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Autore Discussione: Pier Luigi BATTISTA  (Letto 109084 volte)
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« Risposta #165 inserito:: Gennaio 12, 2015, 09:56:16 pm »

LA CONVERSAZIONE
Giuliano Ferrara: «Militanti, non terroristi: seguono il Corano»
Intervista al direttore de «Il Foglio»: «Assistiamo alla bancarotta della Francia repubblicana e illuminista che finge di non capire per rinunciare a combattere»


Di Pierluigi Battista

Caro Giuliano Ferrara,
lei che esorta a usare una «violenza incomparabilmente superiore» per sgominare i terroristi... «Alt, la fermo subito perché sta commettendo il solito errore. Guardi questo articolo che ho appena finito di scrivere: Je suis Kouachi , Je suis Coulibaly . Sono impazzito? No, ma sono contrario a definirli terroristi. Sono guerriglieri, combattenti, militanti islamici che applicano alla lettera la legge sacra fissata nei testi coranici. Erano ragazzi di strada, rapper che inseguivano un successo impossibile, con la testa confusa, uno di loro era riuscito addirittura a farsi ricevere da Sarkozy. Ma poi, con un processo di conversione guidato dalla rete di cellule in cui si predicano i precetti del purismo islamista, questi ragazzi trovano un senso, una missione. Si organizzano e si votano alla morte, quella degli infedeli da ammazzare e quella propria da sacrificare nel martirio. Come gli shàhid che si fanno esplodere davanti a una pizzeria di Tel Aviv o buttano già le Twin Towers schiantandosi con gli aerei».

E perché mai colpire una combriccola di vignettisti, di disegnatori che stavano preparando un nuovo numero di Charlie Hebdo ? «Ma come perché? Perché sono blasfemi, e nei regimi dove domina la legge islamica i blasfemi e gli “apostati” vengono condannati a morte o con le punizioni corporali. Proprio in questi giorni, nella “moderata” Arabia Saudita, sono partiti con la somministrazione di 50 frustate delle mille comminate contro il blogger Al Jafali, condannato a dieci anni di reclusione per “frasi irriverenti nei confronti del Profeta”. Ci vede questa grande differenza con i combattenti islamici che hanno compiuto la decimazione di quel covo di blasfemi che offendevano Maometto, profanando l’Islam con le loro vignette?».

È davvero impressionante questa corsa un po’ ipocrita alla negazione della radice islamica delle stragi di questi giorni. Però è difficile non comprendere le ragioni di chi sta al vertice delle istituzioni come Hollande e certo non può fare la guerra a 5 milioni di musulmani francesi. «Ma che c’entrano i 5 milioni di musulmani. Hollande nega l’evidenza e dice che le stragi di Parigi non hanno niente a che vedere con l’Islam? È la bancarotta della Francia repubblicana e illuminista che finge di non capire per rinunciare a combattere. Dovrebbero andare a lezione dal presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi, che davanti alle autorità religiose dell’università di al Azhar ha chiesto una “rivoluzione” nell’Islam per “sradicare” il fanatismo: “È possibile che la nostra dottrina debba fare di tutta l’ umma una sorgente di pericolo, uccisioni e distruzioni per il resto del mondo?”. Un leader coraggioso».

Mentre si capisce la prudenza dei capi di Stato, sconcerta l’autocensura che ci infliggiamo noi dei media. Sul New York Times hanno purgato la scena in cui i due assassini risparmiano la donna che apre loro la porta di Charlie Hebdo . Loro dicono: «Non uccidiamo le donne ma devi convertirti all’Islam, leggere il Corano e coprirti». Ma il giornale la stravolge così: «Non ti uccido, sei una donna. Ma pensa a quello che stai facendo. Non è giusto». Perché? «Perché fanno parte di un mondo che deve nascondere la verità. Uno come Hollande, che si fa beccare con il casco integrale e le brioche per andare a trovare l’amante, incarna il tipo antropologico di una Francia giacobina che non ha più voglia di litigare con nessuno. E il New York Times , un giornale che ammiro per la qualità della sua filosofia dell’informazione, è il tempio del progressismo e della gay culture , irriverente fino alla blasfemia nei confronti dei simboli cristiani, ma paralizzato dal senso di colpa dell’Occidente». Cioè l’idea che l’Occidente sia solo imperialismo, sopraffazione, petrolio, oppressione delle minoranze? «Anche, ma soprattutto l’idea che sia colpevole di tutto ciò che c’è di orrendo nel mondo, compresa la barbarie omicida di chi si ribella al suo dominio. Per cui, se massacrano a colpi di kalashnikov gli scanzonati anarco-libertari di Charlie Hebdo la colpa non è dei combattenti islamici ma di Marine Le Pen, dell’islamofobia, di Eric Zemmour, dell’omofobia, del razzismo».

Marine Le Pen chiede la pena di morte, però. «Senta, io detesto la famiglia Le Pen, detesto con tutto il mio cuore la destra francese, con quel suo fondo sulfureo, gretto, venato di antisemitismo. Ma sono così esasperato dall’ipocrisia che se dovessi scegliere andrei alla manifestazione della Le Pen, piuttosto che sfilare in quella di Hollande in cui ci si rifiuta di dire la verità sull’Islam». Che poi Ferrara, diciamo la verità, non è che lei in questi anni abbia mostrato di amare appassionatamente il mondo secolarizzato, irreligioso, laico, relativista. «Si sbaglia, il mondo libertario, libertino, liberale è il mio mondo. Ma vorrei che restasse un mondo complesso, in cui c’è l’autorità e anche la trasgressione, la disciplina e insieme la ribellione. Un mondo delle differenze, dove si può essere libertini e combattere l’orrore dell’aborto, stare nella modernità ma rifiutare la deriva disumanizzante della tecnoscienza». Un mondo che ha finalmente conquistato la separazione tra politica e religione. Una conquista grandiosa. Lei ci tiene ancora? «Ma è ovvio. Ci sono però due modi di intendere la distinzione tra politica e religione. Quello di Thomas Jefferson, dove il “muro di separazione” impedisce allo Stato di incarnare una religione e sancisce il diritto delle chiese di essere tante, varie, irriducibili a una religione di Stato. L’altra è la versione francese, giacobina, che fa della stessa l aicité una religione di Stato totalitaria, che impone di abbassare le croci e di azzerare ogni simbolo religioso nelle scuole». Intanto lei elogia al Sisi, certo non un fior di democratico. La democrazia come valore universale è bell’e finita. «No, la democrazia resta per me un valore universale. Ma è la realtà della democrazia che non è universale. Abbiamo tentato di esportare la democrazia ma ci vuole un impegno costante di un Occidente sicuro di sé, disposto a combattere e spendere tanti punti di Pil per il Pakistan, l’Iran, la Siria. Invece battiamo in ritirata. E ci ritroviamo col califfato, con 200 mila morti in Siria, con Parigi a ferro e fuoco».

Nessuno vuole conoscere le storie dell’«internazionale degli invisibili», di quegli scrittori, giornalisti, vignettisti che sono spariti dalla circolazione perché braccati da una condanna a morte decretata dai fondamentalisti.

È la paura? «È la paura che ho letto negli occhi di tante persone che amo e che stimo a partire dall’11 settembre. Una paura che si misura nella freddezza odiosa nei confronti dello Stato di Israele, dello Stato degli ebrei, degli ebrei in generale. Quando due anni fa, a Tolosa, Mohammed Merah, un franco-algerino, un combattente islamico come i fratelli Kouachi o Amedy Coulibaly, ha ammazzato davanti a una scuola ebraica tre bambini colpevoli semplicemente di essere ebrei, la reazione furono i soliti due minuti di lutto e poi via. Per i quattro assassinati nel supermercato kosher, nessuno ha lanciato l’hashtag #jesuisjuif come #jesuischarlie . Fa troppa paura».

11 gennaio 2015 | 10:34
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_gennaio_11/giuliano-ferrara-militanti-non-terroristi-seguono-corano-1669cdc8-9974-11e4-a615-cfddfb410c4c.shtml
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« Risposta #166 inserito:: Gennaio 16, 2015, 11:16:21 pm »

Il comico arrestato
Francia, libertà di parola anche per Dieudonné
Campione dell’antisemitismo più turpe, l’umorista francese è un essere spregevole. Ma nel mondo della tolleranza, quello che vogliamo, il suo linguaggio malato va contestato, non trasferito in galera

di Pierluigi Battista
Il comico Dieudonné è un essere spregevole, ma le società che non vogliono compromettere i princìpi della libertà di espressione devono consentire anche agli esseri spregevoli di dire la loro. Dieudonné non «pareggia» Charlie Hebdo, non è come i vignettisti del settimanale decimato dai fanatici ma di segno contrario. No. Charlie Hebdo non odia e non vuole annientare i rappresentanti delle religioni da prendere in giro, Dieudonné odia gli ebrei ed è un campione dell’antisemitismo più turpe. Charlie Hebdo è irriverente e provocatorio, Dieudonné invoca la camera a gas per il giornalista ebreo Patrick Coen nel tripudio degli spettatori che detestano gli ebrei come il loro comico sul palco. Charlie Hebdo ride, Dieudonné inventa la quenelle, che è un saluto nazista camuffato, fa premiare lo storico negazionista Robert Faurisson da un finto deportato con la stella gialla, irride le vittime dei campi di sterminio, chiama alla guerra santa contro Israele. Un essere spregevole, repellente, che con i suoi spettacoli riempie circhi e teatri: e si capisce perché un numero sempre crescente di ebrei francesi non senta più la Francia come casa propria e voglia partire per Israele, dove sono stati celebrati i funerali dei morti uccisi nel supermercato kosher.

È proprio la lontananza assoluta dalle sconcezze propalate da Dieudonné che ci costringe a deplorare l’arresto che era stato disposto dalle autorità francesi (cui è seguita, nel pomeriggio, la scarcerazione) dopo il «Je suis Coulibaly» ostentato all’indomani delle carneficine di Parigi. Domenica milioni di persone hanno sfilato per le strade della capitale francese in difesa della libertà d’espressione. Si sono raccolti attorno a valori che nell’ordinarietà della routine passano inosservati. Hanno capito, dopo la strage che si è consumata nella redazione di un settimanale satirico, che non bisogna condividere idee e immagini per affermare il diritto inalienabile e non negoziabile di quelle idee e di quelle vignette di circolare liberamente. Quei francesi hanno stabilito un’ideale linea di demarcazione: di qua le società libere che tollerano i peggiori attacchi, persino a ciò che consideriamo più sacro e intangibile, di là i sistemi totalitari che considerano il dissenso un delitto, e includono in quella categoria ogni difformità non contemplata nei dogmi, nella dottrina, nei decreti fissati arbitrariamente dal potere.

La libertà d’espressione deve valere anche per Dieudonné. Così come per quegli ebrei che in passato hanno manifestato davanti a teatri e tendoni per ricordare di che pasta antisemita fosse fatto quel personaggio che dileggiava i deportati, metteva alla berlina le stelle gialle, premiava chi considerava una «menzogna creata dai sionisti» lo sterminio di Auschwitz.

È difficile accettare una tolleranza per idiozie tanto intollerabili. La tolleranza non è naturale, esige un grande sforzo quasi ascetico, costringe chi vorrebbe ribellarsi alle turpitudini di un Dieudonné a uno sforzo eroico di autodisciplina. Anche la libertà non ha nulla di «naturale», è una costruzione culturale, è una conquista faticosa ottenuta da pochi secoli, e solo in alcune parti del mondo. Se vogliamo difendere il valore della libertà, dobbiamo essere capaci di resistere alla tentazione censoria. Che non comporta indifferenza, rinuncia a combattere. Il conflitto tra idee e modelli culturali è l’ossigeno di una democrazia liberale e perciò non bisogna dare tregua a Dieudonné, bisogna gridare il disgusto per chi sputa sui morti della Shoah. Ma non bisogna arrestarlo, non bisogna metterlo in catene, non bisogna farne un martire per chi non aspetta altro che un guru che sappia calamitare l’odio crescente per ebrei e «infedeli». Solo così è possibile rivendicare una differenza tra «noi» e «loro»: nel mondo auspicato da Dieudonné l’intolleranza sarebbe assoluta e spietata. Nel mondo della libertà e della tolleranza il linguaggio malato di Dieudonné va contestato ma non trasferito in galera. E forse nemmeno rinviato a giudizio. Perché «Je suis Charlie» non venga dimenticato troppo presto.

15 gennaio 2015 | 09:01
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_gennaio_15/francia-liberta-parola-anche-dieudonne-c04dd306-9c8b-11e4-8bf6-694fc7ea2d25.shtml
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« Risposta #167 inserito:: Gennaio 18, 2015, 06:20:18 am »

Il corsivo del giorno
Francia non più terra d’asilo
Vacilla la dottrina Mitterrand

Di Pierluigi Battista

Un tempo, quando la Francia mostrava con orgoglio la «dottrina Mitterrand», non si sarebbe parlato a Parigi di attenuazione, o ridimensionamento, del trattato di Schengen. Adesso dopo le giornate di sangue, dissolta l’ebbrezza della grandiosa marcia repubblicana, con tutti i leader che si stringono attorno ad Hollande, con milioni di persone in piazza a gridare «Je suis Charlie», la voce sommessa della politica della sicurezza mette in discussione quell’apertura della Francia che ne faceva la terra d’asilo per eccellenza, dagli antifascisti che a Parigi andavano in esilio (per lo meno fino alla vergogna della capitolazione morale di Vichy) per finire con gli estremisti che hanno avuto a che fare, contigui o fiancheggiatori, col terrorismo politico.

Adesso, spenti gli echi della grande manifestazione di solidarietà planetaria per chi è stato colpito così dolorosamente dal fondamentalismo islamista, il principio di realtà vanifica ogni dottrina. L’asilo per tutti diventa problematico quando Parigi appare ed è vulnerabile ai commando che riescono a tenerla in scacco provocando terrore e morte. L’apertura, l’accoglienza, la terra d’asilo diventa terra bruciata quando gli jihadisti vanno e vengono dal califfato alla Francia, si muovono con facilità nella metropoli, si insinuano e si mimetizzano nella grande periferia dove ribolle il richiamo del fanatismo. Allora la tentazione è quella di sbarrare le frontiere, erigere muri.

Fare a pezzi un elemento simbolico della storia francese come quella dottrina che ha preso il nome dal presidente François Mitterrand. Negli Stati Uniti si dice dei progressisti che si convertono al principio primario della sicurezza che sono «liberal assaliti dalla realtà». Le stragi di questi giorni in Francia hanno messo in crisi vecchie bandiere. Persino quella di Schengen (e dell’accoglienza).

13 gennaio 2015 | 10:07
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_gennaio_13/francia-non-piu-terra-d-asilo-vacilla-dottrina-mitterrand-9a636958-9b00-11e4-bf95-3f0a8339dd35.shtml
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« Risposta #168 inserito:: Gennaio 24, 2015, 10:32:53 am »

Fronte del Colle
Come non votare un capo dello Stato L’agguato dei 101 (che furono di più)
Vennero impallinati Marini e Prodi e sconfitto Bersani. Non restò che rivolgersi a Napolitano.
La candidatura di Romano Prodi fu l’acme della dissoluzione dei dem

Di Pierluigi Battista

Una disfatta istituzionale. Una catastrofe politica. Il punto più basso nella vita dei partiti italiani, rissosi, dilaniati dalle faide intestine. Un esempio da manuale di cosa «non» bisogna fare per eleggere un presidente della Repubblica. Una discesa indecente nell’impotenza politica per fortuna riscattata dalla disponibilità di Giorgio Napolitano a risalire i gradini del Quirinale, non prima però di aver sferzato i partiti in Parlamento, plaudenti e grati per lo scampato pericolo: ecco l’amara lezione del 2013.

Dalle urne non era uscito un vero vincitore. Tecnicamente sì, grazie al Porcellum: il Pd, che per poche migliaia di voti di scarto, si era accaparrato un numero abnorme di deputati come premio alla prima coalizione. Non solo, dalle urne era scomparso il bipolarismo che aveva innervato il sistema politico della Seconda Repubblica. Per l’elezione di Carlo Azeglio Ciampi nel 1999 la scelta fu di una candidatura di unità nazionale, scelta da entrambi gli schieramenti. Per quella di Giorgio Napolitano, la scelta avvenne invece a maggioranza semplice, con il centrosinistra a favore e il centrodestra contro. Con un dettaglio decisivo: che la coalizione di centrosinistra, vincente sia pur per un soffio, aveva raggiunto circa il 50 per cento dei voti popolari. Ora nel 2013, la coalizione vincente (Pd più Sel) con circa il 30 per cento dei voti è una maggioranza numerica che descrive una forte minoranza di voti reali. Tutto si complica. Dal voto del febbraio il bipolarismo era uscito distrutto.

Con l’avanzata impetuosa del Movimento 5 Stelle il bipolarismo era diventato tripolarismo. Uno schema era saltato. Nessuno si sarebbe immaginato, però, che anche un altro schema fondamentale si era oramai consumato. Il partito numericamente più forte, il Pd, non aveva più una coesione. Ognuno andava per conto proprio. Mentre il movimento di Grillo appariva una falange compatta. E poi, per la prima volta nella storia repubblicana, non c’era nessuna maggioranza di governo che potesse essere il perno di una ulteriore maggioranza capace di oltrepassare il quorum dei voti necessari all’elezione del nuovo Capo dello Stato. Bersani, capo del partito che per una manciata di voti, aveva nella Camera dei deputati un gruppo parlamentare enormemente più cospicuo dei consensi effettivamente registrati nelle urne, spingeva per presentarsi al buio davanti alle due Camere sperando in qualche soccorso di deputati e senatori grillini. Ma Giorgio Napolitano non voleva accedere a questo gioco rischiosissimo, anzi con quasi assoluta certezza votato al fallimento. Ma tutto, il 18 aprile del 2013, cominciò come se questi cambiamenti radicali dello scenario politico consentissero ancora di muoversi secondo il vecchio schema. E fu l’inizio della catastrofe.

Come se nulla fosse cambiato l’allora segretario del Pd propose una rosa di nomi a Silvio Berlusconi all’interno della quale il leader del centrodestra scelse Franco Marini, uno dei fondatori dello stesso Partito democratico. Ma con questa complicazione: che Bersani voleva proporre al centrodestra di votare insieme il presidente della Repubblica proprio mentre si affannava a costruire una maggioranza di governo (detto «del cambiamento») che includesse almeno una parte, o almeno una benevola astensione, del nuovo movimento grillino. Sugli scogli di questa impossibile quadratura del cerchio, cominciò il dramma. Matteo Renzi (ancora sindaco di Firenze) e numerosi deputati dichiararono che non avrebbero votato per Marini. Il quale non raggiunse il quorum dei due terzi necessari nei primi tre scrutini. Per Bersani fu una prima cocente sconfitta.

I seguaci di Grillo con le loro «quirinarie» on line scelsero dapprima Milena Gabanelli, poi Gino Strada, poi approdarono a una candidatura destinata certamente ad aprire una breccia nel Pd, cioé a quella di Stefano Rodotà. Il Pd era messo malissimo. Il partito che aveva più voti in Parlamento era anche quello che non sapeva scegliere se non al prezzo di lacerazioni, dissensi palesi e segreti, franchi tiratori. Se, dopo aver affossato la candidatura Marini, avesse optato per un candidato non ostile ai moderati (si faceva insistentemente il nome della Cancellieri) una parte del partito si sarebbe avvicinata ai grillini. Se viceversa si fosse optato per una candidatura vicina a quella del Movimento 5 Stelle, la parte moderata, già esacerbata dalla bocciatura di Marini, avrebbe fatto la fronda dall’altra parte. Si pensò alla candidatura di un nome prestigioso come quello di Romano Prodi. E fu l’acme della dissoluzione del Pd.

Oggi tutti parlano dei «101» che nel segreto del catafalco, sotto il quale i grandi elettori andavano a deporre la scheda, hanno impallinato Prodi. Ma forse nel Pd furono molto più dei 101 (si parla addirittura di una ventina di grillini che tradirono la candidatura di Rodotà per dirigersi verso quella di Prodi). Berlusconi decise di non far entrare in aula gli elettori del centrodestra per fuggire ogni tentazione. I centristi di Monti concentrarono i loro voti sulla Cancellieri.

La candidatura di Prodi era stata già molto avventurosa perché se anche tutti gli elettori del Pd fossero stati disciplinati si sarebbe raggiunta una quota inferiore al quorum richiesto: si sperava in qualche franco tiratore «al contrario». Ma il miracolo non avvenne. La sconfitta di Bersani era eclatante. Non restava che tornare a implorare Napolitano come premessa di un governo delle larghe intese che seppelliva per sempre le velleità sul «governo del cambiamento». Napolitano acconsentì. Il resto è storia di questi giorni.

3 - Fine
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22 gennaio 2015 | 14:20

Da - http://www.corriere.it/politica/speciali/2015/elezioni-presidente-repubblica/notizie/colle-quirinale-come-non-votare-capo-stato-agguato-101-c6cd1b80-a238-11e4-8580-33f724099eb6.shtml
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« Risposta #169 inserito:: Febbraio 01, 2015, 11:35:39 am »

Libertà di espressione
Gli anticorpi liberali che ci difendono contro la censura
Lo scrittore Philip Roth fu accusato di offendere la sua religione.
Nella dialettica fra trasgressione e desiderio di far rientrare nei ranghi l’«eretico» sta l’analogia con gli attacchi a «Charlie Hebdo»

Di Pierluigi Battista

Gli Stati Uniti sono un Paese libero. Se avessero dato retta a chi sostiene che la libertà d’espressione non può trasformarsi in licenza di dileggiare le religioni, Philip Roth sarebbe stato imbavagliato all’inizio della sua carriera di scrittore e non avremmo avuto i suoi meravigliosi romanzi che ci hanno accompagnato da decenni. Le prime pagine del Roth scatenato (tradotto ora da Einaudi), la biografia intellettuale dell’autore di Pastorale americana scritta da Claudia Roth Pierpont descrivono infatti una virulenza verbale contro lo scrittore agli esordi trascesa talvolta nell’intimidazione e addirittura nell’intimazione al silenzio. L’ebreo Roth si sentì apostrofare come un traditore, un fomentatore dell’antisemitismo, un oltraggiatore dell’ebraismo. Non era vero, e Roth non accettò il rituale dell’autocensura. Vinse la libertà d’espressione, quella volta. Nessuno, beninteso, aveva minacciato Roth. Ma con la scusa del «rispetto» mancato per la propria religione, Philip Roth fu sottoposto a una piccola ma aggressiva inquisizione. Una storia istruttiva per i giorni bui che viviamo, anche per chi pensa che si debba reagire aspramente a chi, attraverso la satira, il cinema e la letteratura, «offende» una religione.

I primi racconti di Roth del 1959, La conversione degli ebrei, Epstein e Il difensore della fede vennero accusati nientemeno di diffondere «proprio gli stereotipi che non molto tempo fa hanno finito per portare allo sterminio di sei milioni di ebrei». Roth era, e resta, un uomo molto spiritoso e caustico e non esitò a definire «il mio Mein Kampf» un altro romanzo, Goodbye, Columbus, che aveva alimentato altre accuse di antisemitismo condite dalla scomunica di Roth come «ebreo che odia se stesso». Malgrado i buoni uffici delle «quattro tigri della letteratura ebraico-americana» come Roth definiva Saul Bellow, Alfred Kazin, Irving Howe e Leslie Fiedler, il romanzo fu liquidato come un turpe esempio dello spirito autodemolitorio degli scrittori ebrei «che passano il tempo a maledire i loro padri e a odiare le loro madri». Inutilmente Roth, in un saggio apparso nel 1963 su Commentary, eccepiva che il racconto delle magagne di una famiglia ebraica non comportasse la delegittimazione dell’ebraismo, così come «i lettori di Anna Karenina non si sentivano automaticamente indotti a concludere che l’adulterio fosse un tipico tratto russo, né quelli di Madame Bovary a condannare tout court i costumi morali delle donne dell’intera provincia francese». Ma l’idea dell’autonomia della letteratura sembrava troppo scandalosa, offensiva, degna di anatemi e scomuniche. Come sarà sempre più evidente nel 1969, quando Roth pubblicherà il celeberrimo Lamento di Portnoy, 200 mila copie vendute in pochi giorni, un successo strabiliante, e una scarica di bastonate da parte delle istituzioni ebraiche, compresa l’Anti-Defamation League che equiparò gli effetti del Portnoy a quelli disastrosi dei Protocolli degli anziani di Sion.

Ed era in effetti scandaloso questo ragazzo ebreo che voleva conquistare sessualmente la «skiksa», la ragazza americana, come mezzo per conquistare «i loro ambienti sociali» o che cominciò a detestare Israele per una sua disfatta erettile nella Terra Promessa («Im-po-ten-te in Isra-e-le») e che si abbandonava a instancabili e mitologiche sedute masturbatorie (con i fans che per strada apostrofavano amichevolmente lo scrittore: «Ehi Portnoy, dagli tregua!»). Ma le reazioni furono furenti oltre ogni misura prevedibile. Gershom Scholem affermò che Roth aveva scritto «il libro che tutti gli antisemiti aspettavano». Su Commentary si arrivò a dire che il canovaccio del libro era «uscito dritto dritto dal copione di Goebbels e Stricher». Howe ritrattò il suo iniziale appoggio e affermò che Roth aveva resuscitato a poca distanza temporale dai noti «eventi di metà Novecento» lo stereotipo dell’ «untore ebreo». Era un invito all’isolamento del reprobo, del traditore che si faceva beffe del suo popolo, accusato di voler esporre la sua gente al pericolo dell’isolamento, a quegli stessi pericoli che avevano creato le condizioni per la tragedia dello sterminio in Europa.
 
In questa dialettica tra oltraggio e difesa di un’identità religiosa, tra trasgressione e il desiderio di far rientrare nei ranghi l’eretico, colui che aveva «offeso» e aveva toccato le corde più sensibili del suo popolo sta la profonda analogia con i fatti che hanno insanguinato la redazione di Charlie Hebdo a Parigi o con la caccia al profanatore Salman Rushdie. Non perché ovviamente venisse concepita la punizione fisica dell’oltraggiatore, ma perché riaffiorava negli anatemi contro Roth la questione se la libertà d’espressione dovesse conoscere dei limiti, delle opportunità, delle necessarie autocensure affinché nessuno possa sentirsi offeso. La resistenza di Roth a questi attacchi fu una risposta sofferta ma dignitosa e gli anticorpi liberali della società americana non permisero che all’attacco contro uno scrittore seguisse un’intimazione alla censura. Una trincea di diritti di libertà che in Europa tendiamo molto facilmente a dimenticare.

26 gennaio 2015 | 10:45
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_gennaio_26/gli-anticorpi-liberali-che-ci-difendono-contro-censura-1411e618-a532-11e4-a533-e296b60b914a.shtml
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« Risposta #170 inserito:: Febbraio 04, 2015, 07:41:38 am »

Sindrome ellenica
Il miope abbraccio all’icona

Di Pierluigi Battista

I l carro di Alexis Tsipras è sempre più affollato di sostenitori del giorno dopo, ma non è solo il consueto e patetico affannarsi nel soccorso del vincitore. Esultano a sinistra e a destra. Marine Le Pen e Matteo Salvini ammirano il «mostruoso schiaffone» assestato all’euro. I partiti che in Europa sono normalmente vituperati come xenofobi ed eurofobi, guardano ad Atene come alla nuova Gerusalemme che sconfiggerà l’euroburocrazia di Bruxelles e le rapaci «oligarchie bancarie». Del resto, oramai le barriere ideologiche del passato paiono molto fragili se in poche ore in Grecia l’estrema sinistra ha fatto un governo con un partito nazionalista che sembra quello del deploratissimo Farage in Gran Bretagna. A sinistra si rincorre il modello Syriza, il nuovo cavaliere che sgominerà il «liberismo selvaggio». Ma anche nel fronte della moderazione riformista di destra e sinistra, se non c’è proprio esultanza, affiora compiacimento. Forza Italia parla di «memorabile lezione». E Matteo Renzi, lungi dal temere la tentazione di una sinistra vecchio stampo che potrebbe sentirsi galvanizzata dal trionfo di Atene, si dice confortato dal possibile appoggio di Tsipras alla battaglia «anti austerità» (anche se l’Italia rischia di vedere svanire i circa 40 miliardi di cui è creditrice con la Grecia). Ma se è così, per l’Unione Europea si tratta di una disfatta simbolica, e di un pericolo mortale. Come se tutto quello che è stato fatto sinora fosse da buttare in una discarica. E il pareggio di bilancio messo in Costituzione? E le riforme come «compiti a casa» amari ma necessari per superare la bufera? E i parametri da rispettare, i conti da tenere a bada, i debiti pubblici questi sì «mostruosi» da domare? Se, come è stato detto in queste ore, ci si commuove per le note di Bella ciao nelle piazze di Atene come simbolo di «liberazione» dalla dittatura finanziaria, così come quella trascinante canzone è il simbolo della liberazione dalla dittatura fascista, quale immagine dell’Europa esce da questo unanime stringersi al profeta dell’anti austerità Alexis Tsipras?

Il successo di Tsipras sembra funzionare come una ricerca collettiva di autoassoluzione. Se siamo messi così male, così recita il nuovo coro, non è perché abbiamo fatto le cicale nel passato, perché abbiamo accumulato debiti statali spaventosamente elevati, perché non abbiamo tenuto sotto controllo la spesa pubblica, perché nell’Europa soprattutto latina e mediterranea i bilanci in ordine sono stati un concetto un po’ troppo elastico e incompatibile con la ricerca di un consenso voracemente costoso. No, la colpa è «dell’Europa» e segnatamente, inutile girare attorno al vero nucleo che calamita su di sé ostilità e risentimenti sconfinati, della spietata Germania, e anzi, per dare un volto e un bersaglio, «della Merkel», che non è più una persona fisica, ma l’emblema stesso delle nostre difficoltà.

Ma se questo accade è perché l’Europa è stata costruita male, dando il senso di una sovranità usurpata, di una moneta senz’anima, di un carattere privo di ogni base culturale e soprattutto di ogni passione «popolare», come quella che pure ha preso forma nella configurazione moderna degli Stati nazionali e delle democrazie liberali. È questo deficit democratico che l’Europa, se vuole sopravvivere, deve saper guardare con coraggio per colmarne le lacune. Non solo una questione di conti virtuosi e di debiti da onorare. Altrimenti, stritolata dall’eurofobia montante di destra e di sinistra, l’Unione Europea ne uscirà travolta. Non c’è più molto tempo per correre ai ripari.


27 gennaio 2015 | 08:18
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« Risposta #171 inserito:: Febbraio 18, 2015, 07:47:41 am »

Il commento
L’Europa e quella guerra alla libertà e ai suoi ebrei
Dopo gli attentati di Copenaghen, dire che la libertà europea è nel mirino degli jihadisti non è retorica, ma la fotografia di una dichiarazione di guerra

Di Pierluigi Battista

Dopo gli attentati di Copenaghen, dire che la libertà europea è nel mirino degli jihadisti non è solo una formula retorica, ma la fotografia di una dichiarazione di guerra. Il simbolismo dei bersagli e dei messaggi è chiarissimo oramai. Gli islamisti hanno attaccato un convegno sulla libertà d’espressione con l’ambasciatore francese presente. Tutto questo a un mese o poco più dalla strage nella redazione di Charlie Hebdo. Poi hanno profanato un cimitero ebraico, hanno distrutto centinaia di tombe, hanno profanato un monumento alla Shoah.

Gli ebrei sentono sempre meno l’Europa come la loro casa. Cresce l’istinto di fuga da un’Europa che ha chiuso gli occhi da anni, anche quando gli islamisti hanno fatto strage in una scuola ebraica. La libertà e le sinagoghe devastate. Le parole libere e gli ebrei. L’arte libera e gli «infedeli», i «crociati», i quartieri ebraici, i cimiteri, il ricordo dell’Olocausto. L’Europa viene aggredita nel punto in cui dovrebbe essere orgogliosa: la libertà. La libertà nemica numero uno dei fondamentalisti e dei fanatici. Non vogliono altro che l’Europa rinunci a se stessa. La vogliono soggiogare culturalmente. La vogliono umiliare nei valori che le sono più cari. È una guerra di conquista culturale. Ma l’Europa sembra aver smarrito la sua bussola culturale, la fierezza di sé, la sicurezza nella forza dei propri valori. La libertà europea è sulla difensiva. Se a Londra gli amici dello jihadismo portano cartelli in cui si sbandierano strumentalmente le parole di Francesco sul «pugno» che meritano quelli che offendono la religione, vuol dire che la trincea sta smottando, che il fronte in difesa della libertà è fragile e impaurito. Per qualche giorno tutti hanno portato come un simbolo d’onore «Je suis Charlie». La marcia repubblicana di Parigi è apparsa una prova di compattezza, di solidarietà, di vicinanza non solo alle vittime di Charlie Hebdo e agli ebrei uccisi nel supermercato kosher alla vigilia dello Shabbath. Ma l’unità è durata pochissimo. Si è imposta la retorica dei distinguo. L’oggetto del dibattito si è spostato: non più l’ideologia omicida degli stragisti che fanno una carneficina di vignettisti armati soltanto di una matita, ma «gli eccessi» della satira, l’intoccabilità delle religioni, i limiti che la libertà si deve dare. Il Victoria and Albert Museum ha ritirato e nascosto un ritratto di Maometto, neanche offensivo, ma non si sa mai. Durante il Carnevale di Colonia un carro allegorico di solidarietà a Charlie Hebdo è stato vietato. In America una grande casa editrice pubblica un volume sulle «vignette della discordia» ma evita accuratamente di riprodurle per «non offendere». L’Internazionale degli invisibili, tutti quei vignettisti, scrittori, professori, giornalisti che in Europa e in America sono spariti in questi anni dalla circolazione perché raggiunti da una condanna a morte sono di nuovo tornati nel dimenticatoio, presenze inquietanti.

Quando hanno sgozzato Theo Van Gogh, il regista olandese di «Submission» ammazzato in Olanda perché «blasfemo», nessun festival ha voluto ospitare la pellicola. Altro che libertà d’espressione. Lo stesso Michel Houellebecq, che pure si è affrettato a spiegare che il suo romanzo «Sottomissione», in cui si racconta l’ascesa di un presidente musulmano a Parigi, non è contro l’Islam, vive in costante pericolo. Il pericolo che gli ebrei d’Europa vivono oramai con angoscia quotidianamente. Perché c’è un nesso inscindibile tra l’odio per la libertà, le libertà civili, la libertà della donna, la libertà della cultura, la libertà dell’istruzione, e l’odio antisemita. L’Europa è già stata infettata nella sua storia da questo intreccio perverso di totalitarismo e odio antiebraico. Non capire che è questa la posta in gioco, che le bandiere nere che oramai sventolano in Libia, le cellule islamiste che fanno strage nel cuore delle metropoli, gli attentatori che vogliono macchiare il ricordo della Shoah, oggi vogliono che l’Europa si ripieghi in se stessa, che vinca la paura, l’autocensura, il linguaggio prudente e omertoso. E che perciò dare una mano ai fanatici con sottili atti di disamore nei confronti delle libertà così come le conosciamo, con un’enfasi sui «limiti» della libertà, come se le vittime se l’andassero a cercare, come se la critica fosse un’«offesa», tutto questo rappresenterebbe l’anticamera della sconfitta. E la vittoria dei fanatici, degli antisemiti, di chi odia l’Europa e la sua libertà. E che vuole cacciare gli ebrei dall’Europa. Di nuovo, la grande vergogna.

16 febbraio 2015 | 08:44
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_febbraio_16/europa-quella-guerra-liberta-suoi-ebrei-7573a3ce-b5ae-11e4-bb5e-b90de9daadbe.shtml
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« Risposta #172 inserito:: Marzo 03, 2015, 05:12:37 pm »

Servizio pubblico e lottizzazione
Le trincee inutili

Di Pierluigi Battista

S e gli italiani pagano una tassa (non è proprio una tassa, ma un balzello sì) che si chiama canone Rai, hanno poi tutto il diritto di allarmarsi se i loro soldi vengono sprecati. Il piano Gubitosi, tanto contrastato nei corridoi di Viale Mazzini, accorpa, condensa, razionalizza. Fa risparmiare. Perché una folla di giornalisti e operatori se non sono necessari? Perché tante testate telegiornalistiche? Perché non concentrare gli sforzi, non disperdere energie? Non è un problema solo di sprechi. Nessuno è perfetto, e nessuno può impancarsi a giudice delle scelte altrui. Ma il pagamento del canone esige delle risposte chiare, delle scelte nette. Oggi abbiamo tre telegiornali che sono l’eredità nemmeno della Seconda Repubblica, ma della Prima. La divisione riguardava i tre partiti, la Dc, il Psi e il Pci, che si spartivano l’informazione radio e televisiva. Poi quei partiti sono crollati. Ma la pratica della spartizione lottizzatoria è proseguita come prima, con complicazione di sigle però con la stessa voracità dei partiti che hanno occupato ogni poltrona, ogni sedia ogni strapuntino spolpando la Rai e mortificando le enormi risorse professionali dei giornalisti della tv di Stato.

Oggi la semplificazione, la razionalizzazione, la riduzione delle poltrone rappresenta una diminuzione secca dei posti da lottizzare. Si moltiplicano troupe, inviati, microfoni per una pura logica che soddisfi tutti gli appetiti, tutte le componenti, facendo dell’informazione televisiva un unicum di doppioni istituzionalizzati, di sprechi. Lo spreco non è certo prerogativa della Rai. Anche i giornali e gli altri tg, senza canone, sbagliano. Ma un conto è lo sbaglio occasionale e specifico, un altro è l’istituzionalizzazione, tra l’altro sorretta da potenti motivazioni «ideologiche», dello spreco. Con un canone che viene chiesto come obbligo per i cittadini, c’è l’obbligo di non fare trincee corporative contro un piano che ha una sua logica. Una logica sinora troppo sconosciuta nella Rai.

27 febbraio 2015 | 16:49
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_febbraio_27/trincee-inutili-a3947130-be4f-11e4-abd1-822f1e0f1ed7.shtml
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« Risposta #173 inserito:: Marzo 09, 2015, 05:07:27 pm »

Libertà

Autocensura, il virus pericoloso causato dalla paura
«Charlie Hebdo» è di nuovo un giornale solo dopo la carneficina di gennaio

Di Pierluigi Battista

In Francia Le Monde ha scoperto che dopo la sbornia del «Je suis Charlie» successiva alla carneficina di Parigi, è il momento del ripudio del povero Charlie. Scrive infatti che tanti disegnatori e vignettisti, contattati da Charlie Hebdo per continuare la collaborazione con quel settimanale per un giorno soltanto ammirato da tutti come ultima trincea della libertà d’espressione, hanno chiesto espressamente che il loro nome venisse cancellato.

È il «virus della censura» che sta contagiando tutti, come la chiama il commentatore Michel Guerin? È la paura che vince, il terrore che ha colpito nel bersaglio? E con che velocità la solidarietà universale si è prima appannata e poi è scomparsa nei confronti dei vignettisti «satanici» che sono stati massacrati dai guerrieri del fanatismo islamista.

Anche in Danimarca, dopo gli attentati di qualche settimana fa, i giornali militarmente blindati che hanno osato sfidare l’ira dei fondamentalisti, hanno ripiegato su una sponda meno esposta al pericolo delle rappresaglie armate di chi, con la scusa della «blasfemia», uccide e commette stragi. Vince la paura? Si diffonde il «virus della censura» e dell’autocensura? I vignettisti hanno paura di entrare in quella internazionale degli invisibili che, dopo essere stati indicati come bersagli della vendetta islamista, si nascondono, fanno perdere ogni traccia di sé, cambiano identità sotto la protezione della polizia. Facebook in Turchia ha tolto le vignette considerate blasfeme. A Londra, nel museo Albert e Victoria un ritratto di Maometto, neanche particolarmente blasfemo, è stato rimosso per evitare in anticipo ogni polemica. Ayaan Hirsi Ali, che ha appena pubblicato un libro, non potrà presentarlo in pubblico per ragioni di sicurezza. E perché dei vignettisti, dei disegnatori liberi, anarchici, trasgressivi, ironici dovrebbero diventare degli eroi? Perché rischiare la morte per la propria libertà d’espressione se le società che hanno fatto della libertà d’espressione un principio apparentemente non negoziabile, in realtà si tirano indietro, eccepiscono sulla libertà che si trasforma in «licenza», se le autorità religiose considerano un’«offesa» la libertà di critica anche la più urticante e irridente?

Charlie Hebdo è di nuovo un giornale solo, come lo era prima della carneficina di gennaio. Quando pubblicavano le vignette incriminate, pochissimi trovarono quel gesto coraggioso un esempio da seguire. Per la paura. E per la censura che si sta insinuando dentro di noi, diventando potentissima autocensura. Un virus devastante per i nostri valori.

8 marzo 2015 | 14:04
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_marzo_08/charlie-hebdo-isis-autocensura-virus-pericoloso-causato-paura-e5d7f038-c58b-11e4-a88d-7584e1199318.shtml
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« Risposta #174 inserito:: Marzo 23, 2015, 11:24:29 am »

IL DIBATTITO
La Primavera (riuscita) da difendere
L’Occidente non ha colpa.
L’ultimo eccidio non è conseguenza di un’«integrazione fallita».
Il nemico è alle porte: e sono loro ad averci dichiarato guerra


Di Pierluigi Battista

E adesso, dopo l’ennesima strage islamista di Tunisi, che colpa ci vogliamo dare? Come ce la siamo andata a cercare, stavolta? Quanti pentimenti per aver creduto scioccamente nelle «primavere arabe»? Stavolta in Tunisia la Primavera araba aveva funzionato. Da qui, dal gesto di Mohamed Bouazizi, che si diede fuoco dopo aver subito i maltrattamenti della dittatura, è cominciato tutto. Tutti a dire che è stata una disgrazia, che è colpa nostra se l’Isis è finito in Libia, mentre Gheddafi, che sarà pure stato un despota pagliaccio, ma era pur sempre il «nostro» despota pagliaccio, che è colpa nostra l’Iraq, che è colpa nostra la Siria e duecentomila morti ammazzati da Assad, che è colpa nostra se qualche giovane musulmano in Francia fa una carneficina nella redazione di Charlie Hebdo , che è colpa nostra se musulmani di seconda generazione in Gran Bretagna si fanno esplodere dentro la metropolitana provocando una strage mostruosa, che è colpa nostra se ammazzano gli ebrei in una pizzeria di Gerusalemme e di Tel Aviv, che è colpa nostra se irrompono in un dibattito in Danimarca e danno l’assalto alla Sinagoga di Copenaghen, adesso che colpa nostra esattamente sarebbe se hanno compiuto un eccidio in un museo di Tunisi? Che colpa avevano i turisti che lo stavano visitando? E che colpa aveva l’escursionista francese che venne decapitato in Algeria?

I terroristi islamisti adesso hanno voluto colpire la Primavera araba riuscita. Volevano assaltare a mano armata il simbolo della democrazia: il Parlamento di Tunisi. Un Parlamento dove è consistente, determinante una presenza «laica». L’Occidente ha commesso innumerevoli errori, ma la vulgata salmodiata dai paladini delle nostre infinite colpe, offre una spiegazione fuorviante perché non vuole ammettere che la guerra che sta facendo un numero impressionante di vittime non è stata scatenata da «noi», ma da «loro». Ecco il non detto, il non dicibile. Ora non possono sostenere: guardate che avete combinato con le vostre fisime democratiche in Libia, ci fosse ancora Gheddafi non avremmo il nemico alle porte. Il nemico è alle porte, è nel cuore di Tunisi, e non c’è stato nessun errore catastrofico dell’Occidente: c’è una democrazia viva e funzionante. Dicono: guardate che avete combinato in Siria. Ma in Siria la Primavera araba non ha mai vinto, Assad ha represso nel sangue e nel gas mortale ogni barlume di dissenso, nel silenzio imbelle dell’Occidente e dell’Onu, ma si continua con la litania del «è colpa nostra» come se la Primavera araba avesse espugnato Damasco.

E l’Iraq? L’intervento americano e inglese è del 2003, l’Isis ha conquistato parte del territorio iracheno nel 2014: undici anni. Ma la colpa delle bandiere nere che sventolano minacciose e che vogliono arrivare a coprire San Pietro di chi è? Ma di George W. Bush naturalmente. I terroristi islamisti che hanno colpito a morte Copenaghen e Parigi avevano studiato, vivevano una condizione sociale dignitosa, ma la colpa è della nostra «discriminazione», dell’ «emarginazione», della mancata «integrazione» della nostra cultura imperiale e prepotente.

Questa capacità di non vedere la realtà non è il frutto di un accecamento. Ma della paura di riconoscere che una guerra santa è stata scatenata e che ogni simbolo di quello che noi riteniamo importante e decisivo nella nostra scala di valori - la libertà d’espressione e l’arte custodita nei musei, la tolleranza e il pluralismo religioso, la scuola e la libera stampa, la libertà della donna e i diritti civili - è considerato qualcosa di peccaminoso, di sporco, meritevole di essere calpestato e distrutto. Boko Haram in Nigeria demolisce le scuole e fa strage di studenti e soprattutto di studentesse, perché il suo motto, la sua insegna è «L’istruzione occidentale è peccato». Ammazzano gli ebrei in Israele e in Europa non perché vogliono uno Stato palestinese, come è legittimo e giusto, ma perché non vogliono vedere traccia di ebraismo e di «crociati» nella terra santa dell’Islam. Massacrano dodici tra vignettisti, collaboratori e agenti a Parigi perché i disegni della rivista sono strumenti del demonio.

E invece no, le migliori menti delle nostre generazioni spendono la loro sottile e ammirata intelligenza a dire che è «colpa nostra», che non avremmo dovuto sperare nelle primavere arabe, che siamo noi a «provocare», che siamo noi che «ce la cerchiamo». E non vogliono capire. Mentre a Tunisi la democrazia scaturita dalla Primavera cerca di difendersi, supplica di non essere lasciata sola, chiede al mondo di essere considerata un baluardo, una trincea. Per difendersi da una guerra cruenta che vuole uccidere la democrazia. Teniamocela stretta, finché possiamo.

20 marzo 2015 | 09:31
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_marzo_20/tunisia-strage-museo-occidente-primavera-araba-88b8d766-ceda-11e4-8db5-cbe70d670e28.shtml
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« Risposta #175 inserito:: Marzo 28, 2015, 04:39:17 pm »

Il corsivo del giorno   
House of Cards, la libertà di oltraggiare senza paura
Il protagonista della serie sputa sull’immagine di Gesù.
Cosa sarebbe successo con i simboli islamici

Di Pierluigi Battista

C’ è una scena nella terza serie di «House of Cards» che può offendere i cristiani, ferirli nei loro sentimenti. Anzi, li ha già feriti, li ha già offesi e i blog cattolici, negli Usa, sono già in subbuglio. Si vede lui, Frank Underwood, il presidente degli Stati Uniti che ha conquistato la Casa Bianca con la complicità della moglie Claire e con intrighi e omicidi pazzeschi, entrare in una chiesa per farsi perdonare delle nefandezze compiute nella sua scalata al potere. Il prete gli nega il perdono e si allontana.

Allora Underwood sputa nell’occhio di Gesù Cristo nel crocefisso appeso alla parete. Poi, più per non farsi scoprire che per sincero pentimento, cerca di asciugare il crocefisso che però, per colpa del presidente maldestro, cade e si frantuma in mille pezzi. Il presidente degli Stati Uniti raccoglie da terra l’orecchio e auspica, sarcastico, che il Signore almeno in questo modo potrà ascoltarlo.

Insomma, una sequenza che ora andrebbe molto di moda liquidare come «blasfema».

Solo che nessuno impedisce ad «House of Cards» di essere trasmessa e seguita da milioni di persone. Nessuno rischierà la vita. Nessuna censura si è abbattuta sulla famosa serie televisiva. Qualcuno protesta e dice che non vedrà mai più una puntata di «House of Cards». Così si manifesta il dissenso in una democrazia tollerante: si protesta e si usa il telecomando per andare altrove. Ora, è inopportuno, provocatorio, spregevole, domandarsi: se una scena del genere avesse avuto come vittima non un crocefisso ma qualcosa che riguardava, per dire, Maometto, ci sarebbe stata una reazione così tollerante? Qualcuno, dalle parti di «House of Cards», potrebbe cominciare ad avere paura? Bisognerebbe rispondere con sincerità.

L’oltraggio a una religione non è il pretesto per abolire la libertà d’espressione: non è una lezione che dovremmo imparare?

17 marzo 2015 | 07:28
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_marzo_17/house-of-cards-liberta-oltraggiare-senza-paura-5f5878ae-cc6e-11e4-a3cb-3e7ff6d232c1.shtml
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« Risposta #176 inserito:: Aprile 12, 2015, 06:09:32 pm »

L’Iran e il nucleare
La paura (ragionevole) di Israele e degli ebrei
L’accordo che è stato raggiunto con Teheran non porterà allo smantellamento dell’atomica, ne allungherà i tempi

Di Pierluigi Battista

Stareste tranquilli se chi ha giurato di annichilire la vostra Nazione con la bomba atomica riuscisse a ottenere il permesso di costruirne i presupposti, sia pur al rallentatore? E se vi dicessero che siete degli ottusi oltranzisti, solo perché fa festa chi ha promesso di cancellarvi prima o poi dalle carte geografiche? Ecco, lo Stato di Israele si sente così: i potenti della Terra fanno festa, mentre la prospettiva della catastrofe si avvicina. E dicono anche che siete esagerati e paranoici. Lo dicono quelli che a veder sventolare una bandierina dell’Isis a qualche centinaio di chilometri di distanza già sono travolti dal terrore.

L’Iran khomeinista, l’Iran degli ayatollah e dei mullah al potere vuole l’arma finale per annientare Israele e cacciare gli ebrei che sporcano e deturpano la terra santa dell’Islam. Non è un progetto nascosto, non è il frutto della paranoia israeliana, dei guerrafondai che si inventano nemici immaginari per perseguire i loro loschi interessi: è un programma aperto, esibito, reiterato, argomentato, supportato da una lettura fondamentalista e intransigente dei testi sacri. L’antiebraismo è un tratto costitutivo dell’integralismo che ha preso il potere a Teheran, non una sua superfetazione propagandistica, una fanfaronata da bulli. Quel microscopico lembo di terreno che si chiama Stato di Israele è l’ossessione di Stati giganteschi che circondano Israele con un mare di ostilità.

La questione palestinese non c’entra niente. Nessun Paese arabo ha aiutato i palestinesi a costruire uno Stato autonomo e indipendente dal ‘48 al ‘67 secondo i confini tracciati dall’Onu con una risoluzione che Israele accettò e i Paesi arabi rifiutarono. E l’Iran della rivoluzione khomeinista, che non è un Paese arabo, ma che ha contribuito fortemente alla islamizzazione di un conflitto che ha perduto oramai ogni traccia di nazionalismo laico finalizzato all’indipendenza e all’emancipazione dei territori occupati nel ‘67 da Israele, ha da sempre l’obiettivo della costruzione dell’arma finale per cancellare lo «scandalo sionista» dalla faccia della terra. La comunità internazionale lo ha sempre avuto chiaro. Le sanzioni sono state decise per questo. Tutti sapevano che l’uranio arricchito dell’Iran in mano agli antisemiti non aveva uno scopo pacifico. Tutti sapevano che le centrifughe per ottenerlo venivano nascoste per impedire ai blitz israeliani di intervenire e al resto del mondo di controllare cosa si stava accumulando nel cuore di montagne inespugnabili, invisibili, capaci di sfuggire a qualunque ispezione.

Oggi si sta decidendo, con un accordo che dovrà essere perfezionato da qui a giugno ma che oramai è ben disegnato nei suoi contorni essenziali, che l’uranio arricchito dell’Iran non viene fermato, ma soltanto frenato. Un po’ di impianti da smantellare. Una consistente diluzione dei tempi. Ma non la fine del programma atomico a scopi bellici. Hanno detto a Israele: a quelli che vogliono distruggerti con l’arma finale abbiamo imposto di mettere le cose al rallentatore. La distruzione non è scongiurata, è solo posticipata. Nel frattempo la rimozione delle sanzioni sarà di giovamento agli scambi economici internazionali. Israele si rassegni, e veda di non ostacolare questo spettacolare «accordo di pace».

E invece, ostinati, testardi, incontentabili, rompiscatole, gli israeliani che terrorizzati hanno votato ancora per Netanyahu (ma come mai? saranno mica impazziti?), si permettono addirittura di avere paura. Ma come, dicono i seguaci dell’equilibrio perfetto, ma se ce l’ha già Israele perché all’Iran si dovrebbe negare la bomba atomica? Solo che l’arma atomica nell’era della Guerra fredda è stato un messaggio dissuasivo, non aggressivo: guarda che se t’azzardi a usarla, l’uso che ne faremo noi per rappresaglia vi annienterà all’istante. Mentre quella dell’Iran è solo ed esclusivamente un messaggio aggressivo: abbiamo forse dimostrato di avere paura della morte, noi che abbiamo spedito sciami di bambini a farsi uccidere nella guerra degli ayatollah contro Saddam Hussein? Inoltre la bomba di Israele è palesemente, nemmeno i più acrimoniosi dei nemici potrebbero negarlo, uno scudo difensivo, difficile pensare in tutta onestà che a Gerusalemme qualcuno stia progettando di fare di Teheran la nuova Hiroshima. La pretesa iraniana della bomba atomica invece fa tutt’uno con il progetto di annientare Israele. È colpa di Netanyahu se in Israele hanno paura? Il governo israeliano doveva partecipare a negoziati con uno Stato che non ha nessuna intenzione di riconoscere Israele? Sono tutti oltranzisti a Gerusalemme? Pretendono addirittura che venga loro riconosciuto il diritto di esistere, questi estremisti.

5 aprile 2015 | 17:37
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_aprile_05/iran-israele-paura-ragionevole-f1cfadd6-dba7-11e4-8de4-f58326795c90.shtml
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« Risposta #177 inserito:: Aprile 25, 2015, 04:47:58 pm »

L’esodo dei migranti
L’Europa nemica di se stessa
Lo spaventoso spettacolo di uomini, donne e bambini inghiottiti dal mare è devastante Soprattutto per noi che rischiamo la fine di ogni credibilità

Di Pierluigi Battista

Ecco indetto per giovedì il vertice straordinario dell’Unione Europea, dopo l’ecatombe del Mediterraneo. Ma che sia straordinario davvero. Operativo subito. Coordinato senza gelosie, ripicche, esclusivismi, manovre dilatorie. Circostanziato nella definizione dei costi economici che le operazioni di contrasto a questa strage continua comportano necessariamente. Realistico nella definizione degli obiettivi urgenti. E serio, soprattutto serio, nel delineare una strategia capace di fronteggiare questo spostamento immane di popoli disperati in fuga dai massacri di guerre atroci e spietate, in cui è tutta la popolazione civile ad essere coinvolta nella tragedia.

Nel dire anche una parola, una sola parola dopo anni di afasia, indifferenza, viltà, su quello che sta accadendo in Siria e in Iraq. Un’Europa slabbrata e muta, incapace di una posizione univoca, ipocritamente in attesa di capire cosa faranno gli Stati Uniti. Se già da giovedì l’Europa non dimostrasse di saper agire in modo straordinario, sarà poi inutile prendersela con gli eurofobici, con gli antieuropei: perché la prima nemica dell’Europa che vorremmo sarebbe alla fine proprio lei, un’Unione Europea che non sa più che fare quando centinaia, migliaia di persone muoiono in mare cercando di avvicinarsi, per salvarsi, alle sue sponde.

I responsabili dell’Unione Europea forse nemmeno immaginano quanto devastante sia per il nostro continente quello spaventoso spettacolo di uomini, donne e bambini inghiottiti dal mare. Nemmeno immaginano quanto sia sconfortante l’impotenza esibita sulla questione della Libia, a solo pochi anni dalla prova di inettitudine e cecità messa in mostra con la violenta detronizzazione di Gheddafi. Quanto suoni lontano questo disquisire su sigle e nomi che non rispondono alla sostanza della questione: cosa ha fatto l’Europa sinora per impedire la carneficina nei mari, ma anche soltanto per capire il perché di un esodo così massiccio? Facciamo sempre finta di non vedere. Speriamo sempre che per qualche fortunata coincidenza del destino, le cose si mettano miracolosamente a posto. Confidiamo sempre che qualcun altro (gli Stati Uniti, ovviamente: salvo imprecare contro Obama e prima di lui contro qualunque inquilino della Casa Bianca) possa muoversi al posto nostro.

Si misura drammaticamente l’assenza di una politica estera comune. Di un sistema di difesa comune, suo necessario supporto, che però comporta dei costi: la difesa non è gratis, gratuita è soltanto la demagogia di chi dice che ogni euro speso per la difesa militare è un regalo a qualche lobby tenebrosa, sottratto a chissà quali progetti di sviluppo civile. L’Europa non sa cosa fare di scafisti senza scrupoli, di schiavisti che spadroneggiano sui mari. Figurarsi se riesce ad elaborare una linea comune, e comportamenti coerenti, anche molto impegnativi, per aiutare i curdi che si battono contro i fanatici islamisti, contro Assad che da una parte è un alleato, ma dall’altra è un macellaio che ha affamato una popolazione, ucciso decine o centinaia di migliaia di civili.

Già con il caso greco si è misurata l’incredibile vaghezza della linea europea, quel suo galleggiare un po’ nevrotico tra rigore e accondiscendenza. Eppure la mina della Grecia è pronta a esplodere, corrodendo la fiducia degli europei nella loro moneta e nelle loro istituzioni. Ma baloccarsi con la tragedia del Mediterraneo, inabissarsi in beghe nazionali e rivalità territoriali, senza coordinare già da giovedì provvedimenti in grado di essere attuati subito, significa rischiare il collasso morale di un’Europa incapace di un sussulto di fronte a tragedie così ripetute. Se poi si dovesse replicare la pantomima del cordoglio di fronte alle emergenze, aspettando la prossima strage, allora per l’Europa sarebbe la fine di ogni credibilità. E stavolta la colpa non sarebbe dei suoi soliti nemici.

21 aprile 2015 | 08:42
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Da - http://www.corriere.it/cultura/15_aprile_21/europa-nemica-se-stessa-965f1842-e7e6-11e4-97a5-c3fccabca8f9.shtml
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« Risposta #178 inserito:: Maggio 01, 2015, 11:41:20 am »

L’appello di Renzi per l’Italicum
L’arma pericolosa della dignità
Con l’accorata lettera ai militanti, il premier rischia di perdere ogni distinzione tra partito e istituzioni. E sembra implicare che ogni forma di dissenso vada catalogata come ignobile

Di Pierluigi Battista

Matteo Renzi è costretto a recitare due parti in commedia. È diventato presidente del Consiglio perché è il segretario del Pd, dopo aver stravinto il congresso. Ed è il segretario del partito che può dimostrare di meritare il consenso, solo a condizione di guidare personalmente il governo.

Chi chiedeva che Renzi, entrato a Palazzo Chigi, rinunciasse alla segreteria del Pd per una questione di bon ton politico, o era legato alle vecchie pratiche del bilancino tra correnti dc in auge nella Prima Repubblica, oppure faceva finta di non aver colto il nesso inscindibile tra le due cariche ricoperte da Renzi. Il quale però, con l’accorata lettera ai militanti del Pd affinché il partito possa dimostrare la sua dignità approvando senza moleste obiezioni la «sua» (di Renzi) legge elettorale, rischia di perdere ogni distinzione tra partito e istituzioni, tra militanti e parlamentari, tra il programma del Pd e quello delle altre forze politiche che potrebbero votare le regole del gioco politico, ma non certo per fare un favore al Partito democratico.

Renzi ha deciso la drammatizzazione estrema. Come se la legge elettorale fosse l’ultima spiaggia, la prova suprema, l’apice dell’azione del governo. Vuole approvare in pochi giorni una legge che comunque sarebbe sterilizzata da una clausola che ne impedisce l’uso fino a che non viene ultimata la trasformazione costituzionale di un Senato non più elettivo. Ma impone la fiducia, esige che le minoranze si allineino. Oggi non c’è più il patto del Nazareno che gli dava la sicurezza di una maggioranza anche con una parte del Pd che recalcitrava. Oggi deve piegarne l’ultima resistenza, approfittando anche di una minoranza del partito confusionaria, divisa, titubante, perennemente oscillante tra velleità scissionistiche e necessità di chinare il capo fino a che la tempesta non sia passata. Solo che una legge elettorale non è una questione interna al partito. Non può precludersi la possibilità di un’interlocuzione con altre forze politiche. La massima che Renzi sembrava aver fatto propria — non si cambiano le regole a maggioranza, ma coinvolgendo forze politiche diverse in Parlamento — oggi viene clamorosamente disattesa. E adesso non solo non si ricerca il consenso delle altre forze politiche, ma si chiede al Parlamento di ratificare in tempi record una decisione interna al Partito democratico.

È un’evidente forzatura. Renzi ha dalla sua un argomento formidabile: a furia di cercare mediazioni, non si riesce mai a portare a casa il risultato. È vero. Ma solo fino a un certo punto. Il Porcellum, per dire, non è stato varato in tempi lunghissimi. Fu anch’esso il frutto di un decisionismo spiccato, solo in parte temperato dai correttivi suggeriti e poi imposti dall’allora presidente Ciampi. Oggi un Parlamento che la Corte costituzionale ha dichiarato essere stato eletto con una legge elettorale che ha violato più di una norma della Carta ha il dovere di ricercare un’intesa più ampia. Che senso ha appellarsi alla «dignità» di un partito se sono in gioco delicati equilibri costituzionali e il varo di regole del gioco che devono valere per tutti e che dunque meriterebbero un consenso il più ampio possibile?

E poi l’argomento della «dignità» è un’arma pericolosa. Che significa, che chi non è d’accordo con la lettera e lo spirito di una legge elettorale dentro il Pd, è automaticamente portatore di una posizione «indegna»? Il dissenso va contro la «dignità» di un partito? Oppure «dignità» viene usata come parola che equivalga a «determinazione», «velocità», «decisione», «immagine». Ma allora è un’altra partita. Legittima, forse anche sacrosanta dal punto di vista del presidente del Consiglio, ma che con la «dignità» ha davvero poco a che spartire.

Perciò è urgente ristabilire un minimo di distinzione tra il partito e le istituzioni. Così come è necessario che il Parlamento non sia messo nelle condizioni di votare a favore di una legge elettorale solo perché altrimenti il governo cade dopo una sfiducia. La «dignità» è di tutti. Di chi vota a favore e di chi vota contro. Sulle regole del gioco, poi, non c’è disciplina militare che tenga.

28 aprile 2015 | 09:49
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_aprile_28/trappola-dignita-8f8fa44e-ed74-11e4-91ba-05b8e1143468.shtml
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« Risposta #179 inserito:: Maggio 16, 2015, 04:27:02 pm »

I massacri di Assad
Il cattivo silenzio sulla Siria

Di Pierluigi Battista

Intanto, nel silenzio internazionale, Bashar Assad sta portando a termine la sua missione: lo sterminio del popolo siriano. Lo documenta Lorenzo Cremonesi sul nostro giornale: in Siria è in corso una mattanza infinita, mentre l’attenzione del mondo è concentrata sui crimini dell’Isis. Non è la prima volta che l’Occidente, l’Europa, le democrazie assistono impotenti alle stragi e ai massacri che i tiranni consumano nella devastazione dei più elementari diritti umani. Ciò che è nuovo è l’imperativo del silenzio, l’obbligo strategico di tacere sulle nefandezze di Assad, l’accondiscendenza verso un nostro «alleato». O comunque un bastione necessario per arginare le malefatte del fanatismo jihadista.

Anche in passato, per la verità, la teoria del «male minore» alimentò alleanze con i peggiori dittatori, con i fondamentalisti, con i nemici dei nostri nemici. O meglio con quelli che, in un particolare momento, apparivano, come i nemici di chi sembrava, ed era, il nemico principale. E così l’Occidente appoggiò i talebani in funzione antisovietica. E così stabilì un asse con Saddam Hussein per contrastare i guerrieri dell’ayatollah Khomeini. Oggi l’Occidente, l’Europa, gli Stati Uniti, le democrazie compiono un passo di più. Dimenticano completamente l’uso acclarato delle armi chimiche da parte di Assad, Aleppo rasa al suolo, la carneficina dei civili, i migliaia e migliaia di bambini morti sotto le bombe, per la fame, uccisi dagli squadroni del terrore del regime, perché ora Assad ci «serve».

Il dramma è tutto in questo collasso dell’attenzione internazionale per la difesa dei diritti umani. Rimpiangiamo Gheddafi perché, anche se con uso terroristico del potere, «stabilizzava» l’area. Facciamo finta di non vedere i crimini di Assad per non indebolire il fronte anti Isis. Nell’agosto del 2013 Obama stava addirittura per invocare l’intervento armato contro il regime di Damasco che aveva usato le armi chimiche per massacrare il popolo siriano. Sembra passato un secolo. L’ondivaga, ambigua, zigzagante politica americana, con il silenzio impotente dell’Europa che non riesce a costruire nemmeno un abbozzo di politica estera comune e credibile, ha finito per dissolvere ogni coerenza di intervento. Se Assad «serve», bisogna che il compimento del massacro del popolo siriano avvenga senza nemmeno una protesta verbale. Se per danneggiare l’espansionismo dell’Isis, bisogna chiudere un accordo al ribasso con gli «alleati» dell’Iran, allora bisogna far finta di non vedere che a Teheran si inneggia all’Olocausto per colpire «l’entità sionista». Ma se la politica internazionale ha le sue durezze, se il realismo richiede anche una buona dose di cinismo, non è neanche possibile che l’opinione pubblica sia tenuta all’oscuro di ciò che sta accadendo in Siria mentre tutti, tutti, giriamo la testa dall’altra parte. La carneficina del popolo siriano non è cessata solo perché magicamente, non occupandocene più, pensiamo che sia finita. Oppure ci pensiamo solo quando arrivano i barconi di famiglie intere che scappano dalla Siria e che rischiano la morte in mare, l’ecatombe nel Mediterraneo, per scappare dagli orrori di laggiù. I nostri «alleati» occasionali intanto completano il loro lavoro sporco. Una macchia che resterà indelebile sulla coscienza dell’Occidente.

11 maggio 2015 | 08:26
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_maggio_11/cattivo-silenzio-siria-fb403302-f79c-11e4-821b-143ba0c0ef75.shtml
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