Stefano FOLLI. -

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Una vittoria di Pirro per il premier

di Stefano Folli


La logica politica suggeriva un accordo o almeno un patto di convivenza che stabilisse le regole della reciproca sopportazione tra Berlusconi e Fini. All'opposto c'era l'ipotesi della scissione immediata e concordata dei due tronconi, Forza Italia e An, da cui era nato, fra eccessive contraddizioni, il Popolo della Libertà. Nella sostanza il vertice del partito berlusconiano ha scelto una terza via, come tale non priva di qualche ambiguità e di parecchi rischi.

Nessuna espulsione, ma una sfida frontale al presidente della Camera, una totale delegittimazione dell'uomo che avrebbe creato un «partito nel partito» e avrebbe cessato di rappresentare un punto d'equilibrio istituzionale. Può darsi che questa scelta berlusconiana sia efficace per regolare i conti con un avversario interno ormai intollerabile, lo è molto meno per garantire all'esecutivo e alla legislatura un cammino sereno.

Si potrebbe dire che il lungo, estenuante duello si conclude con la sconfitta di Fini, ma quella di Berlusconi è più che altro una vittoria di Pirro. È tutto da dimostrare infatti che ne verrà qualcosa di positivo per la stabilità e l'azione di governo. Aspettiamo, per capirlo, di vedere cosa accadrà nelle prossime ore. Una ricucitura a questo punto è davvero inverosimile. Ma quanti andranno a costituire il gruppo autonomo (di fatto una scissione obbligata), nel segno del presidente della Camera? È un punto cruciale. Se a Montecitorio saranno all'incirca quindici, essi costituiranno poco più di una spina nel fianco della coalizione, ridotta all'asse Berlusconi-Bossi. Se invece saranno una trentina, o magari trentacinque, allora l'ottimismo ostentato dal premier dovrà fare i conti con una realtà amara.

Trenta o più dissidenti organizzati sono in grado di sottrarre al governo la maggioranza assoluta alla Camera. Con una serie di conseguenze che il presidente del Consiglio farà bene a non sottovalutare.

In primo luogo, il gruppo finiano resterà nell'ambito della maggioranza (anzi, per il momento non si collocherà formalmente nemmeno fuori dai confini del Pdl). Il che significa che Berlusconi dovrà negoziare di continuo con Fini l'appoggio a questo o quel provvedimento governativo. Il federalismo fiscale, le questioni della giustizia e altre misure qualificanti, avranno bisogno di numeri certi. Una situazione da cui trae un evidente vantaggio Casini. Ma il rischio per il premier è di dover trattare ugualmente con Fini, specie se quest'ultimo resterà sulla poltrona di presidente della Camera, come è ben intenzionato a fare nonostante tutto.

Certo, tutto dipenderà da quanti parlamentari si riconosceranno alla fine nella leadership finiana. E queste sono le ore in cui molti stanno mettendo sulla bilancia le proprie convenienze e ambizioni. Ma la raccolta preliminare di firme ha dato un risultato più che discreto per i ribelli e questo è un dato allarmante per il premier.

In ogni caso, la frattura tra i due co-fondatori del Pdl è un evento che cambia lo scenario politico e rende il governo più debole, non più forte. Tanto è vero che lo stesso Berlusconi si era prodigato nelle settimane scorse per allargare l'area del consenso, non certo per restringerla. La ragion d'essere di una coalizione in buona salute tende all'allargamento, così da rappresentare una porzione via via più ampia e rappresentativa del paese. D'altra parte, i progetti di Berlusconi (la riforma istituzionale e quella della giustizia) richiedono una maggioranza compatta, sì, ma anche sicura dei suoi grandi numeri.

Tutto il contrario di quello che sta accadendo. Senza i finiani e con Casini che non ha voglia di varcare il portone d'ingresso, la coalizione dovrà combattere per la sua sopravvivenza. Qual è allora il senso della rottura? Uno, senza dubbio: restituire a Berlusconi il pieno controllo del suo partito. Ma a quale fine, se poi occorrerà mercanteggiare lo stesso ogni punto del programma in Parlamento e con i gruppi autonomi? La vicenda delle intercettazioni è emblematica. Senza i finiani non è che l'epilogo di quella controversa battaglia sarebbe stato diverso, cioè più favorevole a Berlusconi. Sarebbe stato identico.

E ancora: anche ammettendo che ora il clima nel Pdl sarà più sereno, è chiaro che la tensione si trasferirà alla Camera. Si dirà che Fini non può rimanere presidente dell'assemblea (Berlusconi lo ha già fatto capire) e quindi prenderà il via un ulteriore braccio di ferro. Da un lato serrati negoziati sulle leggi da approvare, dall'altro conflitti e tensioni intorno allo scranno presidenziale: non è il medesimo copione che il premier ha cercato di esorcizzare ieri sera?

In definitiva la sfida alla minoranza interna ha un senso solo se il presidente del Consiglio pensa alle elezioni anticipate in tempi brevi. Non se vuole illudere se stesso che adesso comincia l'età dell'oro del governo, ma se prepara il terreno per il voto. Si dà il caso però che Bossi non abbia voglia di avventure elettorali perché guarda al suo scopo, il federalismo fiscale. E tanto meno avranno voglia di correre alle urne i sostenitori di Fini, bisognosi semmai di una diversa legge elettorale. Da oggi comincia una nuova partita e non è detto che ieri notte Berlusconi abbia giocato al meglio le sue carte.

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http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2010-07-30/vittoria-pirro-premier-080531.shtml?uuid=AYU2GVCC

Questo articolo è stato pubblicato il 30 luglio 2010 alle ore 08:20.
L'ultima modifica è del 30 luglio 2010 alle ore 09:30.

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Tante incognite su governo e legislatura se si spacca il Pdl

di Stefano Folli
   
«Non è detto che si vada alle elezioni» spiega un Bossi alquanto dubbioso a chi gli domanda cosa accadrà se il gruppetto di Fini sarà messo fuori dal Pdl. Quell'espressione («non è detto...») rivela le inquietudini leghiste. Il vecchio leader conosce bene le regole della politica: non lo dice, ma l'idea di frantumare il Pdl per regolare i conti tra Berlusconi e Fini gli sembra una pazzia.

Quello che poteva fare per favorire una ricomposizione fra i due, lo ha fatto. Oggi assiste scettico alla rissa incompiuta tra i co-fondatori e si mantiene fedele alla sua linea ufficiale: la maggioranza dispone di un margine di manovra anche senza i finiani e comunque la Lega, prima di sentir parlare di elezioni, vuole mandare in porto il federalismo fiscale.
Niente di nuovo, se non un certo tono di scoramento. Bossi considera fallita di fatto la legislatura. Già oggi il governo è semi-paralizzato per una serie di gravi errori di gestione. Se davvero Berlusconi mettesse in atto il proposito di cacciare Fini e i suoi, la destabilizzazione del Pdl avrebbe buone probabilità di prender forma. A quel punto il federalismo fiscale non sarebbe di certo più vicino; al contrario, rischierebbe di restare intrappolato nelle convulsioni di fine legislatura. Bossi è quindi combattuto tra il desiderio di rafforzare il peso leghista nel governo e il timore di sprofondare nelle sabbie mobili insieme al resto della coalizione.

Il buon senso dovrebbe a questo punto suggerire la ricerca di un patto di convivenza in extremis all'interno del partito di maggioranza. Nessuna pace, nessuna tregua, bensì un freddo accordo fondato sulla reciproca convivenza. Il presidente del Consiglio non può credere sul serio che a settembre, una volta consumata l'eventuale rottura con Fini, si aprano spazi inediti per la «grande riforma costituzionale», a cominciare dalla riforma della giustizia. Questo annuncio, dato con enfasi ieri alla conferenza degli ambasciatori, sembra più un manifesto elettorale che un programma concreto di governo.
In realtà Bossi è più realista: la frattura nel Pdl ucciderebbe la legislatura, al massimo ci sarebbe tempo per approvare il federalismo (sperando che la fretta non complichi ancor più una matassa già ingarbugliata). In altre parole, è difficile credere che dalla crisi del centrodestra possa rinascere un governo vitale e creativo, in grado di riempire di riforme i prossimi tre anni. Così come è altrettanto difficile immaginare che l'espulsione del presidente della Camera e della corrente di minoranza del Pdl possa avvenire senza passaggi politici traumatici.

D'altra parte, se l'obiettivo autentico del premier è arrivare al voto anticipato, si deve sapere che la strada per arrivarci sarebbe tortuosa. A parte i problemi economici e finanziari del paese, tutt'altro che secondari, c'è il tema – posto dall'opposizione – della legge elettorale. Non è pensabile ignorare questa richiesta nel momento in cui la maggioranza va in crisi, soprattutto nel caso in cui si consumasse la rottura del partito che ha vinto le elezioni nel 2008.
Se il progetto di Berlusconi fosse quello di dimostrare che i «dissidenti» gli impediscono di governare, così da ottenere dal capo dello Stato un rapido scioglimento delle Camere e il mandato di gestire in prima persona il governo elettorale (magari lo stesso attuale governo), prepariamoci a una nuova stagione di conflitti istituzionali.

http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2010-07-29/tante-incognite-governo-legislatura-080011.shtml?uuid=AYcNCCCC

Questo articolo è stato pubblicato il 29 luglio 2010 alle ore 08:41.
L'ultima modifica è del 29 luglio 2010 alle ore 08:00.

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Se le elezioni diventano più di una ipotesi

di Stefano Folli

Questo articolo è stato pubblicato il 31 luglio 2010 alle ore 08:20.
L'ultima modifica è del 31 luglio 2010 alle ore 08:38.


Quarantotto ore dopo la spaccatura, le elezioni anticipate sono più di un'ipotesi. A molti sembrano lo sbocco naturale di un pasticcio politico creato da un calcolo precipitoso.
Altro che governo rafforzato. Più che al rilancio di un esecutivo più saldo, pare di assistere alle convulsioni di fine regno. Il problema non è se la legislatura vedrà il 2013, ma il come e il quando si arriverà al voto. Un itinerario impervio in cui a decidere la rotta non è Palazzo Chigi, bensì il capo dello stato.

D'altra parte, i sedici anni di storia del centrodestra, gli anni del bipolarismo, si sono giocati in buona misura sul rapporto tra Berlusconi e Fini. Ora che quel rapporto è andato in polvere comincia un'altra vicenda, non sappiamo se più o meno fortunata. Di certo la risposta del presidente della Camera al suo ex alleato equivale a una dichiarazione di guerra.
Non stupisce, naturalmente, visto che stiamo assistendo a una scissione. Ma accusare il presidente del Consiglio di tendenze "illiberali" cos'è se non l'annuncio di un conflitto senza esclusione di colpi?

L'espressione "illiberale" contiene in sintesi l'intero rosario di accuse e polemiche rivolte al premier nel corso del tempo: populista, poco rispettoso della Costituzione e del Parlamento, autoritario, aziendalista e padronale... Se Fini in questi anni ha cercato - non sempre riuscendovi - di definire l'identità della "sua" destra moderata in antitesi all'altra destra berlusconiana, ora è libero di accentuare i toni. Anzi, ha il dovere di farlo perché deve dimostrare in fretta di poter essere un'efficace alternativa al leader di Arcore.
Non sarà un'impresa facile, ma è l'unico sentiero che il presidente della Camera è in grado di percorrere per rovesciare a suo favore una situazione scabrosa.

Si conferma così quello che era chiaro fin dal primo momento. Per il governo diventa tutto più difficile. O meglio: sarà il presidente del Consiglio in prima persona a trovarsi sottoposto alle forche caudine del nuovo gruppo finiano. Che ne sarà, per esempio, del processo breve e di tutte quelle misure d'impatto giudiziario che per il premier sono essenziali, anche in vista della pronuncia della Corte costituzionale sul legittimo impedimento? Qui si dovrà misurare la forza parlamentare dalla nuova destra di "Futuro e Libertà", ma la sicurezza con cui ieri Fini ha parlato lascia intuire che egli ritiene di controllare agevolmente quei 30-34 deputati di cui si è detto. Destinati a essere decisivi. La lealtà di costoro verso il governo riguarda "l'interesse generale": ossia, interpretiamo, la politica economica e la politica estera o della difesa. Tutto ciò che configura la coesione nazionale cara a Giorgio Napolitano.

Già sul federalismo fiscale niente è scontato, considerando la vocazione "patriottica" e quindi poco amichevole verso la Lega che il presidente della Camera in passato ha manifestato e che non ha certo motivo di correggere ora. Per il resto si entra in un terreno inesplorato: i continui richiami alla "legalità" suonano come altrettanti tentativi di delegittimare il premier nel suo tormentato rapporto con il potere giudiziario. Nulla di nuovo, ma ora tutto è più chiaro.

A questo punto la permanenza di Fini sulla poltrona di presidente della Camera, cui egli ha diritto sul piano del diritto parlamentare, è destinata a innescare uno scontro politico permanente, ai limiti dell'ostruzionismo da parte del Pdl. Il che oggi costituisce la maggiore incognita della nuova situazione che si è creata. Non a caso il richiamo del capo dello Stato alla necessità di "preservare la continuità istituzionale" è un invito a tenere separate la sfera della politica da quella delle istituzioni. Se si arrivasse a mescolarle più di quanto già non sia, si creerebbe un pericoloso corto circuito. Una Camera bloccata, paralizzata dall'inedito conflitto tra il presidente dell'assemblea e la sua maggioranza di provenienza, sarebbe un rebus di difficile soluzione per chiunque. Anche per il Quirinale.
Senza contare che proprio questa paralisi potrebbe costituire la "pistola fumante", ossia l'occasione cercata da chi vuole le elezioni anticipate per ottenere lo scioglimento del Parlamento.

Non è un mistero che Berlusconi si tiene stretta la carta del voto. È nel suo stile guardare alle urne come via d'uscita all'eterna difficoltà di governare con efficacia.
Il blocco di Montecitorio potrebbe costituire, al momento opportuno, un eccellente pretesto. Ma in quali condizioni politiche il premier e il suo governo arriveranno all'appuntamento?
Quale sarà la posizione di Bossi che vede allontanarsi l'obiettivo strategico del federalismo fiscale? Sono tutte domande senza risposta.

Peraltro il premier non può non sapere che non esiste una "clausola di dissolvenza" automatica delle Camere. Insomma, non è lui a decidere. Il presidente della Repubblica avrebbe il dovere costituzionale di verificare prima l'esistenza di altre maggioranze. E sotto questo aspetto la spaccatura del partito che ha vinto le elezioni del 2008 crea un fatto nuovo tutt'altro che trascurabile. La nota di ieri sera è il primo segnale che il Quirinale sta osservando la scena. Si torna quindi al gruppo finiano, alla sua consistenza, alla capacità o meno di svolgere con abilità un ruolo parlamentare. Magari di attrarre altri deputati desiderosi di rallentare la fine prematura della legislatura, in vista di una riforma della legge elettorale. Il come e il quando del voto anticipato sono ancora da definire.

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http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2010-07-31/elezioni-diventano-ipotesi-080542.shtml?uuid=AYdHUuCC

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Caliendo resta sottosegretario ma per il premier comincia l'autunno più difficile

di Stefano Folli

Questo articolo è stato pubblicato il 05 agosto 2010 alle ore 09:27.
L'ultima modifica è del 05 agosto 2010 alle ore 09:46.

   
Come era previsto, Giacomo Caliendo resta sottosegretario e il parlamento, insieme al governo, va in vacanza. Ma il voto di ieri ha sancito che almeno su un punto specifico - la mozione di sfiducia «ad personam» presentata da una parte dell'opposizione - il governo non raggiunge la soglia dei 316 voti, la maggioranza assoluta. Addirittura è restato sotto quota trecento, avendone raccolti 299.

Esito piuttosto magro che contribuisce a descrivere un bilancio amaro per Silvio Berlusconi, l'uomo che due anni fa era entrato in parlamento a capo della più estesa maggioranza della storia repubblicana. Volendo sommare, con un'operazione un po' arbitraria, i «no» e gli astenuti si arriva alla cifra di 304, cinque voti in più di quelli raccolti dalla coalizione Pdl-Lega. In un certo senso, la maggioranza si è dissolta e rimetterla insieme sarà un'impresa complicata.

Al momento il presidente del Consiglio farà buon viso a cattivo gioco. Dovrà accontentarsi dell'ovazione davvero fuori protocollo, e tollerata dal presidente della Camera, che i suoi sostenitori gli hanno rivolto in aula. E senza dubbio dovrà far sua la tesi anticipata dal capogruppo Fabrizio Cicchitto: il voto «ha sconfitto il giustizialismo». Per il resto, al di là degli attacchi ai «traditori» finiani, non c'è molto da fare, se non lasciare passare l'agosto.

Ma l'atmosfera greve, elettrica in cui si è svolta la votazione a Montecitorio non promette nulla di buono. Si sono sentite urla, sono volati insulti, forse persino un paio di schiaffi, a conferma che le ferite politiche tra finiani e berlusconiani, e soprattutto tra ex An di opposte fazioni, non sono destinate a rimarginarsi. Nelle prossime settimane serviranno solo ad alimentare le polemiche estive. In settembre se ne riparlerà.

È chiaro che in queste condizioni la maggioranza non ha davanti a sé un futuro incoraggiante. Berlusconi ha fatto capire di volersi sottrarre al logoramento. Un'intenzione del tutto logica, eppure nemmeno lui ha le idee chiare su come sfuggire a questo destino. Per cui il messaggio trasmesso fino all'altro ieri («siamo pronti alle elezioni») ha un valore mediatico, ma è troppo generico per indicare un programma d'azione.

Lo stesso premier ora se ne rende conto. Alla vigilia del voto, più d'uno nel Pdl sosteneva che al di sotto della soglia di 316 voti il governo avrebbe dovuto dimettersi. Ma naturalmente non accadrà. In fondo, Caliendo resta al suo posto e il giustizialismo - secondo l'interpretazione ufficiale - ha perso la battaglia.

In realtà una crisi adesso non avrebbe senso né giustificazione. Umberto Bossi, che sa essere saggio, ha subito detto: «Ora dobbiamo resistere, non votare». Il che significa accettare la guerra di posizione. Oppure tentare dopo le vacanze la strada più impervia: trattare un grande accordo politico con i finiani, in termini che per Berlusconi saranno di sicuro molto più onerosi di quanto sarebbero stati qualche tempo fa, prima della frattura.

Si conferma così l'errore di fondo commesso dal premier e dai suoi consiglieri nel momento in cui i dissidenti sono stati messi alla porta. La verità è che le elezioni anticipate sarebbero plausibili, forse probabili in caso di crisi formale di governo. Ma chi scioglie le Camere è Napolitano, non Berlusconi. E non sarà ininfluente il «casus belli», ossia il come e il perché della caduta del governo. Dimostra di saperlo il premier, quando afferma che la rottura della maggioranza può avvenire «solo per ragioni politiche, non per un incidente di percorso».

Vuol dire che se il centrodestra cadesse su un tema di interesse nazionale (politica economica o internazionale), lo scioglimento delle Camere sarebbe inevitabile e il presidente del Consiglio potrebbe rivendicare con buoni motivi la guida del governo elettorale. Ma questo scenario non si verificherà perché Fini non si è affacciato ieri alla politica. Cosa accadrebbe invece se l'esecutivo fosse messo in crisi in autunno sulle questioni giudiziarie, magari su una leggina di quelle che in passato Berlusconi ha considerato irrinunciabili?

In questo caso lo scenario sarebbe diverso e i fili della crisi, compreso l'epilogo della legislatura, sarebbero saldamente nelle mani del capo dello Stato. Magari si arriverebbe lo stesso alle elezioni, ma il percorso sarebbe meno lineare. Non potremmo escludere qualche sorpresa. Soprattutto non avremmo alcuna garanzia che in quel caso, a guidare il governo nella stagione elettorale, sarebbe l'attuale premier.

http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2010-08-05/adesso-premier-autunno-difficile-080624.shtml?uuid=AYEaZCEC

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Verso il 28 fra timori di «guerriglia» e rischi di logoramento

di Stefano Folli

Questo articolo è stato pubblicato il 22 settembre 2010 alle ore 08:52.
L'ultima modifica è del 22 settembre 2010 alle ore 07:59.

 
Fabrizio Cicchitto, capogruppo del Pdl, paventa una sorta di guerriglia parlamentare permanente. Usa un'espressione aspra e polemica, ma nella sostanza ha ragione. Il suo bersaglio è il gruppo di «Futuro e Libertà», gli amici di Fini, da cui il partito berlusconiano non può attendersi nulla di buono nelle prossime settimane. Certo, l'espressione «guerriglia» è sgradevole e il drappello vicino al presidente della Camera preferisce parlare di vigilanza parlamentare e di senso delle istituzioni. O di difesa del principio di «legalità».

Tuttavia la sostanza non cambia di molto. Cicchitto, come pure altri al vertice del Pdl, ha compreso che il passaggio del 28-29 settembre è significativo, ma non determinante per il futuro della legislatura e per il destino del governo. Berlusconi potrebbe ottenere i suoi 316 voti di fiducia al netto dei finiani, forse con l'apporto decisivo del Mpa di Raffaele Lombardo. Subito dopo si troverebbe nella difficoltà quotidiana di navigare al timone di una maggioranza malcerta.
La vicenda Cosentino e le questioni legate alla Rai sono una spia interessante di come sarà il clima autunnale. Segnali, nulla più, come tali da non sopravvalutare: anche perché la coesione dei finiani è da verificare. Ma indizi utili a capire che l'autosufficienza assoluta di Berlusconi è una chimera. Fini non potrà rinunciare a costruire, una settimana dopo l'altra, il profilo del suo partito. Di questo si tratta. E l'identità di «Futuro e Libertà» si definisce - è chiaro da tempo - in opposizione al cosidetto «berlusconismo». O se si preferisce a quella che lo stesso Fini, già più di un anno fa, definiva la «deriva cesarista».

Pur ammettendo che ci siano margini d'accordo su alcuni punti, ad esempio il Lodo Alfano costituzionale, è evidente che il gruppo dei 34 non intende rientrare nei ranghi. Al contrario, più si afferma l'impressione di una legislatura in bilico, più gli amici di Fini saranno indotti a caratterizzarsi sul piano politico. Il che non significa condividere ogni giorno il massimalismo di un Fabio Granata. Semmai proprio la spinta radicale di questo deputato permette ad altri dentro «Futuro e Libertà», in sintonia con il leader, di modulare la tattica, alternando momenti di conflitto e periodi di pausa.
 
Di sicuro il presidente del Consiglio dovrà stare sempre sul chi vive, soprattutto dopo la fiducia del 29 settembre. Se l'obiettivo dei dissidenti è il progressivo logoramento di Palazzo Chigi, le occasioni per dar corpo a questa strategia non mancheranno. Del resto, proprio ieri Maroni, il ministro dell'Interno, ha ripetuto il tema leghista: o la maggioranza si dimostra salda e autorevole o è meglio «andare al voto» perché non è plausibile «cercare ogni giorno in Parlamento il voto di Tizio, Caio o Sempronio». Ciò che allo stato delle cose è più di una remota eventualità: è il probabile sbocco della ripresa d'autunno.

Berlusconi farà del suo meglio per rendere credibile quella che i giornali definiscono «la fase 2 del governo». Userà senz'altro la leva del rimpasto per accontentare vecchi e nuovi alleati. Ma nessuno è in grado di garantire il premier (e la Lega) che il cammino parlamentare è spianato. Viceversa, tutto lascia intuire che sia destinato ad avverarsi il timore di Maroni: una maggioranza in affanno che cerca di volta in volta il consenso di Tizio e Caio. Fino al momento in cui, magari all'inizio del 2011, qualcuno alzerà bandiera bianca.

http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2010-09-22/verso-timori-guerriglia-rischi-075953.shtml?uuid=AY1A6JSC

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