittadini e la coesione sociale. Plaudono al governo Zapatero quando accusa pregiudizialmente di xenofobia quello italiano e fingono di ignorare che la Spagna ha adottato il pugno di ferro contro i clandestini, espellendone un numero spropositato, a decine di migliaia.

Non sono meno affetti da faziosità e livore per quanto riguarda Napoli, avvolta da sterminate distese di rifiuti che fanno sbiadire i raccapriccianti resoconti d’antan sul suo degrado. Li indigna, in particolare, il ricorso all’esercito per presidiare le nuove discariche che diano fiato alla città. Per contrastare le sommosse aizzate dalla camorra che, altra pervasiva forma di immondezza, sta muovendo una vera e propria guerra contro lo Stato. Fino a compromettere l’immagine internazionale del Paese con il vergognoso incendio di un campo rom. Basta evidentemente a questi sedicenti cultori del diritto, fautori di un paradossale dialogo a voce sola, che i rifiuti continuino a prendere la via della Germania o vengano smaltiti nelle discariche gestite dalla criminalità, contro le quali nessuno ha la faccia di protestare. Sfugge, malafede o insipienza, che la situazione, incancrenita per una paralisi decisionale durata troppo a lungo, esige interventi severi e risolutivi. Una sola cosa deve temere la gente dabbene, in primo luogo quella sacrificata di Napoli, che i propositi del governo restino lettera morta o siano attenuati per un’insorgente timidezza, per il timore di una malintesa impopolarità. Che può riferirsi soltanto alla camorra, a chi preferisce cedere a una fatalistica indolenza o, senza convincersi di dover pagare pegno, delega allo Stato astrattamente inteso la soluzione dei suoi problemi.
 
 
da lastampa.it


Titolo: Massimo D'Alema: la politica torni a suscitare passioni
Inserito da: Admin - Maggio 25, 2008, 11:02:58 pm
Massimo D'Alema: la politica torni a suscitare passioni


Il riformismo deve suscitare passione, avere idee forti e una visione del futuro «oppure si ridurrà solo ad ingegneria sociale». Massimo D'Alema, concludendo i lavori del seminario della Fondazione ItalianiEuropei su "Religione e democrazia", parla anche del Partito democratico e su cosa si dovrà lavorare per definirne il profilo. «Alle radici della crisi c'è la debolezza della politica - spiega - sia dei suoi strumenti d'azione, sia della sua incapacità di suscitare passione e partecipazione. Per molti anni ci siamo adoperati a decostruire, era giusto mettere degli argini a quegli elementi ideologici, ma il fiume si è essiccato e ora ha bisogno di essere ricostruito». Secondo il presidente della Fondazione, infatti, «è difficile pensare a un riformismo che non sia mosso da idee forti, da una visione del futuro, senza la quale non reggerà alle sfide del fondamentalismo, anche se ha un discorso razionale e convincente non prevarrà se non susciterà passioni e speranze». D'Alema spiega anche che si tratta « di un programma di lungo periodo» per il quale «non basterà riaffermare la forza dei nostri principi, noi dobbiamo nutrire questo progetto di respiro, di potenza ideale e politica».

D'Alema si riallaccia al discorso svolto poco prima da uno dei relatori della tavola rotonda, il filosofo Tzvetan Todorov, che ha parlato di come la destra francese di Sarkozy abbia manifestato un nuovo interesse per la religione come strumento di potere e ha ammesso che la sinistra italiana ha «visto con ritardo la nuova alleanza tra religione e potere» perché ha utilizzato «vecchie categorie interpretative» per leggere la società. Quindi ha citato la recente analisi svolta dal professor Mauro Calise sul voto del 13 e 14 aprile, durante un seminario della Fondazione. «Ci siamo rivolti all'opinione pubblica credendo che fosse finito il voto di appartenenza, ideologico e che ora ci fosse solo il voto di opinione, il voto verso l'offerta più vantaggiosa e ragionevole. Non era vero - sostiene D'Alema - oppure era vero solo in parte, perché tornava prepotentemente il voto identitario, cioè mosso da passioni e paure, non da valutazioni razionali. La destra ha intercettato tutto questo, non solo in alcuni blocchi sociali, ma in interi pezzi della comunità. La destra è stata la migliore interprete e ha intercettato queste paure rispondendo con una alleanza tra religiosità e potere»



Pubblicato il: 25.05.08
Modificato il: 25.05.08 alle ore 19.31   
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Titolo: Damiano: «Marcegaglia, sui contratti sbagli»
Inserito da: Admin - Maggio 27, 2008, 09:54:47 am
Damiano: «Marcegaglia, sui contratti sbagli»

Angelo Faccinetto


Dietro il no di Marcegaglia alla contrattazione territoriale vedo la pretesa, inaccettabile, di ridurre il ruolo del contratto nazionale senza sostituirlo con un corrispondente potenziamento della contrattazione decentrata». È molto critico l’ex ministro ed attuale capogruppo del Pd in commissione Lavoro della Camera, Cesare Damiano, con la presa di posizione del nuovo numero uno di viale dell’Astronomia. «È un errore - dice - la strada non è questa».


Damiano, la presidente di Confindustria, sabato a Treviso, è stata chiara: no all’indicizzazione dei salari, che peraltro nessuno sul fronte sindacale ha mai ufficilamente evocato, e soprattutto no ai contratti territoriali. Come valuta questa presa di posizione?


«Penso sia una posizione sbagliata, un errore. Non solo perché il protocollo del luglio ‘93, ancora vigente, prevede espressamente la contrattazione di secondo livello - aziendale o, alternativamente, territoriale - ma soprattutto perché l’esperienza dimostra che al di sotto di una determinata soglia di dipendenti (i famosi 50 addetti) la contrattazione aziendale praticamente non esiste. Scegliere di non percorrere questa strada rappresenterebbe una modifica di sistema profonda e significherebbe negare a milioni di lavoratori la possibilità di legare il salario alla produttività».


Confindustria insiste molto sulla necessità di ancorare il salario alla produttività: non le sembra una scelta contraddittoria questa?


«Si può comprendere l’interesse di Confindustria a spostare la contrattazione dal livello nazionale a quello aziendale. Anch’io condivido l’idea che la produttività debba essere retribuita a livello decentrato, fatte salve quelle risorse necessarie per pagare le normative dei contratti nazionali, ma se questa è la strada bisogna porsi il problema di come estendere il secondo livello. In caso contrario si darebbe ragione a coloro che ritengono necessario mantenere inalterato l’assetto attuale».


Quindi qual è la strada?


«Semplice: primo, estendere la contrattazione decentrata; secondo, estendere la contrattazione territoriale alle aziende più piccole. Aggiungo che escludere la contrattazione territoriale significherebbe non concedere i benefici fiscali alle imprese e ai lavoratori di interi comparti. Penso al commercio, all’artigianato, all’agricoltura, all’edilizia, settori nei quali questo tipo di contrattazione è presente».


Non è un problema nuovo, però...


«Questo problema si era posto anche nel corso della discussione sul protocollo sul welfare del 23 luglio 2007. In quell’occasione, da ministro, ho difeso la richiesta proviente dalle piccole imprese del lavoro autonomo di contemplare una quota degli sgravi previsti per il salario di produttività proprio a favore della contrattazione territoriale. Su questo tema, tra Confindustria e associazioni del lavoro autonomo ci fu uno scontro. Io sono convinto che la competitività vada difesa anche in questi settori».


Ma perché, secondo lei, gli industriali perseguono questo obiettivo?


«Perché Confindustria ha una pretesa inaccettabile: ridurre il ruolo del contratto nazionale senza sostituirlo con un corrispondente potenziamento della contrattazione decentrata».


Il suo successore, Maurizio Sacconi, ha formulato l’ipotesi che i lavoratori possano diventare azionisti delle società in cui lavorano, in modo da attuare forme di partecipazione alla gestione dell’impresa. Un’ipotesi diversa da quella attuata in Germania. È d’accordo?


«Sono sempre stato favorevole a una partecipazione dei sindacati nei consigli di sorveglianza, non nei consigli di amministrazione. Questo modello è presente in Europa e funziona. Altra questione è l’azionariato diffuso, che in alcuni casi è stato adottato in sostituzione di quote di salario. Ma gli effetti non stati sempre positivi».


Come giudica i primi provvedimenti adottati dal governo in tema di redditi? Avevano detto che sarebbe intervenuti su salari e pensioni, per ora si sono limitati a detassare, in via sperimentale ed entro certi limiti, gli straordinari dei lavoratori del settore privato.


«Sono molto scettico. In questi provvedimenti vedo una chiara inversione di priorità. Le risorse a disposizione dovrebbero venire utilizzate per migliorare il potere d’acquisto di retribuzioni e pensioni, come avremmo fatto noi proprio in questi mesi se fossimo restati il governo. La scelta di detassare gli straordinari produce invece situazioni di diseguaglianza. Tra lavoratori e lavoratori, tra lavoratori privati e lavoratori pubblici, tra lavoratrici e lavoratori. L’inclusione dell’orario supplementare riguardante i rapporti part-time potrebbe poi indurre in molte situazioni l’utilizzo di forme di part-time fittizio, prolungato col ricorso a uno straordinario a basso costo, producendo problemi di carattere normativo e pensionistico. Va inoltre chiarito se la detassazione sul salario di produttività si sommi o meno all’analoga misura introdotta quest’anno dal governo Prodi. Ma le priorità, ripeto, erano e sono altre».


Pubblicato il: 26.05.08
Modificato il: 26.05.08 alle ore 8.36   
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Titolo: Roberta Pinotti: «Il governo confusionario sull’impegno militare»
Inserito da: Admin - Maggio 27, 2008, 06:50:07 pm
Roberta Pinotti: «Il governo confusionario sull’impegno militare»

Gabriel Bertinetto


Roberta Pinotti, ministra-ombra della Difesa giudica confusionario l’approccio del governo all’impegno militare italiano in Afghanistan, «quasi fossimo ancora in campagna elettorale».

Ministra-ombra Pinotti, come commenta la ridda di dichiarazioni contraddittorie in cui si sono esibiti sullo stesso tema due rappresentanti di primo piano del governo, come Frattini e La Russa?
«Sono rimasta molto sorpresa dalle dichiarazioni che a inizio giornata ha rilasciato il ministro degli Esteri Frattini, che lasciavano pensare ad un uso delle nostre truppe anche nel sud Afghanistan, cioè in zone che non sono sotto il comando italiano. Nessuno ce l’ha chiesto. Che senso ha fare un’offerta poco chiara rispetto ad una richiesta inesistente? Nel corso della giornata poi Frattini si è un po’ corretto. Ha affermato che bisognerà comunque discuterne in Parlamento, e questo in sé è positivo. Ma restava l’impressione di confusione, di un esecutivo che agisce senza una linea direttrice. Anche perché il suo collega della Difesa, La Russa, diceva cose diverse. Negava l’intenzione di cambiare i cosiddetti caveat territoriali, cioè i vincoli che impediscono di agire al di fuori della propria zona di competenza (nel caso italiano la regione Ovest e la regione della capitale). Ed enunciava unicamente l’ipotesi di ridurre da 72 a 6 ore i tempi massimi entro cui il governo può approvare un’eventuale richiesta di intervento fuori area in casi particolari di urgente necessità».

E questa non è una novità notevole? Non esiste già del resto la facoltà dei comandanti sul campo, in situazioni di pericolo imminente, di superare i limiti territoriali anche senza aspettare l’autorizzazione da Roma?
«Certo. La riduzione a 6 ore riguarda situazioni in cui evidentemente non è necessaria una scelta immediata. Se si mette in piedi una struttura di comunicazione che consente di accorciare i tempi, la cosa può avere senso. Bisogna vedere in concreto come si intenderebbe realizzare l’idea. Quello che sarebbe grave, e fortunatamente alla fine Frattini è sembrato fare marcia indietro, sarebbe abolire i caveat territoriali, cioè consentire l’utilizzo delle nostre truppe fuori dalle loro zone di competenza anche senza autorizzazione del governo italiano. Se il nostro contingente ha lavorato sinora bene è proprio perché agiva secondo modalità operative note e collaudate. Questo verrebbe meno con la cancellazione dei caveat territoriali».

Frattini voleva forse fare un favore a quei Paesi Nato impegnati al Sud, che a volte lamentano di correre più pericoli degli altri?
«Se così fosse, la questione dovrebbe essere affrontata globalmente in sede Nato, e non attraverso un’offerta unilaterale, che sembra uscire dai giorni della campagna elettorale, quando la destra ostentava la sua presunta maggiore sensibilità ai problemi della sicurezza e della difesa. Del resto tutti in Afghanistan e fuori riconoscono l’ottimo lavoro fatto dai nostri soldati, che hanno svolto nel modo migliore i compiti loro assegnati. Le parole di Frattini, mosse forse dal desiderio di mettere alla berlina il governo precedente, finiscono con l’apparire invece come una critica all’azione delle forze armate italiane, di cui viene sminuito il valore».

Su un tema così delicato, non pensa che l’esordio del nuovo esecutivo sia piuttosto dilettantesco?
«Effettivamente in una sede come quella di Bruxelles ci si sarebbe atteso che il governo arrivasse perlomeno con una posizione condivisa».

Pubblicato il: 27.05.08
Modificato il: 27.05.08 alle ore 13.38   
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Titolo: Famiglia Cristiana: sicurezza, bugie per compiacere la Lega
Inserito da: Admin - Maggio 28, 2008, 08:50:07 am
Famiglia Cristiana: sicurezza, bugie per compiacere la Lega


«Il megafono della Lega sulle paure degli italiani» è il titolo dell'editoriale di apertura di Famiglia Cristiana in edicola questa settimana. Sull'immigrazione si va avanti, scrive il settimanale, con bugie («non c'è nessun motivo per punire i criminali stranieri con più forza di quelli italiani») e mezze verità («l'integrazione si fa, ma non si dice; soprattutto non la si codifica in leggi»). «Il ragionamento sulla sicurezza si sgretola alla prova dei fatti», scrive Famiglia Cristiana, e aggiunge: «È più sicura una città senza immigrati o Roma, dove si rischia di morire, ogni sera, travolti da pazzi italiani ubriachi o drogati al volante? È più sicuro un territorio senza extracomunitari o intere regioni in mano a mafia e camorra? Se - si legge ancora - la sicurezza è un problema così assillante, perché in questi anni nessun volonteroso cittadino, gruppo o associazione hanno programmato ronde contro i camion della camorra e le discariche abusive?».

La realtà, scrive il settimanale cattolico, è che «un vero dibattito sul pacchetto sicurezza non c'è stato. forse, per soggezione verso la Lega? Solo i cattolici hanno parlato chiaro, contro chi indica i mostri da eliminare. Diamo atto al sottosegretario alla famiglia, Carlo Giovanardi, d'essere stato l'unico nel governo a dire che il reato di immigrazione clandestina è una follia (vedremo se voterà con coerenza), ma gli altri cattolici, Rotondi, Scajola e Gianni Letta, non hanno nulla da dire?» secondo Famiglia Cristiana, inoltre, «la minaccia di reato per l'immigrazione clandestina non ha scoraggiato gli sbarchi. sono troppi nel mondo a partire perché non sono più sicuri nel loro paese. le nazioni ricche si preoccupano della propria sicurezza, ma il nostro sistema economico globale, rende incerta e impossibile la vita di molte popolazioni. che, per necessità- si chiude l'editoriale- vengono a mangiare almeno le briciole che cadono dalla nostra tavola».


Pubblicato il: 27.05.08
Modificato il: 27.05.08 alle ore 11.54   
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Titolo: FRANCO BRUNI La politica fuori bilancio
Inserito da: Admin - Maggio 29, 2008, 05:08:38 pm
29/5/2008
 
La politica fuori bilancio
 
 
 
 
 
FRANCO BRUNI
 
L’obiettivo di Tremonti è ridurre il disavanzo di bilancio e la spesa pubblica. Il che rassicura noi e l’Europa, perché lo Stato italiano ha un debito enorme e una spesa eccessiva e inefficiente. Ma come si concilia con i programmi ambiziosi, costosi e interventisti del governo? La contraddizione è insidiosa, anche perché potrebbe risolversi ricorrendo in misura inopportuna a politiche extra bilancio, con le quali il governo dirige l’allocazione delle risorse in modo non trasparente, senza assumersi le corrispondenti responsabilità contabili. Il che non è estraneo alla mentalità «anti mercatista», come la chiama lui, del ministro dell’Economia. Fin dal precedente centrodestra, Tremonti ha mostrato sollecitudine nel tentare di contenere il disavanzo pubblico. Allora la spesa crebbe, ma aumentarono anche le imposte. Col governo attuale Tremonti ha già annunciato, anche in sede europea, l’intenzione di raggiungere il pareggio strutturale richiesto dal Patto di Stabilità. Ha anche anticipato le cifre della sua prima finanziaria. Questa volta, inoltre, si è impegnato più chiaramente a ridurre la spesa. Ciò permetterebbe di contrarre le imposte e la quota di reddito nazionale intermediata dalla finanza pubblica.

Benissimo. Ma allora come si fa a salvare Alitalia e Malpensa, a non privatizzare, per esempio, la Rai, a costruire il ponte di Messina, tante altre infrastrutture, numerosi impianti per i rifiuti del Napoletano, ad avviare il nucleare, a favorire la proprietà della prima casa e aiutare chi ha un mutuo troppo caro? Dove si trovano i fondi, dovendo anche finanziare le politiche per la famiglia, la redistribuzione a favore dei redditi più bassi, il federalismo fiscale solidale, le politiche per la sicurezza che, se vanno oltre alla cacciata dei clandestini, richiedono, fra l’altro, nuove carceri e la ristrutturazione delle periferie? Tremonti promette di essere il Quintino Sella di un centrodestra con un programma pesante. Rischia di entrare presto in difficoltà.

La tentazione può allora essere di ricorrere alla finanza pubblica extra bilancio. Pubblica perché diretta politicamente, fuori bilancio perché usa conti diversi da quelli dello Stato. L’esempio emblematico, anche se un po’ caricaturale, è quello di Berlusconi che, in campagna elettorale, promette di salvare l’italianità di Alitalia «facendo qualche telefonata, da imprenditore capo del governo, per chiedere gettoni agli amici imprenditori». E il ponte di Messina? Con una limitata spesa pubblica di base, l’obiettivo è di mobilitare capitali privati per finanziare un monumento alle finalità extraeconomiche della politica, che contrasta con le priorità di un Paese dove non funzionano i treni dei pendolari. Qualcuno sta ricominciando a parlare di banche «amiche» e relativi scambi di favori. E speriamo che la finanza fuori bilancio del Ponte non finisca a irrorare e coinvolgere soprattutto quella della mafia.

Sorelle delle politiche extra bilancio sono quelle che toccano il bilancio pubblico in modo illeggibile. L’abolizione dell’Ici porta un beneficio politico al governo centrale facendo finta di diminuire le imposte e mettendo in difficoltà e soggezione i bilanci degli enti locali mentre proclama il federalismo. La fantasia dirigista e la distribuzione opaca degli oneri della politica economica possono debordare nelle più varie direzioni. A suo tempo Tremonti, che oggi si scaglia contro la tecno-finanza, cercò di far miracoli con le cartolarizzazioni, volle l’artificio della Banca del Sud, cercò di imputare spese per lavori pubblici ai patrimoni delle fondazioni bancarie, sostenne l’idea, che ancor oggi gli è cara, di fare emettere titoli di debito pubblico persino all’Unione Europea.

Con leggi, regolamenti, modulazioni fiscali, lo Stato può creare incentivi perché le risorse private vadano in direzioni che ritiene politicamente opportune. Devono però essere incentivi non occasionali, non troppo distorsivi, validi per tutti, a favore dell'interesse generale e non di quelli corporativi. Ma lo strumento principe deve rimanere un bilancio pubblico trasparente. Con una tassazione semplice, nella quale tutti possano leggere bene chi è chiamato a pagare di più, e una spesa pubblica dove spicchino le priorità. Il bilancio deve portare, di fronte al Parlamento e al Paese, la chiara responsabilità della quantità e della qualità delle scelte politiche fatte per correggere e integrare quelle che farebbero spontaneamente i mercati. Il dirigismo extra bilancio e la finanza pubblica opaca non devono diventare il modo per conciliare uno Stato interventista col bilancio magro e pareggiato di uno Stato liberale centrato sull’economia di mercato.

franco.bruni@unibocconi.it
 
da lastampa.it


Titolo: Taglio dell’Ici: come ti paralizzo i Comuni
Inserito da: Admin - Maggio 30, 2008, 11:30:44 pm
Taglio dell’Ici: come ti paralizzo i Comuni

Marco Causi


Le modalità con cui il Governo Berlusconi ha proposto di operare l’abolizione dell’Ici sulla prima casa metteranno certamente in difficoltà i Comuni italiani, e con essi l’offerta di welfare locale, dagli asili nido all’assistenza agli anziani, dai servizi pubblici locali alla sicurezza urbana, dalla manutenzione agli investimenti. Non solo, infatti, l’ammontare della compensazione prevista è inferiore al necessario. E non si capisce perché il Governo, per quantificare il dovuto, non abbia fatto riferimento alle certificazioni che i Comuni hanno depositato al Ministero dell’Interno, come richiesto dalla Finanziaria Prodi che aveva già abbattuto l’Ici per un importo di circa 300 euro per unità abitativa adibita a prima casa.

Soprattutto, non si sa quando queste risorse arriveranno ai Comuni, che sono abituati a riscuoterle direttamente e autonomamente nei mesi di giugno e di dicembre per provvedere alle necessità dei loro bilanci. Adesso i Comuni sanno soltanto che occorrerà aspettare un decreto del ministero degli Interni entro i prossimi sessanta giorni. Sembra chiaro che i soldi non arriveranno prima dell’autunno, se tutto andrà bene, e ancora non si sa come verranno ripartiti. La riduzione dell’autonomia di cassa metterà a dura prova tanti Comuni, soprattutto quelli che già soffrono difficoltà di cassa perché le Regioni in cui risiedono ritardano (spesso per tantissimo tempo) la corresponsione dei trasferimenti di loro competenza. Uno di questi Comuni lo conosco molto bene, ed è il più grande d’Italia.

Proprio il contrario del federalismo, insomma, come in tanti hanno sottolineato durante la campagna elettorale e nelle ultime settimane. Ma c’è di più.

Il provvedimento fissa la compensazione al livello del gettito stimato (al ribasso) nel 2007. Non si tiene conto dell’espansione naturale del gettito Ici che si sarebbe verificata nel 2008 e nelle annualità successive. Espansione legata alle nuove edificazioni, ma soprattutto ai risultati di due lavori in corso: l’adeguamento delle classificazioni catastali e il contrasto dell’elusione e dell’evasione. Se un’unità abitativa di un centro storico italiano, ristrutturata magari da anni ma ancora accatastata come «alloggio senza bagno» e che ha sempre pagato un’Ici, poniamo, di 200 euro è stata recentemente regolarizzata al suo vero valore e dovrebbe pagare un’Ici, poniamo, di 600 euro, quanto riconoscerà lo Stato al Comune? Il vecchio o il nuovo importo? Si tenga conto, peraltro, che tanti Comuni italiani hanno investito ingenti risorse umane, finanziarie e regolamentari in queste operazioni, e tante migliaia di contribuenti e di condomini hanno regolarizzato spontaneamente le posizioni catastali delle loro unità abitative.

A questo punto i Comuni italiani sono enti congelati. Non potranno contare neppure sull’incremento naturale del gettito Ici, per quanto insufficiente a soddisfare fabbisogni di spesa che, tendenzialmente, aumentano almeno con il tasso d’inflazione. Non potranno contare sulle addizionali. Sembra proprio che l’unica alternativa proposta dal Governo sia quella di tagliare i costi e la quantità dei servizi di prossimità. Stupisce che uno schieramento politico così marcatamente «federalista» (a parole) possa trattare con leggerezza così grande la base fondamentale su cui poggia la Repubblica, quella che è in grado di rispondere ai problemi quotidiani delle famiglie, delle imprese, della vita delle città. In fin dei conti l’unica istituzione che ha mantenuto in tutti i lunghi anni di crisi del nostro assetto-paese un rapporto positivo con le comunità e le opinioni pubbliche locali. Un caso davvero patologico di eterogenesi dei fini. Che speriamo ancora correggibile durante l’iter parlamentare. L’impegno del Partito Democratico e delle altre opposizioni sarà di provare a far capire al Governo, come abbiamo fatto ieri sulla questione televisiva, che è meglio correggere gli errori più rilevanti di questo decreto.

Pubblicato il: 30.05.08
Modificato il: 30.05.08 alle ore 8.17   
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Titolo: Agazio Loiero Un altro schiaffo al Mezzogiorno
Inserito da: Admin - Maggio 30, 2008, 11:32:09 pm
Un altro schiaffo al Mezzogiorno

Agazio Loiero


L’olezzo che negli ultimi tempi esala dal Mezzogiorno, il discredito generalizzato che sembra avvolgere un pezzo della sua classe dirigente (alcune vicende gravi che hanno toccato negli ultimi tempi in particolare Campania, Calabria e Sicilia sono sotto gli occhi di tutti) diventano il pretesto ideale per travolgere in un giudizio negativo sommamente ingiusto una parte, per storia e demografia, non irrilevante del Paese. Lo strumento per realizzare il misfatto sarà il federalismo fiscale nella versione lombarda imposta dalla Lega e da Formigoni, che postula una secessione né amara né dolce. Una secessione appunto senza aggettivi. Non faccio alcuna fatica ad ammettere che il colpevole maggiore di tale situazione è il Mezzogiorno stesso, la classe dirigente che lo ha governato in questi decenni dissipando risorse pubbliche, alimentando sprechi e di fatto contribuendo a ridurlo nelle condizioni disperate in cui oggi versa. Ma tutto questo è sufficiente perché un territorio di circa 20 milioni di individui, facenti parte di un tessuto unitario, con un cumulo di problemi irrisolti ed ereditati nel tempo sia abbandonato al suo destino?

Oggi quel territorio è segnato da una disoccupazione tra le più alte dell’Europa, è circondato da una criminalità organizzata imponente e vessato dalle banche, che sotto l’usbergo del rischio territoriale, applica interessi insopportabili stritolando quel poco di imprenditoria che resiste. Le infrastrutture sono quello che sono. Non ci fosse l’Europa a tentare di garantire alcuni diritti presenti nella prima parte della nostra Costituzione - penso all’articolo due e «ai doveri inderogabili della solidarietà» e all’articolo tre, «all’uguaglianza dei cittadini», richiamata da circa il 50 per cento delle sentenze della Consulta - per alcune regioni del Sud il destino sarebbe già segnato. Su questo Mezzogiorno, già di per sé stremato, si abbatte oggi il testo di legge di federalismo fiscale approvato dal Consiglio regionale lombardo che la Lega ed il centrodestra intenderebbe fare proprio. Esso prevede, lo ricordo velocemente, che rimangano sul territorio il 15 per cento dell’Irpef, l’80 per cento dell’Iva, le accise su benzine, tabacchi e giochi. Per il Mezzogiorno e per la Calabria in particolare se il il disegno di legge venisse approvato dal Parlamento, sarebbe la fine. Già quello del centrosinistra presentato alla Camera nella passata legislatura e non approvato dal Parlamento probabilmente per una forte resipiscenza di Prodi, penalizzava tutte le regioni del Sud, in particolare la mia. La Calabria sarebbe risultata, come afferma un gruppo di economisti a cui ho commissionato un lavoro sul tema in questione, il territorio più penalizzato per la riduzione della composizione percentuale dei trasferimenti. Sarebbe passata da un valore del 10,5 per cento di tutti i trasferimenti vigenti a un valore del 3,9 per cento. Il testo di legge lombardo, analizzato dagli stessi studiosi, moltiplicherebbe a dismisura quegli effetti nefasti. Si può fare una cosa del genere? Io credo di no.

Due ultime considerazioni. La prima. Il fatto che, sul testo di legge, a fare da apripista in Parlamento sia, forte del suo recente successo elettorale, la Lega, permette ad una grande parte del centrosinistra del Nord di, come dire, «subire» la volontà della maggioranza dei cittadini. In verità è da anni che una parte non minoritaria del centrosinistra ha fatto proprie certe posizioni del partito di Bossi. La questione viene presentata all’opinione pubblica, in questa stagione di crescenti egoismi, come una difesa strenua del territorio svincolata da ogni interesse unitario del paese. La seconda. Il fatto che il disegno di legge in questione sia stato partorito dal Consiglio regionale lombardo, che ha sede a Milano, rappresenta una ferita in più per molti meridionali di ordinaria cultura. Milano è sempre stata considerata da Sciascia, da tanti intellettuali, ma anche dal popolo minuto degli emigranti, che è quello più sensibile al tema dell’accoglienza, la città «più unitaria d’Italia». Merito di due culture, la laica e la cattolica, che in quella città hanno lasciato, lungo l’arco dei secoli, sedimenti profondi e nei fatti anticipatori di quel nucleo di diritti presenti nella prima parte della nostra Costituzione, di cui, per involontaria ironia, quest’anno si festeggiano i 60 anni.

Pubblicato il: 30.05.08
Modificato il: 30.05.08 alle ore 8.17   
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Titolo: Rula Jebreal. Il nemico non è l’immigrato
Inserito da: Admin - Giugno 02, 2008, 11:44:05 am
Il nemico non è l’immigrato

Rula Jebreal


Il mix è esplosivo. E si fa ormai fatica a capire che parte hanno l’intolleranza, il razzismo, l’odio politico, la giustizia fai-da-te nell’esplosione di violenza che da qualche giorno scuote il Paese dalle fondamenta. L’unico elemento comune che si trova all’origine di tutte le analisi che tentano di dipanare l’intricata matassa è il fallimento dello Stato, delle politiche che ha adottato, della Politica con la P maiuscola che ne ha guidato l’azione.

Vengono al pettine i nodi di tutte le contraddizioni prodotte dai continui compromessi che la politica ha accettato negli ultimi anni per governare fenomeni sociali molto complessi che avevano invece bisogno di essere affrontati con il massimo di trasparenza e di linearità. Quando il Capo della Polizia Manganelli dichiara l’impotenza delle forze dell’ordine e vede nell’azione della Magistratura un elemento di freno che vanifica gran parte del lavoro svolto; quando la Magistratura chiamata in causa risponde che non può sottrarsi all’applicazione letterale della legge e che non saremmo in uno Stato di diritto se l’azione giudiziaria si facesse strumento di una strategia operativa del governo, dobbiamo allora riconoscere che il Parlamento della Repubblica ha dato un colpo al cerchio ed uno alla botte e che ne è venuta fuori una situazione di stallo. Una condizione di immobilismo che gioca tutta a favore di chi, italiano o immigrato, è interessato a delinquere. In passato ho spesso denunciato l’incapacità degli uffici amministrativi a fare una selezione tra gli immigrati in base alla cultura, alla professionalità, alla condotta di vita, e mi sono lamentata di un livellamento verso il basso che produceva umiliazione e malessere nelle tante persone oneste e perbene che sono approdate in Italia da altri Paesi. Ora mi rendo conto di un secondo effetto, forse persino più grave, di questo atteggiamento: nel novero indistinto degli immigrati non c’è solo il mancato riconoscimento per i giusti; c’è anche un comodo rifugio per i delinquenti. Sono sinceramente dispiaciuta che la stampa non colga questa macroscopica anomalia e si faccia invece amplificatore di un giudizio che rischia di sovrapporre il fenomeno immigrazione al fenomeno delinquenza, senza capire che solo il riconoscimento di piena cittadinanza per gli immigrati, intesa nel senso di una comune condivisione dei diritti civili, può portare ad enucleare gli aspetti di degenerazione illegale o addirittura criminale che fisiologicamente accompagnano le migrazioni di massa. In Italia il confronto tra il buonismo e l’ostracismo ha soppiantato ogni serio dibattito sul funzionamento delle strutture che devono separare le mele marce da quelle sane e garantire ai cittadini la necessaria e dovuta serenità. Tutto è stato ricondotto ad una equazione tanto semplice quanto antistorica: per fermare la delinquenza bisogna fermare l’immigrazione. E ciò a dispetto delle statistiche che ci ricordano che ancora oggi oltre i due terzi di tutti i delitti sono commessi in Italia da italiani.

C’è da augurarsi che il nuovo governo sappia trarre le giuste indicazioni dalle esperienze e che coordinando le politiche della sicurezza, della giustizia e delle carceri possa restituire serenità alla popolazione, ritrovando anche il giusto ruolo dello Stato che ha il monopolio della forza e non deve aver bisogno di alcuna surroga. Su un diverso fronte mi aspetto l’avvio di una rigorosa politica di integrazione per gli immigrati che ponga anche requisiti severi ma che offra la possibilità a chi merita di sedersi a pieno titolo tra i cittadini degni di questo nome. Non ho dimenticato lo sforzo che fece il Ministro Pisanu con il suo progetto di Consulta e spero che questa strada venga ripresa con maggior vigore e porti ad attribuire responsabilità se non politiche almeno amministrative ad immigrati che lo hanno meritato. Nessun segnale è oggi più importante per riportare sulla giusta rotta un’opinione pubblica che si è troppo sbilanciata verso l’adozione di un giudizio sommario sul fenomeno immigrazione, sollecitata da troppe frasi irresponsabili pronunciate nei palazzi della politica e, purtroppo, dal risalto asimmetrico e poco oggettivo che i media danno agli avvenimenti.

Dobbiamo insieme puntare l’indice contro la diffusa illegalità che in questo paese regna sovrana e ricostruire un sistema di regole che valgano per tutti senza privilegi e senza eccezioni di razza, di censo o di potere. Sta qui il punto debole del sistema, un peso insopportabile che esaspera la cittadinanza e che si trasforma invece nella condizione più favorevole per i malintenzionati. La ragione per cui il numero degli extra-comunitari che delinquono è in Italia superiore alla media europea.

Pubblicato il: 01.06.08
Modificato il: 01.06.08 alle ore 6.54   
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Titolo: Italia nel mirino di Vaticano e Onu.
Inserito da: Admin - Giugno 03, 2008, 11:55:49 am
2008-06-02 21:03

CLANDESTINI, CRITICHE ALL'ITALIA
 (di Chiara Scalise)



Italia nel mirino di Vaticano e Onu.

L'intenzione di introdurre il reato di clandestinità si scontra con un doppio altolà: quello del ministero dell'Immigrazione della Santa Sede e quello dell'Alto commissario per i diritti umani, Louise Arbour, che bocciano la nuova misura varata dal governo e a breve all'esame del Parlamento. Nonostante la critica sia identica nei contenuti, l'Esecutivo sceglie di replicare in modo diretto esclusivamente al Palazzo di Vetro: qualsiasi giudizio è prematuro, fa sapere la Farnesina, perché il testo non ha ancora iniziato il suo iter nelle Aule di Camera e Senato.

L'occasione è però 'ghiotta' e innesca una nuova polemica tra i due schieramenti. Giorgio Napolitano si astiene ovviamente dall'entrare nel merito, ma osserva solo che ora la palla è nelle mani dei deputati e dei senatori. Il disegno di legge "é davanti al Parlamento", replica a margine della Festa della Repubblica ai Giardini del Quirinale. E non interviene direttamente neanche il premier Silvio Berlusconi. La reazione ufficiale firmata Farnesina sarebbe però arrivata dopo un colloquio telefonico tra il Cavaliere e il ministro degli Esteri Franco Frattini. Una risposta che ha il proprio nocciolo in quelle poche righe in cui si fa sapere che i giudizi arrivati non condizioneranno "il dibattito politico nazionale, che sarà come sempre trasparente ed aperto al contributo di maggioranza ed opposizione".

La Farnesina precisa anche che la norma 'incriminata' nulla ha a che vedere con "la xenofobia o con la discriminazione su base razziale";al contrario, "affronta il fenomeno dell'immigrazione illegale - si legge in una nota diffusa a sera - e degli strumenti legislativi per ridurlo, nell'ambito, beninteso, delle garanzie previste dall'ordinamento giudiziario e nel pieno rispetto delle direttive dell'Unione Europea". Il giro di vite sull'immigrazione viene difeso dalla maggioranza, che invita a non strumentalizzare i moniti arrivati oggi. Quello dell'immigrazione "é sempre e solo un problema di equilibrio tra la solidarietà e la legalità", ha rammentato il presidente della Camera Gianfranco Fini, prima ancora che scoppiasse il nuovo caso. Su tutto, afferma il vicepresidente della Camera Maurizio Lupi, "é importante non piegare a proprio favore i richiami del Vaticano o dell'Onu". Ma c'é anche chi azzarda posizioni più nette: "Sono cattolico, apostolico e romano - afferma il capogruppo del Pdl al Senato Maurizio Gasparri - e non ritengo sia incompatibile con la religione cattolica una posizione di severità". Determinatissima anche la Lega, partito al quale appartiene il ministro dell'Interno Roberto Maroni (padre del disegno di legge sull'immigrazione): il reato di clandestinità non si tocca, dice il numero uno alla Camera Roberto Cota; perché mai, si chiede il ministro Roberto Calderoli, l'Onu se la prende solo con l'Italia? In modo simmetrico, il centrosinistra approfitta delle critiche che piovono da oltretevere e dall'Onu. Il presidente dei senatori del Pd Anna Finocchiaro ribadisce la disponibilità del suo partito a fare la propria "parte nell'affrontare la discussione sul pacchetto sicurezza che il governo ci presentera", ma allo stesso tempo invita gli avversari a compiere una "riflessione profonda" sulla correttezza del reato di clandestinità. Più che essere pregiudizialmente contraria, l'Italia dei Valori è convinta che sia 'una norma inefficace'', e durissimi sono gli esponenti, ormai extraparlamentari, del Prc che accusano il governo di aver varato norme "incostituzionali". Un invito alla cautela arriva invece dall'Udc: "Le elezioni sono lontane - commenta il segretario del partito Lorenzo Cesa - e la demagogia dovrebbe lasciare il posto al buonsenso e alla cultura di governo. Palazzo Chigi ascolti il Vaticano e la comunità internazionale". 

da ansa.it


Titolo: A Venezia - Blitz della Lega contro il campo nomadi
Inserito da: Admin - Giugno 03, 2008, 11:58:11 am
A Venezia

Blitz della Lega contro il campo nomadi

E' finanziato dal Comune con 2.8 milioni di euro.

Esponenti e simpatizzanti bloccano i lavori di costruzione



VENEZIA - Blitz di esponenti e simpatizzanti della Lega Nord, poco dopo l'alba, a Mestre (Venezia) per bloccare i lavori di costruzione di un campo nomadi finanziato dal Comune con 2,8 mln di euro. Alla manifestazione - hanno riferito gli organizzatori - partecipano alcune decine di persone; alcuni di loro si stanno incatenando per impedire l'avvio dei lavori che, già previsti per i giorni scorsi, stanno subendo dei rinvii.

Oltre agli esponenti del Carroccio, sono presenti i rappresentati del comitato di cittadini contrario alla costruzione del campo, che è destinato a una comunità sinti che da decenni vive a Mestre. Sono previste piccole casette con annessa, a ciascuna, lo spazio per parcheggiare una roulotte. «Il sindaco di Venezia, Massimo Cacciari - ha detto il capogruppo della Lega in consiglio comunale, Alberto Mazzonetto - con questa iniziativa ha tradito i veneziani. I costi del campo incideranno sulla finanza locale e impediranno altre opere che sono prioritarie. A Venezia c'è una emergenza abitativa per almeno 2000 persone, sfrattate o prive di casa: i soldi per il campo dovevano andare a loro. Per Cacciari vengono prima i nomadi che i veneziani indigenti».


03 giugno 2008

da corriere.it


Titolo: Toni Fontana. La Spagna: sull'immigrazione sbagliate iniziative unilaterali
Inserito da: Admin - Giugno 04, 2008, 12:09:39 am
La Spagna: sull'immigrazione sbagliate iniziative unilaterali


Toni Fontana


Diego Lopez Garrido, già portavoce del Psoe alla Camera (corrisponde a capogruppo in Italia) è stato nominato, con il nuovo governo, segretario di Stato per l’Unione Europea. Dopo le polemiche sull’immigrazione ha incontrato a Madrid l’omologo italiano Ronchi. Il presidente del governo Zapatero, oggi a Roma per il vertice Fao, lo ha incaricato di rappresentare le posizioni di Madrid sul tema dell’immigrazione. «La Spagna - dice - è legata all’Italia da una solida amicizia, anche se sull’immigrazione le posizioni non coincidono sempre. Anche noi vogliamo combattere l’immigrazione illegale; se si stabilisce il rimpatrio lo facciamo nel rispetto dei diritti e delle garanzie. Noi lavoriamo assieme all’Italia anche nel controllo delle nostre frontiere, ma iniziative unilaterali contro l’immigrazione illegale possono comportare conseguenze non desiderate tutto attorno e occorre scongiurare il rischio che si producano flussi migratori in Spagna».

Sui giornali italiani è apparsa la foto che ritrae lei ed il ministro italiano Ronchi sorridenti. Sono dunque archiviate le polemiche tra Roma e Madrid?
«Italia e Spagna mantengono sempre aperta una via di dialogo, la visita del ministro Ronchi nè è una prova. Questo atteggiamento di interesse reciproco non è venuto meno e noi siamo convinti che occorre predisporre una politica comune europea per affrontare il tema dell’immigrazione. Come tutti sappiamo si tratta di una questione molto delicata e importante e non sempre le nostre opinioni coincidono. Continueremo a cercare questo consenso e sono convinto che quello che si vede nelle foto non sarà l’ultimo sorriso tra noi».

Resta tuttavia una diversità di vedute sul reato di immigrazione clandestina che il governo italiano vuole introdurre..
«Non sempre le nostre posizioni coincidono con quelle dell’Italia sulla questione dell’immigrazione, tuttavia sia il vostro paese che la Spagna intendono combattere l’immigrazione clandestina e dare un segnale chiaro e fermo della nostra opposizione. Noi siamo convinti che la situazione di ciascun paese è differente, però, in fin dei conti, il problema dell’immigrazione clandestina riguarda tutti i membri dell’Unione e dunque occorre definire una strategia a livello europeo. Questo è quanto abbiamo detto al governo italiano con augurio di continuare a lavorare per una politica comune».

La Spagna teme che se l’Italia innalza barriere contro l’immigrazione, aumenterà l’afflusso verso le vostre coste?
«Vivere in un Europa senza frontiere offre molti vantaggi e molte opportunità, occorre però essere coscienti della responsabilità che ciò comporta per ciascun governo. Un intervento unilaterale contro l’immigrazione illegale può provocare una reazione non desiderata tutt’attorno e determinare il rischio che si producano flussi migratori, ciò va evitato. L’Italia è comunque uno dei principali nostri “soci” nella protezione delle coste (finanzieri italiani partecipano al pattugliamento delle acque in Senegal deciso dopo gli sbarchi nelle Isole Canarie spagnole Ndr). I nostri due paesi hanno collaborato per molto tempo attraverso l’agenzia Frontex (agenzia europea per il controllo delle frontiere Ndr). Questo è senza dubbio un esempio di come affrontiamo assieme i problemi, e di come concretamente collaboriamo mettendo in comune mezzi e personale»

Anche il vostro ministro del Lavoro Corbacho prospetta un inasprimento delle politiche della Spagna verso l’immigrazione
«In nessun momento abbiamo stabilito un inasprimento della nostra politica e la Spagna non ha cambiato il suo atteggiamento nei confronti dell’immigrazione illegale. Manteniamo la nostra posizione che comprende ad esempio il fatto che vengono accettati gli immigrati che posseggono un contratto di lavoro. A coloro che sono entrati illegalmente in Spagna e devono dunque essere rimpatriati noi garantiamo il rispetto dei diritti e delle garanzie che sono state stabilite nel nostro paese. Abbiamo inoltre rafforzato la collaborazione con alcuni paesi di origine affinché il ritorno venga effettuato nelle migliori condizioni possibili».

Molti giornali italiani hanno scritto che la Spagna ha espulso molti immigrati ed hanno ricordato i fatti accaduti a Ceuta e Melilla alla fine del 2005..
«L'immigrazione legale è uno dei motori dei quali la Spagna non può fare a meno, però non è un mistero il fatto che il nostro governo intende lottare contro l’ingresso illegale di immigrati. Gli incidenti ai quali si riferisce hanno avuto per protagonisti persone che cercavano di penetrare illegalmente. Quando accadono fatti come questo noi cerchiamo di analizzare caso per caso se si tratta di disporre il rimpatrio di queste persone e, in tal caso, cerchiamo di raggiungere un accordo con il paese di origine. Su questo noi possiamo già vantare un’esperienza ed abbiamo inaugurato una strada per risolvere i problemi. Per questa ragione la «direttiva del ritorno» è molto importante perché stabilirà condizioni minime eguali per tutti gli stati membri dell’Unione Europea che si debbono misurare con problemi come questo».

Alcuni osservatori della destra sostengono sulla stampa italiana che è la Spagna ed essere isolata. Oggi il presidente del governo sarà a Roma al vertice della Fao e potremo vedere se ciò corrisponde al vero...
«La Spagna è un paese tradizionalmente europeista, la società spagnola esprime una forte spinta verso l’Europa e dunque per noi è davvero impensabile sentirsi isolati anche perché le nostre proposte vengono regolarmente accolte dagli altri paesi membri. Noi ci identifichiamo molto con i valori che sono alla base del patto tra gli europei e ciò si può verificare analizzando i nostri rapporti con i paesi soci della Ue. Può capitare, un giorno o un altro, di esprimere posizioni differenti, però la politica europea si fa guardando avanti, al futuro, cercando benefici per tutti i cittadini del continente. Su questo la pensiamo tutti allo stesso modo».

Pubblicato il: 03.06.08
Modificato il: 03.06.08 alle ore 12.52   
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Titolo: Dijana Pavlovic Il Volto Cattivo
Inserito da: Admin - Giugno 05, 2008, 10:33:38 am
Il Volto Cattivo

Dijana Pavlovic




La scelta del Comune di Venezia di offrire una vera opportunità di integrazione ai rom che vi risiedono regolarmente, lavorano e mandano i figli a scuola avrebbe dovuto avere il plauso di chi invoca legalità e sicurezza. Ma per i leghisti veneti non è così. È forse meglio il rogo dei campi a Napoli, le molotov di Pavia, le accuse mai provate di rubare bambini, le ronde che percorrono le città d’Italia? La feroce campagna della «Lega contro zingari e immigrati» continua alimentando l'insofferenza diffusa contro il diverso, l’immigrato, lo zingaro che assume i connotati espliciti della xenofobia e del razzismo.

Ma proprio chi invoca sicurezza sa che quanto più una comunità è in condizioni di stabilità, ha un minimo di sicurezza sociale, più è garantita sicurezza per tutti.

Ma quello che io ho visto è che questo non interessa. I 65 sgomberi di cui si vanta il vicesindaco di Milano non hanno risolto il problema dei campi abusivi - si sono solo spostati altrove - in compenso hanno distrutto quel poco di integrazione che si era realizzato con gli uomini che lavoravano, anche se spesso in nero perché ricattati, e i bambini che frequentavano le scuole. È forse più sicuro rendere queste persone più disperate, costringerle a disperdersi sul territorio e arrangiarsi come possono per sopravvivere?

I dati delle Nazioni unite classificano l’Italia come uno dei paesi industrializzati più sicuri al mondo: solo in Austria e Giappone ci sono meno omicidi che in Italia e per quanto riguarda scippi e borseggi - i reati che più si attribuiscono ai rom - l’Italia e al 14° posto sui 18 paesi esaminati, e così via.

La paura agitata dai leghisti è il frutto di una logica senza prospettiva: chi può pensare di invertire i fenomeni migratori che ovunque stanno cambiando il mondo? È la scelta di un consenso ottenuto all’insegna di una insicurezza costruita gridando a un lupo senza denti. Scarica sul più debole il malessere di una società che ha un disagio sociale e morale profondo, grande responsabilità del quale tocca a una politica che rinuncia al compito di educazione civile per seguire gli istinti peggiori in un perverso circuito: la politica, con il coro condiscendente dei media, alimenta la paura dei cittadini che premiano con il voto questa politica.

Questa nuova Italia che criminalizza per decreto la povertà, della violenza contro gli ultimi, del pregiudizio elevato a verità, della giustizia fai da te dovrebbe invece riflettere sul lungo decorso della malattia che l’affligge e sulle preoccupanti prospettive del suo futuro. Non si può non legare i Maso, le Eriche e gli Omar, che uccidono i genitori per denaro, ai ragazzini che violentano e uccidono una coetanea, al branco che uccide un diverso da loro a Verona, al bullismo nelle scuole, alla violenza praticata nelle famiglie.

Coloro che aizzano i cani, lanciano molotov e sassi, percorrono in ronde minacciose le città, i sindaci che annunciano nei cartelloni che «i clandestini possono stuprare i tuoi figli» sono il volto vigliacco di chi non guarda al male che porta dentro di sé, di chi rifiuta di affrontare la camorra che a Napoli controlla i rifiuti e organizza i roghi dei campi rom, la mafia padrona della vita e del voto dei siciliani, l’andrangheta non solo padrona del territorio calabrese ma di interi quartieri di città come Milano.

Di fronte a tutto questo io, rom e cittadina italiana, che so bene quanto il rispetto della legge protegga me e il mio popolo, dico alla Lega quanto mi pesa che sappia mostrarmi solo il volto vile del paese che amo.

dijana.pavlovic@fastwebnet.it


Pubblicato il: 04.06.08
Modificato il: 04.06.08 alle ore 13.00   
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Titolo: Gianni Marsilli. Muscoli di Carta
Inserito da: Admin - Giugno 05, 2008, 12:56:16 pm
Muscoli di Carta

Gianni Marsilli


Qua e là risuona da Roma una parola assai inabituale nel gergo politico italiano: sovranità. La brandiscono Calderoli (Lega) e Bocchino (An), per rivendicare autonomia rispetto ad istanze sovranazionali come l’Unione europea e l’Onu, preoccupate per la piega che prende in Italia la questione della sicurezza e dell’immigrazione.

È una parola carica di storia ma oggi anche di ambiguità. Nel resto d’Europa serve da lustri ad identificare i «sovranisti», euroscettici o eurocontro, fautori delle prerogative dello Stato nazionale contro l’invadenza comunitaria. Da noi non si capisce ancora, anche perché i «sovranisti», in genere, sono i primi a presenziare alle parate militari e ad inchinarsi davanti al vessillo nazionale. La Lega ha invece disertato la Festa della Repubblica, e del tricolore sappiamo bene quale uso vorrebbe fare, sotto lo sguardo benevolo dei patrioti Bocchino, Gasparri e La Russa. Ma lasciamo a Pontida quel che è di Pontida, e vediamo di ragionare un po’. Non c’è dubbio che la questione dell’immigrazione e della sicurezza abbia carattere d’urgenza, e che sia bisognosa di risposte rapide. Il governo italiano pensava di aver trovato il punto critico e il modo più efficace per aggredirlo: rendere reato l’immigrazione clandestina. Lo prevedono altri codici penali europei, è vero. Ma è altrettanto vero che in nessun paese la norma è risultata dissuasiva. Nel frattempo in Italia, sul terreno, dirigenti e militanti veneti della Lega si sentono autorizzati, dal vento che tira, a bloccare la costruzione di un villaggio per nomadi Scinti, votata dal Comune di Venezia, confermando che Mario Borghezio non è un solitario e pittoresco esaltato, ma la punta gassosa dell’iceberg dell’intolleranza e dell’ottusità. Qualcosa di tutto ciò dev’essere arrivato all’orecchio di Berlusconi, se ieri ha deciso di affondare il rigore esibito dai suoi portavoce: per lui, fatte salve future smentite, l’immigrazione illegale può essere al massimo un’aggravante, ma non un reato. Essendo il capo del governo, si presume che la benvenuta virata di bordo avrà qualche conseguenza concreta sulla discussione in Parlamento. La turbolenza, chiamiamola così, non investe solo l’Italia. Sul piano della sicurezza in Gran Bretagna Gordon Brown, mentre tocca il fondo degli indici di popolarità, pensa di riguadagnare qualche punto proponendo, la settimana prossima in Parlamento, di allungare la detenzione provvisoria per i «sospetti» di terrorismo. È già di 28 giorni, la vorrebbe di 42 giorni, record mondiale. In Francia, per intendersi, è di sei giorni. Mai, inoltre, un magistrato ha sentito la necessità di superare i 28 giorni per incolpare l’arrestato. Il Labour è in rivolta e minaccia di votargli contro. Ma Gordon Brown ha semplicemente un problema di consenso d’opinione, che rincorre con i mezzucci di bordo facendo la voce grossa. Inutile dire che ai conservatori riesce meglio. In Francia Sarkozy continua a fissare quote di espulsione, che ministri e prefetti sono tenuti a rispettare: 30mila per l’anno in corso. Ogni tanto qualche «irregolare» cade da un cornicione, tentando di sfuggire ai gendarmi. Ogni tanto i gendarmi compiono irruzioni maldestre, anche nelle scuole elementari. Ma accade anche che i «clandestini» lavorino e ad un certo punto escano allo scoperto: per cortesia, mi chiamo Yousouf, sgobbo qui da dieci anni, mettetemi in regola. È successo in diversi ristoranti parigini, sotto l’occhio delle telecamere convocate in cucina, e quasi tutti sono stati messi in regola. Le cose, nei fatti, vanno come possono, con buona pace del «reato» di clandestinità. Forse consapevole dell’insufficienza decretizia di un apparato normativo anti-immigrati, è da tempo che Sarkozy ha annunciato la volontà di stringere con i partner un «patto per l’immigrazione» europeo, che dovrebbe essere il fiore all’occhiello della presidenza francese dell’Ue che comincerà tra quattro settimane. Non è ancora chiaro in che cosa dovrebbe consistere, a parte il conclamato rifiuto di sanatorie di massa, ma perlomeno colloca il problema nella sua giusta dimensione, che non è nazionale ma europea, anzi euro-africana. Sembra banale, ma evidentemente non lo era per il governo italiano, convinto che una «linea dura» fatta in casa come la pasta fresca, e nutrita da muscolari dichiarazioni televisive, si dimostrerà pagante. Di cosa l’Italia proponga ai partner europei, invece, non è ancora dato di sapere. Almeno fino a ieri però Sarkozy era contento di Berlusconi. Sapete cosa si diceva ufficiosamente all’Eliseo? «Con la posizione dura di Berlusconi, quella della Francia appare moderata». Forse è qui, nel sano timore di apparire ancora una volta i più mascelluti e stupidamente teatrali della compagnia europea, che trova spiegazione l’abbondante dose di acqua che ieri Berlusconi ha voluto mettere nel suo vino. È la miglior risposta a tutti quelli che dicono che di Europa non c’è bisogno, e che invocano una sovranità del piffero.

Pubblicato il: 04.06.08
Modificato il: 04.06.08 alle ore 12.59   
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Titolo: Le «bussatine» dei clan denunciate dai Coppola
Inserito da: Admin - Giugno 06, 2008, 01:59:10 pm
I casalesi volevano gli appalti per il litorale domitio

Le «bussatine» dei clan denunciate dai Coppola

Il padre della vice di Confindustria contro la camorra


ROMA — La «bussatina» arrivò la sera del 15 ottobre 2003 con un signore chiamato Scoppietta, pensionato di 73 anni che si presentò alla clinica del dottor Vincenzo Schiavone a Castelvolturno, in compagnia di un'altra persona, ben più giovane e prestante. La quale disse al medico, socio in affari del costruttore Cristoforo Coppola: «Parlo a nome e per conto di Cicciotto 'e mezzanotte, solo per farvi... una bussatina per quanto riguarda questi lavori di questo ospedale che si deve fare... Parlando con Coppola... così... fa capire che il 50 per cento è vostro e il 50 è suo... Non si riesce a capire come questi lavori vengono gestiti, allora noi eravamo venuti qua perché vi volevamo raccomandare una grossa impresa fuori».

Discorso intercettato dalla polizia e fin troppo chiaro, visto che Cicciotto 'e mezzanotte altri non è che Francesco Bidognetti, il capoclan dei Casalesi che in quella zona fanno valere la legge della camorra. Allora come oggi. E gli omicidi e le sparatorie delle scorse settimane ai danni di testimoni e familiari di pentiti si possono forse spiegare rileggendo le più recenti indagini della Procura antimafia di Napoli. Come quella che due mesi fa ha prodotto 52 ordini di arresto di uomini affiliati al clan; 16 evitarono le manette, e tra questi i quattro o cinque latitanti sospettati per gli ultimi delitti. Nelle carte di quell'inchiesta c'è pure la storia della tentata estorsione ai danni del consorzio «Rinascita» che Schiavone — già pressato da Scoppietta per altre vicende riguardanti le sue cliniche — ha costituito con Cristoforo Coppola, «per la realizzazione di un piano di risanamento, riqualificazione ambientale e rilancio socio-economico del Litorale D omitio». Lavori da centinaia di milioni di euro che i Casalesi non potevano lasciarsi sfuggire. Dopo la «bussatina» ci fu una sorta di «pausa di riflessione», ma il rappresentante dei Casalesi tornò alla carica in primavera. Fu piuttosto esplicito, accennando alle collusioni dei camorristi negli enti locali: «Coppola Cristoforo dicono che tiene un sacco di cose da fare... Questi tengono i Comuni a disposizione, che gli dicono tutti i peli...».

I Casalesi volevano un contatto diretto Coppola che (avvisato da Schiavone) rifiutò. L'«ambasciatore » Scoppietta, secondo la definizione del giudice che ne ordinò l'arresto, prese atto: «Va bene... ci vediamo...». Nel giro di due settimane ci fu un'irruzione nei cantieri del Centro direzionale a Caserta della «Mirabella spa» di Coppola, un'esplosione vicino al cancello d'ingresso della villa del costruttore e un'incursione notturna negli uffici della «Mirabella » e del consorzio «Rinascita ».

Qualche mese più tardi Cristoforo Coppola — padre di Cristiana, attuale vicepresidente della Confindustria con delega per il Mezzogiorno — spiegò al magistrato: «Il dottor Schiavone mi ha comunicato di essere stato avvicinato da vari personaggi legati alla criminalità camorristica locale, che volevano mettere le mani sui lavori che intendevamo svolgere nell'ambito dell'attività del consorzio. In particolare ricordo di un certo "Scoppietta"... Questi criminali intendevano ottenere i subappalti delle opere di risanamento del Litorale Domitio... Voglio farle comprendere che si tratta di opere che la "Mirabella", e quindi il consorzio, fa a proprie spese... Devo dirle che, se ci aiuteranno le autorità, il progetto è destinato ad avere successo in quanto è possibile trasformare quella zona degradata in una dove potrà arrivare turismo di qualità... La mia famiglia ha compreso che, perché ciò avvenga, non bisogna venire a patti in nessun modo con la camorra che, invece, degrada e impoverisce il territorio. Al fine di rispettare questo impegno abbiamo anche sospeso i lavori dalla fine di settembre agli inizi di dicembre 2003, in attesa che venisse stipulato il contratto di legalità con la Regione».

Un mese più tardi fu convocato Schiavone che esordì: «Mi viene chiesto se ho ricevuto richieste estorsive nella mia qualità di imprenditore operante in zona Domitia. Rispondo che non ho mai pagato tangenti a chicchessia ». Il magistrato gli svelò l'esito delle indagini svolte fino a quel momento, e Schiavone dettò a verbale: «Mi si rappresenta che è emerso il nome di tale "Scoppietta" e vengo invitato a dire tutta la verità in proposito. Mi vengono rappresentati i doveri di lealtà che incombono su chi rende dichiarazioni all'autorità giudiziaria. Rispondo che, effettivamente, a partire dal settembre 2003 attività estorsive vi sono state, ma io sono riuscito ad oppormi. Non ho mai pagato e non ho mai ceduto alle richieste. Tuttavia, a questo punto, vi dirò come stanno le cose». Anche dal successivo racconto di Schiavone, che oggi vive sotto scorta, sono scaturiti gli ordini d'arresto di aprile. Si può intuire che i killer dei Casalesi non l'abbiano gradito e abbiano deciso di sparare per tentare di tamponarne altri.


Giovanni Bianconi
06 giugno 2008

da corriere.it


Titolo: Precari da favola
Inserito da: Admin - Giugno 06, 2008, 10:42:06 pm
6/6/2008
 
Precari da favola
 
 
Questa è la storia più avvincente del mondo. Dieci ricercatori italiani hanno realizzato un telescopio rivoluzionario che la Nasa manderà in orbita mercoledì prossimo da Cape Canaveral. A Houston lo chiamano Tiger Team, Squadra della Tigre: ragazze e ragazzi intorno ai 30 anni, laureati a Pisa in Fisica nucleare. Giovani, ottimisti, consapevoli di aver scelto un mestiere stupendo e di esportare la faccia sorridente dell’Italia. Il loro stipendio? 950 euro al mese.

Questa è la storia più avvilente del mondo. Un mondo dove un fisico nucleare che realizza telescopi per la Nasa guadagna 950 euro al mese, mentre quel manager telefonico che parlava per frasi fatte confondendo Waterloo con Austerlitz ne prende cento volte tanto. Il problema contro cui si sta inchiodando il liberismo è che non collega il salario al talento e all’impegno del lavoratore, ma alla commerciabilità del prodotto. E’ giusto che i compensi li faccia il mercato. Ma in questo mercato senza regole prevalgono sempre le pulsioni più basse: sesso, calcio, tv, cellulari. Il fisico dei telescopi guadagna cento volte meno del manager dei telefonini o del centravanti della Nazionale perché voi e io usiamo i telefonini e guardiamo le partite della Nazionale, mentre dei telescopi non sappiamo che farcene. Il giorno in cui quegli aggeggi servissero a scovare petrolio nel sistema solare o a rintracciare terzini sperduti nelle galassie, immediatamente il loro valore di mercato si impennerebbe, trascinando al rialzo anche lo stipendio del Tiger Team.

Torno a leggere le notizie di calciomercato sul telefonino, ma mi sento un verme.

 
da lastampa.it


Titolo: Per capire... non solo la politica, dobbiamo partecipare attivamente.
Inserito da: Admin - Giugno 07, 2008, 10:31:06 am
LETTERA D'INTENTI.


Siamo i partecipanti del gruppo di studio formatosi in forumista.net, forum politico nell'area del pd.

Alcuni di noi partecipano attivamente al dibattito politico da molti anni, altri vi sono approdati (o riapprodati) attratti dall’intento,  dichiarato dal partito democratico, di apertura alle molte anime del centro sinistra.

Le discussioni e i confronti , anche serrati , che abbiamo sviluppato in questi ultimi mesi e l'andamento delle ultime elezioni,  hanno prodotto in noi queste minime ma solide convinzioni.

C'è l'esigenza di ricercare un percorso e una direzione comuni che, ispirandosi all'esperienza dell'Ulivo, permettano a persone con matrici culturali e politiche diverse, ma tutte ugualmente legittime, di divenire interlocutori della più ampia rete di confronto e condivisione possibili.

Abbiamo compreso che il possibile ostacolo al ritrovarci in questo percorso comune, non sono le diverse identità o matrici politiche, ma il supporre che sia indispensabile e irrinunciabile una fusione tra esse  affinché tale iniziativa divenga portatrice di analisi, documenti e iniziative.

Abbiamo compreso che solo mantenendo le diverse identità politiche (e la memoria storica sottesa ad ognuna di esse) si potrà convergere su  sviluppi concreti e autentici, sviluppi che radunino tutte le persone che hanno ancora voglia di lottare per un mondo migliore.

Sì, parliamo di mondo migliore. Sappiamo che il "mondo migliore" non parte sempre e comunque dai massimi sistemi, spesso invece si sviluppa nelle conquiste sul territorio, dai piccoli gruppi o addirittura dalle singole volontà che riescono a incidere positivamente sulla qualità di vita propria e degli altri, dalla pratica politica delle relazioni di solidarietà e di condivisione delle risorse.

Ma non ripudiamo la capacità e la forza di immaginare che il mondo e le sue regole potrebbero davvero essere diversi in un contesto più generale.

Per questi motivi non innalzeremo bandiere personali nel corso di tale iniziativa, che speriamo abbia vita lunga e proficua, ma ognuno di noi riverserà in essa quanto ha appreso dal suo vissuto politico personale e collettivo.

Vogliamo divenire un soggetto capace di interloquire con il pd e con i circoli del partito, con le forze presenti sul territorio, associazioni, volontariato, gruppi, persone ed esperienze che vorranno vedere in noi un piccolo ma deciso contributo a un mondo migliore.

Soprattutto vogliamo realizzare proposte coraggiose e modalità di lavoro in cui la partecipazione libera e operosa venga riconosciuta.
Non riusciamo infatti più a credere in una adesione passiva alla politica, ma riteniamo più utile per la comunità poterci confrontare, elaborare prospettive e giungere così a definire nuovi percorsi.

C'è bisogno di spalancare le porte perché idee dirompenti dal punto di vista della partecipazione portino a prassi politiche derivate dalla conoscenza che ognuno di noi ha delle cose e della vita.

Non escluderemo quindi nessuna tematica del vivere che possa essere inquadrata politicamente in questo tentativo.

Il momento è troppo importante per trascurare uno qualsiasi degli aspetti della nostra vita quotidiana: è in atto un'emergenza che non è sintetizzabile banalmente in poche parole d'ordine. E' in atto una drastica svolta che, giustificandosi e avvalorandosi attraverso i numerosi disagi palpabili  nel paese, tende a mettere a repentaglio la stessa democrazia. 

Dalla gente, dalla strada, emergono continue istanze che non possono e non devono essere interpretate attraverso una lente deformante, ma alla luce (cancellato…) della nostra migliore eredità.

I nostri padri e le nostre madri lottarono e misero in gioco la loro vita per acquisire diritti civili e sociali basilari. Ed i diritti acquisiti sono testimonianza di civiltà.

A questo punto la lotta non deve fermarsi, ma rivolgersi verso più elevati diritti, come testimoniato dalla  rogatoria sulla pena di morte e dalla messa al bando delle cluster bombs.

Mentre oggi ci ritroviamo nella inquietante condizione di vedere in pericolo ciò che avevamo acquisito, e di dover ricominciare a batterci per la sua difesa. E, secondo noi,  non sarà possibile giustificarsi in seguito, dicendo che non ce ne eravamo accorti.

Così pure i temi della libertà nelle grandi scelte di vita di donne e uomini, della ricerca scientifica, della illegittimità dello sfruttamento degli uni sugli altri, dell'elaborazione culturale e dell'informazione devono essere al centro di questa società, per renderla moderna, dinamica e centrata sulla dignità di ognuno.


E' per meriti, non godendo di  privilegi, che vorremmo essere riconosciuti, senza che restino frapposti muri invalicabili ad impedirci una vita degna di essere vissuta in sé ed in quanto partecipe alla politica.


Il Gruppo di Lavoro de www.forumista.net


Titolo: GIAN ENRICO RUSCONI Dov'è la vera laicità
Inserito da: Admin - Giugno 07, 2008, 10:56:29 am
7/6/2008
 
Dov'è la vera laicità
 
 
 
GIAN ENRICO RUSCONI
 
Non poteva Berlusconi risparmiarsi la frase che suona infelice in bocca ad uno statista: «Il mio governo non può che compiacere il pontefice e la Chiesa»? No. Non poteva.

È il suo modo di essere schietto e popolare presso i suoi elettori. In questo caso non vuole lasciare dubbi sul fatto che il governo si atterrà zelantemente alle indicazioni della Chiesa in tutte le questioni sul tappeto, anche su quelle che dividono profondamente i cittadini italiani.

Ma evidentemente per Berlusconi i cittadini che dissentono (con rispetto) dalle indicazioni della Chiesa su alcuni importanti problemi, non contano. Non sono rappresentati dal suo governo. Il suo è un governo che «sta dalla parte della Chiesa», non laicamente dalla parte della intera comunità dei cittadini. Come se i valori della giustizia, della tolleranza, dell’attenzione per i più deboli fossero prerogativa dei credenti. Come se i discorsi sui diritti umani o sul rispetto della vita fossero monopolio esclusivo degli uomini di Chiesa.

È questa la scelta della «vera laicità», predicata da tempo dai clericali e fatta propria dal centrodestra?

In effetti nelle parole del presidente del Consiglio la separazione tra Chiesa e Stato è evocata in modo paradossale, quando dice «lo Stato laico ha tutto il diritto di seguire la propria impostazione nell’azione di governo». La scelta appunto di stare con una parte dei cittadini, di quelli che l’hanno votato.

Tutto questo non ha nulla a che vedere con la soddisfazione condivisa da tutti circa il «nuovo clima che si è instaurato in Italia», purché si riconosca che non è merito esclusivo della coalizione di centro-destra.

Ma lasciamo da parte le dichiarazioni di principio e chiediamoci se ci saranno delle conseguenze pratiche della visita di Berlusconi in Vaticano. Dalla riservatezza delle dichiarazioni ufficiali, emesse dopo la visita, non è dato capire se ci saranno iniziative particolari. Forse lo può dire soltanto chi sa leggere tra le righe del documento e sa interpretare i sussurri dei sacri palazzi.

Verosimilmente gli uomini di Chiesa non hanno alcun interesse a turbare l’idillio con il governo sollevando con clamore, frontalmente, le due questioni che più stanno loro a cuore: il finanziamento della (loro) scuola privata e la modifica della legge 194. Sui punti caldi della passata legislatura - coppie di fatto, normative sulla fecondazione assistita o sulle malattie terminali - possono stare tranquilli: non se ne farà nulla. Circa le perplessità sulla questione del finanziamento delle strutture ecclesiastiche tramite l’otto per mille continuerà l’efficace congiura del silenzio stampa e mediatico.

Per il resto adotteranno una strategia di pressione indiretta. Magari attraverso l’uso spregiudicato delle regioni (si veda l’atteggiamento anticipatore del governatore della Lombardia, Formigoni). E soprattutto terranno sotto tiro le velleità laiche del Partito democratico.

Il partito veltroniano rimane sostanzialmente sprovveduto e impreparato ad affrontare la nuova situazione. Si lascia ricattare dalle ridicole accuse di «laicismo». Si lascia intimidire dalla proclamazione della «non negoziabilità dei valori». Non osa spostare i termini della laicità dai problemi del credere/non credere alla questione centrale della democrazia che riguarda la piena legittimità di tutte le visioni morali della vita, razionalmente e pubblicamente argomentabili.

Si tratta ovviamente di problemi impegnativi e difficili, che sono affrontabili soltanto con un soprassalto culturale e politico che in questo momento non si vede da nessuna parte. Tanto meno in una cultura di centro-destra che nasconde la sua povertà e le sue contraddizioni dietro lo zelo verso la dottrina della Chiesa. È il tempo del «compiacere» berlusconiano.

da lastampa.it


Titolo: Ossequio e ingiustizia: la verità finisce sotto «fuoco amico»
Inserito da: Admin - Giugno 21, 2008, 04:44:42 pm
Ossequio e ingiustizia: la verità finisce sotto «fuoco amico»

Vincenzo Vasile


Niente processo in Italia per il soldato Usa Mario Lozano. Se è così, (i giudici) ne risponderanno alla loro coscienza. Così aveva detto Rosa Calipari, rivolgendosi ieri mattina al Procuratore generale della Cassazione, che aveva appena illustrato nell’aula della Corte la nuova, impasticciata posizione della giustizia italiana sull’assassinio di suo marito, Nicola, cui il collegio giudicante, alla fine, ieri sera si è associato. Secondo il rappresentante della Procura generale della Suprema Corte il “marine” statunitense, quando uccise il funzionario del Sismi, infatti, era coperto da «immunità funzionale», perché agiva eseguendo gli ordini del suo governo.

Tradotto in italiano corrente, ciò significa una pietra tombale. E significa che se lo Stato di appartenenza di un qualunque imputato gli rilascia una licenza di uccidere, o di delinquere in mille altri modi - corrompere, stuprare, rubare - non c'è verso di giudicarlo qui, in Italia. Dove siamo molto rispettosi, moltissimo ossequiosi di competenze e immunità altolocate. Soprattutto nei confronti del nostro principale alleato.

Tanto deferenti da non perseguire un crimine di guerra? Così era stato qualificato, anzi come un «delitto politico che lede le istituzioni dello Stato italiano», dalla Procura di Roma l'assassinio del nostro agente, solo due anni fa. Quando - ancora, e nonostante una campagna di stampa insistente quanto trasversale tesa ad attribuire a pretese «imprudenze» della vittima l'origine del delitto, ovvero dell'«incidente» - l'Italia, le sue istituzioni, la sua gente, si stringevano attorno alla bara del nostro «eroe» caduto nel compimento della più classica «missione di pace». Cioè il salvataggio di un ostaggio - la giornalista del Manifesto, Giuliana Sgrena - caduta in preda di una banda di sequestratori. E su incarico del governo (in quel caso si trattava di un governo presieduto da Berlusconi, e la cura del caso era affidata a Gianni Letta) aveva trattato per il riscatto, s'era districato nel dedalo di ipocrisie e avventurismi della folle spedizione militare voluta e pilotata dagli Stati uniti, aveva liberato la prigioniera, e la stava portando a casa. Le fece scudo con il suo corpo quando all'improvviso a un posto di blocco - il fantomatico check point 541 - non segnalato, e chissà se allestito proprio per quell'agguato, erano piovuti sull'auto i colpi del «fuoco amico» di una pattuglia statunitense.

È passato il tempo, anni. Abbiamo scritto fin troppe volte che la missione di Calipari era malvista e osteggiata dai comandi militari Usa, e dall'intelligence alleata (oltre che da una parte dei nostri stessi servizi), che volevano risolvere i sequestri a colpi di blitz; e tante volta abbiamo parlato di quella commissione d'inchiesta bilaterale Italia Usa che si concluse con il rifiuto della firma da parte dei nostri ufficiali in calce a un documento menzognero: la macchina italiana era con i fari spenti, macché erano accesi; arrivò a ridosso del drappello, macché s'è fermata dopo gli spari a 5 metri; sparò solo un caporale stressato, macché Calipari fu colpito da un tiro incrociato; e così via finché i nomi «oscurati» nella versione ufficiale, saltarono fuori, la giustizia italiana chiese l'estradizione per l'assassino dell'«eroe» Calipari, non l'ottenne. E la Terza Corte d'assise di Roma - era l'ottobre scorso - decretò il non luogo a procedere per difetto di giurisdizione: non tocca a noi giudicare gli assassini se portano una divisa amica, anche perché potrebbero difendersi svelando i retroscena della catena di comando.

La Procura romana si era opposta, aveva portato il caso davanti alla Cassazione. Così i familiari, così l'avvocato dello Stato. Che ieri, però, s'è improvvisamente dichiarato «agnostico» - ha detto proprio così - come folgorato dal nuovo cavillo della Procura generale della Cassazione, per ribaltare la precedente battaglia giudiziaria, condotta fino all'altro ieri su mandato del governo di centrosinistra. Il mandato del nuovo governo è evidentemente cambiato: «Abbiamo seguito le indicazioni di palazzo Chigi», ha detto il legale, più chiaro di così... Il difensore di Lozano, poi, ha girato il coltello nella piaga, rivelando che il suo assistito è tuttora in servizio. Adesso c'è finita la verità sotto il «fuoco amico» e incrociato della giustizia e del governo italiani. Per una volta concordi in cose attinenti alla giurisdizione. E anche - ci sembra - quest'ultima raffica ha sforacchiato qualche brandello della nostra dignità nazionale.

Pubblicato il: 20.06.08
Modificato il: 20.06.08 alle ore 8.38   
© l'Unità.


Titolo: F. T. Berlusconi fa bene a 'frenare' i giudici
Inserito da: Admin - Giugno 22, 2008, 04:51:01 pm
2008-06-21 13:53

Ft: Berlusconi fa bene a 'frenare' i giudici


ROMA - "L'Italia fa bene a porre un freno ai suoi giudici". E' il titolo di un editoriale pubblicato oggi dal Financial Times sulla 'guerra' scoppiata di nuovo tra Silvio Berlusconi e parte della magistratura italiana dopo le ultime affermazioni del premier e le leggi messe in cantiere dalla maggioranza sulla giustizia. Nel commento dell'Ft, firmato da Cristopher Caldeweill, si prende in esame il lodo Schifani (che garantirebbe l'immunità per le cinque più alte cariche dello Stato) e si sottolinea come Spagna, Francia, Germania e la stessa Unione europea abbiano già "una qualche forma di immunità" in questo senso.
Così come l'Italia aveva l'immunità parlamentare prima che fosse spazzata via dal ciclone di Tangentopoli: un periodo, scrive il quotidiano britannico, che ha aperto un quindicennio dove in Italia "i giudici hanno raggiunto un livello di potere unico in Occidente", esercitando una sorta di "reggenza giudiziaria" sugli eletti dal popolo. Un potere che, secondo l'Ft, è "a lungo andare, dannoso per la democrazia" e che costituisce tra l'altro "uno dei motivi per i quali gli italiani non hanno più fiducia nella magistratura".

Insomma, a volte si può "abusare" delle leggi sull'immunità, ma "lo scopo dell'immunità non è dare 'mano libera' agli eletti, bensì proteggere il diritto degli elettori di essere governati dalle persone che scelgono democraticamente". E poi, si chiede il quotidiano, "le accuse contro Berlusconi nascono da una disinteressata richiesta di giustizia, oppure dal desiderio di una certa parte dell'elite italiana di rovesciare una scelta popolare che non gli piace?". In questo senso, "l'immunità potrebbe essere il modo migliore per proteggere gli elementi democratici di un governo democraticamente eletto, specialmente in un Paese dove la magistratura è altamente politicizzata" come l'Italia. Con l'effetto di rendere i politici "meno litigiosi e più democratici".

Ed anche per quanto riguarda l'emendamento 'blocca-processi', ribattezzato dall'opposizione 'salva-premier', il Financial Times osserva che potrebbe essere un modo per velocizzare i tempi lunghissimi della giustizia italiana, così "dilatori" che "contrastano con l'articolo sei della Convenzione europea sui diritti umani".

Insomma, "le acrobazie giudiziarie di Berlusconi sono invariabilmente a suo vantaggio, ma nello stesso tempo non sono solo a suo vantaggio", perché riescono a cogliere "problemi veri", "gravi abbastanza" da intercettare il consenso degli elettori.

E qui, conclude l'Ft, sta "il genio politico" del Cavaliere. 

da ansa.it


Titolo: Ustica, riaperte le indagini dopo le parole di Cossiga
Inserito da: Admin - Giugno 23, 2008, 10:42:43 am
Ustica, riaperte le indagini dopo le parole di Cossiga


Le dichiarazioni ai magistrati della procura della Repubblica di Roma di un testimone eccellente come il presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga potrebbero dopo 28 anni ridare slancio alla ricerca della verità sulla strage di Ustica. La procura di Roma ha, infatti, riaperto l'inchiesta sull'abbattimento del Dc 9 dell'Itavia in cui morirono 81 persone, dopo aver convocato e sentito come testimoni due dei protagonisti del tempo: il presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga e Giuliano Amato, ai tempi sottosegretario alla presidenza del Consiglio.

L'iniziativa dei pm Maria Monteleone e Erminio Amelio fa seguito alle dichiarazioni dell'ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga secondo il quale ad abbattere il DC 9 dell'Itavia il 27 giugno del 1980 sarebbe stato un missile «a risonanza e non ad impatto» lanciato da un aereo della Marina militare francese. L´apertura della nuova indagine, dopo l'archiviazione disposta del giudice istruttore Rosario Priore, verificherà anche attraverso una rogatoria con la Francia, fatta anche per identificare i responsabili militari transalpini, le dichiarazioni di Cossiga. Quest'ultimo nel febbraio dello scorso anno spiegò a vari emittenti, radiofoniche e televisive che «furono i nostri servizi segreti che, quando io ero Presidente della Repubblica, informarono l'allora Sottosegretario Giuliano Amato e me che erano stati i francesi, con un aereo della Marina, a lanciare un missile non ad impatto, ma a risonanza. Se fosse stato ad impatto non ci sarebbe nulla dell'aereo».

Cossiga spiegò ai media che «i francesi sapevano che sarebbe passato l'aereo di Gheddafi. La verità è che Gheddafi si salvò perché il Sismi, il generale Santovito, appresa l'informazione, lo informò quando lui era appena decollato e decise di tornare indietro. I francesi questo lo sapevano e videro un aereo dall'altra parte di quello italiano e si nascose dietro per non farsi prendere dal radar».

Nel gennaio dello scorso anno la prima sezione penale della Cassazione chiuse definitivamente una vicenda giudiziaria parallela a quella della strage, ovvero il processo ai generali dell'aeronautica sui cosiddetti depistaggi. La suprema corte dichiarò inammissibile il ricorso avanzato del Procuratore generale della Corte d'Appello di Roma che aveva chiesto una riformulazione della sentenza d'assoluzione, che avrebbe lasciato uno spiraglio per il risarcimento. I generali dell'Aeronautica Lamberto Bartolucci e Franco Ferri, accusati di aver omesso al governo informazioni sul disastro avvenuto 26 anni fa, furono assolti, in maniera definitiva «perchè il fatto non sussiste».

Pubblicato il: 22.06.08
Modificato il: 22.06.08 alle ore 19.16   
© l'Unità.


Titolo: Dopo l'offensiva del Cavaliere sui magistrati, il Pd incalzato da Di Pietro
Inserito da: Admin - Giugno 23, 2008, 04:36:45 pm
LA NOTA

A rischio la sfida di stabilizzare il sistema Paese

Dopo l'offensiva del Cavaliere sui magistrati, il Pd incalzato da Di Pietro


Il contrasto non è più solo fra Silvio Berlusconi e il Pd. Lo scontro che sta lievitando riguarda i rapporti fra presidente del Consiglio e magistratura; e, sullo sfondo, può arrivare a lambire quelli fra il premier ed il capo dello Stato, Giorgio Napolitano. Forse, c'è qualcuno che spera in un fossato tra palazzo Chigi e Quirinale. Le modifiche alle misure sulla sicurezza, che bloccherebbero anche un processo a Berlusconi, stanno sbriciolando la tregua parlamentare; e producendo potenziali conflitti istituzionali. Ma dietro il colloquio di ieri pomeriggio fra Napolitano, il Cavaliere, il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, ed il sottosegretario Gianni Letta, si indovina il tentativo di circoscrivere i contrasti.

Ufficialmente, al Quirinale si è discusso per due ore di manovra economica. Il fronte aperto con la magistratura, tuttavia, si è imposto nell'agenda del colloquio. L'ipotesi che il presidente del Consiglio faccia marcia indietro ieri appariva poco verosimile. Di fronte ad una misura definita dagli avversari «salvapremier», vengono esaltate le posizioni più estreme su entrambi i fronti. L'annuncio di una conferenza stampa dell'Anm per oggi suona come ultimatum a palazzo Chigi, dopo la sua ricusazione del presidente del tribunale di Milano che dovrà processarlo, Nicoletta Gandus.

Ed il Csm si prepara a tutelare i giudici del processo Mills, contestati da Berlusconi. Il contraccolpo politico immediato è, come si prevedeva, la fine della stagione del confronto col partito di Walter Veltroni, prima vittima dello scarto del Cavaliere. «Berlusconi ha strappato la tela del dialogo possibile», certifica il segretario del Pd: conclusione inevitabile, figlia dell'offensiva del premier e dell'ostilità serpeggiante nel centrosinistra alle aperture di credito a palazzo Chigi. Anche se c'è da chiedersi come sarà possibile, nel futuro prossimo, distinguersi da un alleato come Antonio Di Pietro, che addita la «scelta criminale » del premier; ed accoglie con sarcasmo il Pd «nel club degli occhi aperti», pretendendo un antiberlusconismo pregiudiziale mai sufficiente, ai suoi occhi.

Ma l'offensiva del presidente del Consiglio sfida anche le capacità di mediazione del Quirinale. La «tela strappata» a cui allude Veltroni è anche quella sulla quale il capo dello Stato spera di stabilizzare il Paese. Per Napolitano, il ritorno al muro contro muro significa l'ennesima guerra fra potere politico e giudiziario; ed un Parlamento lacerato ad appena due mesi dalle ultime elezioni. Il panorama di macerie evoca un ritorno al passato dal quale il sistema sperava di essersi emancipato: sebbene forse sia un déjà vu apparente, perché Berlusconi oggi si sente rafforzato dal voto politico.

Agli alleati ha detto di sentire che gli italiani sono con lui. Ed ha liquidato un po' troppo sbrigativamente le reazioni dell'opposizione come una conseguenza della leadership contrastata di Veltroni. Insomma, gli indizi fanno pensare che voglia sottoporre lo scontro con le procure al giudizio dell'opinione pubblica; e che sia convinto di vincerlo. D'altronde, ritiene di avere alle spalle una coalizione compatta: basta registrare il modo precipitoso col quale il leghista Roberto Castelli ha negato di aver definito «incostituzionale» l'emendamento «salvapremier». Rimane da capire se sia stato messo nel conto un rinvio della legge alle Camere da parte del Quirinale: anche se probabilmente nessuno vuole rischia

Massimo Franco

da corriere.it


Titolo: BRUNO TINTI Ma certi processi si possono sospendere
Inserito da: Admin - Giugno 24, 2008, 04:21:35 pm
24/6/2008
 
Ma certi processi si possono sospendere
 
 
 
 
 
BRUNO TINTI
 
Il problema è che siamo abituati a dare un giudizio negativo sulle leggi di questa maggioranza; e così si finisce col disapprovare quasi aprioristicamente anche quanto di (quasi) buono essa fa. Mi riferisco al noto emendamento «salva premier» in base al quale i processi per reati puniti con pene fino a 10 anni e commessi entro il 30/6/92 vanno sospesi; tra questi, quello per corruzione in atti giudiziari pendente a Milano contro lo stesso Berlusconi.

Il pregiudizio non è proprio gratuito: leggi ad personam per evitare a Berlusconi condanne penali, più o meno certe in base alla legislazione vigente al momento in cui il processo veniva celebrato, sono state fatte, tante e con successo; e questa pare l'ultima della specie (fino ad ora). Però, forse, in questo caso va superato. La fine del processo contro Berlusconi è segnata, se non in primo grado nel secondo: salvo il caso di una assoluzione nel merito che pare improbabile, la sentenza sarà di estinzione del reato per prescrizione; e dunque Berlusconi non ha bisogno di questo emendamento per raggiungere un risultato che, sostanzialmente, ha già in tasca. Quanto alla riapertura dei termini per il patteggiamento (solo per i processi sospesi), anche in questo caso non credo possa pensarsi a una norma di favore: mi pare improbabile che Berlusconi intenda risolvere i suoi problemi giudiziari con un patteggiamento.

E, per finire, è la stessa dichiarata volontà di emanare una nuova legge che riproponga il cosiddetto lodo Schifani, già dichiarato incostituzionale dalla Corte (sono curioso di vedere cosa si inventeranno per reintrodurre un istituto che sembra fatto apposta per fare a pugni con la Costituzione italiana) che dimostra come la soluzione dei suoi guai giudiziari Berlusconi non la veda nella sospensione dei processi. È anche vero che si potrebbe pensare che il nostro agisca in previsione di guai giudiziari futuri; ma insomma mi pare evidente che l'emendamento in questione non «serva» al premier.

Così, sebbene i «precedenti» di questa maggioranza rendano arduo immaginare che il Governo agisca per rendere efficiente l'amministrazione della giustizia, si può anche immaginare che questo emendamento sia stato costruito effettivamente al fine di far uscire il sistema giudiziario penale dal buco in cui è stato cacciato. In sintesi, la filosofia pare essere questa: svuotiamo il magazzino, composto di merce vecchia e avariata e anche non tanto di pregio, e gestiamo utilmente la merce nuova e comunque quella vecchia, ma di particolare qualità. Il che ha almeno il merito di affrontare il problema giustizia in un'ottica di organizzazione concreta.

Mettiamo che sia così; solo che la tecnica scelta è del tutto inidonea allo scopo. Fra un anno i processi sospesi dovranno ricominciare; la sospensione non avrà comportato il decorso della prescrizione (che potrebbe avere il merito di «uccidere» processi già cadaveri) perché, come è noto, viene interrotta; inoltre avrà richiesto un costo organizzativo micidiale (notifiche, contronotifiche, disfacimento dei ruoli di udienza ecc. ); la ripresa richiederà un ulteriore terribile sforzo organizzativo; e, tutto sommato, non è che nell'anno di respiro che in questo modo si sarà guadagnato si sarà fatto granché di processi gravi e importanti. Sicché, come diceva Bartali, «è tutto da rifare».

Un modo razionale per affrontare il problema potrebbe essere questo: 1. ammettere una buona volta che la celebrazione di processi destinati alla prescrizione prima che il sistema giudiziario riesca a produrre una sentenza definitiva è inutile spreco di risorse.

2. prendere atto del fatto che il processo penale dura mediamente tra 6 e 8 anni, così suddivisi: da 1 a 2 anni per le indagini preliminari; 1 anno (ma spesso 2) prima che cominci il processo di primo grado; circa 2 anni (ma spesso 3) dal momento in cui viene emessa la sentenza del Tribunale fino alla prima udienza del processo in Appello; circa 1 anno 6 mesi fino alla sentenza di Corte di Cassazione.

3. prendere atto del fatto che non sempre la data di commissione del reato coincide con la data in cui cominciano le indagini e che spesso (sempre, nel caso dei reati tipici della classe dirigente: corruzione, frode fiscale, falso in bilancio, aggiotaggio, insider trading e compagnia cantando) questo è stato commesso 2, 3 o anche 4 anni prima che si comincino le indagini.

4. calcolare quindi, per ogni processo - operando si capisce una media -, quanti anni si hanno davanti prima che intervenga la prescrizione. 5. sospendere il processo ogni volta che gli anni necessari per arrivare alla sentenza definitiva siano più di quelli che mancano alla prescrizione.

In questo modo si potrebbe, ad esempio, non sperperare tempo e risorse in una indagine avviata oggi (giugno 2008) su un reato di falso in bilancio (o di frode fiscale, o di corruzione o qualsiasi altro che si prescriva in 7 anni e mezzo, dunque quasi tutti) risalente al 2005 e che si prescriverà nel 2013; perché, evidentemente, 5 anni non bastano per arrivare alla sentenza di Cassazione che, se tutto va bene, arriverà nel 2015. Tenendo conto che molti processi pendenti oggi in primo grado riguardano fatti che risalgono al 2004-2005 e che si prescriveranno certamente prima della sentenza definitiva, diventa ovvio che insistere nella loro celebrazione è del tutto inutile.

Allora la norma potrebbe essere scritta in questo modo: debbono essere sospesi a. tutti i processi che si trovano nella fase delle indagini preliminari e per i quali la prescrizione maturerà entro 4 anni. b. tutti i processi che si trovano nella fase del processo avanti al Tribunale e per i quali la prescrizione maturerà entro 3 anni. c. tutti i processi che si trovano nella fase del processo in Corte d'Appello e per i quali la prescrizione maturerà entro 1 anno e 6 mesi. Il vantaggio di una norma di questo tipo consiste nel fatto che essa è destinata a operare da qui in avanti e per tutti i processi; e quindi non ci sarà quel ritorno drammatico dei processi sospesi che ammazzerà definitivamente il sistema giudiziario penale; semplicemente un ufficio apposito emanerà provvedimenti di routine con cui si dichiara la prescrizione.

Insomma, si tratterebbe di una semplice applicazione di criteri di priorità, sistema che, con il processo penale che ci ritroviamo, è l'unico in grado di dare razionalità alla gestione dei processi. E ciò, con buona pace dell'Avvocatura che ha sempre sostenuto che i criteri di priorità violano il principio di obbligatorietà dell'azione penale. Un criterio di priorità fondato sulla imminenza della prescrizione non comporta una scelta insindacabile del Procuratore della Repubblica, assunta senza controllo né responsabilità (argomento abituale dell'Avvocatura); ma significa destinare le risorse del sistema giudiziario a quei processi che possono utilmente essere celebrati, rinunciando a semplici riti formali privi di significato, come appunto avviene quando si celebra un processo destinato alla prescrizione. A meno che, dietro queste critiche, non si nasconda la preoccupazione di vedere che, per una sostanziosa fetta di processi, non sarà possibile emettere adeguate parcelle... Insomma, per una volta, non mi pare che la produzione legislativa della maggioranza sia insensata; forse bisognerebbe solo aggiustarla un po'.

Procuratore aggiunto della Repubblica di Torino


da lastampa.it


Titolo: 'Famiglia Cristiana': ''Berlusconi ossessionato dai magistrati''
Inserito da: Admin - Giugno 24, 2008, 04:24:50 pm
Questa idea fissa ha ''il sopravvento sui problemi del Paese"

'Famiglia Cristiana': ''Berlusconi ossessionato dai magistrati''

In un'editoriale del settimanale: ''Il pacchetto sicurezza brucia il capitale di fiducia degli italiani assieme all'immagine di grande statista''.

Sul Guardasigilli: ''Un ex segretario personale messo a fare il ministro della Giustizia''.

Rotondi: ''Ingenerosi con Alfano''



Roma, 23 giu. (Adnkronos)

- "Il Cavaliere ha un'ossessione: i magistrati.

E una passione: gli avvocati. Naturalmente, i primi sono contro di lui, gli altri li fa eleggere in Parlamento. E uno, ex segretario personale, lo mette ministro della Giustizia".

Si legge in un'editoriale del settimanale 'Famiglia Cristiana' dedicato a Silvio Berlusconi (nella foto).

"Il 'pacchetto sicurezza' è inquinato dal 'complesso dell'imputato' (definizione di Bossi), e brucia il capitale di fiducia degli italiani (che l'hanno votato a larga maggioranza), assieme all'immagine di grande statista. Ma - si conclude nell'editoriale - allontana anche il Colle più alto della politica.

L'ossessione personale ha il sopravvento sui problemi del Paese".

A commentare l'editoriale è il ministro per l'Attuazione del programma Gianfranco Rotondi. ''Famiglia Cristiana è ingenerosa verso il ministro Alfano, giovane cattolico di Agrigento prima che collaboratore di Berlusconi - sottolinea - .

La parola 'segretario personale' usata nei confronti del Guardasigilli come dispregiativo è prosa arrogante e priva di misericordia cristiana''.


Titolo: Il decreto sicurezza approda al Senato
Inserito da: Admin - Giugno 24, 2008, 04:29:26 pm
Vigilia di polemiche e contestazioni sul tema Giustizia

Il decreto sicurezza approda al Senato

Famiglia Cristiana scrive: «Il Cavaliere ha un'ossessione: i magistrati. E una passione: gli avvocati»

 
ROMA - Non si abbassano i toni del dibattito tra maggioranza e opposizione sul tema della giustizia alla vigilia della seduta del Senato, che martedì ha all'ordine del giorno dichiarazioni di voto e voto finale sul decreto sulle misure urgenti in materia di sicurezza.

IN 500 CONTRO BERLUSCONI - Davanti al palazzo di giustizia di Milano, nonostante il grande caldo, circa 500 persone hanno risposto all’appello del «comitato milanese per la legalità» al fine di contrastare l’approvazione della norma che sospende i processi e tra questi il dibattimento in cui Silvio Berlusconi e David Mills sono accusati di corruzione in atti giudiziari. Lo striscione è bianco e in rosso c’è scritto: «Buffone fatti processare». A reggere il mezzo lenzuolo c’è anche Piero Ricca che a Berlusconi nei corridoi del Tribunale gridò proprio quelle parole. Ricca, condannato in primo grado dal giudice di pace a versare 500 euro venne poi assolto dalla Cassazione. «L’indifferenza opera potentemente nella storia, Italia svegliati» si legge su un cartello e su un altro: «Berlusconi d’accordo con Caselli (Caterina): nessuno mi può giudicare». Sui cancelli d’ingresso invece è stato messo un piccolo pezzo di cartone e c’è scritto. «Stiamo diventando un Paese a misura d’uomo, sì però di uno solo». Sul piccolo palco si alternano al microfono Nando Dalla Chiesa, Carlo Monguzzi dei Verdi, esponenti di diversi partiti, da Rifondazione all’Italia dei Valori al Pd.

IL PUNTO - Il tutto, mentre la prima commissione del Csm ha deciso di acquisire l'istanza con cui Silvio Berlusconi ha ricusato il presidente del collegio giudicante Nicoletta Gandus, per il caso Mills, e il parere negativo riguardo la ricusazione della Procura generale di Milano. È invece slittata a martedì pomeriggio, sempre davanti al Csm ma in Sesta commissione, la discussione sul parere riguardante l'emendamento al Dl sicurezza che sospende per un anno i processi commessi prima del 30 giugno 2002 e riguardante reati puniti con meno di 10 anni di reclusione. A palazzo dei Marescialli, la decisione di far slittare la discussione sarebbe stata presa per «ragioni di opportunità» legate alle tensioni provocate dall'anticipazione sulla bozza del parere. Il rinvio comunque non dovrebbe comportare un allungamento dei tempi di redazione del parere, anche se sembra difficile che si arrivi a una conclusione entro questa settimana.

FAMIGLIA CRISTIANA - In questo clima «Famiglia cristiana» dedica un editoriale dal tono critico: «Il Cavaliere ha un'ossessione: i magistrati. E una passione: gli avvocati. Naturalmente, i primi sono contro di lui, gli altri li fa eleggere in Parlamento. E uno, ex segretario personale, lo mette ministro della Giustizia. Il «pacchetto sicurezza» è inquinato dal «complesso dell'imputato» (definizione di Bossi), e brucia il capitale di fiducia degli italiani (che l'hanno votato a larga maggioranza), assieme all'immagine di grande statista. Ma -si conclude nell'editoriale- allontana anche il Colle più alto della politica. L'ossessione personale ha il sopravvento sui problemi del Paese».

PD - Per quel che riguarda il decreto, è intervenuto il vice presidente del Pd al Senato Luigi Zanda: «Il governo e la maggioranza ci obbligano a dare un voto contrario al decreto sicurezza. In questo decreto sono state inserite misure che nulla hanno a che fare con la sicurezza dei cittadini e che, per giunta, sono incostituzionali. Soprattutto la clandestinità come aggravante e le cosiddette norme salva premier. Le misure salva premier sospenderanno processi per reati molto gravi come lo stupro, l'usura, lo sfruttamento della prostituzione, l'omicidio colposo per i pirati della strada, il traffico di rifiuti. Di conseguenza quelle misure avranno effetti negativi per la sicurezza dei cittadini. Infine, per le esigenze processuali del Presidente del Consiglio, le norme che verranno votate martedì dal Senato aggraveranno la crisi della giustizia e ingolferanno il sistema giudiziario». Critico anche il ministro ombra della Giustizia del Pd, Lanfranco Tenaglia: «Il centrodestra cerca di utilizzare la vicenda del parere del Csm per imbavagliarlo.

CSM - Il vicepresidente Mancino ha chiarito definitivamente che non è mai esistito un parere, neanche in bozza, del Csm e che l'organo si esprimerà solo nelle forme e nei modi di legge. Chiunque neghi la facoltà del Csm, prevista per legge, di dare pareri al ministro della Giustizia in materia di processo e organizzazione giudiziaria è in malafede».

IL CASO MILLS - I magistrati del processo Mills, sono accusati dal premier Silvio Berlusconi di agire per «finalità politiche». Ora il Csm acquisirà la documentazione necessaria per procedere; ossia, l'istanza con cui Berlusconi ha ricusato il presidente del collegio giudicante Nicoletta Gandus e il parere negativo riguardo la ricusazione della Procura generale di Milano. Tra i documenti che la commissione di palazzo dei Marescialli intende acquisire, anche il resoconto stenografico della seduta al Senato in cui il presidente Renato Schifani lesse la lettera in cui Berlusconi accusava i pm del processo Mills. Infine agli atti della commissione dovrebbero esserci le dichiarazioni riportate sulla stampa in cui il premier ha accusato le toghe; ultime le accuse lanciate da Berlusconi da Bruxelles.

COSSIGA - A tentare di svelenire il clima è il presidente emerito Francesco Cossiga, che in una lettera aperta indirizzata al capo dello Stato ha suggerito di stralciare dal Dl sicurezza le norme che sospendono i processi per favorire una pausa di riflessione e alleggerire il clima di scontro tra governo e maggioranza da un lato e magistratura e opposizione dall'altro.

MARONI - Il ministro Maroni, sulla vicenda, ha sottolineato: «Al Senato il pacchetto sicurezza verrà votato martedì e alla Camera vogliamo farlo approvare senza modifiche. Sono molto soddisfatto di queste norme che danno molto potere ai sindaci». Altero Matteoli, ministro dei Trasporti, ha invece criticato l'opposizione: «Non c'è nulla di politico, quello dell'opposizione è solo un attacco strumentale. Non si può pensare che per qualsiasi provvedimento sulla magistratura ci sia questo accanimento da parte dell'opposizione. Non c'è nulla di nuovo sotto il sole».

CI VUOLE UNA TREGUA - Una «tregua» ha invece chiesto Roberto Castelli, sottosegretario alle Infrastrutture: «Pare che l'agenda politica sia dettata dalla magistratura. Occorre trovare mezzi costituzionali e amministrativi per uscire da questa situazione. Serve una tregua. Bisogna lasciar lavorare le più alte cariche dello Stato e, come in Francia, fare i processi al termine del mandato».


23 giugno 2008

da corriere.it


Titolo: La legalità secondo il Cavaliere
Inserito da: Admin - Giugno 24, 2008, 04:34:43 pm
24/6/2008
 
La legalità secondo il Cavaliere
 
 
 
 
 
CARLO FEDERICO GROSSO
 
Alcune settimane fa Berlusconi aveva affermato che, quando incombono grandi emergenze, rispettare la legge può diventare opinabile. Parlava del caso Napoli e della sua immondizia. Si riferiva, in particolare, alle infrazioni compiute in Campania da alcuni funzionari nel nome di un asserito interesse generale e criticava le indagini penali compiute nonché le misure cautelari assunte nei confronti dei responsabili delle infrazioni. Se agire era necessario per risolvere un gravissimo problema, occorreva comunque operare, qualunque cosa stabilissero le leggi.

Nei limiti posti, il problema poteva anche costituire oggetto di discussione fra i giuristi. Non sempre rispettare alla lettera la legge corrisponde all’interesse pubblico del momento. Una legge inadeguata alla situazione può recare danno anziché sollievo. Fino a che punto, allora, nel nome del rispetto della legalità, è ragionevole rischiare di non risolvere i problemi?

Fino a che punto l'osservanza del precetto può essere, invece, sacrificata all'esigenza di salvaguardare gli interessi minacciati? Legalità è sempre, e soltanto, rispetto della norma o può diventare, talvolta, tutela concreta, per necessità, degli interessi in gioco? Teoricamente si possono sostenere entrambe le posizioni. Si può affermare che la legge deve essere rispettata sempre e comunque, pena la perdita di autorità dello Stato; si può affermare che in via del tutto eccezionale, quando sono minacciati interessi vitali delle persone, è consentito infrangerla nel nome di una ragionevole valutazione degli interessi in gioco. La prima tesi corrisponde a una visione formale e rigorosa della legalità; la seconda inquadra il tema nella prospettiva di una valutazione anche di sostanza. In questa seconda ipotesi la legalità è comunque salva, si dice, poiché a cose fatte dovrebbe essere in ogni caso un giudice a stabilire se vi era lo stato di necessità idoneo a giustificare la condotta.

Qualche giorno fa, alzando i toni contro la magistratura politicizzata che lo avrebbe dolosamente vessato, parlando addirittura di magistrati eversivi che si sarebbero infiltrati nell'istituzione giudiziaria per contrastarlo, Berlusconi ha fornito un ulteriore suo concetto di legalità. Quando un Governo ha ricevuto un mandato forte dagli elettori e governa pertanto direttamente in nome del popolo, ha diritto di gestire il potere senza intralci o impedimenti. Sarà il popolo, a fine legislatura, a giudicare la sua azione, approvando o bocciando, con il voto, l'attività compiuta. In questa prospettiva poco spazio deve essere lasciato ai controlli in corso d'opera, siano essi politici da parte dell'opposizione, giuridici da parte degli organi di garanzia, di legalità da parte di una magistratura indipendente. L'opposizione, se è rigorosa, deve essere considerata automaticamente faziosa, gli organi di garanzia, se possibile, devono essere resi domestici con riforme che ne sviliscano i poteri, la magistratura deve essere a sua volta contenuta. Quest'ultima esigenza costituisce priorità assoluta.

In tale prospettiva si spiegano le iniziative legislative in materia di giustizia. Con un disegno articolato e complesso sono state progressivamente programmate, con ritmi incalzanti per dimostrare determinazione e disorientare gli avversari, limitazioni delle intercettazioni, meno notizie sui giornali in materia di indagini penali, sospensione dei processi, nuovo lodo Schifani a copertura delle alte cariche dello Stato, in grado di eludere, se possibile, le vecchie censure della Corte Costituzionale. Chissà quant'altro ancora, a questo punto, verrà progettato, nella medesima direzione, nei mesi prossimi venturi.

Ecco che si profila, allora, il volto nuovo dello Stato di diritto voluto dal presidente del Consiglio. Non si tratta più, soltanto, di valutare come legittime condotte antigiuridiche necessarie per fronteggiare asserite situazioni d'eccezione, come egli aveva sostenuto alcune settimane fa a Napoli in un clima politico ancora molto diverso. Con una escalation di progetti, con l'innalzamento dei toni, con l'aggressività delle parole, egli sembra, oggi, volere instaurare un nuovo sistema di governo sostanzialmente senza regole e controlli, introdurre una nuova Costituzione materiale. In questo modo, egli sostiene, il governo potrà diventare più efficiente, risolvere finalmente i molti problemi incancreniti, rilanciare il Paese. Gli italiani avranno finalmente più sviluppo, più benessere, più felicità.

Poche sono, a questo punto, le discussioni possibili fra i giuristi. O si accetta il nuovo concetto di legalità o lo si rifiuta in blocco. Non sono più possibili mezzi termini, parziali benedizioni, condiscendenze. Fino a ieri si era sperato che un nuovo clima di non contrapposizione fra maggioranza e opposizione potesse favorire l'accordo per un approccio ragionevole al tema delle indispensabili riforme elettorali e costituzionali. Oggi il barometro segna, purtroppo, tempesta. Abbozzare, condividere, acconsentire diventa molto più difficile, forse impossibile.

 
da lastampa.it


Titolo: Seggio in regalo a segretarie e portavoce
Inserito da: Admin - Giugno 25, 2008, 08:54:14 am
04/06/2008
Seggio in regalo a segretarie e portavoce
Scritto da: Sergio Rizzo alle 15:51
Tags: parlamento, segretarie

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Piero Longo, almeno lui ha parlato chiaro. «Con questo sistema elettorale non siamo eletti, ma nominati», ha dichiarato durante una udienza del processo Mills l’avvocato del premier Silvio Berlusconi, apprestandosi a diventare senatore. Non che l’andazzo fosse molto diverso con la vecchia legge elettorale: in quel caso c’erano i cosiddetti collegi sicuri, e anche allora in Parlamento entrava (nella stragrande maggioranza dei casi) chi decideva la segreteria di partito. Però la forma, almeno quella, era salva. Adesso nemmeno quella. Il Parlamento è diventato sempre più una questione personale dei leader politici, che possono gratificare a loro piacimento gli amici e i fedelissimi con un seggio alla Camera o al Senato. E Longo è soltanto l’ultimo caso: prima di lui, del resto, altri avvocati del Cavaliere sono diventati onorevoli.
Pur conoscendo le assurdità di questa legge elettorale, questa volta era tuttavia legittimo aspettarsi qualcosa di più. Almeno qualche segnale di ricambio, anche se deciso dall’alto: non fosse altro per le polemiche che avevano investito un sistema politico sempre più ingordo e autoreferenziale, a destra come a sinistra. Uno sguardo agli elenchi dei parlamentari della sedicesima legislatura fa invece sgorgare un fiume di domande.

Per esempio, se possa considerarsi un atto di ricambio politico la «nomina» a senatore di Salvatore Sciascia, già tributarista di Berlusconi, attualmente presidente della Holding italiana quattordicesima, una degli scrigni nei quali sono custodite le azioni della Fininvest, nonché vicepresidente della Immobiliare Idra, la società che gestisce le ville del premier, destinatario di una condanna definitiva a un paio d’anni per le tangenti alla Guardia di finanza. Oppure se fosse proprio necessario mandare in Senato anche il vicepresidente di Mediolanum, Alfredo Messina. E passi per Mariella Bocciardo, ex cognata del Cavaliere (è stata la consorte del fratello Paolo Berlusconi) che nel curriculum si definisce «dirigente di partito », come pure per Sestino Giacomoni, per anni prima portavoce e poi factotum dell’ex ministro Antonio Marzano: entrambi erano già parlamentari dal 2006. Passi anche per Silvio Sircana, fedelissimo portavoce di Romano Prodi: anche lui era già deputato. Ma che cosa ha determinato la candidatura a Montecitorio di Deborah Bergamini, ex direttrice del marketing della Rai ed ex assistente personale del Cavaliere?

Che dire poi della nomina, sempre alla Camera, dell’ex capo della segreteria politica di Claudio Scajola ed ex commissario della Cit Ignazio Abrignani? E di quella dell’ex consigliere politico dell’ex ministro della Difesa (di centrosinistra) Arturo Parisi, Pier Fausto Recchia? Oppure del fatto che nella lista dei neoparlamentari si trovino anche i nomi dell’efficiente ex portavoce dell’ex ministro della Difesa Antonio Martino, Giuseppe Moles e del bravissimo braccio destro di Giulio Tremonti, Marco Milanese? O ancora, erano proprio ingiustificate le polemiche che hanno accompagnato la nomina alla Camera di Luciana Pedoto, già segretaria particolare del ministro dell’Istruzione Giuseppe Fioroni, esponente di spicco del Partito democratico, che si professa «non raccomandata»? E si potrebbe andare avanti ancora, con una doverosa precisazione: se questi casi appaiono più numerosi nel centrodestra, dipende anche dal fatto che lo schieramento di Berlusconi conta un bel numero di parlamentari in più rispetto all’opposizione.

Per carità, siamo certi che in Parlamento tutti quanti si faranno onore, indipendentemente dagli sponsor. Qualche dubbio invece, esiste, eccome, sul fatto che questo sia il modo migliore per rinnovare la classe politica.

Pubblicato il 04.06.08 15:51 | Permalink| Commenti(2) | Invia il post
04/06/2008
Un posto in Parlamento aumenta il reddito del 78%
Scritto da: Gian Antonio Stella alle 15:49
Tags: Palamento, stipendi

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«Spirito di servizio». Non c’è deputato o senatore, ministro o sottosegretario, che non giuri con tono solenne di far politica solo per questo: «Spirito di servizio». Manco fossero tutti emuli di Alcide De Gasperi che per andare alla Casa Bianca si fece prestare il cappotto da Attilio Piccioni. Sarà... Ma i numeri dicono che l’elezione al Parlamento ha sempre meritato il «cin cin» con lo spumante migliore: coincideva infatti con un aumento medio del reddito personale del 78%. A Roma! A Roma!

Oddio, una volta era un po’ diverso. Nel 1983, un quarto di secolo fa, chi sbarcava a Montecitorio o a Palazzo Madama vedeva i suoi guadagni salire mediamente del 33%. Un incremento buono, ma ridicolo rispetto alla botta di vita dei successori. Chi diventò parlamentare nel 1996 si ritrovò in tasca, in media, addirittura il 109,2 per cento in più di quanto aveva dichiarato l’anno precedente. Al punto che, dopo aver assaggiato tutte le leccornie del Palazzo, quelli che hanno via via deciso per loro scelta (e non perché trombati) di tornare al mestiere di prima sono diventati più rari del dugongo. Perfino gli imprenditori, una volta «discesi in campo», scelgono nella misura del 37% di lasciar perdere quanto facevano per restare sui diletti scranni. Per non dire dei medici (che decidono di rimanere in politica e non rientrare nei reparti o negli ambulatori nel 45% dei casi), dei giornalisti (44%), degli autonomi (49%), degli operai (61%) o dei rappresentanti di categorie professionali: solo uno su cinque rientra nell’ufficio da cui proveniva, sei su dieci si avvinghiano al seggio e non lo mollano più.

Lo dice la ricerca formidabile di un gruppo di economisti: Antonio Merlo, della University of Pennsylvania, Vincenzo Galasso della Bocconi, Massimiliano Landi della Singapore Management University e Andrea Mattozzi del California Institute of Technology. Si intitola «Il mercato del lavoro dei politici » e accenderà sabato mattina il dibattito, a Gaeta, sul tema «La selezione della classe dirigente ». Un convegno promosso dalla «Fondazione Rodolfo Debenedetti» che ruoterà poi intorno all’altra metà del tema, vale a dire «La classe dirigente imprenditoriale», studiata da Luigi Guiso, dell’Istituto Universitario Europeo, insieme con tre docenti della London School of Economics, Oriana Bandiera, Andrea Prat e Raffaella Sadun.

Un dato: la «fedeltà» alla famiglia proprietaria dell’azienda conta così tanto, da noi, da rovesciare il rapporto che vale in tutto l’Occidente, dove contano i risultati: da uno a tre a tre a uno. Un altro: dei manager italiani, quelli che lavorano in Lombardia sono il 42%, nel Sud il 5. Una sproporzione apocalittica. Che preannuncia un futuro di nuvoloni neri neri.

Ma torniamo ai politici. Dice la ricerca, coordinata come l’altra da Tito Boeri, il docente della Bocconi animatore de «lavoce. info», che prendendo in esame tutti gli eletti dal 1948 al 2007 non ci sono dubbi: la classe parlamentare della Prima Repubblica era nettamente migliore. Certo, la percentuale di donne è nei decenni triplicata, pure restando lontana da quella dei paesi europei più avanzati. Ma il livello qualitativo, per non dire della «freschezza» generazionale, si è drammaticamente abbassato: «I nuovi deputati erano più giovani e più istruiti durante la prima repubblica. L’età media in cui si entrava in parlamento era di 44,7 anni, contro i 48,1 anni della Seconda. La percentuale dei nuovi eletti in possesso di una laurea è significativamente diminuita nel corso del tempo: dal 91,4% nella I Legislatura, al 64,6% all’inizio della XV Legislatura».

Un crollo di 27 punti. Che risulta ancora più vistoso e preoccupante nei confronti internazionali. Come quello con gli Stati Uniti dove, al contrario, i laureati presenti in Parlamento sono saliti dall’88% al 94%. Trenta punti sopra di noi. C’è poi da stupirsi che l’università (e non parliamo della scuola) sia sprofondata nel pressoché totale disinteresse dei governi al punto che nelle classifiche internazionali del Times di Londra e della «Shanghai Jiao Tong University» non riusciamo a piazzare un solo ateneo tra i primi cento e neppure uno del Mezzogiorno nei primi trecento?

Scrivono Merlo e i suoi colleghi che quasi due parlamentari su tre «rimangono in Parlamento per più di una legislatura, anche se solo uno su dieci vi rimane per più di 20 anni» e che «dopo l’uscita, il 6% va in pensione, quasi il 3% in carcere, ma quasi uno su due rimane in politica». Spiegano inoltre che, per quanto siano difficili questi calcoli, alcuni «indicatori di qualità » (e cioè il livello d’istruzione, il grado di assenteismo e la «abilità intrinseca di generare reddito nel mercato del lavoro») consentono di affermare non solo, come si diceva, che la classe politica attuale è più scarsa di quella precedente al 1993. Ma che la statura dei nostri parlamentari d’oggi è inferiore anche professionalmente, nella vita privata, a quella dei loro predecessori. Quelli, nei loro mestieri da «civili», stavano tutti (dalla Dc al Msi, dal Psi al Pci) al di sopra della media nelle rispettive professioni. Questi, con la sola eccezione di Forza Italia (+0,04) stanno mediamente al di sotto.

Eppure, via via che calava la loro statura culturale, politica, manageriale, sono stati sempre più benedetti da un acquazzone di denaro. Quante volte ci siamo sentiti dire «faccio politica per passione perché economicamente guadagnavo di più prima»? Falso. Dati alla mano, quelli che nella Prima Repubblica ci perdevano a fare il deputato anziché il medico, il notaio o l’avvocato erano il 24% dei democristiani, il 21% dei socialisti, il 19% dei repubblicani... Oggi sono solo il 15% degli azzurri, l’11% degli ulivisti, l’8% dei neo-democristiani, il 6% dei nazional-alleati. Gli altri, a partire dai rifondaroli per finire ai leghisti, ci guadagnano e basta. E tanto.

Dal 1985 al 2004, dice la ricerca curata dal gruppo che ruota intorno a «lavoce.info», l’approdo sugli scranni delle Camere «è stato particolarmente redditizio. Infatti, il reddito reale annuale di un parlamentare è cresciuto tra 5 e 8 volte più del reddito reale annuale medio di un operaio, tra 3,8 e 6 volte quello di un impiegato, e tra 3 e 4 volte quello di un dirigente». Di più: grazie alla possibilità di cumulare altri lavori, esclusa salvo eccezioni in paesi seri come gli Stati Uniti, «dalla fine degli anni ‘90, il 25% dei parlamentari guadagna un reddito extraparlamentare annuale che è superiore al reddito della maggioranza dei dirigenti». Quanto al «prodotto», lasciamo stare. È così scarso, rispetto alle remunerazioni, da aver creato un paradosso. Forse, ironizzano gli economisti, è per colpa dell’ «aumento dell’indennità parlamentare che ha portato in Parlamento persone le cui maggiori competenze erano altrove nel mercato del lavoro, ma non in politica ». Un gentile eufemismo per non parlare di certi somari incapaci di fare qualunque altro mestiere se non quello del politico a tempo pieno. Certo è, suggeriscono, che «per ridurre quest’effetto di selezione avversa si potrebbe eliminare il cumulo dei redditi dei parlamentari con gli altri redditi, come già avviene negli Stati Uniti, e indicizzare l’indennità parlamentare al tasso di crescita dell’economia. Ciò consentirebbe anche di aumentare l’impegno parlamentare dei deputati, poiché in media ogni 10.000 euro di extra reddito si riduce la partecipazione in Parlamento dell’1%». Avete letto bene: chi col secondo mestiere prende 50mila euro in più lavora il 5% in meno, chi ne guadagna 100mila il 10% e così via. Morale: vuoi vedere che per far lavorare di più certi assenteisti cronici occorre farli guadagnare di meno?

Pubblicato il 04.06.08 15:49


Titolo: Rimborsi elettorali: ce n'è per tutti, anche per chi non è stato eletto
Inserito da: Admin - Giugno 25, 2008, 08:55:20 am
21/06/2008

Rimborsi elettorali: ce n'è per tutti, anche per chi non è stato eletto

Scritto da: Sergio Rizzo alle 19:01

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Come accade ogni anno elettorale, le presidenze di Camera e Senato stanno stilando gli elenchi dei rimborsi elettorali che spettano ai partiti per i prossimi cinque anni. Saranno pronti fra un mesetto, e andranno letti con attenzione. Perché una spolveratina di manna toccherà anche a qualcuno che è rimasto fuori dal Parlamento, non avendo superato la soglia di sbarramento del 4% previsto per la Camera e non avendo avuto nemmeno un seggio al Senato. Miracoli della leggina con la quale, nel 2002, venne aumentata senza colpo ferire l'entità del rimborso elettorale a carico di ogni cittadino iscritto alle liste elettorali, portandola da 40 centesimi a un euro l'anno per ogni anno di legislatura e per ogni elezione (Camera, Senato, regionali ed europee). In quel provvedimento si pensò bene di stabilire che per accedere ai rimborsi era sufficiente non già aver superato la fatidica soglia di sbarramento del 4%, come sarebbe stato logico, ma aver raggiunto almeno l'1% dei suffragi. Nel 2002 questa piccola modifica consentì anche all'Italia dei Valori di Antonio Di PIetro, che si era attestata al 3,97%, di avere il finanziamento pubblico. Ora, in virtù di questa regola, alla formazione politica di Daniela Santaché, che ha racimolato 885.229 voti, pari al 2,4% del totale, dovrebbero spettare per gli anni dal 2008 al 2013 circa 1,1 milioni di euro l'anno, pari a 5,5 milioni di euro per l'intera legislatura: oltre dieci miliardi di lire. Anche la Sinistra arcobaleno, sonoramente battura alle elezioni e senza nemmeno un deputato né un senatore, avrà comunque diritto a riscuotere, secondo calcoli attendibili, un milione e mezzo l'anno, pari a circa 7 milioni e mezzo in cinque anni: grazie al fatto di aver portato a casa il 3,1% dei suffragi. Il leader dello Sdi, Enrico Boselli, invece si mangerà le mani. Ha fallito l'obiettivo per 8.944 voti. Tanti gliene sono mancati per arrivare all'1%: si è fermato allo 0,975%. Al suo posto godranno gli altri. La legge stabilisce che i rimborsi non assegnati non restano (come sarebbe giusto) nelle casse dello Stato, ma vengono suddivisi fra gli altri partiti.

Pubblicato il 21.06.08 19:01 | Permalink| Commenti(6) | Invia il post


16/06/2008
Soldi pubblici ai partiti: è italiano il record mondiale
Scritto da: Sergio Rizzo alle 16:25

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Grazie a una leggina approvata nel 2006 che consente ai partiti di incassare i contributi elettorali per la durata dell'intera legislatura (cinque anni), anche se le Camere vengono sciolte in anticipo, per il 2008, il 2009 e il 2010 il finanziamento pubblico alla politica in Italia sfiorerà i 300 milioni di euro. Illuminanti sono i contenuti di uno studio elaborato dalla Camera dei deputati. Nel quale si spiega, per esempio, che il finanziamento pubblico dei partiti in Francia, Paese con un numero di abitanti paragonabile a quello dell'Italia, è stato pari, nel 2006, a meno di 73 milioni e mezzo di euro. Doveva essere di 80 milioni e 264 mila euro, ma è stato ridotto da circa 7 milioni di euro di sanzioni inflitte ai partiti che non hanno applicato regole di pari opportunità fra uomini e donne. In aggiunta, al di là delle Alpi i partiti che non raggiungono almeno il 5% dei suffragi al primo turno non ha diritto a vedersi rimborsare neppure la metà di quanto ha speso, tanto che il glorioso ma ammaccatissimo Pcf potrebbe vendere parte delle opere d' arte avute in dono negli anni buoni da artisti amici.

La Spagna, dove i parlamentari sono 575, circa metà dei nostri, spende invece 60 milioni 752 mila euro. per la spesa pro-capite è di 2,13 euro. In Germania, con una popolazione di 23 milioni più numerosa di quella italiana, esiste un tetto massimo di 133 milioni l' anno agli stanziamenti statali. Il risultato è che ogni cittadino francese contribuisce al mantenimento dei partiti con circa 2,54 euro, ogni spagnolo con 2,13 euro e ogni tedesco con 1,61 euro. Mentre ogni italiano è costretto a versare di tasca propria ai partiti ben 3 euro e 38 centesimi negli anni "normali", come è stato il 2006. Negli anni come il 2008, nei quali c'è invece razione doppia, il contributo procapite sale a 5 euro e 7 centesimi. Il doppio che in Francia, addirittura il triplo rispetto alla Germania. Per non dire dei confronti imbarazzanti con paesi come il Regno Unito dove, spiega il dossier della Camera, «Il finanziamento pubblico - se si escludono alcuni servizi messi a disposizione dallo Stato nel corso delle campagne elettorali - è limitato ai contributi concessi ai partiti di opposizione in Parlamento». Totale nel 2006: 5 milioni 603.779 sterline, pari a circa 7 milioni 374 mila euro. O degli Stati Uniti, dove «il finanziamento pubblico della politica è limitato al finanziamento della campagna presidenziale» e nel 2004 è costato 206 milioni di dollari, circa 50 centesimi di euro per abitante. Ovvero, considerando che negli Usa, cascasse il mondo, si vota sempre ogni quattro anni, 12,5 centesimi l'anno. Quaranta volte meno che in Italia. Si può andare avanti così?

Paese contributo pubblico annuo in euro
Italia 295.357.091,04
Germania 133.000.000,00
Francia 80.264.408,00
Spagna 75.543.395,00
Gran Bretagna 4.969.808,77

Fonte: Camera dei deputati.

da corriere.it


Titolo: D'Alema battezza "Red": «Diamo sfogo al malessere»
Inserito da: Admin - Giugno 25, 2008, 10:46:40 am
D'Alema battezza "Red": «Diamo sfogo al malessere»

Andrea Carugati


Non sarà solo un'associazione di parlamentari e intellettuali. Ma un'organizzazione capillare, radicata sul territorio, con coordinamenti a livello regionale e provinciale. Il "tesseramento", 100 euro a testa, è partito già martedì pomeriggio al cinema Farnese, dove «Red», Riformisti e democratici, l'associazione che sarà la costola politica della Fondazione di Massimo D'Alema Italianieuropei, è stata tenuta a battesimo. 110 i parlamentari Pd già arruolati, 4 gli eurodeputati guidati dal capogruppo italiano nel Pse Gianni Pittella, prodian-lettiano il presidente Paolo De Castro, mariniano uno degli uomini forti del progetto, l'ex responsabile organizzativo della Margherita Nicodemo Oliverio. Che dice: «Avremo tantissime associazioni Red su tutto il territorio nazionale, luoghi dove nasca l'amicizia».
«Non sarà una corrente», hanno ripetuto in coro tutti gli intervenuti, da Livia Turco a Bersani, fino a D'Alema che ha chiuso l'incontro. Ma la Turco parla esplicitamente di una «doppia militanza: ben vengano luoghi che ci aiutino ad avere coraggio e schiena dritta». L'ex ministro degli Esteri ha battuto più volte sul rapporto tra Red e il Pd. «Non vogliamo destabilizzare, fare casino, o rompere le scatole a Veltroni». «Non vogliamo organizzare un pezzo del Pd, o fare un partito di massa», ha aggiunto. «Fare una corrente sarebbe stato più semplice- avverte- non avremmo avuto bisogno di tutta questa impalcatura. Qui ci sono persone che hanno votato candidati diversi alle primarie, io ad esempio ho sostenuto Veltroni e non ne sono pentito».

L'obiettivo dichiarato di D'Alema è aprire «un luogo di confronto tra politica e società», costruire «una forma politica di tipo nuovo», con una fondazione, una associazione, una tv satellitare, collegamenti internazionali, sulla falsariga del modello americano. «Vogliamo fare cultura politica», dice Bersani. «Solo il conformismo e la pigrizia possono far pensare a una corrente- dice D'Alema- ma noi non ci possiamo far condizionare, ricattare o intimidire da questo conformismo. Il successo di Red può essere importante per il decollo del Pd». D'Alema spiega di non volersi «sostituire», con Red, al momento della decisione politica: «Sono da tempo fuori da organismi di direzione politica, e non ho in mente di tornarci. Il nostro lavoro sta a monte delle decisioni, vogliamo fornire alla politica materiali ed elementi che aiutano». L'esempio c'è già, e lo descrive con nettezza Ignazio Marino, che proprio dentro Italianieuropei negli anni scorsi ha prodotto elaborazioni e progetti sui temi della sanità e della bioetica.

D'Alema parla di Red come di «un canale di partecipazione in più», in grado di dare sfogo «al malessere che c'è» nel Pd, di «canalizzarlo verso azioni positive e non distruttive». Spiega che il successo di Red si misurerà non con il numero dei parlamentari aderenti, ma dal «numero di persone, anche e soprattutto non iscritte al Pd, che aderiranno». Ma guai a chi volesse usare l'associazione per pesarsi dentro il Pd. Lo dice De Castro: «Nessuna ambizione di pesare il nostro contributo in termini di composizione dei gruppi dirigenti». E D'Alema si rivolge alla platea: «Se qualcuno vi dice "vediamoci prima della tale riunione", resistete. Non usate Red per scopi, pure legittimi, ma che sono diversi dal nostro».

Poi c'è l'idea di elaborare idee per la sfida a un centrodestra «che ha preparato la sua vittoria anche con tante iniziative culturali di questo tipo». Ma anche il governo e la sua maggioranza saranno interlocutori di Red, a partire dal convegno sulle riforme elettorali e costituzionali che sarà organizzato a metà luglio e che, ha detto D'Alema, tra gli invitati vedrà anche il ministro delle Riforme Bossi. In autunno altro appuntamento sui temi della competitività, con inviti ad alto livello nel mondo industriale e sindacale. «Credo nel dialogo- ha spiegato D'Alema- il punto è chi fissa l'agenda». Ed è chiaro che uno degli obiettivi di Red sarà fissare l'agenda, non solo dentro il Pd.

Uno dei temi più battuti nel bollente pomeriggio romano è la necessità di fissare in modo più netto la differenza tra centrosinistra e centrodestra. L'ha detto Bersani: «Non può essere la destra a dire che il mondo così non va bene, il Pd deve anche litigare con l'opinione del momento». Barbara Pollastrini: «La Lega vince perché ha un'identità chiara, non dobbiamo seguire il senso comune, Zapatero e Obama sanno osare». Livia Turco sprona a difendere gli immigrati da questa «caccia» che si è aperta, a non considerare «ineluttabile» l'introduzione del reato di immigrazione clandestina. Gianni Pittella, invece, punta sulla «felicità di chi è venuto qui oggi», una neanche tanto velata stoccata all'assemblea del Pd di venerdì a Roma. E introduce un altro tema, in contrapposizione al nordismo di molti dirigenti del Pd: «Red nasce per affermare una nuova politica meridionalista». Musica per Nicola Latorre, padrone di casa della giornata, che sorride a un paragone tra Red e il Correntone: «No, porta sfortuna, quelli sono stati sempre minoritari...».


Pubblicato il: 25.06.08
Modificato il: 25.06.08 alle ore 8.58   
© l'Unità.


Titolo: Rompere steccati per costruire unità
Inserito da: Admin - Giugno 26, 2008, 03:53:38 pm
Rompere steccati per costruire unità


1.    Se la sinistra (e SD) vuole ritornare ad avere un peso e fuoriuscire dalla sua irrilevanza (affermazioni tipo sconfitta ma non domata; c’è ancora bisogno di una sinistra; la sinistra è viva nella società; ecc. sono solo tentativi consolatori) deve operare a due livelli:   
-    svolgere una ricerca scomoda sulle prospettive concretizzate che offriamo ai giovani, lavoratori, donne, vecchi, ecc. E’ necessario, cioè,    tentare di declinare concretamente il socialismo (o il comunismo, per alcuni di noi) in questa fase storica. Si dice e si ripete che si è persa la consapevolezza delle realtà  (il cambiamento del lavoro,  l’immigrazione, la finanziarizzazione dell’economia, le nuove povertà, la distruzione dell’ambiente, le nuove soggettività, ecc.) sicuramente si tratta di un tratto di verità, abbiamo molte incertezze sulla realtà, ma non esagererei, c’è qualcosa di più grave:  non siamo capaci di prospettare, in questa “nuova” realtà, una prospettiva sociale e politica di trasformazione che sia affascinante e convincente.  Non vorrei essere frainteso, è certo che una prospettiva non si può costruire nell’ignoranza della realtà, e quindi approfondimenti e riflessioni appaiono necessari, ma non si tratta né di una descrizione più o meno puntuale delle diverse realtà, né della formazione di una sorta di “pagine gialle dei nuovi soggetti”, ma soprattutto dell’individuazione delle nuove forme del “capitale” e dello sfruttamento, dei processi di accumulazione e di valorizzazione, dell’articolazione sociale strutturata, ecc. (si lo so siamo alle solite, ma si tratta di una necessità). Solo così si può dare alimento alla costruzione di una prospettiva. Per molto tempo la “sinistra”, ovunque collocata, ha giocato al + 1, ma questo atteggiamento si paga, come si è visto. La politica di sinistra si fa con tensioni e tentazioni forti;
-    contemporaneamente non può mancare l’iniziativa politica nella società e nei territori; anche questa operazione non solo è scomoda ma risulta difficile, soprattutto fino a quando non si sarà realizzata una forte ragione d’essere della sinistra. La generosità dei compagni è grande ma tale generosità deve essere alimentata, aiutata, resa forte. La prospettiva di ricostruire un blocco sociale, non egoistico né parziale, ma generale,  è possibile solo attraverso il disvelamento della realtà e l’indicazione di un destino di libertà e uguaglianza che sappia convincere e trascinare.
2.    Il congresso nella scelta dei gruppi dirigenti non solo dovrà stare attento che abbiano tutte le rappresentanze possibili (di genere, culturali, ecc., come richiesto da molti compagni), ma soprattutto deve essere  chiaro ed esplicito nel delineare i precedenti due compiti; come dire, che ci sia un mandato esplicito e non implicito.
3.    Molti compagni invidiano il radicamento della Lega (e gli operai che la votano), ma una cosa deve essere chiara, si tratta dell’esito di una battaglia ideologica e di prospettiva che la Lega ha intrapreso da lungo tempo, non di mero attivismo, né di mero radicamento, semmai questo è il risultato di una impostazione fortemente ideologica. A questo proposito sembra necessario che uno sforzo sia fatto per comprendere l’interclassismo dei nostri giorni. Che frazioni di “operai” (o più in generale di “lavoratori”) non votino a sinistra fa parte della storia della nostra repubblica, non sarebbe una novità, la novità sta, da una parte, nella dimensione del fenomeno e dall’altra nel fatto che la “sinistra” non è in grado né di parlare convincentemente con i “lavoratori” (non è questione di radicalità come alcuni credono) né di coinvolgere in ideali di sinistra ceti intermedi. Non mi convince far risalire il “disamore” verso la sinistra con la sua esperienza di governo, se fosse così semplice non avremmo fallito data la netta dichiarazione di opposizione fatta durante la campagna elettorale c’è qualcosa di più profondo nella cultura della società che non siamo stati capace né di battere né di svelare. Non sarebbe inutile un approfondimento congressuale sulla natura dell’interclassismo dei nuovi partiti (PD compreso), sulla cultura che l’alimenta, e sulla cultura “nazionale” che lo facilita. Così come sarebbe utile approfondire il ruolo della Chiesa, la sua pretesa di costruzione di uno “stato etico cattolico”, tutta di facciata ed utile a svolgere il perenne ruolo di  “agenzia elettorale”, che guarda non tanto ai contenuti ideali (dei partiti)  ma, piuttosto,  al voto di scambio contro privilegi e soldi.
4.    La sconfitta è culturale, come sostengono molti compagni, e sulla dimostrata incapacità di rinnovarsi. Non si tratta di rinchiudersi in vecchi e spesso angusti spazi, rivendicare primogeniture incerte, ma piuttosto navigare, si dice così oggi, in mare aperto. La stessa storia del movimento operaio è densa di “diversità” (non solo Marx ma anche Lenin, Rosa Luxemburg,  Bernstein, non solo Stalin, ma anche Trockij e Bucarin, non solo Togliatti ma anche Gramsci, Turati, Kuliscioff, Basso), così come ricche e molteplici sono le esperienze di forme di lotte (lo sciopero, l’occupazione delle fabbriche, ma anche il ’68, la pratica dell’obiettivo) un patrimonio teorico e di pratiche  al quale attingere a piene mani, ma non da ripristinare nella lettera. Non si tratta, come sostengono i nostri antagonisti, di strumenti ed elaborazioni buoni per il secolo scorso, ma piuttosto base culturale, strumenti di interpretazione che sono utili per fare luce sul presente e per elaborare una prospettiva. Si parla molto, al nostro interno, di un movimento plurale che sappia cogliere nuove esigenze, nuove elaborazioni e l’espressione di nuovi soggetti, ecc. chi potrebbe essere contrario, ma a condizione che non si costruisca un contenitore multilingue, ma piuttosto un’occasione per riportare le parti ad unità, un lavoro per delineare una prospettiva di cambiamento della società sul piano strutturale, aumentando i diritti individuali, affermando libertà e uguaglianza. 
5.    Non è poco per un piccolo movimento, ma solo in questa prospettiva forse, ripeto forse, sarà possibile rompere le modeste identità che tendono a prevalere per costruire una prospettiva fondata e non irrilevante.
     
*Facoltà di Pianificazione del Territorio dell'Università di Venezia

da sinistra-democratica.it


Titolo: Le bottiglie del Quirinale
Inserito da: Admin - Giugno 26, 2008, 03:59:49 pm
26/6/2008
 
Le bottiglie del Quirinale
 

 
LUIGI LA SPINA
 
Nella storia della nostra democrazia, raramente è capitato un momento così difficile per colui che ha il compito di esercitare il ruolo del Presidente della Repubblica. E’ vero che la Costituzione, nell’indeterminatezza delle norme che regolano le sue funzioni, lascia ampi margini al Quirinale per un’interpretazione molto elastica del mandato. Ma Napolitano, dopo il nuovo violento attacco di Berlusconi ai «magistrati politicizzati» e dopo il parere di incostituzionalità sul decreto che sospende alcuni processi depositato dalla commissione del Csm, si trova in una condizione del tutto eccezionale. Lui stesso, con un’amara metafora, si è paragonato a «un naufrago» che, disperato, lancia messaggi in bottiglia che nessuno sembra voglia raccogliere. In una condizione di normalità democratica, il Presidente della Repubblica è garante di quell’equilibrio di poteri sul quale si regge la moderna concezione dello Stato.

Un incarico che si può svolgere in una forma asettica e notarile o in un modo più incisivo e interventista, a seconda delle circostanze o del temperamento dell’inquilino al Quirinale. Ma che presuppone, sempre, una contrapposizione di poteri che il capo dello Stato cerca di comporre, in una posizione di arbitro, al di sopra delle parti. L’offensiva politica e mediatica del presidente del Consiglio contro i magistrati che lo indagano, con i toni esagitati e personalistici sfoderati ieri alla Confesercenti, rischia di impedire a Napolitano di mantenere proprio quel ruolo di «terzietà» a cui finora il Quirinale si è ostinatamente aggrappato. Perché, oggi, il potere sembra tutto concentrato sul governo e sul suo capo e i contropoteri o sono debolissimi o sono scarsamente autorevoli e credibili.

Forte di una netta vittoria elettorale, con la conseguente robusta e disciplinata maggioranza in Parlamento, confortato da un vasto consenso d’opinione, che solo negli ultimi giorni sembra farsi più tiepido, Berlusconi ritiene questo il momento più opportuno per sconfiggere definitivamente i giudici che lo vogliono processare. La scelta, al di là della sentenza sul caso Mills che sembra imminente, coglie l’opposizione parlamentare in una fase di estrema difficoltà. Divisa tra l’intransigentismo agitatorio di Di Pietro e la ricerca di un contrasto non pregiudiziale di Veltroni, alla chimerica caccia di un impraticabile dialogo. Insufficiente nei numeri, spaccata nel metodo, azzoppata da una sconfitta dalla quale non sa come uscire, la minoranza in Parlamento non può certo essere definita, ora, un contropotere.

Anche il potere della magistratura pare in un periodo di acuta debolezza. Come paiono lontani gli anni dell’entusiastico sostegno popolare, a colpi di fax, dell’epoca di «Mani pulite». La persistente incapacità di fare giustizia, in tempi ragionevoli e con sentenze ragionevolmente certe, il protagonismo di alcuni giudici, la faziosità e la incapacità professionale palesate in alcune indagini hanno scavato un fossato di delusione, di diffidenza e di risentimento tra l’opinione pubblica e la categoria. Ecco perché quel potere, che una volta rappresentava una forza temuta e difficilmente fronteggiabile dalla politica, oggi sembra costretto a una difesa affannosa e abbastanza isolata.

In queste condizioni il «naufrago» Napolitano rischia, anche per la sua carica di presidente del Csm, di dover esercitare due funzioni apparentemente inconciliabili: quella, tradizionale, di arbitro imparziale tra politica e magistratura. Ma anche quella di supplire, con la forza della sua personale credibilità, alla debolezza degli altri infiacchiti contropoteri che devono pur essere rappresentati e difesi davanti a quello, straripante, del governo. Così la «zattera» del capo dello Stato, se si aggrappa alla fune di Berlusconi, rischia di essere sommersa dall’onda soverchiante di chi potrebbe costringerlo a rinunciare ai suoi doveri di garante delle regole costituzionali; se accoglie le truppe sbandate degli oppositori del presidente del Consiglio, potrebbe affondare sotto il peso dell’accusa di faziosità e di pregiudizio.

Come Napolitano riuscirà a comporre queste due esigenze cominceremo a capirlo presto. Quando, per esempio, il capo dello Stato dovrà sottoscrivere il decreto legge sul quale il Csm ha dato un parere di incostituzionalità. L’avviso dell’organo di autogoverno della magistratura, certo, non è vincolante. Ma sicuramente costituisce un’opinione ingombrante. L’autonomia di giudizio del presidente della Repubblica è tale, comunque, da consentirgli l’assoluta libertà di scelta tra i salvagenti a cui il «naufrago» potrebbe attaccarsi.

Con l’augurio che la sua decisione non salvi solo lui, ma anche la nostra democrazia.
 
da lastampa.it


Titolo: Il test di inizio estate lo propone Pornopolitica ...
Inserito da: Admin - Giugno 26, 2008, 04:01:14 pm
Martedì, 24 Giugno 2008

Il test di inizio estate lo propone Pornopolitica (che non ha niente di porno) e si chiama Sei veltroniano o dalemiano (o magari parisiano?). Questionario a risposte chiuse, del tipo:
Francesco Rutelli?
A - Rutelli chi?
B - Rutelli chi????
Una cosa è certa: la blogosfera democratica (nel senso del Pd) ha ripreso a discutere. Con vari toni nel registro: la matita satirica di Artefatti (qui accanto, dove lo scontento del lavoro è il segretario del Pd) o i conti correnti di Zoro, che ci fa notare che la conferenza stampa di Veltroni sul “buco” al comune di Roma è quasi in sovrapposizione con la presentazione della dalemiana “red”. Insomma si parla, cioè si scrive molto. A cominciare dai giovani quarantenni che vogliono il partito in mano, ma per legge delle libere associazioni, si attinge alla cronaca, quindi al calcio.

Parlando di Lippi e Veltroni
Così è per Ivan Scalfarotto che pare che parli di calcio e invece è proprio del Pd che parla nel post “palle perpetue”, dedicato al ritorno di Lippi: Il fatto che il nuovo allenatore dell’Italia sia il vecchio allenatore dell’Italia è la perfetta metafora (calcistica) di un paese che quando è in difficoltà finisce col guardare soprattutto all’indietro (…) Benvenuti nel paese dei perpetui. Mica è il solo. In Riformismi, Aldo Torchiaro annota: Ma insomma, come si fa a guidare una macchina, veloce o lenta che sia, guardando sempre e solo nello specchietto retrovisore? Io promuoverei una regola generale: per svecchiare il Paese, è necessario un First Time Player. C’è chi teorizza, in Sfera Pubblica: Il calcio è diventato emblema comunicativo .

Beati gli italiani all’estero, qui i giovani hanno 40 anni
E se al circolo Pd di Londra si tengono aggiornati con la proiezione di Nazirock, nel think tank liberista di NoisefromAmerika un pezzo che propone paralleli fra la sinistra d’Italia e quella degli Usa ma parla sopratuttto di Barack Obama. Insomma gente lontana e felice. Qui si rimugina attorno alla questione dell’età. Lo fanno alcuni dei protagonisti della vicenda: Mario Adinolfi in un post di 48 ore fa ma che stamattina riproponeva le sue domande su Veltroni a Nessuno Tv. Così Marta Meo, Avevo scritto a Uòlter mi ha risposto Rosy, così Ciwati : Vogliamo trasmettere ai cittadini qualche segnale, qualche ‘cosa’, piuttosto che quell’atmosfera da eterno conclave (tra l’altro mezzo vuoto)? Ci decidiamo a costruire una nostra agenda (altro che ombre cinesi) e fare opposizione al governo B? Come, quale opposizione? Tutto ruota attorno all’assemblea de iMille

Quelli che non c’entrano niente
Ma questo è già un conclave, un dibattito interno. Da fuori cosa si dice? Un po qui, Schegge di Vetro, un po’ Il Nuovo Mondo di Galatea, che propone la lunga satira del Portavoce giovane con la giacca grigia. Ed Alfonso Fuggetta, che col Pd non c’entra, è un tecnologo e professore universitario e che si conquista il “post per intero” di Netmonitor (vedi alla fine). Ma si potrebbe rubare una citazione a Tom, presa direttamente da Truman Capote e dire con la protagonista di Colazione da Tiffany: it’s tacky to wear diamonds before you’re forty (è un po’ privo di gusto mettersi diamanti prima dei 40)

La politica degli altri? Personal Democracy Forum
C’è un manipolo di blogger italiani che partecipa al Personal Democracy Forum : intreccio di politica, rete e capacità di comprendere la politica attraverso la comprensione della rete. Un binomio da noi impossibile. I tre sono Sergio Maistrello (blog omonimo), Antonio Sofi di Webgol e Svaroschi. I primi due tengono una cronaca ora per ora delle giornate di dibattito. Insostituibile per gli interessati anche perché ricca di link.

E il Tibet che c’entra?
Proteste e diversi pareri per la pubblicità della Fiatcon Richard Gere e pro-Tibet. Da Klochov (Tibet e paraculaggine) e da LiberaliperIsraele

Un post per intero. Che palle sta storia dell’età
A parte il fatto che c’è gente a 40 anni che non ha un briciolo di idee in zucca, ma quelli nella fascia da 40 a 65 che devono fare? Gli attaccapanni? Da un lato si continua a ripetere che la vita si allunga e che bisogna lavorare fino a 65 anni almeno. E io sono d’accordo. Poi però nella politica come nelle professioni si dice che bisogna fare largo ai giovani e ai 40enni. (da Alfonso Fuggetta)

(a cura di vittorio zambardino)

da netmonitor.blogautore.repubblica.it


Titolo: DIRITTO E PARLAMENTO. Rebus del lodo
Inserito da: Admin - Giugno 30, 2008, 09:22:26 am
DIRITTO E PARLAMENTO

Rebus del lodo


Dal «lodo Schifani» del 2003, miseramente naufragato di fronte alla Corte costituzionale, all'odierno progetto di «lodo Alfano» il passo non è breve, anche prescindendo dalle vicende giudiziarie del presidente Berlusconi.
Difficoltà possono sorgere non solo, e non tanto, sul piano dei contenuti, quanto soprattutto sul piano delle procedure di approvazione, trattandosi di materia costituzionale. Circa i contenuti, bisogna riconoscere che il disegno di legge varato dal Consiglio dei ministri per sottrarre alla giurisdizione penale i «presidenti» titolari di una delle quattro più alte cariche dello Stato (mediante sospensione dei processi, ma non delle indagini, nei loro confronti, per reati comuni, cioè non inerenti all'esercizio delle loro funzioni) si è sforzato di adeguarsi alle indicazioni desumibili dalla sentenza n. 24 del 2004, con cui la Corte costituzionale aveva dichiarato illegittima la corrispondente disposizione del «lodo Schifani».

In questo quadro si spiega, per esempio, che sia stata oggi sancita la temporaneità dello «scudo immunitario» proposto a favore di tali soggetti, circoscrivendolo alla durata della carica, salva l'ipotesi di «nuova nomina» nel corso della stessa legislatura e nella medesima funzione; che sia stata ammessa la possibilità di rinuncia al relativo meccanismo di tutela da parte dei soggetti interessati; ed inoltre che sia stato consentito ai danneggiati dal reato di far valere le loro ragioni agendo davanti al giudice civile.
Anzi, in analoga prospettiva di attenuazione delle più vistose anomalie che una disciplina del genere potrebbe provocare rispetto alla sorte dei processi da sospendersi, si spiega altresì che sia stata di regola prevista la possibilità di acquisire prove urgenti perché «non rinviabili»; e, su un piano diverso, che sia stata correlativamente stabilita la sospensione dei termini di prescrizione.
Tutto ciò potrebbe dunque facilitare la «digeribilità», all'interno del sistema, di una disciplina che di per sé configura pur sempre un innegabile trattamento privilegiato, in chiave di temporanea immunità processuale, a vantaggio dei quattro «presidenti» posti al vertice dello Stato (a parte la non superata obiezione, proveniente ancora dalla Corte costituzionale, circa la «intrinseca irragionevolezza» della riserva di un tale privilegio soltanto ai suddetti presidenti, e non anche agli altri componenti degli organi da essi presieduti). Resta vero, tuttavia — ed il rilievo assume carattere pregiudiziale rispetto all'intero impianto della disciplina in questione — che la introduzione di un simile regime processuale differenziato in capo ai titolari delle suddette alte cariche, comporta comunque una deroga profonda al fondamentale «principio della parità di trattamento rispetto alla giurisdizione», che secondo la stessa Corte si colloca «alle origini della formazione dello Stato di diritto».

Sicché, anche ad ammettere che una deroga del genere possa accogliersi, nel quadro di un equilibrato bilanciamento dei valori in gioco, con riguardo alla esigenza di assicurare il «sereno svolgimento» delle funzioni inerenti alle medesime cariche (esigenza peraltro piuttosto vaga, e di incerta copertura a livello costituzionale), occorrerebbe in ogni caso che la relativa disciplina venisse adottata non già con legge ordinaria, ma con legge costituzionale.
E, quindi, con le particolari procedure imposte dall'articolo 138 della Costituzione.
Che si tratti, del resto, di materia tipicamente costituzionale, non possono esservi dubbi, come è dimostrato tra l'altro dalla circostanza che le particolari prerogative riconosciute al presidente della Repubblica ed al presidente del Consiglio (nonché agli altri ministri) di fronte alla giustizia penale, per i reati commessi nell'esercizio delle loro funzioni, trovano specifico fondamento nella stessa Costituzione, o in leggi costituzionali. Le quali, invece, tacciono (con ciò escludendola) rispetto ad ogni altra eventualità di deroga al principio di eguaglianza a tutela di tali soggetti.
A maggior ragione, dunque, si realizzerebbe una pericolosa forzatura, se si pensasse di disciplinare con legge ordinaria addirittura una ipotesi di sospensione dei processi per reati comuni, quindi extrafunzionali, addebitati ai «presidenti» in questione.
Ciò che, evidentemente, potrebbe giustificarsi (sotto il profilo di una pur discutibile «presunzione assoluta di legittimo impedimento», correlata alla durata della carica) non già per obiettive ragioni processuali, ma solo in rapporto allo status istituzionale rivestito dagli stessi. E pertanto si risolverebbe, in definitiva, in una prerogativa costituzionale propria dei medesimi soggetti, la cui fonte non potrebbe essere una legge ordinaria.


Vittorio Grevi
30 giugno 2008

da corriere.it


Titolo: Chi vince in campo non vince in Europa
Inserito da: Admin - Luglio 01, 2008, 03:58:15 pm
1/7/2008
 
Chi vince in campo non vince in Europa
 
 
 
 
 
ALDO RIZZO
 
Non da oggi il calcio, più di altri sport, è considerato una metafora della vita. In una stessa partita, attacco e difesa, resistenza nelle fasi grigie, ritorno d’iniziativa o rassegnazione. Ed essendo un gioco di squadra e di squadre, il calcio è anche una metafora della politica e della strategia. Un personaggio come Henry Kissinger ne è da tempo un accanito cultore: certo, per passione sportiva, ma anche, e l’ha detto, per un’occasione di analisi dei comportamenti collettivi. Allora, quali riflessioni sociopolitiche suggerisce il campionato europeo appena concluso con la vittoria della Spagna sulla Germania? Siamo su una linea di confine tra divertimento e realtà, che però vale la pena di esplorare.

Partendo da un dettaglio: in Spagna il gusto della vittoria ha avuto la meglio su antiche divisioni regionali e, almeno in Catalogna, i tifosi hanno sventolato la bandiera nazionale. E dunque (sebbene non sempre e dovunque) c’è un riflesso anche interno degli eventi sportivi. Che tuttavia è subalterno al confronto tra i diversi Paesi in competizione. E questo secondo aspetto è forse il più interessante, almeno in questo caso.

Alla partita finale sono arrivate la Spagna e la Germania. Cioè i due Paesi oggi più vitali dell’Unione europea. La Germania è la locomotiva dell’economia continentale, nonostante l’avversa congiuntura internazionale, e non nasconde più l’intenzione di recuperare un corrispettivo ruolo politico. La Spagna, con tutti i suoi secoli di storia, anche controversa, appare oggi come il membro più giovane e volitivo dell’Ue, per molti versi il più moderno, pur se tra discussioni e problemi. Addirittura, con punte a volte eccessive di entusiasmo nazionale, magari a spese di noi italiani (che tuttavia ci meritiamo la lezione...). La Germania e la Spagna sono arrivate alla finale battendo rispettivamente la Turchia e la Russia. Vale a dire i due maggiori Paesi esterni all’Unione europea, sulla quale premono in modi diversi e per il cui futuro rappresentano, diciamo, le due sfide più grandi.

La Turchia, chiedendo di esservi ammessa, con tutto il suo peso demografico e geopolitico, ma anche con tutte le sue profonde contraddizioni interne, tra Islam e laicità, non sempre democratica. La Russia, essendo ormai consapevole, superata la storia dell’Urss, di poter essere non meno influente del vecchio impero (o forse di più, per le sue valorizzate ricchezze energetiche) sulle scelte economiche e politiche dell’Europa tradizionalmente liberale. Insomma, tedeschi e spagnoli hanno difeso, per così dire, lo «statu quo», tenendo alla larga i due maggiori sfidanti e oggettivamente inducendoli a più realistiche considerazioni.

Non varchiamo il confine tra divertimento e realtà. Lo sport è una cosa, la politica un’altra. Ma lo sport in generale, e il calcio in particolare, hanno spesso superato i limiti del terreno di gara per diventare simboli d’una situazione più ampia e complessa. Hanno fotografato (casualmente, inconsapevolmente, ma anche per un intreccio insondabile di fattori psicologici, di energia fisica, e persino di fattori storici, di «ambiente» storico) un quadro di rapporti di forza presenti e di problemi futuri per intere società e nazioni.

Potrebbe essere accaduto anche in questi campionati europei, nei quali i due Paesi intrinsecamente oggi più saldi e coesi hanno fornito un’immagine vincente all’Unione europea, fermo restando che poi con Turchia e Russia bisognerà discutere, in amicizia, su problemi specifici. Ovviamente, tedeschi e spagnoli si son giocati la gara decisiva tra loro. E anche questa è una lezione, o un’indicazione politica. Anche nelle partite in famiglia, alla fine, c’è uno che vince e uno che perde. Questa volta ha vinto la Spagna. Meritatamente.


da corriere.it


Titolo: Siamo in guerra e Prodi non l'ha detto? La Russa dice di si...
Inserito da: Admin - Luglio 02, 2008, 12:41:46 am
Il ministro della Difesa in visita a Kabul parla della zona di Farah

La Russa: «I soldati italiani combattono da un anno: Prodi e i giornali zitti»

«L'avrei fatto anch'io al loro posto. Grazie a Dio non abbiamo subito lutti e sofferenze»

 

KABUL - I soldati italiani sono coinvolti già da un anno in combattimenti contro i talebani nella zona di Farah, ma né i giornali né il governo Prodi l'hanno reso noto. La rivelazione è del ministro della Difesa Ignazio La Russa, in visita in Afghanistan, a margine dell'annunciato dell'incremento delle forze italiane nell'area di Farah.

ZITTI - «I nostri militari combattono da un anno, ma sui giornali italiani non se ne parlava», ha detto il ministro a Kabul dopo aver visitato Herat e Farah. «Il governo Prodi ha tenuto giustamente questa informazione riservata. Lo avrei fatto anch'io al suo posto. Ora però possiamo confermare che i nostri militari hanno partecipato ad azioni anche di combattimento, hanno salvato vite umane di militari appartenenti ad altri contingenti e neutralizzato attentati. Si tratta di compiti pericolosi e ringrazio Dio che non abbiamo subito lutti e sofferenze», ha aggiunto La Russa.

RINFORZI - Finora la presenza delle truppe italiane a Farah - circa 200 uomini, un centinaio delle forze speciali appartenenti all'Esercito e all'Aeronautica e alla Marina e due plotoni di fucilieri della brigata Friuli - non era stata ufficializzata, nonostante diverse indiscrezioni di stampa. La Russa ha sottolineato che «non è che improvvisamente siamo diventati guerrafondai: è che prima non si diceva». Dall'inizio di agosto, quando l'Italia lascerà ai francesi il comando della regione centrale, circa 500 militari e tre elicotteri verranno riposizionati nella zona di Farah, dove ci sono rischi di infiltrazione di ribelli da sud. L'incremento delle forze italiane in quell'area sarà a regime entro novembre. In Afghanistan potrebbero essere impegnati anche istruttori della Guardia di finanza. L'ipotesi, lanciata dal presidente afghano Karzai, «dovrà essere vagliata dal governo e dal ministro competente», ha detto La Russa. «Un nucleo di Fiamme Gialle potrebbe essere impegnato nella lotta alla corruzione finanziaria incrementando così il ruolo formativo che già oggi alcuni finanzieri svolgono sul versante dei controlli doganali». A Kabul sono giunti i primi dei circa 40 carabinieri che avranno il compito di addestrare la polizia afghana.


01 luglio 2008

da corriere.it


Titolo: Afghanistan, La Russa: a novembre 500 soldati in guerra
Inserito da: Admin - Luglio 02, 2008, 12:42:46 am
Afghanistan, La Russa: a novembre 500 soldati in guerra


Nonostante l’articolo 11 della Costituzione e il mandato della missione italiana in Afghanistan, il governo Berlusconi vuole fare la guerra. E il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, ha già messo l’elmetto ed è partito per il fronte. In un incontro a Herat, presso il comando italiano, tra il ministro e il comandante del contingente italiano, il generale Francesco Arena, è stato l’occasione per rompere gli indugi e partire per spezzare la schiena ai talebani. Visto che i militari statunitensi, inglesi e tutti gli altri della coalizione non riescono a contenere i nemici, La Russa ha annunciato che a novembre invierà a salvarli ben 500 soldati italiani, che saranno trasferiti nel sud dell'Afghanistan, a Farah, uno dei posti più caldi del Paese.

I rinforzi destinati al fronte, assicura La Russa, non faranno aumentare il numero degli italiani impegnati in Afghanistan perché alla fine di agosto l'Italia lascerà il comando della capitale Kabul ai francesi e quindi saranno «liberati» ben ottocento uomini: trecento rientreranno in Italia e cinquecento verranno utilizzati per rinforzare il contingente nel sud, dove l’Italia però non c’era finora, visto che gli italiani sono di stanza solo a Kabul e Herat. L'operazione sarà conclusa entro il prossimo novembre.

Per dar forza al suo proclama, La Russa ha sentenziato che il comando italiano di Herat controlla un territorio grande quasi quanto l'Italia, ma può disporre della meta degli uomini normalmente destinati al derby Roma-Lazio. Forse è un preludio a qualche altra iniziativa del governo Berlusconi: sarebbe bello, nei sogni del ministro della Guerra, magari aumentare il contingente italiano in Afghanistan. Nell’attesa, La Russa ha proclamato l’assoluta necessità di aumentare il numero degli elicotteri. «Sarebbe necessario avere molti più elicotteri - ha detto La Russa - innanzitutto per migliorare gli spostamenti e anche per superare il problema delle tante mine disseminate sul terreno».

Ad Herat è arrivato, intanto, un altro elicottero Mangusta mentre una compagnia di fucilieri della Brigata Friuli sono stati inviati a Delaram, nel punto più lontano della regione controllata dai militari italiani proprio per evitare che gli insorti possano arrivare da quella parte. La Russa ha inoltre sottolineato la sua intenzione di soddisfare la richiesta tedesca di inviare quattro aerei tornado in Afghanistan con compiti di ricognizione. Così, La Russa ha disteso tutte le pedine del suo risiko. Poi, si è ricordato che non è un gioco e si è ricordato che l’Italia è una democrazia. «Certo, è una decisione impegnativa dal punto di vista economico - ha aggiunto -, e deve essere presa dal Governo».

Pubblicato il: 01.07.08
Modificato il: 01.07.08 alle ore 17.30   
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Titolo: CARLO FEDERICO GROSSO La carta e la prassi
Inserito da: Admin - Luglio 02, 2008, 04:39:46 pm
2/7/2008
 
La carta e la prassi
 

 
CARLO FEDERICO GROSSO
 
C’ è nuova tempesta attorno alla pretesa del Consiglio Superiore della magistratura di esprimere un parere sulla norma che sospende automaticamente per un anno un gran numero di processi penali, già approvata dal Senato ed in corso di approvazione dalla Camera.

La questione avrebbe costituito oggetto di un colloquio riservato fra i presidenti dei due rami del Parlamento ed il Capo dello Stato.
Si è temuto, scrivevano ieri i giornali, un conflitto fra poteri dello Stato, poiché i due presidenti avrebbero avuto intenzione di rispedire al mittente il documento dei magistrati, giudicandolo manifestazione impropria in quanto esorbitante dall’ambito delle specifiche competenze del Csm.

La controversia sulle competenze di quest’ultimo organo è risalente nel tempo. Se ne è discusso moltissime volte. Il problema è già stato al centro, in passato, di polemiche roventi e di iniziative eclatanti. Sul punto vi sono stati addirittura, talvolta, momenti aspri di tensione fra il Consiglio ed il suo Presidente.

Da un lato vi è chi sostiene che il Csm è legittimato a svolgere soltanto le attività espressamente riconosciute dalla Costituzione, a decidere cioè «le assunzioni, le assegnazioni, i trasferimenti, le promozioni ed i provvedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati». Dall’altro vi è chi afferma che al Consiglio, in quanto organo di autogoverno della magistratura, competono funzioni più ampie, di tipo sostanzialmente politico. Esprimere pareri al governo sulle iniziative legislative concernenti la giustizia, ergersi a difesa di singoli magistrati o della magistratura nel suo insieme quando sono sotto attacco, ragionare sul funzionamento della giustizia e fare proposte organizzative o legislative per il suo miglior funzionamento.

La lettera della Costituzione sembrerebbe orientare nella prima direzione. La ragion d’essere dell’istituzione del Csm come espressione, non solo simbolica, dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura ha portato a riconoscere invece, progressivamente, all’organo di autogoverno dei magistrati poteri più ampi di quelli amministrativi e disciplinari. Una prassi pluriennale di azioni e comportamenti ha radicato, nei fatti, questa interpretazione estensiva. Oggi, si può dire, essa costituisce espressione di diritto vivente difficilmente contestabile.

In questa prospettiva la lettera inviata ieri al Csm dal presidente Napolitano costituisce autorevolissimo avallo di quanto appare giuridicamente indiscutibile. «Non può costituire sorpresa o scandalo - scrive infatti in modo ineccepibile il Capo dello Stato - la circostanza che il Csm formuli un parere diretto al ministro della Giustizia su di un progetto di legge di notevole incidenza su materie di interesse del Csm stesso»; si tratta, infatti, di «una facoltà attribuitagli espressamente dalla legge», il cui esercizio «è consolidato da una costante prassi interpretativa» e sicuramente «non interferisce con le funzioni proprie ed esclusive del Parlamento». Tanto più, si può soggiungere, che il parere espresso non ha natura vincolante per nessuno, meno che mai per il Parlamento.

Davvero, peraltro, il Csm non è legittimato a dare pareri che non gli siano stati esplicitamente richiesti dal guardasigilli e non è autorizzato ad esprimersi sulla legittimità costituzionale di una legge, poiché, così facendo, usurperebbe funzioni che sono proprie di altro organo di garanzia? Il Capo dello Stato, nella sua lettera, ha affermato, con l’autorevolezza dell’alta carica rivestita, che il Csm non potrebbe farlo perché il sindacato di legittimità competerebbe appunto, in via esclusiva, alla Corte Costituzionale.

L’illegittimità costituzionale della norma che sospende automaticamente i processi penali è stata denunciata, nei giorni scorsi, da alcuni fra i più importanti giuristi italiani. Ricordo, per tutti, l’ex presidente della Corte Costituzionale Valerio Onida. Perché, allora, ciò che costituisce principio enunciato da singoli giuristi non può essere rilevato, allo stesso modo, da un consesso di esperti riuniti nell’istituzione deputata ad esprimere ufficialmente pareri non vincolanti sui disegni di legge concernenti i temi della giustizia? Perché, ha ragionato il Capo dello Stato, un’istituzione pubblica non ha titolo per sovrapporre la sua valutazione a quella che una diversa articolazione dello Stato è specificamente delegata a compiere.

L’opinione così autorevolmente espressa merita ovviamente la massima attenzione. Probabilmente essa non mancherà, tuttavia, di suscitare fra i giuristi qualche discussione.

C’è peraltro un ulteriore profilo che induce a riflettere. Poiché, come ho detto, i pareri del Csm, meramente consultivi, non vincolano nessuno, quando ero vicepresidente di tale organo mi sono più volte domandato se il lavoro speso nella loro stesura avesse una qualche utilità, perché, pensavo, difficilmente essi sarebbero stati condivisi e seguiti dagli organi chiamati a decidere. Perché allora, nei giorni scorsi, tanta acrimonia, tanta polemica, da parte dell’attuale maggioranza politica nel denunciare l’asserito straripamento di poteri? Il dubbio è che, enfatizzando un problema inesistente, si sia inteso, in realtà, porre le premesse per un ridimensionamento della stessa istituzione. In questa prospettiva l’intervento del Capo dello Stato, al di là della sua portata giuridica, avrebbe, principalmente, un forte significato politico. Sarebbe il tentativo di salvare, comunque, il salvabile.

da lastampa.it


Titolo: Nando Dalla Chiesa - Pina Maisano Grassi - Lettera da due fratelli di sangue
Inserito da: Admin - Luglio 05, 2008, 09:46:35 am
Lettera da due fratelli di sangue

Nando Dalla Chiesa - Pina Maisano Grassi


Gentile Magistrato,

ci rivolgiamo a Lei senza conoscere, e in fondo senza volere conoscere, il Suo nome. Non sappiamo d’altronde neanche a chi queste righe debbano essere più propriamente indirizzate: se ai Magistrati della Corte di Cassazione che hanno prodotto giurisprudenza in materia o al Magistrato del Tribunale di Sorveglianza che tale giurisprudenza ha scrupolosamente applicato.

Una cosa sappiamo con certezza: che un noto esponente del clan mafioso dei Madonia - uno dei più feroci - è stato sottratto al regime del carcere duro per la ragione che non risulterebbero più «attuali» i suoi rapporti con Cosa Nostra. E si capisce. Che motivo vi sarebbe di imporre un regime detentivo più severo a chi, provatamente, non intrattiene più rapporti significativi con l’organizzazione criminale da cui proviene? Vede, gentile Magistrato, l’idea di sottoporre i mafiosi a un regime carcerario particolare, come già era stato fatto - e con successo - con i terroristi, divenne specifica norma di legge sulla spinta di due Suoi colleghi di una certa competenza ed esperienza, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Più esattamente sulla spinta delle due distinte stragi con cui la mafia, forse non da sola, decise di fermarli. I Suoi colleghi, infatti, si erano convinti che i capi mafiosi usassero il carcere come luogo da cui continuare a pieno titolo, e talora con maggior prestigio, l’esercizio del comando, attività tanto più rispettata e consentita dal resto dell’organizzazione quanto più i capi stessi potessero esibire una certa benevolenza della magistratura e delle istituzioni verso di loro.

Intervenendo sul regime detentivo, pensavano sempre i Suoi colleghi, i mafiosi sarebbero stati neutralizzati, emarginati, messi nella condizione di non fungere più da punti di riferimento per le trame e gli affari criminali, perfino spogliati del loro carisma e prestigio. E gli affari stessi ne sarebbero risultati ostacolati, sia pure temporaneamente rallentati o spezzati, dando luogo a sbandamenti, incertezze e faticose ricostruzioni delle gerarchie mafiose. Insomma, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino caldeggiavano questo provvedimento per colpire alla radice lo storico, «felice», eversivo rapporto tra mafia e carcere.

Lei invece ha ragionato in modo diverso. Lei ha ritenuto che se il carcere duro funziona, ossia interrompe i rapporti del mafioso con la sua organizzazione, ebbene questo debba avere come conseguenza la soppressione dello stesso regime di carcere duro. Ovvero: siccome funziona, lo aboliamo. Sappiamo come lei argomenta: dobbiamo farlo, perché non risultano più «attuali» i rapporti del soggetto criminale con la mafia. E lo sostiene anche se i magistrati di Palermo insistono nel sottoporre alla Sua attenzione gli effetti devastanti di una simile valutazione.

In fondo la sua logica, apparentemente fantastica, parmenidea, disvela un nucleo di razionalità insuperabile. Sicché proviamo perfino una punta di ammirazione davanti a un tale costrutto aristotelico, a tanta perfezione cartesiana. C’è davvero nel Suo provvedimento una razionalità che ci affascina e conquista. Che evoca in noi la celebre immagine del domatore di pulci il quale, dopo avere tagliato le zampette alla pulce preferita e dopo averle inutilmente ordinato di saltare, annotò con qualche eccitazione «è scientificamente provato che con il taglio delle zampe le pulci perdono l’udito».

Forse Lei si chiederà come mai questa lettera aperta - e dal destinatario incerto - Le arrivi a doppia firma. E proprio con queste due firme. Semplicemente, ieri mattina ci siamo sentiti dopo avere appreso le prime contraddittorie notizie di stampa sulla Sua decisione. Per chiederci se il boss con tanta e rotonda razionalità sottratto al regime del carcere duro, fosse quel Madonia che ha ucciso il prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa oppure quel Madonia che ha ucciso l’imprenditore Libero Grassi (sa, questi sono clan numerosi, e per di più uccidono a grappoli...). Finché abbiamo concluso, da «fratelli di sangue» quali siamo, che non ce ne importa niente di saperlo. Che quanto è accaduto, quel che Lei ha deciso, ci basta per farci rimpiangere, una volta di più, il prefetto e l’imprenditore. Per accarezzare, dentro di noi, l’idea che essi avevano delle istituzioni, delle leggi e dei loro doveri. Per ricordare quei due Suoi colleghi (di toga, anche se non di modi di pensare) che pagarono anche questa idea, per Lei assurda, del carcere duro per i mafiosi; convinti com’erano che dalla mafia si uscisse solo o con la morte o sposando la giustizia dello Stato. Abbiamo pure immaginato, nella nostra telefonata, che il potere politico, sempre così sfrontatamente invasivo verso l’amministrazione della giustizia, stavolta rispetterà scrupolosamente la divisione dei poteri, cardine e fondamento (come sappiamo) di ogni democrazia.

Grazie, gentile Magistrato, per averci restituito d’un colpo, con la Sua «lectio magistralis» di logica giuridica, il senso delle geometrie e delle distanze che separano gli uomini e i loro mondi etico-affettivi. Le assicuriamo che, ogni tanto, questi richiami alla realtà fanno bene anche a noi.

Pubblicato il: 04.07.08
Modificato il: 04.07.08 alle ore 13.17   
© l'Unità.


Titolo: Tutto pronto per l'8 luglio
Inserito da: Admin - Luglio 05, 2008, 05:07:40 pm
Beppe Grillo parteciperà in videoconferenza. Marco Travaglio sul palco

Parisi in piazza, Grillo in video

Tutto pronto per l'8 luglio

Martedì la manifestazione anti-premier in Piazza Navona. I promotori: «Tante adesioni da sezioni del Pd»

 
Beppe Grillo sul palco del V2-Day in piazza San Carlo a Torino (Ansa)
ROMA - Ci saranno politici e personaggi dello spettacolo alla manifestazione anti-premier in programma a Piazza Navona. Tutti in piazza per protestare contro i provvedimenti in materia di giustizia e intercettazioni del governo Berlusconi. Senza essere afflitti dal «complesso di piazza San Giovanni» cioè dall'ansia di portare un milione di persone. L'appuntamento è per l'8 luglio alle 18 e i promotori dell'iniziativa, il direttore di Micromega, Paolo Flores D'Arcais, Pancho Pardi, Furio Colombo e Antonio Di Pietro (leader dell'Idv, unico partito presente in Parlamento ad aver aderito) hanno spiegato in una conferenza stampa a Montecitorio che alla manifestazione ci sarà anche tanta gente del Partito democratico nonostante il vertice del partito abbia deciso di non aderire. «Stanno arrivando tante adesioni di sezioni del Pd, anche da altre città. Tanta gente autorganizzata, al punto che non siamo assolutamente in grado di fare previsioni sull’affluenza».

GRILLO IN VIDEOCONFERENZA - La manifestazione di Piazza Navona serve a difendere una «giustizia indipendente e un'informazione libera», spiega Di Pietro. L'elenco delle adesioni lo fa Flores: sul palco si alterneranno Marco Travaglio, Sabina Guzzanti, Ascanio Celestini, Andrea Camilleri, Rita Borsellino, Moni Ovadia, Lidia Ravera e Arturo Parisi. A causa di impegni lontani da Roma, non sarà presente Beppe Grillo che però interverrà in videoconferenza. «Ci sarà anche il professor Alexian Spinelli, rappresentante del popolo Rom, e molti militanti del Pd - sostiene Flores - che si stanno organizzando per essere presenti. Oltre a semplici cittadini».

SLOGAN - Tre gli slogan scelti: «L'articolo 3 della Costituzione - spiega ancora Flores - che parla dell'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge; poi, secondo slogan, la scritta che campeggia in tutti i tribunali, "la legge è uguale per tutti". Infine, il terzo: la frase di una sentenza della Corte Suprema degli Stati uniti del 1972 che sembra scritta per l'Italia di oggi». A citarla è Furio Colombo: «Nessun governo potrà censurare la libertà di stampa affinchè la stampa sia libera di censurare i governi».

NUMERI - Su quanti saranno in piazza martedì prossimo, Pardi sottolinea: «Non abbiamo il complesso di piazza San Giovanni. Anche se non ci saranno un milione di persone l'importante è esserci e lanciare un messaggio. Questa è un'iniziativa civile che punta a riaprire un nuovo ciclo» a dimostrare anche che «piazza e riformismo vanno perfettamente d'accordo. La sensazione - conclude - è che può ricominciare un nuovo cammino». Di Pietro spiega che «non ci sarà nessuna conta» e che l'opposizione è unita. Sulle presunte divisioni con il Pd, che non ha aderito lanciando invece la proposta di una manifestazione per autunno, l'esponente del Pd, Colombo, aggiunge: «È impossibile immaginare che io possa averlo fatto contro il Pd. Sono un fondatore di quel partito dopo essere stato tutta la vita estraneo ai partiti o al massimo ospite. È perfettamente legittimo manifestare in autunno, e io ci sarò, ma non contraddice l'importanza di incontrare i cittadini in questo momento».


04 luglio 2008

da corriere.it


Titolo: Oreste Pivetta. Macelleria messicana
Inserito da: Admin - Luglio 05, 2008, 05:14:55 pm
Macelleria messicana

Oreste Pivetta


La definizione del pubblico ministero, ad apertura di requisitoria, ieri, è stata: «Un massacro». Al grido: «Adesso vi finiamo, bastardi. Morirete tutti!». «Macelleria messicana» aveva già spiegato un funzionario di polizia.

Esattamente un anno fa, Michelangelo Fournier, all’epoca vice questore aggiunto del primo Reparto Mobile di Roma, aveva raccontato così: «Arrivato al primo piano dell'istituto ho trovato in atto delle colluttazioni. Quattro poliziotti, due con cintura bianca e gli altri in borghese stavano infierendo su manifestanti inermi a terra. Sembrava una macelleria messicana. Sono rimasto terrorizzato e basito quando ho visto a terra una ragazza con la testa rotta in una pozza di sangue. Pensavo addirittura che stesse morendo. Fu a quel punto che gridai: “basta basta” e cacciai via i poliziotti che picchiavano. Intorno alla ragazza per terra c’erano dei grumi che sul momento mi sembrarono materia cerebrale. Ho ordinato per radio ai miei uomini di uscire subito dalla scuola e di chiamare le ambulanze». Le macchie di sangue sulle parenti o sul pavimento della palestra, le ciocche di capelli strappate sui gradini tra il primo e il secondo piano le ricordiamo anche noi.

Come sia andata, sette anni fa, durante la notte dell’irruzione nella scuola Diaz a Genova, come sia andata nei giorni del G8, nelle ore e nei giorni prima e dopo la morte di Carletto Giuliani, non è un mistero e non lo è mai stato. Un massacro, una macelleria, una violenza assurda contro i manifestanti, una violenza di cui si era persa traccia, almeno da decenni, almeno in Italia. Di fronte a tanti, vittime e testimoni, migliaia di testimoni. In quegli stessi giorni cominciò l’innarrestabile e assai rozza corsa alla falsificazione e alla mistificazione, a sminuire, a rimpicciolire. Cominciò sui tavoli di una caserma dei carabinieri imbandita di magliette nere (quelle dei black blok), di assi e di chiodi da carpentieri (quelli raccolti nel cantiere che era la scuola in restauro proprio appresso alla Diaz), di bottiglie incendiarie confezionate per la mostra ad uso dei cronisti. Continuò oscurando responsabilità o indicando colpevoli che non avrebbero avuto nulla da dire, come il prefetto Arnaldo La Barbera, nel frattempo deceduto, o come il prefetto Ansoino Andreassi, teste giudicato “inattendibile” per la semplice ragione che s’era sempre schierato contro l’intervento alla Diaz... Gli altri erano “buoni”, invece, per la semplice ragione che s’erano presentati davanti ai magistrati dopo aver studiato verbali, dopo aver aggiornato e concordato versioni, dopo aver dimenticato quello che andava dimenticato. La procura, nella richiesta di rinvio a giudizio per Gianni De Gennaro, l’ultimo commissario all’immondizia napoletana, prima dell’arrivo (o del ritorno) di Bertolaso, scrisse chiaro: «L’operazione è stata semplice. Si è trattato di eliminare gli accenti sui ruoli di responsabilità degli imputati». Ma non si può occultare e mistificare all’infinito. Che il capo della polizia qualche colpa l’avesse avuta nella gestione dei giorni terribili di Genova sarebbe apparso a chiunque inevitabile. Ma una volta, davanti ai parlamentari, De Gennaro ebbe la sfrontatezza di negare tutto: non so nulla, disse. Come sarebbe stato possibile: il capo della polizia che non sa nulla della Diaz e del resto, di piazze e di strade, di una gestione dell’ordine pubblica che si dovrebbe definire folle, se non si sapesse che i folli non esistono, mentre si sa dell’esistenza ai vertici della polizia di gente istruita di tattiche militari, che sa pensare e riflettere, di lunga esperienza.

Ancora, sette anni dopo, si chiede di “fare luce”. È urgente, dice l’onorevole Melandri, arrivare rapidamente ad accertare le responsabilità di coloro che parteciparono o rivestirono un ruolo nell'irruzione nella scuola Diaz. È uno scandalo che si debba ancora chiedere chi comandava, chi decideva, chi partecipava. Chi organizzava, secondo un piano, non certo sospinto dagli ipotetici furori della “piazza”, l’assalto alla Diaz, di nottetempo, o i pestaggi della caserma Bolzaneto, ore e ore dopo.

Ma la curiosità dovrebbe riguardare anche chi ispirò e chi alla lontana consentì quell’improvviso incrudelirsi dei comportamenti, chi diede licenza al peggio, a un ripiegare in atteggiamenti che non sarebbero dispiaciuti a Videla o a Pinochet.

Il G8 e la sua gestione furono le prime prove del nuovo governo Berlusconi, del nuovo centrodestra, di una cultura.
Castelli, allora ministro della Giustizia (dal cui ministero dipendeva la polizia penitenziaria vista all’opera a Bolzaneto) disse che le violenze viste anche in tv e quelle denunciate erano tutte favole. Ammise soltanto al più episodi isolati o fatti «equivocati dagli imputati». Rimanere in piedi otto ore di fila, le botte o altro di peggio erano solo un equivoco. Del resto, spiegò l’allora ministro, anche i metalmeccanici restano i piedi otto ore di fila. Castelli dimostrò per tutti che non esisteva voglia di capire, di chiarire: altro che rispetto istituzionale e costituzionale o semplicemente rispetto “umano”. Quella affidata a Castelli fu la risposta della politica. Gli altri si accodarono. Per il futuro potrebbe provvedere la norma blocca processi, che, se ci sarà,bloccherà anche Genova e la Diaz.

Pubblicato il: 05.07.08
Modificato il: 05.07.08 alle ore 15.27   
© l'Unità.


Titolo: Girotondo in piazza Navona: chi va e chi no
Inserito da: Admin - Luglio 08, 2008, 10:07:00 am
Girotondo in piazza Navona: chi va e chi no


La manifestazione di martedì (ore 18, piazza Navona, Roma) è stata indetta ufficialmente da Micromega e dal suo direttore Paolo Flores D'Arcais assieme ai parlamentari Pancho Pardi (Idv) e Furio Colombo (Pd) contro le leggi-canaglia del governo Berlusconi: emendamento salva-premier, legge bavaglio contro le intercettazioni e lodo Alfano.

Ha subito aderito Antonio Di Pietro e tutto il partito dell'Italia dei Valori. Parteciperà anche Sinistra Democratica, il Partito comunista dei lavoratori di Ferrando, l'ex ministro Paolo Ferrero ha annunciato la partecipazione sua e degli aderenti alla sua mozione congressuale di Rifondazione comunista, molti dei Verdi a partire dall'ex capogruppo Angelo Bonelli e dei Comunisti italiani con Manuela Palermi.

Non parteciperà invece il Pd che invece organizzerà una grande manifestazione in autunno contro la politica del governo. No alla partecipazione anche dai Radicali, dalla Cgil (per bocca di Epifani) e dai Socialisti.

A titolo personale parteciperà l'ex ministro Arturo Parisi che spiega: «Veltroni non è il bersaglio della manifestazione di domani, ma il vuoto di democrazia».

Molte le adesioni della società civile: Umberto Eco (che però non potrà essere in piazza), Sabina Guzzanti, Andrea Camilleri, Ascanio Celestini, Revelli, Don Gallo. Oliviero Beha, Oliviero Beha, Lidia Ravera, Lucio Gallino, Dacia Maraini, Gianni Vattimo, Moni Ovaia, Margherita Hack, Nicola Tranfaglia, Giorgio Cremaschi, Pier Giorgio Opifreddi.

Dal palco, oltre ai tre promotori, prenderanno la parola anche Rita Borsellino, capogruppo dell'opposizione all'Assemblea regionale siciliana, Camilleri, che leggerà alcune poesie, Marco Travaglio, lo scrittore e attore Moni Ovaia.

Anche l' Arci per bocca del suo presidente Paolo Beni ha informalmente dichiarato al senatore Pardi che sosterrà la manifestazione, e si attende un comunicato ufficiale nei prossimi giorni.


Pubblicato il: 07.07.08
Modificato il: 07.07.08 alle ore 21.56   
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Titolo: Avevo ragione... brutto dirlo ma è così.
Inserito da: Admin - Luglio 08, 2008, 10:08:30 am
Chiamparino: senza federalismo la Lega è una mina vagante

Maria Zegarelli


La Lega è all’ultima chiamata d’appello. Se anche stavolta chiude il bilancio di governo senza aver portato a casa il federalismo, allora il crollo dei consensi sarà inevitabile. È questa la falla che potrebbe aprirsi nella grande famiglia della maggioranza. Sergio Chiamparino, sindaco di Torino ne è convinto. Come è convinto, guardando all’opposizione, che l’appuntamento di domani in piazza Navona, per la manifestazione convocata da Micromega e Idv, sia una sorta di «esorcismo». «È un rito per i media, mi fa venire in mente la moviola, che la si guarda per capire se c’era il rigore oppure no».

Lei come Veltroni, crede che il governo non arriverà a fine legislatura?
«Non so se durerà cinque anni, ma un problema c’è. La Lega aveva raggiunto consensi maggiori di quelli attuali agli inizi degli anni Novanta e poi si è ridotta al 3% perché non ha ottenuto nulla di strutturale delle cose che sono immanenti al suo essere partito, cioè il federalismo. Il risultato è quello che io definisco “la Lega di Borghezio”. Adesso ha ottenuto un consenso popolare importante, ma la parabola può essere la stessa di allora. Con i militari nelle città e le sparate sulla clandestinità potrà durare ancora poco. Credo ci siano fondati elementi deducibili dalla storia di questi anni per ritenere che la Lega se nel giro poco tempo non ottiene qualcosa rischia di ritornare a identificarsi con i Borghezio e questo può innescare il problema vero nel governo».

È lo stesso motivo per cui la Lega è la più interessata a riaprire il dialogo con il Pd. Ci sono margini?
«La Lega ha interesse a puntare sul federalismo fiscale e istituzionale e qui può esserci una coincidenza anche con il nostro interesse perché, o noi siamo in grado di rilanciare e gestire una strategia di forte ammodernamento dello Stato e della Pubblica amministrazione, o rischiamo che una delle ragioni istitutive del Pd evapori. Questo non vuol dire andare d’accordo per forza con Bossi, perché se il federalismo egoistico proclamato dalla Lega non si piega a un’idea di federalismo moderno che rafforzi l’unità del Paese e rilanci la stessa economia non c’è possibilità di incontro. Questo è un paese che ha bisogno di modernizzarsi, la pubblica Amministrazione deve essere efficienti e i cittadini devono tornare a sentire le istituzioni vicine».

A proposito di intese. Che ne pensa del «Lodo Calderoli»?
«Credo che siano tutti temi su cui si possa discutere, a cominciare dalla giustizia, ma nulla di queste materie può essere oggetto di un decreto legge. Sono temi delicati che hanno bisogno di tempi e modi di discussione adeguati».

Ma il tempo è l’unico lusso che il premier non può permettersi. Crede davvero che accetterà una via diversa dal decreto?
«La questione dei tempi è oggettivamente insormontabile, perché non si può pensare di introdurre l’indennità per le quattro alte cariche dello Stato - anche se personalmente la introdurrei soltanto per il Presidente della Repubblica - con un decreto. Ma è evidente che ci troviamo di fronte alla necessità del premier di fermare un processo a suo carico».

Da un sondaggio di Mannheimer emerge un aumento di credito verso il premier e un calo di fiducia nei magistrati. Gli italiani sono diventati indifferenti?
«Questo non mi stupisce affatto. Se c’è una cosa che l’italiano non ha in cima ai propri pensieri è proprio il rispetto delle regole. Questa è una delle ragioni che storicamente ci trasciniamo dietro, ma il discorso sul tema sarebbe lungo. Forse per qualcuno Berlusconi contrapposto ai giudici diventa persino più simpatico. D’altro canto ci sono sondaggi che rivelano che il consenso verso il premier è in calo. Forse in una parte dell’elettorato sta riprendendo piede l’idea che Berlusconi stia governando per risolvere i fatti suoi e non quelli del Paese. Per quanto riguarda il trend sui giudici credo che sia un problema che riguarda la giustizia in generale. Per questo si deve aprire una discussione seria al riguardo. Ma per rendere possibile un confronto tra maggioranza e opposizione è necessario che tolgano di mezzo questo macigno del premier che antepone i suoi interessi personali a tutto il resto. Solo in questo modo cambia il clima politico».

Ieri il premier ha parlato di fascismo e centrosinistra giustizialista. Che replica?
«Che ha un’idea della storia un po’ vaga. Non mi risulta che l’avvento del fascismo sia stato favorito da una sinistra giustizialista. Chiederei un supplemento di istruttoria storica al premier. Quanto al giustizialismo: chiedere che non si faccia la riforma della giustizia partendo dai problemi del primo ministro vuol dire essere giustizialisti?»

Veltroni ha detto ai parlamentari che si deve tornare a parlare al Paese partendo dai temi economici e sociali. Siamo ad un giro di boa?
«Ha ragione Veltroni. Quelle sono le ragioni per cui si va in piazza e si organizza una grande mobilitazione. Quello dell’economia è il tema chiave: la nostra è un’economia bloccata ed è stimata a crescere nei prossimi anni un po’ sopra l’1% solo dal 2011, a un tasso più basso della media europea. Crescono, invecre, i tassi di inflazione. Se continua così siamo destinati ad andare incontro ad un impoverimento generale del Paese. La vera sfida è quella di tornare a far crescere l’Italia, perché se un’economia non cresce, sarò vetere-marxista, non si pone neanche il problema di redistribuzione del reddito o del miglioramento del sistema sociale».


Pubblicato il: 07.07.08
Modificato il: 07.07.08 alle ore 8.21   
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Titolo: Pd, via a "Salva l'Italia"
Inserito da: Admin - Luglio 08, 2008, 10:23:22 am
POLITICA


Dal prossimo fine settimana la petizione lanciata del partito democratico

Contro le leggi ad personam, ma anche su salari, pensioni, scuola e sanità

Pd, via a "Salva l'Italia"

Obiettivo 5 milioni di firme



 ROMA - Alla vigilia della manifestazione di piazza Navona il Pd lancia "Salva l'Italia!", la petizione che il partito di Walter Veltroni ha promosso e che partirà dal prossimo fine settimana per concludersi il 25 ottobre, in occasione della manifestazione nazionale indetta dal partito. Una raccolta di firme che ha al centro due questioni: la difesa delle regole democratiche contro le forzature e le leggi sbagliate del governo; la lotta per far ripartire l'Italia, cominciando da stipendi e pensioni. Tra i primi firmatari, giuristi come Barbera, Mancina, Elia, economisti e protagonisti del mondo del lavoro come Ruffolo, Sangalli, Colaninno, Messori, Ichino, Baretta, Musi.

Stretto tra le polemiche con il governo da una parte e dall'attivismo di Antonio Di Pietro, il Pd prova così a trovare una via d'uscita. Cercando un modo di fare opposizione che non metta l'antiberlusconismo puro e semplice al centro dell'azione. "Nessun ritorno al passato" ripete Veltroni. Si parte così dalla raccolta delle firme per arrivare alla manifestazione che si terrà in autunno.

"Salvare l'Italia, non il premier", è il titolo della parte istituzionale. Il Pd indica "problemi e provvedimenti presi a difesa degli interessi privati del presidente del Consiglio e non certo per aumentare la sicurezza. La maggioranza, che ha puntato in campagna elettorale sul tema della sicurezza, oggi taglia drasticamente fondi e uomini e gioca tutto su provvedimenti demagogici e sbagliati, come la raccolta delle impronte dei bambini rom o il reato di immigrazione clandestina". E ancora: "Leggi ad personam e un sostanziale 'azzeramento' del dibattito parlamentare su una manovra economica improvvisata: questa la miscela avvelenata proposta dal governo e che la petizione vuole battere e fermare".

Ma nella petizione c'è spazio anche per l'emergenza sociale. Si sottolinea "l'incapacità del governo di affrontare i problemi della crisi economica, dell'impoverimento e del reddito di chi vive di salari e pensioni e non arriva più alla fine del mese. Una situazione che il governo ignora, mentre le promesse elettorali vengono clamorosamente smentite. Le tasse, che si diceva di voler abbassare al 40 per cento, cresceranno e resteranno per tutta la legislatura al 42,9 per cento. Mentre per i redditi bassi si inventa la 'carta' per fare la spesa, finanziata soltanto per il 2008 e con 200 milioni, ovvero due euro al mese per ciascun anziano con pensione inferiore ai mille euro al mese".

Ecco le prime firme: Pietro Ichino, Giancarlo Sangalli, Paolo Nerozzi, Pierpaolo Baretta, Adriano Musi, Giorgio Ruffolo, Achille Passoni, Matteo Colaninno, Annarita Fioroni, Francesco Silva, Claudio De Vincenti, Salvatore Brigantini, Marcello Messori, Franco Bassanini, Massimo Brutti, Leopoldo Elia, Carlo Galli, Carlo Fusaro, Claudia Mancina, Augusto Barbera.

(7 luglio 2008)


da repubblica.it


Titolo: Una scorciatoia per An
Inserito da: Admin - Luglio 08, 2008, 10:24:17 am

Una scorciatoia per An

Fini sta lavorando per portare An nel Partito popolare europeo. Un percorso che passa da Strasburgo e che può rivelarsi più difficile del previsto  Gianfranco FiniPassa per Strasburgo la strada che porterà An fin dentro al Partito popolare europeo, passa per l'ampia porta del Parlamento Ue invece che per quella stretta del Ppe. Questa, almeno, è la strategia messa a punto da Fini, Berlusconi e Joseph Daul, il presidente del gruppo parlamentare del Ppe. Daul e Fini si sono incontrati il 24 giugno a Roma, all'ordine del giorno la transumanza di An nel Ppe, un'operazione non facile per chi in Europa è ancora dipinto di nero. La soluzione? Strasburgo. "Dopo le elezioni europee (giugno 2009, ndr)", spiega un'alta fonte del Ppe, "faranno entrare i deputati di An nel gruppo parlamentare del Ppe e poi daranno l'ingresso nel partito come un fatto consumato, evitando la severa procedura prevista per accettare i nuovi membri.

Per Daul il numero di deputati viene molto prima del contenuto ideologico, ma non è cosciente di ciò che può succedere". Essere il primo partito nell'Eurocamera vuol dire poter eleggere i presidenti di Parlamento, Commissione e Consiglio Ue, ma per qualcuno non contano solo le poltrone. "Gli scandinavi", conclude il dirigente del Ppe, "e i democristiani del Benelux sono contrari, già hanno storto il naso all'ingresso del Pp spagnolo e di Forza Italia, ma con An il rigetto è assai più profondo". La strada di Strasburgo può rivelarsi più scivolosa del previsto.

A. D'Arg.

(04 luglio 2008)


Da espresso.repubblica.it


Titolo: Senza la diversità saremmo finiti il manifesto antirazzista serve a dire questo
Inserito da: Admin - Luglio 09, 2008, 11:09:09 pm
«Senza la diversità saremmo finiti, il manifesto antirazzista serve a dire questo»

Francesco Sangermano


Professor Buiatti, da cosa nasce l’esigenza di un manifesto antirazzista come quello che lei ha redatto e che sarà presentato a San Rossore?

«Dal fatto che siamo in un momento sociale e politico molto brutto da vari punti di vista. Negli ultimi anni abbiamo assistito all’aumento dell’astio e dell’insofferenza fra le persone. C’è una paura collettiva del futuro, una sensazione di perdita di speranza come se fossimo davanti a una crisi economica drammatica quasi come quella del ‘29. Ma non è così».

Cosa genera questa paura?

«La storia ci insegna che in questa fragilità dell’identità di popolo, succede che si tende a cercare un caprio espiatorio. Settant’anni fa erano gli ebrei come me, ora sono i rom, gli immigrati, i diversi in generale».

Si è arrivati, per i rom, perfino a parlare di schedature. Che effetto le fa?

«Sono provocazioni bestiali che incitano, appunto, a trovare in quei soggetti il caprio espiatorio, il nemico da accusare per le cose che non vanno nella nostra società. Esattamente come è accaduto all’epoca nazista o in tutte le guerre etniche. Ma se allora, nella Germania nella quale nacque e si affermò il Nazismo, si era in condizioni di reali crisi, la nostra situazione attuale non è minimamente paragonabile. E anche se non arriveremo a ripetere quei fenomeni, incitare all’odio è comunque altrettanto colpevole».

Il manifesto smonta punto per punto quello dei suoi colleghi di settant’anni fa.

«Era importante fare una verifica della realtà e spiegare in modo corretto, da scienziati, quello che scienziati scorretti avevano teorizzato in passato. Molte volte azioni politiche negative cercano di giustificarsi con concezioni e dati scientifici e noi abbiamo voluto chiarire che i dati scientifici dicono altro».

Ovvero?

«Che le tesi sulla razza di settant’anni fa non hanno alcun fondamento. Non foss’altro perché allora la genetica era veramente agli albori e non sapevano neppure cosa fosse il Dna dato che la doppia elica è stata scoperta nel 1953. Ma il razzismo è nato ben prima della genetica e allora faceva “comodo” attribuire caratteristiche di ereditarietà ai carattere fisici e alla mentalità. Col risultato che se una persona non si poteva cambiare era da considerare un nemico e andava ucciso».

Crede che certi pregiudizi siano presenti ancora oggi in qualche misura?

«Io penso che se chiediamo agli italiani la differenza fra rom e romeno non lo sanno. Eppure non è affatto la stessa cosa. I rom non sono romeni. I rom sono anche romeni. Ma gli uni sono originari addirittura dell’India mentre i romeni sono un popolo di matrice slava e latina. Invece si procede per omologazione perché sigla e nome del popolo si assomigliano. Sembra di ragionare al livello culturale di allora».

Dal punto di vista scientifico, invece, cosa è oggi la diversità?

«Senza la diversità ci troveremmo di fronte a un grande limite culturale. Perché gli esseri umani hanno in sé molta poca variabilità genetica. Piuttosto quello che ci distingue ad esempio dalle scimmie è che noi ci rapportiamo ai diversi ambienti adattandoli a noi e formando in ogni luogo una sua lingua, una sua cultura. Cambiare per adattarsi alle condizioni del pianeta è la nostra ricchezza. Se perdessimo questa variabilità culturale saremmo finiti».

Pubblicato il: 09.07.08
Modificato il: 09.07.08 alle ore 13.14   
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Titolo: Veltroni: A Di Pietro: sta con Grillo, non con noi
Inserito da: Admin - Luglio 10, 2008, 10:18:08 am
Veltroni: vera piazza il 25 ottobre «È il Pd la sola opposizione»

A Di Pietro: sta con Grillo, non con noi


«Ciascuno risponde di ciò che fa. Con l'Idv abbiamo fatto un'alleanza, basata sul programma sottoscritto. Noi abbiamo mantenuto la posizione, altri invece hanno preso posizioni diverse». Dunque, dopo ciò che è successo ieri in piazza Navona, «cambia tutto, cambia molto perchè ieri è stata un'occasione per fare chiarezza».
«Ascoltando i contenuti della manifestazione, magari durante la trasferta in Giappone, Silvio Berlusconi, avrà goduto sentendo quelle parole e io mi dispiaccio per chi era in quella piazza». Il segretario del Pd, Walter Veltroni, si dice convinto che ieri i girotondi e Di Pietro «hanno fatto il più bel regalo al presidente del Consiglio».

Quanto alla decisione di Arturo Parisi di essere in piazza, Veltroni evidenzia: «immagino che Parisi si sia reso conto di aver fatto un errore clamoroso». La scelta di non andare ieri a piazza Navona è stata «giusta». «Dopo i discorsi sentiti ieri a piazza Navona, se noi fossimo andati oggi non potremmo ragionevolmente presentarci per quello che siamo. È stato giusto non esserci, non stare lì a sentire quegli attacchi lanciati contro il capo dello Stato, contro il Vaticano...».

Così il segretario del Pd, Walter Veltroni, durante la registrazione di Matrix, in merito ai rapporti tra i Democratici e il partito di Antonio Di Pietro, l'Italia dei Valori. «Ieri si è fatta chiarezza su qualcosa su cui c'era un margine di ambiguità. Una forza della sinistra riformista non va in una piazza in cui poi - sottolinea Veltroni - si ascoltano le follie sentite ieri sera».

«La manifestazione di ieri per la destra non cambia i termini della situazione. Invece se noi il 25 ottobre riusciremo a portare milioni di persone, sarà una scossa importante per il governo». Veltroni ribadisce che «chi urla e va sui giornali poi però non ottiene risultati, come invece il Pd», citando l'esempio del blocco della norma salva-Rete4 e del Dl intercettazioni: «Ed ora speriamo di far saltare il blocca-processi. Ma questo - sottolinea - è grazie alla nostra opposizione e non alle urla e alle chiacchiere di qualcuno. Il nostro posto è di una opposizione seria e responsabile non l'estremismo a doppio senso».

Poi attacca sul Lodo Alfano: «In 48 ore stiamo approvando una legge che consente al presidente del Consiglio di non essere processato». Così il leader del Pd in merito al cosiddetto lodo Alfano. «Ma la priorità del Paese non è il lodo Alfano, ma le persone che non ce la fanno. Perchè - domanda Veltroni - improvvisamente in un'Italia paralizzata economicamente da un mese non si parla d'altro? Perchè c'è una questione che riguarda i problemi del presidente del Consiglio».

E se il dialogo si è rotto è «per responsabilità di Berlusconi, che ha messo al primo posto gli interessi personali».

Poi Veltroni ironizza sul Popolo delle Libertà: «Leggo ogni giorno le dichiarazioni di La Russa per An e di Daniele Capezzone per il pdl. Ma dov'è questo Pdl? Quale numero posso chiamare per mettermi in contatto con loro?», scherza sulla fusione dei due partiti.

Sulle alleanze Veltroni apre sia a sinistra che al centro. Rifondazione comunista e la sinistra radicale in generale devono compiere «una scelta, devono decidere quale profilo vogliono avere perché non è più possibile essere partito di lotta e di governo». «È matura una scelta, partiti di lotta e di Governo non ci possono più essere. O si sta al Governo o si fanno le lotte».

Si vedrà strada facendo se sarà possibile una «convergenza» tra Pd e Udc. Mentana chiede a Veltroni quale sia lo stato dei rapporti con Pier Ferdinando Casini: «Abbiamo scritto insieme una lettera al presidente della Camera, per lamentarci della compressione dei tempi del dibattito parlamentare. C'è un dialogo, però anche questo lo vedremo "in progress". Un parte del suo partito col centrodestra, per esempio Cuffaro in Sicilia e anche in altre città. Lui ha fatto una scelta un pò costretto per la verità: gli hanno un pò chiuso la porta. Ma mi pare se ne sia fatto una ragione».


Di Pietro: non mi dissocio «Io non mi dissocio dal senso vero delle parole di Beppe Grillo, dalle parole di Travaglio e dalla piazza». Il leader dell'Idv, Antonio Di Pietro, risponde così all'aut aut posto da Veltroni: scelga la piazza o i riformisti. «Certo non avrei usato i toni di Sabina Guzzanti - prosegue - ma lei fa satira e io no. Io faccio politica». «L'invidia del mondo politico li spinge a vedere la pagliuzza della satira anzichè la trave delle leggi ad personam», sottolinea Di Pietro. «Nessuno pensi di poter intimidire l'Italia dei Valori con aut aut di sorta. La nostra forza ci proviene direttamente dai cittadini che ci hanno votato e solo ad essi dobbiamo ubbidire, non ad altri», afferma l'ex pm


Veltroni: chiarezza definitiva «Se Di Pietro sceglie Grillo e non il Pd è un elemento di chiarezza definitiva. È una decisione politica». È Walter Veltroni a chiudere così il botta e risposta a distanza con l'ex pm.


Pubblicato il: 09.07.08
Modificato il: 09.07.08 alle ore 21.26   
© l'Unità.


Titolo: Moretti: «Avvilito da Piazza Navona, organizzatori sono stati irresponsabili»
Inserito da: Admin - Luglio 11, 2008, 08:03:34 am
«La sinistra è in un periodo di autodistruttività»

Moretti: «Avvilito da Piazza Navona, organizzatori sono stati irresponsabili»

Il regista: «Gli interventi di Grillo e della Guzzanti hanno oscurato gli obiettivi della manifestazione»

 

ROMA - «Sono molto avvilito per quello che è successo in piazza Navona. Gli organizzatori sono stati degli irresponsabili». Così Nanni Moretti ha commentato la manifestazione di martedì a Roma, il «No Cav Day». Il regista è a Fiesole per ritirare il Premio 'Maestri del Cinema'. «Mi dispiace - ha continuato Moretti - che in questo disastro siano state coinvolte persone come Rita Borsellino, che ha fatto un bel discorso. Ma quando si organizzano queste cose bisogna distinguere. Mi dispiace che tutto sia stato sporcato, mi dispiace che con gli interventi di Grillo e della Guzzanti siano stati oscurati gli obiettivi della manifestazione e, forse, anche la stagione dei movimenti del 2002 che, se mi permettete, era un'altra cosa rispetto alla manifestazione di martedì».

CARICATURA - «Sui girotondi e i movimenti - ha detto ancora Moretti - al di fuori dei partiti, nati nel 2002, spesso è stata fatta una caricatura, non raccontando la verità. Purtroppo, ora quella caricatura è diventata realtà. Non bisogna trovare scuse o pretesti nella non tempestività con la quale in queste settimane si è mosso o non il Pd. È stato irresponsabile chiamare chiunque, uno come Grillo che ha insultato tutto e tutti nello stesso modo. Sono avvilito, frastornato».

SINISTRA AUTODISTRUTTIVA - «Al di là dei progetti politici che mancano, mi sembra che manchino anche le persone e mi sembra che manchi generosità» ha aggiunto Moretti. «Devo dire che è un periodo piuttosto intenso per l'autodistruttività della sinistra e del centrosinistra. Persone che escono da sinistra, dal Pd, e poi stanno nel Partito socialista. Anche alla sinistra del Pd c'è uno spazio, ma quello spazio non viene riempito da niente e da nessuno». Riferendosi poi al suo storico intervento in piazza Navona nel 2002, Moretti ha aggiunto: «Io, nel migliore dei casi, non avevo nulla da guadagnare. Se io ho avuto ragione sono il più dispiaciuto. Allora il germe dell'autodistruttività non c'era». «Io - ha proseguito - non ho mai avuto il mito dell'elettorato buono contrapposto ai partiti cattivi, però bisogna ricordare che nel 2002 sono stati quei movimenti che hanno ridato fiato, ossigeno e fiducia ai partiti di centrosinistra e sinistra. Dicemmo che non ci volevamo sostituire ai partiti, quindi era politica e non antipolitica».


10 luglio 2008

da corriere.it


Titolo: Piero Ignazi. In difesa degli zingari.
Inserito da: Admin - Luglio 11, 2008, 10:44:45 pm
Piero Ignazi

In difesa degli zingari


Sono brutti, sporchi e cattivi. Ma bisogna alzare la voce contro chi li vuole di nuovo marchiare  E vero: gli zingari sono brutti, sporchi e cattivi. Rubano e fanno baccano, non lavorano né mandano i figli a scuola, sono violenti e maschilisti, gozzovigliano e molestano. Averli vicino è un inferno, incontrarli per strada fa stringere la borsa e controllare il portafoglio. Difendere gli zingari è popolare come sventolare la stella di Davide a Teheran.

Eppure bisogna farlo. Perché il razzismo è un veleno sottile e insidioso che si infiltra piano piano nella coscienza collettiva per rendere opinione corrente quello che prima non era nemmeno immaginabile. La storia europea dovrebbe averci insegnato che quando un gruppo sociale, etnico o religioso che sia, viene messo ai margini senza trovare protezione, poi viene privato della sua umanità, e al limite della sua stessa esistenza. Nell'angosciante film di Roman Polanski, 'Il pianista', a ogni restrizione della vita della comunità ebraica, i protagonisti ripetono: "Non è possibile, non possono farci questo"; e invece la discesa agli inferi prosegue inarrestabile, fino alla fine.

Il potere si affida a due risorse per raggiungere il proprio scopo: la paura e l'indifferenza. La paura è alimentata soprattutto attraverso un uso abile e spregiudicato dei mezzi di informazione. Per essere efficace deve prendere spunto da qualcosa di reale o almeno verosimile; e poi innestare un florilegio di mezze verità, di espressioni ambigue, o di vere menzogne, senza timore di arrivare a contraddizioni clamorose come quella del ministro Maroni in merito alla schedatura dei bambini zingari: "Lo facciamo per il loro bene!". Ma sì, Arbeit macht frei!

La paura, e non solo del nemico ma anche dello 'straniero interno', è stata rinvigorita in tempi recenti dall'immigrazione e dall'11 settembre. Qualcuno ricorderà l'isteria collettiva che si diffuse per l''antrace', quella polverina letale che arrivò per lettera a due senatori americani nell'ottobre 2001, e sembrava dover invadere le città di mezzo mondo, tanto che in tutta Europa, Italia compresa, vennero create delle unità di pronto intervento anti-antrace negli ospedali.

Quella paura aveva un aggancio alla realtà - l'attacco terroristico e la morte di quattro persone per contagio - ma venne enfatizzata per convincere il Congresso americano a varare il Patriot Act, una delle norme più liberticide mai approvate in Usa dai tempi del maccartismo. Ad essa si aggiunse la manipolazione dell'informazione per creare il 'nemico esterno', Saddam Hussein, un dittatore reale che oltraggiava con le sue brutalità la comunità internazionale, ma privo di reale pericolosità; una manipolazione inequivocabilmente dimostrata dal libro dell'ex portavoce di George Bush, Scott McClellan, 'What Happened', che censisce tutta la montagna di menzogne dell'amministrazione repubblicana (qualche sostenitore descamisado della guerra in Iraq potrebbe finalmente fare ammenda dopo aver letto questo libro?).

Soffiando su preoccupazioni reali e trasformando sentimenti di insicurezza in fobie e caccia alle streghe si arriva direttamente alla stigmatizzazione di un gruppo sociale. Nulla meglio di un capro espiatorio lenisce le ansie di una società. La Lega è maestra nell'identificare un target sul quale riversare ogni tipo di accusa: dopo aver individuato nei meridionali il primo nemico interno, è passata agli immigrati extracomunitari, e ora tocca agli zingari. Per allentare lo stress sociale alimentato dalla incessante campagna mediatica sull'insicurezza ecco le misure discriminatorie e umilianti del censimento etnico dei rom. Con buona pace di tutti i progetti di integrazione faticosamente perseguiti, nonché suggeriti dalle organizzazioni internazionali, a cominciare dall'Unione europea.

È facile reagire quando si toccano i nostri simili; difficile solidarizzare con gli ultimi, con i brutti, sporchi e cattivi della società. Eppure, quando un esponente della Lega come Matteo Salvini afferma che "è più facile derattizzare i topi che scacciare gli zingari", bisogna alzare la voce. Pochi, troppo pochi ancora, hanno avuto il coraggio di imitare Piero Terracina, ebreo deportato nei lager, sceso a sfilare insieme ai rom per rivendicare il rispetto dei loro diritti. Perché quel 'giusto' certamente non dimentica che nei campi nazisti oltre agli ebrei sono stati sterminati quasi un milione di zingari - anche loro 'topi' del tragico cartoon di Art Spiegelman sull'Olocausto. E adesso li si vuole di nuovo marchiare con la scusa delle impronte digitali. Nel silenzio di tutti i politici cattolici del centrodestra, per una volta sordi al richiamo di alcune voci della Chiesa.

(11 luglio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Beppe Sebaste. La Politica ai Politici
Inserito da: Admin - Luglio 12, 2008, 09:07:21 am
La Politica ai Politici

Beppe Sebaste


La società civile dei cosiddetti girotondi, quella stessa che svegliò dal torpore il centrosinistra di sei anni fa (incerto come oggi se essere in concorrenza o in opposizione al governo), e portò alle primarie per Prodi, ha gremito martedì scorso Piazza Navona per rivendicare essenzialmente una cosa: la difesa della democrazia e della Costituzione. Le parole di Moni Ovadia, Paolo Flores d’Arcais, Andrea Camilleri, Rita Borsellino, Furio Colombo, tra gli altri, erano inequivocabili.

Come quelle di Marco Travaglio, quando spiegava che ciò che viene tacciato di “giustizialismo” altro non è che “difesa della legalità”. Poi c’è stato - unico elemento “berlusconiano”, ovvero dettato da ragioni presumo spettacolari, a riprova del contagio pubblicitario - l'intervento qualunquista e disfattista di Beppe Grillo, che non so dire a che genere appartenga.

Poi, ancora, c’è stato il monologo satirico di Sabina Guzzanti, demonizzato dai giornali di ieri in un coro unanime citando frasi isolate. I suoi cambiamenti di voce e di intonazione erano decisamente teatrali, anche senza bisogno che avesse un naso finto. Era fuori luogo fare satira in Piazza Navona a quella manifestazione? Forse sì. Ma riconosciamo almeno che si tratti di satira: poesia più invettiva. Parole che non vogliono persuadere, né tantomeno vendere qualcosa. Triste e inaccettabile è usare questo “fuori luogo” linguistico come alibi per condannare la manifestazione. In Italia la gente che si indigna si sente molto sola; vorrei che chi siede in Parlamento non scoraggiasse i cittadini che si ritrovano insieme a cercare di restituire pubblicamente alle parole la loro salute mentale. E poi, c'è qualcosa che in Italia, attualmente, non sia “fuori luogo”? Se la satira rispecchia i tempi in cui vive, non è il caso di guardare ciò che prende di mira piuttosto che il dito che lo indica? La critica della volgarità e della barbarie di chi ci governa si ritorce su chi la denuncia. La satira si è sporcata le mani. Ma quanto sporche sono le nostre, che nello spettacolo del governo abbiamo la turpitudine tutti i giorni sotto gli occhi senza scandalizzarci, e ci scandalizziamo quando qualcuno lo dice con chiarezza?

Sabina Guzzanti ha sempre usato il suo talento per denunciare il regime in cui viviamo: regime linguistico (quasi una satira autoreferenziale permanente), ma anche politico, perché dire è fare, e dalle manipolazioni sulle parole nascono quelle sulle persone e le istituzioni. Piuttosto è inquietante che in Italia la satira prenda il posto della politica, poiché questa è latitante. Di fronte al populismo guidato da un pubblicitario di mestiere, il cui governo sta realizzando una a una tutte le più fascistizzanti chiacchiere da bar (fino alla riproposta delle leggi razziali), l’opposizione sembra condividere il linguaggio e l’agenda della destra, rinunciando a dire e vedere che “il re è nudo”. Se i monologhi di Sabina Guizzanti sembrano poco satirici è perché, in una realtà già deformata dalla volgarità, diventano descrizioni iperreali di cose e fatti. Oggi il re non è solo nudo, ma la sua nudità è di un tale squallore che corrode le regole stesse della convivenza civile. Quale altro Paese ha un premier che non solo fa le corna e racconta barzellette a sproposito agli altri capi di Stato, ma mima un mitra contro una giornalista russa, parla al telefono di compravendita di persone, di donne, con un funzionario della tv pubblica, ecc. ecc. ecc.? Però si discute di come vietare le intercettazioni e la loro divulgazione, non della moralità e della legalità del Premier.

Satira, in questi anni, è stato paradossalmente rappresentare la realtà spogliata dalle barocche deformazioni della menzogna. Ricordo anni fa che a un certo punto del suo spettacolo Sabina Guzzanti citava Pier Paolo Pasolini. E si capisce che nel suo retroterra stilistico-morale c’è anche quel gesto di "giustizia poetica" che Pasolini affidò a un celebre testo degli anni Settanta: «Io so. Io so chi sono i mandanti delle stragi. Lo so anche se non ho le prove. Lo so perché sono un intellettuale...». La denuncia senza prove giuridiche è sostenuta da una responsabilità intellettuale e morale: è questa eresia che oggi, purtroppo, occupa il posto della politica, preoccupata soprattutto di smorzare e negare i conflitti.

Cari politici di centrosinistra, non sparate sui comici; restituiteli piuttosto al loro mestiere, cioè fate politica, che è anche e sopratutto moralità, cultura, senso proprio delle parole, come quando la sinistra era vincente anche senza essere di governo.

Pubblicato il: 11.07.08
Modificato il: 11.07.08 alle ore 13.20   
© l'Unità.


Titolo: DARIO FO, SATIRA DEVE ESSERE SFACCIATA CONTRO POTERE VIOLENTO
Inserito da: Admin - Luglio 12, 2008, 11:22:29 am
Politica
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GIUSTIZIA: DARIO FO, SATIRA DEVE ESSERE SFACCIATA CONTRO POTERE VIOLENTO

SU 'MICROMEGA' IL NOBEL DIFENDE LA MANIFESTAZIONE DI PIAZZA NAVONA



Roma, 11 lug. (Adnkronos) - "La satira e' un atto di rifiuto e come tale non puo' che essere acceso, e' una contro-aggressione che risponde allo smacco del potere con uno sghignazzo che non puo' essere elegante. La satira e' nata per capovolgere l'ordine delle cose, per mettere il re in mutande". E' quanto dichiara il premio Nobel Dario Fo a 'MicroMega', commentando la manifestazione di piazza Navona dell'8 luglio, che difende e a cui ribadisce la propria adesione.


Titolo: «Caro Di Pietro sbagli a rompere col Pd» (ma non ha rotto Veltroni? ndr).
Inserito da: Admin - Luglio 12, 2008, 11:07:08 pm
«Caro Di Pietro sbagli a rompere col Pd»

Jean Leonard Touadi


È il primo che lascia, che dissente ufficialmente da Antonio Di Pietro. Il deputato di colore Jean Leonard Touadi ha lasciato l’Italia dei Valori, nelle cui file è stato eletto come indipendente, ed è passato al partito di Walter Veltroni. Il tutto a distanza di pochi giorni dalla manifestazione: «No Cav Day» di Piazza Navona. La decisione - spiega lo stesso deputato - «è stata presa perchè una rottura totale con il Pd non è sostenibile»: è stato per primo Veltroni a volerlo in politica, come assessore al Comune di Roma.

Pensieri e stati d’animo scritti nero su bianco in una lettera inviata ieri mattina da Touadi all’ex Pm. Si legge: «In questi giorni ho vissuto una netta contraddizione tra alcune mie profonde convinzioni e le posizioni che sta assumendo il partito. Avrei voluto una più netta presa di distanza dalle parole pronunciate contro il Presidente della Repubblica, contro il partito democratico - sottolinea - e, da cattolico praticante quale sono, contro il Papa». Immediato il commento di Walter Veltroni: «Touadì ha fatto una scelta coerente. Era stato candidato all’interno di una lista che si era impegnata a fare gruppo unitario col Pd» e non lo ha fatto. Dunque, ora, «posti di fronte all’alternativa tra stare con Grillo o con il Pd quelli che volevano stare nel gruppo unitario devono aver sentito una certa sofferenza». Tace, invece, Antonio Di Pietro.

Tra i punti di rottura che hanno contribuito alla maturazione della decisione di Touadi a lasciare l’Idv, c’è infatti il deterioramento della «imprescindibile» alleanza tra Idv e Pd. «Distinti e uniti si disse allora - fa osservare nella lettera il deputato a Di Pietro -. Con il passare delle settimane le ragioni dell’affermazione della legittima identità hanno finito per oscurare quelle dell’unità». Poi il passaggio sul Pd. «Non è sostenibile una rottura con il Pd. Stimo Veltroni e gli voglio bene - precisa Touadi - e pur non risparmiandogli alcune critiche considererei per la mia coerenza sleale oltre che sbagliato politicamente fare nei prossimi mesi campagna contro di lui e il Pd, palesamente o sotto traccia». Tuttavia il deputato non manca di auspicare un leale rapporto con l’Idv. «In quel partito - sottolinea - sono stato accolto a braccia aperte, senza alcuna diffidenza. E mi sono state offerte grandissime opportunità di crescita politica. Di questo sarò sempre grato a Di Pietro, al capogruppo Massimo Donati, al mio stimato maestro Leoluca Orlando. Ma credo anche che la politica vada fatta con coerenza, in rispetto a ciò di cui siamo intimamente convinti». Antonello Soro, capogruppo Pd alla Camera, ha dato a Touadì un caloroso benvenuto: «Un fatto politico importante - ha detto - che premia il nostro modo di fare opposizione».

Pubblicato il: 12.07.08
Modificato il: 12.07.08 alle ore 14.13   
© l'Unità.


Titolo: La Procura apre fascicolo sul No Cav Day (e sulla Lega quando?).
Inserito da: Admin - Luglio 13, 2008, 12:13:19 pm
12/7/2008 (20:0) - SCONTRO TRA IDV E PD

Di Pietro: "Una, cento, mille piazze"
 
L' alleanza con il Pd è al capolinea. Il leader dell'Italia dei Valori: "Sono pieno di mail di elettori delusi".

La Procura apre fascicolo sul No Cav Day

RIMINI


Dal gelo al divorzio il passo oggi sembra proprio breve. Storia di un’alleanza, quella tra il Pd e l’Idv, mai giunta alla fusione e sempre rimasta in bilico. E forse, ora, destinata a scoppiare. C’è il caso Touadì, il deputato indipendente che ha lasciato l’Italia dei valori per il Pd; c’è il sospetto di manovre di erosione del Pd contro l’Idv; c’è la candidatura sempre più debole del portavoce nazionale del partito Leoluca Orlando alla presidenza della Vigilanza Rai e poi c’è Tonino che irrompe: «Continueremo a fare una, cento, mille piazze». Altro che «rapporti tesi con gli alleati», mai come oggi Pd e Idv sono stati ai ferri corti.

Il gelo vero dura da qualche giorno e pare che Veltroni e Di Pietro non si parlino direttamente dal giorno della manifestazione di piazza Navona. Dopo il ’No Cav day’ Veltroni ha lanciato il suo aut aut a Di Pietro o con noi o con la piazza e Di Pietro ha risposto: con la piazza. Poco valgono le distanze prese dalle parole di Beppe Grillo contro il capo dello Stato e di Sabina Guzzanti contro il Papa. Di Pietro non si muove di un millimetro dalla sua posizione che anche oggi difende e spiega di non essersi «pentito» rivendicando, in apertura del Forum dei giovani del partito a Bellaria, «di stare sempre con Davide e mai con Golia, con la piazza e non con il potere: per questo continueremo a fare una, cento, mille piazze».

Proprio la manifestazione di Bellaria era stata organizzata, tra gli altri da Jean Leonard Touadì, che ha lasciato il partito di Di Pietro per tornare al Pd, ed è per la sua assenza che tocca all’ex Pm aprire i lavori dell’incontro. Parole di stima nei confronti di Touadì, al quale Di Pietro dice di essere legato da «un rapporto fraterno» ma strali contro il Pd. Il primo: «Continuo a ricevere centinaia di mail - dice Di Pietro - nelle quali molti elettori mi scrivono ho votato Pd, ma la prossima volta...». Il secondo, ancora più appuntito sulle alleanze di nuovo conio di cui parla Francesco Rutelli e su una possibile vicinanza all’Udc: «Adesso stanno facendo i conti, l’Udc invece dell’Idv... voglio proprio vedere la Finocchiaro quando in Sicilia andrà a fare campagna elettorale con Cuffaro».

In realtà da più parti, nelle file del partito, si pone l’accento sul rischio di una manovra di erosione orchestrata dal Pd nei confronti dell’Idv. Solo giochi della politica? qualcuno assicura che il pressing di importanti esponenti democratici nei confronti di Touadì sia stato forte e che qualche cosa si sia tentato con Beppe Giulietti, altro indipendente, animatore di Articolo21, eletto con l’Idv. Francesco Pancho Pardi, che era in piazza lo scorso 8 luglio, giura che «non c’è il pericolo che io o Giulietti lasciamo l’Idv» e, pur rispettandolo come persona, boccia la decisione di Touadì che «al limite si sarebbe dovuto dimettere perchè così ha fatto perdere un seggio all’Italia dei valori».

Il  capo della procura di Roma, Giovanni Ferrara, ha aperto un fascicolo in «atti relativi» sulla manifestazione di martedì scorso a piazza Navona intitolata «No cav day». Il procedimento, ancora senza indagati e senza ipotesi di reato, è stato avviato dopo l’informativa della Digos consegnata ieri a piazzale Clodio. Al vaglio del procuratore ci sono anche i video degli interventi sotto accusa, in particolare quelli di Sabina Guzzanti e Beppe Grillo. Il magistrato dovrà valutare se il materiale acquisito contenga elementi tali da poter individuare il reato di offese nei confronti del presidente della Repubblica e del Pontefice.

da lastampa.it


Titolo: Dichiarazione di voto dell' Italia dei Valori
Inserito da: Admin - Luglio 16, 2008, 10:05:14 pm
Dichiarazione di voto dell' Italia dei Valori


"Sig. Presidente del Consiglio, anche oggi Lei non c’è!
Lei continua a chiedere al Parlamento la fiducia alla sua persona e nel
suo operato e però continua a non farsi vedere.
E non venga a dirci che è impegnato altrove perché Le posso assicurare che
noi possiamo pure aspettare qualche ora o qualche giorno pur di vederLa in
aula.
Ma forse Lei semplicemente non ritiene di presentarsi perché considera il
Parlamento così alle sue dipendenze da non avere nemmeno bisogno di venire
di persona per chiedere la fiducia.
Nell’uno o nell’altro caso, noi dell’Italia dei Valori, non siamo affatto
disponibili a dargliela la fiducia perché si comporta come uno che ha due
facce: una davanti ed una di dietro.
Con quella davanti, dice agli italiani che questo decreto serve per meglio
combattere la criminalità ma con l’altra faccia – quella di dietro -
spunta le armi e toglie i mezzi finanziari e gli strumenti operativi alla
Magistratura ed alle forze dell’ordine che la criminalità, poi, devono
realmente combatterla e contrastare tutti i giorni.
Ecco allora alcune perle del suo operato di cui è bene che i cittadini
italiani prendano coscienza e conoscenza.
Lei dice che vuole dare sicurezza ai cittadini ma contestualmente ha
appena emanato un decreto con cui sono stati previsti per il prossimo
triennio tagli per oltre 700 milioni di euro dai capitoli del Ministero
dell’Interno e di oltre un miliardo di euro dal Ministero della Difesa
impedendo così l’acquisto di autovetture, carburante, munizioni, divise e
ogni strumento utile per garantire la sicurezza dei cittadini.
Lei dice che vuole utilizzare l’esercito in pattuglie miste con le forze
dell’ordine ma poi con l’altro decreto dispone una riduzione netta nel
triennio dell’organico sia della Polizia di Stato (circa 7000 unità in
meno), che delle altre forze dell’ordine, militari compresi, per un totale
di quasi 40.000 unità.
Lei dice che vuole la carcerazione per i clandestini e poi non solo nulla
ha disposto per l’edilizia penitenziaria ma addirittura ha tagliato i
fondi attualmente stanziati per la manutenzione delle carceri. A meno che
non pensi di mettere i delinquenti che dice di voler combattere a Villa
Certosa!
Peggio ancora ha fatto e sta facendo con l’Amministrazione della
Giustizia.
Lei dice che vuole una Giustizia più efficiente ma poi si limita solo a
caricare i magistrati di altro lavoro senza assegnare loro le dovute
risorse ed i necessari strumenti.
Anzi toglie loro anche quel poco che hanno.
Infatti, per far fronte ai mancati introiti conseguenti alla eliminazione
indiscriminata dell’ICI, ha tolto con il recente decreto legge n. 93 quasi
60 milioni di euro dai fondi già assegnati dal precedente Governo al
Ministero della Giustizia ed oltre 100 milioni di euro da quelli già
assegnati al Ministero dell’Interno.
Beh, no: qualcosa per la Giustizia Lei ha fatto anche con questo decreto
legge.
Per la Giustizia che serve a lei ed agli amici suoi ovviamente non per il
bene del paese.
Sì perché ha fatto inserire nel pacchetto sicurezza una norma che con la
sicurezza non c’azzecca nulla ma che serve ancora una volta a Lei ed a
tale David Mills - coimputato con lei nel processo di Milano - per
corruzione in atti giudiziari.
Mi riferisco alla possibilità prevista nell’odierno decreto legge di
richiedere il patteggiamento anche per i processi già in dibattimento e
dopo che tale procedura era già stata respinta o comunque non richiesta
nella fase precedente al dibattimento stesso.
La ratio della norma originaria sul patteggiamento è nota: ridurre di un
terzo la pena a coloro che non fanno perdere tempo alla giustizia
patteggiando la pena subito e prima del processo. In tal modo si risparmia
tempo ed il giudice non deve – anzi non può - nemmeno motivare sulla
colpevolezza o meno dell’imputato che ha patteggiato.
Lei si è attaccato a questa giusta norma per inserirvi oggi il solito
“emendamento salvapremier” anzi, nel caso di specie, “salva amici del
premier”.
Con l’odierno escamotage - inventato dai suoi consiglieri e difensori che
una ne fanno e cento ne pensano – oggi lei dà la possibilità anche al suo
complice Mills di patteggiare la pena, nonostante il processo sia
praticamente finito e quindi senza alcun risparmio per i tempi
processuali.
Si dirà: e con ciò? Eh no: così il giudice non potrà più pronunciarsi
sulla sua colpevolezza e quindi neanche pronunciarsi sul concorrente del
reato e cioè Lei.
La questione non è di poco conto giacchè - in caso di condanna di David
Mills – si sarebbe posto un grosso problema di permanenza da parte sua al
Governo, sig. Presidente, perché ciò avrebbe comportato anche una sua
condanna politica e morale!
Non c’è che dire, davvero una bella trovata, sig. Presidente del Consiglio
che non c’è!
E non importa se – per ottenere ciò – lei sta facendo emanare una norma
che di fatto si traduce in un ulteriore indulto mascherato ed addirittura
nella impossibilità di mandare in galera coloro che in questi anni hanno
commesso reati gravissimi per i quali dovrebbero essere condannati
addirittura ad una pena effettiva fino a 7 anni e mezzo.
Sì è così, basta fare un po’ di calcoli!
A chi risulta essere condannato fino a 7 anni e mezzo – e quindi anche per
i rapinatori, ladri, estorsori, spacciatori di droga e stupratori – con il
patteggiamento, dovendosi applicare la riduzione di un terzo, la pena
scenderebbe a 5 anni.
Poi – siccome nel frattempo è stato emanato l’indulto devono essere
scontati ulteriori tre anni.
Ne rimangono due, per i quali è previsto dalla legge l’affidamento ai
servizi sociali.
Ecco, ancora una volta dimostrata la sua doppia faccia: a parole dice di
voler combattere la criminalità, nei fatti non esita ad allargare le
maglie della giustizia e mandare per strada fior fiore di delinquenti pur
di ottenerne qualche vantaggio personale.
Noi dell’Italia dei Valori ribadiamo il nostro dissenso su questo decreto
legge non solo perché lei ancora una volta l’ha travisato e rigirato a suo
uso e consumo ma anche per alcune perle di ingiustizia sociale ivi
contenute, fra cui, soprattutto: l’aggravante razziale, che prevede un
aumento di pena nel caso che a commettere un delitto sia un
extracomunitario. Noi riteniamo che i delinquenti siano tutti uguali e che
– per una giovane violentata o una vecchietta rapinata – non faccia alcuna
differenza se subisce la violenza o la rapina da un italiano o da un
extracomunitario. Sempre lo stesso dolore e la stessa umiliazione prova e
noi vogliamo punire i colpevoli allo stesso modo e non con lo “sconto” se
è un ariano italiano.
Non ha senso poi neppure la norma blocca processi nella sua attuale
configurazione giacchè è solo un rinvio di una emergenza che c’e’ e che
lascia i tribunali ingolfati allo stesso modo in cui si trovano oggi.
Anzi li ingolfano ancora di più perché comunque dovranno farsi centinaia
di migliaia di notifiche sia agli imputati per permettere loro di non
usufruirne sia alle parti lese che vogliono azionare le cause civili. E
fra un anno saremo sempre allo stesso punto di partenza.
Ancora più assurda consideriamo la schedatura con le impronte digitali ai
bambini extracomunitari. Anzi la consideriamo un vero e proprio
comportamento xenofobo che non fa onore al nostro paese e che ci riporta
ai tempi bui dell’olio di ricino, di cui lei ogni giorno di più si pone e
propone come degno prosecutore.
Per tutte queste ragioni l’Italia dei Valori Le nega convintamene – con il
cuore e con la mente – la fiducia."

Da  spaziolibero@margheritaonline.it
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Titolo: Alex Zanotelli “ E’ AL COLMO LA FECCIA”
Inserito da: Admin - Luglio 20, 2008, 08:10:33 am
LETTERA AGLI AMICI di padre Alex Zanotelli - Napoli, 12 luglio 2008

“ E’ AL COLMO LA FECCIA”



Carissimi,
è con la rabbia in corpo che vi scrivo questa lettera dai bassi di Napoli, dal Rione Sanità nel cuore di quest’estate infuocata. La mia è una rabbia lacerante perché oggi la Menzogna è diventata la Verità. Il mio lamento è così ben espresso da un credente ebreo nel Salmo 12


“ Solo falsità l’uno all’altro si dicono: bocche piene di menzogna, tutti a nascondere ciò che tramano in cuore.
Come rettili strisciano, e i più vili emergono, è al colmo la feccia.”



Quando ,dopo Korogocho, ho scelto di vivere a Napoli , non avrei mai pensato che mi sarei trovato a vivere le stesse lotte.
Sono passato dalla discarica di Nairobi, a fianco della baraccopoli di Korogocho alle lotte di Napoli contro le discariche e gli inceneritori.Sono convinto che Napoli è solo la punta dell’iceberg di un problema che ci sommerge tutti.Infatti, se a questo mondo, gli oltre sei miliardi di esseri umani vivessero come viviamo noi ricchi (l’11% del mondo consuma l’88% delle risorse del pianeta!) avremmo bisogno di altri quattro pianeti come risorse e di altro quattro come discariche ove buttare i nostri rifiuti. I poveri di Korogocho, che vivono sulla discarica, mi hanno insegnato a riciclare tutto , a riusare tutto, a riparare tutto, a rivendere tutto, ma soprattutto a vivere con sobrietà.

E’ stata una grande lezione che mi aiuta oggi a leggere la situazione dei rifiuti a Napoli e in Campania, regione ridotta da vent’anni a sversatoio nazionale dei rifiuti tossici.Infatti esponenti della camorra in combutta con logge massoniche coperte e politici locali, avevano deciso nel 1989
, nel ristorante “La Taverna” di Villaricca”, di sversare i rifiuti tossici in Campania.Questo perché diventava sempre più difficile seppellire i nostri rifiuti in Somalia. Migliaia di Tir sono arrivati da ogni parte di Italia carichi di rifiuti tossici e sono stati sepolti dalla camorra nel Triangolo della
morte (Acerra-Nola- Marigliano), nelle Terre dei fuochi (Nord di Napoli) e nelle campagne del Casertano. Questi rifiuti tossici “bombardano” oggi ,in particolare i neonati, con diossine, nanoparticelle che producono tumori, malformazioni , leucemie……

Il documentario Biutiful Cauntri esprime bene quanto vi racconto .

A cui bisogna aggiungere il disastro della politica ormai subordinata ai potentati economicifinanziari.
Infatti questa regione è stata gestita dal 1994 da 10 commissari straordinari per i rifiuti,scelti dai vari governi nazionali che si sono succeduti.(E’ sempre più chiaro, per me, l’intreccio fra politica, potentati economici-finanziari, camorra, logge massoniche coperte e servizi segreti!). In 15 anni i commissari straordinari hanno speso oltre due miliardi di euro, per produrre oltre sette milioni di tonnellate di “ecoballe”, che di eco non hanno proprio nulla : sono rifiuti tal quale, avvolti in plastica che non si possono nè incenerire ( la Campania è già un disastro ecologico!) né seppellire perché inquinerebbero le falde acquifere. Buona parte di queste ecoballe, accatastate fuori la città di Giugliano, infestano con il loro percolato quelle splendide campagne denominate “Taverna del re “.

E così siamo giunti al disastro! Oggi la Campania ha raggiunto gli stessi livelli di tumore del Nord-Est, che però ha fabbriche e lavoro.Noi, senza fabbriche e senza lavoro, per i rifiuti siamo condannati alla stessa sorte. Il nostro non è un disastro ecologico -lo dico con rabbia- ma un crimine
ecologico, frutto di decisioni politiche che coprono enormi interessi finanziari. Ne è prova il fatto che Prodi, a governo scaduto, abbia firmato due ordinanze:una che permetteva di bruciare le ecoballe di Giugliano nell’inceneritore di Acerra, l’altra che permetteva di dare il Cip 6 (la bolletta che paghiamo all’Enel per le energie rinnovabili) ai 3 inceneritori della Campania che “trasformano la merda in oro -come dice Guido Viale- Quanto più merda, tanto più oro!”

Ulteriore rabbia quando il governo Berlusconi ha firmato il nuovo decreto n.90 sui rifiuti in Campania. Berlusconi ci impone, con la forza militare, di costruire 10 discariche e quattro inceneritori. Se i 4 inceneritori funzionassero, la Campania dovrebbe importare rifiuti da altrove per
farli funzionare. Da solo l’inceneritore di Acerra potrebbe bruciare 800.000 tonnellate all’anno! E’ chiaro allora che non si vuole fare la raccolta differenziata, perché se venisse fatta seriamente (al 70%), non ci sarebbe bisogno di quegli inceneritori. E’ da 14 anni che non c’è volontà politica di fare la raccolta differenziata. Non sono i napoletani che non la vogliono, ma i politici che la ostacolano perché devono ubbidire ai potentati economici-finanziari promotori degli inceneritori. E tutto questo ci viene imposto con la forza militare vietando ogni resistenza o dissenso, pena la prigione. Le conseguenze di questo decreto per la Campania sono devastanti. ”Se tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge (articolo 3 della Costituzione), i Campani saranno meno uguali, avranno meno dignità sociale-così afferma un recente Appello ai Parlamentari Campani

Ciò che è definito “tossico” altrove, anche sulla base normativa comunitaria, in Campania non lo è; ciò che altrove è considerato “pericoloso”qui non lo sarà. Le regole di tutela ambientale e salvaguardia e controllo sanitario, qui non saranno in vigore. La polizia giudiziaria e la magistratura in tema di repressione di violazioni della normativa sui rifiuti , hanno meno poteri che nel resto d’Italia e i nuovi tribunali speciali per la loro smisurata competenza e novità, non saranno in grado di tutelare, come altrove accade, i diritti dei Campani”.

Davanti a tutto questo, ho diritto ad indignarmi. Per me è una questione etica e morale. Ci devo essere come prete, come missionario. Se lotto contro l’aborto e l’eutanasia, devo esserci nella lotta su tutto questo che costituisce una grande minaccia alla salute dei cittadini campani. Il decreto
Berlusconi straccia il diritto alla salute dei cittadini Campani.

Per questo sono andato con tanta indignazione in corpo all’inceneritore di Acerra, a contestare la conferenza stampa di Berlusconi, organizzata nel cuore del Mostro, come lo chiama la gente.

Eravamo pochi, forse un centinaio di persone. (La gente di Acerra, dopo le botte del 29 agosto 2004 da parte delle forze dell’ordine,è terrorizzata e ha paura di scendere in campo). Abbiamo tentato di dire il nostro no a quanto stava accadendo. Abbiamo distribuito alla stampa i volantini :”Lutto
cittadino.La democrazia è morta ad Acerra.Ne danno il triste annuncio il presidente Berlusconi e il sottosegretario Bertolaso.” Nella conferenza stampa ( non ci è stato permesso parteciparvi!) Berlusconi ha chiesto scusa alla Fibe per tutto quello che ha “subito” per costruire l’inceneritore ad Acerra!(Ricordo che la Fibe è sotto processo oggi!). Uno schiaffo ai giudici! Bertolaso ha annunciato che aveva firmato il giorno prima l’ordinanza con la Fibe perché finisse i lavori! Poi ha annunciato che avrebbe scelto con trattativa privata, una delle tre o quattro ditte italiane e una straniera, a gestire i rifiuti.Quella italiana sarà quasi certamente la A2A ( la multiservizi di Brescia e Milano) e quella straniera è la Veolia, la più grande multinazionale dell’acqua e la seconda al mondo per i rifiuti. Sarà quasi certamente Veolia a papparsi il bocconcino e così, dopo i rifiuti , si papperà anche l’acqua di Napoli.Che vergogna! E’ la stravittoria dei potentati economici-finanziari, il cui unico scopo è fare soldi in barba a tutti noi che diventiamo le nuove cavie. Sono infatti convinto che la Campania è diventata oggi un ottimo esempio di quello che la Naomi Klein nel suo libro Shock Economy, chiama appunto l’economia di shock! Lì dove c’è emergenza grave viene permesso ai potentati economico-finanziari di fare cose che non potrebbero fare in circostanze normali. Se funziona in Campania, lo si ripeterà altrove. (New Orleans dopo Katrina insegna!).

E per farci digerire questa pillola amara, O’ Sistema ci invierà un migliaio di volontari per aiutare gli imbecilli dei napoletani a fare la raccolta differenziata, un migliaio di alpini per sostenere l’operazione e trecento psicologi per oleare questa operazione!! Ma a che punto siamo arrivati in
questo paese!?! Mi indigno profondamente! E proclamo la mia solidarietà a questo popolo massacrato! “Padre Alex e i suoi fratelli “ era scritto in una fotografia apparsa su Tempi (inserto di La Repubblica). Sì, sono fiero di essere a Napoli in questo momento così tragico con i miei fratelli (e sorelle) di Savignano Irpino, espropriati del loro terreno seminato a novembre , con i miei fratelli di Chiaiano, costretti ad accedere nelle proprie abitazioni con un pass perchè sotto sorveglianza militare.

Per questo, con i comitati come Allarme rifiuti tossici, con le reti come Lilliput e con tanti gruppi, continueremo a resistere in Campania. Non ci arrenderemo.Vi chiedo di condividere questa rabbia, questa collera contro un Sistema economico-finanziario che ammazza ed uccide non solo i poveri
del Sud del mondo, ma anche i poveri nel cuore dell’Impero. Trovo conforto nelle parole del grande resistente contro Hitler, il pastore luterano danese, Kaj Munk ucciso dai nazisti nel 1944. ”Qual è dunque il compito del predicatore oggi ?Dovrei rispondere: fede, speranza e carità. Sembra una bella risposta. Ma vorrei dire piuttosto :coraggio. Ma no, neppure questo è abbastanza provocatorio per costituire l’intera verità... Il nostro compito oggi è la temerarietà..Perchè ciò di cui come Chiesa manchiamo non è certamente né di psicologia né di letteratura.Quello che a noi manca è una santa collera”.
 
Davanti alla Menzogna che furoreggia in questa regione campana, non ci resta che una santa collera. Una collera che vorrei vedere nei miei concittadini, ma anche nella mia Chiesa..

“I simboli della Chiesa Cristiana sono sempre stati il leone, l’agnello, la colomba e il pesce -diceva sempre Kaj Munk- mai il camaleonte”.
 
Vi scrivo questo al ritorno della manifestazione tenutasi nelle strade di Chiaiano, contro l’occupazione militare della cava.

Invece di aspettare il giudizio dei tecnici sull’idoneità della cava, Bertolaso ha inviato l’esercito per occuparla. La gente di Chiaiano si sente raggirata, abbandonata e tradita .

Non abbandonateci. E’ questione di vita o di morte per tutti. E’ con tanta rabbia che ve lo scrivo.

Resistiamo!

Alex Zanotelli

da www.forumista.net


Titolo: Napolitano: «Ricordare Borsellino per diffondere la cultura della legalità»
Inserito da: Admin - Luglio 20, 2008, 08:18:52 am
Cronache       Il sedicesimo anniversario della strage di via D'Amelio

Napolitano: «Ricordare Borsellino per diffondere la cultura della legalità»

Messaggio del presidente della Repubblica alla vedova: «Il dolore e lo sgomento restano vivi nella memoria»



ROMA - «Ricordare tutti coloro che hanno pagato con il sacrificio della vita i servigi resi alle istituzioni contribuisce in modo determinante a diffondere la cultura della legalità contro ogni forma di violenza e sopraffazione». Lo sottolinea il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in un messaggio inviato ad Agnese Borsellino nel sedicesimo anniversario della strage di via D'Amelio, per la quale «il dolore e lo sgomento restano vivi nella memoria di tutti». «Nel sedicesimo anniversario del barbaro agguato di via D’Amelio a Palermo, che il 19 luglio 1992 spense la vita di suo marito e dei giovani agenti - Emanuela Loi, Agostino Catalano, Walter Cosina, Vincenzo Li Muli e Claudio Traina - dedicatisi alla sua sicurezza, desidero - scrive il capo dello Stato - far giungere a lei, gentile signora e - suo tramite - a tutti i familiari dei caduti di quel giorno il mio pensiero commosso e partecipe».

RICORDO - «Rinnovare anno dopo anno il ricordo di Paolo Borsellino e della sua scorta - sottolinea Napolitano - costituisce il doveroso riconoscimento che il Paese tributa al dramma da voi vissuto e al coraggio con il quale avete saputo affrontarlo nei lunghi anni trascorsi. Il dolore e lo sgomento per la strage di via D'Amelio restano vivi nella memoria di tutti. La inaudita violenza con cui si colpì un magistrato esemplare, costantemente impegnato nel contrasto alla criminalità organizzata suscitò nel Paese - già segnato dal barbaro attentato di Capaci - una condivisa stagione di lotta contro la brutale spirale mafiosa». «Ricordare tutti coloro che hanno pagato con il sacrificio della vita i servigi resi alle istituzioni - prosegue il presidente della Repubblica - contribuisce in modo determinante a diffondere la cultura della legalità contro ogni forma di violenza e sopraffazione. Le iniziative e la mobilitazione delle forze sane della società e in particolar modo delle generazioni più giovani testimoniano la funzione rigeneratrice dell’esempio e dell’eredità morale che Paolo Borsellino ci ha lasciato. Con commosso ricordo sono vicino a Lei, gentile signora, ai suoi figli e ai familiari degli agenti caduti e, con questo spirito, le rinnovo i sentimenti di gratitudine e di solidarietà di tutti gli italiani».

«NON DIMENTICATE PAOLO» - Dal canto suo, la vedova si è rivolta ai politici presenti in via d'Amelio: «Non dimenticate Paolo» ha detto. E sono stati molti a ricordare Borsellino. Renato Schifani, presidente del Senato: «Credo che il miglior modo per ricordare Borsellino, Falcone e tutti i caduti della mafia sia la risposta che la Sicilia sta dando in questi ultimi tempi». Il ministro della Giustizia, Angelino Alfano: «È un giorno di dolore ma anche di speranza. Cinquantasette giorni fa, quando il 23 maggio commemorammo Falcone, il governo aveva approvato importanti misure riguardanti la sicurezza e di contrasto forte alla criminalità organizzata. Oggi, dopo 57 giorni, quelle misure sono diventate leggi in Parlamento e leggi dello Stato. Noi ne siamo lieti perchè è un segnale di speranza, che lo Stato reagisce». Il ministro della Difesa, Ignazio La Russa: «La mia presenza a Palermo non è solo un omaggio, ma anche un atto di rispetto che richiama tutto il mio percorso politico. Ricordare Borsellino è doveroso e serve a farci riflettere e a fortificare il nostro amore per la libertà». Walter Veltroni, segretario del Pd: «Il 19 luglio è per l'Italia un giorno triste nel quale si ha il dovere di ricordare con onore e gratitudine un uomo che ha incarnato con coraggio e spirito di sacrifico l'essenza vera di uomo dello Stato». Gianfranco Fini, presidente della Camera: «Quello di Paolo Borsellino è un esempio luminoso di italianità e di servizio allo Stato testimoniati fin all'estrema ed eroica coerenza».




19 luglio 2008


da corriere.it


Titolo: Ricerca storica e veti ideologici
Inserito da: Admin - Luglio 20, 2008, 08:20:38 am
16/07/2008

Ricerca storica e veti ideologici

Scritto da: Dino Messina


In Italia spira un brutto vento, e non da oggi. Un vento ideologico che spinge le amministrazioni muncipali del nostro Paese a occuparsi poco di depuratori, asili nido, manutenzione dei marciapiedi e molto di questioni storico politiche che poco hanno a che fare sia con la vera ricerca storica sia con la vera politica. E' quanto successo al comune di San Giuliano Terme, in provincia di Pisa, dove doveva svolgersi la normale presentazione di un libro scritto da un mio collega. Invece tutto si è tramutato in una disputa ridicola, similculturale e similpolitica, che secondo me è uno dei sintomi dell'arretratezza del nostro Paese. Forse mi sbaglierò, ma si anuncia un nuovo caso Pansa.

Ecco l'articolo che in proposito ho scritto per il "Corriere della sera"


Come può la normale presentazione di un saggio sui giovani neofascisti nell’immediato dopoguerra trasformarsi in una «giornata di mobilitazione antifascista»? E l’incontro nella sala municipale di un comune toscano dedicato allo stesso libro trasformarsi in un Consiglio comunale aperto sul tema «La memoria collettiva della Resistenza e della Liberazione dal fascismo, radice della Costituzione italiana»? Sembra una commedia degli equivoci, invece è la realtà del nostro Paese, dove a volte non si riesce a distinguere tra storiografia e politica. Ecco i fatti. Qualche settimana fa Antonio Carioti, giornalista del Corriere della Sera, autore del saggio Gli orfani di Salò, edito da Mursia, è stato invitato da Giacomo Mannocci, capogruppo di An al Comune di San Giuliano Terme, in provincia di Pisa, a presentare il suo libro. Data prefissata sabato 19 luglio, relatori previsti, oltre all’autore, il senatore di An Achille Totaro e lo storico dell’Università di Pisa, Paolo Nello. Luogo prescelto per l’incontro, la sala consiliare del Comune retto da una maggioranza di sinistra.

L’intenzione era di ripetere quanto già avvenuto al festival di storia di Gorizia, dove a presentare il libro di Carioti c’era lo storico Mimmo Franzinelli, e a Milano, dove a discuterne era intervenuto Luigi Ganapini. Franzinelli e Ganapini sono eccellenti studiosi con dichiarate simpatie di sinistra e hanno trovato Gli orfani di Salò un saggio innovativo. Ma la presentazione probabilmente non sarà nella sala consiliare di San Giuliano Terme, prima concessa e poi negata. Gli organizzatori, nell’imminenza dell’evento, hanno distribuito un invito con una scritta un po’ imbarazzata, «la località sarà comunicata prossimamente».
È successo che i capigruppo della maggioranza hanno protestato contro l’utilizzazione «dell’aula di un’istituzione democratica... per iniziative che esaltano i protagonisti e gli orfani della repubblica di Salò». Ai consiglieri si sono rapidamente accodati i gruppi della sinistra estrema di Indymedia. Così la presentazione del saggio di Carioti, autore anche di una biografia di Di Vittorio e di uno studio su Mario Vinciguerra, diventa il pretesto per una delle solite litanìe contro il vento neofascista e «i tentativi di riabilitare la dittatura mussoliniana», come dice un appello dei gruppi «antagonisti».

Ad allontanare il rischio del veto ideologico non sono certo servite le risposte che i capigruppo e il sindaco di San Giuliano Terme, Paolo Panattoni, hanno inviato alla Mursia. L’ufficio stampa ha infatti mandato una copia del volume ai capigruppo, chiarendo che si tratta «di un saggio storico, non di un libro apologetico». Il sindaco, per spiegare la marcia indietro sulla concessione della sala consiliare, ha scritto che «a microfoni spenti ed accesi» nella seduta del 30 giugno «c’è stata una chiara strumentalizzazione della presentazione del libro come attestazione di identità di una parte politica».Forse una parola chiarificatrice arriverà dal segretario del Pd, Walter Veltroni, cui Antonio Carioti ha scritto ricordando un incontro di molti anni fa: «Svolsi il ruolo di moderatore in un dibattito cui partecipò anche lei. Si presentava nell’occasione il libro Fascisti immaginari, in cui Filippo Rossi e Luciano Lanna (attuale direttore responsabile del quotidiano di An Secolo d’Italia) avevano analizzato la cultura diffusa e i miti della destra nell’Italia repubblicana. Ricordo il suo intervento aperto al dialogo con un ambiente politico assai distante da quello cui lei appartiene».
Dino Messina

Pubblicato il 16.07.08 10:43

da lanostrastoria.corriere.it


Titolo: Angelini, il re della sanità sull'orlo della bancarotta
Inserito da: Admin - Luglio 20, 2008, 08:26:30 am
CRONACA

Angelini, il re della sanità sull'orlo della bancarotta

Una vita tra quadri, tangenti e politica

Il Grande Elemosiniere con il culto del denaro

 

dal nostro inviato CARLO BONINI

CHIETI - Ci si può girare intorno quanto si vuole, ma ora che la polvere degli arresti comincia a posarsi, è evidente che la chiave di questa storia, per ora abruzzese, è e resterà lui. Vincenzo Angelini. Il Grande Elemosiniere. E dunque: chi diavolo è davvero Vincenzo Angelini? Un bugiardo, un maligno e astuto mistificatore, che ha covato in silenzio una sapiente e artefatta vendetta, dicono gli uomini che da lunedì sono in carcere schiacciati dalle sue accuse.

"Un chiamante in correità soggettivamente attendibile - scrive il gip Michela Di Fine - che si risolve a raccontare delle pressioni e minacce degli amministratori pubblici, delle dazioni di denaro che gli ha corrisposto, con una scelta sofferta, spontaneamente maturata (...)". Per ragioni che nulla hanno a che vedere con l'etica, ma con un calcolo costi-benefici. Angelini parla "quando si vede "scaricato"".

L'alternativa secca, così come proposta dalle parti processuali, liquida la storia che è in mezzo e gli indizi che propone. Quella di un cinquantaseienne psichiatra di provincia che nella vita, a un certo punto, ha una fortuna e un'intuizione. Angelini ha ereditato dal padre Guido (cui è intitolato lo stadio della città) una clinica di Chieti, "Villa Pini". Una struttura piccola, che tale resta fino a quando non sposa Annamaria Sollecito, psichiatra come lui e, soprattutto, figlia di Antonino Sollecito, direttore sanitario dell'ospedale di Chieti.

Improvvisamente, infatti, da quella struttura sanitaria pubblica, con la diagnosi di "disturbi psichici del comportamento", cominciano ad uscire legioni di pazienti per essere trattati in convenzione a "Villa Pini". A Chieti, prima, e presto in tutto l'Abruzzo, diventa un modo di dire: "Sei un tipo da villa Pini". I pazzi in quanto tali, ma soprattutto dichiarati tali, crescono con ritmi esponenziali e "Villa Pini" diventa un'altra cosa. Un gioiello di sanità privata alimentata da denaro pubblico. Un polmone che pompa centinaia di milioni di euro nella "Novafin", la cassaforte di famiglia, mentre le strutture raddoppiano e alla "Villa Pini" si affianca la "Sanatrix".

Solo Vincenzo Angelini resta quello di sempre. L'uomo è afflitto - come racconterà anche a verbale ai magistrati - da una costante e invasiva forma di diffidenza per l'umanità che lo circonda, che sfocia spesso in paranoia. Del prossimo dice: "Ogni uomo ha un prezzo, bisogna solo stabilire qual è". Perché per misurare il prossimo usa se stesso e ciò che governa i suoi umori: il denaro. "Sono uno spendaccione, lo sanno anche in Tibet", dice ai pubblici ministeri che lo interrogano per giustificare goffamente 120 milioni di euro distratti negli anni dalle casse della "Novafin" e spesi o spostati chi sa come e chi sa dove (in almeno un caso, accertato dalla Procura, nelle piazze off-shore del Delaware e delle Cayman).

Ma il "Tibet" come la passione per i quadri (raccolti in una collezione che si dice pochi hanno avuto il privilegio di contemplare) è un eufemismo che nasconde un rapporto con il denaro e la ricchezza parossistico. Per dire: finché non li lascia per trasferirsi nella vecchia casa al mare di famiglia, a Francavilla, abita 2 mila metri quadri di attico e superattico (settimo e ottavo piano) in viale Europa 5, cuore residenziale di Chieti, che trasforma in una fortezza di lusso ostentato. Almeno due berline con autisti all'ingresso, marmi di Carrara, vasca idromassaggio, giardino pensile. Al terzo piano del palazzo mette a vivere il suocero e ai vicini che, un giorno, chiedono il perché dell'arrivo di decine di telecamere e maxischermi di cui affolla il condominio, spiega che la sicurezza non è mai troppa. Intanto munge le casse del bilancio regionale per un'ottantina di milioni di euro, vantando crediti per altri 110.

Angelini è ossessionato da telecamere, cimici, registrazioni nascoste. Ne riempie anche le sue cliniche, dove non c'è sussurro o passo del personale e dei pazienti che non venga scrutato. Arriva ad usarle con un prete "sindacalista" che incrocia nelle corsie. Conserva e registra metodicamente "a futura memoria" tutto ciò che ritiene possa tornare utile un giorno (contabili bancarie, numeri di cellulari riservati, come quello di Del Turco, scontrini autostradali, agende). Lo fa, appunto, con Del Turco, con Quarta. Con chi li ha preceduti. Con tutti coloro cui - dice - deve "baciare la pantofola", fare "l'uomo di dozzina". Anche se, per quel che oggi è agli atti dell'inchiesta, lo fa solo in parte, lasciando improvvisamente e curiosamente bui (nessuna registrazione, nessun video) i momenti chiave delle "dazioni" milionarie cui sarebbe stato costretto.

In uno degli interrogatori, i pubblici ministeri chiedono spiegazioni di questo "vuoto". Soprattutto, domandano: "Come mai, non è venuto prima in Procura? Avrebbe risparmiato dei soldi e avrebbe lasciato fare il lavoro tecnico alla polizia giudiziaria". Angelini si smarca dicendo che lui è fatto così. Che neppure della Procura poteva fidarsi, perché "gli era stato detto che era in mano a quelli là", i potenti della Regione. E quasi lascia intendere che le foto alla casa di Collelongo, alle mazzette, potrebbero non aver esaurito il suo archivio. Ma, ora, forse sa anche lui che non è più padrone del gioco. La Procura gli era arrivata addosso quando ancora non lo immaginava e lo voleva dentro già con Del Turco. E se un giorno il gruppo dovesse fallire (da tre mesi nelle sue cliniche non si pagano gli stipendi), la sua sorte di bancarottiere è segnata.

(19 luglio 2008)

da repubblica.it


Titolo: Rotelli, il Re delle cliniche e lo scivolone sui rimborsi
Inserito da: Admin - Luglio 21, 2008, 02:52:48 pm
21/7/2008  - INCHIESTA

Rotelli, il Re delle cliniche e lo scivolone sui rimborsi
 
Milanese, è a capo del primo gruppo ospedaliero in Italia

FRANCESCO MANACORDA


Per farlo innervosire - lui che solitamente è persona affabilissima - bastano tre paroline: «Re delle cliniche». Il professor avvocato Giuseppe Rotelli non ama infatti che il suo impero sia confuso con il circoscritto mondo delle cliniche private, sebbene proprio sulla sanità privatizzata abbia costruito le proprie fortune. Basta comunque una scorsa ai dati del suo gruppo San Donato - «il primo gruppo ospedaliero in Italia» recita il sito aziendale - per essere investiti da una valanga di numeri che, cliniche o meno, ne confermano il ruolo forte nella Sanità italiana e centrale in quella lombarda. Ad esempio 2,2 milioni di pazienti transitati dai suoi 18 ospedali nell’anno appena passato, 4000 posti letto e cinque milioni di prestazioni ambulatoriali, quasi 10 mila dipendenti e 101 sale operatorie.... L’elenco potrebbe continuare a lungo, ma la sostanza è che in mano al professore pavese di 63 anni - nato come giurista, cresciuto come esperto di diritto sanitario e dal 1980 trasformatosi in imprenditore rilevando l’attività paterna - c’è un impero che è al primo posto in Italia nella salute privata e addirittura, lo certifica una ricerca di Goldman Sachs, al quinto in Europa. Un impero che dall’iniziale lascito del padre Luigi cresce di colpo quando nel 2000 Rotelli rileva da Antonino Ligresti, ancora scottato dalla tragedia del Galeazzi, tre ospedali e due cliniche tra cui la celebre Madonnina. Oggi l’imprenditore fattura 725 milioni di euro ed ha ambizioni di crescita anche oltreconfine, visto che in queste settimane sostenuto da Intesa-Sanpaolo, è stato in gara per aggiudicarsi in Francia il gruppo Vitalià, titolare di ben 50 cliniche. Perché stupirsi di tanta forza, del resto, se come ama spiegare lui stesso, «la Lombardia è la seconda Regione più ricca d’Europa dopo l’Ile de France»?.

Ricca e anche generosa, visto che tra le attività del gruppo San Donato ci sono anche quelle nella cardiochirurgia infantile in Africa, di cui Rotelli ha appena festeggiato il quindicesimo anniversario, annunciando l’apertura di dieci centri nel continente. Altri numeri sono quelli che invece hanno attratto l’attenzione della Procura milanese che il 15 luglio ha chiesto e ottenuto il sequestro preventivo di 2 milioni di euro che la Asl di Melegnano avrebbe dovuto versare proprio al Policlinico San Donato. Questo perché il pm considera che che la stessa cifra sia stata conseguita dal gruppo di Rotelli come «ingiusto profitto», derivante dai reati di falso in atto pubblico e truffa aggravata. E del resto già da gennaio lo stesso Rotelli e altri dirigenti del suo gruppo sono indagati per presunti rimborsi gonfiati richiesti al servizio sanitario. Accuse, ovviamente respinte al mittente dal diretto interessato, che esprime fiducia di prammatica nella magistratura, ma ricorda anche come un’analoga inchiesta del 1992 si sia conclusa con la piena assoluzione di tutti gli imputati. Così come Rotelli respinge le critiche al sistema dei Drg, in pratica il tariffario delle prestazioni rimborsate dal settore pubblico agli operatori privati. Ne ha parlato pubblicamente a metà giugno, mentre esplodeva a Milano lo scandalo della clinica Santa Rita: «I Drg sono scelti dal singolo medico ed è lui che ne risponde. Non si deve criminalizzare un’intera categoria, una Regione o un modello». E ancora: «Il precedente modello era scandaloso. Le prestazioni si pagavano a “piè di lista”», mentre quello attuale «è virtuoso perché si paga la prestazione». L’imprenditore sa bene quello di cui parla, visto che le regole del sistema sanitario lombardo sono anche frutto del suo lavoro. Nel 1972 l’allora presidente della regione Lombardia Piero Bassetti lo chiama nel gruppo di esperti che dà vita all’ufficio legale della giunta regionale: ricopre per due mandati la presidenza del Comitato regionale per la programmazione sanitaria oltre a collaborare alla stesura del piano ospedaliero regionale del ‘74. Dunque, le regole che segue adesso il Rotelli imprenditore derivano da quelle norme che il Rotelli studioso ha contribuito a scrivere. Del resto è proprio nel sistema sanitario lombardo - vero marchio di fabbrica del governatore Roberto Formigoni - che il suo impero è saldamente radicato.

A parte un ospedale a Bologna tutti gli altri «stabilimenti ospedalieri» del gruppo sono in Lombardia. E anche qui i numeri spiegano perfettamente chi sia e quanto pesi Rotelli: sono suoi l’8% dei posti letto della regione, va nelle sue casse il 9,2% del valore di ricoveri, con punte che superano un quinto del totale - il 21,65 a essere precisi - in comparti quali la cardiochirurgia o l’ortopedia. La proprietà è privata - in testa a tutto c’è la holding Papiniano di cui Rotelli è amministratore unico - ma il fatturato di tutto rispetto viene in gran parte dalle casse pubbliche che pagano le prestazioni convenzionate. Inevitabile, in questa situazione, coltivare rapporti con la politica. Negli Anni ‘80 era vicino a Bettino Craxi, «un uomo molto intelligente, ma il suo grande difetto fu la mancanza di morale», ha detto proprio a La Stampa. Adesso sta ben attento a non farsi marchiare politicamente anche se è oggettivamente legato alla giunta Formigoni. Del resto il modello lombardo secondo Rotelli si può migliorare ancora, e molto. In maggio, appena entrato in carica il governo Berlusconi, ha pubblicato un intervento sul Sole 24 Ore nel quale spiega che «per la Sanità è tempo di iniziative serie e concrete, dopo un lungo periodo di chiacchiere ispirate a visioni ideologiche e propagandistiche». Novità che, secondo l’imprenditore, dovranno essere sostanzialmente la trasformazione degli ospedali in società per azioni «pur mantenendone la proprietà totalmente pubblica» anche in modo da «adottare modelli di organizzazione più flessibili, più adatti alla competizione, abbandonando l’uniformità imposta dal principio di legalità, che imprigiona la Pubblica amministrazione». E poi, spiega, serve un rinnovamento profondo delle vecchie strutture ospedaliere, visto che «oltre il 60% dei 750 ospedali italiani ha più di 60 anni». La soluzione, qui, sarebbe il «project financing», nel quale i privati si accollano le spese e «consentirebbe anche la gestione economica di alcuni ospedali che per i successivi 30 anni potrebbero essere gestiti dai promotori».

Accanto al Rotelli imprenditore e a quello che programma le politiche pubbliche c’è poi una terza e più recente incarnazione. Il Rotelli editore, già coinvolto nell’avventura della Voce di Indro Montanelli e che adesso, raccattando dal Banco Popolare i resti della disastrosa avventura di Stefano Ricucci dalle parti di via Solferino, ha messo insieme una quota - tra partecipazione effettiva e opzioni d’acquisto - che lo proietta al secondo posto tra i soci della Rcs con quasi l’11%. Sarà l’anticamera obbligatoria all’ingresso nel tempio dei «poteri forti» finanziari, ci si interroga da mesi a Milano? No, è pura passione per l’editoria, assicura lui che però a causa di quella passione e del crollo dei titoli Rcs ha perso finora perso 200 milioni. E mentre risponde gentilissimo alle curiosità dei cronisti senza mai schierarsi per l’uno o l’altro dei grandi protagonisti della finanza - in primis Giovanni Bazoli - ai quali lo si vorrebbe vicino, le sue cliniche - pardon, ospedali - continuano a fatturare e l’impero della sanità «made in Lombardia» a crescere.

da lastampa.it


Titolo: MICHELE AINIS Immunità dei politici? Sì, però
Inserito da: Admin - Luglio 21, 2008, 02:57:13 pm
21/7/2008
 
Immunità dei politici? Sì, però
 
 
MICHELE AINIS

 
L’immunità della politica non è la prima emergenza nazionale. Però in quest'avvio di legislatura ha guadagnato la ribalta, oscurando ogni altra questione sotto una nube di veleni. Tanto vale dunque prendere il toro per le corna, cercando una soluzione duratura. Significa che dovremmo smetterla di ragionarci sopra indossando una casacca, una maglietta da tifoso, quella dei giudici o quella dei giudicati. E perciò significa in primo luogo riconoscere che l'immunità non è affatto un privilegio odioso, un salvacondotto per i briganti seduti in Parlamento. È odiosa casomai la modalità con cui il nostro ordinamento ne disciplina l'uso, la regola schizoide che protegge una quota degli eletti cacciando all'inferno l'altra quota.

D'altronde non è un caso se tale speciale protezione viene assicurata da tutte le democrazie di questo mondo. Quanto all'irresponsabilità per le opinioni espresse in Parlamento, la sua prima origine risale nientemeno che all'Inghilterra del 1397, durante il regno di Riccardo II. L'immunità dagli arresti prende invece corpo nella Francia rivoluzionaria, con un decreto del 26 giugno 1790, dopo l'incriminazione del deputato Lautrec. In ambedue le fattispecie l'inviolabilità delle assemblee legislative servì a difenderne l'indipendenza, o meglio la libertà rispetto a persecuzioni politiche intraprese con strumenti giudiziari. In altre parole, la garanzia protegge la funzione, non i singoli. Ecco perché essa è sempre irrinunciabile, come il Parlamento subalpino chiarì fin dal 1854. Ed ecco perché non sta né in cielo né in terra la rinunciabilità inventata dal Lodo Alfano: un'invenzione che davvero trasforma la prerogativa in privilegio.

Ma non è tanto di questo che si tratta. Nel 1947 i costituenti disegnarono un sistema equilibrato, che ruotava attorno all'autorizzazione a procedere, concepita quale antidoto al fumus persecutionis. Sicché il diniego - disse nel 1988 la Giunta del Senato - va espresso contro ogni azione penale persecutoria, «per il tempo e le modalità del suo esercizio ovvero per la sua manifesta infondatezza». Poi, sotto il vento di Tangentopoli, nell'autunno del 1993 i casi sottoposti ad autorizzazione subirono una robusta sforbiciata. Non senza incongruenze, giacché al contempo fu introdotto il preventivo assenso delle Camere per intercettare un loro membro, che è un po' come se il marito avvisasse la consorte che il giorno dopo la sorprenderà in flagranza d'adulterio. Passa ancora qualche anno, e nel 2001 la riforma federalista eleva alla massima potenza il ruolo dei presidenti regionali, senza però dotarli di alcun ombrello protettivo. Il resto è cronaca di oggi: il lodo Alfano, col suo scudo di ferro per quattro uomini delle nostre istituzioni.

Il risultato di tutti questi aggiustamenti in corso d'opera è un sistema sbilenco e strampalato. Rende signori della legge i presidenti delle Camere, ma lascia esposti all'abuso giudiziario quelli regionali, che nelle loro venti repubblichette sommano le funzioni di capo di Stato e di governo. Senza dire del sindaco di Roma o di Milano, che pesa ormai come un ministro, ma non ha le garanzie riconosciute ai consiglieri del Molise. Serve dunque, in primo luogo, recuperare un'omogeneità di trattamento. E serve in secondo luogo riesumare la vecchia autorizzazione, depurandola però dalle storture che ne viziavano la resa ai tempi della prima Repubblica. Perché allora non c'era neanche un termine per rispondere alle domande della magistratura, tanto che fin dalla I legislatura ne vennero insabbiate 215 su 530. Ma soprattutto perché mancava la distinzione fra controllante e controllato. Da qui la prassi corporativa del diniego di autorizzazione (186 casi su 229, nella legislatura precedente la riforma), anche per reati come gli assegni a vuoto o la sfida a duello. Da qui, in conclusione, l'esigenza di affidare ogni valutazione sul fumus persecutionis a un organo terzo, né giudiziario né politico. Del resto quest'organo c'è già, e ha sede alla Consulta. Diamogli quest'altra competenza, e non ne parliamo più.

micheleainis@tin.it
 
da lastampa.it


Titolo: Le immunità negli altri Paesi
Inserito da: Admin - Luglio 22, 2008, 11:53:54 pm
Le immunità negli altri Paesi


Le legislazioni sull'immunità per le più alte cariche dello Stato e per i parlamentari nei maggiori Paesi occidentali sono molto variegate. Ecco in sintesi cosa è previsto negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, Francia e Germania in materia di immunità.

STATI UNITI - Il principio di base negli Stati Uniti è che nessuno è al di sopra della legge. Anche il presidente può essere messo in stato di accusa, attraverso lo strumento dell' impeachment, qualora venga sospettato di avere commesso gravi crimini nell'esercizio delle sue funzioni. Nella storia Usa solo due presidenti sono stati comunque sottoposti ad impeachment: il repubblicano Andrew Johnson (nel 1868) e il democratico Bill Clinton (1999). Il presidente Richard Nixon era stato a sua volta impegnato in un braccio di ferro con la Corte Suprema, per la consegna delle registrazioni fatte nello Studio Ovale, ma si era dimesso prima che si giungesse ad un verdetto. Il presidente ha a sua disposizione lo strumento del ‘privilegio dell'esecutivo' che lo protegge dal fornire informazioni che potrebbero mettere a repentaglio la sicurezza nazionale. George W. Bush ha fatto ampio uso di questo privilegio rifiutandosi, ad esempio, di consegnare al Congresso documenti riguardanti il suo vice Dick Cheney ed il suo ex consigliere Karl Rove.

GRAN BRETAGNA - In una monarchia costituzionale come il Regno Unito, l'immunità è garantita solo al Re o alla Regina, perché storicamente è dal sovrano che emana lo Stato, ed è lui (o lei) che crea i tribunali «per proteggere il popolo». Dopo il Crown Proceedings Act del 1947, è possibile portare in tribunale il governo (che è il governo della regina), ma in nessun caso la sovrana, per qualsiasi sua attività. Da qui l'espressione ‘The Queen can do no wrong' (la regina non può far nulla di sbagliato). L'immunità non riguarda gli altri membri della famiglia reale o gli esponenti di governo. I parlamentari sono immuni, per il tempo che restano in carica, dalle denunce per diffamazione o vilipendio, ma sono perseguibili per ogni altro reato, senza autorizzazione del Parlamento.

GERMANIA - Il presidente della Repubblica federale tedesca e tutti i membri del Parlamento, incluso il presidente del Bundestag, godono dell'immunità contro eventuali procedimenti legali. L'immunità può essere revocata solo dal Parlamento, anche nel caso del presidente della Repubblica, il quale non è membro del Parlamento. Tutte le altre cariche, incluso il cancelliere ed i suoi ministri, non godono dell'immunità, a meno che non siano allo stesso tempo membri del Parlamento. Il presidente della Corte Costituzionale tedesca non gode di alcuna immunità.

FRANCIA - La protezione di cui gode il presidente della Repubblica francese dall'accusa di aver commesso reati è stata rafforzata dalla riforma voluta da Jacques Chirac al termine del suo mandato, l'anno scorso. Il Parlamento in seduta congiunta (si chiama allora Alta Corte) può votare a maggioranza dei 3/5 l'impeachment del presidente nel caso di gravi mancanze incompatibili con la sua funzione o per alto tradimento. Per il resto, l'immunità quasi totale è garantita da una legge costituzionale che riguarda non solo indagini penali, ma anche iniziative amministrative. L'immunità dura fino ad un mese dopo la scadenza del mandato. Per i parlamentari vige il principio di ‘irresponsabilita', nel caso di atti compiuti nell'espletamento delle proprie funzioni. Per quanto riguarda invece tutti gli atti suscettibili di denuncia penale commessi al di fuori dei propri poteri di deputato o senatore durante il periodo in cui si è in carica, è prevista l'immunità, ma dagli anni '90 il cosiddetto ‘regime di inviolabilita' è stato ristretto in quanto non protegge più dall'apertura delle inchieste da parte della magistratura. Le autorizzazioni a procedere sono automatiche per la flagranza di reato e in caso di condanne definitive nel corso del mandato si procede direttamente all'arresto.


Pubblicato il: 22.07.08
Modificato il: 22.07.08 alle ore 20.00   
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Titolo: Cesare Damiano. Per il diritto a non Morire
Inserito da: Admin - Luglio 24, 2008, 06:49:52 pm
Per il diritto a non Morire

Cesare Damiano


La settimana scorsa si sono commemorate le vittime del Molino Cordero di Fossano, in provincia di Cuneo. Cinque lavoratori persero la vita a seguito dell´esplosione del Molino, con una tragica sequenza di morte.
Era il 16 luglio del 2007 quando avvenne la tragedia, ricordata con una iniziativa alla quale hanno partecipato, ad un anno di distanza, i familiari delle vittime con la loro Associazione "16 luglio 2007: per non dimenticare", i cittadini di Fossano, le forze politiche e sociali.

Sabato scorso, a Campello sul Clitunno, i familiari delle vittime dell´esplosione della «Umbria Olii», hanno promosso una fiaccolata per ricordare la morte di quattro lavoratori, morti due volte dopo la richiesta dell´azienda di risarcimento dei danni rivolta ai familiari delle vittime, bambini compresi. Due luoghi distanti, ma simili e vicini. Quel Molino squarciato dal terribile scoppio; quei silos esplosi e scaraventati verso il cielo. Due scenari di guerra. Vere stragi sul lavoro, dietro le quali si celano delle persone, dei volti, delle famiglie disperate, dei nomi: Valerio Anchino, Marino Barale, Antonio Cavicchioli, Massimiliano Manuello, Mario Ricca, a Fossano; Giuseppe Coletti, Maurizio Manili, Tullio Montini, Vladimir Toder, a Campello. Ero presente a quelle due cerimonie, partecipe di quel dolore, e ho ritrovato il filo comune che unisce questi tragici eventi: la voglia di non dimenticare, di non permettere che il tema del lavoro ritorni nel silenzio e nell´oblio dal quale ci eravamo illusi di averlo sottratto, dopo una breve ma intensa stagione di iniziative politiche, sociali e culturali che lo avevano nuovamente posto all´attenzione del paese nella sua dimensione soggettiva e collettiva. Pensioni migliori, tutele nel mercato del lavoro, stabilità, ammortizzatori sociali, lotta contro il lavoro nero e la precarietà, sicurezza nei luoghi di lavoro. Tutti questi argomenti sono stati oggetto di una lunga e difficile concertazione e hanno prodotto risultati importanti : il protocollo del 23 luglio 2007 e il Testo Unico sulla Salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Ci hanno confortato in questi ultimi anni i continui richiami del Presidente della Repubblica sul valore della vita e sull´esigenza di proteggerla nei luoghi di lavoro. Abbiamo visto primi miglioramenti, anche se ancora insufficienti, scorrendo le statistiche dell´INAIL. Nel 2006, secondo i dati dell´Istituto, sono morte 1341 persone e 1210 nel 2007: una diminuzione del 10%, anche frutto dell´intesa tra governo e parti sociali sulle norme che hanno consentito di combattere il lavoro nero e aumentare la sicurezza. Anche se una sola morte sul lavoro rappresenta un dolore per una famiglia, per una comunità aziendale, per un territorio.

Pensiamo che per ricordare in modo degno ed adeguato tutte le vittime occorra non abbassare la guardia nella lotta al lavoro nero e alla precarietà; applicare le norme contenute nel Protocollo sul Welfare del 23 luglio 2007 e nel Testo Unico sulla Salute e Sicurezza nei luoghi di lavoro, contro i tentativi di dilazione e manomissione operati dal Governo Berlusconi; attuare la delega sui lavoro usuranti, entro il 31 dicembre di quest´anno, come previsto da un ordine del giorno votato da tutto il Parlamento. Vogliamo sostenere l´iniziativa promossa da «Articolo 21» insieme a molte associazioni e cittadini per promuovere una «carovana per il lavoro sicuro», che colleghi idealmente i luoghi coinvolti negli eventi tragici più recenti che ci vengono alla memoria: Fossano, Campello sul Clitunno, Molfetta, Marghera, Torino, Mineo e Casale (da ricordare per le numerosi morti causate dall´amianto). Percorriamo insieme questi luoghi, uniamoli con altri luoghi che vogliano ricordare, organizzando incontri, eventi, dibattiti: manifestazioni capaci di unire lavoratori, amministratori locali, forze politiche, sociali, culturali e dell´informazione, perché la sicurezza è un diritto dei lavoratori e una nazione che voglia essere civile deve sapere che il lavoro è innanzitutto difesa della vita.

Pubblicato il: 24.07.08
Modificato il: 24.07.08 alle ore 10.28   
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Titolo: Di Pietro: «raccolta firme per abrogare questa legge immorale»
Inserito da: Admin - Luglio 25, 2008, 10:12:50 am
Di Pietro: «raccolta firme per abrogare questa legge immorale»

L'Unità critica Napolitano: «Disagio»

Veltroni: «No, il suo era un atto dovuto»

Editoriale del direttore Padellaro contro il lodo Alfano: «Ci sono 4 cittadini più uguali degli altri»


 
MILANO - Disagio. Il direttore del quotidiano L'Unità, Antonio Padellaro, usa questa parola per descrivere l'imbarazzo nei confronti del presidente Giorgio Napolitano in merito alla firma apposta al lodo Alfano. «Non saremmo sinceri se nascondessimo il nostro forte disagio per la norma sull'immunità delle quattro più alte cariche dello Stato dietro il rispetto formale per l'istituzione che ne ha convalidato il testo o nell’attesa di una decisione successiva - scrive Padellaro nel corsivo intitolato 'Caro presidente' -. Da oggi dunque ci sono quattro cittadini più uguali degli altri e tutto per consentire a uno solo, e sappiamo a chi, di non essere più sottoposto ai dettami della giustizia, come un sovrano senza limiti. Caro presidente - scrive ancora il direttore dell'Unità - siamo convinti che lei troverà il modo e le parole per rispondere anche a questo largo malessere. In nome dell’unità nazionale che lei rappresenta e che qualcuno cerca di calpestare per esclusivi interessi personali, gliene saremo grati».

VELTRONI - Nel tardo pomeriggio, dopo numerose reazioni all'editoriale dell'Unità, arriva il commento di Walter Veltroni. «Quello del Capo dello Stato - spiega il segretario del Partito democratico in una nota - è un atto dovuto. «Sono convinto che il presidente Napolitano - afferma Veltroni - in tutta la vicenda del cosiddetto 'lodo Alfano' abbia svolto con il consueto equilibrio il suo compito in una fase certamente non facile Così come penso che, dopo l’approvazione delle Camere, la firma del provvedimento sia stata un atto dovuto». «Al Presidente nella nostra costituzione - prosegue il leader del Pd - viene riservato in casi come questo una sola valutazione di "manifesta incostituzionalità" del provvedimento. E in questo caso il testo approvato teneva conto di molti dei rilievi di costituzionalità sollevati dalla Corte in occasione della precedente bocciatura di quello che allora si chiamava lodo Schifani». «Manteniamo questa ferma convinzione sull'operato del Presidente, senza con questo rinunciare - chiarisce Veltroni - in alcun modo al nostro giudizio negativo sul lodo Alfano, e anche all'idea che, una materia di questa delicatezza, la maggioranza avrebbe fatto bene ad affrontarla con una legge costituzionale e non con un provvedimento ordinario fatto approvare in maniera tanto frettolosa da apparire autoritaria».

DI PIETRO: REFERENDUM - Nello schieramento di centrosinistra L'Unità trova invece un alleato in Antonio Di Pietro. Il leader dell'Idv già 'a caldo' aveva parlato di «legge immorale e incostituzionale», e poi ha annunciato che il suo partito raccoglierà le firme per farla abrogare. «È immorale che quattro persone possano commettere ogni tipo di crimine e non possano essere processate. Penso che chi è al governo dovrebbe essere processato prima di essere eletto, non dopo».

CICCHITTO: GUINZAGLIO DI PIETRO - Spara a zero il capogruppo del Pdl alla Camera, Fabrizio Cicchitto: «Il fatto che Di Pietro dia una valutazione negativa del lodo Alfano è già di per sé una dimostrazione della bontà della legge. Poi attacca anche il presidente della Repubblica e questo è significativo. In terzo luogo, vedremo cosa ci aspetta in futuro: se Veltroni riuscirà a togliersi il guinzaglio che finora gli ha messo Di Pietro».

CAPEZZONE: «SCONCERTANTE» - «È davvero sconcertante la sintonia de L'Unità, di Di Pietro e di frange del Pd nell'esprimere attacchi immotivati e gravi contro il presidente della Repubblica - commenta Daniele Capezzone, portavoce di Forza Italia -. C'è da pensare che il presidente Napolitano, agli occhi di qualcuno, sia colpevole di esercitare al meglio le sue funzioni di garanzia, e di usare la sua moral suasion per rendere degni di un paese normale i rapporti tra politica e magistratura. E invece questi sono altrettanti meriti del capo dello Stato. A meno che qualcuno non speri, prima o poi, di trasferire il Quirinale a piazza Navona».



24 luglio 2008

da corriere.it


Titolo: Minniti: «Urla e allarmi per coprire il loro fallimento»
Inserito da: Admin - Luglio 27, 2008, 12:18:19 am
Minniti: «Urla e allarmi per coprire il loro fallimento»

Luca Sebastiani


Di emergenza in emergenza, una cosa è certa, prima o poi la «bolla speculativa sulla sicurezza esploderà». Marco Minniti, ministro ombra degli Interni, è infatti convinto che la «strategia dell’allarmismo» della maggioranza prima o poi si rivelerà un «boomerang». Perchè su un tema come quello della sicurezza, «il governo corre i cento metri, quando invece bisognerebbe correre un mezzo fondo». Alla fine, sul medio periodo «c’è la prova», ci sono i dati che finiranno per smascherare l’inefficacia di questa destra che «urla per coprire le proprie contraddizioni».

Minniti, però intanto il governo ha decretato lo stato d’emergenza. C’era questa necessità?
«È solo una bufala. Basta leggere il comunicato del Viminale e poi ascoltare le dichiarazioni della maggioranza. Da una parte c’è un testo che spiega come in realtà si tratti della proroga e dell’estensione di un provvedimento che già c’era per tre regioni. Dall’altra parole allarmastiche e la solita politica dell’annuncio».

Eppure secondo i dati gli sbarchi sembrerebbero in aumento. È realmente un’emergenza?
«I dati parlano di un quadro simile a quello degli altri paesi europei che si confrontano su questa questione. Non c’è un caso Italia in Europa».

Perchè allora questo allarmismo per l’aumento degli sbarchi?
«Perchè è la parte più visibile dell’immigrazione, anche se minoritaria. E poi per coprire quella che è già una sconfitta alla loro politica ideologica sull’immigrazione. Gli sbarchi sono aumentati proprio quando al governo c’è la destra. E questo dimostra che la durezza dei simboli non ha alcuna validità di deterrenza, che non è certo la dichiarazione infuocata di un Calderoli che potrà bloccare un immigrato che mette in gioco la propria vita. La loro è solo politica dell’annuncio».

Cioè?
«La destra fa un annuncio che aumenta l’insicurezza nel paese, e poi ne fa un’altro che la rilancia ulteriormente. Come se si fosse in una perenne campagna elettorale. Con la paura puoi vincere le elezioni, ma non puoi governare. Altrimenti si entra in un circolo vizioso e, direi, pernicioso. Perchè al di là degli annunci, ci sono le cose concrete che tornano indietro come un boomerang».

E qual è la reale politica di questo governo in tema d’immigrazione?
«Una politica inefficace. Perchè rispetto ad un problema comune all’Ue come quello dell’immigrazione, il governo conduce una forte iniziativa solitaria ed eccentrica rispetto ai nostri partner europei. Penso ad esempio al caso delle impronte prese ai bimbi rom. Bisognerebbe agire a livello comunitario e attraverso la cooperazione. E invece si fa una politica completamente ideologica. Si introduce l’aggravante di clandestinità che complica le cose e fa un unico fascio di badanti e delinquenti. La stessa Bossi-Fini non è solo una bandiera da brandire, senza alcun effetto».

Cortine fumogene insomma. Per nascondere cosa?
«Sullo sfondo dell’emergenza decretata dal governo rimane un paese in piena crisi economica con gli stipendi più bassi d’Europa e i problemi reali derubricati in secondo piano. Rimangono i tagli».

Quelli alla sicurezza?
«Più che di tagli bisognerebbe parlare di un vero colpo di scure. I 3,4milardi in meno rischiano infatti di compromettere le capacità funzionali e operative del comparto sicurezza».

Cosa vuol dire concretamente?
«Tra i 6 e gli 8mila uomini in meno in un organico già in deficit. Meno mezzi e meno soldi per gli straordinari. E poi la cosa più dolorosa, lo slittamento sine die della questione contrattuale. Oggi il 60% dei militari guadagna meno di 1.200 euro al mese. L’unico risultato che ha ottenuto il governo è stato di riunire tutti i sindacati e i Cocer su una piattaforma comune. Non era mai successo».

Pubblicato il: 26.07.08
Modificato il: 26.07.08 alle ore 9.55   
© l'Unità.


Titolo: Mercati senza privacy
Inserito da: Admin - Luglio 27, 2008, 10:57:39 am
27/7/2008
 
Mercati senza privacy
 
 
 
 
 
ALBERTO BISIN
 
Nella filosofia politica classica inglese il diritto alla privacy è concepito principalmente come difesa dell’individuo dal potere dello Stato.
Nella sua prima formulazione sistematica, ad opera dei giuristi americani Samuel Warren e Louis Brandeis nel 1890, il diritto alla privacy è definito conseguentemente in modo minimale: come il diritto «di essere lasciati in pace» - «to be let alone». Da allora l’interpretazione del concetto di privacy è stata estesa enormemente dalla pratica giuridica americana come da quella europea.

Negli Stati Uniti, ad esempio, la Corte Suprema ha basato sul diritto alla privacy la legislazione riguardante i matrimoni interrazziali e l’aborto.

Il diritto alla privacy non è però saldamente riconosciuto come un diritto individuale inalienabile, alla specie ad esempio della libertà di pensiero. Alcuni giuristi ed economisti ritengono che il controllo di un individuo riguardo alla disseminazione di informazioni anche private che lo riguardano possa tendere in generale a ledere gli interessi di altri individui. Questo sarebbe il caso, ad esempio, di un professionista che nasconda ai propri clienti aspetti della sua vita privata dalla conoscenza dei quali essi potrebbero essere indotti a dubitare della sua onestà professionale.

Più generalmente, abbondano gli esempi di situazioni nelle quali limitazioni al diritto di privacy sono naturalmente richieste dai mercati nei confronti di coloro che esercitano posizioni pubbliche. Si pensi all’amministratore delegato di una società quotata in Borsa che rende pubblico il proprio portafoglio finanziario e al politico che garantisce accesso alla propria cartella clinica. Un amministratore di una società quotata che nasconda i propri interessi finanziari privati agli azionisti vedrà cadere il valore di mercato della società. Gli azionisti assumeranno che egli stia riducendo i propri interessi nella società stessa, possibilmente sulla base di informazioni private sfavorevoli sulla sua profittabilità: se le sue informazioni fossero favorevoli, l’amministratore non avrebbe infatti alcun incentivo a nascondere le proprie posizioni finanziarie. Si comprendono così anche le recenti pressioni dei mercati finanziari per meglio conoscere lo stato di salute di Steve Jobs, presidente di Apple Computers, considerato uno dei principali artefici del successo della società. Si comprende anche il crollo di Apple in Borsa in seguito al tentativo della società stessa di difendere la privacy del presidente. La gravità di questa situazione va oltre gli effetti economici di una eventuale malattia di Steve Jobs, perché alimenta il rischio di manipolazione del valore di mercato della società da parte di coloro che hanno informazioni private sulla sua salute.

La trasparenza delle attività degli amministratori delle società quotate in Borsa è generalmente richiesta per legge in quei paesi il cui codice civile maggiormente protegge gli investitori. L’intervento legislativo è giustificato in quanto il sistema giudiziario e le istituzioni incaricate del controllo del mercato dei capitali sono più facilmente nelle condizioni di monitorare le attività degli amministratori che non i singoli azionisti. Ma in un mercato finanziario competitivo ed efficiente, sono gli stessi operatori che hanno interesse a «legarsi le mani» per legge in modo da garantire gli investitori e così da limitare l’eventuale sconto dei valori delle proprie aziende sulla base di infondate aspettative negative. La questione non è affatto diversa per quanto riguarda la politica.

L’interesse degli uomini politici alla propria privacy è infatti chiaramente in opposizione all’interesse degli elettori ad essere informati riguardo ai rappresentanti alla gestione del bene pubblico. Non si vede ragione alcuna per cui l’interesse degli elettori dovrebbe riguardare solo l’attività politica in senso stretto dei propri rappresentanti e non debba includere, ad esempio, le loro attività economiche, le loro condizioni di salute, così come i loro comportamenti privati qualora essi rivelino aspetti rilevanti della loro condotta morale. Come però in ambito finanziario sono i mercati a richiedere trasparenza, così spetta agli elettori penalizzare quelli tra i politici che nascondano i propri interessi economici e privati dietro al diritto alla privacy. Se così si comportassero gli elettori, non sarebbe nell’interesse di alcun politico richiedere mezzi per poter meglio esercitare controllo sulle funzioni di una magistratura ed una stampa che attentino alla loro privacy.
 
da lastampa.it


Titolo: FUMO "VERBOTEN" E' INCOSTITUZIONALE (rispettare la dignità del cittadino ndr).
Inserito da: Admin - Luglio 31, 2008, 03:15:54 pm
L'ALTA  CORTE TEDESCA BOCCIA DIVIETO NEI LOCALI

FUMO "VERBOTEN" E' INCOSTITUZIONALE

 
Il divieto di fumare nei locali pubblici come birrerie e discoteche e' incostituzionale perche' minaccia la sopravvivenza degli esercizi piu' piccoli che non possono dotarsi di una sala fumatori. Lo ha stabilito questa mattina la Corte Costituzionale tedesca, che ha accolto il ricorso di due proprietari di birrerie di Berlino e Tubinga e quello del titolare di una discoteca di Heilbronn.

La sentenza impone alle autorita' della citta'-Stato di Berlino e del Baden-Wuerttemberg di rivedere la legge entro il 2009.

Nel frattempo gli attuali divieti di fumare resteranno in vigore. I ricorrenti avevano lamentato una forte diminuzione del loro fatturato e la discriminazione subita dai loro locali, che disponendo di un unico ambiente non potevano offrire una sala fumatori ai clienti. Negli altri 14 laender tedeschi fumare resta "verboten" in ristoranti e birrerie, con il divieto applicato con norme differenti in ogni singolo Land.

La decisione dei giudici di Karlsruhe incoraggera' altri proprietari a presentare ricorso alle autorita' locali.

In Sassonia, nello Schleswig-Holstein e nella Renania-Palatinato i giudici hanno gia' abolito il divieto di fumare nei locali con un unico ambiente, a patto che a servire le bevande siano i proprietari stessi. Il primo luglio dell'anno scorso il divieto di fumare nei locali pubblici e' stato adottato anche dall'ultimo dei 16 Lander tedeschi. E nel quarto trimestre del 2007, in un Paese in cui un adulto su tre fuma, il fatturato di discoteche e birrerie e' diminuito del 14%, e quello dei ristoranti hanno subito un calo degli incassi del 6,3%.

da  (AGI) - Berlino, 30 lug. -


Titolo: "Seviziato come un animale". (italiani all'estero... come li cauteliamo? ndr)
Inserito da: Admin - Agosto 03, 2008, 07:56:04 pm
3/8/2008 (7:29) - L'INTERVISTA

"Seviziato come un animale"
 
Libero dopo un anno il torinese arrestato alle Seychelles: "mi hanno picchiato tutti i giorni"


LODOVICO POLETTO

TORINO


Il primo caffè da uomo libero è al bar del terminal 1 dell’aeroporto di Malpensa, alle 18,20 di ieri. «Finalmente in Italia. Finalmente via da quell’inferno maledetto» dice. Telefonata rapida a nonna Bianca: «Tutto bene, tra poco sono lì». E poi uno sfogo fatto di lacrime e silenzi.

Capelli lunghi legati in una treccia, pizzetto, T-shirt, jeans e sandali neri: eccolo qui Federico Boux, 33 anni domani, il ragazzo torinese arrestato un anno fa alle Seychelles dove si era trasferito con la famiglia. Un anno di galera, durissima. Pestaggi, vessazioni. E tutto per 6 dosi di eroina, trovate nella sua automobile. «Droga non mia» ripete come in una litania, raccontando una storia che ha il sapore della congiura. Due anni in attesa di un processo che non veniva mai. Poi, il suo avvocato di Torino, Domenico Peila, ha giocato d’astuzia. E alla fine Federico è finito in un’aula di tribunale.

Ovviamente c’è stata la condanna, ma a tempo di record è arrivata anche l’espulsione. Tre anni per la droga e poi subito via: imbarcato sul volo in partenza ieri mattina da Mahè che, dopo 9 ore di volo, è atterrato in Italia. Milano. Casa.

Federico, la prima domanda è ovvia: ma quella droga era sua?
«Ma cosa dice? Io non ho mai usato stupefacenti. Mi hanno incastrato per togliermi di mezzo, per una complicata storia di interessi ed affari. Insomma: togliendo di mezzo me hanno tolto di mezzo anche i miei genitori».

Vuole raccontarla?
«Ci eravamo trasferiti laggiù per lavoro. Avevamo un ristorante in società con un altro. I miei genitori ci hanno rimesso un sacco di soldi perché sono stati incastrati da quel tipo. E adesso sono in causa con lui».

Scusi, ma lei non ha mai sospettato nulla, non ha mai temuto nulla?
«E come no. Mia madre, Oriella, me lo ha detto mille volte di stare attento. Ma chi andava a pensare una cosa così».

E in carcere com’è stata? Le fotografie mandate con il telefonino la mostravano piena di lividi. L’hanno picchiata?
«Tante volte. Il carcere laggiù è durissimo: vivi in una condizione difficile. Con gente che non ha nulla da perdere».

Era con altri italiani?
«No, nel mio braccio non c’erano. I detenuti erano soltanto sei, tutti stranieri. Gli altri, però, erano tutti grossi trafficanti di droga. Tutta gente che è stata fermata con chili di stupefacente. Eroina, immagino. Roba pesante, per cui si rischiano anche trent’anni di reclusione laggiù».

E lei che c’entrava con quelli?
«Io? Niente di niente: e sono stato trattato come il peggiore dei delinquenti per una cosa che non ho mai fatto».

Com’era la sua cella?
«Guardi al mia cella era due metri per uno e mezzo. Un buco. Luce accesa tutto il giorno, e niente possibilità di respirare un po’ aria. Stare sempre lì dentro ti senti impazzire».

E le condizioni di vita?
«Indescrivibili. Pensi che nel braccio dov’ero rinchiuso non c’era neanche il bagno. Se avevi bisogno dovevi chiedere agli agenti di custodia di farti uscire. Ma lo sa quante volte quella porta, nonostante le mie insistenze, non è stata aperta? Una quantità infinita».

Tante botte?
«Ne ho prese tantissime, e pure molto spesso». I giornali delle Seychelles parlavano di violenza dei poliziotti in carcere.

Lei è mai stato picchiato da loro?
«Sì, purtroppo ho preso le botte anche da loro. Una volta o due, ma eravamo all’inizio della detenzione. Poi è accaduto anche dell’altro».

Cioè?
«Una volta, durante un trasferimento in auto, abbiamo avuto un incidente. Mi sono fracassato un dito, mi sono fatto male alla testa. Guarire è stato una tragedia».

E con gli altri detenuti?
«Sono stato picchiato da uno che era grosso, molto grosso. Ho provato a resistere. A cercare di fermarlo, ma quello mi ha fatto a pezzi. Ne ho subite di tutti i colori».

E non ha mai avuto paura di non uscire mai più da quell’inferno?
Scoppia a piangere adesso Federico. «Paura? Tutti i giorni che Dio mandava in terra ho avuto il terrore di non potermene andare da lì. Tutti i giorni ho pregato che accadesse il miracolo, che le porte del carcere si aprissero».

Qualcuno le è stato vicino?
«Mia madre, Oriella, sempre. Dalle Seychelles andava e veniva in continuazione. Non aveva più la residenza, perché avevamo perso l’attività, ma ha fatto i salti mortali per farsi fare i permessi di soggiorno turistici. E poi mio padre, Ezio. Verso la fine anche i poliziotti del carcere mi erano vicini, anche le istituzioni e il Console onorario. Tutti, insomma».

Che farà adesso?
«Adesso voglio soltanto dimenticare tutte le cose brutte che ho visto e che mi hanno fatto. Voglio portare in Italia la mia compagna, la sua bimba, e rifarmi qui una vita con loro. Soltanto questo. Niente altro».

Ma lei è sempre convinto che si è trattato di un complotto, una trappola quella che l’ha fatta finire in galera laggiù?
«Sempre. E lo dimostrerò».

da lastampa.it


Titolo: La Caritas: «Questa politica dà sfogo ai peggiori istinti»
Inserito da: Admin - Agosto 12, 2008, 10:42:21 pm
La Caritas: «Questa politica dà sfogo ai peggiori istinti»

Sandra Amurri


Ha appena terminato di scrivere l’editoriale per il mensile Italia Caritas, don Vittorio Nozza, direttore di Caritas italiana, coscienza lucida, puntuale come la sua penna che con severità, spirito critico, forte senso di appartenenza, non smette di evidenziare le debolezze di una politica forte e inefficace. Una politica - quella di Maroni & co. - che «mette radici»: come per le scene di «caccia al nero» viste negli ultimi giorni sulle spiagge e raccontate da l’Unità.

Don Nozza, sembra che non siamo più esseri umani, liberi, uguali. Persone che costruiscono il futuro della stessa terra...
«È il risultato del carosello mediatico subito dai cittadini. Della battaglia messa in atto in alcune città ai lavavetri, all’accattonaggio, la cacciata dalle spiagge, accolta da una sorta di silenzio consenso, come se fosse diventato improvvisamente normale interdire ai poveri, agli extracomunitari, città che passano per essere un patrimonio dell’umanità, ma finiscono per esserlo solo per quella parte che se lo può permettere: amministratori, cittadini benpensanti. Le battaglie contro i poveracci trovano ampia soddisfazione. Non stupisce che si tenti di nascondere agli occhi del paese una parte di vita che non piace, ma che continua ad esistere, e per farlo si ricorra a complesse architetture per la grande spettacolarità ma dalla dubbia tenuta in tempi medio-lunghi. Molti cittadini interpellati dai tg, senza alcun imbarazzo, paiono unanimi nel bollare i mendicanti come un fastidio. Fastidio, infatti, è stata la parola più gettonata, quasi fosse un termine neutrale e di galateo e non contenesse una sottile, perversa e inconfessabile carica di violenza. Non fosse altro perché sotto quello straccio di vestito, c’è una persona che vale più dei marciapiedi e del giusto decoro delle nostre spiagge e delle nostre città... ».

Vede delle responsabilità chiare?
«Intristisco poichè il mondo politico per mitigare le frustrazioni di un popolo che vede riflesse nei poveri le proprie paure, predica federalismo contro la crisi economica e pratica metodi che ci rende tutti più sbrigativi, più superficiali e spietati. Stupisce anche l’enfasi con cui tali decisioni vengono cucinate e servite agli italiani. Rovistare in un cassonetto, tentare di vendere bigiotteria sulle spiagge in cambio di un pezzo di pane, non è certamente un divertimento per un povero o un per extracomunitario».

Condiviso anche da politici che si dicono cristiani...
«Essere cristiano non è una proclamazione ma una testimonianza, uno stile di vita, un modo di stare nel mondo: è la partecipazione solidale, costruire insieme, non gestire separatamente le questioni. Occorre coniugare con una serie di politiche l’una strettamente legata all’altra: l’accordo con gli stati di provenienza, l’accompagnamento di questi disperati a partire dal loro stato di appartenenza al territorio di arrivo, con una politica dell’investimento nell’integrazione. Lavorare molto su quei 3 milioni e mezzo di regolari che vivono inseriti nelle scuole, nelle case, nelle fabbriche perché sempre più questo zoccolo duro diventi capace di legarsi, favorito anche dalla struttura del nostro territorio, fatto di comuni piccoli e medi, che si presta all’integrazione. Solo un territorio solidale è sicuro, diversamente un territorio presidiato non è sicuro, per chi arriva e per chi ci vive. È scontato che là dove c’è violenza vada perseguita. Noi siamo per l’impasto tra legalità e accoglienza, non si può disgiungere la legalità dalla giustizia, dall’ accoglienza. Il problema è che questa politica separa».

Dalla sua storia che coniuga esperienza cristiana e laica quali consigli a chi governa?
«Che se investiamo soltanto nel contrasto il rischio è togliere sicurezza a tutti, anche a noi stessi diventando anziani, malati, senza riferimenti, senza servizi domiciliari, senza opportunità. Solo garantendo un pezzo di amicizia, la gente si sente parte, altrimenti è insicura e dà sfogo agli istinti peggiori. Chi è chiamato a governare non può prescindere dall’ascolto. Quando ero direttore della Caritas della mia città, Bergamo,20 anni fa, c’era un campo rom dove accadeva di tutto, il problema è stato risolto solo quando il sindaco ha inviato una presenza del territorio».

La "disgregazione delle coscienze" per dirla con Gramsci, a cui assistiamo, è il frutto del linguaggio, anche dei gesti?
«Sì. Il linguaggio utilizzato in questi ultimi mesi rischia di montare molto l’immaginario, di distorcere la mentalità. Così si finisce con il considerare il venditore di bigiotteria, di pupazzetti di pelouche sulle spiagge un nemico, chi espone il piattino un sovvertitore della serenità. Assistiamo ad un linguaggio che fa paura in quanto disgrega, appunto. Da quando opero nell’ambito Caritas, ormai da 25 anni, non mi era mai accaduto di ricevere lettere in cui ci accusano di essere responsabili della venuta di queste persone che non verrebbero se noi non ce ne occupassimo. Anche gli operatori se lo sentono ripetere. Allora, il pericolo è che questo modo di pensare monti dentro quella ordinarietà che solitamente è capace di sopportare alcune fatiche. E che non si accetti più di sopportare o di portare alcune fatiche come il legare il diverso con la bellezza dell’altra persona, con la possibilità di comprendere e costruire insieme futuri diversi da quelli conosciuti».

Pubblicato il: 12.08.08
Modificato il: 12.08.08 alle ore 8.31   
© l'Unità.


Titolo: Nel grande vuoto lasciato dai cattolici democratici
Inserito da: Admin - Agosto 15, 2008, 11:31:49 pm
15/8/2008
 
Nel grande vuoto lasciato dai cattolici democratici
 
 
 
FRANCO GARELLI
 
E’ un ferragosto di fuoco quello che sta vivendo Famiglia Cristiana, il celebre settimanale dei Paolini oggi al centro di varie tensioni. Anzitutto lo scontro col governo in carica, che si è offeso per l’ultimo editoriale della rivista che paventa la nascita in Italia di un fascismo «sotto altre forme». E di riflesso a questa vicenda, la netta presa di distanza del Vaticano dai commenti «politici» di Famiglia Cristiana, giudicata come una testata importante della realtà cattolica, ma che non esprime «né la linea della Santa Sede né quella della Conferenza episcopale italiana».

Singolare dichiarazione quest’ultima, sia perché la direzione della rivista non si è mai sognata di parlare a nome dei vertici della chiesa (italiana e no), sia perché è evidente l’intento del Vaticano di non creare zone d’ombra tra il mondo cattolico e l’attuale governo italiano, anche a costo di mettere la sordina a qualche sua realtà autorevole. La Santa Sede, in altri termini, non vuol rovinare il rapporto con un esecutivo (e un’area politica) che considera attenti ai valori e agli interessi dei cattolici, in grado - molto più del precedente governo di centro-sinistra - di promuovere una politica che tuteli quei pilastri sociali (famiglia, vita, scuola libera, educazione, ecc.) che a suo dire maggiormente rispecchiano la visione cristiana della realtà.

Non è che Famiglia Cristiana metta in discussione questi valori di fondo, anche se da tempo ha scelto la politica delle mani libere, promuovendo un’informazione sui fatti di casa nostra che non fa sconti a nessuno, che non si lega per partito preso a qualche forza politica, attenta a verificare di volta in volta la congruenza tra dichiarazioni e scelte concrete, tra fatti e intenzioni.

Con questo cambio di pelle (relativamente recente), Famiglia Cristiana ha accentuato la sua presenza critica nella realtà italiana, passando da «pacioso» settimanale delle parrocchie a rivista di impegno civico di rilievo, che sta sulla breccia delle questioni emergenti; e ciò pur continuando a essere una testata che diffonde informazione e cultura religiosa, attenta al lato umano e spirituale dell’esistenza.

Questa trasformazione sembra dovuta a due ragioni di fondo. Anzitutto l’esigenza di meglio collocarsi nel mondo della comunicazione, superando l’immagine di rivista per tutte le stagioni che era la Famiglia Cristiana del passato, quando il mondo cattolico era una realtà molto solida e poco differenziata. Nell’epoca del pluralismo, nessuna grande istituzione (quindi anche nessuna realtà comunicativa) può sopravvivere senza operare delle scelte precise, senza optare per un pubblico particolare di riferimento.

Un altro fattore che può aver spinto Famiglia Cristiana a interessarsi maggiormente delle questioni sociali e politiche emergenti è l’attuale debolezza del cattolicesimo politico, il fatto che esso è ormai ridotto a una minoranza con poca risonanza pubblica. Al tempo in cui la Democrazia cristiana rappresentava gli orientamenti dei cattolici nella società italiana, Famiglia Cristiana era il collante comunicativo di un mondo cattolico perlopiù politicamente allineato. Oggi, invece, nella stagione dell’Italia bipolare, i cattolici sembrano relegati ad un ruolo comprimario sulla scena politica; e ciò sia che il governo sia targato centro-sinistra (come quello diretto da Prodi nella passata legislatura) o sia espressione del centro-destra (come quello attuale di Berlusconi). In entrambi i casi prevalgono esecutivi in cui (al di là di dichiarazioni formali) i cattolici sembrano avere poco peso e possibilità progettuale. In questo quadro, dunque, Famiglia Cristiana tende ad occupare uno spazio lasciato vuoto dalla politica «cattolica», dando voce ad istanze inascoltate, richiamando i governi ad una soluzione ai problemi che rifletta anche una visione solidale della realtà.

Si può dire, come qualcuno ha sostenuto, che Famiglia Cristiana sia l'ultima espressione del cattocomunismo italiano, il gruppo editoriale che non si piega alla deriva a destra del Paese? Credo che il taglio socialmente aperto della rivista sia evidente, nel senso che Famiglia Cristiana rappresenta la punta comunicativa di quel cattolicesimo di impegno sociale che è una delle più grandi realtà della tradizione cattolica italiana. Ma detto questo, la rivista non sembra tirare in una sola direzione e applica lo stesso metro alle varie forze politiche e ai diversi governi. Ieri ha bacchettato Prodi sulla questione dei Dico e Veltroni sull’apertura del Pd ai radicali. Oggi è critica verso Berlusconi quando accusa i pm di essere sovversivi o quando la sua maggioranza sembra compiere scelte populiste sulla questione sicurezza.

In un tempo di grandi silenzi e allineamenti (che coinvolgono anche il mondo cattolico), c’è una forza d'animo in queste prese di posizioni da non sottovalutare, che ha i suoi costi sociali ma che è foriera di una presenza sociale più partecipe e riflessiva.

da lastampa.it


Titolo: Se tace la politica
Inserito da: Admin - Agosto 18, 2008, 11:21:00 pm
Se tace la politica

Luigi Bonanate


Quale sia oggi il problema che attanaglia il mondo è presto detto: sta ritornando l'era delle guerre, che credevamo superata e al massimo avvicendata da estemporanee operazioni anti-terroristiche. Improvvisamente il fuoco si è riacceso: nel clima olimpico che doveva celebrare il trionfale ingresso della Cina nel club delle grandi potenze, abbiamo scoperto che «il re è nudo», cioè di grandi potenze non ce n'è più, e quelle che cercano di diventarlo si ingeriscono in questioni da cui non possono trarre alcun vantaggio.

Ma la politica internazionale ha ancora bisogno di grandi potenze? Se guardiamo ai fatti di Georgia in questa vecchia e tradizionale logica non capiremo perché la Russia possa invischiarsi in una banale vertenza di irredentismo che non appare all’altezza di un grande disegno politico. A loro volta, gli Stati Uniti si ritrovano nuovamente a difendere — tra le due parti in conflitto — quella più indifendibile, una Repubblica senza storia, senza identità (nel che non c’è nulla di male, se solo tutti lo accettassero), che rincorre gli aiuti (anche militari) occidentali con un mero spirito di rivincita post-comunista. Tanto Putin quanto Bush si sono scordati, intanto, della Cecenia, che un’identità storica pur l’aveva.
Ma perché la Georgia e perché ora? Il primo e più significativo elemento è che il cuore delle tensioni internazionali si va a collocare definitivamente nella cerniera caucasica che separa Est e Ovest e collega Nord e Sud (lungo l’asse del 40° meridiano), partendo dalla Turchia e incontrando, accanto alla Georgia appunto, altre Repubbliche ex-sovietiche come il Turkmenistan e l’Uzbekistan; ma anche Iran e Iraq, Afghanistan e Pakistan: un pugno di paesi, la cui corona si chiama Libano, Israele, Ukraina, Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan, per non dire Cina. L’Asia centrale, che dopo la fine del bipolarismo doveva inquadrarsi nella politica internazionale, è diventata il luogo sia fisico sia simbolico nel quale sta iniziando la nuova grande partita della politica internazionale.

Tutt’altro che stranamente, i tavoli sui quali il gioco si sta svolgendo si occupano di petrolio (ma sarebbe meglio dire: fonti energetiche, o come si diceva una volta: materie prime — e ci capiremmo anche meglio) e nazionalismi, cioé di confini, separazioni, indipendenze. Verrebbe da dire che di fronte a immensi problemi come questi, tutt’altro che nuovi (si potrebbe dire che il primo causò la prima guerra mondiale, e il secondo la seconda), i grandi stati dovrebbero saggiamente e fin d’ora disegnare una politica fondata su un progetto di ordine internazionale, se non consensuale almeno solido e rigoroso. E invece, l’Occidente commisera grettamente il suo declino, il de-industrialismo, quando potrebbe impegnarsi nello sviluppo dei paesi più arretrati, nell’aiuto ai poveri, nella loro democratizzazione, e invece li usa come basi militari e punti di osservazione.

L’unilateralismo statunitense (con un Presidente scadente e in scadenza) e l’attivismo russo (con un Presidente che diventa Primo ministro in attesa di rifare il Presidente) appaiono oggi l’espressione di una totale incapacità di progettazione politica. Se i fondamenti della politica estera americana erano il contenimento dell’islamismo, il controllo del petrolio, e l’avanzamento dello scudo spaziale, ebbene il bilancio si rivela del tutto fallimentare: l’Islam non è arretrato, anzi avanza non per quella via militare e violenta che Bush immaginava ma sull’onda del messaggio revanscistico che galvanizza popoli secolarmente oppressi dall’Occidente. Il petrolio sembra evaporare di minuto in minuto ma per intanto consente enormi profitti alle grandi centrali petrolifere, le cui riserve si rivalutano minuto per minuto (posizionate, guarda caso, negli Stati Uniti). La politica strategica infine, una volta esauritasi la spinta provocatoria delle guerre stellari di Reagan — il gradino finale su cui Gorbaciov inciampò e cadde — è diventata monopolio di un militarismo antiquato che trascura gli alleati di sempre, gli europei dell’UE, e sogna di accerchiare il nemico.

Già, ma quale nemico? Ci avevano detto trattarsi dell’Iran. Ma poiché il terrorismo nucleare non si ferma con lo scudo spaziale (ovviamente), non rimane che un’ipotesi, quella di una Russia rampante e aggressiva che, una volta liquidate le macerie del comunismo, risorge e si rilancia nel sogno zarista della Grande Russia. Ma se il progetto americano non brilla, quello russo appare ridicolmente velleitario. Salvo a chi piace un regime come quello russo, corrotto, inefficiente, arrogante come il suo Primo ministro, che s’aggrappa alla Georgia (che poi è vicina alla Cecenia) perché gli offrirebbe il controllo dello snodo caucasico (anche di lì dovrebbero passare gli oleodotti), l’attuale politica russa appare così ingiustificata da lasciar di stucco. Basta pensare che se l’Occidente avesse già accolto la richiesta georgiana di entrare nella NATO, oggi saremmo in guerra con la Russia, sulla base della famosa clausola dell’art. 5...

Siamo sull’orlo del paradosso: gli Usa spostano l’obiettivo collocando in Polonia missili che guardano strabicamente la Russia, mentre dovrebbero guardare verso l’Iran; Putin se la prende con la Polonia e il Presidente polacco Kaczynski non si fa attendere per evocare i fantasmi di un lugubre passato. Potremmo ridimensionare il problema pensando sia comprensibile che la Russia umiliata voglia ritornare all’onor del mondo riprendendosi almeno i confini di un tempo: ma qui scoppia quell’altra bolla, l’autodeterminazione dei popoli, che l’Occidente ha sempre accarezzato e raramente praticato. E del resto: quanto ci tengono a loro volta i kazakhi, che poggiano i piedi su uno dei più ricchi territori della terra, e non hanno mai combattuto per la loro indipendenza nazionale?
Quando la situazione internazionale ci sfugge di mano non è per cause naturali, ma politiche. Se non si fa politica, ma si rimane invischiati in una logica di potenza sperando soltanto di arraffare qualche cosa qui e qualche cos’altro là, le prospettive non possono essere rosee. Non sarebbe il momento di dare spazio alla politica, facendosi aiutare da quella dimensione che vive nel rifiuto della violenza, e si chiama democrazia?



Pubblicato il: 18.08.08
Modificato il: 18.08.08 alle ore 9.39   
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Titolo: Nicola Tranfaglia. Il Regime delle idee
Inserito da: Admin - Agosto 21, 2008, 10:54:58 am
Il Regime delle idee

Nicola Tranfaglia


Chi ha passato una parte non piccola della propria vita a studiare i fascismi sa che il modello primogenito, quello di Mussolini, è morto ma ha lasciato in Italia una pesante eredità e che la frase di Marx, citata da Umberto Eco, sul passaggio nella storia dalla tragedia alla farsa, quando un fenomeno si riproduce, ha una sua, innegabile validità.

Ma quali sono le caratteristiche di quel fenomeno che emergono dalla terza ascesa di Berlusconi e dei suoi alleati al governo nazionale?

Prima di tutto la salda fede anti-democratica che li contraddistingue e li spinge a pattugliare le città con l´esercito, a prendere le impronte ai bambini dei Rom con la scusa del censimento, a trattare le prostitute con le botte e la pubblica esposizione, ad esibire una versione della società italiana, gravemente mistificata dei rapporti tra uomini e donne, tra italiani ed immigrati.

Si potrebbe continuare ancora con molti esempi che stanno vivendo in questi ultimi mesi gli italiani in tutta la penisola.

Ma quel che conta di più e di cui si parla troppo poco è l´egemonia culturale (e qui interviene Gramsci, un autore poco letto dai nostri connazionali) di cui non si parla mai.

I seguaci di Berlusconi al governo, in parlamento, nelle città (e sono tanti) dispongono di quasi tutti i mezzi di comunicazione in questo paese: sei reti televisive su sette, tutti i grandi quotidiani se si esclude la Repubblica e migliaia di settimanali e periodici di ogni genere. Giornali e televisioni sono oggi più efficaci e penetranti delle squadre di ribaldi che usò il fascismo per conquistare le campagne e poi le città.

E il centro- sinistra, dobbiamo dirlo per la verità dei fatti, non si oppone, almeno fino ad oggi, con forza sufficiente a quella egemonia che sta distruggendo un´opinione pubblica contraria ai dogmi berlusconiani.

Nando Dalla Chiesa ha scritto su questo giornale che ci sono episodi e fenomeni (come quello dell´attività di molti siti Internet) che gli fanno sperare che qualcosa cambi in Italia.

Mi auguro sinceramente che abbia ragione ma sono un po´ meno ottimista.

Vedo, ad esempio, gli episodi costanti di disinformazione e di mistificazione che rimbalzano dai media sugli italiani.

L´altra sera parlavo qui in Calabria con un giovane avvocato non berlusconiano che trovava buono il lodo Alfano, già diventato legge dello Stato, perché - diceva - è quello che si è fatto in tutti i paesi europei e occidentali.

In quei paesi - sosteneva l´avvocato - tutte le cariche dello Stato hanno una immunità giudiziaria per la durata del mandato.

Gli ho fatto osservare che questo vale per il Capo dello Stato ma non è previsto, nella maggior parte dei paesi, per il capo del potere esecutivo, come invece si è fatto in Italia.

Era stupito di quello che gli dicevo ma potevo pretendere che quel giovane avvocato consultasse da solo tutta la legislazione costituzionale, tra luglio ed agosto, per arrivare alla chiara conclusione cui sono arrivato io?

Direi di no. Spettava ai mezzi di comunicazione televisivi e giornalistici fargli arrivare il messaggio e questo (tranne l´eccezione costituita dall´Unità) non è stato, come tutti possono verificare.

In questo senso l´opinione pubblica in Italia latita o fatica ad esistere. E se un simile costume e modo di funzionare dei mezzi di comunicazione proseguono c´è da preoccuparsi della tenuta democratica dell´Italia repubblicana.

Anche perché molte leggi che un parlamento, con larga maggioranza filoberlusconiana, sta approvando a rotta di collo non pongono con altrettanta chiarezza la scelta tra soluzioni democratiche e soluzioni antidemocratiche.

E non fanno capire dunque ai cittadini comuni il nuovo edificio autoritario che si vuol costruire, uno stato di polizia nel quale il Moloch dello Stato centrale si impone per un´idea astratta di ordine e sicurezza non meglio determinata.

Il problema italiano è sempre quello di classi dirigenti e politiche che son le prime a non osservare le leggi ma che impongono ai cittadini regole ferree destinate a produrre un ordine più o meno perfetto ma questo rimane il paese in cui le associazioni mafiose dominano intere regioni ed hanno legami oscuri con le centrali del potere, in cui la circolazione stradale provoca più vittime che in ogni altro paese europeo, in cui i diritti individuali vigono se si dispone di amici potenti e si indeboliscono se si è diversi o deboli rispetto al resto della popolazione, in cui la giustizia favorisce i potenti e opprime chi non lo è. E si potrebbe continuare.

Ma come si fa a capire se l´informazione resta lacunosa e indirizzata in maniera prevalente a tranquillizzare le masse popolari e a non mettere in luce le deficienze delle classi dirigenti e le loro responsabilità nell´assetto politico e sociale, oltre che economico, del paese?

È a questi interrogativi che le opposizioni parlamentari, e quelle assenti dal parlamento, dovrebbero porre al governo più di frequente, che si dovrebbe rispondere.

Ma questo, dalle ultime elezioni politiche, avviene assai di rado. Ed aumenta negli italiani la sfiducia, se non la rassegnazione, che qualcosa possa cambiare in maniera positiva e l´Italia possa uscire da uno stallo che rischia di riportarla indietro rispetto all´Europa e all´Occidente.

Pubblicato il: 20.08.08
Modificato il: 20.08.08 alle ore 11.15   
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Titolo: ANDREA ROMANO. L'opinione pubblica, signora mia
Inserito da: Admin - Agosto 21, 2008, 11:03:19 am
21/8/2008
 
L'opinione pubblica, signora mia
 

 
 
ANDREA ROMANO

 
Signora mia, non c’è più l’opinione pubblica di una volta». Viene spontaneo rifarsi ad Alberto Arbasino leggendo i molti necrologi che in questi giorni ci hanno raccontato di un’Italia ormai docile e incapace di dissenso. Ha iniziato un Nanni Moretti più prevedibile del solito, lamentando una realtà italiana grossolana e un’opinione pubblica ridotta all’impotenza. Ha proseguito Walter Veltroni, con molte citazioni colte e un unico messaggio politico: il Paese è ridotto ad «un’informe massa nera», l’Italia è vittima di uno «sfarinamento morale e sociale» e tutti stiamo ormai precipitando in un «vuoto di senso e di memoria».

Ohibò, è in corso una catastrofe e non ce ne siamo neanche accorti! Non sarà invece che le lenti degli apocalittici sono appannate dalla mancanza di risposte, dall’incapacità di comprendere il Paese o anche solo dall’assenza di quell’umiltà necessaria a mettersi in discussione? In realtà proprio Moretti, quando torna a parlare da regista, si mostra assai più capace di cogliere i segni di novità che si muovono intorno a sé.

Ericonosce giustamente nel cinema di Sorrentino, Garrone, Munzi e altri i tratti di «una nuova generazione di autori, produttori e sceneggiatori», che hanno saputo restituire vitalità ad un cinema italiano che fino a pochi anni fa era snobbato innanzitutto dal pubblico.

La stessa lucidità con cui Moretti guarda al suo mestiere potrebbe essere utilmente applicata alla sua visione di un Paese che qualche mese fa ha eletto in Parlamento una maggioranza di centrodestra e punito un Partito democratico incapace di innovare e convincere. Perché di questo si è trattato e non di una catastrofe di civiltà da cui la società italiana non si riprenderà più.

Chi come Veltroni si occupa di politica e non di cinema potrebbe smettere i panni lamentosi del Savonarola e dedicarsi con maggiore impegno a comprendere come e perché la sua offerta sia risultata tanto impopolare. In questo senso prendersela con il Paese invece che con sé stessi risulta una scorciatoia priva sia di fascino che di verità. Perché l’opinione pubblica italiana è viva e vegeta, carica di dissenso e fermenti critici che attendono di essere intercettati e tradotti in politica da una proposta che sia finalmente all’altezza di tempi nuovi e non ancora del tutto compresi.

Un esempio tra tutti: negli stessi giorni in cui si celebrava il funerale della società civile un sondaggio Gallup, citato ieri dal Corriere della Sera, descriveva i giovani italiani come i più pessimisti d’Europa. Cos’è questo se non il sintomo di una società tutt’altro che quieta e addomesticata, che reclama di essere sedotta da una politica finalmente capace di offrire fiducia e innovazione? A quei sintomi Veltroni, Moretti e gli altri apocalittici rispondono con un’alzata di spalle insieme altezzosa e moralistica, scambiando per assenza di vitalità civile quello che è invece l’inaridirsi di strategie e risposte politiche che hanno cessato da tempo di essere leggibili, ma che non di meno continuano ad essere replicate come se niente fosse.

È in quelle risposte il nodo del problema e non certo nel vigore di un’opinione pubblica tutt’altro che rassegnata. Così come è facile immaginare che un Paese costretto ancora una volta a scegliere tra berlusconismo di ritorno (eventualmente trasformato in tremontismo) e veltronismo terminale possa guardare con interesse ad una proposta che esca da questo arcinoto seminato, che sappia innovare uomini e prospettive, che riesca a fare quanto avviene in qualunque Paese normale: archiviare finalmente ciò che non funziona e scommettere su ciò che risponde meglio al proprio dinamismo.

 
da lastampa.it


Titolo: Sosta nella Bielorussia svuotata da un secolo di pogrom
Inserito da: Admin - Agosto 26, 2008, 10:50:56 am
Sosta nella Bielorussia svuotata da un secolo di pogrom

Qui manca la generazione degli anziani; sono spariti gli ebrei

Questo non è un paese per vecchi

di PAOLO RUMIZ

 

La corrente verdescura del Niemen cerca la sua strada in un cielo arancione. La guardo, imbambolato dalla quiete immensa che emana, tra le scarpate boscose di Grodno, antica città di chiese e sinagoghe nel Nordovest della Bielorussia, al confine con la Polonia. Niemen, un nome come una ninna nanna. Il portale di un labirinto di acque che conduce ad altri fiumi leggendari dell'Europa di mezzo, Bug, Dniestr, Berezina. È impressionante la regolarità di queste correnti che non nascono da nessuna montagna, ghiacciano d'inverno, divagano con favolosi meandri in un finimondo di basse colline e scelgono se andare nel Baltico o nel Mar Nero solo per una questione di centimetri.

Non riesco a capire dove sono finito, che cosa sia questo pezzo di frontiera che percorro, forse il più arcano, il meno leggibile di tutti. Il primo impatto con l'ultimo Paese comunista d'Europa è persino rasserenante: un verde assoluto che domina ogni cosa, un paesaggio agricolo disseminato di case di legno in ottimo stato di conservazione, oche in libertà attorno ai villaggi. Niente dice che Chernobyl è a due passi. E poi questa Grodno, polacca fino al 1939, città-vetrina dal lindore austriaco, in piena attività di restauro, barocca come Vilna e la vecchia Bialystok, piena di giovani, donne bellissime e rondini in picchiata.

Ma presto i conti non tornano. L'albergone grigio dove trovo da dormire è un monumento al grigiore dell'era Kruscev, ma le stanze sono piene di cingalesi in fregola, che tutta notte trafficheranno nei corridoi per contendersi le ragazze in affitto. Un medico d'ospedale guadagna centocinquanta dollari al mese, ma i prezzi dei vestiti nei negozi e quelli dei menu nei ristoranti sono più alti di quelli polacchi. In stazione per cento euro mi hanno messo in mano un "panino" di banconote grosso così: e un tassista, di fronte al mio stupore, mi ha detto "benvenuto nel Paese dei milionari". Era dal tempo della guerra jugoslava che non vedevo cartamoneta con tanti zeri.

Venendo in treno dalla Polonia ho letto che il Paese è in bolletta e il prossimo inverno non potrà pagarsi il gas di Putin. Ma allora da dove saltano fuori i soldi per tutti questi restauri? Chi ha potuto finanziare questa gigantesca operazione immobiliare? "Il Gospodarsvo", ti dice la gente, lo Stato. E se chiedo come li hanno trovati tutti quei soldi, la risposta è: "Semplice, non pagano chi lavora. Mentre chi non lavora se la spassa". In stazione Aleksej, un ex ufficiale dell'Armata in pensione, mi ha detto, papale: "Rubano. Uno schifo. E un giorno si troveranno la stella rossa nel c...". Insomma, tutto il mondo è paese.

Ma la cosa più straordinaria è che alle sette della sera la popolazione adulta scompare. Per strada, sulle panchine, nelle piazze o lungo la passeggiata sul Niemen, solo giovani con patatine e lattine di birra in mano. Non so con chi parlare, non c'è nessuno che mi dia l'impressione di poter discorrere sulla storia del luogo. Alla fine trovo un gruppo di bei ragazzi che si passano un narghilè, seduti sull'erba nel tramonto. Mi dicono che "Grodno non è Minsk, è una città vera, antica, con una storia", e loro la amano per questo. Mi indicano la sinagoga illuminata dall'ultimo sole e, dall'altra parte del fiume, la chiesa di Boris Glebskij, vecchia di quasi un millennio.

In un'ora di esplorazione nel centro constato di essere l'essere umano più vecchio in circolazione e, in modo autoironico, immagino che a Grodno e forse nell'intera Bielorussia sia in corso un misterioso "sterminio dei sessantenni", come se la febbre gialla o la spagnola stessero davvero falcidiando la popolazione anziana. Non basta l'alcolismo, micidiale da queste parti, a spiegare il terremoto anagrafico di un intero Paese. Sento oscuramente di essere in un Paese in bilico, vulnerabile, diviso tra vetero-comunismo, capitalismo nudo e una civiltà agricola millenaria ancora ingenua, a rischio di estinzione.

La mattina dopo, in sinagoga per la funzione del sabato assieme a dieci superstiti di una comunità un tempo fortissima, mi rendo conto del vuoto che si è aperto, un vuoto del quale gli ebrei sono solo l'espressione più clamorosa. Sono spariti anche i polacchi, i lituani, i tedeschi, gli ucraini, gli armeni: un secolo di pogrom, deportazioni e sterminii ha semplificato etnicamente il Centro Europa e tolto ai suoi popoli il loro collante transnazionale.

"Adonai", "Elohim" ripetono i vecchi nella sinagoga corale ormai vuota, e tutto sembra appeso al filo di queste antiche parole che garantiscono la continuità del mondo. Ma è proprio questo che spaventa: quando esse non saranno più ascoltate da nessuno, allora sarà l'Europa a perdere definitivamente se stessa. E già te ne accorgi quando nello spazio corale torna il silenzio, carico di nostalgia del canto che non c'è più. C'erano diciassette sinagoghe a Grodno, ora ce n'è una sola.

Marija, la vecchia custode, è un'ortodossa convertitasi all'ebraismo e la sua fede è un ibrido perfetto tra le due religioni. Dice, con gli occhi febbrili: "Tutti aspettano l'arrivo del Messia. Arriverà quando tutti si armeranno contro Israele: allora il cielo si aprirà e lui andrà in suo soccorso. Sarà il secondo arrivo di Cristo. Il momento arriverà presto, così è scritto nella Torah. Allora gli ebrei crederanno, Gesù li benedirà, e Israele sarà il primo di tutti i popoli".

Sull'altra riva del fiume c'è un vecchio cimitero ebraico. Immenso, coperto di sterpaglia, devastato dalle radici delle betulle. Per entrare scavalchiamo un muro sbrecciato coperto di ortica. Poljakov Abram Lazarevic. Rosenzweig David Bulfovic. Le tombe con la stella di Davide emergono dalla vegetazione come menhir, coperte di licheni grigi e giallo-senape. Qualcuna ha la stella rossa. Su tutto, la luce incendiaria della sera. Migliaia di morti, e sono la minoranza. Gli altri sono passati per il camino.

Nella boscaglia, una donna in vestito rosso-papavero spazza una tomba. Sembra una visione, una Morgana. Con lei un bambino che l'aiuta. Poco lontano, un uomo che falcia la sterpaglia. La donna in rosso chiama Lilia e racconta una storia straordinaria. "Io e mio marito siamo ortodossi, ma abbiamo adottato questo luogo.

Da quando siamo in pensione, ogni giorno puliamo una tomba. Abito in quella casa lì in fondo, accanto al muro di cinta e da anni lotto perché questo spazio non decada. Conosco tanti di quelli che abitano qui". Dice "abitano", perché ne parla come se fossero ancora vivi.
Il piccolo Igor dice a Monika: "Vieni, ti porto a vedere la tomba di un santo", e si arrampica su un pilastro coperto di caratteri ebraici. "Era un rabbino, vengono in tanti a salutarlo. Gli chiedono sempre qualcosa".
Abbaiano due cani lupo. Sono i guardiani della casa di Lilia. Hanno fiutato estranei oltre la cancellata. Lilia vede ragazzi che cercano di entrare; urla, li minaccia, li fa scappare.

"Vandali! Hanno rotto le tombe anche nel cimitero ortodosso. Vengono qui a ubriacarsi; fumano, sporcano, scopano. Spesso di notte arrivano malintenzionati e noi abbiamo paura. Per questo abbiamo i cani. Possibile che con tutti gli sfaccendati ubriaconi che ci sono in giro, il Comune non trovi un custode da mandare qui a rimettere le cose in ordine?".
"Amo gli ebrei. Gente straordinaria. Tanti sono morti e tanti se ne sono andati. Negli anni Novanta c'è stato il grande esodo e ora ci sentiamo più soli". "Sai, io non vivo con i morti. Io vivo con i vivi e per i vivi. Per quelli che ritornano, e sono tanti. E poi questo passatempo mi dà senso alla vita. E mio marito si tiene in esercizio".

Torniamo in città, sul Niemen è sorta la Luna. Davanti alla chiesa della Madre di Dio, a fine funzione, donne col fazzoletto annodato escono tumultuosamente assieme tra i ceri accesi, velocissime, come per meglio prendere la rincorsa della giravolta finale verso la chiesa, quella da cui nasce l'inchino e poi, come per rimbalzo, l'elevazione della mano destra verso la lunga parabola celeste del segno della croce ortodosso.

(20-continua)


(26 agosto 2008)

da repubblica.it


Titolo: Roberto Rossi. Alitalia, terreni, immobili, servizi: il grande affare è a terra
Inserito da: Admin - Agosto 28, 2008, 09:04:49 pm
Alitalia, terreni, immobili, servizi: il grande affare è a terra

Roberto Rossi


Ci sono i terreni di Pianabella a Fiumicino, una porzione di immobili a Sesto San Giovanni, tutti da vendere. Ci sono i terreni dell’Expo di Milano da sfruttare. C’è tanta terra al sole nei pressi di Linate da riconvertire. Ci sono gli investimenti negli aeroporti italiani, corposi, pesanti, da tutelare. Ci sono le società di handling da sviluppare. Chi crede che la partita Alitalia si giochi solo negli uffici di Air France o Lufthansa corre il rischio di guardare il dito e non la luna. Il grande affare sta altrove. E si chiama speculazione, riconversione, sfruttamento. Soldi, tanti, difficilmente quantificabili se non parzialmente. D’altronde non è un caso se tra i sedici capitani coraggiosi pronti a sacrificare l’oro alla patria e salvare Alitalia dallo straniero sei sono immobiliaristi o costruttori: Salvatore Ligresti, Francesco Caltagirone Bellavista, la famiglia Benetton, Marco Tronchetti Provera, il gruppo Gavio, il gruppo Fratini. Tutti pronti ad assecondare i desiderata di Berlusconi a condizione che il loro sforzo renda, e non solo con la vendita della propria quota nella nuova Alitalia, fra qualche tempo.

Si prenda il caso Benetton. La famiglia di Ponzano Veneto entrerà in Alitalia con un investimento tra i 100 e i 150 milioni di euro. Lo farà attraverso la controllata Atlantia, società che controlla le autostrade, già beneficiata da una revisione delle tariffe. Ma i Benetton gestiscono anche Adr Aeroporti di Roma (Fiumicino e Ciampino), che controllano attraverso Gemina (di cui fa parte anche Ligresti e il fondo Clessidra, altro azionista Alitalia). Adr, da tempo, è in trattativa proprio con Alitalia per la cessione di circa 50 ettari di terreno in località Pianabella attorno all’aeroporto di Fiumicino. Lo scorso marzo Adr aveva valutato quei terreni 120 milioni di euro. Che fine faranno ora? A quanto venderà quei terreni Benetton azionista forte di Alitalia a Benetton azionista forte di Adr? C’è da scommettere che in Alitalia i soci non faranno troppe resistenze. Quei terreni, non edificabili, serviranno poi allo sviluppo dell’aereoporto romano. Sul quale Adr ha fatto una scommessa di lungo periodo. Nel piano industriale 2007-2016 la società ha preventivato uno sviluppo del traffico che in un decennio dovrebbe raggiungere i 50 milioni di passeggeri (oggi fermi a 33 milioni). Per farlo ha messo in piedi un programma di investimenti decennali per due miliardi. Tanti soldi che, come si legge anche nella semestrale, corrono il rischio di non avere il ritorno sperato se Alitalia dovesse fallire.

La tutela dell’investimento preme anche agli altri azionisti di Gemina e quindi di Adr, come Ligresti per esempio. Che, per la verità, ha anche altre aspettative. Lui, attraverso la controllata Fonsai (assicurazioni), impegnerà non più di 30-50 milioni. Briciole per il costruttore amico di Berlusconi. Che, però, gli consentiranno di avere un posto in prima fila nel grande affare Expo Milano 2015. Sarà quella la grande scommessa per immobiliaristi e costruttori. La torta è enorme: 3,2 miliardi, infatti, saranno destinati per le infrastrutture altri 892 milioni saranno il budget dell’evento.

A tavola c’è posto per tutti, come per Marco Tronchetti Provera e la sua Pirelli Real Estate o Francesco Caltagirone Bellavista con la società Acqua Pia Antica Marcia. I due in Alitalia metteranno non più di 50 milioni a testa. E aspetteranno. E anche se non dovessero avere troppe soddisfazioni dall’Expo, c’è l’immobile Alitalia di Sesto San Giovanni da alienare (2mila metri quadri per una decina di milioni di euro), ma soprattutto c’è la partita Linate da giocare. Comunque andrà l’aeroporto milanese sarà ridimensionato e molti terreni saranno liberati. Si prospetta la possibilità di una grande speculazione. Quantificarla è ora impossibile, ma negli affari, alle volte, si va a fiuto.

Lo stesso che ha portato ancora Benetton e Caltagirone Bellavista a fare il loro ingresso nell’aeroporto di Bologna. Piccola quota azionaria, in vista della privatizzazione, e gestione della società di handling. E se va in porto l’idea del multihub, che prevede la presenza di Alitalia in diversi aeroporti oltre Roma e Milano, si brinda. Una volta di più.

Pubblicato il: 28.08.08
Modificato il: 28.08.08 alle ore 15.28   
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Titolo: Vincenzo Consolo Vi racconto Pio La Torre
Inserito da: Admin - Agosto 29, 2008, 05:50:23 pm
Vi racconto Pio La Torre

Vincenzo Consolo


Ero anch’io là, quella primavera del 1982, là a Comiso, all’aeroporto, dove il Governo di Spadolini aveva deciso di far installare i missili Cruise. Ero là in uno dei giorni in cui facevano il blocco davanti al cancello centrale dell’aeroporto i pacifisti giunti d’ogni dove. Erano ragazzi accovacciati a semicerchio per terra. Volevano così impedire ai camion, alle impastatrici, agli operai di entrare nel campo. Tutti avevano maglie, giacconi variopinti sopra le teste di capelli ricciuti.

Alcuni avevano tute e casacche bianche, e sul petto e le spalle dipinte grandi croci scarlatte. Le ragazze portavano giacchette indiane con ricami e specchietti o la kufia palestinese sopra le spalle. Sul muro di mattoni sovrastato dal filo spinato e da un filare di eucalipti erano scritte di calce e appesi striscioni di tela. Dicevano «Pace», «Amsterdam contra militarisme», «Testate nucleari - Carcero speciali - È questa la guerra contro i proletari», «Vogliamo vivere, Vogliamo amare - Diciamo no alla guerra nucleare». Erano ancora tutti assonnati e di più assonnati i poliziotti e i carabinieri che chissà in quali ore notturne erano stati fatti partire dalle caserme di Ragusa o Catania. Erano giovane anch’essi e schierati davanti al cancello, a fronteggiare quegli altri accovacciati per terra. M’aggiravo sullo spiazzo di terra battuta e di stoppie, da un capo all’altro, e guardavo quei visi di giovani e volevo capire chi era dell’Isola, vedere se ne riconoscevo qualcuno. Ma nessuno; mi sembravano tutti d’un luogo di cui non avevo cognizione. Fu allora che mi sentii chiamare, richiamare. E mi corsero incontro alcuni del mio paese lì alle falde del Nébrodi, figli o nipoti di vecchi amici e compagni. Erano Aldo, Antonella, Francesco, Rino, Grazia, Saro. Mi dissero che era stato là, nei giorni passati, Pio La Torre, che li aveva spronati a resistere, a opporsi a quel progetto terribile dei missili Cruise, che avrebbero dovuto essere installati anche su rampe mobili e scorazzare per tutta la Sicilia.

Arrivano quindi le impastatrici e i camion degli operai decisi a entrare. I ragazzi fecero blocco, li fermarono. Arrivava intanto altra gente, politici, preti, un abate di Roma ch’era stato sospeso dal suo ufficio. Arrivò anche il questore, un omino atticciato in giacca e cravatta. Si mise a dire che doveva entrare nel campo, che doveva telefonare a Roma. Tutti dissero no, no! e serrarono le file davanti al cancello. E si misero a scandire slogan. «Dalla Sicilia alla Scandinavia - No ai missili e al patto di Varsavia». Il questore, a un punto, si mise a urlare, a dare ordini. Si mossero subito i militari con elmi, scudi e manganelli. Picchiarono e picchiarono sopra teste, schiene nude e braccia. Urla si sentirono, lamenti e un gran polverone si levò da terra. Sparavano lacrimogeni e nel cielo si formavano nuvole. Inseguivano e picchiavano tutti, giovani e no, deputati, medici e infermieri, giornalisti e fotografi. Stavo là impietrito a guardare. E vidi Luciana Castellina scaraventata per terra e picchiata; un giovanissimo carabiniere che s’inginocchia e piange; un poliziotto che sta per sparare, quando un altro a calci nel polso gli fa cadere l’arma di mano... Vidi che afferravano per i capelli e a calci e spintoni facevano salire sui furgoni i catturati. Mi sorpresi trasognato a urlare, a chiamare i miei giovani compaesani: «Antonella, Mino, Saro...», i quali arrivarono sanguinanti, pallidi, storditi. «Scappiamo, scappiamo!» dissero. «Hanno preso Grazia» dissero «Hanno preso Francesco»... Li lasciai raccomandando loro di tornarsene a casa, ché tanto a Roma il governo aveva deciso a tener duro su Comiso, a far rispettare a ogni costo gli impegni con gli Usa.

E invece no. Per merito di Pio La Torre e del movimento dei pacifisti, i missili Cruise vennero portati via, l’aeroporto sgomberato da quella minaccia. E l’aeroporto, già intitolato al generale di Mussolini Magliocco, venne poi intitolato, nell’aprile del 2007, a Pio La Torre, ucciso dalla mafia, venticinque anni prima. Ed ora, vergognosamente, il sindaco di An di Comiso vuole restituirlo alla memoria fascista di quel generale. Vergogna e ancora vergogna!

Pio La Torre, uno dei martiri siciliani, dei combattenti contro la mafia, l’oscuro e terribile potere politico mafioso. Nel secondo dopoguerra è il combattente martire insieme a Epifanio Li Puma, Placido Rizzotto, Salvatore Carnevale... Il nome di Placido Rizzotto richiama subito quello di Pio La Torre, perché è lui, il giovane militante comunista, che a Corleone prende il posto di dirigente della Confederterra. Erano gli anni, quelli, del movimento contadino, degli scioperi e delle occupazioni delle terre incolte per l’attuazione della Riforma Agraria, per l’assegnazione ai contadini di «fazzoletti» di terra nei feudi dei Gattopardi. Eletto nel Parlamento italiano, poi La Torre decide di tornare in Sicilia. Torna perché sente che sono tre i grandi problemi che bisogna affrontare e cercare di risolvere in Sicilia: la crisi economica, la criminalità mafiosa, la minaccia della pace nel Mediterraneo per l’installazione della base missilistica americana all’aeroporto di Comiso. Col suo ritorno in Sicilia, Pio La Torre mette in allarmemolte centrali: del crimine organizzato, della destabilizzazione, della speculazione edilizia, del bellicismo. L’impegno suo nell’affrontare tutti questi problemi, e soprattutto la legge, che porta la sua firma, del sequestro dei beni dei mafiosi, fa maturare nel potere criminale la decisione di eliminarlo. La Torre viene ucciso la mattina del 30 aprile 1982 mentre è in macchina, in via Generale Turba, a Palermo, insieme al suo autista Rosario Di Salvo.

È Pio La Torre, sono tutti gli altri martiri, gli altri eroi caduti nella lotta alla mafia, sono loro l’onore di Sicilia, e di tutto questo nostro Paese. Paese oggi irriconoscibile e irriconoscente. Paese in cui l’attuale sindaco di Comiso di An Giuseppe Alfano (tanto nome!) immemore o smemorato o incosciente, vuol togliere il nome di La Torre all’aeroporto e restituirlo al generale fascista Vincenzo Magliocco. Dopo la via di Roma da intitolare as Almirante, le impronte digitali ai bambini rom, la criminalizzazione dei clandestini, dopo il lodo Alfano e tanto, tanto altro di questo onorevole Governo Berlusconi, questa è la poitica di ministri e piccoli sindaci del nostro irriconoscibile paese.

Pubblicato il: 29.08.08
Modificato il: 29.08.08 alle ore 11.34   
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Titolo: MARIO DEAGLIO Compagnia di bandierina
Inserito da: Admin - Agosto 29, 2008, 07:00:13 pm
29/8/2008
 
Compagnia di bandierina
 
 
 
 
 
MARIO DEAGLIO
 
Il tentativo di sistemazione di Alitalia, condotto dall’attuale governo, presenta caratteri di novità nel panorama della politica industriale italiana e va quindi analizzato prima in un contesto istituzionale e poi al livello del settore e dell’impresa. Il precedente governo aveva seguito inizialmente una procedura da manuale anglosassone: aveva indetto una vera gara internazionale per la vendita della propria quota in Alitalia, sollecitando manifestazioni di interesse poi trasformatesi in un’unica offerta concreta, quella di Air France. A questo punto, dall’empireo della finanza globale si passò bruscamente a un tipico scenario italiano: Air France fu chiamata a incontrare il sindacato per quella che riteneva poco più di una semplice illustrazione e che il sindacato, con incredibile e colpevole miopia, considerava invece punto di partenza della trattativa «vera» per spuntare un netto miglioramento dell’offerta. Non ci si deve meravigliare che Air France sia scappata, lasciando Alitalia senza prospettive, senza amici, con perdite di un milione di euro al giorno che il governo tamponò - ossia mise a carico di tutti gli italiani - con un ingente prestito ponte, di dubbia legittimità europea.

In campagna elettorale, l’attuale presidente del Consiglio si impegnò solennemente, forse con un po’ di demagogia, a trovare una soluzione privata e italiana al problema Alitalia, giocando sul tasto dell’irrinunciabilità a una «compagnia di bandiera».

Si è realizzato così, dopo molti anni, un intervento «pesante» dello Stato per pilotare la ristrutturazione del settore, facendo leva su imprese nazionali e puntando comunque alla fusione operativa tra Alitalia e Air One, la seconda compagnia aerea nazionale. L’attuale governo ripete in tal modo, con qualche variante, la politica francese di ristrutturazione seguita per l’aeronautica, l’elettronica e per lo stesso settore dei trasporti aerei: il libero mercato è solo un ricordo, sostituito da una concertazione di interessi. Il governo di centro-destra si dimostra più «socialista», ossia più interventista, di quello di sinistra-centro.

Da una gara aperta a livello internazionale si è così passati a trattative private rigidamente limitate e assai poco trasparenti. Anche così, ci sono voluti molti mesi e molti sforzi per «convincere» una quindicina di imprenditori italiani a costituire una «cordata» e mettere assieme una somma relativamente modesta - un miliardo di euro -, comunque insufficiente a una vera politica di rilancio di Alitalia. È quindi ragionevole pensare che questa «cordata» sarà sostenuta da un forte credito bancario; essa potrebbe inoltre andare incontro a forti obiezioni europee per il possibile conflitto di interessi di alcuni dei partecipanti alla «cordata» in quanto gestori di servizi pubblici in potenziale competizione con i servizi aerei di Alitalia. L’attuale tentativo di soluzione mostra comunque una netta discontinuità, rispetto al passato recente, non solo per il suo allontanamento dal mercato, ma anche per i nuovi rapporti governo-grandi imprese e per l’esclusione delle forze sindacali dalle decisioni-chiave: a loro è riservata una trattativa successiva per la sola sistemazione dei lavoratori in esubero.

Ben difficilmente la soluzione ieri delineata eviterà di porre le perdite di Alitalia a carico della collettività: la separazione della «polpa» di Alitalia (in sostanza la posizione dominante nel traffico aereo sulle principali rotte italiane e soprattutto sulla Milano-Roma) dal suo «osso» (un mare di debiti e di dipendenti in esubero confluiti in una nuova società pubblica) è la premessa perché quest’osso influisca in maniera negativa e piuttosto pesante sui conti pubblici, il che, del resto, è successo in altri salvataggi del passato, come quello del Banco di Napoli. È dubbio che essa favorisca davvero lo sviluppo del Paese, non dovrebbe essere in ogni caso salutata con toni trionfalistici.

La «polpa», del resto, se produrrà utili, lo farà solo tra alcuni anni. Nessuno dei partecipanti alla cordata ha una «vocazione» al trasporto aereo e quanto è stato reso noto del piano industriale è piuttosto vago e non appare molto convincente. La nuova Alitalia sarà una compagnia aerea molto ridimensionata, quasi una «compagnia-bonsai», priva di un punto centrale (hub), senza vere prospettive di crescita fuori dall’Italia. Per questo è ragionevole supporre che il piano ora presentato sia solo un abbozzo, sulla base del quale negoziare più ampie intese con qualcuno dei veri «grandi» del trasporto aereo europeo; non a caso, Air France si è già rifatta ufficialmente avanti e potrebbe ottenere i risultati che si proponeva qualche mese fa - ossia l’integrazione di Alitalia nel proprio sistema globale - a un costo molto inferiore al previsto, risultando il vero vincitore di quest’operazione. La «bandiera» italiana di questa compagnia, in nome della quale si è condotta questa complicata operazione, potrebbe risultare una «bandierina», - secondo l’espressione usata ieri dal capo dell’opposizione - e per di più italo-francese.

La prospettiva più probabile è quella della continuazione di un’ulteriore, lenta riduzione della presenza di Alitalia sulla scena europea, insufficientemente compensata da una ragguardevole presenza iniziale sul mercato nazionale.

mario.deaglio@unito.it
 
da lastampa.it


Titolo: Sergio Rizzo. Lo staff del Professore: «Piano contro di noi»
Inserito da: Admin - Agosto 29, 2008, 07:08:46 pm
La linea Sircana: campagna anti intercettazioni

Lo staff del Professore: «Piano contro di noi»

Ovi: ascoltate richieste, che male c'è?



ROMA - Quando ha saputo che cosa avrebbe pubblicato oggi Panorama ha reagito così: «Non ho nulla di cui dovermi preoccupare. Scrivano pure quello che gli pare». Una reazione forse scontata, per chi conosce Romano Prodi. Come un'alzata di spalle di una persona che non riesce, parole sue, «a essere nemmeno seccato». Meno scontata è invece la nota con cui qualche ora dopo, mentre l'affare si stava mediaticamente ingrossando, l'ex presidente del Consiglio ha replicato ufficialmente, e da Losanna, al settimanale della Mondadori. «In tutta questa cosa c'era evidentissimo l'odore di una operazione costruita per fare una bella campagna contro le intercettazioni telefoniche. Tanto valeva fargli subito tana», spiega Silvio Sircana, senatore del Pd e storico portavoce del professore bolognese.

Una tesi, quella dell'obiettivo politico di queste rivelazioni, condivisa da tutti nel fronte prodiano: che nell'attuale opposizione è sempre stata la componente più critica verso la proposta di legge della maggioranza. C'è chi, come l'ex ministro Giulio Santagata, interpreta l'iniziativa di Panorama come la prova che «Prodi fa ancora paura al centrodestra», aggiungendo con crudezza: «Mi sembra che queste intercettazioni irrilevanti vengano utilizzate come vasellina nei confronti dei nostri per quanto riguarda le intercettazioni». E Sandra Zampa, ex capo ufficio stampa di palazzo Chigi che dopo l'esperienza di governo ha avuto un seggio alla Camera, citata dal settimanale edito da Silvio Berlusconi fra le persone che avevano seguito una delle vicende emerse nelle intercettazioni, non è da meno. «L'operazione è smaccata. Si vuole spingere la sinistra, compresi i prodiani, a dire di sì al bavaglio per la stampa. Berlusconi vuole arrivare a farsi anche questa legge senza che si dica che la sta facendo soltanto per se stesso», afferma. E precisa: «Noi non abbiamo nulla da nascondere». Dove per «noi» si intende chiaramente tutti quelli incappati nelle intercettazioni pubblicate da Panorama. Per non parlare di Alessandro Ovi.

La fonte, se così si può definire, di questa nuova bufera telefonica (sua era l'utenza intercettata) rivendica tutti i passaggi delle vicende, confermando per filo e per segno i fatti. «Lei lo sa che alla presidenza del consiglio arrivano dozzine di richieste tutti i giorni, e da ogni parte? Il problema esiste se qualcuna di queste sollecitazioni viene accontentata in modo scorretto. Se ciò non è avvenuto, e non è mai avvenuto quando eravamo a palazzo Chigi, che male c'è?», dice l'ex consigliere di Prodi. Che giudica privi di significato anche i vincoli di parentela esistenti fra l'ex premier e i destinatari dei suoi interessamenti. «Prodi è stato così presidente del consiglio, in questo caso, che non ha mosso un solo dito», ironizza Ovi. «Tanto che nessuna di quelle vicende si è poi concretizzata». La storia dell'iniziativa scientifica di Bologna per cui Pier Maria Fornasari, padre di Veronica, moglie del primogenito di Prodi, Giorgio, avrebbe sollecitato contributi pubblici? «Era una di quelle iniziative dove c'erano di mezzo gli enti locali, che come sempre vanno a cercare soldi. Tra l'altro Fornasari non avrebbe nemmeno potuto gestirla, visto che è primario all'istituto Rizzoli. L'operazione poi non è stata possibile, mi sembra per difficoltà sorte al ministero dell'Università di Mussi. Ma se fosse andata a buon fine non sarebbe stata una buona cosa? Poi ci lamentiamo che in Italia non si riesce a fare niente...»

E la vicenda del progettato coinvolgimento dell'industriale Claudio Cavazza nella società di Luca Prodi (figlio del fratello dell'ex premier, Vittorio), che avrebbe voluto sostituire il socio di maggioranza relativa, la Euroclone? «Anche in quel caso, che cosa c'è che non va? Non si può forse chiedere una mano a un amico imprenditore farmaceutico? Tenga presente che il valore totale di quell'operazione era modestissimo. E poi non se ne fece nulla. Era la classica storia di uno start up scientifico nel quale sorge un contrasto fra i ricercatori azionisti e il socio imprenditore. Cavazza non è entrato nella società perché c'era un problema tecnico». Evidentemente insormontabile. «Pensi che Prodi disse: "guardate che Luca ha bisogno di soldi posso metterli anche io..."», racconta Ovi. Il quale, per inciso, ricorda bene anche la richiesta che fece Cavazza per rientrare nell'elenco delle fondazioni beneficiarie di sgravi fiscali. «Fu una cosa normalissima, senza un pelo di prevaricazione. Ma Cavazza aveva fatto trascorrere il termine stabilito. E semplicemente gli fu risposto che non era possibile. Tutto qua. Ripeto: c'è qualcosa di male?»

Sergio Rizzo
29 agosto 2008

da corriere.it


Titolo: TEST ANTI DROGA E ALCOL IN ITALIA (gradito alla gente e noi solo chiacchiere)
Inserito da: Admin - Agosto 31, 2008, 10:31:51 am
CRONACA



TEST ANTI DROGA E ALCOL IN TUTTA ITALIA

E' iniziata in provincia di Verona la sperimentazione del test alcol-droga sugli automobilisti. In un laboratorio mobile, un medico sottopone l'automobilista a un tampone, che stabilisce se il guidatore ha bevuto troppo o ha assunto droghe prima di mettersi al volante. Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Carlo Giovanardi, ha intenzione di estendere questo sistema di prevenzione a tutta l'Italia. Siete d'accordo?
 
Si
 (202 voti) 80%

 
No
 (47 voti) 19%

 
Non so
 (5 voti) 2%

 
254 voti alle 10:25. Sondaggio aperto alle 19:14 del 30.08.2008


AVVERTENZA
Questo sondaggio non ha, ovviamente, un valore statistico. Si tratta di una rilevazione aperta a tutti, non basata su un campione elaborato scientificamente. Ha quindi l’unico scopo di permettere ai lettori di esprimere la propria opinione su un tema di attualità. Le percentuali non tengono conto dei valori decimali. In alcuni casi, quindi, la somma può risultare superiore a 100


Titolo: Alitalia: i capitani coraggiosi
Inserito da: Admin - Agosto 31, 2008, 10:47:43 am
Ieri 30 agosto 2008, 15.24.11

Alitalia: i capitani coraggiosi


La cordata preannunciata da Berlusconi in campagna elettorale dopo tanti mesi è finalmente realtà. Voglio segnalare, affinché tutti li conoscano, un breve profilo di alcuni tra i “capitani coraggiosi” che piloteranno Alitalia fuori della crisi.

Roberto Colaninno Da manager diventa imprenditore senza capitali. Conquista Telecom facendo debiti. Insieme a Gnutti e Consorte non hanno soldi necessari, ma agganci politici: le banche concedono mega prestiti milionari e con un sistema di scatole cinesi conquistano il 51% di Telecom. Hopa (controllata al 51% da Colaninno e Gnutti, con dentro Monte dei Paschi di Siena, Unipol e Fininvest, nel miglior spirito bipartisan) possiede il 56,6% di Bell (oscura società con sede nel paradiso fiscale del Lussemburgo).
Bell controlla il 13,9% di Olivetti, che possiede il 70% di Tecnost, che controlla il 52% di Telecom.
Praticamente Colaninno e soci controllano Telecom detendone solo il 1,5%. C’è il dubbio che il controllo di Bell su Olivetti sia avvenuto per effetto di notizie riservate di Colaninno (reato di incidere trading, che tuttavia la Consob non ha accertato).
Il Financial Times parla di “rapina in pieno giorno”. Telecom viene gestita così bene che dopo due anni affoga nei debiti, ma Colaninno riesce a venderla a Tronchetti Provera (Pirelli) e a Benetton, con una plusvalenza di 1,5 miliardi di Euro (praticamente esentasse). Naturalmente i veri sconfitti sono i piccoli azionisti della società. Nel 2005 la Consob lo condanna al pagamento di una sanzione per conflitto d’interessi.

Marco Tronchetti Provera Subentra a Colaninno e lascia nel 2006 dopo aver causato danni disastrosi alla società (il titolo crolla) ed ai piccoli azionisti. Certo anche lui come azionista ci rimette (circa 100 milioni di euro), ma ne incassa 295, tra stipendi e stock options.

Carlo Toto Parte dall’azienda di famiglia, la Toto costruzioni, che sotto la sua guida di Carlo negli anni '60 non perde una commessa da amministrazioni pubbliche (come le Ferrovie) ed enti locali abruzzesi. Carlo Toto è di casa all'Anas e piano piano passa dai semplici rifacimenti stradali alla costruzione di ponti, gallerie e corsie. Tutto fila liscio fino al 1981, quando lo arrestano con un funzionario Anas in una delle poche indagini pre-mani pulite. L'accusa per falso riguarda l'appalto del ponte sul fiume Comano (crollato nel giugno del 1980). Nel 1988 arriva la condanna in appello con i benefici di legge. Patteggia 11 mesi di condanna per le mazzette pagate per l'appalto di un mega-parcheggio. Nel giugno ‘94 comprò il suo primo Boeing a un fallimento per quattro milioni di dollari. Anche grazie a quel Boeing, che poi fu rimesso a nuovo dalle officine Lufthansa, Toto finì per firmare un preziosissimo accordo di partnership - era il 2000 - con la compagnia tedesca. Al matrimonio con Lufthansa Toto portava una dote ricca: Air One aveva occupato sistematicamente tutte le rotte nazionali «trascurate» da Alitalia. Quando tuttavia Toto si propone come acquirente di Alitalia, le banche che avrebbero dovuto sborsare 2 miliardi di euro, manifestano scarsa fiducia nell’operazione. Vanta una grande amicizia con il segreterio generale della Cisl Bonanni, uno di quelli che ha detto "no" all'accordo con Air France.

Francesco Bellavista Caltagirone Lo troviamo socio di Hopa, sembra con i finanziamenti erogati dalla ex Popolare Lodi alla società off shore Maryland, utilizzata in passato anche per comprare Rcs e titoli della stessa Popolare Lodi. Risulta indagato nell' inchiesta sull' aggiotaggio Antonveneta. Insieme a Sergio Billè (già Presidente di Confcommercio) risulta coinvolto nelle vicende che riguardano il “furbetto del quartierino” Stefano Ricucci.

Gilberto Benetton Partecipa con Tronchetti Provera all’operazione Telecom, acquistata da Colaninno. Nel 1999 acquista l’altra grande azienda pubblica privatizzata, cioè la società Autostrade. Anche in questo caso l’operazione avviene attraverso il debito, che poi dovrebbe essere pagato dalla nuova “gallina dalle uova d’oro” (Autostrade appunto). Nel 2005 la società insieme ad Argofin di Marcellino Gavio entra in Impregilo, alla vigilia della gara per il Ponte di Messina.

Marco Fossati La Star è l’azienda storica della famiglia. La finanziaria Findim entra nel giro Telecom, quando Tronchetti Provera lascia. Si dichiara convinto che la società nei prossimi due anni migliorerà fortemente. Si fa portatore di un piano alternativo per il rilancio Telecom, che prevede l’ingresso nella società di Mediaset. Per convincere Silvio Berlusconi, Fossati ha addirittura portato Alierta (della spagnola Telefonica socia di telecom) ad Arcore appoggiandosi al lavoro diplomatico di Alejandro Agag, genero dell´ex premier spagnolo Aznar ed ex segretario del Ppe, e di Flavio Briatore, entrambi amici del Cavaliere. Gli stessi uomini che tre anni fa fiancheggiavano la scalata di Stefano Ricucci al Corriere della Sera. Ma intanto il titolo scende.

Marcellino Gavio I suoi successi “autostradali” prendono le mosse dai rapporti politici, in particolare con il Partito Socialdemocratico di Romita e Nicolazzi. All’epoca del Ministro Prandini (pluricondannato) ottiene mille miliardi di appalti pubblici. Nel 1992 il suo amministratore delegato Bruno Binasco è stato imputato in processi per corruzione (è stato infine condannato insieme a Primo Greganti per finanziamento illecito ai partiti, nell'ambito dei processi di Mani Pulite). Su di lui nel 1992 fu spiccato un mandato di cattura, per presunte tangenti a Gianstefano Frigerio, segretario regionale DC, riguardo l'appalto per l'allargamento della Milano-Genova. Gavio si rifugiò all'estero, a Montecarlo, fino al settembre '93, fino a quando decise di presentarsi ai giudici di Milano, dove si salvò grazie alle solite prescrizioni. Interessanti le intercettazioni con il Ministro Lunari ed Emilio Fede: dimostrano il suo metodo di lavoro. Risulta indagato, insieme a Ugo Martinat, nelle vicende della Torino-Lione. Attraverso Argofin controlla un terzo di Impregilo, in cui entra poco prima dell’appalto per il Ponte di Messina.

Salvatore Ligresti Chiacchierato per i suoi presunti rapporti con la mafia, è finito in carcere per l'inchiesta Mani Pulite e condannato a 2 anni e 4 mesi di reclusione. Speculatore su aree edificabili, di lui si sa che passava le mazzette direttamente a Craxi propria manu e che è stato più volte salvato dalle grandi banche, prone la potere politico. Il suo ex rivale in affari Berlusconi lo nomina nel luglio 2004 amministratore delegato della Rcs Media Group, che controlla il Corriere della Sera, guarda caso. Insieme a Gavio e Benetton è socio di Impregilo, coinvolta nella vicenda dell’appalto per il Ponte di Messina.

Salvatore Mancuso Nel 2007 la sua nomina alla Presidenza del Banco di Sicilia, con il consenso di Totò Cuffaro e le congratulazioni di Francesco Musetto, viene salutata come un evento. Ma di li a poco dovrà dimettersi. Ma il suo fondo Equinox, con sede in Lussemburgo, è presente in molte operazioni discutibili. Così Mittel, finanziaria guidata da Giovanni Bazoli (presidente del consiglio di sorveglianza di Intesa Sanpaolo), e il fondo Equinox di Salvatore Mancuso hanno sottoscritto un accordo con Banca Mps e Banco Popolare, creditrici di Fingruppo, per liquidare in bonis Hopa, la società della galassia del finanziere bresciano Emilio Gnutti - finito in disgrazia in seguito alla calda estate dei furbetti del quartierino, anno 2005, quando fu coinvolto nella vicenda giudiziaria delle scalate bancarie e delle intercettazioni telefoniche - e degli imprenditori a lui vicini. Qualche giorno prima di partecipare alla cordata Alitalia acquista il 65% di Air Four, compagnia aerea executive con sede a Milano.

Claudio Sposito E’ uno degli uomini chiave del salvataggio di Fininvest dal fallimento all’inizio deglia anni ’90.All’epoca operava come plenipotenziario italiano per conto della banca d’affari Morgan & Stanley ed il rapporto con Berlusconi divenne così solido che nel 1998 diventerà amministratore delegato di Fininvest. Nel 2003 ritroviamo Sposito ed il suo fondo Clessidra ad operare con Gnutti, Presidente di Hopa, con l’intervento di Mediobanca. Sposito controlla oggi ADR, che gestisce gli aeroporti di Roma.

Emilio Riva E’ il re italiano dell’acciaio. Non è sconosciuto alla giustizia, che lo ha condannato per il reato di inquinamento della Ilva Siderurgica prima a Genova e ora a Taranto. Inoltre nel 2006 veniva riconosciuto colpevole di frode processuale e tentata violenza privata nei confronti di numerosi dipendenti di Taranto. Pene mai scontate grazie ai vari indulti e sconti. Il suo metodo di lavoro è la privatizzazione dei guadagni e la socializzazione delle perdite: In una lettera al Governo del 14 dicembre Emilio Riva avverte che l'eventuale riduzione delle emissioni di anidride carbonica comporterebbe "la necessità di fermare parte significativa degli impianti in uso. Il personale - afferma - colpito da tali riduzioni non potrebbe essere inferiore, anche nell'ipotesi più conservativa, alle quattromila unità".

Molti degli imprenditori coinvolti risultano legati dal “filo rosso” della vicenda Telecom, che dunque merita nuovi e ulteriori approfondimenti. Molti degli imprenditori sono stati condannati, in più di un caso per vicende di tangenti e corruzione. Quasi sempre hanno fatto i loro affari a debito, cioè grazie a prestiti delle banche. In particolare di una e così sono debitori di Banca Intesa. Sarebbe interessante conoscere l’entità del prestito.

Non è che in realtà Banca intesa stia soltanto cercando di recuperare i suoi crediti? Molti di loro sono Cavalieri del Lavoro.

Nel sito ufficiale si legge che “Gli imprenditori insigniti di questa onorificenza, dalla sua istituzione ai nostri giorni, rappresentano l'élite imprenditoriale del paese e che “L'Ordine al "Merito del Lavoro" premia l'insignito non solo per una specifica attività intrapresa, ma lo vincola ad un impegno etico e sociale volto al miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro del paese”. Complimenti!

C’è qualcuno che si aspetta che imprenditori siano mossi dall’intento di rendere un servizio alla collettività?

C’è qualcuno che non pensa che, comunque vadano le cose, alla fine usciranno dalla vicenda con la loro brava e ingente plusvalenza?


da italiadeivalori.ecc ecc. (quando smetterà di essere firmato da Di Pietro? Che bisogno c'è?)


Titolo: Alitalia, Stato e mercato
Inserito da: Admin - Settembre 01, 2008, 11:23:24 am
1/9/2008 - VERTICE CON I SINDACATI
 
Alitalia, Stato e mercato
 
 
 
 
 
ALBERTO BISIN
 
Il presupposto concettuale di ogni dibattito di politica economica è la contrapposizione tra Stato e mercato. Sotto quali condizioni è auspicabile l’intervento dello Stato in una economia di mercato? Una risposta corretta a questa domanda non può essere puramente dettata da considerazioni ideologiche astratte: non può infatti prescindere dalle condizioni strutturali del sistema economico.

In una economia in cui i salari siano determinati in un mercato del lavoro competitivo e in cui l’istruzione e la sanità siano privati, forme di assicurazione sociale pubblica sarebbero in generale desiderabili, e spesso necessarie. In una economia socialista sarebbe invece generalmente vero l’opposto.

In Italia il dibattito su Stato e mercato è meno ideologico di quanto ci si potrebbe aspettare. Lo stesso trucchetto retorico, infatti, falsa gli argomenti sia a destra sia a sinistra. La sinistra alternativa e quella di governo concordano sulla «morte del pensiero unico monetarista e liberista». Critiche al «neoliberismo estremista», al «fondamentalismo di mercato», hanno fornito supporto, a sinistra come a destra, a politiche protezionistiche nei confronti di prodotti cinesi e a politiche industriali di intervento a difesa dell’«italianità» di banche e imprese. Nel mercato del lavoro, poi, a ogni accenno alla liberalizzazione dei contratti si prefigura un mondo neoliberista popolato da soli precari indigenti.

Il trucchetto retorico è ovvio (e anche poco sofisticato): si critica una posizione estrema e irragionevole e si ricavano da questa critica conclusioni che riguardano questioni di politica economica specifiche hic et nunc, in Italia oggi. Ma in Italia oggi è difficile trovare un neoliberista estremista, di quelli che «il mercato funziona comunque e ovunque». Ma soprattutto, in Italia oggi, non si può proprio dire che tutto sia libero mercato e concorrenza perfetta: i salari sono per la maggior parte determinati a mezzo di contrattazione centralizzata, con minima considerazione per le differenze di produttività e di potere d’acquisto, l’istruzione è pubblica, la sanità è pubblica (così pubblica che i primari ospedalieri sono spesso espressione della politica, così come gli imprenditori le cui case di cura sono convenzionate col sistema sanitario), le banche e i mercati finanziari si stanno solo ora aprendo alla concorrenza (ma non i fondi pensione), rendite monopolistiche sono liberamente offerte all’imprenditoria privata (dalle tariffe autostradali ai canoni demaniali sulle spiagge), e così via.

Ma proprio per questo il trucchetto retorico di criticare una posizione estrema e inesistente è necessario. Addirittura Giulio Tremonti, mente economica della PdL e ora ministro dell’Economia, conia con successo il termine «mercatismo» per definire il nemico intellettuale da criticare (in La paura e la speranza, Mondadori, 2008). E naturalmente ricava da questa critica supporto a politiche economiche «colbertiste» di protezionismo mercantile.

Data la qualità del dibattito su Stato e mercato in Italia, non è poi sorprendente che la politica economica sia caratterizzata da una mancanza di rispetto (ma vorrei dire di comprensione) per il funzionamento dell’economia di mercato. Il caso Alitalia è oggi ovviamente sintomatico (ma lo stesso si potrebbe dire del caso Telecom in passato). Alitalia ha perso più di due miliardi di euro in quattro anni (dai dati di bilancio 2004-2007) offrendo ai propri dipendenti (incluso il management) condizioni notevolmente favorevoli rispetto a quelle di mercato. In questo contesto il governo si adopera per un piano di salvataggio che prevede la copertura a carico del bilancio dello Stato delle perdite passate e di quelle che sono in effetti perdite future (il costo degli esuberi) e l’elargizione di eventuali profitti futuri a imprenditori privati, scelti secondo procedure non certo degne di un mercato dei capitali trasparente.

Sarà anche colbertismo, ma non è diverso dal buon vecchio statalismo. Non solo, ma i profitti futuri agli imprenditori privati sono in qualche forma garantiti da rendite monopolistiche; cioè a scapito dei consumatori che pagheranno tariffe aeree più elevate. Si annulla infatti la concorrenza tra Alitalia e AirOne e si parla della chiusura dell’aeroporto di Milano-Linate per blindare la rotta Milano-Roma dalle compagnie straniere. Tutto questo è per giunta realizzato modificando con grave precedente la disciplina antitrust e in disprezzo della normativa europea. È davvero «fondamentalismo di mercato» sostenere una trasparente liquidazione fallimentare di un’azienda quotata in Borsa?
 
da lastampa.it


Titolo: Francesco Giavazzi. La rendita dei comuni
Inserito da: Admin - Settembre 01, 2008, 11:36:39 am
CENTRODESTRA E SERVIZI PUBBLICI

La rendita dei comuni


di Francesco Giavazzi


L'Italia è il Paese, dopo gli Stati Uniti e l'Australia, che consuma il maggior numero di litri d'acqua per abitante: quasi 600 litri al giorno negli Usa, 500 in Australia, 400 in Italia. In Gran Bretagna se ne consumano solo 150, in Germania 190. In parte ciò è dovuto al fatto che la nostra rete idrica è un colabrodo, con una perdita media del 30% e punte del 50%; ciononostante per migliorare i nostri acquedotti investiamo meno della metà di quanto investono gli inglesi (in realtà non tutta l'acqua persa è sprecata: una buona parte viene rubata, spesso per irrigare i campi con acqua potabile. Ad Agrigento, quando i carabinieri hanno sequestrato alcuni invasi illeciti, le cisterne in città quasi scoppiavano tanta acqua arrivava). L'elevato consumo dipende anche dal fatto che nelle nostre città il prezzo dell'acqua è fra i più bassi al mondo: circa 80 centesimi al metro cubo a Roma, contro 4,30 euro a Berlino, 3,50 euro a Copenaghen, 2 euro a Londra. La nostra acqua costa poco, ma illudendoci che sia pressoché gratuita ne consumiamo troppa e alla fine le nostre bollette non sono molto inferiori a quelle inglesi o tedesche. Ciò che accade per l'acqua accade per i rifiuti: oneri di smaltimento molto bassi e quindi, con rare eccezioni (Trento ad esempio), un eccesso di rifiuti. Un altro esempio è il trasporto pubblico locale. I biglietti coprono un terzo del costo: non c'è da stupirsi se i passeggeri, non conoscendo quanto costa davvero il servizio, trattino male gli autobus. Dovrebbero bastare questi esempi per convincerci che vi è qualcosa di profondamente sbagliato nel modo in cui sono gestiti i nostri servizi locali.

Essi dipendono, pressoché senza eccezioni, dalla politica e i politici, anche i meglio intenzionati, si illudono che il modo per aiutare i cittadini — e ottenere i loro voti — sia far pagare poco i servizi. In realtà così facendo contribuiscono al degrado dell'ambiente e, come abbiamo visto nel caso dell'acqua, alla fine non riescono neppure a mantenere basse le bollette. Solo il 5% dei nostri acquedotti è gestito da privati ai quali il servizio è stato affidato in seguito a un'asta competitiva. Gli altri sono gestiti direttamente dagli enti locali, o comunque da società controllate dagli enti locali a cui sono stati affidati senza mai chiedersi se esistesse qualcuno disposto a offrire il servizio a condizioni migliori. Nella scorsa legislatura il ministro Linda Lanzillotta cercò, invano, di condurre in porto una riforma. Per superare il veto di Rifondazione dovette accettare che gli acquedotti rimanessero pubblici. Ma per gli altri servizi quella legge aveva il merito di porre i Comuni di fronte a una scelta chiara: o gestivano il servizio direttamente, o lo affidavano tramite una gara a società terze. Deroghe alla procedura di assegnazione tramite gara dovevano essere approvate dall'Antitrust. La legge non passò non per l'opposizione di Rifondazione, che si accontentò dell'acqua pubblica, ma perché fu considerata un attentato alla tranquilla sopravvivenza del nuovo «capitalismo pubblico locale», le centinaia di aziende a partecipazione pubblica create negli ultimi anni per gestire i servizi locali.

Queste società sono diventate il fulcro del potere politico locale: non c'è fusione che non sia accompagnata dal passaggio al modello societario duale in modo che non un solo presidente, non un solo consigliere di amministrazione perda il suo posto. Oggi, grazie alla Lega hanno ottenuto ciò che volevano: l'art. 23-bis del decreto fiscale approvato l'1 agosto prevede che le deroghe alla procedura di gara siano solo comunicate all'Antitrust. Tolte di mezzo le gare, la sopravvivenza del capitalismo pubblico locale è assicurata. La Lega ha definito l'approvazione del 23-bis una vittoria del federalismo. In realtà anziché parte di un grande progetto di riforma delle istituzioni, sembra piuttosto la misera difesa di qualche poltrona alle spalle dei cittadini. All'interno della maggioranza l'opposizione al 23-bis è venuta soprattutto da Alleanza nazionale che ha inutilmente difeso le gare e ora annuncia la presentazione di un nuovo disegno di legge per rivedere in senso più rispettoso del mercato l'intero assetto dei servizi locali. Ma vi sarebbe un modo più concreto per segnalare la propria diversità: An gestisce Roma, una città dove i servizi pubblici sono tutti assegnati senza gara. Quale lezione ai propri colleghi, e anche all'opposizione, se il sindaco Alemanno annunciasse che d'ora in poi a Roma tutti gli affidamenti avverranno tramite gara.

01 settembre 2008

da corriere.it


Titolo: Epifani: «Niente atti di forza su Alitalia»
Inserito da: Admin - Settembre 02, 2008, 12:12:40 am
Epifani: «Niente atti di forza su Alitalia»

Angelo Faccinetto


Crisi Alitalia, con una cordata di salvataggio che - dice - non sembra essere mossa da interessi industriali. E poi inflazione, bassi salari, riforma del modello contrattuale, emergenze per affrontare le quali il governo ha fatto finora poco o nulla. Appena tornato dagli Usa dove, ospite dei sindacati americani, ha partecipato alla convention democratica per l’investitura di Barack Obama per la corsa alla Casa Bianca, il leader della Cgil, Guglielmo Epifani, si trova a dover fare i conti con una situazione difficile. Ma con qualche speranza in più.

Epifani, qual è il messaggio che porta da Denver?
«I giornali, anche in Italia, hanno dato molto risalto ai contenuti della convention democratica. Un punto, però, è rimasto in ombra: il sostegno di tutte le organizzazioni sindacali alla candidatura di Obama e il grande peso che hanno avuto i temi del lavoro in tutti gli interventi. Da quelli del candidato presidente a quelli di Ted Kennedy, di Joe Biden, di Bill e di Hillary Clinton. È il segno di uno spostamento a sinistra del Partito democratico americano ed è un segnale importante anche per l’Europa e per l’Italia».

Perché?
«Perché in quella che Obama chiama la “promessa americana” c’è il superamento della teoria reaganiana che ha dominato gli ultimi decenni, c’è la proposta di una società non più fondata sugli interessi individuali ma sulla coesione sociale. Non a caso è partito un segnale forte per una nuova politica del welfare, per una nuova legislazione del lavoro, per una politica fiscale esplicitamente redistributiva, Ed è stato sottolineato il principio “paga uguale a lavoro uguale”, che permette il superamento delle differenze di genere e si è insistito sull’importanza del contratto collettivo, un richiamo di grande attualità anche per noi».

In che modo questi orientamenti potrebbe incidere sulle scelte politiche italiane ed europee?
«Incidono come sempre incidono le grandi scelte americane. Se Obama vincerà la sfida per la Casa Bianca diventeranno decisivi e imporranno anche da noi una riflessione seria. E poi, più in generale, anche se Obama ha sottolineato che la sua non è una candidatura di razza, una sua vittoria sarebbe un segnale in fortissima controtendenza con la cultura xenofoba, razzista e discriminatoria, oggi presente in Europa, Italia compresa. Come dimostrano l’atteggiamento del governo e di diverse amministrazioni locali».

Uno stimolo anche per il nostro Partito democratico che oggi appare in difficoltà?
«Penso di sì. Una parte del gruppo dirigente, guidato dal segretario Veltroni, ha partecipato alla convention. Mi aspetto che malgrado le difficoltà, questa scelta netta del partito americano possa aiutare il dibattito interno al Pd a decollare».

Come interpreta queste difficoltà?
«Non sono una sorpresa, per me. Come ricorderà, avevo mosso diverse critiche sul modo in cui il Pd è nato. Andava seguito un percorso diverso ed inverso rispetto a quello intrapreso. Adesso bisogna correre ai ripari. Non può essere che la più grande forza di opposizione non abbia una sua fisionomia forte e un altrettanto forte radicamento sociale. Ma credo che il gruppo dirigente lo abbia chiaro».

Intanto, con la sfida elettorale americana alle porte e, in Italia, un Pd in cerca di identità, comincia un autunno carico di problemi. Cito i principali che, come si dice, si “tengono” tutti: Alitalia, inflazione, emergenza salariale, crisi dei consumi, riforma del modello contrattuale. Come li affronterà il sindacato? Cominciamo da Alitalia e dal suo carico di esuberi.
«La nostra posizione è chiara. Non siamo disposti a discutere di esuberi se non si discute di piano industriale. E piano industriale vuol dire investimenti, qualità e quantità dei collegamenti, della flotta. Significa perimetro aziendale, cioè attività da tenere e da abbandonare. Solo dopo aver convenuto su questi punti è possibile affrontare il tema organici».

A proposito dei quali il ministro Sacconi, l’altro giorno ha parlato, di circa 5mila unità. Più o meno del previsto?
«Lo ripeto: noi non vogliamo partire dagli esuberi. Passera dice che è fondamentale l’accordo con il sindacato? Bene. Ma questo significa confrontarsi con le nostre opinioni. Quello che si aprirà domani (oggi per chi legge, ndr) deve essere un confronto vero sul piano industriale, non un prendere o lasciare. Se fosse così non ci sarebbe il nostro consenso».

Intanto però un’idea sulla cordata se la sarà fatta...
«La mia opinione è che questa cordata - sulla quale Passera stava lavorando da tempo e per la quale il governo ha cambiato in corsa le regole - sia formata da imprenditori che, per una parte, hanno altri interessi (penso a quelli che operano nell’edilizia o nel campo delle concessioni pubbliche) e per l’altra puntano sul guadagno finanziario. E ciò è un problema, perché in un mercato difficile come quello del trasporto aereo, se gli azionisti non si concentrano sul cuore dell’attività, c’è il rischio di fallire nell’intento».

Non vede nessun interesse industriale in questa cordata?
«Allo stato non è visibile. E mi chiedo quali problemi porrà, nell’immediato e in prospettiva, il vincolo temporale di cinque anni che questi imprenditori si sono posti. Perciò è importate un piano industriale all’altezza dei problemi di Alitalia. Chiediamo un impegno che sia, insieme, di risanamento e di sviluppo, non accetteremo una politica dei due tempi».

E non c’è solo l’Alitalia. L’inflazione non scende, i consumi crollano, lavoratori e pensionati perdono giorno dopo giorno potere d’acquisto. Come è stata sin qui l’azione del governo?
«Questa è la grande emergenza nazionale e su questo il governo ha fatto poco. Poco sui prezzi, poco sulle tariffe, niente sulla restituzione fiscale a lavoratori e pensionati. Questo segna oggi il maggior dissenso tra noi e il governo. Ovviamente tutto ciò rende anche più difficile il confronto sulla riforma dei contratti».

Che sembra irto di ostacoli.
«Un intervento di redistribuzione fiscale l’avrebbe sostenuto, non averlo fatto acuisce i problemi. Noi puntiamo ad un aumento dei salari attraverso tutti i livelli contrattuali, mentre non pare che Confindustria si muova in questa direzione».

I tempi? Sacconi e industriali, ma anche Cisl e Uil, fanno pressing perché si concluda tutto entro settembre.
«Anche noi abbiamo l’esigenza di non diluire i tempi, ma non accettiamo diktat. Né dal governo, né da Confindustria, né da altri sindacati. Credo che dopo la metà del mese avremo un quadro più preciso che ci consentirà di capire se sarà possibile giungere o meno ad un accordo».

Lei ha sottolineato che, mentre tutti i governi europei si stanno muovendo per fronteggiare la crisi, il nostro rimane inerte. Cosa pensa di fare per dargli la sveglia?
«Penso che a sostegno dei nostri obiettivi si debba avviare una vasta mobilitazione di massa. Nei prossimi giorni faremo una verifica con Cisl e Uil, poi decideremo».

Tra i problemi al centro dell’attenzione mediatica non c’è l’occupazione. Il ministro Sacconi magnifica l’aumento delle ore di straordinario ottenuto grazie ai suoi provvedimenti, mentre si tace il fatto che la cassa integrazione continua ad aumentare. Come mai?
«Il governo non intende rappresentare la realtà italiana per quello che è, con la sua economia in recessione, con la cassa integrazione che cresce, con le sue filiere produttive in crisi. Non solo, credo, per una questione di immagine, ma anche perché non ha una proposta. Per questo preferisce dare una lettura ideologica della situazione plaudendo all’incremento del 9% delle ore di straordinario e dimenticando che, nel complesso, il Paese perde ore di lavoro. Per via della crisi».

Pubblicato il: 31.08.08
Modificato il: 01.09.08 alle ore 13.08   
© l'Unità.


Titolo: Marco Rogari Liberalizzazioni verso il rilancio
Inserito da: Admin - Settembre 05, 2008, 10:50:44 am
Liberalizzazioni verso il rilancio

di Marco Rogari
 
 
 
Liberalizzazioni, a partite dai servizi pubblici locali, e privatizzazioni, con la Fincantieri nel "mirino". Non conterrà soltanto tagli e razionalizzazioni il piano triennale sulla finanza pubblica da 30 miliardi, che sta mettendo a punto già da giorni il ministro Giulio Tremonti e che sarà presentato attorno al 20 giugno insieme ad un decreto per anticipare la Finanziaria 2009. Il processo per ridurre la spesa pubblica sarà accompagnato da un plan ad hoc per lo sviluppo. Che spazierà dalle infrastrutture al programma per il ritorno al nucleare, dal piano-casa agli interventi in chiave "banda larga" fino alla nascita della banca per il Sud e alle semplificazioni per facilitare l'attività d'impresa.

Un'operazione che dovrà essere sostenuta da un efficace dispositivo per garantire risorse e coperture. E Tremonti avrebbe già individuato i meccanismi chiave: contenimento della spesa a livello territoriale grazie all'avvento del federalismo (che dovrebbe vedere la luce insieme all'anticipo della manovra); consistenti risparmi dalla pubblica amministrazione con l'attuazione del piano Brunetta.

Ieri il ministro dell'Economia ha fatto il punto della situazione con i colleghi Renato Brunetta, Roberto Calderoli, Altero Matteoli, Maurizio Sacconi e Claudio Scajola. Una task force che seguirà lo sviluppo del piano targato Tremonti. In una nota del Tesoro si sottolinea che con questo incontro sono stati mossi «i primi passi» per l'anticipo della Finanziaria 2009 «in un provvedimento che integrerà il Dpef». Un provvedimento «che – prosegue la nota – conterrà tanto un piano triennale di stabilizzazione della finanza pubblica, quanto un piano mirato allo sviluppo economico. Sta prendendo così forma – si fa notare da Via XX settembre – in maniera non virtuale ma sostanziale, come espressione dell'azione del Governo, un vero e proprio "piano Attali"».

Al Tesoro, dunque, l'orientamento è di non perdere tempo. Il decreto per anticipare la Finanziaria 2009 sarà agganciato al Dpef e la manovra estiva dovrebbe ammontare a 8-10 miliardi, un terzo del valore complessivo del piano triennale da 30 miliardi che sta allestendo Tremonti per giungere al pareggio di bilancio concordato con la Ue nel 2011. A giungo dovrebbe scattare anche il progetto di federalismo fiscale, che il ministro Umberto Bossi sta congegnando d'intesa con il Tesoro. Tremonti lo considera una carta fondamentale da giocare per responsabilizzare le Regioni sugli eccessi di spesa e spostare le poste in bilancio. Non a caso l'aggancio al federalismo è espressamente previsto anche dal piano Brunetta (passaggio di funzioni e strutture dal "centro" agli enti territoriali).

Ci saranno ovviamente anche i tagli. Oltre all'opera di potatura delle voci del bilancio dello Stato, potrebbe arrivare una sorta di nuovo "taglia spese" per tutte le amministrazioni, con un taglio del 20% dei costi di gestione e funzionamento in tre anni (pari a oltre 10 miliardi). Nel menù anche un rigido blocco del turn over (1 ingresso ogni 7-8 uscite), lo stop alla sanatoria dei precari, il ricorso alla mobilità e la dismissione delle sedi periferiche sotto i 20-30 dipendenti. Risorse arriveranno anche dalla prima fase della vendita del patrimonio pubblico, dalle privatizzazioni e dalla trasformazione in Spa degli enti pubblici, Inail in testa.

Un altro decreto dovrebbe prendere corpo tra giugno e luglio per "gestire" 500 scadenze di misure e provvedimenti non solo fiscali (dall'agricoltura alla class action) fissate proprio per l'estate, che rischiano di trasformarsi in un collo di bottiglia per l'attività dell Governo. Con tutta probabilità sarà il ministro Calderoli a tracciare un percorso semplificato anche per evitare il rito delle mille proroghe. E sempre Calderoli potrebbe inserire nel testo altre delegificazioni e semplificazioni, a partire da quelle per facilitare l'avvio della attività d'impresa.

 
da ilsole24ore


Titolo: Filippo Andreatta e Pier Ferdinando Casini = per il Caucaso contro la Russia...
Inserito da: Admin - Settembre 06, 2008, 04:31:04 pm
La versione completa dell’intervento di Filippo Andreatta e Pier Ferdinando Casini

«Pd timido con Berlusconi e Putin»

«Il Ministro degli Esteri e il suo omologo ombra si sono trovati su una posizione di sostanziale sostegno a Mosca»



Caro Direttore, la bipartisanship in politica estera è un valore importante, che permette ad un paese di avanzare i propri ideali e difendere il proprio interesse nazionale con continuità. Entrambi, pur da posizioni politiche distinte e in contesti differenti (le istituzioni o l’accademia), abbiamo sempre sostenuto che - sui temi di politica internazionale - maggioranza e opposizione debbano convergere il più possibile almeno sulle linee di fondo. Questa convergenza non era possibile all’inizio della Repubblica, quando l’Italia era divisa proprio sulla collocazione nell’ambito della guerra fredda, ma gran parte dei progressi politici del dopoguerra sono stati accompagnati da una progressiva accettazione delle provvidenziali intuizioni di De Gasperi, che volle fermamente un’Italia atlantica ed europeista. Le stagioni del centrosinistra degli anni '60 e della solidarietà nazionale negli anni '70 furono pertanto aperte da un allargamento della base di consenso sulla collocazione italiana, quando il Psi e il Pci, rispettivamente, accettarono l’adesione italiana alla Nato e al processo di integrazione europea.

Non è quindi senza rammarico che segnaliamo la nostra insoddisfazione verso l’approccio del governo italiano nei confronti della crisi con la Russia, proprio quando il governo e il principale partito d’opposizione sembrano aver trovato un’intesa su questo punto. Il consenso è infatti un valore quando è espresso su una politica giusta, mentre la bipartisanship è, purtroppo, doppiamente dannosa quando le decisioni sono sbagliate. Il Ministro degli Esteri e il suo omologo ombra si sono infatti trovati su una posizione definita come equidistante nei confronti del conflitto tra Russia e Georgia, ma che equivale ad una sostanziale sostegno alle posizioni di Mosca. Sebbene come in tutte le crisi sia difficile allocare torti e ragioni, nel caso della guerra del Caucaso la maggiore potenza russa, e la sua determinazione nel perseguire i propri obiettivi anche a scapito del diritto internazionale e degli inviti della maggioranza degli Stati, rappresentano infatti di gran lunga il problema principale. La Russia ha risposto alla crisi in Sud Ossezia con una forza sproporzionata, ha cercato di ottenere la caduta del regime democratico georgiano ha esteso l’area dei combattimenti all’Abkazia, è penetrata nel territorio non conteso e bombardato le città della Georgia, rifiutandosi poi di ritirarsi nei termini dell’accordo che aveva appena firmato, e ha infine dichiarato - unilateralmente e illegalmente - l’indipendenza delle due regioni, accusando gli Stati Uniti di aver orchestrato un’aggressione. Per questo comportamento inaccettabile non è sufficiente esprimere «rammarico», come ha fatto il Ministro Frattini con il sostanziale appoggio dell’onorevole Fassino, che ha invece invocato una nuova Helsinki per negoziare con la Russia.

È giunto invece il momento di interrogarci a fondo sui rapporti con la Russia dell’Italia e delle istituzioni - Nato e Ue in testa - di cui l’Italia fa parte. In primo luogo, ci siamo a lungo illusi che la Russia fosse diventata una potenza democratica e responsabile, ed infatti ci sono stati dei progressi in questo senso. Allo stesso tempo però, abbiamo forse troppo spesso chiuso gli occhi di fronte alla repressione in Cecenia e nei confronti delle altre minoranze in seno alla federazione, e nei confronti di ogni opposizione. Ora che questi metodi violenti e spregiudicati non sono più confinati all’interno della Russia, ma vengono utilizzati con uno stato sovrano, non è più possibile ignorarli. In secondo luogo, la crisi delle ultime settimane ha dimostrato un cambiamento della strategia russa non solo nel Caucaso, ma anche nei confronti delle altre Repubbliche ex sovietiche e dell’Occidente. La Russia ha minacciato ritorsioni contro eventuali sanzioni e contro l’installazione di missili americani in Europa, e ha ventilato la possibilità di un’alleanza destabilizzante con la Siria. In terzo luogo, sebbene alcuni paesi abbiano mantenuto una certa cautela, una crescente ondata di condanna delle posizioni russe è cresciuta nelle ultime settimane, che comprende gli Stati Uniti e - in Europa - la Gran Bretagna e gli Stati che hanno aderito recentemente all’Unione Europea (Baltici e Polonia in testa), e alla quale l’Italia deve una risposta.

Ci saremmo quindi aspettati una posizione più netta dell’Italia, che segnalasse, ovviamente senza una rottura nei rapporti con la Russia, una maggiore preoccupazione. Siamo invece il paese che, nelle discussioni con gli alleati, ha tenuto la posizione più filo-russa di tutti, e non è un caso che il Presidente Medvedev si sia sentito in dovere di ringraziare il nostro paese in un’intervista televisiva al Tg1. La familiarità tra il Presidente del Consiglio e la leadership del Cremlino può essere un’opportunità solo se è utilizzata per rafforzare la posizione di chi vuole convincere la Russia a interrompere la sua politica aggressiva, mentre è un’occasione persa - per l’Italia, ma anche per Berlusconi - se l’amicizia dovesse essere percepita come un elemento di indebolimento del fronte occidentale e di acquiescenza di fronte a comportamenti destabilizzanti per il sistema internazionale. Sotto questo aspetto, anche la posizione del Pd è deludente, in quanto rinuncia ad incalzare il governo su un tema così importante. Il Cremlino, ci pare, non ha bisogno di difensori d’ufficio. Ci sono ben altri temi sui quali varrebbe la pena di impostare un dialogo bipartisan per il bene del paese. Quello di una sostanziale capitolazione al nuovo, e pericoloso, corso della politica estera russa non è, a nostro avviso, tra questi.


Filippo Andreatta e Pier Ferdinando Casini
06 settembre 2008

da corriere.it


Titolo: Pontida vista da Edimburgo
Inserito da: Admin - Settembre 07, 2008, 10:35:51 am
Pontida vista da Edimburgo

Marco Simoni *


Alex Salmond è il primo ministro scozzese, un politico energico e carismatico che guida un governo di minoranza ed un partito che continua ad avere nel suo programma l’indizione di un referendum per l’indipendenza della Scozia. In questi giorni a Edimburgo, teatro di uno degli esempi recenti maggiormente citati di devolution, si tiene la più grande conferenza mai organizzata dalla associazione universitaria di studi europei (Uaces), e il primo ministro ha tenuto un orgoglioso discorso di benvenuto alle centinaia di docenti universitari giunti da tutto il mondo (con una eccezione: neanche un docente da università italiane nella lista dei partecipanti, il nostro governo, che ha ridotto al lumicino le risorse per la ricerca, potrebbe forse essere sensibile almeno al rischio della “brutta figura”).

La Scozia dal 1999 ha un suo parlamento ed un suo governo, con poteri superiori a quelli delle nostre regioni, in temi come la sanità, l’educazione, la polizia, l’ambiente. Le università, di altissima qualità (il principe William ha studiato a St. Andrews, appena più a nord di Edimburgo), erano completamente gratuite per gli studenti scozzesi a seguito di una decisione del parlamento di Edimburgo; ora le rette vanno pagate a rate dopo essersi laureati ed aver iniziato a lavorare. La finanziaria più recente, scritta da Salmond, prevede tra le altre cose un aumento delle risorse destinate alla assistenza sanitaria di base, in particolare nelle aree più povere, un aumento degli agenti di polizia, ed una diminuzione delle tasse sulle aziende dal tipico sapore conservatore.

Osservare da vicino questa devolution detta e fatta (era nel programma con il quale Blair vinse le elezioni nel 1997 e nel 1998 era già diventata operativa) porta a riflettere sulle enormi differenze con la retorica del federalismo imperante nel nostro paese da circa quindici anni, e sulle recenti proposte del governo. La Scozia ha una sua identità ed una sua storia di reame distinto da quello inglese. Costumi e tratti culturali unificano molto chiaramente un territorio vasto e lontano da Londra. Ma a parte i temi socio-culturali, che pure conservano la loro rilevanza, la differenza principale sta nel fatto che la Scozia, che ha voluto e ottenuto una ampia autonomia legislativa e impositiva, è uno dei territori più poveri del Regno Unito. Al contrario, i più ferventi sostenitori della necessità storica e delle virtù palingenetiche del federalismo in Italia sono i rappresentanti politici delle regioni ricche.

Negli scorsi mesi, a volte con inutili polemiche condite da interpretazioni dietrologiche, ci si è stupiti della propensione di una parte rilevante del Partito Democratico a tessere un dialogo con la maggioranza, e segnatamente con la Lega, al fine di arrivare ad approvare quel che viene chiamato “federalismo fiscale”, al momento ancora in forma di bozza presentata dal ministro Calderoli a ridosso di Ferragosto. Questa nuova riforma dovrebbe rendere completa la devolution di casa nostra, conferendo entrate fiscali dirette alle regioni, e condizionando trasferimenti a vantaggio delle regioni povere agli standard di efficienza delle regioni più virtuose. Una tabella pubblicata dagli esperti de lavoce.info, Giampaolo Arachi e Alberto Zanardi, mostra come le conseguenze distributive che si possono prevedere siano tutt’altro che marginali. In estrema sintesi, la nuova legge stabilisce il principio per il quale il costo unitario dei servizi deve essere uguale in tutt’Italia. La redistribuzione a favore delle regioni più povere coprirà solo questi “costi standard”, ossia i costi che sostengono per unità di prestazione le regioni maggiormente efficienti. Per dirla in maniera meno tecnica, la proposta suggerisce che un numero consistente di regioni italiane ha un livello di inefficienza nei servizi pubblici fondamentali che non va più tollerato, e pertanto le regioni più virtuose (e più ricche) devono chiudere i cordoni della borsa per costringere le regioni inefficienti a migliorare. La tabella pubblicata da lavoce.info mostra come siano due i gruppi di regioni che beneficerebbero dall’eventuale approvazione della riforma: le regioni del Nord, e le regioni della cintura rossa dell’Italia centrale ad eccezione dell’Umbria. In altre parole, sia il cuore elettorale della Lega (Lombardia e Veneto), che il cuore elettorale del PD (Toscana, Emilia Romagna, Marche - col Piemonte che fa riferimento ad entrambe le forze politiche, ed al momento è governato dal centrosinistra), avrebbero vantaggi netti in termini di risorse che anziché essere trasferite al sud, potrebbero rimanere nelle regioni d’origine. Per citare poche cifre, il Veneto e l’Emilia Romagna avrebbero rispettivamente circa 400 e 300 milioni di euro in più nelle loro casse rispetto ad oggi, mentre la Calabria e la Campania una decurtazione rispettivamente di circa 500 e 900 milioni di euro. Non serve la dietrologia per capire come mai il PD e la Lega possano trovare convergenze, basta guardare i numeri. Una strategia così radicale potrebbe anche avere successo, spingendo la classe politica meridionale a comportamenti più virtuosi, a reagire alla contrazione di risorse con un grande sforzo collettivo che migliori l'efficienza dei servizi, distribuendo le scarse risorse in base al merito e ai risultati. Come possa bastare ridurre le risorse a disposizione per migliorare i comportamenti individuali rimane tuttavia qualcosa che andrebbe spiegato. Al contrario, una maggiore scarsità di risorse potrebbe esacerbare il ricorso a pratiche clientelari, in una lotta per la sopravvivenza dai costi sociali molto pesanti. Ricerche recenti e ancora in corso alla London School of Economics, mostrano come la devoluzione di potere a livello locale abbia conseguenze virtuose solo in regioni relativamente ricche, mentre finisce per aumentare il peso dei rapporti clientelari, peggiorando livelli già bassi di etica pubblica e gestione della spesa, in regioni povere e con scarsa capacità amministrativa.

Credo comunque che vi siano pochi dubbi sul fatto che una contrazione così radicale di risorse pubbliche avrebbe effetti molto severi nel breve periodo. Una politica seria non dovrebbe nascondere questo dato, ma forse giustificarlo come l’amara medicina da prendere per sperare di cambiare il corso dello sviluppo del meridione. Spiegare come lo Stato debba allontanarsi (ancora di più) dai suoi territori in maggiore sofferenza sociale, nella speranza che sappiano rialzarsi da soli.

Per fare questo tuttavia, sarebbe necessaria, sia a destra che (in maniera diversa) a sinistra, una idea nazionale ed anche europea nella quale inscrivere questo progetto federalista, che parla in maniera ossessiva un linguaggio tecnico ma che, mutando sostanzialmente i principi di solidarietà economica, finisce per mutare profondamente il contratto sociale della nostra tradizione risorgimentale e repubblicana. Quale sia il posto di questa nuova Italia e di queste regioni nell’Europa del XXI secolo rimane invece una domanda senza risposta, così simile all'assenza di docenti da università italiane alla conferenza di Edimburgo di questi giorni. Al contrario, concludendo il suo discorso davanti alla platea degli europeisti, il primo ministro scozzese che sogna una Scozia indipendente ha fatto tre cose. Ha magnificato le tradizioni della sua terra “patria dell’Illuminismo”, che tanto ha contribuito al progresso europeo; ha indicato le sfide principali che vuole affrontare nel contesto globale: fare della Scozia la principale esportatrice di energia pulita; ha poi chiuso con quella retorica che funziona sempre quando è preceduta da contenuti seri, citando “l’istinto naturale” degli scozzesi di essere e sentirsi europei, perché quella europea “è la strada davanti” da percorrere tutti assieme. Mai Edimburgo sembrò così lontana da Pontida.

* docente di economia politica alla London School of Economics

Pubblicato il: 06.09.08
Modificato il: 06.09.08 alle ore 8.42   
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Titolo: Visco: i poveri pagheranno più tasse dei ricchi
Inserito da: Admin - Settembre 08, 2008, 10:18:12 pm
Visco: i poveri pagheranno più tasse dei ricchi

Bianca Di Giovanni


Il gioco sull’Ici è di quelli ad alto rischio. In un carosello di assicurazioni (non tornerà mai) e ammiccamenti (magari qualcosa con il federalismo), torna sul tavolo la tassa appena eliminata (a spese dei Comuni). Ultima «trovata»: la service tax, un nome che piace anche a Tremonti, assicura il vulcanico ministro della semplificazione Roberto Calderoli. Un carosello fiscale che sembra un gioco, se non fosse che nasconde una trappola infernale e dolorosa. «La verità è che vogliono eliminare la progressività. Che significa? Detto in parole povere: che i ricchi pagheranno di meno dei poveri». È un attacco tranchant quello di Vincenzo Visco, viceministro al Tesoro nell’ultimo governo Prodi, finito più volte sotto il fuuoco di chi le tasse avrebbe voluto toglierle a tutti (meno che ai lavoratori dipendenti).

Il fisco torna al centro del dibattito, ma i toni con il centrodestra sembrano pacificati. Nuove tasse, ma nessuno si straccia le vesti. Come la vede?

«Solo il livello di analfabetismo a cui siamo arrivati può giustificare questo dibattito senza senso».

Perché senza senso?

«È ovvio che a livello locale le tasse servono per pagare i servizi. A che altro se no? Il problema è un altro. Gli esempi di imposte locali che esistino sono sostanzialmente di due tipi: sul valore del patrimonio e la quantità dei servizi. Tecnicamente si possono creare tante soluzioni diverse. La Thatcher si inventò la poll tax, sul numero di persone, e le si scaraventò contro un putiferio. La differenza tra le varie opzioni è semplice: quanto più si va verso forme di poll tax, cioè legate ai servizi, tanto più la tassa è regressiva. Cioè la pagano i poveri. Chiuso: è inutile fare tanti giri di parole».

Perché quella sul patrimonio è progressiva?

«Certo che è progressiva: per questo la vogliono abolire».

Quindi con il passaggio da Ici a «service» pagheranno meno i ricchi e più i poveri?

«A parità di gettito sì, è molto probabile. Questo è il motivo per cui in alcuni sistemi, come quello americano per esempio, c’è l’imposta sul patrimonio. È un modo per far pagare i ricchi».

Invece con la nuova tassa sui servizi?

«Bisogna vedere com la si costruisce: ci saranno vari riferimenti (metri quadrati, numero delle persone, quartieri). Viene fuori una tassa nuova, più complicatan e con ogni probabilità più spostata a favore di chi guadagna di più».

Lei è stato preso di mira per la riforma Irpef. Oggi Tremonti l’ha confermata e nessuno ha chiesto più nulla. Come si sente?

«Non mi sento in nessun modo: penso semplicemente che sia a destra che a sinistra si è persa ogni cognizione degli effetti distributivi dei sistemi fiscali. Inconsciamente passa una linea per cui le tasse devono essere pagate dai ceti medio-bassi. Io ho cercato di far pagare chi non pagava: per questo ho pagato».

Nessuno scandalo per la pressione fiscale che aumenta?

«È successo già nell’altra legislatura, io l’ho sempre detto. Hanno aumentato le tasse su imprese e alcune accise. La pressione complessiva non è aumentata perché si è allargata l’evasione».

Passiamo ad Alitalia: anche lei voleva fare una bad company e una newco. Come Berlusconi?

«Il mio piano era diverso per un fatto fondamentale: che l’azionariato di newco e bad company rimaneva lo stesso. Il 49% restava allo stato. Era stata una proposta di Micheli che avevo appoggiato. Quando siamo andati al governo la società era sostanzialmente fallita. Per capire bene bisogna partire dal 2001. All’epoca la società avrebbe potuto entrare a testa alta nel gruppo franco-olandese. Ma Berlusconi fermò tutto. Seguirono 5 anni di gestione irresponsabile. Si ricorda o no che addirittura Maroni ammise alle trattative un sindacato corporativo dei piloti che non aveva diritto. Quando siamo arrivati c’era poco da fare. La proposta che io e Padoa-Schioppa appoggiammo era quella della bad company e della newco con unico azionista il Tesoro. La newco era destinata ad aumentare valore: in questo modo si recuperava denaro per compensare il costo della bad company. Si sarebbe salvato tutto».

Perché non si realizzò?

«Perché bisognava riconoscere che la compagnia era sostanzialmente fallita: un passaggio molto difficile. Così si scelse la cessione in borsa e poi la gara».

Cosa pensa della soluzione di oggi?

«Io stimo sia Colaninno che Sabelli: sono due bravi manager. Ma il fatto è che la proposta Air France era migliore su tutti i fronti. I francesi avrebbero preso i debiti e avrebbero pagato di più e avrebbero lasciato molti meno esuberi. Era una proposta eccellente per le condizioni date. Per i privati è sicuramente un buon investimento, perché il valore patrimoniale crescerà di certo e per di più acquisteranno i cespiti della bad company a prezzi da liquidazione. Per i contribuenti il prezzo sarà alto».

Pubblicato il: 08.09.08
Modificato il: 08.09.08 alle ore 8.53   
© l'Unità.


Titolo: D'Alema, duello con Tremonti «Arroganti». «Non sei uno statista»
Inserito da: Admin - Settembre 10, 2008, 04:37:11 pm
L'ex titolare della Farnesina elogia il governo Prodi. il ministro: così perderete sempre

D'Alema, duello con Tremonti «Arroganti». «Non sei uno statista»

A Ballarò scontro su Alitalia, scuola e abolizione dell'Ici

 
 
ROMA — Un braccio di ferro fra «tosti», forse i più coriacei sullo schermo in entrambi gli schieramenti. E forse proprio per questo scelti per il primo scontro in tv dopo le vacanze. Giulio Tremonti e Massimo D'Alema si presentano eleganti a Ballarò, in giacca e cravatta, segno che le vacanze sono davvero finite. E subito affilano le armi. Comincia l'ex ministro degli Esteri. Riconosce che Silvio Berlusconi ha «una certa abilità », ad un certo punto ammette anche che è «un grande comunicatore ». Ma cerca di smontare tutto ciò che ha fatto finora il governo, nonostante il sondaggio di Pagnoncelli confermi che gode il favore della maggioranza degli italiani: «Se ha potuto fare certe cose nella manovra economica è perché Prodi ha lasciato i conti in ordine. E a Napoli, se si sono aperte le discariche, è perché Prodi aveva rimosso gli ostacoli che lo impedivano».

Insomma, se c'è una cosa che colpisce, dall'inizio alla fine del duello tv, è che D'Alema, per rispondere all'avversario, mette in mezzo spesso, quasi sempre, l'operato di Romano Prodi, ciò che ha lasciato in eredità a Berlusconi. A differenza di un Veltroni che, in campagna elettorale, aveva preferito non «aggrapparsi » a quei risultati, ma giocare tutta un'altra partita. Ma così è. La partita oggi è diversa. Lo sa bene anche Giulio Tremonti e accetta anch'egli di confrontarsi su Prodi: «Magari avessimo ereditato una situazione positiva. Avrei voluto che ci fosse stato il tesoretto». D'alema lo incalza sulla scuola: «Con il maestro unico, si è ridotta drasticamente l'offerta formativa». «Macché - risponde Tremonti -. Tornare dai giudizi al voto è stato un passaggio molto importante. Mica erano scemi quelli prima del '68». «Bossi ha fiuto: critica il maestro unico», lo interrompe D'Alema. «E infatti vi ha lasciato», ribatte il ministro dell'Economia. «Veramente ha abbandonato prima voi, nel primo governo Berlusconi, facendolo cadere», controribatte D'Alema. Si parla di indulto. Confessa l'ex ministro degli Esteri: «La nostra crisi di popolarità è cominciata quando lo concordammo insieme a Berlusconi. Abbiamo pagato solo noi, lui no».

E ancora su Napoli. Attacca Massimo: «Il governo ha utilizzato le forze armate a scopo di propaganda». Risponde Giulio: «Se andate avanti così, capite perché perdete le elezioni». Infine, la battaglia sull'Ici. Là dove rispunta di nuovo l'ombra di Prodi. Esulta Tremonti: «L'abbiamo finalmente abolita». Contrattacca D'Alema: «L'ex premier l'aveva già abolita in parte. Ma voi l'avete tolta anche per i ricchi. E quelli che non hanno una casa di proprietà?». Scoppia una baruffa sui ricchi e i poveri. Chi ha tassato di più gli operai, il centrodestra o il centrosinistra? Tremonti lanciando un affondo sostenendo che lo ha fatto di più Prodi aumentando le spese del riscaldamento... D'Alema cerca di difendersi, poi passa al contrattacco sul-l'Alitalia: «Noi siamo stati corretti, voi arroganti». «Ciò che dici non è da statista». Si passa ai saluti: «Fatelo amabilmente», invita Giovanni Floris. «Sarà difficile », commenta D'Alema. E stringe la mano a Tremonti guardando dall'altra parte.

Roberto Zuccolini
10 settembre 2008

da corriere.it


Titolo: Gianfranco Fini cerca di mettere la parola fine ...
Inserito da: Admin - Settembre 10, 2008, 10:27:08 pm
Fini ad An: «Basta usare la storia come arma impropria della politica»

Napolitano: «L'identificazione nella Costituzione in Italia è ancora una questione aperta. Nessuna polemica a Porta San Paolo»

 
ROMA (10 settembre) - «Basta usare la storia come arma impropria della politica». Gianfranco Fini cerca di mettere la parola fine alle polemiche scoppiate sulle dichiarazioni del sindaco di Roma Gianni Alemanno e del ministro della Difesa Ignazio La Russa sul fascismo. Parole anche per Maurizio Gasparri , capogruppo del Pdl al Senato nell'incontro avuto oggi. Tutti e tre, a suo giudizio, rei di non aver compreso fino in fondo di poter occupare oggi ruoli di tale rilievo istituzionale soprattutto degli sforzi di Fini per trasformare l'Msi prima in An e poi in una forza di destra moderna, moderata ed europea, fino all'ormai imminente approdo nel Pdl e quindi nella grande famiglia del Ppe.

l giudizio di Fini sulle esternazioni dei suoi "colonnelli" è stato severo. Ha ricordato loro le parole usate a Verona nel '98, alla Conferenza programmatica di An («Basta usare la storia come arma impropria») e declinate negli anni successivi sforzandosi di chiudere i conti con il passato con pesanti revisioni storiche: dall'insistita presa di distanza dagli errori del fascismo, al mea culpa sulle leggi razziali «vergogna incommensurabile», alla catalogazione di Benito Mussolini «non più grande statista», fino ad inserire nell'alveo di ciò che fu «male assoluto» parte dell'operato fascista, nella storica visita in Israele e prima della riconciliazione a lungo cercata con gli ebrei.

Al Capo dello comunità ebraica di Roma Riccardo Pacifici che ha chiesto chiarimenti dopo le esternazioni di Alemanno e La Russa Fini ha grantito che prenderà come si conviene le distanze dalle improvvide affermazioni dei suoi colonnelli nella sua prima uscita pubblica dopo la pausa estiva, sabato alla Festa di Azione Giovani Atreju.

Napolitano. «Credo che in Italia sia ancora una questione aperta la piena identificazione che ci dovrebbe essere da parte di tutti nei principi e nei valori della Costituzione repubblicana che sono rispecchiati nella Costituzione europea richiamata nel Trattato di Lisbona». Lo ha detto il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, rispondendo a una domanda dei giornalisti sulla caduta di tensione che c'è in vari paesi europei rispetto ai motivi originari che furono alla base della costruzione europea quale strumento per mettere fine agli orrori creati dalla guerra e dal nazi-fascismo.

Nessuna polemica. Il presidente della Repubblica invitato a commentare le polemiche che sono seguite al suo discorso dell'8 settembre a Porta San Paolo, ha rifiutato ogni commento ed ha sottolineato: «Ho solo espresso il mio punto di vista. Non ho fatto polemiche con alcuno, né ho tirato per la giacca nessuno, né ho risposto ad alcuno. Ho svolto il mio intervento per ultimo, come era previsto».

Ignazio La Russa,  dopo l'esecutivo di An alla Camera, non commenta le parole del presidente della Repubblica sulla Costituzione che non ha ancora avuto modo di conoscere. Ma, rispondendo ai giornalisti, sottolinea: «Quello che posso dire è che ho grande stima per il capo dello Stato».

Alemanno: sono fedele alla Costituzione. «Come sindaco e prima ancora come ministro, ho giurato sulla Costituzione. E come uomo di destra ho intenzione di rimanere fedele al mio giuramento». Alemanno ha cercato di chiudere così le polemiche di questi giorni su leggi razziali e fascismo. Alemanno però polemizza con i giornali. «I giornali non sono - ha detto - i veicoli migliori per fare riflessioni su cose che hanno portata storica. In futuro cercherò di trovare strumenti più adeguati per far capire le mie idee che non vogliono certo essere un ritorno al passato».

da ilmessaggero.it


Titolo: GIAN ENRICO RUSCONI. Populismo e il passato che ritorna
Inserito da: Admin - Settembre 13, 2008, 11:54:22 am
13/9/2008
 
Populismo e il passato che ritorna
 
 
 
 
 
GIAN ENRICO RUSCONI
 
Il Paese ha perso l’orientamento. Nessuno lo rappresenta più davvero. Testarde fazioni politiche contrapposte tengono in ostaggio la politica.

Il ceto degli intellettuali si è dissolto in singoli individui o in piccoli gruppi. Non solo ha perso valore la qualifica di destra o sinistra, non ci sono più conservatori e progressisti, ma si è smarrito il senso di ciò che tiene insieme questo Paese. Nessuno sa più dirne le ragioni, in modo convincente per tutti, pur facendo attenzione alle legittime differenze.

La storia nazionale è impunemente sequestrata da dilettanti e mistificatori. Ormai si può dire tutto su tutto - dall’8 settembre al terrorismo delle Brigate Rosse. Ciò che importa è il rumore mediatico che copre ogni altra voce e può contare sulla spossatezza degli studiosi seri. La serietà è diventata noiosissima in questo Paese: è intollerabile e incompatibile con il talk show permanente.

C’è in giro una pesante aria decisionista. A parole almeno. Comincia dai vertici dei ministri, indaffarati a fare proclami, cui non sappiamo che cosa davvero seguirà. Colpisce l’irresponsabilità e il dilettantismo di ministri che parlano (pensando in realtà soltanto ai media) come se tutto dipendesse dalle loro parole.

Come se la scuola - per fare un esempio - non fosse una grande complessa istituzione tenuta in piedi da migliaia di professionisti che hanno una loro competenza ed esperienza, di cui tener conto. No. Sono trattati come zelanti esecutori di decisioni calate dall’alto.

Ma da dove è spuntata fuori questa classe ministeriale? Da quale cultura? Dalla destra storica liberale? Dal fascismo riciclato democraticamente? No, per carità - si obietta subito -, non incominciamo con le genealogie ideologiche. Ciò che conta è «fare ordine» contro il «disordine della sinistra» - come dice il Cavaliere.

Mettere ordine, ripulire, punire, comandare. Se è il caso, mettere in galera clandestini, teppisti di stadio, prostitute di strada. Come se fossero la stessa cosa.

Naturalmente una società ordinata e sicura è un valore collettivo. E non finiremo mai di rimproverare la sinistra per essersi fatta scippare per malinteso «buonismo» questo valore. Per questo motivo non solo ha perso le ultime elezioni, ma adesso ha perso anche la testa. Infatti non sa più come reagire. A ogni iniziativa «d’ordine» ministeriale o governativa, balbetta e si divide.

Ma quali sono i valori della nuova destra populista che pretende di essere innanzitutto pragmatica, anti-ideologica? A prima vista sono i valori tradizionali di «Dio, patria e famiglia». Naturalmente al posto di Dio oggi si preferisce parlare di «radici cristiane»; l’idea di patria richiede qualche aggiustamento critico; soltanto la famiglia sembra mantenere le vecchie connotazioni. Ma è una pura finzione, se guardiamo ai comportamenti reali e non alle dichiarazioni fatte «per compiacere la Chiesa» (parole di Berlusconi).

In realtà la vera chiave della cultura politica di oggi è nel termine di «populismo» che va inteso non in modo generico, ma appropriato. Il populismo democratico ha quattro ingredienti: un popolo-elettore che tende a esprimersi in uno stile tendenzialmente plebiscitario con un rapporto di finta immediatezza con il leader; la dominanza di una leadership personale, gratificata di qualità «carismatiche»; un sistema partitico semplificato con un ricambio di élite politiche che è di supporto immediato al leader; il ruolo decisivo e insostituibile dei media allineati. Sottoprodotti di questa situazione sono la iperpersonalizzazione della politica e la sua spettacolarizzazione.

Gli elettori scelgono o si orientano al leader con aspettative di tipo decisionistico, per l’insofferenza verso le eccessive mediazioni parlamentari e le corrispondenti differenziazioni partitiche.

Da qui l’attivismo cui assistiamo quotidianamente. E le misure populistiche fatte appunto per soddisfare un immediato desiderio di ordine: contro la violenza di stadio come contro la prostituzione, indifferentemente.

Questo trattamento cui è sottoposto il Paese ha un costo alto: l’assenza di una vera soluzione dei problemi più gravi e strutturali (dalla giustizia alla scuola) che non possono essere risolti in stile populistico-decisionistico. È necessaria infatti una strategia capace di grande vero consenso, che è compatibile con le regole democratiche della maggioranza/minoranza. Altrimenti il paese si spezza nel profondo. Perde l’orientamento. È quanto sta accadendo.

Esattamente quindici anni fa molti di noi si sono chiesti se non cessassimo di essere una nazione. Allora c’erano le prime aggressive provocazioni antinazionali della Lega, i forti timori per una globalizzazione appena scoperta e la nuova inattesa visibilità degli immigrati. Al confronto di oggi quei problemi erano relativamente controllabili. Quello che non era prevedibile invece era l’implosione interna della nazione cui assistiamo oggi. Sì, forse, stiamo cessando di essere una nazione.

da lastampa.it


Titolo: Ascanio Celestini. Nazismo alla moda
Inserito da: Admin - Settembre 15, 2008, 12:45:15 am
Nazismo alla moda

Ascanio Celestini


«Se avesse trionfato il nazismo vestiremmo tutti quanti molto più elegantemente». Lo trovo scritto in un forum girando in rete.

La discussione inizia con la domanda: «come sarebbe stata l’Europa se avesse vinto il Hitler?». Ma siamo sicuri che il nazismo abbia perso la guerra?

In questa discussione dove gli interlocutori hanno nomi da libro di fantascienza, personaggi di mitologie tra il satanico e il ciberpunk, un po’ superuomo un po’ supermarket, vampiri postmoderni col cuore di panna... insomma, in questa chiacchierata non trovo l’odio tipico dei blog.

Qualche tempo fa su argomenti del genere ci si insultava senza alcuna diplomazia. Olio di ricino e bastonate nei denti virtuali scorrevano di riga in riga. Normalmente c’era nembo84 che avrebbe voluto appendere barsoom78 per i testicoli, barsoom78 rispondeva che non avrebbe mostrato le sue parti intime a nembo84 che a suo giudizio era piacevolmente interessato ai rapporti omosessuali, meinkampf89 citava Hitler in tedesco e ricordava a entrambi i loro rispettivi defunti. Tutto ciò accompagnato da “ebrei al rogo” e “boia chi molla”.

Adesso questi misteriosi scrittori della rete sono diventati politicamente corretti e parlano di abbigliamento. Tra le celle di questo forum ci si risponde con educazione, si avverte l’influenza del dibattito nella nuova destra. Forse i misteriosi barsoom78, nembo84 e meinkampf89 sono il ministro La Russa, il sindaco Alemanno e il presidente Fini. Li abbiamo sentiti scornarsi con garbo anche in questi ultimi giorni. Il primo ha dichiarato di fare un torto alla propria coscienza se non avesse ricordato che i fascisti dal loro punto di vista, combatterono credendo nella difesa della patria. Il secondo ha sostenuto che definire il fascismo “male assoluto” è un’affermazione ingenerosa nei confronti di tanti che aderirono a quell’esperienza in buona fede. E il terzo, dall’alto della sua abbronzatura frutto di bagnetti illegali all’isola del Giglio, ha bacchettato i suoi scolari dicendo che la nuova destra è antifascista.

Chissà che non siano proprio sotto falso nome a parlare di nazismo come di una linea di abbigliamento. Nel forum trovo qualcuno che scherza sulla stella gialla da cucire sul vestito, qualcun altro che lo rimprovera garbatamente per la sua ironia macabra, ma la discussione continua a ruotare attorno all’eleganza dell’abito. «Le uniformi naziste sono bellissime. Più belle anche di quelle dell’armata rossa», scrive un anonimo interlocutore al quale risponde un altro navigante della rete mettendo la fotografia di un Ss in posa da divo.

Per questo non mi stupisce che l’ex capitano delle Ss Erik Priebke intervenga in un concorso di bellezza. Un criminale nazista scappato in Argentina, arrestato poco più di una decina di anni fa e condannato per le sue responsabilità nell’eccidio alle Fosse Ardeatine, che viene invitato a presiedere una giuria di guardoni misuratori di tette e culi. Sbavatori di professione, esperti di chiappe a mandolino e turgidezza del capezzolo.

Credevo che fosse uno scherzo, “che sia una maniera di fargli scoppiare una vena?” ho pensato. E invece è tutto vero. Dalle agenzie apprendiamo che l’elegante vecchio non potrà raggiungere un paesino della Ciociaria dove si tiene una sfilata di carne umana in mutande e reggipetto. L’impedimento nasce da una fastidiosa condanna agli arresti domiciliari che lo tiene momentaneamente vincolato alla sua casa nel centro di Roma. Pare che abbia accettato di partecipare in videoconferenza. Un po’ come quella pubblicità dove un noto gestore telefonico approfitta di Gandhi per reclamizzare i suoi prodotti e il Mahatma parla davanti a una webcam nella sua casa, appare su megaschermi in America e sulla piazza rossa, sul computer portatile dei guerrieri con la lancia e sul telefonino di una coppietta al Colosseo. La pubblicità che si chiude con lo slogan “se avesse potuto comunicare così, oggi che mondo sarebbe?”

Penso che se ai tempi di Gandhi ci fosse stata questa tecnologia probabilmente lui non avrebbe potuto usarla. Forse avrebbe potuto usufruirne Hitler.
Lo avrebbe fatto sicuramente se avesse vinto la guerra, per tornare un attimo al discorso apparso nel forum virtuale. E a distanza di tanti anni il progresso ha premiato il nazismo permettendo al vecchio capitano di dare il suo giudizio sul corpo di giovani donne speranzose di approdare sulla passerella del Gabibbo o in qualche sculettante trasmissione dispensatrice di premi e barzellette. Una giusta ricompensa per il vegliardo che alla fine del marzo ’44 ebbe l’onore di vedere 335 corpi ammucchiati uno sull’altro in una cava lungo la via Ardeatina, corpi che sfilarono davanti a lui con le mani elegantemente legate dietro alla schiena, tenute strette da uno sfizioso filo di ferro.

Le iscrizioni a quell’atipico concorso vennero fatte in fretta. Kappler grazie all’aiuto di un manipolo di volenterosi scrisse la lista in poche ore nella notte tra il 23 e il 24. I partecipanti non dovettero nemmeno pagare una quota, né spendere soldi per il treno. Li andarono a prendere a casa con mezzi speciali come i vip. Condotti nella meravigliosa cornice della campagna romana sfilarono a gruppi di cinque. Giunti davanti alla giuria gli si chiedeva garbatamente di reclinare il capo in avanti per ricevere il colpo all’altezza della nuca. Chissà quante giovani miss conoscendo l’eccellente presidente che le giudicherà aspireranno a coronare la loro carriera con una pallottola che attraversa il cervelletto.

Purtroppo alle fosse Ardeatine Priebke ebbe la sfortuna di assistere a una sfilata di soli uomini. Maschi poco sensuali che non scoprivano nemmeno il ginocchio. Mentre altri suoi compagni di ventura avevano avuto il privilegio di veder sfilare delle magrissime miss sulla neve di Auschwitz. Sfilare nude senza straccetti che nascondevano interessanti particolari. Chissà se anche in quei luoghi ci si divertiva goliardicamente a assegnare premi? Chissà se si chiacchierava su questioni come le dimensioni perfette di seno, fianchi e sedere? Chissà se venivano invitati in giuria gli eminenti psicologi a disquisire di questioni come l’anoressia?

«Se avesse trionfato il nazismo vestiremmo tutti quanti molto piu’ elegantemente» scrive un anonimo sul forum. In attesa del lieto evento godiamoci questa bella giovinezza sculettante, quella ciociara per pochi fortunati e quella in diretta televisiva alla televisione nazionale. Carne per rallegrare gli animi alle nostre truppe, ventri per generare figli che daranno il sangue alla patria.

Pubblicato il: 14.09.08
Modificato il: 14.09.08 alle ore 8.15   
© l'Unità.


Titolo: MIGUEL GOTOR Giovani di An non è più tempo di elfi
Inserito da: Admin - Settembre 22, 2008, 10:13:47 am
22/9/2008
 
Giovani di An non è più tempo di elfi
 
 
MIGUEL GOTOR
 

Le recenti parole di Gianfranco Fini, opportunamente rivolte a una platea di giovani militanti di An, devono essere salutate con giubilo e rispetto dai democratici di questo paese: anche la destra deve riconoscersi «in pieno in alcuni valori della nostra Costituzione: libertà, uguaglianza, giustizia sociale. Valori che sono a tutto tondo antifascisti» e «non può esistere una democrazia che neghi l’antifascismo». Il presidente della Camera ha poi contestato le precedenti sortite di Alemanno e La Russa. Al sindaco di Roma, che ha distinto tra fascismo «complesso» e leggi razziali cattive, ha mandato a dire: «Le leggi razziali sono state un’infame abominia, ma il fascismo tutto è negativo, è stato una dittatura che ha negato alcune libertà fondamentali». E rivolto al ministro della Difesa, che nell’ambito di una cerimonia ufficiale in ricordo dell’8 settembre 1943 ha invocato rispetto per i caduti di Salò, ha dichiarato: «Fatta salva la buona fede, i resistenti stavano dalla parte giusta, i repubblichini dalla parte sbagliata». Si tratta di poche sentite parole, quelle giuste, che sembrano rispondere da destra - questa è la novità - a vent’anni di vulgata revisionista anti-resistenziale, di fascismo edulcorato, di strabismo indulgente, di terzismo cerchiobbotista, di anti-antifascismo. Era ora.

La Russa e Alemanno si sono prontamente riallineati alle parole del loro leader con una pirotecnica capovolta. Tuttavia, sorprende che il malumore più acuto sia serpeggiato presso alcuni giovani dirigenti di An, oggi chiamati a posti di responsabilità a livello nazionale, come il ministro della Gioventù Giorgia Meloni (classe 1977), o regionale, come la vicepresidente della Lombardia Viviana Beccalossi (classe 1971). La prima ha scritto una lettera ai giovani dell’organizzazione di An che dirige, dove, per quietare gli animi senza scollarsi troppo da Fini, ha giocato la carta di un giovanilismo supponente e rancoroso: basta con questa diatriba tra fascismo e antifascismo, tutto il resto è noia. La seconda, non ingessata dal ruolo ministeriale, è stata più netta e ha dichiarato che non sarà mai antifascista. Il tutto avviene sullo sfondo di una paradossale nostalgia del Ventennio che serpeggia tra i giovani di An, alimentata da gadget e magliette del tipo «Le radici profonde non gelano», «Cuore nero-nessuna resa», che, pur nella loro ambiguità citazionista, sono sufficientemente eloquenti per chi abbia voglia di intendere.

Pur comprendendo le ragioni tattiche di questo ritorno identitario alla vigilia dell’annessione di An in Forza Italia, sarebbe auspicabile da parte della Meloni e della Beccalossi una prova di maggiore coraggio e lungimiranza politica proprio in forza dell’età che hanno. Se il boccone amaro l’hanno ingoiato La Russa e Alemanno, loro sì reduci da una guerra feroce tra «cuori neri» e «cuori rossi» che oggi stiamo capendo quanto fosse strumentale e indotta da ambo le parti, alle due giovani dirigenti - che in quegli stessi anni assaporavano il gusto dei Plasmon - verrebbe voglia di chiedere una minore pigrizia e un impegno maggiori. E dunque che provino a liberarsi dai residui e dai complessi di un vittimismo aggressivo che allora serviva a giustificare la sprangata vendicatrice, oppure da quelle narrazioni e mitologie popolate da elfi, anelli e superomismi nietzscheani, che sono state una cosa tragicamente seria, ma oggi sembrano caricature in miniatura e non servono alla democrazia italiana. Il ricordo dovuto ai propri morti di ieri? Ma certo, esso è sacro, senza però dimenticare che, accanto a un Paolo Di Nella barbaramente ucciso, ci sarà sempre un Valerio Verbano a pareggiare i conti di quell’insensato gioco al massacro, avvenuto all’ombra delle stragi neofasciste e del terrorismo rosso. E allora, perché non provare a impiegare il senso dell’onore, della tradizione e della comunità per omaggiare la Costituzione antifascista? Perché non svolgere la vostra funzione dirigente per allargare la rappresentatività della Carta, affinché abbia un riconoscimento sempre più profondo, autentico e inclusivo?

Forse la nostra generazione non ha ancora perso, come cantava Gaber riferendosi alla sua, e l’impegno per un’Italia migliore resta davanti a noi. E quindi si vorrebbe consigliare loro di seguire il proprio capo, il nostro presidente della Camera, non per opportunismo, ma per etica del convincimento: ha fatto la scelta giusta.
 
da lastampa.it


Titolo: Bruno Gravagnuolo. Storchi: «1945, il vero sangue fu quello dei vincitori»
Inserito da: Admin - Settembre 29, 2008, 11:56:30 pm
Storchi: «1945, il vero sangue fu quello dei vincitori»


Bruno Gravagnuolo


Ci sono due leggende che la destra italiana ha messo in giro nel dopoguerra, rinsaldate dalla querelle aperta dal Sangue dei Vinti di Giampaolo Pansa.
La prima è che la Resistenza sia stata una mattanza indiscriminata contro fascisti e borghesi, finalizzata a un progetto rivoluzionario comunista.
La seconda è che gli aspetti scomodi e fratricidi del biennio 1943-45 siano stati nascosti dalla sinistra, all’insegna della retorica sulla Liberazione.

In realtà di tutto questo si è parlato fin dagli esordi del nuovo Stato. E battente è sempre stata la polemica mediatica di destra, nel denunciare gli «orrori» della «Resistenza rossa». Negli ultimi decenni poi una nuova storiografia di sinistra è tornata in modo serio sul problema: da Claudio Pavone, a Guido Crainz, a Mirko Dondi, a Dianella Gagliani, e a Massimo Storchi. Tutti studiosi venuti molto prima di Pansa sul tema, ma da lui citati solo di passata. Uno dei quali, Massimo Storchi, ha scritto l’ennesimo volume a riguardo: Il Sangue dei vincitori. Saggio sui crimini fascisti e i processi del dopoguerra (Aliberti, pp. 286, Euro 16, pr. di Mimmo Franzinelli). È un contributo decisivo, perché contestualizza le vendette partigiane. Focalizzando l’obiettivo sul «triangolo rosso» e in particolare su Reggio Emilia. Dove i fascisti, in funzione ausiliaria dei nazisti, spadroneggiarono, torturarono, massacrarono. E suscitarono una piena d’odio destinata a sboccare in resa dei conti col favore popolare. Non solo. Vi si racconta chi erano i carnefici saloini e poi gli episodi che a Reggio condussero una frazione minoritaria di comunisti all’omicidio di avversari. E si racconta della «giustizia negata» a entrambe le parti con l’amnistia di Togliatti, e delle sentenze che mandavano assolti i fascisti. Di tutto questo abbiamo parlato con Storchi, 53 anni, reggiano, già presidente dell’Istituto locale della Resistenza e responsabile del polo archivistico di Reggio Emilia. Uno che di documenti se ne intende. Sentiamo.

«Memoria, dolore, vendetta», recita il primo capitolo del suo libro sul 1943-45 a Reggio. Passioni che coincidono con un arco temporale più ampio. Cosa c’è alle spalle delle vendette partigiane?
«Nel cosiddetto triangolo rosso - Bologna, Modena, Reggio Emilia - vengono al pettine dopo la Liberazione i venti mesi dell’occupazione nazifascista. Assieme a quel che era successo venti anni prima. È la zona dove era stato più attivo lo squadrismo, la zona dei ras e degli agrari. Funestata da repressioni e violenze che alimentarono una forte emigrazione politica. Per non parlare del carcere e del tribunale speciale negli anni Trenta. Rese dei conti e vendette nascono da una memoria lunga e più breve. Basta scorrere una ad una le biografie delle vittime e gli antecedenti dei singoli episodi, come ho tentato di fare nei miei lavori».

Dai rapporti di polizia emerge l’intrico personale, familiare e di vicinato che, a partire dalla ferocia subìta, finisce per coinvolgere anche degli innocenti nelle vendette...
«Sì, ma occorre ricollocare il tutto nella società di allora, lontana anni luce dalla nostra. È un tessuto sociale sconvolto dalla guerra ai civili, lacerato dalla disoccupazione e dall’illegalismo. Parliamo di una civiltà contadina. E sono le comunità contadine che si vendicano e regolano i conti nelle campagne. All’indomani della Liberazione c’è la reazione alla pressione capillare esercitata dal fascismo prima, e dal nazifascismo poi. Che aveva sconvolto tutti i legami comunitari: spiate, tradimenti, rappresaglie, torture, sospetti. Seguiti dalle vendette sommarie. Dopo il 1945 la comunità ferita esplode, con scene di violenza e tripudio popolare oggi per noi incomprensibili. Ma la fiammata della violenza brucia se stessa e finisce lì. Con un picco di 315 morti nell’aprile maggio 1945 - a partire dal 22 aprile - e due morti nel settembre 1946. Su un totale di 456, a fine 1946».

Vendetta che finisce lì, non legata a un «progetto rivoluzionario»?
«Non c’era alcun progetto di tal tipo. Certo, c’era anche chi pensava che uccidere un padrone fosse legittimo, perché così si sarebbe fatto “come in Russia”. Ma erano casi psicologici individuali. Il movente diffuso era un altro. Si uccideva un padrone perché era stato uno squadrista oppure un brigatista nero, o un collaborazionista, o magari lo si pensava. In primo piano non c’era l’odio di classe, ma il passato più prossimo o più remoto»..

Sbaglia allora Pavone quando parla di guerra di classe nella Resistenza, accanto a quella civile e di liberazione?
«Pavone include la “guerra di classe” tra le motivazioni di scelta per la Resistenza. E in tal senso esisteva anche quel tipo di guerra. Tra i contadini della bassa padana che scelgono, oltre all’idea di cacciare i tedeschi, c’era il sogno di diventare padroni della terra. Il che non necessariamente coincide con l’odio di classe, o con un progetto di eliminazioni di classe. Però occorre distinguere. Un conto sono le uccisioni vendicative del 1945. Altro quelle del 1946, che colpiscono il liberale Ferioli, il sindaco Farri, l’ingegner Vischi e il prete Don Pessina».

Che cosa sono e da dove nascono questi omicidi?
«In questi casi si tratta di pezzi minoritari di partigianato che vanno per la loro strada. Strada opposta a quella scelta dal Pci. Con la copertura e l’omertà di figure interne agli apparati provinciali comunisti. Non a caso Togliatti viene proprio a Reggio nel settembre 1946, e fa il famoso discorso su “Ceti medi ed Emilia rossa”. Ma già il giorno prima, in una riunione con i sindaci locali e il segretario Nizzoli, alza la voce. E il succo del suo intervento è: stiamo facendo una politica del consenso e voi permettete l’uccisione di queste persone, un prete, un ufficiale, un sindaco socialdemocratico? O siete complici, oppure degli incapaci”. Dopodiché a Reggio non succede più nulla e sei mesi dopo vi sarà il cambio di segretario. Con Magnani al posto di Nizzoli».

Torniamo al terrore fascista. Potere battesimale della morte, vendetta preventiva prima della disfatta, sindrome autodistruttiva, o che altro?
«C’era tutto questo in quel terrore. E più volte sono gli stessi tedeschi a frenare i saloini. I nazisti avevano la loro prospettiva strategica “razionale”: rallentare e coprire col terrore la ritirata. I fascisti agivano in chiave solo distruttiva. Con tecniche inaudite, peggio della banda Carità. E poi i tedeschi reagivano alle loro perdite, e non a quelle dei fascisti. I fascisti colpivano per lo più vendicando i tedeschi, oltre che se stessi. Da veri collaborazionisti. Vissuti con odio dalla gente.

Ma chi erano i fascisti in quel frangente? Che tratto sociale e generazionale avevano?
«C’era la vecchia componente squadrista, e i giovani di Salò. Con una differenza. Un conto era l’esercito repubblicano. Altro i membri delle Brigate nere. Poi, persone di seconda fila, che erano state in panchina, e colsero un’occasione di promozione sociale, molti non proprio fascisti a tutto tondo in precedenza. Infine gli sbandati, che vengono dal sud. Il capo dei torturatori di Villa Cucchi a Reggio era un maggiore di Perugia: Attilio Tesei. Morì nel 1993 nel suo letto, senza aver fatto un giorno di galera».

C’era una quota di consenso per i fascisti?
«No. A Reggio gli iscritti nel biennio, pur in quel clima repressivo, non arrivano a 3500 unità».

Non c’era una società civile spaccata in due. Perchè dunque parlare di «guerra civile» e non prevalentemente di «guerra ai civili»?
«Tecnicamente ci sono italiani contro altri italiani, ecco perché. Certo, dietro i 10mila resistenti a Reggio ce ne sono almeno altri 40mila in retrovia, con il consenso della stragrande maggioranza della società reggiana. Sì, forse il concetto di guerra civile è da ripensare, almeno per quel che riguarda l’Emilia nel 1943-45. Quella fu inannzitutto guerra ai civili nazifascista. E liberazione da tale guerra. Diverso è il discorso successivo al 1945, concernente le vendette di tipo sociale. E però va ribadito: la vendetta si estingue subito e consuma se stessa. Senza veri prolungamenti politici».

Altro punto di rilievo è l’amnistia di Togliatti del 1946. Anche questa, con le sentenze che mandano assolti i fascisti, alimenta lo spirito di vendetta?
«In realtà no. Perché l’amnistia del giugno 1946 coincide con la fine delle vendette. Basta guardare l’andamento dei numeri e le date. Le uccisioni cessano via via che l’amnistia, con le sue “ingiustizie”, va a regime. È la controprova che non c’è progetto politico, né spirito di vendetta “strategico”. Contadini e cooperatori tornano a fare il loro mestiere, e rinunciano alle armi. Anche le sentenze benevole della Cassazione, o delle Corti di Assise Ordinarie, dopo quelle Straordinarie, non alimentano dopo il 1945 alcuna fiammata di giustizia in proprio. Malgrado i loro limiti, le prime sentenze sgonfiano l’ira popolare. Normalizzano la situazione. La sanzione morale degli assassini, almeno simbolicamente, vi fu. E alla gente, che voleva tornare a vivere, questo bastò».

Veniamo infine al clero nella Bassa padana. Come si schierò nel biennio 1943-45 e subito dopo?
«La Chiesa di Reggio Emilia non si compromise in alcun modo con Salò. Anche per via dell’omicidio di Don Pasquino Borghi nel gennaio 1944, colpevole di aver aiutato i partigiani. Era un clero vicino alla Resistenza, non fuori o contro. E che pagò il suo prezzo. Quanto all’omicidio politico di Don Pessina, unico e forse non premeditato, va inquadrato nel clima di scontro tra egemonie tra le due Chiese, quella cattolica e quella comunista. Il Pc.d’I. aveva più iscritti che a Torino negli anni Trenta. Benché fossero iscritti contadini e non operai, come rilevò con stupore Teresa Noce all’epoca. Vi furono conflitti e unità, tra cattolici e comunisti. Questa è la terra di Dossetti e... di Prodi. Lo stesso Don Pessina organizzava le mondine. E non vi fu mai una mattanza di preti».



Pubblicato il: 29.09.08
Modificato il: 29.09.08 alle ore 8.26   
© l'Unità.


Titolo: Gasparri attacca l'Unità. Indignazioni a senso unico.(...e LE MINACCE DI BOSSI?)
Inserito da: Admin - Settembre 30, 2008, 12:18:54 pm
Indignazioni a senso unico: Gasparri attacca l'Unità


Una vignetta riferita al ministro Renato Brunetta, pubblicata su  "Emme", supplemento satirico de l'Unità, ha scatenato l'ira della destra, in particolare del ministro Gasparri che si lamenta perché vi si vede un uomo che punta una pistola contro il ministro Brunetta. Una presa di posizione che suscita "sorpresa" nella direzione de l'Unità perché viene dagli «stessi ambienti che hanno sempre giustificato e tollerato gli espliciti riferimenti all'uso delle armi fatti da un autorevole esponente della maggioranza di governo, Umberto Bossi, in contesti non satirici ma evidentemente politici».

«La vignetta di Biani, nelle intenzioni dell'autore e nell'interpretazione che abbiamo dato come redazione - spiega Sergio Staino, che di "Emme" è il direttore - esprimeva solo il disagio, l'indignazione e il vaneggiamento folle e non certo condivisibile, che può provocare una strabordante polemica contro supposti fannulloni, in un paese come il nostro in cui invece sta crescendo la disoccupazione.
In questo specifico caso, il disagio profondo di una guardia giurata per la quale,il vecchio "ferro", strumento del suo lavoro, sottolineava la sua attuale situazione di disoccupato».

Per Gasparri, invece, «non si può non rilevare la pericolosa ambiguità della vignetta contro il ministro Brunetta pubblicata oggi nell'inserto satirico allegato all'Unità. Non so se il direttore del quotidiano l'ha vista prima che fosse pubblicata. Sotto il titolo "Guerre giuste", c'è l'immagine di una persona che, puntando una pistola, fa intendere che a Brunetta si potrebbe anche sparare». «In un paese in cui violenza e terrorismo hanno una drammatica storia e forse radici non completamente recise, si scherzi su tutto, ma non con le armi e le pistole puntate. Sono certo che il direttore de l'Unità, accortosi dell'errore, vorrà scusarsi con il ministro Brunetta», conclude Gasparri.

Nella nota di risposta della direzione si fa notare «che "Emme" è un settimanale satirico ("periodico di filosofia da ridere e politica da piangere", si legge accanto alla testata) e che, dunque, l'evidenza del contesto non può ingenerare alcun sospetto di "ambiguità" sugli intenti della vignetta. Contesto, quello di "Emme", che, per la storia e la qualità degli autori e dei collaboratori, è lontanissimo da suggestioni violente, come d'altra parte è confermato dai riconoscimenti che negli anni gli sono stati tributati.
Qualche giorno fa, il prestigioso "Premio Forte dei Marmi"».


Pubblicato il: 29.09.08
Modificato il: 29.09.08 alle ore 20.02   
© l'Unità.


Titolo: Italia. Dove stiamo scivolando?
Inserito da: Admin - Ottobre 03, 2008, 06:01:43 pm
Il caso L'autista: pensavo dormisse, era lì immobile dal turno precedente

Per ore nessuno lo soccorre
Passeggero muore sul bus
Cardiopatico di 33 anni rimane accasciato sul sedile



ROMA — A lungo, troppo a lungo, accasciato immobile sul sedile di un autobus affollato, protagonista e vittima di una storia di indifferenza metropolitana, senza lieto fine: Giovanni M., giovane cardiopatico di 33 anni, è morto così, dopo una prolungata agonia sulla linea 105, percorso che dalla stazione Termini arriva fino a Grotte Celoni, estrema periferia sud della capitale.
 
La segnalazione è arrivata mercoledì da una passeggera di quell'affollatissimo autobus, che il giorno prima, intorno a mezzogiorno, era salita sul mezzo all'inizio di via Casilina, pochi metri da Porta Maggiore: «Un giovane, dall'aria per bene, era immobile, riverso sul sedile — ha raccontato — ma si capiva che non dormiva, gocciolava, non sembrava sudore, io ero sicura che fosse morto». Ma Giovanni, si capirà solo dopo, era invece ancora vivo. E magari una segnalazione tempestiva avrebbe potuto, chissà, salvargli la vita. La donna e un'altra passeggera raccontano di aver segnalato la cosa intorno alle 13 di martedì all'autista, il quale inizialmente avrebbe risposto così: «Sì sì... lo so, era già qui quando ho iniziato il turno, il collega mi ha avvertito che c'era un poveraccio che dormiva».

Poveraccio sì, ma non era sonno, era l'agonia di un malato che morirà alcune ore dopo nel vicino Policlinico Casilino. L'autobus, secondo il racconto della donna, si è finalmente fermato poco oltre la borgata di Torpignattara, di fronte a Villa De Santis, e lì tutti i passeggeri sono stati fatti scendere. Presi dalla fretta del quotidiano, non hanno nemmeno fatto in tempo a vedere l'arrivo di un'ambulanza, saliti subito sul bus successivo e convinti comunque che quel corpo immobile fosse già quello di un morto, accasciato su quel sedile fin dal turno precedente, su e giù per chissà quanto tempo per le strade di Roma senza che nessuno si accorgesse di nulla o intervenisse per dare un aiuto. «Un fatto del genere semplicemente non è accaduto, impossibile, una bufala», si affrettavano a spiegare dagli uffici di Atac Trambus mercoledì in serata, oltre 24 ore dopo il fatto.

Storia falsa dunque? «Questo non possiamo dirlo — la risposta — magari non è una storia falsa, solo che a noi non risulta. Nei fonogrammi quotidiani non c'è traccia di questo episodio. Oltretutto, se un caso del genere non porta disguidi al servizio, può essere che non venga segnalato». No, nessuna bufala: un rapporto di poche righe alla polizia di zona, delle ore 21 del giorno dopo l'accaduto, confermerà invece il decesso di Giovanni, ragazzo cardiopatico e già sottoposto in passato a un intervento chirurgico al cuore, ritrovato su un autobus dove si trovava da chissà quanto tempo.

Rinaldo Frignani
Edoardo Sassi
03 ottobre 2008

da corriere.it



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Razzismo, somala denudata a Ciampino
Scritte contro romeno carbonizzato


ROMA - Nuovi episodi di razzismo a Milano e a Fiumicino. Dopo il cinese picchiato da una gang di minorenni in un quartiere popolare della capitale, una donna somala di 51 anni, sposata con un italiano, ha denunciato di essere stata "tenuta nuda per quattro ore all'aeroporto di Ciampino" dal personale dello scalo che l'ha ingiuriata chiamandola negra.

A Sesto San Giovanni, nell'hinterland di Milano, sono comparse scritte ingiuriose contro il ragazzino romeno che ha perso la vita, alcuni giorni fa in un tragico incendio nell'ex area Falck. Le frasi ingiuriose sono state tracciate sui muri delle case di via Trento dove il giovane romeno è morto bruciato.

(3 ottobre 2008)

da repubblica.it


Titolo: VITTORIO E. PARISI Nè panico nè populismo
Inserito da: Admin - Ottobre 11, 2008, 03:50:28 pm
11/10/2008
 
Nè panico nè populismo
 
 
 
VITTORIO EMANUELE PARISI
 
In questi giorni si è molto, e giustamente, parlato del pericolo che la crisi finanziaria mondiale finisca con l’alimentare un’ondata di panico irrazionale, la sola che sarebbe davvero in grado di mettere in ginocchio l’economia globale. Il monito appare sacrosanto, ma val la pena segnalare come, nella Penisola, insieme con il panico ciò che rischia di venire risvegliato e alimentato è quella miscela di populismo e anticapitalismo che troppe volte ha impedito che l’Italia potesse diventare quel Paese normale, o semplicemente moderno, in cui vorremmo vivere. Non c’è dubbio che i mercati finanziari, soprattutto quei segmenti che trattano i prodotti più innovativi e sperimentali, altamente redditizi e parimenti volatili, necessitino di una regolamentazione maggiore e più efficace. Il «mercato», d’altro canto, è un’istituzione, al pari dello Stato, e solo una visione ideologizzata dello Stato e del mercato hanno potuto lasciare intendere che l’uno potesse crescere e fortificarsi mentre l’altro andava in malora. In fondo, il caso italiano è paradigmatico (al negativo) di questa relazione. Le regole sono quindi necessarie e benvenute proprio laddove si scambiano valori finanziari, perché senza regole non ci può essere fiducia e qualunque anticipazione sul futuro rischia di tramutarsi in azzardo.

E alla politica spetta di dettare le regole e di farle applicare. Questo, insieme al rigore nel fornire informazioni non allarmistiche e alla garanzia che le istituzioni non saranno passive spettatrici di quanto sta avvenendo, va nella direzione di rassicurare l’opinione pubblica e di combattere il panico. Il messaggio appropriato è quello di spiegare che la politica può fornire nel breve periodo quei correttivi che consentano al mercato di ritrovare il suo autoequilibrio nel lungo periodo. Evidentemente, prospettare la necessità della temporanea chiusura dei mercati (anche se poi smentendo) o arrivare a «consigliare» quali titoli acquistare, come inopportunamente ha fatto il presidente del Consiglio, non solo travalica tale limite, ma finisce anche col sortire l’effetto opposto: alimentando la sfiducia nelle capacità autoregolatrici del mercato in un momento e in un Paese in cui essa è già molto bassa.

Questa è la stagione ideale per alimentare le culture politiche che guardano con sospetto all’economia di mercato, al capitalismo e al profitto.
Non occorrerà ricordare che la «grande crisi» alimentò il successo dei movimenti populisti e fascisti che dilagarono per l’Europa negli Anni 30 e il sospetto e il rancore verso le lobby finanziarie internazionali furono combustibile per l’ipernazionalismo e l’antisemitismo che questi movimenti rinfocolarono. Anche grazie all’Unione, oggi è più difficile che una simile deriva sia compiutamente possibile. In Italia, poi, è paradossale che il «rischio di un regime» sia il tormentone preferito di un leader populista quant’altri mai. Ma, se è significativo che i movimenti e partiti populisti, compresi quelli che non si collocano a destra, siano assai polemici verso l’Europa, è preoccupante che per questa via trovino spesso il varco per raggiungere i cuori dell’elettorato. La timidezza delle istituzioni europee, e la volontà dei governi di non andare oltre il coordinamento delle singole politiche nazionali nell’affrontare la presente crisi, rischia così di fornire legna al fuoco della polemica antieuropea e sostegno a chi se ne fa paladino. Troppo a lungo, infatti, si è argomentato che la realizzazione dell’Unione (e della moneta unica) fosse un frangiflutti contro i marosi della globalizzazione, per illudersi che essa possa uscire indenne da una eventuale crisi prolungata. Se alle istituzioni europee non sarà consentito di giocare un ruolo maggiore, è fin troppo facile prevedere che alle prossime elezioni i partiti populisti aumenteranno e di molto il loro consenso. Nel caso dell’Italia, poi, il rischio è che al danno dovuto alla crisi finanziaria globale si aggiunga la beffa della chiusura della timida stagione di liberalizzazione e deregolamentazione dell’economia (reale e non).

Un refrain in voga nelle ultime settimane è quello di un ritorno a un capitalismo più regolato, dopo gli anni di sbornia liberista, d’iperfinanza e di deregolamentazione selvaggia. Tutto molto giusto e condivisibile. Peccato che reaganismo e thatcherismo, qui da noi, abbiano imperato più nei dibattiti accademici e giornalistici che nella realtà. La nostra economia, quella reale in particolare, ma anche quella finanziaria, soffrono semmai di un eccesso di regolamentazione (per lo più cattiva) al punto che il mercato ne risulta asfittico e irrigidito. Guai se, sull’onda della giusta richiesta di una migliore e più efficace regolamentazione dei mercati per i prodotti finanziari più innovativi, prendesse corpo quella tendenza italiana al consociativismo e all’ipertrofia regolatoria che ben conosciamo e contro la quale lottano quotidianamente imprenditori e lavoratori. Quella che ci aspetta è quindi una lotta su due fronti. Contro gli effetti dell’iperfinanza globale che distrugge quella ricchezza che non crea, e contro chi non crede nella «distruzione creatrice» del capitalismo e nella virtù del mercato. Questo, signor Presidente, è il miglior modo «per evitare il panico e per ridare serenità agli italiani».
 
da lastampa.it


Titolo: «Le aule per immigrati ci sono già. Capisco gli italiani che scappano»
Inserito da: Admin - Ottobre 16, 2008, 11:59:25 pm
IntERVista allo scrittore-PAPà

«Le aule per immigrati ci sono già. Capisco gli italiani che scappano»

Sandro Veronesi : «Quella della Camera non è la soluzione, se si vuole l'integrazione e non l'apartheid»

 
 
MILANO — Che ne pensa?
«Che il problema esiste, senza dubbio. E le classi separate, se è per questo, ci sono già».
Dice?
«Eh sì. Solo che non sono gli stranieri ad essere mandati via. Capita siano gli italiani, ad andarsene: per non lasciare i bambini in una classe a maggioranza straniera. È il dramma di noi genitori progressisti...». Sandro Veronesi, scrittore nonché papà di tre figli, in una pausa tra un impegno paterno e l'altro si concede un po' di (amara) ironia. «È come la storia del grembiule, sai la novità. I miei figli lo hanno portato, esiste in un sacco di scuole pubbliche italiane. Ed è utile, tra l'altro: non come uniforme, ma per evitare di sporcarsi i vestiti».
Ma le classi per stranieri?
«Vede, io abito a Prato, dove c'è una forte presenza di cittadini d'origine cinese che tendono storicamente a creare le cosiddette chinatown. Nelle scuole di quei quartieri accade spesso che i loro figli siano in maggioranza rispetto agli altri. E una buon parte di quei bimbi non parla italiano».
Lei cosa direbbe ai genitori che per questo portano via i loro figli?
«Cosa vuole, conoscendo la situazione specifica, forse fanno anche la cosa giusta. Abbandonati a se stessi, e potendo scegliere, mandano i figli altrove perché in effetti quel caso crea problemi: le prime classi dell'obbligo sono fondamentali, si rischia di restare indietro».
Quindi la mozione della Lega...
«Non ho dubbi, è sbagliata: sempre che si voglia l'integrazione e non l'apartheid. Perché ciò di cui parlo è il problema, non la soluzione. Se si vuole l'integrazione non si possono fare classi di soli stranieri, è folle».
Ma non diceva di capire i genitori italiani madrelingua che portano via i loro figli?
«Quella è la risposta di un cittadino lasciato da solo ad affrontare un problema del genere. La soluzione d'emergenza di una famiglia, progressista o meno. Ma non può essere il rimedio del governo».
E perché?
«Il Parlamento dovrebbe discutere, no? Già il fatto che si sia presentata una "mozione", senza approfondire il tema, sa di razzismo. Nel migliore dei casi, è la solita tendenza a semplificare le questioni complesse. A dare una risposta che vada bene in trenta secondi di Tg. Come se, davanti alla crisi finanziaria, avessero detto: e che problema c'è? Facciamo stampare altro denaro! Ecco, l'idea delle classi separate ha lo stesso grado di raffinatezza. Magari si poteva nel Medioevo, ora no. Del resto non esiste in nessun Paese d'Europa».
Quindi che si fa?
«Un sistema di integrazione. Insegnare l'italiano ai genitori, per cominciare.
O magari far fare agli ultimi arrivati un anno di servizio civile. Un problema nuovo richiede nuove risposte. Certo è più comodo ricreare artificialmente le condizioni di cinquant'anni fa, grembiule, maestro unico, voto in condotta, ma sono anacronismi. È anche questione di distribuzione delle classi. Se in una classe gli scolari di origine straniera sono una minoranza, in proporzione alla media nazionale, si può pensare a insegnanti di sostegno: a dare degli strumenti anziché toglierli, come mi pare sia la tendenza. I bambini vanno portati all'altezza degli altri, tra l'altro imparano le lingue in fretta. In Svezia hanno tanti immigrati turchi e a scuola insegnano lo svedese ai turchi e il turco agli svedesi. Non si dice sempre che bisogna imparare le lingue? E se gli italiani imparassero un po' di cinese o di arabo, non farebbe loro bene?».
C'è anche un problema educativo, no?
«Magari senza accorgersene, siamo a un passo dal razzismo. Non è prudente. Cosa penserebbe un bimbo che passasse davanti alla classe degli "stranieri"? Che se fa il cattivo lo mandano là? Un passo. E tanti possono varcare la linea, diventa molto meno grave perché hai fatto un passo, uno solo, una "ragazzata"! Io non so se sia un disegno o una deriva spontanea, ma tutto sembra andare in quella direzione, le aggressioni, le croci celtiche allo stadio, le sagome dei bimbi neri dipinti di bianco...Tutto finisce per avere un'aria di famiglia.
Stiamoci attenti».


Gian Guido Vecchi
16 ottobre 2008

da corriere.it


Titolo: FRANCESCO LA LICATA. Purché non diventi Gomorrismo
Inserito da: Admin - Ottobre 21, 2008, 11:45:42 am
21/10/2008
 
Purché non diventi Gomorrismo
 
 
 
FRANCESCO LA LICATA
 
Sulla vicenda della fatwa pronunciata dalla mafia contro Roberto Saviano, «colpevole» di aver scritto un libro di successo, «reato» aggravato dalla parallela buona accoglienza riservata al film Gomorra tratto dal romanzo, si sono registrate reazioni non univoche, oscillanti tra le prevedibili provocazioni sgarbiane e la manifesta avversione di una classe politica che non gradisce - e non da ora - la denuncia dell’ignavia istituzionale nella lotta alle mafie. Nel complesso, però, attorno al giovane scrittore è sorto un vasto movimento di opinione che raramente, nel nostro Paese, abbiamo visto crescere nei confronti di personaggi protagonisti delle diverse stagioni dell’antimafia. È di ieri la notizia d’una raccolta di firme di solidarietà a Saviano che ha superato le 85 mila adesioni, mentre da Orvieto giunge l’eco della preparazione di notti bianche per il 25 e 26 ottobre. Per Gomorra si sono mobilitati ambienti mai sfiorati dalla passione antimafia: premi Nobel, associazioni studentesche, intellettuali e persino le tifoserie che in passato non hanno certo brillato per il sostegno alle forze dell’ordine.

Tutto ciò non può che esser salutato con soddisfazione e grande apprezzamento, perché - come ci hanno insegnato collaudati maestri - una simile mobilitazione non può che tornare utile alla lotta alla mafia, indispensabile per la riappropriazione, da parte della società civile, di rapporti improntati al rispetto della legalità e della legge. Sappiamo quanto i signori delle cosche preferiscano il silenzio timoroso al coraggio della denuncia. Ben venga, quindi, il clamore suscitato dalle parole dello scrittore: chi è maledetto dalla mafia è benedetto dai cittadini onesti. Ma c’è un motivo più profondo di soddisfazione nella svolta impressa dall’avventura di Gomorra. Ed è proprio l’inattesa presa di coscienza collettiva attorno al tema della battaglia antimafia, per troppo tempo ignorata, quando non addirittura avversata. Non si può, a fronte di tanto clamore, non pensare a vicende del passato e a uomini che, purtroppo, non hanno goduto di tanto afflato. Giovanni Falcone non era soltanto un giudice: era uno stratega che ha rivoluzionato la cultura della lotta al crimine organizzato e alle mafie, inventandosi strumenti operativi e legislativi prima inesistenti e riuscendo a portare alla sbarra, vincendo in Cassazione, l’intera Cosa nostra senza abbandonare di un millimetro il percorso del rispetto delle leggi. È stato l’uomo che ha ridato agli italiani la prospettiva di liberare dalla mafia la politica, l’economia e la società civile.

Eppure Falcone dovette abbandonare la Sicilia, dopo aver subìto umiliazioni e ingiusti attacchi. E anche quando andò via, non per sua scelta ma per incompatibilità col potere, fu salutato con scherno e additato come un soldato che abbandonava la trincea, dopo essersi «inventato» la bomba dell’Addaura «per fare carriera». Persino quando, con la giornalista Marcelle Padovani, scrisse il libro Cose di Cosa nostra fu redarguito pesantemente dall’«intellighentia illuminata» che scorgeva nella competenza del giudice e nelle sue parole ponderate un «Falcone stregato dalla mafia». Quando saltò per aria, in quel modo che sembrava un film, abbiamo assistito al tentativo di rimuoverlo dalla memoria collettiva. Operazione sventata dall’enorme peso di un uomo che - prima che in Italia - si era conquistato il rispetto di una grande democrazia come l’America, felice di ospitare il suo busto nell’atrio dell’FBI, a Quantico in Virginia.

Ecco perché non si può non essere felici della partecipazione collettiva in difesa di Saviano. La generosità, la solidarietà caratterizzano la civiltà di un Paese. Purché tutto non diventi moda o, se preferite, «Gomorrismo».
 
da lastampa.it


Titolo: Ribelliamoci alle banche
Inserito da: Admin - Novembre 04, 2008, 06:02:24 pm
3 novembre 2008, 15.11.22


Ribelliamoci alle banche



Parlare di etica e moralità nel sistema bancario è come parlare di corda in casa degli impiccati. Voglio ricordare che ci sono banchieri che hanno guadagnato, l'anno scorso, qualcosa come 26 mila euro al giorno, quanto guadagna una famiglia in un anno, dove lavorano in due. Rispetto a questi guadagni enormi, non hanno prodotto quello che il mestiere del banchiere porta, ossia valutare il rischio del credito e aiutare le piccole medie imprese nel tessuto economico a svilupparsi. Le banche non danno credito a chi ne ha bisogno, richiedono anche il rientro dell'affidamento, soprattutto in momenti come questi, con un preavviso di 24 ore, cosi che molte piccole medie imprese sono strozzate dalle banche, cosi come i mutuatari, tre milioni e duecentomila famiglie, indebitati a tassi variabili per precise responsabilità delle banche.

Al Senato abbiamo fatto una serie di audizioni alla commissione finanze per capire qual'è lo stato reale dei fatti, perché c'è questa grande bolla speculativa partita dagli Stati Uniti d'America. Ricordiamo: i mutui subprime, i prodotti derivati, i prodotti fuori bilancio, che sono due volte il Pil del mondo. Sono venuti Draghi, governatore della Banca d'Italia, uomo di Goldman Sachs, quella banca che l'anno scorso ha dato 600 mila dollari di premio ad ogni dipendente, salvata da un signore di nome Polson, ossia il segretario del tesoro americano che decide quali sono le banche che devono fallire: di fatti la Lehman Brothers è fallita, GPMorgan e Goldman Sachs non sono fallite, appunto perché lui è parte in causa, siccome è stato presidente ed amministratore delegato, per 27 anni, della Goldman Sachs. Un intreccio incestuoso senza precedenti.

Tornando alle audizioni: dalla Consob, all'ISVAP, l'istituto di vigilanza sulle assicurazioni che dovrebbe essere sciolto, all'ABI, l'associazione bancari italiana, tutti hanno scaricato la responsabilità sugli altri. Quindi, non esiste un colpevole. Durante l'audizione ho chiesto al Presidente di “audire il Ris di Parma”: se c'è il delitto perfetto, quali sono i colpevoli? Questi non si trovano. Ci sono i fiancheggiatori, che sono le autorità di controllo, le banche centrali e le agenzie di rating, ci sono i mandanti, ossia le banche d'affari e i complici, però non si trova l'autore di questo delitto che mette in ginocchio l'economia sana degli Stati, anche dell'Italia. Molti imprenditori stanno soffrendo questa crisi, perché gli si tagliano i rubinetti del credito proprio nel momento in cui c'è maggior bisogno.

Quello che noi diciamo è: ribelliamoci alle banche se ci chiedono il rientro dell'affidamento con un preavviso di 24 ore. In questo momento non subiamo! Perché se il governo fa il decreto “Salva-Banche”, e impegna 40-60 miliardi di euro che andranno, come con l'Alitalia, sulle spalle dei contribuenti, ed emetteranno titoli pubblici per aumentare la grande mole del debito pubblico, che sono 1650 miliardi di euro, 28 mila euro ogni abitante, se si salvano le banche bisogna salvare anche le imprese e le famiglie. Il governo dovrebbe anche vigilare le banche, che non si fidano di loro stesse e hanno la pretesa che gli utenti, i consumatori e le piccole medie imprese si fidino di loro. Non si fidano di loro stesse, non prestano soldi neanche nel mercato interbancario, e preferiscono alimentare un fondo della BCE ad un tasso d'interesse inferiore di un punto e mezzo piuttosto che offrire capitale di rischio.
Come Italia dei Valori lo ripetiamo: è una vergogna. Abbiamo posto un atto d'accusa contro le autorità vigilanti alla Commissione finanze, e continueremo a difendere i diritti. L'appello che lanciamo, sia ai mutuatari, a chi ci ascolta, e alle piccole medie imprese, perché la Fiat non ha bisogno di aiuti ne raccomandazioni: ribelliamoci al potere delle banche, ribelliamoci alla dittatura di un sistema bancario che non ha molta differenza con il sistema mafioso.

Tre milioni e duecentomila famiglie, indebitate a tasso variabile, sono strozzate dalle banche. I tassi d'interesse sono troppo alti: rispetto al tasso IBOR sono più alti di un punto, rispetto a quello della BCE sono più alti di un punto e quindici. Stanno aumentando pignoramenti ed esecuzioni immobiliari in tutti i tribunali con punte dal 39 per cento.

Questo governo che salva le banche, che fa i decreti scritti sotto la loro diretta dettatura, si dovrebbe vergognare perché non sta facendo nulla ne per le piccole medie imprese ne per le famiglie che né avrebbero un urgente bisogno.


da italia dei Valori


Titolo: Giorgio Nugnes aveva spiegato il suo punto di vista a Repubblica
Inserito da: Admin - Novembre 30, 2008, 11:08:42 pm
Ai primi di ottobre, Giorgio Nugnes aveva spiegato il suo punto di vista a Repubblica

Adesso, nel viottolo davanti alla casa c'è una folla tesa e arrabbiata

"La mia colpa? Difendere la mia gente"

L'ultima intervista dell'assessore suicida

"La protesta pacifica serviva anche a evitare scontri peggiori"

Lo strano provvedimento di "divieto di dimora" a tempo

di CONCHITA SANNINO

 
NAPOLI - "Mi sono battuto contro la riapertura della discarica. E' vero. La giustizia mi accusa di avere organizzato blocchi stradali? Ma a volte questa resistenza pacifica evita un corpo a corpo più pericoloso. Ho sempre difeso fino in fondo la mia gente del mio quartiere".

Era il 7 ottobre quando Giorgio Nugnes, l'ex assessore suicida apriva le porte della sua casa di Pianura a Repubblica. Nugnes era da poche ore agli arresti domiciliari, ma sembrava saldo nella convinzione di uscire presto da quello scandalo. Cinquantadue giorni dopo, il viottolo di campagna in cui abitava con una vasta parentela di cugini e nipoti, è avvolto dalla tragedia. Una tragedia che colpisce ancora più duramente perché maturata in questo luogo che ispira pace e tranquillità, dove la gente come Nugnes, quando poteva, veniva qui a raccogliere frutta e castagne e, se andavi a trovarlo, ti offriva delle mele appena colte.

Il suo corpo l'hanno trovato a pochi metri dall'ingresso della palazzina gialla. Accanto una corda e lo sgabello usati per impiccarsi. "C'è voluta molta lucidità e perizia per concepire un gesto come questo" scuote la testa sconvolto padre Bruno Rossetti, parroco della chiesa di San Lorenzo che, insieme a Don Claudio De Caro e ad altri due affranti sacerdoti, hanno portato il primo conforto alla famiglia. Sua moglie Mimma, insegnante, una donna discreta e sempre distante dalla ribalta politica, i figli adolescenti Tommaso e Andrea avevano sofferto in questi mesi prima i conflitti e le guerriglie urbane intorno alla possibilità di riaprire la discarica di Pianura, poi erano stati colpiti dal blitz giudiziario e dalle dimissioni con le quali Nugnes aveva lasciato il suo ufficio di assessore comunale. E ancor, la tensione per questo complicato regime di arresti domiciliari, infine la tragedia di oggi.

La gente di Pianura è adirata contro giudici e forze dell'ordine. Ma punta il dito soprattutto su quel divieto di dimora che il giudice per le indagini preliminari gli aveva inflitto. Una scelta che la stessa procura aveva chiesto di attenuare proprio nelle ultime settimane. Lo conferma il procuratore aggiunto antimafia Franco Roberti: "E' una tragedia nella quale ogni valutazione oggi appare impropria. Ma vogliamo ricordare che, alle richieste di Nugnes la procura aveva valutato e poi concesso la possibilità per lui di rientrare nella sua casa e dimorare lì almeno la notte". Alla apertura dei pm, tuttavia, il gip aveva risposto con maggiore severità: Nugnes poteva dormire a casa solo lunedì, mercoledì e venerdì di ogni settimana dalle ore 20 alle 8 del mattino dopo. "Un provvedimento del tutto atipico" lo definiscono ora anche ufficiali di polizia giudiziaria abituati a dettare prescrizioni per camorristi e sorvegliati speciali.

E, intorno alle 15, un silenzio irreale circonda la casa dalla quale esce il feretro dell'assessore. Oltre un centinaio di persone si fanno il segno della croce. C'è chi mormora "assassini" e uno dei tanti consiglieri comunali presenti, racconta: "L'avevo visto due giorni fa ai piedi di palazzo San Giacomo (la sede del palazzo comunale di Napoli; ndr) dove ornai veniva come un ospite. Aveva detto: 'se pensano di farmi smettere con la politica o di farmi sentire un uomo distrutto, si sbagliano".

E allora, il 7 ottobre, nell'intervista agli arresti domiciliari, aveva detto: "Siamo cresciuti con l'olezzo della discarica a Pianura, non permetteremo che la riaprano". E alla fine aveva avuto anche ragione. La discarica non è stata riaperta, ma si è portata via la sua vita.

(29 novembre 2008)
da repubblica.it


Titolo: Berlusconi : «Nessuno mi può chiedere di trattare con Veltroni»
Inserito da: Admin - Dicembre 15, 2008, 11:53:15 pm
Il tema giustizia

Berlusconi : «Nessuno mi può chiedere di trattare con Veltroni»

La telefonata del premier a Bossi dopo l'apertura del ministro leghista al Pd


ROMA — L'ha chiamato all'ora di pranzo, un attimo dopo aver appreso della sua ultima esternazione. «Vedi Umberto, tutto mi puoi e mi si può chiedere: di lasciare che Alfano da una parte e tu e Calderoli dall'altra cerchiate un'intesa con l'opposizione su giustizia e federalismo fiscale fino all'ultimo, che non si montino barricate su ogni articolo, che si facciano commissioni di cui peraltro non vedo necessità. Ma nessuno mi può chiedere, come hai appena fatto tu, di "trattare" con Veltroni, di fare l'uomo del dialogo. Perché io, al tavolo con quel signore che non mi considera nemmeno degno di fare il premier, che insulta tutti i giorni non solo me ma la carica che rivesto e che non si libera da Di Pietro, io non ci parlo, non ci tratto, non mi siedo al tavolo. Né oggi né mai».

Parola più, parola meno — con tono pacato, perché «sai quanto ti capisco, Umberto» — è questo il discorso netto che Silvio Berlusconi ha fatto al leader della Lega. Il «dialogo con la D maiuscola», come spiega il capogruppo del Pdl Fabrizio Cicchitto, «proprio non si può fare, perché Veltroni e i suoi non smettono di insultare il premier. Diverso è ricercare un'intesa su singoli temi, federalismo fiscale come anche giustizia, se possibile », ma niente fraintendimenti: «Con questo Veltroni, di che vuoi trattare?», chiude la porta Paolo Bonaiuti. In effetti, le uscite di Bossi non sono andate troppo giù al Cavaliere, che vedrà l'alleato mercoledì o giovedì e che comunque — spie gano i suoi — capisce «quanto il federalismo sia importante per Umberto» e dunque perdona. Ma ragiona anche così il premier: «Bossi dovrebbe capire che se fossi io a guidare la trattativa, le cose si complicherebbero, perché i leader della sinistra cercano solo pretesti per attaccarmi».

Di più: per il reggente di An Ignazio La Russa, anche «l'ansia, la frenesia, il desiderio di appropriazione da parte della Lega del federalismo, può finire per creare incidenti, per far arrabbiare più d'uno, e per complicare il cammino della riforma...». E però, se c'è una cosa che Bossi ha ottenuto, è che il dialogo in Parlamento venga perseguito in tutti i modi: «Veramente — sottolinea Italo Bocchino — prima di Bossi siamo stati noi di An a dire che serve il dialogo, Fini per primo. E se è logico che Berlusconi se ne tenga fuori, è doveroso cercare il consenso dell'opposizione: la riforma della giustizia è costituzionale e, se non è condivisa, tra passaggi in Parlamento e un referendum insidioso perderemmo tre anni di legislatura senza nemmeno essere sicuri di portare a casa il risultato. Quindi ben vengano il dialogo, e una riforma che magari non sarà identica a quella che avremmo voluto...».


15 dicembre 2008

da corriere.it


Titolo: FINESTRE APERTE di Stefano Trincia
Inserito da: Admin - Dicembre 18, 2008, 05:21:38 pm
FINESTRE APERTE 

di Stefano Trincia 

 Il paese dove le intercettazioni non sono un incubo
pubblicato il 18-12-2008 alle 09:30
 

Finestre aperte si chiama il mio blog. Per aprirle e capire, riflettere, misurare il nosto modo di vivere, di pensare, di decidere su quello altrui. Spalancare gli scuri per fare entrare ventate di aria fresca, sfatare miti, prendere coscienza della nostra frequente «anormalità» in un mondo che procede secondo parametri considerati assolutamente normali. Affacciarsi su altri paesi, diverse realtà. Per non essere più autoreferenziali, accettare il confronto con gli altri  e poter dire: però, effettivamente si può fare in altro modo, c'è una via diversa, forse migliore della nostra, di regolare la convivenza civile e sentirsi cittadini a pieno titolo.

Intercettazioni quindi. Storia esemplare. Più che la plausibilità o la validità dello strumento investigativo mi interessa raccontare le reazioni dell'opinione pubblica, dei mass media, dei diretti interessati di fronte alla «decapitazione» politica di quattro big americani. Il giovane, brillante sindaco di Detroit Kwame Kirkpatrick, politico nero di 31 anni, ha una popolarità record, una bella famiglia, è di fatto il padrone della città. Perde la testa, raccontano i media locali dopo il suo arresto, crede di essere onnipotente, manovra le leve del potere con crescente spregiudicatezza.
C'è aria di tresche illegali e non solo.
 
La magistratura decide di agire, partono le intercettazioni: conversazioni al cellulare e fitto scambio di sms. Interlocutrice  privilegiata Christine Beatty, sua avvenente chief of staff - capo di gabinetto - con cui ha da tempo una focosa relazione. Esce fuori che se ne andavano a passare weekend in luoghi esotici a spese dello stato. Interrogato, lui nega sotto giuramento. Errore fatale, in Usa non si fa, se menti e ti beccano sei fregato. E così avviene: tre anni di carcere, poi patteggiamento della pena a quattro mesi. Il principale quotidiano di Detroit pubblica tutto, ogni dettaglio parola per parola. Poi racconta, è roba di ieri, la vita dell'ex padreterno in prigione: brache da detenuto, noccioline e qualche libro.

Stessa sorte, via intercettazioni, subisce qualche giorno fa il potentissimo governatore dell'Illinois Blagojevich, sorpreso a negoziare con vari interlocutori telefonici il prezzo da pagare per ottenere il posto di senatore lasciato vacante da Obama. E' finito in manette, tutti i dettagli in cronaca.  E prima ancora il senatore democratico ed ex candidato alla presidenza Usa John Edwards: giurava amore eterno alla moglie malata di cancro, lo hanno beccato grazie alle intercettazioni, con una bella e bionda segretaria. Carriera finita, via dai piedi. E infine il Ministro di Giustizia dello Stato di New York, Eliot Spitzer, fustigatore dei facili costumi, grande moralizzatore con ambizioni presidenziali: inchiodato dalle intercettazioni a procurarsi prostitute d'alto bordo a spese del contribuente. Dimissioni immediate.

Opinione pubblica tranquilla, nessuno scandalo, giornali e tv strapiene di dettagli, anche i più scabrosi, secondo la legge che chi, eletto dal popolo, tradisce la sua fiducia non ha diritto ad alcuna privacy. Indagati, arrestati e dimissionati a testa bassa, scuse pubbliche e poi sparire. Nessuna critica nemmeno velata alla magistratura, niene di nulla, nessuna denuncia di complotti o di scontri tra poteri. Hai sbagliato, hai imbrogliato, hai mentito, paghi. Punto. Come si addice ad un paese normale in cui le regole valgono per tutti e valgono qualcosa. Proprio come da noi, in Italia.

Finestre aperte, signori. Finestre aperte.


da ilmessaggero.it


Titolo: MASSIMO VILLONE Partiti feudali
Inserito da: Admin - Dicembre 22, 2008, 03:05:55 pm
22/12/2008
 
Partiti feudali
 
MASSIMO VILLONE
 

Una nuova Tangentopoli? Una nuova questione morale? Domande che hanno investito in specie il Pd e i governi locali del centrosinistra, soprattutto in importanti realtà del Mezzogiorno. Ma non esiste un caso Pd, o un caso Napoli. Esiste un caso Italia. Per anni è stato fatto un investimento su parole d’ordine cui molti hanno creduto.

Liberarsi della partitocrazia, avvicinare la politica e l’amministrazione ai cittadini, i governanti ai governati, in specie con l’elezione diretta. Allentare lacci e lacciuoli, per l’efficienza degli apparati pubblici. E dunque meno controlli e responsabilità formali e giuridiche, maggiore controllo sociale. Più discrezionalità nell’azione politico-amministrativa, e nell’organizzazione degli apparati. Nel voto, pieno mandato a governare, per poi rispondere dei risultati nel successivo turno elettorale. Dunque, democrazia di mandato, elezione del leader con la sua maggioranza, per un sistema moderno e competitivo.

Non è andata così. La partitocrazia corrotta e collusa che aveva portato al disastro dei primi Anni 90 è - giustamente - scomparsa. Ma si sono anche dissolti i partiti come forma organizzata della politica. E non sono stati validamente sostituiti dalla partecipazione di un giorno offerta da primarie, o da assemblee di popolo volte all’acclamazione del capo. E nemmeno dai partiti liquidi, personali, del leader, e affini. Alla fine, una politica senza partiti è fatalmente una politica di signorotti feudali, clan, bande e truppe cammellate. Una politica senza regola alcuna, salvo quella di gestire il consenso in funzione del potere.

È così che la flessibilità nell’organizzazione amministrativa è diventata uno spoils system all’ultimo dirigente a contratto. L’esternalizzazione di funzioni si è tradotta nella spartizione di poltrone nei consigli di amministrazione di società miste, o persino di posti di lavoro da mille euro al mese. L’allentamento nei controlli è finito nella gloria di sedi di rappresentanza all’estero, o in contratti per parenti e amici, o ancora in gare d’appalto su misura del concorrente più eguale di altri. La responsabilità politica si è dissolta in assemblee asservite al capo eletto, di cui potrebbero liberarsi solo a pena di autoscioglimento. E il controllo sociale e la responsabilità diffusa si sono persi nella nebbia delle consulenze e delle prebende agli opinion makers della cultura, dell’economia, delle professioni.

Oggi la politica regionale e locale è guerra di tutti contro tutti. Nei Consigli comunali come in quelli regionali, la preferenza unica produce campagne elettorali estremamente costose, e combattute fino all’ultimo voto. La lotta è anzitutto tra i candidati della medesima lista. Ecco in chiaro le radici delle ambigue contiguità tra politica e affari. Poi, le maglie larghe delle regole, dei controlli e delle responsabilità consentono di orientare la gestione della cosa pubblica in vista dei debiti contratti, e delle alleanze future. Mancando partiti veri che gestiscano razionalmente e democraticamente il cursus honorum, il consenso personale è l’unico patrimonio che conta in politica.

Oggi il potere nel governo regionale e locale è per tutti i partiti elemento strutturale e dominante. Un governatore di Regione, o un sindaco di grande città, conta quanto vari ministri di media stazza. I partiti sono costruiti intorno a loro. Ovunque, l’uomo forte tende a essere il sindaco, il governatore, l’assessore. Si spiegano così gli applausi di Pescara per il sindaco inquisito, e il preannuncio di possibili liste civiche. Nel feudalesimo di partito, chi ha cariche di governo locale è tra i signori feudali più forti. La vera vittima dei più recenti sviluppi nella politica italiana è il partito nazionale. E dunque si capisce che Veltroni non dica praticamente nulla nella direzione Pd sulla tempesta in atto. E che solo nell’assemblea dei giovani attacchi, qualche ora dopo, i capi-bastone. Intanto, tutti rimangono sereni al loro posto. Non è certo questione di poteri formali. Un segretario di partito, anche il più scassato, ce l’ha. Il problema è la forza di esercitarli.

Per questo il nodo centrale è riscrivere le regole. Anzitutto per i partiti, con una legge generale che ne consolidi la insostenibile leggerezza. Non a caso, io e Salvi avevamo presentato sul punto una proposta già il 28 aprile 2006. È rimasta ferma al palo. E nuove regole sui rapporti tra politica e amministrazione, rivedendo almeno alcune delle scelte fatte in passato, magari con le migliori ragioni. Del resto, che la via dell’inferno fosse lastricata di buone intenzioni già lo sapevamo.

Ex senatore della Sinistra Democratica
 
da lastampa.it


Titolo: Niall Ferguson Retrospettiva immaginaria del 2009
Inserito da: Admin - Gennaio 02, 2009, 10:07:14 am

Retrospettiva immaginaria del 2009

Il nuovo mondo al tempo della crisi

Cade Ahmadinejad, Al Qaeda cerca di uccidere Obama mentre in Cina...
 
«Così l'America si ritrovò più povera ma sempre al comando da numero uno»


E' stato l'anno in cui si è smesso finalmente di far previsioni per l'anno a venire. È stato l'anno in cui si è dovuto rivedere ogni pronostico — per lo più verso il basso — come minimo tre volte. È stato l'anno in cui solo chi teneva gli occhi ben chiusi ha potuto ignorare il paradosso della globalizzazione. Da un lato, la crescente integrazione dei mercati delle materie prime, dell'industria, della manodopera e del capitale ha prodotto notevoli profitti. Come Adam Smith aveva previsto ne «La ricchezza delle nazioni», la liberalizzazione economica ha consentito di impostare a livello globale economie di scala e divisione del lavoro. Dagli anni 1980 fino al 2007, l'economia mondiale aveva goduto di un'espansione sempre più diffusa e capillare, con una minore incidenza di crisi, assai passeggere, tanto che il presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, aveva festeggiato con un certo compiacimento la «grande moderazione» del 2004. Dall'altro, quanto più il mondo assomigliava a una rete complessa e multinodale capace di interagire con la massima efficienza — inventari al minimo e consegne just-in-time — tanto più diventava vulnerabile a un massiccio crac sistemico.

LA GRANDE REPRESSIONE - È questo il significato reale della Grande Repressione, iniziata nell'agosto del 2007, che ha toccato il punto più basso nel 2009. Chiaramente, non si è trattato di una Grande Depressione simile per portata a quella degli anni Trenta, quando la produzione industriale negli Stati Uniti declinò di un terzo e la disoccupazione toccò il 25‰. Né semplicemente di una Grande Recessione. Con il declino della produzione delle nazioni industrializzate per tutto il 2009 — nonostante i grandi sforzi delle banche centrali e dei ministeri delle Finanze — è apparsa sempre più azzeccata l'etichetta di «Grande Repressione»: pur trattandosi della peggior crisi economica in settant'anni, erano ancora in molti a non volerci credere. «Noi economisti sapevamo bene come combattere questo tipo di crisi», ha confessato un consigliere economico del dream team di Barack Obama, subito dopo il ritorno all'insegnamento universitario nel settembre 2009. «Eravamo sicuri che se la Fed avesse iniettato abbastanza liquidità nel sistema finanziario, avremmo potuto evitare la deflazione. Eravamo sicuri che se il governo avesse accumulato un deficit sostanzioso, avremmo messo fine alla recessione. Ma ci eravamo sbagliati. E noi che ci eravamo fidati di Keynes e Friedman!».

LA BOLLA IMMOBILIARE - Alla radice del problema restava la bolla immobiliare americana, che ha continuato a sgonfiarsi nel corso dell'anno. Molti avevano immaginato che entro la fine del 2008 il peggio sarebbe passato. Ma non è stato così. L'indice dei prezzi immobiliari dell'economista Robert Shiller nel 2006 sfiorava quota 206, quasi il doppio del livello toccato appena sei anni prima. Per tornare a livelli anteriori alla bolla immobiliare, l'indice sarebbe dovuto scendere del 50%. Ma era calato meno della metà verso la fine del 2008. Di conseguenza, i prezzi delle case hanno continuato a scendere negli Stati Uniti e sempre più famiglie si sono ritrovate ad affrontare posizioni negative, con debiti superiori al valore della proprietà. Un aumento dei pignoramenti, d'altro canto, si è tradotto in perdite più consistenti per i titoli garantiti da prestiti ipotecari e i bilanci delle banche sono finiti sempre più spesso in rosso. Con un debito complessivo superiore al 350% del Pil americano, è stato arduo depurare gli eccessi dell'era della leva finanziaria. Le famiglie hanno stretto la cinghia e ridotto i consumi. Le banche hanno tentato di mettere un freno ai nuovi prestiti. La recessione ha fatto la sua comparsa. La disoccupazione è salita al 10%, poi oltre. La spirale economica negativa sembrava inarrestabile. Per quanto risparmiassero, gli americani erano ormai incapaci di stabilizzare il rapporto tra debiti e reddito disponibile. Paradossalmente, un incremento nei risparmi ha portato alla caduta dei consumi, che a sua volta ha innescato l'aggravarsi della disoccupazione, il calo dei redditi e via di seguito, in un vortice discendente.

«INVESTIRE IN INNOVAZIONE» - «La necessità saprà stimolare l'inventiva», dichiarava Obama nel discorso inaugurale il 20 gennaio. «Se sapremo investire nell'innovazione, ritroveremo la fiducia nella creatività americana. Occorre costruire nuove scuole, non nuovi centri commerciali, e produrre energia pulita, non derivati tossici». Gli analisti concordavano che il discorso richiamava alla memoria le parole di Franklin Roosevelt, pronunciate al suo insediamento alla Casa Bianca nel 1933. Ma Roosevelt parlava quando il peggio della Depressione era passato, mentre Obama si dibatteva nel cuore della tempesta. Se la retorica spiegava le ali, i mercati sprofondavano sempre di più. Il contagio si era esteso inesorabilmente dai subprime ai mutui non a rischio, fino al settore immobiliare commerciale e alle obbligazioni delle società private, per tornare poi al settore finanziario. Entro la fine di giugno, l'indice Standard & Poor's 500 era sceso a 624, il livello mensile più basso dal gennaio del 1996, e di circa il 60% inferiore al massimo toccato nell'ottobre 2007.

L'INSOLVENZA DELLE BANCHE - Il nocciolo del problema era la fondamentale insolvenza delle banche principali, un'altra realtà che il mondo politico aveva tentato di ignorare. Nel 2008 la Banca d'Inghilterra aveva stimato a 2.800 miliardi di dollari le perdite complessive su attivi tossici, ma le perdite bancarie totali entro la fine del 2008 erano poco più di 583 miliardi di dollari, mentre il capitale rastrellato contava 435 miliardi di dollari. Le perdite, in altre parole, venivano o massicciamente sottovalutate, oppure erano state accumulate al di fuori del sistema bancario. Ad ogni modo, il sistema della creazione del credito era ormai fuori uso. Le banche non potevano ricorrere alla contrazione del bilancio, per via di un'infinità di linee di credito predisposte, alle quali i loro clienti si aggrappavano per disperazione, mentre l'unica fonte di nuovo capitale era il Tesoro americano, che doveva vedersela con un Congresso sempre più scettico. Le altre istituzioni del credito — specie i mercati per i titoli obbligazionari cartolarizzati — erano rimaste quasi per intero paralizzate. Era scoppiato il finimondo quando Timothy Geithner, segretario al Tesoro americano, aveva richiesto altri 300 miliardi di dollari per ricapitalizzare Citigroup, Bank of America e altre sette grandi banche, solo una settimana dopo aver varato una controversa «megafusione» nell'industria automobilistica. A Detroit, i tre grandi produttori si erano contratti in un'unica azienda, la CGF (Chrysler-General Motors-Ford). Le banche, dal canto loro, reclamavano senza sosta nuovo denaro pubblico. Eppure, per nessuna cifra al mondo erano disposte a offrire prestiti a tassi di interesse più bassi. Nelle parole di un politico del Michigan, piuttosto indignato, «nessuno vuole accettare il fatto che le banche sono fallite. Non solo hanno perso tutto il loro capitale, ma se dovessimo mettere sul mercato i loro attivi, si verrebbe a scoprire che l'hanno perso due volte. Le tre grandi industrie automobilistiche non sono mai state tanto mal gestite come queste banche».

I TASSI A ZERO - Nel primo trimestre, la Fed ha continuato a fare tutto il possibile per evitare di scivolare nella deflazione. Il tasso effettivo dei fondi federali aveva già toccato zero per la fine del 2008. In pratica, l'allentamento quantitativo era già iniziato nel novembre 2008, con acquisti massicci del debito e dei titoli garantiti da prestiti ipotecari presso istituti appoggiati dal governo (i giganti nazionalizzati Fannie Mae e Freddie Mac) e la promessa di futuri acquisti di titoli di stato. Tuttavia, l'espansione della base monetaria era stata annullata dalla contrazione di misure monetarie più ampie, come M2 (la valutazione della moneta e dei suoi «sostituti più immediati», quali i depositi di risparmio, che rappresenta un indicatore chiave dell'inflazione). Le banche malconce ingoiavano tutta la liquidità prodotta dalla Fed, che sempre di più assomigliava a uno hedge fund del governo, con una leva finanziaria superiore a 75 a 1, e un bilancio ricco di attivi di cui tutti volevano sbarazzarsi. ….

IL DEFICIT FEDERALE - Il governo federale americano non se la passava molto meglio: entro la fine del 2008, il valore complessivo di prestiti, investimenti e garanzie offerti dalla Fed e dal Tesoro dall'inizio della crisi finanziaria aveva già toccato i 7.800 miliardi di dollari. Nei dodici mesi precedenti il 30 novembre 2008, il debito totale federale era aumentato di oltre 1.500 miliardi di dollari. Morgan Stanely stimava che il deficit federale complessivo per l'anno fiscale 2009 poteva raggiungere il 12,5% del Pil. La cifra sarebbe stata ancora più alta se il presidente Obama non avesse persuaso il suo principale consigliere economico, Lawrence Summers, a congelare la prevista riforma della sanità e i fondi aggiuntivi destinati a istruzione, ricerca e aiuti umanitari. Obama si era impegnato a formare un governo in cui fossero rappresentati equamente alleati e rivali. Ma i rivali avevano un bel po' di esperienza in più rispetto agli alleati. Risultato: un governo che parlava come Barack Obama ma pensava come Bill Clinton. I veterani dell'era clintoniana, con a capo il segretario di stato Hillary Clinton, ricordavano ancora la volatilità del mercato obbligazionario che li aveva tormentati nel 1993 (tanto che il manager della campagna elettorale, James Carville, aveva affermato che se esisteva la reincarnazione avrebbe voluto rinascere come mercato obbligazionario). Terrorizzati davanti alla mole crescente del deficit, avevano sollecitato Obama a posticipare qualsiasi spesa che non fosse destinata specificatamente a contenere la crisi finanziaria.

IL DOLLARO - Ma il mondo era cambiato dai primi anni 1990. Malgrado i timori dell'ex segretario al Tesoro, Robert Rubin, personalità ancora assai influente, gli investitori in tutto il mondo si dimostravano più che contenti di acquistare i nuovi titoli del Tesoro americano, senza badare a spese. Contrariamente alla saggezza popolare, benché quadruplicato il deficit non aveva provocato il crollo dei prezzi dei titoli e un rialzo dei rendimenti. Anzi, la corsa alla qualità e le pressioni deflazionistiche scatenate dalla crisi in tutto il mondo avevano affossato i rendimenti a lungo termine, che sarebbero restati vicino al 3% per tutto l'anno. Né si è assistito alla disfatta del dollaro, come molti avevano temuto. L'appetito estero per la moneta americana ha resistito alle bizzarrie della Fed, nella sua frenesia di stampare denaro, e i tassi di cambio effettivi si sono addirittura rivalutati nel 2009. Era questa l'ironia nel cuore della crisi: per moltissimi versi, la Grande Repressione portava l'etichetta «Made in America», ma le sue conseguenze si sarebbero rivelate più pesanti nel resto del mondo. Gli Stati Uniti sono così riusciti a salvaguardare la fama di «bene rifugio» per la loro moneta. Con il peggiorare della crisi in Europa, in Giappone e nei mercati emergenti, sempre più investitori hanno acquistato titoli del Tesoro in dollari.

GIAPPONE ED EUROPA - Per il resto del mondo, il 2009 si sarebbe rivelato un anno orribile. Il Giappone si è visto ripiombare nell'incubo deflazionistico degli anni 1990 con la rivalutazione dello yen e il crollo della fiducia dei consumatori. In Europa, le cose sono andate un tantino meglio. Nel 2008, i leader europei avevano puntato un dito accusatorio contro gli americani. Il presidente francese Nicolas Sarkozy era intervenuto al summit del G20 a Washington come se da solo avesse potuto salvare l'economia mondiale. Il premier britannico, Gordon Brown, aveva tentato di dare la stessa impressione, reclamando la paternità della strategia della ricapitalizzazione bancaria. Il cancelliere tedesco, Angela Merkel, nel frattempo, condannava senza mezzi termini l'immenso deficit americano. Entro il primo trimestre del 2009, tuttavia, lo stato d'animo in Europa si era fatto più cupo. Era chiaro che i problemi delle banche europee erano altrettanto seri di quelli che affliggevano la controparte americana. Anzi, le passività a breve termine delle banche di Belgio, Svizzera, Gran Bretagna e Italia erano ben maggiori, in rapporto alle economie di quei Paesi, mentre le banche di Germania, Francia e Danimarca si erano rivelate più esposte alla leva finanziaria. Per di più, in assenza di un ministero delle Finanze dell'Unione Europea, tutti i bei propositi riguardo un pacchetto europeo di stimolo all'economia sono rimasti quello che erano, cioè parole vuote. In pratica, la politica fiscale è diventata una questione di «si salvi chi può», e ogni Paese europeo ha improvvisato di propria iniziativa salvataggi e incentivi all'economia. Il risultato è stato caotico. Le valute esterne all'eurozona sono state colpite da grave volatilità. All'interno dell'eurozona, la volatilità è rimasta confinata al mercato obbligazionario, con i differenziali degli interessi sui titoli greci e italiani incapaci di tenere il passo con quelli tedeschi. Il quadro si è fatto ancor più preoccupante nella maggior parte dei mercati emergenti. In Europa orientale, i paesi più colpiti sono stati Bulgaria, Romania, Ucraina e Ungheria. Dei cosiddetti Bric (Brasile, Russia, India e Cina), il Brasile ha avuto l'anno migliore, la Russia il peggiore.

CINE E INDIA - È stato un anno pessimo per i paesi esportatori di gas e petrolio, dove il crollo dei prezzi che ha trascinato con sé anche valute come il rublo. Il mercato azionario indiano, nel frattempo, è stato scosso dalle crescenti tensioni tra New Delhi e Islamabad in seguito agli attacchi terroristici di Mumbai. L'instabilità politica ha colpito anche la Cina, dove disordini innescati dai licenziamenti a Shenzhen e altri centri di esportazione hanno provocato la pesante repressione del governo, ma anche il rinnovato sforzo da parte della Banca popolare della Cina di impedire la rivalutazione dello yuan, acquistando altre centinaia di miliardi di dollari del Tesoro americano. La «Chimerica» il rapporto simbiotico tra Cina e America - non solo è sopravvissuta alla crisi, ma ne ha tratto beneficio. Anche se la decisione di Obama di partecipare al primo vertice G2 a Pechino in aprile ha sconcertato alcuni liberali, gran parte degli osservatori ha riconosciuto che il commercio ha fatto passare in secondo piano la questione del Tibet, in un momento di grave crisi economica.

LA CREDIBILITÀ AMERICANA - Il carattere asimmetrico della crisi globale il fatto che gli scossoni si sono rivelati più distruttivi in aree periferiche piuttosto che all'epicentro - ha inflitto notevoli svantaggi agli Stati Uniti. Le speranze che l'America potesse sottrarsi, grazie alla svalutazione, al fardello del debito estero sono svanite quando sia il dollaro che i rendimenti a dieci anni hanno resistito al colpo. Ma i produttori americani non hanno ricevuto una boccata d'ossigeno dalla ripresa delle esportazioni, come sarebbe accaduto con la svalutazione. La Fed è riuscita, a malapena, a mantenere l'inflazione in territorio positivo. Coloro che temevano un'inflazione galoppante e la fine del dollaro come valuta di riserva sono rimasti a bocca aperta. I problemi del resto del mondo, tuttavia, indicavano che in termini relativi gli Stati Uniti si sono avvantaggiati politicamente ed economicamente. Molti analisti avevano avvertito nel 2008 che la crisi finanziaria avrebbe conficcato l'ultimo chiodo nella bara della credibilità americana in tutto il mondo. I neoconservatori erano già stati screditati in Iraq, e ora veniva affossata la politica di Washington del libero mercato.

LA CADUTA DI AHMADINEJAD - Ma non erano stati presi in considerazione due fattori: il primo, che quasi tutti gli altri sistemi economici avrebbero superato la crisi assai più malconci degli Stati Uniti. I Paesi che più vigorosamente avevano criticato l'America - Russia e Venezuela - ne erano usciti con le ossa rotte. Il secondo, che la presidenza di Barack Obama avrebbe risollevato enormemente la reputazione internazionale americana. ….. Se occorrevano prove per dimostrare che la costituzione americana era più che mai attuale, che l'America aveva scontato il suo peccato originale della discriminazione razziale, che gli americani erano pragmatici, non seguaci di ideologie, la dimostrazione era sotto gli occhi di tutti. Non tanto che il nuovo «New Deal» di Obama - annunciato dopo l'allontanamento dei clintoniani a inizio settembre - avesse prodotto un miracolo economico (nessuno se lo aspettava), quanto piuttosto che l'acquisizione federale delle grandi banche e la conversione di tutti i debiti ipotecari delle famiglie in nuovi titoli «Obama » a cinquant'anni segnalavano una stupefacente audacia da parte del nuovo presidente. Lo stesso poteva dirsi della decisione di Obama di volare a Teheran a giugno, una decisione che ha guastato i rapporti con Hillary Clinton, i cui sostenitori non si sono mai ripresi dalla vista dell'ex candidata presidenziale avvolta nel velo islamico. Non che la cosiddetta «apertura all'Iran» abbia prodotto grandi miglioramenti in Medio Oriente (nessuno se lo aspettava). Ma il solo gesto, come la visita di Richard Nixon in Cina nel 1972, simboleggiava la volontà di Obama di riconsiderare le basi stesse della strategia globale americana. E la caduta del presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad - seguita subito dopo dalla rinuncia al programma di armamenti nucleari - è stata una ricompensa meritata. Con l'economia a pezzi, i pragmatici di Teheran si sono dichiarati pronti a fare la pace con il «Grande Satana», in cambio di investimenti indispensabili alla ripresa del paese.

AL QAEDA E OBAMA - Nel frattempo, il tentativo fallito di Al Qaeda di assassinare Obama - alla vigilia della Festa del Ringraziamento - è servito a screditare l'estremismo islamico e a rafforzare l'immagine pubblica del presidente statunitense. Tra le tante ironie del 2009, il risveglio religioso sollecitato dalla crisi economica è andato a tutto vantaggio dei democratici, anziché dei repubblicani, segnati da profonde divisioni. Entro la fine dell'anno, per la prima volta si è avuta la sensazione - e non solo la speranza che la fine della Grande Repressione fosse imminente. La spirale discendente del mercato immobiliare e del sistema bancario in America era stata finalmente interrotta dalle drastiche misure che il governo inizialmente aveva esitato a varare. Allo stesso tempo, i ben più gravi problemi economici del resto del mondo hanno dato a Obama l'occasione unica di riaffermare la leadership americana, specie in Asia e in Medio Oriente. Quel «momento unipolare» è finito, indubbiamente. Ma il potere è un concetto relativo, come il presidente ha fatto notare nell'ultima conferenza stampa dell'anno: «Avevano detto che l'America era destinata al declino, e certamente quest'anno ci siamo ritrovati tutti più poveri. Ma gli altri sono scesi ancora più in basso, e l'America ha conservato il primo posto. Nel paese dei ciechi, dopo tutto, chi ha un occhio solo è re». E con un sorrisetto ammiccante, il presidente Barack Obama ha augurato al mondo intero un felice anno nuovo.

Niall Ferguson
© The Financial Times Limited 2008
02 gennaio 2009

da corriere.it


Titolo: «Si rispetti la sentenza piaccia o non piaccia Sacconi ha sbagliato»
Inserito da: Admin - Gennaio 26, 2009, 09:50:05 pm
«Si rispetti la sentenza piaccia o non piaccia Sacconi ha sbagliato»

di Federica Fantozzi


«C’è una sentenza definitiva: piaccia o no, gli organi pubblici devono applicarla». Federico Sorrentino, già presidente dell’Associazione Italiana Costituzionalisti, insegna diritto costituzionale alla Sapienza.

Professore, dove collocare il bandolo del caso Eluana Englaro?
«È una vicenda in cui sono intrecciati aspetti giuridici, morali, religiosi. È difficile dare risposte definitive».

Occorre però un punto fermo tra il sospendere l’alimentazione, come vuole la famiglia, o proseguirla, come ordina il ministro Sacconi.
«Esiste un decreto della Corte d’Appello confermato in Cassazione, quindi definitivo, che autorizza una certa soluzione. Gli organi pubblici, piaccia o non piaccia, sono tenuti a rispettarla. Salva l’obiezione di coscienza dei medici».

Se il ministro deve rispettare la sentenza, il suo atto di indirizzo che fondamento ha?
«È un atto fuori dalle sue competenze e sbagliato. Le Regioni sono libere di disapplicarlo senza averne conseguenze sul finanziamento».

Significa che non sono possibili sanzioni per i “disobbedienti”?
«Giuridicamente no. Non si può dire: tu hai attuato la sentenza Englaro e ti escludo dal servizio sanitario nazionale».

Una donna ha rifiutato un’amputazione ed è morta. Una persona incosciente non può farlo. Non è una discriminazione?
«Non è del tutto chiarito cosa sia l’accanimento terapeutico. Per me, chi vive solo perché una macchina le dà acqua e cibo riceve una terapia. E certo, se Eluana fosse in grado di decidere per se stessa non si potrebbe imporgliela».

Le sentenze dicono che alimentazione e idratazione artificiale terapie.
«Appunto, visto che non portano miglioramenti ma solo il prolungamento indefinito della vita, applicherei l’articolo32 della Costituzione per cui le cure sono rifiutabili. Ma chiarirei un punto».

Quale, professore?
«Il passaggio più difficile della Cassazione è la ricostruzione della volontà di Eluana. Qui si tratta del diritto personalissimo alla cura o non cura, alla vita. Il suo esercizio da parte del rappresentante legale mi pare inappropriato».

Come accertare a posteriori la volontà di Eluana, allora?
«Direi che in assenza di una volontà attuale dovrebbe prevalere la speranza del domani e dunque il proseguimento delle terapie».

In sostanza, lei non condivide la sentenza ma è vincolato a rispettarla?
«Da giurista vedo una grande difficoltà a riferire ad altri la volontà della ragazza. Ma l’obiezione è superata dalla sentenza: viviamo in un ordinamento in cui i dubbi sono sciolti dai giudici».

La soluzione, in generale, è il testamento biologico?
«Sì perché in esso esprime una volontà deliberata e so che se perdo coscienza non potrò ritrattarla. Faccio una scelta proiettata nel futuro».

Se una legge imponesse la nutrizione artificiale, sarebbe costituzionalmente accettabile?
«Secondo me, no. Inciderebbe sulla libertà di scelta e sulla libertà personale. Violerebbe l’art. 13 della Carta».

L’art. 32 prevede che la legge possa imporre trattamenti sanitari. Sarebbe il caso delle terapie di fine vita?
«Esiste una giurisprudenza costituzionale che limita questi casi alle vaccinazioni. Si può imporre un trattamento sanitario solo se c’è un interesse della collettività».
ffantozzi@unita.it


26 gennaio 2009
da unita.it


Titolo: Delia Vaccarello. Coming out in famiglia
Inserito da: Admin - Febbraio 18, 2009, 11:07:52 am
Coming out in famiglia

di Delia Vaccarello


È meglio dire «Luca era gay» o, più onestamente, che ha amato un uomo? Se diciamo che «era» gay intendiamo dire che non lo è più. L'orientamento sessuale non si può collocare sbrigativamente nel passato. Chi lo fa vuole deformare la realtà per suggerire che l'omosessualità è una deviazione dalla retta via da accantonare il prima possibile. L'omosessualità è un modo di amare legato all'identità di un individuo che si sente completato da una persona dello stesso sesso e che con lei vuole costruire la propria vita. Al pari dell'eterosessualità non si smette come un vestito logoro, né si cura come una malattia.

Poiché dai microfoni sanremesi verrà diffusa con la canzone di Povia dal titolo «Luca era gay» una versione deformata della realtà, e migliaia di famiglie l'ascolteranno, occorre descrivere cosa succede davvero quando Luca dice: «Sono gay».
Ebbene, niente è più come prima. Quando in una famiglia diventa palese che un figlio o una figlia sono omosessuali le relazioni cambiano. I genitori sono chiamati a «ridefinirsi», a riflettere su ciò che hanno dato per scontato, i figli a cercare la forza per pensarsi fuori dalla cornice delle aspettative che fino a quel momento padri e madri hanno nutrito.

È un momento di verità, ora traumatico ora capace di innescare svelamenti a catena. Come se l'autenticità, fino a quel momento trattenuta dalla diga del non-detto, fluisse con meno intoppi e liberasse i rapporti da una buona dose di finzione. Per una persona omosessuale dire «sono lesbica, sono gay», cioè fare coming out, è fondamentale per acquisire forza e fronteggiare la violenza omofobica. A farlo è il 65 per cento dei giovani che vive in famiglia.

Lo rivela la ricerca «Family Matters», la più ampia svolta in Europa, condotta dall'Università del Piemonte Orientale, in collaborazione con diverse associazioni tra cui l'Agedo, attraverso interviste e domande rivolte a 200 familiari di giovani lesbiche e gay (tra i 14 e i 22 anni). Del restante 35 per cento si sa per una lettera o un diario «lasciati incustoditi» o perché sono altre persone a dirlo. Nel 68 per cento dei casi fratelli e sorelle sono i primi a sapere ed è con loro che i genitori iniziano ad aprirsi. Non mancano i segni premonitori, non tanto amori in corso, quanto forme di isolamento dal gruppo dei coetanei

Quando tutti lo sanno va in scena il momento clou: il passaggio dal non-detto al colloquio aperto. Le reazioni sono forti ma solo in rari casi travolgono il riconoscimento del legame: «È comunque mio figlio, resta mia figlia». La metà dei padri e delle madri si sente fallito come genitore, il 54 per cento tenta di smentire il coming out affermando: «Sei troppo giovane per dirlo». Qualcuno sbotta (il 17 per cento): «Ti hanno traviato», suggestionabilità attribuita soprattutto alle ragazze. E c'è chi (meno di un quinto) si sente sollevato: «Ah! Era questo! dunque né droga né alcol». Ma altri (un quinto circa) rifiutano, provano rabbia e vergogna.
Un altro 17 per cento cerca di patteggiare: «Almeno che non si sappia in giro». E la malattia? Il fantasma che si tratti di un comportamento da curare affiora nel 40 per cento dei genitori cattolici praticanti, frutto del capillare lavaggio del cervello in atto da qualche anno.

Il confronto è aspro, le parole possono ferire. Eppure, come una ineludibile musica di sottofondo, la rivelazione dei figli porta del bene: i genitori si sentono destinatari e custodi di ciò che i giovani hanno capito di loro stessi. Il colloquio aperto ha un sapore dolce-amaro, perché è vero che la realtà è imprevista e si annuncia dura, soprattutto per il contesto italiano in cui i ragazzi dovranno farsi strada, ma «loro ce ne hanno parlato». Si profila la sagoma di un obiettivo: «Dobbiamo ritrovarci, siamo pur sempre una famiglia, anzi una famiglia vera», dice una madre. Anche il lessico dei ricercatori - Chiara Bertone, la responsabile, e Marina Franchi - tradisce venature di ottimismo: «In queste famiglie, che si sono trovate a fronteggiare un evento di rottura di relazioni quotidiane, altrimenti largamente date per scontate e naturalizzate, sembra emergere in modo particolarmente evidente una concezione di relazioni familiari centrata sull’ideale dell’intimità che molti studiosi individuano come elemento cruciale delle recenti trasformazioni delle esperienze familiari». Dinanzi al vero che i ragazzi trovano il coraggio di mostrare, l'estraneità si sfarina. Si riducono lo sfuggirsi, gli occhi bassi, «il fastidio» per il genitore.

Resta il timore della precarietà affettiva soprattutto relativo ai figli maschi, dovuto all'ignoranza dei comportamenti dell'«omosessuale moderno» che invece cerca la stabilità; c'è il punto interrogativo sui nipoti, ma spesso è l'intelligenza dei sentimenti a vincere le barriere.

I genitori, guardando al futuro, sperano che i figli avranno una relazione di coppia (il 96 per cento), meno della metà crede che potranno sposarsi, il 19 per cento scommette che i nipoti nasceranno, e il 38 per cento dà per certo che i giovani andranno all'estero, preparandosi a una separazione dolorosa che trova motivo solo nell'arretratezza del nostro paese. «Molti di noi sono preoccupati perché in Italia c'è ancora una forte omofobia che impedisce ai propri figli di essere sereni sul lavoro e in campo affettivo», dichiara Rita De Santis, presidente Agedo che riunisce i genitori degli omosessuali (www.agedo.org). Tra i tanti dubbi, i papà e le mamme cercano risposte nel web, leggono e «purtroppo» il 39 per cento accende la tv.

Da stasera, guardando il festival, si sentiranno dire che «Luca era gay», e verrano catapultati nell'era del prima – prima della crisi, del coming out, del momento clou -, invitati a mettere lo scheletro dell'omosessualità nell'armadio e a preparare il posto a tavola per un Luca prevedibile, lontano, finto. Cari genitori, meglio aprire gli occhi, confrontarsi, riflettere. E ritrovarsi.
delia.vaccarello@tiscali.it

17 febbraio 2009
da unita.it


Titolo: Misteri d'Italia Il filo nero delle stragi
Inserito da: Admin - Marzo 17, 2009, 03:41:00 pm
Misteri d'Italia

Il filo nero delle stragi


Intervista a Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, autori di "Profondo Nero. Mattei, De Mauro, Pasolini.

Un'unica pista all'origine delle stragi di stato" (Chiarelettere).

di Roberto Vignoli


Molto è stato scritto sui casi Mattei, De Mauro e Pasolini. Ma la vostra inchiesta ha il merito di gettare una nuova luce indicando un'unica pista che legherebbe questi tre misteri d'Italia e le stragi di stato. Qual'è questa pista e come siete giunti a questa conclusione?
Sandra Rizza: Profondo nero ha l'ambizione di illuminare il buio che circonda tre casi giudiziari italiani rimasti senza risposta. Siamo partiti dall'inchiesta del pm Vincenzo Calia che ha riletto le numerose anomalie seguite alla morte di Mattei in chiave di "depistaggi", anche istituzionali.
Abbiamo trovato diversi punti di collegamento tra questi e l'insabbiamento dell'inchiesta sulla scomparsa di De Mauro, e ci siamo convinti che i due casi fossero profondamente intrecciati.
Rileggendo, infine, "Petrolio" di Pasolini, l'opera incompleta che si proponeva di ripercorrere proprio le guerre interne all'Eni per denunciare la natura criminogena del potere in Italia, ci è sembrato molto probabile che il romanzo postumo fosse un possibile movente della sua uccisione. La pista unica è la chiave di lettura univoca che contestualizza le tre vicende rimaste ancora senza una risposta giudiziaria soddisfacente. Si parte dalla morte di Mattei che persino Fanfani, molti anni dopo, definì come il "primo atto terroristico del nostro paese". Si finisce con l'uccisione di Pasolini all'Idroscalo, che Pelosi oggi sembra ricondurre per la prima volta a una matrice politica.
L'idea è che dietro la morte di Mattei vi sia un complotto tutto italiano (come l'ha definito Calia), orchestrato con la complicità di pezzi deviati degli apparati istituzionali e pronto a ricompattarsi ogni volta che, anche a distanza di molti anni, qualcuno minaccia di svelare il segreto di quella morte. Per questo sarebbe scomparso il giornalista De Mauro e per questo sarebbe morto lo scrittore Pasolini. De Mauro indagava sugli ultimi giorni di Mattei in Sicilia per conto del regista Rosi. Pasolini era ossessionato da Mattei e dal suo successore Cefis durante la stesura di "Petrolio".

Quali novità principali emergono dalla vostra ricostruzione?
Sandra Rizza: Pelosi racconta oggi per la prima volta che Pasolini fu ucciso da una squadra di cinque persone, che definisce "picchiatori" fascisti, arrivati con una macchina e una motocicletta. Secondo la sua ricostruzione, due o tre spuntarono dal buio dell'Idroscalo e si dedicarono subito al pestaggio. Gli altri due restarono a guardare il pestaggio, forse a controllare che tutto andasse come nei piani, dopo aver immobilizzato lo stesso Pelosi, che quella sera probabilmente era stato usato come esca. L'eliminazione di Pasolini, in questa nuova ricostruzione, non appare più come l'esito di una sconclusionata lite tra omosessuali, ma come un agguato studiato a tavolino e di chiaro stampo "politico", che molto probabilmente ha una matrice "eccellente". Noi abbiamo ipotizzato che questa eliminazione fosse collegata alla scrittura di "Petrolio". "Petrolio" è un romanzo importantissimo, il primo romanzo italiano che spiega la strategia della tensione, il romanzo che contiene in nuce tutte le denunce di tipo politico che poi finiranno negli articoli del Corriere della Sera e passeranno alla storia come gli "Scritti Corsari". Sono prese di posizione "estreme" e dirompenti, che nell' Italia di quegli anni dovevano suonare particolarmente scomode e intollerabili.

Nell'intervista pubblicata nel libro Pino Pelosi aggiunge elementi fino ad ora taciuti sull'assassinio di Pasolini che sembrano rafforzare la matrice politica del delitto.
Sandra Rizza: Le nuove verità di Pelosi, che oggi fa i nomi di due dei picchiatori, i fratelli Franco e Giuseppe Borsellino, entrambi morti di Aids, non fanno che confermare quella che da trentaquattro anni è la convinzione di gran parte dell'opinione pubblica italiana: e cioè che l'uccisione di Pasolini fu un delitto politico. Nel pestaggio di Ostia, Pelosi non poteva essere solo. Lo disse subito il perito Faustino Durante, illustrando in aula che lo stato del corpo di Pasolini, letteralmente massacrato di botte, non poteva assolutamente conciliarsi con l'aggressione di un'unica persona. Nella sentenza di primo grado, poi, il presidente del tribunale per i minorenni Carlo Alfredo Moro formulò l'imputazione parlando di un omicidio commesso da Pelosi con il concorso di ignoti. Questi ignoti non sono mai stati scoperti. E non sono mai stati scoperti perchè non sono mai stati cercati. Cos'è successo? Gli avvocati Calvi e Marazzita dicono chiaramente che la fretta di chiudere le indagini, in presenza di un reo confesso, impedì l'accertamento di molti indizi che furono totalmente trascurati. Marazzita oggi ricorda che subito dopo la morte di Pasolini gli arrivò una segnalazione anonima che indicava la presenza di un automobile, una Fiat, sul luogo del delitto. Marazzita segnalò immediatamente agli inquirenti alcuni elementi della targa: la città di provenienza, CT, e i primi tre numeri. Nessuno fece nulla. Oggi Pelosi dice che all'Idroscalo arrivarono un'automobile, una Fiat 1300 o 1500 e una moto, con cinque persone a bordo. E' incredibile la coincidenza...

Quanto è attendibile a vostro avviso la testimonianza di Pelosi?
Sandra Rizza: Quanto sia attendibile Pelosi, è compito della magistratura accertarlo, se ne avrà voglia. Di certo, la procura di Roma avrebbe a disposizione un eccezionale strumento di riscontro, per accertare l'attendibilità di Pelosi: la tecnologia moderna che oggi è a disposizione dell'investigazione. Si potrebbe disporre la riesumazione dei corpi dei Borsellino e fare un confronto con il materiale biologico ancora presente negli abiti di Pasolini, custoditi nel museo criminale di Roma. C'è poi un altro possibile accertamento: il maresciallo Sansone, che per primo fece il nome dei Borsellino, in un rapporto archiviato nei mesi successivi alla morte di Pasolini, parla di un quarto complice sul luogo del delitto, tale Giuseppe Mastini, detto Johnny lo zingaro, pluriomicida, tuttora vivo e detenuto. Anche lui potrebbe essere sottoposto ad accertamenti di tipo biologico.

Quanto è stata importante la lunga e rigorosa indagine condotta dal Pm Vincenzo Calia (prima del vostro libro pressochè sconosciuta all'opinione pubblica) che, per quanto conclusasi giudiziariamente con un'archiviazione, mette nero su bianco molte verità inquietanti?
Sandra Rizza: Moltissimo. Quella di Calia è davvero un'indagine illuminante, che mette insieme migliaia di documenti, perizie, interrogatori, che riscrive un pezzo di storia italiana, che segue una logica stringente, ma purtroppo non arriva a individuare i responsabili della morte di Mattei per mancanza di prove sufficienti. È curioso, ma scrivendo questo libro e partendo proprio dall’indagine di Calia, che noi abbiamo arricchito con ulteriori testimonianze, ci è sembrato di osservare alla lettera l'insegnamento che fu il testamento laico di Pasolini: "Io so... ma non ho le prove". La possibilità, cioè, per un intellettuale, ma anche per un cittadino che eserciti la propria coscienza critica, di mettere insieme fatti e circostanze, di maturare la consapevolezza del lato oscuro della storia italiana, e soprattutto di farne partecipe l'opinione pubblica.

Secondo Calia l'uccisione di Enrico Mattei porterebbe una firma italiana.
Giuseppe Lo Bianco: Nella sua ricostruzione giudiziaria che ha avuto il grande merito di riscrivere, quasi da storico, una pagina oscura di storia italiana che altrimenti sarebbe stata dimenticata, Calia ha incontrato un numero incredibile di anomalie, di atti giudiziari spariti, di esiti di commissioni ministeriali stravolte nei verbali finali, di testimoni reticenti e poi generosamente ricompensati, persino di bobine Rai manomesse per farne sparire l’audio, ma anche fatti più gravi come un altro probabile attentato aereo, ai danni di un motorista di Mattei, precipitato con il figlio pochi istanti dopo il decollo dall’aeroporto di Ciampino. Tutti fatti avvenuti in Italia che lo hanno indotto, insieme all’analisi degli interessi politico-economici e delle relazioni che ruotavano attorno all’Eni, a ritenere che, a prescindere da un intervento internazionale, da lui ritenuto poco probabile, in Italia qualcuno ben introdotto negli ambienti dell’Eni e delle istituzioni si fosse mosso per fare fuori il presidente dell’Eni, depistando le indagini successive per accertare le responsabilità.

Quali prove a sostegno di questa ipotesi?
Giuseppe Lo Bianco: Le prove giudiziarie a sostegno di questa tesi, a distanza di oltre 40 anni, spesso sono coperte da prescrizione o, in qualche caso, non sono state trovate: questo non vuol dire che tutti i documenti recuperati, che compongono un quadro coerente e attendibile, perdono il loro valore storico. Ed alla luce, appunto, di questo obbiettivo (la ricostruzione storica), pur condividendo tutti i rilievi sui depistaggi e le coperture "italiane", frutto probabilmente di legami già allora inconfessabili tra apparati di Stati diversi, guardando al ruolo operativo di certi personaggi, peraltro citati nel libro, e agli interessi contingenti del mondo del petrolio internazionale, ritengo più probabile che un input francese a difesa dell’intervento di Mattei in Algeria abbia messo in moto il meccanismo omicida. Il senso del ruolo di altri apparati è racchiuso tra depistaggi e coperture, in un vero e proprio sistema a protezione di interessi economici e politici, nell’articolo 40, libro primo, titolo terzo, del codice penale: "Non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo’’. Un articolo del codice penale che spesso spiega il ruolo omissivo di tanti apparati dello Stato nei numerosissimi misteri italiani.

Quanto all'omicidio De Mauro, appare chiarissimo dalle vostre pagine il depistaggio compiuto dai servizi per impedire che si arrivasse alla verità che sembrava a portata degli investigatori. Perchè?
Giuseppe Lo Bianco: Per impedire di individuare i responsabili della scomparsa di un giornalista che si era avvicinato moltissimo alla verità sull’incidente di Bascapè dove morì Mattei. Per soffocare una pista che avrebbe portato molto in alto, verso i vertici istituzionali citati dai testimoni ascoltati da Calia. Per evitare di riaprire un caso ormai archiviato come incidente aereo. Un caso, come ha scritto Pietro Zullino nel suo libro, con cui mezza Italia da decenni, ricatta l’altra mezza.

Chi era realmente Eugenio Cefis, che in una nota dei servizi riportata nel volume, è indicato come il vero fondatore della P2 e il "grande manovratore" del potere più oscuro?
Giuseppe Lo Bianco: Giorgio Bocca ha raccontato di avere incontrato una domenica mattina Cefis in redazione, al Giorno, a Milano, venuto a stampare personalmente alcune foto. Evidentemente non si fidava di nessuno. E del resto, foto sue in giro non se ne trovano. Cefis aveva l’ossessione della segretezza, del mistero, del silenzio. È il prototipo dell’altissimo burocrate pubblico, felpato, discreto, riservato con un nemico giurato, il comunismo, e un’unica religione: il potere, con P maiuscola. E, nel suo caso, con l’utilissimo patrimonio di rapporti atlantici cementati negli anni difficili della resistenza, sulle montagne della Val d’Ossola. Con lui alla guida di fatto dell’Eni, e poi della Montedison, si perde del tutto, a differenza di Mattei, la visione del bene comune, per lasciare il posto a una tutela di interessi di gruppo, più o meno occulti, che sarà una costante di tutta la storia italiana, fino ai giorni nostri. Su Cefis, il suo ruolo ed il suo sistema, c’è un ottimo libro di Scalfari e Turani, punto di partenza di ogni tentativo di conoscenza del personaggio.

Ancora oggi la sua figura è avvolta nel mistero e il suo ruolo nelle trame italiane poco conosciuto.
Giuseppe Lo Bianco: Probabilmente ancora oggi scontiamo l’enorme influenza di Cefis nel sistema dell’informazione italiana che ha soffocato ogni curiosità giornalistica nei suoi confronti, tranne rare e mirate eccezioni, spesso interessate: non è un caso che l’unico libro che approfondisce nel dettaglio la ramificazione delle sue società e dei suoi interessi mettendone in luce gli aspetti occulti ed illeciti sia firmato con uno pseudonimo. Nel palcoscenico della politica italiana di quegli anni, ma anche di oggi, le relazioni economiche e i loro intrecci con la politica, dovevano restare dietro le quinte, incomprensibili per i cittadini perchè scomode da raccontare nelle loro radici criminali.

Il "sistema Cefis" che descrivete nel libro - controllo dell’informazione, corruzione dei partiti, rapporti con i servizi segreti, primato del potere economico su quello politico - appare come una terribile e tragica costante della vita politica italiana, che passando dalla P2 arriva al regime berlusconiano dei nostri giorni, svuotando di fatto la democrazia del nostro paese. Esiste davvero questo filo nero?
Sandra Rizza: Esiste eccome. D'altra parte mi pare che il primato del potere economico su quello politico, e il controllo dell'informazione, nel nostro paese, siano una questione di scottante attualità. Cefis, secondo una nota dei servizi segreti, è stato il fondatore della P2. Gelli, secondo numerose testimonianze, sarebbe stato con Ortolani, il suo successore. Oggi non è un caso che Gelli, il capo della P2, l'autore del Piano di rinascita democratica, un piano eversivo per occupare pacificamente i posti di comando del paese, e assumerne il controllo politico senza spargimenti di sangue, si permetta pubblicamente di insignire Berlusconi, il capo del governo italiano, come il suo più degno erede. Il Piano di rinascita democratica oggi è in gran parte realizzato, in parte è sul punto di realizzarsi con il più volte annunciato varo della Terza Repubblica, la Repubblica Presidenziale. Berlusconi che - lo sanno tutti - è stato un membro della P2, ora apertamente annuncia di voler cambiare la Costituzione, definendola "sovietica". E' l'Italia che purtroppo oggi è cupa, non certo la nostra ricostruzione...

Indagare su Mattei, De Mauro e Pasolini è quindi in grado di illuminare il nostro presente? E' questa la motivazione che vi ha spinto a occuparvi di queste vicende dopo aver affrontato un altro terribile mistero d'Italia qual è quello della scomparsa dell'Agenda Rossa di Paolo Borsellino?
Sandra Rizza e Giuseppe Lo Bianco: Proprio questo. L'idea che quella che raccontiamo sembra una storia del passato ma non lo è. E' l'antefatto del misfatto italiano, del degrado politico e antropologico dell'Italia, che oggi abbiamo sotto i nostri occhi. Perchè dietro la morte di Mattei, De Mauro e ancor più dietro la tragica fine di Pasolini, ci sono probabilmente gli stessi poteri forti, le stesse cordate, a volte persino gli stessi attori del lugubre teatrino contemporaneo. Ci sono le stesse dinamiche di potere, le stesse manovre, ma soprattutto la stessa idea manipolatoria delle istituzioni, dell'opinione pubblica, dell'informazione, della democrazia, la stessa ideologia eversiva animata dalla solita comarca di logge, lobbies finanziarie, affezionati fan degli autoritarismi, picchiatori e fascisti, che con la complicità di pezzi deviati delle istituzioni, dal dopoguerra a oggi, hanno continuato e continuano a mestare nell'ombra e a condizionare in modo più o meno sotterraneo la politica italiana. Il loro obiettivo, oggi come ieri, è di piegare la democrazia al soddisfacimento degli enormi interessi economici del sistema criminale, e di garantirsi l’impunità assoluta per il passato e per il futuro.

Nell'Italia di questi giorni l'attacco alla magistratura e il tentativo di imbavagliare la libera stampa è sempre più forte. Cos'è che, come cronisti, vi scandalizza maggiormente?
Sandra Rizza e Giuseppe Lo Bianco: Di quello che succede oggi in Italia, in verità, ci scandalizza quasi tutto. La xenofobia, le ronde, gli attacchi alla Costituzione... tra le molte strette autoritarie che vediamo realizzarsi sotto i nostri occhi, c'è anche il tentativo di mettere il bavaglio all'informazione. Il fatto che il critico D'Orrico sul "Magazine" del Corriere della Sera abbia definito il nostro libro ‘diffamatorio‘ solo perchè abbiamo osato raccontare un pezzo di storia italiana, andando aldilà della sentenza di archiviazione, fa parte di questo sentire. In Italia oggi c'è una gran voglia di mettere a tacere i giornalisti, quei pochi che ancora possono e vogliono inseguire una verità, sia pure scomoda. Se i critici, gli opinion leader si allineano a questo ennesimo tentativo liberticida, allora dobbiamo veramente stare all'erta. Il giornalista ha un solo limite, questo sì sacro: quello che impone di offrire al lettore una ricostruzione onesta, leale, corretta. E di non travisare mai i fatti. Ma dobbiamo fare attenzione: l’idea che un giornalista non possa più riflettere e scavare su un evento oscuro che la magistratura ha archiviato, è un’idea pericolosa e assurda, che mette il silenziatore per sempre al giornalismo investigativo. Se quest’idea fosse legittima, tutta la produzione saggistica degli ultimi venti o trent’anni, sul terrorismo, sulla P2, su piazza Fontana, sulle stragi di Brescia e di Bologna, sulle bombe dei treni, sul caso Moro, su quanto è accaduto in Sicilia dal ‘91 al ‘93, in una parola sulla storia sottotraccia di questo Paese, dovrebbe essere distrutta. Tante, sono, infatti le archiviazioni che lasciano l’amaro in bocca. Tante le assoluzioni. Proprio per mancanza di prove. E poche volte, le ricostruzioni giornalistiche o quelle degli storici coincidono con le sentenze giudiziarie, che sono spesso incomplete, parziali, insoddisfacenti, specie se riguardano i potenti. Persino sulla prima strage della Repubblica italiana, quella di Portella della Ginestra, che porta la data del 1° maggio 1947, ancora oggi gli storici si dividono in almeno tre scuole di pensiero fra loro incompatibili, andando ben aldilà della verità raggiunta dalla sentenza di Viterbo, che condannò solo la manovalanza dei pastori della banda Giuliano".

Quindi anche l'informazione ha le sue responsabilità...
Sandra Rizza: È proprio per l'acquiescenza dell'informazione che l'Italia è arrivata a questo punto... è diventata un paese fascista e intollerante. I giornalisti dovrebbero smetterla di autocensurarsi e cominciare a scrivere quello che pensano veramente, senza appiattirsi sempre sulle verità ufficiali perchè queste, troppo spesso, sono il frutto di mediazioni inaccettabili, se non effetto di vera e propria propaganda politica. Un esempio a caso? L'errore giudiziario sugli stupratori della Caffarella, subito individuati con grande clamore di stampa in alcuni rumeni, poi risultati innocenti. Ecco un esempio di come la verità giudiziaria può servire la propaganda. La giustizia italiana purtroppo è stata spesso troppo timida con il potere, e la sete di giustizia che c'è nel nostro paese dipende proprio da questo. Dal fatto, cioè, che la storia sotterranea del potere italiano non è mai stata giudicata con chiarezza. Quando ho letto per la prima volta la sentenza di archiviazione del gip Lambertucci sono rimasta sorpresa: il gip demolisce l'inchiesta di Calia ma poi, come in preda a un oscuro senso di colpa, non può evitare di riconoscere i meriti del lavoro del pm che per primo ha riletto le numerose "anomalie" delle indagini su Mattei in chiave di evidenti "depistaggi". Il gip si sente quindi in dovere di citare l’autorevole voce di Carlo Ginzburg che distingue nettamente tra il lavoro del giudice e quello dello storico: il primo, vincolato dalla prova, il secondo legittimato a scavare ancora laddove le risposte fornite dalla giustizia non sono soddisfacenti. Perchè lo fa Lambertucci, se non perchè avverte che nella vicenda da lui archiviata vi sono lacune, interrogativi, sospetti lasciati senza risposta? "Uno storico ha il diritto di scorgere un problema", scrive Ginzburg, "laddove il giudice deciderebbe il non luogo a procedere". Il che significa che il mestiere dello storico (e quello del giornalista), non può essere mai assimilato a quello del giudice. Mi è sembrato che il gip quasi ci spronasse, con quella citazione, a fare di pià, che invitasse noi che non siamo vincolati dalla prova, noi che siamo giornalisti, noi che siamo i manovali della storia, a scavare ancora laddove i dubbi sono più scottanti, dove gli interrogativi sono più dolorosi. Noi abbiamo un grande rispetto per l’intelligenza del lettore. Noi crediamo di avergli dato, in "Profondo nero", tutti gli elementi utili, e di avergli consegnato pure i nostri dubbi: si faccia il lettore, con tutti gli elementi a disposizione, la sua idea sulla storia italiana, sulla giustizia italiana. Sul "sistema Cefis". E sul delitto Pasolini. È diffamatorio, questo? Ma qual è allora il mestiere del giornalista? Il cronista deve annullarsi davanti alla presunta universalità dell'atto giudiziario? Io spero che in Italia si apra un dibattito onesto sul ruolo dell'informazione. Prima che sia troppo tardi.

(16 marzo 2009)
da temi.repubblica.it


Titolo: Angelo Guglielmi. «Berlusconi ha paura di me. Non mi ha voluto in Rai perché...
Inserito da: Admin - Marzo 20, 2009, 11:48:44 am
«Berlusconi ha paura di me. Non mi ha voluto in Rai perché so fare la televisione»

di Andrea Carugati


Angelo Guglielmi, 79 anni fino al prossimo 2 aprile, risponde al telefono dal suo ufficio di palazzo d’Accursio, la sede del Comune di Bologna. La voce è pimpante, si capisce che, dopo cinque anni a Bologna, da assessore alla Cultura di Cofferati, aveva voglia di tornare a Roma in prima linea. Ci tornerà a giugno, nella Capitale, alla scadenza del mandato. Ma avrebbe voluto e potuto rientrare in anticipo, per approdare alla guida della sua amata Rai.

Fu lui l’inventore e il direttore della Rai Tre degli anni d’oro, tra il 1987 e il 1994, che partorì programmi come Quelli che il calcio, Avanzi, Samarcanda, Blob, Chi l’ha visto? e Un giorno in pretura. Ma il premier ha messo il veto sul suo nome. «Quando ho ricevuto la telefonata di Franceschini, lo scorso fine settimana, gliel’ho detto subito: “Io presidente della Rai? Sono lusingato, ma vedrai che non si farà...”. Poi ho cominciato a ragionarci sopra, e non sono riuscito a trovare nessun motivo ragionevole per cui il Berlusca avrebbe dovuto dire di no. Proprio nessuna. E allora ho iniziato cautamente a pensarci. Ma dentro di me restava una certezza: diranno di no».
Berlusconi avrebbe detto che lei è troppo avanti con gli anni...
«Franceschini gli ha risposto con prontezza: ha pochi anni in meno di Guglielmi, dunque non ha alcuna legittimità per tirare in ballo questo argomento. Io ne ho ancora 79, lui va per i 74. E poi non capisco: mi ha fatto la corte per anni perché passassi a dirigere una rete Mediaset...».

Racconti tutta la storia.
«Era il ‘92-’93. Mi ricordo una sera a casa di Costanzo, c’erano Confalonieri, Galliani, Dell’Utri. Scoprii che in realtà avrei avuto meno soldi a disposizione rispetto al budget della Rai, circa 50 miliardi contro 100. E allora dissi di no. Ma loro erano stati molto disponibili: avevo chiesto che con me si trasferisse praticamente l’intera Rete 3, e loro non fecero obiezioni. Loro volevano che guidassi Rete 4, che era in difficoltà, e noi rilanciammo con Italia 1. Anche lì non ci furono problemi. Mi ricordo che tra i più accesi sostenitori del mio passaggio a Mediaset c’erano Giorgio Gori e Mentana, che è stato appena cacciato...».

E allora perché non l’hanno voluta alla guida della Rai?
«Sto ancora cercando di capirlo, chissà, forse il no arriva da Tremonti. Ma un’idea ce l’ho: sarei stato l’unico, tra i nuovi vertici, ad avere una certa esperienza di televisione. Compreso il nuovo direttore generale in pectore, Mauro Masi, che finora si è occupato di tv solo come spettatore. Il centrodestra ha comunque una maggioranza bulgara: 5 consiglieri contro 3, di cui uno dell’Udc, che si muove secondo logiche proprie. Ecco, credo che abbiano avuto paura di un mio giudizio di merito, competente, sulle proposte al vaglio del Cda. Con quella maggioranza sono in grado di far passare anche la monnezza, ma io ho un naso in grado di fiutare certi odori...».

Forse l’hanno considerata bravo abbastanza per Mediaset, troppo per la Rai, che in fondo è il principale concorrente...
«Io avrei svolto un ruolo di minoranza, ma avrei potuto tirare fuori qualche argomento difficilmente contestabile. Altre motivazioni non ne trovo: se qualcuno me ne volesse suggerire, ne sarei felice».

Berlusconi ripete sempre di sentirsi 35 anni. Ecco che allora i suoi 79 appaiono tantissimi di più...
«È solo una battuta. Ma se la mettiamo su questo piano, allora io ne ho 40, sempre cinque di più. E poi scusi: si è parlato di spostare Zavoli dalla Vigilanza alla Rai, dunque l’età è una motivazione del tutto pretestuosa...».

Ha visto che il Pd non intende fare nuovi nomi dopo il suo?
«Ho visto. E allora delle due l’una: o il centrodestra si inventa un nuovo Villari, e temo che non sarebbe difficile trovarlo, oppure basta che Tremonti indichi il suo consigliere Petroni. A quel punto il Cda è in grado di funzionare, con la guida del consigliere più anziano. Che è uno di An».

Guglielmo Rositani.
«Esatto. L’altra volta, nel 2005, andò proprio così. Non si trovò l’accordo su nessun nome, e allora il Cda fu guidato per tre mesi da Sandro Curzi, il più anziano. Sandro mi disse che in quei mesi ogni tanto Berlusconi gli telefonava: “Perché sollecitate la nomina? Sei tu il presidente, approfittane...”».

Pensa che abbia pesato il suo essere stato sempre schierato a sinistra?
«Mi pare che la legge preveda che il presidente della Rai sia indicato dall’opposizione. Ma rispondo volentieri a Gasparri che mi ha accusato di essere un lottizzato. Ci fu una riunione tra Craxi, De Mita e Veltroni in cui decisero di includere il Pci nella gestione della Rai. Veltroni scelse me, che pure non ero mai stato iscritto al partito, né mai lo sono stato. Ho sempre votato per il Pci, ma con distanza. Ai tempi del “Gruppo 63” eravamo molto polemici, lontani dai realismi dei Guttuso e dei Pratolini. Pensavamo che il partito non fosse attrezzato per discutere di letteratura e creatività, escludevamo che la politica avesse l’ultima parola».

Veltroni l’ha sentito in questi giorni?
«No, assolutamente. Lui ha davvero passato la mano, ma Franceschini mi ha assicurato che la proposta aveva il consenso di tutto il partito».

Torniamo a quando Veltroni la scelse per la guida di Raitre.
«Lui era il responsabile Stampa e propaganda, quindi della tv. Aveva voglia di nominare un esterno, non pensava che gestire una rete volesse dire assumere segretarie e attrici e fare posto ai produttori amici, come andava di moda allora, soprattutto a Rai2. Non mi ha mai chiesto cose del genere. Ha capito che doveva puntare sulla qualità dell’offerta, perché ne avrebbe ricavato maggiori vantaggi. E infatti il riconoscimento fu unanime. E disturbò molto le altre reti, soprattutto Rai2: ricordo che Craxi pretese che Giuliano Ferrara passasse da Rai3 a Rai2».

Che giudizio dà della Rai di oggi?
«Non spetta a me dirlo, è sotto gli occhi di tutti: totalmente schiacciata su Mediaset, commerciale».

Ma lei cosa avrebbe fatto?
«Avrei cominciato a pensarci solo dopo la nomina. Non mi piace sognare anzitempo. Avrei avuto le carte per dare alla minoranza un ruolo critico, di controllo e di qualità. Le minoranze fanno questo: contenimento, denuncia, e talvolta, qualche correzione».

Come finirà la partita Rai?
«Come nel 2005, con il consigliere anziano».

E un’intesa Pd-Berlusconi su un nuovo nome?
«Mi sembra complicato, a questo punto».

Nel 2005 Petruccioli incontrò Berlusconi prima della nomina. Lei gli avrebbe fatto visita?
«Non avrei avuto problemi. Come capo della maggioranza, sarebbe stato suo diritto e suo dovere parlare con il presidente della Rai e fare le sue raccomandazioni».

Dai primi anni Novanta vi siete più incontrati?
«No, non più».

Lei cosa farà dopo l’esperienza a Bologna?
«Tornerò a Roma, per occuparmi più intensamente del mio secondo mestiere, la letteratura e la critica. E se mai dovesse arrivare una proposta all’improvviso...».
acarugati@unita.it


19 marzo 2009
da unita.it


Titolo: Simone Veil riapre la polemica su «La vita è bella».
Inserito da: Admin - Marzo 24, 2009, 10:44:48 am
Le critiche dell'ex presidente del parlamento ue, sopravvissuta ad auschwitz

«Benigni non meritava l'Oscar»

Simone Veil riapre la polemica su «La vita è bella».

E attacca anche Spielberg
 

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE

BERLINO — E' una scia lunga, chissà quando finirà, quella che Roberto Benigni ha alzato più di dieci anni fa con La vita è bella. Mettere al cinema l'Olocausto è difficile. Solleva onde, passioni, memorie. E si porta dietro le stroncature. L'ultima, forse la più netta e forse anche la più dolorosa per il film che vinse l'Oscar nel 1999, arriva più di dieci anni dopo. In un'intervista a un quotidiano tedesco, Simone Veil, figura politica e morale europea di primo piano, ha detto che l'opera è «assolutamente scadente», non meritava il Premio.

La signora Veil è un'intellettuale-politica francese di 81 anni che ha attraversato la storia della seconda guerra mondiale e del dopoguerra sempre esposta, nel cuore degli avvenimenti che lo volesse o meno. Una delle prime donne europee a diventare ministro, con Valéry Giscard d'Estaign all'Eliseo, grande sostenitrice dell'introduzione di una legge che consentisse l'aborto in Francia, poi presidente del primo parlamento europeo eletto a suffragio universale nel 1979, accademica di Francia. Soprattutto, internata da ragazzina nel campo nazista di Auschwitz con una parte della famiglia: maniche lunghe, ai polsi, per anni, per tentare almeno di non ricordare in ogni momento il numero 78651.

Alla signora Veil è stato ieri assegnato il premio giornalistico franco-tedesco per il suo contributo alla riconciliazione tra Francia e Germania. Nell'occasione, ha dato un'intervista al quotidiano berlinese Der Tagesspiegel. A un certo punto dice che qualcuno le ha da poco parlato di La vita è bella, di Benigni. Il giornalista ricorda che si trattava di un film con un padre e un figlio in un campo di concentramento e che il padre cercava di rendere tutto un gioco. Vinse un Oscar, aggiunge. «Sbagliato — reagisce la signora Veil — E' un film assolutamente scadente. La storia non ha alcun senso. Non mi è piaciuto nemmeno Schindler's List. Queste sono favole cinematografiche. La gente farebbe meglio a guardare Holocaust, la storia della famiglia di un medico ebreo. Il film è piuttosto americano, ma almeno la storia non è velata».

Non è che Simone Veil sia rigida su tutto ciò che riguarda il ricordo dell'Olocausto. Per esempio, nella stessa intervista sostiene che il Memoriale alla Shoah di Berlino è meraviglioso e il fatto che i ragazzi e le famiglie ci facciano talvolta il pic-nic è «una forma di normalità». Normalità che, evidentemente, non ha invece trovato giustificata nell'interpretazione che Benigni dette della vita nei campi di concentramento.

Il film aveva fatto molto discutere già alla fine degli Anni Novanta, quando uscì nelle sale e poi vinse l'Oscar. Le polemiche tra gli entusiasti — «è un nuovo Chaplin» — e i critici — «è un film mafioso perché nessuno potrà criticarlo» — andarono avanti per molto tempo. Giuliano Ferrara, sul Foglio, fece una campagna contro la beatificazione artistica e ideologica di Benigni e propose forme di boicottaggio. L'artista-scrittore Moni Ovadia elesse Benigni «yiddish onorario». Il regista Steven Spielberg in pubblico ne parlò bene ma, pare, che vedendo il film volesse uscire prima della fine. Tullia Zevi disse che era un'opera piena di buona fede e buone intenzioni ma sperava che non avesse imitatori che edulcorassero la massima tragedia del Novecento.

Parlare di Olocausto al cinema è, in effetti, un rischio oppure, secondo altri, un'operazione commerciale che, dieci anni dopo l'Oscar di Benigni, solleva altre onde. Il recente The Reader, con Kate Winslet, è per esempio stato giudicato da Ron Rosenbaum, un esperto di nazismo e di Hitler, «il peggior film sull'Olocausto mai realizzato». E una serie di organizzazioni ebraiche in Germania vede nel numero crescente di film sulla Shoah un fenomeno penosamente commerciale. Che non è la critica della signora Veil a Benigni ma è una tendenza che solleva un dubbio: visto che sul tema si vincono premi Oscar, perché non provarci?


Danilo Taino

24 marzo 2009
da corriere.it


Titolo: La televisione e la guerra dei trent'anni
Inserito da: Admin - Marzo 24, 2009, 11:04:15 pm
La televisione e la guerra dei trent'anni

di Vincenzo Vita


La guerra dei trent’anni. Tanto è durata (e non è ancora finita) la vicenda della concentrazione tv in Italia. Ne ha parlato domenica una bella puntata di Report. Severo il giudizio: tanti, troppi colpevoli, a cominciare dal tentacolare partito di Mediaset. Il centrosinistra incerto ed oscillante. Si parte dalla metà degli anni 70, quando il far west dell’etere non aveva una regolamentazione decente, per passare agli anni 80 quando si giocò un pezzo rilevante della storia politica italiana. Intorno, il Re Media Berlusconi.

La sua resistibile ascesa ebbe il primo suggello nei “decreti Berlusconi” dettati da Craxi in aereo da Londra che “sanarono” la plateale illegalità dell’interconnessione nazionale delle tv del Biscione, visto che nel ’76 la Corte Costituzionale dichiarò legittime le emissioni private ma solo nell’ambito locale. Quel “federalismo radiotelevisivo” fu sbugiardato dalla Fininvest, che iniziò la sua trionfale marcia su Roma. Contro il primo decreto Berlusconi passò nella Camera dei deputati la pregiudiziale di incostituzionalità presentata dal Pci e dalla Sinistra indipendente. Ma il testo fu reiterato ugualmente. E poi la legge Mammì, il piano delle frequenze finito alla magistratura, i provvedimenti finalizzati a reggere bordone a un edificio duopolistico (Rai e Mediaset). La tv in Italia si fece persino partito, con Forza Italia, segnando il quadro istituzionale con un conflitto di interessi tale da piegare la politica all’estremismo proprietario di un imprenditore: Berlusconi e il suo doppio Confalonieri.

E il centrosinistra? Nel 1997, con la legge 249, riuscì a portare a conclusione la prima riforma degna di questo nome. Si liberalizzarono le telecomunicazioni, si recepirono le direttive europee, si costruì l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, si misero le griglie antitrust. A rigore nessun privato poteva avere più di due reti nazionali. Ma la storia non è a lieto fine. La legge si sbloccò in parlamento con un compromesso linguistico. La rete “eccedente” sarebbe stata trasferita sul satellite quando lo sviluppo delle parabole fosse stato “congruo”, parola velenosa che divenne sinonimo di eterno. Berlusconi rivince nel 2001. Arriva la legge Gasparri, che straccia la sentenza del 2003, finendo sotto il mirino della Corte di giustizia che condanna l’Italia per uso improprio delle frequenze nel passaggio al digitale. Quest’ultimo diventa l’ennesimo regalo al trust. Rimane a bagnomaria Europa 7, cui furono date le concessioni, ma non le frequenze.

Qual è la morale? Che nei momenti importanti non ci fu un movimento reale e chi si battè rimase solo. Furono commessi peccati, certo, ma il più grosso riguarda non aver capito che la tv commerciale stava cambiando rapporti di potere e modelli culturali. Stava cambiando l’Italia.

24 marzo 2009
da unita.it


Titolo: Tutto quello che avreste voluto sapere sul G20 e non avete mai osato chiedere
Inserito da: Admin - Aprile 02, 2009, 07:36:04 pm
Tutto quello che avreste voluto sapere sul G20 e non avete mai osato chiedere

di Natàlia Rodrígues

1. Perché G20?
In realtà sono più di 20 Paesi. I veri membri del G20 sono: Argentina, Australia, Brasile, Canda, Cina, Franca, Regno Unito, Germania, India, Indonesia, Italia, Giappone, Messico, Russia, Arabia Saudita, Corea del Sud, Turchia, gli Stati Uniti è chiunque sia il presidente dell'Ue. A questi dobbiamo aggiungere la Spagna, l'Olanda, l'Ansean, l'Unione Africana e il presidente della Commissione Europea. Da non dimenticare il presidente della Banca Mondiale, del Fondo Monetario Internazionale, e il Segretario dell'Onu. In realtà, stiamo parlando del G29, ma G20 o G29 forse sono troppi a parlarci...

2. Perché la Spagna e non la Grecia?
Perché la Grecia non era a Washington l'anno scorso e la Spagna sì. Le cose nel mondo della politica internazionale sono così: una volta che qualcuno ti invita a una riunione, sei invitato per sempre.

3. Quante “grandi G” ci sono nel mondo?
Tanti.. Il più importante è il G8 (in realtà il G7, cioè i paesi più ricchi al mondo, più la Russia). Poi c'è il G77, che sono i paesi più poveri. Tutti i “grandi G” si organizzano per difendere i propri interessi (normalmente commerciali). Gli analisti comunque considerano che ne esista uno solo: il "G2", gli Stati Uniti e la Cina... questo G2 è quello che veramente fa girare il mondo.

4. Chi sono le star di questo G20?
Barack Obama, Nicolas Sarkozy, Angela Merkel, Gordon Brown, Hu Jintao, i russi (in realtà solo Vladimir Putin è importante). E i giapponesi perché la loro crisi economica dura da molto più tempo e l'esperienza conta tanto.

5. Ma chi conta veramente?
Il Brasile, perché è il futuro, l'India perché anche con gli enormi problemi sociali che ha è la superpotenza del XXIesimo secolo ed è un paese democratico con stampa libera. La Cina perché è ormai il banchiere del mondo (l'economia americana è praticamente finanziata da loro, perché la maggior parte delle obbligazioni sono in mani del governo cinese), e l'Arabia Saudita perché le automobili hanno bisogno di petrolio e gas.

6. Chi sta solo per l'aperitivo?
Argentina, Spagna, Olanda, la Commissione Europea, l'Italia, e cosi via...

7. Perché sono importanti gli ochhiali da sole per i servizi segreti Usa?
Perché il sole fa male agli occhi... questa è la spiegazione ufficiale. In realtà, perché così non sappiamo chi stanno guardando. Non è vero che i servizi speciali vogliono nascondersi da tutti, ma il contrario. Questi uomini vestiti uguali, tutti di nero, con gli stessi occhiali e lo stesso taglio di capelli sono l'accessorio più riconoscibile di un presidente degli Stati Uniti.

8. Quanti viaggiano con Obama?
Tutto l'“Air Force One” è pieno di gente. La sua palestra è piena di gente. Con Obama viaggiano almeno 500 persone con tutti i loro gadget. Cioè: appena arrivato all'aeroporto di Stansted, Obama prende l'elicottero presidenziale, il “Marine One” per poi prendere l'auto presidenziale, la “Cadillac One”, tutti con un sistema antimissile e bombe. Reggie Love, il suo assistente personale è il responsabile con cui Obama potrà giocare a pallacanestro ogni mattina.

9. Lo chiamavano il “Rinnegato”
Questo è il nome in codice di Obama: Renegade. Anche noi ci chiediamo se l'influenza di Hollywood non sia troppa in quest'amministrazione. Ma la spiegazione per questo soprannome è un'altra. I “Renegados” sono quei Cristiani convertiti all'Islam nella Spagna medievale... no comment! Anche il resto della famiglia ha un nome in codice: Michelle ha “Renaissance”, Malia per “Radiance” e Sasha per “Rosebud”.

10. Cosa cucinerà lo “Chef nudo” per gli ospiti?
James Olivier è un cuoco famoso per il suo show televisivo (“the naked Chef”: “il cuoco nudo”). Non si sa bene cosa cucinerà domani sera, ma nel suo sito web promette una “cucina responsabile e non cara”, cioè Fish and Chips...

11. Dove possiamo protestare?
Erano previste e ci sono state manifestazioni per tutta la città di Londra. Qui come per il detto di Maometto e la montagna, non hai bisogno di cercare dove andare, la protesta verrà direttamente da te.

12. Chi decide il luogo della cena ufficiale?
Se chiedete a Downing Street, risponderanno al Foreign Office, il ministro degli Esteri. Se chiedete al Foreign Office diranno a Downing Street, sede del primo ministro Gordon Brown. Non si sa bene perché i segreti del protocollo sono come quelli del Vaticano. Sicuramente l'ordine alfabetico è un'ipotesi di scelta. Ma l'unica cosa importante è dove siederà Silvio Berlusconi. Lui da solo può essere una arma di distruzione di massa per il protocollo diplomatico...

13. E i regali?
I “goodie bag”: è questa la borsa dei souvenir per tutti i capi di Stato e di governo. Ecco il suo contenuto, uguale per tutti: una cravatta, una candela e cioccolato. Per chi che non usa la cravatta (è il caso di Angela Merkel o Cristina Fernandez Kirschner) non c'è alternativa...

14. Le mogli
L' unica vera novità è che Carla Bruni non c'è. L'incontro tra Michelle e Carla non può accedere in suolo britannico. Allora francamente l'interesse per questo vertice cala veramente giù del 90%. Non si sa se Veronica Lario accompagnerà Silvio. E non possiamo sperare niente strepitoso dalla moglie di Hu Jintao, Liu Yongqing, che non ha mai parlato in pubblico. Svetlana Medvedev è molto timida e la moglie del re dell'Arabia Saudita rischia la lapidazione se dice una sola parola al microfono.

15. Carla Bruni in pericolo
Non è vero, ma fare speculazioni è parte del nostro lavoro. Senza la Bruni chi ci farà la cronaca rosa? Guardate bene Sonsoles Espinosa, la moglie di José Luis Rodriguez Zapatero. È alta, occhi azzurri e cappelli corti. La sua consigliere per il look è Elena Benarrcoh che è anche consigliere di Pedro Almodovar e Miguel Bosé. I suoi gioielli sono disegnati da Felipe Gonzalez (grosse pietre d'ambra millenaria). Sonsoles anche è cantante, nel coro della televisione spagnola. Certo, la moglie di Zapatero non ha mai sfilato nuda a Parigi, ma può fare di meglio per essere “la Bruni del G20”.

16. Quanto ci costa?
I sudditi britannici dovranno pagare una somma di 20 milioni di sterline per questo vertice. Sono molti soldi, ma pensate che cosa hanno dovuto fare quelli del vertice G8 in Giappone per spendere 285 milioni di dollari l'anno scorso...


02 aprile 2009
da unita.it


Titolo: Isabella Bossi Fedrigotti. I nostri figli senza maestri
Inserito da: Admin - Aprile 30, 2009, 10:16:07 am
I RAGAZZI E I SILENZI DEGLI ADULTI

I nostri figli senza maestri


di Isabella Bossi Fedrigotti


Della politica, di ogni suo minimo sussulto, controversia o screzio, si discute per giorni, si ragiona, si polemizza. Dei giovani e giovanissimi, dei loro problemi, dei loro allarmi, della loro violenza, dei terrificanti crimini che riescono a commettere quando ancora, almeno in teoria, devono rispettare l’orario di rientro dettato dai genitori, dopo un momentaneo commento incredulo e sbigottito, si tende, invece, a tacere. E così gli accoltellamenti, le rapine, le aggressioni, gli stupri di gruppo, gli assassini per opera di adolescenti o poco più transitano veloci, giorno dopo giorno, negli spazi delle cronache nere senza che ci prendiamo la briga di riflettere davvero su cosa sta succedendo nella nostra società. Di loro, dei ragazzi, quando li arrestano, si coglie per lo più la freddezza e l’indifferenza, non solo per le vittime ma anche per i propri cari e il proprio destino, quasi che qualsiasi cosa—compreso il carcere — fosse preferibile all’insopportabile noia che li affligge. E sembra specchiarsi, quest’indifferenza, nel loro abbigliamento, sempre uguale, jeans, scarpe sportive e felpa, del tutto indifferente a diversi luoghi e occasioni: casa, scuola, lavoro, pub, sport oppure discoteca.

Vanno e rubano, vanno e accoltellano, vanno e dan fuoco a un barbone, vanno e uccidono un compagno di scorribande, quasi sempre in gruppo, per farsi forza, naturalmente, perché da soli forse non oserebbero; e noi ce la sbrighiamo parlando di «fenomeno delle baby gang», come se il termine straniero minimizzasse la tragicità dei fatti. Ma da dove vengono e chi sono questi alieni crudeli e indifferenti? Da case normali per lo più; anche dal degrado, dalla miseria e dall’emarginazione, ma altrettanto, da case belle, quartieri buoni e famiglie per bene. Potrebbero essere figli di tutti noi, incappati per insicurezza, per solitudine, per noia nell’amico più forte, nel gruppo sbagliato; e si sa che il gruppo ormai conta più della famiglia, per il semplice fatto che la famiglia, nonostante il gran parlare che se ne fa, è oggi più debole che mai. Oltre a essere spesso dimezzata, per cui i ragazzi sono privi della costante ed equilibrante presenza di entrambi i genitori, non è più come un tempo affiancata e sostenuta nel suo magistero dagli insegnanti e da altre figure di educatori come, per esempio, i parroci, per ragioni che a volte risalgono paradossalmente proprio alla famiglia.

Se, infatti, padri e madri—come spesso succede — prendono sistematicamente le parti dei figli contro maestri e professori, è difficile che si crei quell’alleanza di intenti preziosa per l’educazione. E rinunciare a qualsiasi forma di istruzione religiosa è, ovviamente, una scelta rispettabilissima che però priva la famiglia di un supporto non indifferente. Moltissimi sono naturalmente i padri e le madri forti abbastanza per farcela da soli a insegnare ai figli cos’è bene e cos’è male, ma molti sono anche quelli che, invece, non ce la fanno. Ma c’è dell’altro, ed è la profondissima infelicità dei giovani. Perché è certo che sono infelici, lo gridano dietro i loro indecifrabili silenzi, che non sempre riflettono soltanto il comodo, rilassante oppure stanco silenzio degli adulti. È un’infelicità chiusa e senza desideri, peraltro, secondo il geniale titolo del romanzo di Peter Handke, perché non può esserci desiderio dove non c’è speranza.

Ecco, quel che atterra i nostri figli, quel che toglie loro qualsiasi energia positiva, quel che li rende tetri e annoiati e, dunque, disponibili alle trasgressioni più atroci, è la mancanza di speranze condivise. Speranze che molto prima di essere di natura economica sono di natura ideale, nutrimento e carburante indispensabile per i giovani. Anche per noi adulti, ovviamente, perché l’uomo non può vivere senza aspettarsi per domani una sia pur minuscola luce, ma in modo molto meno assoluto e radicale, perché abbiamo ormai imparato bene a difenderci dal vuoto. Speranze —condivise — che una volta riguardavano la politica, per esempio, oppure la religione o la cultura e che adesso, mediamente, s’innalzano fino ai successi della squadra di calcio del cuore o al sogno di finire in tv oppure alla conquista di un certo tipo di abbigliamento firmato e uniforme. Poveri ragazzi, viene da dire, però è questo il piatto che abbiamo preparato per loro, gli esempi che abbiamo fornito, i modelli che abbiamo fabbricato. Ed è un serpente che si morde la coda perché se famiglia, scuola e istituzioni varie oggi si rivelano così deboli, così inascoltate e incapaci di educare è anche perché per prime sembrano aver smarrito nel tempo le ragioni forti del loro essere. I maestri, insomma, i tanto invocati maestri grandemente scarseggiano perché non credono più al loro magistero.

30 aprile 2009

da corriere.it


Titolo: Mazzotta: "Non è più una Repubblica Domina la tv, ma il Cavaliere è il migliore
Inserito da: Admin - Maggio 01, 2009, 12:38:20 pm
I ricordi e l’analisi (amara) dell’ex banchiere ed ex vicesegretario dc

Mazzotta: "Non è più una Repubblica Domina la tv, ma il Cavaliere è il migliore "

«Milano ha perso l’establishment e rischia di non avere futuro»



Roberto Mazzotta, vicesegretario della Dc, presidente della Cariplo, fino alla settimana scorsa della Popolare di Milano, è a Roma di passaggio.
Ha staccato i telefonini. Lo attendo­no le terme. L’occasione per riflettere su una vicenda, la sua, al centro della politica e del­l’economia degli ultimi quarant’anni.

Presidente Mazzotta, nei Diari di Monta­nelli lei è citato spesso come interlocutore privilegiato dentro la Dc. Parlavate di oppo­sizione a Moro e al compromesso storico, di un nuovo partito...

«Era il 1976. Da due anni ero al governo co­me sottosegretario di Albertino Marcora: il mi­nistro che stava modernizzando l’Agricoltura; e il leader della sinistra Dc».

Com’era Marcora?

«Grande schiettezza. Mente da imprendito­re. Leader di organizzazione più che leader po­litico. Mi costò dirgli che non ero d’accordo con lui sulla solidarietà nazionale, e quindi mi dimettevo. Il dialogo con il Pci era giusto; ma la consociazione bloccava sia noi sia loro. Un errore per la democrazia».

E Marcora?

«Mi chiese se ero ammattito. Era molto ar­rabbiato. Ma al momento di salutarlo gli dissi: 'Di’ la verità, tu la pensi come me'. 'Tu sei gio­vane, e lo puoi fare' fu la risposta. Poi mi can­didai contro di lui al congresso milanese della Dc. Finimmo a casa di sua madre, che ci prepa­rò lo stracotto, a contare le sezioni in cui ave­va vinto lui e quelle in cui avevo vinto io».

Vinse lei. Da qui le attenzioni di Montanel­li. Come lo ricorda?

«Molto diverso da come appariva. Dietro le battute scettiche e l’apparente relativismo, na­scondeva una grande passione e anche una profonda fede in quell’Italia che in pubblico biasimava. Gli chiedevo spesso perché non en­trasse in politica».

E Montanelli?

«Rispondeva che per fare politica occorro­no persone con tanti difetti. E che lui da una parte ne aveva molti di più, ma dall’altra par­te, quella che contava, molti di meno».

Il suo gruppo si infranse contro la resi­stenza di Moro.

«Ricevette Mario Segni, Gerardo Bianco e me nel suo ufficetto romano. Ci lasciò parlare a lungo. Poi disse: 'Vi capisco, fossi in voi fa­rei le stesse cose. Ma dovete darmi retta. Non avete idea dei pericoli che ci sovrastano'».

Anche l’incontro con Berlusconi è del ’76?

«No, Berlusconi lo conosco dal ’70. Stava fa­cendo Milano2, che resta il miglior esempio di urbanistica del dopoguerra. Era un impren­ditore pieno di idee, con cui nacque un’amici­zia. Non mi ha mai chiesto nulla. Io invece gli chiesi un aiuto per le elezioni del ’76: 'A Mila­no2 sono tutti democristiani, mi organizzi una serata?'. 'Ti offro di meglio: vieni tutte le mattine che vuoi, alla nostra tv via cavo. C’è un presentatore che propone diete alle signo­re. Sarà felice di intervistarti'. La tv si chiama­va Canale 5».

Vi parlaste anche al momento della disce­sa in campo?

«Sì. Fu lui a cercarmi. Con la morte nel cuo­re, gli dissi che avrebbe dovuto allearsi con la Lega, cui il fallimento della Dc aveva spalanca­to le ricche valli lombarde».

Come giudica il Berlusconi premier?

«Non sono un sostenitore della Seconda Re­pubblica, che preferisco chiamare Non-Re­pubblica, in cui il rapporto con i cittadini non è intermediato dai partiti, dalle istituzioni, dal­le forze sociali, ma dalla tv. Se Non-Repubbli­ca dev’essere, meglio Berlusconi di altri»

Meglio Berlusconi di Prodi?

«Anche con Prodi il rapporto dura da una vita, ed è un buon rapporto. Quando eravamo giovani lui era il consulente della Dc, ma ama­va sottolineare di non appartenere alla Dc stes­sa. Un vezzo che non mi piaceva».

E il Prodi politico?

«Nella condizione innaturale, non italiana, del bipartitismo, la strategia di Prodi — aggre­gare un’area vasta progressista — è più razio­nale di quella di Veltroni»

Della Dc lei fu vicesegretario unico, con De Mita.

«Mi candidai contro di lui, ma non avevo le firme. Mi chiama Donat-Cattin: 'Sei un folle, la tua è una pura provocazione, ma se vuoi le firme per candidarti contro De Mita te le do io'. Dovetti rinunciare comunque. Ma De Mi­ta comprese che, se non avevo consenso nel­l’apparato, ne avevo nell’elettorato. Volevo una Dc più attenta al Nord, all’economia, al mercato, alle imprese. Capace di rappresenta­re i ceti popolari, e di essere l’interlocutore dell’establishment, che considerava la Dc un accidente di cui sarebbe stato meglio fare a meno».

De Mita era l’uomo giusto?

«De Mita era convinto di queste cose ma non poteva esplicitarle. Da vice, io ero più libe­ro. Lui mi definiva il suo consulente economi­co perché, diceva, non capiva nulla di econo­mia. Ovviamente, lo diceva per scherzo: De Mita non ha mai accettato di non capire qual­cosa di questo mondo».

Poi arrivò la sconfitta dell’83. La Dc perse sei punti. E lei cambiò mestiere. Le banche. La presidenza della Cariplo.

«Peggiore della sconfitta fu la reazione del­la Dc. Fort Alamo. Si rinunciò all’offensiva, ci si rassegnò alla difesa e alla lenta perdita delle posizioni di potere. Io divenni capo dell’uffi­cio economico. Con Nino Andreatta, uomo straordinario, concepimmo quella che sareb­be diventata la legge Amato: privatizzare il si­stema bancario; l’ente conferente, che poi sa­rebbe stato chiamato fondazione, apporta le sue azioni a una spa, e gradualmente cede il controllo della banca, che resta però una ban­ca del territorio. Pensavamo anche a una hol­ding nazionale, dove le fondazioni potessero concentrare le loro partecipazioni nelle spa lo­cali. Una sorta di Crédit Agricole italiano».

La«sua»Cariplo.

«Cominciammo a comprare casse di rispar­mio, a litigare con chi non ne voleva sapere, a tranquillizzare Verona e Torino terrorizzate dai milanesi alle porte, a convincere gli scetti­ci che si trattava di un progetto civile. Erava­mo in una fase avanzata: avevamo 15 casse di risparmio, il governo Amato aveva preso una decisione che poi non ebbe seguito, conferire a noi e all’Iccri (l’Istituto centrale delle casse di risparmio) il 50% dell’Imi, allora sotto il controllo pubblico. Eravamo a un passo dal creare un grande gruppo, tutto italiano, forte su ogni versante: la banca di territorio; il credi­to industriale; il credito a medio termine. Poi...».

Poi Di Pietro chiede il suo arresto.

«Ero a Londra, per una riunione con le cas­se di risparmio inglesi. Mi telefona alle 6 del mattino mio figlio, allora diciottenne, terroriz­zato: 'È appena uscita di casa la guardia di fi­nanza'. Rimasi traumatizzato tre o quattro giorni. Poi rientrai. E mi dimisi a razzo da tut­te le cariche».

Come fu con lei Di Pietro?

«Non mi faccia parlare di Di Pietro. A me fu riservato tutto il peggio. Le dirò solo questo: fu un’operazione di cui sono chiari i motivi, la tempistica, gli effetti. Il regime mi condannò al confino per sei anni. Tanti ne passarono pri­ma che arrivasse l’assoluzione per non aver commesso il fatto. Sei anni di vita professiona­le bruciati, in un momento non casuale».

Lei ricominciò dalla Popolare di Milano. Una storia che oggi finisce.

«Si era dimesso per ragioni personali il vice­presidente Boroli, fui chiamato a sostituirlo. Oggi provo gratitudine per la Banca popolare di Milano e per i sindacati che mi offrirono quella possibilità. Avrei voluto che la Popola­re potesse crescere al fianco di un sindacato consapevole del proprio prezioso ruolo: asse­condare la crescita della Banca, non condizio­narne la gestione. Invece è prevalsa una volon­tà conservatrice, che ha portato alla rottura della collaborazione. Non però a una rottura dei rapporti personali».

Neppure con Ponzellini? Come si è com­portato

«Ponzellini si è comportato benissimo. Pe­rò, se fossi stato in lui, non mi sarei mai pre­stato a porsi in alternativa a me, mentre ero impegnato a riportare il sindacato alla sua giu­sta funzione: rappresentare i lavoratori, non gestirli».

Il governo è intervenuto?

«Quasi tutti quelli che non sarebbero dovu­ti intervenire sono intervenuti».

E nella crisi il governo come si muove?

«Bene, in linea con gli altri governi europei. Il problema è che si danno risposte nazionali a una crisi globale. Di conseguenza, la reces­sione durerà ancora a lungo».

Come trova la Milano di oggi?

«Ha perso un establishment e non è ancora riuscita a sostituirlo con uno nuovo. Ha il pro­blema dell’adeguamento istituzionale: senza un governo metropolitano, Milano non ha fu­turo. Perde colpi nelle infrastrutture: è impen­sabile che un imprenditore milanese per vola­re all’estero debba passare da Roma o Zurigo. Deve internazionalizzarsi, puntando sulle ec­cellenze: l’università, la ricerca. Soprattutto, manca una regia. Nella politica, nella cultura, nelle imprese. Appunto, un establishment. Pu­re il Corriere dovrebbe muoversi, perché dal futuro di Milano dipende anche il suo».

Non vede segni di speranza, per Milano e per il Paese?

«Ne vedo moltissimi. Vedo molti giovani imprenditori interessanti. Il sistema delle fa­miglie tiene. E il cambio forte, anche se tutti dicono il contrario, ha giovato alle imprese, costringendole a concentrarsi sul lavoro e sul prodotto. Non tutti saranno presenti, quando la crisi sarà passata. Ma il sistema manifattu­riero, che è il cuore dell’economia italiana, sa­rà più forte, e ci consentirà di ripartire».


01 maggio 2009
da corriere.it


Titolo: Massimo Ponzellini - (istruttivo, ma non faccio commenti ndr)
Inserito da: Admin - Maggio 01, 2009, 03:44:33 pm
01 Ottobre 2008

Massimo Ponzellini

Il presidente di Impregilo, ex amministratore del patrimonio dello Stato, promuove la rivoluzione italiana di Berlusconi e Bossi.

E difende “l’etica” del libero mercato

di Luigi Amicone


 Massimo Ponzellini, bolognese, 58 anni, veste come un blues brother e porta gli stessi occhiali (originali di François Pinton) di Onassis, il mitico magnate greco che fu compagno della Callas e marito di Jacqueline Kennedy. Viene dal giro Iri di Romano Prodi ed è stato uno dei primi italiani ad avere ruoli non secondari nelle grandi istituzioni economiche europee (vicepresidente della Banca europea per gli investimenti e membro del Cda British Airways).

Qualcosa accadde tra Romano e Massimo se poi, a partire dai primi anni 2000, la “vicinanza” tra lui e Prodi si trasformò in “vicinato” neanche troppo simpatetico (come precisò lo stesso portavoce dell’Unione Silvio Sircana parlando di ciò che «riguarda le rispettive abitazioni bolognesi»).

Si dice che già nel secondo governo Berlusconi l’allora ministro dell’Economia Giulio Tremonti lo volesse direttore del dicastero. Ma poi l’operazione fallì per l’opposizione di Gianfranco Fini (che non aveva gradito il supporto dato da Ponzellini alla campagna elettorale di Francesco Rutelli, oltre che all’Unità, in qualità di azionista). Ma insomma, Ponzellini finì “solo” amministratore della Patrimonio dello Stato Spa e, di lì a qualche anno, nel 2007, prese il posto di Cesare Romiti alla presidenza della multinazionale Impregilo. Primo general contractor nel settore delle grandi opere e primo gruppo italiano, per dimensioni e fatturato, nel settore delle costruzioni e dell’ingegneria.

Wall Street affonda, le borse europee non stanno gran che e Piazza Affari la stanno facendo nera. Cosa ci aspetta?
Vedo che il governatore di Bankitalia e i nostri banchieri hanno assunto un atteggiamento prudente. Dicono che le nostre banche sono meno coinvolte del resto del sistema internazionale nei prodotti a rischio…

E lei che pensa?
Penso che sia una descrizione ottimistica, dettata non dalla prudenza, ma dalla paura e dall’ignoranza che ci hanno portato ad autoescluderci da questo mercato.

Però adesso non abbiamo il problema del Tesoro americano. E Tremonti non è chiamato a nazionalizzare banche in default.
Mah. Il conto vero andrebbe fatto non sulle perdite attuali, ma sui mancati profitti pregressi. O vogliamo dimenticarci che grazie agli strumenti di finanza innovativa la Spagna ha messo in piedi il più grosso comparto delle costruzione che ci sia in Europa? D’accordo, adesso sono in sofferenza. Ma per quindici anni sono cresciuti a ritmi vertiginosi. Io non so se ha ragione Zapatero a dire che la Spagna è davanti all’Italia. Ma so che Abertis era un’azienda di camioncini e adesso mette sul tavolo i soldi per fare le autostrade. E chi glieli ha dati questi soldi? Le banche e la raccolta finanziaria con quei sistemi cervellotici da rapina sui mercati. Bisogna sempre vedere le cose alla luce di quello che succede nel tempo. Quelli che hanno fatto il disastro adesso, per dieci anni ci hanno trattato a pesci in faccia, perché in Italia non avevamo neanche un banchiere in grado di andare a spiegargli che sbagliavano.

Insomma, lei rovescia il paradigma di Bossi («non ci smeneremo tanto da questa crisi finanziaria perché fortunatamente i nostri banchieri non sapevano l’inglese») e ripete la predica del Financial Times: «Il libero mercato non è una religione fondamentalista, è un meccanismo che ha dimostrato il suo valore più e più volte in 200 anni».
Sì, non perdiamo adesso ma abbiamo perso dieci anni in cui gli altri paesi si sono fatti chi le industrie, chi le telecomunicazioni, chi i servizi, chi le grandi infrastrutture.

Sì, però molti osservatori, da un economista con l’attenzione al sociale come Giorgio Vittadini al Nobel dell’economia tout court Michael Spence, vedono nella crisi una lezione che dovrebbe spingere le banche a ritornare al “core” della loro attività, cioè il sostegno all’economia reale.
L’economia non è né reale né irreale. È quello che succede sul mercato. Il fatto che ci fossero dei forsennati che acquistavano titoli o pezzi di carta straccia pagando dieci volte il prezzo che c’era scritto sopra perché pensavano che creassero altro valore, non è economi irreale, è economia, punto. Il problema vero è che nessuno nomina la parola chiave di tutto: la parola “etica”. Che è un altro concetto. Perché il problema non è se questo libro è un catalogo o un depliant, ma se quello che c’è scritto dentro corrisponde alla cosa. Lo dubito fortemente. Allora è questo il problema. Se il mercato è drogato e l’etica non è rispettata, prima o poi “shit happens” dicono gli americani, le schifezze vengono a galla. Io, perciò, parlerei di economia etica e di economia non etica. L’economia etica ha una trasparenza e una leggibilità, per cui la gente tende a chiamarla “reale”. L’altra invece ha una lettura più complicata, per cui la chiamiamo economia di carta o speculativa. Ma sono definizioni erronee.

E secondo lei quale sarebbe il meccanismo attraverso cui si costruirebbero cosidetti “valori etici” in economia?
Bè, per fare un esempio, invece di discettare di economia reale o irreale si potrebbe cominciare a chiedersi perché un banchiere debba prendere dieci o venti milioni di euro in stock option. Perché nessuno si pone questo semplicissimo quesito? Perché nessuno si domanda perché un banchiere che prima stava in casa sua lo trovi nel club altolocato in compagnia dell’attricetta di turno e del suo altro amico banchiere, naturalmente anch’egli in buona compagnia, al quale ha prestato cento miliardi mentre all’artigiano che doveva cambiare il tornio ha negato 500 mila euro di prestiti? Queste sono le cose che bisogna guardare.

Cosa pensa del recente riassetto di Mediobanca?
Mediobanca svolge due funzioni diverse fondamentali dell’economia italiana, e le svolge ambedue con capacità e prestigio. È la più importante e sana holding di partecipazioni che abbia radici in Italia e, secondo, è la più importante banca d’affari italiana, non così potente e presente come i suoi competitori stranieri, ma nel processo di farsi una rete anche internazionale per seguire l’imprenditoria italiana. È chiaro che il fatto di essere una holding e il fatto di essere una merchant bank prevedono meccanismi di governance completamente differenti. La holding prevede una fortissima attenzione alle nomine, al valore dei titoli e ai meccanismi di controllo dei risultati che il management porta a casa. La merchant bank invece contiene la capacità di vedere sul mercato le opportunità e di realizzarle in maniera da intascare plusvalori sugli investimenti azionari o le fees sulle operazioni arrangiate. Naturalmente l’unicità di Cuccia era che riusciva a combinare l’attività di merchant banking con quelle di holding. Faceva fare gli affari che dovevano essere fatti alle partecipate. Come nei grandi allevamenti, però, alla fine a furia di incrociarli gli animali cominciavano a diventare brutti, perché il sangue era sempre lo stesso. Nel frattempo Cuccia s’era invecchiato e Maranghi, che ne seguiva la strada, ha cominciato ad aprire la compagine a nuovi imprenditori. L’idea di Maranghi era: non possiamo continuare sempre con gli stessi nomi, perché poi diventano incroci incestuosi; ma dobbiamo continuare nella formula di Cuccia, cioè avere imprenditori che sanno fare. Perciò ha caricato a bordo i Benetton, i Gavio, i Ligresti, i Barilla e via discorrendo. I “ragazzi”, come li chiamo io, quelli che sono venuti dopo la scomparsa di Maranghi hanno detto: “Bè, forse è il momento di andare anche sul mercato, di prendere il cervo e mandarlo nel bosco, sperando che trovi una bella cerva e che faccia dei cerbiatti più forti che vivano liberi, che non siano chiusi sempre nelle gabbie”. Perché Mediobanca era un po’ come le gabbie dello zoo. È andata così, e adesso la strada è quella giusta. Ma nel bosco è meglio andarci con un meccanismo duale o con un meccanismo unico? A mio parere il meccanismo unico è più semplice.

Sulla critica all’allegra finanza anglosassone e sulla richiesta di nuove regole anche per far fronte alla penetrazione dei cosiddetti fondi sovrani in asset strategici per l’economia nazionale ed europea pare che Angela Merkel ci abbia azzeccato già in tempi non sospetti di grande crisi finanziaria. Cosa pensa in proposito?
 La posizione della Merkel rispetto ai fondi sovrani e alla finanza anglosassone è diversa da quella del resto dell’Europa, perché la Germania ha una forma di mercato particolare. La Germania ha coniugato il federalismo con l’intervento dello Stato, delle banche e delle imprese in una formula che ha funzionato e che secondo me funzionerà per molti anni ancora. Detto questo, anche la Merkel dovrà trovare un sistema per rafforzare la struttura del capitale delle banche.
 
Passiamo all’Italia. Un suo giudizio sulla nuova situazione politica: “autoritaria”?
Non diciamo sciocchezze. L’importanza del dato politico attuale è che questa maggioranza è stata fortemente voluta dalla gente, ed è stata voluta dalla gente fuori dagli schemi. La cosa importante non è chi vince o chi perde, ma chi cambia in un’elezione. E questi ultimi anni hanno cambiato molto.

Cioè?
Cioè, una volta, se a Frosinone la Dc passava dal 28 al 34 per cento, era una festa incredibile. Ma non cambiava niente. Perché al 28 comandavano quelli, e al 34 comandavano gli stessi. È Sesto San Giovanni, dove oggi l’operaio Cgil passa alla Lega, che cambia. In meglio o in peggio? Non lo so. Spero in bene, ma comunque sia sicuramente cambia. Anche i cambiamenti all’interno della maggioranza (i posti in cui ha vinto Bossi, come ha vinto in Sicilia il Pdl) sono cose nuove. Dopo trent’anni di caduta libera sembra che l’interesse della gente per la politica aumenti. O per lo meno il cambiamento dimostra che le cose stanno così. La gente torna alla politica e la classe politica migliora. Tant’è che si è ringiovanito il Parlamento, ci sono più donne e più esponenti di categorie.

E dal suo punto di vista di imprenditore come giudica il governo Berlusconi?
La risposta semplice è che Impregilo è contenta perché il governo ha detto che farà il Ponte sullo Stretto, la Variante di valico, l’Anello in Reggio Calabria. Che vuole che le dica? Andiamo benissimo, abbiamo fatto una semestrale con 150 milioni di euro di profitto, ci hanno restituito e sbloccato i soldi di Napoli, abbiamo 17 miliardi di back log di lavori in contratti firmati da realizzare, non abbiamo problemi finanziari, siamo felici, grazie, speriamo duri altri cent’ anni. Dopo di che ci sono i problemi del paese, enormi, a cui ci dobbiamo piegare e lavorare tutti per provare finalmente a risolverli.

Secondo quali priorità?
Anzitutto indubbiamente esiste un Nord ricco, un Sud povero e un Centro benestante ma mantenuto dalla disgrazie del Sud e dalle fortune del Nord. Il Centro Italia fa il becchino, il medico terminale, l’assistente sociale e spirituale di un Sud che decade sempre di più e di un Nord che soffre per la burocrazia. Tutto questo troverà nel federalismo un miglioramento. Il federalismo darà alcune risposte molto interessanti. Il Nord sarà a favore, perché naturalmente è un modo per essere più vicino a quelle risorse che oggi fornisce al resto del paese. Il Sud sarà contento perché avrà più trasparenza e responsabilità. Chi ci rimette è Roma e le regioni centrali che vivono di burocrazia. Perderanno potere. Non avranno più questo meraviglioso meccanismo, il travaso del miele. Quando travasi il miele ti rimane sempre attaccato qualcosa alle mani: il non poter più travasare il miele, questo è il federalismo. Seconda priorità: la gestione del demanio. Prenda ad esempio il carcere di San Vittore: nelle mani dello Stato San Vittore vale 100, nelle mani della Regione vale 130, nelle mani di Regione e Comune vale 200, nelle mani della Regione, del Comune e del privato vale 500. Allora, nella misura in cui applico il federalismo anche ai beni demaniali, le assicuro che la musica cambia. Per quattro anni ho fatto anche l’amministratore del patrimonio dello Stato e conosco bene gli imprenditori che sui giornali scrivevano e cercavano di impedire allo Stato di vendere. Perché se lo Stato mette in vendita le caserme che ha in centro a Milano, altro che certe operazioni di lottizzazione come si sono viste in questi anni. Ma lasciamo perdere… Più in generale c’è da ricostruire un’etica con la “E” maiuscola in questo paese…

E la scuola probabilmente…
Certo, non si risolve il problema della malavita al Sud mandando l’esercito, ma mandando i professori. Nel breve devi anche mandare l’esercito, però la soluzione sono i professori, non l’esercito. Ma mi permetta di tornare ai beni dello Stato. Perché per esempio le concessioni televisive devono essere dello Stato e non delle comunità territoriali? Perché non si crea una vera competizione tra i soggetti che le realizzano, anche interregionali? Dico delle banalità, per far capire: l’Emilia-Romagna dà una concessione a Teletortellino, e secondo me Teletortellino fa una buona rubrica di gastronomia che tutte le regioni prendono; la Lombardia dà una concessione a Telemediobanca per le informazioni economiche… Insomma, dalle strade alle balere, dallo sport al turismo, perché dev’essere lo Stato il centro delle concessioni? Ecco in che senso il federalismo deve dare la spinta e rinnovare il paese.

Chiaro, questo significa che la Rai chiude.
Vabbè, ma se chiude la Rai cosa dice: l’Italia ci perde o ci guadagna? Io dico che ci guadagna. Insomma, il senso del federalismo è riavvicinare la gente alle istituzioni e renderla responsabili del proprio destino.

da tempi.it (da google)


Titolo: Si fanno i giornali perchè siano letti se non accade si chiude...
Inserito da: Admin - Maggio 03, 2009, 05:29:53 pm
Il nostro viaggio libero


di La redazione


L’abbiamo fatto fino in fondo. Questo che in realtà è sempre stato un piccolo giornale-nel-giornale. Con passione, con fatica. Con divertimento ogni volta che è stato possibile. Con divergenze e scontri ogni volta che è stato necessario. Con i suoi piccoli e miracolosi equilibri. Con i suoi riti. Con le sue riunioni interne convocate e puntualmente saltate - quasi un sortilegio scaramantico - perchè c’era da farlo il giornale, altro che riunioni.

In questi anni. Dal 2003, quando si era rinati. Da domani le pagine della cronaca di Roma non saranno più in edicola, così ha stabilito il nuovo piano aziendale. Noi, la redazione, vogliamo ringraziare i lettori per la vitalità con cui ci hanno sempre seguito, per la schiettezza con cui ci hanno parlato, sostenuto, criticato. Abbiamo provato - sempre - a stare con gli occhi aperti sulla città. Su come è, su come cambia. Raccontando i fatti. Su chi cambia e su chi la cambia. Raccontando le persone.

Ora qualcosa mancherà. Mancherà una voce, mancheranno i nostri punti di vista. Mancheranno i punti di vista di coloro che in noi si specchiavano. Mancherà un po’ di sinistra. Lo abbiamo fatto in tanti questo racconto. Tutti i colleghi che hanno inventato e animato giorno per giorno queste pagine, che hanno condiviso un tratto di strada - chi lungo, chi più breve - con la cronaca di Roma de l’Unità. Tutti i collaboratori. Tutti i precari: sì, perchè hanno saputo essere parte importante e piena di questa redazione fino all’ultimo. Per tutti noi è stato un gran bel viaggio.

03 maggio 2009
da unita.it


Titolo: Sporchi, brutti e cattivi.
Inserito da: Admin - Maggio 15, 2009, 05:03:40 pm
Sporchi, brutti e cattivi.


14 maggio 2009, 16:37


Ieri e oggi     

(...) I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel nostro paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, attività criminali. (...). Stralci di una relazione dell'Ispettorato per l'Immigrazione del Congresso americano sugli immigrati italiani negli Stati Uniti, Ottobre 1912


(...) "Non amano l'acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane.
Si costruiscono baracche di legno ed alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri.
Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti.
Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci. Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti.

Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l'elemosina ma sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini quasi sempre anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti.
Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti.
Le nostre donne li evitano non solo perché poco attraenti e selvatici ma perché si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche quando le donne tornano dal lavoro. (...)

I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel nostro paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, attività criminali. (...)

(...) Propongo che si privilegino i veneti e i lombardi, tardi di comprendonio e ignoranti ma disposti più di altri a lavorare. Si adattano ad abitazioni che gli americani rifiutano pur che le famiglie rimangano unite e non contestano il salario. Gli altri, quelli ai quali è riferita gran parte di questa prima relazione, provengono dal sud dell'Italia. Vi invito a controllare i documenti di provenienza e a rimpatriare i più.
La nostra sicurezza deve essere la prima preoccupazione".

*Il testo è tratto da una relazione dell'Ispettorato per l'Immigrazione del Congresso americano sugli immigrati italiani negli Stati Uniti, Ottobre 1912

da aprileonline.info


Titolo: Italiani, brava gente? (in guerra no di certo ... non tutti)
Inserito da: Admin - Maggio 17, 2009, 12:07:32 am
GLI ITALIANI BRAVA GENTE DI ANGELO DEL BOCA 7/12/05

Angelo Del Boca
Italiani, brava gente?

€ 16,00

pp 318

Editore Neri Pozza 2005
Collana I colibrì
 

Emanuele Giordana

Mercoledi' 7 Dicembre 2005

Francesco Crispi, 7 maggio 1885: Qual’è il nostro scopo? Affermare il nome dell’Italia e dimostrare anche ai barbari che siamo forti e potenti! I barbari non sentono se non la forza del cannone, ebbene questo cannone tornerà al momento opportuno. Un cannone che tuona a Sciara Sciat, sul fronte tenuto da Cadorna, sull’altopiano etiopico, nella bonifica etnica in Slovenia, nella Pechino dei boxer. Ma il cannone non è caricato solo a proiettili. Tira salve propagandistiche che hanno il compito di erigere un mito, quello degli “italiani brava gente”, che è anche un muro dietro cui nascondere le nefandezze che non ci fanno certo migliori di altri. Anzi. Angelo Del Boca getta luce sulla coscienza sporca di un paese che non vuole fare i conti con la propria memoria. Oltre trecento pagine e una decina di casi che sono il manifesto non soltanto di un’efferatezza che lascia sconvolti, ma anche della capacità di nasconderla sotto un’aura aulica e romantica.

L’ultimo saggio che Angelo Del Boca, piemontese di nascita, piacentino d’adozione, dedica a un’Italia che, dalle Alpi allo sperone, descrive come l'italica stirpe si sia dedicata anima e corpo a costruire il mito di una diversità che dovrebbe renderci migliori degli altri. Meglio dei britannici nelle colonie, o meglio degli americani in Iraq, o meglio dei nostri tanti compagni d’arme durante la rivolta dei boxer in Cina.

“Italiani brava gente?”, in libreria da qualche settimana, decreta senza tante giustificazioni la fine di quel mito e, strappando il sipario, mostra, dietro la cortina fumogena lucente del buon italiano costruttore di strade ed ospedali, l’anima dell’Italia coloniale. Per nulla diversa, se non peggiore, dai suoi cugini d’oltre Manica o d’Oltralpe.

Le pagine più forti sono forse quelle dedicate alla strage che seguì il tentativo di uccidere Graziani in Etiopia nel febbraio del ’37, o quelle in cui si descrive l’operato di Cadorna, il generale che, sordo a ogni protesta, mandava al macello i suoi soldati. Ma anche i civili non se la cavano troppo bene se si leggono le storie dei colonizzatori che la vanga la usavano, più che per scavar strade, per picchiare i contadini somali ridotti in stato di schiavitù.

Non fummo migliori ma mascherammo bene, almeno ai nostri stessi occhi, le nefandezze che son proprie di ogni guerra e di ogni campagna di conquista. Nel suo libro, Del Boca salva soltanto le recenti operazioni di peacekeeping condotte dal nostro esercito sotto mandato internazionale e la truppa senza caserma del volontariato. Lascia così, alla fine del saggio, un filo di speranza a un paese che, barricandosi dietro il mito di una diversità inventata, ha nascosto, e continua a nascondere, le pagine più buie di una storia iniziata con l’unità d’Italia.

da lettera22.it


Titolo: Le prime bombe sui civili? Italiane
Inserito da: Admin - Maggio 17, 2009, 12:08:25 am
Mercoledì, 4 Aprile 2007

Le prime bombe sui civili? Italiane

Tre settimane prima di Guernica, fu l’Aviazione Legionaria italiana a inaugurare in Europa l’era dei bombardamenti terroristici contro la popolazione civile, per indebolire il fronte nemico. Gli attacchi durarono 4 giorni e uccisero 366 abitanti su novemila

Durango, villaggio industriale nel cuore dei Paesi baschi, non è famoso come la vicina Guernika, ma ha un primato: ha inaugurato (in Europa) l’era dei bombardamenti aerei come arma di distruzione di massa. La differenza con Guernika l’ha fatta il miglior pittore del XX secolo, che ha elevato la mattanza compiuta dalla Legione Condor a simbolo universale della barbarie, mentre Durango è passata dalla tragedia al dimenticatoio, anche perché così conveniva a Franco. Eppure è proprio qui che per la prima volta in Europa andò in scena un bombardamento «pianificato e realizzato sistematicamente», come spiega Jon Irazabal, autore del libro Durango, 31 marzo 1937. Settanta anni fa, alle 7.20 di un mercoledì di Pasqua, quattro bombardieri e nove caccia iniziano quattro giorni d’inferno. Bombe da 500 libbre iniziano a piovere dal cielo; in pochi giorni tonnellate di esplosivo vengono riversate su questa cittadina di poco meno di 9.000 abitanti: 366 moriranno, centinaia saranno i feriti. Gli aerei sono quelli dell’Aviazione Legionaria italiana inviata dal Duce, sotto le forti pressioni del genero Galeazzo Ciano, a sostegno di Franco.

«Ho deciso di concludere rapidamente la guerra nel Nord» - si legge in un volantino indirizzato alla popolazione civile nel marzo 1937 dal generale Emilio Mola, direttore del levantamiento fascista. «Se la resa non sarà immediata distruggerò Vizcaya (la provincia di Bilbao, ndr) fin dalle fondamenta, iniziando dalle industrie di guerra. Dispongo dei mezzi per farlo. Generale Mola». Mola concentra 40.000 combattenti per la campagna nei Paesi baschi, ma gli aerei li mettono gli italiani e la famigerata Legione Condor, agli ordini di Hugo Sperrle e di Wolfram Von Richthofen, cugino del mitico Barone Rosso. «Non è irragionevole alcuna misura in grado di distruggere il morale del nemico. Ed è preferibile farlo rapidamente», diceva Von Richthofen a Mola. La prima a pagare questa dottrina è Durango.

«Durango è una città molto religiosa ed ordinata» - scrive il giornalista di guerra George Lowter Steer (l’unico a dare eco della mattanza di Guernika dalle pagine di Time) nel libro L’albero di Guernika. Uno studio sul campo della guerra moderna. Alle 7.20 c’erano moltissime persone ad ascoltare la messa, delle quali quasi la metà era segretamente e sentimentalmente dal lato dei bombardieri». Quella mattina del 31 marzo 1937 José Manuel Azurmendi aveva nove anni e stava andando a messa nella chiesa dei Gesuiti. Ma era in ritardo e non volendo disturbare il prete decise di sedersi nell’ultimo banco, giusto sotto il coro. L’unica parte della chiesa che resistette alle bombe. «Mi ha salvato la cappella del coro - ricorda - ho visto un enorme bagliore e poi una palla di fuoco rosso sul tetto e un enorme boato». Sotto le macerie rimasero in 40, della cinquantina di fedeli che stava seguendo la messa. Steer racconta che la bomba esplose proprio mentre padre Rafael Billalabeitia stava offrendo ai fedeli il corpo di Cristo: «In quel solenne istante il tetto cadde sul prete, i fedeli e il Santissimo Sacramento, seppellendo tutti».

Marisun Bengoetxea giocava con un’amica sotto il portico della chiesa di Santa Maria. Scattano gli allarmi, Marisun corre verso il rifugio che si trova sotto il negozio di famiglia, dall’altro lato della strada; il tempo di arrivare sulla porta, di girarsi e la sua amica era già morta. Quando si ritira l’aviazione, Steer racconta di «127 corpi estratti dalle macerie, senza includere le membra sparpagliate. Molti erano in stato irriconoscibile ed tra loro c’era una grande quantità di donne e bambini».
Gli aerei italiani arrivarono la mattina del 31 marzo con il sole alle spalle, calarono sul paese seguendo l’asse est-ovest segnato sul terreno dalla linea che unisce le due chiese e lì riversarono il loro carico di bombe. L’operazione fu ripetuta per quattro giorni, fino al 4 aprile 1937, giorno di Pasqua. E dopo che i bombardieri avevano finito il loro lavoro passavano i caccia. Alberto Barreña aveva 13 anni, scappò con la famiglia nei campi che attorniavano la città e da un boschetto osservò come «mitragliavano la gente che scappava: volavano così bassi che potevi vederli in faccia».

Gli aerei calati su Durango difendevano Dios y la Patria e scelsero come obiettivi chiese e fedeli in piena Settimana Santa. E, come successe tre settimane dopo a Guernika, usarono le vittime anche da morte. Da Radio Sevilla la voce del Generale Queipo de Llanos scandiva la versione ufficiale: «I nostri aerei bombardarono obiettivi militari a Durango e dopo i comunisti ed i socialisti rinchiusero i preti e le suore nelle chiese, assassinandoli senza pietà e bruciando le chiese». C’è voluta la caduta di Franco per disseppellire la versione reale, coperta da quella dei vincitori.

Dopo sette decadi, la mattanza è stata ricordata quest’anno con una serie di atti e con la presentazione di due documentari - Durango: il bombardamento dimenticato, che ricostruisce i fatti, e Il 31 marzo nel ricordo, che racconta invece come i giovani vedono quei giorni. «Prima di Durango ci furono altri attacchi aerei - spiega Arazabal - ma non con questo grado di pianificazione. L’obiettivo di quella tattica era causare l’affossamento del fronte provocando il panico nella retroguardia». Pur con tutto ciò, conclude Arazabal, «Durango non ha avuto l’impatto internazionale di Guernika». E non è il rammarico di chi si sente meno fortunato, è la paura di rimanere dimenticati dalla storia. Soprattutto in queste epoche di revisionismi vari.

da notimaz.blog.kataweb.it


Titolo: Dieci domande qualunque
Inserito da: Admin - Giugno 09, 2009, 10:18:33 am
9/6/2009
 
Dieci domande qualunque
 
 Massimo Gramellini
 
 
 
1. Ma vi sembra normale che solo agli italiani non faccia effetto essere governati da chi condiziona il loro immaginario attraverso le televisioni?

2. Ma vi sembra normale che in tutte le interviste pre-elettorali la domanda più dura che gli hanno rivolto sia stata «ci dica»?

3. Ma vi sembra normale che i dirigenti del Pd siano tutti ex del Pci e della Democrazia cristiana?

4. Ma vi sembra normale che Clinton, Jospin, Schroeder, Blair e persino Gorbaciov facciano un altro lavoro da anni e loro invece insistano?

5. Ma vi sembra normale che Pdl e Pd abbiano perso milioni di voti e parlino solo di quelli persi dagli avversari?

6. Ma vi sembra normale che i verdi trionfino ovunque, mentre qui, appena ne vedi uno in faccia, viene voglia di tifare per l’effetto-serra?

7. Ma vi sembra normale che chi detesta Berlusconi voti Di Pietro, che è come dire: detesto il Bagaglino quindi vado a vedere Bombolo?

8. Ma vi sembra normale che l’Italia cristiana sia rappresentata in Europa da Magdi Cristiano Allam e Borghezio?

9. Ma vi sembra normale che tutti sputino addosso alla Casta e poi Mastella prenda ancora 112 mila voti di preferenza?

10. Ma vi sembro normale?

Ad almeno nove domande su dieci (compresa la numero 10) la mia risposta è no.

 
da lastampa.it


Titolo: CARLO FRUTTERO Il gas libico val bene un ritardo ...
Inserito da: Admin - Giugno 14, 2009, 12:21:26 pm
14/6/2009
 
Il gas libico val bene un ritardo
 

CARLO FRUTTERO
 
Nauseante la visita a Roma del Colonnello Gheddafi? Ma perché? Quando mai? Un’accoglienza strepitosa, sfolgorante per un semplice colonnello. Ma il personaggio è di grado altissimo e si consideri che avrebbe potuto fregiarsi del titolo di generale, di maresciallo da campo, di ammiraglio, eppure non l’ha fatto, ha voluto restare più vicino al suo popolo. Del resto anche Napoleone talvolta portava con orgoglio il grado di caporale. Ma tutti quei presidenti di tutte le massime istituzioni italiane (tranne il Papa, ma pare che la prossima volta...) pronti alla stretta di mano, all’abbraccio, alla coda davanti alla tenda? E la tenda stessa, al centro del parco di Villa Pamphili, non era un po’ provocatoria, con tutte le comodità degli alberghi romani? Ma le comodità le aveva anche lì (pare che lo stesso Bertolaso...).

Di lì del resto viene il cosiddetto scandalo dei ritardi. Non si capisce in Occidente che il tempo, nel deserto, sotto la tenda, scorre in modo completamente diverso e d’altra parte tutti i nostri lamentosi attendisti quante anticamere hanno fatto nelle loro carriere? Mesi, anni, decenni ad aspettare una leggina, un decretino, anche solo un salutino en passant.

E per i nostri capi e sottocapi si è poi trattato insomma di una leggera indigestione batracica (dal greco batraxo§: rospo). Per un malinteso senso di urgenza e orgoglio ferito si è rischiato l’incidente diplomatico e per fortuna che Fouché e Talleyrand, travestiti da Pisanu e D’Alema si sono precipitati a evitare una tragica rottura.

Tragica perché il Colonnello ha il gas e non possiamo certo rischiare i geloni alle mani dei nostri bambini e la polmonite della vecchietta all’ultimo piano, che voleva scaldarsi un po’ di camomilla. No, c’è poco da sghignazzare, la nostra classe digerente (sic? sic!) ha saputo organizzare una fiction di prim’ordine, è andata molto bene e pare proprio che il Colonnello se ne andrà a quel paese (il suo), pienamente soddisfatto.

da lastampa.it


Titolo: G8, la «lista di nozze» di Berlusconi fa flop. Con i doni si pagano le spese
Inserito da: Admin - Luglio 19, 2009, 12:19:01 pm
12/7/2009


G8, la «lista di nozze» di Berlusconi fa flop.

Con i doni si pagano le spese


di Claudia Fusani - da L'Unità


La visita guidata nei luoghi del G8 comincia verso le dieci della mattina. C'è la fila per le mostre dedicate al made in Italy e all'Abruzzo. Fila per entrare al Roma hotel e al Milano hotel dove hanno dormito Berlusconi, Medvedev, Sarkozy con Carla Bruni, Obama senza Michelle. Chi può si fa una foto nella stanza 518, quella del presidente Usa, e assaggia la qualità del letto e delle poltrone. Vengono da fuori, apposta, e sono i più curiosi. Arrivano, i più scettici, dalle tendopoli. A gruppi passeggiano nel Media village dove per quattro giorni hanno lavorato quasi quattromila giornalisti, siedono nelle poltroncine di vimini degli open bar, scrutano i 45 pannelli alti tre metri che illustrano i monumenti distrutti dal terremoto e ora messi in mostra per l'adozione, quanti danni e quali costi.

Quanto è costato questo G8? Guido Bertolaso, regista del successo del summit, aveva accennato a una cifra pari a circa 50 milioni di euro, compreso l'aeroporto di Preturo (12 milioni) di cui però non è ancora chiaro quanto resterà effettivamente all'Aquila (molte delle strumentazioni, luci e radar, sono prestate dall'Enav). Il punto è che se il G8 doveva servire, anche, a raccogliere donazioni per la ricostruzione della città, alla fine di tutto, fatti due conti, è grassa se si arriverà a fare pari tra quello che è costato e quello che ha «incassato». Spenti i riflettori, par di capire che la «lista di nozze» inventata da Berlusconi non abbia avuto un grande successo. O almeno, non per ora.

E più che di adozioni occorre parlare di opere orfane di fondi e di futuro. Dal Castello alla Chiesa delle Anime Sante, dalla Basilica di Collemaggio al monastero della Beata Antonia, dalla chiesa di Sant'Agostino a quella di SantaMaria a Paganica, la lista è lunga e comprende alcuni dei gioielli del patrimonio artistico nazionale. Quarantacinque opere, costo totale del recupero almeno 300 milioni.

Sull'albo delle donazioni c'è rimasto poco o nulla. Almeno per ora. Ci sono gli impegni certi. La Spagna, ad esempio, metterà a disposizione tra i 20 e i 30 milioni per la Fortezza spagnola che gli aquilani costruirono nel 1539 per farsi perdonare la rivolta di 12 anni prima. Ne servrebbero 50 per il restauro completo. Il resto si vedrà.

Carla Bruni ha promesso, a nome della Francia, l'impegno di 3,2 milioni di euro, la metà esatta del costo del recupero delle Anime Sante, quella sulla sinistra, senza tetto e senza cupola, che si è vista tanto in tivù in questi giorni. Michelle Obama e gli Stati Uniti si sono impegnati per almeno la metà del restauro della chiesa Santa Maria Paganica (4,5 milioni) ma è rimasta in forse. «Vi aiuteremo» è stata la promessa. Più probabile che Washington decida di investire su 200 borse di studio, gli studenti, l'università, il futuro. Gordon Brown dovrebbe dedicare 1,6 milioni di euro per San Clemente a Casauria. Ci sono gli impegni probabili. Quello della Russia per il barocco palazzo Ardinghelli, quello della Cina per palazzo Margherita (sede del comune) e palazzo dei Nobili e quello dell'Australia per l'oratorio di San Filippo Neri.

E poi ci sono quelli che, come in tutti i matrimoni, decidono di andare fuori lista. E di fare di testa propria. È il caso del Giappone che farà costruire un palazzetto dello sport dual-use, utile anche per le evacuazioni in caso di terremoto (da loro, esperti di terremoti, funziona così) e una Casa della musica di cartone rafforzato, rigorosamente antisismica, progetto esclusivo di un loro architetto. Ma daranno solo 500 mila euro, la metà, al resto deve pensare il governo italiano. Tokyo, comunque, invierà esperti e contribuirà alla ricostruzione dal punto di vista delle tecnologie.

Sono andati fuori lista anche il Canada (5 milioni per l'università) e la Germania (tre milioni per Onna). Le donazioni straniere finiscono qui.Almeno per ora. Ci sono gli sforzi di enti privati, soprattutto banche, per l'abbazia di Collemaggio (Fondazione Cassa di Risparmio, 200 mila euro), San Bernardino (Monte dei Paschi) e chiesa di San Marco (Regione Veneto). Ci sono ancora una trentina di monumenti orfani di adozioni. Tra loro il Duomo, 35 milioni di danni e almeno undici anni di lavoro. E dire che è stato il monumento più visto in questi giorni.

da democraticidavvero.it


Titolo: Nuovo welfare i passi necessari
Inserito da: Admin - Luglio 24, 2009, 11:16:37 pm
POLITICHE PER LA FAMIGLIA E RISPARMI

Nuovo welfare i passi necessari


Con il decreto anti­crisi il governo si appresta a com­piere due nuovi passi sul tortuoso sentiero della «ricalibratura» del welfare. Entrambi i passi riguardano il sistema pen­sionistico, un settore per il quale l'Italia spende più degli altri Paesi europei e che è caratterizzato da nu­merose sperequazioni ca­tegoriali. L'età di pensiona­mento delle dipendenti pubbliche verrà progressi­vamente elevata da 60 a 65 anni (come quella degli uomini), così come stabili­to dalla Corte di giustizia europea. A partire dal 2015 i requisiti anagrafici per l'accesso alla pensione ver­ranno periodicamente ade­guati all'incremento della speranza di vita: se gli ita­liani (uomini e donne) vi­vranno più a lungo, an­dranno in pensione un po' più tardi.

Le due misure non avranno un grande impat­to finanziario ma introdu­cono due promettenti in­novazioni istituzionali. Le risorse risparmiate dovran­no essere usate «per inter­venti dedicati a politiche sociali e familiari, con par­ticolare attenzione alla non autosufficienza». E' forse la prima volta che si istituisce un collegamento diretto e formale tra una «sottrazione» in campo pensionistico e una «addi­zione » nel campo dell'assi­stenza e dei servizi alle per­sone. L'impegno sarà ri­spettato? Le risorse saran­no sufficienti per promuo­vere efficaci politiche di conciliazione a favore del­le donne? Per quanto leci­te e giustificate, queste do­mande nulla tolgono al ca­rattere innovativo del prov­vedimento e al suo tentati­vo di operare una ricalibra­tura virtuosa fra comparti di spesa e rischi del ciclo di vita.

L'adeguamento genera­lizzato dell'età pensionabi­le, dal canto suo, avverrà in base a un meccanismo quasi automatico, basato sui dati Istat relativi alla speranza di vita. Anche qui si tratta di un'innova­zione promettente. Nella riforma Dini le procedure di revisione della formula pensionistica in base agli andamenti demografici erano state definite in ma­niera molto lasca, lascian­do troppo spazio alle con­trattazioni e ai veti politi­co- sindacali. Il governo Prodi aveva già introdotto regole più stringenti. Ora la soglia d'età sarà sogget­ta a revisioni periodiche, graduali ma semi-automa­tiche, come già accade in numerosi Paesi Ocse.

E' giusto stabilire requi­siti anagrafici uguali per tutti i lavoratori, senza te­ner conto dei lavori usu­ranti, della crescente diffu­sione di carriere spezzetta­te a seguito di contratti «precari»? Non sarebbe meglio tornare alla logica del pensionamento flessi­bile prevista dalla riforma Dini? Anche queste sono domande lecite e giustifi­cate. Nessun sistema previ­denziale può però esimer­si dall'avere un'età pensio­nabile «di riferimento», in base alla quale valutare poi l'introduzione di even­tuali deroghe. Dato il co­stante innalzamento della speranza di vita, è opportu­no che questa soglia ana­grafica venga periodica­mente modificata.

In questi giorni il decre­to anticrisi dovrà essere ap­provato dal Parlamento. Se è irrealistico immagina­re un qualche accordo bi­partisan , vi sono però le condizioni perché i conte­nuti e i toni del confronto politico sulla previdenza si mantengano su un pia­no di ragionevolezza co­struttiva. L'adozione di re­gole generali e trasparen­ti, il più possibile riparate da pressioni politiche di questa o quella parte, è il miglior modo per garanti­re l'equità, sia fra catego­rie sia fra generazioni.


Maurizio Ferrera
23 luglio 2009
da corriere.it


Titolo: CHRIS PATTEN Gli abusi della storia
Inserito da: Admin - Luglio 28, 2009, 06:38:17 pm
28/7/2009
 
Gli abusi della storia
 

 
CHRIS PATTEN
 
Nel suo libro Usi e abusi della storia la storica Margaret Macmillan racconta l’aneddoto di due americani che discutono dell’11 settembre. Uno fa un paragone con Pearl Harbor, l’attacco giapponese agli Stati Uniti nel 1941. Il suo amico non ha idea di che cosa si tratti. E l’altro gli dà questa spiegazione.

Gli dice: «Sai, quando i vietnamiti bombardarono la flotta americana e scatenarono la guerra del Vietnam». La memoria storica non è sempre così lacunosa. Ma la politica internazionale e la diplomazia sono costellate di esempi di precedenti citati inopportunamente per giustificare decisioni in politica estera, che ogni volta hanno portato alla catastrofe.

Monaco 1938 - il vertice tra Adolf Hitler, Edouard Daladier, Neville Chamberlain e Benito Mussolini - è un testimone invitato spesso a corte dai politici che cercano argomentazioni per avventure all’estero. La disastrosa invasione dell’Egitto da parte della Gran Bretagna nel 1956 venne giustificata accostando Gamal Nasser ai dittatori degli Anni Trenta. Se si fosse applicato l’appeasement a lui come a loro, il risultato sarebbe stato catastrofico per il Medio Oriente. Monaco fu usato come giustificazione anche dal presidente Bush per la guerra in Iraq, come lo era per il Vietnam.

Ma le analogie non sono sempre sbagliate, e quelle che lo erano in passato si possono rivelare corrette ora. Uno degli argomenti per la guerra in Vietnam era l’effetto domino. Se il Vietnam del Sud fosse caduto nelle mani dei comunisti, altri Paesi del Sud-Est asiatico avrebbero fatto la stessa fine, uno dopo l’altro. Le cose sono andate diversamente. Il Vietnam si è dimostrato essere l’ultimo, non il primo della serie. L’infame regime di Pol Pot trucidò milioni di persone finché non intervenne lo stesso Vietnam. Nel resto della regione il capitalismo, promuovendo l’apertura dei mercati, innescò lo sviluppo e promosse la stabilità. La globalizzazione produsse il suo effetto domino. Il Pil crebbe, milioni vennero strappati alla povertà, i tassi di analfabetismo e di mortalità infantile crollarono. Oggi gli effetti domino sono persino più importanti di allora. In America e in Europa in questo momento molte persone chiedono il ritiro dall’Afghanistan. Dicono che la Nato e l’Occidente non possono costruire una nazione laggiù e che gli obbiettivi stabiliti, democrazia e prosperità, sono irraggiungibili. I soldati della Nato muoiono invano. Prima o poi i taleban si prenderanno di nuovo il potere, con la licenza, come è già accaduto, di gettare acido in faccia alle donne. Ed è inutile pensare di poterlo impedire. Meglio fare armi e bagagli che stare lì e morire. E perché mai il risultato dovrebbe essere quello di imbaldanzire i taleban? Non hanno necessariamente gli stessi obbiettivi di Al Qaeda.

In Afghanistan sono stati certamente fatti molti errori. Dopo il rovesciamento del regime dei taleban, l’Occidente non ha impegnato abbastanza soldati per estendere l’autorità del governo di Kabul sull’intero Paese. L’amministrazione Bush ha distolto l’attenzione, per preparare la guerra in Iraq. Lo sviluppo è stato lento. La ricostruzione dell’esercito e della polizia si è trascinata senza costrutto. I raccolti di oppio si sono moltiplicati. A volte la risposta militare agli insorti è stata troppo dura, a volte troppo morbida. L’Occidente ha corteggiato personaggi ambigui nel tentativo di isolare i pashtun.

Perciò l’Occidente può far di meglio. Non c’è dubbio. Ma l’idea di abbandonare l’Afghanistan è cattiva, sia per l’Afghanistan che per il Pakistan. Lasciare l’Afghanistan nelle mani dei taleban, sperando contro ogni ragionevole speranza che diventino cittadini per bene del mondo globalizzato? E che effetti dobbiamo aspettarci sul Pakistan? E qui arriva il domino, sbagliato in Vietnam ma non necessariamente nell’Asia meridionale.

L’Afghanistan è la grande prova per la Nato. L’Alleanza ha promesso di portare a termine il lavoro. Se lo abbandona adesso, lasciando al Paese povertà, ignoranza, pregiudizi, e papaveri da oppio, che cosa accadrà? Perché qualcuno dovrebbe credere in Pakistan che l’Occidente è serio quando parla di sostenere il Paese come Stato musulmano e democratico? Una decisione del genere servirebbe a far girare la marea contro i taleban? Incoraggerebbe la classe media pachistana, i lavoratori delle città, disgustati dagli eccessi degli estremisti, a trincerarsi e resistere al fondamentalismo? Rafforzerebbe gli elementi moderati nella classe politica e tra i militari? Potete contare su di noi, sarebbe il messaggio dell’Occidente, ma non guardate oltre la soglia dell’Afghanistan, dove vedrete che non potete contare su di noi. Se il Pakistan, testate atomiche comprese, dovesse cadere in mano agli estremisti, le conseguenze in termini di esportazione del terrorismo sarebbero terrificanti. Basti pensare al Kashmir. All’India. Come vedrebbe l’India il futuro, se il Pakistan dovesse cadere in mano agli estremisti?

Insomma, l’Occidente deve portare in fondo il suo lavoro in Afghanistan. Farlo meglio, ma farlo. O i pezzi del domino cominceranno a rovesciarsi, uno alla volta. È una prospettiva che non farebbe contento nessuno, nell’Asia del Sud.


(*) Politico britannico, ultimo governatore inglese di Hong Kong Copyright Project Syndicate, 2009 www.project-syndicate.org
 
da lastampa.it


Titolo: «Berlusconi danneggia l’onore degli uomini»
Inserito da: Admin - Agosto 29, 2009, 11:17:20 am
«Berlusconi danneggia l’onore degli uomini»

di Elisabetta Ambrosi

«Impossibile stuprare una donna che resiste».

«Il no delle donne è un sì, perché le donne in realtà lo vogliono».

«Gli uomini sono facilmente accusati di stupro».


Luoghi comuni ormai dimenticati?
Purtroppo no, secondo quanto sostiene Joanna Bourke, storica londinese e autrice di una vastissima ricerca sul tema della violenza sessuale dalla metà dell’Ottocento ad oggi (Stupro, Laterza, 2009), intervenendo nel dibattito de l’Unità sul silenzio e sulla voce delle donne.

Senza strizzare l’occhio né a chi relativizza la questione, né a un certo femminismo secondo cui la violenza è innata alla onnipotente natura maschile, la studiosa attacca frontalmente i «rape myths», ricordando una storica sentenza italiana del 1999, poi ribaltata, che stabilì che era impossibile stuprare una donna in jeans.

«Pensi che ci sono persino alcune donne che trovano affascinante la tesi per cui se si resiste non si può essere violentate, perché questo le fa sentire inattaccabili. Ma l’unico modo per fermare la violenza è smascherare i luoghi comuni che la alimentano, questo compreso».

Professoressa Bourke, sono solo gli uomini a stuprare?
«Solo uno su cento è donna. Tuttavia, se ci riferiamo solo alle violenze sui bambini, è possibile incontrare delle donne, in genere madri o babysitter. Ciò non vuol dire affatto che l’aggressione sessuale fa parte dell’identità maschile. Non c’è niente di “naturale” nella violenza degli uomini; anzi, gli uomini aggressivi sono il risultato di un fallimento delle nostre comunità. La violenza non è inevitabile».

Stupratori non si nasce, si diventa.
«Le domande sull’identikit fisico, psicologico e ambientale dello stupratore hanno sempre ossessionato l’opinione pubblica. In un primo momento si credeva che gli stupratori fossero uomini non evoluti, primitivi, con una certa forma delle mascelle e un pene piccolo. Queste teorie razziste sono state poi sostituite da visioni che accentuavano il ruolo della povertà e dei disordini familiari e infine, da teorie psicoanalitiche, secondo cui gli aggressori sono uomini malati che soffrono di complessi inconsci su cui non hanno alcun controllo».

Lei quale spiegazione preferisce?
«Oggi si è arrivati a riconoscere che la nozione di malattia non basta. Spesso la violenza si situa nella normale interazione tra uomo e donna. Inoltre, tutte queste teorie implicavano delle punizioni - castrazione, lobotomia, prigione - oppure delle terapie, comportamentali o psicologiche, che hanno mostrato i loro limiti».

Un partito italiano di governo inneggia alla castrazione chimica.
«Secondo lei, come può funzionare questa terapia senza la collaborazione del paziente? Inoltre, non abolendo l’odio e la paura connesse al comportamento criminale, la castrazione ormonale aumenta la pericolosità di questi individui, che spesso hanno preso misure estreme per attestare la loro mascolinità».

Perché secondo lei così poche donne denunciano le violenze (una su cinque, come lei scrive?)
«Di fronte alla struttura sociale e istituzionale, la donna può sentirsi fragile. Durante la testimonianza di stupro in un processo, ad esempio, si analizza il modo in cui si veste, l’accento, la sua attrattività, inchiodandola così al suo corpo. Poche sono in grado di sostenere questa prova».

Qual è allora la strada per combattere questo male?
«Prendere atto che lo stupro è una questione che riguarda anche gli uomini, e di conseguenza ripensare la mascolinità focalizzandosi sull’agire maschile e sul suo immaginario. Va ricordato che quando un uomo abusa di una donna, tutti gli altri ne sono offesi e che il corpo dell’uomo è un posto di piacere, non uno strumento di oppressione e di dolore».

La sua accusa è anche per i media?
«Sicuramente, perché sono gravemente responsabili del modo stereotipato in cui riportano la violenza sessuale e più in generale i rapporti di forza tra uomo e donna. E non dimentichiamo la politica, con le sue leggi e i suoi comportamenti. Posso dire che Berlusconi ha danneggiato soprattutto l’onore degli uomini italiani?».

28 agosto 2009
da unita.it


Titolo: IRENE TINAGLI L'omofobia è contro l'economia
Inserito da: Admin - Ottobre 16, 2009, 12:28:52 pm
16/10/2009

L'omofobia è contro l'economia
   
IRENE TINAGLI


La questione omofobia non riguarda solo ambiti ideologici e religiosi. Riguarda aspetti economici e sociali di vitale importanza, perché se si vuole costruire un’economia moderna e dinamica occorre costruire una società altrettanto moderna e dinamica. Riconoscere, rispettare ed integrare le diversità è un elemento fondamentale dello sviluppo, oggi più che mai. Viviamo in un mondo in cui il sistema economico si regge sulle forme di creatività individuale.

E inoltre, sull’innovazione, sulla capacità degli individui di esprimere il meglio di se stessi e dare un contributo originale alla società che li circonda. Ma questo può avvenire solo in contesti capaci di stimolare e accettare le varie forme di espressione e di libertà individuali. Contesti capaci di valutare e valorizzare le persone per il loro contributo di idee, energia e competenze, e non per il Dio che pregano prima di andare a dormire o la persona che scelgono di avere accanto nella vita. Una società in grado di accettare le diversità è una società che sa motivare e gratificare i propri cittadini, che sa guadagnarsi il loro rispetto e la loro partecipazione sociale, civile, economica. È una società che cresce, che innova, che prospera. Da decenni gli studiosi ci mostrano questa relazione. Dalle ricerche condotte negli Anni 80-90 dal sociologo Ronald Inghleart, dell’Università del Michigan, fino ai lavori più recenti dell’economista Richard Florida, secondo cui la competizione globale per l’attrazione di talenti non può che essere vinta da società aperte e tolleranti, perché le persone più istruite, brillanti e creative sceglieranno di vivere in società dove sono libere di essere se stesse. I dati supportano queste tesi, sia all’interno degli Stati Uniti, in cui le città più aperte e tolleranti come San Francisco, Seattle o Austin hanno i tassi più elevati di innovazione e di concentrazione di talenti e creativi, che nei Paesi europei, dove Svezia, Danimarca, Olanda registrano, guardacaso, sia altissimi livelli di tolleranza verso le diversità e l’omosessualità, che alti livelli di innovazione, di sviluppo e di competitività economica.

Purtroppo l’Italia su questo fronte è molto indietro. Gli ultimi dati prodotti dalla Gallup sono assai eloquenti. Alla domanda se il proprio Paese fosse un buon posto per vivere per gay e lesbiche, solo il 49% degli italiani ha risposto di sì, contro l’83% degli olandesi, il 75% degli spagnoli e addirittura il 70% di un Paese tradizionalista come l’Irlanda, che fino a pochi anni fa era tra i più arretrati. Questo ci dice che l’Italia si sta pericolosamente chiudendo, proiettando dentro e fuori di sé un’immagine cupa e intollerante su cui sarebbe urgente intervenire. Certo, non è semplice cambiare le attitudini culturali e i pregiudizi. Ma non è impossibile, ed è proprio su queste sfide che si misura la buona politica. Mostrando ai cittadini che le diversità sono un diritto individuale e una risorsa collettiva, che le discriminazioni limitano le possibilità di sviluppo, e avendo il coraggio di prendere iniziative legislative innovative, la politica può spianare la strada ad una crescita sociale e culturale lungimirante. Perché è questo che deve fare: guardare più avanti di quanto tanti normali cittadini sono in grado di fare e assumersi la responsabilità di scelte giuste per il futuro. Vale forse la pena ricordare che negli Stati Uniti poco più di cinquant’anni fa (1967) coraggiosi membri della Corte Suprema dichiararono incostituzionali le leggi che in alcuni Stati del Sud ancora proibivano i matrimoni tra persone di razze diverse. La loro decisione fu presa nonostante il 73% dell’opinione pubblica americana, fosse, all’epoca, contraria ai matrimoni interrazziali. Così come cinquant’anni prima venne concesso il voto alle donne nonostante molti ancora sostenessero «che il voto alle donne avrebbe portato alla disgregazione della famiglia e dell’ordine morale della società». Quelle decisioni non furono mere questioni ideologiche o valoriali, ma hanno avuto conseguenze enormi sullo sviluppo economico e sociale degli Stati Uniti. Basta pensare a chi oggi ricopre le più alte cariche del Congresso e del governo americani per rendersi conto di quanto quelle scelte abbiano aiutato il Paese a divenire non solo una grande democrazia, ma una grande potenza economica, capace di far leva sulla motivazione, l’impegno e l’entusiasmo di tutti i suoi cittadini a prescindere dalla razza, dal genere, dalle preferenze religiose o sessuali. Perché niente motiva e stimola un essere umano più della consapevolezza di potersi realizzare in pienezza e in libertà.

da lastampa.it


Titolo: Orazio Licandro. Se la sinistra imita Guareschi
Inserito da: Admin - Novembre 08, 2009, 10:14:54 am
Se la sinistra imita Guareschi

di Orazio Licandro


Ieri, sfogliando "l’Unità", mi imbattevo in una strana epistola, avente come bersaglio alcuni leader della sinistra, ma come principale Oliviero Diliberto.

Destinatario della stessa era il neo segretario del Pd Pier Luigi Bersani scongiurato di evitare ogni contatto, quasi rischiasse un pericoloso contagio in tempi di virus influenzali, con il segretario del Pdci. Insomma un libello di quelli che solitamente si ascrivono al "genus" della polemica più dura. Almeno così pensavo dalle prime righe, senza peraltro soffermarmi sull’autore. Poi continuando a scorrerlo mi accorgevo che in realtà andava ben oltre quegli argini e riversarsi nel campo vasto e privo di confini dell’insulto da bettola o, se si preferisce, da trivio. Il motivo dell’aspra invettiva sarebbe la disponibilità di Bersani al dialogo con le forze di sinistra. Una valutazione politica, si direbbe, circa il tema delle alleanze; un legittimo, seppure poco condivisibile, punto di vista.

Ma in realtà, proseguendo nella lettura la politica lì si fatica a trovarla, anzi non se ne trova traccia. «Non ritirare fuori i fantasmi, le mummie sovietiche. ... La più grande carità che si può fare ai morti è di non resuscitarli... Diliberto... quello che odia Fellini e ama le barzellette di Pierino e i film carta igienica... che invece di Padre Pio, sul cruscotto della macchina ha incollato l’immaginetta di Stalin», e così via (e pure di peggio) dicendo. Che razza di argomenti per sostenere idee e visioni diverse!

Trovo davvero singolare e doloroso che un quotidiano di grande storia come "l’Unità" dia spazio a pensieri tanto insulsi quanto offensivi quantomeno verso il milione e 200mila votanti della lista comunista. Se guardiamo alle condizioni di un Paese in pieno degrado morale e civile per il sovvertimento della scala dei valori, stremato dalla crisi economica, con un tasso di disoccupazione impressionante, attraversato da pericolosi disegni di disgregazione dell’unità nazionale e di destrutturazione, a volte eversiva, della costituzione repubblicana, credo che i lettori de "l’Unità" non trovino affatto interessanti certe “opinioni”. E credo pure che non preferirebbero affatto né Mastella né Dini, fossero pure accompagnati dalla santa benevolenza di Padre Pio.

PS Ad un certo momento istintivamente ho ritenuto che l’estensore di quelle livide righe fosse Guareschi, il Guareschi nella versione anticomunista più acre, ma dedicando per mestiere sempre cura e attenzione ai testi mi sono presto accorto che si trattava nel migliore dei casi di un Guareschi non genuino, interpolato, guasto, anzi un falso: insomma uno pseudo-Guareschi. Perché quello autentico era certamente un anticomunista ma almeno era un solido scrittore che comprendeva la politica.

06 novembre 2009
da unita.it


Titolo: Fame, è record: 1 miliardo e 20 milioni "Per vincere la povertà puntare ...
Inserito da: Admin - Novembre 11, 2009, 04:44:45 pm
L'Indice Globale della fame redatto dall'Ifpri e presentato da Link 2007

Dal 1990 si è ridotto di un quarto, ma in Asia meridionale e Africa Subsahariana si sta peggio

Fame, è record: 1 miliardo e 20 milioni "Per vincere la povertà puntare sulle donne"

Solo adeguati investimenti per l'istruzione e la salute possono salvaguardare i bambini garantendo il futuro dei Paesi in via di sviluppo.

L'esempio di Sri Lanka e Botswana

di ROSARIA AMATO


ROMA - Per sconfiggere la fame spesso si cita il proverbio cinese che suggerisce di insegnare a un uomo a pescare, piuttosto che dargli direttamente un pesce. Ma dall'"Indice Globale della fame 2009", redatto dall'IFPRI (International Food Policy Research Institute), che l'associazione Link 2007 presenterà domani alla Farnesina (in vista del vertice mondiale sulla sicurezza alimentare dell'Onu, da lunedì a Roma) emerge un'indicazione diversa: se si vuole veramente sconfiggere la fame nel mondo bisogna puntare sulle donne, sulla loro istruzione e anche sul loro benessere. I Paesi che nel mondo presentano i livelli più alti di denutrizione (per esempio il Pakistan, o il Ciad), sono anche quelli che presentano la maggiore disuguaglianza di genere. E i Paesi che sono riusciti a sollevarsi, acquistando faticosamente un livello minimo di benessere, a cominciare dallo Sri Lanka, o dal Botswana, al contrario hanno approvato importanti riforme, garantendo l'istruzione alle donne, e promuovendo in modo ampio la parità di genere.

"L'eguaglianza di genere non è solo socialmente auspicabile: è un pilastro centrale nella lotta contro la fame", sostiene la Task Force istituita dall'Onu nel 2005 per il Progetto di lotta contro la fame. Il rapporto odierno pertanto non fa che ribadirlo: "Alti tassi di denutrizione sono connessi anche alle disparità tra uomini e donne relativamente alla salute e alla sopravvivenza". Gli autori esaminano una serie di casi virtuosi, nei quali è stato lo Stato a promuovere e finanziare politiche per l'istruzione delle donne: per esempio il Messico con il programma Oportunidades, grazie al quale le famiglie povere ricevono degli aiuti economici condizionati alla frequenza scolastica dei figli e alle visite mediche.

Un miliardo e 20 milioni, record di malnutriti. La scolarizzazione e la promozione del ruolo delle donne all'interno della società è considerato dunque uno strumento fondamentale per la lotta alla fame e alla povertà, che rimane ancora "il primo e il più pressante degli Obiettivi del Millennio", scrive nella prefazione del rapporto Elisabetta Belloni, direttore generale per la Cooperazione allo Sviluppo. "Un imperativo reso oggi ancora più drammatico e urgente dalle conseguenze della crisi economica e finanziariai mondiale sui Paesi in via di sviluppo, che ha aggravato gli effetti già disastrosi della crisi alimentare", ricorda Belloni. Tanto che il numero delle persone malnutrite nei Paesi in via di sviluppo ha raggiunto la cifra record di un miliardo e 20 milioni di persone. "Negli anni Ottanta e all'inizio degli anni Novanta - si legge nel rapporto - c'è stato un progresso nella riduzione della fame cronica. Nella decade scorsa la fame è stata in aumento".

GHI alto in Asia meridionale e Africa Subsahariana. Certo, guardando al 1990, anno che viene preso come riferimento dal rapporto, in effetti c'è stata una riduzione di un quarto dell'Indice Globale della Fame (GHI). Ma tale riduzione non è stata affatto omogenea: miglioramenti consistenti si sono registrati nel Sudest asiatico, Vicino, Oriente, Nord Africa, America Latina e Caraibi, ma il GHI "rimane alto in modo desolante in Asia meridionale, dove pure si sono registrati dei progressi rispetto al 1990, e in Africa Subsahariana, dove i progressi sono stati marginali". Infatti tutti i Paesi con il più alto valore di GHI si trovano in Africa Subsahariana: si tratta di Burundi, Ciad, Repubblica Democratica del Congo, Eritrea, Etiopia e Sierra Leone, paesi falcidiati ,oltre che dalla fame, dalla guerra e dai conflitti armati. I Paesi con un valore allarmante dell'Indice sono 29.

I Paesi con i miglioramenti più significativi. I miglioramenti più ampi in percentuale tra il 1990 e il 2009 si sono invece registrati in Kuwait, Tunisia, Figi, Malaysia, Turchia, Angola, Etiopia, Ghana, Nicaragua e Vietnam. Nel complesso, il GHI è sceso in 30 anni di solo il 13 per cento nell'Africa Subsahariana, del 25 per cento in Asia meridionale, di oltre il 32 per cento nel Vicino Oriente e in Nord Africa. Particolarmente significativi i progressi nel Sud-Est asiatico e in America Latina (-40 per cento).

Le cause principali della fame. I valori del GHI in Asia meridionale e Africa Subsahariana sono molto simili (rispettivamente 23 e 22,1) ma le cause dell'insicurezza alimentare sono diverse. In Asia meridionale, sottolineano gli autori del rapporto, "lo scarso accesso alle donne a una nutrizione ed educazione adegiate e il loro basso status sociale contribuiscono a un'alta prevalenza dell'insufficienza di peso nei bambini sotto i cinque anni". Mentre in Africa Subsahariana "la scarsa efficacia dei governi, i conflitti, l'instabilità politica e gli alti tassi di HIV e AIDS portano a un'alta mortalità infantile e a un'alta percentuale di persone che non possono soddisfare il proprio fabbisogno calorico".

L'eccezione del Ghana. Unica eccezione nella Regione è il Ghana, che ha più che dimezzato il proprio valore di GHI dal 1990 a oggi. In una opposta situazione si trova il Congo, che è in testa ai 'perdenti', i Paesi la cui situazione è cioè estremamente peggiorata. Seguono Burundi, Comore, Zimbabwe, Liberia, Guinea Bissau, Corea del Nord, Gambia, Sierra Leone, Swaziland. La Sierra Leone ha in particolare il più alto tasso di mortalità sotto il cinque anni.

La minaccia della crisi finanziaria. Nei prossimi anni, se non si provvede con politiche adeguate, potrebbe ancora aggravarsi la situazione dei Paesi già in forte sofferenza. L'IFPRI stima che la recessione e la riduzione degli investimenti in agricoltura "potrebbero portare entro il 2020 a 16 milioni di bambini malnutriti in più, rispetto a una situazione in cui la crescita economica continuasse e gli investimenti risultassero costanti".

Cosa serve: agricoltura sostenibile, sicurezza, salute. Risolvere i problemi legati alla malnutrizione non richiede solo ingenti stanziamenti economici, ma anche strategie di lungo periodo. Secondo Link 2007, associazione che raggruppa 10 tra le più importanti Ong italiane (Avsi, Cesvi, Cisp, Coopi, Cosv, Gvc, Icu, Intersos, Lvia, Medici con l'Africa CUAMM) e che si è fatta carico della traduzione del rapporto, bisogna mettere a punto innanzitutto una strategia in grado di ridurre le disparità di genere, "garantendo alle donne accesso all'istruzione e alla salute, condizioni essenziali per la loro emancipazione economica e politica e quindi per combattere la fame". "Là dove le donne sono più istruite - sottolinea ancora il rapporto - ed hanno accesso a servizi sanitari migliori, ne beneficiano tutti i componenti della familgia, in particolare i bambini sotto i cinque anni". Ma, ancora, bisogna "tornare a reinvestire nello sviluppo dell'agricoltura, con tecniche sostenibili e che non impattino negativamente sull'ambiente. "La fuga delle campagne verso le città - conclude Link 2007 - non è la soluzione al problema della fame. Lo è invece una strategia di lungo periodo volta a portare sicurezza, lavoro, salute ed educazione là dove mancano".

© Riproduzione riservata (11 novembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: Vertice Fao, i cinque punti
Inserito da: Admin - Novembre 17, 2009, 06:53:34 pm
 
Vertice Fao, i cinque punti


1) Sostenere la responsabilità dei governi nazionali e la necessità di investire nei programmi di sviluppo rurale come predisposti dai singoli governi.

2) Maggiore coordinamento tra strategie nazionali, regionali e globali per un migliore impiego delle risorse.

3) Un approccio binario che consiste in un’azione diretta per rispondere all’emergenza alimentare immediata, ma anche nell’adozione di programmi a medio e lungo termine per eliminare le cause di fondo della fame e povertà.

4) Vigilare perché il sistema multilaterale giochi un ruolo centrale grazie a miglioramenti continui dell’efficienza, della reattività, del coordinamento e dell’efficacia delle istituzioni multilaterali (in questo punto viene affrontata anche la questione della riforma della Fao e si sottolinea come la realizzazione dei vari impegni di aiuto assunti dai governi - da ultimo nella dichiarazione del G8 a L’Aquila - sia "cruciale").

5) Garantire un impegno sostenuto e sostenibile da parte di tutti i partner a investire nell’agricoltura e nella sicurezza alimentare in maniera tempestiva e affidabile, con lo stanziamento delle risorse necessarie dell’ambito di piani e programmi pluriennali.

da corriere.it




Titolo: IO voglio solo che le Mie PAGINE e i Nostri Gruppi continuino a partecipare ...
Inserito da: Admin - Agosto 09, 2021, 04:50:52 pm
Il Monitore Democratico.
 
Il MONITORE.

Immaginare Conoscere Realizzare.
Un mio antico motto, portato qui in Facebook.

IMMAGINARE un Progetto almeno ventennale di Sviluppo Sociale, Culturale, Industriale, Morale, che ci porti al Cambiamento.

CONOSCERE i cittadini "Differenti in Meglio", per arrivare insieme a vivere con civismo la progettazione del futuro;
conoscere come esprimere considerazione e amore verso i nostri Giovani, impegnati con pragmatismo progettuale nel cogliere le opportunità future,
offrire le conoscenze trovate nell'esperienza ma anche dalle visioni sociali, culturali, tecnologiche studiate, nel e per il Domanismo.

REALIZZARE il Progetto e insieme il sogno dei nostri Vecchi: arrivare ad essere una società serena per tutti in una Nuova Democrazia Socialista, Costituzionale e Parlamentare.
Realizzare per un migliore futuro la pacificazione nazionale, condivisa da Italiani uniti pur considerando le ovvie diversità regionali, arrivare con merito al migliore posizionamento dell'Italia nel mondo.
Realizzare che Italia e Italiani siano finalmente considerati all'estero con dignità e stima maggiori e diversi da come ci hanno malgiudicati nel passato e in fondo, ancora oggi ci considerano.
Eccezione fatta per la stima riconosciuta per il Presidente Mattarella e le già dichiarate positive, aspettative, sul Governo e nella persona del Presidente Draghi.

Gianni Gavioli
Italia 8 agosto 2021

Io su - Fb


Titolo: Il MONITORE ICR - Immaginare Conoscere Realizzare.
Inserito da: Admin - Agosto 15, 2021, 03:23:12 pm
1968
PASOLINI SULLA BATTAGLIA DI VALLE GIULIA

di mal
II PCI AI GIOVANI!

di Pier Paolo Pasolini

È triste. La polemica contro
il PCI andava fatta nella prima metà
del decennio passato. Siete in ritardo, figli.
E non ha nessuna importanza se allora non eravate ancora nati...
Adesso i giornalisti di tutto il mondo (compresi
quelli delle televisioni)
vi leccano (come credo ancora si dica nel linguaggio
delle Università) il culo. Io no, amici.
Avete facce di figli di papà.
Buona razza non mente.
Avete lo stesso occhio cattivo.
Siete paurosi, incerti, disperati
(benissimo) ma sapete anche come essere
prepotenti, ricattatori e sicuri:
prerogative piccoloborghesi, amici.
Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte
coi poliziotti,
io simpatizzavo coi poliziotti!
Perché i poliziotti sono figli di poveri.
Vengono da periferie, contadine o urbane che siano.
Quanto a me, conosco assai bene
il loro modo di esser stati bambini e ragazzi,
le preziose mille lire, il padre rimasto ragazzo anche lui,
a causa della miseria, che non dà autorità.
La madre incallita come un facchino, o tenera,
per qualche malattia, come un uccellino;
i tanti fratelli, la casupola
tra gli orti con la salvia rossa (in terreni
altrui, lottizzati); i bassi
sulle cloache; o gli appartamenti nei grandi
caseggiati popolari, ecc. ecc.
E poi, guardateli come li vestono: come pagliacci,
con quella stoffa ruvida che puzza di rancio
fureria e popolo. Peggio di tutto, naturalmente,
e lo stato psicologico cui sono ridotti
(per una quarantina di mille lire al mese):
senza più sorriso,
senza più amicizia col mondo,
separati,
esclusi (in una esclusione che non ha uguali);
umiliati dalla perdita della qualità di uomini
per quella di poliziotti (l'essere odiati fa odiare).
Hanno vent'anni, la vostra età, cari e care.
Siamo ovviamente d'accordo contro l'istituzione della polizia.
Ma prendetevela contro la Magistratura, e vedrete!
I ragazzi poliziotti
che voi per sacro teppismo (di eletta tradizione
risorgimentale)
di figli di papà, avete bastonato,
appartengono all'altra classe sociale.
A Valle Giulia, ieri, si è così avuto un frammento
di lotta di classe: e voi, amici (benché dalla parte
della ragione) eravate i ricchi,
mentre i poliziotti (che erano dalla parte
del torto) erano i poveri. Bella vittoria, dunque,
la vostra! In questi casi,
ai poliziotti si danno i fiori, amici.

-----------------------------

È certamente vero che quegli studenti erano borghesi (e figli di papà), ma poi nemmeno tutti: c'erano anche dei figli di poracci. Ma non era questo il loro errore: ché borghesi o figli della borghesia furono sempre, nel secolo di Marx ed Engels e nel secolo breve, nell'Ottobre o nella Resistenza, i quadri e i dirigenti delle lotte rivoluzionarie. L'errore loro era di scheletrire il marxismo ( e il leninismo, va da sé) e volere una rivoluzione come insurrezione e assalto al palazzo d'inverno, come assalto al potere delle multinazionali e così via..., senza un'analisi reale delle condizioni oggettive e soggettive, internazionali ed interne, dei rapporti di forza e delle egemonie − e quindi in una fase storica (non contingente) in cui "fare la rivoluzione" non poteva essere all'ordine del giorno. E, a causa di quell'errore, di avere come primo e principale nemico il PCI.
Ma quei poliziotti che, quella volta, venivano un po' menati e maltrattati a Valle Giulia, erano certamente dei poveracci, o se preferite poveri italiani; quei poliziotti a cui, come avevano insegnato e fatto Gramsci e Di Vittorio, bisognava parlare, spiegare che la causa della loro povertà non erano i comunisti, studenti o lavoratori, ma le classi economicamente e politicamente dominanti e i loro governi; quei poliziotti − Pasolini non avrebbe dovuto dimenticarlo − erano "la polizia" cresciuta da Scelba e dalla odiata (da lui, lui Pasolini) DC − e questo fu il capolavoro − nella convinzione che a rubar loro il pane fossero gli operai e i sindacati, e dunque come braccio violento e repressivo di ogni anelito alla giustizia sociale e alla libertà costituzionale, quella polizia era era la polizia che aveva per decenni bastonato gli operai e i braccianti che lottavano per il lavoro ed il salario, gli antifascisti che volevano si rispettasse la Costituzione Repubblicana e che i fascisti non tornassero al governo, i padri e fratelli di quegli stessi poveracci che avevano occupato le terre per conquistare la riforma agraria, i lavoratori del cinema e del teatro che avevano combattuto contro la censura; era la polizia che aveva scatenato jeep e cavalli a Genova e a Porta San Paolo, che aveva sparato a Modena e a Reggio Emilia e ad Avola e a Catania e in tutta Italia facendo decine e decine di morti; che aveva affiancato la mafia a Portella della Ginestra e che di lì a poco, decennio 69−79, avrebbe partecipato e organizzato la "strategia della tensione", le deviazioni e i depistaggi, la protezione degli stragisti e la eterodirezione dei brigatisti. E perciò, composta di poveracci sfruttati e vessati, era tuttavia − fino alla riforma sindacale e civile − e sarebbe poi ridiventata, fino all’ignominia di Genova − il braccio violento e repressivo delle classi dominanti.
di mal

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Titolo: È tempo di denunciare alla consapevolezza popolare che le Tv tutte, con ...
Inserito da: Admin - Agosto 16, 2021, 02:35:41 pm

È tempo di denunciare alla consapevolezza popolare che le Tv tutte, con pochissimi momenti eccezionali, stanno trattando gli utenti paganti o asfissiati dalle pubblicità in quelle private, da boccaloni microcefali.

Un Gregge a cui si possono propinare notizie ripetute e drogate dalle veline, praticare la tecnica delle omissioni delle news che fanno riflettere, recuperare spettacoli delle peggiori buche del passato, ecc. ecc.

Tutto questo e molto altro, sia per incapacità degli addetti creativi, sia per disposizione dei vari boss teleguidati da burattinai, incaricati di instupidire ancor più chi stupidamente li subisce.

ciaooo



Titolo: Perché abbiamo bisogno di trovare una cura per la morte sociale
Inserito da: Admin - Agosto 16, 2021, 03:09:23 pm
Perché abbiamo bisogno di trovare una cura per la morte sociale

Posta in arrivo

ggiannig <ggianni41@gmail.com>
sab 14 ago, 11:13 (2 giorni fa)
a me

https://it.innerself.com/social/justice/12908-why-we-need-to-find-a-cure-for-social-death.html
 


Titolo: Bene vixit qui bene latuit: la frase, derivata da «bene qui latuit bene vixit»
Inserito da: Admin - Agosto 21, 2021, 11:34:52 pm
Maria Farina

Bene vixit qui bene latuit: la frase, derivata da «bene qui latuit bene vixit» , tradotta letteralmente significa ha vissuto bene chi ha saputo stare ben nascosto. Evidente l'affinità con il consiglio epicureo λάθε βιώσας láthe biôsas, "vivi nascostamente" per non farti cogliere dai colpi del fato o dalla malvagità degli uomini.
Era il motto adottato dal filosofo e matematico Cartesio e da François de La Mothe Le Vayer.
Appare strana questa affermazione epicurea del vivere appartato se si considera che nella Grecia classica i cittadini discutevano di politica nelle piazze e si ritrovavano a far vita in comune nelle palestre e Socrate dialogava con chiunque nelle strade e per rispetto delle leggi della città aveva accettato una morte ingiusta. Per il greco la vita fuori della polis era impossibile mentre ora Epicuro, lontano dalla politica, insegna nel suo appartato giardino. Sono infatti passati 60 anni dalla morte di Socrate e i cittadini greci sono diventati sudditi della Macedonia e hanno perso l'elemento fondante della vita politica: la libertà. Per Epicuro ormai l'uomo non si identifica più con il cittadino anche se riconosce l'utilità di una società ordinata dalle leggi, che vanno rispettate poiché calpestandole non si può avere la certezza dell'impunità e quindi rimarrebbe il timore di un castigo che turberebbe per sempre la conquista della serenità ottenuta sostituendo i rapporti politici di pubblica solidarietà sociale con quelli privati basati sull'amicizia.

-------------------
Roberto Muliere

La vita politica per il fondatore del "Giardino" è sostanzialmente innaturale, comportando continuamente dolori e turbamenti, compromettendo απώνια (assenza di dolore) e ἀταραξία (tranquillità di spirito), in altre parole la "felicità". Infatti, solo illusioni sono quei momenti della vita pubblica che molti si aspettano dalla vita politica: il potere, la fama, la ricchezza sono piaceri né naturali né necessari e pertanto vuoti e ingannevoli. In buona sostanza, per Epicuro la vita pubblica non arricchisce l'uomo ma lo disperde, ed è questo il motivo della sua estromissione volontaria dalla pubblica piazza, vivendo in disparte dalle folle, ritirandosi in se stesso e vivendo nascosto (celeberrimi motti del messaggio epicureo). Ovviamente sulla base di queste premesse, è chiaro che Epicuro sia in netta antitesi sul diritto, sulla legge e sulla giustizia con l'opinione della Grecia classica e con le tesi filosofiche di Platone (che addirittura promosse sempre il ruolo del filosofo alla guida della polis) e di Aristotele. Il rovesciamento del mondo ideale platonico non potrebbe essere più radicale e la frattura con il sentimento classicamente greco della vita non potrebbe essere più decisa: l'uomo cessa di essere uomo-cittadino e diventa uomo-individuo, in cui l'unico collante ammesso è quello dell'amicizia, ossia un legame libero che unisce chi in modo identico sente, pensa e vive, senza che vi sia un qualsiasi fattore esterno che violi l'intimità dell'individuo, proprio perché nell'amico l'epicureo vede e identifica un altro se stesso.
Da Fb del 19 agosto 2021


Titolo: Facebook chiude il sistema di riconoscimento facciale degli utenti
Inserito da: Arlecchino - Settembre 15, 2021, 06:54:32 pm

Cari Amici in Facebook,

vessazioni di FB, censure, pretestuosità varie, sino all’attuale impedimento di fatto della mia partecipazione, mi costringono ad AUTOSOSPENDERMI sino a quando Facebook non mi enuncerà le proprie intenzioni.

IN CHIAREZZA.

Ovviamente i Gruppi devono restare attivi alla VOSTRA PARTECIPAZIONE, che mi auguro continuiate, … meglio di prima.

Ciaooo
Gianni Gavioli
 


Titolo: Vescovo PIZZIOLO, circondato da falsità di parte, dice una verità!
Inserito da: Arlecchino - Settembre 16, 2021, 10:27:59 am
Il vescovo Pizziolo contro il prosecco: «Monocoltura dannosa»

Posta in arrivo

Arlecchino Euristico
mar 14 set, 16:22 (2 giorni fa)
a me

https://www.ilgazzettino.it/nordest/treviso/vescovo_corrado_pizziolo_prosecco_monocoltura_vittorio_veneto-6177149.html

Inviato da Posta per Windows

 



Titolo: Il MONITORE Alla liberazione da parte di Fb de IL MONITORE! Pace e serenità ...
Inserito da: Arlecchino - Settembre 20, 2021, 05:36:20 pm
Gianni Gavioli
Amministratore
 
Il MONITORE

Alla liberazione da parte di Fb de IL MONITORE!
Pace e serenità tra noi!

Se decidete che ogni pagina per essere libera di partecipare deve pagare un abbonamento diteci a quanto ammonta.
Siete troppo importanti per rinunciare alla possibilità di comunicare tra di noi AMICI IN FACEBOOK.

ggiannig
PS: adesso il Re è Nudo, finitela lì!
Datemi l'accesso a IL MONITORE!

IO SU Fb il 20 SETTEMBRE 2021


Titolo: IO voglio solo che le Mie PAGINE e i Nostri Gruppi continuino a partecipare ...
Inserito da: Arlecchino - Settembre 26, 2021, 12:08:58 am
ARLECCHINO EURISTICO

Facebook dopo aver massacrato la mia pagina IL MONITORE, nell'intento di ricavare denaro dai miei post e da attività ed eventi, a pagamento, che non ho richiesto e che vogliono obbligarmi a fare con l’inganno e le vessazioni impostemi da mesi!!

In questi giorni tenta di ripetere “l’orrenda cosa” con la mia Pagina ARLECCHINO EURISTICO
Non sono una azienda non ho nulla da vendere e per il momento non mi occupo di Eventi.
Sono il nickname di un personaggio pubblico che ha diretto (con altri amici all’inizio) un importante FORUM NAZIONALE per decine d’anni e oggi è un Protagonista (non soltanto una FACCIA DEL LIBRO) IN Facebook.

Non vorrei, dopo essere stato costretto ad oscurare Il Monitore e autoescludermi dal Gruppo “SOCIALESIMO DEMOCRAZIA SOCIALISTA Centro e Sinistra Uniti”
da me e come Amministratore, affidato ai Membri e ai nuovi Esperti e Moderatori, essere costretto a privare Fb della presenza di Arlecchino Euristico.

Io non ho problemi con Facebook e non faccio polemiche sulle recenti iniziative, fatti loro altri giudicheranno.

IO voglio solo che le Mie PAGINE e i Nostri Gruppi continuino a partecipare in modo democratico e con il rispetto di CITTADINI ITALIANI ad essere presenti e attivi in Fb.
Ovviamente mi riservo di verificare la correttezza di simili comportamenti.

PER ORA non altro ma seguitemi!
ggiannig ciaooo





Titolo: LAU - ESSERE in "MOLTI SOLI" si starà meglio, tra noi "Differenti" dalla Massa.
Inserito da: Admin - Ottobre 03, 2021, 12:33:04 pm
http://forum.laudellulivo.org/index.php

L'HO IDEATO 20 ANNI FA e gestito sempre da "SOLO".

Qui ne LAU ho moltissimi lettori e quasi nessun scrittore a cui lasciare in eredità (per modo di dire) un'opera importante di libertà di pensiero.

Voglio rimediare!

Non ho mai concesso l'iscrizione se non a pochissime persone selezionate nel pensiero e nei propositi.
Adesso voglio allargare la possibilità di scrivere a chi tra i moltissimi lettori (Ragni Predoni a parte) ha voglia e interesse a partecipare.

Questi "Cittadini Differenti" potranno farlo facendosi conoscere nella mia posta privata - ggianni41@gmail.com - o iscrivendosi direttamente e proponendosi qui.

Non ci sarà una selezione preventiva, di controllo dei post e neppure le manipolaioni con cui ci ha offeso da mesi Facebook, semplicemente a posteriori e quotidianamente saranno eliminati gli Sfascisti e gli Incivili.
DEMOCRATICAMENTE.

ggiannig ciaooo  



Titolo: Un Titolo come Tema da svolgere.
Inserito da: Admin - Ottobre 03, 2021, 01:30:44 pm
Un Titolo come Tema da svolgere.

SINISTRA ESSENZIALE

IL MONITORE (ripescaggio di un GIORNALE del Risorgimento)

La COLLINA DEI CURIOSI LA MIGLIORE UMANITA’

Il SOCIALESIMO DEMOCRAZIA E SOCIALISMO

I DIFFERENTI (inteso come Cittadini Differenti dalla Massa)

DOMANISMO Progetti e Idee per immaginare il Futuro (soprattutto l’invito a mettere nel cassetto il Passato, a disposizione solo per studiarlo).

---

Sono termini che ho ideato o rilanciato nei Titoli, sempre aggiornati, a favore dei miei GRUPPI di Amici in FaceBook.

Nel cambiamento che dobbiamo IMMAGINARE, CONOSCERE e REALIZZARE (ICR) le PAROLE avranno una importanza basilare, per poter essere usate con efficacia a favore della MASSA di INCONSAPEVOLI COMPLICI del disastro Italia, che DRAGHI deve insegnarci a cambiare.
 

ggiannig ciaooo


Titolo: Re: Il MONITORE - OSCURATO DA FB.
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 04, 2021, 02:35:13 pm
Il MONITORE.

Pagina · Follower: 202

@ggiannig
Informazioni e motivi di riflessione sociopolitica e ambientalista.


Fb mi definisce personaggio pubblico e ha ragione, ma mi impedisce che lo si copi e incolli.

4 ottobre 2021



Titolo: FACEBOOK permettendo, sto pensando al pieno e incondizionato recupero ...
Inserito da: Admin - Ottobre 20, 2021, 07:12:17 pm
Sto pensando al pieno e incondizionato recupero di visibilità e attività della mia tormentata Pagina IL MONITORE.


Le vicende patite mi/ci hanno suggerito di portare avanti il Progetto di far diventare, entro 6 mesi, Il Monitore una rivista aperiodica di informazione e formazione sociopolitica, dell'area di CENTROSINISTRA.


Non escludiamo che dopo aver superato alcune difficoltà economiche e burocratiche, la suddetta rivista si possa rinominare il MONITORE DISSIDENTE editata dall’editore IL MONITORE.

Accettiamo adesioni (dopo attenta valutazione di nonno Gianni).

ciaooo  



Titolo: FACEBOOK permettendo Sto pensando al pieno e incondizionato recupero ...
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 21, 2021, 06:20:56 pm


Continuo a non poter scaricare le news dei giornali con la menzogna ipocrita e vergognosa dell'errore.

Scusate lo sfogo!

ciaooo


Titolo: Il MONITORE - ancora asfissiato, inagibile per il copia-incolla dai giornali.
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 21, 2021, 09:55:17 pm
Continuano a non farmi scaricare le news dai giornali, con la menzogna ipocrita e vergognosa dell'errore.

Scusate lo sfogo!

ciaooo


Titolo: Contenere il concetto assoluto di DEMOCRAZIA e il progetto sociale di SOCIALISMO
Inserito da: Admin - Ottobre 25, 2021, 02:50:03 pm
SOCIALESIMO. Perché.

Perché è un termine nuovo che deve contenere il concetto assoluto di DEMOCRAZIA e il progetto sociale di SOCIALISMO.

Perché è molto meglio utilizzare “esimo” come per esempio:
cristianesimo, cattolicesimo, umanesimo, battesimo, confucianesimo, incantesimo ecc. ecc. sino al mio ultimo parto SOCIALESIMO!

“Esimo”, suffisso che unito a molte parole e infiniti numeri ci porta a più ampie vedute e maggiore ricchezza di contenuti, rispetto al cugino “ismo”, già più oppressivo di suo.

ggiannig ciaooo


Titolo: Facebook chiude il sistema di riconoscimento facciale degli utenti
Inserito da: Arlecchino - Novembre 03, 2021, 01:44:01 am
Facebook chiude il sistema di riconoscimento facciale degli utenti

Posta in arrivo

Arlecchino Euristico
mar 2 nov, 21:27 (4 ore fa)
a me

Lo ha annunciato la società in una nota ufficiale diffusa sul blog della holding Meta: "Le autorità di regolamentazione sono ancora intente a fornire un chiaro sistema di regole che disciplinano il suo utilizzo". Addio alla funzione introdotta dal social nel 2010 -

https://www.agi.it/innovazione/news/2021-11-02/facebook-chiude-sistema-riconoscimento-facciale-utenti-14417677/

Inviato da Posta per Windows

...

[Messaggio troncato]  Visualizza intero messaggio


Titolo: Il MONITORE - OSCURATO DA FB. Post scritto in FB il 6 dicembre 2021
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 06, 2021, 11:03:06 am
IL MONITORE è disattivato e impraticabile da tempo.

FATEMI SAPERE IN MODO COMPRENSIBILE alle persone normali cosa intendete fare!

Gavioli Gaetano Giovanni (come da mia carta d'identità inviatavi da tempo).

ggiannig ciaooo

PS: di questo post farò copia


Titolo: Scritto oggi in FB: AVETE STERILIZZATO E RESO INFECONDA LA PAGINA IL MONITORE...
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 15, 2021, 04:13:52 pm
AVETE STERILIZZATO E RESO INFECONDA LA PAGINA IL MONITORE! VI DIFFIDO DAL PROSEGUIRE NELL'INTRALCIARE GLI ALTRI MIEI GRUPPI!

ggiannig ciaooo

Rivolgio la vita attiva della mia pagina IL MONITORE!


Titolo: Facebook si chiude in META?
Inserito da: Admin - Gennaio 09, 2022, 03:33:25 pm
NON SAPPIAMO cosa ci prepara la nuova realtà di nome META.

Disponibili come sempre ma non sottomessi apaticamente, staremo a vedere.

ggiannig ciaooo


Titolo: Guarda "BENVENUTI NEL METAVERSO!" su YouTube
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 12, 2022, 06:40:10 pm
Guarda "BENVENUTI NEL METAVERSO!" su YouTube

Posta in arrivo

ggiannig <ggianni41@gmail.com>
dom 28 nov 2021, 09:20
a me

https://youtu.be/QNMGPe7-gO4
 
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