Stefano FOLLI. -
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di Stefano Folli
Al voto un Paese che cerca stabilità e futuro
13 aprile 2008
Fra i numerosi e spesso disincantati giudizi della stampa straniera sulle nostre elezioni, spicca quello del «Pais». Da martedì l'Italia, scrive il quotidiano spagnolo, avrà bisogno di «un governo forte». Semplice ma chiaro. Equivale a dire che la nuova stagione, di cui tanto si parla, sarà messa presto alla prova. Non basta invocare il bipolarismo e nemmeno è sufficiente crearne i presupposti, come pure è avvenuto in questa lunga campagna a opera di Veltroni, prima, e di Berlusconi, poi. È necessario che il bipolarismo, una volta consacrato nelle urne, dimostri di saper fornire al Paese le risposte attese. E la prima di queste risposte è un governo solido, coeso e determinato. Capace di trasmettere serenità, senza inutili tensioni istituzionali.
Su questo punto è bene essere chiari. Né Berlusconi né Veltroni hanno saputo offrire fin qui un progetto davvero coerente, un'idea generale dello sviluppo, quella che si può definire una visione convincente del destino nazionale. Ognuno ha proposto le sue ricette acchiappa-voti, più o meno suggestive e tutte molto onerose. Tuttavia, essere leader all'interno di una condizione drammatica sul terreno economico e sociale imporrà a entrambi una prova di maturità assai dolorosa.
È possibile, ma non sicuro, che da martedì chi prevarrà cominci a rivolgersi agli italiani con un linguaggio diverso, fatto di crude verità piuttosto che di rassicuranti promesse. Ma in quel caso sarà opportuno che non sia solo il vincitore (ammesso che domani sera ce ne sia uno) a mostrare un volto responsabile. Anche lo sconfitto dovrà compiere in fretta lo stesso percorso. Quello spirito di solidarietà nazionale da varie parti invocato dovrà manifestarsi in primo luogo su questo terreno. Anziché assistere alla solita corsa per accaparrarsi le cariche istituzionali e i posti di governo, ci piacerebbe che prendesse forma un nuovo stile, più austero e asciutto. Adatto agli anni incerti in cui viviamo e idoneo a descrivere le virtù del «nuovo» bipolarismo che nelle ultime settimane è stato issato sulle bandiere e annunciato nelle piazze.
È assurdo immaginare un vincitore, magari di stretta misura, che si carica sulle spalle l'intero onere del governo e un perdente che si dedica a un'opposizione distruttiva, nel segno della peggiore demagogia parlamentare. Meglio sperare che il populismo morbido, nella doppia versione di destra e di sinistra, sia finito con la conclusione di una campagna elettorale francamente troppo lunga, confusa e superflua. Fra poche ore Berlusconi e Veltroni, nei ruoli che gli italiani avranno deciso di assegnare loro, dovranno dimostrare di aver voltato pagina.
S'intende, non c'è da farsi troppe illusioni. Il «governo forte» di cui parla il "Pais" non può che essere il frutto di un sistema politico consolidato. Viceversa, qui siamo ai primi passi di una Seconda Repubblica ancora gracile, bisognosa di far dimenticare i danni e le contraddizioni in cui si sono consumati i lunghi anni della transizione post-Tangentopoli. Poche riforme, istituzioni ingessate, competitività del sistema insoddisfacente. Quel che è peggio, crescente diffidenza dei cittadini verso una classe politica avviluppata nei suoi privilegi. Non è un caso che si avverta il vento dell'anti-politica su queste elezioni: sia nel numero degli indecisi, sia nelle voci che vogliono la Lega di Bossi in grado di cogliere un risultato importante nel Nord.
Se la campagna elettorale fosse stata breve e concisa, gli italiani avrebbero apprezzato. In fondo, è vissuta sulla novità politica dell'inizio: la rottura fra il Partito Democratico veltroniano e la sinistra comunista-ambientalista, cui ha fatto riscontro la nascita del Popolo della Libertà. Da settimane continuiamo a misurare questa doppia novità, che in effetti segna un cambiamento di scena rilevante. Ma nessuno può dire se da un'operazione di sofisticato «marketing» politico potrà mai nascere, da un giorno all'altro, il governo efficiente di cui il Paese ha urgente bisogno.
Anche perché si dovranno contare con attenzione i seggi e valutare la situazione. Quelli della Camera dovrebbero dare una maggioranza stabile al Popolo della Libertà. Se così non fosse sarebbe una sorpresa clamorosa. Al contrario, quelli del Senato delineano, come è noto, una sfida aperta fra Pdl e Pd nelle singole regioni, in cui giocano da comprimari i partiti intermedi, Casini e Bertinotti. Ma senza una maggioranza chiara e visibile anche a Palazzo Madama avremo una sconfitta del bipolarismo, più che l'annuncio della nuova stagione.
Ci sarà tempo in quel caso per capire quale strada conviene imboccare. Ma è evidente che oggi il bene del Paese coincide con una maggioranza solida, in grado di esprimere un governo credibile. Abbiamo vissuto troppi anni nel segno di coalizioni paralizzate. Ora la novità del 2008, cioè la nascita di un tendenziale bipartitismo, merita di essere giudicata alla prova dei fatti. Il che non significa sottovalutare la necessità di una concreta convergenza parlamentare sui grandi temi legati alle riforme.
Legislatura costituente, si è detto. Molto bene. Purché si abbia il coraggio di non inseguire un facile consenso giorno dopo giorno e si riesca a lavorare insieme in Parlamento nell'interesse delle istituzioni, anche a costo dell'impopolarità. Quante volte negli anni abbiamo sentito esprimere queste buone intenzioni? Infinite. La differenza è che stavolta siamo giunti al limite estremo. L'Italia non è in grado di sopportare un'altra legislatura fallita. Un altro ritorno precoce alle urne. Un governo «forte» in quanto consapevole dei suoi doveri, fondato su di una chiara legittimità elettorale, è il senso del voto di oggi e domani. La posta in gioco è un Paese più moderno, capace di uscire dalla gabbia che lo imprigiona.
da ilsole24ore.com
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Il punto di Stefano Folli
Stefano Folli nasce a Roma da famiglia di origini milanesi. Laureato in lettere, muove i primi passi nel giornalismo alla "Voce Repubblicana", l'organo storico del Pri allora guidato da Ugo La Malfa. Nel 1981 viene nominato direttore responsabile della nuova edizione della "Voce". Collaboratore di Giovanni Spadolini, Folli ne è il portavoce a Palazzo Chigi durante l'esperienza del primo governo a guida laica, fra il 1981 e '82. Nel 1989 passa al "Tempo" come caporedattore politico. Dalla fine del '90 è al "Corriere della Sera", come notista politico e, più tardi, editorialista, fino ad assumerne la direzione tra il 2003 e il 2004. Dal 2005 è editorialista de "Il Sole 24 Ore". Folli ha anche fondato e diretto la rivista di affari internazionali "Nuovo Occidente". Ha vinto alcuni premi di giornalismo, tra i quali il St. Vincent, il premio Ischia e il Fregene.
stefano.folli@ilsole24ore.com
Nelle urne il difficile futuro del bipolarismo all'italiana
27 maggio 2009
La più brutta campagna elettorale degli anni recenti, è giunta al suo culmine. Tra dieci giorni si voterà per il Parlamento europeo, di cui per la verità sembra non interessare a nessuno, e per le amministrative. Quello che accadrà dopo, non è dato sapere. Ma l'impressione è che i fragili equilibri di quella complicata costruzione che chiamiamo bipolarismo saranno messi a dura prova. Gli indizi non mancano e questo spiega la straordinaria tensione che domina la scena politica, sia nel campo berlusconiano sia in quello dei suoi oppositori.
Questi ultimi sono impegnati nello sterile gioco di rubarsi i consensi l'un l'altro. Fa eccezione Casini, convinto – forse a ragione – di poter trarre profitto dalla sua posizione assolutamente «centrista», nel segno del buon senso moderato. Viceversa, la guerra delle mozioni parlamentari fra Di Pietro e il Partito democratico trasmette un messaggio contraddittorio e confuso.
Certo, non ha torto Dario Franceschini quando afferma che l'iniziativa dell'Italia dei valori, per un atto parlamentare di sfiducia al presidente del Consiglio, avrà il solo effetto di provocare un travolgente voto della maggioranza a sostegno del suo leader. Ma non maggiore fortuna toccherà alla mozione del Pd contro il «lodo Alfano». La verità è che i due partiti si «marcano» a vicenda, si direbbe in linguaggio calcistico. I democratici non sopportano di essere scavalcati dai dipietristi e magari obbligati a seguire il ritmo della musica suonata dall'ex magistrato. E quest'ultimo prosegue nella sua spregiudicata campagna, volta a rastrellare voti nel campo del centro-sinistra (o della sinistra radicale) in nome dell'intransigenza anti-berlusconiana.
Vedremo quale sarà l'esito di queste manovre. Senza dubbio, però, il fatto che il Pd sia obbligato a difendersi di fronte all'offensiva quasi quotidiana di un personaggio che dovrebbe essere suo alleato, e che sul piano dei numeri rappresenta solo una frazione della forza elettorale dei democratici, la dice lunga sulle difficoltà del partito post-veltroniano.
Quanto a Berlusconi, la teoria del complotto ai suoi danni, emersa nell'intervista di ieri a «Libero», è la spia di uno stato d'animo inquieto e irrequieto. Il premier teme una cospirazione, una trama, è convinto che prima delle elezioni i suoi nemici tenteranno altri colpi contro di lui. Per scalzarlo o comunque per indebolirlo. Per «intimidirlo», come dice Capezzone. La via d'uscita che gli sembra a portata di mano è il successo elettorale. Quella frase che gli è stata rimproverata («gli italiani sono con me») tradisce il suo vero pensiero. A parole Berlusconi afferma di non voler fare delle elezioni europee un plebiscito personale. In realtà vorrebbe proprio questo.
Solo che non può dirlo, perché non è ancora sicuro che il caso Noemi o l'affare Mills saranno privi di conseguenze negative nelle urne o addirittura si tradurranno in un aumento del consenso (il «boomerang per la sinistra»). Sul piano ufficiale, questa è la tesi enunciata dai suoi collaboratori. Ma Berlusconi sa distinguere la propaganda dalla realtà. E sa bene che questa situazione alla lunga non lo favorisce. Nessuno pensa che il Pdl vada incontro a un insuccesso, ma la notte del 7 giugno occorrerà contare con attenzione i voti. Un'avanzata travolgente di Bossi, ad esempio, prevista da molti, avrebbe un chiaro significato: un segnale a Berlusconi, una minaccia alla leadership incontrastata da lui esercitata finora.
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da ilsole24ore.com
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Il sofferto «sì» del Quirinale lascia ferite politiche e istituzionali
di Stefano Folli
Si può dire tutto del decreto del governo, tranne che sia «interpretativo»: cioè che si limiti a offrire una lettura chiarificatrice delle norme elettorali in vigore. In realtà il decreto innova. E non poco: addirittura retrodatando certe innovazioni, sempre che il testo diffuso sia quello definitivo. Risponde senza dubbio all'obiettivo che Silvio Berlusconi si era posto: permettere «l'esercizio del diritto di voto» ai cittadini della Lombardia e del Lazio, al di là dei «formalismi». Ossia, come è noto, dei disastri commessi dal Pdl all'atto della presentazione delle liste.
Qualcuno dice: in fondo è il male minore. Lo fa capire anche il Quirinale, quando suggerisce che il decreto di ieri sera è diverso da quello prospettato a Napolitano ventiquattro ore prima. Quello sì, a quanto pare, molto più invasivo. Se è così, ci si muove sul filo del rasoio in una materia, quella elettorale, davvero incandescente. Il presidente della Repubblica è molto esposto ed è costretto a procedere lungo un sentiero che non è mai stato così stretto. Da un lato c'è il problema di garantire il voto a milioni di cittadini in due regioni di primo piano. Dall'altro, l'esigenza di rispettare una legge astrusa, forse anacronistica, ma pur sempre una legge.
Il Partito democratico, che si oppone ovviamente al decreto, e anzi si prepara ad alzare il livello della polemica politica, evita di accrescere le difficoltà del capo dello stato. D'Alema «copre la corona», rilevando che non spetta al Quirinale valutare l'opportunità politica di un atto del governo, ma solo la sua palese incostituzionalità. Come dire: il decreto interpretativo non è una ferita plateale alla Costituzione e dunque la controfirma di Napolitano è possibile.
Altri, nei ranghi dell'opposizione, non sono così prudenti. Di Pietro ha già lanciato una sorta di «chiamata alle armi» in difesa della Carta costituzionale; i radicali di Emma Bonino sono perentori; nello stesso Pd c'è chi (Rosy Bindi, Arturo Parisi) considera la scelta del governo alla stregua di un oltraggio. Ma è soprattutto la reazione dell'Italia dei valori ad avere un valore politico dirompente. Si capisce che tutta la campagna elettorale sarà giocata intorno al supposto «golpe». E il Pd sarà costretto a confrontarsi con Di Pietro su di un terreno assai scivoloso, perché finisce per tirare in ballo l'operato del capo dello stato.
Come è evidente, il passaggio è molto delicato. Il decreto ha un'utilità immediata, a patto che sia pubblicato oggi dalla Gazzetta ufficiale dopo l'indispensabile firma del presidente. È uno strumento potente per premere sui tribunali amministrativi che devono decidere sui ricorsi tra oggi e lunedì. Si può dire che il decreto copre le spalle ai Tar e li aiuta a prendere una decisione che da giorni si presentava, sì, come giuridica, ma con un clamoroso impatto politico.
In ogni caso gli avvenimenti delle ultime ore sono destinati a lasciare un'impronta sulle istituzioni. È facile capire con quale spirito il presidente della Repubblica si sia accinto alla firma. Se lo ha fatto, è perché ha ritenuto di dover evitare un grave scontro istituzionale. Senza dubbio un ruolo lo ha svolto nelle ore cruciali il presidente della Camera e questo dimostra che Fini, al di là delle polemiche, ha compiti preziosi di raccordo tra i palazzi romani. Certo, dopo questa vicenda è difficile immaginare che destra e sinistra tornino a discutere a breve di riforme. La verità è che Berlusconi ha ottenuto il suo scopo, ma le macerie stanno aumentando.
6 marzo 2010
da ilsole24ore.it
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CAMPAGNA ELETTORALE /
Il buon senso si è smarrito nel labirinto buio delle risse
di Stefano Folli
Siamo piombati nel pieno della campagna elettorale. S'intende, nel modo peggiore possibile. L'idea che nelle prossime settimane il confronto politico si svolga, con tutta l'asprezza possibile, interno al ridicolo "pasticcio" delle liste e alle sue conseguenze è piuttosto scorante. Si dirà che l'opposizione non ha dimostrato "fair play" verso le disavventure del centrodestra, ed è anche vero. Ma non si può negare che susciti qualche perplessità l'immagine di un presidente del Consiglio che scende in campo in prima persona contro i magistrati e l'ufficio elettorale di Roma per rivendicare un diritto compromesso non da oscuri complotti, ma da errori unilaterali (negati) ed evidenti inadempienze.
Si era detto nei giorni scorsi che il "pasticcio" andava risolto facendo ricorso al buon senso. In fondo il Quirinale, nel momento in cui ha firmato, non senza sofferenza, un discutibile decreto interpretativo visto come il male minore, si è appellato proprio al buon senso. Sarebbe stato meglio, a quel punto, che anche il premier restasse fedele allo stesso principio. Tanto più che il caso realmente grave per i suoi effetti (il rigetto delle liste in Lombardia) era stato sanato grazie al decreto. Il caso del Lazio è minore, considerando che Renata Polverini è in grado di competere con la sua lista personale. Aver voluto scegliere proprio questo terreno per eccitare gli animi e avviare la campagna, è un'iniziativa di cui si capirà la logica solo la sera del 29 marzo, quando si conteranno i voti e si vedrà chi ha saputo parlare meglio al paese.
Per il momento bisogna dire che lo spettacolo complessivo non è stato edificante. Dalla classe politica ci si aspetta qualcosa di più e di meglio. Dallo stesso presidente del Consiglio ci si attenderebbe qualcosa di meglio che una conferenza stampa all'insegna del vittimismo e dell'insofferenza, con tanto di battibecco con un "contestatore". E tutto per negare il pasticcio che peraltro è sotto gli occhi di tutti e che lo stesso Berlusconi aveva ammesso a caldo, parlando dei protagonisti della vicenda come di una «massa di deficienti».
Ora invece siamo alle manifestazioni di piazza. È chiaro che il premier ha scelto questo terreno per avviare lo scontro elettorale. Nonostante il decreto, nonostante il gesto di Napolitano diretto, con ogni evidenza, a evitare l'inasprimento della tensione. Se la sinistra ha mancato di "fair play", il meno che si possa dire è che la maggioranza ha fatto di peggio. Una volta risolto il caso della Lombardia, il Lazio meritava ben altra sobrietà. Come sempre dovrebbe essere quando è in gioco il delicato capitolo delle regole. Ossia quel complesso di vincoli e condizionamenti che scandiscono la vita quotidiana del comune cittadino, spesso in misura eccessiva. L'enfasi con cui la classe politica si occupa delle proprie omissioni, per minimizzarle, è davvero uno sforzo degno di miglior causa.
Anche per questo si avverte in giro un certo disorientamento, a seguito della "pochade" delle liste. E non stupisce che i sondaggi, a cominciare da quello Ipsos-Sole 24 Ore sul Lazio, indichino una parziale disaffezione, una scarsa motivazione da parte dell'opinione pubblica. Berlusconi ritiene di poter risollevare gli indici aumentando il tasso di aggressività della campagna. In altre occasioni ha avuto ragione. Ma stavolta, persino più che in passato, dovrà spogliarsi dei panni di capo del governo per indossare quelli di capo fazione. E non è detto che la fortuna sia sempre dalla sua parte.
11 Marzo 2010
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da ilsole24ore.com
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Se si rompe il tabù della legge elettorale meno alibi per Pdl e Pd
Stefano Folli
9 aprile 2010
Non sappiamo se l'Italia diventerà presidenziale, semi-presidenziale, con un premier più forte o nulla di tutto questo.
Al momento nel discorso sulle riforme prevale la nebbia più spessa. Bisogna tuttavia dare atto a Gianfranco Fini di aver rotto un tabù sul quale il centrodestra aveva sempre glissato. Il tabù della legge elettorale.
Il presidente della Camera, parlando ieri in un seminario di «Farefuturo», ha detto una semplice verità: va bene discutere di una repubblica semi-presidenziale «alla francese», ma è ovvio che a un tale mutamento istituzionale deve accompagnarsi un modello elettorale adeguato.
In Francia esiste l'uninominale maggioritario a doppio turno, il più idoneo a sostenere quell'assetto. Da noi viceversa è in vigore un sistema (ribattezzato ironicamente il «porcellum») che scontenta tutti tranne le segreterie dei partiti, visto che sono queste ultime a «nominare» i parlamentari grazie al meccanismo delle liste bloccate.
È una contraddizione che va sciolta, sebbene la maggioranza abbia fin qui schivato il problema con l'argomento che la legge elettorale non è materia costituzionale, bensì ordinaria; e come tale sarà discussa solo al termine del lungo iter riformatore.
Al contrario, Fini ha stabilito un nesso diretto fra il rinnovamento costituzionale e la legge elettorale. In questo modo ha ottenuto due risultati. In primo luogo, ha reso evidente che all'interno del centrodestra non è ancora maturato un chiaro indirizzo. Al di là dei risvolti mediatici e delle buone intenzioni, il rapporto di lealtà/rivalità fra Berlusconi e Bossi non ha fin qui sciolto i dubbi sul «che fare». E quindi, nel giorno in cui il presidente della Camera mette sul tavolo la questione del modello elettorale, tutti sono obbligati a definire meglio le posizioni.
Non bisogna dimenticare, ad esempio, che ancora ieri un esponente autorevole del Pdl come il senatore Quagliariello spezzava una lancia a favore del «premierato forte». Ossia la tesi più gradita nel campo del centrosinistra, che ne ha fatto uno dei passaggi chiave della cosiddetta «bozza Violante». Con un po' di malizia si potrebbe dire che sono in molti, a destra, gli aspiranti architetti dell'ipotetico accordo con un Pd peraltro imperscrutabile e scettico. Diffidente verso la «grande riforma» quasi quanto Berlusconi che sembra credere poco agli sforzi in atto e semmai si prepara ad affrontare i temi economici (non a caso il premier parlerà a Parma al convegno della Confindustria).
Del resto, la mossa di Fini - ed è il secondo punto - aiuta l'opposizione a rientrare in gioco. È vero che il partito di Bersani deve ancora decidere se e come partecipare alla partita in corso. Ma l'argomento della legge elettorale è un bel tema per sedersi al tavolo del negoziato. Purché non se ne voglia fare un uso solo strumentale e tattico, cioè di pura interdizione. Collegandola invece al riassetto dello Stato (semi-presidenzialismo, premierato forte), la bandiera della riforma elettorale permetterebbe al Pd di confrontarsi in campo aperto con il fronte Pdl-Lega. Anche per mettere a fuoco quali sono i giochi all'interno della maggioranza, quali i margini di equivoco. E fino a che punto Bossi è disposto a muoversi, se necessario, anche in autonomia da Berlusconi.
Senza dubbio il Pd non può permettersi di restare inerte, ai margini di un processo che sta iniziando. Come ripete il capo dello Stato, la legislatura non può essere sprecata. Ciò che è realizzabile, va realizzato.
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da ilsole24ore.com
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