LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. => Discussione aperta da: Admin - Aprile 10, 2008, 04:10:28 pm



Titolo: Pier Luigi BATTISTA
Inserito da: Admin - Aprile 10, 2008, 04:10:28 pm
Doppia caduta

di Pierluigi Battista


Non c'era bisogno di essere incendiari per auspicare una campagna elettorale più vivace, meno scialba e incolore di quella che si stava snodando nelle scorse settimane. Ma la vivacità non significa nostalgia del linguaggio esasperato e parossistico cui ci avevano abituato quindici anni di bipolarismo primitivo.

E nemmeno il festival delle escandescenze verbali, caratteristico di schieramenti che si odiano, si considerano nemici irriducibili e focosamente si lanciano l'un l'altro l'accusa di rappresentare un pericolo per la democrazia. Ecco perché due dichiarazioni partite ieri dal centrodestra si configurano come una duplice, brutta caduta di stile: un improvviso, inconcludente tuffo nel passato.

Proporre esami di idoneità mentale per i pubblici ministeri, come ha fatto Silvio Berlusconi a pochi giorni dalle elezioni, comunica l'impressione che il possibile prossimo presidente del Consiglio voglia inopinatamente riaprire la sfida con la magistratura e riaccendere i fuochi di una guerra tra politica e giustizia che ha avvelenato l'Italia per un tempo oramai troppo lungo. Come non scorgere nelle parole del leader del Popolo della Libertà un sentimento vendicativo, un desiderio incoercibile di rivalsa sui propri nemici, che è il contrario di ciò che dovrebbe predicare un uomo politico accreditato come il probabile vincitore della campagna elettorale? E se un esponente di punta del partito berlusconiano come Marcello Dell'Utri promette la revisione dei libri di testo sulla Resistenza «se dovessimo vincere le elezioni», è difficile non sospettare che si coltivi la tentazione di sottrarre il lavoro agli storici e di imporre con metodi politici una assurda storiografia di Stato: come se al posto del pensiero unico delle retoriche egemoni nel passato dovesse subentrare un nuovo canone di interpretazione storica direttamente vidimato dall'autorità politica espressa da una coalizione di governo. Una evidente scivolata censoria e illiberale destinata a intossicare questi ultimi scampoli di campagna elettorale. Ce n'era davvero bisogno?

Non ce n'era bisogno, nemmeno per rianimare una competizione sbiadita, o affidata alla guerra delle promesse guardate con sempre maggior scetticismo dall'elettorato. Una caduta non necessaria e che anzi rischia di disperdere quel senso del riconoscimento reciproco, della lotta politica dura tra schieramenti contrapposti che però non si trasforma mai nella prassi della delegittimazione reciproca. L'epilogo rissoso della campagna elettorale chiuderebbe ogni canale di comunicazione tra partiti che anche dopo il 14 aprile saranno costretti a parlarsi, a trovare un terreno di intesa sia pur nella distinzione dei ruoli tra maggioranza e opposizione. Non ne vale la pena. Nemmeno per un pugno di voti che, forse, potrebbero addirittura allontanarsi.


09 aprile 2008

da corriere.it


Titolo: Pierluigi Battista La diga si è rotta
Inserito da: Admin - Settembre 03, 2008, 12:16:19 pm
SINISTRA E GIUSTIZIA

La diga si è rotta


di Pierluigi Battista


Molti segnali indicano che è diventato possibile scongelare la militarizzazione degli schieramenti sulla giustizia. Sarebbe una doppia, rivoluzionaria frattura con il passato. Perché dimostrerebbe che, pur mantenendo intatta la diversità tra gli orientamenti politici in competizione, ci si può almeno parlare e tenere aperto un canale di interlocuzione sul tema più incandescente dei quindici anni della cosiddetta Seconda Repubblica. E perché inizierebbe a sanare una terribile malattia culturale, quella che distorce il bipolarismo nelle sue forme più selvagge e primitive, che ha degradato l’eventualità stessa del dialogo a sintomo di cedimento e di scarsa fibra morale, equiparando l’attenzione alle ragioni dell’avversario a una manifestazione di debolezza, di compromissione, addirittura (si è insinuato anche questo) a un peccato di «collaborazionismo» con il nemico.

Ma l’intimazione ricattatoria alla guerra permanente funziona sempre meno. A sinistra come a destra. Ovviamente pioveranno i fulmini dell’indignazione su Luciano Violante che in un’intervista al Giornale vede nella riforma della giustizia un tema cruciale sul quale il Partito democratico non può rinchiudersi nelle litanie autorassicuranti del fronte del no; o su Emma Bonino e sul gruppo radicale (ancora parte integrante del gruppo parlamentare del Pd) che non considerano un tabù per la sinistra la separazione delle carriere dei magistrati e il superamento dell’obbligatorietà dell’azione penale; su Lorenzo Cesa e sull’Udc di Casini che contrastano la deriva giustizialista di Di Pietro («la politica come inquisizione ») e non vogliono rifugiarsi sull’Aventino quando si parla della giustizia. Stupore o ostilità nell’area che ha resuscitato a Piazza Navona l’oltranzismo girotondino si appunteranno sull’ex portavoce del governo Prodi Silvio Sircana che sul Riformista auspica (sembra di capire in assoluta sintonia con le intenzioni dell’ex premier) «la convergenza più ampia possibile sui temi della giustizia»; o su Anna Finocchiaro e Dario Franceschini che non vogliono un Partito democratico arroccato sulla strenua difesa dell’esistente; o su Nicola Latorre che considera il dialogo con l’avversario una necessità per la democrazia bipolare. Si griderà ancora al tradimento, o all’ «inciucio», ma la diga si è rotta.

Si afferma il principio che sulla giustizia si parla e si discute senza remore, come frutto di una rottura culturale avviata nei mesi scorsi dallo stesso Veltroni. Si delinea un ruolo dell’opposizione che non si esaurisca nella protesta risentita, nel nullismo, nell’ossessiva e inconcludente ripetizione di un eterno no. Segnali. Segnali numerosi e concordi che non è scontato ottengano i risultati sperati e che possono vanificarsi se la maggioranza di governo decidesse stoltamente di andare per la sua strada senza nemmeno ascoltare critiche e obiezioni. Che però indicano la possibilità per l’opposizione di distinguere tra temi su cui esercitare con intransigenza un contrasto anche aspro e riforme su cui in nessuna democrazia occidentale si mena scandalo se si ottiene una convergenza tra forze collocate in Parlamento su trincee opposte. Un’altra eccezione italiana destinata, forse, a essere archiviata senza rimpianti.

03 settembre 2008

da corriere.it


Titolo: Pierluigi Battista La retorica del gesto estremo
Inserito da: Admin - Novembre 21, 2008, 10:57:00 pm
MAGISTRATI E APPELLI ALL’ONU

La retorica del gesto estremo


di Pierluigi Battista


Bisognerà capire perché alcuni magistrati in Italia siano così prigionieri di questa smania contagiosa del gesto eclatante. E perché i vertici dell'Associazione nazionale magistrati abbiano sfidato il buon senso in misura tanto considerevole da ispirare loro addirittura un appello al relatore speciale per i diritti umani dell’Onu, Leandro Despouy, invocandone la tutela dai «duri attacchi contro la magistratura del premier e di altri esponenti politici ».

Difficile non cogliere l’effetto di dismisura, di macroscopica sproporzione (e perfino di involontaria ironia, come ha sottolineato Mattia Feltri sulla Stampa prefigurando la bizzarra combinazione di «toghe rosse» e «caschi blu») che promana da questo singolare coinvolgimento delle Nazioni Unite nelle vicende politico-giudiziarie italiane. Più facile avvertire in questo sovrappiù di zelo allarmistico una lancinante nostalgia per un’epoca che si è chiusa, l’ultimo residuo di una guerra tra politica e magistratura che in quindici anni ha avuto una sua fosca grandezza ma che oggi precipita, appunto, nei rituali stanchi della retorica reducistica.

La fine della guerra non significa, peraltro, auspicio di soppressione di ogni conflitto, anche salutare, tra politica e magistratura. Proprio in questi giorni le toghe francesi sono impegnate in uno scontro durissimo con il ministro della Giustizia Rachida Dati e 500 magistrati hanno sottoscritto un documento allarmato per la chiusura delle piccole sedi giudiziarie di provincia e per lo spaventoso sovraffollamento delle carceri in Francia. E’ ciò che accade in ogni democrazia pluralistica e policentrica, dove non è scandaloso che su singole questioni si mobilitino forze sociali e culturali, comprese quelle che amministrano la giustizia, avverse alle scelte del governo.

Ma sarebbe difficile immaginare i magistrati francesi invocare l’intervento dell’Onu, per la semplice ragione che in Francia, a differenza dell’Italia, non sono stati avvinghiati con tanta intensità, e per oltre un quindicennio, a una rappresentazione collettiva, a un discorso pubblico ossessivo in cui la magistratura ha recitato immancabilmente la parte del contropotere militante nei confronti della politica. Lo svanire di quel discorso, il volgere al termine di quella rappresentazione che aveva posto la pietra tombale sulla Prima Repubblica, condizionando pesantemente l’intero svolgimento della Seconda, ha lasciato affiorare il disagio dei magistrati protagonisti di ieri per dover ricoprire non più un ruolo di punta bensì ordinario, «normale», sottratto alla luce dell’attenzione politico- mediatica.

Una riluttanza a rientrare nei ranghi che ha dettato nel suo gesto estremo un appello sconclusionato alle Nazioni Unite, ma che ispira anche (come in parte si è visto a proposito del rinvio a giudizio per «omicidio volontario » dei responsabili della ThyssenKrupp) una corsa alle scelte giudiziarie che facciano scalpore, suscitino il clamore destinato ad amplificarsi attorno alle sentenze «esemplari » e di forte richiamo emotivo sull’opinione pubblica. Come se fosse impossibile liberarsi da uno schema narrativo che ha tenuto banco per quindici anni, il rimpianto di una gloria passata che oggi si sente ridimensionata, se non addirittura declassata. E che non verrà restituita da nessuna commissione delle Nazioni Unite.

21 novembre 2008

da corriere.it


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vedasi:


20/11/2008 - IL CASO
 
Toghe rosse e caschi blu
 
 
 
 
 
MATTIA FELTRI
 
Se stamattina, transitando a Roma per via del Plebiscito, o nelle immagini di un tg straordinario, vedete Palazzo Grazioli circondato, sappiate che gli assedianti sono Caschi Blu. Il loro obiettivo è il Grande Dittatore, l’Ultimo Genocida, il Macellaio della Brianza: Silvio Berlusconi. Più avanti ricomparirà ammanettato alla sbarra dell’Aja, forse, finalmente, con la barba lunga e grigia e qualche certezza incrinata sulla sua longevità. E se alla lettura di queste poche righe gli occhi vi si sono sbarrati e la bocca spalancata, considerate che si tratta della medesima reazione, ieri sera, di qualche esponente della maggioranza di governo alla lettura dei dispacci di agenzia: l’Associazione nazionale dei magistrati, il sindacato del potere giudicante, per mano del presidente Luca Palamara e del segretario Giuseppe Cascini, ha chiesto l’intervento dell’Onu per avere protezione dai soprusi del presidente del Consiglio.

Non trattandosi di cinematografia, ci sarà preclusa la scena immortale di Palamara e Cascini che stendono la missiva di raccomandazione al rappresentante delle Nazioni Unite, il relatore speciale per i diritti umani, Leandro Despuov, come fosse il Savonarola. «Negli ultimi mesi, in Italia, si sono riproposti in diverse occasioni duri attacchi alle decisioni della magistratura da parte di esponenti politici e dello stesso Primo Ministro.

Ed ancora una volta si discute di proposte dirette a modificare la composizione e le attribuzioni del Consiglio superiore della magistratura, in modo tale da sminuirne il ruolo di garanzia dell’indipendenza della magistratura».

Ora, a parte che i funzionari del Palazzo di Vetro dovranno valutare quali missioni indebolire per reperire le forze necessarie a espugnare Palazzo Chigi, se ritirare i soldati che ingaggiano guerriglia coi ribelli di Laurent Nkunda in Congo, se richiamare quelli deputati a distribuire aiuti nella Striscia di Gaza, se allertare quelli di stanza nei deserti afghani, oppure se mobilitare le forze impegnate nelle sessioni di colloqui fra Russia e Georgia, o nella stabilizzazione dei Balcani, ecco, a parte questi altissimi interrogativi, noialtri italiani ce ne poniamo di più terra terra. E per esempio se sia questo il risultato del rinnovamento generazionale che l’Anm si era data per trovare nuovi rapporti con la politica, guastati da un quindicennio di fuoco. I predecessori, gente come Elena Paciotti ed Edmondo Bruti Liberati - qualsiasi opinione si abbia di loro - combattevano tosti e in prima persona, e mai si sarebbero sognati l’appello alle Nazioni Unite, la qual cosa è talmente drammatica da sconfinare nell’umoristico.

Dovrebbero figurarsi, Palamara e Cascini, la faccia di Despuov quando leggerà l’implorazione, lui che si occupa di diritti, e non di casi umani. E soprattutto domandarsi quali connotati assuma la leggenda della Toga Rossa se stimola l’ironia sulla calata dei Caschi Blu.
 
da lastampa.it


Titolo: Pierluigi BATTISTA Quell'astio verso Enzo Biagi
Inserito da: Admin - Novembre 26, 2008, 04:01:59 pm
MILANO, LA MEDAGLIA NEGATA

Quell'astio verso Enzo Biagi


di Pierluigi Battista


Davvero è inspiegabile l'accanimento con cui la maggioranza di centrodestra di Milano ha negato un'onorificenza a Enzo Biagi caldeggiata dallo stesso sindaco Letizia Moratti. È incomprensibile la persistenza coriacea di un risentimento così intenso da ispirare una crociata (postuma) contro il riconoscimento, attraverso una medaglia da conferire assieme alla consegna degli «Ambrogini», a un giornalista che ha indubitabilmente portato lustro a Milano, rendendosi meritevole di un tributo capace di spezzare la rigidità degli schieramenti ideologici. Come se la diversità di opinioni costituisse ancora l'incentivo di un ostracismo da rendere eterno. Come se non ci si potesse conciliare nemmeno con il ricordo di Enzo Biagi. Come se il rancore politico fosse incapace di decantarsi, e la militarizzazione degli spiriti indicasse un destino immodificabile: una guerra permanente sui simboli del passato. Enzo Biagi è un simbolo della storia del Corriere della Sera: ma non è per questo che se ne scrive qui per commentare l'errore così puerile commesso ai suoi danni. È il simbolo di un comportamento che, anche nello scontro duro, non ha mai voluto ripiegare nel vittimismo deprecatorio, meno che mai nel martirologio autocelebrativo. Anche la scelta della Moratti voleva rendere manifesto il valore simbolico della riconciliazione, del riconoscimento pubblico e solenne offerto a un talento apprezzato anche da chi non condivideva ogni parola scritta e detta da Biagi.

Possiamo immaginare che la Moratti (la quale, è il caso di ricordare, seppe testimoniare la sua vicinanza solidale a Indro Montanelli anche nelle stagioni più difficili e tormentate del suo isolamento) avesse questo in mente: dimostrare che la sua città, Milano, è capace di disintossicarsi, di accogliere in sé anche le ragioni dell'avversario, di non prolungare oltre ogni limite e ragionevolezza un dissidio amaro e astioso verso un giornalista che, al momento della sua scomparsa, ha attirato sulla sua figura il rispetto di tutti, anche di chi polemizzò aspramente con lui. Ma nella vicenda dell' «Ambrogino» rifiutato, la ragionevolezza è stata mortificata. Il puntiglio mai smaltito del centrodestra milanese si è dimostrato così imperdonabilmente acrimonioso da sconfessare persino gli sforzi del sindaco. Una scelta di puro buonsenso si è rivelata impraticabile. Inspiegabilmente, appunto. A Biagi non garbavano i pennacchi e le medaglie, e un'onorificenza in più non ne avrebbe certo ammorbidito il carattere orgoglioso e combattivo. Ma se non si può tornare indietro, e se la memoria di Enzo Biagi non sarà gratificata da un riconoscimento negato, è possibile sperare che i vertici del centrodestra, dal presidente del Consiglio Berlusconi al presidente della Camera Fini, sappiano spiegare ai loro troppo zelanti proconsoli milanesi (di Forza Italia, di An, della Lega) che stavolta sono incappati in un errore su cui, con un minimo di buona volontà, avrebbero potuto non inciampare. Lo potrebbero fare, per spirito liberale se non per antica consuetudine (nel caso di Fini, soprattutto) con le fatiche di chi ha saputo vivere e battagliare su posizioni di minoranza. Occorrerebbe soltanto uno sforzo di umiltà: per Enzo Biagi qualcosa di più di una medaglia al valore.

26 novembre 2008

da corriere.it


Titolo: Pierluigi Battista La «non reazione» della Chiesa, certo.
Inserito da: Admin - Dicembre 17, 2008, 07:45:43 pm
17 dicembre 2008 AREA RASSEGNA STAMPA - Rassegna stampa

Il silenzio di un Paese intero fonte  Pierluigi Battista - Il Corriere della Sera

La «non reazione» della Chiesa, certo.


Ma nel '38 e negli anni successivi non reagì, non parlò, non si oppose nessuno. Il silenzio imbarazzato o accondiscendente nei confronti delle leggi razziali promulgate dal fascismo coinvolse cattolici e laici, conservatori e progressisti. Le eccezioni furono rarissime. Gli ebrei vennero lasciati soli, come il padre di Giorgio nel Giardino dei Finzi-Contini di Giorgio Bassani, iscritto al Fascio di Ferrara, volontario nella Prima guerra mondiale.

Nel '38 il personaggio di Bassani vide improvvisamente la sua famiglia messa ai margini della società, dal partito, dalle biblioteche, dal circolo del tennis, senza che nessuno, ma proprio nessuno spendesse una parola contro la discriminazione. Vittorio Foa, che mai recriminò contro i coetanei che facevano carriera mentre lui languiva nelle prigioni fasciste, verso la fine della sua vita ruppe il suo riserbo («non so bene perché diavolo lo faccio ») e scrisse: «Non uno di quegli illustri antifascisti aveva detto una sola parola contro la cacciata degli ebrei dalle scuole, dalle università, dal lavoro, contro quella che è stata un'immonda violenza».

Dieci anni fa Giulio Andreotti si chiese perché non si fossero avviate indagini critiche «sul comportamento di senatori come Croce, De Nicola, Albertini, Frassati, che disertarono la seduta del 20 dicembre 1938 facendo passare senza opposizione la legislazione antisemita ». Vero. Ma non risultano commenti altrettanto indignati di Andreotti sulle accuse che padre Agostino Gemelli, Presidente della Pontificia Accademia delle Scienze, mosse nel '39 all'indirizzo degli ebrei, «popolo deicida» che «va ramingo per il mondo » a scontare le conseguenze di quell'«orribile delitto ». E a proposito di Croce fa molta impressione leggere, nel libro "L'espulsione degli ebrei dalle accademie italiane" di Annalisa Capristo, l'elenco degli intellettuali che risposero con zelo ed entusiasmo al censimento per identificare «i membri di razza ebraica delle Accademie, degli Istituti e delle Associazioni di scienze, lettere ed arti che cesseranno di far parte di dette istituzioni».

Bastava una compilazione burocratica e svogliata dei moduli, per chi non avesse avuto il coraggio di sottrarsi a quel compito infame. E invece i Giorgio Morandi e i Gianfranco Contini, i Roberto Longhi e i Natalino Sapegno, i Nicola Abbagnano e gli Antonio Banfi, gli Alessandro Passerin d'Entrèves e i Giuseppe Siri (e centinaia con loro, illustri come loro) vollero sfoggiare «l'aggiunta di esplicite dichiarazioni antisemite sotto forma di precisazioni ai vari quesiti tenuti nella scheda».
Da Luigi Einaudi, che sottolineò orgoglioso «l'appartenenza alla religione cattolica ab immemorabile», a Ugo Ojetti, che fu puntuale fino alla pignoleria: «Cattolico romano, dai dieci ai sedici anni ho servito tutte le domeniche».

Solitaria eccezione, appunto, quella di Benedetto Croce, che rispedì al mittente i moduli della vergogna con impareggiabile sarcasmo: «L'unico effetto della richiesta dichiarazione sarebbe di farmi arrossire, costringendo me, che ho per cognome CROCE, all'atto odioso e ridicolo insieme di protestare che non sono ebreo, proprio quando questa gente è perseguitata».
Era già una «persecuzione »: ci voleva poco a capirlo, malgrado i risibili rosari autoassolutori del «non sapemmo » e del «non capimmo».

Mentre Alberto Moravia implorava le autorità fasciste perché gli venisse data la possibilità di continuare a scrivere sulle riviste («sono cattolico fin dalla nascita, mio padre è israelita, ma mia madre è di sangue puro »), Guido Piovene recensiva rapito Contra Judeos di Telesio Interlandi.
Il giovane cattolico Gabriele De Rosa (in un «libercolo » che lo storico decenni dopo avrebbe definito «goffo e scriteriato ») inveiva contro «il focolare ebraico» in Palestina, alimentato dal popolo responsabile della crocifissione di Gesù Cristo. Il giovane Giorgio Bocca discettava sui pericoli del piano ebraico di conquista del mondo rivelata dai (falsi) Protocolli dei savi Anziani di Sion.
Giulio Carlo Argan, colto collaboratore del regime per la difesa dei beni culturali e artistici, in una corrispondenza del 1939 dagli Stati Uniti dissertava sull'influenza del «potentissimo elemento ebraico» in America. Una fornitissima appendice documentaria apparsa nella seconda edizione del «lungo viaggio» di Ruggero Zangrandi «attraverso il fascismo» descrisse nel 1962 l'ampiezza del consenso servile degli intellettuali alla politica antisemita del regime, ricostruito per la prima volta in quegli stessi anni da Renzo De Felice nella Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo.
Rosetta Loy, nel suo libro

La parola ebreo, ha definito la «Difesa della Razza» una «rivista dalla grafica aggressiva e anticonvenzionale che aveva tra i suoi finanziatori la Banca Commerciale ». Sandro Gerbi ha confermato che sul quindicinale fossero comparsi «talvolta avvisi pubblicitari della Comit, del credito Italiano, della Ras, dell'Ina e via dicendo», precisando però che quelle inserzioni erano il frutto di «chiare direttive "superiori" del Minculpop e non di scelte autonome e di dirigenti delle singole aziende». Non furono scelte «autonome». Ma furono o no, anch'esse, l'esito di una tacita «non reazione»?

«Non reagirono» gli scrittori che, come è documentato dall'Elenco di Giorgio Fabre, non si rifiutarono di firmare i manuali e le antologie scolastiche al posto degli autori ebrei il cui nome era ostracizzato e dannato. Non reagirono i docenti universitari che ereditarono le cattedre lasciate vacanti dai colleghi estromessi a causa della legislazione antisemita. Roberto Finzi ha rivelato che per Ernesto Rossi, in carcere, la cacciata dei docenti ebrei avrebbe rappresentato «una manna per tutti i candidati che si affolleranno ora ai concorsi». Rossi non si sbagliava: l'«affollamento » fu macroscopico, corale, macchiato solo da qualche residuale caso di coscienza. Un capitolo controverso di viltà collettiva che faticherà a chiudersi anche nell'Italia democratica.

Alberto Cavaglion ha ricordato che la cattedra di letteratura italiana sottratta ad Attilio Momigliano sotto l'effetto delle leggi razziali «dopo la fine della guerra sarà sdoppiata perché fosse restituita a chi era stato illegittimamente cacciato, ma anche per non scomodare chi al suo posto era tranquillamente subentrato». Chi, in altre parole, non aveva «reagito» nel '38 e negli anni successivi non perderà la cattedra.

E del resto le leggi razziali saranno completamente e radicalmente soppresse solo nel 1947, con una lentezza che forse tradì il turbamento per non aver saputo contrastare, coralmente e individualmente, l'abiezione della legislazione antiebraica.

La vergogna per non aver «reagito»: con poche, ammirevoli, sporadiche eccezioni.

da www.partitodemocratico.it


Titolo: Pierluigi BATTISTA Le cattive tentazioni
Inserito da: Admin - Dicembre 20, 2008, 03:24:20 pm
GOVERNO E DEMOCRATICI

Le cattive tentazioni

di Pierluigi Battista


Ora che il Partito democratico si contorce negli spasmi di una crisi profonda, l'attuale maggioranza di governo farebbe bene a ispirarsi a una regola semplice, ma che richiede la saggezza dell'autocontrollo e il respiro della lungimiranza: in una democrazia sana l'opposizione svolge una funzione vitale e insostituibile. Cedere alla tentazione di umiliarla, solo all'apparenza gratificante, sarebbe controproducente e persino autolesionista. Sarebbe un gesto di plateale incoerenza, per chi ha sempre vituperato l'uso politico delle vicende giudiziarie. Colpirebbe l'essenza di un sistema bipolare, che costringe chi governa a non sbagliare (troppo) per non subire il castigo elettorale. Perché una democrazia, se non si fa in due, è finta, diventa uno scenario vuoto. E muore per asfissia.

Non è dunque per magnanima concessione che il governo e la sua maggioranza possono proporre al Partito democratico una riforma della giustizia non vendicativa, non ultimativa, non imposta con la prepotenza dei numeri e con lo stile dell'intimazione. «Condivisa», come hanno auspicato il capo dello Stato e i presidenti delle due Camere, vuol dire proprio questo: divisa «con», aperta alle proposte di chi ne abbraccia i princìpi ma intende discuterne legittimamente e apertamente tutti, ma proprio tutti i singoli passaggi. Non una ricerca del compromesso al ribasso, ma nemmeno l'obbligo di una prova di forza con cui costringere l'interlocutore ad accettare un prodotto preconfezionato e immodificabile. Sulle norme che regolano le intercettazioni, per esempio, esiste già un testo approvato dal Consiglio dei ministri su cui l'opposizione si mostra tutt'altro che veementemente contraria. Trattandosi di un tema delicato e controverso, perché allora giocare ulteriormente al rialzo e demolire quella base minima di consenso (peraltro, è bene ripetere, già approvata con atto formale dallo stesso governo) da cui può scaturire una riforma «condivisa» delle intercettazioni?

Non bisogna dimenticare che la disponibilità a impegnarsi su una riforma della giustizia espone il Partito democratico su tre fronti. Quello dell'opinione pubblica, che può sospettare un interesse del Pd a mettere mano alla macchina giudiziaria proprio adesso che si sente nel mirino delle inchieste improvvisamente partite da una molteplicità di Procure. Quello dell'ingombrante e dilagante alleato Di Pietro, pronto a bombardare il partito di Veltroni, bollato come corresponsabile di un «inciucio » se non di un «tradimento ». Quello di una parte della magistratura, incline ad offendersi al minimo cenno di ridimensionamento dello strapotere goduto nell'ultimo quindicennio. Sarebbe miope se la maggioranza di governo, anziché favorire la virtù di un'intesa per un obiettivo «condiviso», fosse tentata dall'apertura di un quarto, devastante fronte di conflitto: e solo per intralciare il cammino di un avversario in evidente difficoltà e lucrare sulle convulsioni dell'opposizione. Mercoledì scorso Angelo Panebianco ha invitato il Pd a non lasciare solo Luciano Violante con le sue aperture sulla riforma della giustizia. Ora sarebbe bene che il governo non isolasse quella parte dell'opposizione disposta a seguire il percorso di Violante. Basterebbe non darla vinta alle cattive tentazioni.


20 dicembre 2008

da corriere.it


Titolo: Pierluigi BATTISTA La maledizione doppiopesista
Inserito da: Admin - Dicembre 23, 2008, 01:49:38 pm
IL CASO SORU

La maledizione doppiopesista


di Pierluigi Battista


La maledizione del doppiopesismo, ancora una volta. Quella malattia politica e culturale che spezza ogni unità di giudizio, fomenta l'indignazione a corrente alternata, alimenta il pregiudizio che tra di «noi» si possa regalare per grazia ricevuta un trattamento più indulgente e autogratificante di quello abitualmente riservato all'avversario. È questa sindrome del doppio standard che si manifesta ancora una volta nelle parole di Renato Soru, una delle figure più innovative, moderne e post-ideologiche della famiglia democratica. Parole da cui si evince che anche il conflitto di interessi è sottoposto alla logica del doppio standard: intollerabile se ne sono responsabili gli altri; una trascurabile inezia se ad esserne prigioniero è uno dei «nostri».

Soru si è dimesso da governatore della Sardegna. Ieri ha sciolto la riserva e ha deciso di ricandidarsi per le prossime elezioni regionali sarde confermando che un apposito blind trust rimedierà al conflitto di interessi espressamente indicato da una legge regionale della Sardegna come motivo di incompatibilità tra la proprietà di un'azienda e la carica di presidente della Regione. Ma è qui che nascono i problemi. Perché la sinistra ha da sempre fieramente indicato nel conflitto d'interessi dell'avversario Silvio Berlusconi la più colossale anomalia del sistema italiano, bollando come una risibile panacea la legge che sul tema è stata emanata nella precedente legislatura del centrodestra e considerando anche il blind trust come una misura largamente insufficiente, monca, facilmente aggirabile. E invece, quando Alberto Statera su Repubblica ha chiesto di rispondere a chi «ironizza dicendo che Racugno a Tiscali è come "Fedelu Confalonieri" a Mediaset e suo fratello all'Unità è come "Paolu Berlusconi" al Giornale », Soru ha liquidato sprezzantemente come «sciocchezze» quelle domande sacrosante eppure trattate come spregevoli insinuazioni.

Non sono «sciocchezze », sono il normale sospetto cresciuto nell'atmosfera del conflitto di interessi. Se poi si risponde come Soru, e cioè rivendicando al professor Racugno (intervistato oggi da Alberto Pinna per il Corriere) una «specchiata onestà e moralità», è fatale che si commettano insieme almeno due deprecabili errori. Con il primo si getta gratuitamente un'ombra sulla «specchiata moralità» degli avversari, che invece possono vantare titoli di «moralità» non inferiori a quelli giustamente attribuiti a Racugno. Con il secondo si persevera nella pretesa di una pregiudiziale «superiorità morale» di cui ci si sente investiti come per un diritto acquisito. Ma questo secondo errore continua ad essere una fonte di guai da cui il mondo del Partito democratico farà bene a liberarsi al più presto. È la malattia doppiopesista che oramai viene accolta con sempre maggiore freddezza e incredulità dall'opinione pubblica italiana. È la stessa malattia che traspare dall'insofferenza con cui, dentro e attorno al Partito democratico, ci si lamenta in questi giorni per il legittimo interesse con cui vengono seguite le inchieste che stanno minando numerose giunte di centrosinistra. È la malattia che scambia per «sciocchezze » tutte le domande sulla coerenza di chi si sente per principio sottratto all’esame spietato dell'opinione pubblica. Domande che esigono una risposta, prima che sia troppo tardi.

23 dicembre 2008

da corriere.it


Titolo: Pierluigi BATTISTA Tregua e retorica
Inserito da: Admin - Gennaio 07, 2009, 12:35:38 pm
LA GUERRA A GAZA

Tregua e retorica

di Pierluigi Battista


I numerosi appelli alla «tregua» non possono lasciare indifferente chi sostiene il buon diritto delle operazioni militari condotte da Israele.
Di fronte allo scenario straziante di Gaza, dei civili e dei bambini uccisi, delle case sventrate, degli ospedali sovraffollati e drammaticamente a corto di medicinali, l’invocazione di una tregua parla a chiunque abbia a cuore le ragioni dell’umanità e disvela la natura essenzialmente, irrimediabilmente atroce della guerra, persino di quella più «giusta». Anche i civili massacrati nelle guerre di Bagdad e di Beirut, di Kabul e di Belgrado richiamavano l’urgenza di una «tregua». Per fortuna è passato il tempo in cui (basta compulsare le antologie letterarie per sincerarsene) anche gli intellettuali più sensibili cantavano l’ebbrezza bellica, l’estetica della guerra, la mistica della morte, la poesia del combattimento. La morte e la devastazione provocate dalla guerra, oggi, rendono invece improrogabile l’esigenza di una «tregua».

Sono le autorità morali e religiose che chiedono la tregua. La chiede il presidente francese Sarkozy. Chiede il «cessate il fuoco » Tony Blair sebbene, come ha maliziosamente notato il suo successore Gordon Brown, in diciotto mesi da che è rappresentante del «Quartetto» in Medio Oriente non abbia mai messo piede nella striscia di Gaza. In Italia si spendono Massimo D’Alema per chiedere la «trattativa» con Hamas, Emma Bonino per la «tregua duratura», Lamberto Dini per il «negoziato». Tutti interventi animati da argomenti che non attengono solo alla sfera «morale», ma anche a quella del realismo politico. Non è dettata dal candore delle «anime belle» la preoccupazione (peraltro, non proprio inedita) che tra i giovani palestinesi l’irruzione a Gaza possa acuire un distruttivo furore anti-israeliano. E non è un argomento capzioso quello di chi invita a non sottovalutare il radicamento di Hamas, partito dedito alla lotta armata terroristica che però è sostenuto dalla maggioranza della popolazione di Gaza. Il fronte della «tregua » non è privo di basi politiche, oltreché morali. Ma è la «retorica della tregua» che rischia di renderle fragili e destinate all’inconcludenza.

Tutte le espressioni che modulano con ripetitiva monotonia l’esigenza della tregua, dal «cessate il fuoco» al «tacciano le armi», dai «tavoli della pace» alle «conferenze internazionali per il dialogo » ai «corridoi umanitari », presuppongono una condizione fondamentale che è proprio quella assente nell’inferno di Gaza: la tregua, perché sia tale, si fa sempre in due. E’ ragionevole, è realistico, è possibile che Hamas voglia essere una delle due parti a rispettare una tregua? Non l’ha già violata lanciando razzi Qassam sulle città israeliane per fare espressamente vittime civili? E poi, su quali basi è possibile per Israele trattare con chi non nasconde un’ostilità assoluta e non negoziabile verso la sua stessa esistenza?

Una condizione asimmetrica talmente evidente che anche i più convinti partigiani della «tregua», e persino i commentatori più critici con le scelte di Israele, non possono fare a meno di notare. Rossana Rossanda, sul «manifesto », è durissima con «gli aerei e i blindati di Tsahal», ma non regala ad Hamas, tragicamente ispirata alla logica del «periscano Sansone e tutti i filistei», l’attenuante del «giustificato risentimento». Chi, a cominciare da Sarkozy, insiste sulla «sproporzione» della reazione israeliana non nega la legittimità di una reazione a un evidente torto di Hamas. Dovrebbe piuttosto indicare con passabile approssimazione quale sarebbe la reazione «proporzionata». Dovrebbe definire quale sanzione sarebbe considerata legittima per chi violasse in futuro una tregua già compromessa con il lancio dei razzi su Ashkelon e Sderot. Dovrebbe spiegare come colmare la latitanza degli organismi internazionali e come ovviare alla tragica mancanza di credibilità dell’Onu che, come ha scritto Angelo Panebianco sul «Corriere», parla senza pudore, attraverso il Richard Falk che rappresenta il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, di «aggressione israeliana». Dovrebbe spiegare se la condanna morale di chi uccide i civili palestinesi è applicabile con la stessa severità ad Hamas, che in uno dei suoi lanci di razzi sulle città israeliane ha colpito per sbaglio proprio due bambini di Gaza. Dovrebbe descrivere con parole moralmente adeguate chi fa delle sue donne e dei suoi bambini altrettanti scudi umani dietro cui mimetizzare bunker e depositi di armi. Dovrebbe indicare in cosa consista esattamente l’alternativa alla guerra e all’intervento militare. Per rendere la parola «tregua» credibile e convincente e salvare Israele come i civili palestinesi.

07 gennaio 2009
da corriere.it


Titolo: Pierluigi Battista Baruffe nostrane
Inserito da: Admin - Gennaio 14, 2009, 05:27:56 pm
Baruffe nostrane

di Pierluigi Battista


Ma è possibile svilire una crisi internazionale nelle beghe della provincia italiana? È possibile rimpicciolire la tragedia umanitaria di Gaza alle baruffe politiche italiane, alle rese dei conti nel cortile di casa, alle rivalità che fioriscono all’ombra delle nostre redazioni e negli angoli dei palazzi romani? Se questo accade, come accade, è un vero peccato.

Peccato perché è difficile trovare la strada giusta in un conflitto dove le ragioni e i torti non sono purtroppo concetti astratti e disincarnati. In una guerra che travolge fatalmente ogni confine tra la dimensione militare e l’esistenza di centinaia di migliaia di civili, tra l’incubo dei razzi Qassam che Hamas lancia sulle città di Israele e il terrore che attanaglia la gente di Gaza in balia dei soldati israeliani. Ci si accosta a quella guerra con timore e senza iattanza. Lo sappiamo al «Corriere», dove la comprensione per le ragioni di Israele non ha messo a tacere le voci critiche nei confronti del governo israeliano, da Amos Oz a Saeb Erekat, uno dei principali negoziatori palestinesi, allo scrittore franco-algerino Yasmina Khadra.

È sorprendente, perciò, che per spirito di baruffa polemica, il «manifesto» faccia nomi e cognomi di una pattuglia di editorialisti «pasdaran », deprecati come soldati della penna «allineati e coperti » sulla linea degli «aggressori » israeliani. Una legittima critica politica, beninteso, che tuttavia, visto il contesto, dovrebbe pur porre ai colleghi del «manifesto » il problema di interpretazioni, per così dire, molto più «radicali» e sbrigative. Come è sintomo di un’incoercibile inclinazione alla rissa la reiterata attitudine del Massimo D’Alema di questi giorni ad accompagnare le sue pur interessanti analisi con battute rancorose sulla «rozzezza propagandistica di certi editorialisti nostrani » e sulla «tv italiana che è di fatto un bollettino israeliano ».

Giudizi sommari, pronunciati con una verve bellicosa in singolare contrasto con la compostezza che, su diversi fronti, stanno conservando il ministro Frattini e tutti, ma proprio tutti gli altri esponenti di spicco del Partito democratico. Parole, queste sì, dall’inconfondibile sapore «nostrano»: mentre il mondo discute del pericolo iraniano o della posizione del presidente eletto Obama, noi invece veniamo investiti da una piccola polemica casalinga, come se il dramma mediorientale si confacesse ai toni adoperati nelle guerricciole che dilaniano il Pd campano.

Rifiutando la rissa, e riflettendo sul D’Alema che equipara l’intervento in Israele a Gaza a una sproporzionata «spedizione punitiva», sarà invece il caso di fare attenzione ai conteggi (s)garbati di Andrea Marcenaro che sul «Foglio», commentando le osservazioni dalemiane secondo cui «non si può definire guerra un conflitto in cui muoiono 900 persone da una parte e 10 dall’altra», ricorda gli oltre 500 civili periti nelle scuole, negli ospedali, nelle ambasciate, negli autobus, nelle redazioni tv, nei treni, nelle carceri durante i «78 giorni di bombardamenti Nato» sulla Serbia e sul Kosovo nella guerra del ’99 notoriamente condivisa dallo stesso D’Alema: 500 vittime contro zero. Per meditare sugli orrori e gli squilibri di ogni guerra, anche di quella più «giusta», e per non disperdersi, attratti dalle ossessioni del cortile, in piccole diatribe «nostrane». Meno cruente, per fortuna.

14 gennaio 2009
da corriere.it


Titolo: Pierluigi BATTISTA IL CASO WILDERS La tolleranza sospesa
Inserito da: Admin - Febbraio 12, 2009, 03:35:27 pm
IL CASO WILDERS

La tolleranza sospesa

di Pierluigi Battista


Il deputato olandese Geert Wilders non è un personaggio da ammirare. Il suo film «Fitna» offende il Corano e ferisce i musulmani. Ma se la libertà di esprimersi, girare film, viaggiare fosse riservata solo alle persone ammirevoli vivremmo in un mondo da incubo. Le autorità britanniche, come racconta oggi sul nostro giornale Luigi Offeddu, non vogliono che l’olandese Wilders metta piede in Gran Bretagna perché le «sue dichiarazioni contro i musulmani minacciano l’armonia della comunità e dunque la sicurezza pubblica nel Regno Unito». Per evitare le manifestazioni di protesta degli islamici si comprime il diritto di circolare liberamente nell’Europa tollerante, inclusiva, rispettosa di ogni «diversità ». Il diritto di diffondere le proprie idee, anche se detestabili. La paura cancella diritti di cui dovremmo andare orgogliosi: ma la circostanza passa inosservata, complice l’impresentabilità intellettuale di chi ne viene privato. Il «caso Wilders» potrebbe trasferirsi dalla Gran Bretagna all’Italia, perché è previsto (ma ancora non è sicuro) che il deputato olandese verrà nel nostro Paese per ritirare un premio, tra l’altro con l’accoglienza di alcuni parlamentari.

E’ difficile non essere d’accordo con Ian Buruma, l’intellettuale olandese che considera Wilders «non certo un artista, neppure un buon politico, solo un provocatore che cerca lo scontro e deliberatamente vuole aizzare le frange islamiche più estremiste». Ma sulla questione del «buon artista» dobbiamo necessariamente fidarci di Buruma, perché nessuno può vedere un film di cui è stata interdetta la trasmissione pubblica. Del resto, sono ormai clandestine anche le opere dei vignettisti danesi che anni fa con i loro disegni anti-Islam suscitarono cruente proteste nelle principali capitali musulmane, esposero la Danimarca alla ritorsione delle «frange islamiche più estremiste», consegnarono i loro autori e i responsabili dei giornali che ne consentirono la pubblicazione ai rigori di una vita blindata, superprotetta e taciturna. Nessuno ha potuto vedere «Submission », il film sull’Islam del regista Theo Van Gogh assassinato in Olanda secondo il rituale riservato ai nemici della religione.

Nessuno immagina il tipo di vita di Robert Redeker, l’insegnante francese che, dopo aver scritto su Le Monde un articolo molto veemente contro il fondamentalismo islamista, ha perso il suo lavoro e vive rintanato nella clandestinità. A vent’anni esatti dalla fatwa scagliata contro Salman Rushdie, e quando ancora la «rinnegata» Ayaan Hirsi Ali patisce in Olanda la sua vita braccata e sotto perenne scorta, la fine della sindrome dell’ 11 settembre, la percezione di uno sbiadirsi dello scenario di guerra che quell’evento epocale aveva prodotto, ha lasciato un manipolo di fantasmi in balia della furia vendicatrice delle «frange estremiste ». Anche Wilders è forse un estremista del fanatismo anti-islamico, ma l’ostracismo europeo, britannico (e italiano?) decretato nei suoi confronti è la sconfitta di uno «stile di vita» liberale e tollerante che è esattamente il bersaglio dell’odio di matrice totalitaria e integralista. Il ricordo dell’11 settembre non è più così cocente, per fortuna. Ma la dimenticanza comporta dei prezzi. L’autocensura compresa.

12 febbraio 2009
da corriere.it


Titolo: Pierluigi Battista Il ricatto della «deriva»
Inserito da: Admin - Febbraio 28, 2009, 10:39:54 am
RONDE E TESTAMENTO BIOLOGICO


Il ricatto della «deriva»


di Pierluigi Battista


A New York e a San Francisco, a Chicago e Filadelfia— racconta la «Stampa»—non un incidente, un’aggressione, un atto di violenza, una prepotenza ha deturpato la missione dei «Guardian Angels», i volontari armati solo di telefoni cellulari e berretti rossi che aiutano la polizia nella protezione dei quartieri più disagiati delle metropoli americane. Può darsi che negli Stati Uniti siano più fortunati. Oppure che le cose possano funzionare senza necessariamente precipitare nella loro versione degenerata.

E’ possibile che queste forme di volontariato civico non si perdano nella cupa «deriva» squadristica preconizzata in Italia. Può darsi cioè che almeno una volta sia stato possibile superare il terrore della «deriva», l’angoscia, la premonizione della «deriva»: quella sindrome del peggio (la deriva) che paralizza ogni iniziativa per paura che la normalità si trasformi obbligatoriamente nella sua patologia. La sindrome della «deriva » appare come il nuovo stato d’animo che attanaglia l’Italia impaurita e frastornata nei nostri giorni. «Deriva», caricato di un significato totalmente diverso da quello che campeggia sul titolo di un libro avvincente e amaro di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, è diventato un termine chiave del lessico politico italiano. Si parla di deriva autoritaria e di deriva plebiscitaria, di deriva xenofoba e di deriva estremista. La deriva dilaga, si insinua negli interstizi del discorso pubblico, si impone come figura dell’allarme e dello sgomento verso l’incognito e l’inedito.

Nella discussione sulle «ronde» o in quella sul testamento biologico, la sindrome della deriva autorizza a non fare niente invece di fare qualcosa di ragionevole, di utile e di giusto. Se non si imponesse la paura della deriva, l’idea che dei cittadini di un quartiere o di un rione, avendo a cuore le sorti della comunità, si adoperino per la protezione e la sicurezza di tutti, non dovrebbe essere per forza una cattiva idea. Diventa una pessima idea se prevale l’immagine di squadracce di facinorosi armati che si abbandonano ad atti di linciaggio e di rappresaglia, di giustizieri della notte che si danno a un’immonda caccia allo straniero. Ma se la legge impone tassativamente il disarmo dei cittadini impegnati, la loro rigorosa selezione, il loro controllo da parte delle forze dell’ordine, perché non pensare che le cose possano andare per il verso giusto come con i «Guardian Angels» negli Stati Uniti? Sempre la paura, l’ansia paralizzante della «deriva ». Che si riaffaccia in modi imperiosi anche nella controversia sul «testamento biologico».

Appare del tutto evidente la sproporzione tra una dichiarazione della propria volontà in merito alle cure e alle terapie cui essere sottoposti quando la vita se ne va e l’incubo di una «deriva eutanasica» sbandierato da una parte consistente del mondo cattolico. Basterebbe elencare i Paesi europei che, come la Francia e la Germania, la Spagna e il Belgio, dispongono di una legge sul testamento biologico senza essere scivolati (come l’Olanda) sul piano inclinato dell’eutanasia e del suicidio assistito. Perché noi e soltanto noi dovremmo essere condannati alla «deriva eutanasica»? Forse sarebbe meglio, come ha autorevolmente argomentato Angelo Panebianco su queste pagine, che lo Stato frenasse la sua smania intrusiva e non invadesse quella fragile «zona grigia» dove la democrazia non dovrebbe decidere a maggioranza sulle questioni ultime della vita e della morte. Ma se si decide di fare una legge, ci si dovrebbe attenere agli effetti che quella legge prescrive o espressamente proibisce, non alle eventuali, impalpabili, inverificabili «derive» interpretative che quella legge si immagina debba comportare.

E se una legge consente a un cittadino, con procedure certe e sicure, di formulare anticipatamente la propria volontà di non subire l’accanimento di cure dolorose e vane che avrebbero come unico effetto di deturpare persino la dignità della morte (oltreché della vita), cosa autorizza a equiparare questo diritto all’immagine fosca e apocalittica di un’orgia eutanasica? Che atroce idea si ha della «deriva» morale di medici e familiari che altro non attenderebbero se non il via libera per la soppressione anticipata di pazienti e congiunti? La «sindrome della deriva» altera i toni emotivi del dibattito pubblico, descrive esiti tragici per non contemplare nemmeno la possibilità di esiti più «normali», capaci di dare una risposta ragionevolmente efficace a problemi largamente sentiti in una comunità. La «sindrome della deriva» è l’antitesi di un approccio gradualista e riformista alle esigenze che si muovono nel corpo sociale. Ricorda Fabrizio Rondolino sulla «Stampa» che «contro la violenza sessuale, negli anni Settanta gruppi di femministe organizzavano pattugliamenti notturni delle strade, con l’intento di "riprendersi la notte" rendendola, semplicemente, un po’ meno buia e deserta».

E’ davvero pensabile che ciò che di positivo, civicamente ineccepibile, è racchiuso nella voglia di vincere la paura e impegnarsi con gli altri per rendere pacificamente più sicure le città, venga inghiottito nello spettro di una deriva squadristica e addirittura xenofoba? Ed è davvero immaginabile che uomini e donne normali, sinceramente preoccupati per la potenza schiacciante della tecnoscienza e per l’eventualità di trascorrere periodi interminabili della propria vita al tramonto in una condizione di dipendenza assoluta da macchine sempre più sofisticate, possano dare il loro benestare a una pratica selvaggia dell’eutanasia? La «deriva» è un fantasma catastrofista di cui liberarsi. Trasforma il legittimo allarme, che le leggi hanno il compito di prevedere e di neutralizzare, in un allarme globale e incontrollabile: premessa sicura per giustificare, come sempre, l’impotenza e l’immobilismo.

28 febbraio 2009
da corriere.it


Titolo: Pierluigi BATTISTA Una questione di principio
Inserito da: Admin - Marzo 08, 2009, 09:26:18 am
Una questione di principio


di Pierluigi Battista


Dunque l’Italia non parteciperà alla «Durban due», la conferenza «sul razzismo» patrocinata dall’Onu destinata, stando alle bozze preparatorie del meeting, a replicare la lugubre kermesse antisemita inscenata a Durban, Sudafrica, alla vigilia dell’ 11 settembre 2001. Il governo italiano, affiancandosi agli Stati Uniti di Obama e al Canada, non assisterà al paradossale spettacolo del linciaggio che, purtroppo sotto l’egida delle Nazioni Unite, un pugno di Paesi all’avanguardia nella cancellazione dei diritti umani fondamentali allestirà contro Israele. Il canovaccio era già pronto, pressoché identico a quello di otto anni fa. Forse nessuno inalbererà cartelli con il ritratto di Bin Laden, come pure accadde nella bolgia «antisionista » di Durban pochi giorni prima dell’attacco alle Torri Gemelle. Ma come escludere che risuoneranno dalla tribuna di Ginevra le trombe del nuovo credo negazionista amplificate, nella cornice stravolta di un incontro convocato all’insegna dell’antirazzismo, dall’Iran di Ahmadinejad? La decisione comunicata dal ministro Frattini impedisce che l’Italia contribuisca ad azzerare il ricordo del trauma patito a Durban. Si capì subito allora che il «razzismo» da combattere era soltanto il «sionismo». La legittimità dello Stato di Israele era negata in linea di principio, con una veemenza bellicosa che spiazzò persino i responsabili delle Nazioni Unite. Dal palco degli oratori, nel silenzio sbigottito e impotente di Amnesty International e Human Rights Watch, si irrideva agli ebrei che «usavano» l’Olocausto per giustificare il «razzismo contro i palestinesi». Dittatori feroci come Mugabe indossarono le vesti di paladini dell’umanità calpestata dall’idra israeliana. Che l’allora Segretario Generale dell’Onu Kofi Annan avesse solo eccepito molto blandamente sull’ondata antisemita che stava sommergendo una conferenza che avrebbe dovuto impostare la battaglia internazionale contro il razzismo, fu solo il coronamento di una colossale mistificazione. Accettare senza reagire la prevedibile replica di Ginevra sarebbe stato un grave errore.

E’ merito del governo italiano non averlo commesso. Perché si possa dire «dell’Italia» e non solo del «governo italiano », occorre che l’opposizione dica, tra l’altro nella scia di un governo americano «amico» come quello di Obama, che su una questione irrinunciabile di principio come la lotta all’antisemitismo comunque camuffato non c’è ostacolo di schieramento e di collocazione politica. Un obiettivo, la lotta all’antisemitismo, ovviamente condiviso anche dal predecessore di Frattini agli Esteri, Massimo D’Alema, che sempre, anche quando ha criticato con vigore l’azione israeliana a Gaza, anche quando ha rivendicato una linea di condotta che tenesse conto della forza e del radicamento di Hamas ed Hezbollah, ha tenuto a erigere una frontiera civile e valoriale contro il dilagare della furia antisemita (antisionista) che nega il diritto all’esistenza stessa dello Stato di Israele.

Questa frontiera è stata oltrepassata a Durban e nessun lavoro diplomatico di lima per il testo della Risoluzione finale avrebbe potuto disinnescare il pericolo che a Ginevra la stessa frontiera venisse nuovamente violata. Forse non solo una «buffonata», come Pascal Bruckner ha definito la Conferenza di cui ha promosso il boicottaggio, ma soprattutto un’inquisizione mondiale che con le bandiere dell’Onu metterà sul banco degli imputati il vituperato «sionismo». Un’inquisizione da cui l’opposizione non può che dissociarsi.

06 marzo 2009
da corriere.it


Titolo: Pierluigi BATTISTA Il principio che vince
Inserito da: Admin - Marzo 18, 2009, 06:32:23 pm
Il principio che vince


di Pierluigi Battista


Ventisette Paesi dell'Unione Europea hanno deciso che a Ginevra non potrà esserci una replica del festival antisemita inscenato a Durban nel 2001. Hanno stabilito che senza sostanziali modifiche al testo preparatorio della conferenza Onu contro il razzismo, attualmente zeppo di giudizi e pregiudizi ostili a Israele, la maggioranza dell'Europa politica diserterà i lavori della cosiddetta «Durban 2». Hanno segnato una linea che non può essere valicata: l'accettazione passiva e acquiescente di una tribuna internazionale che, sotto le insegne delle Nazioni Unite, si faccia megafono di una campagna ossessivamente «antisionista ».


Gli Usa e il Canada avevano già deciso di boicottare la conferenza di Ginevra. Il governo italiano si è associato alla linea del rifiuto di collaborare con un'iniziativa che, così come era impostata, non avrebbe potuto impedire il ripetersi dei misfatti di Durban. Oggi l'Europa, malgrado le critiche francesi alla scelta italiana considerata troppo «unilaterale », si attesta su una posizione che sottolinea l'impossibilità di assecondare un appuntamento internazionale destinato a stravolgere l'obiettivo stesso, la lotta al razzismo, a favore del quale era stato convocato. Testimonianza ulteriore che il principio della mediazione, utile e da perseguire con la giusta tenacia, non può oscurare le basi culturali dell'identità europea, dove l'antisemitismo e la violazione della libertà di espressione non possono trovare casa.


È la fine di un sortilegio, che ha sinora sacrificato ogni perplessità sull'altare dell'unità dell'Onu. Non è la conclusione di una battaglia, perché non è affatto detto che i testi preparatori della conferenza di Ginevra saranno cambiati in profondità secondo le indicazioni delle nazioni europee. Ma è la traccia di un cambiamento nell'atteggiamento e nella mentalità nelle democrazie che, come a Durban nel 2001, hanno permesso, nel silenzio omertoso delle organizzazioni internazionali, la grottesca equiparazione del razzismo e del sionismo, indicando in Israele l'unica fonte di discriminazione conosciuta in tutto il mondo. Per evitare il ripetersi di una farsa tanto oltraggiosa, va dato atto al governo italiano (con il consenso, nell'opposizione, dei radicali) di non aver esitato a seguire l'esempio americano, frustrando sul nascere ogni tentazione rinunciataria sul fronte europeo.
Il tono tassativo della dichiarazione dei Ventisette sta a dimostrare che l'Europa ha considerato non negoziabile ogni riferimento testuale che suonasse, se non come approvazione, come rassegnata accettazione di una visione rovesciata delle cose del mondo. L'Italia, in questo caso, non si è avventurata in un'imprudente fuga in avanti. Ha invece convinto anche i Paesi europei più riottosi ad attestarsi su una linea ultimativa, assegnando all'Europa un ruolo insperato di promozione dei diritti umani. Per l'Europa ora corre l'obbligo di tener duro e di non contraddire i proclami con comportamenti più disponibili a un inconcludente negoziato. Separando il proprio destino, nel caso, dai fanatici architetti di un'altra Durban.


17 marzo 2009
da corriere.it


Titolo: Pierluigi BATTISTA Lo sfregio dei diritti
Inserito da: Admin - Aprile 02, 2009, 03:44:35 pm
L’OCCIDENTE E KABUL

Lo sfregio dei diritti


di Pierluigi Battista


Se il presidente afghano approva la reintroduzione legale del diritto di stupro domestico presso le comunità sciite, è un rinfocolamento di uno sconsiderato «scontro di civiltà» chiedere ai governi democratici di non restarsene silenziosi e acquiescenti? Se, con la scusa delle prescrizioni coraniche, le donne dell’Afghanistan sono maltrattate dalla legge locale come esseri inferiori, gli amici occidentali del presidente Karzai (Italia compresa) avrebbero o no il dovere di subordinare il loro aiuto alla certezza che a Kabul e dintorni non si restauri una cupa tirannia di tipo talebano?

E le donne liberate dell’Occidente si acconciano davvero così facilmente al ripristino di una norma che obbliga le mogli oppresse dell’Afghanistan a «non rifiutarsi di avere rapporti sessuali » imposti contro la volontà della donna dalla prepotenza del marito-despota? Interrogativi retorici, anzi pateticamente retorici, perché la risposta appare ovvia e scontata: nessuno chiederà conto al presidente Karzai del precipizio oscurantista in cui sta nuovamente sprofondando l’Afghanistan «liberato » nel 2001 e tenuto in piedi solo grazie al (peraltro doveroso) sostegno militare occidentale. Nessuno ha chiesto conto delle condanne a morte comminate per «apostasia».

O per il codice di famiglia tutto particolare in vigore presso la comunità sciita che prevede l’arresto e pene severissime per una moglie (anche minorenne) in fuga da un matrimonio forzato. O per Perwiz Kambakhsh, condannato a vent’anni di galera per «blasfemia», che poi erano solo articoli a favore dei diritti delle donne. O per il carcere (fino alla pena di morte) per gli omosessuali. O per l’infinità di proibizioni di ogni genere d’opinione giudicata «oscena». Non è stato detto nulla e non si dirà nulla perché ogni parola di critica e di protesta sarebbe apparsa come un attentato al «dialogo», o addirittura come la manifestazione proterva di un colonialismo culturale inaccettabile.

Del resto Tariq Ramadan, un intellettuale che incomprensibilmente gode fama di «ponte» culturale tra il mondo occidentale e l’islamismo, ha scritto sul «Riformista» che la pretesa di far «accettare » ai musulmani l’omosessualità «rivela un nuovo dogmatismo», oscuramente alimentato da non meglio precisate «lobby» e addirittura non privo «di un qualche sentore coloniale antico persino xenofobo». Fossero state pronunciate (anche in una formulazione più tenue) da qualche esponente del mondo cristiano, ci sarebbe stata una sollevazione energica contro un esempio arrogante di omofobia clericale.

Ma le ha argomentate un leader intellettuale del fondamentalismo islamico, e dunque la prudenza del silenzio prevarrà anche in questo caso, come per gli stupri legalizzati in Afghanistan. Ci si domanda solo — ed è il caso di domandarlo anche al ministro Frattini di cui pure si conosce la sensibilità nei confronti dei temi attinenti alla libertà dei singoli e delle nazioni — fin dove arriva la soglia di accettazione per questo spaventoso arretramento nella difesa dei diritti umani fondamentali. Fin dove il realismo politico può ignorare l’abisso di oppressione in cui cadono anche regimi considerati «amici».

02 aprile 2009


da corriere.it


Titolo: Pier Luigi BATTISTA. La lezione abruzzese
Inserito da: Admin - Aprile 09, 2009, 11:16:25 am
La lezione abruzzese


di Pier Luigi Battista


C’è una lezione abruzzese da segnalare: l’Italia politica sta faticosamente imparando a distinguere i compiti fondamentali in cui unirsi dai temi, non meno importanti, in cui è democraticamente vitale dividersi. La maggioranza e l’opposizione stanno recitando un ruolo inedito. Hanno capito, tra le macerie e le innumerevoli vittime dell’Abruzzo, che sulle emergenze nazionali non deve avere spazio l’isteria di uno scontro primitivo.

Il governo si muove con sollecitudine, ma non chiude le porte al sostegno dell’opposizione. Il Pd non usa propagandisticamente il disastro e partecipa fattivamente ai soccorsi. Nelle stesse ore, su un tema diverso come la sicurezza e la proposta delle ronde di volontari, maggioranza e opposizione si combattono invece a viso aperto. La tragedia rinsalda l’unità nazionale. Ma la politica non va in letargo, rivendica quanto c’è di sano nel conflitto democratico. Le polemiche non mancheranno, ma a tempo debito. Ci si deve interrogare sulla sconcertante fragilità di un ospedale ridotto in frantumi dalla potenza del terremoto.

Bisognerà capire se le leggi che impongono la costruzione di edifici anti-sismici sono state osservate nel corso degli anni. Ci saranno idee, ipotesi di ricostruzione, tempi da rispettare su cui è giusto che l’opposizione vigili, critichi, stimoli chi ha responsabilità di governo. Ma è un bene che lo Stato faccia fisicamente sentire la sua presenza, e che le opere di soccorso siano accompagnate dall’impegno diretto, efficace e non formale del governo. Ed è un bene che, se l’opposizione giudica positivamente l’atteggiamento di chi governa, non debba essere costretta a nasconderlo in omaggio alla retorica dello scontro totale e del non riconoscimento della reciproca legittimità.

Tutto questo sarebbe normale nelle democrazie più solide: nessuno trovò disdicevole che l’America si fosse unita sotto la stessa bandiera, attorno al governo e ai pompieri di New York nei giorni successivi all’11 settembre. In Italia, invece, questo spettacolo di unità e di coesione nel momento della tragedia nazionale è sorprendente perché inconsueto. Una coesione che però non ha paralizzato il Parlamento, non ha svuotato l’opposizione al punto da indurla a rinunciare alla sua legittima battaglia sui temi della sicurezza dei cittadini.

Uniti sulla tragedia abruzzese. Divisi, vivacemente polemici, conflittuali e senza ricatti unanimistici sulle materie su cui non può essere invocata l’unanimità. Una novità che ovviamente non consola e non risarcisce chi ha perso tutto nel terremoto. Ma restituisce una dignità allo Stato che interviene a tutela dei suoi cittadini. Una prova di serietà e di affidabilità, almeno per una volta.

08 aprile 2009(modificato il: 09 aprile 2009)
da corriere.it


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Boicottaggio solito vizio
Inserito da: Admin - Aprile 19, 2009, 04:32:21 pm
EGITTO, ISRAELE, LA FIERA DEL LIBRO


Boicottaggio solito vizio


di Pierluigi Battista


Ancora con la fissazione del boicottaggio dei libri, delle idee censurate, degli scrittori ridotti al silenzio, dell’assedio che stringe una Fiera, come quella torinese, dove si dovrebbe discutere liberamente, e non aver paura di chi ha una sola ossessione: il sabotaggio culturale, il bavaglio universale. Si replica lo spettacolo dell’anno scorso, quando la presenza degli scrittori israeliani alla Fiera del libro di Torino venne scomunicata come una provocazione. Ora è la volta dell’Egitto, bersagliato dagli annunci di un nuovo boicottaggio.

La simmetria è solo apparente. I boicottatori accusano l’Egitto di essere troppo «moderato», di non attenersi ai precetti dell’islamismo fondamentalista, di essere troppo cedevole con Israele, il Nemico assoluto. Ma hanno un conto in sospeso con gli organizzatori della Fiera, che pensavano di compensare la presenza israeliana dell’edizione scorsa con la celebrazione di un Paese arabo. Egitto o Israele, i nemici dei libri conoscono però un solo linguaggio: quello della protesta contro l’esposizione dei libri e delle idee. Una fissazione, appunto. Da contrastare con lo stesso appello di un anno fa: boicottare i boicottatori, partecipare in massa alla Fiera del libro, partecipare alle discussioni, mettere a confronto le idee diverse.

Comportarsi nello stesso modo. Anche se l’Egitto non può vantare la stessa libertà intellettuale che rinfresca ogni giorno la vita politica e culturale di Israele. Anche se i dissidenti egiziani sono rinchiusi in prigione, mentre le librerie di Tel Aviv e Gerusalemme sono piene di volumi scritti da intellettuali in dissenso dalla linea del governo. Anche se la libertà di espressione, di opinione, di stampa in Egitto non è lontanamente paragonabile a quella che fa di Israele un crogiuolo elettrizzante di tesi contrapposte che si scontrano su tutto, persino su ciò che la comunità israeliana custodisce di più sacro e fondamentale.

L’equiparazione tra una democrazia e uno Stato autoritario può venire in mente solo a chi, nei proclami che annunciano il boicottaggio della Fiera, definisce Israele uno «Stato canaglia». Peccato che un anno fa, nel comprensibile tentativo di far svolgere la manifestazione torinese dedicata a Israele e di ammansire i boicottatori confortati da un Gianni Vattimo in vena di negazionismo sui Protocolli dei Savi Anziani di Sion, gli organizzatori abbiano architettato la rappresentazione della par condicio, con l’Egitto chiamato a bilanciare Israele. È stato un errore, un eccesso di diplomazia. Ma la difesa della Fiera del libro minacciata per la seconda volta in due anni di boicottaggio (e sempre con Vattimo in prima fila) deve essere la stessa.

Con l’aggiunta di un pensiero per gli scrittori dissidenti che al Cairo non godono della libertà d’espressione conosciuta da noi. E con l’impegno di discutere le tesi di Tariq Ramadan, che l’anno scorso, in odio a Israele, partecipò al boicottaggio e che quest’anno avrà una tribuna torinese tutta per lui. Almeno per non cedere su un punto: che contro l’ossessione del boicottaggio, contro l’idea che i libri devono essere nascosti e gli scrittori imbavagliati, sia almeno salvaguardato il meglio di una società aperta, che non ha paura dei libri, che non azzittisce con i fischi chi parla e chi espone una tesi, anche la più discutibile. Il boicottaggio dei boicottatori di professione è l’arma che resta a chi non sopporta ogni genere di censura.

16 aprile 2009

da corriere.it


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Storie condivise e scomode realtà
Inserito da: Admin - Aprile 26, 2009, 05:13:03 pm
QUEI DIRITTI NEGATI NEL MONDO

Storie condivise e scomode realtà


di Pierluigi Battista


E’ una ferita antica che si chiude. L’Italia trova finalmente le parole della riconciliazione nazionale celebrando insieme la «festa di libertà». Ma la libertà reale è un bene ancora troppo raro nel mondo che oggi, nel cuore del 2009, pullula di tiranni, di dittature, di Stati di polizia, di diritti fondamentali negati e calpestati. Il premier Berlusconi, raccogliendo l’appello del leader del Pd Franceschini, ha offerto all’opposizione, nel ricordo del 25 aprile, una piattaforma di valori comuni che non consentono più il lessico primitivo della delegittimazione reciproca. Ma già oggi, all’indomani della festa della liberazione e della libertà, il leader bielorusso Alexandr Lukashenko attraverserà le strade di Roma in una visita ufficiale che segnerà il debutto dell’«ultimo dittatore europeo» nel consesso dell’Ue. Dopo aver festeggiato la libertà, il governo italiano dovrà stringere la mano a chi ne straccia quotidianamente la bandiera.

E’ una contraddizione che lacera l’intera comunità delle democrazie, un contrasto drammatico tra valori e ragion di Stato, tra princìpi e realismo politico, tra libertà e opportunità economiche. La Bielorussia di Alexandr Lukashenko manda in prigione i dissidenti e imbavaglia i giornali non allineati. Ma il tema delle libertà negate non spicca tra le priorità dell’agenda scritta dalle diplomazie del mondo occidentale, non solo dell’Italia. A Pechino Hillary Clinton si è quasi scusata per la pur blanda attenzione concessa dai governi occidentali alla condizione dei diritti umani in Cina. Ci si allarma più per il programma nucleare dell’Iran che per le innumerevoli impiccagioni inscenate sulla pubblica piazza di Teheran. Più per i missili lanciati dalla Corea del Nord che per il dispotismo assoluto patito dai sudditi della satrapia stalinista di Pyongyang. L’identità degli assassini di Anna Politkovskaya non è mai all’ordine del giorno nei colloqui con Putin. Né nei proficui scambi con la Libia di Gheddafi affiora mai la curiosità sui diritti civili non garantiti a Tripoli.

Non è pensabile certo l’eroismo velleitario e impotente di una rottura solitaria con le nazioni che non conoscono né possono presumibilmente gustare nei prossimi anni il profumo di una festa di libertà. Ma occorre sapere che la libertà è un privilegio di cui, nel pianeta, godono davvero in pochi. In Italia arriviamo dopo tanti (troppi) anni a riconoscere insieme la storia, culminata nel 25 aprile, che ci ha portati alla riconquista della libertà. Ce ne congratuliamo. Ma sarebbe terribile se un modernissimo «patto dell’oblio » ci impedisse di vedere che sul tema della libertà nel mondo le democrazie sono divise. Che l’Europa non sa parlare un linguaggio comune. Che in Pakistan le donne sono oppresse come non mai dal fanatismo fondamentalista. Che nessuno ricorda più i monaci in arancione capaci di sfidare la repressione della giunta birmana. E se non si può chiedere all’Italia di chiudere le porte al dittatore bielorusso in visita di Stato, è lecito però chiedere ai governi, a tutti i governi, di includere in qualche pagina della loro agenda la parola «libertà». Per festeggiarla con più serenità e più coerenza. Per il suo presente e futuro. Non solo per il suo posto nel museo del passato.

26 aprile 2009
da corriere.it



Titolo: Pier Luigi BATTISTA Il limite che non c'è
Inserito da: Admin - Maggio 05, 2009, 11:14:48 am
Il limite che non c'è


di Pierluigi Battista


L’Italia non sta sprofondando verso il Turkmenistan, e il modello del governo Berlusconi non è l’autocrazia uzbeka. Se Dario Franceschini lo dice nell’intervista rilasciata al Corriere è per galvanizzare un elettorato esausto, ma abituato a ricompattarsi di fronte al Nemico. Oppure per colmare con una retorica pugnace il senso di vuoto che ha sin qui mortificato un’opposizione debole fino all’evanescenza. O per arginare la controffensiva dipietrista, mimetizzandosi dietro un lessico oltranzista sin troppo collaudato nel quindicennio della Seconda Repubblica.

E’ probabile che Berlusconi coglierà l’occasione per mostrarsi offeso dall’analogia turkmena (come reagì quando Veltroni lo accusò di voler fare dell’Italia un clone dell’autoritarismo alla Putin), o per reiterare la denuncia dell’inaffidabilità di «questa opposizione », come usa sprezzantemente bollarla. Ma non farebbe la cosa giusta.
Perché il malessere dell’opposizione non è solo un’ossessione minoritaria ma può creare in una parte dell’Italia un sentimento di frattura, una sindrome di estraneità e di secessione rispetto all’Italia che ha vinto, che governa e presumibilmente guiderà il nostro Paese nei prossimi anni.

Con il capo del governo all’apice del consenso, l’opposizione ha difficoltà ad elaborare la percezione di schiacciante inferiorità in cui versa, un misto di crescente invisibilità mediatica e di disattenzione pubblica che acuisce il disagio di chi crede di aver perso troppo: mentre l’avversario si «prende tutto », per usare le parole dello stesso Franceschini. Un anno fa ha subito una disfatta storica, molto più devastante, sul piano della psicologia politica, di un normale rovescio elettorale. Sente montare un destino frustrante di marginalità e di irrilevanza. Assiste attonita al trionfo incontrastato del suo avversario. Vede sbriciolarsi i contrappesi che in passato le hanno lenito l’angoscia delle sconfitte elettorali: dalla magistratura al potere economico, ai media e persino in una parte del sindacato. Berlusconi potrebbe rispondere che non si tratta di un suo problema, o che il «guai ai vinti» è la crudele legge del rito democratico. Ma senza rendersi conto che un eccesso di squilibrio potrebbe danneggiare anche lui, a parti rovesciate. Un più forte senso del limite arrecherebbe un vantaggio alla sua parte politica, oltre che al comune senso del decoro.

Il limite che separa gli affari pubblici dalle vicende private, prima di tutto. Le sue fragorose traversie coniugali sono un fatto privato: dica ai suoi seguaci che non si azzardino a farne aggressivamente tema pubblico, anche se l’opposizione volesse cavalcare il danno d’immagine che il conflitto con la signora Veronica Lario potrebbe procurargli. Un limite agli applausi della democrazia acclamatoria che ha accompagnato il compimento di un fatto storico come la nascita del Pdl. Un limite all’insofferenza nei confronti del dissenso interno, a cominciare da quello impersonato da Gianfranco Fini. Un limite all’apoteosi mondana che intona la marcia trionfale della sua politica.

Un limite al troppo frenetico andirivieni tra Palazzo Chigi e Palazzo Grazioli, anche. A Napoli e in Abruzzo, il capo del governo ha dimostrato le sue doti di leader nazionale, consacrate dalla ricucitura simbolica compiuta il 25 aprile. Ora è il momento si stabilire un limite: non per compiacere l’opposizione, ma (senza enfasi) per rendere un servizio alla causa italiana nel mondo.

05 maggio 2009

da corriere.it


Titolo: Pier Luigi BATTISTA La lunga attesa di una riforma
Inserito da: Admin - Maggio 24, 2009, 12:07:37 am
 LA FUNZIONALITA’ DEL PARLAMENTO

La lunga attesa di una riforma


Il Parlamento non è mai «inutile». In nes­suna democrazia, comprese quelle a impianto presidenzialista. Negli Stati Uniti, non è ra­ro che tra Congresso e Ca­sa Bianca il dualismo pren­da forme non lontane dal­l’aperto conflitto. Nella Francia in cui l'Eliseo ha poteri fortissimi, il Parla­mento è tutt'altro che po­co importante. Nell'Inghil­terra il contrasto parla­mentare con il governo è talvolta durissimo. Anche in Italia, sebbene la sua ef­ficienza parlamentare sia indiscutibilmente bassa, il Parlamento non è mai un impaccio che meriti di essere gettato nel sottosca­la dei ferrivecchi. Il pre­mier Berlusconi ha usato il termine «inutile», seb­bene in un contesto logi­co diverso da quello diffu­so dalle più malevole in­terpretazioni. Ma se il Par­lamento rischia un effetto di «inutilità», ha una sola strada da percorrere: chie­dere la riforma, con il con­corso obbligatorio dello schieramento avversario, dell'istituto che secondo la nostra Costituzione cu­stodisce il principio della sovranità popolare.

E’ una questione di so­stanza, del resto, non di parole: non è la prima vol­ta che il capo del governo descrive con fastidio il mondo parlamentare se non come un insieme di politici di «professione» che fanno dell'inconclu­denza il marchio della lo­ro privilegiata superfluità. Se fosse vero, anche per evitare che l'immagine del Parlamento non sia così svilita, la via della riforma sarebbe ancor più urgen­te. Certo, se ne parla da de­cenni, senza cavarne nulla di apprezzabile. Una rifor­ma costituzionale votata in solitudine dalla maggio­ranza di centrodestra di due legislature fa (e che conteneva un riequilibrio di poteri a favore del pre­mier), è stata bocciata da­gli elettori in un referen­dum. Si parla di sfoltimen­to del numero dei parla­mentari, ma senza costrut­to. E tutte le commissioni bicamerali e bipartisan non hanno partorito nes­sun accordo.

Ma si deve insistere. Il capo dello Stato predica da tempo contro un assur­do bicameralismo perfet­to. Dall'opposizione, a co­minciare da Luciano Vio­lante, si comincia ad invo­care l'urgenza di una rifor­ma che permetta al gover­no di realizzare i suoi pro­grammi senza impaludar­si nelle liturgie intermina­bili che paralizzano il Par­lamento. E’ dal suo discor­so di insediamento che il presidente della Camera Fini chiama maggioranza e opposizione alla necessi­tà di fare di questa che stiamo vivendo una legi­slatura «costituente». Ma le regole della democrazia sono come le leggi: finché sono in vigore vanno ono­rate e rispettate. Se risulta­no sbagliate, inutili, dan­nose, «controproducen­ti », si cambino. Il cambia­mento costituzionale da tempo non è più un tabù. Si trovi un modo per ren­derlo realizzabile. Senza dimenticare che l'attuale maggioranza dispone di molti seggi di vantaggio per poter legiferare spedi­tamente.

Anche l'attuale mino­ranza potrebbe imporsi un compito. Anziché ab­bandonarsi ogni volta al solito florilegio di prote­ste per i «toni» eccessivi del capo del governo, met­ta in agenda essa stessa la riforma delle istituzioni che tutti attendono. Non giochi sempre di rimessa e proponga la prima mos­sa. Ci risparmierebbe l'eterno riproporsi del soli­to schema. E permettereb­be al suo avversario di ac­celerare le riforme, anzi­ché lamentarsi per l'im­produttività del Parlamen­to. Il risultato positivo sa­rebbe raddoppiato.

Pierluigi Battista

23 maggio 2009
  da corriere.it


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Eccessi e silenzi
Inserito da: Admin - Maggio 28, 2009, 10:03:27 am
Eccessi e silenzi


I figli, la famiglia, gli affetti e i sentimenti più profondi. Ha fat­to irruzione anche la sfera privatissima dei rap­porti umani nella saga che da un mese a questa parte sta riducendo la po­litica italiana a un duello cruento a base di mogli, feste, mariti, padri, figlie, nipoti, «papi». Il leader del Pd Franceschini ha commesso un errore gros­solano ad affermare «fare­ste educare i vostri figli da Berlusconi?». A mette­re in discussione la quali­tà di una relazione che le­ga l'avversario-genitore ai figli che dovrebbero vergognarsi del cognome che portano per conse­gnarsi pentiti al tribunale comportamentale presie­duto da una parte politi­ca. Non è chiaro dove esattamente Franceschini abbia culturalmente attin­to a una visione così tota­litaria della politica che si arroga violentemente il diritto di giudicare la «correttezza» di un mo­dello pedagogico e fami­liare. Ma è chiaro, molto chiaro che Franceschini deve fermarsi qui, non la­sciar tracimare il rancore politico fino a coinvolge­re i figli di Berlusconi, che non potevano non ri­spondere con legittima durezza.

E' chiaro anche che lo schieramento politico di cui Berlusconi è leader non può pensare sempre a un «complotto» se la stampa internazionale (ie­ri è stato il turno del Fi­nancial Times) guarda sbigottita alla fosca com­media italiana di questi giorni. Parlando alla Cnn, il capo del nostro gover­no ha promesso che chia­rirà tutto sulla «vicenda Noemi», aggiungendo che chi lo ha attaccato senza requie su questo punto dovrà «vergognar­si » una volta rivelata la ve­rità racchiusa nel caso di Casoria. Bene, si prenda in parola, non indugi e faccia «vergognare» al più presto i suoi avversa­ri. Si sottoponga al rito della verità e della sinceri­tà per mettere la parola fi­ne a una telenovela che è diventata argomento di maliziosa conversazione nelle cancellerie di tutto il mondo e nelle redazio­ni dei giornali internazio­nali che interrogano con insaziabile curiosità i loro corrispondenti a Roma.

C'è un solo modo per stroncare l'imbarbarimen­to di una politica che arri­va a travolgere persino gli affetti familiari pur di mettere in difficoltà l'av­versario: dissipare con pa­role inequivocabili la neb­bia di sospetti, di conget­ture, di illazioni che avvol­ge non un cittadino qua­lunque, ma il capo del no­stro governo. Parlare chia­ramente e in modo con­vincente non sarebbe un umiliante cedimento al­l’ondata del gossip nazio­nale, come suggerisce la reazione di una parte in­fluente dell'establish­ment berlusconiano. Sa­rebbe invece l'unico mo­do per spazzare via un'at­mosfera che ammorba la politica italiana, per sopi­re le inquietudini che ser­peggiano all'estero e che non sono sempre e soltan­to il sintomo di un'ostili­tà preconcetta, se non di una strategia pregiudizial­mente aggressiva nei con­fronti del governo di cen­trodestra. Non c'è tempo da perdere. Altrimenti ci si avviterà ogni giorno di più attorno a un turbine di maldicenze. L'Italia non lo merita.


Pierluigi Battista

28 maggio 2009
da corriere.it


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Di Pietro ora deciderà cosa fare da grande?
Inserito da: Admin - Giugno 09, 2009, 10:34:59 am
Il raddoppio dei voti

Di Pietro ora deciderà cosa fare da grande?

L’ex pm deve sce­gliere se costruire un rapporto col Pd che porti a un’alternati­va o perseverare nel narcisismo politico


Celebrata la festa del raddoppio dei voti, gustata l’ebbrezza dei brindisi e delle congratulazioni, ora Antonio Di Pietro dovrà deci­dere che fare nell’età adulta del­la sua politica. Da interprete di umori e ma­lumori che ribollono negli strati più profon­di della società italiana è diventato un prota­gonista stabile del palcoscenico nazionale. Da alleato minore del Pd ora rivendica addi­rittura la supremazia nell’(eventuale) allean­za. È stato abile a incarnare la figura del­l’ «anti-Berlusconi». Ha vinto. Ma ora ha quattro anni per non dilapidare il patrimo­nio accumulato.

Di Pietro ha già detto che vuole passare dall’«opposizione» all’«alternativa». Che vuol dire? Nemico giurato del politichese, paladino del linguaggio ruvido e franco, sta­volta ha usato una formula allusiva per dire che adesso nel fronte opposto a quello di Berlusconi non vuole essere più un ospite ma un azionista influente che detta le con­dizioni. Il Pd di Veltroni era nato con una «vocazione maggioritaria», come un parti­to che non si sarebbe limitato a mettere cao­ticamente in un unico calderone tutti i seg­menti antiberlusconiani. Di Pietro vuole es­sere la smentita vivente di questo schema. Il suo modello è semplice, binario, mani­cheo: da una parte il Caimano, dall’altro il popolo di Piazza Navona che sposa ogni ol­tranzismo pur di alimentare il duello con l’eterno Nemico, anche a costo, come è ac­caduto, di partire all’attacco del Quirinale. E se Berlusconi, malgrado la frenata di que­ste elezioni, ha la maggioranza relativa dei voti degli italiani, Di Pietro si sente a suo agio nell’Italia che di Berlusconi, persino an­tropologicamente, rifiuta tutto. Con cui non vuole scendere a patti. Di cui vuole libe­rarsi, con le buone o con le cattive.

Questo è il motore primo, la carta d’iden­tità del dipietrismo. Con questo volto ha raggiunto in pochi anni l’8 per cento. Ha mescolato insieme storie e biografie diver­se, sottomettendole alla personalità prepo­tente del fondatore unico. Ha miscelato il giustizialismo con il radicalismo culturale girotondista, il populismo con il leaderi­smo spinto. Ha vinto con un partito cucito a sua misura. Adesso Di Pietro dice che vuole cambiare insegne per ribattezzare una casa più gran­de del rustico messo su nel corso di questi anni. Ma sinora l’Italia dei valori si è total­mente identificato con il suo leader. Ha se­lezionato una classe dirigente raccogliticcia e in talune contrade, Campania in primis, di una qualità imbarazzante, purché ligia al­le indicazioni del Capo. Ha spezzato la linea divisoria tra il Di Pietro pubblico e quello privato. Ha gestito il partito come un affare di famiglia, scegliendo come delfino il fi­glio e trasformando le casse dell’Italia dei valori in una gestione familiare, dall’intesta­zione degli immobili alla nominatività del­le cariche sociali. Ma ha aggregato con dut­tilità ogni scheggia di scontento, ogni pez­zo del fronte del rifiuto. Ha goduto del favo­re di un network mediatico-giornalistico che si è forgiato nel fuoco delle battaglie po­litico- giudiziarie. Ha conservato il favore della pattuglia più militante e agguerrita della magistratura. Con la sua parlata ricer­catamente popolare e per niente succube delle convenzioni sintattiche e grammatica­li non ha raffreddato nemmeno le simpatie degli intellettuali più raffinati che hanno fatto dell’antiberlusconismo il nutrimento della loro estetica. Con la sua rozzezza compiaciuta e osten­tata ha dato voce a una corrente energica del populismo italiano.

Ma ora? Leoluca Orlando, che in questi anni gli è stato a fianco con discrezione ma con effica­cia, ha insistito nei commenti sul trionfo elettorale sulla consunzione dei «recinti» che hanno ingabbiato per decenni la politi­ca e l’ideologia europee. Di Pietro è da sem­pre estraneo a questi recinti: a cominciare da quelli che etichettano convenzionalmen­te la destra e la sinistra.

Culturalmente e antropologicamente Di Pietro non è «di sinistra» e chi nella sini­stra lo detesta sottolinea che in realtà il di­pietrismo è un pezzo di destra law and or­der conficcato nell’accampamento della si­nistra classica. Ma, grazie a questa spregiu­dicatezza ideologica, ha raggiunto le vette elettorali di questi giorni. Solo che, come si è visto in questa competizione europea, an­che nell’elettorato del Pd la tentazione ideo­logica del dipietrismo comincia a diventare una potentissima calamita, lo sfogo di una frustrazione, il simbolo di un desiderio spa­smodico di opposizione che non trova sboc­co nei volti e nei rituali del Partito democra­tico. E così Di Pietro sta diventando un dop­pio incubo del Pd: un alleato troppo indoci­le e adesso anche un cannibale che si ciba insaziabilmente della carne democratica an­cora alla ricerca di un leader.

Ma adesso comincia per Di Pietro un’al­tra storia: quella decisiva. Se Di Pietro sce­glie di avere un ruolo decisivo per la costru­zione dell’«alternativa», non può permetter­si di prendere il Pd per il collo, non tener conto che comunque quel partito ha nume­ricamente una forza elettorale tre volte su­periore a quella dell’Italia dei valori. Se de­ve stabilire un’alleanza, deve guardare al­l’esempio della Lega, che vincola la stabilità del suo rapporto con il Pdl al raggiungimen­to di alcuni obiettivi fondamentali (federali­smo, sicurezza, immigrazione). E non a quello che ha logorato l’alleanza prodiana con Rifondazione, conflittuale e rivendicati­va su ogni capitolo dell’attività di governo. Non può chiedere al Pd di adottare la linea dell’Italia dei valori, ma può costringerlo a ingaggiare battaglie comuni. Altrimenti il pieno dei voti di questi giorni resterà senza uso e senza sbocco. E resterà solo il contro­canto del Caimano: un esercizio di narcisi­smo politico e niente più. Dipende solo da lui.


Pierluigi Battista
09 giugno 2009
da corriere.it


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Pd, tempo scaduto
Inserito da: Admin - Giugno 10, 2009, 03:29:03 pm
Pd, tempo scaduto


Il partito democratico non può spendere i prossimi quattro anni congratulandosi per lo scampato pericolo del­l’autodissoluzione. I son­daggi più funesti pronosti­cavano un crollo rovinoso, ma con il 26,1 la sconfitta ha assunto dimensioni sop­portabili. Non si è materia­lizzato l’incubo della mar­cia trionfale di Berlusconi. La sinistra nel suo comples­so, malgrado la massiccia dispersione di voti, ha con­servato un cospicuo patri­monio elettorale. Ma le no­te confortanti per France­schini e il gruppo dirigente democratico finiscono drammaticamente qui: per il Pd è scaduto il tempo dei rinvii.

La distanza con il suo av­versario è di 9 punti per­centuali: un’enormità, vi­sto che il Pdl non è nemme­no nella sua forma più sma­gliante. L’ondata leghista ha invaso il cuore delle re­gioni rosse. Il partito di Ber­lusconi gode di un primato nella totalità delle circoscri­zioni. Nel Mezzogiorno il Pd rischia la sparizione. Lo scomodo Di Pietro non so­lo conquista voti, ma appa­re la personificazione di un messaggio forte, capace di attirare un’opinione pubbli­ca di sinistra sconcertata dall’immagine sbiadita dei Democratici. L’elettorato è disorientato e scoraggiato, e stenta a capire dove il Pd voglia andare, con chi, in quali forme, con quale lea­der.

A febbraio, con le trau­matiche dimissioni di Vel­troni, il Pd affidò a France­schini il compito di traghet­tare un partito stordito da una dolorosa sequenza di sconfitte. E se il nuovo (provvisorio?) segretario non ha nulla da rimprove­rarsi avendo recitato il suo ruolo con coraggio e digni­tà, le oligarchie del partito danno l’impressione di aver sotterrato l’ascia di guerra solo momentanea­mente. Il plebiscito che ha incoronato la giovane De­bora Serracchiani denun­cia l’attesa inappagata di un segnale di una svolta, se non di un nuovo inizio. Ma non viene indicata la data di un congresso. Le diverse linee politiche (che ci so­no, ma mimetizzate in una sfibrante guerra tra corren­ti) non vengono allo sco­perto. I maggiorenti del partito, imprigionati nel lo­ro ruolo di eterni padri no­bili, si consumano nel tatti­cismo e nel gioco incrocia­to delle candidature. Sulla prospettiva delle alleanze il buio è totale, nella laceran­te incertezza se guardare al centro, alla sinistra, oppu­re restare immobili. Ora, uf­ficialmente, si attende il giorno dei ballottaggi per riprendere il discorso inter­rotto con le dimissioni di Veltroni. Ma comincia a cir­colare autorevolmente la voce che la resa dei conti possa aspettare le elezioni regionali del 2010: sarebbe la scelta peggiore.

Perché forse l’elettorato democratico non aspetta un’avvelenata resa dei con­ti, ma una competizione aperta, democratica e leale tra i diversi filoni che com­pongono, non «amalgama­ti », il Pd. Una lotta politica chiara da cui possa scaturi­re una leadership destinata a segnare il percorso demo­cratico e a costruire un’al­ternativa credibile all’attua­le maggioranza. Dovrebbe essere questa, se non si è capito male, l’ispirazione fondante di un partito a «vocazione maggioritaria». La cui missione non può es­sere solo l’eroica resistenza per continuare a sopravvi­vere.


Pierluigi Battista
10 giugno 2009

da corriere.it


Titolo: Pier Luigi BATTISTA L’ora di una sfida vera tra i candidati
Inserito da: Admin - Giugno 25, 2009, 11:17:45 am
I CANDIDATI NEL PD

L’ora di una sfida vera tra i candidati


La qualità della discussione congressuale del Pd è un buon termometro per misurare la salute democratica dell’Italia. Per questo l’annuncio della candidatura di Dario Franceschini non è solo un fatto interno a un partito e che riguardi solo i suoi iscritti e i suoi elettori. Se una sfida vera prende il posto delle congiure di palazzo, se una competizione aperta tra candidati scaccia lo spettro di un’oligarchia immobile che si sfibra nelle trame di corridoio e nella difesa irragionevole di insegne e appartenenze ormai logore, allora se ne gioverebbe l’intero sistema politico italiano.

È un bene per tutti se il principale partito d’opposizione esce dall’angolo e la smette di essere e soprattutto di rappresentarsi come un’accolita di sconfitti che litigano sconsideratamente su tutto. La sua debolezza, perché tutto in una democrazia è connesso, incide negativamente persino su chi detiene la maggioranza. Che infatti, in presenza di un’opposizione frastornata e arroccata nella difesa della sua mera sopravvivenza, in questi mesi ha peggiorato il suo profilo. Come a confermare la legge secondo la quale in una democrazia sana e sanamente conflittuale bisogna essere almeno in due a poter vincere. Altrimenti chi è sicuro di perdere si avvita nella retorica sterile a autoconsolatoria. E chi è sicuro di vincere rischia di dare il peggio di sé, perché la certezza del primato alimenta l’arroganza della solitudine.

Ecco perché una sfida aperta e vera tra (per ora) Franceschini e Bersani deve dare al Pd il volto di un partito che aspira a vincere la prossima partita. Deve mettere in luce cosa divide i contendenti, oltre a ciò che li unisce. Quali idee e non solo le biografie che ancorano al passato. Dovrà dire parole chiare sulle alleanze, perché è dalla scelta di un'alleanza che si capisce dove un partito vuole andare e come immagina di governare l’Italia. Dovrà rimescolare le carte, costringendo tutti i protagonisti del partito a uscire allo scoperto, smettendo i panni dei kingmaker occulti. Dovrà ridurre al minimo il chiacchiericcio infinito sul look dei candidati, sulla loro presunta caratura telegenica, e andare alla sostanza del conflitto che li oppone. Dovrà spezzare la pratica estenuante delle mediazioni, degli accordi sottobanco tra correnti. Dovrà dire agli italiani perché conviene, è più giusto, è più utile, è più convincente affidare al Pd il governo del Paese ora nelle mani del centrodestra. Dovrà mettere in pratica il principio fondativo che Veltroni aveva indicato come la bussola del nuovo partito: la sua «vocazione maggioritaria ».

Con parole chiare. E senza perifrasi allusive. Come quella, sfuggita a Franceschini, in cui il neo candidato se la prende con quelli «che c’erano molto prima». Ecco, evitare di imporre la decifrazione di formule che alludono a misteriosi e risentiti scontri nella nomenklatura del Pd sarebbe un buon modo per ricominciare e voltare pagina. Spiegando cosa è andato storto e cosa ha impedito al Pd di procrastinare così a lungo la sfida aperta e vera che solo adesso si sta virtuosamente aprendo. Rompendo lo schema che ha imprigionato il Pd, portandolo di sconfitta in sconfitta. È l’unica strada percorribile. L’ultima.

Pierluigi Battista
25 giugno 2009

da corriere.it


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Metamorfosi a sinistra
Inserito da: Admin - Luglio 03, 2009, 10:10:25 am
Metamorfosi a sinistra

E Debora la vincente diventò nel Pd una giovane petulante

Il «paradigma Serracchiani»: prima era un soprammobile pregiato, adesso una presenza molesta e petulante. Sono bastate due battute di un’intervista
 

Il «paradigma Serracchiani» prescrive che nel Pd il giovane adottato da tutti sia trattato come un cucciolo da vezzeggiare con paternalistica accondiscendenza, ma se è un giovane che sceglie una parte e dice la sua, allora sono rampogne severe, commiserazione, persino dileggio. Da un giorno all'altro il volto nuovo di Debora Serracchiani si deforma nel simbolo dell'ingenuità.

La fresca energia si rovescia in sventatezza. La schiettezza in dabbenaggine. Prima era un soprammobile pregiato, adesso una presenza molesta e petulante. Sono bastate due battute di un’intervista a Repubblica per compiere questa repentina metamorfosi. Giovane, e donna, ha appena ottenuto un record di preferenze alle europee, addirittura battendo Berlusconi nel suo Friuli. Il voto, in democrazia, dovrebbe pur fare la differenza.

Non la solita cooptazione oligarchica, l’ennesima candidatura in «quota giovani». Ma un’investitura popolare, con una messe di consensi che molti dei notabili della corrente a lei avversa, oggi in prima fila nell’accanirsi sulla poco sorvegliata creatura, neanche possono sognarsi. Invece, due battute e parte il fuoco d’interdizione. La Serracchiani ha detto che sta con Franceschini perché è più simpatico. Una leggerezza, ma da quanti anni, e con quanta stucchevole ripetitività, nella sinistra ci si avvita nella ricerca smaniosa di un leader che sia dotato di un appeal comparabile a quello di Berlusconi? Mai un rimprovero, nemmeno un buffetto: niente di paragonabile all’orrore suscitato dalla irriverente giovane (e donna). La Serracchiani ha anche detto che Massimo D’Alema rappresenta a suo parere una logica d’apparato da cui il Pd dovrebbe emanciparsi. Magari è una ruvida e ingiusta semplificazione. Ma è esattamente quella che pensano e non dicono, o forse sussurrano, esponenti ben più esperti e stagionati del Partito democratico.

E poi, se la sfida tra i candidati è una gara vera e appassionante, si ha un’idea della brutalità politica con cui è stata condotta la competizione delle primarie democratiche tra Obama e Hillary Clinton, oggi sullo stesso fronte?

La Serracchiani, ex astro nascente quando si prestava a un unanime appoggio pre-elettorale, ha parlato troppo e male. Non dispone di paracaduti di partito (a parte il dettaglio dei voti conquistati) e dunque su di lei è più agevole esercitarsi nell’arte della demolizione ad personam che sfiora il linciaggio politico. Non c’è bisogno di concordare con le sue tesi per non accorgersi che in tanta virulenza c’è qualcosa di smodato e di paradossale. Un partito che invoca il rinnovamento si trasforma in un consesso di arcigni professori che bacchettano la giovane che ha osato valicare i confini dell’irriverenza. Un partito che invoca le «primarie» a ogni passo non tiene in nessun conto il consenso elettorale che quella giovane ha ricevuto. Un partito che non fa che dichiarare la propria insofferenza per le oligarchie di appartenenza si scandalizza se la critica alla nomenklatura viene espressa con parole e concetti decisamente poco diplomatici.

Il «paradigma Serracchiani» è anche la spia di una schizofrenia politica che rischia di ipotecare seriamente la rude verità di una battaglia politica da cui scaturirà il volto del nuovo Partito democratico. Si spera solo una caduta di stile, non il sintomo di una voglia d’ordine ( interno).


Pierluigi Battista
03 luglio 2009

da corriere.it


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Il «Secolo», la destra che dice tante cose di sinistra
Inserito da: Admin - Luglio 04, 2009, 12:17:02 pm
L’ex giornale di An si distingue per le posizioni laiche e dialoganti «tendenza Fini»

Il «Secolo», la destra che dice tante cose di sinistra

Una scelta di minoranza che ricorda «La Voce»


C’è il giornale della destra che oramai piace più alla sini­stra che alla destra. La sinistra lo apprezza perché è più a sini­stra della sinistra. La destra lo teme perché porta nella destra uno spirito di sinistra. Insom­ma, c’è il Secolo d’Italia. Un tempo organo del Msi, poi di An, ora del «Popolo della Libertà » ma tendenza Fini, dalle sue pagine ogni giorno è una controffensiva liber­taria per la destra conservatrice, una ventata laica nella destra «teocon», un messaggio eretico nell’ortodossia ber­lusconiana. Ora di­cono che amano sì Sarkozy, ma iscri­vendolo d’ufficio al­la gauche. E nello stesso numero stila­no un ritratto com­mosso di Alex Lan­ger, il verde etero­dosso che si è tolto la vita dopo una militanza sofferta, fuori da­gli schemi, estranea alla dicoto­mia classica tra destra e sini­stra, ma comunque pur sem­pre di sinistra. E chissà che il Secolo non riesca addirittura a rubacchiare qualche copia ai giornali che della sinistra uffi­ciale sono i portabandiera.

Un tempo erano i «ragazzi di via Milano» immortalati da una oramai celebre foto che li ritrae in piedi e accucciati nelle maglie della loro squadra, e de­scritti da Mauro Mazza (uno de­gli ex ragazzi) in un libro che riprende quella formula ricava­ta dalla leggenda adolescen­zial- romantica della Via Pal. C’erano Fini e Gasparri, Stora­ce e Alemanno. Lavoravano al Secolo di Via Milano a Roma, nei tempi in cui lo scontro fisico era all’ordine del giorno, le prime pagine del giornale era­no riempite dalle foto dei comi­zi oceanici di Almirante, la de­stra era dentro un recinto infet­to, messo ai margini dell’arco costituzionale. Oggi, la diaspo­ra. Ma oggi, con la direzione di Flavia Perina (insieme, tra gli altri, a Luciano Lanna, Filippo Rossi, Annalisa Terranova) il Secolo d’Italia è una spina nel fianco del centrodestra. Qual­che mese fa, in piena battaglia sulla legge contro l’immigrazio­ne clandestina, titolò con cla­more: «No all’apartheid». Si moltiplicano gli articoli contro le ronde. Quelli molto critici con l’impostazione prevalente nel centrodestra sul caso di Eluana Englaro. Quelli contro l’occidentalismo anti-islamista di Oriana Fallaci. Quelli vergati in difesa dell’avversario Veltro­ni quando la stampa di destra lo trattò da «extracomunita­rio » solo perché l’allora segreta­rio del Pd stava piantando un ombrellone sulla spiaggia di Sa­baudia, non nel parco di Villa Certosa.

Negli ultimi tempi, all’apice delle polemiche sulle veline e sulle feste del premier, sulle co­lonne del Secolo è stata una se­quenza di contrappunti, di pun­ture polemiche, di contrasti con il modello antropologico e culturale che nel velinismo si esprime e si rappresenta. Fino ad arrivare a una polemica fero­ce con Vittorio Feltri e con Libe­ro. Fino a rivalutare, contro il modello del leader anziano che si trastulla con donne giovani e vistose, il contromodello del «vecchio pensionato» cantato da Francesco Guccini (un altro simbolo preso in prestito dalla sinistra). Polemiche, peraltro, condotte in sintonia con le po­sizioni del webmagazine «Fare­futuro » (da cui partirono le pri­me bordate contro le ventilate candidature delle veline nelle li­ste elettorali per le europee). Ambedue più vicine a Fini che agli ex colonnelli di An. Tutt’e due che martellano sul tema del dialogo culturale con la sini­stra, sulla critica alla destra ma­chista d'un tempo.

Ma se poi qualcuno volesse leggere sul giornale della de­stra qualcosa propriamente di destra? Se, dopo aver appreso come e perché la destra debba essere libertaria, multicultura­­lista, laica, anticlericale, pro­gressista, dialogante, modera­ta, si giungesse a scoprire che questa destra ideale, utopica, onirica, futuribile ha sempre meno in comune con la destra reale, mediamente rappresen­tata dai partiti e dai leader (ec­cetto Fini, naturalmente) che attualmente e presumibilmen­te per molto tempo ne hanno in mano le redini politiche e culturali? Come la Voce di Mon­tanelli, che piaceva alla sini­stra (senza comprare il giorna­le) ma sancì un drammatico di­vorzio dalla massa dei lettori infatuati dal montanellismo. E non è un cattivo augurio, ma il percorso accidentato di vuole stare in minoranza. Ogni gior­no, come il 'Secolo' dell'Italia berlusconiana.

Pierluigi Battista
04 luglio 2009

da corriere.it


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Se santa Maria Goretti diventa l’icona dell’anti-berlusconi
Inserito da: Admin - Luglio 08, 2009, 12:52:27 pm
Se santa Maria Goretti diventa l’icona dell’anti-berlusconismo


Stavolta non risuona l’allarme per l’«ingerenza vaticana», visto che a farne le spese è l’odiato e pericolante Nemico. Però, è una supposizione, se non ci fosse andato di mezzo Berlusconi magari la sinistra avrebbe reagito diversamente alle parole di monsignor Crociata. L’anatema contro il «gaio libertinaggio»: sarebbe stato accolto con tanta indifferenza dai laici momentaneamente distratti? E l’elogio di santa Maria Goretti.

E l’esaltazione del «pudore», l’elogio dell’«autocontrollo», i severi rimproveri per «la sfrenatezza e sregolatezza nei comportamenti sessuali». Quanti laici, offesi dal moralismo bacchettone, avrebbero trovato mortificante l’esempio di Maria Goretti come parametro dei comportamenti cui le donne dovrebbero attenersi? Quanti calembour, sapidi e triti giri di parole, si sarebbero accaniti sulla «crociata di Crociata»? E invece niente. Solo un sogghigno di soddisfazione per il boomerang che sta colpendo Berlusconi. Ha vellicato i peggiori istinti clericali: adesso, finalmente il contrappasso, la Chiesa che ne scomunica i comportamenti.

È ovvio: a chi è contro Berlusconi non si può umanamente chiedere di non compiacersi per i guai che stanno affliggendo il capo del governo. Ma è come se fosse svanita ogni parvenza di autonomia culturale, ogni capacità di stabilire un orientamento che non sia solo e soltanto berlusconicentrico. Il giorno prima ci si fa paladini dei diritti, della libertà anche in campo sessuale, del rifiuto delle norme tradizionali e convenzionali, della laicità, dell’opposizione a ogni interferenza religiosa nella sfera dei comportamenti. Il giorno dopo, visto che il bersaglio è Berlusconi, non si ha niente da dire quando un monsignore tuona dal pulpito contro la «sregolatezza» che addirittura «invera la parola lussuria».

Neanche un sit-in, una vignetta satirica, il commento sbigottito di qualche esponente radicale, o la mobilitazione di chi addirittura interpretò come un attacco alla laicità persino una lezione di Ratzinger alla Sapienza? Niente, silenzio totale. Riverente silenzio, in omaggio alla figura di Santa Maria Goretti, nuova e imprevedibile icona dell’antiberlusconismo.

Pierluigi Battista
08 luglio 2009

da corriere.it


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Il gusto (inutile) per il chiasso
Inserito da: Admin - Agosto 11, 2009, 11:04:11 am
Il gusto (inutile) per il chiasso

Non se ne farà niente (per fortuna), ma se ne parlerà molto (per sfortuna) e chi si è fatto promotore dell’ultima scheggia di chiacchiericcio nazionale ne resterà ugualmente appagato. Cambiare la Costituzione per spezzare il monopolio del tricolore come vessillo d’Italia con l’aggiunta di stendardi regionali sulle pareti degli edifici pubblici? È solo la deriva della sindrome identitaria, l’idea che la politica debba ridursi a rivendicazione simbolica e che con la manipolazione degli emblemi o del lessico consacrato si possa mettere a segno chissà quale fruttuosa «provocazione».

La Lega è maestra in questo rivendicazionismo simbolico. Dall’invenzione della «Padania » alla mitologia di Pontida, dal Barbarossa al Parlamento alla riscoperta dei dialetti è una sequenza infinita e fantasiosa di simboli identitari da scaraventare nel cuore dell’immaginario politico. La Lega, unicum in Italia, è molto apprezzata, anche dai suoi più severi avversari, per il suo radicamento territoriale, per la solidità dei legami con la propria terra. Ma sente anche un incoercibile bisogno di folclore come moneta da spendere nel mercato della politica e pure del governo. Non ci saranno conseguenze pratiche nemmeno stavolta, la proposta di legge costituzionale non passerà o sarà addolcita per renderla più digeribile.

Resta la percezione, estesa purtroppo anche oltre i confini dell’Italia, che una classe dirigente impegnata in una crisi senza precedenti negli ultimi decenni è invece costretta a discettare sulle bandiere regionali (tutte da scoprire, peraltro) e sul loro rapporto con il tricolore bianco rosso e verde. A tuffarsi nelle dispute sui dialetti. A perdersi nelle fumose discussioni sulla nostra (presunta) storia. Non se ne farà niente. Solo la soddisfazione di un po’ di chiasso.

Pierluigi Battista
06 agosto 2009
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da corriere.it


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Tutti i giochi di Gheddafi
Inserito da: Admin - Agosto 23, 2009, 10:49:09 am
IL REGIME E LA FESTA PER IL TERRORISTA

Tutti i giochi di Gheddafi


Abdel Bassetal-Megrahi non è un «ostaggio politico», come sostiene il presidente Gheddafi. È un terrorista che ha ucciso 270 passeggeri esplosi in volo su un Boeing 747 della Pan Am, sui cieli di Lockerbie. Le autorità scozzesi lo hanno liberato per ragioni umanitarie. Lui tuttavia non ebbe nessun senso dell’umanità quando decise di compiere una strage.

E anche i libici che lo festeggiano senza pudore per il suo ritorno in patria non stanno dimostrando nessuna sensibilità umanitaria nei confronti delle vittime e di chi ancora oggi ne piange l’assurda scomparsa. La storia non si cancella con un provvedimento di clemenza. C’è qualcosa di offensivo nelle celebrazioni di Tripoli. Un sovrappiù simbolico che infligge un colpo umiliante a un elementare senso di giustizia. È la «triplice beffa» di cui ha giustamente scritto Antonio Ferrari sul Corriere di ieri a rispecchiarsi nell’accoglienza solenne che la famiglia Gheddafi sta tributando a un assassino, nelle bandiere che sventolano trionfali, nelle fanfare, nelle urla di giubilo della folla che saluta il corresponsabile di uno dei massacri meglio riusciti nella storia del terrorismo internazionale.

E anche un senso di impunità maturato sulla necessità economica e geo-politica di un buon rapporto che l’Occidente deve intrattenere con il regime libico. La percezione, che galvanizza la Jamahiriya, di avere il mondo in pugno, di poter giocare con disinvoltura spettacolare la carta della resa dei conti, conoscendo in anticipo l’identità di chi dovrà inchinarsi (le democrazie occidentali) e di chi riceverà omaggi, aperture diplomatiche, clamorosi gesti di riconciliazione (la Libia del colonnello Gheddafi). Dal terreno più tradizionale del realismo politico, strada obbligata per l’Occidente, la Libia esige il passaggio nei territori più ambigui ed evanescenti, ma non per questo meno decisivi, della resa simbolica. Per questo il terrorista appena liberato diventa un così potente simbolo di identificazione: è il prezzo che bisogna pagare, il biglietto d’ingresso per poter avere con la Libia un rapporto non conflittuale.

Con la Libia di Gheddafi il realismo politico deve diventare rappresentazione, cerimonia. È questa la sfida imprevista che le democrazie devono affrontare come un unicum nell’attuale geometria dei rapporti internazionali. Se la Cina chiede silenzio sui diritti umani in cambio della collaborazione economica, se Teheran chiede la non interferenza internazionale sul suo armamento nucleare come contropartita per gli interessi economici da intrecciare con l’Iran, la Libia chiede qualcosa in più: la riscrittura della storia e un risarcimento simbolico sul passato. È questa la porta stretta che l’America di Obama e l’Europa dovranno attraversare nel prossimo futuro.

Sinora l’atteggiamento prevalente, come si è plasticamente visto nella visita romana di Gheddafi, ha coinciso con la benevola accondiscendenza nei confronti dei libici.
Le feste di Tripoli per la liberazione del terrorista della strage di Lockerbie dicono però che il prezzo potrebbe essere sempre più elevato e che la sopportazione occidentale sarà messa a dura prova.

Lo scenario peggiore prevede che ciascuno, come spesso accade, vada per conto suo: i veri ostaggi politici (ed economici) decisamente non stanno a Tripoli.

Pierluigi Battista
22 agosto 2009
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da corriere.it


Titolo: Pier Luigi BATTISTA La vera partita dell'autunno
Inserito da: Admin - Agosto 27, 2009, 04:08:51 pm
La vera partita dell'autunno

Dopo l'intervento di Fini alla festa del Pd

di Pierluigi Battista


E così, annunciando il suo impegno per modifi­care la legge sul fine vita, Gianfranco Fini scende dal cielo della guerra culturale e promette di ingaggiare una lotta politica durissima.

Dalla nicchia minoritaria allo scontro aperto. Dalle stanze ovattate di una Fondazione alla durezza del voto. Con il discorso di Fini a Genova finisce nel centrodestra l’era della monarchia assoluta. Non è detto che Fini vinca. Ma non è detto che alla fine il Pdl resti un corpo granitico e inamovibile dietro al suo (attuale) Re. Fini dichiara a Genova che lui («non ho il dono della fede») non ce l’ha con i cattolici, ma con i «clericali». Il bersaglio è evidente: ce l’ha con buona parte del suo partito. Se vuole tratteggiare una figura di cattolico che risponde alla sua coscienza, cita provocatoriamente Leopoldo Elia e Pietro Scoppola, espressioni di un cattolicesimo democratico storicamente molto aperto alle ragioni della sinistra. Non Baget Bozzo, ma Elia e Scoppola, tanto per radicalizzare la portata del suo strappo. È solo il caso di ricordare che Scoppola fu, al tempo del referendum sul divorzio, uno degli animatori dei «cattolici del no». Dei cattolici che dissero «no» agli imperativi della Chiesa di Paolo VI, mica di un Pontefice conservatore. Tanti anni fa. Gli anni delle contrapposizioni ideologiche che pure plasmarono il giovane Fini negli abiti della destra almirantiana, ma che oggi Fini ricorda con il distacco che si riserva alla preistoria e ai dinosauri. «Destra» e «sinistra», ha detto Fini, così come sono non dicono più niente a chi oggi ha gli anni (già venti) che ci separano dalla caduta del muro di Berlino.

Il presidente della Camera risponde così a chi lo accusa di voler «tradire» la sua storia di destra: dicendo di considerarla vecchia, superata, sorpassata, incapace di comunicare alcunché a chi, per privilegio di anagrafe, non l’ha vissuta in prima persona. Fini è stato applaudito a Genova dalla platea del Pd che lo ospitava. Ma tra i ferrivecchi della politica, se la cortesia istituzionale e il garbo dell’ospite non gliel’avessero impedito, Fini avrebbe volentieri incluso la «sinistra» che si riconosce nel Partito democratico. Sa di piacere ai suoi avversari perché sulla laicità e sull’immigrazione parla con un linguaggio a loro più familiare. Ma sa che la partita vera si gioca all’interno del centrodestra di cui Fini si sente parte ma che considera prigioniero se non succube («una fotocopia») della Lega, soffocato dal «clericalismo», incapace di guardare al futuro, troppo soddisfatto di sé nel lucrare sulle proprie rendite di posizione. Finora questa estraneità sempre più accentuata Fini l’ha espressa attraverso distinguo, punzecchiature, proclami a difesa del Parlamento, soprassalti d’orgoglio durante la visita di Gheddafi accolto da tutti (ma non da lui) con esuberante ospitalità. Da oggi diventa arma politica esplicita, battaglia ingaggiata contro l’attuale assetto politico-culturale della maggioranza. Le parole più dure Fini le ha sì riservate alla questione dell’immigrazione (ha evocato l’ombra della «xenofobia», e persino quella della tentazione «razzista») nonché all’identità culturale della Lega, ma è sul testamento biologico che partirà la sua campagna d’autunno. È vero che, in tema di immigrazione, si impegnerà nella proposta di una legge che dia la cittadinanza agli immigrati regolari dopo cinque anni, già bollata da autorevoli esponenti della maggioranza (come Maurizio Gasparri) come irricevibile.

Ma intanto la legge sulla sicurezza c’è, non si può tornare indietro e inoltre Fini si attribuisce il merito di averla ripulita dalla norma sui cosiddetti «medici-spia».

Il terreno ancora aperto è invece quello che ha al suo centro la legge sul «fine vita». Fini può contare su un malumore diffuso anche nel centrodestra. Può contare sulla sponda del Pdl. E anche su un clima collettivo meno arroventato di quello che infiammò l’opinione pubblica all’acme del caso Englaro. È il terreno più propizio per marcare una differenza più spiccata con l’attuale maggioranza e per strappare una vittoria che lo sottrarrebbe al ruolo scomodo del testimone di minoranza, coraggioso ma irrilevante. Per la prima volta il Pdl dovrà misurarsi con un dissenso aperto, non con una dichiarazione estemporanea destinata a lasciarsi inghiottire dall’ordinaria amministrazione. La fine di un’abitudine monarchica, appunto. Per il centrodestra, quasi una rivoluzione.


27 agosto 2009
da corriere.it


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Qualche ragione e poco stile
Inserito da: Admin - Settembre 02, 2009, 04:07:27 pm
Qualche ragione e poco stile

Sarebbe stato meglio se il nostro presidente del Consiglio si fosse atte­nuto più fedelmente ai canoni e allo stile delle contro­versie diplomatiche. Ma l’Eu­ropa non può più rimandare la definizione di una linea uni­voca e seria sul tema dell’im­migrazione. Non può parlare con mille voci e discordi. Non può costringere alla solitudi­ne l’Italia, Malta, la Spagna, i fronti più esposti e vulnerabi­li. Non può privarsi di una po­sizione comune, collegialmen­te elaborata, ma poi coerente­mente difesa nei suoi princìpi essenziali. Non può non senti­re le frontiere come questio­ne propria piuttosto che dei singoli Stati. Non può prestar­si alle strumentalizzazioni ca­salinghe, ai veti reciproci, alla teatralizzazione politica di contrasti che non abbiano il crisma dell’ufficialità. Non può pensare che le tragedie consumate al largo di Lampe­dusa o a Ceuta e Melilla non riguardino Bruxelles, o Berli­no, o Parigi, e viceversa. L’Eu­ropa non può pensare che continui così all’infinito.

Le tensioni tra l’Italia e alcu­ni esponenti dell’Unione Euro­pea hanno come cornice le ce­lebrazioni dei settant’anni del­l’aggressione hitleriana alla Polonia, atto d’inizio della Se­conda guerra mondiale. Ricor­dare quella data fa pensare al­l’Europa unita e in pace come a un miracolo politico e accre­sce la gratitudine per gli euro­peisti che con lungimiranza hanno costruito un’Europa fi­no a pochi anni prima dilania­ta da guerre apocalittiche e conflitti insanabili. Ma se l’im­migrazione è il tema centrale dell’equilibrio europeo di que­sto secolo, se l’esodo biblico delle popolazioni sfortunate è l’appuntamento che l’Europa dovrà affrontare negli anni e nei decenni a venire, è impen­sabile che la democrazia euro­pea si condanni a non sceglie­re, a impantanarsi in rivalità nazional-statali inestinguibili e anche un po’ meschine. La sua unità politica ne risulte­rebbe monca. E la sua credibi­lità irreversibilmente intacca­ta.

Ovviamente la linea italiana sui respingimenti può essere discussa, contrastata, persino ribaltata. Ma in modo aperto e politicamente responsabile. Non con battute, nel caos sto­nato dei portavoce, e solo nel cuore di emergenze dramma­tiche, addirittura in modo se­lettivo. Con un convulso rin­corrersi di dichiarazioni che copre l’impotenza e l’incapaci­tà di onorare una condotta co­mune. Il deficit democratico dell’Europa può solo aggravar­si, in mancanza di una politi­ca coordinata sull’immigrazio­ne. Accentua l’impressione che gli egoismi di Stato preval­gano sull’interesse di tutti. Acuisce la percezione fru­strante che a Bruxelles e a Strasburgo ci si occupi di co­se astruse e non dei temi che allarmano l’opinione pubbli­ca. Indebolisce l’identità poli­tica dell’Europa, alimentando l’ostilità per una fragile costru­zione tenuta insieme dalla moneta e dalla burocrazia, ma non dal comune riconosci­mento di valori vincolanti per tutti. Non si trova una soluzio­ne con impuntature estempo­ranee, ma il tempo dell’indeci­sione europea non può essere infinito.

Pierluigi Battista
02 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Centro e alleanze confuse
Inserito da: Admin - Settembre 15, 2009, 10:28:24 am
Partiti e progetti

Centro e alleanze confuse

Forse è davvero un po’ prematuro intonare il requiem del bipolarismo. E comportarsi come se fossimo alla vigilia di un’implosione destinata a scardinare l’attuale schema maggioritario benedetto da un voto popolare solo un anno fa, o poco di più. La sindrome della «scossa» rende tutto più frettoloso e convulso. Nuove maggioranze non sono all’orizzonte, perlomeno non in tempi brevi.

Credere il contrario rischia di alimentare disegni velleitari, di intensificare imprudentemente la speranza di un’accelerazione che metta fine a una stagione in cui il ruolo del Centro, grande o piccolo che sia, appare fatalmente meno cruciale che nel passato. Il governo non è nella sua forma più smagliante. Nella maggioranza la compattezza sembra incrinata, minata dalla vigorosa spinta identitaria della Lega e dal duello che divide Berlusconi e Fini, i due principali azionisti di un partito battezzato soltanto sei mesi fa. Anche i rapporti tra il centrodestra e il Vaticano non godono della stessa, piena serenità degli anni scorsi. Perciò appare più che legittimo il nuovo e galvanizzato protagonismo di un centrista doc come Pier Ferdinando Casini e di Francesco Rutelli, espressione dell’anima più moderata, e più attenta alle istanze cattoliche, del Pd. La prospettiva delle elezioni regionali, poi, rende oltremodo decisiva la collocazione del mondo politico e culturale che gravita attorno all’Udc, determinante in molte regioni per la vittoria dell’uno o dell’altro schieramento. L’ingiunzione del «o di qua o di là», vissuta dai centristi quasi come un obbligo ricattatorio, appare sbiadita. Ma si stenta a capire quali sarebbero i connotati della «nuova maggioranza» evocata da Casini a Chianciano. Lo stesso leader dell’Udc ha detto di non volersi prestare a una logica da «santa alleanza» anti-berlusconiana. Ma i numeri sono testardi. E per raggiungere una maggioranza bisogna dire quali sono i fattori che dovrebbero concorrere alla sua formazione. Alternativa alla maggioranza attuale c’è solo la somma dell’Udc, del Pd, di Di Pietro, della sinistra estrema in tutte le sue cangianti articolazioni e di un’eventuale frazione scissionistica del Pdl. Altro non esiste e non può esistere: nella logica, nella matematica e nella politica. Se la «nuova maggioranza» dovesse maturare con questo Parlamento, sarebbe l’ennesima velleità ribaltonista che credevamo confinata nel passato meno onorevole di questo caotico quindicennio. Se invece si configura come un cartello elettorale in vista di (improbabili) elezioni anticipate, Casini avrebbe allora il dovere di dire se è proprio questa la coalizione che ha in mente e, nel caso affermativo, in che cosa allora dovrebbe differenziarsi dalla «santa alleanza» da lui stesso vituperata.

L’ipotesi centrista si fonda su premesse serie, ha una storia e una tradizione che non possono essere liquidate con supponenza e mancanza di rispetto. Ma, se sente di avere una sua attualità ha il dovere di essere chiara, di non generare il sospetto che la sua vaghezza sia l’anticamera di prospettive nebulose e, per così dire, «multifunzionali». Lo stesso Rutelli, che affida al finale non scritto di un suo libro in uscita il disvelamento del suo rapporto (finito?) con il Pd, non può pensare che le sue prossime mosse siano immerse in un’attesa simile a quella che si addensa sul nuovo giallo fanta-storico di Dan Brown. Ma la politica (e anche il Centro) sono diversi da un romanzo

Pierluigi Battista
15 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Dietro il voto per l'Unesco
Inserito da: Admin - Ottobre 03, 2009, 11:08:37 am
Dietro il voto per l'unesco

A Parigi sconfitta la realpolitik


Era assolutamente inattesa, fino a pochi giorni fa, l’elezione di Irina Gueorguieva Bokova alla direzione dell’Unesco. E ancor di più la cocente sconfitta di Farouk Hosni, sostenuto da uno schieramento internazionale cementato dalla realpolitik. Sembrava inattaccabile la candidatura al vertice di un organismo culturale dedito alla tolleranza e alla custodia dell’immenso patrimonio culturale dell’umanità di un uomo che voleva sistematicamente escludere gli israeliani (e persino gli «ebrei» tout court) da questo patrimonio comune. Le rivelazioni sulla sua biografia e sulle sue sistematiche dichiarazioni in odor di antisemitismo sembravano insufficienti a minare la compattezza di chi aveva sostenuto, accettato, o subìto obtorto collo, il nome di Hosni. E invece no.

Sarà perché la soglia dell’accettabilità era stata ampiamente oltrepassata, sarà per la resipiscenza di chi pensava si potesse sorvolare sulla smodatezza con cui Hosni aveva auspicato di «bruciare» personalmente i libri israeliani, fatto sta che la candidatura di una donna impegnata sul fronte dei diritti umani, sulla difesa della democrazia, sulla battaglia per l’eguaglianza tra i sessi, la bulgara Bokova, è apparsa più credibile, più adatta a quel ruolo così delicato e cruciale.

Ha perso l’arroganza di chi ha voluto imporre un candidato dalla biografia impresentabile. Ha perso l’acquiescenza dei governi occidentali (compreso quello italiano) convinti, puntando sul nome sbagliato, di aprire una porta di dialogo con il mondo arabo. Ha perso la stessa ragion di Stato israeliana, alla ricerca di un buon rapporto con l’Egitto di Mubarak fino al punto di assecondare la scelta di un uomo che ha ripetutamente tuonato contro l’eccesso di influenza «ebraica» sul sistema mondiale dei media e ha favorito la diffusione nel mondo arabo dei famigerati «Protocolli dei savi anziani di Sion». Ha vinto la ragione sociale dell’Unesco, che non tollera discriminazioni, pratiche censorie e bavagli alla cultura libera.

Da Parigi arriva perciò una buona notizia. E si rafforza, finalmente, la convinzione che non si possa pronunciare qualunque nefandezza senza doverne pagare dazio. Ora a Irina Bokova la responsabilità di rappresentare non la diga per arginare il peggio, ma la scelta giusta nel posto giusto. La sua biografia, a differenza di quella di Hosni, induce all’ottimismo.

Pierluigi Battista

23 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Il regime che non c'è
Inserito da: Admin - Ottobre 09, 2009, 12:03:23 pm
Il regime che non c'è

In Italia non c’è il regime. Un regime non prevede una Cor­te Costituzionale che boccia una legge di fondamentale importanza per il primo ministro. Un regime non contempla un’articolazione di poteri e di contrappesi, la voce dell’opposizione che si fa sentire attraverso la televisione (pubblica), la protesta sociale di chi patisce gli effetti della crisi, la magistratura che, presumibilmente, è in procinto di rimettere in moto un’attività ibernata per il tempo in cui un Lodo faceva da scudo al premier.

Il regime non c’è, nei fatti. Ma aleggia il suo fantasma, ne­gli spiriti. In quelli di sinistra che non sanno vivere senza la sindrome emergenzialista di una cittadella democratica sul punto di essere espugnata dal tiranno. E in quelli di destra che intravedono in ogni criti­ca un colpo di mano, in ogni critica un complotto nell’om­bra, in ogni sentenza (sfavore­vole) la traccia di un cospirato­re che trama nell’ombra. È come se l’Italia bipolare fosse incapace di vivere sen­za il pericolo del Nemico alle porte. E sono più di quindici anni che quest’ossessione ap­pare dominante. Nella legisla­tura 2001-2006, anch’essa go­vernata da Berlusconi, la pau­ra del regime, anzi la certezza che un regime si fosse già im­posto, portò l’opposizione sulle barricate, ridiede fuoco a una passione politica spen­ta, fece da sottofondo psicolo­gico- politico a quella riedizio­ne quasi ciellenistica del­l’Unione che riportò provviso­riamente il centrosinistra al governo, ma con la fragile e caotica eterogeneità che ne determinò lo squagliamento. A destra la percezione di un leader provvisto di uno strabi­liante consenso elettorale, ma costretto a subire le mano­vre del Palazzo (stampa e ma­gistratura, istituzioni e persi­no il Quirinale) che lo vorreb­be disarcionare, è stata il car­burante di una visione mani­chea quasi impossibile da ab­bandonare. La paura del «re­gime berlusconiano» compat­ta e galvanizza i suoi avversa­ri depressi dalla sconfitta.

La paura del «regime della sini­stra » giustifica l’arroccamen­to del centrodestra nella sua fortezza, il clima di conflitto permanente, l’impossibilità (intravista il 25 aprile attra­verso l’immagine di Berlusco­ni con il fazzoletto partigiano al collo) di pacificarsi con l’Italia, pur minoritaria, che non l’ha votato. Il fantasma del regime è però un veleno che agisce in profondità. Incendia la lotta politica, ma intossicandola con un clima di sospetti incrociati, di guerra civile a bassa intensità, di reciproca e permanente delegittimazione. Non il regime, ma il caos, un ininterrotto comizio che seppellisce la normalità politica rinfocolando un forsennato spirito di fazione che è la deformazione caricaturale del bipolarismo. Il regime non c’è, ma il suo spettro può generare frutti ancora peggiori. Travolgere istituzioni. Alimentare una rissa interminabile tra le truppe contrapposte, ma incomprensibile agli italiani che non sono militanti ma seguono allibiti la politica dei blitz e degli agguati, delle urla e dei proclami stentorei che ci perseguita implacabile da quindici anni. Incapaci, una buona volta, di voltare pagina.

Pierluigi Battista

09 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Cacciare la teodem «aliena e nemica»?
Inserito da: Admin - Ottobre 16, 2009, 12:25:12 pm
L’analisi


Cacciare la teodem «aliena e nemica»?

Torna lo spettro del rito di purificazione

Il Pd e il rischio di mostrare un volto arcigno: ma i grandi partiti sono tenuti all’inclusività


L’espulsione da un partito non è come l’estrazione di un dente: uno strappo traumatico, e poi il dolore passa. Il dolore dell’espul­sione resta: tra i protagonisti, nel partito, ma anche nell’opinione pubblica. Specie se chi viene mes­so bruscamente alla porta non si è macchiato di particolari nefan­dezze, ma ha espresso soltanto un difforme convincimento su un tema ad alta temperatura eti­ca. Un’obiezione di coscienza, co­me emerge dal caso che coinvol­ge il Pd e Paola Binetti. Non è in discussione il merito delle posizioni della Binetti: nel merito lei potrebbe avere torto marcio, ma non è questo il pro­blema (principale). Il problema è che un partito orgoglioso di por­tare da due anni a questa parte un vento di novità si sta incatti­vendo sul dilemma se «cacciare» o tollerare obtorto collo una sua parlamentare che ha più volte manifestato la sua opinione dis­senziente dal partito sulle que­stioni «eticamente sensibili».

Il problema è il torrente di insulti e di invettive che sta sommergen­do la Binetti (nel caotico mondo dei blog addirittura con punte di volgarità sessista che superano di gran lunga la rozzezza maschi­lista di Berlusconi con Rosy Bin­di). Il problema è che la diversità della Binetti viene vissuta come un affronto, una provocazione vi­vente, come il boicottaggio di un’aliena, o addirittura di un’emissaria del nemico: e que­sto è uno spettro di un passato cupo che i responsabili del Pd do­vrebbero, ora sì, «cacciare» con una certa energia. Colpisce l’accorata sincerità con cui Paola Binetti ha confidato ad Aldo Cazzullo che la intervista­va per il Corriere che lei è una cat­tolica di centro che guarda a sini­stra, che per lei l’amore per la giu­stizia sociale costituisce un impe­dimento assoluto a un suo even­tuale passaggio con la destra, che per lei persino Casini è colpevole per essersi associato alla destra lungo quasi un quindicennio. I più agguerriti nemici della Binet­ti dicono che la sua colpa non è di aver manifestato un dissenso occasionale, ma di essersi costrui­ta un ruolo di antitesi permanen­te alla linea del partito. Però la Bi­netti rivendica il Pd come casa sua, e ribadisce che mai si sogne­rebbe di entrare nella casa della destra.

Se il Pd «caccia» dalla sua casa la Binetti, sancisce l’idea che il partito non può convivere con le posizioni che la parlamentare sostie­ne con incrollabile coerenza. La Binetti dovrebbe «abiurare»? O sottomettersi a una disciplina di partito che trasforma una casa in una caserma? Gli stessi esponenti del Pd che hanno agitato il vessillo del­l’espulsione (Franceschini, non Bersani) inorridirebbero, e a ra­gione, se nel Pdl qualcuno propo­nesse di «cacciare» Fini per il dis­senso che il presidente della Ca­mera sta manifestando proprio sui temi su cui è cresciuto il «ca­so Binetti». E non per un princi­pio (pur importantissimo) di tol­leranza. Ma perché i grandi parti­ti che aspirano alla rappresentan­za del 35-40 per cento non posso­no e non devono presentare il vol­to di un monolitismo politico e culturale insofferente di ogni di­versità e di ogni articolazione. Ac­cade dappertutto, non solo in Ita­lia. I repubblicani e i democratici negli Stati Uniti contengono cul­ture a volte in netto contrasto tra loro, sono politicamente variega­ti, multiformi, polifonici: il lin­guaggio dell’espulsione da loro è sconosciuto. Anche in Europa succede così, e persino i laburisti inglesi hanno dovuto affrontare situazioni in cui il dissenso «eti­co » era sul punto di mettere in crisi il governo: ma nessuno è sta­to «cacciato» dal partito. Naturalmente si può replicare che un partito è un’associazione volontaria che prevede regole di vita interna e che chi ne sta fuori non deve interferire in affari che non lo riguardano.

Ma questa in­differenza è possibile solo con partiti a forte caratura identita­ria, con partiti-setta che regala­no a se stessi una franchigia ex­tra- territoriale. Ma i grandi parti­ti che aspirano a governare gli ita­liani (e che addirittura, come nel caso del Pd, nascono essi stessi come una fusione di anime e di sensibilità diverse) sono tenuti a offrire di sé un’immagine acco­gliente e inclusiva, non insoffe­rente al dissenso su temi di accla­rata delicatezza etica. Se la Binet­ti dovesse essere accompagnata alla porta, sarebbe un pezzo, pic­colo, minoritario ma importante della società italiana di centrosi­nistra a essere considerato imme­ritevole di rappresentanza in quel partito. L’ansia di cacciare, espellere, buttare fuori si trasfor­ma in un rito di purificazione in cui il capro espiatorio viene sacri­ficato con un atto di imperio. È lecito sperare che il Pd non vo­glia assumere questo volto arci­gno e sospettoso, proprio all’ini­zio del suo cammino.

Pierluigi Battista

16 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Il prezioso esempio di Ilaria Cucchi Lo Stato la ringrazi...
Inserito da: Admin - Novembre 08, 2009, 05:19:16 pm
C'È l’atroce sospetto che qualcuno non stia dicendo la verità su una vicenda allarmante

Il prezioso esempio di Ilaria Cucchi Lo Stato la ringrazi, e spieghi

Una cittadina esemplare che non ha esitato a esprimere il proprio rincrescimento per gli atti di violenza che hanno mac­chiato a Roma una manifesta­zione, sacrosanta


Roma

Lo Stato deve a Ilaria, la sorella di Stefano Cucchi, una spiegazio­ne.

Una spiegazione perché la morte del fratello è ancora avvolta nel mistero e la famiglia e l’opinione pubblica vivono an­cora nell’atroce sospetto che qualcuno non stia dicendo la verità su una vicenda allarmante. Un ringraziamento per la di­gnità di una donna profondamente ferita nei suoi affetti, una cittadina esemplare che non ha esitato a esprimere il proprio rincrescimento per gli atti di violenza che ieri hanno mac­chiato a Roma una manifesta­zione, sacrosanta e legittima, a favore della verità. Il lancio di bottiglie, i casso­netti rovesciati, i fazzoletti che coprono i volti di chi vuole tra­sformare una dimostrazione in un’occasione di guerriglia, tutto questo Ilaria Cucchi non lo conside­ra un gesto di solidarietà, ma un «gesto sconsiderato». Riti violenti che non han­no niente da condividere con l’impegno di una famiglia, ma a questo punto di tut­ta una comunità nazionale, tenuta al­l’oscuro sulla sorte del proprio figlio arre­stato non in una feroce dittatura, ma in una democrazia che non prevede la tortu­ra, il pestaggio, la sopraffazione su chi vie­ne fermato in possesso di sostanze stupe­facenti. È stata la famiglia di Stefano Cuc­chi a rompere il muro di omertà. Sono sta­ti loro a diffondere le foto agghiaccianti di Stefano. Lo Stato ha risposto in modo contraddittorio, non fornendo una rispo­sta convincente, ma anzi ufficializzando una ricostruzione piena di lacune e di pun­ti oscuri.

La famiglia Cucchi ha tenuto du­ro. Ma appare ancor più istruttiva la lezio­ne di Ilaria Cucchi che si rivolge ai manife­stanti per dissuaderli da gesti inutili, cari­chi di una violenza dannosa anche per chi non sopporta che nelle carceri italiane un ragazzo possa mori­re senza capire ancora perché, in quali circostanze, con quali responsabilità. Quello di Ilaria Cucchi è un esempio raro: anche per que­sto lo Stato le deve delle scu­se, delle spiegazioni e dei rin­graziamenti. Marcare un confi­ne netto tra la solidarietà, la denuncia, l’in­dignazione civile e la pratica della violen­za costituisce una prova non solo della se­rietà di una famiglia che vuole sapere co­me sono andate le cose. Ma anche della solidità culturale di una battaglia che non può essere ridotta a pretesto di un attacco cieco allo Stato in quanto tale. Questa è la lezione di Ilaria Cucchi. È bene che lo Sta­to se ne accorga.

Pierluigi Battista
08 novembre 2009
© RIPRODUZIONE RISERVATA
 


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Tutti zitti sulle lezioni di Gheddafi (a noi che ci frega).
Inserito da: Admin - Novembre 18, 2009, 04:30:27 pm
Riservate solo a ragazze belle e taglia 42. E nessuno lancia petizioni

Tutti zitti sulle «lezioni» di Gheddafi

Ragazze come gingilli da esibire al cospetto del satrapo in visita ufficiale


Un paio di domande su donne e potere. La prima: perché una ragazza non av­venente o di statura infe­riore al metro e 70 deve es­sere esclusa, e solo a causa di queste presunte «man­chevolezze» fisiche, dagli insegnamenti religiosi im­partiti dal colonnello Ghed­dafi nel suo tour romano? La seconda: si ha per ca­so notizia di qualche peti­zione, di qualche protesta, di qualche indignata consi­derazione che voglia stig­matizzare questa palese of­fesa alla dignità delle don­ne, ragazze come gingilli da esibire al cospetto del satrapo in visita ufficiale?

Le prescrizioni di Gheddafi sono state molto precise. I suoi collaboratori doveva­no contattare circa duecento ragazze attra­verso un sito specializzato per il reperi­mento di hostess da retribuire con una ses­santina di euro (tra l’altro: non esiste un sindacato delle hostess?). Il canone fissato prevedeva che le ragazze fossero di bel­l’aspetto, possibilmente bionde. Che dal metro e sessantanove centimetri in giù di statura sarebbe scattato implacabile l’ostra­cismo. Che fossero vestite di nero, vietate minigonne e scollature, il tacco di almeno sette centimetri, e la taglia, inderogabil­mente, 42. Solo a queste condizioni le ra­gazze sarebbero state meritevoli delle le­zioni di Gheddafi sul Corano e sensibili al­le istruzioni del Libretto Verde, distribuito come cadeaux dopo un paio di notti di in­fervorate diatribe religiose innaffiate, rac­contano le cronache, da dosi massicce di cappuccino.

Dicono inoltre le cronache che una ra­gazza è stata allontanata, perché giudicata troppo bassa e un’altra esortata a lasciare la compagnia (sarebbe meglio dire l’im­provvisato simulacro di un harem?) per­ché non del tutto compatibile con i canoni ideali della bellezza secondo il colonnello Gheddafi: in altre parole, perché bruttina. Ma c’è qualcosa di più feroce di un’esclu­sione dovuta esclusivamente per cause, per così dire, fisiche? Mica quelle ragazze erano state selezionate per un concorso di bellezza, o per il casting di una trasmissio­ne televisiva, o per allietare un evento mondano. No, erano state scelte per ascol­tare la parola di Gheddafi sull’Islam, sul crocifisso, sulle profezie, sulla virtù, sulla conversione. E allora che c’entrano la ta­glia 42 e il tacco di almeno sette centime­tri? Ma se non c’entrano, come mai si è im­provvisamente inaridito il fiume di discor­si e petizioni che in questi mesi si è impo­sto sulla degradazione del corpo delle don­ne, sulle ragazze ridotte e umiliate a stru­mento per allietare le serate dei sultani, al­l’imposizione di un canone convenzionale di bellezza che mortifica l’intelligenza del­le donne, che trasforma le ragazze in oche e veline sottomesse ai capricci dei potenti? E invece adesso c’è il silenzio. Il silenzio as­soluto.

L’imbarazzo ufficiale per le stravaganze di un sultano con cui è obbligatorio (e con­veniente) conservare eccellenti rapporti bi­laterali.
L’imbarazzo civile di chi centellina con un po’ di cinismo (o di malafede?) la propria indignazione, azionandola solo in qualche occasione, imbavagliandola quan­do il bersaglio non è il solito Nemico di cui è persino superfluo fare il nome. Una festa dell’ipocrisia in cui a farne le spese sono un gruppo di ragazze ammassate su un tor­pedone. Taglia 42, tacco di sette centime­tri, abitino nero per regalare al colonnello la soddisfazione di una bella lezione di reli­gione.

Pierluigi Battista

18 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Il rito stanco dell'onda
Inserito da: Admin - Novembre 20, 2009, 10:37:58 pm
 SCUOLA, LE OCCUPAZIONI CONTESTATE


Il rito stanco dell'onda

Forse qualcosa sta cambiando, nella liturgia d’autun­no che ogni anno si inscena nelle scuole ita­liane. Gli studenti sembra­no disamorati (al momen­to) di cortei e «okkupazio­ni ». Un gruppo di profes­sori si barrica in un liceo romano dopo aver appre­so da un tam tam di Face­book che un gruppo di studenti si stava preparan­do a occupare l’istituto. Si profila persino la minac­cia del 5 in condotta: ar­ma spuntata se ad esser­ne colpiti fossero i grandi numeri; un deterrente mi­naccioso se il movimento dovesse trascinare solo gruppi sparuti.

Qualcuno sostiene che l’Onda è rifluita. Si avver­te una stanchezza, una sa­turazione per forme di mobilitazione sempre uguali, sempre scritte sul­lo stesso copione, sem­pre più rituali, stucchevo­li, ripetitive. Un anno fa il gesto di fierezza dei pro­fessori romani sarebbe stato inimmaginabile. C’erano certo le proposte del ministro Gelmini a ca­talizzare malcontento e spirito di protesta. Ma già allora, dopo la fiammata che sembrò incendiare le scuole di tutta Italia, si era insinuato il dubbio che l’Onda fosse, a parte marginali ritocchi di im­magine, la riproposizione delle stesse dinamiche (stagionali, preferibilmen­te autunnali) coniate nel ’68 e dintorni e poi rical­cate con forme di lotta, coreografie, slogan e tic linguistici come se nel frattempo non fossero tra­scorsi oramai tanti lustri. Vale la pena di mobilitar­si con obiettivi vaghi e confusi, sapendo che tan­to alla fine, passata l’eb­brezza del movimento, il colore delle manifestazio­ni, il calore della comuni­tà, tutto resterà esatta­mente come prima?

Perché, poi, ragioni per protestare ce ne sareb­bero.

Ci sarebbe il furto del futuro che avvilisce le nuove generazioni. Ci sa­rebbe la frustrazione di una scuola che non regge gli standard qualitativi de­gli altri paesi europei. Ci sarebbe una generale mancanza di senso e di si­gnificato che mortifica la scuola e chi ci lavora, a co­minciare dagli insegnan­ti, e chi si sta formando in condizioni quasi sem­pre drammaticamente sfavorevoli. Ma è il rito che appare esausto. È l’usura degli slogan che frena ogni passione. Su­bentra il disincanto, che è cosa diversa (e peggio­re) della pace. La rasse­gnazione. La rinuncia. La successione di cortei e «okkupazioni» appare quasi una vacanza ma­scherata, un modo per sentirsi presenti e parteci­pi. Ma la mancanza di obiettivi credibili genera frustrazione, scontento, apatia.

La cosa peggiore sareb­be che la politica e gli in­segnanti si abbandonasse­ro a un rancore contro un movimento oramai debo­le e sfibrato, a un appello all’ordine destinato a spe­gnere ogni residuo barlu­me di «movimento». È proprio quando molti stu­denti si accorgono del vi­colo cieco in cui sono fini­ti a causa degli stanchi ri­ti degli anni passati che ci sarebbe bisogno di una politica saggia, che non alimenti il senso di scon­fitta e non appaia ritorsi­va verso chi comunque esprime un disagio da non sottovalutare.

Le on­de studentesche rifluisco­no, le vecchie liturgie si appannano.

Ma resta da ricostruire un senso della scuola in cui gli studenti possano sentirsi parte de­cisiva e centrale. Non sarà facile, ma non avrà il sa­pore di antico di mobilita­zioni oramai trite. Che ca­dono ogni autunno, co­me le foglie.


Pierluigi Battista

20 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Pier Luigi BATTISTA La degenerazione violenta
Inserito da: Admin - Dicembre 14, 2009, 10:09:37 am
La degenerazione violenta

Un clima avvelenato


L’odio politico è un mostro che, scatenato, risulta molto difficile da domare. An­che se non è armato da un’ideologia sistematica (come accade con il terro­rismo vero e proprio), an­che se incendia una men­te isolata (e, a quanto sem­bra, malata) come è acca­duto con l’aggressione a Berlusconi ieri sera dietro il Duomo a Milano, l’odio politico si deposita come un veleno che intossica la discussione pubblica. Ri­duce l’avversario a un ber­saglio da annichilire. Da distruggere: in effigie, ma anche fisicamente.

Non è solo una questio­ne di toni esasperati. È l’idea che la lotta politica non contempli confini e contrappesi all’aggressivi­tà verbale. È la degradazio­ne dell’avversario a nemi­co da abbattere. Non la lot­ta politica, anche accesa, che assume le forme di una competizione leale tra schieramenti che si ri­conoscono reciprocamen­te legittimità. Ma la versio­ne primitiva della politica come simulacro della guerra civile. Questa ver­sione sta dominando la politica italiana con un crescendo di ostilità che sfiora la guerra antropolo­gica tra due Italie che si odiano, incapaci di parlar­si.

L’aggressione cruenta di ieri al premier è un frut­to di questa degenerazio­ne. Dovranno capirlo tut­ti: anche chi ha irriso agli appelli contro la militariz­zazione della politica co­me a una faccenda di bon ton, di galateo verbale. O addirittura di diserzione. No: si poteva capire benis­simo dove andasse a para­re la politica come scon­tro totale che equipara ogni moderazione a im­morale cedimento, o a spi­rito compromissorio. Ba­stava ragionare. Le parole con cui il Ca­po dello Stato ha commen­tato l’aggressione al presi­dente del Consiglio sono perciò rivolte contro chi volesse sposare un imba­razzato giustificazioni­smo (se n’è avuta eco nei primi commenti a caldo, decisamente infelici, di Di Pietro). Ma anche contro la minimizzazione dell’ag­guato a Berlusconi come la manifestazione patolo­gica di uno squilibrato so­litario: «all’americana» più che in sintonia con una tradizione italiana di violenza organizzata. In parte, beninteso, è anche così. Chi, come chi scrive, ieri era nella piazza del co­mizio e dell’agguato ha po­tuto intuire subito (consi­derato anche il profilo ca­ratteriale dell’aggressore) che non esiste un legame esplicito tra chi ha scaglia­to sulla faccia di Berlusco­ni un pericoloso oggetto contundente e il gruppo di fischiatori professiona­li che ha contestato l’inte­ro intervento del leader del Pdl.

Ma chi era presente al comizio di Berlusconi ha avuto nettissima la sensazione che chi lo contestava era animato da un’ostilità irriducibile, esasperata e assoluta nei confronti di un Nemico cui non si riconosceva nemmeno il diritto di parola. Inveivano contro la personificazione del Male più che contro il capo di un governo avversario. Si sentivano, anche loro, i portabandiera di una causa giusta quanto può esserlo la cacciata di un tiranno, non di un vincitore di libere elezioni democratiche. È questo il legame, psicologico e politico, che unisce e salda la violenza verbale e quella materiale. È la condivisione di una stessa atmosfera. E non è così pazzesco che ieri Internet sembrava un’arena scatenata e su Facebook un gruppo intitolato «Fanclub di Massimo Tartaglia» ha raggiunto in poche ore migliaia di adesioni.

Il confine tra la violenza verbale e quella materiale è sempre sottile, vulnerabilissimo. Ed è sconfortante che in un Paese che della violenza politica ha conosciuto i frutti più tragici faccia fatica a imporsi la consapevolezza che il linguaggio pubblico improntato all’odio, all’attacco forsennato contro la persona e non contro le idee, può sfociare in gesti sconsiderati sì, ma non privi di un retroterra, di un clima che ne alimenta la follia aggressiva e fa dell’aggressione fisica il culmine di una sfida che non prevede limiti e freni etico-politici. La violenza verbale non arma banalmente il violento che pensa di farsi giustizia da solo: il nesso non è così semplice e meccanico. Ma l’abitudine a trattare chi è contrario alle tue idee come un barbaro da eliminare con ogni mezzo fa del potenziale attentatore qualcuno che si sente nel flusso della storia, che si ammanta delle vesti nobili del vendicatore talmente audace da non fermarsi nemmeno di fronte alla prospettiva di avventarsi contro il nemico che personifica il Male.

Ora questo clima, raggiunto l’apice con i fatti di Milano, deve essere raffreddato e superato. Non per abolire la lotta politica, ci mancherebbe altro, ma per fermarne la degenerazione rissosa, violenta, brutale, profondamente antidemocratica e illiberale. Il che richiede lo sforzo congiunto di tutti: di tutti, nessuno escluso. E l’impegno, oramai da mesi reclamato dal «Corriere», al rispetto reciproco e in primis al rispetto delle istituzioni e degli uomini che le rappresentano. In un passaggio difficile e inedito della nostra vita nazionale. Per superare il quale, l’Italia dovrà mostrarsi molto più matura di quanto non sia apparso fino a ieri.

Pierluigi Battista

14 dicembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Un eccesso di sicurezza
Inserito da: Admin - Gennaio 28, 2010, 08:49:00 pm
Un eccesso di sicurezza

La Puglia, terra di falliti laboratori di alleanze e di sorprese politiche che rilanciano un inedito plebiscitarismo di sinistra, potrebbe rappresentare anche il boccone più amaro per il Pdl. L'ennesima prova che chi in conclave entra papa può uscirne cardinale. Che la troppa sicurezza e la sottovalutazione dell'avversario possono dare alla testa e suggerire le mosse più sbagliate.

La spaccatura del centrodestra in Puglia può diventare il regalo più grande per Nichi Vendola, ancora inebriato dall'apoteosi delle primarie. Candidare un fedelissimo, Rocco Palese, alla presidenza della Regione risulta come una smagliante gratificazione per il maggiorente Raffaele Fitto che lo ha intronizzato con atto d'imperio, ma chiude la porta a una fetta importante dell'area moderata della Puglia. Fa prevalere una ferrea logica di partito su quella, più aperta, di coalizione. Premia la carriera dei funzionari, a scapito della loro rappresentatività. Cullandosi sulle disavventure degli avversari, compiacendosi delle sue convulsioni e dello spirito caotico con cui il centrosinistra è andato alla conta sconfessando il proprio gruppo dirigente, il centrodestra si è rilassato, scartando candidati che si sottraessero a una logica di apparato, mortificando Adriana Poli Bortone, lasciando a secco il magistrato Dambruoso, alzando un ponte levatoio per umiliare l'Udc. Troppa sicumera. Troppa disinvoltura.

Ma da qui al giorno delle elezioni, tra due mesi, possono succedere tante cose: due mesi fa Vendola, per dire, sembrava già aver imboccato precocemente il viale del tramonto politico. Se la Puglia doveva essere uno dei simboli del trionfo berlusconiano, con la scelta compiuta è meglio aspettare prima di esibire anzitempo il vessillo della vittoria.

La vicenda pugliese, del resto, riflette ed amplifica una sindrome della vittoria sicura che ha sinora condizionato oltremodo la linea del centrodestra nazionale. L'entità delle concessioni all'alleato leghista è tale da rischiare il fallimento della riconquista in Piemonte, sacrificata sull’altare di un candidato della Lega, Roberto Cota, persona moderata ma non tanto da impedire il rigetto di un elettorato moderato piemontese refrattario al lessico del Carroccio. In Campania il Pdl sente come un obiettivo già raggiunto lo sfaldamento del potere del centrosinistra: una prospettiva plausibile, ma non una certezza acquisita. Nel Lazio la figura di Emma Bonino può calamitare consensi anche nel centrodestra, che pure con Renata Polverini ha trovato una candidata di forte personalità.

Lo sbandamento del Pd, la sua interminabile afasia, inducono il partito di Berlusconi a considerare la partita già largamente vinta, come la scelta pugliese sta ad indicare in modo inequivocabile. Ma è sbagliato, e fonte di sicure delusioni, vivere questa stagione come un’ininterrotta sequenza di vittorie. I due mesi di campagna elettorale non saranno inutili. E nel modo con cui la coalizione del centrodestra saprà condurla si misurerà la maturità di un partito che tende ad adagiarsi troppo spesso sulle macroscopiche debolezze dell'avversario. L'andirivieni sulle proposte di riduzione fiscale, per esempio, potrebbe anche stordire un elettorato che, dopo due anni di governo, pretende a ragione risultati e prospettive certe. La scelta pugliese non sembra dettata da questa consapevolezza e da questa urgenza.

Pierluigi Battista
27 gennaio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Il Cavaliere solitario
Inserito da: Admin - Marzo 12, 2010, 10:15:55 am
ELEZIONI REGIONALI

Il Cavaliere solitario

Silvio Berlusconi ha un vero, grande nemico in questa campagna elettorale: lo scoramento del suo popolo. Un misto di disincanto e di rassegnazione che, se pure non si traduce nella scelta dello schieramento avversario, alimenta una fortissima tentazione astensionista. L'ultimo sondaggio di Renato Mannheimer conferma che il Pdl, sebbene non se ne avvantaggino direttamente gli avversari, soffre gli effetti di una autosecessione silenziosa. La tendenza a disertare le urne, a sancire con il non-voto uno smarrimento che si traduce in disaffezione, disimpegno, delusione. È il fantasma del 2006 che impone al Berlusconi grintoso di queste ultime ore la scelta dell'ennesima corsa solitaria anche a costo di lanciare accuse non provate e parlare di complotti.

Uno contro tutti, come sempre da sedici anni a questa parte. Contro i nemici. Ma anche contro i suoi seguaci troppo fragili e inconcludenti, quando sono orfani di un Capo capace di rimediare ai loro guai. L'immagine simbolo del 2006 è racchiusa nella performance che rimise un Berlusconi già sconfitto al centro della scena. Berlusconi veniva dato per politicamente spacciato, ma gli squilli di Vicenza trasmisero una travolgente corrente d'energia nel suo elettorato. Se il leader del centrodestra rimontò da una condizione di abissale svantaggio nei sondaggi e arrivò a un passo (solo una manciata di voti di differenza) da un trionfo clamoroso, fu perché a Vicenza si mostrò capace di richiamare sul campo di battaglia il suo esercito astensionista.

Rese evidente una legge costante di questa nevrotica Seconda Repubblica: si vince solo se si trascina ai seggi il popolo riluttante che esprime con la minaccia dell’astensione la propria disillusione. Nel 2001 il centrosinistra perse perché molti dei suoi, scontenti e sconcertati, disertarono le urne. Nel 2006 Berlusconi sfiorò una vittoria che sembrava impossibile perché nel rush finale toccò le corde giuste per mobilitare un elettorato stanco e depresso. L'astensionismo è l'arma più micidiale in una democrazia in cui sono rari i passaggi espliciti da un campo a quello opposto. Già Albert O. Hirshmann aveva i d e n t i f i c a t o nell'«uscita» del proprio elettorato, nella tentazione di ritirarsi e di abbandonare a se stessa una leadership deludente. Il nuovo protagonismo di Berlusconi ha lo scopo di tamponare l'emorragia delle «uscite», ma anche le manchevolezze di un partito impacciato e afasico. Uno contro tutti, ancora una volta.

Ma i modi con cui il Pdl (il cui più che precario stato di salute è stato diagnosticato su queste colonne da Ernesto Galli della Loggia) ha dilapidato in pochi mesi una condizione di vantaggio che sembrava inattaccabile, dimostra che nella solitudine di Berlusconi si rispecchia il vuoto del suo partito nato appena un anno fa. Nell’«uno contro tutti» solitamente Berlusconi ritrova il suo terreno favorito, il che dovrebbe sconsigliare il Pd dall'imboccare la strada dell' «unione sacra» antiberlusconiana in cui rischia di farsi risucchiare. Ma ritrova anche la debolezza di una «sua» classe dirigente che, lasciata a se stessa, non è in grado di rappresentare autonomamente un punto di riferimento per l'elettorato. E di fronteggiare con convinzione il fantasma dell'astensione.

Pierluigi Battista

12 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Le parole dei vescovi
Inserito da: Admin - Marzo 24, 2010, 08:33:27 am
Le parole dei vescovi


Alla Chiesa cattolica, e anche alla Conferenza episcopale italiana, non si può negare la facoltà e anzi il dovere di difendere valori da essa considerati irrinunciabili. Troppo spesso, invece, si intima al mondo cattolico l’obbligo del silenzio e dell’acquiescenza rassegnata. O la consegna di confinare in uno spazio invisibile e interiore, lontano dalla sfera della discussione pubblica, l’affermazione di principi dettati dalla fede. Con l’appello pre-elettorale contro l’aborto del presidente della Cei Angelo Bagnasco non potevano mancare perciò le lamentazioni rituali sull’indebita «interferenza» vaticana nelle cose italiane. Ma anche la Chiesa, al netto dell'altrettanto rituale deplorazione degli attacchi «laicisti», non può ignorare il segno che i tempi, i modi, i bersagli e le forme dell’intervento anti- aborto inevitabilmente deposita nel dibattito politico alla vigilia del voto regionale.

I tempi, innanzitutto. Se a tre giorni dalle elezioni regionali viene data eccezionale enfasi a un tema che fino a pochi giorni prima non risultava in cima alle preoccupazioni anche politiche della Chiesa italiana, è fatale che si insinui il sospetto di una sin troppo palese strumentalità politica. La scelta dei vescovi italiani di affiancare successivamente il tema del lavoro a quello dell’aborto, del resto, è il segno che questo sospetto non ha lasciato insensibile nemmeno il mondo vaticano.

L’intervento della Cei voleva sottolineare che l’aborto non è merce di scambio politico, e che, per via della sua non negoziabilità, non è sottoposto alle stesse procedure di mediazione che caratterizzano la dialettica politica vera e propria. Ma la scelta di inserire un tema non negoziabile nei giorni precedenti alle elezioni mescola due ordini di problemi completamente diversi tra loro, confonde l’«assoluto» dei valori non negoziabili con il «relativo» di una normale competizione politica. Suggerisce l’idea che la prevalenza di un candidato anziché di un altro porterebbe a un aumento degli aborti, anche se il tema dell’aborto (pur legato alla sanità di cui le Regioni sono parte determinante) non è contemplato nell’agenda di tutti, ma proprio di tutti i candidati ai vertici delle istituzioni regionali, siano di centrodestra o di centrosinistra.

I modi comunicativi dell’intervento, inoltre, producono inevitabilmente un effetto di divisione nel mondo dei fedeli. Costringono i cattolici che fossero intenzionati a votare Emma Bonino o Mercedes Bresso a sentirsi in conflitto con la propria Chiesa, anche se le ragioni del loro voto prescindono totalmente dall’atteggiamento di quei candidati nei confronti dell’aborto.

Politicizzano una scelta religiosa e un valore morale che dovrebbero riguardare tutti e non solo chi segue le istruzioni elettorali dei vescovi. Permettono infine solo a una parte politica di identificarsi con quei valori, escludendo l’altra metà o confinandola in una scelta, per chi è orgoglioso di appartenere al mondo cattolico, per forza di cose vissuta con senso di colpa e imbarazzo etico. Ma votare con il senso di colpa non è mai un sintomo di salute per le democrazie.

Pierluigi Battista

24 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Il trauma e il coraggio
Inserito da: Admin - Marzo 27, 2010, 11:03:54 pm
Il trauma e il coraggio


La Chiesa di Roma sta vivendo forse il momento più difficile del pontificato di Benedetto XVI. Nella sua accorata Lettera pastorale ai cattolici d’Irlanda papa Ratzinger aveva affrontato con ammirevole coraggio la «vergogna» e il «senso di tradimento» per i sacerdoti che hanno commesso abusi sessuali nei confronti di giovani e bambini. Ma una valanga di accuse, dalla Germania e adesso dal New York Times fino all’inedita e traumatica scena del volantinaggio antipedofilia fin sotto le finestre di San Pietro, ha scaraventato sull’immagine del Vaticano un marchio infamante. Tra i due eventi c’è una connessione evidente: quanto più la Chiesa scommette sulla trasparenza e ha l’audacia di genuflettersi nel mea culpa, tanto più si spalancano i varchi per la riemersione del rimosso, per la fuoruscita pubblica di casi finora sepolti nelle catacombe dell’oblio.

Il ritmo delle rivelazioni si sta facendo troppo tambureggiante per non alimentare i sospetti di una crociata contro una Chiesa descritta come un ricettacolo di pedofili. E il reiterato tentativo di coinvolgere la stessa figura di Joseph Ratzinger in questa triste e imbarazzante storia dei cattolici di tutto il mondo sembra troppo corale e insistito per non ravvisare un’atmosfera di ostilità dichiarata nei confronti dell’attuale Pontefice: dello stesso Pontefice (ecco il paradosso) che nella sua Lettera agli irlandesi non ha nascosto l’auspicio secondo il quale i sacerdoti coinvolti negli abusi rispondano dei loro atti davanti a Dio ma anche nei «tribunali» della giustizia terrena. Ma è naturale che i nemici del Papa e della Chiesa romana approfittino del troppo prolungato silenzio, della troppo tollerata omertà con cui nei decenni passati le autorità ecclesiastiche hanno soffocato lo scandalo di sacerdoti colpevoli di aver tradito la fiducia di tanti ragazzi e tante famiglie. E in taluni casi, se sono vere le circostanze denunciate dal New York Times sulle decine di bambini sordomuti abusati dal reverendo Murphy, macchiandosi di un sovrappiù sconcertante di ignominia.

È il silenzio del passato, rotto con encomiabile forza morale da Benedetto XVI, a generare e alimentare le campagne ostili di oggi. E i fatti nascosti, quando sono scoperti, sono destinati a deflagrare con inaudita forza distruttiva. La scelta peggiore, per il mondo cattolico, sarebbe quello di gridare al complotto della «lobby laicista internazionale». Di rispondere agli attacchi con la tentazione di rinchiudersi in una fortezza assediata. Di non proseguire sulla stessa linea indicata da Ratzinger nella sua lettera all’Irlanda cattolica. Irrompono solo ora i ricordi di episodi che risalgono addirittura a molti decenni fa. Ma il passato riemerge con la violenza di una verità troppo a lungo insabbiata. Sarà compito e missione della Chiesa non nascondere più nulla, non farsi tentare dalla reticenza, ma vincere una delle battaglie più difficili con le armi della verità e della trasparenza, lungo la strada tracciata dallo stesso Benedetto XVI.

Pierluigi Battista

26 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Fuori la verità
Inserito da: Admin - Maggio 05, 2010, 11:01:52 am
Fuori la verità

Dimettendosi da ministro, Claudio Scajola ha dimostrato di avere sensibilità istituzionale. Di non voler coinvolgere il governo in una vicenda personale i cui contorni restano ancora enigmatici. E di aver capito che un ulteriore ritardo di questa scelta avrebbe sfidato lo sconcerto dell’opinione pubblica, stordita dalle rivelazioni sulle modalità molto, troppo particolari che hanno segnato la compravendita di una sua casa.

L’ex ministro Scajola avrà così modo di difendersi, come è suo inalienabile diritto, se e quando l’autorità giudiziaria dovesse metterlo formalmente sotto accusa. Ma dovrà anche fornire una versione univoca e convincente di quanto è realmente accaduto nel 2004. Univoca: perché dopo i primi giorni in cui Scajola ha perentoriamente negato alla radice di aver acquistato un appartamento avvalendosi dei 900 mila euro suddivisi in 80 assegni circolari forniti dal gruppo Anemone, adesso ammette che quel cospicuo versamento di denari ci può essere stato,ma a totale insaputa di chi ne avrebbe beneficiato. Convincente: perché gli italiani, popolo di proprietari di case acquistate con i sacrifici, le ansie e i sudori che tutti coloro che accendono un mutuo conoscono, comprendono perfettamente l’assoluta singolarità e anomalia di una compravendita finanziata con somme tanto considerevoli senza che l’acquirente neppure ne fosse a conoscenza.

I reati, in questo caso, c’entrano poco. Conta il fatto che in tutti i casi, che Scajola abbia torto o ragione, ci troveremmo di fronte a una vicenda grave e preoccupante. In un caso sarebbe davvero sorprendente scoprire che un politico di lungo corso, e avvezzo a ricoprire importanti incarichi istituzionali, sia così smemorato da dimenticare di aver ricevuto una somma tanto ragguardevole. O così sprovveduto da ignorarne addirittura l’esistenza, ritenendo in buona fede di aver pagato una cifra molto inferiore a quella effettivamente sborsata per acquistare una casa. O, ma speriamo davvero che le cose non stiano in questo modo, così bugiardo da negare reiteratamente persino l’evidenza delle testimonianze circostanziate e dei riscontri bancari che attestano l'uso di quei 900 mila euro. Nel caso opposto, e cioè nel caso in cui Claudio Scajola fosse stato vittima di un «trappolone» per incastrarlo, ci troveremmo di fronte (altro che «processo mediatico») a una così colossale e capillare macchinazione ai danni di un politico, da far dubitare davvero della tenuta della nostra salute democratica.

Questo groviglio intricatissimo deve essere sciolto al più presto. Dal ministro Scajola. Dalla magistratura che deve indagare con serenità ed equilibrio. Dalla classe politica che deve finalmente capire quanto sia importante non solo, come è ovvio, tenersi lontani dai reati ma anche attenersi a standard etici di comportamento che si tende con troppa faciloneria ad ignorare. Mettendo fine a quel senso di spensierata impunità che si tende ad esibire con troppa disinvoltura. E i sacri princìpi del garantismo, stavolta, davvero non c’entrano.

Pierluigi Battista

05 maggio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_maggio_05/fuori-la-verita-editoriale-pierluigi-battista_10e6e36a-5804-11df-b44b-00144f02aabe.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA PERCHE’ FINI NON ROMPE CON IL CAVALIERE
Inserito da: Admin - Giugno 10, 2010, 05:30:37 pm
PERCHE’ FINI NON ROMPE CON IL CAVALIERE

La rinuncia allo strappo


LA RINUNCIA ALLO STRAPPO Lo « strappo » di Gianfranco Fini dunque non è all’ordine del giorno. La sfida spettacolare lanciata del presidente della Camera in diretta tv nell’aprile scorso non sfocia in una separazione con il premier Berlusconi. L’iter della legge sulle intercettazioni ha conosciuto distinzioni, limature, emendamenti, alterazioni anche consistenti rispetto al progetto originario caldeggiato da Berlusconi, ma al momento decisivo il Pdl, in tutte le sue componenti, si stringe nell’accettazione del voto di fiducia. Soprattutto, Fini mette la pietra tombale su ogni vagheggiamento di disegno neo-centrista che lo possa vedere come co-protagonista. Il confine del centrodestra non verrà oltrepassato.

Questo non significa che il dissenso di Fini sarà riassorbito con facilità. Ma che la leadership di Berlusconi è una cornice che, al momento, non temerà di essere messa in discussione, per lo meno dal lato dell’ex leader di An. Fini, accortamente, lo aveva già detto: non siamo qui per scalzare la supremazia del premier. Ma ogni suo gesto manifestava insofferenza, ogni sua dichiarazione suonava come una contestazione permanente del modo berlusconiano di condurre il partito, la coalizione e il governo. L’insofferenza resta, ma con il ricompattamento sulle intercettazioni si trasmette al centrodestra, e soprattutto a chi fuori del centrodestra immaginava nuovi scenari dettati dall’affrancamento definitivo del numero due del Pdl, l’idea che la tensione voglia essere incanalata in un alveo non autodistruttivo. Non in acque tranquille, ma nemmeno tempestose fino alla tracimazione.

Un Berlusconi in difficoltà è paradossalmente lo scudo migliore per proteggerlo dai malumori di Fini. Una dolorosa manovra economica più subìta che promossa dal premier, per di più destinata a mostrare il marchio impresso dal «rivale» Giulio Tremonti, ha costituito per Fini, se non la ragione di una pace, almeno la condizione per un armistizio. Fini non può permettersi la caduta di Berlusconi che costituirebbe, nelle attuali condizioni, la caduta di tutto il centrodestra. Non può contendere realisticamente la leadership in una battaglia che lo vedrebbe sicuramente soccombente. Ha già ottenuto l’inosabile in un partito a base carismatica come il Pdl: l’accettazione di uno spazio di dissenso inconcepibile in una formazione a gestione così personalistica, per di più uscita vincente in tutte le ultime tornate elettorali.

Ma Fini non può pensare, e lo dimostra con il riallineamento degli ultimi giorni, che un dissenso portato alle estreme conseguenze possa sfociare in una conta drammatica da cui la coalizione ne uscirebbe semplicemente frantumata. Un’ autodissoluzione che il presidente della Camera, con truppe così esigue, non riuscirebbe ad arginare proponendosi come sponda ai malumori che pure serpeggiano nel Pdl. Perciò Fini cerca di ottenere il massimo (le modifiche apportate alla legge) ma finisce per accettare la disciplina del partito. Non sarà la fine di una tensione che avrà mille occasioni quotidiane per manifestarsi. Ma sarà lo sbiadirsi di ogni scenario di rottura. Lo strappo, almeno per ora, viene ricucito

Pierluigi Battista

10 giugno 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_giugno_10/battista_637cf8c6-7451-11df-b340-00144f02aabe.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA L’enigma Brancher
Inserito da: Admin - Giugno 27, 2010, 12:33:30 pm
ASCESA E NOMINA DI UN MINISTRO

L’enigma Brancher


La nomina di Aldo Brancher a ministro per l’Attuazione del federalismo è il nuovo, conturbante mistero politico italiano. È stato promosso con velocità fulminea, all’insaputa di tutti, imponendo un doppione creato dal nulla. Se ne sono mostrati sorpresi un ministro di primo piano (La Russa) e il capogruppo del Pdl al Senato (Gasparri). Bossi, il federalista per eccellenza e che per il federalismo ha una esplicita competenza di governo, ha accolto la notizia con una tale contrarietà da suggerirgli sul pratone di Pontida una pubblica e clamorosa sconfessione della scelta di Berlusconi. Perché tutta questa fretta? E che così impellente bisogno c’era di aggiungere il nome di Brancher a quelli della compagine ministeriale?

Mistero. Mistero politico. È misterioso che il presidente del Consiglio abbia deciso di appesantire un governo che si vantava di aver costruito snello, essenziale, senza quelle escrescenze correntizie su cui aveva penato il precedente governo Prodi. È misterioso che, in tempi di austerità finanziaria, si istituisca un nuovo ministero il cui costo viene approssimativamente valutato da Enrico Letta del Pd in un milione di euro: uno spreco.

È misterioso che, invece di nominare speditamente il ministro che da oltre un mese e mezzo dovrebbe prendere il posto di Claudio Scajola allo Sviluppo economico, cioè in un dicastero clou, si cincischi, si rinvii la decisione sine die e nel frattempo si aggiunga un ministero controverso, affiancandolo a uno che già esiste e il cui titolare, Umberto Bossi, lo considera una molesta interferenza. Siamo inoltre, l’ha notato Emma Bonino, al terzo ministero metodologico di stampo orwelliano (il «Ministero della Verità» di 1984), il cui compito dovrebbe essere quello di sorvegliare il lavoro degli altri colleghi: Rotondi e il ministero per l'Attuazione del programma, Calderoli e il ministero della Semplificazione e ora quello per l'Attuazione del federalismo. Uno spreco di competenze, uno sciupio. Senza nemmeno avvertire gli alleati, i ministri, gli esponenti di punta della stessa coalizione. Neanche la stampa. Nella più totale clandestinità. Ancora una volta: perché?

Anche i meno sospettosi, anche chi è più disponibile a rilasciare un credito all’attuale governo e chi ha appena ritenuto positive le ultime scelte, specialmente in economia, è costretto a immaginare che in tanta segretezza frettolosa molto abbia pesato il nome del nuovo ministro, Aldo Brancher, che potrebbe avvalersi, come tutti i ministri, delle nuove norme sul «legittimo impedimento » per procrastinare le vicende giudiziarie che lo riguardano. È un sospetto ingiusto, ma la singolarità della nomina di Brancher autorizza qualsiasi malevolenza. Nemmeno la spiegazione politica a favore della Lega, visti gli stretti rapporti tra Brancher e il movimento di Bossi, appare minimamente convincente.

Allora sarebbe il caso che i responsabili del governo spiegassero qualcosa di più. Mettessero a parte gli italiani di una scelta tanto estrosa. Altrimenti alimenterebbero ogni tipo di sospetto. Diano un significato politico a una decisione che sembra solo molto personalizzata. E di tutto abbiamo bisogno, tranne che di un governo ad personam.

Pierluigi Battista

22 giugno 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_giugno_22/battista-enigma-brancher_397ab49e-7dbd-11df-a575-00144f02aabe.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Il bivio del premier
Inserito da: Admin - Luglio 04, 2010, 09:25:20 am
Il bivio del premier


La debolezza del governo non è il frutto di un complotto o di un disegno finalizzato a scalzare Silvio Berlusconi. La sindrome dell’assedio è molto diffusa nel mondo più vicino al premier, ma indica un nemico immaginario per impedirsi di guardare la realtà. La realtà di una leadership palesemente in difficoltà. Con un Pdl lacerato, come si è visto plasticamente nel duello tra Gianfranco Fini e Sandro Bondi. Con la Lega che per la prima volta, conseguenza avvelenata del caso Brancher, sembra smentire l’infrangibile solidità dell’asse d’acciaio tra Bossi e Berlusconi. Con le Regioni del centrodestra in rivolta. Con la conduzione caotica e frenetica del ddl sulle intercettazioni. Non è un complotto: è la fotografia di una coalizione confusa e nevrotizzata.

Il malumore per le recenti osservazioni del Quirinale sui «punti critici» della legge della discordia ne è solo un sintomo, come pure lo sconsiderato attacco dell’onorevole Ghedini al capo dello Stato. Così come è evidente l’oscillare del premier tra due strade contrastanti per affrontare il dissenso oramai sempre più marcato di Fini: una conciliazione oppure il redde rationem, fino alla prevedibile scissione in un partito nato soltanto poco più di un anno fa. Che poi è lo specchio di un dilemma più profondo: sopravvivere per tre anni in uno stato di permanente conflittualità nella maggioranza oppure giocare la carta delle elezioni anticipate, in cerca di un plebiscito ancora più imponente di quello incassato nel 2008. I due dilemmi non sono identici, ma convergenti: se Berlusconi vorrà sfidare Fini sino alle estreme conseguenze, sarà difficile scommettere sulla stabilità di questo governo (e della stessa legislatura).

Ma se Berlusconi fosse tentato dalla via dello scontro, sarebbe costretto a spiegare agli italiani che gli hanno dato fiducia cosa non ha funzionato. Cosa gli ha impedito di governare con una certa stabilità avendo dalla sua numeri parlamentari mai goduti da nessun'altra maggioranza. Avendo un'opposizione debole e scoraggiata. Godendo dell'iniziale non ostilità di una parte importante del mondo economico, industriale, sindacale, culturale e persino di una parte della magistratura poco incline alle parole d'ordine dell'estremismo giudiziario.

Cosa non ha funzionato? Davvero, come ha raccontato Gian Antonio Stella su questo giornale, è tutta colpa di un presunto lavorio dei «poteri forti»? Davvero è colpa del presunto ostruzionismo protagonistico di Fini? La determinazione con cui questo governo ha saputo affrontare la crisi economica e finanziaria e alcune riforme importanti come il federalismo e l’università dimostra che, senza scuse e accuse di complotti, le cose positive sono alla sua portata. Ma dimostra anche che, anziché la linea dello scontro e della rottura, il bandolo della leadership può essere riafferrato affrontando le riforme liberali promesse oramai da più legislature. Con la prova dei fatti e non degli annunci. Dipende solo da loro.

Pierluigi Battista

03 luglio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_luglio_03/bivio-premier-editoriale-battista_36159dee-8661-11df-8332-00144f02aabe.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Dissenso e Provibiri
Inserito da: Admin - Luglio 26, 2010, 11:12:51 pm
Dissenso e Provibiri

Stupisce che un partito che porta la «libertà » nel suo nome si esprima con tanta disinvoltura con il linguaggio dell’espulsione, della radiazione, dell’epurazione. Il partito che caccia via chi dissente è leninista, non liberale. E la non sopportazione della diversità bollata come minaccia e sabotaggio della «giusta linea», è un pezzo del ventesimo secolo che si perpetua in quello nuovo. È la malattia delle oligarchie e delle burocrazie di partito. Una malattia, come usa dire, trasversale: che in questi giorni a sinistra invoca l’abiura di Umberto Veronesi e, a destra, la messa al bando del «finiano» Fabio Granata. Quello di Granata è un delitto di lesa maestà. Meglio: è un delitto d’opinione. Come tutte le opinioni, anche quella di Granata, per definizione, è controversa, discutibile, per di più non immune, a parere di chi scrive, da un certo morbo giustizialista che evidentemente in Italia alligna in tutti gli schieramenti. Ma è un’opinione liberamente espressa. E le opinioni liberamente espresse non dovrebbero ammettere il deferimento ai probiviri del partito, come invece si è imperiosamente intimato nei vertici del Pdl. Semmai i probiviri dovrebbero muoversi in presenza di comportamenti che possano confliggere con i princìpi dell’etica pubblica e con il rifiuto della commistione tra politica e affari. Ma il Pdl è, giustamente, un partito garantista. Non emette condanne sommarie per quegli esponenti del partito, da Cosentino a Verdini, coinvolti in un affaire di cui è difficilissimo scorgere un profilo penale e che comunque godono del diritto costituzionalmente tutelato alla presunzione d’innocenza. Suona perciò bizzarro e incoerente che al posto della prudenza sui comportamenti subentri l’intransigenza, la severità e finanche l’intolleranza quando si ha a che fare con le parole, i giudizi, le opinioni che in ogni partito democratico, a meno che non sia una setta chiusa e soffocante, dovrebbero avere libera circolazione. Nei panni di Berlusconi, leader carismatico e indiscusso del Pdl, ci si dovrebbe preoccupare più degli esercizi di dossieraggio slealmente praticati all’interno del partito per squalificare il rivale o il concorrente (caso Campania) che delle parole, anche ingenerose, manifestate da uno dei suoi dirigenti in odor di eresia. Prevale invece l’allarme per un dissenso dipinto come un complotto e dunque da amputare con ogni mezzo disciplinare. Si alimenta la tentazione della resa dei conti contro i «guastatori» di Fini. Ci si comporta come una fortezza assediata dove il nemico più insidioso è quello «interno », additato come il principale responsabile delle difficoltà in cui versa il partito (e il governo). La sindrome dell’accerchiamento trascina sempre con sé l’invocazione del giro di vite, l’illusione che una stretta repressiva abbia un valore pedagogico e scongiuri la diffusione del dissenso. Ma è il frutto di un accecamento. L’attesa di una scorciatoia nasconde i problemi, senza risolverli. Trattare chi dissente come una molesta anomalia, un corpo estraneo da tagliare soddisfa un bisogno d’ordine. Ma non può essere la risposta liberale di un partito che, aspirando al 40 per cento dei voti, non può che contenere linee e opinioni diverse. Senza affidarsi alle sentenze dei probiviri.

Pierluigi Battista

26 luglio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_luglio_26/battista_dissenso_provibiri_881f51ea-9875-11df-a51e-00144f02aabe.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA ... gli alleati che non si sono mai amati
Inserito da: Admin - Luglio 31, 2010, 09:02:22 am
I protagonisti

L'imprenditore e il politico: gli alleati che non si sono mai amati

Due stili agli antipodi, un percorso comune durato oltre sedici anni


Berlusconi e Fini non si sono mai amati. Mai. Diversi, diversissimi per stile di vita. L’uno longilineo, l’altro non propriamente slanciato, fisicamente agli antipodi. L’imprenditore di successo contro il «politico di professione». La televisione contro la sezione. Nel Partito Fini ha compiuto la sua educazione sentimentale. Per Berlusconi i partiti hanno emanato sempre i miasmi del «teatrino della politica». La necessità, il calcolo e le bizzarrie della storia li hanno messi insieme. E il divorzio si compie in un paradossale rovesciamento di ruoli. Berlusconi diventa il sacerdote della supremazia del Partito, il custode della sua Disciplina che espelle, radia, scomunica, butta fuori dal recinto sacro. Fini il dissidente, l'uomo dell'apparato che si ribella all'apparato e prende su di sé l'anatema: fuori linea, indisciplinato. Sabotatore.

Non si sono mai amati. Hanno spesso litigato. Ma hanno convissuto onorando uno schema che appagava le reciproche convenienze. Lo schema era, per Berlusconi, l'inamovibilità gerarchica: lui era il numero uno, l'altro il numero due. Per Fini lo schema coincideva, cinicamente, con il destino anagrafico: giocare al numero due, confidando sull'ineluttabilità della successione. Quando lo schema si è rotto, l'antagonismo caratteriale dei due è esploso. La convivenza si è fatta tempestosa. Si è gonfiata a dismisura l'insopportazione reciproca. Che ha conosciuto numerose tappe, scene madri, frizioni, scontri, espressioni contrariate del volto. Ora che la rottura è consumata, quella sequenza di tensioni acquista un nuovo significato. Tutto diventa indizio di una frattura irreparabile. Come nei matrimoni. Ma questo non è mai stato un matrimonio d'amore. Berlusconi pensa di essere lui lo «sdoganatore» di Fini: per questo lo considera un ingrato. Pensa che con quel suo fatidico «se fossi romano voterei Fini» pronunciato nel novembre del 1993 alla vigilia del ballottaggio per il sindaco di Roma, lui abbia fatto uscire l'allora segretario del Msi dal ghetto infrequentabile del neofascismo per portarlo in una dimensione inimmaginabile fino ad allora. Gli eredi del fascismo, gli «esuli in Patria» scaraventati grazie al suo tocco magico nell'area di governo: ecco il suo capolavoro. Fini non l'ha mai pensata così. Ha sempre sostenuto che lo «sdoganamento» è stato promosso dagli elettori di Roma e di Napoli che avevano mandato al ballottaggio lui stesso e Alessandra Mussolini. Che a quel tempo il suo partito si chiamava ancora Movimento Sociale e non ancora Alleanza Nazionale. Che la fine dell'«arco costituzionale» della Seconda Repubblica era stata decretata nelle aule giudiziarie, non in uno studio Fininvest. Per dire: non sono stati d'accordo nemmeno sul significato delle origini, sul mito fondativo. Non proprio la base migliore per un matrimonio duraturo. Che però è durato. E neanche poco: più di sedici anni. Con burrasche e scenate, ma è durato.

È durato anche quando alla fine del 1995, dopo il ribaltone che estromise Berlusconi da Palazzo Chigi e il governo Dini che il Cavaliere visse come un tradimento, Fini decise di indossare i panni di quello che si sarebbe definito il «signor No» e di ostacolare il governissimo di Antonio Maccanico: le elezioni sarebbero state rimandate sine die, la candidatura di Prodi si sarebbe indebolita, chissà come sarebbero andate le cose dal '96 in poi. Berlusconi non gliel'ha mai perdonata. Poi il signor No sarebbe diventato proprio lui, Berlusconi. Decise di far saltare la Bicamerale proprio quando Fini si dimostrava favorevole al patto (detto anche «inciucio») con D'Alema. Ma i ruoli non si sarebbero più scambiati. Si imponeva lo schema, quello del numero uno e del numero due. Ma con dispetti, ritorsioni, screzi, gesti sgarbati. Quando nel 1999 Fini organizza a Verona la conferenza organizzativa di Alleanza Nazionale, propone un'operazione di restyling con una coccinella che sparirà dal simbolo con la stessa velocità con cui era entrata, cerca di rimarcare la sua autonomia politica e culturale dal potente alleato, Berlusconi il numero uno dello schieramento politico, nonché capo dell'impero editoriale della Mondadori, arriva con camion pieni di copie del «Libro nero del comunismo» che vengono distribuite ai delegati aennini. Fini non se ne rallegrò. Anzi, si infuriò. Proprio lui che si era fatto le ossa nel Movimento Sociale, proprio lui che aveva fatto dell'anticomunismo di piazza una bandiera e una scelta esistenziale, doveva sorbirsi adesso lezioni di anticomunismo? Anche Fini non gliel'ha mai perdonata.

E poi l'elefantino di Fini con Mariotto Segni alle Europee del '99. Una digressione, una scappatella, un'avventura (finita male). Ma il matrimonio, anche stavolta, non esplose. Finché non si arriva al quinquennio della legislatura berlusconiana tra il 2001 e il 2006. Fini accetta la vicepresidenza del Consiglio (numero due), il ministero degli Esteri nelle turbolenze internazionali post-11 settembre (sempre numero due). Ma il suo umore nei confronti del numero uno è stampato sul volto di disappunto, stupefazione, disperazione che Fini non fa finta di nascondere quando Berlusconi si produce, nell'aula del Parlamento europeo, nella clamorosa gaffe sul «Kapò». Fini il numero due, seduto, tira addirittura la giacca al numero uno, in piedi. Ma in quella scena si manifesta la lacerazione umana di un matrimonio di convenienza in cui i risentimenti reciproci, le insofferenze, la suscettibilità di entrambi acquistano una preponderanza sempre più evidente, sempre meno governabile. Il partito del «predellino», Berlusconi lo fa principalmente contro l'altro, il numero due, lo «sdoganato», Fini, ribattezzato addirittura il «parruccone». Lui, il parruccone sempre più detestato da Berlusconi, bolla la scena del predellino così: «Siamo alle comiche». Ma poi quel partito si farà. Fini lo subirà. Berlusconi lo imporrà. Incapace di concepire anche il sia pur minimo dissenso, il Capo sottolinea tutti i passaggi critici del discorso di Fini alla convention di fondazione del Popolo della Libertà con plateali cenni di assenso, seduto in prima fila, accanto a Elisabetta Tulliani nientemeno: come a dire che la grande famiglia non si sarebbe sciolta mai. E invece ieri sera si è sciolta, liquefatta. Il dissenso è ufficialmente bandito. Il monolitismo del Pdl è salvo. Il Partito mistico e sacro amputa l'infezione eretica e si sottomette alla volontà unica e insindacabile del Capo carismatico. Finisce una storia, un matrimonio. Una rivoluzione che doveva essere liberale e si consuma mimando le liturgie epuratrici dei partiti comunisti. Nasce l'epoca dei probiviri buttafuori. Nel «Libro nero» si chiamavano Commissioni Centrali di Controllo. Ma quello era il «teatrino della politica».

Pierluigi Battista

30 luglio 2010
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http://www.corriere.it/politica/10_luglio_30/battista_imprenditore_politico_8ba21f58-9b9c-11df-8a43-00144f02aabe.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA I Novelli Futuristi e un duello retorico su antichi fantasmi
Inserito da: Admin - Agosto 02, 2010, 09:20:26 am
Nomi e politica

I Novelli Futuristi e un duello retorico su antichi fantasmi


Di "futurista" in senso proprio, c'è forse solo il richiamo alle spavalde scazzottature che animavano le serate nei cabaret quando Filippo Tommaso Marinetti faceva deflagrare il suo esplosivo avanguardistico. Per il resto, appare un po' patetica, persino un pochino retrò e nostalgica (povero Marinetti), questa corsa a chi è più "futurista" nella bolgia scissionistica che accompagna il divorzio tra berlusconiani e finiani.

Il gruppo finiano si autobattezza «Futuro e libertà», ma non è che il futuro sia per definizione futurista, come ciò che è comune non fa il comunista, e un fascio non diventa di per sé sinonimo di fascista. E invece, «futurista» è la bandiera del «Secolo d'Italia» finiano. E gli antifiniani come Pietrangelo Buttafuoco esclamano: «Fini futurista? Ma mi facciano il piacere». E Giampaolo Pansa compiange il destino del «povero Futurista». E nel pensatoio «Fare Futuro», antemarcia per marchio e insegna, si suggerisce di un «manifesto del nuovo futurismo». In attesa di un nuovo Boccioni, o dell'immaginazione sfrenata di un Sant'Elia, o di un componimento in «parole libere». O di un proclama in cui si dichiari marinettianamente la guerra «sola igiene del mondo». O in attesa che audaci, dinamici e velocisti, quelli del gruppo parlamentare di «Futuro e libertà» realizzino il minaccioso intento futurista di ammazzare «il chiaro di luna» e di lasciar inghiottire la museale Venezia nei gorghi del passato asfissiante. In attesa di tutto questo, non è un bello spettacolo (né futurista, né passatista) questo mescolare così sfrontato di politica e letteratura. E se si lasciasse in pace il fantasma di Filippo Tommaso Marinetti?

Bisogna considerare infatti che attorno al «futurismo» un'ansia di «riabilitazione» si è addensata negli anni in cui la «destra» è stata sdoganata e portata alle glorie del governo nazionale. Una storia, quella «futurista», soffocata dalle spire dell'«egemonia culturale» di sinistra e antifascista che non avrebbe perdonato l'adesione al regime fascista di Marinetti. Mostre sul futurismo, fiction sul futurismo, libri sul futurismo letti e interpretati come riscatto, testimonianza che la «destra» in Italia ha avuto una grande cultura e una grande arte colpevolmente sottaciuta e sottovalutata. Ecco perché la disputa sulle spoglie del futurismo divampa così intensa tra chi, nel momento della scissione, attinge a un comune patrimonio simbolico e a personalità che testimonino la grandezza di una storia. Una storia che si spezza, ma comunque una grande storia. Ma immaginare che un redivivo Marinetti oggi possa optare tra chi ha rotto con Berlusconi e chi ha deciso di rimanergli fedele sembra un esercizio retorico questo sì, un pò passatista. Che poi si debba aderire a una poetica anziché a un programma di governo, soddisfa più un'esigenza di trovare illustri precursori che la volontà di fissare una linea politica. Meglio lasciare il futurismo ai manuali scolastici di storia dell'arte e della letteratura.

Pierluigi Battista

02 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_agosto_02/novelli-futuristi-battista_8a86dcb0-9e00-11df-a94c-00144f02aabe.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA La maggioranza evanescente
Inserito da: Admin - Agosto 04, 2010, 04:42:07 pm
L'analisi

La maggioranza evanescente


Non sarà il terzo polo, come si affannano a dire gli stessi protagonisti, ma il patto siglato sul «caso Caliendo» tra finiani, Udc, l’Api di Rutelli e il Mpa di Lombardo (un’ottantina almeno di voti parlamentari) spezza simbolicamente l’autosufficienza della maggioranza uscita dalle urne del 2008. I numeri dicono che la soglia dei 316 parlamentari necessari per sancire la maggioranza del governo alla Camera non si raggiunge senza l’apporto del nuovo «Futuro e Libertà» di Fini. Le scelte politiche dicono che una parte dell’attuale maggioranza subordina il proprio voto a un accordo preventivo con una parte della minoranza. Fini, appena estromesso con atto d’imperio dal Pdl, aveva avvisato che il voto favorevole dei nuovi «separati» sarebbe stato garantito solo sui provvedimenti in linea con il programma elettorale e nel patto con gli elettori. La sfrenata fantasia della terminologia politica italiana, prodiga di governi «tecnici», «balneari», e così via, rischia ora di essere costretta a partorire una nuova bizzarria: il governo «di volta in volta». Una maggioranza che a volte c’è, e altre volte no. Con una parte della maggioranza, i finiani, che di volta in volta preferisce accordarsi con una parte della minoranza, anziché con il resto della maggioranza schierata senza indugio con il premier.

Un pasticcio. Che forse si poteva evitare se Berlusconi, prima della clamorosa rottura con Fini, non avesse sottovalutato i numeri dell’avversario, facendosi orientare da consiglieri poco accorti, o poco avvezzi alle insidie del pallottoliere parlamentare. Ma ora che la frattura si è consumata, il premier non può dare l’impressione di barcamenarsi con la variabilità delle contingenze. Non può rassegnarsi alla filosofia paralizzante del «governo di volta in volta». Un’oscillazione che si riflette nelle dichiarazioni di Berlusconi negli ultimi giorni. Prima rassicura la sua maggioranza, ma anche i mercati internazionali e le istituzioni sovranazionali preoccupate per una nuova stagione di instabilità in Italia, di avere i numeri per governare secondo il mandato degli elettori. Poi paventa la possibilità che «incidenti » di percorso possano costringere il governo a gettare la spugna e a ricorrere alle elezioni anticipate. Le somiglianze con il precedente del governo Prodi, evocate per sottolineare l’analogia di governi retti su una base fragilissima e risicatissima di voti parlamentari, finiscono proprio qui. Perché per Prodi l’ipotesi delle elezioni rappresentava la morte politica del governo e del centrosinistra. Per Berlusconi, le elezioni possono essere invece la soluzione ricercata e desiderata, la prospettiva di una nuova vittoria autorizzata dalla debolezza dell’avversario e dalla confusione in cui versa l’attuale opposizione.

Il segretario del Pd Bersani ha aperto all'idea di un «governo di transizione» (a guida Tremonti, parrebbe di capire nonostante le rettifiche). Ma il vero dilemma che si pone a Berlusconi è puntare al voto anticipato, sfidando paure e perplessità internazionali e confidando sugli inevitabili «incidenti» che i finiani potrebbero provocare. Oppure accettare una navigazione entro i confini di questa legislatura. Ma la seconda opzione implicherebbe necessariamente se non una ricucitura con Fini, allo stato delle cose impossibile, per lo meno la definizione di un patto tra diversi, così come è avvenuto e continua ad avvenire tra il Pdl e la Lega. Quel che non può accadere è la maggioranza «di volta in volta»: sarebbe l'antefatto di una paralisi dell'azione di governo. Di un'incertezza che lascerebbe l'Italia senza guida e senza un orientamento stabile. Se Berlusconi vuole andare alle elezioni anticipate, sarebbe meglio una scelta chiara, dichiarata, esplicita, anziché subordinata alle occasioni che di volta in volta potrebbero provocarle. Se invece la sua intenzione fosse quella di non interrompere traumaticamente la legislatura, il riannodarsi di un minimo di collaborazione con Fini sarebbe obbligato. Mettendo da parte orgoglio e risentimenti, come del resto Berlusconi già ha fatto in passato proprio con Bossi e la Lega. Una scelta politica, e non l'attesa di un «incidente».

Pierluigi Battista

04 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_agosto_04/maggioranza-evanescente-editoriale_d6049556-9f86-11df-ad29-00144f02aabe.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Un codice contro il neo familismo
Inserito da: Admin - Agosto 10, 2010, 02:42:11 pm
PARENTI E POLITICA

Un codice contro il neo familismo

I politici promettano di non occuparsi di faccende che riguardino familiari e parenti fino al quinto grado


L'invettiva di André Gide «Famiglie, vi odio!», nella Prima e nella Seconda delle Repubbliche italiane potrebbe essere capovolta così: «Famiglia, ti amo (troppo)». Un amore appassionato. Che però, foriero di guai e apocalittici capitomboli, potrebbe riconvertirsi nuovamente in odio: causa per reputazioni macchiate, carriere rovinate. Percorsi interrotti, talvolta, nei casi più estremi.

Una cronaca politica gravata dalla presenza ingombrante di cognati, come il «Sig. Giancarlo Tulliani» indicato così gelidamente nella nota esplicativa del presidente della Camera. Ma anche, in modo sufficientemente bipartisan, di figli, figlie, mogli, ex mogli, seconde o terze mogli, suocere, generi, nuore, fratelli, sorelle, fratellastri, sorellastre, cugini, fidanzati, fidanzate, amanti, ex amanti che complica enormemente il quadro familiare tradizionale con le più moderne forme di famiglia allargata, multipla, doppia, tripla, di fatto. Il «familismo amorale» descritto oltre cinquant'anni fa da Edward C. Bansfield (prima la famiglia, poi lo Stato, soprattutto nel Sud: ma lì c'entrava la mafia), deve essere aggiornato. Non nel senso dell'«amorale». Ma in quello del «familismo»: a quale famiglia, esattamente, ci si riferisce? O meglio: da quale membro di quale famiglia, e con quale grado di parentela «naturale» o acquisita in corso d'opera, sta per arrivare la tegola che può colpire mortalmente una brillante posizione politica, scaraventata giù dal piedistallo o dall'empireo per una debolezza familista, un favore fatto in casa, una nomina cotta in cucina, un incarico ben remunerato maturato in un pranzo domenicale, prima di scartare il vassoio di quelle che a Roma si chiamavano «le pastarelle»?

I cognati, certo, oggetto di una ricca e puntuta letteratura e protagonisti misconosciuti nella storia del cinema (solitamente sordidi; nel caso delle cognate, invece, talvolta in versione familiar-pruriginosa). Manca, nella spiegazione di Gianfranco Fini, il dettaglio che spiegherebbe a che titolo «il Sig. Tulliani» fosse a conoscenza della casa di Montecarlo, e dunque di una parte del patrimonio del partito ereditato dalla contessa Colleoni. Ne hanno parlato a tavola, quasi casualmente in una conversazione libera e sciolta, rallegrata da cibo squisito e ottime bevande? Oppure l'informazione è stata acquisita in altro modo, onde avvertire gli acquirenti della società off-shore che poi, dopo una sequenza di compravendite, gratificheranno «il Sig. Tulliani» dell'affitto monegasco in casa ristrutturata? Interrogativo non secondario, ma il cui significato dovrebbe andare al di là del caso di Montecarlo per coinvolgere anche recenti storie di figli e mogli ed ex mogli che hanno avuto un notevole impatto politico?

Per esempio: il «Trota». Il figlio di Umberto Bossi, insomma, di cui le cronache fino a poco tempo fa si erano occupate per segnalarne il non smagliante rendimento scolastico e nelle ripetute prove di maturità e che oggi ritroviamo non solo eletto nelle liste del Carroccio, ma figura centrale nella gestione di delicatissimi dossier di portata europea come quelli sulle multe agli allevatori per le quote latte.

Del resto, per restare nell'attualità, tutta l'ondata di gossip e serate a Palazzo Grazioli che ha bersagliato il presidente del Consiglio non avrebbe certamente avuto l'eco che si è prodotta se la moglie Veronica, sull'orlo della rottura coniugale, non avesse denunciato l'esistenza di un «ciarpame». E già stavano cominciando a suonare le trombe delle interrogazioni parlamentari, appena si è appreso che nelle elezioni del Consiglio direttivo dell'Automobil Club di Milano, settore di pertinenza del ministro per il Turismo, Michela Brambilla, erano spuntati i nomi del presunto fidanzato del ministro ma ancor più quello di Geronimo La Russa il quale, a meno di un clamoroso caso di omonimia, risulta essere il figlio del ministro Ignazio. Senza considerare la generosità dell'onorevole Di Pietro, del cui cognato Gabriele Cimadoro tutto si sa, e del cui figlio Cristiano si conosce la certamente meritata discesa in campo nella politica molisana.

Visto poi che nelle vicende che riguardano la «cricca», anche lì è tutto un fiorire di figli da raccomandare, mogli intestatarie e cognati che dicono nefandezze al telefono a pochi minuti dal terremoto in Abruzzo, forse sarebbe il caso, a bocce ferme, di considerare l'abbozzo almeno di un codice di autoregolamentazione in cui i politici promettano di non occuparsi di faccende che riguardino familiari e parenti fino al quinto grado. Onde evitare equivoci e raggiri.
E mettere un punto fermo nell'ondata di neo-familismo che, comunque la si consideri, non è un bel vedere, né un contributo potente al decoro delle istituzioni. Un codice ingiusto, certo. Ma almeno rappresenterebbe un argine di emergenza e un criterio per contenere l'abuso familista che rischia di screditare l'intera politica italiana (prima o poi). Né odio, né amore, ma: «Famiglie, statemi a distanza di sicurezza!».

Pierluigi Battista

10 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_agosto_10/politici-famiglie-serve-codice-battista_471c54c8-a44a-11df-81a0-00144f02aabe.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Ostilità e retorica spericolata
Inserito da: Admin - Agosto 19, 2010, 09:31:28 am
Ostilità e retorica spericolata


È impressionante l’impasto di retorica, narcisismo e faziosità che si è condensato nei commenti e nelle reazioni pubbliche alla morte di Francesco Cossiga. Incapace di raccontare e giudicare uno dei suoi più illustri e controversi protagonisti, è come se l’Italia ufficiale (ma anche quella anarchica e tumultuosa che si muove nell’universo parallelo dei siti online) si fosse dimostrata incapace di raccontare e giudicare se stessa. Un diluvio di parole magniloquenti ha sommerso una figura che suscitava consensi, ma anche conflitti. Un rincorrersi di stereotipi ha appiattito e svilito, facendone un santino o un ritratto demoniaco, il ruolo che Cossiga ha incarnato per decenni. L’ennesima occasione perduta per riflettere su se stessi. Sorvolando sul coro incresciosamente protagonistico dei mille «mi disse», «mi svegliò», «mi confessò» (è spuntato anche, perla rara, un «seduti a tavola, mi guardò a lungo») che in Italia fiorisce contagiosamente all’indomani di una morte eccellente, si è celebrato il rito degli ammiccamenti, dei pregiudizi, degli arruolamenti postumi di un irregolare purissimo della politica italiana. La sua irregolarità fu ridotta in vita a una manifestazione di bizzarria e di incontrollata umoralità. E tale sembra rimasta anche post mortem, sebbene mitigata dal rispetto che si deve ai grandi della storia italiana che scompaiono. In compenso si è scatenata l’ostilità chiassosa e irriducibile di chi ha costruito attorno alla figura di Cossiga un alone di tenebre e di segreti inconfessabili. Come se Cossiga fosse nella migliore delle ipotesi il depositario omertoso dei misteri che hanno insanguinato l’Italia e, nella peggiore, il burattinaio di ogni stragismo, di ogni terrorismo, di ogni nefandezza compiuta nella storia repubblicana.

Un’ostilità che fa da contrappeso alle spericolate retoriche celebrative, recitate anche, anzi soprattutto, da chi in vita fu feroce avversario politico di Francesco Cossiga, fino a chiederne, ai tempi delle esternazioni e delle «picconate» dal Quirinale, l’«impeachment» e la messa sotto accusa per tradimento della Costituzione. È vero, succede spesso che quando se ne va un protagonista così ingombrante della scena pubblica, la commemorazione prenda il posto dell’analisi e della riflessione. Ma succede raramente con queste dimensioni e anche, spiace dirlo, con dosi così massicce di ipocrisia e doppiezza. Le cose aspre che Cossiga diceva sulla magistratura, sul sistema politico, sui partiti vecchi e nuovi, sulle ideologie che li hanno sorretti, sugli uomini e sulle donne che ne impersonavano il destino, e anche sul ruolo dei cristiani nella politica italiana sono state semplicemente cancellate nei commenti e nei discorsi pur commossi dopo la morte di quel politico anomalo, di quell’intellettuale irrequieto e, appunto, irregolare. Sono rimasti invece i pregiudizi e i luoghi comuni di chi è assolutamente convinto che Cossiga fosse una figura detestabile, destinata a portarsi nella tomba i segreti più conturbanti e destabilizzanti della storia italiana. L’omaggio formale e l’invettiva, la mummificazione precoce o l’odio verso un uomo e un politico che sapeva raccontare molte più verità dei suoi più felpati e prudenti colleghi: ancora una volta l’Italia ha mostrato il suo lato peggiore porgendo il suo ultimo saluto a Francesco Cossiga. Un patriota che però non amava il «coro» italiano e ha voluto lasciarci restando solo con il suo inno della Brigata Sassari.

Pierluigi Battista

19 agosto 2010
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http://www.corriere.it/editoriali/10_agosto_19/ostilita-e-retorica-spericolata-editoriale-pierluigi-battista_26cd3474-ab4f-11df-94af-00144f02aabe.shtml
 
       


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Conti con la realtà
Inserito da: Admin - Agosto 21, 2010, 03:56:31 pm
Conti con la realtà


Se la sigla solenne del «patto» richiesto da Berlusconi è la condizione per non andare al voto anticipato a dicembre, peraltro ventilato dallo stesso premier, con i risultati del vertice del Pdl è difficile che questa maggioranza di governo possa decomporsi a settembre.
I cinque punti del «patto» saranno sottoscritti dai «finiani». I quali non hanno nessun motivo per dissociarsi dai cinque punti della mozione di fiducia (federalismo fiscale, fisco, Mezzogiorno, giustizia, lotta alla criminalità) già presenti nel programma con cui si erano presentati agli italiani. E inoltre non hanno nessuna intenzione di presentarsi come i devastatori ad ogni costo della maggioranza, accelerando vorticosamente la corsa verso elezioni che non vogliono. Se questi sono i cardini di un nuovo patto di governo, la maggioranza di centrodestra potrebbe non venire meno. Un governo che dura anche se, fatalmente, è destinato a diventare un governo di coalizione.

Poi ci sono i prevedibili punti di frizione e di contrasto. Berlusconi ha esplicitamente incluso tre provvedimenti della discordia con Fini (il processo breve, un nuovo «lodo Alfano» con modifica costituzionale, la normativa sulle intercettazioni) che potrebbero alimentare nuove tensioni. Fini del resto aveva già dichiarato che il suo gruppo avrebbe sostenuto le riforme sottoscritte nel programma elettorale, ma che avrebbe valutato caso per caso quei provvedimenti non presenti in quel programma. È probabile che su questi terreni si possa scatenare una guerriglia estenuante. Ma solo dopo la mozione di fiducia richiesta dal Pdl. Il che, temporalmente, dovrebbe comportar e l ’ i mpossi b i l i t à d i u n eventuale voto a dicembre, come sostiene Bossi e come, forse, viene auspicato dallo stesso Berlusconi: ma il Parlamento ha dei tempi che un governo non può piegare a suo piacimento.

La proposta di Berlusconi sembra più dettata dal realismo che dal desiderio di una prova di forza che metta i «finiani» all’angolo.
È un bene che il premier ieri abbia ripetutamente fatto riferimento ai «tre anni di legislatura» come orizzonte temporale e politico del suo governo. È un bene che abbia anteposto i cinque punti di un programma dettato dall’interesse generale alle beghe e alle lotte di fazione che stanno logorando in modo preoccupante la stessa immagine del governo. È un bene che non si sia presentato con il volto della feroce resa dei conti con Fini. E sarebbe un bene se privilegiasse le riforme per il Paese a leggi sulla giustizia che assecondino i suoi interessi personali.

Anziché la strada velleitaria di una scaltra ma mediocre campagna acquisti (o riacquisti), ha scelto la strada di un «patto» chiaro e comprensibile per continuare la sua attività di governo. Accettando l’idea che la maggioranza possa reggersi su forze diverse, ma coalizzate da una convergenza sulle riforme da fare. Sarebbe bene che questo bagno di realismo producesse i suoi effetti anche nel prossimo futuro, nei contenuti e persino nello stile e nei toni del governo.

Resterebbero deluse le tifoserie oltranziste e rissose. Difficilmente gli italiani.

Pierluigi Battista

21 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_agosto_21/battista_e64d1aae-ace3-11df-b3a2-00144f02aabe.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA L'ex centrodestra finito a insulti
Inserito da: Admin - Agosto 24, 2010, 11:03:42 am
L'estate dei veleni Gruppi e partiti che hanno governato insieme

L'ex centrodestra finito a insulti

Dalla faida pdl alla rissa Udc-lumbard: esplode la «questione immorale». Fine di ogni remora



Si è arrivati addirittura allo stronzo. Che non si fossero mai amati o stimati, anche negli anni in cui erano alleati, era notorio.
Ma che tra Lega e Udc dovesse finire in uno scambio cruento a base di «trafficoni» (Bossi a Casini) e «trafficanti di banche e quote latte» (Casini a Bossi) non era così scontato.

Sfondata la frontiera dell'invettiva politica, il nuovo linguaggio del centrodestra che fu ora è il pugilato delle insinuazioni. E un mondo pare inabissarsi nella questione immorale.

«Trafficare», in politica, non ha un significato innocente. O meglio: presuppone la non innocenza di chi è accusato di traffici, per congettura, non leciti. È probabile che nel «trafficone» di conio bossiano e anti-casiniano si senta l'eco di una virulenta diffidenza antidemocristiana: un trafficare nei palazzi della Prima e della Seconda Repubblica, nelle manovre, nei corridoi, nei giochi consumati nella penombra. Nella rappresaglia Udc si fa invece un riferimento esplicito agli oggetti di interesse dei «trafficanti». Le quote latte, con allusione alle multe risanate per intervento della Lega e in particolare di Renzo Bossi, ribattezzato dallo stesso padre come il «Trota». E soprattutto le banche, con allusione, con ogni evidenza, ad antichi e nuovi interessamenti leghisti a cordate bancarie e assetti di vertice delle fondazioni distribuite, come si dice, nel «territorio». Ambedue allusioni a fatti poco chiari, a interessi non innocenti. Come se l'Udc rinfacciasse alla Lega, partito molto attento a coltivare una propria diversità rispetto alla «partitocrazia», di non avere i titoli per fare la morale a chicchessia.

Tutti nella stessa barca, oramai. La battaglia politica passa per messaggi cifrati e chiamate di correità. Se esiste «Sputtanopoli», come è stata definita da Giuliano Ferrara, dentro le sue mura non si risparmiano più colpi bassi. E i primi ad alimentare dicerie, denunce oblique, sarcasmi allusivi, sono proprio i suoi abitanti del centrodestra. O dell'ex centrodestra, come oramai si deve definire.
Con il divorzio tra Fini e Berlusconi e la forsennata campagna di stampa contro il presidente della Camera ogni remora si è smarrita: la soglia della polemica aspra ma tenuta a bada da un vincolo minimo di solidarietà di schieramento è stata abbondantemente oltrepassata.

Non si fa che sparare, con annessa e adeguata ripresa polemica nei commenti e nelle interviste degli esponenti politici fedeli al premier, su case, vecchie e nuove parentele, cognati, contratti di affitto, raccomandazioni Rai, favori e favoritismi grandi e piccoli, appartamenti, attici, contratti di locazione, società off-shore, paradisi fiscali. Improvvisamente nel quartier generale del centrodestra «garantista», custode della privacy, sensibile a una visione non moralistica della vita e della politica ci si scatena per i «traffici» di case e metri quadri. Non solo contro Fini, ma contro i finiani (l'ultimo sotto tiro: Luca Barbareschi). Chi fino a poco tempo fa denunciava come un'accanita intrusione negli affari privati e personali del premier la denuncia delle sue frequentazioni a Casoria e Palazzo Grazioli oggi non conosce freni e inibizioni nell'agitare la «questione morale» su compravendite e appartamenti. Persino sulle segnalazioni in Rai. Proprio loro, che dovettero subire un processo mediatico (sepolto quello giudiziario) sulle segnalazioni di Berlusconi a favore di attrici e conoscenti.

La frontiera oltrepassata, appunto. Tant'è che tra i finiani si è imposta la tentazione della rappresaglia, mettendosi a sventolare con pari veemenza acquisti di ville a prezzi stracciati, ricorso delle aziende berlusconiane a società off-shore e così via e più attuali guai affaristico-bancari dei vertici del Pdl. Ognuno rinfaccia all'altro «traffici» poco chiari. Di grande o piccola entità, ma comunque riconducibili alla categoria del non ammirevole, del non moralmente immacolato. Si seppelliscono così antiche solidarietà di coalizione, ma anche un codice della polemica che anteponeva la prudenza «garantista» all'offensiva «colpevolista». Oggi il colpevolismo è il nuovo lessico degli ex garantisti. E le ostilità, le avversioni personali, i risentimenti compressi esplodono non appena la cornice che tutto teneva assieme si sgretola. Alleanze che si sfasciano sulla questione «immorale» e nuovi abbracci con gli alleati del tempo che fu si dissolvono nella diffidenza generale, tra traffichini, trafficoni e trafficanti. C'era una volta il centrodestra.

Pierluigi Battista

24 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_agosto_24/battista-commento_6aa8e42e-af44-11df-bad8-00144f02aabe.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Il (fatale) passaggio dall’amore all’odio
Inserito da: Admin - Settembre 08, 2010, 03:43:44 pm
Coppie politiche - I difficili rapporti tra Sarkozy e Chirac e le tensioni tra Medvedev e Putin

Silvio e Gianfranco, Tony e Gordon

Il (fatale) passaggio dall’amore all’odio

Ma la ragion politica prevede addirittura che Fini e Berlusconi potrebbero siglare un «patto di legislatura»


Non si parlano neanche più. Per mandarsi segnali in codice, si affidano agli ambasciatori più volonterosi. Si detestano. Si separano ma sono costretti a coabitare, almeno per un po’.

Divisi da rancori inestinguibili, devono percorrere un tratto insieme. Sul piano sentimentale vorrebbero sbranarsi. Ma la ragion politica prevede addirittura che Fini e Berlusconi potrebbero siglare un «patto di legislatura». Come faranno? L’odio tra i leader costretti a convivere ha una lunga storia nella politica. Tony Blair e Gordon Brown nutrivano reciprocamente un’ostilità assoluta, e nelle sue memorie Blair si vendica senza pietà del suo nemico giurato. Cosa pensassero l’un dell’altro Sarkozy e Chirac è cosa nota e tra Sarkozy e de Villepin è finita addirittura in tribunale, in un’atmosfera di spionaggio e colpi proibiti. Si dice pure che tra Putin e Medvedev la tensione, la gelosia, il sospetto siano i sentimenti dominanti. Nella Prima Repubblica, sia pur nel linguaggio felpato e prudente dell’epoca, non scorreva una calda corrente di simpatia tra Moro e Fanfani e nemmeno tra Moro e Andreotti. Amendola e Ingrao, nel Pci, non erano solo l’incarnazione di un’antitesi ideologica, erano anche la personificazione di due caratteri opposti, di due modi d’essere e di pensare (un po’, si parva licet, come i due eredi postcomunisti D’Alema e Veltroni). Anche tra Craxi e Amato, dopo l’esplosione di Tangentopoli, il rapporto frantumato in pochi mesi rappresentava solo la conclusione amara di stili e tipologie umane diverse. Ma mai si arrivò in tutti questi casi alla pubblica contrapposizione puntigliosa e risentita tra due alleati che hanno cominciato a scambiarsi epiteti come «infame» (per interposto giornale) e «traditore». L’infame e il traditore dovrebbero continuare a condividere la stessa avventura di maggioranza? E se poi dovessero scendere alle vie di fatto, con padrini e armi regolamentari?

Il «patto» lo propone Fini, quello tra i due che ha più dimestichezza con il «teatrino della politica» che più o meno a Mirabello ha proposto il seguente scenario: il Pdl non esiste più, tu sei uno stalinista insofferente al dissenso, uso a circondarti di colonnelli che indossano con disinvoltura la livrea dei cortigiani, però se riconosci l’importanza di Futuro e Libertà possiamo metterci d’accordo su cinque punti per arrivare alla fine della legislatura. Per Berlusconi è tutto più difficile. Bisogna certo dire che Berlusconi è stato umanamente capace di un’impresa impossibile: rimettersi con Bossi, dopo che il leader della Lega aveva fatto il ribaltone del ’94 e cominciò a coprirlo di insulti sanguinosi come «mafioso», «Barluskaiser» e «Berluskaz». Passare sopra a queste ingiurie e rimettersi con Bossi è stato il capolavoro politico di Berlusconi. Ma anche all’apice dello scontro con il capo della Lega, Berlusconi non ha mai conosciuto il sentimento del rancore, della delusione. Quel tipo che veniva a trovarlo con l a canottiera d’estate non gli è mai stato veramente antipatico.
Fini sì, è la rappresentazione fisica di tutto ciò che lo irrita nella politica italiana. I rapporti, tra i due, non si ricuciranno mai.

Berlusconi ha sempre detto che la sua arma psicologica è di sapersi fare convesso con i concavi e concavo con i convessi. La diplomazia della pacca sulle spalle e del cucù alla Merkel è per lui un ingrediente umano indispensabile della politica. Quando venne fondato il Pdl e Berlusconi credeva ancora che il rapporto con Fini avrebbe potuto salvarsi, venne naturale la scelta di ascoltare l’insidioso discorso del numero due sedendosi accanto a Elisabetta Tulliani, a sua volta gratificata come donna «fine» ed elegante che «Gianfranco» aveva fatto bene a scegliere. Paradossale, ora che sulla Tulliani si è scatenata la muta dei segugi della privacy (altrui). Non è vero che non si siano parlati più. Le cronache raccontano che nelle stanze della clinica dove Berlusconi era ricoverato dopo l’aggressione di Tartaglia, il colloquio con Fini venne bagnato persino da qualche lacrima. Ma quel residuo di elementare solidarietà umana è svanito con l’espressione rabbiosa del Berlusconi che il 29 luglio annuncia la brutale cacciata dell’ingrato delfino e con il puntiglioso elenco di accuse lanciate da Fini sul palco di Mirabello.

Eppure devono convivere. Se non passa la linea delle elezioni anticipate, l’«infame» e il «traditore» non potranno lasciarsi definitivamente. Non stanno più nello stesso partito. Ma stanno ancora, fino a sfiducia contraria, nella stessa maggioranza. Si diranno ancora le cose più terribili ma non potranno ancora spezzare l’ultimo filo che ancora li lega. Dovranno far prevalere il gelo della ragion politica sulla spontaneità degli istinti che esigerebbe una liberatoria scazzottata. Altro che separati in casa. Incatenati a casa, colmi di un’avversione reciproca che non può esplodere fino all’ora X. Tenere lontano i coltelli.

Pierluigi Battista

08 settembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_settembre_08/barrista-ex-alleati-si-odiano_36a70992-bb0d-11df-b32f-00144f02aabe.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Il naufragio dei «responsabili»
Inserito da: Admin - Settembre 17, 2010, 12:56:41 pm
LE CAMPAGNE ACQUISTI NON DANNO LA STABILITÀ

Il naufragio dei «responsabili»



Svanisce l’epopea dei «responsabili ». Comunque vada a finire la campagna acquisti, è quasi certo che lo shopping non formerà una maggioranza stabile che possa fare a meno dei finiani. I numeri ballerini sono la maledizione dell’estate di Berlusconi. A fine luglio pensava, mal consigliato, che i numeri avrebbero soffocato il «controcanto» di Fini. Ora voleva correre ai ripari, pescando qui e là tra i seggi in Parlamento. Ma anche in questo caso il pallottoliere non è stato generoso. È stato un errore tattico. Ma anche un danno di immagine: come può il premier additare alla pubblica riprovazione la volontà di «ribaltone» di Fini, il disegno del presidente della Camera di stracciare il patto con gli elettori, e poi puntare a micro-ribaltoncini, a raschiare a destra e a manca il barile dei parlamentari disposti ad assumersi un compito di sostegno a una maggioranza contro cui sono stati eletti? Un danno per la stabilità, anche. Per qualche giorno è sembrato di sprofondare nelle atmosfere precarie dell’ultimo governo Prodi, quando, a causa dei numeri risicatissimi, la tenuta della maggioranza veniva affidata agli umori volubili dei senatori Pallaro, Turigliatto e Cusumano. Il governo del centrodestra, uscito dalle urne con una maggioranza parlamentare schiacciante, doveva essere l’alba di una nuova era di stabilità. Ma per qualche giorno si è aggrappato alla «responsabilità » di qualche signor Nessuno, a quanto pare non sempre mosso da nobili ideali e da generose preoccupazioni istituzionali. È andata male, perché il reclutamento dei «responsabili » poggiava ancora sull’idea sbagliata che la spina finiana potesse essere eliminata con deferimenti ai probiviri o qualche gioco di prestigio numerico. Anziché siglare il patto di maggioranza che Fini ha proposto a Mirabello, Berlusconi, archiviata per il momento la tentazione del voto anticipato entro il 2010, è andato alla ricerca di qualche carta segreta di riserva che potesse rendere marginale o inutile l’apporto determinante di «Futuro e Libertà». Ha provato con l’Udc di Casini, ma il progetto si è arenato. Ha provato con una pattuglia patchwork per raggiungere la soglia dei 316 parlamentari, sufficiente per estromettere i finiani della maggioranza. Ha provato tutte le strade pur di non imboccare la strada maestra dell’accordo, considerata da Berlusconi un cedimento al ricatto, la riedizione di un potere di veto intollerabile per un premier decisionista. Ora esistono ancora i margini, da qui al discorso della fiducia che Berlusconi terrà in Parlamento tra meno di dieci giorni, per dimenticare il flop dei «responsabili», per sedare l’orgoglio ferito dalla secessione finiana e per rilanciare un programma di governo che abbia un respiro triennale, da qui alla scadenza della legislatura. È il passaggio politicamente e anche, conoscendo la personalità di Berlusconi, caratterialmente più difficile. Necessario però per chiudere una stagione confusa e persino caotica. Non è mai troppo tardi.

Pierluigi Battista

17 settembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_settembre_17/battista_naufragio_responsabili_1b4daaf8-c219-11df-a515-00144f02aabe.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Le domande e la decenza
Inserito da: Admin - Settembre 25, 2010, 05:04:16 pm
CLIMA DA SVELENIRE, ISTITUZIONI DA PROTEGGERE

Le domande e la decenza


Il videomessaggio promesso per le prossime ore dovrà essere il momento della verità per Gianfranco Fini. Si tratta di una scelta giusta, anche se tardiva, perché il presidente della Camera avrà la possibilità di chiarire tutti gli aspetti ancora oscuri della vicenda della casa di Montecarlo. E anche di dare una risposta convincente a un'opinione pubblica frastornata da tutto ciò che è accaduto e sta accadendo in questi giorni: l'apertura di una delle pagine più torbide e avvilenti della politica italiana, mai come oggi macchiata da sospetti, guerre di dossier, insinuazioni, denigrazioni, lotte di potere che finiscono per infangare, insieme, ruoli istituzionali e apparati di sicurezza.

Dovrà dire, come già il Corriere ha provveduto a chiedere nell'agosto scorso, come mai la casa di Montecarlo, eredità di Alleanza Nazionale, sia finita nella disponibilità del «cognato» Giancarlo Tulliani: il «disappunto» e lo sconcerto già evocati dal presidente della Camera non bastano. Dovrà dire qualcosa sul contratto di compravendita a una società off-shore. Sull'asserita congruità del prezzo di vendita dell'immobile. Dovrà dire se in questi mesi tormentati ha chiesto al signor Tulliani ragguagli sulla titolarità della (anzi delle) società che hanno acquistato la casa per poi affittarla allo stesso soggetto che se n'era fatto intermediario. E soprattutto, davvero sopra ogni altra cosa, quale risposta il presidente della Camera ha ricevuto dal signor Tulliani.

Sinora Fini ha dichiarato di confidare nelle indagini della magistratura. Non è sufficiente. Oltre agli (eventuali) reati esistono i comportamenti: lo stesso «codice etico» che a Mirabello Gianfranco Fini ha dichiarato di voler stilare a tutela dell'onore della politica. La sua non dovrà essere una risposta ai magistrati, ma alle istituzioni, alla politica, e persino a quella fetta di opinione pubblica che guarda con interesse alle posizioni del presidente Fini. Le risposte le deve Fini, ma anche il premier. È vero che uomini a lui vicini (o gli stessi servizi che dipendono da Palazzo Chigi) hanno contribuito a costruire dossier per demolire la figura pubblica della terza carica dello Stato? Accusa degli alleati, non dell'opposizione.

Solo così è possibile fermare quella spirale di imbarbarimento della lotta politica che lascia allibita e sgomenta l'opinione pubblica incapace di rassegnarsi all'idea che la guerra nella maggioranza non abbia nessuna attinenza con i contenuti, ma con un avvitarsi sempre più disinibito nei gorghi delle rappresaglie, dei colpi bassi e dei massacri mediatici. È incredibile che il conflitto politico abbia come incontrastati protagonisti faccendieri e avventurieri, autentiche barbe finte (o un po' posticce), accompagnatori, investigatori, carte intestate di paradisi fiscali, siti caraibici che prima anticipano notizie bomba e poi fanno sparire le notizie anticipate, precari ministri della Giustizia che, sia detto con il massimo rispetto per il governo sovrano di Saint Lucia, difficilmente appaiono paragonabili a luminose figure di studiosi del diritto come Giuliano Vassalli o Giovanni Conso. La soglia della decenza è stata oltrepassata. Non resta che tornare indietro e riacquistare, tutti, un profilo di dignità. Per quanto malandata, l'Italia non merita un trattamento simile.


Pierluigi Battista
 
25 settembre 2010
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Titolo: Pier Luigi BATTISTA Tra le fragilità e le debolezze un prezzo (troppo) salato...
Inserito da: Admin - Settembre 26, 2010, 11:24:18 am
IL VIDEOMESSAGGIO DEL PRESIDENTE DELLA CAMERA

Tra le fragilità e le debolezze un prezzo (troppo) salato da pagare

Da sabato la politica italiana ruota tutta attorno alla parola di un signore che si chiama Giancarlo Tulliani


Con il suo videomessaggio, Fini non ha usato gli accenti un po' burocratici, risentiti e non del tutto convincenti sfoggiati negli «otto chiarimenti» con cui ad agosto ritenne di liquidare l'affaire Montecarlo. Il tono è apparso sincero. Dettagliato e puntiglioso su quello che ha detto di sapere. Il problema è tutto racchiuso in quello che Fini dice di non poter sapere, o di non sapere con certezza assoluta.
Ma è su quell'ombra, che lo stesso Fini si è detto ancora incapace di diradare, che si gioca addirittura l'avvenire personale del presidente della Camera e, purtroppo, quello politico di un'intera Nazione. Questo è il dato più sconcertante e amaro di tutta la vicenda.
Da sabato la politica italiana ruota tutta attorno alla parola di un signore che si chiama Giancarlo Tulliani. Fini ha detto che, a sua conoscenza, il signor Tulliani non è il proprietario della casa di Montecarlo che ha contribuito a vendere attraverso una personale intermediazione, e di cui risulta affittuario. Ha ribadito con forza di aver affrontato con un'«arrabbiatura colossale» la notizia che quella casa, eredità di An, fosse stata affittata proprio al «cognato» che aveva indicato la società off-shore interessata all'acquisto.

Ha rivelato di aver cercato di convincere con una certa insistenza il «cognato» a lasciare l'appartamento monegasco: un'opera di persuasione evidentemente risultata sinora infruttuosa. Ha specificato che, a quanto gli risulta dopo continui interrogatori al signor Tulliani, quella casa non è di proprietà di chi ne è attualmente il beneficiario in affitto. Ma ha affermato con chiarezza inequivocabile che se si dovesse accertare la titolarità di Tulliani dell'appartamento, il presidente della Camera, tratte le conclusioni di un inganno, rassegnerà le dimissioni. Si tratta di un'affermazione impegnativa. Forse la più impegnativa di tutte. Sta a significare che su tutto il resto, dalla congruità del prezzo di vendita della casa al sospetto che il presidente di An si sia disfatto del patrimonio del partito per favorire un componente della sua nuova famiglia, Fini è apparso in buona fede, convinto di non aver agito in modo illecito se non addirittura illegale. Chi voleva dipingere Gianfranco Fini come un cinico svenditore del patrimonio di un partito, un traditore dei suoi militanti, un affarista che specula sui sentimenti di una marchesa convinta di affidare i suoi averi a una nobile «battaglia», chi ha costruito l'immagine di un Fini bieco e approfittatore da sabato ha certamente molte meno frecce al suo arco avvelenato.

Quello che Fini sa, ora è abbastanza chiaro. Adesso bisogna sapere se è vero che nel mondo che ruota intorno al presidente del Consiglio sia partita un'attività di dossieraggio (che lo stesso Fini ha indicato come molto dispendiosa) destinata ad avere il Sudamerica come meta ed epicentro. Fini si è formalmente scusato con Gianni Letta e Gianni De Gennaro se certe sue affermazioni dei giorni scorsi sono apparse come un atto di accusa ai nostri apparati di sicurezza. Che però abbia rilanciato il sospetto che attorno a questo caso, e specificamente attorno al paradiso fiscale di Santa Lucia, si sia mossa una carovana spionistica e para-spionistica mobilitata per distruggere un nemico politico, è cosa che riguarda tutti noi e la politica italiana. È un altro interrogativo che non può essere eluso, un'altra ombra che si addensa su una stagione politica torbida e intossicata cui il videomessaggio di Fini non ha certo messo fine. Sono proprio questi veleni, del resto, che hanno ingigantito una vicenda che, per quanto avvilente, non risulta avere le dimensioni degli scandali cui ci hanno abituato anni e anni di storia repubblicana. Ma il presidente Fini deve anche rendersi conto che talvolta l'«ingenuità», in politica, comporta prezzi molto gravi. E che se la stabilità politica italiana oggi dipende da quel punto interrogativo che riguarda un certo Giancarlo Tulliani e che nemmeno il presidente della Camera sa sciogliere, vuol dire che il prezzo, questo sì davvero incongruo, di una pagina orribile della politica italiana (e dell'informazione) rischia di essere pagato dall'intera comunità nazionale. Un prezzo troppo salato.

Pierluigi Battista

26 settembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_settembre_26/tra-le-fragilita-e-le-debolezze-un-prezzo-troppo-salato-da-pagare-pierluigi-battista_a446c750-c93e-11df-9f01-00144f02aabe.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA La natura del governo
Inserito da: Admin - Ottobre 20, 2010, 04:58:15 pm

L'editoriale

La natura del governo

Le tensioni e il nuovo ruolo di Tremonti

di PIERLUIGI BATTISTA

Magari Bossi esagera quando definisce il ministro dell'Economia il «Cancelliere di ferro», il «nuovo Bismarck», il sommo sacerdote dei conti pubblici che mette in riga i ministri riottosi, non di rado trattati come molesti questuanti. Ma forse l'opinione pubblica ha bisogno di sapere se quello che attualmente è in carica debba chiamarsi oramai «governo Tremonti» e non più «governo Berlusconi». Se la crisi del Pdl non abbia partorito un nuovo asse politico incardinato sulla Lega e impersonato da Tremonti. Se lo scettro decisionista sia passato dal premier al più importante dei suoi ministri.

Giulio Tremonti può, sinora, vantare (e legittimamente intestarsi) il maggior successo del governo nato dalle urne del 2008: la tenuta dei conti dello Stato, il rigore finanziario nella bufera della crisi finanziaria e della bancarotta degli Stati più fragili, la messa in sicurezza del bilancio italiano angariato dal mostruoso debito pubblico che conosciamo, l'argine severo contro le politiche di spesa facile. Ma questo successo gli ha conferito una forza che fatalmente è destinata a rendere ancora più evidente la debolezza di cui soffre il capo del governo. Il prendere o lasciare con cui Tremonti ha imposto ai ministri i suoi imperativi assegna al ministro dell'Economia un ruolo tanto più centrale e decisivo quanto più la maggioranza appare dilaniata da scontri furibondi e minata da rivalità personali che vanno ben oltre, raccontano le cronache e i retroscena di questi giorni, la spaccatura con l'ex cofondatore, poi sbrigativamente estromesso dal Pdl, Gianfranco Fini.

Il governo naviga a vista. Berlusconi, svanita per il momento l'arma delle elezioni anticipate, passa il tempo a tessere la tela delle mediazioni per rammendare strappi e conflitti. I cinque punti del programma solennemente sottoscritti con il voto di fiducia della fine di settembre sembrano dimenticati. La bussola appare perduta. Ma l'unico comando riconosciuto è quello del custode del Tesoro che avoca a sé ogni decisione, impone ai ministri la sua dieta feroce, esalta con la sua azione l'unica alleanza che sembra reggere e anzi rafforzarsi: quella tra lo stesso Tremonti e la Lega di Umberto Bossi.

Gli elettori del Pdl assistono così a un clamoroso spostamento di ruoli del tutto imprevisto due anni fa: non è più Berlusconi, di fatto prescelto nelle urne come leader del nuovo governo, a dettare l'agenda del governo, ma il suo ministro dell'Economia. È un rovesciamento che può piacere o non piacere, ma che a questo punto deve essere dichiarato, per non dare l'impressione di un cambiamento che modifica totalmente lo spirito e l'identità di un governo. Si agita lo spettro del governo «tecnico». Ma quanto di più «tecnico» di un governo le cui redini non sono più nelle mani del presidente del Consiglio ma in quelle dell'onnipotente ministro dell'Economia che lesina finanziamenti per ogni progetto di riforma tranne per quello che riguarda il federalismo fiscale? Appunto, questo spostamento può essere considerato un bene o un male.

Possiamo congratularci o meno per la nascita del nuovo Otto von Bismarck. Ma sapendo che, in questo modo, la natura di un governo cambia irrimediabilmente.

Pierluigi Battista

16 ottobre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_ottobre_16/battista_1934c9e4-d8e5-11df-816b-00144f02aabc.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA No, Obama non abita qui
Inserito da: Admin - Novembre 06, 2010, 04:01:45 pm
CHI DIREBBE IN ITALIA: E' COLPA MIA?

No, Obama non abita qui

Barack Obama, sebbene stordito dopo la catastrofe elettorale, ha detto: «È colpa mia, sono io il responsabile della sconfitta». Ha aggiunto anche che, come leader che crede nei verdetti democratici, dovrà rispettosamente tener conto degli orientamenti dell'elettorato artefice del trionfo repubblicano. Barack Obama è un presidente americano. Fosse stato italiano, avrebbe inveito contro il destino cinico e baro. O avrebbe addossato tutte le colpe a qualcun altro. A un complotto. Alla tv. Alla cattiveria dei nemici. Ai brogli elettorali. O direttamente al popolo. Che molto spesso in Italia è buono e ammirevole quando consente. Stupido e ottuso quando dissente.

Non è una differenza banalmente antropologica, ma una diversa consuetudine con le regole della democrazia dell'alternanza. Nella matura democrazia americana, vincere o perdere sono due opzioni normali. Nel primitivo bipolarismo italiano, invece, il primo atto di chi perde è l'autoassoluzione, il secondo è la delegittimazione del vincitore. Dire, come Obama, che si dovrà tener conto della volontà popolare non è solo la reazione nobile di chi sa conservare uno stile e un contegno anche nella sconfitta. È lo specchio di una concezione della democrazia sconosciuta in Italia. Obama non ha detto che è sua intenzione rinunciare alla linea politica sin qui adottata: questo sarebbe populismo deteriore. Ma che non vuole sottovalutare la resistenza popolare alle proprie scelte espressa liberamente e massicciamente attraverso il voto: e questa è la democrazia.

In Italia non succede (quasi) mai. Quando perdono, gli sconfitti accusano il popolo di essersi lasciato abbindolare dai vincitori, o abbacinare dalla loro martellante propaganda. Non troviamo mai un leader che dica, come Obama: «Ho perso, io sono il primo responsabile della sconfitta». Ne troviamo invece numerosi che avanzano scuse patetiche, che lamentano slealtà, che accusano l'avversario. Non si interrogano sulle ragioni della sconfitta. Anzi, negando ogni responsabilità, non fanno nulla per rimediare agli errori commessi e perseverano nella condotta che li ha portati alla sconfitta. Stracciati nelle elezioni presidenziali da Obama due anni fa, per esempio, i repubblicani hanno reagito con l'energia del movimento del Tea Party. In Italia non accade nulla del genere, e le oligarchie sconfitte, sottraendosi a un esame spietato delle proprie responsabilità, puntano tutto sulla perpetuazione del proprio ruolo.

È un atteggiamento radicato nella storia italiana, fitta di Risorgimenti «incompiuti», di vittorie «mutilate», di Resistenze «tradite». Un atteggiamento che scarica tutte le colpe su qualche oscuro complotto, che denuncia l'opposizione come una torbida «manovra» e il popolo che vota in direzione opposta ai propri desideri come prigioniero di istinti «viscerali», vittima della macchina propagandistica altrui. Un atteggiamento che cancella ogni principio di responsabilità e svilisce gli stessi verdetti popolari. Una democrazia che conosce un solo senso di colpa: quello altrui.

Pierluigi Battista

05 novembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_novembre_05/battista-obama_35c93f20-e8a5-11df-9527-00144f02aabc.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Strappo Finale, ma Poi?
Inserito da: Admin - Novembre 08, 2010, 05:00:42 pm
Il commento

Strappo Finale, ma Poi?

«Futuro e libertà» nasce con un traguardo così ambizioso da sembrare velleitario e irrealistico: costruire un centrodestra che non abbia più Berlusconi come suo indiscusso e carismatico leader. È questa rilevante ambizione che rende differente la creatura di Gianfranco Fini dalla miriade di partitini che nascono e prosperano esclusivamente nei corridoi affollati delle manovre di palazzo.

Si dà il caso però che Berlusconi non sia (ancora) il passato perché è e continua a essere il leader del centrodestra, il capo del governo, il leader del partito maggiore della coalizione. Perciò lo scontro tra le ambizioni di Fini e la realtà della leadership berlusconiana non può che essere la fonte di un conflitto durissimo, violento, irriducibile, ultimativo. Una stagione politica lunga ormai più di quindici anni si sta chiudendo drammaticamente. È, deve essere, compito e responsabilità dei leader in conflitto evitare che il loro dramma non si trasformi nel dramma dell'Italia, di un Paese in crisi che rischia seriamente di sprofondare nel caos.

Ponendo una condizione pressoché irricevibile da Berlusconi, Fini ha messo la parola fine al governo nato dal risultato elettorale del 2008. Ha chiesto ai ministri suoi seguaci di rimettere il mandato. Ha rovesciato l'agenda politica suggerita da Berlusconi come base per un eventuale «patto di legislatura». Ha sottolineato una diversità radicale e inconciliabile con la Lega, principale alleato del premier (pur aprendo al Senato federale). Bisogna dire con chiarezza che non è affatto normale che un presidente della Camera dia il benservito ufficiale al presidente del Consiglio. Ma perché a questo punto non si aggiunga anomalia ad anomalia, Fini deve prendere un impegno: da presidente della Camera, faccia in modo che non ci sia una crisi extraparlamentare, ciò che stonerebbe in modo troppo stridente con il ruolo istituzionale che ricopre.

Fini ha tutto il diritto di indicare a «Futuro e libertà» la via della sfiducia al governo, ma non al di fuori del Parlamento, fuori e contro le procedure che ogni crisi di governo esige. Ma se ha a cuore l'interesse della Nazione, se davvero, come ha ripetutamente detto a Perugia, vuole restituire alla politica quella dignità, quella decenza, quel «rispetto delle istituzioni» che si sono smarriti in questi anni, allora non metta a repentaglio il rango internazionale dell'Italia ed eviti almeno che la sfiducia venga esercitata sulla Legge di stabilità. Sarebbe un gioco troppo pericoloso, troppo irrispettoso per gli interessi italiani. Esporrebbe l'Italia a una pessima figura internazionale. Se sfiducia ha da essere, che sia su altri provvedimenti, non su leggi su cui l'Italia intera può giocarsi ciò che resta della sua credibilità.

Ma oramai lo strappo si è consumato, la rottura appare irreversibile. A Perugia si è misurato il drammatico errore di Berlusconi, alimentato da consiglieri rancorosi e miopi, di voler liquidare le posizioni di Gianfranco Fini come una molesta questione personale da eliminare con un provvedimento disciplinare (il deferimento ai probiviri, nientemeno). Il partito che Fini ha fatto nascere a Perugia appare invece come una forza politica vera, proiezione di un'anima autentica del centrodestra italiano. È stato lo stesso Fini a sottolinearlo più volte.

Non vuole che Futuro e libertà esca culturalmente e politicamente dal «perimetro del centrodestra». Non vuole che la rottura con Berlusconi possa preludere a una «subalternità» nei confronti della sinistra. Vuole andare «oltre» Berlusconi e non «contro» il Pdl. Ora, a rottura consumata, Fini dovrà dimostrare di essere conseguente con queste premesse. Non prestarsi a maggioranze abborracciate e precarie che, fatte salve le prerogative del Quirinale, suonino come un oltraggio alla volontà popolare espressa nel 2008. Non cedere alla tentazione di governi dai nomi più fantasiosi («tecnici», «istituzionali», «di larghe intese») che assomiglierebbero a un ribaltone e che tra l'altro regalerebbero a Berlusconi la fantastica chance di presentarsi come vittima di una manovra oligarchica e ostile al popolo che ha vinto le elezioni. Se la rottura è una cosa seria, allora Fini deve accettare di misurarsi con nuove elezioni, anche in presenza di una legge elettorale orribile. Dovrà contribuire a tracciare un percorso di uscita da una stagione politica oramai tramontata avendo come stella polare gli interessi dell'Italia, la sua credibilità internazionale, la sua stabilità finanziaria. È una porta strettissima.

Ma non ce ne sono altre. È la scelta più seria, ma anche la prova della serietà con cui nasce un nuovo partito. Il resto è scorciatoia, giochino politicista, furbizia effimera. Tocca a Fini, non solo a lui, ma soprattutto a lui, imboccare la strada giusta.

PIERLUIGI BATTISTA

08 novembre 2010
© RIPRODUZIONE RISERVATA

http://www.corriere.it/editoriali/10_novembre_08/battista_strappo_finale_61b12e3a-eafe-11df-bbbd-00144f02aabc.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA La scalata sbagliata
Inserito da: Admin - Novembre 27, 2010, 04:45:53 pm
RIFORMA DELL'UNIVERSITA', I FINIANI SUI TETTI

La scalata sbagliata

I deputati del Fli che salgono sui tetti assieme agli studenti in rivolta, non immaginano neanche quanto il loro gesto abbia rischiato di far drammaticamente scendere qualcos'altro: la credibilità di un nuovo partito che pure, alimentando molte speranze, si era presentato come l'alfiere del merito, della modernità europea, del riformismo liberale. E infatti, Fini si è giustamente premurato di rassicurare che Fli voterà sì alla riforma Gelmini.

I finiani avrebbero mille ragioni per marcare la loro differenza dall'immobilismo di un governo assopito da mesi nel «non fare» e nel tirare a campare. Da una maggioranza che vivacchia, assorbita dall'ossessione per le vicende personali del premier. Hanno invece scelto di inscenare la loro presenza determinante per le sorti del governo ostacolando una riforma di cui l'Italia ha necessità improrogabile. Non che la riforma dell'università del ministro Gelmini sia inattaccabile, migliorabile, inemendabile. Ma gli emendamenti devono servire a renderla più efficace, non a diventare pretesto e bandiera di manovrette dilatorie e di furbizie parlamentari. Il partito del «merito», come più volte è stato presentato dallo stesso Fini, non può esordire penalizzando una riforma che fa del recupero del merito il suo cardine, che svecchia e contesta il reclutamento baronale, i finanziamenti a pioggia, la scandalosa chiusura nei confronti dei talenti giovani, tutto ciò che rende umiliante il confronto tra l'università italiana e quella degli altri Paesi dell'Europa e dell'Occidente, mortifica la ricerca, premia la mediocrità e il livellamento verso il basso.

Non è sufficiente la riforma Gelmini? Certo che non lo è. Ma le proteste sui tetti e sui monumenti (a proposito: che ne è in questo caso della tutela e della sicurezza dei nostri beni culturali?) vanno fatalmente nella direzione opposta. Si tingono di conservatorismo, difesa dello status quo, fatalismo, rassegnazione nei confronti di qualunque riforma che abbia, appunto, il merito come sua base fondante. È un errore anteporre la guerriglia contro Berlusconi alle ragioni di contenuto che dovrebbero consigliare un atteggiamento non ostruzionistico nei confronti della riforma dell'università. Lo è anche quello della sinistra riformista che nel nome della guerra santa al governo e per non disperdere il consenso della piazza, smarrisce le stesse ragioni della propria identità culturale. Un applauso sui tetti, ma un'occasione mancata per l'alternativa riformista.

A Bastia Umbra Gianfranco Fini ha detto di voler accettare una sfida ambiziosa: quella di costruire una destra moderna, repubblicana, costituzionale e «deberlusconizzata», anziché l'ennesimo partitino destinato a campare sul potere di veto, sui giri di giostra parlamentare, sulle imboscate di corridoio, sulla filosofia deteriore dell'«ago della bilancia». Fa bene a convincere i suoi seguaci a far passare la riforma dell'università richiesta dalle componenti più innovative della società italiana. Con i miglioramenti dovuti, certo, ma con lo scopo di farla andare in porto e non di farla naufragare con metodi surrettizi. Si tratta del primo test del nuovo «Futuro e libertà». Poi c'è la legittima battaglia sul governo e con il premier, la lotta politica che culminerà con il voto del 14 dicembre. Ma senza giocare sulla pelle degli studenti, dell'università, della ricerca, del sapere, della cultura: il «partito del merito» non può permetterselo.

Pierluigi Battista

27 novembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_novembre_27/battista_188ee1ea-f9ed-11df-9c9e-00144f02aabc.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA - La commedia degli eletti
Inserito da: Admin - Dicembre 10, 2010, 11:20:17 am
CAMBI DI CASACCA E BUGIE DISINVOLTE

La commedia degli eletti

La politica italiana diventa un mistero indecifrabile, un enigma imperscrutabile che però poggia con teatrale evidenza su due desolanti certezze. La prima è che le istituzioni si sono degradate in poche ore a un indecente mercato di voti. La seconda è che il tatticismo convulso e maniacale sta divorando se stesso, e le manovre di corridoio e di anticamera hanno finito per oscurare ogni barlume di razionalità in un universo politico che sta sprofondando con sempre meno dignità nel crepuscolo di ciò che resta della Seconda Repubblica.

Non è un giudizio dettato dal moralismo, sebbene la scena politica e giornalistica sia occupata dalle invettive sul «tradimento», la «compravendita», il «collaborazionismo», persino gli elogi della «prostituzione» (politica, si intende). È lo sconcerto sugli improvvisi cambi di casacca. Sui seguaci del più intransigente antiberlusconismo di marca dipietrista che si convertono con sorprendente tempismo alle ragioni del presidente del Consiglio. Sui frammenti dei transfughi del centrosinistra, un trio di disperati politici dell'ultima ora, che convocano una conferenza stampa per formare un nuovo movimento e per dire che, in tre, voteranno il 14 dicembre in tre modi diversi. Su Italo Bocchino che prima nega perentoriamente di essersi incontrato con Berlusconi e poi lo ammette, smentendo se stesso con una disinvoltura da consumato frequentatore delle più rocambolesche manovre di Palazzo.
Non è moralismo. Ma è anche insofferenza per chi, con pavloviano automatismo difensivo e autoassolutorio, dice che «è sempre stato così». Non è vero: spesso è andata quasi così (specialmente ai tempi dell'agonia del governo Prodi) ma non proprio «così» come in questi giorni. Adesso una soglia è stata oltrepassata. Un confine di elementare pudore è stato violato. Nemmeno l'ipocrisia di motivazioni politiche che giustifichino e diano dignità a un cambio di collocazione politica: solo voltafaccia plateali nelle forme e oscuri nei contenuti. Solo tariffari, mutui sospetti da estinguere in fretta, fantasmi di leggi ad hoc: lunedì sapremo forse qualcosa del destino del Parco dello Stelvio e, insieme, del voto della Svp? Quanto costa la fiducia a un governo? E la sfiducia?

Che una legislatura nata con una maggioranza solida e ampia debba trasformarsi in una partita di caccia all'ultimo voto utile è il simbolo di un declino inimmaginabile fino a pochi mesi fa. Inconcepibile in una tempesta economica e finanziaria, e per fortuna il governo almeno nella blindatura dei conti pubblici ha saputo tenere il timone con fermezza. Inammissibile in una democrazia che dovrebbe vivere di alternative chiare, di progetti contrapposti, di conflitti alla luce del sole e che invece si sta smarrendo in un caos accompagnato dalle urla scomposte delle tifoserie più agguerrite. E dove il Parlamento deve avere un suo decoro da difendere, se non altro per rendere omaggio ai 150 anni di vita di una Nazione che non merita lo spettacolo sconfortante di una fiducia a tariffa.

Pierluigi Battista

10 dicembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_dicembre_10/20101210NAZ01_49_041dee44-0425-11e0-b06d-00144f02aabc.shtml


Titolo: P. Luigi BATTISTA Così il Cofondatore ha scelto di rischiare il tutto per tutto
Inserito da: Admin - Dicembre 13, 2010, 04:14:36 pm
La scelta di una strategia

Così il Cofondatore ha scelto di rischiare il tutto per tutto

Se Berlusconi ottenesse la fiducia, Fini vedrebbe dilapidato il suo vantaggio acquisito il 29 settembre

         
Se Silvio Berlusconi non venisse sfiduciato, fosse anche per l'apporto avventuroso di uno o due voti dell'ultimo minuto, Gianfranco Fini vedrebbe dilapidato il suo sorprendente vantaggio acquisito il 29 settembre scorso. Quel giorno Fli sancì il carattere determinante della propria presenza nella maggioranza. Incassò la rinuncia alle elezioni anticipate fino a pochi giorni prima minacciate dal premier. A Bastia Umbra Fini ha però deciso di fare un passo ulteriore.

Un cambio di casacca in più, martedì, e quel passo imprudente potrebbe rivelarsi fatale per il presidente della Camera. Il rischio più grosso se l'è assunto proprio lui, Gianfranco Fini. Per gli altri alleati di un sinora evanescente terzo polo, in primis Pier Ferdinando Casini, questa non è la partita finale. Per Fini sì. E' vero che dopo il voto del 14 potrebbe esserci una devastante guerriglia parlamentare a vanificare la battaglia vinta da Berlusconi a Montecitorio. Ma intanto la violenza simbolica della sconfitta numerica avrebbe l'effetto di indebolire, e forse perfino di disarticolare il neo-partito finiano. Fino a Bastia Umbra, giocando in difesa, Fini ha fatto brillantemente muro contro l'offensiva di annientamento politico che il fronte berlusconiano aveva scatenato in estate. Non era bastata la brutalità dell'estromissione di stampo leninista decretata dal Pdl ai danni del suo co-fondatore che aveva osato dissentire pubblicamente dal Capo.
E nemmeno una virulenta campagna mediatica giocata con il famigerato "metodo Boffo". E neanche una fallimentare campagna acquisti in Parlamento che a settembre avrebbe dovuto neutralizzare i finiani in rotta con Berlusconi. Fini era uscito trionfatore da quel triplice assalto. A Bastia Umbra decise però di affondare con il contropiede.

Ma se le controffensive non riescono, gli effetti sono disastrosi per chi ha attaccato con troppa e velleitaria frettolosità. La sfiducia a Berlusconi voleva dire infliggere il colpo definitivo al premier. Ma se quel colpo va a vuoto, il contraccolpo sarebbe violentissimo per chi fallisce l'obiettivo. Se il riferimento alla "congiura" non suonasse troppo malizioso, si potrebbe ricordare come per Machiavelli "per esperienzia si vede molte essere state le coniure, e poche aver avuto buon fine". E come quella mancanza di "buon fine" abbia sistematicamente portato alla disfatta, nella storia, i "coniurati". Mentre l'acquisizione formale di un peso determinante nella maggioranza dava a Fini la possibilità di logorare Berlusconi, fargli la fronda, preparando "l'Opa sul centrodestra" avendo davanti a sé più tempo a disposizione, l'accelerazione di Bastia Umbra ha comportato invece il raggiungimento di uno scopo in tempi ristretti. Ma se quel "buon fine" machiavellicamente non viene raggiunto, diventa inevitabile la consumazione di una sconfitta dolorosa.

Per questo, ovviamente Berlusconi a parte, Fini rischia più di tutti. Se riuscirà a incassare la sfiducia dovrà immediatamente spendere il frutto di una momentanea ma clamorosa vittoria disegnando inevitabilmente nuove maggioranze e nuove alleanze. Altrimenti, con Berlusconi ancora in sella a Palazzo Chigi, Fini dovrà ricominciare a tessere una tela completamente nuova, ma stavolta dagli esiti imprevedibili e da una condizione di debolezza che procurerà al mondo finiano un effetto esattamente opposto a quello ottenuto alla fine di settembre, con Berlusconi uscito perdente dal duello. E la rivincita, stavolta, sarà la più difficile delle scommesse.

Pierluigi Battista

13 dicembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/speciali/2010/la-fiducia/notizie/battista_cofondatore_tutto_per_tutto_3be9a3a2-0684-11e0-ad1a-00144f02aabc.shtml


Titolo: Pierluigi BATTISTA. La corte degli avidi al bancomat di Arcore
Inserito da: Admin - Gennaio 19, 2011, 12:21:04 pm
I REGALI

La corte degli avidi al bancomat di Arcore

Tra assegni e regali, la corte degli avidi usò l’«amico Silvio» come un bancomat


Nessuno che fosse disinteressato. Tutti attorno al Grande Ricco generoso. Come cavallette assetate. Compresi quelli di cui il Grande Ricco si fidava. Un milione 200 mila euro in «prestito ». Ottocentomila a Lele Mora, che ne aveva bisogno. Quattrocento a Emilio Fede, come beneficio. Fede a Mora dice che chiederà al Capo Bancomat: «Uno e due, di cui 100 li dà a me in due rate che ho prestato 50 e 50, capito?». Mora capisce perfettamente: «Certo». Fede a Mora: «Vuol dire che possono diventare uno e mezzo: io ne prendo quattro e tu otto, va bene? ». Mora a Fede: «Benissimo, meraviglia, meraviglia, bravo direttore, bravo». Hanno trovato l’isola del tesoro. La cornucopia. La cassaforte sempre disponibile. Lo sportello da cui attingere senza remore. Una cresta collettiva. Un vortice di pagamenti, regali, doni, con un giro di persone che ha intravisto la «meraviglia» di cui ripetutamente, come incantato da una visione da Paese dei Balocchi, parla Lele Mora. Anche bonifici. Dicitura: «Bonifico o/c Silvio Berlusconi in favore di Alessandra Sorcinelli - prestito infruttifero ». O assegni circolari. Come nei colloqui intercettati: «Se facessimo dei circolari le andrebbero bene oppure...? ». «Benissimo anche quelli». Allora «busta chiusa a ritirare», «Mi fai un regalo, un regalissimo ». Il denaro come, secondo Marx, «equivalente universale». Un modo dotto di dire che, nella modernità, tutto ha un prezzo. Secondo Georg Simmel il denaro è il simbolo della riduzione dei valori qualitativi in valori quantitativi.

Ma Simmel non deprecava. Descriveva. Avrebbe ricavato un supplemento di dettagli se avesse letto le intercettazioni in cui il «quantitativo », nei rapporti con il detentore di grandi ricchezze, soppianta il «qualitativo ». «Papi qua è la nostra fonte di lucro». «Mi devi dare una certa stabilità economica». «Amore per favore aiutami a trovare un lavoro per chiedere un mutuo che è uno dei miei sogni più grandi».
Fino al terrificante: «Gli ho detto che ne voglio uscire almeno con qualcosa... cioè mi dà... però... 5 milioni a confronto del macchiamento del mio nome». Ecco l’equivalente universale: 5 milioni di euro («a confronto») per un congruo e sicuro «smacchiamento». Come un bancomat, o un biglietto della lotteria. O la cornucopia universale da spremere prima che sia troppo tardi, fino all’ultima stilla. «Va bene, non ti chiedo tanto, mille». «No, mille sono tanti». «Mille, ma sono 500 euro a testa, caro». Caro, in tutti i sensi. E ancora: «Torniamo a casa almeno con 4 mila euro e perciò domani ci devi essere per forza». «Cash! Eh, un cristiano normale lavora sette mesi per prendere quello che ho preso io». «Sono stata un po’ cogliona perché non ho beccato nulla». La nottata «è valsa nove scarpe». «Un braccialetto e 2.000 euro». «Dice alla madre di aver ricevuto 7». Un sms dice che la rivale «ha avuto 6,5, ok?». «Ho diviso in due una busta da 5». Un esercito di gente che acchiappa, arraffa, incassa, agguanta. Senza nemmeno un trasporto d’affetto per la fonte di tanta fortuna. Che anzi viene insolentito, sfruttato senza limiti, indicato come la risoluzione di ogni problema. «Cavolo Francesca, un diamantino piccino!

C’è scritto F di Francesca piccolino d’oro, preferivo i soldi». «Questi sono gli inizi dai». «Comunque c’è soltanto il trilocale, eh, libero». «Gli aveva fregato la casa». Due cd di Apicella. Delusione? Aperti, ecco «quattro banconote da 500 euro». «Tutta la notte a 300 euro», altre cose, sempre «a 300 euro». «Lui ha regalato un anello e un bracciale a tutte, compresa Maria». «Basta che non siano 50 euro».
E poi, se non arriva l’equivalente universale, se il flusso di denaro, appartamenti, creste, bonifici, assegni circolari, bracciali, collane, diamantini, buste, banconote si dissecca o appare sulla via dell’esaurimento, l’esercito vorace di chi si stringe al Grande Ricco trasformato in bancomat diventa crudelmente avido, sempre più esigente, sempre più disposto a lasciare solo chi è all’origine di tanti variegati benefici. Da «l’importante mi sta riempiendo di soldi» fino a «vado io a tirargli la statua in faccia», se il bancomat annuncia di non funzionare più secondo i ritmi di chi vuole approfittare e mettere le mani nel tesoro dei miracoli. Basta solo un annuncio e il Grande Ricco si ritrova solo, come il Rag. incaricato di saldare i conti e mettere ordine tra postulanti, finti amici e affamati di denaro. «Prestito infruttifero».

Pierluigi Battista

19 gennaio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/11_gennaio_19/battista_corsa_oro_cavaliere_bb8ad7bc-2398-11e0-a3c4-00144f02aabc.shtml


Titolo: Pierluigi BATTISTA. LA RIFORMA E LE PARTI IN COMMEDIA
Inserito da: Admin - Febbraio 05, 2011, 09:39:52 am

LA RIFORMA E LE PARTI IN COMMEDIA

Il teatrino della politica

Umberto Bossi ha ammesso che il capo dello Stato ha ragione quando chiede alla maggioranza, per il rispetto dovuto al Parlamento, che il decreto del federalismo debba passare per l’aula di Montecitorio. Il leader della Lega avrebbe potuto pensarci il giorno prima.
E il Consiglio dei ministri, convocato d’urgenza in via straordinaria, avrebbe potuto evitare la forzatura di un decreto fatto apposta per neutralizzare un parere parlamentare in contrasto con la linea del governo. Una provvisoria via d’uscita frettolosa, sbrigativa, irrituale che Giorgio Napolitano non avrebbe consentito di imboccare. Giulio Tremonti, pochi minuti prima del comunicato del Quirinale, aveva definito il decreto sul federalismo una «svolta storica». Ecco, una svolta storica di queste proporzioni non può realizzarsi per strade oblique, con espedienti mediocri, con un rapporto tanto spregiudicato nei confronti delle istituzioni rappresentative.

E il federalismo? Il federalismo è diventato un guscio vuoto, un simbolo, una bandiera da sventolare. Un pretesto. L’ennesimo, in questo scorcio di legislatura in cui ogni voto parlamentare diventa il giorno del Giudizio, il momento supremo e definitivo che sancisce il destino di ciascuno. Giovedì tutti i protagonisti non si sono misurati sul federalismo, ma ne hanno fatto strumento per ingaggiare una prova di forza. Bossi ha legato l’esito del voto della commissione parlamentare alla sopravvivenza del governo. Le opposizioni hanno rivisto il miraggio della spallata al governo che avrebbe mandato a casa il premier o addirittura, come Gianfranco Fini, l’oggetto di un mercanteggiamento con il leader della Lega: promessa di un voto favorevole di Futuro e libertà in cambio di un acrobatico sganciamento del Carroccio da Berlusconi. I vertici del Pdl, per ammansire i malumori leghisti, ne hanno fatto il teatro di una spettacolare prova di supremazia, anche a costo di uno strappo istituzionale che Napolitano si è visto costretto a riparare.

I contenuti del federalismo, la «svolta storica» evocata dal ministro dell’Economia, inevitabilmente svaniscono. Si perdono nel nevrotico conteggio quotidiano che dovrebbe dimostrare alla maggioranza di esistere, forte dell’apporto dei singoli parlamentari via via strappati all’opposizione, e a quest’ultima di contare ancora qualcosa, pur nello sgocciolio di defezioni e ritirate. I voti parlamentari diventano così tappe di una gara giocata allo spasimo, tanto da suggerire a Berlusconi l’immagine di un trionfale punteggio sportivo: «sette a zero». L’invito del capo dello Stato a evitare la guerra permanente viene disatteso. Il conflitto tra politica e magistratura raggiunge l’apice, e si minaccia da parte del governo di reinserire nel calendario parlamentare materie esplosive come la legge sulle intercettazioni e quella sul processo breve. Una nevrosi del «tirare avanti» che logora e dissolve la discussione politica in un perenne incontro di pugilato senza costrutto. Questo è il cruccio del capo dello Stato. E una ragione in più per prendere atto, con rammarico, che una stagione è finita e che il ricorso al voto anticipato, anche con una pessima legge elettorale, forse è diventata una scelta obbligata.

Pierluigi Battista

05 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Se il leader si sospende
Inserito da: Admin - Febbraio 14, 2011, 04:20:27 pm

LE SCELTE E GLI OSTACOLI DI FINI

Se il leader si sospende

Gianfranco Fini ha detto che i valori del suo nuovo partito sono quelli con i quali nacque il Pdl, prima del suo fallimento. Dichiarazione un po' troppo spavalda, ma che ha il pregio della chiarezza: vuol dire che Futuro e libertà guarda all'elettorato di centrodestra come alla sua area di riferimento. Non è un no esplicito all'unione sacra antiberlusconiana. Ma è il segnale di una fisionomia netta anche in prossimità delle elezioni di cui ora anche Fini chiede la celebrazione anticipata. Anche questa è una novità: Fli pensa oramai che se cade il governo Berlusconi, l'unica alternativa è il voto subito. Senza pasticci, governicchi e coalizioni da metter su per prender tempo. Un contributo alla chiarezza.

Per la prima volta, inoltre, Fini ha messo sul tavolo l'eventualità di sue dimissioni dalla presidenza della Camera. Le ha proposte contestualmente a quelle del premier, rendendole così una sfida quasi impossibile. Ma è la prima volta che la parola «dimissioni» entra nel lessico finiano (vicenda Montecarlo a parte). Prima era un tabù, vissuto come un diktat a cui sottrarsi per non darla vinta al nemico Berlusconi. Ora, sia pur nelle forme paradossali di un doppio passo indietro, l'ipotesi delle dimissioni di un presidente della Camera, diventato nel frattempo leader di partito, entra nell'orizzonte delle scelte di Fini.

Risulta invece poco chiara la decisione di sospendersi da leader di un partito appena nato per non abbandonare la postazione di Montecitorio. È una prassi inconsueta: Casini e Bertinotti si autosospesero nel momento in cui assunsero una carica istituzionale. Qui avviene il contrario: è una carica istituzionale che sospende la propria leadership per manifesta incompatibilità. Ma forse Fini avrebbe potuto esercitare con pienezza la propria leadership in Fli abbandonando la presidenza della Camera. Nessuno vi avrebbe visto un «cedimento». Anzi, sarebbe stato più esplicito l'investimento di energie che il leader avrebbe devoluto alla sua nuova creatura, mentre esplodono minacciose rese dei conti tra i neocolonnelli. I militanti del Fli avrebbero visto il loro punto di riferimento spendersi a tempo pieno per le battaglie di partito. Ma può un partito nascere in forma con una paternità «sospesa», ostacolata da cause di forza maggiore?

Dal congresso del Fli, il disegno di un «terzo polo» inteso come stabile forza e non come provvisorio cartello elettorale non appare l'orizzonte preferito da Fini. Il bipolarismo, a differenza di Casini, resta la sua bussola politica. Ma come rimettersi in connessione con l'elettorato di centrodestra mantenendo incandescente la polemica con Berlusconi sarà il passaggio più difficile. Una grande ambizione che rischia di diventare azzardo velleitario. E il timone di una nuova nave, in circostanze così tempestose, non può mai restare sospeso.

Pierluigi Battista

14 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Alcuni punti fermi
Inserito da: Admin - Marzo 11, 2011, 04:31:07 pm
Alcuni punti fermi

Sulla giustizia si potrebbe evitare l'ennesima guerra di religione, se ambedue gli schieramenti la smettessero di farsi imprigionare dall'incubo di Silvio Berlusconi. Certo, sembra impossibile scindere il tema della giustizia dalle vicende giudiziarie che riguardano il premier. Ma bisogna liberarsi dalla dittatura delle convenienze. E non aver paura di entrare nel merito delle cose, uscendo dallo schema perenne di una maggioranza prepotente e di una opposizione rinchiusa nella retorica impotente del «no» globale e preventivo.

La separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri non può essere un tabù per il centrosinistra, anche se a proporla è il governo Berlusconi. Superfluo ricordare che quel tabù venne già violato nella Bicamerale presieduta da D'Alema tra il '96 e il '98. E del resto l'imparzialità e la terzietà del giudice rispetto alle parti è una garanzia per lo Stato di diritto tanto quanto l'indipendenza della magistratura dal potere politico. Un'opposizione libera dall'incubo di Berlusconi non potrebbe forse trovare un terreno di interlocuzione sul tema della terzietà, contrastando al contempo ogni tentazione di subordinazione dei pubblici ministeri agli imperativi della politica? Non è un tabù nemmeno la responsabilità civile dei giudici laddove sia ravvisabile un dolo nei loro comportamenti: se non altro perché un referendum ne ha sostenuto il principio (poi disatteso) già negli anni Ottanta. Perché la sinistra garantista dovrebbe avere paura di un principio che vincola i magistrati a una condotta di responsabilità simile a quella cui devono giustamente attenersi tutti i professionisti che svolgono attività su temi delicatissimi per la vita e la libertà dei cittadini? Sull'obbligatorietà dell'azione penale, poi, spieghi l'opposizione se oggi questa regola viene effettivamente osservata nelle procure italiane, o se i fascicoli che si accumulano sulle scrivanie dei tribunali non siano smaltiti con criteri che con l'«obbligatorietà» hanno poco a che fare.

Di tutto questo si può e si deve discutere, senza gridare all'«eversione» per proposte opinabili ma non incompatibili con i principi dello Stato di diritto. «Discutere», però, deve valere per tutti. Per il Pd, che può trovare un'occasione per smarcarsi dall'ipoteca giustizialista di Di Pietro. Ma soprattutto per la maggioranza di governo che non può procedere a strappi, spallate, ultimatum. Che non deve lasciarsi sopraffare da sentimenti di vendetta politica nei confronti della magistratura. Che non può pretendere di vendere un pacchetto preconfezionato senza ascoltare un'opposizione dialogante, i magistrati, gli avvocati e, naturalmente, i consigli saggi del presidente della Repubblica. I modi e i toni con cui la riforma della giustizia è stata annunciata lasciano temere il peggio. Ma la maggioranza è ancora in tempo a rovesciare questa impressione. Per realizzare con serietà, e senza proclami bellicosi, una riforma promessa oramai da 17 anni. Nell'interesse di tutti, e non per la conquista di un trofeo.

Pierluigi Battista

11 marzo 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
DA - corriere.it/editoriali


Titolo: Pier Luigi BATTISTA I professionisti dell'emendamento
Inserito da: Admin - Marzo 26, 2011, 11:55:36 am
GIUSTIZIA TRA RIFORME E SCORCIATOIE

I professionisti dell'emendamento


La riforma della giustizia è un tema troppo delicato per lasciarlo ai professionisti dell'emendamento nascosto e delle aggiunte da inserire di soppiatto. La maggioranza di governo è stata fatta bersaglio di sospetti pregiudiziali, fino a negarne la «legittimità» ad affrontare il tema della giustizia. Sono accuse inaccettabili in una democrazia in cui la maggioranza scelta dagli italiani ha il diritto e il dovere di governare. Ma dovrebbe essere cura di questa stessa maggioranza evitare, come purtroppo sta accadendo, di snaturare i contenuti della riforma con provvedimenti discutibili, ambigui, o inclusi con l'obiettivo nemmeno tanto mimetizzato di favorire le vicende giudiziarie del premier.

Se dunque si parla di separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici, non devono esserci tabù. E anche la discussione sull'obbligatorietà dell'azione penale merita di essere affrontata senza remore. Non ci sono santuari intoccabili. Trincee da difendere. Rendite di potere da salvaguardare. Però non ha senso dilatare a dismisura l'ambito della responsabilità civile per i magistrati che sbagliano. Il referendum che fu votato dagli italiani reclamava una sanzione per quei magistrati che si fossero macchiati nei loro comportamenti di «dolo o colpa grave». Includere la categoria elastica della «manifesta violazione del diritto» introduce un elemento di equivoco e di genericità che aumenterà inevitabilmente controversie, ripicche e conflitti. Appare una norma punitiva, un'appendice ritorsiva che dà l'impressione di voler umiliare un avversario temibile, non, come dovrebbe essere, di tutelare i cittadini da abusi, persecuzioni, sciatterie, crudeltà gratuite.

L'irruzione periodica delle norme sulla «prescrizione breve», poi, assomiglia più all'ennesimo anello da aggiungere alla catena delle leggi ad personam che non a un provvedimento utile per riformare la giustizia italiana. Getta il peso delle vicende giudiziarie del premier in una riforma che dovrebbe riguardare la generalità e sembra fatta apposta per allontanare la semplice prospettiva della convergenza di una parte dell'opposizione che pure non è insensibile ai richiami di una riforma in senso garantista. Del resto, era stato lo stesso ministro Alfano ad assicurare che non ci sarebbero stati provvedimenti sospettabili di favorire il premier nel testo della riforma. Quella rassicurazione sembra caduta nel nulla. Oggi è il turno della «prescrizione breve». Domani potrebbe essere la riproposizione sotto mentite spoglie del «processo breve». Dopodomani chissà. Perché far vivere le istituzioni e l'opinione pubblica nella perenne attesa di qualche nuovo agguato? Perché alimentare in modo permanente il sospetto che la maggioranza stia provando a manomettere la legislazione in materia di giustizia per andare incontro alle esigenze del suo leader?

Meglio dunque che la maggioranza dia seguito ai buoni propositi enunciati dal suo ministro (e dallo stesso premier, del resto). Ha i titoli politici e istituzionali per governare, e non sarà certo la componente più oltranzista della magistratura e negargliene il diritto e la legittimità. Imbottire però la riforma di espedienti, eccentricità, estremismi e personalismi rende il percorso di una riforma seria più problematico. Ne verrebbe compromessa la credibilità della maggioranza. E la stessa speranza di riformare la giustizia.

Pierluigi Battista

26 marzo 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_marzo_26/


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Sull'Orlo del Precipizio
Inserito da: Admin - Marzo 31, 2011, 05:57:05 pm
Sull'Orlo del Precipizio

Malgrado l'esortazione di Giorgio Napolitano da New York, la politica italiana ha conosciuto ieri una delle giornate più convulse e sguaiate della storia repubblicana. Ma se si voleva dare plastica rappresentazione del male che secondo il capo dello Stato affligge il nostro sistema politico, a cominciare da un'atmosfera di guerriglia nutrita dalla sistematica e reciproca delegittimazione delle parti, ieri il copione è stato purtroppo recitato alla perfezione. Non un insulto è stato risparmiato nella caotica follia che ha investito e avvilito ieri il Parlamento e la piazza antistante. Non un urlo rauco, non un'invettiva, un gesto di disprezzo, un'espressione smodata, una manifestazione di odio: tutto concentrato in una manciata d'ore. E nessuno ne esce con un profilo di decoro e di innocenza. Nessuno.

Non la maggioranza di governo, che non ha esitato a svilire la riforma della giustizia, riducendola con un escamotage parlamentare a scudo per le vicende giudiziarie del premier. Non l'opposizione, tentata addirittura da velleità aventiniane, e che sembra succube di una frenesia da megafono: quella che trasferisce la discussione parlamentare, anche vivace e dura, nell'incandescenza del comizio. Non i ministri che scambiano con il presidente della Camera battute irripetibili. Non il clima da stadio che ha stravolto l'aula di Montecitorio. Non le scene di linciaggio simulato che riesumano le pagine peggiori della guerriglia delegittimante di cui ha parlato il presidente della Repubblica e che riportano ai riti di piazza in auge nella stagione di Mani Pulite: lo spettacolo sconsolante delle monetine, l'assedio al Parlamento, i politici «nemici» bollati indistintamente come «mafiosi».

Difficile distribuire colpe e responsabilità. Quando domina la rissa, non si riesce più a distinguere i colpi dati e quelli incassati. Ma colpisce la disponibilità alla rissa continua. La pretestuosità con cui si coglie ogni occasione per inscenare la solita liturgia della guerra civile «a bassa intensità», come è stata definita. Ancor più pretestuosa e colpevole quando a pochi chilometri dall'Italia la scena della guerra non è una liturgia, ma una terribile realtà. Non è che la guerra debba silenziare ogni conflitto, o che un'atmosfera di mistica unità nazionale debba anestetizzare il dissenso, o addomesticare la discussione parlamentare. Ma nemmeno può valere il contrario: la politica della provocazione quotidiana e permanente, il braccio di ferro continuo, una spirale di ritorsioni che si avvita senza fine. Lo spettacolo di ieri ha dato a questo scenario intossicato una teatralità di gesti che contribuisce ad alimentare un'atmosfera di ultimatum permanente. Quanto la rissa continua stia nelle corde popolari o non emani piuttosto dal clima chiuso e avvelenato dei palazzi della politica è difficile dire. Ma non è difficile capire che l'orlo del precipizio è vicino. Tra insulti e monetine, rischiamo addirittura di non accorgercene.

Pierluigi Battista

31 marzo 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_marzo_31/


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Una guerra strana, declassata in fretta
Inserito da: Admin - Aprile 08, 2011, 10:29:44 pm
Noi e la Libia

Una guerra strana, declassata in fretta

Non si sa più chi vince e chi perde

   
 di Pierluigi Battista

La guerra che non c'è. Sparita, svanita, declassata a spirale di scaramucce tra forze in campo la cui unica strategia appare l'eterno andirivieni: oggi avanzo, domani rinculo; e viceversa. Oggetto di contesa per una diplomazia internazionale ondivaga, volubile, pazzotica. La guerra impantanata nel deserto della Libia. La guerra più sconclusionata del mondo. Una guerra in cui non solo non si sa più chi vince e chi perde,ma anche a quale realtà dovrebbe corrispondere la vittoria o la sconfitta.

Il dittatore Gheddafi ha rintuzzato la controffensiva dei ribelli, ma non è stato distrutto, o cacciato, o mandato in esilio.
Allora ha vinto? Non si sa. Il dittatore Gheddafi non riesce a riprendersi la Cirenaica in mano agli insorti, soffre la defezione di una parte del suo clan, non è più il padrone incontrastato del territorio libico, la sua contraerea è stata devastata da un paio di raid franco-anglo-americani. Allora ha perso? Non si sa. E gli insorti? Con gli aerei internazionali autorizzati dall'Onu vanno avanti. Appena quegli aerei stanno fermi, gli insorti fuggono su trabiccoli scalcagnati, sparacchiano in aria con i kalashnikov, ma con forza e impatto militare pari a zero. Vincono? Perdono?

E nella comunità internazionale chi vince dopo che l'Europa si è spezzata, le nazioni sono andate per conto proprio, l'America rilutta, la «rivoluzione dei gelsomini» è seppellita dalla disattenzione dei media mondiali? Che ne è della sollevazione in Siria, esplosa dopo che l'Onu aveva autorizzato i raid in Libia? Quelli che detestano Sarkozy, a cominciare dalle truppe combattive del neo-pacifismo di destra, se la prendono con le smanie francesi. Ma proprio loro, incendiati di ardore difensivo nei confronti del despota di Tripoli con cui si condividevano affari e spettacoli circensi, avevano accusato Sarkozy di creare un disastro dando troppa corda ai ribelli libici. Dicevano, in sintonia con Gheddafi, che dietro gli insorti ci fosse Al Qaeda. Deve essere davvero alla frutta, Al Qaeda, se affida il suo destino eversivo e terroristico a bande disordinate e poco avvezze persino alla guida degli autocarri in fuga. Ma anche il fronte «guerrafondaio» dovrà ripensare i modi dell'appoggio a truppe raccogliticce, impotenti, militarmente inette fino a punte grottesche.

Ecco, il grottesco. Difficile che in questa guerra pazza qualcuno sia riuscito ad evitare una punta di grottesca inconcludenza. Non la Francia, la cui muscolarità non sembra raggiungere obiettivi adeguati alla gloria che quella nazione meriterebbe. Non gli Stati Uniti, che fanno la guerra facendo finta di non farla, vanno all'avanguardia ma si vogliono mostrare in retroguardia. Non Gheddafi, che si ritrova nel suo bunker, abbandonato da una parte dei suoi, ridotto a spararle sempre più grosse e addirittura a supplicare Obama, richiamandolo a comuni matrici religiose, di finirla con l'ostilità nei confronti del suo regime. Non l'Europa, politicamente defunta in questa strana e inafferrabile guerra. Non l'Italia, che in due mesi ha cambiato idea almeno quattro volte sulla questione libica e che, fattasi più tenue e sopportabile la nostalgia per il dittatore che aveva promesso stabilità e affari, cerca con affanno i segni del «dopo», un rapporto di interlocuzione con chi, forse, dovrebbe arrivare al posto di Gheddafi.

E ora, dopo appena qualche settimana, la guerra libica abbandona le prime pagine dei giornali. Chi è interessato alle traiettorie del petrolio si industria per trovare una linea e una prospettiva. La «rivoluzione araba» viene abbandonata a se stessa, nel timore che l'estremismo fondamentalista rompa gli argini e tradisca le aspirazioni liberali delle giovani piazze in rivolta. Tutto viene travolto dalla questione dell'immigrazione. Con i giovani arabi che vedono nell'Europa e nell'Occidente modelli di inaffidabilità: questo sì carburante per i fondamentalisti che possono dimostrare la loro superiorità sulle democrazie indecise a tutto. Mentre le notizie da Bengasi e da Misurata, da Tripoli e dalla Sirte appaiono sempre più lontane, confuse, avvolte in un'ovatta di disinformazione creata dalle propagande contrapposte. La guerra più strana e scervellata. Dove l'unica cosa vera è il sangue di chi in Libia ci ha rimesso la vita. Non sapendo, forse, nemmeno il perché.


08 aprile 2011
da - corriere.it/esteri/11_aprile_08/


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Un litigio permanente
Inserito da: Admin - Aprile 12, 2011, 06:40:48 pm
PAESE COMPOSTO, POLITICA INCONCLUDENTE

Un litigio permanente

Arringando la sua folla, davanti al Palazzo di Giustizia di Milano, il premier ha detto ieri di aver trascorso una «mattina surreale». Ecco: sono mesi che l'Italia vive una condizione surreale. La maggioranza più estesa della storia repubblicana è diventata ostaggio di un pugno di «responsabili» che già annunciano, obliquamente, che domani il governo potrebbe vivere momenti difficili alla Camera sulla prescrizione breve.

Le riforme «epocali», come quella della giustizia, svaporano o si rattrappiscono in provvedimenti ad personam che costringono il Parlamento a ripetute maratone condite da urla e insulti. La benefica «scossa» all'economia, annunciata con solennità quasi due mesi fa, si è arenata nel nulla. Ora è il turno del piano triennale per la «Riforma lavoro». Si spera che stavolta vada avanti, certificando fattivamente una volontà riformatrice sinora disattesa. Una speranza obbligata, mentre la maggioranza sembra inabissarsi nell'era del litigio permanente.

Si litiga con la magistratura, oramai a ritmi spossanti, con le udienze in tribunale che si trasformano nei comizi del lunedì, con le squadre dei fan e degli odiatori che si fronteggiano per strada. Si litiga con l'Europa per gli immigrati: con qualche buona ragione, ma smentita da minacce neo isolazioniste che rischiano di far ripiombare la Lega, e con essa stavolta tutta la maggioranza, in un'eurofobia autolesionista. Si litiga nel Pdl, con le cene correntizie che profilano una condizione di guerra tribale di tutti contro tutti. Scatti di nervi, tentazioni scissionistiche. E il fantasma del «25 luglio» che da reminiscenza storica si trasforma in uno scenario da incubo evocato da uno degli esponenti di punta del berlusconismo come Fabrizio Cicchitto.

La rendita assicurata dall'annessione del variopinto manipolo dei «responsabili» si sta esaurendo. Per un attimo, dopo il trionfo parlamentare nel voto di fiducia dello scorso 14 dicembre, si era pensato che la legislatura potesse affrontare la fase finale con un piglio riformatore che era mancato nei mesi precedenti: giustizia, economia, ora il lavoro. Ma nel giro di poche settimane la politica italiana sembra risucchiata nella sua nevrosi chiassosa e inconcludente. Nel frattempo, incombe la crisi economica e finanziaria, e scoppia una guerra a un passo da noi. Ma l'Italia, sottoposta a continui traumi sociali, sembra conservare una sua miracolosa tranquillità e persino l'emergenza dell'immigrazione viene affrontata tutto sommato con calma e freddezza.

Il Paese appare solido, la politica in continua fibrillazione. Il contrario del Napoleone raffigurato da Jacques-Louis David, dove il cavaliere tiene con fermezza le redini di un destriero irrequieto e smanioso: qui in Italia è invece il cavaliere - la politica - a dare in escandescenze mentre l'Italia si mostra composta e autocontrollata. Stavolta c'è bisogno di una svolta vera, altrimenti non si vivacchia ma si sprofonda. E le elezioni potrebbero risultare il male minore.

Pierluigi Battista

12 aprile 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_aprile_12/


Titolo: Pier Luigi BATTISTA La Lega medita lo strappo
Inserito da: Admin - Maggio 31, 2011, 03:57:08 pm
La Lega medita lo strappo

La disfatta berlusconiana nelle urne è un uragano destinato ovviamente in primis a rovesciarsi sul destino politico del capo del governo, ma anche a scardinare il sistema politico degli ultimi quindici anni. Uno sconvolgimento in cui nulla resterà come prima: partiti, alleanze, leader, sistemi elettorali, aggregazioni, schieramenti. Primo fra tutti il centrodestra così come lo abbiamo conosciuto, alla vigilia di un divorzio tra il Pdl e la Lega che potrebbe addirittura preannunciare lo sfaldamento dell’impalcatura bipolare che ha retto l’intera vicenda della Seconda Repubblica. Per capire cosa ne sarà dell’attuale maggioranza dopo il sisma che l’ha travolta in tutta Italia con pari violenza devastante, occorrerà decifrare infatti proprio le mosse del partito di Bossi: il vero grande sconfitto di queste elezioni assieme a quello di Silvio Berlusconi. Il risultato negativo della Lega ha infatti svuotato di senso tutti gli scenari su cui si sono esercitati sinora i sondaggi in previsione di nuove elezioni politiche.


Tutti questi scenari, a parte marginali variazioni numeriche, erano infatti fondati sulla previsione che l’ineluttabile crisi del Pdl sarebbe stata compensata dal contestuale boom dei voti leghisti, lasciando sostanzialmente inalterato il margine di vantaggio del centrodestra sui competitori dell’opposizione. Questo schema è esploso in un weekend fatale che ha stravolto la cornice politica degli schieramenti così come li abbiamo conosciuti sinora. La Lega è stata severamente punita insieme a Berlusconi, abbandonata da una base popolare infuriata, delusa e stremata da un’alleanza con il Pdl che le sta erodendo consenso e credibilità. Per la prima volta Bossi è stato colpito a causa della sua alleanza con Berlusconi. Per la Lega si è simbolicamente chiusa la stagione della coalizione di centrodestra. Questo è un dato certo, malgrado le dichiarazioni rassicuranti diffuse dalla Lega nella serata di ieri. Incerti sono solo i modi, i tempi e il linguaggio con cui avverrà l’operazione sganciamento della Lega da questa maggioranza.


Con ogni probabilità, la Lega farà della richiesta di una nuova legge elettorale proporzionale, alla «tedesca», con lo sbarramento e senza l’obbligo di alleanze precostituite, il simbolo della rottura definitiva del patto oramai consumato che la tiene avvinta al destino di Berlusconi. Una richiesta che potrebbe ottenere il consenso non solo del Terzo Polo, ma anche della parte maggioritaria del Pd e persino della sinistra «radicale » rappresentata da Vendola. Il ritorno al sistema proporzionale potrebbe suonare come il segno della liberazione da vincoli di coalizione oramai percepiti come una gabbia soffocante, a destra, ma anche al centro e a sinistra. «Andare da soli» suonerebbe come il refrain del nuovo proporzionalismo. Una rivendicazione delle mani libere, il sintomo dell’insopportazione per i ricatti e i veti di coalizione che hanno intossicato il fragile bipolarismomaggioritario della Seconda Repubblica. Il principale sconfitto sarebbe Berlusconi, che della «religione del maggioritario» si è fatto artefice e sacerdote per oltre un quindicennio sin dalla sua avventurosa «discesa in campo ». E se l’appello leghista trovasse il consenso della maggior parte delle forze politiche che si oppongono a Berlusconi, si sarebbe innescato il detonatore capace di far deflagrare ciò che resta della Seconda Repubblica.


Il sistema proporzionale, come si vede dall’esempio tedesco, non è in sé un ostacolo insuperabile per la democrazia dell’alternanza. Ma in Germania il sistema politico è strutturato su partiti forti e stabili che danno all’elettorato il senso di schieramenti alternativi che si fronteggiano. In Italia questa forza dei partiti non c’è, men che mai in una condizione di potenziale e caotico sfaldamento del partito che di Berlusconi è diretta e imprescindibile emanazione. Il bipolarismo italiano si è identificato totalmente nella figura di Berlusconi, anche nella parte che gli si è opposta e che ha trovato nell’antiberlusconismo il fattore coesivo più potente. Lo sganciamento della Lega dal Pdl, se si associasse a una battaglia per il sistema proporzionale, intonerebbe inevitabilmente il de profundis non solo per il berlusconismo, ma per la stagione bipolarista così come si è imposta in Italia negli ultimi quindici anni. Un terremoto politico dagli esiti incerti e tumultuosi. Un disordine che si farebbe a fatica a definire, con Schumpeter, «distruzione creatrice».

Pierluigi Battista

31 maggio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_maggio_31/


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Gli estremisti del linguaggio
Inserito da: Admin - Giugno 20, 2011, 08:35:16 am
CENTRODESTRA, FARSI MALE DA SOLI

Gli estremisti del linguaggio

Se Silvio Berlusconi volesse dimostrare di saper ancora esercitare una parvenza di leadership sul suo mondo traumatizzato da due disfatte consecutive, dovrebbe in primo luogo tenere a bada il lessico incontrollato di un centrodestra (linguisticamente) allo sbando. Per il bene del centrodestra metta fine, se vuole e se ne è in grado, alla forsennata deriva estremista del linguaggio dei suoi zelanti esternatori del nulla. Rintuzzi le dichiarazioni più sconsiderate, l'urlo di chi reagisce con la disperazione delle parole all'incubo di una sconfitta dolorosa. Per il bene del centrodestra, dica ai suoi che perdere non significa necessariamente perdere malissimo, dando di sé l'immagine peggiore e più squilibrata. Più odiosa, addirittura.

Dica che è insensato che i ministri sparacchino sui precari. Che i dichiaratori professionali alla Stracquadanio attribuiscano la sconfitta referendaria ai perditempo di sinistra che gironzolano per il Web. Che l'intimazione a spostare i ministeri al Nord non incanta nemmeno più il deluso elettorato leghista. Se il centrodestra pensasse di compensare il dolore aspro della sconfitta con la rincorsa alle parole meno sorvegliate, commetterebbe l'ennesimo errore catastrofico. A Milano, tra il primo e il secondo turno, il centrodestra si è abbandonato all'estro dell'oltranzismo verbale: gli ululati su «zingaropoli», le orde di musulmani che espugnano il Duomo, il terrorismo anni Settanta addirittura. Si è visto come è finita: con l'apocalisse, degna conclusione di una maratona verbale cominciata con l'equiparazione dei magistrati alle Br.

È probabile che il destino del berlusconismo sia segnato. Ma non è obbligatorio che la fine venga vissuta con un cupio dissolvi che fa paura e disorienta persino l'elettorato più caparbio del centrodestra. Non è necessario che tutto si riduca a barzelletta, alle battute che vorrebbero ostentare disinvoltura ma denunciano soltanto angoscia per un imminente de profundis. Lo dica, il leader del centrodestra, ai suoi. Dica al ministro Maroni che è legittimo dissociarsi apertamente e lealmente dall'azione militare in Libia, ma non dare l'impressione, per ingraziarsi il frastornato elettorato leghista, di non saper stare responsabilmente in un'alleanza internazionale e di non stare dalla parte dei nostri militari che rischiano la vita sui cieli di Tripoli. Lo dica a se stesso, il premier, tutte le volte che viene travolto dalla sciagurata tentazione di giocare in occasioni ufficiali sul «bunga bunga» in presenza di attoniti capi di Stato stranieri, come è accaduto l'altro giorno con il premier israeliano.

Il linguaggio è importante, non è un orpello stilistico: è il marchio che certifica l'affidabilità di un progetto politico. E se quel che resta del progetto politico del centrodestra venisse sepolto da un linguaggio prigioniero dell'estremismo e della provocazione dissennata, la sconfitta, oltre che amara, sarebbe l'annuncio, sempre più cupo, dell'ultimo disastro.

Pierluigi Battista

17 giugno 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_giugno_17/battista_estremisti_linguaggio_7a6c8618-98a0-11e0-bb19-8e61d656659c.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Salvate almeno le forme
Inserito da: Admin - Luglio 09, 2011, 04:59:48 pm

Il commento

Salvate almeno le forme


Non bastano le rettifiche imbarazzate, le scuse e gli abbracci dopo le gaffes, le smentite tardive, le retromarce, per constatare come nella compagine di governo oggi scarseggino addirittura i prerequisiti minimi della lealtà reciproca. E non nell'ordinaria amministrazione. Ma nel fuoco di una manovra economica che, oltre ai numeri e alle cifre, dovrebbe trasmettere al mondo e all'opinione pubblica un'immagine di credibilità. Una credibilità che, in queste condizioni, appare però sempre più evanescente e controversa.

Due anni così, e così malamente vissuti, sarebbero letali. Per tutti. Per il governo, per la politica, per gli italiani. I contrasti tra il premier e il ministro dell'Economia hanno raggiunto livelli di asprezza in grado di oltrepassare il racconto dei più maliziosi retroscenisti della politica. L'inserimento furtivo della cosiddetta norma «salva-Fininvest» è stato il detonatore di uno scontro che ora non conosce nemmeno le regole del fair play, tra battute pubbliche cruente («chiedetelo a Letta») e chiamate di correità («Tremonti sapeva») che rendono sempre più problematico persino lo stare insieme di personalità così distanti nello stesso governo. Il clima tra i ministri si è fatto tossico e irrespirabile. Non servirebbero nemmeno più le intercettazioni telefoniche o i fuori onda per rivelare, con gli sguardi, con la mimica dell'insopportazione e con le dichiarazioni incendiarie degli stessi ministri, in quale palude avvelenata di sospetti, fastidi reciproci, antipatie incrociate, gelosie e irritazioni stia sprofondando la comunità di un governo che dovrebbe comunicare agli italiani i segnali di un minimo di compattezza e, per usare una parola molto cara ma molto abusata nel centrodestra in crisi, di «responsabilità».

Le recenti disfatte elettorali e referendarie hanno innescato un vortice di accuse per additare all'opinione pubblica il capro espiatorio colpevole di tutte le sconfitte. L'unanimità raggiunta per la nomina di Alfano a segretario del Pdl si sfarina al primo contatto con la realtà delle decisioni impopolari e delle manovre lacrime e sangue. L'elettorato del centrodestra è deluso, irato, frastornato. La pillola dell'inasprimento fiscale dovrebbe essere, se non addolcita, almeno resa digeribile da comportamenti rigorosi, che riflettano il senso di una difficoltà comune e di sacrifici condivisi. Invece si rilancia, tra allusioni e mezze ammissioni, il gioco dell'eventuale ripresentazione parlamentare della norma che favorirebbe le aziende del premier.

E tutto malgrado l'opposizione esplicita della Lega, l'imbarazzo crescente di una parte della maggioranza, l'impopolarità assoluta di un provvedimento che appare tanto più legato alle «cose» del capo del governo quanto più la coalizione di maggioranza si dimostra insensibile alle cose pubbliche bocciando inopinatamente, con l'avallo autolesionistico del Pd, i risparmi cospicui che potrebbero giungere dall'abolizione delle Province.

La crisi e l'instabilità cronica di una coalizione, di un leader, di un governo sono oramai esplicite e, con ogni probabilità, irreversibili. Il vivacchiamento, il tirare a campare, per di più condito da una violenza dei rapporti tra gli stessi ministri che non ha quasi precedenti nella storia repubblicana, raffigurano lo scenario peggiore, proprio mentre la manovra economica chiede agli italiani uno sforzo notevole, pesantissimo in una condizione sociale ed economica già sfiancata dalla crisi degli ultimi anni. Un soprassalto di serietà, oppure la presa d'atto di un'esperienza finita e di una nuova consultazione popolare. Tutto, tranne le liti puerili in un governo che non riesce più a governare.

Pierluigi Battista

08 luglio 2011 07:46
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da - http://www.corriere.it/editoriali/11_luglio_08/battista_salvate_forme_56084c96-a924-11e0-b750-7ee4c4a90c33.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA La febbre è alta
Inserito da: Admin - Luglio 21, 2011, 05:48:06 pm
La febbre è alta

Nessuno può credere alla favola di un « fumus persecutionis » schizofrenico e a corrente alternata, tanto denso al Senato sul destino giudiziario e la libertà personale di Tedesco (Pd), quanto vago su quello di Papa (Pdl). Come è ovvio, è stato invece solo il calcolo politico a garantire esiti così difformi (un «sommerso» di destra e un «salvato» di sinistra) nei due casi che, in una grottesca corsa alla par condicio politico-giudiziaria, dovevano conquistare la scena in simultanea nelle due Camere.

Perciò ieri è stata una giornata nera della storia repubblicana. Una data di svolta dove, tra trappole e agguati, vendette consumate all'ombra del voto segreto e acrobazie di furbi e doppiogiochisti, la maggioranza si è sgretolata in una battaglia decisiva. Ma ne esce anche macchiata la reputazione delle istituzioni, compromessa l'immagine di credibilità del Pd, minata la stessa leadership di Bossi in una Lega da ieri molto più maroniana che bossiana.

Istituzioni parlamentari macchiate, perché non ha contato nulla il merito giudiziario e processuale sulla base del quale i parlamentari di Camera e Senato avrebbero dovuto decidere a favore o contro l'arresto di due loro colleghi, ma solo l'applicazione di una feroce logica politica, che ha fatto di Tedesco e di Papa due birilli da buttare giù o da risparmiare solo per convenienza. Oppure per inviarsi messaggi trasversali e indecifrabili tra partiti, tutti e nessuno escluso, che oggi godono nell'opinione pubblica di uno dei tassi più bassi e umilianti di gradimento morale.
Compromessa la credibilità del Pd che, proprio nel giorno in cui diventa pubblica una vicenda giudiziaria che coinvolge Filippo Penati, ex capo della segreteria politica di Bersani, finisce per apparire come il beneficiario di un insopportabile trattamento di favore, con ogni probabilità favorito da franchi tiratori infedeli alla linea ufficiale del partito. Tanto da rendere molto problematica, a fronte di un evidente e rovinoso tracollo del berlusconismo, l'adozione di un'aggressiva «questione morale» da agitare contro gli avversari. Il Pd come parte integrante di una Casta impunita: ecco l'immagine che rischia di danneggiare il partito di Bersani, soprattutto se Tedesco, non dimettendosi da senatore, continuasse a farsi scudo della sua immunità parlamentare.

Ma soprattutto esce dissolta la maggioranza di governo. Con la Lega che fa deflagrare il patto di alleanza con Berlusconi. Con il Pdl chiuso nel bunker del rancore. Con Berlusconi che deve mettere in archivio le cene riparatorie con Bossi e prendere atto di un Carroccio sempre più guidato da Maroni, così insofferente con l'alleato da tradirlo nel momento decisivo. C'è da chiedersi come una maggioranza così devastata, incapace di governare l'ordinaria amministrazione o la questione dei rifiuti, possa affrontare la tempesta economica che ci sta scuotendo.

Pierluigi Battista

21 luglio 2011 07:54© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_luglio_21/la-febbre-e-alta_b88bec04-b358-11e0-a9a1-2447d845620b.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Non possiamo aspettare otto giorni
Inserito da: Admin - Agosto 11, 2011, 12:29:41 pm
Non possiamo aspettare otto giorni

Le Borse europee, nel loro catastrofico precipitare, non possono attendere il 18 agosto. E se i riti della politica sono lunghi e farraginosi, i mercati, invece, sono brutalmente impazienti. Perciò l'annuncio che solo dopo Ferragosto verrà convocato un Consiglio dei ministri straordinario per varare le misure anticrisi (sia pur con l'eventuale concessione di un improbabile anticipo di qualche ora) può impressionare solo chi è assuefatto ai ritmi elefantiaci della nostra politica. Ma i giorni del vuoto e della non decisione condannano all'incertezza e al panico chi investe, chi compra, chi vende, chi risparmia. Un disastro nel disastro.

Il vuoto temporale, dunque. Ma anche il vuoto delle idee. Mentre il sottosegretario Letta si dice corrucciato perché negli ultimi cinque giorni gli eventi sono precipitati, mentre il ministro Tremonti considera obsoleta (da «ristrutturare») la manovra già durissima annunciata a luglio, all'inizio dell'uragano, non emerge nessuna idea credibile su come e dove e quanto «ristrutturare». Rimbalzano i «no». Il no di Bossi a interventi sul sistema pensionistico. Il no del premier alla patrimoniale. Il no globale del Partito democratico che definisce «massacro sociale» misure che qualunque governo, anche non presieduto da Berlusconi, sarebbe costretto a prendere. Il no a prescindere della Camusso (sciopero generale?). E le incertezze su liberalizzazioni e costi della politica.

Le «parti sociali», convocate in una mega riunione in cui la parata di tutti i ministri schierati enfaticamente per la grande occasione che poi si è rivelata inutile, nicchiano, contestano misure che non esistono, affidate ancora al cicaleccio dei corridoi, alle indiscrezioni più o meno interessate. Addirittura annunciano che sul mercato del lavoro faranno da sole, e che il governo si astenga dall'intervenire: praticamente un'esortazione ad abdicare. Passa il tempo, ma gli appuntamenti con la decisione non sono rispettati. È il trionfo della politica dei veti e dei ricatti reciproci, della difesa degli orticelli di ciascuno. Nella maggioranza denunciano complotti e lamentano accorati la prepotenza dei mercati che mirerebbero alla sostituzione di questo governo. Ma forse i mercati, e con loro i cittadini, i risparmiatori, gli imprenditori, i lavoratori vorrebbero semplicemente un governo. Un governo, nella tempesta che scuote il mondo, che facesse il governo. Che decidesse, e in fretta. E non traccheggiasse di settimana in settimana. Non indicasse date improbabili. Non lesinasse sui tagli e sui risparmi. Se è una guerra quella che deve essere combattuta, le decisioni non possono sottostare alla normalità paludosa dei vertici tra i partiti. La guerra non può sguarnire nessun fronte, e un governo che si impigliasse in una trattativa in cui ogni sua componente scarica solo sugli altri il gravame dell'impopolarità risulterebbe un governo inadeguato, su cui non investire nessuna fiducia.

Aspettando, scettici e impotenti, il 18 agosto, mentre le Borse bruciano e l'attesa diventa un dramma.

Pierluigi Battista

11 agosto 2011 08:48© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_agosto_11/battista_non-possiamo-aspettare-otto-giorni_4d0f539a-c3d8-11e0-9d94-686c787ab248.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA IL GOVERNO, LA CRISI E LE INCHIESTE
Inserito da: Admin - Settembre 17, 2011, 04:31:28 pm
IL GOVERNO, LA CRISI E LE INCHIESTE

Ragionevoli considerazioni

Il premier scelto dagli elettori va rispettato. Ma la premiership , consacrata dal voto popolare, deve essere esercitata meritandosela ogni giorno, proprio per rispettare la volontà di quegli elettori. Il governo, però, rischia di dissolversi e di avvitarsi nei suoi errori. Bossi è stato sin troppo esplicito, purtroppo tra l'ennesimo gestaccio e l'ennesima pernacchia: così non si può andare avanti fino al 2013. L'elettorato di centrodestra è deluso e frastornato. I suoi capi devono comprenderne gli umori e i malumori, e non rinchiudersi nell'ultima trincea, bollando come tradimento e diserzione ogni barlume di ragionevolezza.

La ragionevolezza dice che il conforto dei ripetuti voti parlamentari di fiducia non è più in grado di nascondere la debolezza oramai macroscopica di un governo che certo ha appena avuto il merito di varare una manovra economica di dimensioni gigantesche, ma che appare ogni giorno di più assente, risucchiato in una logica di autodifesa, appiattito e svuotato nello scontro incandescente tra il suo leader e la magistratura. La sua credibilità ne risulta fortemente intaccata. E forse i primi a non credere alle loro parole e ai loro proclami sono proprio i suoi esponenti di spicco che parlano di riforme da fare, ma sanno che certamente non saranno fatte da qui al 2013. Per questo l'abulia politica del premier rischia di contagiare tutto lo schieramento che lo sostiene. Impedendo allo stesso centrodestra di immaginare un futuro politico che, oramai appare chiarissimo, non potrà più riconoscere come suo leader eterno la personalità di Silvio Berlusconi, trascinante in un quindicennio che lo ha visto protagonista assoluto ma che sembra aver irrevocabilmente imboccato il viale del tramonto.

L'opinione pubblica del centrodestra non ha torto quando sente un eccesso persecutorio, il modo accanito con cui una magistratura ossessionata dalla figura di Berlusconi sogna una spallata politica che si fa forte di una montagna di oltre centomila intercettazioni (un'enormità) per minare la stessa reputazione politica e personale del premier, prima ancora che la verità giudiziaria sia accertata. Ma è nell'interesse dello stesso centrodestra che la fine di un'esperienza politica di oltre diciassette anni non assomigli allo sprofondamento di un regime asserragliato nel palazzo del capo, in una spirale di auto-emarginazione destinata ad annientare ogni possibilità di rinascita con una nuova leadership e una nuova classe dirigente.

Hanno ragione a dire che non può essere la magistratura l'istituzione abilitata a far cadere i governi. Ma una politica responsabile è anche quella che sa imboccare tempestivamente un'altra strada prima di ingaggiare una guerriglia di resistenza pur di non prendere atto di una situazione di disagio che lo stesso Bossi ieri ha impietosamente fotografato. Scelga il centrodestra la formula giusta e gli uomini più rappresentativi per chiudere un capitolo della storia politica italiana e per aprirne un altro in cui il suo elettorato possa riconoscersi. Per promuovere una transizione politica e non per subire un diktat giudiziario. Nell'interesse di tutti, ma anche di un centrodestra che rischia di finire nel discredito e nella mancanza di una leadership sempre più incapace, oramai, di onorare gli impegni presi nel 2008.

Pierluigi Battista

17 settembre 2011 08:19© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_settembre_17/Ragionevoli-considerazioni-editoriale-pierluigi-battista_f4ed5e90-e0ed-11e0-98a6-ace789a755c8.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Un litigio che fa male
Inserito da: Admin - Settembre 27, 2011, 10:47:29 am
DIVIDERSI NEL MOMENTO PEGGIORE

Un litigio che fa male

Berlusconi e Tremonti dopo il voto su Milanese


«Altre domande?», ha tagliato corto ieri il premier Berlusconi quando gli hanno chiesto cosa pensasse dell'assenza di Giulio Tremonti nella votazione parlamentare per l'arresto di Milanese, consigliere del ministro. Altre domande? In effetti ce ne sarebbero. Per esempio: è possibile che il presidente del Consiglio e il ministro dell'Economia si trattino pubblicamente come nemici e non perdano occasione per punzecchiarsi, darsi sulla voce, mostrare a ogni occasione insofferenza reciproca e addirittura rancore? Un'altra domanda: che spettacolo è quello di un rapporto così lacerato tra premier e ministro dell'Economia quando nel mondo finanziario internazionale è tempesta perfetta, l'Italia è declassata da un'agenzia di rating e gli italiani sono chiamati a fare sacrifici durissimi?

Anche i contrasti politici, legittimi, richiedono forme appropriate. Invece ieri l'assenza di Tremonti nel Consiglio dei ministri è stato uno strappo che ha alimentato fino al parossismo i malumori dei suoi colleghi. Ma le istituzioni funzionano così: nel rispetto di regole e di comportamenti che non diano il senso di un governo spaccato, minato dalla disistima reciproca, squassato da risentimenti personali. Di più: la stessa credibilità internazionale di un Paese è fatta di gesti che trasmettano la rappresentazione della sua compattezza di fronte alla bufera. Il contrario dello scontro permanente cui stiamo assistendo sbigottiti.

Quella di ieri, del resto, è solo (per ora) l'ultima scena di un teatrino di dispetti e frecciate che da tempo hanno scardinato un rapporto di lealtà politica minima tra Berlusconi e Tremonti, e proprio in una giornata agitata dal caso Milanese. Già una volta il premier aveva platealmente interrotto il ministro dell'Economia nel pieno di una conferenza stampa in cui venivano illustrate le linee di una manovra molto dura.

È noto, inoltre, che nel corso di una deposizione davanti ai giudici Tremonti si è lamentato del «metodo Boffo» che gli ambienti politici e giornalistici più prossimi al presidente del Consiglio avrebbero avuto in animo di praticare a suo danno. Una parte del Pdl, inoltre, si è più volte scagliata contro il ministro dell'Economia bollandolo come responsabile di una linea fiscale contraria a quella, ispirata alla religione antitasse, incarnata da Berlusconi. E non è un mistero che lo stesso Berlusconi abbia in mente di costituire un think tank che elabori un piano di liberalizzazioni (una politica economica parallela?) per contrastare quello che considera il «neostatalismo» di Tremonti.

«Altre domande?». Questa: è possibile che una così totale mancanza di comunicazione tra il premier e il ministro possa durare a lungo senza provocare conseguenze letali sull'azione del governo, ma soprattutto sulla credibilità dell'Italia messa sotto osservazione? La risposta non può che essere: no, non è possibile. Il gioco pericoloso delle ripicche deve finire. Al più presto. Subito.

Pierluigi Battista

23 settembre 2011 08:32© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_settembre_23/battista_litigio_fa_male_f02b261c-e5a2-11e0-b1d5-ab047269335c.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Il limite della decenza
Inserito da: Admin - Ottobre 06, 2011, 09:21:27 am
Il limite della decenza

Oramai un rancore sordo e inestinguibile sta rendendo impossibile la convivenza di Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti in uno stesso governo. Mentre le agenzie di rating declassano l'Italia, il ministro dell'Economia rilascia dichiarazioni in cui, neanche tanto velatamente e malgrado tardive e poco persuasive smentite, si indica come esempio virtuoso la scelta di Zapatero in Spagna di farsi da parte e di anticipare le elezioni. Altri ministri rispondono con invettive e addirittura, come Giancarlo Galan, oltrepassando la soglia dell'insulto. Non sono più i colpi e le tensioni che oramai da mesi intossicano il rapporto tra Berlusconi e Tremonti: siamo alla guerra totale. Ma un Paese in cui il governo è così spaccato appare un Paese senza timone. Allo sbando. Non ce lo possiamo permettere.
Il gorgo rissoso in cui sta sprofondando la lite tra il premier e il suo ministro non è solo un'offesa allo stile o una macchia che mina la credibilità dell'Italia. È il simbolo di una paralisi: la stessa che sta impedendo, nello smarrimento di quel minimo di senso delle istituzioni che un governo ha il dovere di onorare, la nomina del nuovo Governatore della Banca d'Italia.

Un governo che si comporta in questo modo autolesionistico scatena inevitabilmente la guerra di tutti contro tutti. Dove ciascuno gioca per sé, scambiando il proprio «particolare» per l'interesse generale che dovrebbe invece essere promosso e custodito da un governo democraticamente eletto. Ma un governo così lacerato appare sempre meno in grado di trasmettere agli italiani il senso di una riscossa e di un soprassalto di orgoglio. E quando la politica appare vuota e impotente, troppe corporazioni si affollano vocianti per rubarle il mestiere. Con il rischio che poi non sappiano più fare nemmeno il loro.

Senza una guida politica, oggi le «parti» aspirano abusivamente all'«intero»: non più parti sociali, ma surrogati di partiti politici. Con la pretesa di sostituirsi ai governi. E con il rischio che le singole parti sconfinino in un terreno in cui gli interessi particolari, frammentati e parcellizzati, siano scambiati per l'interesse generale. Una pretesa sbagliata. Una scena in cui tutti i ruoli si confondono. La Confindustria gioca la carta del protagonismo politico. Gli ordini professionali contrari alle liberalizzazioni si organizzano come lobby in Parlamento. La Confcommercio denuncia come leso «interesse generale» l'aumento dell'Iva. La Cgil sublima come «diritti fondamentali» gli interessi della sua base di pensionati e la Cisl quelli dei «suoi» statali. E così via. Tutti con la segreta speranza di accumulare visibilità e forza nell'attesa che il ciclo berlusconiano si esaurisca.

La lite tra il premier e il suo ministro dell'Economia non può perciò non avere una fine, e in tempi brevissimi. Se il ministro ritiene giusta la scelta di Zapatero, per il bene della Spagna, di togliersi dalla scena, tragga lui le conclusioni sull'eventualità che l'esempio spagnolo sia emulato dal governo italiano, o almeno dal suo ministro dell'Economia. E se il premier ritiene davvero, come sostengono i suoi pasdaran, che addirittura Tremonti abbia tramato con le agenzie di rating per infliggere un colpo durissimo al governo di cui pure è magna pars , non può pretendere che questo sospetto infamante, se confermato, possa restare senza conseguenze. In un Paese serio, non nel teatrino tragico che lo sta rappresentando.

Pierluigi Battista

06 ottobre 2011 07:55© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_ottobre_06/battista_limite-alla-decenza_85a6bfaa-efd8-11e0-afdf-a2af759d2c3b.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Lo specchio della paura
Inserito da: Admin - Ottobre 14, 2011, 05:21:31 pm
Lo specchio della paura

Incassando l’ennesima fiducia del Parlamento, sia pur con qualche significativa defezione, Berlusconi potrebbe uscire dalla sindrome del bunker, sbaragliare i fantasmi degli agguati e dei tradimenti, non spacciare l’illusione di un’impossibile stabilità fino al termine naturale della legislatura. E dare a un centrodestra esausto e frastornato, con le elezioni anticipate del 2012, il senso di un futuro politico anche con la fine oramai irreversibile del «berlusconismo ».

Potrebbe farlo, anche se è molto improbabile che lo faccia con una maggioranza numerica che non ha più il profilo di una vera e credibile maggioranza politica. Il suo discorso di ieri in Parlamento è stato lo specchio di una paura paralizzante. Vago sui contenuti del decreto per lo sviluppo, per la paura di scontentare qualche fetta o frammento della maggioranza, e in primis il suo ministro dell’Economia da cui lo dividono abissi di diffidenza e di insopportazione. Elusivo sui malumori che attraversano, con tentazioni frondiste e addirittura con malcelate velleità ribaltoniste, il suo stesso partito. Minimizzatore, quando ha ridimensionato a mero incidente tecnico (di cui si è personalmente scusato) il disastro del governo sul Rendiconto generale dello Stato. Il suo unico obiettivo è stato quello di placare gli alleati: Bossi e le turbolenze leghiste, la voracità infida dei Responsabili, i mormoratori del partito. Non ha detto l’unica cosa che avrebbe riscattato l’atmosfera di agonia interminabile che oramai grava sul suo governo: che il centrodestra è pronto ad affrontare il giudizio degli elettori già nei prossimi mesi, che una stagione politica si è irrevocabilmente conclusa e che da questo indubbio fallimento l’elettorato del centrodestra non ne uscirà per forza di cose orfano, sconfitto, senza casa, senza leader.

Riconoscere l’esaurimento di una stagione politica non avrebbe in sé nulla di umiliante, nel caso in cui la paura della fine non assumesse sfumature apocalittiche. Se invece il terrore di un futuro inesistente fosse domato, se si indicasse un orizzonte temporale breve per nuove elezioni in grado (come in Spagna) di tranquillizzare i mercati e stroncare la speculazione, se ci si concentrasse esclusivamente sui provvedimenti per lo sviluppo (senza prove di forza sulle intercettazioni e sulla lunghezza variabile di prescrizioni e processi), allora un gesto di responsabilità verso l’Italia sarebbe anche un possibile traguardo per i moderati italiani spaesati e disillusi. L’alternativa è invece il vivacchiare tra ricatti e trappole, annunci di disimpegni, rancori sempre più esplosivi tra i ministri e tra il premier e il suo ministro dell’Economia. Nell’attesa del prossimo, certo, «incidente» che deprimerà sempre più il popolo del centrodestra e galvanizzerà i propugnatori di spallate dal più che dubbio profilo costituzionale. Una possibile, dignitosa via d’uscita ancora c’è. Ed è l’ultima.

Pierluigi Battista

14 ottobre 2011 07:38© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_ottobre_14/battista-specchio-della-paura_8ee73d20-f621-11e0-abf0-c6818ffd4921.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA I Promessi Alleati
Inserito da: Admin - Novembre 11, 2011, 04:47:04 pm
I Promessi Alleati

Con il loro sì, anche se comprensibilmente sofferto e tormentato, il Pdl e il Pd imboccherebbero con grande coraggio una strada nuova e piena di incognite. Se decidessero (come sembra possibile) di dar vita tutt'e due insieme e con il Terzo polo a un governo presieduto da Mario Monti, saprebbero di dover pagare un prezzo elevatissimo. Ma dimostrerebbero che la politica, la vituperata e bistrattata politica, è stata in grado per una volta, la volta più importante, di anteporre il bene comune agli interessi di bottega.
Pdl e Pd sono di fronte a un bivio: il più difficile della loro storia. Caricandosi il peso di un programma impopolare ma virtuoso, in linea con le pressanti indicazioni europee e anche sul tracciato di riforme strutturali e liberalizzatrici di cui ha improrogabile bisogno, sanno cosa aspetta loro. Vivrebbero uno squassante terremoto interno. Vedrebbero andare in pezzi schieramenti e alleanze. Affronterebbero la rivolta di una parte consistente dei loro elettorati. Passerebbero un anno pieno di pericoli e di trappole. Ma si guadagnerebbero il merito storico di aver tirato su l'Italia dal precipizio in cui, mai come adesso, sta rischiando di cadere.
In questi giorni l'Italia sta conoscendo una rivoluzione dagli esiti imprevedibili. L'annuncio delle dimissioni di Berlusconi ha rimescolato tutte le carte. L'incubo del default costringe tutti i protagonisti, non solo i partiti, ma anche il mondo dell'informazione, dell'economia, delle istituzioni, della società a destarsi dalla pigrizia della consuetudine e del già noto. Sta ribaltando il sistema politico e le nostre categorie concettuali da cima a fondo. Un governo di «grande coalizione» è certamente un'anomalia democratica. Ma lo era anche quella tedesca tra il 2005 e il 2009 che ha stretto i cristiano-democratici e i socialdemocratici in un innaturale abbraccio lungo quasi una legislatura. Quando Churchill diede vita nel '40 a un governo che prometteva «lacrime, sudore e sangue», pretese che quel governo fosse di unità nazionale, anche nella Gran Bretagna patria del bipolarismo dell'alternanza.
C'era la guerra, è vero. Ma anche il fallimento dell'Italia e la sua emarginazione dall'Europa sono prospettive contro cui è necessario combattere una guerra che comporterà costi dolorosissimi. Se poi la Lega e l'Italia dei valori si dissociassero, privilegiando l'egoismo di partito sull'interesse nazionale, sarebbero il Pdl e il Pd a intestarsi il merito di aver giocato un ruolo nella bufera di una svolta storica: un anno di sacrifici, ma con la prospettiva di ripristinare le condizioni di una sana competizione democratica, in un'Italia che ha trovato la via d'uscita dalla tempesta economica e finanziaria e una strada per ridarle sviluppo e crescita con una ricetta che né un governo di centrodestra né uno di centrosinistra sarebbero in grado di realizzare.
Nell'immediato, i due partiti avrebbero tutto da guadagnare da un loro diniego. Il Pdl metterebbe a tacere il devastante malumore che sta avvelenando il partito dopo l'uscita di scena del leader. Non sarebbe costretto a trangugiare medicine amarissime. Salvaguarderebbe l'alleanza con la Lega. Il Pd potrebbe ingaggiare nell'immediato una campagna elettorale con notevoli possibilità di vittoria. Non si comprometterebbe con una politica di sacrifici che dai banchi dell'opposizione avrebbe volentieri bollato come «macelleria sociale», non regalerebbe a Di Pietro (e a Vendola?) lo scettro della protesta, con l'ovvia prospettiva di scardinare un'alleanza elettorale che sembrava fuori discussione. Ecco perché, se scegliessero la strada più impervia, quella verso cui Berlusconi sta cercando di spingere il suo riottoso partito, il Pdl e il Pd dovrebbero essere accompagnati dal massimo rispetto, anche da chi commenta le cose della politica e non deve misurarsi con quell'ingrediente essenziale della politica democratica che è il consenso. Il governo politico (non «tecnico») cui potrebbero dar vita, con la spinta determinante del Quirinale e con un premier che non potrà non interpretare con il massimo rigore la missione che gli viene istituzionalmente chiesta, richiederebbe una responsabilità eccezionale in condizioni eccezionali. Un compito che forse sarà avaro di riconoscimenti, ma che rappresenterà un soprassalto di serietà e di dedizione al bene comune. Un regalo insperato, una svolta obbligata.
Pierluigi Battista

PIERLUIGI BATTISTA
11 novembre 2011 07:45© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_novembre_11/battista_promessi_alleati_d673471e-0c2a-11e1-bdbd-5a54de000101.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA, La tragedia della costa concordia. E adesso severità
Inserito da: Admin - Gennaio 16, 2012, 11:50:11 am
La tragedia della costa concordia

E adesso severità

Stavolta non c'è l'attenuante di un cataclisma naturale o, come usa dire, di una tragica fatalità. Di tragico, oltre alla morte di tante persone, c'è la sconcertante sequenza di leggerezze, di manifestazioni di incompetenza, di fatuità, di irresponsabilità, di viltà che, tutte, richiedono una severità senza indulgenze per chi si è macchiato di comportamenti così folli. E resta il senso di assoluta insicurezza alimentato dalla certezza che troppi imperdonabili errori potevano essere evitati per non permettere un disastro così inaccettabile a pochi metri dall'isola del Giglio.

Ma come è possibile avvicinarsi in quel modo a un'isola?
Quale vertice di assurda mancanza di conoscenza specifica del proprio mestiere può portare il comando di una nave a sbattere contro gli scogli di un'isola? E poi cercare la strada pietosa della menzogna dicendo che si trattava di scogli non rilevati sulle mappe: questo dettaglio oltrepassa davvero il senso della decenza, come se una nuvola di omertà avesse cominciato ad addensarsi per nascondere le responsabilità personali di chi comandava la nave portandola dove non doveva essere portata.

Mai, in nessuna circostanza, per qualsiasi scusa o ragione.
C'erano molti cittadini di nazionalità straniera su quella nave da crociera. L'Italia deve al mondo, all'opinione pubblica internazionale, alle famiglie di chi ha perso la vita, di chi è rimasto ferito, di chi è restato fortunatamente indenne, una spiegazione convincente e sanzioni durissime per i responsabili di questa tragedia. La compagnia della crociera deve spiegare come sia possibile affidare navi di quella stazza, con migliaia e migliaia di ignari passeggeri, a equipaggi capaci di tali errori, di tali imprudenze. Salutare l'isola, fare l'«inchino»? È assurdo, ci sono le sirene per onorare quel rito, non l'avvicinamento folle alle coste di un'isola. Andare volontariamente fuori rotta: come è possibile che qualcuno, al comando di una nave, possa aver pensato che fosse lecito?

È grave se la sicurezza dei cittadini, dei turisti, di chi ha deciso di imbarcarsi per una crociera, dell'ambiente, dei nostri mari, delle nostre coste, delle nostre isole sia messa così a repentaglio da persone inaffidabili. Al di là del profilo penale che verrà confermato dalle indagini sulla tragedia del Giglio, c'è un profilo umano e morale che lascia sgomenti e che non permette soluzioni accomodanti. Perché quella nave si trovasse lì, e per quali imperscrutabili ragioni ce l'avessero condotta esige risposte chiare, nette. Chiare e nette come non lo sono state finora. Come chiaro e netto deve essere l'impegno di chiunque organizzi queste crociere a riesaminare senza indulgenze la capacità professionale di chi ne è alla guida. E anche l'impegno delle autorità portuali a non lasciare che degli incompetenti solchino i nostri mari per andare a cozzare contro degli scogli che stanno lì da sempre, conosciuti da tutti. Mai più.

Pierluigi Battista

16 gennaio 2012 | 9:18© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/editoriali/12_gennaio_16/e-adesso-severita-pierluigi-battista_f076e028-4008-11e1-a5d2-75a8a88b1277.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Bossi, Berlusconi e Monti. Le spine e la spina
Inserito da: Admin - Gennaio 27, 2012, 03:20:28 pm
Bossi, Berlusconi e Monti

Le spine e la spina


Per Bossi, Berlusconi sarebbe «una mezza cartuccia» se non staccasse la spina al governo Monti. È vero il contrario. Bossi si sta dimezzando come leader politico, prigioniero dei suoi stessi ricatti e lazzi, insulti e gestacci. Invece Berlusconi, confermando il suo appoggio al governo sta dimostrando, pur nel momento peggiore di una parabola politica ventennale, di avere forza, carattere e senso della responsabilità. Di saper pagare prezzi elevatissimi per il suo (sofferto) sostegno al governo che è subentrato a quello da lui diretto e traumaticamente lasciato. Il Berlusconi «populista» e schiavo dei sondaggi si dimostra capace di scelte impopolari e dolorose, di saper sfidare le irrequietezze del suo mondo, di non accettare la prosa ricattatoria di un Bossi dalla leadership sempre più debole anche all’interno della Lega.

Il Pdl e il Pd hanno compiuto una scelta coraggiosa nel sostenere un governo tecnico mentre l’Italia rischiava (e rischia) il fallimento. Il Pdl anche un po’ di più. Dopo la riforma delle pensioni, la base sociale del Pd non è stata travolta dalla minacciata, ma non ancora attuata, riforma del mercato del lavoro. Nel frattempo il serbatoio elettorale del Pdl è stato duramente intaccato. Colpiti i tassisti e i farmacisti, i commercianti, le libere professioni, gli autotrasportatori, il ceto medio asfissiato dall’imposizione fiscale, i milioni di proprietari della prima casa che avevano visto nell’abolizione dell’Ici una boccata d’ossigeno. Molti elettori del Pdl sono in rivolta. I parlamentari del partito sono sempre più tentati dalle sirene del disimpegno e della fronda e invocano il loro leader perché la smetta di svenarsi a vantaggio di un governo votato ma non amato, sostenuto ma temuto. Persino molti maggiorenti del partito di Berlusconi lavorano per sganciare il Pdl da una politica di pesanti sacrifici a scapito di un elettorato deluso e preoccupato, in passato attratto da Berlusconi per il suo messaggio antitasse e oggi ferito da un’imposizione fiscale sempre più gravosa.

Se Berlusconi rompesse con Monti, ne potrebbe ricavare un vantaggio immediato. I sondaggi diramano bollettini disastrosi, e la tentazione della piazza e dell’opposizione potrebbe apparire come una facile via per la salvezza. Ma Berlusconi ha detto nuovamente di no a una scorciatoia che condurrebbe l’Italia verso esiti ignoti. Per la seconda volta il leader del Pdl ha imposto al suo partito una via diversa da quella delle elezioni immediate. Non è detto, ovviamente, che il rapporto con il governo Monti non possa precipitare nei prossimi mesi. Ma per adesso la spina non viene staccata. Non una scelta da «mezza cartuccia», ma da statista intero. Gli avversari di Berlusconi dovrebbero avere l’onestà intellettuale di riconoscerlo. Potrebbero seguire l’esempio dello stesso Monti: che infatti si rifiuta di liquidare sprezzantemente l’esperienza del governo che l’ha preceduto.

Pierluigi Battista

27 gennaio 2012 | 8:11© RIPRODUZIONE RISERVATA

http://www.corriere.it/editoriali/12_gennaio_27/battista-le-spine-e-la-spina_a1a339cc-48ac-11e1-b976-995c60acee8e.shtml


Titolo: Battista e lo strano vizio dei liberali a giorni alterni - di Emilio Carnevali
Inserito da: Admin - Febbraio 06, 2012, 08:55:04 am
Battista e lo strano vizio dei liberali a giorni alterni

Il nuovo inserto culturale del “Corriere della Sera” ha dedicato una doppia pagina alla crisi della cultura liberale in Italia.

Ma qualche responsabilità ce l'ha anche il quotidiano di via Solferino con le sue frequenti sbandate: dalla sponsorship alle crociate dell'ultima Fallaci alle posizioni cerchiobottiste sulla libertà sul fine vita.

di Emilio Carnevali

Vale per il liberalismo la provocazione con cui alcuni rispondono all'interrogativo sull'esistenza di Dio: «Dimmi cosa intendi per Dio e ti dirò se ci credo».

Ecco perché prima di dolersi della «fine dell'illusione liberale» – come fa Pierluigi Battista in una bella pagina doppia della Lettura, il nuovo inserto culturale del Corriere della Sera – vale forse la pena di rievocare, per grandi linee, ciò di cui si piange la scomparsa.

Il pensiero liberale è infatti un arcipelago quanto mai complesso, talvolta contraddittorio, di tradizioni ed idee. Ogni progetto classificatorio applicato al liberalismo si imbatte fin dall'inizio in enormi, quasi insormontabili, difficoltà; fin da quando è costretto a confrontarsi con il paradosso che alcuni fra i pensatori annoverati fra i “padri fondatori” – come Locke, Montesquie e Kant – non hanno mai conosciuto né il sostantivo (liberalismo), né l'aggettivo (liberale), per lo meno nell'accezione con la quale oggi li utilizziamo.

Se però volessimo individuare un “nucleo di base”, un minimo comun denominatore capace di tenere insieme, bene o male, personalità molto diverse fra loro all'interno di una stessa famiglia politica potremmo farci aiutare dalla distinzione proposta da Giuseppe Bedeschi nella sua Storia del pensiero liberale. Ovvero dalla separazione fra una dimensione politico-giuridica del liberalismo e una filosofico-spirituale. All'interno della prima rientrerebbe, secondo Bedeschi, la definizione del liberalismo come «dottrina che afferma la limitazione dei poteri dello Stato in nome dei diritti individuali» (e in tale ambito «liberalismo e giusnaturalismo sono indissolubilmente connessi»). All'interno della seconda l'attenzione cadrebbe su un atteggiamento ed una pratica, più che su un sistema di leggi ed istituzioni, essendo qui il liberalismo inteso come la convinzione filosofica secondo la quale «in ogni uomo è iscritta la vocazione ad assumere, attraverso la libertà che è in lui, la responsabilità del proprio destino».

Ora, moltissime delle istanze contenute in questa duplice accezione sono parte integrante della storia politica e culturale dei paesi occidentali ormai da svariati decenni. Tanto che non è difficile notare quanto l'atteggiamento di certi sedicenti liberali amici di Putin e Gheddafi strida con il “senso comune liberaldemocratico” ancor prima che con i testi di Kelsen o di Bobbio. Fa bene Battista a puntare il dito contro l'anomalo centrodestra italiano per il quale «i dittatori, se servono a mantenere l'ordine, possono passare anche per ammirevoli alleati». Ma del resto questo è un problema che nel corso del Novecento ha afflitto molti “difensori della libertà” cultori del realismo politico e memori della celebre frase con la quale Roosevelt descrisse il dittatore nicaraguense Anastasio Somoza: «Sarà anche un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana».

Tuttavia un'analisi non superficiale della “crisi di popolarità” che ha investito il pensiero liberale non può fermarsi alla superficie della rappresentanza politica. Occorre in primo luogo vedere se non sia da attribuire qualche responsabilità anche a quella parte di società civile e mondo della cultura da cui ci si sarebbe potuti aspettare sensibilità e comportamenti ben diversi da quelli messi in mostra dal piazzista di Arcore e dai suoi professori di complemento.
Nel suo articolo Battista cita quei sedicenti intellettuali liberali che sono stati «persino acquiescenti con la tortura». Per evidenti ragioni non fa però il nome del professor Angelo Panebianco, che dalle colonne del suo stesso giornale firmò un editoriale intitolato “Il compromesso necessario” (13 agosto 2006). Ipotizziamo che un grande attentato sia sventato grazie a confessioni di terroristi estorte sotto tortura: da qui partiva il ragionamento di Panebianco. «Chi se la sentirebbe in Occidente di condannare quei torturatori? La risposta è: un gran numero di persone». E «fra coloro che condannerebbero i torturatori senza dubbi né tentennamenti», aggiungeva il professore, «ci sarebbero anche tante brave persone in buona fede che hanno orrore del terrorismo ma che credono che cose come la legalità, i diritti umani e quello che chiamano (in genere, senza sapere bene cosa sia) lo 'stato di diritto' debbano sempre avere la precedenza su tutto». Un modo un po' singolare di propagandare il verbo liberale.

Ma non è l'unico infortunio in cui è incorso in questi anni il Corriere della Sera. Su tutto possiamo ricordare la grandiosa campagna celebrativo-promozionale che ha accompagnato gli ultimi scritti di Oriana Fallaci. Pagine di una tale inaudita volgarità che sarebbero state ben più a loro agio nelle pubblicazioni semiclandestine di qualche gruppuscolo di estrema destra che sui fogli di un grande giornale liberal-borghese. L'ultima Fallaci – spiace dirlo per una giornalista il cui percorso professionale, fortunatamente, non è riconducibile solo alle crepuscolari invettive contro «i figli di Allah che si moltiplicano come topi» - sta al liberalismo come Borghezio sta a Isaiah Berlin.
È mai possibile scambiare per una limpida voce della coscienza critica dell'Occidente, alfiere dei valori di una società aperta, chi nei suoi articoli scrive: «C’è qualche cosa, negli uomini arabi, che disgusta le donne di buon gusto»? Come si è potuto proporre quello sgangherato manipolo di teocons all'amatriciana – dalla Fallaci a Magdi Cristiano Allam, passando per il filosofo già popperiano Marcello Pera – come un presidio dei valori liberali orgogliosamente rivendicati dal nostro modello di convivenza?

Ma veniamo, in conclusione, all'obiezione che più direttamente vogliamo sollevare a Pierluigi Battista per una omissione, a nostro avviso cruciale, che caratterizza il suo articolo. Cosa ne è delle grandi battaglie civili, come quella condotta da Piergiorgio Welby o da Beppino Englaro, che più recentemente hanno segnato nel nostro Paese la nuova frontiera biopolitica del “vecchio liberalismo”? «L'unico scopo che autorizzi l'esercizio del potere nei confronti di qualsiasi membro di una comunità civile contro la sua volontà, è quello di evitare un danno agli altri. A un'autorizzazione del genere, il bene personale dell'individuo, fisico o morale che sia, non basta». Così scriveva John Stuart Mill nel suo celebre saggio On Liberty. E questa dovrebbe essere la stella polare di ogni liberale coerente nelle questioni cosiddette “eticamente sensibili”.

Naturalmente si può scegliere di non adottare tale punto di vista. Il liberalismo può essere un impegno “fastidioso”, che richiede spesso il coraggio di andare controcorrente. Come quando, per citare un caso particolarmente impopolare, i radicali Rita Bernardini e Sergio d'Elia si recarono in visita ispettiva al carcere di Rebibbia dopo le segnalazioni di maltrattamenti subiti dal gruppo dei famigerati “stupratori di Guidonia” (in un clima di opinione pubblica nel quale a rischiare il linciaggio non furono solo gli stupratori, ma la stessa Bernardini dopo quella visita. Eh sì, per i liberali lo stato di diritto vale anche per gli stupratori).

Invece c'entra poco con il culto liberale dell'autonomia dell'individuo ciò che scrisse – in nome di un troppo spesso abusato senso dell'equidistanza – Pierluigi Battista in occasione del secondo anniversario della morte di Eluana Englaro, mentre roventi polemiche accompagnavano l'assurda scelta del governo Berlusconi di proclamare proprio quel giorno, il 9 febbraio, “Giornata nazionale degli stati vegetativi”: «Da una parte si griderà alla 'deriva eutanasica'. Dall'altra all'ingerenza clericale. Da una parte gli strali contro un presunto 'partito della morte'. Dall'altra la denuncia di un potere malvagio che vuole allungare i suoi tentacoli sui corpi dei sudditi, incuranti della loro libertà di scelta. (…) Verrà celebrato l'ennesimo rito del dibattito inconcludente, della rissa a colpi di accuse feroci. Ne godranno i professionisti della discussione infinita». Caro Battista, come può un liberale mettere sullo stesso piano avversari e sostenitori della libertà di scelta?

P.s. Non ci siamo occupati di proposito in questo articolo delle doglianze per la presunta caduta in disgrazia del liberal-liberismo rappresentato da pensatori come Fredrich Von Hayek. La crisi economica nella quale siamo immersi è già sufficiente a far maturare seri dubbi sull'opportunità di identificale il liberalismo con questa “ideologia tanto più estrema in quanto nega di essere tale” (Corrado Ocone, sempre sul supplemento La Lettura).

(31 gennaio 2012)

da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/battista-e-lo-strano-vizio-dei-liberali-a-giorni-alterni/


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Una relazione da rafforzare
Inserito da: Admin - Febbraio 09, 2012, 10:33:56 am
Il GOVERNO DEI TECNICI E IL PAESE

Una relazione da rafforzare


Il governo Monti ha svolto più che egregiamente i compiti a casa. Ha ridato credibilità e centralità all'Italia. Ha fatto del nostro Paese un interlocutore autorevole dell'Europa (e degli Stati Uniti, come ha confermato sul Corriere l'ambasciatore Usa a Roma). Ha avviato una politica economica dolorosa ma efficace, rimesso sui binari i conti impazziti, allontanato il fantasma del fallimento. Ma basta? Forse, a costo di apparire incontentabili, non basta. Perché gli incoraggianti risultati sui conti sembrano un po' più opachi, se dalle formule matematiche si passa alla vita vera degli italiani, alle emozioni e ai simboli che ne cementano la coesione.

È vero, un governo tecnico non ha come obiettivo il consenso. Ma la prospettiva di un destino comune è pur sempre la missione di un governo che, oltre all'autorevolezza e alla competenza, deve saper trasmettere agli italiani fiducia, forza, energia in uno dei momenti più difficili della loro storia. Se il naufragio di una nave colpisce l'immaginazione pubblica e ferisce come un'umiliazione l'intera compagine nazionale per la sconsideratezza di comandanti fatui e tremebondi, un governo sensibile al bene comune deve esserci, deve dire qualcosa, deve essere presente. Se l'Italia, sommersa dalla neve, conta decine di morti, paesi senza energia elettrica, treni bloccati nel gelo, Roma tramortita dal caos, autostrade paralizzate, il governo, anche se tecnico, non può rifugiarsi dietro un'impassibile tecnicità, deve dare l'impressione di voler tirar fuori l'Italia dal disastro, sanzionare gli incapaci, dare una sferzata all'opera di chi si spende senza requie per soccorrere chi è in difficoltà.

Populista» sarà pure una brutta parola, una tentazione troppo invasiva nella nostra storia più recente. Ma i pericoli del populismo non devono impedire a un governo di essere popolare, di entrare in un rapporto di sintonia, di connessione emotiva, di compartecipazione con le sorti del «popolo» genericamente inteso. Non è obbligatorio essere simpatici, ma nemmeno perdersi in dichiarazioni inutilmente antipatiche. Bisogna dire la verità, ma non è che per evitare il rischio della demagogia bisogna mostrarsi indifferenti alle passioni della democrazia. Andare in una fabbrica in difficoltà, affrontare una delle piazze pulite in cui si esprime un malcontento diffuso, visitare un'università del Mezzogiorno per parlare con gli studenti di talento ma senza futuro, un convegno di liberi professionisti che si sentono penalizzati da misure dure e per loro drammatiche, persino sfidare in un confronto pubblico chi è vittima della crisi, darebbe a questo governo una forza simbolica straordinaria.

Nessuna nostalgia dell'esibizionismo festaiolo, ma l'atmosfera dei centri studi che hanno sfornato un consesso di ministri tra i più preparati e affidabili della nostra storia non può essere l'unico orizzonte emotivo, culturale, persino lessicale di chi sta chiedendo agli italiani di «fare compiti» difficili e gravosi. In un'atmosfera di angoscia che non può lasciare sordo anche il più tecnico ed efficace dei governi. Che ha reso miracolosamente credibile l'Italia nel mondo, ma che comunichi agli italiani un nuovo orgoglio. Missione impervia, ma non impossibile.

Pierluigi Battista

9 febbraio 2012 | 7:46© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_febbraio_09/relazione-da-rafforzare-battista_37191e5c-52e6-11e1-8f96-43ef75befe7d.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA La caccia all'ebreo non conosce requie
Inserito da: Admin - Marzo 20, 2012, 11:46:50 pm
L'analisi

L'eterno vizio di «minimizzare» e la solitudine dei bersagli dell'odio

La caccia all'ebreo non conosce requie

La profanazione del cimitero ebraico di Lione, L'11 agosto del 2004 (Ap)La profanazione del cimitero ebraico di Lione, L'11 agosto del 2004 (Ap)

Non solo in Francia. Anche in Italia hanno ucciso bambini ebrei solo perché erano bambini ebrei. Anche in Italia, su una nave italiana che è territorio italiano, hanno ucciso un vecchio ebreo in carrozzella, solo perché era un ebreo. Non nell'epoca nera dello sterminio. Non nella pagina più vergognosa della storia italiana. Ma negli ultimi trent'anni. Come in Europa, dove la caccia all'ebreo, l'ebreo come bersaglio da annientare, da schiacciare sotto il peso dell'odio, non ha mai conosciuto requie. Fino all'orrenda strage di Tolosa.
Si tende sempre a non crederci, a non prendere atto della realtà. A non evocare l'antisemitismo come veleno permanente, reso ancora più aggressivo quando si traveste da verbo antisionista. Contro l'ebreo si incontrano tutti gli estremisti, tutti i fanatici, tutti quelli che considerano la democrazia un vizio da sradicare. Quando nel 1982 vennero presi di mira in tutta Europa i cimiteri ebraici, le sinagoghe, le scuole israelitiche, i luoghi di culto degli ebrei, gli eredi del nazismo trovarono convergenze e appoggi tra chi, durante la guerra del Libano, predicava insieme la distruzione dello Stato di Israele e degli ebrei, fisicamente. Fu in quei giorni che in Italia, il 9 ottobre del 1984, un piccolo bambino ebreo, Stefano Gay Taché, venne assassinato da un commando di terroristi mediorientali mentre usciva insieme alla sua famiglia dalla sinagoga Maggiore di Roma per celebrare l'ultimo giorno della festa di Sukkot. Assassinato perché era un ebreo: vittima di un odio assoluto e inestinguibile. E altri bambini ebrei feriti, altri adulti ebrei tra la vita e la morte. Una ferita nella coscienza nazionale che non si è ancora rimarginata. Pochi anni dopo, sull' Achille Lauro , nave italiana, un vecchio signore paralitico di nome Leon Klinghoffer venne ucciso da un commando di terroristi palestinesi. Non stava bombardando Gaza, stava in crociera con sua moglie. Ma doveva essere «punito» perché ebreo. Tutta l'«epopea» di Sigonella che ne seguì, quanto tenne in conto che sul territorio italiano alcuni terroristi avevano trucidato un vecchio ebreo, e quanto venne considerato il fatto che lasciar andar via i terroristi significava lasciare impunito il gesto mostruoso di una banda di antisemiti?
E invece si tende sempre a minimizzare. Se non a giustificare, per carità, almeno a ridimensionare la portata simbolica di un delitto contro gli ebrei. Chiunque sia l'assassino: un fanatico nazi o un fanatico islamista che nella sua guerra santa contro «l'entità sionista» prevede anche il massacro degli ebrei, ovunque si trovino. Quando nel 2006 venne rapito a Parigi un giovane ebreo, Ilan Halimi, la polizia francese si affannava a non dare troppo credito alla pista antisemita. Poi si seppe che Ilan, durante i 24 giorni di prigionia, venne torturato, orrendamente seviziato mentre le sue urla, forse, potevano essere captate nella banlieue a maggioranza musulmana dove l'ostaggio era stato rinchiuso, prima di essere arso vivo e gettato come immondizia lungo la ferrovia. Poi, quando vennero scoperti gli aguzzini e gli assassini, si tenne un processo. E durante il processo il capo della banda, dopo aver iniziato il discorso con «Allah Akbar», definì gli ebrei «nemici da combattere per il bene dell'umanità». Perché la polizia francese non imboccò allora la pista giusta da subito, perché aveva tanta paura nel riconoscere che l'antisemitismo aveva assunto un nuovo volto nel cuore di Parigi e che un giovane ebreo poteva essere sottoposto a sevizie per giorni e giorni nel cuore popoloso della città?
Gli ebrei continuano a essere un bersaglio dell'odio razziale, religioso e politico nell'Europa degli ultimi decenni del Novecento e nei primi del Duemila. Quando negli anni Settanta i terroristi dirottarono l'aereo di linea Parigi-Tel Aviv dell'Air France e atterrarono a Entebbe, nell'Uganda del tiranno Idi Amin Dada, divisero gli ostaggi, dopo averne controllato l'identità e i passaporti, in due colonne: quella su cui si poteva trattare e quella da condannare senza indugi. La colonna senza speranza era composta da ebrei, da condannare perché ebrei. C'erano dei terroristi tedeschi, tra i dirottatori, e un vecchio ebreo mostrò a uno dei figli dei «volenterosi carnefici di Hitler» i numeri che gli avevano tatuato sul braccio nel campo di sterminio. Non ebbero pietà nemmeno di lui, e solo il tempismo del blitz israeliano impedì il massacro di ebrei che si stava preparando con scientifica precisione.
La violenza antisemita, punto di incrocio di deliri ideologici di matrice diversa ma di identica capacità di odio, ha conosciuto una recrudescenza significativa negli ultimi decenni. Con un'opinione pubblica impaurita e sgomenta, mai interamente solidale con gli ebrei colpiti dal fanatismo. Un'altra strage. Un altro massacro. Un'altra invocazione di «mai più». Un'altra volta, l'ennesima, disattesa.

Pierluigi Battista

20 marzo 2012 | 8:31© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/esteri/12_marzo_20/l-eterno-vizio-di-minimizzare-e-la-solitudine-dei-bersagli-dell-odio-pierluigi-battista_6cae5998-7257-11e1-a140-d2a8d972d17a.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Troppe parole fuori registro
Inserito da: Admin - Marzo 29, 2012, 05:05:19 pm
LE FRASI DEL PREMIER E DI ALTRI

Troppe parole fuori registro


Non può finire con una «scazzottata» tra tecnici e politici. Anzi, non può nemmeno cominciare questa esibizione muscolare che rischia di compromettere le cose buone fin qui fatte da un governo tecnico sorretto da partiti politici responsabili. E di vanificare la serietà con cui gli italiani, con tutte le tensioni e le asprezze che necessariamente accompagnano un passaggio così tormentato della vita nazionale, stanno affrontando colpi e sacrifici durissimi.

Si deve fermare l' escalation verbale che ieri ha raggiunto il culmine con il duello tra il presidente Monti e il segretario del Pd Bersani. Non servono le parole sprezzanti nei confronti dei partiti, equiparati, come traspare da alcune risposte del ministro Fornero, a distributori di «caramelle», paladini di spese facili e regalie fortunatamente arginate dal rigore intransigente di un provvidenziale governo tecnico. Non si può però nemmeno assecondare la nuova tendenza dei partiti, in particolar modo del Pd, a sgomitare per la riconquista del palcoscenico e a liquidare come «prepotenza» tecnica la legittima scelta di decidere, di consultare chi di dovere, senza però farsene ostaggi, di arrivare a una conclusione senza passare per la consuetudine paralizzante della ritualità concertativa. Monti non dovrebbe reagire, proprio mentre rappresenta degnamente l'Italia in Estremo Oriente, maltrattando l'immagine dei partiti. I partiti non pensino che il baratro sia oramai lontano e che possa riprendere con spensierata irresponsabilità la festa di prima. I tecnici hanno bisogno dei partiti e non possono pretendere i benefici di un'assoluta autosufficienza. Ma i partiti devono ancora cominciare a riflettere sulle ragioni di una sconfitta storica della politica, sul grado di dissolvimento e sul discredito che il ruolo della politica ha oramai raggiunto nell'opinione pubblica.

Lo sforzo, ancora una volta, deve essere comune. Lo sforzo di chi governa per continuare nell'azione intrapresa qualche mese fa in un momento drammatico, per non lasciarsi sedurre dalla spirale della comunicazione a effetto e per rispettare ancora di più le difficoltà di chi, nella società, è alle prese con una tassazione elevatissima, con l'angoscia della perdita del lavoro, con le retribuzioni che si assottigliano. Lo sforzo dei partiti che lo sostengono di non voler chiudere frettolosamente con l'epoca della responsabilità, di archiviare al più presto il governo tecnico e di prepararsi a una competizione elettorale confusa e rissosa, come al solito. Uno degli effetti benefici del governo tecnico, tra l'altro, è stato la rapidità con cui si è disinnescata l'esasperazione mediatica della «dichiarazionite», l'agitarsi convulso, iper-loquace e inconcludente che ha scambiato il bipolarismo per un ring in cui trionfa chi urla in modo sgangherato.

La «sobrietà» tecnica, dopo aver riportato la discussione politica su un terreno meno astruso e verboso, non può poi rilassarsi e imitare, sia pur alla lontana, uno stile comunicativo di ripicche e di ritorsioni verbali che lasciano solo una scia di rancore e di incomprensione. L'evocazione allusiva dei «cazzotti» scriteriatamente menzionati da Bersani rischia poi di accelerare un'abitudine che credevamo sepolta insieme alle liturgie della Seconda Repubblica. Un salto all'indietro, le cui ripercussioni dovranno essere neutralizzate. Da tutti. In un soprassalto di responsabilità, come è accaduto nei mesi scorsi.

Pierluigi Battista

29 marzo 2012 | 7:52© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_marzo_29/troppe-parole-fuori-registro-editoriale-pierluigi-battista_0d2ebd24-795e-11e1-a69d-1adb0cf51649.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Da Mary Poppins ai Righeira, icone «post»
Inserito da: Admin - Giugno 25, 2012, 10:18:23 am
Anche la generazione di D'Alema e Veltroni si richiamava a cinema o musica

Da Mary Poppins ai Righeira, icone «post»

Il bricolage senza ideologie di Renzi: l'unico politico è San Suu Kyi E ai dirigenti del partito: «L'estate sta finendo, il loro mandato no»


Mary Poppins, per quanto antica, appare decisamente post. E pop. Una icona non nuova, ma rinnovata. Tradizionale, ma non tanto da essere menzionata, citata e proiettata nel discorso di un aspirante leader di partito. E invece due minuti di Matteo Renzi sono stati interamente dedicati a lei, a Mary Poppins. Tra una parabola sulla Polaroid e una citazione dei Righeira.
Con Renzi il Pd, piaccia o no, assume una coloritura post-ideologica. E non si lascia alle spalle solo l'ideologia pesante e totalizzante, quella dell'èra dei Togliatti e dei De Gasperi, o dei Berlinguer e dei Moro. No, anche quella, moderna, disinvolta, dinamica, «di tendenza» di una generazione politica, quella di Veltroni ma anche di D'Alema, che ai simboli della cultura politica più tradizionale affiancava richiami al mondo «moderno» del cinema e della canzone. Veltroni rilanciò l'«I care» di don Milani e l'omaggio alla tradizione liberal-azionista con la visita torinese a Norberto Bobbio. Ma non risparmiava citazioni e riferimenti a McEwan, o a De Gregori. Con Renzi la mescolanza tra i due piani, tra la dimensione pop e quella più consona al vecchio stile del discorso, si assottiglia fino a scomparire del tutto.

Ha cominciato con Fosbury, l'atleta che ha rivoluzionato la tecnica e lo stile (e l'efficacia) del salto in alto in atletica leggera: lo avevano preso per pazzo con quel salto di spalle, poi ogni record venne sbriciolato grazie a un movimento che sarebbe diventato naturale e imprescindibile per tutti gli atleti impegnati in quella specialità. Per parlare di innovazione e di coraggio, la vecchia ideologia, pur resasi moderna e dinamica, avrebbe senza dubbio citato Steve Jobs. Renzi no: è andato direttamente all'atletica leggera. E va al calcio quando dice che nessuno è indispensabile, figurarsi una classe politica che è incapace di farsi da parte. Parla di Guardiola che lascia il Barcellona di Messi e Iniesta. E pensa a Bersani (oltre che ai maggiorenti del partito) a suo avviso privi del coraggio di Guardiola. Va direttamente ai Righeira, simboli del disimpegno canoro anni Ottanta, per criticare i parlamentari (D'Alema, Veltroni, Bindi, Marini) che sono entrati al tempo dei Righeira, un secolo fa: «L'estate sta finendo, il loro mandato no».

Cita Aldo Biscardi, nientemeno. Un personaggio della vecchissima televisione ma è con l'immagine televisiva che la generazione di Renzi è venuta su. È vero. Menziona un politico, un premio Nobel per la pace che ha conosciuto le vessazioni del regime birmano ed è un simbolo della battaglia contro l'oppressione: Aung San Suu Kyi. Ma è un riferimento sufficientemente non circostanziato dal punto di vita ideologico per consentirne una fruizione ecumenica e universalistica. Ma prima di tutto cita la Polaroid, simbolo un po' vecchiotto della fotografia pre-digitale, che ebbe un successo gigantesco nella generazione che precede quella di Renzi, che ha conosciuto l'onta dell'obsolescenza, ma che ha saputo rinnovarsi per non soccombere del tutto. Messaggio: la sfida delle novità tecnologiche va affrontata con coraggio, altrimenti ci si inabissa nell'inutilità, nella marginalità, in un oggetto di antiquariato se non addirittura in una cianfrusaglia da dimenticare in cantina. E poi l'attore citato: Fabio Volo. Il simbolo di un nuovo cinema, non Bertolucci o addirittura Fellini.

Con i partiti all'antica ci si industriava a costruire Pantheon, ascendenze, paternità, gallerie di personaggi che dessero il senso di un «progetto» culturale e politico fatto anche di tradizioni: tradizioni da superare, ma mai da dimenticare. Con Renzi questo sforzo sembra invece destinato all'inconcludenza o alla frustrazione. L'essere contemporanei è diverso dall'essere moderni (è uno dei dogmi del post-moderno). E diventa impossibile prevedere quale tra i mille personaggi della televisione e della musica «leggera» e dell'oggettistica commerciale verrà preso a modello e messo su un piedistallo. Un lavoro di bricolage più che di sistematizzazione ideologica. Un bagaglio leggero che lascia negli armadi le armature pesanti del «vecchio» discorso politico. Può piacere o non piacere, ma forse è il salto generazionale decisivo. Con la musica dei Righeira.

Pierluigi Battista

24 giugno 2012 | 9:32© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_giugno_24/da-mary-poppins-ai-righeira-icone-post_f3c16982-bdcc-11e1-a8f4-59710be8ebe6.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Tanti centri (piccoli e confusi)
Inserito da: Admin - Agosto 17, 2012, 06:43:38 pm
IL NUOVO SOGGETTO POLITICO
 
Tanti centri (piccoli e confusi)
 
In una lettera-appello al Corriere della Sera un gruppo di intellettuali che formano l'ossatura di «Fermare il declino» e di «Italia futura» chiede alla composita aggregazione centrista che si sta formando di essere più coraggiosa e di sposare con più convinzione la causa della «rivoluzione liberale». Ma forse l'aggregazione ancora in fieri è troppo composita e variegata per sposare con convinzione la ricetta che vorrebbe trasformare l'Italia in un Paese meno statalista e più aperto alle benefiche virtù del libero mercato. Troppo multiforme per aspirare a una voce univoca. Oggi il «centrismo» è montiano a Roma e lombardiano nella Sicilia sull'orlo del default. E poi, è concepibile che a capeggiare la «rivoluzione liberale» ci sia Raffaele Bonanni, il capo della Cisl che per storia e formazione culturale con il liberalismo (e liberismo) einaudiano non ha nessun rapporto e che si è opposto con tutte le sue forze alla riforma delle pensioni varata dal governo Monti?
 
Oggi una formazione di centro potrebbe avere un notevole spazio elettorale. Il Pd appare sempre più solo «sinistra», sempre più propenso a un'alleanza con Vendola e incline a sposare una linea neo-socialdemocratica ovviamente antitetica alla «rivoluzione liberale», ma soprattutto destinata a una convivenza problematica con l'appoggio alla politica del governo Monti, sinora sostenuto con lealtà e continuità. A destra il Pdl è ed appare incerto e stordito, indeciso se consegnarsi nuovamente al carisma sia pur appannato di Berlusconi o tuffarsi in un oltranzismo protestatario e rancoroso che esige la rottura con il governo Monti sostenuto anche al prezzo della rottura con la Lega. Il «Centro», in tutte le sue declinazioni, potrebbe risultare un'offerta appetibile quando la sinistra e la destra radicalizzano il loro messaggio e si affidano a un oltranzismo identitario che rassicuri il loro elettorato e sciolga gli imbarazzi del sostegno al governo Monti, calamita di disagi sociali inevitabili in una crisi così profonda dell'economia e della società. Ma basta «non» essere di sinistra e «non» essere berlusconiani per apparire un'alternativa credibile? Il «Centro» può essere soltanto, come chiedono giustamente i firmatari della lettera al Corriere , il luogo dell'equilibrio, la casa della moderazione, l'ideale di un'equidistanza che distolga dal gravoso compito di dire che cosa esattamente bisognerebbe fare per spingere l'Italia fuori dal pantano?
 
Queste incertezze non sono solo l'assillo di una porzione minoritaria dell'opinione pubblica italiana. È un'intera porzione della nostra società che stenta oggi ad essere rappresentata. Che si riconosce nello sforzo del governo Monti e che vorrebbe trasformare il rigore da obbligo dettato da circostanze eccezionali a scelta consapevole per qualunque governo «politico» in grado di amministrare l'eredità di un governo «tecnico» senza sperperarne i risultati e senza dilapidare il capitale di fiducia riconquistato, almeno in parte e mai irrevocabilmente, nella comunità internazionale. Questa parte dell'Italia oggi è senza voce politica e ancora non si vedono i contorni di chi potrebbe chiederle la fiducia nella prossima tornata elettorale. Troppe contraddizioni, troppi tatticismi, troppi comportamenti ondivaghi e anche opportunistici indeboliscono la promessa di chi vuole proporre agli italiani una ricetta nuova e diversa. Tanti piccoli «centri» destinati, in questo modo, all'irrilevanza. O alla subalternità.
 
Pierluigi Battista

17 agosto 2012 | 9:08© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_agosto_17/tanti-centri-piccoli-confusi-battista_2bc7cc60-e82d-11e1-a0d6-4062e922f4c6.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Carcere per il giornalista Sallusti?
Inserito da: Admin - Settembre 23, 2012, 04:57:35 pm
L'OPINIONE

Carcere per il giornalista Sallusti?

Sembra Vendetta più che atto di giustizia


C'è qualcosa che non funziona, in assoluto, in una giustizia che oscilla tra una condanna al pagamento di 5 mila euro a una di 14 mesi di carcere con sentenza definitiva (e senza condizionale).

Se poi ad Alessandro Sallusti, il direttore del Giornale, viene indicata la galera per un vizio nell'esercizio della difesa giudiziaria, la severità acquista la forma ancor più sgradevole di una rappresaglia punitiva abnorme. Difendere Sallusti e protestare per l'enormità della sentenza che lo condanna a un non breve periodo di detenzione non è, da parte di un giornalista, una difesa corporativa.

Sallusti infatti rischia concretamente la galera per un reato connesso a un'attività giornalistica ma che appunto, normalmente, viene sanzionato anche finanziariamente in modo pesante ma non con la reclusione in carcere. Chi sbaglia deve pagare. Ma deve pagare in modo proporzionato, conforme alle leggi e al buonsenso. C'è chi afferma che Sallusti è stato condannato per un reato d'opinione. La diffamazione non è, tecnicamente, un reato di opinione. Ma la pena deve avere un rapporto con la gravità del reato e infatti la prima condanna prevedeva il pagamento di 5 mila euro. Come si possa arrivare dai 5 mila euro a un anno e due mesi di prigione è invece un mistero e anche un indice della volubilità di giudizio di chi amministra la giustizia in Italia e che, necessariamente, genera sfiducia nell'equanimità e nella serenità di chi deve decidere su un argomento tanto delicato come la libertà altrui.

Naturalmente ci sarà chi obietterà: ecco che sui giornali vanno a finire solo gli episodi della gente che conta e dei colleghi giornalisti. La replica è però questa: Sallusti è stato condannato a una pena tanto severa proprio per cose che erano finite sul suo giornale e che nemmeno aveva scritto lui, limitandosi a sottoscriverle come direttore responsabile (di Libero , al tempo). Il carcere per questo? Sembra una vendetta, più che un atto di giustizia.

Pierluigi Battista

22 settembre 2012 | 15:39© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_settembre_22/battista-carcere-giornalista-sallusti_5019d58c-04ba-11e2-ab71-c3ed46be5e0b.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA L'ombrello e la scialuppa
Inserito da: Admin - Ottobre 01, 2012, 03:01:24 pm
L'AFFOLLATA AREA DEI MODERATI

L'ombrello e la scialuppa

Ora è esplicito che l'arcipelago neocentrista, il nuovo partito di Montezemolo, quello di Casini, quello di Fini più altri e variegati frammenti della galassia moderata andranno alle elezioni con un candidato che non si candida: Mario Monti. Non si sa come la prenderà l'attuale presidente del Consiglio. Si sa però che la prenderanno bene le istituzioni europee, i mercati, gli investitori, gli alleati dell'Italia, i partigiani dell'euro timorosi che con le elezioni vada smarrito il rigore e il recupero di credibilità internazionale incarnato dalla figura di Monti, nonostante incertezze ed errori nell'azione di governo. Si allontana il rischio che con il «ritorno della politica» l'Italia sprofondi nuovamente nelle cattive abitudini della spesa spensierata e del consenso pagato con i debiti. Ma, paradossalmente, è proprio la nascita di un «partito» pro Monti a nascondere un'insidia per l'attuale presidente del Consiglio e per i sostenitori di un «Monti bis».

Il rischio maggiore è che il governo tecnico, diventando la bandiera di una parte, smarrisca quel connotato ecumenico che ne fa l'espressione di una grande coalizione cementata dal senso di responsabilità per l'Italia che non si è ancora liberata dallo spettro del collasso; lasciando peraltro, come doveroso in una democrazia, la parola al voto degli italiani. Il secondo rischio è che la campagna elettorale che si sta per aprire perda ogni significato sul piano dei contenuti per trasformarsi in un referendum pro o contro Monti. Il terzo riguarda il fronte che si schiera a favore del Monti bis a priori, che finisce per fare un simbolo del premier chiamato a salvare l'Italia dal fallimento, ma anche per trincerarsi dietro una nobile figura apprezzata dalla comunità internazionale per evitare i difficili dilemmi di una scelta. Che cosa ha da dire il nuovo arcipelago centrista sul futuro dell'Italia? Mario Monti è una garanzia, certo, ma forse l' endorsement a favore del Monti bis esime una forza politica dalla fatica della proposta, dall'agenda che si vuole suggerire, dalle scelte dolorose che si devono compiere?

È chiaro che la stessa ipotesi di un nuovo governo Monti non può prescindere dal riconoscimento che solo un'ampia maggioranza di «unità nazionale» potrebbe garantirne la base e la solidità. E che in una situazione in cui il disagio sociale è destinato inesorabilmente ad acuirsi, solo la scelta delle principali forze politiche di stare insieme può consentire a un governo tecnico di proseguire la sua azione dopo la consultazione elettorale. Intestarsi unilateralmente il nome e l'immagine di Monti potrebbe perciò risultare, oltre che errato in linea di principio, pericoloso e controproducente anche per chi sostiene la necessità di non tornare alla paralisi in cui si era cacciata la «vecchia» politica. Senza considerare che la stessa configurazione degli attuali schieramenti politici potrebbe essere travolta se nelle primarie del Pd e del centrosinistra dovesse prevalere il ciclone impersonato da Matteo Renzi. I moderati italiani (sempre che questa denominazione abbia un senso) stanno finalmente impegnandosi a dare rappresentanza politica a quella parte dell'Italia che non vuole veder dispersi i risultati del governo Monti. Ora sta a loro non ottenere risultati opposti a quelli sperati. E non apparire come politici che si aggrappano alla scialuppa di Monti cercando di scansare il naufragio.

Pierluigi Battista

1 ottobre 2012 | 9:46© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_ottobre_01/ombrello-e-scialuppa-pierluigi-battista_c5339b8a-0b88-11e2-a626-17c468fbd3dd.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Purché siano vere
Inserito da: Admin - Ottobre 26, 2012, 09:37:03 am
Purché siano vere

Con la rinuncia alla candidatura del leader carismatico e l’indicazione delle primarie del Pdl indette per il 16 dicembre si chiude la stagione berlusconiana della monarchia assoluta. Per la prima volta un partito nato e cresciuto come emanazione del leader si apre alla scelta democratica della leadership. Non è importante appurare se questa decisione sia troppo tardiva, o se sia stata concepita in extremis per evitare la dissoluzione di un partito che si è abbandonato negli ultimi tempi a una rovinosa e fratricida guerra per bande. E non è nemmeno obbligatorio spiegare questo improvviso successo del metodo delle primarie nel centrodestra con la sferzata di energia che l’apertura delle primarie del centrosinistra ha già dato al Pd. Resta l’importanza di una svolta vera. E la possibilità che la campagna elettorale possa essere ricondotta sui binari di una democrazia normale, con forze che competono per governare il Paese dotate di un minimo di credibilità dopo la virtuosa parentesi tecnica.

Dovranno essere primarie autentiche: il contrario della cooptazione oligarchica con cui un leader magnanimo indica un suo successore. Primarie con divisioni nette, linee politiche differenti, aspiranti leader con profili personali caratterizzati. Nel Pd si è avuto un soprassalto di dinamismo politico perché Renzi ha portato in quel partito una sfida aperta, fatta di critica anche umanamente molto dura al suo gruppo dirigente, e anche di una sensibilità politico- culturale eccentrica rispetto al modello di sinistra tradizionale che è stato il recinto storico in cui il Pd ha preso forma. A volte il conflitto rischia di assumere forme autodistruttive e la vessazione burocratica di regole troppo ferree e conservatrici per lo svolgimento effettivo del voto rischia di dilapidare il capitale di fiducia che l’avvio della campagna per le primarie nel centrosinistra aveva già cominciato ad accumulare. Ma la scintilla di un confronto democratico vero si è accesa. E gli effetti positivi sono già nei numeri e nell’attenzione crescente per il Pd.

Il Pdl parte in condizioni decisamente peggiori. I sondaggi sono crudeli. Tutto ciò che aveva fatto in un ventennio politico la forza di Berlusconi è diventato motivo di debolezza. Eppure se le primarie del centrodestra coinvolgessero davvero (non la solita visita guidata ai gazebo) una base larga, non solo di militanti, ma di gente comune che si mette in fila per scegliere un leader in competizione libera e leale tra candidati, forse si imboccherebbe non la strada per la vittoria elettorale, ipotesi molto remota, ma quella per la rigenerazione di una parte dell’Italia politica, molto consistente, che ancora non vuole essere condannata al destino dell’irrilevanza. Se la scelta coraggiosa di Berlusconi vorrà avere conseguenze positive per il suo partito non dovrà apparire come una trovata furba, o l’ennesimo annuncio frustrante. Si apre per il centrodestra una stagione nuova: il congresso reale che non si è mai fatto, da celebrarsi il 16 dicembre.

Pierluigi Battista

25 ottobre 2012 | 11:00© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_ottobre_25/battista-purche-siano-vere_5cbb2edc-1e62-11e2-83ec-606b68a0023b.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA I PARTITI E L'ONDA ASTENSIONISTA
Inserito da: Admin - Ottobre 31, 2012, 05:55:12 pm
I PARTITI E L'ONDA ASTENSIONISTA

Il senso perduto dell'emergenza


Forse i partiti non hanno ascoltato bene il messaggio siciliano. Certo, ammettono che c'è qualche problema se oltre la metà dell'elettorato non si reca alle urne. Si dicono sensibili al disagio che si esprime nel massiccio voto a Grillo. Promettono di cambiare. Assicurano che saranno «concreti». Si mostrano pensierosi sui «problemi della gente». Ma è tutto qui. Non hanno capito che un astensionismo rivendicato così esteso è un segnale di rivolta. Che siamo prossimi al ripudio globale. E che manca pochissimo per raggiungere il livello più basso della credibilità dei partiti. Non di un partito, ma dell'intero sistema dei partiti.

Forse non hanno capito che qualche partito è leggermente messo meglio di un altro ma non è che se il Pdl è alla dissoluzione, gli altri non esibiscano una debolezza che fa spavento quando c'è da affrontare, senza l'ausilio di un governo tecnico, una crisi che moltiplica tensioni e rabbia. Dovrebbero tenere aperto a oltranza il Parlamento per prendere nei tre mesi che restano provvedimenti drastici. Ridurre al minimo i finanziamenti scandalosamente elevati e senza rendiconti ai partiti vivi e ai partiti defunti ancora gratificati delle risorse pubbliche. Non mettere ostacoli al ridimensionamento delle Province. Calmierare le spese delle Regioni. Fare una legge elettorale decente. E invece, dopo aver ritualmente mostrato di comprendere l'inquietudine dell'elettorato, si sentono finalmente liberi dai vincoli del governo Monti. Si sentono in libera uscita. Sospirano fiduciosi al prossimo «ritorno della politica». Pensano che l'emergenza sia conclusa. Che si possa tornare come prima. Costringono il governo a fare retromarcia sulla riduzione dei costi della politica. Fanno ostruzionismo sulla spending review . Si gingillano con le più astratte soluzioni per riformare sul serio la legge elettorale.

I partiti stanno diventando la fabbrica del qualunquismo nazionale: si comportano in modo tale da acuire il senso di estraneità che il loro linguaggio suscita nella stragrande maggioranza dei cittadini. La loro totale incapacità di reagire impedisce di capire che i numeri hanno un loro valore incancellabile, e che oramai i principali partiti tradizionali godono di percentuali sempre più irrisorie. Vincerà chi perderà di meno: non è normale. I vincitori diranno che hanno «tenuto», come a evocare un naufragio, ma non fanno nulla per evitarlo. Manca loro il senso di un'emergenza. Di un allarme vero. Cosa devono aspettare ancora per capire che un astensionismo così rabbioso ed esteso è il sintomo di un rapporto spezzato e che il compito di una politica responsabile è di ricucire un filo, un legame, il superamento di un disprezzo tanto corale? In Sicilia si è rotto un tabù.
Finora l'astensionismo è stato visto come disaffezione contenuta. Ma in Sicilia la disaffezione ha voluto parlare. E ha parlato in una lingua che non lascia spazio a interpretazioni indulgenti. Ora i partiti hanno davanti a sé meno di cento giorni. Possono far finta di niente. O addirittura illudersi di trarre reciprocamente vantaggio dalle difficoltà di tutti. O possono affrontare l'emergenza. L'ultima chiamata. Ecco il messaggio siciliano.

Pierluigi Battista

31 ottobre 2012 | 7:14© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_ottobre_31/senso-perduto-emergenza-battista_3bed7f24-2322-11e2-b95f-a326fc4f655c.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA - Il rispetto degli elettori
Inserito da: Admin - Novembre 06, 2012, 10:32:30 pm
L’IRRINUNCIABILE RIFORMA DEL VOTO


Il rispetto degli elettori


I partiti farebbero cosa saggia se seguissero le esortazioni del capo dello Stato a varare nel pochissimo tempo che resta una decente legge elettorale. E non solo per sensibilità istituzionale e per non lasciar cadere in modo sciatto l’allarme del Quirinale su una riforma ineludibile. Ma perché per lucrare nell’immediato su un piccolo vantaggio alla vigilia del voto, si rischia il disastro per i tempi che verranno dopo le elezioni. E perché l’avevano promessa, una nuova legge elettorale, anche per dimostrare che i partiti esistono malgrado il governo tecnico. Se non fossero capaci di trovare un accordo, si dimostrerebbero miopi. E incapaci. Senza appello. Con il Porcellum inalterato o con una legge elettorale che peggiorerebbe le cose se venisse gratificato di un premio di maggioranza non la coalizione bensì il singolo partito, chiunque vincerà le elezioni non riuscirà a governare con un Parlamento frammentato e caotico.

Dopo il terremoto siciliano, l’idea di premiare il singolo partito, sotto l’effetto dell’incubo di un Grillo che arriva inopinatamente primo, appare un po’ intiepidita. È forte la tentazione di lasciare le cose come stanno. Ma se si cedesse all’immobilismo, si commetterebbero due errori fatali. Il primo: non si rimedia all’espropriazione degli elettori che ancora una volta non potrebbero votare i loro rappresentanti ma semplicemente ratificare le nomine volute dalle oligarchie dei partiti. Scelgano loro le forme e i modi per evitare questo oltraggio al diritto di scegliere chi mandare in Parlamento. Ma la scelta di non scegliere e di lasciare le cose come stanno sarebbe un incitamento all’astensione, una nuova frattura tra il ceto politico e un’opinione pubblica esterrefatta e delusa. Il secondo errore sarebbe la sottovalutazione dei rischi che la nuova legislatura inevitabilmente dovrà affrontare se, come sembra evidente da tutti i sondaggi e alla luce del semplice buon senso, il divario tra i voti della coalizione vincente e la maggioranza dei seggi «drogata» con un gigantesco premio a chi vince dovesse risultare troppo marcato. Sarà possibile governare se chi vince le elezioni otterrà il 30, massimo il 35 per cento dei voti?

E se, come è molto probabile, questa percentuale dovesse essere calcolata su un corpo di cittadini votanti ulteriormente ridotto da una febbre astensionistica simile a quella siciliana, come sarà possibile affrontare le tempeste della crisi con un consenso tanto risicato? Si può governare stabilmente con il consenso di più o meno un quarto degli italiani, adottare misure severe e «impopolari» con la stragrande maggioranza degli italiani che non si riconosce in quella che regge le redini del governo? Nell’ingorgo istituzionale che seguirà il momento elettorale, con la scelta del nuovo presidente della Repubblica si aggiungerà anche il rischio che una minoranza iperpremiata possa condizionare in modo determinante il Quirinale. L’esiguità di questo consenso si farebbe notare con tutti i suoi effetti negativi. Dalla sinistra e dalla destra dello schieramento politico si cementerebbe un’opposizione la cui spinta la maggioranza di governo dovrà arginare con una compattezza che oggi, viste le forze in campo, è difficile immaginare. È difficile anche capire se i partiti, molto attenti, e legittimamente, al loro particulare si rendono conto della situazione esplosiva che rischiano di suscitare. Non sarà solo una legge elettorale a scongiurarne i pericoli. Ma senza una legge elettorale nuova quei pericoli diventeranno una certezza. È quello che tenta di spiegare Napolitano, alla vigilia del termine del suo mandato.

Pierluigi Battista

6 novembre 2012 | 9:04© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_novembre_06/rispetto-elettori-battista_d794916c-27da-11e2-9e66-88ac4e174519.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Il salto necessario
Inserito da: Admin - Dicembre 03, 2012, 06:39:51 pm
L'EDitoriale

Il salto necessario

 di Pierluigi Battista

Pier Luigi Bersani ha vinto nettamente, con un ampio vantaggio rispetto allo sfidante Renzi. La sua leadership è oramai sorretta da una forte legittimazione popolare. La sua scelta di affrontare il rischio delle primarie, anche piegando le resistenze conservatrici dell’establishment del partito, lo ha reso, confortato adesso anche da numeri robusti e inequivocabili, un candidato premier indipendente e autorevole. Renzi ha preso al ballottaggio meno voti di quanto sperasse. Ma è stato coraggioso, con la sua sfida ha contribuito in modo determinante a ridare smalto al Pd, ha reso visibile una corrente di emozioni, di idee e di opinioni che nell’apparato del partito era frustrata e silente. Ma esisteva.

Ora però Bersani deve dimostrare di saper fare da solo. Ha stravinto il secondo turno. Non può e non deve sperare che Renzi gli dia una mano per riconquistare quel 40 per cento di elettorato di centrosinistra. Ha fatto il pieno dei voti di Vendola, e il rischio è che debba essergli troppo grato, spostando l’asse della coalizione eccessivamente a sinistra. Con ogni probabilità, vista la condizione disastrosa del centrodestra, Bersani potrà puntare agevolmente a Palazzo Chigi. Ma per durare e avere credibilità in Italia e nel mondo non potrà cedere a chi considera
l’esperienza del governo Monti, lealmente sostenuto da oltre un anno anche dal Pd, come un cedimento al «liberismo», come ossessivamente viene ripetuto anche all’interno del Pd dalle sue componenti più diffidenti verso le politiche di un riformismo moderno.

Ora a Bersani, vinta con ampio margine la battaglia delle primarie, spetta il governo del Paese, se i numeri reali confermeranno ciò che i sondaggi dicono senza possibilità di equivoco. Non può illudersi che i voti che gli sono stati dati e quelli di Renzi siano facilmente sommabili. Renzi ha portato, come dice, un’idea «alternativa» di centrosinistra. E la sua forza era e resta la capacità di parlare con una fetta dell’elettorato italiano che sta fuori dai recinti tradizionali di quello schieramento. Bersani, per ragioni culturali e biografiche molto complesse, ne è meno capace e per questo, per parlare al mondo dei moderati, sarà costretto a rivolgersi ai «centristi» presidiando il territorio della sinistra.

Mentre si sa cosa sarà del 60 per cento che ha votato Bersani, il futuro dovrà dirci cosa ne sarà del 40 per cento che ha invece scelto Renzi come messaggero di una rottura radicale con la cultura e la tradizione maggioritaria della sinistra. Lo sconfitto dice che non utilizzerà quei voti per farsi una «correntina ». Sarà compito di Bersani tentare di convincerli prima di tutto dando seguito a quelle promesse di rinnovamento espresse in campagna elettorale contro l’avversario «rottamatore». La vittoria di ieri è una tappa. Il traguardo finale è ancora lontano, ma con un Pd decisamente più forte di quanto non fosse tre mesi fa. Anche per merito dello sconfitto Renzi.

Pierluigi Battista

3 dicembre 2012 | 8:43© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_dicembre_03/battista-salto-necessario_b439c558-3d0f-11e2-ab92-9e1ea30a782c.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Sallusti, l'arresto e l'arbitrio
Inserito da: Admin - Dicembre 12, 2012, 05:53:42 pm
Gli interrogativi sulla vicenda del direttore del «Giornale»

Sallusti, l'arresto e l'arbitrio


Diranno (anzi, l'hanno già detto), che se l'è andata a cercare e che, tecnicamente, un condannato che tenta e realizza un'evasione non può non essere arrestato. Certo, Alessandro Sallusti lo fa apposta. Vuole apertamente che l'ingiustizia che deve subire non si consumi nel silenzio della burocrazia giudiziaria, e anzi deflagri e faccia rumore. Una scelta coraggiosa. Discutibile, ma coraggiosa. E che mette in risalto la non normalità di un direttore di giornale arrestato nella sua redazione.

La libertà di stampa non è libertà di diffamare. La diffamazione è un reato che va sanzionato, con pene che siano commisurate all'entità del reato. La diffamazione non è un reato d'opinione e i diffamati hanno il diritto di veder punito chi macchia la loro reputazione con notizie false. Però gli «antipatizzanti» di Sallusti che si nascondono sotto una coltre di mille cavilli per dar sfogo alla soddisfazione di vedere un odiato nemico politico dietro le sbarre, devono anche loro dare la notizia giusta. E spiegare che le porte della galera (anche gli arresti domiciliari sono appunto «arresti») si chiudono alle spalle di Sallusti perché il direttore responsabile di un giornale, che porta la responsabilità di un articolo diffamatorio senza esserne l'autore, viene bollato da una sentenza giudiziaria come un soggetto pericoloso, con una condotta da «delinquente abituale».

La pena più dura, il carcere, viene motivata con la pericolosità di un giornalista: questo è il nucleo di ingiustizia di questo provvedimento. È pericoloso perché ha avuto più condanne per diffamazione di altri direttori di giornali? La pericolosità sociale di un giornalista viene misurata quantitativamente? È per questo che un giornalista viene arrestato: perché è pericoloso. Ecco perché, non per ragioni corporative, la solidarietà a Sallusti è anche un principio di resistenza al pericolo che si valuti la «pericolosità» di un giornalista «delinquente abituale» con criteri totalmente arbitrari. La dismisura tra il reato commesso e la pena comminata è tutta in questa arbitrarietà. Un giudice può considerare Sallusti un «delinquente abituale» e ammanettarlo. Ma chi ha a cuore la libertà di stampa non può non considerare quella di ieri una giornata buia per tutti. Anche per chi brinda all'arresto del nemico. Ultimo sintomo di un imbarbarimento politico che non fa onore a nessuno.

Pierluigi Battista

2 dicembre 2012 | 9:16© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/cronache/12_dicembre_02/sallusti-arresto-e-l-arbitrio-battista_63f4fee0-3c52-11e2-bc71-193664141fb2.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Ripiombati nel peggio della seconda Repubblica
Inserito da: Admin - Dicembre 12, 2012, 06:01:44 pm
Vecchie trincee

Ripiombati nel peggio della seconda Repubblica

È come essere costretti a indossare un vestito vecchio e logoro che si credeva in disuso, adatto solo a un rigattiere senza pretese.
In una settimana siamo ripiombati nel peggio della Seconda Repubblica, prigionieri di un sortilegio, di uno schema sempre desolatamente identico a se stesso. Dopo un anno di astinenza, riprendiamo l'unico giochino che sappiamo recitare a meraviglia.

Scongelati dal freezer tecnico, eccoci di nuovo qui ad assistere alla rissa gigantesca tra le due maschere sempre più invecchiate e sfatte di questo ventennio: il berlusconismo e l'antiberlusconismo. E continuiamo così, all'infinito, a farci del male. Il centrodestra, dopo qualche velleitario vagito di autonomia democratica, si riallinea, e la corte di nuovo obbediente si dispone dietro il Capo che ritorna a urlare le invettive che dopo vent'anni appaiono sempre più sgangheratamente ripetitive, figure retoriche inattuali, oramai guastate dall'abuso, parole svuotate di senso. Anzi, che di senso ne hanno uno solo: segnalare che si è ancora disponibili a sparare l'ultima cartuccia nella trincea degli irriducibili.

E dall'altra parte? I dibattiti appassionati ma civili tra Bersani e Renzi, due idee di società, l'impegno a guardare il futuro? Tutto svanito, tutto silenziato. Si ricomincia come prima. L'unico argomento di cui si parla è Berlusconi. L'unica paura è Berlusconi, l'unico fantasma è Berlusconi, l'unico linguaggio conosciuto e quindi usato come un mantra per cacciare gli spettri, per fuggire dai dolori della sconfitta, quello dell'antiberlusconismo. Chi seguiva più, a parte i magistrati, gli avvocati, i cancellieri e le disinibite testimoni, davvero, chi seguiva il processo milanese detto anche «processo Ruby». «Cercatela», intima il pubblico ministero per rintracciare l'ex minorenne che potrebbe incastrare il Caimano. E tutta la platea che non vede l'ora che ritorni Ruby, che implora una sentenza alla vigilia delle elezioni.

Prima dicevano, compunti e saggi: «Il processo faccia il suo corso senza che la politica interferisca». Se ne sono disinteressati per un po'.
E oggi si risveglia il loro interesse. Si è risvegliato il mostro assopito che ci aveva dominato per vent'anni, lo schema immutabile di un bipolarismo primitivo. Basta scorrere i proclami dei social network: una pentola di isterismo, di panico incontenibile, una folla che urla con i forconi nel campo immateriale della Rete ma non per questo meno concitata e dissennata. Sperano che schizzi lo spread, tifano per la catastrofe pur di rintuzzare il Caimano. E i berlusconiani che con voce sempre più rauca ululano: «comunisti», «complotto europeo contro Berlusconi», «la magistratura di sinistra, la tv di sinistra, i poteri forti di sinistra», «i grandi giornali di sinistra». Un delirio cospirazionista incrociato senza più freni.

E i partiti? I partiti si adeguano. Quelli della destra ripassano il copione messo da parte un anno fa e cercano di riacchiappare in extremis un consenso buttato via, milioni di elettori in libera uscita che si spera di riattirare con la grande rissa, di rimotivarli con i decibel delle loro grida, i volti paonazzi del duello da talk show. Il Pd, che pure ha dalla sua sondaggi straordinari, non parla più un suo linguaggio, non impone un suo modello di priorità, non descrive più una sua agenda da almeno una settimana. Invece di disporsi come tranquilla forza di governo. Assiste allo sbandamento dei propri seguaci terrorizzati dalla ricomparsa della «Mummia», come la chiamano sull'onda di una copertina di Libération .

Archiviata la novità incarnata da Matteo Renzi, sente il richiamo della foresta e viene irresistibilmente attratto dalla replica infinita dell'eterno teatro della Seconda Repubblica, in modo autodistruttivo. Il Centro anche, fa il Centro come l'ha fatto in tutto il ventennio, con la destra che ulula per esserne la controparte moderata e la sinistra che rumoreggia in disordine per essere la controparte anche qui.
Uno schema asfissiante. Che vanifica un anno in cui, almeno sul piano dello stile e della comunicazione politica, sembrava che l'Italia avesse trovato un punto di svolta. E invece ecco questo collettivo ritorno ai riti del passato, senza aver appreso la lezione. Per una campagna elettorale che si preannuncia come la più brutta degli ultimi decenni. Se questo è il «ritorno della politica», rimpiangeremo a lungo la breve stagione dei tecnici.

Pierluigi Battista

12 dicembre 2012 | 7:53© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_dicembre_12/ripiombati-peggio-seconda-repubblica_e9668ea6-4425-11e2-a26e-c89e7517e938.shtml


Titolo: P. L. BATTISTA D'Alema: anche Napolitano ha detto che Monti non è candidabile
Inserito da: Admin - Dicembre 19, 2012, 05:47:02 pm
La lettera

D'Alema: anche Napolitano ha detto che Monti non è candidabile


Caro Direttore,
approfitto della sua cortesia per tornare sui temi sollevati nella mia intervista a Roberto Zuccolini del 14 dicembre e sulle polemiche che ha suscitato. D'altro canto, il presidente Monti non ha ancora sciolto le sue riserve e mi pare, quindi, non inutile ritornare ad argomentare le ragioni per le quali appare gravemente inopportuno che egli finisca per capeggiare una lista o uno schieramento di parte. Sono sinceramente rammaricato per le critiche così aspre e così poco pertinenti che mi ha rivolto Pierluigi Battista. La sensazione è che l'impegno militante anticomunista sopravviva alla fine della Guerra Fredda e del comunismo stesso. Cosa c'entra la pretesa superiorità morale dei comunisti (che fra l'altro non ci sono più)? Qui si tratta di capire quale impressione potrebbe fare ai cittadini italiani il fatto che il capo del governo si candidi contro la principale forza che lo sostiene. Qui si tratta di spiegare perché egli non abbia ancora replicato a chi, dopo averlo sfiduciato, lo chiama a guidare uno schieramento «contro la sinistra».

Come non capire che queste ambiguità rischiano di alimentare confusione e qualunquismo e di logorare l'immagine stessa del presidente Monti? I riferimenti a Carlo Azeglio Ciampi e a Lamberto Dini sono, com'è evidente, totalmente inappropriati. Ciampi, infatti, da presidente del Consiglio non si candidò e gestì in modo imparziale la campagna elettorale del '94. Dini presentò una sua lista a sostegno di Romano Prodi dopo che il centrosinistra aveva sostenuto il suo governo e le sue riforme. Nessuno dei due inoltre era stato nominato senatore a vita. Vorrei che si riflettesse su questo aspetto, perché è evidente che accettando questa nomina alla vigilia dell'incarico per il governo, il presidente Monti ha sostanzialmente preso un impegno - non giuridico, ma appunto morale - a collocarsi al di sopra delle parti e fuori dalla competizione politica. D'altro canto, il capo dello Stato alcuni giorni fa ha ricordato che egli è appunto non candidabile.

Chi scrive nutre da molti anni stima e considerazione verso il professor Monti. Credo di averlo dimostrato fin da quando decisi di confermare Monti come commissario europeo con una scelta non facile, perché il suo nome era in alternativa alla validissima candidatura di Emma Bonino. Certo, non è un mistero che io sia stato fra quanti lo hanno sollecitato a rendersi disponibile per guidare il governo in un momento così difficile. Proprio per questo, sono preoccupato che una sua candidatura possa radicalizzare il confronto elettorale e possa finire per dare argomenti, nella sinistra, assai più alle componenti radicali che lo hanno contrastato, che non a quella grande maggioranza riformista che lo ha sostenuto in questi mesi difficili. Torno quindi a ripetere ciò che ho detto qualche giorno fa, forse con parole un po' brusche ma chiare (e mi rivolgo anche a quanti lo sollecitano e lo vogliono in campo): Mario Monti è una risorsa per il Paese, non la si sprechi in una operazione elettorale che rischia di dividere e che, ne sono convinto, apparirebbe difficilmente comprensibile per una larga maggioranza degli italiani.

Massimo D'Alema

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Mi era sembrato di capire che l'onorevole D'Alema giudicasse «moralmente discutibile» un'eventuale scelta di Monti molto meno «schierata» di quella, a vantaggio della sinistra, del tecnico Dini nel '96.

Pierluigi Battista

19 dicembre 2012 | 10:31© RIPRODUZIONE RISERVATA


Titolo: Pier Luigi BATTISTA - I RISCHI DELLA NUOVA COALIZIONE Quel sapore di antico
Inserito da: Admin - Dicembre 30, 2012, 05:13:28 pm
I RISCHI DELLA NUOVA COALIZIONE

Quel sapore di antico

È difficile definire cosa sia il «nuovo» in politica. Più agevole capire cosa invece rischia di emanare un sapore di antico. E di già visto.
La coalizione che si ispira all'Agenda di Mario Monti può essere tante cose, e raccogliere molte anime. Può essere il punto di riferimento né centrista né moderato di una borghesia moderna che, assieme al rigore finanziario che ha caratterizzato oltre un anno di governo tecnico, esige più liberalizzazioni, meno bardature burocratiche, uno Stato più snello, un mercato del lavoro meno punitivo con i giovani, la promozione della meritocrazia, un fisco meno opprimente. Oppure può annacquare la sua novità imbarcando nelle sue scialuppe un personale politico logorato. O addirittura facendo il verso, stavolta con una massa elettorale meno cospicua ma con una spinta molto accentuata del mondo cattolico e financo dei vertici vaticani, ai fasti di ciò che fu la Democrazia Cristiana.

I primi passi dell'universo centrista che si sta raccogliendo attorno alla figura di Monti lasciano immaginare che la strada imboccata sia la seconda, piuttosto della prima. È ancora molto presto per tirare conclusioni affrettate e poi sarà il modo con cui si formeranno le liste elettorali a dimostrare con più chiarezza la fisionomia del nuovo fronte dei moderati italiani. Si spera che la frammentazione delle liste alla Camera non suoni come il richiamo della foresta per partiti e partitini che vedono in Monti un salvatore, l'uomo del destino che con la sua sola figura regala un valore aggiunto a formazioni politiche condannate all'irrilevanza elettorale e alla marginalità politica. E si spera anche che la «società civile» di ispirazione laico-liberale, che si vuole rappresentata principalmente dal neo-movimento di Luca Cordero di Montezemolo, faccia da argine a una certa propensione «confessionale» che serpeggia già nell'arcipelago centrista appena formatosi nelle stanze di un istituto religioso neanche molto distante, dal punto di vista della geografia fisica e politica di Roma, dai Sacri Palazzi.

La forza della nuova coalizione potrebbe essere invece la sua singolarità e diversità dalle forze politiche esistenti, dalla sua capacità di imporre un'«agenda» nuova, e di saper attrarre quella fetta di elettorato che non si sente rappresentata dai partiti e che è stanca di un bipolarismo rissoso e primitivo. Monti ha auspicato che la battaglia politica nuova si fa con le idee, e non con le costrizioni di schieramento e di appartenenza. Ma un'idea che vuole sottoporsi al giudizio popolare deve anche presentarsi senza macchie in tema di credibilità. E bisogna anche che il nuovo raggruppamento sappia dare risposte sui temi civili ed «eticamente sensibili» (dalle coppie di fatto al «testamento biologico») che un eccesso di schiacciamento sulle logiche espresse dal mondo ecclesiastico rischia di condannare alla reticenza e, addirittura, all'afasia. Ma un'Agenda così ambiziosa non può permettersi il silenzio delle opportunità.

Pierluigi Battista

30 dicembre 2012 | 10:34© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_dicembre_30/quel-sapore-di-antico-battista_42fdc2f4-524f-11e2-90d5-1b539b66307f.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Corna e Cucù, come Totò e Trombetta
Inserito da: Admin - Gennaio 17, 2013, 12:12:27 am
IL RITRATTO

Corna e Cucù, come Totò e Trombetta

Berlusconi trasforma ogni nemico in «spalla»

Persino Ingroia è stato «scritturato» in una scenetta memorabile


Nel fare della politica uno spettacolo, è indubbiamente il numero uno. I suoi detrattori dicono che non è spettacolo, ma avanspettacolo.
Ma i cinepanettoni vendono più di un film da cineclub. Silvio Berlusconi lo sa e ha deciso di dar fondo al suo repertorio per ribaltare ogni pronostico, e combattere l'ultima battaglia disperata. Non diventerà di nuovo capo del governo, ma nell'ideazione e nell'esecuzione della politica-sketch non lo batte nessuno.

Tutti, anche i sui acerrimi nemici, diventano la spalla ideale delle sue gag. Persino Ingroia è stato scritturato in una scenetta memorabile nella parte del cattivo e del magistrato talebano avvezzo a mandare in galera la gente con una certa disinvoltura. All'ingresso di «La 7», l'uomo di spettacolo si muove d'istinto, si accerta della presenza di telecamere e fotografi e, tra una trasmissione politica e un'altra, appena incontra casualmente il magistrato «comunista» per eccellenza, incrocia platealmente i polsi con il gesto dell'ammanettato. Una presenza di spirito micidiale. Ride persino Ingroia, che non ride mai per temperamento e per principio, e improvvisamente, senza essere nemmeno avvertito, l'arcigno magistrato che aveva dichiarato la guerra santa al berlusconismo si ritrova nella parte di Carlo Campanini con Walter Chiari in una delle migliori interpretazioni dei fratelli De Rege. O in quella di Gianni Agus che tiene botta a una performance di Paolo Villaggio-ragionier Fracchia. O, per restare nell'ambito della politica, in quella del grande Mario Castellani nei panni dell'«onorevole Trombetta» sbeffeggiato da Totò.

Ecco, Totò. Cinefili di lungo corso sono stati consultati per svelare in quale film del principe De Curtis, Totò abbia dato fondo alla sua vena comica con il gesto di spolverare con il suo fazzoletto la sedia dove era seduto un suo imprecisato nemico. E chissà se un richiamo inconscio non abbia ispirato Berlusconi quando, al culmine del suo scoppiettante show in casa di Santoro in «Servizio pubblico», prima ha iniziato la sua gag alla Totò con un foglio dei suoi appunti, poi ha completato l'opera estraendo con gesto perentorio il fazzoletto dal taschino della giacca. Persino la claque ostile di Santoro ha accompagnato la scena con risate e ululati alla maniera dei teatri popolari di una volta. E Berlusconi, l'istrione, l'attore, il re dell'improvvisazione da palcoscenico ha perso ogni freno. Dopo la scena della sedia spolverata, alla Totò, Berlusconi ha indossato i panni di Petrolini quando ha chiesto retoricamente al pubblico santoriano certamente pieno di «comunisti»: «Sono tutti coglioni quelli che mi hanno votato?». E il pubblico: «sìììììì». Il precedente? Petrolini-Nerone: «E Roma rinascerà più bella e più superba che pria». «Bravo!!», «Grazie!»

Dopo Totò e Petrolini a «Servizio pubblico» (e gli osanna dei suoi, galvanizzati dalla nuova esuberanza scenica del Capo), ecco il Berlusconi di ieri con Ingroia. E subito prima, ad «Omnibus», facendo finta di prendere a mazzate di carta il giornalista Damilano. Questo era Alberto Sordi. Gli mancava il romanesco «te pòzzino» . Oramai è una sequenza interminabile. Berlusconi sa che il suo repertorio è inesauribile.
Attira l'attenzione pubblica. Oscura la presenza dei suoi competitori. Impone un linguaggio popolare. È un attore che fa parlare i suoi istinti. Come quella volta che nella foto di gruppo di capi di Stato e di governo si fece immortalare nel gesto delle corna, tanto per far divertire un gruppo di scout presenti alla cerimonia (dice lui). O il celeberrimo cucù alla Merkel che si spaventò per la scenetta messa su da quel mattacchione.

O quel grido da stadio «Obamaaaa» che tanto fece inorridire la regina Elisabetta. O il sorriso da malandrino quando si fa dare del «latin lover».

Tutta una serie di maschere, gag, tormentoni, situazioni comiche che hanno fatto di Berlusconi e dei suoi nemici i soliti mugugnatori pronti a deprecare la volgarità dei tempi moderni. La solita scena. Una girandola di battute, un fuoco d'artificio con il saccheggio della comicità da spettacolo e da avanspettacolo. Una sarabanda di citazioni. Come questa, sempre di Petrolini-Nerone: «Lo vedi? Il popolo, quando s'abitua a dì che sei bravo, pure che nun fai niente, sei sempre bravo». «Bravo!!». «Grazie».

Pierluigi Battista

@Pierluigibattis16 gennaio 2013 | 17:22© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_gennaio_16/come-toto-trombetta-cavaliera-trasforma-nemico-in-spalla-battista_4cd08596-5fa6-11e2-9e33-1d7fb906e25e.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Quando la Storia si fa con le Battute
Inserito da: Admin - Gennaio 29, 2013, 10:26:37 pm
Stereotipi e falsità

Quando la Storia si fa con le Battute


Avesse declamato la massima più frequentata dai nostalgici, «i treni arrivavano in orario», la perorazione pro-mussoliniana (e pre-rituale rettifica) di Berlusconi avrebbe raggiunto la perfezione della battuta al bar di sera. Mussolini aveva fatto «cose buone»? Sicuro, mica c'era la delinquenza di oggi, e «si dormiva con le porte aperte». Questa non l'ha detta Berlusconi? No, questa (ancora) no. Ma più o meno, ieri, l'ex premier era nello spirito adatto per dirla.

Tutti a scervellarsi sull'enigmatico perché. Ma questa cosa di Berlusconi che, nel Giorno della Memoria, nel corso di una cerimonia che avrebbe dovuto essere solenne, si è messo a disquisire sulle cose «buone» che Mussolini avrebbe fatto, che significato ha? Possibile che Berlusconi non capisca che in una giornata molto particolare non solo in Italia ma in tutto il mondo, nel ricordo imperituro dell'Olocausto, non è che ci si può concedere ai microfoni dei cronisti come se si dovesse sciorinare l'ennesima battuta sull'Imu da abolire sulla prima casa? Ipotesi dietrologica: è stato forse un messaggio subliminale a ciò che resta di un elettorato fascista o neofascista? Ipotesi fantasiosa: aveva forse saputo che le liste di CasaPound (poi rientrate in lizza) non erano state accettate? Ipotesi realistica: non era esattamente nelle condizioni di soppesare con un minimo di saggezza le avventurose considerazioni storiografiche in cui si stava cacciando? Ipotesi estremista: era una voce dal sen sfuggita, perché in cuor suo Berlusconi è un cripto-fascista come da decenni vanno dicendo i suoi detrattori? Ipotesi psico-politica: era già in uno stato di semi-sopore prima che i fotografi lo cogliessero dormicchiante durante la cerimonia delle Giornata della memoria?

Intanto, un piccolo dettaglio, per dire la vacillante conoscenza delle date della storia in casa da parte del leader del centrodestra. Nel '38, quando Mussolini e il regime fascista vararono l'orrore delle leggi razziali, non c'era nessuna alleanza bellica con la Germania di Hitler. Non ci fu imposizione «tedesca», costrizione, patteggiamento, ricatto: il regime fascista accettò l'abiezione di quelle leggi persecutorie in uno stato di pur demenziale autonomia, non gliela ordinò proprio nessuno. Cominciò a discriminare gli ebrei per proprio conto, con vocazione imitativa nei confronti della Germania hitleriana: ma non ci fu nessuna costrizione, come con non sorvegliata velleità politico-storiografica ha invece detto Berlusconi (prima della rituale rettifica, ovvio). E poi Berlusconi non è nuovo a una lettura minimizzante ed edulcorata del regime fascista. Qualche anno fa, sembra aizzato dallo storico giornalista britannico Nicholas Farrell, non seppe frenarsi nel dire che Ventotene, durante il fascismo, più che un luogo dove venivano confinati gli oppositori del Mussolini che fece anche cose «buone», era soprattutto un ameno luogo di «villeggiatura», forse menzionando inconsciamente il titolo di un film di Marco Leto, girato per la verità con tutt'altro spirito.

Insomma Berlusconi, immortalato con un fez quando, ironia della storia, disse che avrebbe appoggiato Fini nel '93, più volte accusato dall'opposizione più oltranzista di voler instaurare un «regime» simile a quello fascista, sfidato da Michele Santoro con una celeberrima versione di «Bella ciao» per esaltare le imprese dei nuovi partigiani in prima serata tv, sembra davvero non considerare il fascismo come un capitolo interamente oscuro della storia italiana. No, le leggi razziali, proprio no, ma c'è lo stereotipo dell'italiano brava gente a salvarci: sono stati i cattivi tedeschi ad imporceli. Certo la libertà d'opinione conculcata, gli oppositori perseguitati, ma volete mettere la ferocia repressiva fuori dell'Italia con il blando trattamento riservato agli oppositori nei luoghi di confino-villeggiatura, malgrado le descrizioni di Giorgio Amendola nell'«Isola». È un continuo ammiccare a un'opinione pubblica più «afascista» che «antifascista», un parlare a un pezzo d'Italia che alle «cose buone» di Mussolini un po' di credito lo dà. Salvo poi, raccontano i retroscena politici (seguiti da rituale rettifica), bollare come insopportabili «fascisti» gli ex An che facevano pesare la loro presenza molesta del Pdl creando il grande rimpianto della non «fascista» Forza Italia. Salvo tirar fuori un po' volgarmente le «fogne» per saldare i conti con il nemico Fini. Ma forse voleva riferirsi al Mussolini delle cose «cattive». Mica erano la Giornata della memoria.

Pierluigi Battista

28 gennaio 2013 | 10:09© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_gennaio_28/quando-la-storia-si-fa-con-le-battute-battista_d0f049fa-691b-11e2-a947-c004c7484908.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Il festival delle promesse
Inserito da: Admin - Febbraio 04, 2013, 11:18:52 pm
UNA CAMPAGNA A QUALSIASI COSTO

Il festival delle promesse

È efficace l’ultima «proposta choc» di Berlusconi, culmine di una campagna elettorale che due mesi fa appariva irrimediabilmente perduta? Dipende da qual è il punto di partenza. Si vuole partire dai sondaggi che negli ultimi mesi del 2012 davano il Pdl a poco più del 10 per cento? Allora la strategia di parziale recupero dei consensi perduti conosce con il pacchetto delle misure palesemente irrealizzabili — e con la promessa fantasiosa di restituzione cash dell’Imu versata l’anno scorso sulla prima casa—il coronamento di una campagna tambureggiante. Ma se si parte dal 38 per cento che il Pdl conquistò non un secolo fa, bensì nel 2008, allora Berlusconi può proporre le cose più fantasmagoriche, vagheggiare «restituzioni » più volte promesse e tuttavia mai mantenute per il loro evidente irrealismo, ma il successo è oramai solo un ricordo del passato: il centrodestra si è sgretolato e il suo leader può puntare solo su una sconfitta di misura. Che certo, confrontata col precedente stato comatoso, appare quasi come una miracolosa mezza vittoria.

Ora però gli avversari di Berlusconi possono solo fargli un regalo: mettersi sulla scia delle sue fantasiose dichiarazioni e sciorinare da qui al giorno delle elezioni il solito repertorio di invettive contro il «venditore » che smercia promesse mirabolanti. Nell’opinione di sinistra, ora impaurita perché convinta che l’elettorato berlusconiano sia composto da rozzi creduloni eticamente inaffidabili e inebetiti dalla tv, la proposta di restituzione dell’Imu suona come una venefica dose di droga. Ai tempi delle primarie, il Pd e il centrosinistra sembravano una squadra invincibile, ma solo perché il centrodestra era sepolto sotto le macerie. Oggi temono il ritorno del 2006, del Berlusconi dato per sconfitto, ma che alla fine se la giocò per poche migliaia di voti. Negli incubi della sinistra quella rimonta ha un solo nome: la promessa dell’abolizione dell’Ici. Non si riflette mai sul modo confuso con cui si presentava lo schieramento guidato da Prodi. O su quel dire e non dire sui Bot che assomiglia in modo impressionante al dire e non dire di oggi del Pd su una non precisata «patrimoniale » (sopra o sotto il milione e duecento mila euro? Non si capisce). La colpa è sempre nella «credulità» degli italiani e della diabolica capacità di Berlusconi di spacciare sogni proibiti. Eppure, diversamente che nel 2006, Berlusconi si trova, stavolta per esclusiva colpa sua, in condizioni quasi disperate: solo gli errori e i terrori dei suoi avversari possono aiutarlo in un’impresa impossibile.

Oggi la missione di Berlusconi, finora indubbiamente efficace, è quella di riportare ai seggi i milioni di voti del centrodestra che sono già fuggiti o intendono fuggire verso l’astensione. È il popolo vastissimo dei delusi, di chi si è allontanato, di chi si sente massacrato dall’oppressione fiscale e non crede più alla promessa di Berlusconi di ridurre le tasse. Berlusconi, a differenza delle altre volte, non deve convincere e portare a sé nuovi elettori, ma arginare la fuga dei «suoi» elettori che lo hanno abbandonato. Questo è il messaggio delle sue «proposte choc». Che la sinistra farebbe bene a non sottovalutare. Il richiamo della foresta della protesta antitasse è infatti, nel popolo del centrodestra, l’unico linguaggio comune che gli sia rimasto.

Pierluigi Battista

4 febbraio 2013 | 12:53
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da - http://www.corriere.it/editoriali/13_febbraio_04/il-festival-delle-promesse-pierluigi-battista_96e45026-6e93-11e2-87c0-8aef4246cdc1.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Un monarca nelle piazze
Inserito da: Admin - Febbraio 11, 2013, 12:18:44 am
INTERROGATIVI SULL'AVANZATA DI GRILLO

Un monarca nelle piazze

I partiti tradizionali sembrano rassegnati al quasi certo exploit elettorale di Beppe Grillo. Anzi, sembra che lavorino per lui. In un anno e passa di inattività, affidata a un governo tecnico la missione di far uscire l'Italia dai guai, non hanno nemmeno cominciato a ridurre sul serio i costi esorbitanti della politica, regalando fertile terreno all'antagonismo polemico del Movimento 5 Stelle. E ora, mentre fanno a gara per conquistare il Premio simpatia e affabilità in tv, lasciano a Grillo la fatica delle piazze, città per città, provincia per provincia, con un tour capillare simile a quello che lo ha già fatto trionfare in Sicilia, nella latitanza distratta degli altri leader nazionali. Perciò non potranno lamentarsi quando, a urne aperte, si scoprirà l'effettiva dimensione del consenso grillino e dovranno sperare, per il dopo, che Grillo commetta molti errori per permettere loro di tirare un po' il fiato.

Il primo errore che Grillo potrebbe commettere, ricambiando così il favore che i partiti gli stanno facendo con la loro inerzia e il loro immobilismo, è di pensare che un semplice umore, per quanto esacerbato, sia capace di durare nel tempo. Non tutte le proteste antisistema sono uguali. E se la Lega delle origini aveva un radicamento territoriale (il Nord), una base sociale (il «popolo delle partite Iva» e delle piccole e piccolissime imprese), una bandiera (il federalismo) per rivelarsi, come è accaduto, un fenomeno duraturo, il movimento di Grillo appare invece più volatile, legato a uno stato d'animo di esasperazione, all'invettiva, alla collera, al «vaffa» gridato ed esibito: una cosa potentissima, quando c'è, ma sfuggente, mutevole, infida. Che farà Grillo, per tenere insieme i suoi presumibili milioni di voti, il numero elevatissimo di parlamentari eletti, una rappresentanza istituzionale tutt'altro che marginale? Imporrà per cinque anni ai suoi di mandare senza tregua tutti a quel paese, di urlare il malcontento, di denunciare le malefatte dei partiti incapaci di autoriformarsi?

Certo, i seguaci di Grillo cavalcheranno in Parlamento la battaglia per la riduzione dei privilegi della politica. Ma saranno capaci di dire qualcosa, per fare degli esempi, sulle politiche del lavoro, sul sistema fiscale, sulle unioni civili, sulla scuola e l'università? Oggi Grillo dice ai suoi di avere una «visione». Basterà la «visione» per non vanificare un consenso che si profila tanto imponente? Grillo ha sin qui guidato in modo dispotico la sua creatura politica, selezionando le candidature con criteri assai discutibili, teorizzando e praticando la defenestrazione dei dissidenti. Potrà esercitare un potere assoluto sull'esercito dei neoparlamentari oppure la smetterà di avere paura di voci autonome, di contributi e contenuti non conformisti da parte dei suoi? È troppo chiedere oggi a Grillo un programma dettagliato (che pure c'è, consultabile su Internet, pasticciato e generico come tutti i programmi elettorali)? Certo, non è questo il carburante che sta spingendo la sua macchina, animata da spirito di protesta, di umori «anti» tutto, di insopportazione per le espressioni meno onorevoli della politica di questi decenni. Non è detto però che i suoi stessi elettori non vogliano chiedere a Grillo qualcosa di meno effimero di un corale «vaffa». Se non un impegno, almeno un'indicazione su come si comporteranno i parlamentari e sulle scelte da compiere. È «vecchia» politica anche questa?

Pierluigi Battista

9 febbraio 2013 | 7:26© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_febbraio_09/un-monarca-nelle-piazze-p-battista_41f7e3e0-727e-11e2-bdf7-bdbb424637ab.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA E nella politica italiana debutta la «sindrome Bianca»
Inserito da: Admin - Febbraio 19, 2013, 11:32:50 pm
Le prime elezioni al freddo

E nella politica italiana debutta la «sindrome Bianca»

Il meteo nell'urna


Si fa presto a dire «precipitazioni nevose anche in pianura». Ma se dall'intensità di queste «precipitazioni» non meglio quantificate dovesse dipendere il risultato delle elezioni? Ecco perché gli staff dei candidati consultano con tanta trepidazione le previsioni meteo del prossimo weekend. E mica per sapere quanti centimetri di neve imbiancheranno le piste di sci. Ma per sapere se ci saranno disagi per chi dovrà o vorrà votare. Un fiocco in più e rischia di cambiare il prossimo inquilino di Palazzo Chigi?

Le prime elezioni invernali cambiano completamente le ossessioni che le parti in campo riservano al complicato rapporto tra meteo e politica. Adesso, dicono, che i prossimi giorni una poderosa nevicata farà da suggestiva cornice delle operazioni elettorali. Ma quando le elezioni cadevano nella stagione tiepida o calda, di solito i «moderati», consapevoli dello scarso spirito di militanza del loro elettorato, guardavano le previsioni metereologiche sperando in qualche acquazzone dissuasivo che inchiodasse i maniaci del weekend al mare senza abbandonare la città, e dunque la condizione minima per recarsi ai seggi. Oggi è la neve, il «Generale Inverno». La neve bloccò l'invasione napoleonica della Russia, come è scritto in «Guerra e pace» glorificando la saggezza sorniona del generale Kutuzov. La neve determinerà le prestazioni elettorali dei candidati? Sembra una delle tante eccentricità scombiccherate della politica odierna, ma la risposta è: sì. Lo dicono sottovoce i sondaggisti (senza poter pubblicare i risultati delle loro investigazioni): se la massa di chi annuncia di volersi astenere si dovesse assottigliare, ne verrebbe indubitabilmente favorito il centrodestra nelle cui schiere si conterebbe la gran massa dei delusi e dei potenzialmente astensionisti. E se le imponenti «precipitazioni nevose» dovessero rendere decisamente più difficile il percorso per recarsi ai seggi? E se, nelle zone dove di solito non nevica, l'euforia per i bianchi fiocchi dovesse comportare un ulteriore calo di attenzione dell'opinione pubblica? E se un'abbondante nevicata a Roma dovesse distogliere i genitori dai loro doveri elettorali per accompagnare i loro emozionatissimi pargoli a provare le gioie dello slittino lungo i pendii di Monte Mario o del Gianicolo?

Saranno pure quisquilie superficiali, ma la «sindrome bianca», l'ossessione del fiocco di neve, l'ansia da precipitazione, stanno davvero contagiando gli staff impegnati in questo ultimo miglio di campagna elettorale invernale. Si era rotto finalmente il tabù che impediva di indire le elezioni nei rigori invernali. Ma adesso l'immagine dei seggi elettorali sommersi dalla nave risveglia incubi che sembravano sopiti. Un occhio ai sondaggi (segreti) e un altro ai bollettini meteo (pubblici): questa è la preoccupazione divorante di chi sta combattendo la battaglia per vincere le elezioni del 24 e 25 febbraio. Non è ancora chiaro se c'è chi giocherà all'allarmismo per indurre gli indecisi e i tiepidi a rinunciare all'esercizio del loro diritto. E non è scientificamente provato che una maggiore astensione sfavorisca il centrodestra di Berlusconi, e viceversa. Ma l'irruzione della sindrome meteo nella campagna elettorale è l'ultima nevrosi della discussione un po' isterica che sta caratterizzando questa caccia al voto al freddo e al gelo. Da che parte di schiererà il «Generale Inverno» è tutt'altro che chiaro. Ma in una campagna elettorale in cui si sono scatenati i timori persino per il festival di Sanremo, tutto è possibile. Un fiocco di neve li seppellirà.

Pierluigi Battista

19 febbraio 2013 | 10:34© RIPRODUZIONE RISERVATA

da -


Titolo: Pier Luigi BATTISTA L'antiberlusconismo miglior alleato del Cavaliere.
Inserito da: Admin - Febbraio 26, 2013, 05:45:14 pm
La risalita Da fenomeno in tv ha rianimato un corpaccione stordito e frammentato

La riscossa del giaguaro e quell'umore antitasse sbeffeggiato dai «nemici»

L'antiberlusconismo miglior alleato del Cavaliere. Lo avevano dato per morto. Ora a sinistra daranno la colpa agli elettori


Altro che «la mummia», come ha commentato inorridito un giornale francese quando Berlusconi ha dichiarato di volersi ricandidare.
Il berlusconismo non era stato cancellato e sepolto. In cinque anni ha lasciato sul terreno una quindicina di punti percentuali: un'enormità.
In un Paese normale un leader che perde quasi il quindici per cento dei suffragi verrebbe considerato uno sconfitto.

Ma il mondo che ha scelto Berlusconi in tutti questi anni non è stato inghiottito dal nulla. I media non se ne sono accorti. Noi non ce ne siamo accorti. La bolla in cui vive chi fa opinione non se n'è accorta. Ma il centrodestra viveva ancora nel Paese. Devastato. Malconcio.
Ma esisteva. Con il suo linguaggio, i suoi interessi, la sua antropologia che la sinistra snob non ha mai cessato di sbeffeggiare, inanellando in consenso la più deprimente sequenza di rovesci della storia italiana.

Ne fanno una questione di stile, anzi di mancanza di stile. E sono inorriditi che un uomo che incarna così compiutamente tutto ciò che le élite considerano moralmente ed esteticamente riprovevole possa ancora avere un suo ragguardevole seguito. Ma lui parla di tasse. E loro non si accorgono che milioni di italiani si sentono vessati dalle tasse. Sorridono sulla «restituzione dell'Imu». Ma non si accorgono che l'Imu è stato un colpo durissimo in tempo di tredicesime. Lui parla di Irap e loro non si accorgono che per colpa dell'Irap piccole e piccolissime aziende chiudono e che il popolo berlusconiano non voterà mai e poi mai chi non si occupa di Irap e piuttosto si astiene, piuttosto vota Grillo, ma quelli che ignorano l'Irap mai e poi mai. Lui parla di Equitalia, e loro non se ne accorgono. Alcuni della sinistra vengono dalla cultura marxista e dovrebbero sapere che gli interessi di classe esistono. Hanno letto Gramsci e dovrebbero sapere che un "blocco sociale" è una cosa seria, coriacea, fondamentale. Berlusconi può fare tutti i disastri del mondo ma sa parlare il linguaggio degli interessi del suo "blocco sociale". E un blocco sociale non lo di distrugge con una trasmissione di satira e con le battutine oblique del Festival di Sanremo politicamente corretto.

Una parte del popolo berlusconiano se n'è andato, beninteso. Ma un'altra, quasi il trenta per cento degli elettori, non aveva alternative. Stavolta non ha votato con entusiasmo. Ha fatto come Montanelli nel '46 e ha scelto nella cabina Berlusconi turandosi il naso. Ai sondaggisti non dicevano la verità, perché dirsi elettore di Berlusconi non è segno di finezza, ti espone al ludibrio dei monopolisti del buon gusto.
Ma c'erano. E il sistema dell'informazione non se n'è accorto. Quello dei partiti tradizionali della sinistra non se n'è accorto.
Quello dei padroni dei sondaggi non se n'è accorto. E avevano dato per morto Berlusconi e il berlusconismo. Sbagliavano. E per penitenza dovrebbero andare inginocchiati sui ceci. Ma non lo faranno. E daranno la colpa all'elettorato. Ne deploreranno la rozzezza, la credulità, la volgarità, l'essenza naturaliter delinquenziale. E ancora una volta non avranno capito.

Che poi è perfettamente vero che il centrodestra versava in una crisi mortale e che Berlusconi ha dovuto fare il fenomeno in tv per rianimare un corpaccione stordito, disorientato, frammentato in agguerritissimi clan, diviso da faide intestine. Ma pensavano che quella parte che era stata maggioranza lungo tutti questi vent'anni si sarebbe dissolta senza reagire, avrebbe lasciato campo libero a chi non ha mai saputo capire ciò che avveniva nel territorio mentale del centrodestra? Davvero potevano pensare che battute sullo smacchiamento del giaguaro non avrebbero irritato, indignato, reso furibondo chi in questi anni aveva scelto Berlusconi e che quest'anno non lo avrebbe fatto più, ma poi l'ha fatto perché pur di non dargliela vinta a chi fa ironie sull'Imu e sull'Irap, sarebbe tornata di nuovo nei seggi per votare direttamente Berlusconi o qualcuno che stava nei paraggi e nell'alleanza?

E così è stato nel 2006. E così è stato anche in questi giorni. Il centrosinistra dato per vincente nel 2006 cincischiava sulla tassazione delle «rendite finanziarie» e tutti i possessori di Bot si sono spaventati. Oggi il centrosinistra ha scaraventato nel recinto infetto dell'evasione potenziale tutto l'umore antitasse. Ha sbagliato. E ha sbagliato a non considerare che Berlusconi, invece, su quel terreno non avrebbe mai sbagliato. E si leggeranno pensose analisi sui costumi degli italiani, e si almanaccherà ancora sulle due Italie, quella buona e corretta e quella brutta, sporca e cattiva. E ci si chiederà come mai, quasi all'unanimità, nessuno aveva previsto che il berlusconismo, ammaccato ed elettoralmente assai dimagrito, esisteva ancora. E che i girotondi di giubilo attorno al Quirinale quando Berlusconi si era recato da Napolitano per rassegnare le dimissioni erano una grande e sacrosanta festa, ma non la veglia funebre di un fenomeno politico molto più resistente dei nervi troppo fragili di chi aveva solo da tirare il pallone in rete e invece ha sbagliato l'occasione più facile. Perché non c'è miglior alleato di Berlusconi degli antiberlusconiani professionali. La mummia si è risvegliata. Ma per loro no, l'incubo è appena cominciato.

Pierluigi Battista

26 febbraio 2013 | 8:17© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/speciali/2013/elezioni/notizie/26-febbraio-riscossa-del-giaguaro-battista_3b297940-7fdd-11e2-b0f8-b0cda815bb62.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA "La fine del giorno".
Inserito da: Admin - Marzo 15, 2013, 11:30:01 pm
 "La fine del giorno". Il diario di Pierluigi Battista sulla malattia e la morte della moglie

L' Huffington Post  |  Di Antonia Laterza   Pubblicato: 14/03/2013 17:53 CET  |  Aggiornato: 14/03/2013 18:56 CET


Il sesso e la malattia, il desiderio, quello di continuare a vivere, non solo più a lungo, ma più intensamente, che accomuna colui al quale è stata diagnosticata una malattia terminale e l’uomo che si trova improvvisamente a non riconoscere più il riflesso di se stesso, venato dall’ombra della vecchiaia. E l’impotenza, che porta a tratti alla disperazione, altre volte all’atarassia, in un’altalena di lotta e resa, di senso e vuoto logico. L’impotenza di chi si trova corpo a corpo con un virus invincibile, ‘inoperabile’ e quella, effettiva, anche qui medica, di chi non può più disporre della propria sessualità.



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La Fine del Giorno di Pierluigi Battista non è la descrizione del cancro, del tumore e delle sue piaghe fisiche e mentali. Non è il diario giorno per giorno degli effetti e i decorsi della malattia “immortale” come la definisce l’autore. O almeno, non innanzitutto, non solo.
E’ innanzitutto una riflessione, come potrebbe essere fatta in un lungo pomeriggio, di fronte ad un amico, come suggerisce la copertina spoglia, contemplativa. Una riflessione su due poli apparentemente opposti ma legati dalla stessa ‘ossessione’, la fine della vita.

Uno scherzo beffardo, un ‘caso’ – un caso? Forse no, perché alla fine di questo monologo ci si può riscoprire meno inclini a cercare spiegazioni razionali e illuminate e ad abbracciare un modo di pensare più ‘orientale’, come scrive Battista. Il caso fa sì che P., il protagonista, si ritrovi scaraventato da un giorno all’altro in un mondo di medicine, flaconi, testi oncologici e cedimento del corpo, tramite la diagnosi di tumore della moglie, Silvia, proprio quando lui è prossimo ad iniziare uno studio sulla vecchiaia e la libido. La vecchiaia che, a un tratto, percepisce seguirlo come un’ombra e quella negata alla compagna.

Solo adesso, giunto oltre la soglia dei 50 anni, P. riesce a rileggere in una luce diversa i suoi autori preferiti: Coetzee, Amis, Mann, Svevo, ma soprattutto Philip Roth, di cui La Fine del Giorno è costellato come da grandi statue di saggi, lungo un viale di cemento. I vecchi, una volta perversi, che attentavano mentalmente e carnalmente alle giovani protagoniste dei romanzi, alle volte accondiscendenti e perfino manipolatrici, cambiano luce per rivelarsi a P., non senza dubbi e sensi di colpa, degli uomini impauriti ma anche coraggiosi perché decisi a non arrendersi alla mollezza delle membra, il retrocedere della chioma e, più di tutto, l’addio al piacere del letto.

Il tutto per merito di una magica pillolina blu, che ha risolto il dilemma di generazioni ritrovatesi con quasi metà della vita davanti, ma senza la possibilità di attingere alla linfa vitale, ciò che ha reso gli anni passati “pieni” e non solo lunghi. Il Viagra, la miracolosa cura, che spinge questi uomini dalla ritrovata libido ad affannarsi per preparare il fisico, con creme e bisturi, ad altri anni di ‘vera vita’, quella che “non c’è domani” perché il tempo non esiste. La sola verita eternità possibile, quella della giovinezza, ignara della sua stessa fine.

P., che ha una passione per la storia, ci conduce in lunghe digressioni, quasi fossero flussi di coscienza, sui pregressi di questo fenomeno, nel cinema, nella letteratura e in vite passate. Ma è oggi che la smania di giovinezza è tale da far perdere la testa, contemporaneamente, a tanti personaggi pubblici - DSK, Petraeus, Berlusconi, per nominare i più noti - e dunque da imporre , si giustifica P. , uno studio sulla faccenda. Il sesso che può lì dove la medicina non riesce, la passione che riesuma, riaccende fino a incatenare la ragione al volere della gioventù, ambita ed amata, e a ribaltare i ruoli.

E quasi ci si è scordati del dramma che continua in sordina ma è per poco, perché i due temi sono indissolubilmente intrecciati in questo paradosso, per tutto il libro. La malattia viene osservata attraverso il suo riflesso negli occhi di P., senza che assuma mai tinte troppo intime o sconvolgenti per il lettore, ma come in un sogno, un incubo ovattato, quello in cui si viene gettati come per effetto di un’anestesia totale, quando ci viene annunciato qualcosa di più grande di noi. L’autore ci descrive senza cercare la nostra compassione, il girotondo di emozioni che si innescano, senza linearità: la rabbia contro i medici, le teorie complottistiche su una presunta cura contro il cancro, conosciuta da tempo ma tenuta sigillata in qualche scantinato, per proteggere case e casse farmaceutiche. La smania della conoscenza di tutto ciò che riguarda il cancro, per sentirsi più padroni, meno impotenti. La ricerca della normalità, nelle ‘piccole cose’, e allo stesso tempo il disgusto per i luoghi comuni dispensati da amici e conoscenti.

Si finisce di ascoltare l’ultima parola e se ne rimane a lungo storditi dall’eco. Un libro che ne nasconde al suo interno tanti altri, quello vagheggiato sulla vecchiaia e il desiderio, quello della malattia vera e propria, quello del passato di una famiglia di cui si tinteggiano solo degli angolini e quello della vita di un uomo che va avanti, nonostante tutto. La Fine del giorno ci fa riflettere senza rendercene conto su alcuni dei quesiti più viscerali che affannano l’essere umano da quando ha cominciato a riflettere sulla propria esistenza. Sul rapporto, complementare ma al contempo irrimediabilmente antagonista, fra mente e corpo. Sulla vita e la passione, che si direbbe coincidere per definizione con l’istante, ma sempre più possiamo stimolare a comando. E su cosa vuol dire questo per le categorie stesse di giovinezza e vecchiaia. Sul desiderio dell’uomo di domare la natura, di domare il caso, senza però esserci mai davvero riuscito.

Alla fine sì, nelle ultime pagine, ci vengono esposti i sentimenti nudi, il dolore in tutta la sua incommensurabilità e incontenibilità, senza rimedio, senza spiegazione. Si può solo assorbire, come un colpo che ci assale nel dormiveglia. Solo allora l’autore ci permette, di partecipare della sua sofferenza, come in un abbraccio, di iscriverla in una condizione universale e allo stesso tempo di immedesimarci in quella particolare storia, fatta soprattutto di un grande amore, e di una vita che silenziosa scivola via per lasciare il posto ad una sedia vuota, come l’Adirondack rossa.


LA FINE DEL GIORNO, PIERLUIGI BATTISTA
RIZZOLI
pp. 180 - 11.99 euro

da - http://www.huffingtonpost.it/2013/03/14/la-fine-del-giorno-il-diario-di-pierluigi-battista-sulla-malattia-e-la-morte-della-moglie_n_2876359.html?utm_hp_ref=italy


Titolo: Pier Luigi BATTISTA L'avversario politico cancellato per legge
Inserito da: Admin - Marzo 23, 2013, 05:50:50 pm
Ineleggibilità

L'avversario politico cancellato per legge


Reclamare oggi l'ineleggibilità di un cittadino di nome Silvio Berlusconi, già eletto nel Parlamento italiano per ben sei volte dal '94 ad oggi, può apparire un esercizio surreale. Il passato non può essere smontato a piacimento e la realtà non può essere piegata ai propri desideri. Oggi scenderanno in piazza per chiedere a una legge di controversa interpretazione di operare come fa la magia nei racconti per l'infanzia: far sparire d'incanto i cattivi, abolire la realtà dolorosa con appositi rituali.

In termini più adulti, cancellare d'imperio il nemico politico dichiarandolo inesistente. Una scorciatoia puerile, ma anche la premessa di un micidiale errore politico. Perché l'invocazione dell'ineleggibilità di Berlusconi non è solo riesumata da una frangia di oltranzisti dediti alla sistematica delegittimazione politica e persino etica di chi viene dipinto da decenni come l'incarnazione del Male. No, stavolta trova ascolto anche tra gli esponenti di un Pd ancora traumatizzato dalla travolgente avanzata grillina, e che tenta di ritrovare in un più pugnace intransigentismo antiberlusconiano la consolazione di un'identità antagonista oramai appannata. Berlusconi era dato per finito prima delle elezioni. Ma le cose sono andate diversamente, e allora si richiede la sua fine per via legale. Si dirà: sia pur tardiva, la riscoperta di una legge del '57 (quando la tv commerciale era ancora fantascienza) è pur sempre un doveroso atto di omaggio al principio di legalità e le leggi devono essere applicate.

Ma la sua applicabilità al caso di Berlusconi non è così incontrovertibile, come sostengono illustri giuristi e costituzionalisti certamente non sospettabili di debolezze filoberlusconiane, e come dimostrano ben tre voti parlamentari, due all'interno di legislature a maggioranza di centrodestra, ma una a maggioranza di centrosinistra. Del resto, la stessa recriminazione molto frequente nella sinistra di non aver saputo o potuto varare una legge sul conflitto di interessi dimostra che, da sola, quella norma del '57 non è così chiara. E allora, che senso ha riesumarla oggi? E quali pericoli può procurare alla politica italiana, la riscoperta di un provvedimento inevitabilmente destinato a scatenare la rivolta dell'elettorato di centrodestra?

Il perché è contenuto nell'eterna tentazione di imboccare la scorciatoia della legge per non dover ammettere i propri errori e le proprie clamorose manchevolezze. Spingere in modo compulsivo sul tasto dell'ineleggibilità rafforza l'impressione che le sconfitte politiche ed elettorali di questi ultimi vent'anni siano il frutto di un inganno e che il consenso incassato in modo così massiccio e reiterato da Berlusconi sia dovuto alla posizione dominante del leader di centrodestra nel possesso delle reti televisive. Sarebbe sciocco negare il peso della tv nell'orientamento delle scelte elettorali. Inoltre non si può negare che una democrazia liberale viva di contrappesi, di pluralità, di forze non smisuratamente diseguali in termini di potenza comunicativa e di ricchezza. Ma il possesso berlusconiano delle tv è anche stato il più potente alibi autoconsolatorio e autoassolutorio per le ripetute sconfitte della sinistra in ben sei tornate elettorali, lungo l'intero arco temporale della Seconda Repubblica. Berlusconi vince perché è il padrone dell'etere: ecco il grande autoinganno dei perdenti nel corso di vent'anni. Non ci sono meriti e demeriti, colpe e responsabilità. C'è solo l'autovittimizzazione, molto simile a quella dei tifosi di una squadra sconfitta che si sentono vittime di un sopruso arbitrale.

Ma la politica non è una partita di calcio giocata sugli «episodi», come si dice in gergo. E oggi ancora una volta la tentazione della scorciatoia legale e giudiziaria tradisce il desiderio di chiudere con il «berlusconismo» non per effetto di una chiara vittoria politica, ma per vie più sbrigative. Da qui anche una certa venefica impazienza che circola nelle file del Pd e che ha spinto un esponente del partito autorevole come Migliavacca a giocare nientemeno con l'ipotesi di un «arresto» di Berlusconi peraltro smentito dagli stessi inquirenti che hanno messo sulla graticola il leader del centrodestra. Ecco perché imboccare la via estremista della richiesta perentoria dell'«ineleggibilità» di Berlusconi, proprio alla vigilia di consultazioni delicatissime per la formazione del nuovo governo, sembra più un esorcismo che una razionale scelta politica. Un errore grave. E anche un sintomo di regressione culturale.

Pierluigi Battista

23 marzo 2013 | 10:56© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_marzo_23/avversario-politico-cancellato-per-legge-battista_f2119bea-9380-11e2-8b46-37cbdff83c98.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Al vertice come al Grande Fratello
Inserito da: Admin - Marzo 27, 2013, 06:40:17 pm
Nuova politica

Al vertice come al Grande Fratello

Se la trasparenza uccide la trattativa

Con lo «streaming» il confronto diventa fiction, per poi parlarsi davvero di nascosto


Il nuovo feticcio della mitologia politica odierna: lo streaming. Il simbolo della trasparenza assoluta. Lo strumento magico che distrugge ogni opacità. Ora questo prodigio della tecnica che trascina discorsi estatici sulla nuova democrazia web, entra nella rete polverosa delle consultazioni per la formazione del nuovo governo. Lo porteranno quelli del Movimento 5 Stelle nel colloquio con Bersani. Ci sarà la recita. Sarà pura fiction. Ma quanto ci si sentirà confortati dalle meraviglie della democrazia integrale, del mondo interamente trasparente, senza segreti, senza ombre, tutto solare, tutto illuminato, tutto in diretta?

Un'illusione. Ma illudersi un po' può sempre massaggiare l'anima. L'unica volta che davvero avremmo tanto voluto seguire in streaming una riunione grillina è stata quando i neo-senatori dovevano decidere se votare Pietro Grasso alla presidenza oppure no. Lì però, niente trasparenza: solo oscurità, urlacci percepiti nei corridoi, divisioni nascoste alla grande platea democratica. Ma che senso ha lo streaming sulle consultazioni di governo? È ovvio che lì non si diranno le cose vere. Si eserciterà l'arte dell'autocontrollo, oppure si diranno cose molto pesanti, spettacolarmente molto pesanti, perché tutto il mondo sappia che si sono dette le cose molto pesanti. Perché se la trasparenza, la pubblicità totale di colloqui che richiedono un ineliminabile margine di ragionevole riservatezza provocherà un nuovo livello ancora più segreto. E che si fa, lo streaming su ogni conversazione privata. Dovremmo avere lo streaming di ogni telefonata tra Bersani e Renzi? Non può esserci nessun margine di riserbo per trattative normali, ma che non possono essere rappresentate in diretta tv o web pena la loro totale nullità o irrilevanza.

Un bene? Un male? Ma nella storia i momenti più delicati, che hanno prodotto anche i migliori risultati, non sono stati trafitti dalle luci abbaglianti dello streaming. Quando Clinton chiamò Arafat e Rabin per far parlare tra di loro due nemici irriducibili, non c'era uno streaming che avrebbe reso le trattative preparatorie a quello storico incontro semplicemente impossibili. Ci sono riunioni che non devono essere necessariamente pubbliche. Se i nostri Padri costituenti avessero discusso in streaming sulla Costituzione che stavano preparando, probabilmente non avrebbero discusso in totale libertà. La trasparenza è un valore quando non ci devono essere ombre sui bilanci pubblici, quando i rappresentanti discutono di problemi che sono strettamente legati alla vita dei cittadini.

È bene che in Parlamento tutto sia limpido, e nelle assemblee locali. Ma la vita delle istituzioni, come quelle di tutti noi, non è una sequenza del Truman Show, non è un provino del Grande Fratello per fare qualunque cosa sotto l'occhio indagatore del pubblico pagante. La trasparenza non è un invito al voyeurismo. E la riservatezza non è necessariamente un disvalore. Non perché, come recita la vulgata neo-roussoiana della democrazia diretta e senza nemmeno l'ombra di una mediazione, ci sia necessariamente qualcosa di losco o di poco raccomandabile «da nascondere», ma perché la trasparenza totale e senza residui contiene paradossalmente un'idea autoritaria della vita e della politica. Il massimo della democrazia diretta, come insegna la degenerazione giacobina della Rivoluzione francese, può trasformarsi nel massimo della coercizione. L'idea che ogni frammento dell'esistenza sia sottoposta al costante scrutinio dell'opinione pubblica è anche alla base del Panopticon descritto da Jeremy Bentham, in cui da un'unica autorità installata al centro si può controllare ogni singolo fiato emesso dai cittadini. Winston Smith, il protagonista di «1984» di Orwell si nascondeva persino dentro casa non perché avesse qualcosa di osceno da «nascondere», ma perché si sentiva soffocare da un'autorità che controllava ovunque ogni suo singolo movimento. Se avessero già inventato lo streaming a quel tempo, l'immaginazione anti-totalitaria di Orwell ne avrebbe tratto spunto come strumento di controllo e di oppressione.

Sono solo «consultazioni», certo. Ma è altrettanto certo che Bersani e i grillini in diretta streaming non si diranno la verità, ma reciteranno una fiction in cui si racconta di due soggetti che fanno finta di dire la verità. Per poi parlarsi di nascosto, sperando che il Truman Show non arrivi anche lì. Senza il mito della democrazia diretta potranno anche essere sinceri. E dialogare sul serio. Ma i cantori della trasparenza assoluta ogni dialogo lo chiamano «inciucio».

Pierluigi Battista

27 marzo 2013 | 11:39© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_marzo_27/battista-al-vertice-come-al-grande-fratello_b1807690-96c9-11e2-b7d6-c608a71e3eb8.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Il Paese in ostaggio
Inserito da: Admin - Marzo 29, 2013, 12:04:40 pm
L'EDITORIALE

Il Paese in ostaggio

Se ci si impicca a un coacervo di formule astruse e i destini di una Nazione finiscono per essere appesi alla sottile distinzione lessicale tra «non risolutivo» e «rinuncia», allora vuol dire che l'Italia sta correndo un rischio davvero troppo elevato. Ci si smarrisce nel labirinto delle ostinazioni, dei veti, delle fumisterie gergali, ma ancora non sappiamo, dopo il difficile colloquio tra il presidente Napolitano e il leader del Pd Bersani, se riusciremo ad avere in tempi ragionevoli un governo, e con quali forze, e in nome di quali priorità, mentre l'economia e la società ristagnano e il pericolo di un nostro crollo di credibilità europea e internazionale si fa sempre più minacciosa.

La speranza era lo smantellamento delle barricate, l'uscita dalle trincee in cui il Pd e il Pdl si stavano di nuovo inabissando. La speranza di un nuovo inizio in cui si sarebbe, sia pur tardivamente, esaurito il corteggiamento (non la comprensione, che è un'altra cosa) del mondo grillino. La speranza di un'intesa su pochi punti ma essenziali per dar vita a un governo capace di mettere a segno un risultato che desse al Paese una guida, dopo settimane di paralisi. Ma questo soprassalto di responsabilità nazionale, invocato in modo esplicito dal capo dello Stato, richiederebbe, da parte di tutti i contendenti, un almeno parziale raffreddamento del furore di parte. La presa d'atto che nel pareggio assoluto nessuno può rivendicare una supremazia politica negata dalle urne, dettare condizioni capestro, chiudere le porte del dialogo, lanciarsi messaggi di guerra totale in vista dell'elezione del nuovo presidente della Repubblica. Ieri, però, il presidente incaricato Bersani non ha voluto inaugurare il primo tempo di una nuova fase politica ma ha voluto aggrapparsi all'ultimo respiro di una fase politica che si stava chiudendo per la manifesta impossibilità di ottenere una maggioranza. Solo che, affidando allo stesso capo dello Stato un supplemento di consultazioni e la missione di rimuovere le «preclusioni» che gli hanno impedito di raggiungere l'obiettivo, Bersani ha inevitabilmente inferto un colpo alla propria immagine rischiando così di uscire, nella migliore delle ipotesi, come un premier dimezzato o comunque «commissariato».

Non è dato sapere a chi convenga una tale caparbia volontà di non prendere atto degli ostacoli insormontabili che impediscono a Bersani di raggiungere Palazzo Chigi. Sicuramente non conviene all'Italia. E forse nemmeno allo stesso Pd. Le prossime ore ci diranno se le ultime resistenze saranno smussate e se si potrà dar vita a un «governo del presidente». Sta alle principali forze politiche scegliere se impegnarsi in un'impresa difficilissima, oppure rituffarsi in una nuova campagna elettorale e spezzare l'ultimo filo che impedisca alla nuova legislatura di morire in fasce. Se seguire le indicazioni di saggezza del capo dello Stato o giocare la carta della contrapposizione assoluta. Se scegliere la responsabilità o l'ignoto.

Pierluigi Battista

29 marzo 2013 | 9:36© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_marzo_29/il-paese-in-ostaggio-pierluigi-battista_85fa6fa2-9832-11e2-948e-f420e2a76e37.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Barca e l'attacco al «catoblepismo» : scalderà i militanti..
Inserito da: Admin - Aprile 14, 2013, 07:22:44 pm
PAROLE E POLITICA

Barca e l'attacco al «catoblepismo» : scalderà i militanti del Pd?

Dal comizio alla severa lezione accademica Barca contesta «l'élite estrattiva» e auspica lo «sperimentalismo democratico»


Quelli che conoscono la materia dell'economia e della finanza dicono che sì, il «catoblepismo» evocato da Fabrizio Barca nel suo manifesto di insediamento per la leadership del Pd indica un problema sentito nella comunità scientifica. Ora si tratta di scaldare anche i cuori democratici nella tempesta post elettorale. Ma intanto Barca ha sfoderato tutte le arti del suo lessico didattico. Ascoltandolo non sembra di stare a un comizio di partito, ma a una severa lezione accademica. O forse no, il parlar difficile in politica non è sempre il tratto distintivo degli intellettuali che amano il linguaggio gelido e astruso della cattedra. Massimo Cacciari, per dire, è capace di separare di netto i due ambiti disciplinari. Quando parla e scrive di filosofia non si risparmia vertiginose allusioni al gergo contorto del profondismo metafisico (sempre con il trattino: l'«Ur-pflanze goethiana»; «la vita-per-la-morte di Heidegger»), ma quando entra nell'agone politico è di una chiarezza cristallina, una perfetta incarnazione del polemista senza diplomazie lessicali. Oppure, al contrario, il parlar difficile di Nichi Vendola è un'ipnosi della «narrazione» che si tiene rigorosamente su un piano di incomprensibilità («a Nichi, ma che stai a dì», come recita l'irriverente titolo di una rubrica ad hoc del Foglio ) ma malgrado tutto trascina nell'avventura, allarga gli orizzonti, ti scaraventa in un nebbioso futuro. Il «manifesto» con cui si è presentato Barca, e che ieri ha scatenato il solito iconoclastico cinguettio nel fatato mondo di Twitter , è invece sia l'espressione di un tecnico a lungo immerso, e con brillanti successi, nella scienza dell'economia, sia l'espressione di un'antica passione ideologica che mette in stretta sintonia il Barca fervente militante giovanile del Pci e il Barca ministro del governo Monti per la «coesione territoriale».

Una creatura linguistica molto complessa in cui il «catoblepismo» è solo una parte, e forse nemmeno la più impervia. Nella «forma partito» e nel «partito palestra» resuscitate da Fabrizio Barca si sente di più il lascito delle militanze di un tempo, in cui un certo dottrinarismo si accoppia a una notevole passione per la teoria pura. L'«élite estrattiva», ecco, questa è effettivamente di più faticosa decodificazione. L'«Addendum» finale, invece, non è il solito latinorum di memoria manzoniana, ma è un cedimento alle abitudini del saggio accademico (sarebbe una postilla. O un post scriptum, però più elaborato). Il «telaio sociale» è espressione mutuata da una certa fantasia sociologica, che forse può risultare di difficile comprensione per l'eventuale giovane del Pd che volesse aggiornarsi sul programma del nuovo leader, ma che pure contiene una sua potenza vendolianamente narrativa. Importante, perché ripetutamente citato nel «manifesto», l'indicazione di Barca dello «sperimentalismo democratico», che dovrebbe essere una terza possibilità (una «terza via», per restare nell'ideologismo più consueto) tra due modelli di partito ambedue insoddisfacenti. Poi c'è la «procedura deliberativa», che il militante del Pd deve saper riconoscere come la forma democratica del partito, ma anche, sembra di capire, del tipo di Stato che rifiuta di essere ridotto ai compiti assegnatigli dall'ideologia «minimalista» frequentemente attaccata da Barca in luogo di «liberista» o addirittura «liberale».

Un certo scalpore l'aveva fatto già nei giorni scorsi l'obiettivo che Fabrizio Barca aveva indicato come compito del Pd in cui si accingerebbe, sia pur da poco tesserato, a competere con Matteo Renzi per la leadership: quello della «mobilitazione cognitiva». Un certo scalpore e anche una certa costernazione per chi voleva fossero indicati obiettivi più chiari e comunque espressi con parole di immediata comprensione. Ma adesso si aggiungono anche un problematico «monitoraggio in itinere» e anche una molto impegnativa «disintermediazione». Parole difficili che però, a meno che non si voglia scadere nel più vieto anti intellettualismo, possono anche rappresentare nuove mete per un partito frastornato e ancora scosso dal non smagliante risultato elettorale. E che ha bisogno di una forte mobilitazione. Morale, ma anche cognitiva.
p.s. Catoblepismo - da catoblepa, secondo la Treccani leggendario quadrupede africano, con il capo pesante sempre abbassato verso terra - dovrebbe significare la perversa alleanza tra banche e affari denunciata da Raffaele Mattioli.

Pierluigi Battista

13 aprile 2013 | 7:59
© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_aprile_13/barca-militanti_8a0ae55e-a3fe-11e2-9657-b933186d88da.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Torna la maledizione del pallottoliere
Inserito da: Admin - Aprile 20, 2013, 12:16:21 pm
Prodi e il «suo» Ulivo

Torna la maledizione del pallottoliere

Anche per le votazioni del presidente della Repubblica il professore fa i conti con i numeri


Il pallottoliere stavolta no, in viaggio dal Mali Romano Prodi non se l'era procurato. Quello strumento per far di numero è infatti il simbolo dell'episodio parlamentare che ha condensato in modo crudele il legame conflittuale tra il mondo del centrosinistra e il suo leader nel corso della Seconda Repubblica. Quel pallottoliere che nel novembre del '98 dimostrò quanto il cerchio magico prodiano avesse fatto male i conti. I voti della fiducia in Parlamento mancarono all'ultimo. Finiva il primo governo Prodi dopo due anni di perigliosa navigazione. Bertinotti se ne andava. Si preparava il governo D'Alema. Ma non sarebbe stata l'ultima, gigantesca amarezza aritmetica che Prodi ha dovuto subire da quelli che avrebbe dovuto essere, ieri come quindici anni fa, suoi fedeli supporters.

Prodi e il suo Ulivo. Prodi e la sua Unione. Prodi e il suo Pd. Ma il suo Ulivo, la sua Unione, il suo Pd l'hanno sempre vissuto come un corpo estraneo. C'erano gli ex comunisti, divisi anche loro da avversioni inscalfibili, ma che comunque sentivano il calore di una comunità, di un lessico, di un'iconografia, insomma di una storia. Poi c'erano gli ex democristiani, poi Popolari, anche loro con le stesse consuetudini. A rigore Romano Prodi non poteva non essere considerato anche lui come un ex democristiano. Ma fu catapultato sul centrosinistra ancora frastornato dal trionfo di Berlusconi, chiamato da Beniamino Andreatta, per fare il federatore, l'esterno che avrebbe messo insieme i tasselli del mosaico. Questo ruolo non poteva essere incarnato da un ex comunista, perché a pochi anni dal crollo del muro di Berlino era inimmaginabile che una figura così, un figlio di Botteghe Oscure, potesse conquistare la maggioranza "silenziosa", l'elettorato moderato, instabile, oscillante, incerto ad ogni elezione se scegliere la destra o la sinistra. Ma non poteva essere incarnato nemmeno da un ex dc, perché la disfatta di Tangentopoli era ancora troppo angosciosa, il partito si era frantumato, il suo popolo disperso. Il salvatore, esterno, poteva essere solo lui, Romano Prodi.

Prodi che aveva l'antiberlusconismo nel suo Dna culturale. Aveva fatto il ministro di Andreotti, ma come capo dell'Iri, il primo dei boiardi di Stato, uno dei protagonisti del cenacolo intellettuale bolognese del Mulino in cui prendeva forma il cattolicesimo democratico con una forte propensione ad interloquire con il mondo del Pci, non poteva che nutrire un'ostilità antropologica assoluta nei confronti del craxismo prima e soprattutto del berlusconismo: il mondo scollacciato e sgangherato della tv commerciale, la volgarità, l'economia del self made man e non quella da insegnare nelle aule universitarie e nei consessi internazionali che contano. Prodi salvò il centrosinistra dal dominio berlusconiano. Ma è sempre stato vissuto con una punta di rancore, in modo sordamente ostile. C'erano i "prodiani", ma si sentivano circondati dal gelo degli orfani dei grandi partiti. Coltivavano relazioni economiche di altissimo livello, ma non avevano, come si dice, "radicamento". Servivano per vincere le elezioni. Ma dopo un po' dovevano farsi da parte.

E mentre gli ultrà del prodismo come Arturo Parisi teorizzavano addirittura lo scioglimento dei partiti, l'Ulivo stentava a trasformarsi da cartelle elettorale a partito, inevitabilmente guidato da Romano Prodi. Nel '98 il ribaltone fu un colpo brutale, un assalto finale alla diligenza condotta da Prodi. Il quale, da quel momento, coverà propositi immarcescibili di vendetta, specialmente con Massimo D'Alema, ma anche con Franco Marini (suo predecessore nell'impallinamento rituale di questi giorni) e persino con Walter Veltroni, reo, a suo parere, di non aver contrastato con sufficiente forza il disegno di D'Alema a Palazzo Chigi e lo stesso Veltroni alla guida dei Ds. «No, noooooo», gridava infuriato Prodi dal palco all'indomani del giorno del pallottoliere, con Veltroni alle sue spalle, a chi gli chiedeva un gesto distensivo nei confronti dei congiurati. D'Alema fu poi il più fervente architetto della nomina di Prodi alla guida dell'Ue, e i soliti maliziosi interpretarono tanta generosità come un modo dalemiano furbo di spedire l'ex leader dell'Ulivo lontano da Roma, di neutralizzarne gli impulsi vendicativi.

Storia finita, sembrava. Sembrava e basta. Perché al termine del quinquennio berlusconiano, periodo nel quale i due partiti pilastri della coalizione hanno perso molto tempo prima di decidersi a una formale unificazione, Prodi fu nuovamente chiamato a contrastare il nemico, stavolta descritto dai fallaci sondaggi come un cadavere politico. Di nuovo. Con un'unica differenza: che l'Ulivo era stato ribattezzato Unione, per includervi, imprigionandolo in un gigantesco carcere cartaceo detto anche "Programma", quel Bertinotti che già si era defilato nel 1998 provocando la caduta di Prodi. Un'Unione in cui ci stava dentro di tutto, dall'ala trotskista di Rifondazione comunista all'ipermoderatismo di Lamberto Dini e di Clemente Mastella. Vennero fatte anche delle primarie, per rafforzare la leadership prodiana nel popolo di centrosinistra. Si dimostrò però che Berlusconi non era affatto un cadavere politico, avvicinandosi al multiforme schieramento prodiano di poche migliaia di voti. E si dimostrò che il governo Prodi non avrebbe avuto vita facile, con un margine risicatissimo e con i senatori a vita a far da guardiani a Palazzo Madama. Ribattezzarono quell'esperienza «un Vietnam», per dare l'idea dell'idillio. Fecero anche il Partito democratico con Veltroni leader. Ma a quel punto anche il secondo governo Prodi era agli sgoccioli, e non tutti nel centrosinistra si strapparono le vesti per quell'ennesima dipartita. Sembrava finita. Per Prodi si erano schiuse le porte di impegni internazionali di alto livello, con missioni africane sotto l'egida dell'Onu e per lezioni di economia nella Cina capital-comunista. Fino alla crudeltà dell'ultima chiamata finita ieri in una disfatta immeritata da un uomo che comunque aveva portato il centrosinistra due volte nelle competizioni elettorali con Berlusconi. L'ultimo oltraggio che il suo mondo gli ha voluto infliggere. L'ultimo atto di una storia di amore e odio (molto più odio che amore).

Pierluigi Battista

20 aprile 2013 | 9:53© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/politica/speciali/2013/elezioni-presidente-repubblica/notizie/20-aprile-romano-ulivo-storia-di-poco-amore-odio-battista_e372f956-a985-11e2-8070-0e94b2f2d724.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Ultima chiamata
Inserito da: Admin - Aprile 27, 2013, 05:08:02 pm
Ultima chiamata

L'indicazione di Enrico Letta come possibile nuovo presidente del Consiglio sancisce il carattere politico, non «tecnico» o minimalista del governo che si sta formando per impulso del Quirinale. L'interminabile vacanza di una campagna elettorale rissosa, inconcludente, vuota, incapace di scegliere, potrebbe finalmente concludersi. Abbiamo trascorso mesi da incubo: mentre la politica era prigioniera della sua immobilità, immersa nei suoi temporeggiamenti puerili, la società italiana retrocedeva ogni giorno. La crisi non ha perso tempo, i partiti ne hanno perso sin troppo. Chi nel Pd voleva nascondersi dietro l'indistinto di un governo «tecnico» solo per fingere di aver imparato la brusca lezione impartita da Giorgio Napolitano davanti alle Camere, sarà costretto a ricredersi perché un governo affidato al suo vicesegretario non è un esecutivo incolore cui concedere un credito «obtorto collo». E nel Pdl dovranno dimostrare che la disponibilità a un governo di larghe intese non era solo una trovata propagandistica per mettere in difficoltà un avversario frastornato e drammaticamente diviso al proprio interno, ma un impegno vero, costante nel tempo e non vulnerabile alle incostanze degli umori e dei malumori.

I due partiti maggiori che si accingono a formare un governo presieduto da Letta stanno compiendo un atto coraggioso. Sanno di avere a che fare con l'ansia dei rispettivi elettorati, che vivono talvolta con comprensibile dolore la coabitazione governativa con avversari lontani e ostili. Sanno che per loro questa è l'ultima chiamata. Sanno che non possono fallire. Sanno che dovranno pagare un conto salatissimo, se in tempi brevissimi non sapranno fronteggiare gli effetti di una crisi economica devastante, liberare l'economia italiana dalla morsa di un Fisco insopportabilmente esoso, tutelare con maggior vigore le fasce più deboli della società. Sanno che stavolta nessuno li perdonerà o avrà per loro indulgenza se il Parlamento non avvierà sul serio e nei tempi costituzionalmente più brevi la riforma delle istituzioni, e non solo la legge elettorale da tutti vilipesa ma che nessuno è stato in grado di modificare in un anno e passa di sconcertante paralisi. Sanno che si giocheranno ogni residuo credito se non abbatteranno i costi della politica, dall'abolizione non più rimandabile delle Province fino al drastico ridimensionamento del finanziamento ai partiti. Sanno che non ci saranno tempi supplementari: o si dimostreranno seri, oppure il verdetto dell'opinione pubblica sarà stavolta implacabile.

Per questo il coinvolgimento non svogliato dei partiti, a cominciare da quello del premier Letta, figura interamente politica, può essere un vantaggio e non una pillola amara da ingoiare recalcitranti e malmostosi. Può offrire una motivazione in più a fare le cose urgenti e indispensabili, con convinzione e senza paralizzanti riserve mentali. Un governo vero, dove si vince o si perde. Tutti, senza distinzioni.

Pierluigi Battista

25 aprile 2013 | 9:02© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_aprile_25/ultima-chiamata-pierluigi-battista_9b759642-ad61-11e2-9202-c83d8fd61b81.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Elezioni un po' spente di una Roma disincantata
Inserito da: Admin - Maggio 21, 2013, 04:59:19 pm
La scelta del sindaco il 26 e il 27 maggio

Elezioni un po' spente di una Roma disincantata

Pochi giorni al voto che deciderà il nuovo sindaco della Capitale, ma la città è delusa e disincantata

Di PIERLUIGI BATTISTA

In una grande e vasta metropoli come Roma è difficile per un aspirante sindaco segnalare la sua stessa presenza alla vasta cittadinanza indaffarata o indifferente. Le tv locali hanno un bacino d'ascolto molto circoscritto, quasi catacombale. Le radio della città sono un'infinità e raggiungono un pubblico molto spezzettato, assatanato dalla campagna acquisti della Roma e della Lazio.

Un pubblico poco versato nella decifrazione degli immensi problemi che angustiano la città. I manifesti costano e qui, come altrove, circolano pochi euro, anche se adesso va di moda inondare taxi, bus e tram con la propaganda di partito. E i 19 candidati girano come trottole sperando di intercettare un timido frammento di attenzione pubblica. Solo che se parli a Primavalle, davanti a una dozzina di avventori, a Torpignattara, all'altro capo della città, nessuno di accorge di te. Almeno, una volta, c'erano i partiti a presidiare il territorio, anzi «i territori» come si dice ora in gergo. Ma ora la parola «partito» fa scappare la gente: e i candidati devono pure mimetizzarsi.

Mancano pochi giorni, alle elezioni che decideranno del nuovo governo del Campidoglio, ma l'atmosfera non sprizza energia e passione. La città è indolente, si sa. E ora è anche delusa e disincantata. I quattro candidati più accreditati sono ovviamente: Gianni Alemanno, sindaco uscente del centrodestra; Ignazio Marino, candidato del Pd dopo elezioni primarie che hanno scombussolato la vita del partito già piagato dalle vicissitudini nazionali; Marcello De Vito, del Movimento 5 Stelle, nominato sul web con una platea elettorale molto più esigua di quella del Pd; e Alfio Marchini, indipendente, mediaticamente la star di questa campagna elettorale. Poi c'è la pletora delle candidature che aspirano a un buon piazzamento (e a un po' di tonificante visibilità).

C'è un folto gruppo che si colloca all'estrema destra (da CasaPound a Forza Nuova a Militia Christi). C'è un candidato noto per le sue stravaganti, e costose, trovate auto promozionali, Alfonso Luigi Marra, che vanta tra i suoi sostenitori liste come «Dimezziamo lo stipendio ai politici» e «Fronte giustizialista». C'è un candidato che grosso modo gravita attorno al mondo che un tempo si aggregava in Rifondazione comunista, che gode dell'appoggio di una «Lista pirata» e che propone che Roma si rifiuti di pagare i debiti e violi il soffocante «patto di Stabilità». Ma qui si gioca sugli zero virgola. I magnifici quattro, invece, giocano su percentuali molto più elevate, quelle necessarie per il ballottaggio.

La città segue pigramente una campagna elettorale abbastanza opaca e spenta, se si eccettuano risvegli momentanei nell'esercizio che alla classe politica italiana viene decisamente meglio: la rissa da talk show. Roma è soffocata, sporca, ingabbiata in un traffico infernale. Un giorno sì e uno no la metropolitana non funziona. Quella ancora da costruire è un cantiere che il romano cinico già vive come un incubo che non finirà mai e di fronte al quale bisognerà adattarsi, L'Ama, la municipalizzata che si occupa della pulizia delle strade, si è fatta conoscere per una Parentopoli che certo non ha portato prestigio alla giunta Alemanno e i suoi camioncini attraversano la città per svuotare i cassonetti all'ora di punta, vicoli del centro compreso: si può immaginare con quanto entusiasmo dei romani bloccati. Dei nuovi filobus pagati con un conto molto salato non si ha notizia. Recentemente ha chiuso il servizio dei battelli sul Tevere, per via dei detriti che rendono il fiume impraticabile ed è di questi giorni la notizia che sta smettendo di funzionare l'impianto di depurazione del fiume.

Ma nella campagna elettorale questi temi sono lasciati sullo sfondo, pure sono manipolati in modo strumentale senza che nessuno dica in modo chiaro, circostanziato e credibile quante risorse serviranno, e come saranno reperite, e come si assicureranno appalti trasparenti, e chi controllerà che i lavori saranno svolti bene, con accuratezza, nei tempi stabiliti, nel rispetto della cittadinanza non trattata come un gregge, come «traffico» con cui ingolfare irrimediabilmente la città.

I candidati maggiori preferiscono tenersi sul vago e, come si dice, buttarla in politica. Gianni Alemanno, che i sondaggi danno in ripresa dopo i tonfi degli ultimi anni, deve spiegare credibilmente perché tutto quello che propone per il prossimo quinquennio non è stato fatto nei cinque anni precedenti. La sua è una battaglia per la vita, perché una sconfitta lo declasserebbe di molto nella nomenclatura che si riconosce nel Pdl. Il sindaco uscente è molto nervoso, reagisce come davanti a un'offesa a chi gli contesta le manchevolezze della sua gestione del Campidoglio, ma spera in un buon piazzamento per il ballottaggio che è una strana creatura della psicologia collettiva, come si dimostrò proprio a Roma nel 2008, a scapito del superfavorito Francesco Rutelli.

Poi c'è Ignazio Marino, che ha vinto con ampio margine le primarie, ma opera con il Pd romano sull'orlo dell'autodissoluzione. Finora lui ha evitato di farsi sommergere dall'apparato del partito, ma una campagna elettorale molto scialba ha consigliato al candidato di non apparirgli troppo estraneo.

Alfio Marchini, un cuore rosso come simbolo della sua lista, di una famiglia di costruttori romani da sempre vicina al Pci e alla sinistra, «buca il video» e sui social network si è scatenata, sotto la dicitura «Arfio», la corsa alla presa in giro bonaria del candidato molto danaroso. Un finto annuncio fra tutti: «Rinuncio allo stipendio di sindaco, perché troppi spicci in tasca mi danno fastidio». Il suo destino è di pescare in un'area di consenso trasversale.

Come il candidato di Grillo, De Vito, sempre chino sui suoi appunti anche quando deve dire «votatemi». Ora il Pd cerca di riprendersi la piazza San Giovanni «occupata» da Grillo prima delle ultime elezioni, mentre Alemanno sfida le ire della Soprintendenza proponendo il palco elettorale nei pressi del Colosseo. La battaglia dei simboli prima di quella dei voti veri. Per i candidati e i loro partiti una boccata d'ossigeno, o la fine di molte ambizioni politiche.

Pierluigi Battista

21 maggio 2013 | 10:23© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://roma.corriere.it/roma/notizie/politica/13_maggio_21/elezioni-un-po-spente-di-una-Roma-disincantata-battista-2221243114090.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA attaccato dai grillini: "È solo un maggiordomo"
Inserito da: Admin - Maggio 25, 2013, 11:36:19 pm
 M5s, Pierluigi Battista giornalista del Corriere della Sera attaccato dai grillini: "È solo un maggiordomo"

Pubblicato: 25/05/2013 13:26 CEST  |  Aggiornato: 25/05/2013 15:04 CEST


"Come si può in questo Paese davvero credere nella professionalità e nell'imparzialità dei giornalisti se a due giorni dalle elezioni un noto editorialista del Corriere della Sera, Pierluigi Battista, scrive menzogne sapendo probabilmente di mentire". L'attacco arriva direttamente dal blog di Beppe Grillo, è firmato dai gruppi di Camera e Senato del Movimento Cinque stelle.

L'editorialista del Corsera viene pubblicamente accusato di aver riempito il suo ultimo articolo (dal titolo "Nebbia dietro la liturgia dello scontrino") solo di falsità, scrivendo che il Movimento si sarebbe interessato solo di rendicontazione delle spese e non di temi reali che interessano al paese, non mantenendo le promesse fatte in campagna elettorale.

"Ma davvero - scrive Battista - il Movimento 5 Stelle crede di star offrendo uno spettacolo di efficienza e operosità parlamentare a chi sperava che la "società civile" avrebbe avuto finalmente voce dentro le istituzioni?".

"Non fanno che parlare di «streaming - continua Battista - stanno sempre a discutere sul blog della casa, si controllano l'un l'altro con uno zelo sconosciuto persino nei vecchi partiti centralizzati, istruiscono processi a chi ha osato recarsi a una trasmissione tv sgradita al Capo, usano in forme maniacali la parola «rendicontazione»: non che la rendicontazione non sia importante ma non può nemmeno essere il principio e la fine di ogni interesse".

Sul blog la risposta piccata dei grillini, il vero interrogativo ora è: criticare legittimamente significa essere maggiordomi di qualcuno?
Di sicuro Battista sarà da oggi senza alcun dubbio inserito nella quella black list dei giornalisti sgraditi.

da - http://www.huffingtonpost.it/2013/05/25/m5s-pier-luigi-battista-attaccato-dai-grillini_n_3335365.html?utm_hp_ref=italy


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Attaccano chi sei e non cosa dici, anche le Brigate Rosse...
Inserito da: Admin - Maggio 25, 2013, 11:37:27 pm
 M5s, intervista Pierluigi Battista:"Attaccano chi sei e non cosa dici, anche le Brigate Rosse ci definivano pennivendoli"

Di Andrea Punzo Pubblicato: 25/05/2013 15:00 CEST  |  Aggiornato: 25/05/2013 16:16 CEST


"Il più classico degli schemi: attaccano la persona non il merito delle cose" Pierluigi Battista non si scompone, agli insulti che ha ricevuto in queste ore dal blog di Grillo sembra non voler dare troppa importanza: "Di certo - racconta all'Huffpost - la mia professionalità non viene intaccata dal giudizio di un Vito Crimi o di una Roberta Lombardi, loro che passano un intero giorno a discutere se cacciare o no un loro senatore (Marino Mastrangeli) perché ha partecipato a un programma televisivo invece di occuparsi di problemi seri, ma per favore".

Ancor meno l'editorialista del Corsera si scompone di fronte all'appellativo 'maggiordomo': "che poi - dice - è come dire servo del potere. Negli anni '70 le Brigate Rosse ci definivano pennivendoli".

A riceve insulti è abituato dunque, forse ora in tempi di socialità e condivisione sulla rete l'unico vero problema è far fronte alla quantità: "Su Twitter in queste ore me ne hanno dette di tutti i colori: "Venduto, leccaculo, lecchino, mercenario di merda, pagato da noi e così via, in fondo anche in questo caso lo schema è sempre quello: Grillo dice una cosa e i grillini - perché checche se ne dica questo sono discepoli di un capo - lo ripetono nello stesso modo e nelle stesse forme".

"Che sia chiaro io non nego il confronto, chiunque può criticare liberamente il lavoro mio e dei mie colleghi, ci mancherebbe. Io non sono per le cose ecumenche classiche, però con loro il conflitto non è più sul merito delle cose. Insultano la persona, la umiliano. Prendete il caso della Gabanelli, prima votata come candidata alla presidenza della Repubblica e poi insultata e definita una traditrice per un servizio in cui raccontava alcune contraddizioni sul movimento",

Alla domanda se risponderà nel merito delle accuse, risponde così: "E perché mai, oggi come tutti gli altri giorni tornerò a fare il mio lavoro, scriverò un articolo da giornalista libero in un giornale libero".

da - http://www.huffingtonpost.it/2013/05/25/intervista-battista_n_3335528.html?utm_hp_ref=italy


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Dalle piazze deserte alle urne vuote
Inserito da: Admin - Maggio 28, 2013, 05:04:25 pm
Amministrative 2013 / I personaggi

Dalle piazze deserte alle urne vuote

Ridono il chirurgo e il «ruspante» Marchini

Lo sberleffo degli elettori colpisce anche il centrodestra e non premia Grillo

diPIERLUIGI BATTISTA


ROMA - Con la metà degli elettori romani che sono rimasti senza fiducia a casa, il sindaco uscente di Roma, Gianni Alemanno, con il suo 30 per cento è stato scelto da circa il 15 per cento (un cittadino su sei) degli aventi diritto al voto: il minimo storico da quando esiste l'elezione diretta dei sindaci. Potrà tentare la rimonta clamorosa al secondo turno, ma il segnale di scoramento dei romani nei confronti di chi è stato a capo del Campidoglio negli ultimi cinque anni è evidente e incancellabile. Alemanno, tra i candidati di Roma, è quello che stasera non potrà mai sorridere.

E non potrà sorridere nemmeno Beppe Grillo. L'onda astensionista ha travolto anche lui. Il re dell'antipolitica non viene più riconosciuto come il portabandiera della protesta e dell'ostilità nei confronti delle nefandezze e degli sperperi della politica. Il non voto appare una protesta ancora più forte, la diserzione delle urne uno sberleffo di gran lunga più sferzante del voto a Grillo. Anche in Sicilia, in realtà, era accaduto qualcosa del genere. Ma il voto romano viene dopo il trionfo grillino nelle elezioni politiche. Il 12 e rotti per cento al candidato De Vito riflette ancora una sacca di consenso irriducibile, un po' come l'inscalfibile fedeltà che una minoranza di elettori francesi tributa a Le Pen, ma comunque tradisce un esaurimento, un senso di stanchezza della cavalcata del 5 Stelle, determinato un po' dal comportamento sin qui seguito dal movimento nelle turbolenze parlamentari, un po' dall'oramai patologica capacità italiana di bruciare in tempi rapidissimi ogni novità.

Ride Alfio Marchini, il cui irriverente fake "Arfio" ha contribuito a dare una popolarità insperata a un outsider che, all'inizio della sua avventura di candidato, sembrava non poter aspirare che a percentuali ridottissime. E invece la sua efficacia mediatica, il disincanto verso gli apparati tradizionali dei partiti, e una certa immagine un po' stralunata veicolata da un nomignolo, "Arfio", che ne ha sottolineato il carattere romanescamente ruspante, hanno permesso a Marchini addirittura di contendere il terzo posto al molto più onnipresente Beppe Grillo. Ora Marchini sarà oggetto della corte molto insincera dei due candidati al ballottaggio, ma l'elettorato che gli ha dato fiducia in un mare di astensioni non è certamente un esercito così disciplinato e così politicamente e socialmente omogeneo da garantire l'ascolto granitico di eventuali endorsement marchiniani.

Non ride certo Silvio Berlusconi. Stavolta è accaduto il contrario nella differenza tra i sondaggi della vigilia e i voti effettivamente conquistati: oggi i risultati sono molto inferiori rispetto alle previsioni. Non dicevano tutti che la tempesta che stava annichilendo l'avversario del Pd avrebbe clamorosamente favorito Berlusconi? E invece anche l'elettorato di centrodestra, già massicciamente in fuga nelle elezioni dello scorso febbraio (quasi il 16 per cento in meno rispetto al 2008), non sembra riconquistato dalla "responsabile" scelta governativa del suo leader. Berlusconi era davvero affranto e sconcertato quando, venerdì scorso, la piazza antistante il Colosseo accolse il candidato Alemanno e il leader incontrastato del Pdl con i vuoti desolanti di una manifestazione numericamente fallita. Ma ha pensato a un incidente di percorso, a un disguido tecnico-organizzativo. Sbagliando. Perché la crisi del radicamento del centrodestra a Roma sta diventando cronica. Con l'aggravante che ancora una volta il Pdl si dimostra incapace di affrontare una sfida elettorale impegnativa senza un'immediata identificazione con la figura del leader. Un'incapacità che il carosello elettorale dello scorso febbraio ha parzialmente occultato, anche grazie allo psicodramma che ha funestato il Pd bersaniano, ma che è destinata a ripresentarsi quando l'esigenza di un ricambio, la necessità di un centrodestra senza Berlusconi, diventeranno scadenze improrogabili.

Sorride Ignazio Marino. Per diventare sindaco di Roma ha bisogno tra due settimane di conquistare un altro 10 per cento. E vale per lui lo stesso calcolo proposto per Alemanno quando un elettore su due ha deciso di non recarsi alle urne: il suo 40 per cento e passa diventa il 20 per cento e passa degli aventi diritti al voto. Eppure Marino può fregiarsi del titolo di (provvisorio) salvatore della patria di marca Pd. Un partito che sembrava allo sbando, con l'apparato romano sull'orlo della disintegrazione, spaccato da primarie al veleno, è comunque riuscito a rintuzzare l'impetuosa avanzata grillina e ad aggregarsi attorno a un candidato considerato non fortissimo e non proprio popolare. L'astensionismo ha colpito duramente anche il mondo dei Democratici, ma il partito con Marino ha evitato l'effetto squagliamento. Risultato che certo non dispiacerà al premier Enrico Letta. Il chiasso del dissenso, il fragore di «Occupy Pd», sembravano aver inchiodato il governo di coabitazione tra Pd e Pdl in una condizione difficile, come se un vento di rivolta potesse squassare il partito di cui Letta è stato fino a poco più di un mese fa. Ma la rivolta non ha sgretolato il Pd e soprattutto non ha premiato il movimento di Grillo, che anzi oggi appare ancora più in crisi del suo competitore Democratico.

Letta non sorride, ma tira legittimamente dal voto romano un sospiro di sollievo. Berlusconi non può più cantare facilmente vittoria, il candidato Alemanno è il più colpito dalla delusione di una città sempre più esausta e scettica. Il Partito democratico può pretendere ancora di giocare un ruolo, malgrado l'uragano che lo sta spezzando e che certo non sarà placato dalla precaria leadership di Guglielmo Epifani. Nella lotteria romana sorride il candidato Pd e l'outsider "Arfio" a cui adesso imploreranno i voti. Ma il ballottaggio è una creatura bizzosa. Per due settimane i competitori dovranno cercare di domarla.

Pierluigi Battista

28 maggio 2013 | 10:25© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://roma.corriere.it/roma/politica/speciali/2013/elezioni-comune-roma/notizie/28dalle-piazze-deserte-alle-urne-vuote-2221364370870.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Nessuno parli di «calo fisiologico»
Inserito da: Admin - Giugno 11, 2013, 05:32:34 pm
IL COMMENTO

Nessuno parli di «calo fisiologico»

Il crollo dell'affluenza ai ballottaggi e le responsabilità dei partiti

Non è un calo, è un crollo. Nemmeno lo spirito municipale appassiona e porta i cittadini a votare.

È il disincanto. Non una fatalità, ma un «no» secco e clamoroso.


Dicono: anche in altre nazioni democratiche, Stati Uniti in testa, le percentuali di voto sono basse, anzi ancora più basse di quelle, bassissime, riscontrate in questa tornata di ballottaggi. Già, ma prima non era così. E quindi va spiegato perché le cose sono cambiate tanto rapidamente, in misura così massiccia, con una scelta tanto corale e inequivocabile. Si dice anche che chi si astiene e non va a votare, si rannicchia nella non-scelta. E se fosse invece la scelta di non dover scegliere in un'alternativa improponibile, in un dilemma impresentabile, in un dualismo non all'altezza?

La città, poi, non è il Parlamento lontano e inaccessibile. Non è la Regione o la Provincia, che sono costruzioni fredde, frutto di un'ingegneria politico-geografica che non affonda le sua radici nel vissuto storico dei cittadini. La città è il luogo dell'orgoglio e della partecipazione. Il municipio è una bandiera, è il cemento che raccoglie i problemi sentiti come vitali e prioritari da milioni di persone. Se un mare di indifferenza travolge i municipi, è come se un pezzo importante del senso di una comunità venisse meno.

I partiti useranno il loro linguaggio legnoso per cercare di arginare la loro catastrofe, a prescindere dai vincitori delle singole competizioni: parleranno di calo «fisiologico», discetteranno sulla freddezza del secondo turno che mortifica il voto identitario. Ma non dicono che la fisiologia è sempre stata fisiologia, ma che in queste dimensioni diventa patologia. Che più della metà degli aventi diritto al voto si dichiari indifferente a chi sarà il proprio sindaco testimonia di un distacco inimmaginabile fino a pochissimi anni fa. Troveranno rifugio dietro le formule complicate delle leggi elettorali. Ma gli italiani vanno sempre meno a votare, con qualsiasi legge elettorale. I partiti faranno finta di niente, ma la prossima volta sarà ancora peggio. Si ritroveranno sempre più soli e più «delegittimati», con una democrazia sfibrata e stanca. Quando se ne accorgeranno?

Pierluigi Battista

10 giugno 2013 | 11:39© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/politica/13_giugno_10/i-partiti-non-parlino_032758c2-d187-11e2-810b-ca5258e522ba.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA I dubbi, le conseguenze
Inserito da: Admin - Giugno 26, 2013, 12:14:15 am
I dubbi, le conseguenze

Le sentenze si rispettano, ma si possono commentare e criticare, come in ogni nazione libera. Negarlo è ipocrita.
Come lo sarebbe negare che una condanna rigidissima, addirittura superiore alle pur severe richieste dell'accusa, possa evitare conseguenze politiche se ad essere considerato il vertice di una ramificata banda dedita a reati moralmente spregevoli è il capo di uno schieramento che compartecipa in modo determinante al governo del Paese. I risvolti giuridici sono discussi nelle aule del tribunale. Ma i media internazionali non si sarebbero mobilitati così massicciamente se si fosse concluso in primo grado un processo come un altro. E se non fossero stati convinti che la sentenza di ieri avrebbe ipotecato il futuro politico di questo Paese.

Dopo la sentenza di ieri, durissima, che si abbatte come uno schianto su Silvio Berlusconi e sul suo partito, il futuro politico del Paese non è tra i più leggiadri. E la spaccatura che da vent'anni spezza in due l'opinione pubblica italiana è ancora più profonda e irriducibile. Da ieri si sentiranno più forti quelli che, su un fronte, considerano il nemico Berlusconi come una figura losca da gettare nel precipizio della vergogna e della non rispettabilità e, sull'altro, quelli che difendono in trincea Berlusconi come vittima di un accanimento politico-giudiziario senza precedenti, molto prossimo alla persecuzione.

Da ieri saranno più baldanzosi i demolitori professionali della «retorica della pacificazione», i nostalgici di un ventennio in cui lo scontro tra politica e magistratura è stato rovente e senza mediazioni, i cantori di una «guerra civile fredda» o «a bassa intensità» che hanno trovato nella demonizzazione o nella santificazione di Berlusconi l'unico parametro dei loro giudizi politici. Da ieri è più debole il governo presieduto da Enrico Letta, anche se non saranno risparmiati gli appelli a tenerlo fuori dalla contesa, a separarne il destino da quello (dicono, anche qui non senza ipocrisia, «personale») di Berlusconi. Dopo la richiesta di condanna di Ilda Boccassini, una manifestazione a Brescia del Pdl fece sfiorare la rottura tra Alfano e Letta nel pulmino che li portava nel «ritiro spirituale» dell'abbazia di Sarteano.

Dopo la sentenza a sette anni di Berlusconi (solo un anno meno di Misseri ad Avetrana e uno più di Scattone e Ferraro condannati come gli assassini di Marta Russo, si twitta sui social network), come si può immaginare che le tensioni tra il Pdl e il Pd non siano destinate ad incattivirsi? Occorrerà molto spirito ascetico per non farsi trascinare nel gorgo di una polemica che rischia di diventare autodistruttiva nell'ambito di una strana e mal sopportata coabitazione di maggioranza. A rigor di forma, una sentenza di primo grado non si carica di conseguenze pratiche per chi è condannato.

Ma una sentenza così aspra, da rispettare certo e da non liquidare sbrigativamente come una «sentenza politica», mette in discussione la stessa legittimità morale del capo di un partito. Viene quasi rimproverata l'accusa di aver indicato un reato meno grave di quello sulla base del quale Berlusconi è stato condannato. E si intima perentoriamente di riconsiderare la posizione di tutti quelli che hanno testimoniato senza indicare in Berlusconi il «male assoluto», come a individuare una rete di complicità omertosa che esclude il carattere esclusivamente «personale» dello stesso Berlusconi, additato invece come il capo di una banda dedita alla prostituzione guidata dal presidente del Consiglio dell'epoca. Ci vuole autocontrollo e senso di responsabilità per non trascinare il governo nella spirale della divisione. Da ieri tutto sarà più difficile.

PIERLUIGI BATTISTA

25 giugno 2013 | 7:44© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_giugno_25/dubbi-le-conseguenze-battista_df01e6e2-dd57-11e2-a264-78b7af641acd.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA I professionisti dell'identità
Inserito da: Admin - Agosto 19, 2013, 07:52:52 pm
LETTA AL MEETING

I professionisti dell'identità


Al Meeting di Rimini Enrico Letta sapeva che, rivendicando il valore dell'«incontro» tra forze politiche diverse e che vogliono mantenere inalterate le loro «differenze», si sarebbe esposto alla logora, ma sempre vigorosamente intimidatoria, accusa di «inciucismo». Ma non ha voluto arretrare da una convinzione che ribadisce da quando è diventato capo di questo governo: il sano conflitto politico non viene necessariamente mortificato se partiti tra loro alternativi, vincolati a un mandato preciso e consapevoli della drammaticità di uno «stato di eccezione», decidono di formare un governo chiamato a realizzare pochi punti, ma decisivi. E le forze politiche non possono rovesciare sul «loro» governo ogni malumore, ogni debolezza, ogni idiosincrasia.

Il guaio è che sia il Pd che il Pdl stentano a riconoscere, senza remore e paralizzanti riserve mentali, nel governo Letta il «loro» governo. Se ne sentono ostaggi e vorrebbero tenerlo come ostaggio impotente in balia della loro volubile umoralità. Il Pdl, ferito fino allo sbandamento dopo la condanna del leader in Cassazione, sembra esigere dal governo (a giorni alterni, sinora) un salvacondotto impossibile, un atto di sottomissione con cui il Pd e Palazzo Chigi si dovrebbero accodare alla campagna contro la magistratura acutizzatasi all'indomani di una sentenza definitiva: un'assurdità infantile, prima ancora che un ricatto politico destinato, nella migliore delle ipotesi e comunque senza arrivare allo strappo definitivo, a rendere tumultuosa la vita di un governo vulnerabilissimo.

Il Pd cerca di scaricare sulla stabilità del governo un'interminabile guerriglia interna che rende del tutto irrilevante il fatto che al capo del governo ci sia un esponente storico del loro partito, addirittura vice segretario fino al giorno della chiamata del Quirinale. Ambedue, il Pdl e il Pd, sembrano vivere l'esecutivo cui hanno dato la fiducia come una camicia di forza, una prigione soffocante, un obbligo di coabitazione che non prevede bussole comuni, punti di incontro, provvedimenti circoscritti ma efficaci per far uscire l'Italia dalla crisi in cui è drammaticamente sprofondata.

Ma il messaggio di Letta si propone di mettere un argine a un primitivismo culturale che, da sinistra come da destra, liquida e squalifica come «inciucio» ogni accordo, come capitolazione ogni punto di intesa, come annebbiamento di un'identità pura e incontaminata ogni provvedimento macchiato da un peccato originale. Il messaggio di Letta, semplicemente, è in controtendenza con tutto ciò che ha avvelenato la vita politica di decenni di bipolarismo primitivo e muscolare. Non dominata da nobili passioni e contrapposizioni, come amano ridipingerlo i suoi aedi terrorizzati come guerrieri rissosi da quella che definiscono sprezzantemente «retorica della pacificazione».

Ma da un'incoercibile pulsione alla reciproca dannazione, da una voglia, sconosciuta in ogni altra matura democrazia dell'alternanza, di annientamento dell'avversario politico ridotto e caricaturizzato come Nemico assoluto. Dopo il risultato elettorale di parità perfetta, dopo la plateale prova di inettitudine politica per la (mancata) elezione di un nuovo presidente della Repubblica, dopo la strigliata di Giorgio Napolitano che ha sferzato nel suo discorso di reinsediamento l'inconcludenza verbosa dei partiti, i rinfocolatori di una guerra distruttiva e autodistruttiva, i custodi del dogma «anti-inciucista», hanno vissuto la nascita del nuovo governo come un obbligo da adempiere obtorto collo , senza convinzione, sempre con la tentazione di staccare la spina se gli interessi dei rispettivi partiti dovessero richiederlo.

Senza mai chiedersi se non convenga procedere rapidamente sulla realizzazione di un programma di governo, per non aggiungere fallimento a fallimento, per non dare un'ulteriore e stavolta definitiva dimostrazione dell'incapacità della politica di scegliere, di governare. Senza mai chiedersi perché un periodo limitato di «grande coalizione» ha portato in Germania a risultati significativi e duraturi. Senza chiedersi se la fine di questo governo non porti a una crisi drammatica della nostra democrazia. Non con le identità incontaminate, come pensano i rinfocolatori, ma con identità devastate.

19 agosto 2013 | 8:05
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Pierluigi Battista

da - http://www.corriere.it/politica/13_agosto_19/20130819NAZ27_444_3da6cfca-0894-11e3-abfd-c7cdb640a6bb.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Sospesi nel vuoto
Inserito da: Admin - Agosto 23, 2013, 11:33:49 pm
Sospesi nel vuoto

Berlusconi sa benissimo che dall'abbattimento del governo presieduto da Enrico Letta non ne scaturirebbe nessun vantaggio «pratico» sul piano delle sue vicende personali e giudiziarie. Investire il governo di compiti che non gli sono propri, pensare che la soluzione di un problema giudiziario possa entrare nel novero dei provvedimenti di un governo, mescola piani che non possono che restare distinti. Né è possibile perseguire obiettivi di rottura del governo con il pretesto di pregiudiziali messe in campo dall'avversario. Il Pdl dovrebbe sapere che la tentazione di scaricare le proprie tensioni sul governo innescherebbe una gara autodistruttiva che non conosce vincitori ma solo sconfitti. Del resto, è stato proprio Berlusconi, a poche ore dalla sentenza di condanna della Cassazione, a dire che il governo non doveva essere la prima vittima dell'inevitabile inasprimento del conflitto politico. Basterebbe tenere fede a quanto ha già proclamato rendendosi conto che precipitare l'Italia nell'abisso dell'ingovernabilità sarebbe un atto irresponsabile e autolesionista.

Il Pdl ha tutto il diritto di denunciare la commistione democraticamente anomala tra politica e magistratura e anche di considerarsi vittima di un accanimento che dal '94 in poi ha messo il suo leader nel mirino di un numero incalcolabile di inchieste giudiziarie. Può anche portare le sue buone ragioni, peraltro avallate da molti giuristi e costituzionalisti non di area berlusconiana, sull'interpretazione della nuova legge Severino sull'incandidabilità dei politici condannati con sentenza definitiva, nella sua prima e fragorosa applicazione.

Ma la politica degli ultimatum, peraltro in modo inconcludente come si è visto nel vertice di ieri tra Angelino Alfano ed Enrico Letta, esprime solo uno spirito di rappresaglia fondato su un calcolo tutto da verificare: quello secondo il quale il Pdl potrebbe avvantaggiarsi da un rapidissimo ricorso alle urne. Il Pdl non dovrebbe dare ascolto alle pulsioni più distruttive che albergano nella psicologia del leader e nell'istinto di paura del suo gruppo dirigente. Il governo delle larghe intese non ha ancora realizzato il compito per cui era nato e che era stato indicato come essenziale dallo stesso Pdl. Soffocarlo ora, quando si annunciano primi, timidissimi segnali di un possibile rischiaramento nel buio pesto della crisi italiana, non avrebbe alcun senso.

E del resto al Pd si può chiedere un atteggiamento responsabile, e tutti gli approfondimenti che la prima applicazione della legge Severino comporta. Si deve chiedere di non far prevalere al suo interno personalismi e rancori destinati a rovesciarsi drammaticamente sulla tenuta del governo. Ma non di immolarsi ingoiando umilianti ultimatum. Né si può devastare un governo per materie sulle quali il governo non può intervenire. Il senso di responsabilità può addirittura portare risultati migliori se si riesce a non cedere all'istinto di rappresaglia.

22 agosto 2013 | 7:39
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Pierluigi Battista

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_agosto_22/sospesi-nel-vuoto_cd99f20e-0ae9-11e3-ab6e-417ba0dfe8a6.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA La corda si sta spezzando
Inserito da: Admin - Agosto 25, 2013, 05:05:01 pm
La corda si sta spezzando


Una pietra dopo l'altra, inesorabilmente, i proclami del Pdl annunciano la valanga finale che potrebbe spazzare via il governo delle larghe intese. Formalmente, dopo il vertice di Arcore, non c'è nulla di definitivo. Si pongono ancora condizioni, l'ultimatum è ancora privo di quella inappellabile perentorietà che lo renderebbe ineludibile, ma una pietra dopo l'altra, una dichiarazione dopo l'altra, il partito di Silvio Berlusconi sta decidendo di mettere fine, assieme all'eventuale decadenza del suo leader da senatore in seguito alla sentenza della Cassazione, all'esperienza del governo Letta.

Quando Angelino Alfano, segretario del Pdl ma anche vicepresidente del Consiglio, include il suo stesso primo ministro nella lista di quelli a cui ci si rivolge per evitare la crisi finale, vuol dire che un'altra barriera è stata disintegrata. Il governo non deve temere, disse lo stesso Berlusconi all'indomani del verdetto della Cassazione. Oggi invece il governo deve temere moltissimo, e viene addirittura messo sulla graticola come possibile corresponsabile di una decisione bollata a priori come «costituzionalmente inaccettabile». Ma il governo non ha nessun potere «costituzionale» per orientare il voto del Pd quando si dovrà decidere della decadenza di Berlusconi sulla base della legge Severino. E se viene menzionato così esplicitamente in una dichiarazione che prelude alla lacerazione di un patto di governo nato quattro mesi fa, e dallo stesso vicepresidente del Consiglio, vuol dire che la via che conduce allo strappo si fa sempre più breve.

Una scelta sbagliata, quella del Pdl. Che giocherebbe sullo sfacelo di un governo che ha sì bisogno di spinte per realizzare il suo programma, ma che oggi svolge una funzione preziosa di equilibrio. Lo stesso equilibrio fortemente voluto da Napolitano, il vero artefice di un governo nato in condizioni di emergenza. Lo stesso equilibrio che si richiede quando l'Italia è ancora paralizzata da una crisi interminabile e avrebbe bisogno di riforme, non di ricatti da consumare nel cielo della politica, con esiti incomprensibili per tutti, anche per l'elettorato di centrodestra sempre più frastornato. La scelta della rottura azzererebbe tutto questo.

E se è legittima la richiesta di ulteriori approfondimenti «costituzionali» sulla legge Severino, lo è decisamente meno il tono ricattatorio con cui si chiede al Pd di capitolare senza condizioni, cancellando così ogni possibile mediazione. Una mediazione politica, in ogni caso. Non una mediazione che possa essere promossa da un governo. Una mediazione che parta dal riconoscimento del ruolo di Berlusconi e del Pdl nella vita democratica italiana formulato dal capo dello Stato nel suo messaggio di Ferragosto. Ma non il frutto di un ultimatum dettato da senso di irresponsabilità e dalla chiusura dell'intero centrodestra nel fortino in cui ha voluto serrarsi Berlusconi. Prima che sia troppo tardi.

25 agosto 2013 | 8:38
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Pierluigi Battista

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_agosto_25/la-corda-si-sta-spezzando-battista_6190dc12-0d4b-11e3-a0ce-befba0269146.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA L'orlo del precipizio
Inserito da: Admin - Settembre 11, 2013, 05:29:16 pm
L'EDITORIALE
L'orlo del precipizio


Se gli ultimi tentativi di mediazione fallissero, se l'ultimo, accorato appello del presidente Napolitano cadesse nel vuoto e il Pdl optasse nelle prossime ore per la spallata finale al governo Letta, allora non ci sarebbe nemmeno un vincitore, ma sul terreno solo uno stuolo impressionante di vinti.

Sarebbe sconfitta innanzitutto l'Italia, la cui condizione economica preoccupa ancora l'Europa e il cui spread ha proprio ieri sorpassato quello spagnolo. Perderebbero le istituzioni, che nella scorsa primavera, quando i partiti in Parlamento avevano mostrato tutta la loro penosa impotenza, furono salvate con uno sforzo d'emergenza attraverso la rielezione di Giorgio Napolitano. E il capo dello Stato, come è noto, si è detto personalmente e istituzionalmente indisponibile, fino alle estreme conseguenze, a giochi e manovre che farebbero ripiombare l'Italia nel caos politico.

Non vincerebbe lo stesso Berlusconi, che non vedrebbe minimamente migliorata la propria condizione personale, drammaticamente invischiata in vicende giudiziarie il cui automatismo oramai non sarebbe recuperabile neanche da una linea di condotta ultra-aperturista del Pd nella Giunta del Senato.

Non vincerebbe il centrodestra, decapitato del suo leader, frastornato, illuso, incapace di capire che il burrone è molto vicino e che senza un rinnovamento radicale di leadership, di classe dirigente, di linguaggio la partita è perduta, per quante fantasmagoriche performance Berlusconi sia ancora in grado di esibire in campagna elettorale, il suo terreno preferito ma che da ora in poi dovrà affrontare come un'anatra zoppa.

Non vincerebbe il centrosinistra, già pronto ad inebriarsi per la scomparsa del Nemico da cui è stato battuto tanto frequentemente, ma che sembra condannato all'eterna ripetizione degli stessi errori. Non vincerebbe il Pd, che anche ieri ha dimostrato di intrattenere un rapporto morbosamente ambiguo con il movimento di Grillo, colpito sì dai suoi insulti ma anche segretamente tentato dall'idea di una pur sbrindellata alleanza per mettere definitivamente all'angolo il centrodestra. Svanirebbe la stessa idea di riforme costituzionali condivise, la prospettiva di una riduzione del numero dei parlamentari, di maggiori poteri al capo del governo, della fine del paralizzante bicameralismo perfetto, del ridimensionamento dei costi della politica, Province in primis, che sembrano inscalfibili.

Impallidirebbe la speranza che sia possibile in Italia una normale democrazia dell'alternanza, in cui gli schieramenti si contendano la guida del governo, ma non vogliano perseguire l'annientamento reciproco, come è accaduto in questi venti anni e come i coriacei detrattori della «pacificazione» vorrebbero che continuasse in una rissa infinita e inconcludente. Perderebbero tutti e si correrebbero gravi «rischi», come avverte Napolitano. C'è ancora pochissimo tempo per sperare che ci si voglia fermare un centimetro prima del precipizio.

11 settembre 2013 | 7:40
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Pierluigi Battista

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_settembre_11/orlo-del-precipizio-pierluigi-battista_8a208016-1aa1-11e3-a75c-ad7543f2d611.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Moderati, dove siete?
Inserito da: Admin - Settembre 29, 2013, 11:11:37 pm
L'EDITORIALE

Moderati, dove siete?

Berlusconi impone le dimissioni dei ministri del Pdl, ma con la caduta del governo molte cose cambierebbero in peggio. Tranne una, che non cambierà affatto, né in peggio né in meglio: il destino personale di Berlusconi, che nessuna peripezia governativa o parlamentare potrà oramai minimamente modificare, in forza di una sentenza di condanna che, oltre alle misure cautelari, aggiungerà l'interdizione dai pubblici uffici, e dunque l'immediata decadenza da senatore.

Purtroppo non cambierà, anzi si rafforzerà, il sospetto che Berlusconi ritenga che il suo destino personale debba coincidere con quello del centrodestra e dell'intero Paese. Perciò il leader della neonata Forza Italia gioca al tanto peggio. Dopo di lui, deve esserci solo il diluvio.

Se la corsa al baratro della crisi dovesse rotolare fino in fondo, cambierà lo stato di un Paese che ad ottobre non potrà nemmeno scrivere la propria legge di Stabilità, consegnandosi interamente a un umiliante commissariamento internazionale.

Cambierà in peggio l'impatto delle tasse sui consumi, perché l'Iva inevitabilmente aumenterà per colpa di chi farà crollare il governo, anche se Berlusconi ne vuole fare un cavallo di battaglia. Cambierà, anzi crollerà la speranza che una responsabile azione di governo possa assecondare gli ancora troppo flebili annunci di ripresa e possa dare un sostegno all'economia che boccheggia e che vuole ripartire.

Cambierà la possibilità di mettere mano a serie riforme costituzionali, lungo un percorso che possa siglare un patto sulle regole fondamentali tra i partiti che poi, come è normale in una democrazia liberale, si contenderanno la vittoria alle elezioni su fronti opposti. Cambierà, anzi svanirà del tutto, l'idea che l'Italia possa conoscere un barlume di pacificazione, una competizione dura ma leale tra forze politiche che si dividono ma riconoscono legittimità al reciproco avversario, combattendolo ma non odiandolo fino ad augurarsene la distruzione.

Berlusconi ha sempre detto che il governo delle larghe intese è stato anche il frutto di una scelta di responsabilità del suo partito. È vero. Ed è vero anche che in tutti questi mesi, o almeno prima della fatale sentenza della Cassazione, il Pdl è sembrato più convinto del sostegno al governo di quanto non lo sia stato il Pd, che pure poteva contare sul suo ex vicesegretario Letta come premier. Più una folta rappresentanza di ministri.

Ma l'atto di responsabilità nazionale con cui Berlusconi ha permesso la nascita di questo governo viene totalmente annullato dall'atto di irresponsabilità nazionale con cui ne vuole decretare la morte. Berlusconi non può dare la colpa della fine al Pd, ancora immerso in un travaglio dilaniante per affrontare una campagna elettorale dagli esiti imprevedibili.

La colpa è invece tutta racchiusa nella sindrome autolesionista che in pochi giorni ha trasformato il «responsabile» Berlusconi nel capo di un drappello di falchi. Una forma di autolesionismo nazionale, che fa male all'Italia. E di autolesionismo personale, perché questo gesto di pura e inconcludente ritorsione, che scarica sul governo gli spasmi di un centrodestra frastornato e stremato, non avrà alcun effetto pratico sulla sua vicenda giudiziaria.

Un puro paradosso: si apre una pericolosa crisi di governo senza che nemmeno ne abbia a guadagnare la posizione personale di chi la promuove con tanto fragore.

Il tentativo di attribuire la colpa della crisi al Pd, ma addirittura al capo dello Stato, che vede disfarsi con un atto di irresponsabilità una costrizione politica precaria ma indispensabile per non far precipitare l'Italia nel caos politico, economico e finanziario, è insensato. Perciò è un bene che con un atto parlamentare solenne si chiarisca davanti agli italiani chi è disposto a dare la fiducia al governo Letta e chi invece vuole ritirarla. Un voto che dissipi ogni equivoco. E che consenta alla pattuglia dei moderati del centrodestra di dimostrare apertamente un dissenso dalla linea autolesionista del leader. A carte scoperte, stavolta.

29 settembre 2013 | 8:45
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Pierluigi Battista

DA - http://www.corriere.it/editoriali/13_settembre_29/moderati-dove-siete-pierluigi-battista_a0cdfd28-28d1-11e3-8fff-a1e6916711a7.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA I questuanti assediano un Cavaliere ormai cupo
Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2013, 09:20:52 am
Il Caso berlusconi

La solitudine del capo tra i cortigiani avidi

I questuanti assediano un Cavaliere ormai cupo

Era l’uomo solo al comando. Oggi è un uomo solo. Un barboncino da tenere in braccio. Una ragazza che lo mette in guardia perché nelle cucine hanno fatto la cresta dicendo di aver pagato 80 euro un chilo di fagiolini. I falchi che lo assediano. Gli avvocati che non si sono dimostrati all’altezza delle loro ragguardevoli parcelle. Michelle Bonev, quella che reclamava insistentemente per un posticino, un premietto, una particina, che oggi si vendica nelle tribune compiacenti del Nemico mediatico. Un uomo solo. Inasprito. Deluso. Senza un sorriso. Cupo e finanche lugubre.

Un uomo asserragliato ad Arcore o a palazzo Grazioli, con una condanna definitiva, l’interdizione, la decadenza da senatore. Braccato e inseguito, dicono, da altre Procure cui non sembra vero di dare la caccia a chi tra un po’ non avrà alcuno scudo, e da altre accuse, altre imputazioni a cascata. Un leader che ha dovuto cedere alla fronda di chi non voleva seguirlo. Lui ha tentato di dare di sé un’immagine di rassicurante normalità. La fidanzata Francesca Pascale che si presenta con la maschera del dolore quando la Cassazione dà il colpo finale con il suo verdetto di inizio agosto, il cane Dudù esibito sui rotocalchi. Ma è tutta una corte di questuanti, pretendenti, parassiti, miracolate, giovani carrieriste, procacciatori di dubbia reputazione, amici che si dimostrano avidi cortigiani senza pudore che si stringe a un leader, Silvio Berlusconi, che oramai non mette più piede a Milanello, sembra disinteressarsi della sua adorata creatura rossonera. Non si sente più in sintonia con nessuno. Ci sono i figli, Marina in testa, e vecchi e inossidabili amici come Fedele Confalonieri, che gli ricordano i tempi in cui il Re Sole poteva contare su affetti, solidarietà, senso di missione. Quella fotografia alle isole Bermude, tutti a fare jogging con candida divisa regolamentare dietro di lui, Gianni Letta, Marcello Dell’Utri, Galliani. E persino quelle gite sullo yacht di Cesare Previti, con mogli e amici cari (o che tali sembravano, come Stefania Ariosto e l’avvocato Dotti). Tempi passati.

Tempi passati anche quelli in cui l’onnipresente Paolo Bonaiuti e la segretaria Marinella facevano da scudo, da filtro, da protezione. Oggi no. Oggi Berlusconi è solo perché scopre che tutti vogliono da lui sempre qualcosa, soldi, carriere, posti, incarichi, prebende, visibilità. Altro che normalità paraconiugale. Altro che Francesca Pascale che mette a posto la borsa della spesa e fa da buttafuori con tutto il gruppo degli ex prediletti, da Daniela Santanchè a Daniele Capezzone, da Denis Verdini a Mara Carfagna. Adesso sono solo ricordi cupi quelli che affiorano: gente che chiede, amici che tradiscono. Una cresta generalizzata. La fiera degli approfittatori e delle approfittatrici. Le elargizioni. «Silvio il Bancomat».
Tradito da Emilio Fede che consigliava a Lele Mora di chiedere, oltre agli 800 mila euro di cui aveva bisogno, anche 400 mila da attaccare all’amico, lui stesso, che si era fatto mediatore. E le ragazze intercettate al telefono, avide, senza fondo. Ingrate. Come Nicole Minetti che se la prendeva con il vecchio «culo flaccido» se i pagamenti non fossero stati cospicui e tempestivi. E poi bonifici, «prestiti infruttiferi», assegni circolari, «regali», «regalissimi», «buste chiuse» da ritirare, «un braccialetto e 2.000 euro», «son 500 euro a testa», «un diamantino piccino», anelli, bracciali, spille, orecchini, appartamenti. Tutte a lamentarsi, tutte a chiedere al Ragioniere di più, a mostrarsi insoddisfatte, a promettere sfracelli: «voglio un mutuo che è uno dei miei sogni più grandi»; «Papi è la nostra fonte di lucro»; «vado io a tirargli la statua in faccia»; «sono stata un po’ cogliona perché non ho beccato nulla». Avide, insaziabili, attentissime alle minime quantità, gelose. Oppure frequentatori avidi e scrocconi, i Tarantini, i Lavitola, i De Gregorio, affamati di denaro, pronti a svuotare la cassaforte con il consenso del legittimo proprietario sempre più frastornato. Sempre più solo. Sempre più assediato da richieste.

È quasi implorandolo che Berlusconi chiede ad Agostino Saccà, intercettato in un’inchiesta svanita nel nulla, di dire alle ragazze segnalate che lui, il Capo, si era davvero interessato: «Diglielo che te l’ho chiesto io». Oppure il partito disabituato a ogni forma di fundraising, funzionari che acchiappano, parlamentari che non pagano le loro quote, arraffatori di posti, sedie, poltrone. Berlusconi non ne può più. Non vuole più cacciare un euro per la sua Forza Italia. Se ne sta rinchiuso ad Arcore, o a palazzo Grazioli. E nessuno lo consulta. C’è la leggenda sull’immediatamente cancellato Radiobelva , il talkshow con il duo Cruciani-Parenzo che aveva indotto i vertici di Mediaset, dopo una sequenza turpiloquente da record e con scarsissima audience, a chiudere il programma. Poi, narra la leggenda, una telefonata di Berlusconi che dice di aver molto gradito il nuovo programma. La cancellazione è diventata, in modo più tenue, «sospensione». Ma la mancanza di una sintonia, l’ulteriore sintomo di una solitudine oramai quasi completa con il suo mondo, sembra la maledizione di questi mesi del Berlusconi ferito a morte.

Ora girano attorno al palazzo custodito da Francesca Pascale, che non si è staccata da Arcore sin dal 2006, falchi e colombe, questuanti e avvocati che Berlusconi stima sempre di meno, visto che non sono riusciti a tirarlo fuori dai guai, nonostante i lauti onorari. Gli chiedono udienza per far cadere il governo. Gli chiedono colloqui per non far cadere il governo. I figli percepiscono che il malumore, l’aspetto cupo del padre, sembrano aver trascinato un uomo brillante, intraprendente, sempre ricco di trovate e di risorse di buonumore, nel gorgo di un ripiegamento depressivo, come se la sentenza della Cassazione avesse lasciato balenare agli occhi del leader incontrastato il buio della fine politica, la rarefazione dei rapporti umani ridotti al minimo, la tristezza di una finta domesticità, tra giovanissime fidanzate e cagnolini pelosi da tenere in braccia mestamente per la gioia dei fotografi. Un palazzo allegro che è diventato tetro. Un uomo socievole che sta diventando misantropo. Sempre più solo, mentre da fuori, dai tribunali e dalle televisioni ostili, l’assedio sembra non finire mai.

21 ottobre 2013
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Pierluigi Battista

Da - http://www.corriere.it/politica/13_ottobre_21/solitudine-capo-cortigiani-avidi-768296e0-3a16-11e3-970f-65b4fa45538a.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Al diavolo il Paese
Inserito da: Admin - Novembre 29, 2013, 06:46:32 pm
Al diavolo il Paese

E adesso, dove vuole arrivare Forza Italia? Se ha legato a tal punto e indissolubilmente il suo futuro politico alla sorte parlamentare del leader, cos’altro dovrà essere strappato, oltre al (legittimo) formale ritiro dalla maggioranza che sostiene il governo Letta? Si sono affrettati a dire, i maggiorenti di Forza Italia, che si ritirano da tutto: anche dal tavolo delle riforme istituzionali. Resta solo la terra bruciata. Soltanto la demolizione del perimetro che dovrebbe tenere insieme forze politiche diverse, alternative e conflittuali tra loro, eppure accomunate dallo stesso destino democratico. Resta solo l’incoerenza assoluta di indicare come nemico numero uno il capo dello Stato che si è contribuito ad eleggere sette mesi fa. Che fine ha fatto il senso di responsabilità giustamente sbandierato allora dal Pdl, dopo un esito elettorale che segnava l’impotenza politica perfetta, quando l’Italia sembrava sull’orlo del default istituzionale?

Berlusconi e il suo partito hanno cercato di imporre al Pd, a Enrico Letta e allo stesso Napolitano, come condizione per consentire al governo di non morire, di sposare senza riserve mentali l’idea di una persecuzione giudiziaria del leader del centrodestra. E addirittura di adoperarsi per annullare gli effetti di una condanna definitiva. Una condizione impossibile da accettare. Senza questa condivisione, hanno però sostenuto, la democrazia italiana si sarebbe sostanzialmente svuotata. Ora, alla vigilia del voto sulla decadenza di Berlusconi, hanno scelto per coerenza con questa lettura oltranzista e radicale della parabola giudiziaria del loro leader, di lacerare tutto il tessuto che dovrebbe reggere un sistema fondato sull’alternanza. Altro che legge di Stabilità. Si mettono in una posizione anti-sistema. Hanno suonato le campane a morto per le «larghe intese», proprio mentre in Germania si stanno preparando a sostenerle in una grande coalizione. Non vogliono più contribuire alla riforma della legge elettorale e a quella delle istituzioni. Non è solo la sfiducia a un governo: è l’applicazione letterale del motto distruttivo e autolesionista «Dopo di me il diluvio». Solo che il diluvio travalica i confini di un partito e del suo leader. Da oggi la democrazia italiana vive nella tenaglia di due forze, l’altra sono i Cinque Stelle di Grillo, che rifiutano ogni collaborazione («collaborazionismo»?) con le altre forze politiche sulla base di una nozione minima di bene comune, o interesse generale. La promessa delle riforme istituzionali viene disattesa, come se la necessità di snellire e adeguare le istituzioni per garantire forza ai governi non fosse più attuale. Il senso di responsabilità si è dissolto. E ogni posizione intermedia o dialogante è stata cancellata con la separazione dai «governisti» di Alfano. Il diluvio. Sull’Italia, che non lo merita. E al diavolo il Paese.

27 novembre 2013
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Pierluigi Battista

Da - http://www.corriere.it/editoriali/13_novembre_27/al-diavolo-paese-e80fbe6e-5730-11e3-901e-793b8e54c623.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Vent’anni dopo, una storia di amore e odio
Inserito da: Admin - Novembre 29, 2013, 06:54:15 pm
La storia

Vent’anni dopo, una storia di amore e odio
Dal «teatrino della politica» al «ribaltone» ai «delfini» mai lanciati davvero. Tutte le mosse e le contromosse del Cavaliere
L' ultimo suo giorno da parlamentare, lui ha voluto passarlo fuori dal Parlamento. Sul palco ad arringare la sua gente. Berlusconi ha vissuto vent'anni di vita parlamentare non nutrendo grande ammirazione per un'istituzione descritta come una macchina farraginosa di lungaggini, resa viscida dalle astuzie dei mandarini e dei burocrati padroni del regolamento e dell'agguato da corridoio. Ora che non ci sta più, però, si sente defraudato. È la fine di una storia di amore e di odio. Di amore per il Parlamento espressione della sovranità del «popolo». Di odio per il Parlamento che non sa comportarsi con la prontezza e la rapidità di un'assemblea di azionisti di una grande azienda in attivo.

Berlusconi esce dal Senato, inasprito e furioso, accusando neanche tanto velatamente Giorgio Napolitano di essere stato uno dei responsabili della sua estromissione. Eppure uno dei primi gesti del Berlusconi parlamentare, nel '94, neopresidente del Consiglio di un governo formato dai partiti che avevano vinto avventurosamente, con la forza di un blitz, fu proprio un clamoroso gesto di rispetto verso Giorgio Napolitano. Ex presidente della Camera, l'ultimo della Prima Repubblica prima di lasciare lo scranno alla giovanissima leghista Irene Pivetti, Napolitano come capogruppo dell'allora Pds aveva fatto un discorso molto dialogante rispetto al nuovo governo. Il resto della sinistra ringhiava o lacrimava per l'avvento del Tiranno, del Venditore, dell'Usurpatore, del Nemico Antropologico, e invece Napolitano non disse di no alla possibilità di cooperare per l'attuazione delle «riforme costituzionali». Già da allora, vent'anni fa: la collaborazione per le «riforme costituzionali». Ma Berlusconi (il grande suggeritore era stato Giuliano Ferrara, allora ministro per i Rapporti con il Parlamento) scese dai banchi del governo, andò verso Napolitano e nello stupore generale, strinse vigorosamente la mano all'avversario (che solo per un soffio non fu indicato da Berlusconi, insieme a Mario Monti, come Commissario europeo, sostituito all'ultimo da Emma Bonino). Una promessa bipartisan che durò pochissimi giorni. La guerra civile fredda e permanente sarebbe nuovamente divampata di lì a poco, anche in Parlamento, con una virulenza inusitata.

Il Parlamento come croce e delizia del Silvio Berlusconi disavvezzo ai riti romani da lui efficacemente, e poi sempre più stucchevolmente, ribattezzati «il teatrino della politica». Fu proprio in quel teatrino che Berlusconi lanciò la sua invettiva contro il Bossi che stava apparecchiando la tavola del «ribaltone» assieme a Massimo D'Alema e Rocco Buttiglione, commensali di Gallipoli. Bossi aveva già attaccato la solfa del «Berluskaiser» e del «Berluskaz», Berlusconi, l'uomo del «mi consenta» cerimonioso e cortese, replicò in Aula sulla figura dalla «doppia e tripla» personalità dell'alleato che lo stava tradendo, malgrado la calda estate della canottiera in Sardegna. La fine del governo si era già consumata, ma Berlusconi volle «parlamentalizzarla», anche perché le telecamere erano accese sul «teatrino» allestito a Montecitorio. Sempre in Parlamento, stavolta nelle aule di una Commissione Bicamerale per le riforme istituzionali (tanto per cambiare), Berlusconi mise in mostra la sua resurrezione politica dopo la batosta elettorale del '96 che aveva consegnato il Paese all'Ulivo di Prodi. Sembrava la formazione di un asse indistruttibile con D'Alema. Si favoleggiava di una creatura mostruosa che fosse l'assemblaggio dei pezzi peggiori dei due protagonisti: «Dalemoni». L'esperimento fallì, ma Berlusconi aveva cominciato a impratichirsi nelle manovre del Palazzo, nelle trappole parlamentari, nei colpi di scena in Aula.

Il pallottoliere parlamentare, per esempio, Berlusconi aveva cominciato a usarlo molto meglio dei suoi navigatissimi avversari, rotti a ogni esperienza di Palazzo, ma che nell'ottobre del 1998 sbagliarono clamorosamente i conti e permisero al centrodestra la conta all'ultimo voto per mettere in minoranza il governo di Romano Prodi. E fu sempre in Parlamento, con le due Camere riunite, che Forza Italia rientrò trionfalmente nel gioco politico, portando i suoi voti determinanti per l'elezione di Carlo Azeglio Ciampi alla presidenza della Repubblica. Da quel momento, tra discorsi di fiducia e manovre di corridoio Berlusconi diventò uno dei protagonisti assoluti del «teatrino della politica» domiciliato presso la Camera e il Senato. In fondo, ha accettato per ben due volte di piazzare i suoi delfini alla guida di Montecitorio per sterilizzarli e tenerli in standby, Casini nel 2001 e Fini nel 2008. A conti fatti, non si è rivelato un calcolo lungimirante. Ma il Parlamento era diventato oramai un campo tra gli altri. Una divisione dei ruoli in cui a Berlusconi veniva affidata la missione del governo, mentre, nella retorica berlusconiana, il Parlamento era presentato come la grande palude in cui l'attivo operare governativo correva sempre il rischio di impantanarsi nelle lentezze esasperanti del bicameralismo, nelle strettoie regolamentari, nelle pigrizie romane, nelle geometrie delle camarille e delle correnti. Fino a che lo stesso Berlusconi non è diventato il maestro delle manovre, un imitatore così solerte delle astuzie altrui da farsene l'interprete imbattibile.

Proprio lui, che aveva denunciato l'impronta del Quirinale di Scalfaro nelle acrobazie parlamentari di Lamberto Dini. Proprio lui, che aveva marchiato con parole di fuoco il «ribaltone» con cui una parte del centrodestra aveva dato ossigeno al governo di sinistra succeduto a Prodi, proprio lui nel biennio tra il 2006 e il 2008, dall'opposizione, mise a punto le pericolosissime tecniche parlamentari per acquisire singoli deputati e senatori dalla parte avversa. Partito come il grande nemico dei ribaltoni e del rispetto dei risultati elettorali, divenne il protettore dei deputati modello Scilipoti, pronti a ogni contorsione pur di salvaguardare un equilibrio politico favorevole (e conveniente). Le ultime apparizioni di Berlusconi in Parlamento, per la verità, denunciano un uomo stanco e provato. Un volto sorridente quando fu messa a segno la rielezione di Napolitano mentre il Pd sprofondava nello psicodramma dell'impotenza. Un volto gonfio e coperto da impenetrabili occhiali neri per via di una misteriosa e invalidante uveite nell'aula del Senato, circondato dai fedeli sempre più apprensivi. Poi la clamorosa giravolta del 2 ottobre. Poi ieri, assente nel giorno dell'umiliazione e della decadenza. Via dal Parlamento, per l'ultima volta.

28 novembre 2013
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Pierluigi Battista

Da - http://www.corriere.it/politica/13_novembre_28/vent-anni-dopo-storia-amore-odio-88c9a470-5806-11e3-8914-a908d6ffa3b0.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA - PD il Congresso infinito e il Patto che non c'è.
Inserito da: Admin - Gennaio 05, 2014, 06:05:33 pm
Risse democratiche
Pd: il Congresso infinito e il Patto che non c’è


Nel Pd non possono pensare di fare del governo la sede rissosa di un interminabile congresso di partito. Renzi è stato plebiscitato meno di un mese fa e già sembrano realizzarsi le profezie sulla troppo problematica coabitazione tra il neosegretario del Pd e il governo di Enrico Letta. Ma le dimissioni del viceministro Stefano Fassina, protagonista del ricambio generazionale ma su posizioni di sinistra «classica» opposte a quelle di Renzi, non solo fanno spettacolarmente seguito a espressioni decisamente brusche («Fassina chi?») pronunciate dal sindaco di Firenze. Di più: trasmettono l’immagine di un rapporto ambiguo e tempestoso tra il Pd renziano e un governo che pure è presieduto dall’ex vicesegretario del partito. Una coabitazione difficile che rischia di diventare reciproca insopportazione.

Un’atmosfera di destabilizzazione permanente che sembra fatalmente replicare quel continuo sommovimento impresso da Silvio Berlusconi prima di dare sepoltura al governo delle «larghe intese». Si disse allora, e lo disse lo stesso Enrico Letta, che il governo ne sarebbe uscito più «coeso». Un’illusione. Con la decadenza da senatore di Berlusconi e l’ascesa impetuosa di Renzi alla leadership del Pd, sono saliti a tre, assieme a Beppe Grillo, i leader che stanno fuori dal Parlamento che formalmente sostiene il governo. Le «larghe intese» sono finite con la frattura tra Alfano e Berlusconi. Il capo dello Stato viene quotidianamente messo sotto pressione concentrica di berlusconiani e grillini. E oramai anche il Pd si aggiunge alla schiera delle forze politiche che puntano esplicitamente alle elezioni il più presto possibile. Il governo Letta non è affatto più «coeso», ma è il bersaglio quotidiano di agguati, attacchi, trappole che ne compromettono il cammino, esponendolo peraltro a figure non proprio commendevoli (come i giorni dell’assalto parlamentare alla legge di Stabilità) e alla tentazione dell’immobilismo come estrema difesa dello status quo.

Ma le sorti di un governo non possono dipendere dalle tempeste che scuotono il partito che oramai con maggioranza schiacciante lo sostiene. Stefano Fassina ha sbagliato ad obbedire più a logiche di posizionamento personale nel partito che allo spirito di una compagine governativa. Ma Renzi e Letta devono siglare un patto chiaro e trasparente se davvero pensano, come dicono, di non andare alle elezioni nei primi mesi di quest’anno. Un patto esplicito, fondato su punti condivisi e formulati senza tortuosità e riserve mentali, a cominciare dalla riforma della legge elettorale. Un patto in cui Letta riguadagni un rapporto politico decente con il suo partito di provenienza, e il segretario Renzi a sua volta si senta moralmente vincolato all’attuazione di un programma minimo. Se invece l’alternativa è la guerriglia quotidiana, tanto vale non dare seguito a una condotta ondivaga, incerta e tentennante che è il contrario di ciò di cui l’Italia ha bisogno. Un patto di lealtà reciproca, oppure la fine di un equivoco troppo devastante.

05 gennaio 2014
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Pierluigi Battista

Da - http://www.corriere.it/politica/14_gennaio_05/pd-congresso-infinito-patto-mancante-3f9a2b92-75db-11e3-b130-d13220de9ace.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA L’eterna sindrome del dualismo a sinistra
Inserito da: Admin - Febbraio 07, 2014, 11:30:35 pm
CORSI E RICORSI

Da Amendola-Ingrao a Veltroni-D’Alema L’eterna sindrome del dualismo a sinistra
Con la Seconda Repubblica, e la crisi dei vecchi partiti, il dualismo diventa lo scoglio su cui si infrangono i progetti


Deve essere una maledizione. L’istinto a reiterare sempre lo stesso schema. L’ossessione del dualismo. Ora è Renzi contro Letta e il giorno dopo è Letta contro Renzi. Basta ricordare i tormentoni del passato per accorgersi che qualcosa del genere ha dominato perennemente l’immaginazione della sinistra. Talvolta in una spirale autodistruttiva. Anzi, quasi sempre. Nel Pci erano ufficialmente proibite le correnti. E la guerra interna tra le diverse «anime» (si doveva dir così, per evitare la parolaccia «corrente», contraria allo spirito e alle liturgie del centralismo democratico) si incarnavano in personalità contrapposte che, specialmente dalle tribune congressuali in cui si apprezza la bravura oratoria dei leader, dividevano emotivamente il partito: Giorgio Amendola e Pietro Ingrao, per esempio, con le schiere degli «ingraiani» e degli «amendoliani». Ma poi c’era il segretario a «fare sintesi» e il dualismo si smussava, non produceva spaccature, non si ossificava in uno scontro permanente. Nella Dc invece, le correnti erano talmente forti da imprigionare i conflitti tra i «cavalli di razza». Poi, con la Seconda Repubblica e la crisi verticale dei vecchi partiti, il dualismo sembra diventare lo scoglio inamovibile su cui si infrangono progetti, speranze, buoni propositi.

Il dualismo tra Walter Veltroni e Massimo D’Alema è diventato addirittura un genere letterario: su di esso sono state scritte tonnellate di articoli. Due caratteri, due personalità. Due modi di vedere contrapposti, due immagini. Niente di male, in linea assoluta. Ma quando la ferita non si rimargina mai, si rischia l’infezione. E la cronicizzazione. Lo scontro politico, culturale e caratteriale tra Veltroni e D’Alema ha poi dominato gli anni della sinistra al governo e della sinistra all’opposizione. Sembrava un duello interminabile, anche se poi gran parte dell’opinione pubblica di sinistra è diventata insofferente a un dualismo così ossessivo. Perché intanto altrui duelli, altri dualismi hanno calcato la scena dell’autolesionismo di sinistra nel corso di questi venti anni. Per esempio il dualismo tra uno dei protagonisti del duello storico, Massimo D’Alema, e Romano Prodi. Nel ‘96 il dualismo sembrava essere disciplinato e canalizzato in questo modo: a Prodi il governo, a D’Alema la Commissione bicamerale per le riforme istituzionali. Niente, la ragionevole separazione delle carriere non funzionò. Fallita la Bicamerale, il dualismo si riaccese fino ad arrivare nel ‘98 al famoso ribaltone che portò D’Alema a Palazzo Chigi estromettendone Prodi, a sua volta in partenza per la Commissione Europea. Fu un trauma, uno strappo. E si sa poi come andò a finire: con la sconfitta storica della sinistra nel 2001.

Ma la lezione non è stata definitiva. Si decise di far confluire in un unico partito i Ds e la Margherita proprio per disinnescare il dualismo tra le due anime del centrosinistra. Ma con la nascita ufficiale del Pd, nel 2007, un inevitabile dualismo si ripropose, stavolta tra il leader del neonato Partito democratico Walter Veltroni e Romano Prodi, logorato al governo da una coalizione rissosa e senza requie. Anche lì, il risultato non fu brillante. E certamente non fu brillante il risultato conseguito da Pierluigi Bersani nelle elezioni del 2013 dopo essersi sfiancato (ormai «spompo», a detta del sindaco di Firenze) in un duello feroce con Matteo Renzi per le primarie. Oggi di nuovo una tensione palpabile quotidiana tra Renzi, che ha stravinto le primarie per la segreteria del Pd, ed Enrico Letta, che è diventato capo del governo occupando la carica di vicesegretario di quello stesso partito. Una ossessione. Una questione di istinto? L’istinto a farsi del male.

07 febbraio 2014
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Pierluigi Battista

Da - http://www.corriere.it/politica/14_febbraio_07/da-amendola-ingrao-veltroni-d-alema-l-eterna-sindrome-dualismo-sinistra-e6888af0-8fe1-11e3-b53f-05c5f8d49c92.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Non c’è nessuna deriva autoritaria Il complesso del tiranno
Inserito da: Admin - Aprile 04, 2014, 04:50:10 pm
Non c’È nessuna deriva autoritaria
Il complesso del tiranno

Di PIERLUIGI BATTISTA

Difficile spiegare a uno straniero dell’Occidente liberaldemocratico che la fine del bicameralismo perfetto, fortunatamente sconosciuto nel suo Paese, sia visto in Italia come l’anticamera di una mostruosa «deriva autoritaria». O che un ragionevole rafforzamento dei poteri del capo del governo sia il primo passo dello sprofondamento negli abissi di un regime antidemocratico. O che l’abolizione delle Province sia l’avvio di una ipercentralizzazione tirannica dello Stato che soffoca ogni autonomia locale. Difficile spiegare i vibranti appelli contro la riforma radicale del Senato, la psicosi di una cultura così impaurita e paralizzata dallo spettro del «regime autoritario», da vedere pericoli di dispotismo in riforme istituzionali che altrove, all’interno di democrazie consolidate e sicure di sé, appaiono semplicemente normali.

Ovviamente, nel merito del pacchetto di proposte di riforme costituzionali che Matteo Renzi ha voluto intestarsi si può e si deve discutere, ci mancherebbe. Ma spingere, dopo decenni di dibattiti inconcludenti, sul tasto dell’«allarme democratico» e della «Costituzione violentata» rivela l’impantanamento in uno schema mentale squisitamente conservatore che ha impedito sin qui di avviare le riforme istituzionali, di incardinarle in un progetto razionale, senza il terrore del cambiamento e la difesa cieca di un assetto immutabile.

I nostri padri costituenti avevano ragione ad avere paura. Venivano da vent’anni di dittatura. Disegnarono un sistema in cui nessuno potesse vincere mortificando le minoranze, come era accaduto con il fascismo. Avevano il «complesso del tiranno», come dicono i costituzionalisti, e crearono un edificio istituzionale dominato dalla mediazione, dal bilanciamento estremo, dall’equilibrio perfetto, dalla lunghezza dei tempi di riflessione. Ma con il passare del tempo, e mentre questo sistema di equilibri perfetti diventava l’alibi di ogni immobilismo, l’incancrenirsi del «complesso del tiranno» ha impedito la modifica, anche la più lieve, in senso «decisionista». Da notare che gli stessi costituenti avevano previsto, regolando ogni modifica del testo costituzionale con apposite procedure di garanzia, che si potesse mutare la legge fondamentale della nostra Repubblica, almeno nella sua seconda parte, «istituzionale», pur lasciando intatta la prima, quella dei principi. Ma con il tempo si è sedimentata una distorsione conservatrice con connotati quasi religiosi di omaggio e venerazione del testo costituzionale («la Costituzione più bella del mondo»), una mistica e una sacralizzazione dello status quo che hanno portato alla scomunica tutti quegli esponenti politici (da Fanfani a Craxi, da Cossiga a D’Alema, da Berlusconi fino allo stesso Matteo Renzi) che si sono impegnati in un modo o nell’altro nella proposta di riformare le nostre istituzioni.

«Deriva autoritaria» è stata la formula magica di questa scomunica. Non la discussione sui singoli punti delle riforme, ogni volta opinabili e migliorabili, ma l’idea stessa che si possa ritoccare in una direzione più vicina al resto delle democrazie occidentali il nostro assetto istituzionale. Modificare la Costituzione è diventato «stravolgere la Costituzione». Ogni riforma «un attentato alla democrazia». Ogni semplificazione un annuncio di pericoloso «autoritarismo». Un pregiudizio difficile da superare. Gli accorati appelli di questi giorni ne sono una testimonianza.

1 aprile 2014 | 07:45
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_aprile_01/complesso-tiranno-949f1f6e-b95e-11e3-92e9-a78914a8c77a.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Ha portato una ventata di nuovo. Ma ...
Inserito da: Admin - Aprile 10, 2014, 06:00:52 pm
Ha portato una ventata di nuovo. Ma conserva il tipico fastidio italico per chi la pensa diversamente
Se Renzi innova anche il lessico ma è ossessionato da gufi e rosiconi
Gli attacchi (non originali) del rottamatore a «parrucconi» e «disfattisti


di Pierluigi Battista

Matteo Renzi ha il grande merito di aver portato una ventata di innovazione. Nella politica. Nello stile pubblico. Nella modernità dei riferimenti culturali. Nella composizione anagrafica del governo. Anche nel lessico. Con qualche dolorosa eccezione, però. Quando Renzi accusa i suoi critici di voler «remare contro» non sente che l’ha già detto qualcuno? Non percepisce forse il contrario dell’innovazione, un tuffo nel passato, un sapore di già detto, qualcosa che abbiamo già abbondantemente sentito in questi anni di Seconda Repubblica e anche prima, un tic mentale che identifica nel dubbioso, nel perplesso, non sia mai nell’oppositore, un sabotatore, un nemico della Patria? Il suo collega di governo Franceschini ha già riesumato la triste e bellicosa categoria del «disfattista». No, già dato. Occorre innovare di più: anche nel linguaggio.

E invece la sana spavalderia, il ritmo arrembante, l’energia che sprigiona dalla persona del giovane presidente del Consiglio ogni tanto, nella loro
Ci sarà pure la possibilità che qualche obiezione sia mossa da qualche buona intenzione e che non debba essere messa a tacere dal cerchio magico renziano precipitazione, appannano gli usi buoni del linguaggio. Come è possibile che chi, legittimamente e giustamente, chiede quali siano le coperture finanziarie per ridurre il cuneo di 80 euro a dieci milioni di italiani, venga additato al pubblico scherno come un «gufo». E chi è perplesso su questa particolare riforma del Senato deve essere per forza bollato come uno «che rema contro»? Ci sarà pure la possibilità che qualche obiezione sia mossa da qualche buona intenzione e che non debba essere messa a tacere dal cerchio magico renziano pronto a indossare i panni del neo-arditismo giovanilista: «parruccone». Oppure prevale il modo manicheo: chi è con Renzi con entusiasmo è un patriota, chi obietta è un riottoso che «gufa» contro la Nazione, deve essere per forza un frenatore, insensibile all’alacre attivismo di chi si spende con tanta generosità alla guida del governo? Occhio, perché i «regimi» (linguistici) possono cominciare anche così, malgrado le migliori intenzioni.

Renzi fa bene ad accelerare, a imprimere un ritmo che metta fine alle inconcludenze del passato, alle infinite discussioni che paralizzano ogni attività e impediscono ogni riforma. Ma farsi qualche domanda non dovrebbe essere deprecata come malsana e patologica inclinazione «antidemocratica». C’è poi l’orribile predominio di una nuova parola, un tempo adoperata nella suburra romana e oggi assurta a sublime categoria politico: «rosicone». Rosicone è chi rosica, è chi gode delle disgrazie altrui ed è corroso («roso»: rosicone) da un’insana voglia di augurarsi l’insuccesso di chi merita successo. Ecco, un fiorentino orgoglioso, perché chi parla un buon italiano dovrebbe manzonianamente immergersi nell’Arno, non dovrebbe cedere al plebeismo del «rosicone». Anche «uccellacci del malaugurio» non va bene per niente. È vecchio, non è giovanile. È superstizioso, non è moderno.

Dubitare che dalla spending review annunciata vengano tutti i denari per le misure annunciate non è augurarsi il malaugurio, è essere realisti. E se alcune cose
Dubitare che dalla spending review arrivino tutti i denari necessari per le misure annunciate non è augurarsi il malaugurio, è essere realisti annunciate non possono essere realizzate (il piano di edilizia scolastica rimandato, per esempio) non è perché qualche «gufo» l’ha tirata, ma più prosaicamente perché i soldi non bastano; lo dice la contabilità, non chi «rosica». Ecco, «rosicare» va bene per una curva, non per le opinioni politiche. Si «rosica» se la squadra odiata o temuta miete successi, non si «rosica» se si avanzano dubbi sulla fattibilità di mirabolanti progetti. Se poi si disseppellisce il luogo comune trito e consunto del «disfattismo» allora la democrazia e la pluralità di opinioni cominciano a venir percepite come un oltraggio. Un tradimento. E infatti il «disfattismo» diventa centrale nelle guerre quando la trasparenza di un dibattito libero e democratico è destinata ad appannarsi. Mentre invece Matteo Renzi vuole fare le riforme, non la guerra. Vuole realizzare programmi ambiziosi, non mettere il bavaglio (morale) a chi dissente. Anche lui è stato in minoranza e da lì ha combattuto una battaglia coraggiosa. Ora che è maggioranza non ha bisogno di umiliare le opinioni dissenzienti e concorrenti. Non sono «gufi», sono solo in cerca di risposte convincenti. Che male c’è? Domanda, non «rosicata».

10 aprile 2014 | 11:10
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_aprile_10/se-renzi-innova-anche-lessico-ma-ossessionato-gufi-rosiconi-ded59f68-c08e-11e3-95f0-42ace2f7a60f.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA La stagione dei rancori
Inserito da: Admin - Aprile 13, 2014, 05:51:02 pm
La stagione dei rancori
I tormenti di Bonaiuti, l’abbandono di Dell’Utri, i casi Fitto e Scajola, la minaccia di divisione in Campania, le dichiarazioni di Francesca Pascale, il cerchio magico

Di Pierluigi Battista

Gli esponenti del centrodestra italiano hanno ragione quando dicono che troppe volte è stata prematuramente annunciata la fine politica di Berlusconi, con regolare e clamorosa smentita dei fatti. Sperano che sia così anche questa volta. Nelle stanze sature di apprensione di Forza Italia si augurano che l’emorragia di consensi sia tamponata dall’ennesima e imprevedibile trovata ad effetto del loro vulcanico leader. Sperano che sia solo un caso l’abbandono di Alfano. Un altro caso i tormenti dell’ex braccio destro Paolo Bonaiuti. Un altro caso ancora l’istinto di abbandono di Dell’Utri. Un episodio isolato la minaccia cosentiniana di secessione in Campania. Il caso Fitto. Il caso Scajola. Lo spettacolo da corte stanca offerto dalle dichiarazioni della signorina Pascale. Il caso del cerchio magico. Il caso dei sondaggi che pronosticano il precipizio. Il caso dei fuorionda in cui si descrive un leader disperato per l’abbraccio di Renzi. Tanti casi che per miracolo Berlusconi dovrebbe far sparire grazie alla sua prodigiosa capacità di recupero. Come sempre. Ma se stavolta fosse diverso?

Elettorato sconcertato e angosciato
Stavolta l’elettorato di Forza Italia è sconcertato e angosciato. L’infatuazione del leader per Renzi può essere il preludio di un esodo verso quello che in condizioni normali dovrebbe rappresentare l’avversario storico del centrodestra. Stavolta si profila un nuovo bipolarismo per le elezioni europee, come se la partita avesse per protagonisti Renzi e Beppe Grillo, con Berlusconi comprimario. Affiorano addirittura tentazioni di modifica della legge elettorale concordata perché il ballottaggio potrebbe escludere il partito di Berlusconi, terzo dietro i due contendenti maggiori: una catastrofe. La leadership berlusconiana è stanca, appannata, comprensibilmente ossessionata dallo stato d’animo cupo di un leader che non sa più trasmettere dinamismo, ottimismo, forza di volontà. Il ceto dirigente di Forza Italia è minato da contrasti personali animati da astio e rancore reciproci, ed è difficile rintracciare in quel partito le tracce di un partito, se non coeso, almeno geloso di sé e della propria identità.

Moderati
Problemi interni a Forza Italia? Non solo. Perché il mondo dei «moderati» italiani (sempre che abbia ancora senso questa locuzione) non può non avere più rappresentanza, voce, persino ambizioni di governo. E non merita di essere confinata in un recinto minoritario e marginale. Sono mesi oramai che dai vertici di Forza Italia non esce una parola che non sia sulle vicissitudini giudiziarie del suo leader o sui malumori scaturiti dal patto con Renzi per le riforme istituzionali. Non una parola che si rivolga, come è accaduto per questi vent’anni, al ceto medio, al mondo del lavoro autonomo, dei piccoli imprenditori, delle partite Iva, dei commercianti. Non una parola chiara sulle pulsioni che agitano il centrodestra in Europa e che saranno al centro dello scontro elettorale. La crisi di Forza Italia sembra oggi travolgere il suo gruppo dirigente. Che non può limitarsi a reagire affidandosi allo stellone del leader e alla sua sin qui prodigiosa forza di recupero. E che forse dovrebbe interrogarsi su se stessa anche prima dei risultati elettorali che il 25 maggio saranno attesi soprattutto per l’esito dello scontro tra Renzi e Grillo. Anche i miracoli non sono infiniti.

12 aprile 2014 | 08:27
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_aprile_12/stagione-rancori-2c66008a-c1ff-11e3-b583-724047d41596.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Dalle magliette a righe ai «blue bloc»...
Inserito da: Admin - Aprile 15, 2014, 05:51:46 pm
Dalle magliette a righe ai «blue bloc» La seducente estetica della rivolta
Lottano contro il dominio dell’immagine ma ne sono gli abili figli

di Pierluigi Battista

Si sono messi i giubbini blu, per il cambio di stagione della guerriglia urbana. Fino a ieri portavano il nero: i black bloc. Ma da ieri si impone il blu: i blu bloc (o anche in versione sofisticatissima: blue bloc). La violenza seducente, charmant, attraente. Dicono di ribellarsi al dominio dell’immagine, ma ne sono figli, anche molto abili. Un tempo a organizzare la piazza c’erano i servizi d’ordine. Oggi, dietro le quinte, si muove forse un team di coreografi?

L’errore di chi sottovaluta la violenza urbana è che si tratti di cose vecchie, residui di secoli passati. Sui contenuti e gli slogan, forse: fossili di epoche tramontate, cascami iper-ideologici che riaffiorano da Ere geologiche sepolte. Ma sul piano delle forme, delle mode, dell’immagine, della resa mediatica no, i guerriglieri sono modernissimi e capaci di attrarre stuoli di ammiratori. A Roma, mentre devastavano la città, sabato scorso i violenti sembravano calcare una passerella di moda. Il loro blu attirava fotografi e cameraman. Sanno benissimo che nell’epoca del telefonino di massa, le immagini della guerriglia urbana saranno riprodotte in un numero incalcolabile. E dunque bisogna sfidare l’usura del tempo, cambiare gli accostamenti cromatici, fare restyling, offrire un’estetica nuova. Curano i minimi particolari. Sul piano acustico qualcosa di molto rumoroso e scioccante: da qui l’uso dei petardi che fanno botti micidiali (e vittime tra chi li lancia, come il guerrigliero gravemente ferito a una mano). Poi molti fumogeni multicolori: fucsia, gialli, rosa, blu, verdi, in un caleidoscopio cromatico che può degnamente sostituire le fiamme provocate dalle Molotov, i blindati che prendono fuoco, le barricate fumiganti. Dicono che il «sistema» è il loro peggior nemico. Ma loro fanno parte con grande agio del sistema dei media e delle immagini. Non aspettano altro che le telecamere, per questo devono dare qualcosa di nuovo e sorprendente: tante giacca a vento blu, e il gioco è fatto.

Nella storia
L’estetica della rivolta è un fenomeno relativamente nuovo nella storia delle violenze di piazza. Nella Genova del luglio 1960, in rivolta contro il congresso del Msi allora nella maggioranza di governo con Tambroni, la scena fu presa dai ragazzi con le «magliette a righe» (o «a strisce», ci sono differenti versioni storiografiche). Fu una svolta importante nella storia italiana. Ma quelle magliette erano solo ciò che mettevano i ragazzi nel caldo estivo. E anche gli scontri, immortalati da poche macchine fotografiche, quasi mai dalle telecamere, avevano come armi ciò che si trovava sul selciato, con disordine e senza regia. L’uniforme della guerriglia urbana prende invece piede nelle manifestazioni degli anni Settanta. Lì la violenza prevedeva precise liturgie. Nelle «manifestazioni pacifiche e di massa» non c’era traccia di pose militaresche. In quelle ribattezzate «militanti», si capiva che le cose in piazza avrebbero preso una certa piega. Le prime file indossavano caschi, fazzoletti sul volto, paniere (preferibilmente borse di Tolfa) colmo dell’armamentario richiesto dalle circostanze, limoni anti-lacrimogeni compresi, allineati da nodosi bastoni appena agghindati con piccoli drappi rossi e chiamati familiarmente «Stalin». Anche allora c’era chi si sdilinquiva per i passamontagna calati, ma l’estetica della rivolta era solo agli inizi.

La violenza sexy
Quando la violenza di piazza torna, sull’onda delle proteste no-global che, da Seattle in poi, accompagnano i vertici internazionali, la società dello spettacolo ha rotto tutti gli argini. E i guerriglieri si ripresentano con nuove uniformi, tenute che fanno impazzire fotografi e telecamere, combinazioni cromatiche che affascinano i media. Ecco le tute bianche, con i loro scudi di plexiglass e i caschetti da minatore, gialli o arancione, a scelta. Ed ecco i temibili black bloc, che si muovono con seducente agilità, snelli, magri, con il nero che slancia. A Genova, quando fanno la loro apparizione e bucano lo schermo, impressionano tutti per la loro eleganza. E mentre i più robusti sfasciavano macchine, vetrine e bancomat, gli altri addirittura si disponevano in cerchio, con i tamburi a scandire ritmicamente le gesta dei teppisti che distruggevano metodicamente la città, ben lontani dalla celeberrima «zona rossa». Poi se ne andavano, gettando nei cespugli le loro magliette nere per mimetizzarsi con il corteo. Ora è l’epoca dei blu bloc, grandi venditori della loro merce nel mercato delle immagini, impresari di moda abilissimi. Attenzione a non sottovalutarli. Quando la violenza diventa sexy nascono i problemi peggiori.

14 aprile 2014 | 10:16
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_aprile_14/dalle-magliette-righe-blue-bloc-seducente-estetica-rivolta-7a99cd76-c3a9-11e3-a057-b6a9966718ba.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA L’Occidente e gli orrori dei CONFLITTI Con lo sguardo posato
Inserito da: Admin - Maggio 03, 2014, 12:01:27 pm
L’Occidente e gli orrori dei CONFLITTI
Con lo sguardo posato altrove

di Pierluigi Battista

E l’Occidente, e l’Italia, e noi, che diciamo di fronte alla spirale di orrori che stanno martoriando la Siria? Possiamo fingere, per comodità, che nulla accada. Possiamo cercare di cancellare il disgusto per le fotografie (sempre che siano vere) degli uomini trucidati e crocifissi dalla guerriglia jihadista. Oppure ignorare i massacri del regime di Assad e lo smantellamento solo parziale delle armi chimiche ancora a sua disposizione. Ma se fingiamo di non occuparcene, la realtà si accorgerà di noi, e la stazione di Milano si riempirà, come sta accadendo, di profughi siriani in fuga disperata. Pensiamo sempre che, in fondo, la campana stia suonando per qualcun altro. E invece suona anche per noi.

In Siria non sappiamo nemmeno per chi parteggiare. Siamo orripilati dalle carneficine di Assad (120.000 morti, i cittadini di Aleppo ridotti alla fame). Ma a Maalula, il cuore della presenza cristiana in Siria, i guerriglieri anti Assad si stanno macchiando di stragi terrificanti e ancor oggi tredici suore sono nelle mani dei ribelli: e questa non è una foto che potrebbe essere manipolata dalle opposte propagande. Parliamo di democrazia, però è come se l’alternativa fosse tra un dispotismo feroce ma rassicurante per gli equilibri di cui vorremmo continuare a beneficiare, e un integralismo fanatico che potrebbe portare a una tirannia ancora più mostruosa. Un’alternativa impossibile. Come al Cairo, dove i Fratelli Musulmani al potere stavano gettando l’Egitto post Mubarak nelle fauci di un oscurantismo senza speranza, e dove i militari che si sono ripresi il potere con un golpe hanno rimesso in piedi un regime oppressivo, comminando centinaia di condanne a morte, al termine di processi farsa, per l’organizzazione degli estremisti musulmani. Per chi scegliere? Come nella Libia post Gheddafi. Come in Arabia Saudita, che l’Occidente si tiene stretta per il suo ruolo «stabilizzante», ma dove le donne sono perseguitate, i cristiani condannati a morte se trovati in possesso di un rosario o di un crocefisso.

Con chi stare? Intanto, prima di trovare una risposta che non verrà mai tra le convulsioni di quelle guerre e di quel mondo squassato dai conflitti, i profughi vengono a cercare qui protezione, alimenti, sopravvivenza. Non potremo voltare la testa per molto tempo. L’Occidente non sa più che fare. Non ha più una strategia. Siamo passati dall’«ingerenza democratica» all’«indifferenza democratica».

Le poche forze democratiche che si muovono nel Medio Oriente e nel mondo islamico sono lasciate sole. L’opposizione democratica e non qaedista ad Assad è senza armi, senza voce, senza una sponda nelle cancellerie sonnecchianti dell’Europa e dell’Occidente. Anzi, l’Europa mostra in questi frangenti tutta la sua disperante inconcludenza e irrilevanza, come del resto sta capitando sul caso ucraino. Se in Iraq i cittadini si recano alle urne, anche sfidando i terroristi che odiano le elezioni, l’indifferenza è totale. Pensiamo di essere più astuti e di far passare la tempesta. Ma la tempesta non si placherà ai nostri confini. E li scavalcherà, mentre noi tenteremo di chiudere gli occhi ancora una volta di fronte a una foto di uomini crocifissi.

3 maggio 2014 | 08:05
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_maggio_03/con-sguardo-posato-altrove-1f944c30-d281-11e3-8ae9-e79ccd3c38b8.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Perché non tolleriamo il pensiero diverso
Inserito da: Admin - Maggio 15, 2014, 11:05:01 am
Particelle elementari
Perché non tolleriamo il pensiero diverso
Le proteste contro Alain Finkielkraut e le chiusure verso Ayaan Hirsi Ali

Di Pierluigi Battista

L’importante è non abituarsi all’idea che siano ovvie le veementi e indignate proteste che in Francia si sono sollevate pretestuosamente per la nomina di un intellettuale raffinato come Alain Finkielkraut ad accademico di Francia. Non sono ovvie: sono un’ennesima manifestazione di insofferenza per un pensiero diverso, meno corrivo, meno propenso ad adagiarsi alle prescrizioni di chi si considera l’unico monopolista autorizzato del Bene. Come non è così scontato che a una vittima del fanatismo fondamentalista come Ayaan Hirsi Ali vengano sbarrate le porte dell’università di Boston, dove un sinedrio di insigni professori, paladini del politicamente corretto, si sono piegati al diktat degli estremisti che non volevano contaminare le aule accademiche con la ventata di libertà culturale che la Hirsi Ali avrebbe trascinato con sé. Come non è così nell’ordine naturale delle cose che Brendan Eich, manager di Mozilla Firefox, nell’avanzata e libertaria Silicon Valley, sia stato costretto a lasciare il suo importante posto di lavoro per aver offerto un contributo finanziario personale al referendum californiano contro l’istituzione dei matrimoni gay. Non è normale che, ispirato dalle buone intenzioni e al servizio di una Causa buona e giusta, si stia addensando una nuova intolleranza dal sapore maccartista verso chi è sospettato di sostenere opinioni contrarie all’ondata maggioritaria.

Non è possibile che si debba pagare per via delle opinioni liberamente espresse, anche se queste opinioni risultino irritanti, ostili al senso comune, iper-ideologiche di segno opposto. Non c’è bisogno di scomodare lo pseudo-Voltaire che sonnecchia in ogni banalissimo discorso pubblico sulla tolleranza, per capire che nel nome del Bene si possono fare disastri irrimediabili. E che non è giusto condannare al silenzio della prudenza, all’omertà del conformismo le opinioni diverse che rischiano di essere zittite dal fragore dell’indignazione a comando, dai sospetti cervellotici, dall’incapacità di capire che non solo le opinioni diverse sono le benvenute, ma che una società è più ricca, più vivace, più solida, se favorisce il libero conflitto delle idee.

E che tenere sempre all’erta l’arsenale delle solite accuse, diventare inquisitori per un giorno, accodarsi al coro delle belle anime oltraggiate dall’orco cattivo che posa dissentire favorisce la causa della stupidità collettiva, non quella del bene. E che non saper ammettere che Alain Finkielkraut ha tutti i titoli culturali e morali per meritare quel posto nella gloriosa Accademia francese chiude e soffoca il cervello in un recinto di ossessione claustrofobica, dove viene considerato pericoloso (e dunque simbolicamente da mettere al rogo) ogni sia pur lieve deragliamento dai binari prefissati da una Norma prepotentemente imposta. E che dunque questa parodia di nuova, piccola inquisizione è quasi più patetica, perché allestita per favorire le idee più nobili. Che ne vengono deturpate, irrimediabilmente.

12 maggio 2014 | 12:30
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_maggio_12/perche-non-tolleriamo-pensiero-diverso-b6cbd0ce-d9bf-11e3-8b8a-dcb35a431922.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Grillo ha varcato con freddezza un’altra soglia
Inserito da: Admin - Maggio 18, 2014, 05:23:58 pm
Parole e strategie
Grillo ha varcato con freddezza un’altra soglia

Di PIERLUIGI BATTISTA

Ieri, nel suo comizio a Torino, Beppe Grillo ha fatto qualcosa di più che insultare, attività che peraltro non gli è nuova. Ha invece officiato il rito dell’insulto assoluto, dell’aggressività senza limiti e senza risparmio. Le campagne elettorali spesso sono il teatro della virulenza polemica, e forse non può essere diversamente. Ma la differenza è che Grillo non vuole vincere le elezioni incendiando i toni nei comizi, come si fa di solito, ma annichilire il nemico con un lessico deliberatamente oltraggioso, davanti a una folla plaudente e sempre più numerosa. Non conquistare più voti, ma mandare un messaggio ultimativo a chi si oppone alla sua marcia trionfale. Non un lessico rivoluzionario, ma una fraseologia insurrezionale, minacciosa. Fisicamente minacciosa, quando ha invitato la Polizia a non proteggere più i politici: «Alla Digos sono già con noi, alla Dia sono già con noi, ai Carabinieri sono già con noi: non date più la scorta a questa gente». Lasciateli soli e inermi di fronte alla folla inferocita. La strategia della paura, altro che toni troppo elevati.

A Torino Grillo ha oltrepassato una soglia. Ha premuto tutti i tasti del linguaggio cruento. Ha saggiato l’umore della sua gente, che ama queste performances così teatralmente prive di autocontrollo. Dopo aver provato nei giorni precedenti incursioni insensate sulla Shoah, ieri ha insistito sull’ingiuria dal sapore storico, per cui Martin Schulz, se non «ci fosse stato Stalin, oggi sarebbe con una croce uncinata al braccio». Per poi passare, tra gli sghignazzi dei seguaci, all’oscenità esplicita, appena appesantita da una goliardia senile, accusando Renzi di essere andato a «dare due linguate a quel c...one tedesco della Merkel». Per poi andare agli improperi minacciosi contro l’inno di Mameli, in cui i fratelli d’Italia sono solo «i piduisti, i massoni, la camorra» e perciò meritevole di essere fischiato negli stadi di Genny ‘a carogna. Per finire con la promessa solenne che in futuro verranno celebrati processi sommari («processo pubblico», popolare) contro i «giornalisti, i politici, gli imprenditori che hanno rovinato questo Paese». Per ora, per carità, solo un «verdetto virtuale»: «uno sputo». Virtuale, certo. Come se fosse diverso il messaggio, l’ingiunzione a «sputare» sui nemici in una gogna che, nei casi migliori, mima una condanna esemplare da offrire in pasto al popolo in collera, nei casi peggiori anticipa condanne più corpose e meno virtuali.

Nel linguaggio della campagna elettorale, le parole torinesi di Grillo segnano un salto, inaugurano qualcosa di decisamente più brutale e feroce di tutti gli insulti più consueti e che oramai hanno creato uno stato di quasi assuefazione. È una promessa di purificazione, da attuare attraverso un uso politico della rabbia in cui i bersagli vengono indicati al pubblico ludibrio, «processati» come responsabili e addirittura venduti allo straniero, criminalizzati in blocco e dunque additati come obiettivo da colpire. Senza scorta, perché chi tra le forze dell’ordine dovrebbe tutelarne l’integrità si sarebbe già schierato con i rivoltosi. Un linguaggio da insurrezione, non un linguaggio da campagna elettorale. Un linguaggio in cui non si vince una normale competizione, ma si combatte in un Armageddon finale che non può non risolversi con la disfatta, anche fisica, di chi soccombe e viene sottoposto alla giustizia spietata dei vincitori. Qualcosa che va al di là delle intemperanze verbali che abbiamo conosciuto (e di cui, per esempio, la Lega è stata in passato campione assoluto). Una dismisura ricercata e perseguita con freddezza. Una sintonia con un’opinione pubblica esasperata e che accoglie, come si vede nei comizi sempre più affollati di questi giorni, le sparate di Grillo con entusiasmo e parossismo. In una spirale che andrà sicuramente oltre il 25 maggio, in cui le elezioni sono solo una tappa di una guerra senza fine.

18 maggio 2014 | 08:55
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_maggio_18/grillo-ha-varcato-freddezza-un-altra-soglia-7147ff90-de57-11e3-a788-0214fd536450.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Processi in tempi certi: ricetta anticorruzione
Inserito da: Admin - Giugno 10, 2014, 11:18:14 am
Particelle elementari
Processi in tempi certi: ricetta anticorruzione
È vitale avvicinarsi agli standard degli altri Paesi europei

di Pierluigi Battista

Certo, può sembrare banale sostenere che l’unica risposta efficace alla corruzione è una giustizia che rispetti tempi civili e stabilisca rapidamente chi è colpevole e chi è innocente. Ma comunque non più banale della rituale rivendicazione di nuove «regole» per un Paese che annega nelle regole cervellotiche in cui le richieste di permessi, autorizzazioni, nulla osta, commesse, subappalti, concessioni, certificazioni moltiplicano le occasioni di ingrassare l’apparato della famelica intermediazione politica. E non più banale della liturgica riesumazione della «questione morale», secondo la quale invece di fare leggi efficaci per neutralizzare il malaffare, il compito della politica è quello di aspettare che gli esseri umani si facciano santi. Campa cavallo. Nel frattempo, resta la prosaica soluzione: rendere i tempi della giustizia decentemente umani, secondo gli standard degli altri Paesi civili.

Anche perché, occultando la questione dei tempi certi e brevi della giustizia o relegandola ipocritamente nella sfera delle cose impossibili, si finisce per generare mostri culturali. Come la proterva aggressività forcaiola verso il principio civile e costituzionale della presunzione di innocenza, che diventa la bandiera dei nuovi Bracardi dell’opinionismo nostrano («in galeeeraaa»), mentre tacciono i Zagrebelsky e le Spinelli, vestali a giorni alterni della Costituzione violata. O come la richiesta di abbassare bruscamente le garanzie dello Stato di diritto per indagati e imputati, a cominciare dal desiderio morboso e autoritario di abolire la prova d’appello. O come la risibile ricerca di forme anticipate di sanzione politica; anticipate rispetto a una sentenza che si sa non arrivare mai e che dunque dobbiamo eludere. E dunque la grottesca sequenza di proposte per fissare il momento esatto in cui mandare via «a calci nel sedere» persone ancora tutelate in linea teorica dalla presunzione di innocenza: dopo l’avviso di garanzia, dopo il rinvio a giudizio, dopo la condanna di primo grado, o addirittura, quando un nome dovesse uscire in una delle migliaia di intercettazioni telefoniche di cui, come ha confermato di recente un rapporto Vodafone, l’Italia detiene il triste primato?

No, meglio una vecchia ma solida banalità liberale: i tempi della giustizia devono essere certi e brevi. Solo così, dopo una sentenza giusta e ottenuta in tempi civili, si saprà con certezza intransigente quali politici estromettere dalle istituzioni, e quali imprese non potranno partecipare ad altri appalti. Solo così sarà salvaguardata la reputazione degli innocenti eventualmente coinvolti e si potrà appurare se chi indaga ha lavorato bene, cercando le prove, oppure si è accontentato di teoremi destinati a sbriciolarsi al vaglio giudiziario. Quindi, subito processi nei tempi giusti: una riforma da fare subito. Altrimenti, per fare più in fretta, copiare a scelta da uno qualunque dei Paesi civili: la giustizia italiana ne avrebbe da guadagnare.

9 giugno 2014 | 08:45
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_giugno_09/processi-tempi-certi-ricetta-anticorruzione-e16fe328-efa0-11e3-85b0-60cbb1cdb75e.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Il luogo comune incombe sulla politica
Inserito da: Admin - Giugno 10, 2014, 07:36:31 pm
LESSICO

I conformisti della discontinuità
Da «discontinuità» a «metterci la faccia».
Il luogo comune incombe sulla politica

Di Pierluigi Battista

I luoghi comuni del gergo politico italiano sono misteriosi come le barzellette: si diffondono a una velocità impressionante, ma non si sa mai dove nascano e perché proprio in quel momento.

Fatto sta che a leggere le interviste dei politici oggi alla ribalta, da Alessandra Moretti del Pd a Barbara Spinelli della tempestosa Lista Tsipras, sembra che sia scoppiata l’epidemia della «discontinuità». Tutti all’improvviso hanno scoperto la «discontinuità», invocano la «discontinuità», diventano testimoni della «discontinuità», malgrado il loro eccellente cursus honorum all’insegna della continuità. Ora vogliono, desiderano tutti insieme la «discontinuità». Fino a ieri ci «mettevano la faccia» di qua e ci «mettevano la faccia» di là. Sempre tutti insieme, perché la peculiarità del luogo comune politico che va di moda è che ad usarlo siano tutti insieme. Che saranno pure «discontinui» e ci «metteranno la faccia» temerariamente, ma restano pur sempre dei conformisti.

La Prima Repubblica produceva formule politiche con lentezza ma inesorabilmente. Le «convergenze parallele» restano testimonianza imperitura di una stagione in cui la politica se ne stava in un iperuranio di incomprensibilità, ma in cui le parole erano parte integrante di una liturgia. La liturgia dell’«arco costituzionale», il rito pagano del «governo balneare», la tentazione del «rimpasto», i significati occulti della «fedeltà atlantica», la magia della «verifica», l’attesa spasmodica del «governo di decantazione», i preliminari voluttuosi del «preambolo». Nella Seconda Repubblica, fino alla «discontinuità» attuale che forse ci traghetterà nella Terza, oppure nel niente, invece le logore formule della gergalità politica vuota e magniloquente sono diventate di rapidissimo consumo. Si immettono a getto continuo nel mercato dei luoghi comuni per poi scomparire con la stessa velocità con cui sono comparsi.

Il «governo del cambiamento» era il puro vuoto: usarlo significava dirsi disposti per il Pd a fare il governo insieme ai grillini, che di lì a un anno (cioè adesso) sarebbero diventati «squadristi». Nel lessico legnoso del centrodestra a un certo punto prese a usarsi senza misura il termine «responsabile». Che nel linguaggio corrente significa semplicemente essere e comportarsi con senso di responsabilità, ma che in quel lessico significava essere come l’onorevole Scilipoti, «responsabilmente» disposto a tenere in piedi un governo senza maggioranza parlamentare.

Sparito il «tavolo delle regole» che ha ammorbato per un paio di anni un dibattito politico sempre alla ricerca di formule da usare ossessivamente, restano impavide le «regole». Appena scoppia un caso giudiziario, cioè sempre, ecco l’invocazione immancabile delle «regole».

Fino a un momento prima si reclamava la semplificazione delle leggi, un minuto dopo ecco la richiesta di nuove «regole», che poi, in uno Stato moderno, altro non sono che le leggi. Ma non importa: lo scopo di un gergo è di confermare l’appartenenza a un gruppo, non la necessità di dire qualcosa di sensato.

«Metterci la faccia», che ha dominato il territorio («i territori», altra orribile espressione gergale) dei luoghi comuni, vorrebbe dire più o meno «esporsi», «non tirarsi indietro». Ma nella neo lingua è più un modo per comunicare di essere del gruppo, un metterci la faccia per dimostrare di essere tra quelli che possono dire «metterci la faccia».

«Discontinuità» è invece figlia di un’epoca che vuole novità. La logica del gergo prevede che si tenga conto di questa impellente necessità anagrafica. E infatti colpisce che mentre nel Pd, all’indomani dei ballottaggi non esaltanti, si invochino «facce nuove», anche in Forza Italia, dopo la batosta, che cosa si richiede? Anche qui: «facce nuove». Facce da «discontinuità». Ma quanto reggerà la «discontinuità»?

C’è chi prevede almeno il passaggio dell’estate. Ma quando esplose la moda del «divisivo», la scomparsa repentina del nuovo termine dimostrò l’estrema fragilità delle parole del gergo. Resiste coraggiosamente il suo opposto, il «condiviso». E non c’è «tavolo delle regole» all’insegna della «discontinuità» dove, «mettendoci la faccia», si richieda la «condivisione» di qualcosa. Torna invece prepotentemente, anche per effetto delle inchieste giudiziarie, la ripulsa del «Sistema». Una volta il Sistema era il bersaglio delle proteste giovanili, oggi delle carte dei giudici che indagano sul Mose. Non è più «la cricca», e nemmeno «la cupola». Però si accompagna alle «disponibilità», che sarebbero i favori elargiti non in denaro. Disponibilità che fa rima con discontinuità, ma che con discontinuità non dovrebbe avere nulla a che fare. Ma c’è bisogno sempre di nuovi luoghi comuni. Con la fine delle elezioni europee, scendono le quotazioni del gergale «populista» e anche la «deriva plebiscitaria» non se la passa affatto bene.

Bisogna trovare nuove parole. Che segnino, almeno per un po’, la «discontinuità». Mettiamoci la faccia.

10 giugno 2014 | 16:16
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_giugno_10/conformisti-discontinuita-1ad6c074-f06d-11e3-9b46-42b86b424ff1.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Insofferenti e dissidenti
Inserito da: Admin - Giugno 14, 2014, 10:38:21 pm
Insofferenti e dissidenti

Di PIERLUIGI BATTISTA

Il Pd è, con merito, il partito italiano a più alto grado di democrazia interna. Non si capisce perché voglia compromettere questo primato, conquistato anche grazie all’insofferenza autoritaria per il dissenso interno degli altri due partiti maggiori, con un banale ma sintomatico gesto di prepotenza nervosa nei confronti di senatori contrari al progetto di riforma del Senato disegnato nell’incontro al Nazareno tra Renzi e Berlusconi. Il Pd è sembrato sin qui coltivare anche un peculiare senso delle istituzioni. Non si capisce allora perché abbia superficialmente scambiato una commissione parlamentare per una sede di partito, estromettendone i senatori come se fossero militanti tenuti a una disciplina interna e non a esponenti delle istituzioni che non devono rispondere a un segretario di partito ma ai cittadini nel loro complesso. Ecco perché Matteo Renzi e i dirigenti del Pd a lui più vicini hanno commesso un duplice errore «epurando» i senatori Mineo e Chiti dalla commissione Affari Costituzionali facendo così in modo che si aggregasse una pattuglia di 14 «dissidenti» che si sono autosospesi in segno di solidarietà con i loro colleghi messi fuori d’imperio.

È molto verosimile che i senatori del Pd accantonati fossero mossi da una forma di conservatorismo culturale che in questi anni ha ostacolato qualsiasi riforma impantanandola in un vortice di veti e di inconcludenza. Ma se Renzi ha il merito di aver impresso una brusca accelerazione alle riforme istituzionali, facendole uscire dalla palude degli eterni rinvii, non si può neanche pensare che su un tema così delicato e costituzionalmente rilevante qualunque discussione sia equiparabile a un «sabotaggio», qualunque dissenso a un «tradimento», qualunque perplessità a un «veto». Bisogna far presto, e Renzi ha ragione a essere insofferente di freni e dilazioni che in passato hanno fatto inabissare ogni riforma. Ma non ci si può «impiccare a una data», l’espressione è dello stesso presidente del Consiglio, e dunque un mese in più per fare una riforma del Senato non raffazzonata e rabberciata non è la fine del mondo: la campagna elettorale si è conclusa in modo trionfale, non c’è più una data tagliola oltre la quale l’immagine riformista del governo e del Parlamento possa risultare intaccata.

Stupisce perciò che proprio Renzi, protagonista di una battaglia democratica nel Pd che lo ha portato ai vertici del partito e del governo, e dal 25 maggio anche con un formidabile consenso elettorale, si mostri così irritato dal manifestarsi di una minoritaria «fronda» contraria a un progetto di riforma del Senato peraltro ancora vago nei dettagli. Stupisce, dopo aver ingaggiato una furiosa polemica con Grillo, che non voglia tener minimamente conto dell’imperativo costituzionale che non pone nessun vincolo di mandato ai parlamentari, e meno che mai un vincolo alle decisioni della segreteria di un partito. Se c’è un problema irrisolto tra una segreteria plebiscitata e un corpo parlamentare eletto quando gli equilibri nel Pd erano altri, la soluzione non può che essere politica, senza scorciatoie disciplinari, messe al bando e bavagli preventivi. La pratica punitiva della messa ai margini può dare l’impressione di un ostacolo rimosso, di un impedimento messo in condizione di non nuocere. Ma non fa un favore al Pd perché produce una confusione tra ammirevole rapidità «decisionista», capacità di convincere e cancellazione per decreto di ogni dissenso.

13 giugno 2014 | 07:39
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_giugno_13/insofferenti-dissidenti-01f8f56a-f2b9-11e3-9109-f9f25fcc02f9.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA I magistrati e l’età pensionabile La mescolanza dei princìpi
Inserito da: Admin - Giugno 21, 2014, 10:44:44 am
I magistrati e l’età pensionabile
La mescolanza dei princìpi

Di PIERLUIGI BATTISTA

La riforma della Pubblica amministrazione annunciata dal governo rischia di incagliarsi. Ne stanno rallentando l’iter le proteste dei magistrati. I quali contestano con ardore l’abbassamento dell’età pensionabile che consentirebbe l’avvio del turnover nel pubblico impiego e l’immissione di forze giovani nei gangli dello Stato. Il governo ha già dichiarato che modulerà i tempi di attuazione del provvedimento per non lasciare traumaticamente sguarniti gli uffici giudiziari. Ma i magistrati insistono. E cercano di frenare, sinora con relativo successo. Bollano un normale avvicendamento come un attentato all’integrità della magistratura. Prefigurano conseguenze apocalittiche su un provvedimento di snellimento burocratico e generazionale. Resistono e ostacolano l’azione del governo. E nella trincea corporativa non esitano a scomodare princìpi sommi come «l’indipendenza» della magistratura: tutto questo solo per due anni di pensione anticipata.


Ovviamente, come del resto è già stato fatto, si può criticare un provvedimento che capovolge la ratio di una riforma delle pensioni che posticipava l’età pensionabile anche per arginare le spese dello Stato. Così come non c’è niente di male che l’organo sindacale dei magistrati, l’Anm, si disponga a difesa delle tasche e delle condizioni di lavoro di chi ha il diritto alle tutele che ogni lavoratore deve avere dalla sua in uno Stato democratico. Ma i magistrati non sono lavoratori come tutti gli altri. Lo sanno anche loro. E per non prestare il fianco alle critiche di chi li accusa di attestarsi in una difesa meschina dei propri interessi, mettono in campo in modo magniloquente allarmi sulla democrazia in pericolo e sulla magistratura calpestata. Le cronache raccontano che anche nel 2002 e nel 2006 i magistrati gridarono all’ «indipendenza» minacciata: ma in quei due casi il pericolo veniva dalla proposta di alzare l’età pensionabile, non già di abbassarla. L’ «indipendenza» non c’entrava niente, allora come adesso. Ma una potente corporazione ha fatto ricorso ai sacri valori della convivenza democratica per difendere lo status quo. Anche qualche mese fa, quando il governo Renzi per finanziare alcuni sgravi fiscali ha esteso ai magistrati il rispetto del tetto di 240 mila euro di retribuzione annua, l’Associazione nazionale magistrati ha invocato una sentenza della Corte costituzionale in cui veniva dichiarata perentoriamente una connessione molto apprezzata dal «partito dei giudici»: «L’indipendenza degli organi giurisdizionali si realizza anche con l’apprezzamento di misure di garanzia circa lo status dei componenti concernenti, oltre alla progressione in carriera, anche il trattamento economico». La mescolanza indebita di princìpi altisonanti con questioni più prosaiche di trattamento sindacale non alimenta certo le simpatie dell’opinione pubblica per una categoria che con la sua coriacea difesa di corpo rischia di iscriversi nel fronte della conservazione che paralizza l’Italia e le riforme di cui ha bisogno. E una riforma della Pubblica amministrazione non può inabissarsi per due anni di pensione anticipata. Che con l’indipendenza della magistratura non c’entra niente.

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19 giugno 2014 | 07:45
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_giugno_19/mescolanza-principi-c79b415c-f76d-11e3-8b47-5fd177f63c37.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA La fame feroce che ci mancherà
Inserito da: Admin - Luglio 18, 2014, 09:03:10 am
La fame feroce che ci mancherà
Antonio Conte non è stato un tecnico qualsiasi ma il simbolo della fuoriuscita da un inferno.
E ha incarnato una voglia incontenibile, una smania potentissima di rinascita

Di PIERLUIGI BATTISTA

Nel cuore bianconero Antonio Conte non è stato un tecnico qualsiasi che si cambia e si sostituisce come una camicia sgualcita, ma il simbolo della fuoriuscita da un inferno. Lo stile Juventus, che poi esiste più nel rimpianto della leggenda che nella storia vera, avrebbe richiesto modi più compassati. Nella sua natura sanguigna, nella sua rusticità esplicita e rivendicata, Conte ha incarnato una voglia incontenibile, una smania potentissima di rinascita dopo vicissitudini e traversie che hanno piagato l’anima di milioni di juventini. Il suo addio alla Juve è molto più di un normale avvicendamento di panchine. E non è nemmeno soltanto la fine di un ciclo glorioso, tre scudetti consecutivi, uno straordinario record di punti. È lo spegnersi di una stagione che è stata contrassegnata da una fame feroce di nuova vita. Ecco perché il congedo di Conte viene sentito dal popolo juventino con tanto dolore, con un dolore che non si deve esitare a definire «luttuoso», anche se l’accostamento può suonare come un affronto improprio. Ma si parla di emozioni, non di due calci al pallone.

Chi non è juventino e odia la Juve stenta a capire che tipo strano di identificazione si instauri tra la squadra bianconera e chi ha deciso di sposarne i colori. Forse solo gli interisti possono capire, e cioè solo chi sente di appartenere a una squadra che non è solo un semplice campanile trasferito su un campo di calcio. Forse è per questo che tra interisti e juventini ci si detesta così tanto: perché ambedue, Juve e Inter (e solo parzialmente il Milan), non sono ancorati a una territorialità, a una città, a una comunità comunale o regionale, a uno spirito campanilistico per cui si é della Roma perché di Roma, del Napoli perché napoletani, della Sampdoria o del Genoa perché genovesi. No, sono il frutto di un incontro. Non si può definire una scelta, perché non c’è nulla di irrazionale. Ma ci si trova gettati in una comunità, in un’epopea, in una mitologia, in un colore che non hanno nulla da spartire con l’appartenenza geografica e territoriale. Per cui gli anni dell’inferno sono stati vissuti dagli juventini come una prova iniziatica di sofferenza, un precipitare nell’abisso, una caduta rovinosa in una sfera da cui la storia della Juve, la storia delle sue competizioni, della sua voglia di vincere, del suo essere obbligati a stare sempre in cima, mai sazi, mai appagati, era sempre stata lontana. E ci si sentiva sopraffatti da un’ingiustizia, feriti, distrutti, ma mai umiliati. E si andava a Crotone mentre gli altri si spartivano gli scudetti. E ci si aggrappava alle bandiere di Buffon, di Del Piero, di Trezeguet, di Pavel Nedved e degli «eroi» che erano restati a soffrire con noi, attaccati a una storia, a un simbolo, a una bandiera, a una leggenda.

Ma questo inferno non finì con la scalata in serie A. Anzi quell’inferno diventò ancora più bollente, quando la squadra prese a balbettare una storia non sua. Una storia mediocre. Una storia da centro classifica. Brocchi comprati dall’estero a cifre mostruose. La paura di affrontare le squadre ancora meno blasonate ma che incutevano un assurdo timore reverenziale. Allenatori di stoffa scadente. Giocatori condannati alla panchina messi lì a recitare in bianconero una parte che non era la loro. È questa storia che Conte, con l’ausilio di una società finalmente rimessa in piedi dai suoi vertici in giù, con il «nostro» stadio ha spezzato e sepolto restituendo l’orgoglio, la voglia di combattere, il desiderio di primeggiare, la determinazione, il non arrendersi mai, la classe di Pirlo, Tevez che corre come un dannato fino al novantesimo, l’orrore della sconfitta. Il riscatto. La rinascita. Gli scudetti. Persino le frustrazioni in Europa. E ora? E ora si resta svuotati, costretti a immaginare un futuro incolore, in cui quella fame feroce di punti e di gloria può diventare un ricordo del passato. Un ripiombare nella mediocrità che ci spaventa. Una nostalgia crudele per Conte, e sono passate a stento ventiquattro ore. Sul campo.

17 luglio 2014 | 08:42
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Da - http://www.corriere.it/sport/14_luglio_17/fame-feroce-che-ci-manchera-491df5a2-0d7c-11e4-9f11-cba0b313a927.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA La Fine di un Capitolo. (ma non del copione berlusconiano).
Inserito da: Admin - Luglio 19, 2014, 06:32:08 pm
La Fine di un Capitolo
Di Pierluigi Battista

«Il fatto non sussiste». La parte della sentenza d’Appello che assolve Silvio Berlusconi sul «caso Ruby», ribaltando in pieno quella di primo grado, stabilisce per nostra fortuna un punto fermo: in Italia la presunzione di innocenza fino a sentenza definitiva non è un espediente retorico per idealisti fuori della realtà, ma un principio-cardine dello Stato di diritto. Dovrebbe esserne soddisfatto ovviamente il protagonista di questa vicenda giudiziaria, Berlusconi, sulla cui reputazione gravavano accuse infamanti dimostratesi, secondo sentenza, insussistenti. Ma non dovrebbero avere niente di cui essere scontenti tutti quelli che hanno virtuosamente negato di aver voluto mischiare vicende giudiziarie e vicende politiche e di aver fatto il tifo per una sentenza che liquidasse l’avversario. A meno che non siano ipocriti, nel qual caso dovranno fare qualche sforzo per far propria la raccomandazione comportamentale che hanno sempre invocato per Berlusconi: «Le sentenze vanno rispettate».

In realtà le sentenze, in uno Stato democratico dove la legge è sovrana ma contempli anche il diritto di critica, possono essere criticate. Eseguite, però eventualmente criticate. Ma il «rispetto» della sentenza significa anche che non si sospetti della magistratura libera e indipendente se il verdetto non ci soddisfa. Significa ammettere che nei tribunali si giudicano i reati, non i peccati: e questo è un bene. Significa che in Italia i giudici non emettono sentenze per partito preso.

Significa che evidentemente le prove fornite dall’accusa non hanno retto al vaglio di un giudice terzo. Significa che la magistratura si deve esprimere in piena autonomia, senza interferenze politiche e senza paura delle conseguenze politiche che una sentenza può produrre. Su questo dovrà riflettere il partito «giustizialista», che in Italia ha fatto delle vicende giudiziarie di Berlusconi lo scenario di una guerra santa senza esclusione di colpi. E dovrà riflettere lo stesso Berlusconi che ieri ha potuto legittimamente festeggiare un giorno di liberazione dall’incubo di un’accusa giudiziaria pesantissima, ma deve ripensare, forte di una sentenza che stabilisce clamorosamente che «il fatto non sussiste», il giudizio sull’«accanimento giudiziario» ai danni di un leader politico: è assolutamente evidente che i giudici di Milano non si sono accaniti contro di lui. Nell’attesa della sentenza della Cassazione (le sorprese in Italia non finiscono mai), resta finalmente un dibattito politico che si libera dal peso di un incubo giudiziario: il percorso delle riforme istituzionali può procedere speditamente.

Così come i servizi sociali a Cesano Boscone non avrebbero dovuto pesare sulle dinamiche politico-parlamentari (mettendo invece irresponsabilmente in crisi il governo Letta), anche questa sentenza può contribuire a sancire la definitiva separazione tra la storia politica e quella giudiziaria in un Paese che nella guerra totale tra politica e magistratura ha conosciuto la sua maledizione. Resta la sensazione, negli ultimi giorni avvalorata persino dagli spalti più ultrà dell’antiberlusconismo militante, di un impianto accusatorio fragile, e di una pena di sette anni nella sentenza di primo grado apparsa eccessiva anche a molti osservatori «indipendenti» del diritto. Ma le polemiche che inevitabilmente saranno rinfocolate da questa sentenza inattesa non possono oscurare il punto simbolico di svolta, la fine di un capitolo pieno di veleni della nostra storia.

La politica che deve tornare a fare bene il suo mestiere, senza remore e senza alibi.
Senza sovranità limitata.

19 luglio 2014 | 07:03
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_luglio_19/fine-un-capitolo-cb8b90f4-0f01-11e4-a021-a738f627e91c.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Far tacere i professori con le minacce
Inserito da: Admin - Luglio 21, 2014, 05:52:29 pm
Particelle elementari
Far tacere i professori con le minacce
All’Università di Bologna le irruzioni di membri dei collettivi nell’indifferenza dei più

Di Pierluigi Battista

C’è una frase molto eloquente nella rivendicazione degli atti teppistici che stanno ripetutamente colpendo a Bologna il nostro Angelo Panebianco: «L’unica libertà che riconosciamo ai baroni alla Panebianco è di tacere. L’impunità per loro è finita». Cioè, trascritto dai codici mafiosi degli estensori: devono parlare solo loro. Gli altri devono tacere. E se non tacciono, peggio per loro, l’incolumità non è più garantita («l’impunità è finita»). È l’apologia del manganello su chi osa contraddirti. La teorizzazione spudorata dello squadrismo. Dalla loro hanno l’indifferenza dei più: vanno all’Università di Bologna a minacciare fisicamente Panebianco e le aggressioni passano inosservate, giusto qualche comunicato di «ferma condanna» della violenza da parte delle autorità accademiche e cittadine e per il resto il silenzio. Come se ci fossimo abituati ai manipoli di violenti che se ne vanno incappucciati per imbavagliare il «nemico del popolo» di turno.

Qualche mese fa, gli energumeni dei collettivi studenteschi avevano imbrattato la stanza dell’Università di Panebianco con slogan minacciosi vergati con la vernice rossa. Nei giorni scorsi hanno fatto qualcosa di più. Sempre incappucciati, certo: i vigliacchi aggrediscono cento contro uno a volto coperto, come un branco che deve colpire la vittima isolata. Ma nei giorni scorsi, oltre alla scritta hanno anche eretto un rudimentale muro sulla porta dello studio di Panebianco, proprio nel cuore dell’Ateneo bolognese. Dicono perché Panebianco aveva scritto chissà cosa che aveva urtato la loro acuta sensibilità. Ma quel che aveva scritto Panebianco è solo una scusa. La pulsione dell’intolleranza trova negli argomenti dei meri pretesti per sfogarsi. La voglia dispotica di un pensiero allineato, conforme ai desideri di chi discute solo con il bastone in mano per fracassare le teste dissenzienti, trascende il singolo articolo, il singolo saggio, il singolo libro. Hanno deciso di mettere nel mirino un professore, di intimidirlo, di spadroneggiare all’interno dell’Università, di lanciare un avvertimento, di esercitare nei loro modi molto grossolani la «vigilanza» su ciò che si scrive e si divulga.

Non basta purtroppo constatare che tutti gli episodi di professori, sindacalisti, politici, perfino registi teatrali come Simone Cristicchi, presi a bersaglio dell’intolleranza delle squadracce sono stati accolti come ragazzate di esuberanti che certo avrebbero potuto usare mezzi più ortodossi ma ci sarà pure «libertà di fischio». Solo che la libertà di fischio, quando intima al silenzio, è la fine della libertà di chi subisce le aggressioni. Le intimidazioni possono restare senza conseguenze, per fortuna. Ma resta l’istinto liberticida di chi propone come unica soluzione per chi dissente il semplice, lugubre, orribile «tacere». Ecco perché dovrebbero protestare tutti, non solo il sindaco di Bologna e i professori della sua Università. Basterebbe solo un po’ di coraggio.

21 luglio 2014 | 11:16
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_luglio_21/far-tacere-professori-le-minacce-25c9f360-10b7-11e4-beef-e3441e67d81c.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Intolleranze e antisemitismo L’antico veleno del pregiudizio
Inserito da: Admin - Luglio 26, 2014, 10:13:34 am
Intolleranze e antisemitismo
L’antico veleno del pregiudizio

di Pierluigi Battista

In un’Europa dove a Berlino, attorno a una moschea, hanno gridato «viva Hitler» e in Francia militanti pro Hamas danno l’assalto a una sinagoga con lo slogan « Mort aux juifs », in quest’Europa fragile e intossicata bisogna almeno prestare ascolto all’Anti-Defamation League quando denuncia un ambasciatore europeo in pectore , reo di aver bollato gli ebrei come «agenti di Satana» e beneficiari dell’«industria dell’Olocausto». Péter Szentmihályi Szabó, l’autore di queste dichiarazioni antisemite, sta infatti per occupare il ruolo di ambasciatore d’Ungheria in Italia.

L’Anti-Defamation League chiede alle autorità italiane, e in primo luogo al presidente della Repubblica, di bloccare la sua nomina. È un segnale di allarme, non un’interferenza. La velocità con cui si stanno propagando i veleni dell’antisemitismo richiede risposte rapide, nitide, gravi quanto grave è il contesto che le giustifica.

L’Italia non è immune da questo catastrofico degenerare della critica anti israeliana nella resa agli stereotipi antisemiti mascherati da antisionismo. Hanno imbrattato le mura della sinagoga di Vercelli con scritte in cui si accusano tout court «gli ebrei» di esser complici del massacro di Gaza. Ogni critica, anche la più feroce, alla politica dello Stato di Israele è legittima. Si può pensare tutto il male possibile di una protesta davanti alle ambasciate e ai consolati israeliani: ma è libera contestazione di un governo, di una condotta bellica. Invece sembra che si sia sbriciolata la frontiera che divide la critica allo Stato di Israele e l’accusa indiscriminata agli «ebrei» sparsi nel mondo e in Europa in particolare. C’è qualcosa di mostruoso in un’Europa in cui le scuole ebraiche sono sotto il mirino dei terroristi, in cui i cortei sfociano negli assalti ai quartieri a forte insediamento ebraico (anche questo è accaduto a Parigi), in cui vengono minacciati e fatti bersaglio di raccapriccianti ingiurie i rabbini, come è successo in Olanda, in cui i pregiudizi del vecchio e repellente antisemitismo nazistoide si saldano con i nuovi pregiudizi «antisionisti», in cui è pericoloso indossare la kippah, in cui i bambini ebrei vanno a scuola con la paura disegnata sul volto dei genitori.

I primi a denunciare questa spaventosa deriva antiebraica e giudeofobica dovrebbero proprio essere i sostenitori della causa palestinese, gli spiriti più critici nei confronti dello Stato di Israele e della sua invasione della Striscia di Gaza. Dovrebbero essere loro a tracciare una linea di demarcazione invalicabile, a cacciare dalle loro manifestazioni gli energumeni antisemiti, a non permettere che a Roma ancora oggi si possano immaginare assalti al Ghetto ebraico dove il 16 ottobre del ‘43 i nazisti deportarono uomini e donne sulla strada senza ritorno per Auschwitz. E invece tacciono. Fanno finta di non capire. Accettano commistioni intollerabili, si adeguano alla linea che non riconosce a Israele nemmeno il diritto di esistenza accanto a uno Stato palestinese, non spendono nemmeno una parola sui razzi sparati da Hamas per terrorizzare la popolazione civile delle città israeliane.

E allora, dentro un’Europa di nuovo così ostile nei confronti degli ebrei, è bene che le autorità italiane prendano sul serio l’appello accorato dell’Anti-Defamation League e si uniscano alla protesta contro un ambasciatore che avrebbe definito gli ebrei «agenti di Satana». Un piccolo segnale. Per una battaglia che vale la pena combattere.

25 luglio 2014 | 08:24
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_luglio_25/antico-veleno-pregiudizio-5b49778c-13b8-11e4-9950-e546b7448c47.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA L’Europa assente Lo sguardo malato d’ipocrisia
Inserito da: Admin - Agosto 02, 2014, 10:31:37 am
L’Europa assente
Lo sguardo malato d’ipocrisia

di PIERLUIGI BATTISTA

L’Europa politica non è capace di dire una parola sensata sulla tragedia di Gaza. Ma il vuoto viene riempito dalle star del cinema, Pedro Almodóvar in testa, che spacciano via Twitter proclami manichei e dipingono Israele come un covo di assassini efferati dediti a un’insensata strage di bambini. L’Europa non esporta più valori, scelte, strategie, modelli, bandiere. In compenso, in questi ultimi giorni, fabbrica a getto continuo quelle che Rosellina Balbi chiamava “parole malate” e spurga i miasmi di un nuovo antisemitismo aggressivo sebbene ammantato di un finto umanitarismo. L’Europa vive anni di pace interna come mai nella storia. Ma in Germania hanno attaccato una sinagoga a colpi di bottiglie molotov e in Francia ne hanno assaltata una al grido di «Mort aux juifs».

L’Europa non sa dire una parola ai conflitti che insanguinano il mondo, a un passo da casa. Non si sa cosa pensi di tutte le tragedie che costellano l’agenda internazionale. Le immagini della morte a Gaza lasciano senza fiato, ci schiacciano, sono intollerabili, ogni bambino ucciso ci travolge, e ci fa tremare quando papa Francesco grida «basta, fermatevi». Il suono delle sirene di Israele che chiamano le famiglie nei rifugi dove ripararsi dai razzi di Hamas ci fa disperare: quando finirà tutto questo, se mai finirà. Ma l’Europa avrebbe il dovere di dire una parola, di cercare soluzioni, di costruirsi un profilo di interlocutore autorevole. E invece dove sta l’Europa? Se ne sta inerte, muta, impotente, marginale, irrilevante. Scrutiamo le mosse dell’America di Obama, ci domandiamo quale forza dissuasiva possa avere l’Egitto che dà il suo patrocinio a tregue regolarmente violate. E la Turchia di Erdogan, che sta con i terroristi e paragona oscenamente Israele a Hitler (e che ne è del Kurdistan turco, con i suoi oltre 30 mila morti ammazzati?). E il Qatar. E l’Iran. E il ribollire del mondo islamico, dilaniato dalla guerra tra sunniti e sciiti. Ma l’Europa, mai. Mai che ci si chieda quale compito possa svolgere l’Europa. I suoi vertici sono come noi: spettatori annichiliti di uno spettacolo atroce senza nessuna influenza sui fatti, solo qualche dichiarazione verbosa, l’annuncio di qualche inutile summit.


L’Europa è muta perché sono anni che non si pensa più come protagonista. Non è solo la sua debolezza politica, o la fragilità delle sue istituzioni, o la riduzione della sua identità alla moneta unica ed all’elemento economico-finanziario. È una marginalizzazione culturale, un deficit di pensiero sul mondo. Con l’esplosione delle primavere arabe avrebbe potuto far da sponda democratica, esserci, favorire le forze laiche, battersi per evitare la deriva fondamentalista e fanatica, ma non ha detto niente e nessuno, al Cairo come a Tunisi, ha guardato all’Europa come a un faro e un alleato. Quando è intervenuta, ha combinato un pasticcio, come in Libia, disarticolandosi e dividendosi. Ora la Libia è di nuovo nel baratro della guerra tra clan e tribù e l’Europa si ritrae silenziosa e imbarazzata dalla scena: che altro potrebbe dire, e a chi?
Un’Europa fiera di sé, dotata di un pensiero, di una strategia, di un’idea del mondo potrebbe pur dire qualcosa ai governi di Israele, sostenerli contro chi vuole annientare lo Stato degli ebrei, ma anche pronunciarsi sulla sventurata strategia dei nuovi insediamenti, costringerli al dialogo con Abu Mazen e con i palestinesi che oggi non seguono la deriva terrorista e criminale di Hamas. Ma chi lo può dire, in Europa? Che credibilità può avere l’Europa se nega a Israele il diritto di difendersi e se si mostra ambigua con Hamas?
L’Europa sembra vivere fuori dal mondo. In Siria è in atto da anni un massacro di dimensioni apocalittiche (almeno 160 mila i morti: civili, bambini, innocenti). Qualcuno ha notizia di quale sia la posizione europea, che non siano i soliti balbettii e le indignazioni a comando? E nel Califfato in cui i cristiani sono braccati e perseguitati, si bruciano le chiese, a Mosul, in Iraq, in cui o le case dei cristiani sono marchiate d’infamia con la N di «Nasara» (cristiano) per indicarli alle milizie jihadiste che vogliono fare sterminio degli infedeli, in quelle terre sfortunate si sente forse l’eco di una voce europea? Il nulla. Il nulla persino nel cuore dell’Europa, in Ucraina, dove un aereo di civili è stato abbattuto e secondo l’ultimo report delle Nazioni unite, lo riferisce Paola Peduzzi su Il Foglio, da aprile a oggi nel silenzio e senza le immagini raccapriccianti che ci vengono da Gaza, si contano 1.130 morti (di cui moltissimi civili), 3.500 feriti, 800 «desaparecidos», oltre 100 mila sfollati. Un disastro a pochi chilometri dalle grandi metropoli europee: specchio dell’impotenza e dell’incapacità di agire. Anche questo contribuisce a rompere l’argine e a far tracimare nuove barbarie, intolleranza, odio per gli ebrei, indicati come i responsabili di ogni male, bersagli facili da minacciare. Un silenzio impotente che rischiamo di pagare molto caro.

31 luglio 2014 | 19:27
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_luglio_31/editoriale-gaza-europa-pierluigi-battista-fb91f354-18d6-11e4-a9c7-0cafd9bb784c.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Quell’Insofferenza per i Professoroni (nell’era dei 140...
Inserito da: Admin - Agosto 21, 2014, 06:30:46 pm
Quell’Insofferenza per i Professoroni (nell’era dei 140 Caratteri)
Eppure in tanti anni mai una parola contro l’appellomania di chi vedeva tirannie dietro ogni legge berlusconiana

di PIERLUIGI BATTISTA

Ma davvero gli intellettuali sono lo spauracchio di chi teme che possano mettersi di traverso sulla strada luminosa delle riforme (annunciate)? Un pericolo il ceto polveroso e sgualcito degli intellettuali nell’era dei 140 caratteri non uno di più, della comunicazione sprint, dell’hashtag lapidario, della scattante giovinezza, dell’accelerazione universale? Addirittura il presidente del Consiglio invoca una resa dei conti con questa palla al piede di un’Italia che vorrebbe ripartire di slancio se non fosse frenata dai «professoroni» maestri di conservazione e di immobilismo. Loro, gli intellettuali, non contano granché. Ma nell’ansia di scovare il «gufo» anche dietro la cattedra, anche il «professorone» viene bene per identificare la figura del nuovo sabotatore, dell’intellettuale da establishment, dell’«editorialista» che piace alle élites che tramano nell’ombra.

E sarebbe pure un po’ strano questo accanirsi sugli intellettuali recalcitranti da parte di chi in tanti anni non ha mai speso un sospiro per contrastare l’appellomania di un ceto che si inventava tirannie dietro ogni legge berlusconiana. Di chi trattava come un fissato anticomunista chiunque osasse manifestare qualche perplessità sull’«egemonia culturale» di una sinistra dogmatica, ossificata, conservatrice, orgogliosamente antiriformista. Di chi lasciava correre quando nel suo mondo d’appartenenza si deplorava addirittura la «destra culturale» dell’Adelphi (anche questo è stato detto, e non era satira) per difendere la purezza ideologica del catalogo Einaudi. Ora i nuovi corifei del decisionismo di governo si impancano a fustigatori degli intellettuali così riottosi da eccepire nientemeno che sull’efficacia della riforma del Senato. Ora si sono svegliati da un torpore pluridecennale e scoprono, infiammati dallo zelo dei neofiti, che la cultura di sinistra è prigioniera di un tic oltranzista, di un umore poco incline ad accettare il riformismo come orizzonte e metodo della politica. Ora, improvvisamente, si sono accorti che agli intellettuali italiani non va giù una democrazia in grado di «decidere», insofferente ai sacri riti del discussionismo perenne e inconcludente. Ora lanciano i loro strali contro gli intellettuali nuova «clasa discutidora», come un brillante reazionario come Juan Donoso Cortés definiva una borghesia cavillosa, imbelle e schiava del vizio parlamentarista.

Che poi non è nemmeno tanto vero. Gli intellettuali «discutidori» hanno contrastato Craxi e Berlusconi, archetipi del decisionismo in guerra con la cultura mainstream della sinistra consociativa. Ma con pari ardore hanno contrastato a grande maggioranza, e lungo tutto l’arco del post-fascismo repubblicano, la Democrazia cristiana, che certo non si può eleggere a modello di una politica muscolare e decisionista. E nel ‘48 optarono in massa per il decisionismo brutale di Stalin anziché per il mite e democratico De Gasperi. Del resto gli intellettuali italiani hanno sempre amato l’uomo forte, il Partito forte, il leader forte. Detestarono Giolitti per il suo gradualismo così poco elettrizzante e persino Gobetti, per contrastare la nefasta azione dei «partiti del ventre», il socialista e il popolare, volle tessere un «elogio della ghigliottina».
Si schierarono in massa con il Duce e se furono tentati dall’eresia era per rimproverare al fascismo di essere troppo poco fascista, radicale, rivoluzionario, risoluto.
Poi videro nel disciplinatissimo Pci il faro che avrebbe condotto l’Italia lungo la strada delle magnifiche sorti e progressive, il nuovo «Principe» da servire «perinde ac cadaver», come imponeva il motto di Ignazio di Loyola, e certo non solidarizzarono con Elio Vittorini quando veniva insolentito dal leader decisionista Palmiro Togliatti per aver messo in discussione la linea del Partito. Però manifestavano il loro disprezzo per i molli democristiani, che pure condussero l’Italia a «cambiare verso» facendolo diventare da Paese sconfitto e stremato dalla guerra in una grande e prospera potenza industriale, conservando il suo carattere democratico.
Gli attuali cantori del decisionismo non ebbero mai nulla da dire. E ora, tutt’a un tratto, gli intellettuali sarebbero diventati i bastian contrari che fanno da ostacolo nella via delle riforme? Ora si può deplorare la mania degli appelli, l’allarmismo che vede orrende «svolte autoritarie» in ogni rafforzamento dei poteri del governo? Lo zelo dei neofiti gioca brutti scherzi. Un po’ di sana accettazione delle critiche può essere addirittura un corroborante, come hanno sempre sostenuto i (pochi) liberali della cultura italiana. I gufi, si possono lasciare alla zoologia.

17 agosto 2014 | 10:51
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_agosto_17/quell-insofferenza-professoroni-nell-era-140-caratteri-1b041520-25eb-11e4-9b50-a2d822bcfb19.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Il massacro, le vittime e la svolta di Francesco
Inserito da: Admin - Agosto 21, 2014, 07:10:03 pm
Il massacro, le vittime e la svolta di Francesco
Guerre giuste?
Il Papa non è bellicista: ma chi cercava protezione in Vaticano per promuovere un pacifismo assoluto non lo troverà
Di Pierluigi Battista

La parola «guerra», quella è sempre bandita. Ma la Chiesa cattolica non ha mai disdegnato gli eufemismi per gli interventi militari che si prefiggevano di fermare «la mano dell’aggressore» contro le popolazioni civili. L’«ingerenza umanitaria» per l’intervento armato nel Kosovo. La «polizia internazionale», limitata e circoscritta, per l’azione in Afghanistan, all’indomani degli attentati dell’11 settembre. Oggi però le parole di papa Francesco segnano una correzione significativa nella politica vaticana in Medio Oriente. Il massacro dei cristiani in Iraq sta assumendo dimensioni apocalittiche. La linea della prudenza appare destinata alla disillusione. La Chiesa di Francesco non è diventata bellicista. Ma difficilmente chi si è sempre nascosto sotto il manto papale per dare autorevolezza a una linea di «pacifismo» assoluto troverà accoglienza a piazza San Pietro. Come accadde nel 1991 e nel 2003, quando la sinistra italiana finì per sfilare sotto le finestre di Giovanni Paolo II, riconoscendo la sua leadership morale nel fronte contrario sia alla guerra promossa da Bush padre che a quella di Bush figlio e di Blair.

Non tanti anni, ma pochissimi mesi fa, le parole di Francesco sono apparse come un alt categorico alla tentazione obamiana di intervenire in Siria contro la carneficina compiuta da Assad, in un conflitto che conta oggi circa 170 mila vittime, quasi tutte civili. Invece di «fermare l’aggressore», la priorità sembrò allora quella di fermare l’interventismo ondivago degli Stati Uniti. Un digiuno di testimonianza a favore della pace suonò più polemico nei confronti di Obama che non di Assad. Un pacifismo un po’ strabico, che però poteva essere giustificato dalla necessità di difendere i cristiani di Siria dai crimini che i ribelli jihadisti avevano cominciato a perpetrare contro il popolo della croce.

La stessa prudenza per le sorti dei cristiani che ha indotto il Vaticano nel corso di questi anni a non chiedere la mobilitazione del mondo contro i regimi islamici (non solo fondamentalisti, ma anche «moderati» come l’Arabia Saudita) che non risparmiano persecuzioni contro i «blasfemi» che osano possedere un crocefisso o un rosario e contro i luoghi di culto cristiano, ostracizzati e martirizzati. Le dimensioni catastrofiche del massacro dei cristiani da parte dei seguaci del Califfato islamico inducono papa Francesco a correggere il tiro. Non si parla certamente di «guerra giusta» lungo una tradizione cattolica ed ecclesiastica che ha segnato secoli di riflessione sull’uso degli strumenti bellici da parte degli Stati.

La deplorazione di papa Benedetto XV contro l’«inutile strage» rappresentata dalla Prima guerra mondiale, oramai un secolo fa, esprimeva una nettezza che non dava spazio a interpretazioni equivoche o minimizzanti. E persino nella Seconda guerra mondiale, di fronte a uno sterminio di proporzioni inusitate, la linea della prudenza consigliava al Vaticano (ma non ai singoli vescovi e agli istituti religiosi) un atteggiamento che non suonasse come elemento ulteriore di conflitto e di divisione. Nel Medio Oriente, poi, la politica vaticana del buon vicinato con il mondo arabo, ha sempre suggerito una linea, se non di aperta ostilità, comunque di diffidenza nei confronti dello Stato di Israele.
Nella Guerra del Golfo, all’indomani della fine della guerra fredda e nella ricerca affannosa di un nuovo «ordine internazionale» garantito dalle Nazioni Unite, il papato di Wojtyla rappresentò la calamita capace di attrarre tutto il variegato mondo contrario all’intervento in Iraq, malgrado la palese violazione della legalità internazionale da parte di Saddam Hussein con l’invasione del Kuwait. Nel 2003 le bandiere arcobaleno della pace sventolarono con l’appoggio della Chiesa cattolica che pure non si era spesa contro l’intervento per estromettere il regime dei talebani in Afghanistan: e anche lì le ragioni geopolitiche si mescolarono a quelle umanitarie, con la persecuzione da parte del regime di Saddam dei curdi uccisi con il gas e degli sciiti di Bassora. Poi la guerra del Kosovo, che pure cercò di mimetizzarsi come atto di indispensabile «ingerenza umanitaria».

Ora la necessità ribadita da Francesco di fermare la mano assassina dell’aggressore e impedire ulteriori massacri. Una svolta che può influenzare la politica degli Stati. Non una «terza guerra mondiale», ma certamente un ribollire incontrollato dei conflitti.

19 agosto 2014 | 07:59
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Da - http://www.corriere.it/esteri/14_agosto_19/massacro-vittime-svolta-francesco-3b43f7c6-2765-11e4-9bb1-eba6be273e09.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA L’ordine dei giornalisti contro Allam così si calpesta...
Inserito da: Admin - Agosto 30, 2014, 09:17:56 am
L’ordine dei giornalisti contro Allam così si calpesta la libertà di opinione

di Pierluigi Battista

Trasformare in un crimine un’opinione, per quanto criticabile, non dovrebbe rientrare nei compiti di uno Stato che voglia conservare la sua anima liberale, figurarsi di un Ordine professionale come quello dei giornalisti. E invece mettere sotto accusa le opinioni di un commentatore come Magdi Cristiano Allam è diventato l’occupazione estiva dell’Ordine dei giornalisti. Una parodia dell’Inquisizione che fa di un’associazione di categoria, nata durante il fascismo e senza eguali in nessun’altra democrazia liberale con l’eccezione del post-salazariano Portogallo, un tribunale abusivo che si permette di interpretare a suo modo i princìpi della libertà di espressione e che si permette di emettere verdetti sulle opinioni espresse da un proprio associato.

Già l’Italia è caricata da una pletora di reati d’opinione mai smaltiti in tutti gli anni della Repubblica post-fascista. Non c’è bisogno di processi aggiuntivi istruiti da chi si arroga il diritto di giudicare le opinioni altrui solo perché munito del tesserino di un Ordine professionale. Se un giornalista commette un reato, dovrà essere giudicato come tutti gli altri cittadini da un Tribunale della Repubblica. Piccoli tribunali del popolo che si impancano a misuratori dell’eventuale «islamofobia» di Allam sono invece pallide imitazioni di epoche autoritarie che non distinguevano tra reato e opinione. Mentre la libertà d’opinione, dovremmo averlo imparato, è indivisibile e non dovrebbe essere manipolata a seconda delle predilezioni ideologiche.

Si vuole criticare Allam? In Italia c’è il pluralismo della critica e dell’informazione e il conflitto delle idee è il sale di una democrazia liberale. La giustizia fai da te, i tribunali delle corporazioni che si permettono di intromettersi non su un comportamento, o su una grave negligenza professionale, bensì sul contenuto di un articolo, sono invece il residuo di un’intolleranza antica, e che non sopporta la diversità delle opinioni, anche delle più estreme. Per cui i censori dell’Ordine potrebbero rimettere nel cassetto i loro processi, togliersi la toga dell’inquisitore e ammettere di aver commesso un errore. Non è mai troppo tardi per la scoperta della libertà.

29 agosto 2014 | 08:05
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_agosto_29/ordine-giornalisti-contro-allam-cosi-si-calpesta-liberta-opinione-130c2c5e-2f41-11e4-ba33-320a35bea038.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA L’equilibrio capovolto dall’assenza di una legge
Inserito da: Admin - Agosto 31, 2014, 09:00:48 am
L’editoriale
L’equilibrio capovolto dall’assenza di una legge

Di PIERLUIGI BATTISTA

Che le coppie gay possano adottare un figlio dovrebbe stabilirlo una legge dello Stato, non una decisione della magistratura che, presa da una sindrome di supplenza onnipotente, vuole interpretare, forzare, piegare una legge che non c’è. O che non c’è ancora, perché attualmente sono in discussione molte ipotesi per regolare la convivenza stabile tra coppie dello stesso sesso per riconoscere a queste ultime diritti ancora calpestati. Ma anche nella più «avanzata» tra queste ipotesi l’adozione di un figlio è ancora materia controversa. Deciderà il Parlamento, nella sua sovranità legislativa. Invece ieri un magistrato ha deciso al posto del Parlamento, deliberando a favore del sì all’adozione. Montesquieu avrebbe qualcosa da eccepire su questa invadenza del potere giudiziario che si arroga la titolarità del potere legislativo.

Naturalmente i sostenitori della possibilità per una coppia gay di adottare un figlio si mostrano molto soddisfatti per questa sentenza. Dicono che nella paralisi della politica, la magistratura può pungolare il legislatore, costringerlo a decisioni rapide e tutte in favore di un principio che, vale la pena ripeterlo, non è contemplato nemmeno nella più aperturista delle proposte sulle convivenze tra persone dello stesso sesso. Ma la magistratura che si sostituisce alla politica e alla sua incapacità di legiferare dovrebbe preoccupare chiunque, a prescindere dal merito delle singole questioni. Possibile che debba essere una sentenza a stabilire se in un ospedale debbano essere somministrati gli intrugli di Stamina? O che sia una sentenza a fissare le regole della fecondazione eterologa?

Non si può dimenticare il dramma legato al caso Englaro quando, nel vuoto di una legislazione sul «fine vita», divenne compito della magistratura autorizzare la cessazione dell’alimentazione e idratazione di Eluana. La magistratura, semplicemente, le leggi deve applicarle, non anticiparle, indirizzarle, auspicarle. La sua supplenza non può che avere dei limiti e il legislatore, anche se incline all’immobilismo, non deve costruire norme dettate da una sentenza precedente. È il capovolgimento dell’equilibrio tra i poteri, e non c’è nessuna buona causa che possa legittimarlo. Fare una legge, subito. È il compito del Parlamento.

30 agosto 2014 | 07:55
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Da - http://www.corriere.it/cultura/14_agosto_30/equilibrio-capovolto-dall-assenza-una-legge-30231ac8-3009-11e4-88f9-553b1e651ac7.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Analogie a sinistra tra Parigi e Roma I nostalgici del ...
Inserito da: Admin - Settembre 22, 2014, 04:03:26 pm
Analogie a sinistra tra Parigi e Roma
I nostalgici del Novecento


Di Pierluigi Battista

Ogni sterzata in senso riformista in Europa occidentale ha un prezzo: l’inasprirsi della guerra tra le due sinistre. Oggi è il turno della Francia e dell’Italia, le ultime trincee ideologiche di una sinistra immobilista e conservatrice che teme ogni cambiamento come una profanazione, se non un tradimento della propria identità, e nobilita ogni difesa corporativa con il richiamo rituale ai sacri princìpi violati dall’«usurpatore» di turno. I piloti dell’Air France che bloccano il Paese per protestare contro i piani di sviluppo della compagnia low cost controllata dal gruppo sono i cugini d’Oltralpe dei sacerdoti che si sentono chiamati alla missione di difendere il dogma dell’articolo 18: una clausola oramai sempre più sconosciuta nella realtà del lavoro, nell’orizzonte esistenziale dei giovani, dei lavoratori delle piccole imprese e del commercio, dei vecchi e nuovi precari, dei vecchi e nuovi disoccupati.

Le svolte riformiste comportano gravi prezzi di popolarità e di consenso. Tony Blair ingaggiò un’interminabile e spietata battaglia contro il potente ma oramai decrepito establishment del vecchio Labour e solo grazie a quella offensiva coraggiosa riuscì a sfidare con successo la lunga egemonia dei Tories thatcheriani. Nella Germania del 2003 l’allora leader socialdemocratico Gerhard Schröder fu molto baldanzoso ed esplicito nel presentare un progetto riformista sul mercato del lavoro: «Ridurremo le prestazioni sociali dello Stato, promuoveremo la responsabilità individuale ed esigeremo un maggior contributo da parte di ciascuno». Fu una ricetta dolorosissima per la sinistra tedesca, che si spaccò, erodendo la base dei Socialdemocratici, pagò un duro prezzo elettorale ma contribuì alle riforme di cui la Germania aveva bisogno e che oggi fanno la differenza con tante nazioni dell’Europa mediterranea e latina. Oggi è la volta della Francia e dell’Italia, la culla della sinistra «latina», fortemente segnata dalle sue tradizioni politiche e sindacali, arroccata nelle sue fortezze ideologiche. E anche qui la guerra tra le due sinistre si annuncia feroce e cruenta.

Alla Francia di Hollande non basta certo la testa dei tre ministri del governo Valls, e in particolare di quella del ministro dell’Economia Montebourg sostituito dal neoministro Macron, socialista certo ma con un passato di banchiere. Già con Mitterrand, il massimalismo ideologico della sinistra francese subì fortissimi colpi. Nel primo mitterrandismo la sinistra socialista pagò il prezzo della sua alleanza con il Pcf, ma quella fase si chiuse, con una rottura e una guerra tra le due sinistre che si esaurì provvisoriamente con la disfatta di quella più vecchia e conservatrice. In Italia la bandiera di un riformismo capace di sfidare i tabù e i veti di un sindacato impermeabile alle innovazioni più radicali nel mondo del lavoro venne dapprima impugnata da Massimo D’Alema: ma il braccio di ferro fu vigorosamente vinto dalla Cgil di Sergio Cofferati, che qualche anno dopo, riempiendo le piazze e trascinando l’intera sinistra politica di allora, sconfisse anche il tentativo di Berlusconi di modificare l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori.

Oggi Francia e Italia sono nuovamente di fronte a una biforcazione fatale: mettersi in gioco fino a sfidare tabù consolidati e apparentemente invincibili, oppure ripiegare su un minimalismo di compromesso che forse potrebbe salvare «l’anima» della sinistra antica ma farebbe fallire per l’ennesima volta l’ambizione di una sinistra moderna e non più prigioniera dei suoi schemi.

22 settembre 2014 | 08:28
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_settembre_22/i-nostalgici-novecento-348347c4-4219-11e4-8cfb-eb1ef2f383c6.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA In guerra, di supporto nella scelta a metà il carattere...
Inserito da: Admin - Settembre 24, 2014, 06:38:08 pm
In guerra, di supporto nella scelta a metà il carattere nazionale
Dai conflitti nel Golfo alle campagne in Afghanistan e Kosovo: i distinguo sulla partecipazione a missioni belliche sono ormai una specialità tutta italiana


Di Pierluigi Battista

Un passo in qua. Insieme, nella coalizione. Ma di «supporto», beninteso, senza bombe tricolori, senza «prender parte alle operazioni» contro l’Isis direttamente. L’Italia, con una linea resa esplicita dal ministro Mogherini, offre il suo aiuto, il suo «sostegno logistico», l’«addestramento». Però lascia agli Stati Uniti, alla Francia, ai Paesi arabi direttamente chiamati nelle azioni militari contro lo Stato islamico, in territorio iracheno e in territorio siriano, il compito ingrato di fare la guerra. Proprio la guerra, brutta come tutte le guerre. Ma non fatta in prima persona. Una guerra che all’Italia crea sempre immensi problemi di coscienza, di immagine, di ruolo, di storia. Di carattere, persino.

Non è la prima volta. È certamente la terza. Forse addirittura la quarta. Il trauma in conseguenza del quale l’Italia ha deciso di imboccare la strada del sostegno «laterale», della partecipazione indiretta, dell’aiuto mediato risale al 1991, e ha un nome: quello del capitano Cocciolone. Ai tempi della prima guerra del Golfo l’immagine del pilota catturato dagli uomini di Saddam Hussein, con il volto tumefatto per le percosse ricevute, la paura disegnata nello sguardo, l’umiliazione per dover recitare una messinscena imposta mediaticamente dai carcerieri rinfocola una tentazione storica dell’Italia a non deragliare mai dai binari dei «buoni». Gli italiani «brava gente» del Libano e del presidente Pertini che si intrattiene bonariamente con il piccolo Mustafà. Gli italiani che sono sempre diversi, più umani, meno prepotenti, più compagnoni addirittura. Invece nella guerra del Golfo eravamo percepiti come tutti gli altri: una potenza in guerra, un tabù dopo la sventura militare provocata da Mussolini e dai furori bellicisti.

Quel tabù ebbe poi il suo riflesso nelle scelte italiane durante la guerra del Kosovo contro la Serbia di Milosevic, 1999. Fu uno strappo doloroso, vissuto con imbarazzo e quasi disappunto. Il governo Prodi, che si appoggiava su una coalizione che includeva Rifondazione comunista, si era attenuto rigorosamente alla dimensione del «supporto logistico» che non prevedeva direttamente la partecipazione italiana al fuoco della guerra guerreggiata. Ma il nuovo governo D’Alema (appoggiato da Cossiga, notoriamente in buoni rapporti con gli Stati Uniti) e con l’«atlantico» Carlo Scognamiglio ministro della Difesa, oltrepassò le colonne d’Ercole del «supporto». L’azione italiana prevedeva soprattutto la concessione dello spazio aereo ai caccia della Nato e la base logistica di Aviano, ma alcuni aerei dell’Aeronautica italiana solcarono i cieli della Serbia con il loro carico di armi. Eppure questo attraversamento della linea d’ombra della guerra creò imbarazzi indicibili, fino al punto che dal governo italiano partirono appelli per la «sospensione» dei bombardamenti, rompendo la coesione dell’alleanza, come se l’Italia non ne facesse organicamente parte.

Poi fu il turno dell’Iraq nel 2003. Gli italiani, pur facendo parte della «coalizione dei volonterosi», non parteciparono direttamente alle operazioni militari degli Stati Uniti di Bush e del Regno Unito di Blair. Quello italiano fu, anche in questo caso, un «supporto logistico» e poi, a regime di Saddam caduto, una missione di peace-keeping destinata, per sua natura, a rimarcare una differenza con la guerra guerreggiata e a dare riparo all’immagine «buona» e pacifista dell’Italia: scrupolo che peraltro non impedì il rapimento di cittadini italiani da parte degli «insorgenti» e soprattutto le perdite di Nassiriya.

Per la missione in Afghanistan le interminabili discussioni sui caveat che avrebbero dovuto determinare le regole d’ingaggio dei militari impegnati a Kabul, condite da controversie mai sopite sullo spirito e la lettera dell’articolo 11 della nostra Costituzione, alimentarono una nuova fortuna del paradigma del «supporto logistico». Che poi ebbe la sua definitiva consacrazione nelle operazioni militari sulla Libia nel 2011, approvate dal governo italiano allora presieduto da Berlusconi controvoglia e con furente impeto polemico nei confronti dell’interventismo della Francia di Sarkozy. Oggi quel paradigma acquista nuovo vigore e conferma dalla scelta del governo italiano di partecipare sì, ma solo come «supporto» ai raid contro l’Isis. Una specialità nazionale, si potrebbe definire. Una costante della nostra storia. E anche, perché no, del carattere nazionale.

24 settembre 2014 | 09:23
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_settembre_24/guerra-supporto-scelta-meta-carattere-nazionale-a3d918e2-43b8-11e4-bbc2-282fa2f68a02.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA L’Isis e i media: un dilemma già vissuto con le Br
Inserito da: Admin - Ottobre 05, 2014, 10:47:52 pm
Il commento
L’Isis e i media: un dilemma già vissuto con le Br

Di Pierluigi Battista

Con la quinta decapitazione via macabro video, la stampa americana ha dedicato al rituale cruento dell’Isis uno spazio infinitamente minore di quello che venne offerto al primo. Effetto di saturazione? O, ancora peggio, assuefazione alle scene barbare dello sgozzamento di un innocente, che suscita raccapriccio e poi, fatalmente, se non indifferenza, quanto meno un’attenuazione dell’interesse pubblico? Oppure prevale una strategia tacita di minimizzazione allo scopo di disinnescare la carica propagandistica che emana da quei video della morte?

Non fare il gioco dei terroristi dando eccessivo risalto alle loro gesta: è una tentazione che noi italiani conosciamo bene da quando, con altri protagonisti e in un contesto completamente diverso, la stampa italiana si trovò di fronte all’angoscioso dilemma se pubblicare o meno i comunicati delle Br che tenevano in ostaggio un loro «prigioniero». Furono discussioni laceranti, che dividevano l’opinione pubblica tra chi riteneva che le Br avrebbero sofferto se si fosse oscurato il loro palcoscenico del terrore e chi non voleva che l’autocensura snaturasse il carattere liberale e aperto del sistema che i terroristi volevano abbattere.

Anche le Br facevano uso di una coreografia del terrore capace di alimentare un’aura di leggenda e di invincibilità. I comunicati recapitati nei luoghi di maggiore impatto mediatico, le rivendicazioni telefoniche, il clima di suspense e il crescendo dei toni che enfatizzavano la loro strategia. La voglia di mettere il silenziatore era comprensibile e molti, nel «partito della fermezza», arrivarono a teorizzare l’autocensura (come con il sequestro del giudice D’Urso alla fine del 1980) anche mettendo a rischio la vita degli ostaggi. All’obbligo di non dare spazio ai terroristi volle sottrarsi Giuliano Zincone dalla direzione del «Lavoro»: gesto temerario che contribuì alla sua defenestrazione. La discussione andò avanti fino all’estinguersi delle operazioni brigatiste.

Oggi l’Isis, con i suoi paesaggi, la tunica arancione del condannato, il coltellaccio, il cappuccio nero, l’accento inglese, cerca di imporre la sua immagine mediatica con un uso sapiente della comunicazione. I media sono di fronte a un dilemma tragico, per non far diventare i padroni del terrore i burattinai dell’informazione globale.

5 ottobre 2014 | 09:03
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DA - http://www.corriere.it/esteri/14_ottobre_05/isis-media-dilemma-gia-vissuto-le-br-1b97825e-4c5d-11e4-8c5c-557ef01adf3d.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Quegli insulti consentiti soltanto contro gli obesi
Inserito da: Admin - Ottobre 13, 2014, 03:12:51 pm
Politicamente scorretto
Quegli insulti consentiti soltanto contro gli obesi
Una colpa sociale L’ultimo linciaggio permesso in tempi in cui il linguaggio si fa sorvegliato, buono, premuroso, attento a ogni diversità e ai diritti di tutte le minoranze

Di Pierluigi Battista

Se date del «ciccione» a un mite ragazzo sovrappeso, tranquilli, nessuno vi rimprovererà per aver usato un’espressione offensiva nei confronti di chi, quando gli tocca umiliarsi alla bilancia, si avvicina angosciosamente ai cento chili. Non è il residuo di un’usanza lessicale arcaica: è l’ultimo linciaggio consentito in tempi in cui il linguaggio si fa sorvegliato, buono, premuroso, carico di buone intenzioni, attento a ogni diversità e ai diritti di tutte le minoranze. Tutte tranne una: quella dei grassi, colpevoli persino di scassare i conti del servizio sanitario nazionale e perciò da mettere all’indice.

I bulletti che bersagliavano di scherno il povero «cicciobomba» ci sono sempre stati e l’onta perenne di noi (ex) smilzi è di non esser mai intervenuti a difesa del povero compagno impacciato e impedito dal suo grasso in eccesso, messo in porta per renderlo inoffensivo durante una partitella di calcio. Ma ci saremmo vergognati a esercitare la nostra disgustosa crudeltà di fronte agli adulti. Anche in Full Metal Jacket di Stanley Kubrick la recluta obesa e strabordante subiva le vessazioni del sergente che ne curava il severo addestramento: finì malissimo, con la recluta schiantata, resa folle da un trattamento insopportabile.

Oggi i ragazzini che a Napoli hanno seviziato e massacrato un «cicciobomba» sentono che attorno ai soprusi contro i grassoni non grava quell’atmosfera di indignazione morale che oggi giustamente circonda chi si appella in modo offensivo nei confronti di una minoranza religiosa, di una diversità sessuale, di una distanza etnica e razziale. Percepiscono rozzamente che il grasso se l’è cercata, che le intimazioni della nuova dittatura salutista trovano in quel loro compagno così deturpato dai rotoli di ciccia un ostacolo caparbio e ostinato. Non sono magri, snelli, slanciati, asciutti, in forma? Colpa loro che non seguono diete, non fanno sport, non sanno adeguarsi agli imperativi del «mangiar sano», non espellono calorie, non vanno in palestra. E ci costano. Sono vulnerabili alle malattie, non dureranno a lungo secondo gli algoritmi messi a punto dalla sapienza medica, dai guru del benessere, degli strateghi della salute e delle diete forsennate.

«Ciccione», «grassona», «palla di lardo», «chiattona»: si possono dire. Un tempo un individuo corpulento, di mole falstaffiana, veniva indicato come una figura arguta, sapida, capace di combinare i piaceri della mente con quelli del corpo. L’imponenza di Orson Welles era oggetto di ammirazione persino erotica. La floridezza era anche simbolo di lontananza dalle fatiche del lavoro manuale, bestiali, massacrante, certamente più efficaci delle nostre diete più raffinate. La prosperità si sposava felicemente con i chili di troppo. E i segaligni, pelle e ossa, divorati dai tormenti e dalle ambizioni, suscitavano diffidenza e sospetti.

«Vorrei che attorno a me ci fossero degli uomini piuttosto grassi e... che dormano la notte», dice Cesare ad Antonio nella tragedia di Shakespeare, «mentre quel Cassio è magro e affamato: pensa troppo, e uomini del genere sono pericolosi».
Oggi parole del genere sarebbero impensabili. È da decenni oramai che nel mondo della moda le ragazze un filo sopra la norma della quasi anoressia vengono messe ai margini, con le conseguenze che sappiamo nella psicologia delle adolescenti. La pubblicità è totalmente impregnata di un messaggio che rende l’obesità una malattia orribile. Ciò che rende sconvolgente la permanenza del ciccione come destinatario di una condanna sociale è che la persecuzione linguistica della grassezza (e non solo banalmente linguistica come si è tristemente constatato tra i teppisti di Napoli) avviene in un’atmosfera culturale in cui il rispetto quasi sacrale di qualunque «diversità» è diventato un articolo di fede.

Non si offendono i ciechi e i sordi, la stessa parola «handicap» è circondata dai densi fumi sulfurei del politicamente scorretto. Si fanno le Paralimpiadi dei diversamente abili, ma i diversamente magri non verrebbero mai invitati. Il grasso può essere indicato come un renitente alla civiltà dei magri e dei sani. Contro di lui si possono usare le espressioni più atroci, che mai sarebbero tollerate in altri contesti e con altre vittime (forse solo con le persone di bassa statura: «nano», per quanto offensivo, si può dire, non si sa come mai). Perché i suoi chili di troppo indicano una colpa, una resistenza, un ostacolo. Non importa che soffrano in silenzio, maledetti ciccioni.

11 ottobre 2014 | 08:14
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_ottobre_11/quegli-insulti-consentiti-soltanto-contro-obesi-fbb628aa-510c-11e4-8503-0b64997709c2.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Il narcisismo che danneggia l’Isis
Inserito da: Admin - Ottobre 19, 2014, 05:20:32 pm
Il corsivo del giorno
Troppi selfie e cinguetti
Il narcisismo che danneggia l’Isis

Di Pierluigi Battista

Adesso i maggiorenti doc dell’Isis hanno deciso di rimproverare bruscamente quegli scriteriati di seguaci occidentali, che con i loro selfie, i loro cinguettii su Twitter, le loro esibizioni di Facebook, la mancanza di autocontrollo nella concessione su Internet dei propri «metadata», mettono in pericolo la sicurezza dello Stato islamista e possono compromettere la segretezza dei suoi rifugi, dei suoi arsenali, delle sue stesse operazioni militari.

Si arruolano nella guerra santa e non sanno sorvegliare il loro narcisismo. I giovani che scappano dall’Europa «infedele» per raggiungere le milizie jihadiste sono pur sempre contaminati e ben lontani dalla purezza che verrebbe loro richiesta.
Per quanto agitati dal fervore religioso, per quanto il loro odio per l’Occidente sia totale e senza scampo, hanno contratto le cattive abitudini della marcia e debosciata società da cui provengono.

Male, dicono i responsabili dell’Isis. Troppo pericoloso. Perché è vero che i seguaci dell’Isis sono eccellenti comunicatori del loro messaggio di terrore, ma non possono ammettere che si abbassi la guardia e che i giovani arruolati che vengono dall’Europa si mettano a chattare come un corrotto giovinastro qualunque.
È vero che molti si arruolano proprio perché attratti dalla bravura apocalittica della comunicazione dell’Isis, quei filmati che sembrano trailer del cinema catastrofista, quelle tuniche arancioni, il coltellaccio agitato da un carnefice abbigliato secondo i canoni della società dello spettacolo.

Ma non bisogna esagerare. Perché poi la guerra non è un videogioco, perché i guerrieri non possono essere dei bamboccioni che postano le loro gesta su qualche blog.
E quindi allarme Isis. Sarebbe comico, se non fosse tragico.

19 ottobre 2014 | 10:14
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Da - http://www.corriere.it/esteri/14_ottobre_19/troppi-selfie-cinguetti-narcisismo-che-danneggia-l-isis-78b8a386-5767-11e4-8fc9-9c971311664f.shtml



Titolo: Pier Luigi BATTISTA Storace rischia la galera per un errore perdonato
Inserito da: Admin - Ottobre 21, 2014, 05:39:17 pm
Legge liberticida
Storace rischia la galera per un errore perdonato
Va a processo per «vilipendio al capo dello Stato»: chiamò Napolitano «indegno», ma il presidente lo ha già perdonato. Ma i reati d’opinione dovrebbero scomparire
Di Pierluigi Battista

Francesco Storace rischia oggi la galera per «vilipendio al capo dello Stato». Da notare che lo stesso Storace ha chiesto scusa per aver nel 2007 usato sconsideratamente l’aggettivo «indegno» riferendosi a Giorgio Napolitano. E anche il capo dello Stato ha dichiarato personalmente «chiusa» la deplorevole questione.

Però il Tribunale è andato avanti, dando seguito a un’indicazione non esattamente improntata alla tolleranza dall’allora ministro della Giustizia Clemente Mastella che promosse il procedimento contro Storace. Se dunque quest’ultimo venisse condannato alla galera, l’Italia conterebbe un’altra vittima di quel groviglio di leggi autoritarie tristemente conosciute come «reati d’opinione».

Ma in una sana e solida democrazia liberale i reati d’opinione dovrebbero scomparire. E gli atti di un presidente della Repubblica, criticabili pur in una sfera di garbo lessicale e di rispetto istituzionale, devono essere difesi da altre e convincenti opinioni, non da una sentenza di un tribunale. Ciò che si pensa politicamente non conta. Conta però che non si può gioire se un avversario politico vada in galera per le sue criticabilissime opinioni.

I reati d’opinione sono una triste eredità del fascismo che la democrazia repubblicana e antifascista non ha mai voluto mettere in soffitta. Perciò i giudici applicano una legge liberticida, intrisa di intolleranza, che l’ignavia e anche il tornaconto della politica hanno lasciato intatta. Prevale invece la malcelata soddisfazione per i guai giudiziari di un avversario politico.

Si impone come sempre l’eterna legge della faziosità italiana, in tutti questi anni impeccabilmente bipartisan: protesto quando a subire un torto è un mio amico e sodale, conservo un indifferente silenzio se ad essere colpito è il mio nemico. Si spera nell’assoluzione di Francesco Storace, e nella resipiscenza di una politica che, a sinistra e a destra, non vuole abolire leggi illiberali.

21 ottobre 2014 | 08:47
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Da - http://www.corriere.it/cultura/14_ottobre_21/vilipendio-storace-processo-rischia-condanna-reato-opinione-perdonato-93c9295e-58eb-11e4-aac9-759f094570d5.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA I corpi degli impiccati che penzolano sulle piazze di ...
Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2014, 03:53:06 pm
di Pierluigi Battista

I corpi degli impiccati che penzolano sulle piazze di Teheran vanno cancellati, lo impone la sapienza diplomatica. I diritti umani sprofondano nell’oblio. Il realismo politico trionfa.
Nessuno verrà in soccorso delle vittime di regimi sanguinari e oppressivi.

La fine rovinosa delle «primavere» arabe ha sradicato la difesa dei diritti umani fondamentali dall’agenda politica dei governi. L’opinione pubblica internazionale è stanca e impaurita. Dimentica i 230 mila morti in Siria, e anzi non dissimula nemmeno un certo compiacimento per i massacri compiuti da Assad: mica vogliamo darla vinta agli sgozzatori che praticano la decapitazione rituale degli infedeli? Certo che no. E infatti nessuno obietta se nell’Egitto dei militari, golpisti ma pur sempre laici, le prigioni della tortura son tornate a riempirsi con una frenesia persino sconosciuta ai tempi del dittatore Mubarak, e fioccano le condanne a morte per i membri dei Fratelli musulmani: mica vogliamo rafforzare gli assassini del fondamentalismo fanatico? Certo che no. Poi però dobbiamo accettare che uno strato spesso di ovatta ottunda la percezione di quello che sta accadendo in Pakistan, vulcano che può esplodere in ogni momento, dove una ragazza cristiana, Asia Bibi (nella foto), viene condannata a morte con l’accusa grottesca di «blasfemia».

 In Iran hanno anche scatenato la guerra santa contro le donne che avevano osato assistere a una partita di volley e sono state arrestate. Facciamo finta di non vedere l’assurdità.  Tra un po’ diremo che bisogna rispettare i costumi dei popoli, per metterci in pace con la coscienza. In passato qualcuno si era permesso di stupirsi perché all’Onu la commissione dedicata ai diritti umani risultava presieduta da un esponente del regime poliziesco di Gheddafi. Ce ne siamo pentiti: quel tiranno buffone teneva buone le teste calde, con i metodi che conosciamo. E ora abbiamo smesso di protestare. E anche di cogliere i risvolti grotteschi del realismo politico.

L’Arabia Saudita fa parte della coalizione contro l’Isis: davvero dovremmo indignarci perché il possesso di un crocefisso o di un rosario, nascosti in casa, è sufficiente per la condanna a morte di un «blasfemo» cristiano? Il realismo politico impone il silenzio, l’accondiscendenza, persino l’appoggio ai regimi che violano senza pudore i diritti umani più elementari.

Non dobbiamo scandalizzarci se gli scherani di Hamas ammazzano un po’ di palestinesi con esecuzioni sommarie ed esponendo per strada i corpi martoriati dei «collaborazionisti»: il realismo politico ci consiglia di non esagerare con le parole di condanna, che invece possono essere spese senza ritegno contro Israele, senza nessuna conseguenza spiacevole per noi. Ma anche se usciamo geograficamente dal mondo incandescente del fondamentalismo religioso, la consegna del silenzio sui diritti umani appare tassativa e intransigente. Il Tibet martoriato, il Dalai Lama che non bisogna nemmeno accogliere nelle visite ufficiali, i dissidenti in galera, la censura, le condanne a morte degli oppositori. Temi molesti, inopportuni, che rischiano di compromettere i buoni affari con un gigante che è meglio non fare arrabbiare. Su Putin, poi, il silenzio è diventato un dogma. Lui sì che conosce il modello per trattare con i fanatici pericolosi: lo ha sperimentato in Cecenia, radendo al suolo Grozny.


Oggi Putin deve essere blandito, ci sono ragguardevoli contratti da onorare, figurarsi se è il caso di chiedere all’autocrate come vengono trattati i dissidenti, i gay, gli oppositori, i giornalisti che spariscono e non si adeguano alla stampa di regime. Magari ci dispiace anche, ma non ci conviene manifestare il nostro civile disappunto perché al peggio non c’è mai fine e male abbiamo fatto ad affidarci ai ragazzi della «primavera» e forse ci siamo ficcati nei guai andando a impedire ai talebani di Kabul le lapidazioni delle donne negli stadi.

È la legge del realismo. Reyhaneh Jabbari riposi in pace.

Da - http://27esimaora.corriere.it/articolo/34029/


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Il bipolarismo scomparso nell’Italia delle due sinistre
Inserito da: Admin - Ottobre 30, 2014, 12:23:39 pm
La destra che non c’è
Il bipolarismo scomparso nell’Italia delle due sinistre

Di Pierluigi Battista

Siamo tentati dal bipartitismo, ma intanto in Italia rischiamo l’estinzione del bipolarismo. La logica bipolare poggia infatti su due pilastri: ma se il pilastro della destra si sgretola, il sistema diventa monco, asimmetrico, squilibrato. Con la robusta spallata renziana, il dibattito politico sembra essere occupato esclusivamente dallo scontro tra le «due sinistre», perché la destra di governo non c’è più, è silente, marginale, cupa, risucchiata nella rassegnazione minoritaria. Anche le ultime elezioni europee hanno assistito al duello tra Renzi e Grillo. Nel frattempo la destra di governo, che solo sei anni fa totalizzava circa il 45% dei voti, è diventata una somma di sigle, percentualmente tutt’altro che trascurabile: ma tanti frammenti non fanno un intero. E oggi tutti sanno che, in caso di elezioni, non ci sarebbe partita. Il risultato finale sarebbe scontato. La democrazia dell’alternanza diventerebbe un pallido ricordo.

È crollata la destra di governo. L’umore di destra è ancora vivo. La nuova Lega di Salvini è capace di portare una consistente fetta di popolo in piazza. Ma è la destra protestataria che si alimenta di rabbia e sofferenza sociale, forte e radicata come quella francese di Le Pen (padre), non la destra di governo che compete per la conquista della maggioranza, come avviene nel resto dell’Europa, talvolta perdendo, talvolta vincendo, tuttavia sempre competitiva.

La destra italiana si aggrappa al carisma residuo di Berlusconi, ma non sa più parlare al suo «blocco sociale». Agganciandosi alla locomotiva renziana, spera di intestarsi una titolarità e una nuova rispettabilità «costituente» nella sfera delle riforme istituzionali, ma senza portare qualcosa di «suo», senza convinzione, senza entusiasmo, o per non dare un dispiacere a un leader che sembra amare più il giovane rottamatore della parte avversa che Forza Italia. La destra italiana non ha più un’idea forte, qualcosa che convinca chi l’ha votata in passato a rinnovare la sua fiducia e chi si affaccia per la prima volta alla politica a scommettere insieme per il futuro. L’esercito delle partite Iva, la piccola e media impresa, i commercianti, i liberi professionisti, il vasto ceto medio che per vent’anni ha trovato nella destra la sua casa è frastornato, deluso. Magari, galvanizzato dalla protesta antitasse, è tentato da Salvini, anche se il furore contro gli immigrati e gli inni del capo della Lega al Gulag della Corea del Nord lo tengono a debita distanza. Magari non escluderebbe la carta Grillo, anche se il leader dei Cinque Stelle appare appannato, sbiadito, confuso. Oppure c’è la tentazione Renzi: ma innamorarsi del leader dello schieramento avversario certifica la fine di una storia politica, una diaspora infinita, la cancellazione di un intero ciclo politico. Senza considerare i Comuni e le Regioni: persi uno ad uno con percentuali avvilenti, come si è visto a Reggio Calabria nei giorni scorsi.

Quando trionfava Berlusconi, almeno la sinistra compensava i suoi dolori con il governo delle grandi città e delle Regioni centrali. Alla destra un tempo di governo non resta nemmeno questo contrappeso. Quando Berlusconi stravinceva, la sinistra aveva i sindacati, le cooperative, gli intellettuali, l’ establishment dei grand commis di Stato. Ma la destra non ha niente di tutto questo.



La crisi drammatica in cui versa Forza Italia non riguarda solo Forza Italia, ma il nostro sistema politico. La cosa migliore del bipolarismo è la democrazia dell’alternanza: la paura per chi governa di perdere il potere, di veder prevalere lo schieramento avverso, di essere battuto alle elezioni e tornarsene a casa. Una destra ripiegata in se stessa, rinchiusa nella sua fortezza, attenta a captare ogni variazione nello stato umorale del Re, paralizzata nell’attesa che al suo leader venga restituita piena agibilità politica, frastornata dalla rivoluzione generazionale che ha elettrizzato gli avversari guidati da Renzi, una destra così è destinata alla sconfitta, alla testimonianza, all’autoperpetuazione del proprio apparato.
Senza slanci, senza nemmeno, forse, la voglia di vincere. Accontentandosi di sperare che la legislatura non finisca presto e che almeno, visti i numeri dell’attuale Parlamento, la destra abbia almeno voce in capitolo nell’elezione del prossimo presidente della Repubblica. Un colpo duro alla democrazia dell’alternanza, se la destra non pensasse seriamente alla propria autoriforma. Un esito amaro per chi, vent’anni fa , predicava il futuro radioso di una «rivoluzione liberale».

30 ottobre 2014 | 09:16
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_ottobre_30/bipolarismo-scomparso-nell-italia-due-sinistre-83766b34-600c-11e4-b0a9-d9a5bfba99fb.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Fenomenologia del panico da maltempo
Inserito da: Admin - Novembre 12, 2014, 04:20:54 pm
Particelle elementari
Fenomenologia del panico da maltempo
Quando le bombe d’acqua si chiamavano «pioggia». E se la «pioggia» era battente si diceva «temporale», volgarmente «acquazzone»
Di Pierluigi Battista

Gentili concittadini, terrorizzati dalle bombe d’acqua e sgomenti perché ogni tanto il cielo butta pioggia, provocando il freddo d’inverno e gettandoci nel panico perché ogni volta città, villaggi e persone rischiano di annegare, forse è il caso che ci diciamo cose rassicuranti, sebbene stupefacenti.

Tanto tempo fa le bombe d’acqua si chiamavano «pioggia». Se la «pioggia» era battente, si diceva «temporale», volgarmente «acquazzone». Talvolta si trascendeva in «grandinata» o, con pericolose vicissitudini termiche, «nevicata» destinata purtroppo a diventare insormontabile «ghiaccio» senza il tempestivo intervento dei cosiddetti «spalatori» . Colorite espressioni come «piove a dirotto» o «diluvia» davano il senso della ferma accettazione popolare di un destino meteorologico momentaneamente avverso. Per non bagnarsi si fabbricavano oggetti come il cosiddetto «ombrello» e capi d’abbigliamento come «giacche a vento», «galosce», per i più anziani «impermeabili». Spesso le piogge provocavano luminosità improvvise dette «fulmini», seguite da sonorità prepotenti dette «tuoni». Un genio come Benjamin Franklin l’aveva previsto e già nel ‘700 aveva inventato il «parafulmine».

Invece di maledire il global warming , per evitare esondazioni di fiumi e torrenti, si possono costruire apposite barriere difensive dette «argini». E se i sindaci e le amministrazioni non ne costruiscono di affidabili, la colpa non è del liberismo selvaggio ma dell’acclarata incapacità dei suddetti. Nelle città, per favorire l’assorbimento delle bombe d’acqua un tempo chiamate «temporali», si dovrebbe provvedere alla costruzione di apposite infrastrutture chiamate popolarmente «tombini». Per evitare allagamenti e disastri bisognerebbe provvedere, a differenza di quello che capita a Roma, alla periodica ripulitura dei «tombini» da foglie e altri oggetti che possono ostruire il normale deflusso dei liquidi.

Nei litoranei possono accadere fenomeni che urtano la nostra sensibilità come le «mareggiate»: in questo caso sarebbe controproducente sostare in prossimità delle acque. Insomma, i pericoli esistono, sarebbe inutile nasconderlo. Ma invece di allarmarsi oltremodo ogni volta che il servizio meteo annuncia bombe d’acqua, occorrerebbe predisporsi alla riparazione di «argini» e «tombini», senza arrendersi ai terrori sull’«emergenza pioggia», cominciando anzi a rimboccarsi fattivamente le maniche. Dell’impermeabile.

10 novembre 2014 | 09:32
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_novembre_10/fenomenologia-panico-maltempo-battista-c82bbb36-68b2-11e4-aa33-bc752730e772.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Emilia-Romagna, un simbolo che si spegne
Inserito da: Admin - Novembre 24, 2014, 02:51:10 pm
La roccaforte

Emilia-Romagna, un simbolo che si spegne
Senza colore L’astensionismo colpisce anche Forza Italia e M5S Ma per il Pd è più grave
Il rigetto Lo scandalo dei fondi pubblici nutre la sfiducia per tutto il sistema

Di Pierluigi Battista

L’Emilia-Romagna non è solo una Regione, è un simbolo. È la roccaforte della sinistra lungo l’intero arco della storia repubblicana. Quando la destra espugnò Bologna con Giorgio Guazzaloca, fu una frattura nelle vicende della politica italiana. Quando meno della metà degli elettori si reca alle urne, è un blocco intero che scricchiola, un modello di consenso che vacilla. L’Emilia-Romagna in cui crolla la percentuale di chi si reca a votare è il regno dei «corpi intermedi», dalle cooperative al sindacato al partito di stampo tradizionale, che innervano la società, la integrano, le danno coesione politica. Matteo Renzi gioca tutto il suo appeal sulla «disintermediazione», sul rapporto diretto tra il leader e gli italiani saltando la mediazione dei corpi intermedi. Ma il massiccio astensionismo di ieri in Emilia rappresenta la reazione ritorsiva dei corpi intermedi. Se il sindacato viene messo con le spalle al muro, chi si identifica con la cultura e la politica che si sono insediati nel sindacato decide di disertare le urne.

Si può dire che in Emilia le elezioni mancano del pathos dell’incertezza e del «voto utile», visto che il risultato è scontato: ma è sempre stato così, e mai l’astensionismo ha raggiunto livelli tanto allarmanti. Si dice anche che l’astensionismo è una sindrome molto diffusa già da tempo e che pure il sindaco di Roma l’anno scorso è stato votato da meno della metà dei romani. Però in Emilia si è assistito a un crollo. E mai avremmo potuto immaginare che l’Emilia si potesse dimostrare più astensionista della Calabria. Si tratta inoltre di un fenomeno privo di un colore sicuro. Anche l’elettore di destra deluso da Berlusconi è sfiduciato e non va a votare. Anche l’elettore di Grillo che vede la carica del Movimento 5 Stelle spenta e incapace di indicare un’alternativa è tentato dall’astensione. Ma non si può separare il destino dell’Emilia dal partito che, pur tra mille rotture, evoluzioni e discontinuità rappresenta e incarna l’eredità del Pci, la sua presenza capillare, la sua ramificazione in tutti i gangli sociali, cooperativi, sindacali, associativi. E dunque se in presenza del messaggio ottimistico ed elettrizzante del premier che è anche il segretario del partito che gode del massimo insediamento emiliano l’elettorato risponde così freddamente, la percezione del rifiuto appare inequivocabile. E si evidenzia ancora di più che l’intero arco dei partiti, grillini inclusi, coinvolto nello scandalo dell’uso disinvolto dei fondi pubblici non dà agli elettori l’ossigeno per la minima fiducia. Anzi, nutre la sfiducia per tutto il sistema, percepito come un blocco indistinto, che spreca i soldi dei contribuenti con cene pantagrueliche, regali, articoli di consumo, oggetti lussuosi e persino sex toys pagati con i fondi che dovrebbero servire a finanziare la politica. Ovvio che questo andazzo intollerabile abbia alimentato un rigetto disilluso e indiscriminato. E che il comportamento disdicevole dei consiglieri regionali abbia confermato e rafforzato una tendenza astensionista oramai solida e che ieri in Emilia ha assunto le caratteristiche di un crollo. Un campanello d’allarme per tutti i partiti, per le Regioni, per il premier e anche per i suoi avversari. Una data spartiacque. Un altro simbolo che si spegne.

24 novembre 2014 | 08:29
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_novembre_24/emilia-romagna-simbolo-che-si-spegne-6584bb32-73ab-11e4-a443-fc65482eed13.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Europa tace e non reagisce alle parole del presidente turco
Inserito da: Admin - Novembre 26, 2014, 05:16:34 pm
IL Commento

Erdogan e il disprezzo per le donne Ma nessuno chiederà sanzioni
L’Europa tace e non reagisce alle parole del presidente turco

Di Pierluigi Battista

Si dice sempre così, per tenere le donne zitte e subalterne: che sono diverse dall’uomo. Ma perché il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha dovuto sottolineare enfaticamente una simile ovvietà? Per dire che nella gerarchia della diversità le donne stanno a un gradino sotto: «Non si possono mettere sullo stesso piano una donna che allatta un bambino e un uomo». A un piano di sopra, l’uomo. La donna a quello inferiore. In Europa, felicemente sradicata da se stessa, c’è di tutto ormai. Potrebbe esserci anche una Turchia il cui onnipotente presidente sta sempre più scivolando verso l’integralismo religioso, la resa di ogni parvenza di laicità, l’accomodamento con i guardiani della fede, l’odio per l’«entità sionista», il disprezzo per le donne sancito dai testi sacri.

C’è posto per tutti. Per Erdogan no? Sarebbe meglio di no, sempre che l’Europa sia in grado di dire una qualsiasi cosa, ciò che appare sempre più problematico. Sono passati i tempi in cui la Turchia, avamposto dell’Occidente nel punto geopoliticamente più delicato, di confine tra due mondi sempre più dissimili, chiedeva il biglietto d’ingresso dell’Europa. Quei legami si stanno sciogliendo, solo la minaccia dell’Isis impedisce a Erdogan di proseguire nella deriva islamista in cui voleva trascinare la Turchia con un ruolo di leadership.

Ma per ribadire la sua nuova fedeltà ai princìpi religiosi la strada più semplice per Erdogan è di confinare le donne nei ruoli ancillari in cui tanta parte del fondamentalismo islamista le relega, anche con le percosse, la violenza fisica per chi vuole andare a scuola, lo stupro legalizzato attraverso la consegna delle bambine a mariti-padroni. Un ammiccamento a buon mercato, tanto nessuno chiederà sanzioni per l’ennesimo schiaffo alle donne. Solo l’Europa, se ci fosse, potrebbe reagire. Se ci fosse. Perciò niente.

25 novembre 2014 | 10:31
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Da - http://www.corriere.it/esteri/14_novembre_25/erdogan-disprezzo-le-donne-ma-nessuno-chiedera-sanzioni-c5bfd494-7484-11e4-ab92-90fe0200e999.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Il Pd deve ripulirsi, l’ora delle scuse è arrivata per tutti
Inserito da: Admin - Dicembre 07, 2014, 05:38:41 pm
Lo Scandalo romano
Il Pd deve ripulirsi, l’ora delle scuse è arrivata per tutti
Il sindaco Marino può rivendicare la sua estraneità alle indagini, ma la giunta è accusata di essersi fatta coinvolgere nei traffici illegali

Di Pierluigi Battista

S e fosse la mafia ad essersi messa in tasca la città, non si capirebbe davvero per quali contorcimenti logici, o per quale ambiguo senso delle opportunità, Roma non debba seguire la sorte dei tanti piccoli e grandi Comuni sciolti a causa delle infiltrazioni mafiose. Si dice sempre che le inchieste giudiziarie non devono dettare i tempi della politica (e viceversa). Ma i magistrati di Roma, invocando quel termine terribile e mostruoso - «mafia» - come connotazione dell’intreccio malavitoso in cui Roma rischia di soffocare, si sono consapevolmente presi una grossa responsabilità. Se quel groviglio di malaffare comunque maleodorante non fosse «mafia», la magistratura avrebbe giocato troppo pesantemente. Se fosse «mafia», se le parole hanno un senso, se la giustizia vuole essere diversa dai modi di dire e dalla narrazione noir in salsa capitolina, allora il destino di Roma, la capitale d’Italia, diventa un problema politico che richiede tagli drastici. Si invocano rotture e «discontinuità» in continuazione, cosa deve aspettare ancora la politica romana? Non è sufficientemente squassante la mafia in Campidoglio a far da padrona?

I cittadini italiani da tempo contribuiscono a pagare la montagna di debiti di Roma, evitandone il default. Non è giusto che un cittadino italiano non debba sapere come viene dilapidato il suo contributo. Ed è sconvolgente il sospetto che il denaro pubblico vada a puntellare un’istituzione inquinata dalla mafia nei suoi gangli vitali. Con un’associazione a delinquere che nella passata sindacatura di Alemanno si è installata nel centro magico del governo cittadino e in questa di Marino piazzando i suoi referenti politici nella giunta Marino, ai vertici del consiglio comunale e finanche, con un paradosso lessicale che sembra mutuato di peso da un romanzo di Orwell, nell’organismo preposto alla «trasparenza» della cosa pubblica.

Matteo Orfini, che ha assunto il compito ingrato di commissariare il Pd romano immerso fino al collo nella melma, sostiene che non ci sono gli estremi per il commissariamento del Comune di Roma. Ma perché la sacrosanta esigenza di azzerare il Pd romano non deve valere anche per il governo del Comune? Se c’è l’urgenza di ripartire da zero per un partito, non c’è forse la stessa urgenza per le istituzioni? Non percepiscono forse l’abisso di sfiducia in cui è piombata tutt’intera la politica romana e che oggi contagia l’intera cittadinanza italiana, stanca del privilegio che sinora Roma ha goduto come debitrice super-assistita con le risorse pubbliche gettate in una fornace di sprechi senza fondo? Il sindaco Marino può rivendicare la sua estraneità alle indagini, e anche l’orgoglio di essersi sottratto all’abbraccio di una lobby malavitosa. Il prefetto si dice addirittura preoccupato per l’incolumità del primo cittadino di Roma, che va tutelato e non indebolito. Ma la sua giunta è accusata di essersi fatta infilare dalla mafia e la sua maggioranza nella sala intitolata a Giulio Cesare si è rivelata inaffidabile, permeabile, come è stata descritta su queste pagine da Fiorenza Sarzanini, alle sollecitazioni criminali, parte integrante di un sistema che ha gestito con concordia bipartisan affari, appalti, rifiuti, persino «immigrati», trattati come un business più vantaggioso del traffico di droga. Quel «tariffario» a base del libro paga dell’associazione non si può dimenticare. E azzerare tutto, con un gesto di responsabilità e di buona volontà se il prefetto non dovesse provvedere a uno scioglimento d’autorità, può diventare un segnale di rigenerazione, una pagina totalmente nuova, l’ultimo tentativo di riconquistare la fiducia perduta dei cittadini, romani e non.

E tutti dovranno chiedere scusa. La destra romana in primis, che deve espiare la colpa di aver messo il Comune nelle mani di una banda. E che dovrebbe avere la decenza di non sfilare più in nome della «sicurezza» dopo aver partecipato al banchetto sugli appalti per i campi nomadi. Le Coop che si sono appoggiate così a lungo a figure di corruttori senza pudore: di questo devono rispondere i suoi dirigenti, e non delle foto di cene a cui ha partecipato l’attuale ministro Poletti. I governi, che dovrebbero metter mano subito alla palude infetta delle partecipate. Il Pd, che dovrà fare piazza pulita di comportamenti che lo hanno reso un partito impresentabile. E le forze economiche che aspettano eventi piccoli e grandi (le Olimpiadi anche?) per abbandonarsi nuovamente all’andazzo delle gare d’appalto truccate, alle cordate, alle cricche. Forse addirittura, ma solo se venisse confermato l’impianto accusatorio della magistratura, alle cosche.

5 dicembre 2014 | 08:58
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Da - http://www.corriere.it/cultura/14_dicembre_05/pd-deve-ripulirsi-l-ora-scuse-arrivata-tutti-5ec00bf2-7c53-11e4-813c-f943a4c58546.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA LA CRISI DEI DIRITTI UMANI
Inserito da: Admin - Dicembre 20, 2014, 04:49:04 pm
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LA CRISI DEI DIRITTI UMANI
Le campagne online di sensibilizzazione non sono inutili di fronte alle violenze ripetute come i rapimenti e le umiliazioni subite dalle donne in Nigeria. Occorre rompere la narcosi generale anche solo con una piccola scintilla   
I terroristi di Boko Haram che contano sul nostro silenzio

Di Pierluigi Battista

Non la smettono più. I terroristi di Boko Haram in Nigeria sequestrano, uccidono, stuprano le ragazzine, costringono alla conversione, massacrano, demoliscono scuole, impongono il loro credo fanatico, portano l’islamismo jihadista all’apice vertiginoso dell’efferatezza. E sanno di farla franca. Sanno che non ci sarà nessun impegno internazionale a fermare le loro stragi. Anche le campagne di opinione mondiali per salvare le donne che stanno torturando non hanno sortito alcun effetto significativo. I carnefici sanno di poter contare sulle dimenticanze del mondo.

Sono passate poche ore dall’eccidio islamista di Peshawar e già il mondo si è voltato da un’altra parte. Non si impegna. Non si mobilita. È impotente. Figurarsi se si fanno condizionare dai generosi appelli via Twitter «#Bring Back our Girls», con Michelle Obama capofila della protesta. Figurarsi se conoscono altro linguaggio che non sia quello militare della dissuasione internazionale. Figurarsi: sanno che nessuno si muoverà, e che la difesa delle persone schiacciate e umiliate, le campagne per i diritti fondamentali calpestati in porzioni immense del mondo, tutto questo è oramai un’arma spuntata, una battaglia spenta.

I violenti, i prevaricatori, gli intolleranti, i guerrieri della sopraffazione sanno che possono averla vinta, perché l’opinione pubblica delle nostre democrazie per prima è stanca, disillusa, impaurita, prigioniera della sua impotenza. Non ci sono le Nazioni Unite, da sempre invischiate nei veti, piene di Paesi che fanno strage dei diritti umani ma che hanno nell’Onu una vetrina, una tribuna per tutti i dittatori e i satrapi che si oppongono a ogni ingerenza umanitaria. Non c’è un Tribunale internazionale: un ente inutile, screditato, colpisce soltanto dittatori deposti, mai quelli al potere, mai quelli che possono fare ancora danni e che sono ancora pericolosi. Non c’è una diplomazia delle cancellerie, perché la ragione economica prevale su ogni altra considerazione. Nessuno interroga più la Cina sui dissidenti tenuti in carcere. Il Dalai Lama oggi passa quasi inosservato e i dirigenti di Pechino non hanno nemmeno bisogno di impaurire i governi occidentali affinché non ricevano chi è il testimone dell’oppressione del Tibet: l’opinione pubblica ha altro a cui pensare. Se c’era qualche perplessità sulla violazione sistematica dei diritti umani nella Russia di Putin l’argomento del realismo politico lo ha affossato. Un tempo il dittatore bielorusso Lukashenko era un motivo di imbarazzo per gli interlocutori democratici, oggi Romano Prodi può andare a incontrarlo con il sorriso senza che qualcuno possa sollevare anche un’ombra di disappunto. Dispiace che Putin abbia sconfinato in Ucraina perché questo costringe l’Europa a uscire dal suo torpore, ma è tutto qui.

E il lugubre Kazakistan che viola i diritti umani? Basta, non serve più a fini di politica interna, e quindi in Italia della dittatura kazaka nessuno parla più. Ma è la delusione attrice delle primavere arabe che oramai ha diffuso nel mondo la certezza che i diritti umani siano solo qualcosa di molesto, un fastidio da lasciare alle organizzazioni umanitarie. Anzi, meglio allearsi con i peggiori macellai della ragione pur di non darla vinta ai fondamentalisti. E dunque con Assad, che ha mietuto decine di migliaia di vittime. E dunque silenzio su Erdogan che fa le retate di giornalisti, perché potrebbe essere un utile alleato. E dunque silenzio sulla repressione a Teheran e su una ragazza condannata solo perché ha assistito a una partita di volley, perché con l’Iran ora bisogna coalizzarsi. E dunque silenzio con il Qatar e con l’Arabia Saudita anche se a Riad un cristiano trovato in possesso di un rosario viene condannato a morte. E in questo silenzio totale, noi abbiamo ancora il tempo di denunciare la vanità delle campagne su Twitter mentre in Nigeria Boko Haram fa strage di «infedeli» e di bambine da violentare?

Sarà pure una moda, una maniera per scaricarsi la coscienza con un gesto che non costa nulla e che anzi fa sentire chi espone un cartello «Bring Back our Girls» al centro della «bontà» internazionale. Sarà pure un modo per non volersi accorgere che le armi per combattere la barbarie del terrore devono essere più efficaci: armi vere, che mettano in fuga i terroristi e i decapitatori seriali. Ma almeno una scintilla di interesse ancora accesa non può far male. Un piccolo antidoto alla narcosi generale sul tema dei diritti umani non può che essere il benvenuto. È poco, pochissimo, ma almeno è qualcosa. E qualcosa che è meglio del silenzio complice, del realismo che camuffa la paura e l’impotenza. Meglio un cinguettio che il cinismo degli ultimi adepti della Real-Politik. Per cui, ancora una volta: «#Bring Back our Girls.

Da - http://27esimaora.corriere.it/articolo/i-terroristi-di-boko-haramche-contano-sul-nostro-silenzio/



Titolo: Pier Luigi BATTISTA Nuovi violenti, che errore sottovalutarli.
Inserito da: Admin - Dicembre 26, 2014, 11:40:41 am
LA NOSTRA STORIA INSEGNA
Nuovi violenti, che errore sottovalutarli

Di Pierluigi Battista

La scorciatoia della violenza è facile da imboccare, non è costosa, richiede mezzi rudimentali e «poveri»: perciò è sempre pericolosa, e in questi frangenti della storia ancor di più. Con qualche bottiglia incendiaria piazzata nei punti giusti, si può bloccare o almeno compromettere il transito da Nord a Sud sul percorso dell’Alta velocità. Con armi ridotte all’essenziale, la paura è certa: crea scompiglio, caos, apprensione, senso di insicurezza. Semina terrore, che poi sarebbe l’essenza delle finalità terroristiche anche se la categoria storico-giuridica del «terrorismo» è controversa e un tribunale a Torino ha appena sentenziato che le violenze sistematiche dei No Tav non possono essere sussunte nei canoni dell’organizzazione «terroristica» classica. Però chi lavora nei cantieri blindati della Val di Susa vive nella paura costante degli agguati, le aziende che forniscono materiale di lavoro sono perennemente sotto sorveglianza e sono nel mirino dei violenti persino gli alberghi della zona che ospitano una parte delle forze dell’ordine.
La tentazione violenta aumenta dove c’è disagio, rabbia, frustrazione. Durante i pacifici cortei sindacali, gruppetti di violenti allestiscono lo spettacolo della guerriglia con un armamentario poco costoso ma di sicuro impatto mediatico. A Roma, a Tor Sapienza, gruppi neofascisti come CasaPound e Forza nuova, attizzano la disperazione delle periferie abbandonate a se stesse, fanno uso delle tecniche più collaudate dello scontro di piazza, manovrano la collera e la indirizzano verso bersagli facili da colpire.

Cresce la velleità del terrorismo fai-da-te, come si vede dalle indagini abruzzesi. Tutti sintomi di sfiducia nelle regole della battaglia politica democratica. Tutti segni che dimostrano il fascino della violenza.

Questo ricorso massiccio alla violenza diffusa, di piccoli gruppi, disseminata a sinistra e a destra, nei luoghi del disagio sociale e sui palcoscenici delle grandi questioni come l’Alta velocità, non può essere sottovalutato e liquidato come un codice di frange lunatiche e iperminoritarie. Minoritarie certamente, ma in grado, come si vede con gli ordigni rudimentali contro l’ossatura del nostro sistema ferroviario, di creare tensione, terrore, allarme sociale. In passato le prime avvisaglie della violenza furono accolte con indifferenza se non addirittura con indulgenza. Oggi, in contesti e motivazioni completamente diverse, la minimizzazione di episodi truci come quelli di Sydney o di Digione è dettata dalla paura ma rischia di non far capire le radici di un nuovo terrorismo pericoloso e fanatico.

In Italia si parla per fortuna di dimensioni diverse, ma oggi ogni indulgenza sarebbe la certificazione dell’impotenza politica della democrazia, e un cedimento verso chi fa della violenza un metodo, e forse una concezione del mondo e della politica.

Non ci si deve abituare ai professionisti della guerriglia, a chi grida slogan truculenti nell’ambito delle manifestazioni No Tav che, è bene precisarlo, sono in quanto tali legittime in un sistema democratico. Non è legittima la pratica della violenza. Non ha alcuna giustificazione la tecnica dell’intimidazione fisica, del sabotaggio, dello scontro permanente con la polizia, del mettere a repentaglio la sicurezza di migliaia di cittadini che viaggiano in questi giorni di Natale. La scorciatoia della violenza è facile da praticare. Deve essere un impegno stroncarla prima che faccia troppi danni.
24 dicembre 2014 | 09:10
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_dicembre_24/nuovi-violenti-che-errore-sottovalutarli-45aeb240-8b43-11e4-9698-e98982c0cb34.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA I nemici di «Charlie Hebdo» e della nostra libertà
Inserito da: Admin - Gennaio 08, 2015, 04:58:08 pm
I nemici di «Charlie Hebdo» e della nostra libertà
Gli attentatori che hanno fatto una strage nella sede del settimanale non ne sopportano la libertà e il suo non piegarsi a nessuna autorità

Di Pierluigi Battista

«Charlie Hebdo» non è solo la testata di un giornale, ma quello di un’istituzione del giornalismo irriverente e anticonformista, del tempio della satira politica. Le sue vignette fanno male. Sono caustiche, beffarde, senza timori reverenziali per nessuno. Gli attentatori che hanno fatto una strage nella sua sede non ne avranno sopportato lo spirito di libertà, il suo non piegarsi a nessuna autorità. Sono entrati massacrando persone inermi nel giornale che era stato indicato ai bigotti dell’integralismo islamista come un covo di infedeli che osavano irridere tutto e tutti.

I politici francesi non hanno mai amato «Charlie Hebdo», anche se a farne le spese erano gli avversari: sapevano che sarebbe arrivato presto il loro turno. Ma gli assassini che hanno compiuto la carneficina considerano la satira un’arma demoniaca, l’emanazione di un Male da sradicare con ogni mezzo, anche con raffiche di kalashnikov. Le prime rivendicazioni parlano di «vendicare il Profeta». Possono essere smentite, o costituire un depistaggio. Occorre prudenza. Ma la mano degli stragisti si è mossa animata dal fondamentalismo fanatico, dall’oltranzismo religioso, da chi non sopporta la laicità, la critica, le opinioni diverse, l’ironia. Sono nemici delle nostre libertà. Le libertà che hanno dato vita a «Charlie Hebdo», un suo pilastro che i nemici vogliono demolire, e affogare nel sangue degli innocenti.

7 gennaio 2015 | 13:02
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_gennaio_07/attacco-charlie-hebdo-nemici-nostra-liberta-a09ec5d4-9663-11e4-9ec2-c9b18eab1a93.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Non cedere alla paura Quelle voci lasciate sole anche da noi
Inserito da: Admin - Gennaio 10, 2015, 03:57:47 pm
Non cedere alla paura
Quelle voci lasciate sole anche da noi

Di Pierluigi Battista

Tutti dicono: non cederemo. Purtroppo abbiamo già ceduto quando, impauriti e indossando buoni sentimenti ecumenici, lasciammo solo Charlie Hebdo che pubblicava le vignette danesi che satireggiavano sull’Islam.
Al settimanale non condividevano quelle vignette e ne detestavano il cattivo gusto. Ma, libertari e anticonformisti, irriverenti e lontanissimi dall’ideologismo militaresco della satira nostrana, le pubblicarono lo stesso. Non ci siamo accorti che, lasciando soli i giornalisti e i vignettisti di Charlie Hebdo, li esponevamo alla vendetta del fanatismo islamista. Non c’eravamo accorti dell’assassinio rituale del regista Theo van Gogh in Olanda. Non c’eravamo accorti che il vignettista Kurt Westergaard era stato costretto a rifugiarsi in una stanza blindata mentre due energumeni tentavano di trucidarlo a colpi d’ascia. Non c’eravamo accorti della persecuzione dell’«infedele» Ayaan Hirsi Ali, in fuga da fondamentalisti che vogliono azzannarla per farle pagare con la vita la sua «apostasia». Non c’eravamo accorti che non solo Salman Rushdie era costretto a fuggire per sottrarsi a una fatwa planetaria, ma che il suo traduttore giapponese, Hitoshi Igarashi, era stato sgozzato e quello italiano, Ettore Capriolo, lasciato in una pozza di sangue, vivo per miracolo, mentre intellettuali prestigiosi in tutto il mondo accusavano l’autore dei Versi satanici (neanche letto, peraltro) di essersi meritata la condanna a morte per aver offeso Maometto.

Ce ne siamo accorti ora, che con la strage di Charlie Hebdo abbiamo vissuto ieri l’11 settembre dell’Europa. Non è un paragone esagerato, anche se il numero delle vittime è di molto inferiore. Il paragone consiste nell’alto valore simbolico delle due carneficine. Nel 2011 si volle colpire con le Torri Gemelle il simbolo della ricchezza, del potere, dell’Amerika, dell’Impero, dell’Occidente opulento e «infedele». Ieri, massacrando la redazione di un giornale satirico, si è voluto colpire il simbolo della libertà, dell’opinione eterodossa, del dissenso sarcastico.

Nella guerra culturale che il fondamentalismo jihadista ha scatenato contro il nostro «stile di vita», la libertà la critica, l’ironia, l’irriverenza, il rifiuto del dottrinarismo autoritario, la pluralità dei valori sono il Male da sradicare, il peccato da estirpare, la depravazione da colpire. In Pakistan e in Nigeria colpiscono le scuole, i libri, le ragazze che vogliono frequentare le aule scolastiche. In Europa vedono l’antitesi di ciò che vorrebbero imporre con la forza delle armi: la sottomissione (come recita il titolo del romanzo di Michel Houellebecq), l’obbedienza assoluta, la censura universale, la liturgia della subalternità, la cancellazione di ogni tentazione critica.

Essenziale delle democrazie europee e occidentali, amava ricordare il compianto Lucio Colletti, è la «critica di se stessi», il continuo riesame delle opinioni dominanti, l’autoscrutinio minuzioso e quasi maniacale nella sua intransigente volontà di non lasciare alcunché di indiscusso, di dogmatico, di tramandato.
La satira, banalizzata nella normalità della comunicazione politica ordinaria, diventa invece un’arma micidiale per i fondamentalisti, i fanatici, i sacerdoti di regimi oppressivi e asfissianti. La satira accoppia cultura e sorriso, ironia e critica. Le sue vignette non portano solo argomenti freddi, ma impongono una loro estetica e anche l’arte, l’estetica, le immagini, i colori, la stessa raffigurazione del sesso sono tentazioni demoniache che i custodi di una dottrina implacabilmente totalitaria non possono letteralmente sopportare.

Ora sui social network dilaga il motto «Je suis Charlie». Magari fosse vero. Magari ci si rendesse conto della solitudine in cui abbiano confinato i disegnatori e i giornalisti del settimanale satirico che i fanatici islamisti ieri hanno voluto annientare. Sarebbe il caso che chi li criticò nel 2006, indicando il settimanale come «oggettivo» fomentatore della guerra di religione, si astenesse oggi dalla virtuosa identificazione con le vittime del massacro. Sarebbe il caso di capire in cosa consiste il valore della libertà, della libertà culturale, della libertà d’opinione, della libertà delle donne, della libertà di stampa, della libertà di satira. Delle libertà che anche alcuni figli della nostra Europa, non solo gli «alieni» che vengono da un mondo lontano, anche chi parla perfettamente inglese o francese perché in quelle lingue è cresciuto, considerano un peccato da punire, anche con la morte violenta.

Sarebbe il caso di capire bene, nell’Europa un po’ stordita e un po’ esausta, chi sono i nemici, senza edulcorazioni dettate dall’opportunismo. Senza isterismi di reazione, ma con la calma della ragione, con la forza di valori che non vorremmo veder scomparire. E per dire «non cederemo»: ma stavolta sul serio.

8 gennaio 2015 | 07:18
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_gennaio_08/quelle-voci-lasciate-sole-anche-noi-ebd699e2-96fd-11e4-b51b-464ae47f8535.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Giuliano Ferrara: «Militanti, non terroristi: seguono il ...
Inserito da: Admin - Gennaio 12, 2015, 09:56:16 pm
LA CONVERSAZIONE
Giuliano Ferrara: «Militanti, non terroristi: seguono il Corano»
Intervista al direttore de «Il Foglio»: «Assistiamo alla bancarotta della Francia repubblicana e illuminista che finge di non capire per rinunciare a combattere»


Di Pierluigi Battista

Caro Giuliano Ferrara,
lei che esorta a usare una «violenza incomparabilmente superiore» per sgominare i terroristi... «Alt, la fermo subito perché sta commettendo il solito errore. Guardi questo articolo che ho appena finito di scrivere: Je suis Kouachi , Je suis Coulibaly . Sono impazzito? No, ma sono contrario a definirli terroristi. Sono guerriglieri, combattenti, militanti islamici che applicano alla lettera la legge sacra fissata nei testi coranici. Erano ragazzi di strada, rapper che inseguivano un successo impossibile, con la testa confusa, uno di loro era riuscito addirittura a farsi ricevere da Sarkozy. Ma poi, con un processo di conversione guidato dalla rete di cellule in cui si predicano i precetti del purismo islamista, questi ragazzi trovano un senso, una missione. Si organizzano e si votano alla morte, quella degli infedeli da ammazzare e quella propria da sacrificare nel martirio. Come gli shàhid che si fanno esplodere davanti a una pizzeria di Tel Aviv o buttano già le Twin Towers schiantandosi con gli aerei».

E perché mai colpire una combriccola di vignettisti, di disegnatori che stavano preparando un nuovo numero di Charlie Hebdo ? «Ma come perché? Perché sono blasfemi, e nei regimi dove domina la legge islamica i blasfemi e gli “apostati” vengono condannati a morte o con le punizioni corporali. Proprio in questi giorni, nella “moderata” Arabia Saudita, sono partiti con la somministrazione di 50 frustate delle mille comminate contro il blogger Al Jafali, condannato a dieci anni di reclusione per “frasi irriverenti nei confronti del Profeta”. Ci vede questa grande differenza con i combattenti islamici che hanno compiuto la decimazione di quel covo di blasfemi che offendevano Maometto, profanando l’Islam con le loro vignette?».

È davvero impressionante questa corsa un po’ ipocrita alla negazione della radice islamica delle stragi di questi giorni. Però è difficile non comprendere le ragioni di chi sta al vertice delle istituzioni come Hollande e certo non può fare la guerra a 5 milioni di musulmani francesi. «Ma che c’entrano i 5 milioni di musulmani. Hollande nega l’evidenza e dice che le stragi di Parigi non hanno niente a che vedere con l’Islam? È la bancarotta della Francia repubblicana e illuminista che finge di non capire per rinunciare a combattere. Dovrebbero andare a lezione dal presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi, che davanti alle autorità religiose dell’università di al Azhar ha chiesto una “rivoluzione” nell’Islam per “sradicare” il fanatismo: “È possibile che la nostra dottrina debba fare di tutta l’ umma una sorgente di pericolo, uccisioni e distruzioni per il resto del mondo?”. Un leader coraggioso».

Mentre si capisce la prudenza dei capi di Stato, sconcerta l’autocensura che ci infliggiamo noi dei media. Sul New York Times hanno purgato la scena in cui i due assassini risparmiano la donna che apre loro la porta di Charlie Hebdo . Loro dicono: «Non uccidiamo le donne ma devi convertirti all’Islam, leggere il Corano e coprirti». Ma il giornale la stravolge così: «Non ti uccido, sei una donna. Ma pensa a quello che stai facendo. Non è giusto». Perché? «Perché fanno parte di un mondo che deve nascondere la verità. Uno come Hollande, che si fa beccare con il casco integrale e le brioche per andare a trovare l’amante, incarna il tipo antropologico di una Francia giacobina che non ha più voglia di litigare con nessuno. E il New York Times , un giornale che ammiro per la qualità della sua filosofia dell’informazione, è il tempio del progressismo e della gay culture , irriverente fino alla blasfemia nei confronti dei simboli cristiani, ma paralizzato dal senso di colpa dell’Occidente». Cioè l’idea che l’Occidente sia solo imperialismo, sopraffazione, petrolio, oppressione delle minoranze? «Anche, ma soprattutto l’idea che sia colpevole di tutto ciò che c’è di orrendo nel mondo, compresa la barbarie omicida di chi si ribella al suo dominio. Per cui, se massacrano a colpi di kalashnikov gli scanzonati anarco-libertari di Charlie Hebdo la colpa non è dei combattenti islamici ma di Marine Le Pen, dell’islamofobia, di Eric Zemmour, dell’omofobia, del razzismo».

Marine Le Pen chiede la pena di morte, però. «Senta, io detesto la famiglia Le Pen, detesto con tutto il mio cuore la destra francese, con quel suo fondo sulfureo, gretto, venato di antisemitismo. Ma sono così esasperato dall’ipocrisia che se dovessi scegliere andrei alla manifestazione della Le Pen, piuttosto che sfilare in quella di Hollande in cui ci si rifiuta di dire la verità sull’Islam». Che poi Ferrara, diciamo la verità, non è che lei in questi anni abbia mostrato di amare appassionatamente il mondo secolarizzato, irreligioso, laico, relativista. «Si sbaglia, il mondo libertario, libertino, liberale è il mio mondo. Ma vorrei che restasse un mondo complesso, in cui c’è l’autorità e anche la trasgressione, la disciplina e insieme la ribellione. Un mondo delle differenze, dove si può essere libertini e combattere l’orrore dell’aborto, stare nella modernità ma rifiutare la deriva disumanizzante della tecnoscienza». Un mondo che ha finalmente conquistato la separazione tra politica e religione. Una conquista grandiosa. Lei ci tiene ancora? «Ma è ovvio. Ci sono però due modi di intendere la distinzione tra politica e religione. Quello di Thomas Jefferson, dove il “muro di separazione” impedisce allo Stato di incarnare una religione e sancisce il diritto delle chiese di essere tante, varie, irriducibili a una religione di Stato. L’altra è la versione francese, giacobina, che fa della stessa l aicité una religione di Stato totalitaria, che impone di abbassare le croci e di azzerare ogni simbolo religioso nelle scuole». Intanto lei elogia al Sisi, certo non un fior di democratico. La democrazia come valore universale è bell’e finita. «No, la democrazia resta per me un valore universale. Ma è la realtà della democrazia che non è universale. Abbiamo tentato di esportare la democrazia ma ci vuole un impegno costante di un Occidente sicuro di sé, disposto a combattere e spendere tanti punti di Pil per il Pakistan, l’Iran, la Siria. Invece battiamo in ritirata. E ci ritroviamo col califfato, con 200 mila morti in Siria, con Parigi a ferro e fuoco».

Nessuno vuole conoscere le storie dell’«internazionale degli invisibili», di quegli scrittori, giornalisti, vignettisti che sono spariti dalla circolazione perché braccati da una condanna a morte decretata dai fondamentalisti.

È la paura? «È la paura che ho letto negli occhi di tante persone che amo e che stimo a partire dall’11 settembre. Una paura che si misura nella freddezza odiosa nei confronti dello Stato di Israele, dello Stato degli ebrei, degli ebrei in generale. Quando due anni fa, a Tolosa, Mohammed Merah, un franco-algerino, un combattente islamico come i fratelli Kouachi o Amedy Coulibaly, ha ammazzato davanti a una scuola ebraica tre bambini colpevoli semplicemente di essere ebrei, la reazione furono i soliti due minuti di lutto e poi via. Per i quattro assassinati nel supermercato kosher, nessuno ha lanciato l’hashtag #jesuisjuif come #jesuischarlie . Fa troppa paura».

11 gennaio 2015 | 10:34
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_gennaio_11/giuliano-ferrara-militanti-non-terroristi-seguono-corano-1669cdc8-9974-11e4-a615-cfddfb410c4c.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Francia, libertà di parola anche per Dieudonné
Inserito da: Admin - Gennaio 16, 2015, 11:16:21 pm
Il comico arrestato
Francia, libertà di parola anche per Dieudonné
Campione dell’antisemitismo più turpe, l’umorista francese è un essere spregevole. Ma nel mondo della tolleranza, quello che vogliamo, il suo linguaggio malato va contestato, non trasferito in galera

di Pierluigi Battista
Il comico Dieudonné è un essere spregevole, ma le società che non vogliono compromettere i princìpi della libertà di espressione devono consentire anche agli esseri spregevoli di dire la loro. Dieudonné non «pareggia» Charlie Hebdo, non è come i vignettisti del settimanale decimato dai fanatici ma di segno contrario. No. Charlie Hebdo non odia e non vuole annientare i rappresentanti delle religioni da prendere in giro, Dieudonné odia gli ebrei ed è un campione dell’antisemitismo più turpe. Charlie Hebdo è irriverente e provocatorio, Dieudonné invoca la camera a gas per il giornalista ebreo Patrick Coen nel tripudio degli spettatori che detestano gli ebrei come il loro comico sul palco. Charlie Hebdo ride, Dieudonné inventa la quenelle, che è un saluto nazista camuffato, fa premiare lo storico negazionista Robert Faurisson da un finto deportato con la stella gialla, irride le vittime dei campi di sterminio, chiama alla guerra santa contro Israele. Un essere spregevole, repellente, che con i suoi spettacoli riempie circhi e teatri: e si capisce perché un numero sempre crescente di ebrei francesi non senta più la Francia come casa propria e voglia partire per Israele, dove sono stati celebrati i funerali dei morti uccisi nel supermercato kosher.

È proprio la lontananza assoluta dalle sconcezze propalate da Dieudonné che ci costringe a deplorare l’arresto che era stato disposto dalle autorità francesi (cui è seguita, nel pomeriggio, la scarcerazione) dopo il «Je suis Coulibaly» ostentato all’indomani delle carneficine di Parigi. Domenica milioni di persone hanno sfilato per le strade della capitale francese in difesa della libertà d’espressione. Si sono raccolti attorno a valori che nell’ordinarietà della routine passano inosservati. Hanno capito, dopo la strage che si è consumata nella redazione di un settimanale satirico, che non bisogna condividere idee e immagini per affermare il diritto inalienabile e non negoziabile di quelle idee e di quelle vignette di circolare liberamente. Quei francesi hanno stabilito un’ideale linea di demarcazione: di qua le società libere che tollerano i peggiori attacchi, persino a ciò che consideriamo più sacro e intangibile, di là i sistemi totalitari che considerano il dissenso un delitto, e includono in quella categoria ogni difformità non contemplata nei dogmi, nella dottrina, nei decreti fissati arbitrariamente dal potere.

La libertà d’espressione deve valere anche per Dieudonné. Così come per quegli ebrei che in passato hanno manifestato davanti a teatri e tendoni per ricordare di che pasta antisemita fosse fatto quel personaggio che dileggiava i deportati, metteva alla berlina le stelle gialle, premiava chi considerava una «menzogna creata dai sionisti» lo sterminio di Auschwitz.

È difficile accettare una tolleranza per idiozie tanto intollerabili. La tolleranza non è naturale, esige un grande sforzo quasi ascetico, costringe chi vorrebbe ribellarsi alle turpitudini di un Dieudonné a uno sforzo eroico di autodisciplina. Anche la libertà non ha nulla di «naturale», è una costruzione culturale, è una conquista faticosa ottenuta da pochi secoli, e solo in alcune parti del mondo. Se vogliamo difendere il valore della libertà, dobbiamo essere capaci di resistere alla tentazione censoria. Che non comporta indifferenza, rinuncia a combattere. Il conflitto tra idee e modelli culturali è l’ossigeno di una democrazia liberale e perciò non bisogna dare tregua a Dieudonné, bisogna gridare il disgusto per chi sputa sui morti della Shoah. Ma non bisogna arrestarlo, non bisogna metterlo in catene, non bisogna farne un martire per chi non aspetta altro che un guru che sappia calamitare l’odio crescente per ebrei e «infedeli». Solo così è possibile rivendicare una differenza tra «noi» e «loro»: nel mondo auspicato da Dieudonné l’intolleranza sarebbe assoluta e spietata. Nel mondo della libertà e della tolleranza il linguaggio malato di Dieudonné va contestato ma non trasferito in galera. E forse nemmeno rinviato a giudizio. Perché «Je suis Charlie» non venga dimenticato troppo presto.

15 gennaio 2015 | 09:01
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_gennaio_15/francia-liberta-parola-anche-dieudonne-c04dd306-9c8b-11e4-8bf6-694fc7ea2d25.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Il corsivo del giorno Francia non più terra d’asilo
Inserito da: Admin - Gennaio 18, 2015, 06:20:18 am
Il corsivo del giorno
Francia non più terra d’asilo
Vacilla la dottrina Mitterrand

Di Pierluigi Battista

Un tempo, quando la Francia mostrava con orgoglio la «dottrina Mitterrand», non si sarebbe parlato a Parigi di attenuazione, o ridimensionamento, del trattato di Schengen. Adesso dopo le giornate di sangue, dissolta l’ebbrezza della grandiosa marcia repubblicana, con tutti i leader che si stringono attorno ad Hollande, con milioni di persone in piazza a gridare «Je suis Charlie», la voce sommessa della politica della sicurezza mette in discussione quell’apertura della Francia che ne faceva la terra d’asilo per eccellenza, dagli antifascisti che a Parigi andavano in esilio (per lo meno fino alla vergogna della capitolazione morale di Vichy) per finire con gli estremisti che hanno avuto a che fare, contigui o fiancheggiatori, col terrorismo politico.

Adesso, spenti gli echi della grande manifestazione di solidarietà planetaria per chi è stato colpito così dolorosamente dal fondamentalismo islamista, il principio di realtà vanifica ogni dottrina. L’asilo per tutti diventa problematico quando Parigi appare ed è vulnerabile ai commando che riescono a tenerla in scacco provocando terrore e morte. L’apertura, l’accoglienza, la terra d’asilo diventa terra bruciata quando gli jihadisti vanno e vengono dal califfato alla Francia, si muovono con facilità nella metropoli, si insinuano e si mimetizzano nella grande periferia dove ribolle il richiamo del fanatismo. Allora la tentazione è quella di sbarrare le frontiere, erigere muri.

Fare a pezzi un elemento simbolico della storia francese come quella dottrina che ha preso il nome dal presidente François Mitterrand. Negli Stati Uniti si dice dei progressisti che si convertono al principio primario della sicurezza che sono «liberal assaliti dalla realtà». Le stragi di questi giorni in Francia hanno messo in crisi vecchie bandiere. Persino quella di Schengen (e dell’accoglienza).

13 gennaio 2015 | 10:07
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_gennaio_13/francia-non-piu-terra-d-asilo-vacilla-dottrina-mitterrand-9a636958-9b00-11e4-bf95-3f0a8339dd35.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Come non votare un capo dello Stato L’agguato dei 101 ...
Inserito da: Admin - Gennaio 24, 2015, 10:32:53 am
Fronte del Colle
Come non votare un capo dello Stato L’agguato dei 101 (che furono di più)
Vennero impallinati Marini e Prodi e sconfitto Bersani. Non restò che rivolgersi a Napolitano.
La candidatura di Romano Prodi fu l’acme della dissoluzione dei dem

Di Pierluigi Battista

Una disfatta istituzionale. Una catastrofe politica. Il punto più basso nella vita dei partiti italiani, rissosi, dilaniati dalle faide intestine. Un esempio da manuale di cosa «non» bisogna fare per eleggere un presidente della Repubblica. Una discesa indecente nell’impotenza politica per fortuna riscattata dalla disponibilità di Giorgio Napolitano a risalire i gradini del Quirinale, non prima però di aver sferzato i partiti in Parlamento, plaudenti e grati per lo scampato pericolo: ecco l’amara lezione del 2013.

Dalle urne non era uscito un vero vincitore. Tecnicamente sì, grazie al Porcellum: il Pd, che per poche migliaia di voti di scarto, si era accaparrato un numero abnorme di deputati come premio alla prima coalizione. Non solo, dalle urne era scomparso il bipolarismo che aveva innervato il sistema politico della Seconda Repubblica. Per l’elezione di Carlo Azeglio Ciampi nel 1999 la scelta fu di una candidatura di unità nazionale, scelta da entrambi gli schieramenti. Per quella di Giorgio Napolitano, la scelta avvenne invece a maggioranza semplice, con il centrosinistra a favore e il centrodestra contro. Con un dettaglio decisivo: che la coalizione di centrosinistra, vincente sia pur per un soffio, aveva raggiunto circa il 50 per cento dei voti popolari. Ora nel 2013, la coalizione vincente (Pd più Sel) con circa il 30 per cento dei voti è una maggioranza numerica che descrive una forte minoranza di voti reali. Tutto si complica. Dal voto del febbraio il bipolarismo era uscito distrutto.

Con l’avanzata impetuosa del Movimento 5 Stelle il bipolarismo era diventato tripolarismo. Uno schema era saltato. Nessuno si sarebbe immaginato, però, che anche un altro schema fondamentale si era oramai consumato. Il partito numericamente più forte, il Pd, non aveva più una coesione. Ognuno andava per conto proprio. Mentre il movimento di Grillo appariva una falange compatta. E poi, per la prima volta nella storia repubblicana, non c’era nessuna maggioranza di governo che potesse essere il perno di una ulteriore maggioranza capace di oltrepassare il quorum dei voti necessari all’elezione del nuovo Capo dello Stato. Bersani, capo del partito che per una manciata di voti, aveva nella Camera dei deputati un gruppo parlamentare enormemente più cospicuo dei consensi effettivamente registrati nelle urne, spingeva per presentarsi al buio davanti alle due Camere sperando in qualche soccorso di deputati e senatori grillini. Ma Giorgio Napolitano non voleva accedere a questo gioco rischiosissimo, anzi con quasi assoluta certezza votato al fallimento. Ma tutto, il 18 aprile del 2013, cominciò come se questi cambiamenti radicali dello scenario politico consentissero ancora di muoversi secondo il vecchio schema. E fu l’inizio della catastrofe.

Come se nulla fosse cambiato l’allora segretario del Pd propose una rosa di nomi a Silvio Berlusconi all’interno della quale il leader del centrodestra scelse Franco Marini, uno dei fondatori dello stesso Partito democratico. Ma con questa complicazione: che Bersani voleva proporre al centrodestra di votare insieme il presidente della Repubblica proprio mentre si affannava a costruire una maggioranza di governo (detto «del cambiamento») che includesse almeno una parte, o almeno una benevola astensione, del nuovo movimento grillino. Sugli scogli di questa impossibile quadratura del cerchio, cominciò il dramma. Matteo Renzi (ancora sindaco di Firenze) e numerosi deputati dichiararono che non avrebbero votato per Marini. Il quale non raggiunse il quorum dei due terzi necessari nei primi tre scrutini. Per Bersani fu una prima cocente sconfitta.

I seguaci di Grillo con le loro «quirinarie» on line scelsero dapprima Milena Gabanelli, poi Gino Strada, poi approdarono a una candidatura destinata certamente ad aprire una breccia nel Pd, cioé a quella di Stefano Rodotà. Il Pd era messo malissimo. Il partito che aveva più voti in Parlamento era anche quello che non sapeva scegliere se non al prezzo di lacerazioni, dissensi palesi e segreti, franchi tiratori. Se, dopo aver affossato la candidatura Marini, avesse optato per un candidato non ostile ai moderati (si faceva insistentemente il nome della Cancellieri) una parte del partito si sarebbe avvicinata ai grillini. Se viceversa si fosse optato per una candidatura vicina a quella del Movimento 5 Stelle, la parte moderata, già esacerbata dalla bocciatura di Marini, avrebbe fatto la fronda dall’altra parte. Si pensò alla candidatura di un nome prestigioso come quello di Romano Prodi. E fu l’acme della dissoluzione del Pd.

Oggi tutti parlano dei «101» che nel segreto del catafalco, sotto il quale i grandi elettori andavano a deporre la scheda, hanno impallinato Prodi. Ma forse nel Pd furono molto più dei 101 (si parla addirittura di una ventina di grillini che tradirono la candidatura di Rodotà per dirigersi verso quella di Prodi). Berlusconi decise di non far entrare in aula gli elettori del centrodestra per fuggire ogni tentazione. I centristi di Monti concentrarono i loro voti sulla Cancellieri.

La candidatura di Prodi era stata già molto avventurosa perché se anche tutti gli elettori del Pd fossero stati disciplinati si sarebbe raggiunta una quota inferiore al quorum richiesto: si sperava in qualche franco tiratore «al contrario». Ma il miracolo non avvenne. La sconfitta di Bersani era eclatante. Non restava che tornare a implorare Napolitano come premessa di un governo delle larghe intese che seppelliva per sempre le velleità sul «governo del cambiamento». Napolitano acconsentì. Il resto è storia di questi giorni.

3 - Fine
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22 gennaio 2015 | 14:20

Da - http://www.corriere.it/politica/speciali/2015/elezioni-presidente-repubblica/notizie/colle-quirinale-come-non-votare-capo-stato-agguato-101-c6cd1b80-a238-11e4-8580-33f724099eb6.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Lo scrittore Philip Roth fu accusato di offendere la sua...
Inserito da: Admin - Febbraio 01, 2015, 11:35:39 am
Libertà di espressione
Gli anticorpi liberali che ci difendono contro la censura
Lo scrittore Philip Roth fu accusato di offendere la sua religione.
Nella dialettica fra trasgressione e desiderio di far rientrare nei ranghi l’«eretico» sta l’analogia con gli attacchi a «Charlie Hebdo»

Di Pierluigi Battista

Gli Stati Uniti sono un Paese libero. Se avessero dato retta a chi sostiene che la libertà d’espressione non può trasformarsi in licenza di dileggiare le religioni, Philip Roth sarebbe stato imbavagliato all’inizio della sua carriera di scrittore e non avremmo avuto i suoi meravigliosi romanzi che ci hanno accompagnato da decenni. Le prime pagine del Roth scatenato (tradotto ora da Einaudi), la biografia intellettuale dell’autore di Pastorale americana scritta da Claudia Roth Pierpont descrivono infatti una virulenza verbale contro lo scrittore agli esordi trascesa talvolta nell’intimidazione e addirittura nell’intimazione al silenzio. L’ebreo Roth si sentì apostrofare come un traditore, un fomentatore dell’antisemitismo, un oltraggiatore dell’ebraismo. Non era vero, e Roth non accettò il rituale dell’autocensura. Vinse la libertà d’espressione, quella volta. Nessuno, beninteso, aveva minacciato Roth. Ma con la scusa del «rispetto» mancato per la propria religione, Philip Roth fu sottoposto a una piccola ma aggressiva inquisizione. Una storia istruttiva per i giorni bui che viviamo, anche per chi pensa che si debba reagire aspramente a chi, attraverso la satira, il cinema e la letteratura, «offende» una religione.

I primi racconti di Roth del 1959, La conversione degli ebrei, Epstein e Il difensore della fede vennero accusati nientemeno di diffondere «proprio gli stereotipi che non molto tempo fa hanno finito per portare allo sterminio di sei milioni di ebrei». Roth era, e resta, un uomo molto spiritoso e caustico e non esitò a definire «il mio Mein Kampf» un altro romanzo, Goodbye, Columbus, che aveva alimentato altre accuse di antisemitismo condite dalla scomunica di Roth come «ebreo che odia se stesso». Malgrado i buoni uffici delle «quattro tigri della letteratura ebraico-americana» come Roth definiva Saul Bellow, Alfred Kazin, Irving Howe e Leslie Fiedler, il romanzo fu liquidato come un turpe esempio dello spirito autodemolitorio degli scrittori ebrei «che passano il tempo a maledire i loro padri e a odiare le loro madri». Inutilmente Roth, in un saggio apparso nel 1963 su Commentary, eccepiva che il racconto delle magagne di una famiglia ebraica non comportasse la delegittimazione dell’ebraismo, così come «i lettori di Anna Karenina non si sentivano automaticamente indotti a concludere che l’adulterio fosse un tipico tratto russo, né quelli di Madame Bovary a condannare tout court i costumi morali delle donne dell’intera provincia francese». Ma l’idea dell’autonomia della letteratura sembrava troppo scandalosa, offensiva, degna di anatemi e scomuniche. Come sarà sempre più evidente nel 1969, quando Roth pubblicherà il celeberrimo Lamento di Portnoy, 200 mila copie vendute in pochi giorni, un successo strabiliante, e una scarica di bastonate da parte delle istituzioni ebraiche, compresa l’Anti-Defamation League che equiparò gli effetti del Portnoy a quelli disastrosi dei Protocolli degli anziani di Sion.

Ed era in effetti scandaloso questo ragazzo ebreo che voleva conquistare sessualmente la «skiksa», la ragazza americana, come mezzo per conquistare «i loro ambienti sociali» o che cominciò a detestare Israele per una sua disfatta erettile nella Terra Promessa («Im-po-ten-te in Isra-e-le») e che si abbandonava a instancabili e mitologiche sedute masturbatorie (con i fans che per strada apostrofavano amichevolmente lo scrittore: «Ehi Portnoy, dagli tregua!»). Ma le reazioni furono furenti oltre ogni misura prevedibile. Gershom Scholem affermò che Roth aveva scritto «il libro che tutti gli antisemiti aspettavano». Su Commentary si arrivò a dire che il canovaccio del libro era «uscito dritto dritto dal copione di Goebbels e Stricher». Howe ritrattò il suo iniziale appoggio e affermò che Roth aveva resuscitato a poca distanza temporale dai noti «eventi di metà Novecento» lo stereotipo dell’ «untore ebreo». Era un invito all’isolamento del reprobo, del traditore che si faceva beffe del suo popolo, accusato di voler esporre la sua gente al pericolo dell’isolamento, a quegli stessi pericoli che avevano creato le condizioni per la tragedia dello sterminio in Europa.
 
In questa dialettica tra oltraggio e difesa di un’identità religiosa, tra trasgressione e il desiderio di far rientrare nei ranghi l’eretico, colui che aveva «offeso» e aveva toccato le corde più sensibili del suo popolo sta la profonda analogia con i fatti che hanno insanguinato la redazione di Charlie Hebdo a Parigi o con la caccia al profanatore Salman Rushdie. Non perché ovviamente venisse concepita la punizione fisica dell’oltraggiatore, ma perché riaffiorava negli anatemi contro Roth la questione se la libertà d’espressione dovesse conoscere dei limiti, delle opportunità, delle necessarie autocensure affinché nessuno possa sentirsi offeso. La resistenza di Roth a questi attacchi fu una risposta sofferta ma dignitosa e gli anticorpi liberali della società americana non permisero che all’attacco contro uno scrittore seguisse un’intimazione alla censura. Una trincea di diritti di libertà che in Europa tendiamo molto facilmente a dimenticare.

26 gennaio 2015 | 10:45
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_gennaio_26/gli-anticorpi-liberali-che-ci-difendono-contro-censura-1411e618-a532-11e4-a533-e296b60b914a.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Sindrome ellenica Il miope abbraccio all’icona
Inserito da: Admin - Febbraio 04, 2015, 07:41:38 am
Sindrome ellenica
Il miope abbraccio all’icona

Di Pierluigi Battista

I l carro di Alexis Tsipras è sempre più affollato di sostenitori del giorno dopo, ma non è solo il consueto e patetico affannarsi nel soccorso del vincitore. Esultano a sinistra e a destra. Marine Le Pen e Matteo Salvini ammirano il «mostruoso schiaffone» assestato all’euro. I partiti che in Europa sono normalmente vituperati come xenofobi ed eurofobi, guardano ad Atene come alla nuova Gerusalemme che sconfiggerà l’euroburocrazia di Bruxelles e le rapaci «oligarchie bancarie». Del resto, oramai le barriere ideologiche del passato paiono molto fragili se in poche ore in Grecia l’estrema sinistra ha fatto un governo con un partito nazionalista che sembra quello del deploratissimo Farage in Gran Bretagna. A sinistra si rincorre il modello Syriza, il nuovo cavaliere che sgominerà il «liberismo selvaggio». Ma anche nel fronte della moderazione riformista di destra e sinistra, se non c’è proprio esultanza, affiora compiacimento. Forza Italia parla di «memorabile lezione». E Matteo Renzi, lungi dal temere la tentazione di una sinistra vecchio stampo che potrebbe sentirsi galvanizzata dal trionfo di Atene, si dice confortato dal possibile appoggio di Tsipras alla battaglia «anti austerità» (anche se l’Italia rischia di vedere svanire i circa 40 miliardi di cui è creditrice con la Grecia). Ma se è così, per l’Unione Europea si tratta di una disfatta simbolica, e di un pericolo mortale. Come se tutto quello che è stato fatto sinora fosse da buttare in una discarica. E il pareggio di bilancio messo in Costituzione? E le riforme come «compiti a casa» amari ma necessari per superare la bufera? E i parametri da rispettare, i conti da tenere a bada, i debiti pubblici questi sì «mostruosi» da domare? Se, come è stato detto in queste ore, ci si commuove per le note di Bella ciao nelle piazze di Atene come simbolo di «liberazione» dalla dittatura finanziaria, così come quella trascinante canzone è il simbolo della liberazione dalla dittatura fascista, quale immagine dell’Europa esce da questo unanime stringersi al profeta dell’anti austerità Alexis Tsipras?

Il successo di Tsipras sembra funzionare come una ricerca collettiva di autoassoluzione. Se siamo messi così male, così recita il nuovo coro, non è perché abbiamo fatto le cicale nel passato, perché abbiamo accumulato debiti statali spaventosamente elevati, perché non abbiamo tenuto sotto controllo la spesa pubblica, perché nell’Europa soprattutto latina e mediterranea i bilanci in ordine sono stati un concetto un po’ troppo elastico e incompatibile con la ricerca di un consenso voracemente costoso. No, la colpa è «dell’Europa» e segnatamente, inutile girare attorno al vero nucleo che calamita su di sé ostilità e risentimenti sconfinati, della spietata Germania, e anzi, per dare un volto e un bersaglio, «della Merkel», che non è più una persona fisica, ma l’emblema stesso delle nostre difficoltà.

Ma se questo accade è perché l’Europa è stata costruita male, dando il senso di una sovranità usurpata, di una moneta senz’anima, di un carattere privo di ogni base culturale e soprattutto di ogni passione «popolare», come quella che pure ha preso forma nella configurazione moderna degli Stati nazionali e delle democrazie liberali. È questo deficit democratico che l’Europa, se vuole sopravvivere, deve saper guardare con coraggio per colmarne le lacune. Non solo una questione di conti virtuosi e di debiti da onorare. Altrimenti, stritolata dall’eurofobia montante di destra e di sinistra, l’Unione Europea ne uscirà travolta. Non c’è più molto tempo per correre ai ripari.


27 gennaio 2015 | 08:18
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Titolo: Pier Luigi BATTISTA L’Europa e quella guerra alla libertà e ai suoi ebrei
Inserito da: Admin - Febbraio 18, 2015, 07:47:41 am
Il commento
L’Europa e quella guerra alla libertà e ai suoi ebrei
Dopo gli attentati di Copenaghen, dire che la libertà europea è nel mirino degli jihadisti non è retorica, ma la fotografia di una dichiarazione di guerra

Di Pierluigi Battista

Dopo gli attentati di Copenaghen, dire che la libertà europea è nel mirino degli jihadisti non è solo una formula retorica, ma la fotografia di una dichiarazione di guerra. Il simbolismo dei bersagli e dei messaggi è chiarissimo oramai. Gli islamisti hanno attaccato un convegno sulla libertà d’espressione con l’ambasciatore francese presente. Tutto questo a un mese o poco più dalla strage nella redazione di Charlie Hebdo. Poi hanno profanato un cimitero ebraico, hanno distrutto centinaia di tombe, hanno profanato un monumento alla Shoah.

Gli ebrei sentono sempre meno l’Europa come la loro casa. Cresce l’istinto di fuga da un’Europa che ha chiuso gli occhi da anni, anche quando gli islamisti hanno fatto strage in una scuola ebraica. La libertà e le sinagoghe devastate. Le parole libere e gli ebrei. L’arte libera e gli «infedeli», i «crociati», i quartieri ebraici, i cimiteri, il ricordo dell’Olocausto. L’Europa viene aggredita nel punto in cui dovrebbe essere orgogliosa: la libertà. La libertà nemica numero uno dei fondamentalisti e dei fanatici. Non vogliono altro che l’Europa rinunci a se stessa. La vogliono soggiogare culturalmente. La vogliono umiliare nei valori che le sono più cari. È una guerra di conquista culturale. Ma l’Europa sembra aver smarrito la sua bussola culturale, la fierezza di sé, la sicurezza nella forza dei propri valori. La libertà europea è sulla difensiva. Se a Londra gli amici dello jihadismo portano cartelli in cui si sbandierano strumentalmente le parole di Francesco sul «pugno» che meritano quelli che offendono la religione, vuol dire che la trincea sta smottando, che il fronte in difesa della libertà è fragile e impaurito. Per qualche giorno tutti hanno portato come un simbolo d’onore «Je suis Charlie». La marcia repubblicana di Parigi è apparsa una prova di compattezza, di solidarietà, di vicinanza non solo alle vittime di Charlie Hebdo e agli ebrei uccisi nel supermercato kosher alla vigilia dello Shabbath. Ma l’unità è durata pochissimo. Si è imposta la retorica dei distinguo. L’oggetto del dibattito si è spostato: non più l’ideologia omicida degli stragisti che fanno una carneficina di vignettisti armati soltanto di una matita, ma «gli eccessi» della satira, l’intoccabilità delle religioni, i limiti che la libertà si deve dare. Il Victoria and Albert Museum ha ritirato e nascosto un ritratto di Maometto, neanche offensivo, ma non si sa mai. Durante il Carnevale di Colonia un carro allegorico di solidarietà a Charlie Hebdo è stato vietato. In America una grande casa editrice pubblica un volume sulle «vignette della discordia» ma evita accuratamente di riprodurle per «non offendere». L’Internazionale degli invisibili, tutti quei vignettisti, scrittori, professori, giornalisti che in Europa e in America sono spariti in questi anni dalla circolazione perché raggiunti da una condanna a morte sono di nuovo tornati nel dimenticatoio, presenze inquietanti.

Quando hanno sgozzato Theo Van Gogh, il regista olandese di «Submission» ammazzato in Olanda perché «blasfemo», nessun festival ha voluto ospitare la pellicola. Altro che libertà d’espressione. Lo stesso Michel Houellebecq, che pure si è affrettato a spiegare che il suo romanzo «Sottomissione», in cui si racconta l’ascesa di un presidente musulmano a Parigi, non è contro l’Islam, vive in costante pericolo. Il pericolo che gli ebrei d’Europa vivono oramai con angoscia quotidianamente. Perché c’è un nesso inscindibile tra l’odio per la libertà, le libertà civili, la libertà della donna, la libertà della cultura, la libertà dell’istruzione, e l’odio antisemita. L’Europa è già stata infettata nella sua storia da questo intreccio perverso di totalitarismo e odio antiebraico. Non capire che è questa la posta in gioco, che le bandiere nere che oramai sventolano in Libia, le cellule islamiste che fanno strage nel cuore delle metropoli, gli attentatori che vogliono macchiare il ricordo della Shoah, oggi vogliono che l’Europa si ripieghi in se stessa, che vinca la paura, l’autocensura, il linguaggio prudente e omertoso. E che perciò dare una mano ai fanatici con sottili atti di disamore nei confronti delle libertà così come le conosciamo, con un’enfasi sui «limiti» della libertà, come se le vittime se l’andassero a cercare, come se la critica fosse un’«offesa», tutto questo rappresenterebbe l’anticamera della sconfitta. E la vittoria dei fanatici, degli antisemiti, di chi odia l’Europa e la sua libertà. E che vuole cacciare gli ebrei dall’Europa. Di nuovo, la grande vergogna.

16 febbraio 2015 | 08:44
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_febbraio_16/europa-quella-guerra-liberta-suoi-ebrei-7573a3ce-b5ae-11e4-bb5e-b90de9daadbe.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Servizio pubblico e lottizzazione Le trincee inutili
Inserito da: Admin - Marzo 03, 2015, 05:12:37 pm
Servizio pubblico e lottizzazione
Le trincee inutili

Di Pierluigi Battista

S e gli italiani pagano una tassa (non è proprio una tassa, ma un balzello sì) che si chiama canone Rai, hanno poi tutto il diritto di allarmarsi se i loro soldi vengono sprecati. Il piano Gubitosi, tanto contrastato nei corridoi di Viale Mazzini, accorpa, condensa, razionalizza. Fa risparmiare. Perché una folla di giornalisti e operatori se non sono necessari? Perché tante testate telegiornalistiche? Perché non concentrare gli sforzi, non disperdere energie? Non è un problema solo di sprechi. Nessuno è perfetto, e nessuno può impancarsi a giudice delle scelte altrui. Ma il pagamento del canone esige delle risposte chiare, delle scelte nette. Oggi abbiamo tre telegiornali che sono l’eredità nemmeno della Seconda Repubblica, ma della Prima. La divisione riguardava i tre partiti, la Dc, il Psi e il Pci, che si spartivano l’informazione radio e televisiva. Poi quei partiti sono crollati. Ma la pratica della spartizione lottizzatoria è proseguita come prima, con complicazione di sigle però con la stessa voracità dei partiti che hanno occupato ogni poltrona, ogni sedia ogni strapuntino spolpando la Rai e mortificando le enormi risorse professionali dei giornalisti della tv di Stato.

Oggi la semplificazione, la razionalizzazione, la riduzione delle poltrone rappresenta una diminuzione secca dei posti da lottizzare. Si moltiplicano troupe, inviati, microfoni per una pura logica che soddisfi tutti gli appetiti, tutte le componenti, facendo dell’informazione televisiva un unicum di doppioni istituzionalizzati, di sprechi. Lo spreco non è certo prerogativa della Rai. Anche i giornali e gli altri tg, senza canone, sbagliano. Ma un conto è lo sbaglio occasionale e specifico, un altro è l’istituzionalizzazione, tra l’altro sorretta da potenti motivazioni «ideologiche», dello spreco. Con un canone che viene chiesto come obbligo per i cittadini, c’è l’obbligo di non fare trincee corporative contro un piano che ha una sua logica. Una logica sinora troppo sconosciuta nella Rai.

27 febbraio 2015 | 16:49
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_febbraio_27/trincee-inutili-a3947130-be4f-11e4-abd1-822f1e0f1ed7.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Autocensura, il virus pericoloso causato dalla paura
Inserito da: Admin - Marzo 09, 2015, 05:07:27 pm
Libertà

Autocensura, il virus pericoloso causato dalla paura
«Charlie Hebdo» è di nuovo un giornale solo dopo la carneficina di gennaio

Di Pierluigi Battista

In Francia Le Monde ha scoperto che dopo la sbornia del «Je suis Charlie» successiva alla carneficina di Parigi, è il momento del ripudio del povero Charlie. Scrive infatti che tanti disegnatori e vignettisti, contattati da Charlie Hebdo per continuare la collaborazione con quel settimanale per un giorno soltanto ammirato da tutti come ultima trincea della libertà d’espressione, hanno chiesto espressamente che il loro nome venisse cancellato.

È il «virus della censura» che sta contagiando tutti, come la chiama il commentatore Michel Guerin? È la paura che vince, il terrore che ha colpito nel bersaglio? E con che velocità la solidarietà universale si è prima appannata e poi è scomparsa nei confronti dei vignettisti «satanici» che sono stati massacrati dai guerrieri del fanatismo islamista.

Anche in Danimarca, dopo gli attentati di qualche settimana fa, i giornali militarmente blindati che hanno osato sfidare l’ira dei fondamentalisti, hanno ripiegato su una sponda meno esposta al pericolo delle rappresaglie armate di chi, con la scusa della «blasfemia», uccide e commette stragi. Vince la paura? Si diffonde il «virus della censura» e dell’autocensura? I vignettisti hanno paura di entrare in quella internazionale degli invisibili che, dopo essere stati indicati come bersagli della vendetta islamista, si nascondono, fanno perdere ogni traccia di sé, cambiano identità sotto la protezione della polizia. Facebook in Turchia ha tolto le vignette considerate blasfeme. A Londra, nel museo Albert e Victoria un ritratto di Maometto, neanche particolarmente blasfemo, è stato rimosso per evitare in anticipo ogni polemica. Ayaan Hirsi Ali, che ha appena pubblicato un libro, non potrà presentarlo in pubblico per ragioni di sicurezza. E perché dei vignettisti, dei disegnatori liberi, anarchici, trasgressivi, ironici dovrebbero diventare degli eroi? Perché rischiare la morte per la propria libertà d’espressione se le società che hanno fatto della libertà d’espressione un principio apparentemente non negoziabile, in realtà si tirano indietro, eccepiscono sulla libertà che si trasforma in «licenza», se le autorità religiose considerano un’«offesa» la libertà di critica anche la più urticante e irridente?

Charlie Hebdo è di nuovo un giornale solo, come lo era prima della carneficina di gennaio. Quando pubblicavano le vignette incriminate, pochissimi trovarono quel gesto coraggioso un esempio da seguire. Per la paura. E per la censura che si sta insinuando dentro di noi, diventando potentissima autocensura. Un virus devastante per i nostri valori.

8 marzo 2015 | 14:04
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_marzo_08/charlie-hebdo-isis-autocensura-virus-pericoloso-causato-paura-e5d7f038-c58b-11e4-a88d-7584e1199318.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Il nemico è alle porte: e sono loro ad averci dichiarato...
Inserito da: Admin - Marzo 23, 2015, 11:24:29 am
IL DIBATTITO
La Primavera (riuscita) da difendere
L’Occidente non ha colpa.
L’ultimo eccidio non è conseguenza di un’«integrazione fallita».
Il nemico è alle porte: e sono loro ad averci dichiarato guerra


Di Pierluigi Battista

E adesso, dopo l’ennesima strage islamista di Tunisi, che colpa ci vogliamo dare? Come ce la siamo andata a cercare, stavolta? Quanti pentimenti per aver creduto scioccamente nelle «primavere arabe»? Stavolta in Tunisia la Primavera araba aveva funzionato. Da qui, dal gesto di Mohamed Bouazizi, che si diede fuoco dopo aver subito i maltrattamenti della dittatura, è cominciato tutto. Tutti a dire che è stata una disgrazia, che è colpa nostra se l’Isis è finito in Libia, mentre Gheddafi, che sarà pure stato un despota pagliaccio, ma era pur sempre il «nostro» despota pagliaccio, che è colpa nostra l’Iraq, che è colpa nostra la Siria e duecentomila morti ammazzati da Assad, che è colpa nostra se qualche giovane musulmano in Francia fa una carneficina nella redazione di Charlie Hebdo , che è colpa nostra se musulmani di seconda generazione in Gran Bretagna si fanno esplodere dentro la metropolitana provocando una strage mostruosa, che è colpa nostra se ammazzano gli ebrei in una pizzeria di Gerusalemme e di Tel Aviv, che è colpa nostra se irrompono in un dibattito in Danimarca e danno l’assalto alla Sinagoga di Copenaghen, adesso che colpa nostra esattamente sarebbe se hanno compiuto un eccidio in un museo di Tunisi? Che colpa avevano i turisti che lo stavano visitando? E che colpa aveva l’escursionista francese che venne decapitato in Algeria?

I terroristi islamisti adesso hanno voluto colpire la Primavera araba riuscita. Volevano assaltare a mano armata il simbolo della democrazia: il Parlamento di Tunisi. Un Parlamento dove è consistente, determinante una presenza «laica». L’Occidente ha commesso innumerevoli errori, ma la vulgata salmodiata dai paladini delle nostre infinite colpe, offre una spiegazione fuorviante perché non vuole ammettere che la guerra che sta facendo un numero impressionante di vittime non è stata scatenata da «noi», ma da «loro». Ecco il non detto, il non dicibile. Ora non possono sostenere: guardate che avete combinato con le vostre fisime democratiche in Libia, ci fosse ancora Gheddafi non avremmo il nemico alle porte. Il nemico è alle porte, è nel cuore di Tunisi, e non c’è stato nessun errore catastrofico dell’Occidente: c’è una democrazia viva e funzionante. Dicono: guardate che avete combinato in Siria. Ma in Siria la Primavera araba non ha mai vinto, Assad ha represso nel sangue e nel gas mortale ogni barlume di dissenso, nel silenzio imbelle dell’Occidente e dell’Onu, ma si continua con la litania del «è colpa nostra» come se la Primavera araba avesse espugnato Damasco.

E l’Iraq? L’intervento americano e inglese è del 2003, l’Isis ha conquistato parte del territorio iracheno nel 2014: undici anni. Ma la colpa delle bandiere nere che sventolano minacciose e che vogliono arrivare a coprire San Pietro di chi è? Ma di George W. Bush naturalmente. I terroristi islamisti che hanno colpito a morte Copenaghen e Parigi avevano studiato, vivevano una condizione sociale dignitosa, ma la colpa è della nostra «discriminazione», dell’ «emarginazione», della mancata «integrazione» della nostra cultura imperiale e prepotente.

Questa capacità di non vedere la realtà non è il frutto di un accecamento. Ma della paura di riconoscere che una guerra santa è stata scatenata e che ogni simbolo di quello che noi riteniamo importante e decisivo nella nostra scala di valori - la libertà d’espressione e l’arte custodita nei musei, la tolleranza e il pluralismo religioso, la scuola e la libera stampa, la libertà della donna e i diritti civili - è considerato qualcosa di peccaminoso, di sporco, meritevole di essere calpestato e distrutto. Boko Haram in Nigeria demolisce le scuole e fa strage di studenti e soprattutto di studentesse, perché il suo motto, la sua insegna è «L’istruzione occidentale è peccato». Ammazzano gli ebrei in Israele e in Europa non perché vogliono uno Stato palestinese, come è legittimo e giusto, ma perché non vogliono vedere traccia di ebraismo e di «crociati» nella terra santa dell’Islam. Massacrano dodici tra vignettisti, collaboratori e agenti a Parigi perché i disegni della rivista sono strumenti del demonio.

E invece no, le migliori menti delle nostre generazioni spendono la loro sottile e ammirata intelligenza a dire che è «colpa nostra», che non avremmo dovuto sperare nelle primavere arabe, che siamo noi a «provocare», che siamo noi che «ce la cerchiamo». E non vogliono capire. Mentre a Tunisi la democrazia scaturita dalla Primavera cerca di difendersi, supplica di non essere lasciata sola, chiede al mondo di essere considerata un baluardo, una trincea. Per difendersi da una guerra cruenta che vuole uccidere la democrazia. Teniamocela stretta, finché possiamo.

20 marzo 2015 | 09:31
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_marzo_20/tunisia-strage-museo-occidente-primavera-araba-88b8d766-ceda-11e4-8db5-cbe70d670e28.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA House of Cards, la libertà di oltraggiare senza paura
Inserito da: Admin - Marzo 28, 2015, 04:39:17 pm
Il corsivo del giorno   
House of Cards, la libertà di oltraggiare senza paura
Il protagonista della serie sputa sull’immagine di Gesù.
Cosa sarebbe successo con i simboli islamici

Di Pierluigi Battista

C’ è una scena nella terza serie di «House of Cards» che può offendere i cristiani, ferirli nei loro sentimenti. Anzi, li ha già feriti, li ha già offesi e i blog cattolici, negli Usa, sono già in subbuglio. Si vede lui, Frank Underwood, il presidente degli Stati Uniti che ha conquistato la Casa Bianca con la complicità della moglie Claire e con intrighi e omicidi pazzeschi, entrare in una chiesa per farsi perdonare delle nefandezze compiute nella sua scalata al potere. Il prete gli nega il perdono e si allontana.

Allora Underwood sputa nell’occhio di Gesù Cristo nel crocefisso appeso alla parete. Poi, più per non farsi scoprire che per sincero pentimento, cerca di asciugare il crocefisso che però, per colpa del presidente maldestro, cade e si frantuma in mille pezzi. Il presidente degli Stati Uniti raccoglie da terra l’orecchio e auspica, sarcastico, che il Signore almeno in questo modo potrà ascoltarlo.

Insomma, una sequenza che ora andrebbe molto di moda liquidare come «blasfema».

Solo che nessuno impedisce ad «House of Cards» di essere trasmessa e seguita da milioni di persone. Nessuno rischierà la vita. Nessuna censura si è abbattuta sulla famosa serie televisiva. Qualcuno protesta e dice che non vedrà mai più una puntata di «House of Cards». Così si manifesta il dissenso in una democrazia tollerante: si protesta e si usa il telecomando per andare altrove. Ora, è inopportuno, provocatorio, spregevole, domandarsi: se una scena del genere avesse avuto come vittima non un crocefisso ma qualcosa che riguardava, per dire, Maometto, ci sarebbe stata una reazione così tollerante? Qualcuno, dalle parti di «House of Cards», potrebbe cominciare ad avere paura? Bisognerebbe rispondere con sincerità.

L’oltraggio a una religione non è il pretesto per abolire la libertà d’espressione: non è una lezione che dovremmo imparare?

17 marzo 2015 | 07:28
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_marzo_17/house-of-cards-liberta-oltraggiare-senza-paura-5f5878ae-cc6e-11e4-a3cb-3e7ff6d232c1.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA L’Iran e il nucleare La paura (ragionevole) di Israele e ...
Inserito da: Admin - Aprile 12, 2015, 06:09:32 pm
L’Iran e il nucleare
La paura (ragionevole) di Israele e degli ebrei
L’accordo che è stato raggiunto con Teheran non porterà allo smantellamento dell’atomica, ne allungherà i tempi

Di Pierluigi Battista

Stareste tranquilli se chi ha giurato di annichilire la vostra Nazione con la bomba atomica riuscisse a ottenere il permesso di costruirne i presupposti, sia pur al rallentatore? E se vi dicessero che siete degli ottusi oltranzisti, solo perché fa festa chi ha promesso di cancellarvi prima o poi dalle carte geografiche? Ecco, lo Stato di Israele si sente così: i potenti della Terra fanno festa, mentre la prospettiva della catastrofe si avvicina. E dicono anche che siete esagerati e paranoici. Lo dicono quelli che a veder sventolare una bandierina dell’Isis a qualche centinaio di chilometri di distanza già sono travolti dal terrore.

L’Iran khomeinista, l’Iran degli ayatollah e dei mullah al potere vuole l’arma finale per annientare Israele e cacciare gli ebrei che sporcano e deturpano la terra santa dell’Islam. Non è un progetto nascosto, non è il frutto della paranoia israeliana, dei guerrafondai che si inventano nemici immaginari per perseguire i loro loschi interessi: è un programma aperto, esibito, reiterato, argomentato, supportato da una lettura fondamentalista e intransigente dei testi sacri. L’antiebraismo è un tratto costitutivo dell’integralismo che ha preso il potere a Teheran, non una sua superfetazione propagandistica, una fanfaronata da bulli. Quel microscopico lembo di terreno che si chiama Stato di Israele è l’ossessione di Stati giganteschi che circondano Israele con un mare di ostilità.

La questione palestinese non c’entra niente. Nessun Paese arabo ha aiutato i palestinesi a costruire uno Stato autonomo e indipendente dal ‘48 al ‘67 secondo i confini tracciati dall’Onu con una risoluzione che Israele accettò e i Paesi arabi rifiutarono. E l’Iran della rivoluzione khomeinista, che non è un Paese arabo, ma che ha contribuito fortemente alla islamizzazione di un conflitto che ha perduto oramai ogni traccia di nazionalismo laico finalizzato all’indipendenza e all’emancipazione dei territori occupati nel ‘67 da Israele, ha da sempre l’obiettivo della costruzione dell’arma finale per cancellare lo «scandalo sionista» dalla faccia della terra. La comunità internazionale lo ha sempre avuto chiaro. Le sanzioni sono state decise per questo. Tutti sapevano che l’uranio arricchito dell’Iran in mano agli antisemiti non aveva uno scopo pacifico. Tutti sapevano che le centrifughe per ottenerlo venivano nascoste per impedire ai blitz israeliani di intervenire e al resto del mondo di controllare cosa si stava accumulando nel cuore di montagne inespugnabili, invisibili, capaci di sfuggire a qualunque ispezione.

Oggi si sta decidendo, con un accordo che dovrà essere perfezionato da qui a giugno ma che oramai è ben disegnato nei suoi contorni essenziali, che l’uranio arricchito dell’Iran non viene fermato, ma soltanto frenato. Un po’ di impianti da smantellare. Una consistente diluzione dei tempi. Ma non la fine del programma atomico a scopi bellici. Hanno detto a Israele: a quelli che vogliono distruggerti con l’arma finale abbiamo imposto di mettere le cose al rallentatore. La distruzione non è scongiurata, è solo posticipata. Nel frattempo la rimozione delle sanzioni sarà di giovamento agli scambi economici internazionali. Israele si rassegni, e veda di non ostacolare questo spettacolare «accordo di pace».

E invece, ostinati, testardi, incontentabili, rompiscatole, gli israeliani che terrorizzati hanno votato ancora per Netanyahu (ma come mai? saranno mica impazziti?), si permettono addirittura di avere paura. Ma come, dicono i seguaci dell’equilibrio perfetto, ma se ce l’ha già Israele perché all’Iran si dovrebbe negare la bomba atomica? Solo che l’arma atomica nell’era della Guerra fredda è stato un messaggio dissuasivo, non aggressivo: guarda che se t’azzardi a usarla, l’uso che ne faremo noi per rappresaglia vi annienterà all’istante. Mentre quella dell’Iran è solo ed esclusivamente un messaggio aggressivo: abbiamo forse dimostrato di avere paura della morte, noi che abbiamo spedito sciami di bambini a farsi uccidere nella guerra degli ayatollah contro Saddam Hussein? Inoltre la bomba di Israele è palesemente, nemmeno i più acrimoniosi dei nemici potrebbero negarlo, uno scudo difensivo, difficile pensare in tutta onestà che a Gerusalemme qualcuno stia progettando di fare di Teheran la nuova Hiroshima. La pretesa iraniana della bomba atomica invece fa tutt’uno con il progetto di annientare Israele. È colpa di Netanyahu se in Israele hanno paura? Il governo israeliano doveva partecipare a negoziati con uno Stato che non ha nessuna intenzione di riconoscere Israele? Sono tutti oltranzisti a Gerusalemme? Pretendono addirittura che venga loro riconosciuto il diritto di esistere, questi estremisti.

5 aprile 2015 | 17:37
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_aprile_05/iran-israele-paura-ragionevole-f1cfadd6-dba7-11e4-8de4-f58326795c90.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA L’esodo dei migranti L’Europa nemica di se stessa
Inserito da: Admin - Aprile 25, 2015, 04:47:58 pm
L’esodo dei migranti
L’Europa nemica di se stessa
Lo spaventoso spettacolo di uomini, donne e bambini inghiottiti dal mare è devastante Soprattutto per noi che rischiamo la fine di ogni credibilità

Di Pierluigi Battista

Ecco indetto per giovedì il vertice straordinario dell’Unione Europea, dopo l’ecatombe del Mediterraneo. Ma che sia straordinario davvero. Operativo subito. Coordinato senza gelosie, ripicche, esclusivismi, manovre dilatorie. Circostanziato nella definizione dei costi economici che le operazioni di contrasto a questa strage continua comportano necessariamente. Realistico nella definizione degli obiettivi urgenti. E serio, soprattutto serio, nel delineare una strategia capace di fronteggiare questo spostamento immane di popoli disperati in fuga dai massacri di guerre atroci e spietate, in cui è tutta la popolazione civile ad essere coinvolta nella tragedia.

Nel dire anche una parola, una sola parola dopo anni di afasia, indifferenza, viltà, su quello che sta accadendo in Siria e in Iraq. Un’Europa slabbrata e muta, incapace di una posizione univoca, ipocritamente in attesa di capire cosa faranno gli Stati Uniti. Se già da giovedì l’Europa non dimostrasse di saper agire in modo straordinario, sarà poi inutile prendersela con gli eurofobici, con gli antieuropei: perché la prima nemica dell’Europa che vorremmo sarebbe alla fine proprio lei, un’Unione Europea che non sa più che fare quando centinaia, migliaia di persone muoiono in mare cercando di avvicinarsi, per salvarsi, alle sue sponde.

I responsabili dell’Unione Europea forse nemmeno immaginano quanto devastante sia per il nostro continente quello spaventoso spettacolo di uomini, donne e bambini inghiottiti dal mare. Nemmeno immaginano quanto sia sconfortante l’impotenza esibita sulla questione della Libia, a solo pochi anni dalla prova di inettitudine e cecità messa in mostra con la violenta detronizzazione di Gheddafi. Quanto suoni lontano questo disquisire su sigle e nomi che non rispondono alla sostanza della questione: cosa ha fatto l’Europa sinora per impedire la carneficina nei mari, ma anche soltanto per capire il perché di un esodo così massiccio? Facciamo sempre finta di non vedere. Speriamo sempre che per qualche fortunata coincidenza del destino, le cose si mettano miracolosamente a posto. Confidiamo sempre che qualcun altro (gli Stati Uniti, ovviamente: salvo imprecare contro Obama e prima di lui contro qualunque inquilino della Casa Bianca) possa muoversi al posto nostro.

Si misura drammaticamente l’assenza di una politica estera comune. Di un sistema di difesa comune, suo necessario supporto, che però comporta dei costi: la difesa non è gratis, gratuita è soltanto la demagogia di chi dice che ogni euro speso per la difesa militare è un regalo a qualche lobby tenebrosa, sottratto a chissà quali progetti di sviluppo civile. L’Europa non sa cosa fare di scafisti senza scrupoli, di schiavisti che spadroneggiano sui mari. Figurarsi se riesce ad elaborare una linea comune, e comportamenti coerenti, anche molto impegnativi, per aiutare i curdi che si battono contro i fanatici islamisti, contro Assad che da una parte è un alleato, ma dall’altra è un macellaio che ha affamato una popolazione, ucciso decine o centinaia di migliaia di civili.

Già con il caso greco si è misurata l’incredibile vaghezza della linea europea, quel suo galleggiare un po’ nevrotico tra rigore e accondiscendenza. Eppure la mina della Grecia è pronta a esplodere, corrodendo la fiducia degli europei nella loro moneta e nelle loro istituzioni. Ma baloccarsi con la tragedia del Mediterraneo, inabissarsi in beghe nazionali e rivalità territoriali, senza coordinare già da giovedì provvedimenti in grado di essere attuati subito, significa rischiare il collasso morale di un’Europa incapace di un sussulto di fronte a tragedie così ripetute. Se poi si dovesse replicare la pantomima del cordoglio di fronte alle emergenze, aspettando la prossima strage, allora per l’Europa sarebbe la fine di ogni credibilità. E stavolta la colpa non sarebbe dei suoi soliti nemici.

21 aprile 2015 | 08:42
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Da - http://www.corriere.it/cultura/15_aprile_21/europa-nemica-se-stessa-965f1842-e7e6-11e4-97a5-c3fccabca8f9.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA L’appello di Renzi per l’Italicum L’arma pericolosa della...
Inserito da: Admin - Maggio 01, 2015, 11:41:20 am
L’appello di Renzi per l’Italicum
L’arma pericolosa della dignità
Con l’accorata lettera ai militanti, il premier rischia di perdere ogni distinzione tra partito e istituzioni. E sembra implicare che ogni forma di dissenso vada catalogata come ignobile

Di Pierluigi Battista

Matteo Renzi è costretto a recitare due parti in commedia. È diventato presidente del Consiglio perché è il segretario del Pd, dopo aver stravinto il congresso. Ed è il segretario del partito che può dimostrare di meritare il consenso, solo a condizione di guidare personalmente il governo.

Chi chiedeva che Renzi, entrato a Palazzo Chigi, rinunciasse alla segreteria del Pd per una questione di bon ton politico, o era legato alle vecchie pratiche del bilancino tra correnti dc in auge nella Prima Repubblica, oppure faceva finta di non aver colto il nesso inscindibile tra le due cariche ricoperte da Renzi. Il quale però, con l’accorata lettera ai militanti del Pd affinché il partito possa dimostrare la sua dignità approvando senza moleste obiezioni la «sua» (di Renzi) legge elettorale, rischia di perdere ogni distinzione tra partito e istituzioni, tra militanti e parlamentari, tra il programma del Pd e quello delle altre forze politiche che potrebbero votare le regole del gioco politico, ma non certo per fare un favore al Partito democratico.

Renzi ha deciso la drammatizzazione estrema. Come se la legge elettorale fosse l’ultima spiaggia, la prova suprema, l’apice dell’azione del governo. Vuole approvare in pochi giorni una legge che comunque sarebbe sterilizzata da una clausola che ne impedisce l’uso fino a che non viene ultimata la trasformazione costituzionale di un Senato non più elettivo. Ma impone la fiducia, esige che le minoranze si allineino. Oggi non c’è più il patto del Nazareno che gli dava la sicurezza di una maggioranza anche con una parte del Pd che recalcitrava. Oggi deve piegarne l’ultima resistenza, approfittando anche di una minoranza del partito confusionaria, divisa, titubante, perennemente oscillante tra velleità scissionistiche e necessità di chinare il capo fino a che la tempesta non sia passata. Solo che una legge elettorale non è una questione interna al partito. Non può precludersi la possibilità di un’interlocuzione con altre forze politiche. La massima che Renzi sembrava aver fatto propria — non si cambiano le regole a maggioranza, ma coinvolgendo forze politiche diverse in Parlamento — oggi viene clamorosamente disattesa. E adesso non solo non si ricerca il consenso delle altre forze politiche, ma si chiede al Parlamento di ratificare in tempi record una decisione interna al Partito democratico.

È un’evidente forzatura. Renzi ha dalla sua un argomento formidabile: a furia di cercare mediazioni, non si riesce mai a portare a casa il risultato. È vero. Ma solo fino a un certo punto. Il Porcellum, per dire, non è stato varato in tempi lunghissimi. Fu anch’esso il frutto di un decisionismo spiccato, solo in parte temperato dai correttivi suggeriti e poi imposti dall’allora presidente Ciampi. Oggi un Parlamento che la Corte costituzionale ha dichiarato essere stato eletto con una legge elettorale che ha violato più di una norma della Carta ha il dovere di ricercare un’intesa più ampia. Che senso ha appellarsi alla «dignità» di un partito se sono in gioco delicati equilibri costituzionali e il varo di regole del gioco che devono valere per tutti e che dunque meriterebbero un consenso il più ampio possibile?

E poi l’argomento della «dignità» è un’arma pericolosa. Che significa, che chi non è d’accordo con la lettera e lo spirito di una legge elettorale dentro il Pd, è automaticamente portatore di una posizione «indegna»? Il dissenso va contro la «dignità» di un partito? Oppure «dignità» viene usata come parola che equivalga a «determinazione», «velocità», «decisione», «immagine». Ma allora è un’altra partita. Legittima, forse anche sacrosanta dal punto di vista del presidente del Consiglio, ma che con la «dignità» ha davvero poco a che spartire.

Perciò è urgente ristabilire un minimo di distinzione tra il partito e le istituzioni. Così come è necessario che il Parlamento non sia messo nelle condizioni di votare a favore di una legge elettorale solo perché altrimenti il governo cade dopo una sfiducia. La «dignità» è di tutti. Di chi vota a favore e di chi vota contro. Sulle regole del gioco, poi, non c’è disciplina militare che tenga.

28 aprile 2015 | 09:49
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_aprile_28/trappola-dignita-8f8fa44e-ed74-11e4-91ba-05b8e1143468.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA I massacri di Assad Il cattivo silenzio sulla Siria
Inserito da: Admin - Maggio 16, 2015, 04:27:02 pm
I massacri di Assad
Il cattivo silenzio sulla Siria

Di Pierluigi Battista

Intanto, nel silenzio internazionale, Bashar Assad sta portando a termine la sua missione: lo sterminio del popolo siriano. Lo documenta Lorenzo Cremonesi sul nostro giornale: in Siria è in corso una mattanza infinita, mentre l’attenzione del mondo è concentrata sui crimini dell’Isis. Non è la prima volta che l’Occidente, l’Europa, le democrazie assistono impotenti alle stragi e ai massacri che i tiranni consumano nella devastazione dei più elementari diritti umani. Ciò che è nuovo è l’imperativo del silenzio, l’obbligo strategico di tacere sulle nefandezze di Assad, l’accondiscendenza verso un nostro «alleato». O comunque un bastione necessario per arginare le malefatte del fanatismo jihadista.

Anche in passato, per la verità, la teoria del «male minore» alimentò alleanze con i peggiori dittatori, con i fondamentalisti, con i nemici dei nostri nemici. O meglio con quelli che, in un particolare momento, apparivano, come i nemici di chi sembrava, ed era, il nemico principale. E così l’Occidente appoggiò i talebani in funzione antisovietica. E così stabilì un asse con Saddam Hussein per contrastare i guerrieri dell’ayatollah Khomeini. Oggi l’Occidente, l’Europa, gli Stati Uniti, le democrazie compiono un passo di più. Dimenticano completamente l’uso acclarato delle armi chimiche da parte di Assad, Aleppo rasa al suolo, la carneficina dei civili, i migliaia e migliaia di bambini morti sotto le bombe, per la fame, uccisi dagli squadroni del terrore del regime, perché ora Assad ci «serve».

Il dramma è tutto in questo collasso dell’attenzione internazionale per la difesa dei diritti umani. Rimpiangiamo Gheddafi perché, anche se con uso terroristico del potere, «stabilizzava» l’area. Facciamo finta di non vedere i crimini di Assad per non indebolire il fronte anti Isis. Nell’agosto del 2013 Obama stava addirittura per invocare l’intervento armato contro il regime di Damasco che aveva usato le armi chimiche per massacrare il popolo siriano. Sembra passato un secolo. L’ondivaga, ambigua, zigzagante politica americana, con il silenzio impotente dell’Europa che non riesce a costruire nemmeno un abbozzo di politica estera comune e credibile, ha finito per dissolvere ogni coerenza di intervento. Se Assad «serve», bisogna che il compimento del massacro del popolo siriano avvenga senza nemmeno una protesta verbale. Se per danneggiare l’espansionismo dell’Isis, bisogna chiudere un accordo al ribasso con gli «alleati» dell’Iran, allora bisogna far finta di non vedere che a Teheran si inneggia all’Olocausto per colpire «l’entità sionista». Ma se la politica internazionale ha le sue durezze, se il realismo richiede anche una buona dose di cinismo, non è neanche possibile che l’opinione pubblica sia tenuta all’oscuro di ciò che sta accadendo in Siria mentre tutti, tutti, giriamo la testa dall’altra parte. La carneficina del popolo siriano non è cessata solo perché magicamente, non occupandocene più, pensiamo che sia finita. Oppure ci pensiamo solo quando arrivano i barconi di famiglie intere che scappano dalla Siria e che rischiano la morte in mare, l’ecatombe nel Mediterraneo, per scappare dagli orrori di laggiù. I nostri «alleati» occasionali intanto completano il loro lavoro sporco. Una macchia che resterà indelebile sulla coscienza dell’Occidente.

11 maggio 2015 | 08:26
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_maggio_11/cattivo-silenzio-siria-fb403302-f79c-11e4-821b-143ba0c0ef75.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Matrimonio gay, la lezione irlandese
Inserito da: Admin - Maggio 25, 2015, 11:06:00 am
Diritti
Matrimonio gay, la lezione irlandese
Un Paese cattolico, dove fino a 20 anni fa l’omosessualità era considerata reato, ha deciso con un referendum che le unioni fra persone dello stesso sesso sono legittime.
Nel mondo tutto va veloce, tranne in Italia, che ora deve trovare una sua strada

Di Pierluigi Battista

Anche nella cattolica Irlanda il matrimonio gay non è più un tabù. Non lo è in una Nazione in cui il cattolicesimo ha avuto e ha un peso fondamentale. Nell’Irlanda del culto di san Patrizio, dove storicamente la fede cattolica ha avuto un peso politico e sociale rilevantissimo, nell’Irlanda in cui ancora oggi l’aborto è un reato e la stessa omosessualità lo è stata fino al 1993 (solo vent’anni fa) quasi il 60 per cento di chi ha votato nel referendum, tra cui tanti cattolici, non ha trovato scandaloso, un attentato al matrimonio, un attacco ai valori fondanti della nostra civiltà, il fatto di dare veste giuridica, tutele e addirittura rilevanza costituzionale alle unioni tra persone dello stesso sesso.

Tutto diventa più veloce nel mondo. Tranne in Italia, dove son decenni che il riconoscimento delle unioni omosessuali si è impantanato nella discussione infinita, nella ragnatela dei veti, nell’ostruzionismo dilatorio. Eppure, si può e si deve fare anche in Italia. Le posizioni nella Chiesa cattolica non sono univoche. In Irlanda la Chiesa non ha fatto la guerra nel referendum. In Italia non si chiede ai cattolici di rinunciare ai loro valori, ma di accettare il principio di maggioranza. Si può fare, ma solo se si libera la questione dei diritti delle coppie tra persone dello stesso sesso dalla cappa di pregiudizi che pesano come in una interminabile guerra di religione. Si può fare, se si affronta il problema con realismo e desiderio di mettere a segno un risultato che sembra impossibile da realizzare. Il voto irlandese dimostra che si può fare, anche in un Paese con una forte tradizione cattolica che non deve essere umiliata, messa in un angolo, costretta addirittura a tacere. Si può fare se si esce dalla propaganda e si entra, veramente e non con gli annunci dell’ultimo momento, in una dimensione in cui si stabiliscono date, scadenze, criteri, concetti.

La prima cosa da fare è sottrarre la questione del riconoscimento giuridico delle coppie omosessuali alla maggioranza di governo e consegnarla alla maggioranza che si forma in Parlamento. Per una ragione di principio: perché sui diritti, come sulle riforme istituzionali, è auspicabile una convergenza più ampia. E per una constatazione di fatto: perché c’è una forza di governo, il Ncd, contrario a una legge sulle unioni civili, mentre due fondamentali forze d’opposizione, Forza Italia e il Movimento 5 Stelle, non lo sono. E anche per una ragione storica: la parlamentarizzazione del dibattito crea convergenze inedite, polarizzazioni che non mettono in discussione la stabilità del governo. Ricordiamo che la legge sul divorzio ebbe due motori, Baslini che era un liberale e Fortuna che era un socialista e un radicale, che appartenevano a due schieramenti diversi. Poi Fanfani volle portare la Dc alla guerra di religione del referendum del ‘74 e per lui fu il disastro. Ma fu una scelta politica, non un atto dovuto. Il governo poteva essere messo al riparo dal conflitto sul divorzio. Solo la smania di rivincita del leader democristiano creò le condizioni di un quasi ribaltone politico.

Oggi è diverso. Si può e si deve accettare il principio di maggioranza per una legge giusta ed equilibrata che garantisca pari diritti alle coppie omosessuali (non c’è bisogno nemmeno del termine «matrimonio»). Si può e si deve accettare che chi non è d’accordo proponga referendum abrogativi, manifesti tutti gli argomenti contrari a una legge. Purché si decida. Purché non si finisca per sentirci lontani dall’Europa e dalla cattolicissima Irlanda.

24 maggio 2015 | 09:34
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_maggio_24/matrimonio-gay-lezione-irlandese-a39547f2-01e0-11e5-8422-8b98effcf6d2.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Addio al bipolarismo, più forti (anche da noi) i partiti...
Inserito da: Admin - Giugno 16, 2015, 11:50:52 pm
LA «SINDROME SPAGNOLA»
Addio al bipolarismo, più forti (anche da noi) i partiti antisistema
La tendenza è visibile in tutta Europa: circa un quarto di coloro che si recano alle urne danno la loro preferenza a movimenti il cui nemico è l’intero scenario istituzionale e la cui rabbia è radicale. Protesta e rifiuto
Se lo scorso anno Matteo Renzi sembrava aver oscurato per sempre l’anomalia di Grillo, oggi l’alternanza tradizionale soffre, il nemico sembra essere la politica.
L’astensionismo continua a crescere


Di Pierluigi Battista

Oramai in Europa lo schema politico-elettorale prevede il tre, non più il due. L’Italia era entrata faticosamente nell’era del bipolarismo: una volta vinceva il centrosinistra, un’altra il centrodestra, al governo nazionale, nelle Regioni, nei Comuni. Ora si deve adattare al tripolarismo, all’emergere prepotente e stabile di forze antisistema, o eurofobiche, o di protesta organizzata, o alternative ai partiti tradizionali. In questa tornata elettorale, la prevalenza del tre è ritornata con grande evidenza. Se l’anno scorso l’astro di Matteo Renzi sembrava aver oscurato per sempre l’anomalia di Beppe Grillo, stavolta è il bipolarismo a dover ingoiare il Maalox. L’alternanza tradizionale soffre. Le forze antisistema tornano a gioire.

Poi, ovviamente, si va per oscillazioni e andirivieni. Ma la tendenza appare netta: oramai c’è una parte del popolo europeo che va a votare che ha rotto definitivamente con lo schema mentale del bipolarismo. È una parte che più o meno si attesta al 25 per cento, un quarto dell’elettorato che decide di andare a votare. Poi c’è la marea dell’astensionismo. Oramai siamo stabilmente sotto al 50 per cento di partecipazione elettorale, anche in regioni come l’Emilia Romagna e la Toscana dove la fila ai seggi era lo spettacolo più consueto. Difficile conteggiare quei non-voti come forme di espressione antisistema? Ma allora come decifrare questo fenomeno così massiccio e nuovo di rifiuto, disgusto, indifferenza, sfiducia che si manifesta in una volontà così corale di astensione?

Qui siamo ancora nel nebuloso e nell’opinabile. Ma i voti effettivamente espressi nelle elezioni in tutta Europa dicono che quel 25 per cento è oramai su un’altra galassia mentale rispetto agli imperativi del bipolarismo. In Spagna un movimento come Podemos conquista Barcellona e smantella le basi elettorali del Psoe, e anche il suo omologo «liberale», il movimento dei Ciudadanos, esprime un’insofferenza di tenore analogo nei confronti del Partito popolare. In Francia Marine Le Pen porta il suo Fronte Nazionale stabilmente sopra il 20 per cento, ben al di sopra delle percentuali, peraltro cospicue, raggiunte da suo padre, oramai ripudiato, Jean-Marie. In Inghilterra, con un sistema di voto proporzionale come quello fissato nelle Europee, l’Ukip di Nigel Farage ha sfiorato addirittura il 30 per cento e il suo recente flop nelle elezioni politiche è pur sempre gratificato da un 16 per cento, una percentuale che oramai un tradizionale partito a vocazione maggioritaria come Forza Italia si può soltanto sognare. In Olanda, il fenomeno è analogo. Un po’ più contenuto è in Germania, dove comunque la sinistra socialdemocratica se la deve vedere con la concorrenza della Linke, mentre a destra l’«Alternativa per la Germania» rappresenta, con la sua intransigente linea anti-euro, un pungolo sempre molto fastidioso per Angela Merkel. In Italia, dove non ci facciamo mai mancare qualche esagerazione, di forze antisistema, eurofobiche, antipolitiche, ne abbiamo addirittura due: il Movimento 5 Stelle, che ha rivelato un radicamento che va anche al di là dell’identificazione con il leader Grillo, e la Lega di Salvini, che oramai sta cannibalizzando ciò che resta del centrodestra.

Ovviamente non c’è nulla di lineare in questo fenomeno. Intanto, nel momento delle elezioni decisive per la formazione dei governi nazionali, soltanto Tsipras in Grecia è riuscito a strappare la maggioranza dei voti. Poi non vanno sottovalutati arretramenti e controtendenze, come in Francia, dove Nicolas Sarkozy ha di recente inflitto una memorabile lezione a Marine Le Pen. Inoltre si tratta di movimenti litigiosi e settari, che per esempio nel Parlamento europeo riescono molto di rado a trovare momenti di unità. Ma le elezioni di domenica dimostrano che questa era di antipolitica può contare su un 25 per cento di voti che nelle consultazioni locali, Comuni e Regioni, possono modificare radicalmente lo scenario: il 20 per cento della Lega in Toscana, il voto massiccio alla candidata del Movimento 5 Stelle in Liguria stanno lì a dimostrarlo. È un’area che si è oramai psicologicamente e politicamente affrancata dagli imperativi del «voto utile», che oramai sembra sorda alla logica del male minore, al richiamo di schieramento, alla battaglia da condurre insieme contro un nemico comune. Adesso il nemico è la «politica» di cui il bipolarismo tradizionale è stato l’espressione ordinata e stabile. Una variabile diventata permanente nel nostro panorama politico, altro che voti in libera uscita destinati a ritornare all’ovile. È la logica dell’ovile, oramai, che non funziona più.

2 giugno 2015 | 10:58
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_giugno_02/regionali-addio-bipolarismo-piu-forti-partiti-antisistema-4d016b84-0904-11e5-8a3c-2c409b81767d.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Il fronte del rifiuto di gender e unioni gay che riscopre...
Inserito da: Admin - Giugno 21, 2015, 05:22:19 pm
Family day
Il fronte del rifiuto di gender e unioni gay che riscopre la piazza
Una mobilitazione senza la sollecitazione della Chiesa apre uno scenario inaspettato, proprio su un tema sul quale papa Francesco aveva deciso di non intervenire con forza


Di Pierluigi Battista

Stavolta il mondo laico non se la può prendere come al solito con le ingerenze vaticane, le intromissioni della Chiesa, il confessionalismo delle gerarchie. Una manifestazione così massiccia come si è vista ieri a Roma contro «l’ideologia gender», indicata come tirannica manipolazione della natura e degli stessi fondamenti umani della società, ha fatto esplodere un sentimento covato da una parte consistente del mondo cattolico, ma senza input dall’alto, senza la mobilitazione partita dai pulpiti. È l’antitesi di ciò che è accaduto in Irlanda con il referendum sui matrimoni gay. Lì, in assenza di una massiccia partecipazione dell’episcopato di Dublino, l’elettorato cattolico ha disobbedito esprimendosi a favore. Qui, nella città che è il luogo simbolico dove il Vicario di Cristo è anche il vescovo di Roma, le strade si sono riempite di cattolici che hanno manifestato la loro disperazione culturale per un modo di vedere le cose, il demonizzato «gender», che a loro avviso sradica l’umanità da se stessa.

È la prima volta che accade nell’era di papa Francesco. È la prima volta che il sesso, il genere, ciò che è uomo e ciò che è donna, l’atto stesso del congiungimento carnale da cui scaturisce la procreazione entra a pieno titolo nei «valori non negoziabili», in quella sfera di scelte che riguarda le questioni prime e ultime della vita e della morte. È la prima volta che la piazza viene mobilitata e riempita non semplicemente per quello che è chiamata «unione tra coppie dello stesso sesso», ma in una sfera di interrogativi che hanno a che fare con la cultura, la concezione del mondo, l’idea stessa della natura.

È un terreno su cui papa Francesco ha deciso di non intervenire con forza. Certo, non per rinunciare ai fondamenti della visione cristiana delle cose, ma per non esasperare la conflittualità con il mondo secolare. La chiesa «infermeria» di papa Francesco non vuole fare altri feriti, non vuole scavare trincee contro lo spirito del tempo, non vuole scatenare la guerra santa contro la deriva secolarista. La manifestazione di ieri invece sì. È stata l’espressione di un fronte del rifiuto che è più esteso di quanto i media non riescano a immaginare. È stata la rinascita di un movimento di guerra culturale contro la modernità che sembrava essersi spenta con il nuovo papato. Ecco l’altra differenza con movimenti come quello francese «Manif pour tous». In quel caso l’episcopato francese spinse l’acceleratore della protesta, sancì l’armonia tra un sentimento diffuso e le istituzioni preposte alla irreggimentazione del mondo cattolico. Qui a Roma si è visto il segno di uno scarto, di una sottile linea di frattura, di una insofferenza che le gerarchie ecclesiastiche difficilmente potranno ignorare. Questo è il vero segnale d’allarme per il mondo laico, o comunque per quella parte dell’opinione pubblica che ritiene indispensabile il riconoscimento delle tutele e del diritto per le coppie dello stesso sesso che vogliono unirsi civilmente, senza discriminazioni.

La guerra culturale era invece alla base dell’azione del cardinale Camillo Ruini quando dirigeva l’episcopato italiano. Lui la chiamava «progetto culturale» e voleva ribadire l’idea che il cristianesimo non dovesse essere solo vissuto nel chiuso delle coscienze, nella dimensione privata, ma imponesse i suoi valori culturali nell’arena pubblica. La battaglia sui «valori non negoziabili» aveva questa base: la guerra sull’aborto, sulla fecondazione assistita, sulla difesa dell’embrione, sul rifiuto dell’eutanasia. Tutti temi che toccavano direttamente la sfera della vita e della morte, o meglio dell’intervento umano sull’origine della vita e sulla sua fine, la protesta contro una tecno scienza che voleva prendere con prepotenza il posto del Creatore nella determinazione della vita e della morte.

Ma l’azione di Ruini aveva direttamente l’appoggio di due Pontefici: Giovanni Paolo II (che già all’inizio degli anni Ottanta assecondò la mobilitazione cattolica nel referendum poi perso, sull’aborto) e poi papa Ratzinger. Oggi è tutto diverso. Una parte del mondo cattolico fa da sé, riempie le piazze senza un comando ecclesiastico, fornendo un’immagine di sé implicitamente polemica nei confronti dell’atteggiamento «accomodante» di papa Bergoglio. E lo fa su un tema, quello del «gender», che oramai nella sensibilità del mondo moderno, e di una parte stessa dell’universo cattolico come è accaduto in Irlanda, è stato assimilato senza più traumi e crisi di rigetto.

L’idea che su una visione filosofica del mondo, considerata però essenziale per l’integrità della fede, il mondo cattolico manifesti come ieri una sensibilità esasperata e risentita, è una novità che tutti noi stentavamo a considerare così sentita e centrale. Nel cattolicesimo italiano si è aperta una spaccatura profonda che arriva dritta al cuore delle istituzioni ecclesiastiche. La manifestazione anti gender è insieme uno spauracchio e un avvertimento. La fonte di un nuovo, imprevisto conflitto. Il mondo laico non può dormire sonni tranquilli.

21 giugno 2015 | 09:32
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_giugno_21/fronte-rifiuto-gender-unioni-gay-che-riscopre-piazza-b382896a-17e6-11e5-b9f9-a25699cf5023.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Grillo sarà «stanchino» Ma gli elettori antisistema sono...
Inserito da: Admin - Giugno 25, 2015, 07:34:16 pm
Grillo sarà «stanchino»
Ma gli elettori antisistema sono in piena forza

Di Pierluigi Battista

Grillo annientato. Lo abbiamo pensato (e addirittura auspicato) in molti, all’indomani delle elezioni europee, con i 5 Stelle sommersi dal 40,8 di Matteo Renzi. Abbiamo sbagliato: un errore colossale. Abbiamo scambiato la realtà per un talk-show. Abbiamo immaginato che una gaffe grillina sbertucciata da Twitter sia più importante di un fenomeno colossale: la fine delle appartenenze, l’affrancamento definitivo di una parte consistente dell’elettorato dal richiamo di schieramento.

Quando dicemmo che Grillo era stato stracciato da Renzi, il suo Movimento aveva preso il 22 per cento dei voti: un’enormità, altro che dissoluzione. Come nel resto dell’Europa, un partito antisistema, eurofobo, anti establishment fa presa stabilmente su quasi un quarto dell’elettorato. E le barriere tradizionali si stanno dissolvendo. La dicotomia sistema-antisistema si sta rivelando molto più forte di quella, sempre meno vincolante, tra destra e sinistra. L’elettorato mobile scavalca le frontiere. I voti leghisti possono finire a Grillo. I voti grillini non soccorreranno più quelli del Pd, come è avvenuto in Liguria e a Venezia, per contrastare il comune nemico di destra. Il Pd è visto come il perno del sistema. Il suo elettorato sempre più disilluso si rifugia nell’astensione. Intere Regioni rosse, la base tradizionale della sinistra, fugge nell’astensionismo. Il voto di protesta dilaga. Non trova argini nemmeno sul «territorio».

Abbiamo sbagliato tutto perché pensavamo che il Movimento 5 Stelle fosse interamente identificabile con la figura di Grillo. Un’illusione: «stanchino» Grillo, ci siamo detti consolandoci, «stanchini» tutti i grillini, residuali, scombinati, sempre sopra le righe, si sarebbero dispersi. Un errore. Speculare all’errore di considerare la vitalità di Renzi come il segno della vitalità del Pd. Non è vero, fuori da Palazzo Chigi il Pd è sempre più preda dei cacicchi locali. Il territorio è sguarnito. Il partito copre pezzi di società che dipendono dal voto di scambio, specialmente da Roma in giù, ma chi ne resta fuori cova un rancore sordo per la politica e opta per Grillo. Oppure per la Lega al Nord. Dicono che il messaggio grillino sia supersemplificato e quasi caricaturalmente complottista. È vero: raffigura l’Italia, l’Europa, il mondo prigionieri di un pugno di maghi della finanza, di poteri forti arroganti, di corrotti. Purtroppo i partiti del sistema, europeisti, tradizionali hanno fatto ben poco per dissipare queste ombre. A Roma tutti sanno che se Marino dovesse dimettersi dopo gli scandali di Mafia Capitale, il prossimo inquilino del Campidoglio potrebbe essere un rappresentante dei 5 Stelle. Sanno che Grillo potrebbe mietere consensi trasversalmente. Sanno che, finché l’area della protesta antisistema sarà così estesa, stabile radicata, alimentata dall’inettitudine altrui, non sarà un’apparizione in più o in meno di Grillo in un social network o in televisione a stabilire se il suo partito avrà un futuro.

Abbiamo sbagliato perché i media tendono a scambiare l’apparenza per la realtà. La realtà non è il pasticcio che i grillini fanno sui blog ma è un movimento che nasce dal «vaffa» e arriva ad essere il secondo partito, con la concreta possibilità di arrivare al ballottaggio in elezioni nazionali impostate sull’Italicum. La realtà è che se fino a qualche anno fa sarebbe apparso impossibile che l’elettorato di destra potesse votare Grillo, l’ultima tornata elettorale dimostra che invece è possibile. E che è possibile anche l’inverso. Poi certo il Movimento 5 Stelle potrà, anzi quasi certamente avverrà così, perdere le elezioni. Ma le elezioni si perdono e si vincono, mentre l’area dell’antisistema è forte, articolata, variegata, arrabbiata, tutt’altro che domata. Si è anche appannato il potenziale di novità rappresentato da Renzi, una novità che soltanto un anno fa aveva neutralizzato l’irresistibile ascesa di Grillo. Oggi bisognerà fare i conti con questa realtà. Con un elettorato sempre meno irretito nei lacci della tradizione e delle distinzioni classiche. Con una crisi che morde ancora, anche se i pronostici dicono che siamo nel miglioramento e che forse il peggio è alle nostre spalle. I Comuni e le Regioni dovranno abituarsi alla presenza di questo terzo soggetto forte e coriaceo. Non sarà una battuta a cancellarlo. E nemmeno tanto sfoggio di simpatia e gioventù.

17 giugno 2015 | 09:51
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_giugno_17/grillo-sara-stanchino-ma-elettori-antisistema-sono-piena-forza-dbdce78c-14c3-11e5-9e87-27d8c82ea4f6.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Il bullismo culturale contro Carlo Giovanardi
Inserito da: Admin - Agosto 02, 2015, 04:24:57 pm
Il bullismo culturale contro Carlo Giovanardi

Di Pierluigi Battista

Chissà se i vacanzieri cortinesi riusciranno mai a capire quanto sia ridicolo il loro ostracismo nei confronti di Carlo Giovanardi. Impedendo la presentazione di un libro di Giovanardi magari avranno creduto di compiere un eroico gesto, un atto che rimarrà negli annali della resistenza contro l’oppressore. Avranno scambiato una bravata per una manifestazione di impegno civile. Avranno pensato che, costringendo gli organizzatori a fare marcia indietro sulla presentazione, sono riusciti a impedire che il diavolo giovanardesco si materializzasse tra i monti e i rifugi della splendida e indifesa Cortina d’Ampezzo. E invece sono soltanto i portavoce di un’intolleranza difficile da smaltire. Di un’intolleranza ridicola, nel caso specifico.

Bastava disertare la presentazione, se Giovanardi gli stava antipatico. Ma da loro questa elementare verità non è stata presa nemmeno in considerazione. Dovevano mostrare i muscoli. Dovevano dare prova del bullismo da montagna, e ci sono riusciti. Attraverso di loro, e questa è la parte seria di quel che è accaduto a Cortina, parla il nuovo conformismo che considera la presentazione di un libro come una provocazione da rintuzzare. Quelli che fischiano prima di ascoltare. Quelli che non hanno rispetto per chi ha voglia di leggere libri non graditi dal manipolo di volenterosi. Quelli che la libertà d’espressione per tutti è un concetto troppo difficile per essere metabolizzato. Quelli che vorrebbero vedere i libri censurati, i giornali chiusi nelle tipografie. Quelli che non sopportano un’opinione diversa, fosse quella più distante e indigeribile. Quelli che sono intolleranti mostrano la faccia della bontà, della correttezza, dei buoni sentimenti, del progresso, della carità. Quelli che hanno bisogno del nemico assoluto da ostracizzare. Ecco perché bisogna stare dalla parte di Giovanardi a Cortina. Per criticarlo. Ma per fargli esprimere liberamente le sue idee. Troppo difficile da capire? No. È facile. Ma per gli intolleranti vecchi e nuovi, con i pantaloni alla zuava, è difficilissimo, impossibile da capire.

15 luglio 2015 (modifica il 15 luglio 2015 | 08:43)
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Da - http://www.corriere.it/cultura/15_luglio_15/bullismo-culturale-contro-carlo-giovanardi-6835ccfc-2ab9-11e5-8eac-aade804e2fe2.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Hanif Kureishi non bestemmia (per paura) e cede ai nemici...
Inserito da: Admin - Agosto 06, 2015, 11:44:45 am
AUTOCENSURE
Hanif Kureishi non bestemmia (per paura) e cede ai nemici della libertà
Lo scrittore strappa il velo della doppiezza che ha sinora coperto chi mette sullo stesso piano coloro che pronunciano battute blasfeme e quelli che uccidono per una battuta


Di Pierluigi Battista

Tutto si può dire dello scrittore Hanif Kureishi, tranne che sia un ipocrita. All'intervistatore di El Pais che gli chiede se trova lecita la bestemmia, Kureishi non adopera parole impegnative come «rispetto» per dire che lui non vuole bestemmiare. No, dice, non bestemmio, non uso espressioni blasfeme contro l'Islam perché, testuale, «non sono così stupido». Non è contro la bestemmia per qualche nobile motivo, perché non si inveisce contro il Dio in cui credono milioni di persone, perché non si oltraggia la divinità, perché non si deve offendere la fede di chicchessia. Non si deve bestemmiare, perché bestemmiare è un gesto poco intelligente. Poco intelligente in che senso? Nel senso che devi essere intelligente per capire che se bestemmi ti accoppano, che finisci male, che vieni coinvolto in una carneficina, come i poveri vignettisti, che stupidi che erano, di Charlie Hebdo.

La paura che governa le scelte
Infatti Kureishi, per denigrare quei poveri che stanno sotto terra, ammazzati come cani dai fanatici fondamentalisti dell'islamismo politico radicale, ribadisce il concetto: quelle vignette che sono costate la vita ai disegnatori del settimanale non erano «intelligenti». Se fossero state intelligenti, se avessero satireggiato soltanto su cristiani ed ebrei, allora sì, non sarebbero state stupide e non sarebbe successo nulla. Erano così idiote da aver riso dell'Islam e allora se la sono proprio andata a cercare, quella strage. Scemi. Morti e scemi. Mica intelligenti come Kureishi.
Finalmente, è la fine dell'ipocrisia. Non si bestemmia, dice Kureishi, perché si valutano le conseguenze intelligentemente. E' la paura che non deve far bestemmiare, non il rispetto per la fede altrui, come sostengono virtuosamente i nemici della libertà d'espressione che, come Joyce Carolo Oates e altre decine di scrittori contrari al premio dedicato al settimanale decimato, hanno colto l'occasione del massacro di Charlie Hebdo per avanzare pensose considerazioni sui «limiti» che la libertà d'espressione deve tassativamente onorare. Come se il problema fosse l'irriverenza di un pugno di vignettisti e non le condanne a morte comminate in tutto il mondo islamico con la grottesca motivazione della «blasfemia». E' la paura: ecco il motivo per cui è «intelligente» autocensurarsi, rinunciare alla libertà di parola, alla libertà di disegnare, alla libertà di dire sciocchezze, di pubblicare brutte vignette senza incorrere nei rigori della condanna a morte. Kureishi, anche senza volerlo, strappa il velo della doppiezza che ha sinora coperto chi mette sullo stesso piano chi pronuncia battute blasfeme e chi uccide per una battuta blasfema.

L’«intelligenza» nel chiamarsi fuori
Recentemente un numero speciale della rivista Nuovi argomenti ha dimostrato quanto gli scrittori e gli intellettuali, cioè le categorie che quasi professionalmente dovrebbero essere affezionati all'integrità del diritto di dire e di scrivere, tengano ben poco alla libertà d'espressione. Tutto un eccepire sul cattivo gusto delle vignette blasfeme, un'esplosione di antipatia per le vittime del fondamentalismo fanatico, un nascondersi dietro l'etichetta dell'«opportunità», dell'autocontrollo, della censura, della necessità di non offendere.

Nessuno, però ha avuto il coraggio di Kureishi e di tirare fuori l'argomento decisivo: la paura. La paura di essere ammazzati, perseguitati, imbavagliati, di essere estromessi dai circuiti dei festival e dei convegni attanagliati dal terrore, lo stesso terrore che ha suggerito a un museo inglese di nascondere un quadro che raffigurava Maometto. Lo stesso terrore che impedisce alle Università americane di invitare Ayaan Hirsi Ali, un'«apostata» che ha la fierezza e il coraggio di battersi contro il fondamentalismo islamista e che perciò conduce una vita blindata ed emarginata dalle accademie. Che sono più «intelligenti», direbbe Kureishi, ed evitano di mettersi nei guai. Parlano di «rispetto» e di «buon gusto» per non dire la verità, perché la critica alle bestemmie non è davvero sentita, ma è agitata solo in alcuni casi e indovinate quali. Hanif Kureishi l'ha indovinato e perciò evita accuratamente di dimostrarsi poco «intelligente» come il suo amico Salman Rushdie, che ebbe la stupidità di scrivere un libro libero e perseguitato dai nemici della libertà. Avrebbe dovuto essere più intelligente.

2 agosto 2015 (modifica il 2 agosto 2015 | 11:49)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_agosto_02/hanif-kureishi-non-bestemmia-per-paura-cede-nemici-liberta-d5730444-38f9-11e5-b1f9-bf3f6fff91aa.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Le riforme e il passo necessario
Inserito da: Admin - Agosto 22, 2015, 05:03:23 pm
Le riforme e il passo necessario

Di Pierluigi Battista

Matteo Renzi ha tre strade davanti a sé e al suo governo. La prima: cedere alla tentazione di arrancare fino al 2018 con maggioranze ogni volta diverse, precarie, variabili, multicolori, caso per caso. La seconda: fare la pace con la sinistra interna del suo partito, smettendo di sfidarla per ottenerne l’umiliazione, ma avendo in cambio la fine della guerriglia parlamentare che il Pd ancora legato alla precedente gestione gli minaccia ripetutamente contro. La terza: allargare la base del governo con il coinvolgimento serio, esplicito, fondato su alcuni punti qualificanti, di una delle principali forze in Parlamento, Forza Italia in primis, vista la conclamata contrarietà dei Cinque Stelle.

Ogni scelta ha le sue controindicazioni e i suoi rischi. Ma la prima delle tre sarebbe di gran lunga la peggiore, perché darebbe il senso di una navigazione zigzagante e vaga, instaurerebbe il regno del caos e dell’incertezza, un ansimare incoerente fino al 2018, accertata l’indisponibilità del presidente della Repubblica ad imboccare la scorciatoia delle elezioni anticipate prima di aver verificato che in Parlamento non ci siano i numeri di una maggioranza.

Anche le altre due opzioni non sono il massimo della desiderabilità all’interno di una democrazia parlamentare trasparente. Ma non dobbiamo dimenticare da dove veniamo, dall’ingovernabilità paralizzante di un Parlamento dove nel 2013 non aveva vinto nessuno. In quella situazione Enrico Letta, con la spinta di Giorgio Napolitano, si assunse il compito di formare un inedito e imprevisto governo di unità nazionale, poi frantumato dalla fuoriuscita di Berlusconi. Renzi si era forse illuso che con una spallata e una robusta rottamazione, unite a una tranquillizzante condizione di non belligeranza con il centrodestra imbrigliato dal cosiddetto patto del Nazareno, questo handicap iniziale si sarebbe dissolto. Dopo un anno e mezzo di governo le cose però non stanno così. E il realismo, insieme alla ineludibile necessità di offrire al mondo e all’Europa una credibilità politica obbligatoria per ogni apertura di fiducia dall’estero, impone a Renzi la strada di una stabilizzazione non velleitaria.

Questo significa la fine degli espedienti e dei giochi di sponda multipli e acrobatici. L’uso della scheggia dei «verdiniani» non ha un grande futuro. L’intesa ammiccante con Forza Italia sulla Rai assomiglia molto alla distribuzione delle poltrone come captatio benevolentiae , e nulla più. Le aperture effimere ai Cinque Stelle, minacciate tutte le volte che vacilla il fronte favorevole alla riforma elettorale, sanno molto di manovretta furba. Restano le altre due strade: o l’accordo con la dissidenza interna del Partito democratico oppure un’intesa, circoscritta ma aperta, con Forza Italia, affrancando il berlusconismo dall’abbraccio mortale con Salvini e offrendo all’opposizione un patto stabile su alcuni punti qualificanti, dalle riforme istituzionali alla riduzione delle tasse, che garantiscano un’andatura meno singhiozzante ad un governo che per andare avanti non può più contare sulla propria orgogliosa autosufficienza. In fondo Angela Merkel, che nella sua visita all’Expo si è mostrata cordiale con Renzi e con l’Italia, è addirittura a capo di una compagine di unità nazionale, e nulla potrebbe eccepire su intese leali tra forze diverse. Compensare la debolezza di una maggioranza con espedienti tattici è un’altra illusione. Operare scelte nette e coraggiose non dovrebbe essere difficile per un leader di rottura come Renzi.

19 agosto 2015 (modifica il 19 agosto 2015 | 07:29)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_agosto_19/riforme-passo-necessario-1f39a336-4632-11e5-979c-557f4d93ec30.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA La forza della lentezza nel cuore dell’Europa
Inserito da: Admin - Settembre 05, 2015, 12:12:47 pm
La forza della lentezza nel cuore dell’Europa

Di Pierluigi Battista

La marcia ha un impatto simbolico fortissimo, più di un banale corteo, o del solito comizio. I reietti, i dannati della terra, i profughi in fuga da fanatici e tiranni e che non vogliono rinunciare a percorrere quei 250 km che li separano dalla libertà, scendono dai treni e si mettono in marcia da Budapest. Usano la forza lenta e inesorabile delle loro gambe per trasmettere un messaggio travolgente. La marcia resta sempre qualcosa di memorabile. Questa che si snoda con le lacrime agli occhi di chi non si piega all’ultimo diktat, ancora di più. Le bandiera dell’Europa sventolata con un pathos che nessun europeo ha mai provato ci commuove e ci emoziona. Un popolo in marcia. Sembra il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo. Impossibile girarsi dall’altra parte e far finta di niente.

Una marcia può servire una buona causa o può servire finalità abiette. Può dare forza a un sogno, come quella che invase Washington sotto la guida di Martin Luther King contro lo scandalo della segregazione razziale («I have a dream»). O può essere uno strumento formidabile di ricatto e di pressione, come quella dell’ottobre del ‘22 condotta dalle camicie nere e che terrorizzò il Re e il fragile palazzo romano.

Questa marcia dà invece una forza irresistibile a chi usa l’unica risorsa di cui dispone, la disperata energia delle proprie gambe, per raggiungere una meta, per lasciarsi definitivamente alle spalle l’incubo atroce della guerra e della persecuzione, vittime incolpevoli di uno scontro immane tra chi non tiene in nessun conto il valore della vita, e figurarsi della libertà. Una determinazione possente di chi si mette in marcia e non vuole accettare l’ultima sconfitta dopo aver lasciato per terra e per mare i bambini che non ce l’hanno fatta, le persone tradite e maltrattate da mercanti d’umanità senza scrupoli. Sono lì, a un po’ di decine di chilometri da un traguardo sognato, e qualcuno può pensare che si vogliano fermare proprio adesso, che non sono capaci di portare a compimento la loro anabasi, di non saper replicare l’epopea dei contadini di Faulkner e di Steinbeck, la marcia verso l’Ovest di chi sui miseri carri non aveva nient’altro che la propria miseria da trascinare per ricominciare daccapo, per raggiungere una meta?

La forza di una marcia come questa è più poderosa di un treno che non vuole partire dalla stazione di Budapest, dove hanno soppresso i convogli «destinazione Ovest». La marcia è faticosa, massacrante, selettiva. Ma è una lezione che si imprime nella memoria. Che mette a tacere gli indifferenti e i paurosi. Che ci interroga sulla nostra passività, sulla nostra acquiescenza di fronte alle atrocità compiute non lontano da qui e il cui peso, anche militare ed economico, siamo incapaci di sostenere. Senza capire da cosa scappano questi nostri fratelli in marcia, cosa chiedono, cosa non possono più sopportare mentre in Europa, la cui bandiera viene sventolata dai profughi, domina l’immobilismo e l’ipocrisia. Ecco il messaggio di chi marcia, la forza dei loro passi. E la vergogna di chi è costretto, finalmente, a guardare in faccia la realtà.

5 settembre 2015 (modifica il 5 settembre 2015 | 07:13)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_settembre_05/forza-lentezza-cuore-europa-battista-1fce3aca-538c-11e5-8d8b-01b5b32840a1.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Berlusconi Ncd e Salvini Il destino incerto del centrodestra
Inserito da: Arlecchino - Settembre 11, 2015, 11:29:10 am
Berlusconi, Ncd e Salvini
Il destino incerto del centrodestra
Orfano della leadership di Berlusconi, il centrodestra sembra essersi perso nei meandri di una rissa non sempre decorosa.
Latita ormai la figura del grande aggregatore


Di Pierluigi Battista

Le convulsioni che scuotono il Ncd di Alfano sono l’ennesima testimonianza nel caos del centrodestra orfano della leadership di Berlusconi. Ognuno va per conto proprio, in una rissa non sempre decorosa. Latita ormai la figura del grande tessitore, del grande aggregatore. Di quello che è stato Berlusconi per un ventennio, che tutti prendevano in giro perché diceva rassemblement in modo che faceva sorridere nella sua ingenuità pre-politica, ma lui il rassemblement l’ha fatto, ha unito le anime diverse del centrodestra, ha cercato una coalizione fortissima, vincendo ripetutamente, diventando protagonista assoluto della politica italiana lungo l’intero arco della Seconda Repubblica. Oggi i suoi eredi presunti si contendono le briciole di un consenso che è evaporato in pochi anni: il Pdl prese da solo il 38% dei voti nelle elezioni nel 2008 e con la Lega di Bossi si arrivava al 45; oggi Forza Italia è a poco più del 10, e il resto si frantuma tra Lega, astensionismo e partitini microscopici, senza futuro, senza coesione, grandi apparati per piccoli consensi. Berlusconi sembra oramai imprigionato nel vortice dell’indecisione. Non sa che fare, è incerto se scatenare la guerra a Renzi o farsi suo alleato. È cupo, malinconico, catturato da una piccola corte gelosa che lo ha rinchiuso in una fortezza. Promette il grande ritorno e poi diserta persino la festa del Giornale che doveva celebrare l’anno zero di una nuova stagione berlusconiana.

Il centrodestra sembra paralizzato dalla stessa sindrome. Forza Italia è evanescente. Il Nuovo centrodestra si divide tra chi vorrebbe andare con Renzi e chi ha voglia di recitare il ruolo del figliol prodigo, contrito, desideroso di farsi perdonare dal vecchio leader in disarmo. La tentazione è di mettersi una felpa e di affidarsi al vigore mediaticamente efficacissimo di Salvini. Ma il voto a Salvini è classicamente un voto «identitario», cancella la possibilità di ogni rassemblement, rompe i rapporti con il resto dei moderati d’Europa, consegna la destra alla sua natura più radicale ed oltranzista, forte nel suo insediamento ma incapace di parlare al resto del Paese e a costruire una maggioranza in gradi di scalzare il dinamismo di Matteo Renzi. Berlusconi è incapace di prefigurare e creare il dopo-Berlusconi. Un giorno parla di una successione democratica e non monarchica, il giorno dopo uccide la prospettiva stessa delle primarie. Non sa più trasmettere alla sua Forza Italia un messaggio univoco: vuole essere un partito che segue la lezione di Cameron, della Merkel, di Ma- riano Rajoy che capeggia con i Popolari ancora il primo par- tito in Spagna, dello stesso Sarkozy, oppure vuole inseguire a braccetto di Salvini la Le Pen, Farage, Orbán nel nome dell’antieuro e della barriere ai profughi che invadono l’Europa.
L’Ncd di Alfano doveva essere il volto moderato del centrodestra: missione fallita. Ma se il centrodestra non deciderà in temi ragionevoli il suo destino, il destino stesso si sobbarcherà il compito di assegnargliene uno: la sempre più marcata irrilevanza.

11 settembre 2015 (modifica il 11 settembre 2015 | 07:21)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_settembre_11/destino-incerto-centrodestra-796abb24-5843-11e5-8460-7c6ee4ec1a13.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Cambi di fronte I paradossi dei partiti in politica estera
Inserito da: Arlecchino - Settembre 11, 2015, 11:39:38 am
Cambi di fronte
I paradossi dei partiti in politica estera
Dopo la decisione di Angela Merkel di accogliere i siriani, la sinistra si è improvvisamente innamorata della destra europea, mentre la destra loda Putin.
E il Movimento 5 Stelle si trova d’accordo con il premier ungherese Orbán

Di Pierluigi Battista

A maggioranza variabile, anche in politica estera. La volubilità italiana è così spiccata che Angela Merkel, vituperata fino a pochi giorni fa come la crudeltà incarnata, bollata come la personificazione della perfidia, l’affamatrice della Grecia che solo l’audacia di Tsipras ha saputo contrastare, l’erede di Hitler che è capace di ottenere con lo strangolamento finanziario ciò che il predecessore non era riuscito a raggiungere con i carri armati e i campi di concentramento, oggi per la sinistra diventa una santa: Santa Angela dell’Accoglienza. La sinistra italiana si è improvvisamente innamorata della destra europea. Ma la destra italiana accusa con i suoi giornali la Merkel, la cui leadership nella destra europea è fuori discussione, di promuovere l’islamizzazione dell’Europa, come se i rifugiati che premono alle frontiere non scappassero dai decapitatori dello Stato islamico, oltre che dai massacri del macellaio Assad.

Alla destra che un tempo amava descriversi come portabandiera di una «rivoluzione liberale» piace anche l’ungherese Orbán (quello dei fili spinati e dei muri), che però fa la sua notevole figura, dimostrando così la sempre più accentuata volatilità delle nozioni tradizionali di destra e di sinistra, anche nel blog di Grillo. Dove però sono almeno coerenti. Il loro motto è semplice: stare con tutti quelli che hanno la Merkel, sia nella versione crudele che in quella buonista, come bersaglio principale. Per cui nei Cinque Stelle si sta con l’ultradestro Farage nel Parlamento europeo e contemporaneamente ci si reca ad Atene in pellegrinaggio con l’ultrasinistro Varoufakis. E con l’Isis? Trattare, secondo la lectio di Di Battista. E contro gli odiati sionisti di Israele e addirittura con le donne velate iraniane perché, come ha proclamato Grillo comodamente adagiato ai bordi di una piscina in Costa Smeralda, almeno non si acconciano in modo peccaminoso come fanno le occidentali. E ci si chiede con una certa preoccupazione cosa potrebbe essere la politica estera di un futuribile governo Cinque Stelle.

Il presidente francese Hollande è di sinistra e dice che contro l’Iss bisogna prepararsi ad azioni aeree più martellanti e incisive. Ma il governo di sinistra italiano si affretta a dire che no, giammai l’Italia parteciperà a raid aerei contro i tagliagole che costringono, insieme alle bombe di Assad sui civili, milioni di siriani a scappare dalle nostre parti. Sempre eccentrici. Sempre fuori collocazione. Con la sinistra che ama la destra e la destra che ama quelli che la destra europea non ama. Putin, per esempio. Fosse per la destra italiana la linea contro l’attacco della Russia all’Ucraina sarebbe facilissima: non fare niente e avanti senza esitazioni con i contratti. Naturalmente sono discutibili le sanzioni, e anche una certa fretta nell’allungare l’ombra della Nato a Est. Ma qui è un dogma l’amicizia indistruttibile tra Putin e Berlusconi. Piace l’uomo della tradizione, dell’autoritarismo, della grande potenza che riscopre se stessa e le proprie antiche radici. Per cui se la destra italiana oggi fosse al governo, la destra che un tempo era atlantica e atlantista, avremmo un’Italia che nello scontro tra gli Stati Uniti e la Russia non avrebbe esitazioni a stare con la Russia. Che poi la Russia, chissà come mai, non è neanche meta delle masse di profughi che da Budapest prendono immancabilmente la strada dell’Ovest anziché dell’Est. Forse è per questo che Putin piace tanto a Salvini: tiene lontani i profughi (però bisognerebbe dire al leader della Lega che apre anche una grande moschea a Mosca). L’Italia del caos in politica estera. Era così imprevedibile?

9 settembre 2015 (modifica il 9 settembre 2015 | 08:59)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_settembre_09/i-paradossi-partiti-politica-estera-d9da2de6-56bd-11e5-a580-09e833a7bdab.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA I tormenti della Sinistra quando l’Italia fa la guerra
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 14, 2015, 03:15:19 pm
Regole d’ingaggio
I tormenti della Sinistra quando l’Italia fa la guerra
Moltissimi «se» e un mare di «ma» sono sempre stati la cifra nella Seconda Repubblica nei confronti della partecipazione alle cosiddette «missioni di pace» o «peacekeeping»

Di Pierluigi Battista

«Senza se e senza ma», si usava dire con espressione che voleva alludere a una ferrea volontà di coerenza. Tuttavia, moltissimi «se» e un mare di «ma» sono sempre stati la cifra, il modello di comportamento della sinistra nella Seconda Repubblica nei confronti della nostra partecipazione alle guerre, anzi, pudicamente, «missioni di pace», o «peacekeeping» per stare nei consessi internazionali. Per colpa delle «regole di ingaggio», per esempio, il governo Prodi rischiava ogni volta di smottare e venir giù. Ci si impratichì con termini come «caveat», che poi sarebbero i codicilli che avrebbero dovuto regolare le modalità di azione o non-azione delle nostre truppe in Afghanistan, per la formulazione dei quali c’era sempre un senatore della sinistra «radicale», Turigliatto in primis, disposto a far cadere il governo. Bisognava starci, ma in modo limitato, circoscritto, con «regole d’ingaggio» rigidissime. Come sta avvenendo in questi giorni. Nella comunità internazionale, ma pur sempre con distinguo, codicilli, caveat di impossibile oltrepassamento. In Iraq, ma non in Siria, anche se l’Isis sta sia in Siria che in Iraq. E con la sinistra «radicale», o chi ne fa le veci come Beppe Grillo in questa occasione, a gridare contro la «subalternità» del governo italiano ai dettami della Nato.

C’è sempre un contorcimento, una precisazione una condizione nel rapporto tra la sinistra e la guerra guerreggiata. Quando è un no secco, come nell’Iraq del 2003, allora è un no secco. Ma il no non diventa mai un sì squillante, piuttosto sempre un nì. Come nella guerra del Kosovo. Il governo D’Alema, con l’appoggio dei ribaltonisti che attraverso Francesco Cossiga trasmigrarono dalla destra all’Ulivo, era ovviamente favorevole alla guerra contro Milosevic. Non la chiamavano guerra, la chiamavano «ingerenza umanitaria», ma comunque ci stavano. Ma mai del tutto, sempre tenendo un piede sull’uscio. D’accordo con il sostegno delle basi in Italia da dove sarebbero partiti i raid destinati a colpire Belgrado. Ma senza partecipare direttamente ai raid. Poi, ogni volta che i raid colpivano duro, subito arrivava dall’Italia la proposta di un rapido cessate il fuoco. Eravamo a pieno titolo nella guerra, ma non potevamo dirlo. Una sinistra che citava la sacralità della Costituzione a ogni passo non se la sentiva di sfidare troppo la lettera dell’articolo 11 della Carta Costituzionale, quello che ripudiava la guerra come soluzione dei conflitti. Nella guerra, ma con tanti se e tanti ma.

La sinistra italiana e la guerra si erano già fronteggiate nel 1991, quando la Nato decise di scatenare la guerra del Golfo per punire Saddam Hussein, reo di aver invaso il Kuwait nell’agosto del 1990. Era in corso la trasformazione del Pci in Pds e l’atto primo del partito di Occhetto non poteva essere il sì a una guerra che avrebbe dovuto garantire il nuovo «ordine internazionale»

scaturito dalla caduta di Berlino e dalla fine della guerra fredda per estinzione dell’Urss, uno dei due contendenti. Ma una parte della sinistra, quella di matrice socialista, ma anche quella di Vittorio Foa, vedeva in quel conflitto baciato dall’Onu addirittura una riedizione della guerra civile spagnola con le sue Brigate internazionali chiamate a colpire il nuovo tiranno Saddam Hussein. Poi, dopo tanti anni, e dopo l’attacco dell’11 settembre alle Torri Gemelle, rinasce la questione con la spedizione di truppe italiane a Kabul. All’inizio, sull’onda emotiva di quell’attentato storico, la vista delle torri che crollavano, il cuore dell’Occidente colpito a morte, la sinistra non se la sentì di mettere ostacoli. Sottolineava che quella guerra doveva essere condotta nel nome del venerato «multilateralismo», che doveva essere certificata e vidimata come un’iniziativa «sotto l’egida dell’Onu», ma insomma le distinzioni non potevano superare una certa soglia pena l’accusa di fare ostruzionismo in un’emergenza tanto drammatica del mondo in cui l’obiettivo numero uno era la sconfitta dei talebani e di Osama Bin Laden. Ma negli anni successivi la guerra dei caveat rimpiazzò quella della guerra vera: e ogni volta i finanziamenti della missione italiana diventavano la scintilla di uno psicodramma. Sempre dentro, ma anche un po’ fuori. In Iraq, ma non in Siria. Mille se e mille ma.

8 ottobre 2015 (modifica il 8 ottobre 2015 | 08:07)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_ottobre_08/i-tormenti-sinistra-quando-l-italia-fa-guerra-667e7c06-6d7b-11e5-8aec-36d78f2dc604.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA La strategia del premier pigliatutto
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 24, 2015, 12:21:05 pm
I temi degli avversari
La strategia del premier pigliatutto
Matteo Renzi che scatena la guerra preventiva contro l’euroburocrazia di Bruxelles, che sbandiera l’orgoglio nazionale rivendicando una manovra che abbassa le tasse in conto deficit, si intesta una battaglia che piace molto all’elettorato leghista eurofobico


Di Pierluigi Battista

Matteo Renzi che scatena la guerra preventiva contro l’euroburocrazia di Bruxelles, che sbandiera l’orgoglio nazionale rivendicando una manovra che abbassa le tasse in conto deficit e non con uno spietato taglio delle spese come vorrebbe l’Europa, si intesta una battaglia che piace molto all’elettorato leghista eurofobico. È l’ultima fetta di quello che un tempo fu il centrodestra italiano che il presidente del Consiglio potrebbe inglobare e fare sua. Renzi pigliatutto piglia soprattutto alla sua destra.

Berlusconi dice che è un «copione». Ma è una reazione speculare alle lamentazioni di chi, nella sinistra residuale, lamenta che Renzi sia un clone della destra. Renzi piglia infatti alla sua destra dove non c’è più resistenza, trincea, argine politico e culturale.

Anche l’euroscetticismo diventa suo. Un tempo la sinistra era eurodogmatica e la destra aveva campo libero nell’area degli euromalpancismi. Ora lo schema si è rovesciato. L’ennesimo. Renzi pigliatutto tende a scardinare il bipolarismo che ha contrassegnato l’intera stagione della Seconda Repubblica. Resta l’antagonismo del Movimento 5 Stelle che, dato frettolosamente in via di estinzione dopo le elezioni europee del 2014, ha dimostrato una forza attrattiva ancora molto attiva. La battaglia «antipolitica» miete ancora consensi e la presenza del «nuovo» Renzi non ne ha disinnescato la potenza magnetica.

Certi scivoloni come la fulminea approvazione in Senato delle norme che mettono nella cassaforte dei partiti una somma cospicua di finanziamento pubblico (che si proclamava addirittura «abolito» nelle dichiarazioni renziane) esasperano l’elettorato 5 Stelle e annullano l’effetto simbolico di quel poco di risparmi legato alla riforma del Senato. La triste vicenda di Roma, inoltre, apre al movimento di Grillo insperati orizzonti nell’evidente difficoltà del Pd. Ma se si eccettua l’anomalia grillina, tutto il resto del sistema politico sembra oscurato da una presenza renziana che incorpora i temi degli avversari, li assimila in un nuovo linguaggio, spunta le ali nemiche, devitalizza la vis polemica di chi potrebbe farle ombra.

L’euroscetticismo leghista viene declinato in senso renziano e anche la campagna di Salvini sull’immigrazione appare un po’ sbiadita dopo che l’emergenza si è spostata da Lampedusa alle frontiere europee del Nordest: come si potrà dire che sia colpa dell’imbelle governo italiano l’invasione degli immigrati? Con l’abolizione della Tasi e dell’Imu, il vessillo per eccellenza della destra berlusconiana, la detassazione della prima casa come bene di tutti gli italiani che la possiedono e che sono la stragrande maggioranza, viene afferrato da quello che Berlusconi chiama il «copione».

Come potrebbe ora il centrodestra opporsi alla misura-simbolo di un’intera fase politica? Come faranno i vari Renato Brunetta a contestare una misura che è tipicamente del centrodestra? Del resto, persino i super-polemici giornali della destra sono sembrati molto meno aggressivi del previsto con la legge di Stabilità di Renzi. Il Nuovo centrodestra di Alfano appare oramai compiutamente fagocitato, non più solo satellizzato, nell’orbita renziana. Rimane al Ncd la bandiera dell’opposizione sulle unioni civili delle coppie dello stesso sesso, ma Renzi gestisce con abilità la tempistica, prima accelerando, poi frenando, tenendo in apprensione gli alleati di governo, ma ritardando strategicamente il momento in cui dovranno cedere anche su quest’ultima trincea. In Parlamento, poi, lo stillicidio di tradimenti nelle file di Forza Italia tentate dalla sirena di Renzi non sembra aver fine. Non è ben chiaro se questo inglobamento pigliatutto sia esattamente lo schema di un ipotetico «Partito della nazione» che dovrebbe superare il Pd. Certo, la disfatta durissima della sinistra interna ed esterna al Pd sulla riforma del Senato lascia campo libero a Renzi. Che oramai sembra che dovrà vedersela con un Movimento 5 Stelle vigoroso ma con un centrodestra che, se non correrà con urgenza ai ripari, rischia la marginalità politica e anche un clamoroso autogol a Milano e a Roma mentre i vertici si dilaniano sulle candidature. Un nuovo e inedito bipolarismo che il bulimico Renzi pigliatutto sta costruendo ogni giorno. Accelerando.

17 ottobre 2015 (modifica il 17 ottobre 2015 | 06:54)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_ottobre_17/renzi-premier-pigliatutto-824ba8b2-748a-11e5-a7e5-eb91e72d7db2.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Perché il canone Rai è una tassa ingiusta
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 28, 2015, 06:03:11 pm
Perché il canone Rai (anche nella bolletta della luce) è una tassa ingiusta
È un residuo di un’epoca finita: senza telecomando, smartphone né pc.
Va contro il principio della libertà di scelta. E introduce un principio di concorrenza sleale

Di Pierluigi Battista

Va bene, pagheremo quell’odioso balzello denominato «canone Rai» con la bolletta dell’elettricità. Ciò non toglie che saremo costretti a pagare una tassa iniqua e ingiustificata. Perché è un residuo di un’epoca finita, quella in cui non esisteva il telecomando, lo smartphone, il tablet, e non esisteva nemmeno il computer. Di un’epoca in cui possedere un apparecchio televisivo era un privilegio e la gente andava a vedere «Lascia o raddoppia» con Mike Bongiorno al bar. Un’epoca in cui esisteva il monopolio della tv e della radio di Stato, con un solo telegiornale e un solo radiogiornale, più o meno nel Medioevo. Perché l’obbligo fiscale di un canone va contro il principio della libertà di scelta: pago il biglietto del cinema o di un concerto, se lo scelgo io; pago il prezzo di un giornale se lo scelgo io; pago una tv tematica non di Stato se la scelgo io; sono invece costretto a pagare la tassa per la Rai anche se non vedo programmi Rai, o li vedo in misura inferiore a quelli di altre emittenti televisive che non possono usufruire dei proventi di una tassa obbligatoria.

Il canone introduce un principio di concorrenza sleale, come se in una gara di corsa un concorrente privilegiato, perché si chiama Stato, potesse cominciare con trenta metri di vantaggio. Dicono che un canone televisivo è misura comune all’Europa. Non è vero, solo in due terzi, l’Italia potrebbe raggiungere il terzo virtuoso. Inoltre quasi sempre le tv pubbliche che usufruiscono di una tassa pongono dei limiti molto stretti alla pubblicità, e la Bbc addirittura la vieta. La permanenza indiscussa di un canone impedisce, tranne casi rari come quello del nostro Aldo Grasso, di interrogarsi su cosa sia «servizio pubblico». Stabilisce un’arbitraria e ideologicamente polverosa equiparazione tra «pubblico» e «di Stato» (mentre molte trasmissioni di reti private fanno più «servizio pubblico» della Rai). Crea assuefazione all’idea che «servizio pubblico», che magari potrebbe limitarsi a una sola rete sottratta al mercato, debba dotarsi di un apparato elefantiaco, pletorico, terreno di caccia e di conquista dei partiti che continuano ad esserne i veri «editori». L’indiscutibilità del canone, ancora, ignora per sempre la volontà popolare espressa in un referendum promosso dai Radicali nel 1995 in cui il 54,9% degli italiani (13 milioni e 736 mila) si proclamava favorevole a una pur parziale privatizzazione della Rai. Paghiamo tutti, certo, ma paghiamo una cosa ingiusta.

19 ottobre 2015 (modifica il 19 ottobre 2015 | 16:14)
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_ottobre_19/perche-canone-rai-anche-bolletta-luce-tassa-ingiusta-bfa1b92c-766a-11e5-9086-b57baad6b3f4.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA L’Esibizionismo di Stato sui social network del giudice...
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 28, 2015, 06:14:26 pm
Il CORSIVO DEL GIORNO
L’Esibizionismo di Stato sui social network del giudice che condanna le nozze gay

Di Pierluigi Battista

Un giudice dovrebbe parlare solo con le sentenze.
Ora invece parla anche sui social network, come Carlo Deodato, cui si deve la sentenza che ha bocciato la registrazione delle nozze gay celebrate all’estero.


Un giudice, si diceva un tempo, dovrebbe parlare solo con le sentenze. E invece no, adesso parla a ruota libera dei temi in cui viene chiamato in causa con interviste, dichiarazioni, interventi nei talk-show, nelle inaugurazioni degli anni giudiziari diventate oramai ribalte mediatiche, ma soprattutto, questa è la novità, sui social network: anticipando su Twitter e su Facebook quello che pensa nella materia che invece dovrebbe giudicare limitandosi a compulsare codici, giurisprudenza e testi di diritto. E invece il giudice Carlo Deodato, cui si deve la sentenza del Consiglio di Stato che stabilisce la non trascrivibilità in Italia dei matrimoni tra persone dello stesso sesso contratti all’estero, aveva già ampiamente anticipato sui social network tutto il male possibile che pensava attorno alle nozze gay, cioè esattamente sul punto su cui doveva pronunciarsi. Si diceva un tempo che un giudice non solo deve essere imparziale, ma deve anche apparire imparziale. Ma che imparzialità, che terzietà può mai dimostrare un giudice che intrattiene i suoi amici su Facebook non sulle vacanze appena trascorse ma sulla sua ostilità ai matrimoni tra persone dello stesso sesso che sta per riversare in una sentenza del Consiglio di Stato?

Tra l’altro, nella motivazione della sentenza il giudice motiva la sua personale contrarietà alle nozze gay non solo con argomenti giuridici ma inerpicandosi sui sentieri impervi della discussione filosofica e disquisendo sullo scandalo «ontologico che i matrimoni tra omosessuali alimenterebbero. L’ontologia dovrebbe essere lasciata ai maestri della morale. Il diritto è un’altra cosa.

E al Consiglio di Stato si richiedono argomenti giuridici e non dissertazioni religiose e filosofiche, né nelle sentenze e nemmeno su Facebook. Dove si postano le foto della propria, di famiglia, senza sentenziare su quelle altrui.

28 ottobre 2015 (modifica il 28 ottobre 2015 | 08:54)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_ottobre_28/esibizionismo-stato-social-network-giudice-che-condanna-nozze-gay-abb79c2e-7d3b-11e5-b7c2-dc3f32997c8b.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Marino, chi grida alle Idi di ottobre: la sindrome ...
Inserito da: Arlecchino - Novembre 02, 2015, 08:40:37 pm
Il commento
Marino, chi grida alle Idi di ottobre: la sindrome (contagiosa) del complotto

Di Pierluigi Battista

Le Idi di Marzo, che nobile precedente. Ignazio Marino pugnalato come Giulio Cesare. Manca solo uno Shakespeare per fare dire a un nuovo Marco Antonio nella sua orazione funebre che «Matteo Renzi è un uomo d’onore» e poi siamo all’apoteosi del complottismo.
Invece ci sono solo i fan di Marino e i giornali di estrema sinistra e dunque l’accusa del complotto appare un po’ spuntata. Si chiama politica, manovra politica, scelta politica. Che può essere giusta o sbagliata ma resta essenzialmente una scelta politica. Anche candidarsi a sindaco, vincere le primarie, vincere le elezioni al ballottaggio è politica. E se la maggioranza politica sfiducia il sindaco che ha sostenuto fino al giorno prima, la tragedia fosca della grande cospirazione non c’entra più, è una spiegazione troppo facile. Troppo rassicurante. Troppo autoassolutoria.
E del resto i complottisti non possono essere complottisti a zig zag, a singhiozzo, a giorni alterni. Quando le defezioni nel campo del centrodestra indebolirono Berlusconi, partirono dalla destra come al solito accuse di tradimento e di complotto, ma in quel caso i giornali oggi filo Marino si guardarono bene da espressioni che potessero ricordare qualcosa di simile alla congiura. Anzi, magari presero anche in giro i berlusconiani quando Berlusconi alla fine gettò la spugna e si recò al Quirinale per dimettersi. Era politica, appunto.
Se un premier non sa più tenere la sua maggioranza, subisce una sconfitta politica, ovviamente con il concorso (democraticamente legittimo) dei suoi avversari. E la stessa cosa vale per il sindaco di Roma che adesso deve portarsi a casa le sue «scatole preziose». Non ha saputo tenere il suo governo della città. Giulio Cesare non c’entra niente. E neanche Bruto. E neanche le solite litanie sui «poteri forti» che sono «forti» solo se ti stanno contro, gli altri giorni invece no.
Ma il complottismo è una malattia forte e contagiosa, colpisce e destra e a manca. È molto facile da maneggiare. Addirittura è molto popolare perché trasforma in vittima chi subisce una sconfitta politica. Le Idi di ottobre fanno sempre il loro effetto.

1 novembre 2015 (modifica il 1 novembre 2015 | 10:51)
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_novembre_01/marino-chi-grida-idi-ottobre-sindrome-contagiosa-complotto-097b2fd2-807b-11e5-aac9-59b4cd97071f.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Allende, gli Inti-Illimani e Berlinguer.
Inserito da: Arlecchino - Novembre 04, 2015, 05:35:29 pm
Allende, gli Inti-Illimani e Berlinguer.
Il golpe che spaccò la sinistra italiana


Testo di Pierluigi Battista – ricerca fotografica di Leda Balzarotti e Barbara Miccolupi

Il 3 novembre 1970 Salvador Allende diventa Presidente del Cile

Quell’11 settembre (quello cileno, non quello di New York) gli Inti-Illimani si trovavano in Italia per una tournée. Per il Cile di Salvador Allende, stuprato dal golpe di Augusto Pinochet, era il giorno della catastrofe. Per il gruppo di musicisti rivoluzionari cominciava invece l’interminabile liturgia delle Feste dell’Unità commosse dalla musica andina. L’epopea di Unidad Popolar, soffocata dai militari felloni l’11 settembre del 1973, assumeva dimensioni mitologiche. E i combattivi democratici europei alzavano in alto i pugni chiusi dell’indignazione intonando bellicosi «El pueblo unido jamás será vencido», familiarizzandosi tra un inno e un altro con i ritmi languidi e malinconici della chitarra e del «quatro», del «charango» e della «pandereta». La sinistra italiana raggiunse con il golpe cileno il diapason emotivo della protesta e della mobilitazione delle anime. Il cuore batteva all’unisono per i ragazzi che venivano trasportati sanguinanti e pesti sulle gradinate dello stadio di Santiago del Cile, per l’immagine eroica del presidente Allende che con le armi in mano moriva combattendo contro i truci golpisti, per gli oppositori uccisi, incarcerati o desaparecidos. Le emozioni sapevano riconoscere e distinguere il Bene dal Male: il Male era il volto repellente del generale Pinochet, con lo sguardo di ghiaccio nascosto dietro le lenti buie dei suoi occhiali da sole, simili a quelli indossati da tutti i gorilla sudamericani chiamati ad opprimere i loro popoli; il Bene era la democrazia calpestata, la libertà reclusa, il sangue che scorreva nelle città del Cile. Salvador Allende era il santo, Pinochet il demonio. Tra gli angeli, i suoi alleati del Mir e del Partito socialista di Carlos Altamirano, insieme, coralmente, a tutto «el pueblo» del Cile. Tra i diavoli Kissinger, la Cia, i camionisti che avevano spianato la via ai golpisti con i loro blocchi stradali, le massaie eterodirette che minacciavano il governo Allende con le loro casseruole. Le note andine degli Inti-Illimani erano la colonna sonora di questo caldo sentimento di unanimismo democratico, tanto che il loro successo così inarginabile mise in circolo una quantità di non sempre fortunatissime imitazioni. I «Finti-Illimani», si diceva quando negli anni si cominciò a percepire un sentimento di saturazione («la musica andina che noia mortale», copyright Lucio Dalla). E se da una parte gli Inti-Illimani scatenavano la commozione di tutti, dall’altra si replicava con gruppi musicali destinati a un successo incomparabilmente minore, ma pur sempre cospicuo sebbene effimero, come quello che arrise agli oggi non più ricordati Quilapayún.

Di origini borghesi, laureato in medicina e appassionato di politica sin dal 1933, quando partecipa alla fondazione del Partito Socialista cileno, Allende entra per la prima volta in Parlamento nel 1937. Ricoprirà più volte la carica di ministro della Sanità e delle Politiche Sociali, oltre che di Presidente del Senato, e nel 1970 si candiderà per la terza volta alla Presidenza della Repubblica, dopo le sconfitte del 1952 e del 1958

Sembrava tutto così chiaro. Chiaro come la guerra nel Vietnam: anche lì una netta linea divisoria a separare i grandi ideali dalle oscure macchinazioni manovrate dei loschi interessi dell’«imperialismo». E invece? E invece, pur polarizzando le emozioni collettive con un’intensità mai più raggiunta in tutti gli innumerevoli colpi di Stato che avrebbero travagliato l’America Latina (persino gli orrendi gorilla argentini ebbero una sia pur imbarazzata quota di solidarietà internazionale quando la Thatcher l’«imperialista» mosse loro guerra per riconquistare non le «Malvinas», ma le «Falkland»), le reazioni italiane al colpo di Stato in Cile segnarono uno spartiacque profondo e incolmabile. Già nelle piazze si avvertiva qualche stridore, soffocato solo in parte dall’appello al popolo che unito «jamás será vencido», quando la sinistra «extra-parlamentare» rispondeva con un arcigno «Cile rosso» nei cortei dove i «revisionisti del Pci» si gridava «Cile libero». Ma c’era anche la campagna «Armi al Mir», si inneggiava al «Movimiento de Izquierda Revolucionaria», fautore della lotta armata, la componente più radicale e insurrezionalista dell’arcipelago che aveva sostenuto Allende, anche se con scontri cruenti con il super-moderato Partito comunista di Luis Corvalán. Si diceva che Allende aveva perso perché troppo «poco rivoluzionario», perché non aveva saputo dare il colpo di grazia alle forze «reazionarie» (a cominciare dalla Democrazia cristiana cilena), perché non aveva saputo raggiungere tutti gli obiettivi della rivoluzione socialista. Ma questa lettura si scontrò con la lezione, di segno completamente opposto, che ne avrebbe ricavato il segretario del Pci Enrico Berlinguer. E fu proprio infatti a partire dalle «considerazioni sul Cile» che il leader comunista propose la sua strategia del «compromesso storico». Oggi si tende a ricordare molto di più il Berlinguer della «questione morale» di quello del «compromesso storico». E se in quegli anni fosse prevalsa la regressione culturale in cui piomberà più tardi l’odierna Seconda Repubblica, quella proposta sarebbe stata liquidata come un intollerabile «inciucio». Il terrorismo rosso fu più feroce e sbrigativo e lo definì piuttosto un «tradimento» da lavare con il sangue della lotta armata, ma dietro la riflessione berlingueriana traspariva una vena critica molto severa nei confronti di Allende e della sua Unidad Popular. Berlinguer sostenne infatti in quelle note che non si sarebbe potuto governare con «il 51 per cento», con una maggioranza risicata: giustamente le forze liberaldemocratiche e socialiste in Italia replicarono che invece sì, nelle democrazie si governa quando di conquista la maggioranza, non l’unanimità soffocante e monocromatica. Ma il bersaglio polemico di Berlinguer, certo mimetizzato dallo sgomento per le nefandezze della giunta golpista, era soprattutto la pretesa accarezzata dall’Allende al governo di imporre il socialismo con poco più del 30 per cento dei consensi. Era la linea estremista imboccata dal suo governo, anche sotto l’effetto delle spinte oltranziste dei socialisti di Altamirano, e che aveva portato a genuine sollevazioni popolari causate da una scatenata politica di espropri. L’idea di Berlinguer, ancora oggi confermata, malgrado le innumerevoli svolte della storia, è che è suicida per la sinistra governare «contro» la parte maggioritaria della società, che non si deve umiliare per dottrinarismo ideologico interi gruppi sociali, mortificare l’economia e il mercato, punire quella fetta consistente di opinione pubblica che non ha voluto dare il suo consenso alla sinistra stessa. L’idea era che non si potesse governare «contro le masse popolari cattoliche». Un’idea che si sarebbe realizzata molti anni dopo, quando le forze democratiche si unirono per condurre insieme la battaglia referendaria che avrebbe messo fine alla dittatura di Pinochet e restituito il Cile alla democrazia. Difesa non dai fucili della «lotta armata», ma dal consenso popolare. Dal consenso del «pueblo» reale, non quello immaginario.

 Corriere della Sera 10 settembre 2013 © RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/reportage/esteri/2015/allende-gli-inti-illimani-e-berlinguer-il-golpe-che-spacco-la-sinistra-italiana/


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Gli attentati di Parigi e la Fallaci «Scusaci Oriana, avevi
Inserito da: Arlecchino - Novembre 15, 2015, 08:47:00 pm
Dopo la strage
Gli attentati di Parigi e la Fallaci «Scusaci Oriana, avevi ragione»
Il risarcimento postumo è online
Aspra ma vera, violenta ma realista. Fallaci protagonista su Facebook e Twitter


Di Pierluigi Battista

S u Twitter, su Facebook, sui social network, dopo l’apocalisse di Parigi è tutto uno «scusaci Oriana». Anzi, tutto no. La parte opposta se la prende aspramente, rancorosamente, con «il delirio della Fallaci», con «l’odio fallaciano». Uno ha scritto, come in una disputa teologica, contro il «fallacianesimo». Ma insomma, da una parte e dall’altra fioriscono le citazioni di Oriana Fallaci. Si vede nel massacro di Parigi il frutto della «profezia di Oriana». Si citano brani interi de La rabbia e l’orgoglio, un libro che ha venduto un numero incalcolabile di copie, che ha intercettato un umore popolare, che ha dato voce a un sentimento diffuso. E oggi, dopo anni di dimenticanza e di marginalizzazione, lo «scusaci Oriana» sembra essere la ricompensa postuma, il risarcimento per una sordità, quasi a considerare Oriana Fallaci come una intrattabile estremista. Mentre ora si vede che le sue diagnosi non erano poi così insensate.

Un passo della Fallaci molto citato: «Intimiditi dalla paura di andar controcorrente cioè d’apparire razzisti, non capite o non volete capire che qui è in atto una Crociata alla rovescia. Abituati come siete al doppio gioco, accecati come siete dalla miopia, non capite o non volete capire che qui è in atto una guerra di religione». «Brava Oriana», «Scusaci Oriana», «Non ti hanno voluto ascoltare Oriana», si batte e si ribatte sui social network. E giù anche con gli improperi di Oriana Fallaci sull’Italia molle e arrendevole, «l’avamposto che si chiama Italia» come lo definiva beffardamente lei: «avamposto comodo strategicamente perché offriamo buonismo e collaborazionismo, coglioneria e viltà». E sulla «coglioneria» s’alza la standing ovation dei fallaciani dell’ultimissima ora, o forse della prima perché compravano avidamente i suoi libri ma non avevano il palcoscenico di Internet sul quale esibirsi. E la profezia della Fallaci che viene rilanciata, e poi contestata, e poi brandita come un’arma della guerra culturale, e poi vituperata, e poi sventolata come una bandiera: «Ma presto si scateneranno. Molti italiani non ci credono ancora. Si comportano come i bambini per cui la parola Morte non ha alcun significato. O come gli scriteriati cui la morte sembra una disgrazia che riguarda gli altri e basta. Nel caso peggiore, una disgrazia che li colpirà per ultimi. Peggio: credono che per scansarla basti fare i furbi cioè leccarle i piedi».

E poi, la previsione più precisa, geograficamente circostanziata, in perfetta connessione con l’orrore che ha scosso la Francia: «Parigi è persa, qui l’odio per gli infedeli è sovrano e gli imam vogliono sovvertire le leggi laiche in favore della sharia». La Francia che non ha mai amato Oriana Fallaci. E bisognerebbe anche ricordare che in Francia la Fallaci, assieme a Michel Houellebecq molto prima che uscisse Sottomissione, fu messa sul banco degli accusati con l’imputazione, che assomiglia a una scomunica ideologica, di «islamofobia»: un’impostura intellettuale che diventa reato e che in Francia, nella Parigi che ieri è stata sconvolta dalla follia fanatica dei combattenti jihadisti, è diventata un’arma di ricatto per tacitare la «parola contraria», come direbbe Erri De Luca in un contesto peraltro completamente diverso. La Fallaci del dopo 11 settembre ha sempre diviso l’opinione pubblica: l’hanno amata e l’hanno odiata, hanno comprato milioni di suoi libri e l’hanno bollata come fanatica al contrario, come guerrafondaia scatenata, come una pericolosa incendiaria quando descriveva Firenze assediata e violentata dagli immigrati che orinavano sul sagrato del Duomo, con un’immagine aspra, violenta. Senza che nessuno si chiedesse: aspra ma vera? Violenta ma corrispondente alla realtà? Oggi, dopo il massacro di Parigi, quelle domande tornano di attualità e vengono assorbite e fagocitate da quel grande mostro onnivoro che è il mondo dei social network. «Scusaci Oriana» su Twitter. Neanche una «profezia» della Fallaci poteva arrivare a tanto.

15 novembre 2015 (modifica il 15 novembre 2015 | 10:04)
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_novembre_15/gli-attentati-parigi-fallaci-scusaci-oriana-avevi-ragione-risarcimento-postumo-online-e39a056c-8b6b-11e5-85af-d0c6808d051e.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA I pregiudizi e l’odio nei confronti di Israele
Inserito da: Arlecchino - Novembre 15, 2015, 09:12:06 pm
I pregiudizi e l’odio nei confronti di Israele
Si colpisce l’ebreo come incarnazione del «sionista», dovunque si trovi, per la sola colpa di esistere.
In Italia Speravamo che l’ombra lunga del terrore antiebraico non avrebbe insanguinato le nostre città

Di Pierluigi Battista

Un ebreo colpito da sei coltellate da un uomo incappucciato in periferia a Milano, davanti a una pizzeria kosher, è una notizia che sgomenta e allarma, anche in mancanza di particolari più circostanziati. Quella che viene definita l’«Intifada dei coltelli», del resto, non prevede nella sua carica di odio distinzioni, distinguo: si colpisce l’ebreo come incarnazione del «sionista», dovunque si trovi, per la sola colpa di esistere. In Europa, del resto, sono stati colpiti supermercati kosher, scuole ebraiche, sinagoghe, luoghi di ritrovo, singoli ebrei braccati e assaliti per strada. In Italia, che pure ha conosciuto nel 1982 l’attentato di fronte al Tempio Maggiore di Roma in cui perse la vita un bambino di due anni, speravamo che l’ombra lunga del terrore antiebraico non avrebbe insanguinato le nostre città. È ancora tutto da verificare quello che è accaduto ieri sera a Milano, la dinamica dell’aggressione, l’identità dell’attentatore, lo spunto da cui è partito l’agguato. Ma la comunità ebraica, e non solo quella di Milano, vive una sindrome terribile di paura. E l’Italia deve preoccuparsi, prendere atto che non esistono zone franche, soppesare le parole, capire che l’odio antiebraico, camuffato da odio antisionista, ha già provocato in Europa lutti atroci in questi ultimi anni. Un segnale, terribile, da non sottovalutare.

Tutto questo avviene alla vigilia della visita in Italia del presidente iraniano Rouhani. Ogni accostamento con i fatti di Milano, beninteso, sarebbe arbitrario: chi lo sostenesse con leggerezza apparirebbe vittima di una furia propagandistica davvero irresponsabile. Eppure è da una parola carica di angoscia, «odio», che occorre partire per una riflessione che sia capace anche di inquadrare l’agguato all’ebreo accoltellato davanti a un ristorante kosher. Infatti il presidente iraniano Rouhani, nell’intervista esclusiva che ha concesso a Viviana Mazza e Paolo Valentino per il Corriere della Sera , ha detto, testualmente, di «amare l’ebraismo» e di rispettare le «religioni monoteiste». Un’apertura importante e significativa, quando anche in Europa gli ebrei vengono uccisi dai combattenti fondamentalisti dell’islamismo politico. Un’apertura tanto più importante perché può dare un segnale molto forte nella visita del presidente iraniano in Italia. Tuttavia c’è un «però» che raggela gli animi e torna a demonizzare l’esistenza stessa dello Stato di Israele proprio quando cittadini ebrei e israeliani sono colpiti dall’odio degli accoltellatori, dai militanti del terrore che non fanno distinzione tra «ebrei» e «sionisti». Il presidente iraniano dice di capire «l’odio» non per gli ebrei ma per lo Stato di Israele. Ma non si possono rispettare gli ebrei e odiare il fatto che gli ebrei abbiano un loro Stato: lo Stato di Israele è lo Stato degli ebrei, che la comunità internazionale ha sancito con una risoluzione dell’Onu.

Ecco perché le parole di Rouhani, che pure sembrerebbero prendere le distanze dal pregiudizio antiebraico, ricadono nello stesso pregiudizio che ha sempre impedito e continuerà ad impedire la possibilità di una soluzione pacifica dei conflitti nel Medio Oriente. Quando Arafat e Rabin si sono stretti la mano con Clinton che faceva da paciere, il riconoscimento reciproco sembrava sul punto di offrire una soluzione storica a una guerra interminabile. Perché il riconoscimento della legittimità dello Stato di Israele è la precondizione della pace, ed è la premessa necessaria affinché anche lo Stato di Israele non possa che imboccare la strada maestra dei «due popoli, due Stati». L’alternativa è un «odio» imperituro, l’antiebraismo che si camuffa con l’antisionismo, una guerra che non avrà mai fine. E i fatti come quello di Milano, che aprono interrogativi angosciosi e impongono a tutti di soppesare le parole e di cancellarne per sempre una: «odio».

13 novembre 2015 (modifica il 13 novembre 2015 | 07:41)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_novembre_13/pregiudizi-odio-confronti-israele-2178527a-89ce-11e5-8726-be49d6f99914.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Attentati a Parigi, i segnali rimasti inascoltati
Inserito da: Arlecchino - Novembre 15, 2015, 09:13:42 pm
Il lungo assedio
Attentati a Parigi, i segnali rimasti inascoltati
«Charlie Hebdo», Copenaghen, il Canada, l’Australia: fino all'accoltellamento di Milano

Di Pierluigi Battista

Pensavamo di cavarcela con una passeggiata di un milione di persone sui boulevard di Parigi, nel gennaio scorso, dopo la carneficina del «Charlie Hebdo». Tutti insieme, tutti «Je suis Charlie» e dopo dimenticare, rimuovere, scusarsi: «Se la sono andata a cercare». Poi è successo a Copenaghen, quando un convegno sulla libertà d’espressione è stato attaccato da un commando armato, e abbiamo fatto finta di niente. Avevamo fatto finta di niente anche in Canada, quando ad essere assediato è stato il Parlamento. Ma il Canada era lontano, anche l’Australia era lontana. Anche l’Isis sembrava lontanissimo.

E in Italia, cosa poteva accadere, mica che un ebreo sarebbe stato accoltellato a Milano all’uscita di un ristorante kosher, kosher come il supermercato dove, subito dopo la strage del settimanale che aveva osato pubblicare le vignette su Maometto, un altro massacro ha colpito gli ebrei francesi. E adesso l’apocalisse di ieri sera, di stanotte.

Davvero era così imprevedibile? Davvero chi diceva che l’Europa stava diventando un campo di battaglia esagerava, fomentava la guerra di religione, seguiva le orme di Michel Houellebecq che pure è costretto a vivere blindato perché l’islamismo fondamentalista non gli perdona «Sottomissione»?

L’Europa è al centro di questa guerra. E chi la conduce, spargendo sangue lutti e paura, non è un semplice terrorista, ma un combattente di una guerra santa che non conosce confini, così come lo Stato islamico non conosce i confini e le frontiere dei vecchi Stati, dall’Iraq alla Siria, disegnati con il crollo dell’Impero ottomano. Nel giorno della possibile, annunciata morte di Jihadi John, l’esercito dei combattenti fondamentalisti e integralisti che vogliono schiacciare il mondo peccaminoso e satanico degli infedeli fa dell’Europa un bersaglio oramai stabile. Parigi è l’epicentro. La Francia è il terreno molle dell’attacco. Qui hanno assaltato le sinagoghe e le scuole ebraiche. Qui reclutano i militanti della Jihad globale. E contano sulla solidarietà molle e volubile del mondo nei confronti delle vittime. Solo dopo pochi mesi dal massacro di Parigi, in America un nutrito gruppo di scrittori molto alla moda, capeggiati da Joyce Carol Oates, ha protestato per l’assegnazione di un premio nel nome della libertà d’espressione alla testata di «Charlie Hebdo». Hanno detto che con quelle vignette avevano offeso la religione islamica. Magari non meritavano la morte, ma una sanzione per l’abuso della loro libertà doveva pur esserci. C’è da stupirsi se poi i vignettisti superstiti hanno dichiarato che mai e poi mai avrebbero disegnato altre vignette sull’Islam? C’è da stupirsi se, dopo aver scoperto che ragazzi inglesi erano andati a ingrossare l’esercito dell’Isis, nei musei di Londra hanno prudentemente nascosto quadri che raffiguravano, e non in modo offensivo, immagini del Profeta?

Abbiamo fatto tutti finta di non vedere. Hanno decapitato un dirigente industriale davanti a uno stabilimento di Lione e hanno lasciato la testa lì, per terrorizzare, come hanno fatto con il povero archeologo che custodiva con cura i tesori di Palmira. Facemmo finta di niente quando in Olanda ammazzarono il regista Theo Van Gogh, il regista di un cortometraggio intitolato «Submission» come il romanzo di Houellebecq, prima sparandogli e poi colpendolo ritualmente con un coltello, con un foglio in cui si diceva che questo era il destino di chi avesse avuto la temerarietà di criticare l’oppressione della donna nei Paesi islamici. C’è bisogno di ricordare che nessun festival cinematografico ha voluto proiettare il cortometraggio di Van Gogh?

Ci spaventiamo a morte per le bandiere nere del califfato che sventolano nella Libia oramai frantumata, un tratto di mare di distanza dalle coste italiane. Ma speriamo sempre che quello che accade nel cuore dell’Europa, sino alla catastrofe ultima di Parigi, non sia già il segno di un allargamento illimitato del conflitto. Speriamo sempre che la guerra non oltrepassi la soglia del pericolo. Speriamo che la distanza fisica non venga annullata dall’internazionale del terrore.

Non capiamo perché sono presi a bersaglio simboli ebraici, esseri umani ebrei, luoghi di culto ebraici. Perché stentiamo a capire che l’«ebreo» è il nemico numero uno che secondo la visione dei fondamentalisti deturpa la purezza della terra sacra dell’Islam. E anche i simboli cristiani vanno colpiti. E le sale dove si tengono concerti, perché la musica è peccaminosa. E anche gli stadi, perché si permette alle donne di assistere alle gare senza velo. Non è una supposizione: è quello che dicono. Lo dicono in Francia, in Gran Bretagna, in Danimarca dove è partito il tumulto per le vignette su Maometto e dove un vignettista è stato raggiunto in casa da un gruppo di assalitori armati d’ascia. E quanta solidarietà aveva ricevuto Salman Rushdie quando il regime degli ayatollah decretò una fatwa ai suoi danni consentendo agli zelanti fedeli sparsi per il mondo di uccidere lo scrittore blasfemo, il bestemmiatore da punire senza pietà? Si poteva capire. Bastava non far finta di niente. Bastava capire perché vogliono colpire Londra, Amsterdam, Parigi. E Milano davanti a una pizzeria kosher.

14 novembre 2015 (modifica il 14 novembre 2015 | 14:06)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_novembre_14/attentati-parigi-segnali-rimasti-inascoltati-8fc46f8e-8a96-11e5-8726-be49d6f99914.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Valori da riconoscere Ora parole chiare dall’Islam
Inserito da: Arlecchino - Novembre 24, 2015, 06:30:12 pm
Valori da riconoscere
Ora parole chiare dall’Islam

Di Pierluigi Battista

Scalda il cuore l’immagine dei musulmani delle comunità italiane che scendono in piazza per gridare «no al terrorismo» e per contrastare apertamente chi uccide in nome dell’Islam. Ed è ammirevole il coraggio degli imam francesi che si sono spinti a dirsi disgustati per gli «attentati criminali commessi in nome della nostra religione». Sono passi importanti, il risveglio di una battaglia culturale nel mondo islamico che vive in Europa e in Occidente in cui finalmente si pronunciano parole chiare e non ambigue sullo stragismo jihadista.

Ma con altrettanta chiarezza bisogna aggiungere che sono solo i primi passi. Che ce ne vogliono altri in cui si riconosca senza riserve l’accettazione di valori per noi imprescindibili come la tolleranza religiosa, la libertà dell’arte e della cultura, il pluralismo delle idee, la laicità dello Stato, l’eguaglianza tra uomo e donna e dunque il rifiuto netto, intransigente, assoluto di ogni consuetudine e di ogni comportamento sociale e familiare in cui la donna sia discriminata, minacciata, privata dei suoi diritti fondamentali.

Non è solo il terrorismo che deve essere isolato, ma ogni attacco alla libertà condotto nel nome della religione. Ognuno preghi e onori senza limitazioni il suo Dio. Ma tutti, senza eccezioni, rispettino la stessa cornice di valori che è l’ossigeno di una società aperta e tollerante. Ancora una volta: senza eccezioni.

Quindi le comunità musulmane inglesi non devono sentirsi offese se finalmente in Gran Bretagna il governo di David Cameron mette fine all’eccezione scandalosa dei tribunali islamici che pretendono di applicare un loro diritto ispirato alla Sharia su matrimoni, divorzi ed eredità, compreso il «talaq» ossia il ripudio della donna che è prerogativa esclusiva dell’uomo. Non devono pretendere che la diseguaglianza radicale tra i generi sia formalizzata in una forma di diritto parallelo a quello comune a tutti gli altri cittadini e cittadine. Non devono sentirsi offese perché in uno Stato libero e aconfessionale i diritti sono di tutti, l’eguaglianza di fronte alla legge non è un principio negoziabile e le donne non sono considerate proprietà degli uomini.

C’è un luogo comune molto diffuso secondo cui le forme di intolleranza e di integralismo religioso, e anche una pratica consuetudinaria in cui alla donna viene assegnato un rango inferiore, hanno caratterizzato in passato anche le società ispirate ai valori giudaico-cristiani. E che dunque bisogna aspettare fiduciosamente il futuro, quando le ombre del Medioevo saranno dissipate anche nel mondo islamico.

Purtroppo non è così. L’intolleranza, la violenza, l’integralismo, l’illibertà non sono nel mondo musulmano il residuo del passato, ma sono la novità, catturano i giovani, promettono una radicalizzazione fanatica come rimedio alla fede tiepida della tradizione. La predicazione violenta e fanatica, il bacino ideologico e culturale da cui trae alimento il terrorismo apocalittico di chi vede nello sterminio degli infedeli santificato dal proprio martirio l’unica via che porta al Paradiso, fa breccia principalmente tra i giovani, gli islamici dell’oggi e del domani.

A Istanbul, basta leggere i romanzi di Orhan Pamuk per capirlo, si infittisce la schiera delle donne giovani che indossano il velo e provano disprezzo per gli abiti «occidentali», considerati abominevoli e perversi, come la musica «satanica» suonata nel Bataclan di Parigi. Le fotografie dell’epoca raccontano come a Teheran, al Cairo e persino a Kabul, negli anni Sessanta e Settanta le donne non si distinguessero nel modo di vestire da una donna di Roma o di Parigi. Il radicalismo jihadista è il frutto del risveglio islamista, non di un Medioevo non ancora smaltito.

Le comunità islamiche dell’Occidente devono dire all’Europa laica e tollerante se considerano giusto, degno di esempio, il tumulto cruento, l’assalto alle ambasciate, le violenze, le bandiere bruciate che infiammarono le piazze musulmane quando papa Ratzinger tenne la sua lezione a Ratisbona contestatissima dall’Islam radicale, ma anche da quello moderato. Devono dire se sono preoccupate per la violenza antisemita che colpisce gli ebrei d’Europa con la scusa di un antisionismo amplificato anche nei Paesi islamici «moderati» da serie tv tratte dai Protocolli dei Savi Anziani di Sion, un testo classico dell’antisemitismo idolatrato da Hitler e dai nazisti di ogni tempo e di ogni luogo. E che cosa pensano della persecuzione anticristiana nel mondo islamico (anche nell’Afghanistan «liberato» dai talebani, purtroppo): quella che in Arabia Saudita, non nei territori dell’Isis, comporta la condanna a morte se un cristiano viene scoperto in possesso di un crocefisso o di un rosario nascosti nel cassetto. Cosa pensano dei blogger che da Teheran a Riad, nell’islamismo sciita come in quello sunnita, vengono frustati se in dissenso con i loro governi. E se pensano che sia giusto che Ayaan Hirsi Ali, l’apostata, l’autrice di un libro bellissimo come Eretica , debba vivere blindata, bersaglio dell’odio dei fanatici jihadisti.

Passi necessari, che segnino una lunga durata della dissociazione dalla violenza omicida, e l’avvio di una battaglia culturale che prosciughi il campo dell’intolleranza e del fanatismo.

22 novembre 2015 (modifica il 22 novembre 2015 | 07:43)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_novembre_22/islam-parole-chiare-editoriale-battista-e17c55aa-90e3-11e5-bbc6-e0fb630b6ac3.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Manca una classe dirigente Ora van di moda i giornalisti
Inserito da: Arlecchino - Novembre 29, 2015, 05:25:04 pm
Manca una classe dirigente
Ora van di moda i giornalisti
Le idee di candidati per le prossime amministrativi: Sallusti e i precedenti, anche nella sinistra

Di Pierluigi Battista

Se i giornali, in tutto il mondo, non godono di salute eccellente, invece per i giornalisti che si situano nel centrodestra, in Italia, sono tempi di grandi gratificazioni. Tutti li cercano, tutti li vogliono, tutti li testano. Il declino di Berlusconi non ha lasciato in eredità una solida classe dirigente. C’erano gli «imprenditori», una volta, a supplire. Ora ci sono i giornalisti, surrogato di classe dirigente, ma dalla forte visibilità mediatica. E allora in Liguria si sono affidati, e stavolta con successo anche grazie ai contorcimenti e agli impulsi suicidi degli avversari di centrosinistra, al giornalista Giovanni Toti. Per Milano, tutti speravano nel sì di Paolo Del Debbio, giornalista. Poi si è fatto il nome di Alessandro Sallusti, giornalista. Il partito dei giornalisti. Tutto il contrario del Pd, che invece pullula di figure esterne, e chiama a raccolta alti profili istituzionali: il partito dei prefetti. Un tempo anche la sinistra portava sul palcoscenico elettorale i giornalisti, possibilmente di estrazione Rai, il grande serbatoio: da Lilli Gruber a David Sassoli, da Piero Badaloni a Piero Marrazzo, compreso lo stesso Michele Santoro, che poi tornò a casa Rai dopo essersi dimesso dal Parlamento europeo. Ora, come si dice, la «politica» ha ripeso nel Pd lo scettro con la leadership di Matteo Renzi, ma con Corradino Mineo si chiude la parabola dei giornalisti «prestati» alla politica. Nel cerchio magico renziano si prediligono altre figure. Nel Pd sparso per l’Italia, altre figure, di segno opposto, assai «radicate nel territorio».
Nel centrodestra, c’è invece il deserto della classe dirigente. E anche il rapporto con la «società civile», con il mondo dell’imprenditoria e delle professioni, che in passato sfociò nelle candidature di Gabriele Albertini e Letizia Moratti, si è sfrangiato fin quasi a dissolversi. Si cercano volti noti. E’ l’ora dei giornalisti.

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28 novembre 2015 (modifica il 28 novembre 2015 | 11:19)

Da - http://www.corriere.it/politica/15_novembre_28/manca-classe-dirigente-ora-van-moda-giornalisti-3794b442-9598-11e5-92c5-a69ccd937ac8.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Populista è ormai un insulto non una categoria politica
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 09, 2015, 07:28:44 pm
Errori
Populista è ormai un insulto non una categoria politica
Le classi dirigenti accusano gli avversari vincitori di essere rozzi, plebei e di aver vinto con un voto «di pancia».
Ma è pericolosa questa presunta superiorità antropologica perché allontana dalla realtà e fa il gioco dei demagoghi

Di Pierluigi Battista

Nel secolo che si è da poco inaugurato, «populista» è il nuovo «fascista», in auge nel ventesimo secolo. È un insulto, non una categoria politica. Un anatema, non una descrizione passabilmente precisa. È l’indicazione di un mostro, o di una strega da bruciare, se si tratta di una donna come Marine Le Pen. Esprime uno stato d’animo di frustrazione. La frastornata incapacità delle classi dirigenti europee di decifrare quel che sta accadendo nel profondo del «popolo» che la retorica democratica continua a definire, sempre più di malavoglia, «sovrano». E allora meglio una moratoria, almeno provvisoria. La messa al bando di un termine che non significa niente ma che funziona come segno di appartenenza a quell’establishment che è la bestia nera dei partiti e dei movimenti sbrigativamente e superficialmente scomunicati come populisti.

Sembra un gioco degli specchi, e purtroppo ad andarci di mezzo è l’Europa, o l’illusione che l’Europa potesse essere qualcosa di diverso, di attraente, capace di suscitare, nientemeno, un sentimento di appartenenza. «Populismo» è l’arma contundente che si usa come fallo di reazione. I cosiddetti «populisti» amplificano l’ostilità per l’establishment, l’élite, la finanza, il «grande», l’«alto», i ricchi, i padroni della cultura, i grandi media («i giornaloni» è diventato il loro mantra, a destra e a sinistra), i partiti tradizionali, il potere della burocrazia, i mandarini di un regolismo ossessivo e asfissiante. Dicono di voler dare voce ai «senza voce», rappresentanza ai «piccoli», esprimere ciò che ribolle nel «popolo»: ma come in un massacrante gioco degli specchi, le élite, l’establishment, la burocrazia del potere rispondono con il disprezzo, la supponenza, l’alterigia. Non con la severità, che pure ha una sua autorevolezza se esercitata con schiettezza ed equanimità, ma con la boria di chi pretende di vantare una superiorità antropologica sul «popolo» grossolano e ignorante. Attenzione al lessico di chi abusa del termine «populismo», basta scorrere anni di rassegna stampa. Quando il popolo dà retta ai «populisti», scatta l’automatismo dei presuntuosi per dire che il popolo vota con la «pancia». Che è preda di un «umore» (mentre gli ottimati usano solo la fredda ragione). Che è «irrazionale», infantile, vulnerabile a ogni «sirena». «Rozzo» (anche questo è stato scritto). «Plebe» (anche questo è stato scritto). E, soprattutto, dominato dalla «paura». Dicono che il trionfo del partito della Le Pen sia il frutto dell’angoscia del Bataclan, ma tutti i sondaggi davano vincente il Front National anche prima del 13 novembre. Quanto avrà portato la paura del Bataclan alla Le Pen: l’1, il 2 per cento? E l’altro 28, come mai nessuno era riuscito a parlarci prima? Perché veniva disprezzato, confinato in un recinto infetto. Una reazione «di pancia» e irrazionale dell’élite: insultare chi ti volta le spalle, non cercare di capire cosa sta accadendo.

Chi ha creduto nell’Europa, nella possibilità che un continente intero vivesse la sua unificazione come un incremento della libertà, libertà di circolazione delle idee, delle persone e delle merci, una casa comune fondata sulla pace e sul benessere che ti faceva sentire cittadino di una stessa patria morale europea, con una moneta unica e istituzioni democratiche aperte ed inclusive, con un solidale sistema di difesa anche militare, oggi non solo deve constatare che almeno un terzo dell’elettorato nei vari Paesi europei dà stabilmente il suo consenso a movimenti e partiti (di destra o si sinistra importa poco) che fanno dell’Europa il loro bersaglio, ma deve anche assistere a una classe dirigente arroccata e senza idee, che insulta ed esorcizza chi si sente ai margini, minacciato nella propria identità e nel proprio benessere. E ora anche con l’Isis. Colpiscono la Francia? Se la veda Parigi, noi al massimo esprimiamo solidarietà. Il centro di Bruxelles a pochi passi dalle maggiori istituzioni europee viene messo sotto attacco? Ci pensi la polizia belga. Non l’Europa, ma il Belgio. L’Europa pensa ad affibbiare l’etichetta «populista». Una moratoria urgente che metta da parte il «populismo»: giusto il tempo di cominciare a pensare.
9 dicembre 2015 (modifica il 9 dicembre 2015 | 09:36)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_dicembre_09/populista-ormai-insulto-non-categoria-politica-7aa9882a-9e3a-11e5-a090-5b8c3aeb1ca0.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA I 5 Stelle, la Consulta e la condanna alla mistica della...
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 26, 2015, 11:14:18 pm
Il commento
I 5 Stelle, la Consulta e la condanna alla mistica della purezza

Di Pierluigi Battista

Puri. Sempre soli. Mai un accordo, svilito come spregevole compromesso, orrendo inciucio, immorale cedimento. Anche se si elegge come giudice costituzionale un giurista stimato. La Rete ribolle, il sacro blog è percorso da fremiti di indignazione. La «base» si ribella ai parlamentari del Movimento 5 Stelle che hanno votato insieme ai «corrotti» del Pd i nomi che il Parlamento era tenuto ad indicare per la Corte Costituzionale, dopo un vuoto decisionale durato oltre i limiti della decenza. C’è una legge che stabilisce che i giudici costituzionali nominati dalla politica debbano avere un voto che va al di là della maggioranza semplice: l’accordo è una necessità, un obbligo, senza è impossibile nominare un giudice costituzionale. Ma la base dei 5 Stelle pretende la purezza assoluta. E se Grillo e i suoi dirigenti predicano dipingendo un mondo in cui gli unici puri sono a cinque stelle, c’è sempre uno più puro, nel popolo galvanizzato della mitica base, che vuole epurare gli impuri, o i tiepidi.

Eppure, il successo politico era evidente. L’asse tra il Pd renziano e Forza Italia che aveva inanellato una brutta figura dietro l’altra, in una sequenza impressionante di fumate nere, simbolo dell’impotenza, e della fragilità di una intesa nata ai tempi del «patto del Nazareno» oramai fatto a pezzi dopo la spallata di Renzi per l’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Il premier che aveva dovuto piegarsi a un compromesso con i grillini proprio mentre era in atto l’offensiva sul ministro Boschi. La possibilità per il Movimento 5 Stelle di potersi intestare l’interdizione alla Consulta per il candidato del centrodestra. La fine dell’isolamento, la fine della «narrazione» secondo cui la presenza in Parlamento dei Cinque Stelle non produce mai risultati. E invece dell’applauso, ecco i fischi. Invece della sigla di un successo, i mugugni, le proteste, le accuse, i parlamentari messi sul banco degli imputati per non aver seguito alla lettera la liturgia del movimento, l’inchino rituale alla Rete.

Come se qualunque risultato politico in Parlamento fosse la negazione stessa della funzione dei grillini nel Palazzo, sempre di teatrale agitazione, di urla, di sceneggiate. Che pure sono importanti nella società della comunicazione politica. Ma non è nemmeno detto che in ambiti limitati e «istituzionali» l’opposizione sia meno opposizione se sceglie la strada dell’accordio anziché quella del muro contro muro. Ovviamente hanno anche in parte ragione: i Cinque Stelle hanno la diversità nelle loro insegne, devono stabilire una distanza, e persino una lontananza rispetto al resto del ceto politico se vogliono conservare la loro immagine presso l’opinione pubblica che dà loro ascolto. Ma la mistica della purezza è un’altra cosa. E soprattutto il sospetto ossessivo che qualunque accordo, in materia istituzionale e non in quello delle scelte di governo, sia il frutto di un inconfessabile manovra, di una svendita. Chi ha seminato quest’idea ora si prende i fischi di chi ha voluto abbracciarla fanaticamente. I più puri dei puri.

19 dicembre 2015 (modifica il 19 dicembre 2015 | 07:58)
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_dicembre_19/m5s-mistica-purezza-commento-battista-264a58dc-a61d-11e5-b2d7-31f6f60f17ae.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA I parlamentari espulsi dal movimento di grillo democrazia...
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 29, 2015, 12:24:58 pm
Il corsivo del giorno
I parlamentari espulsi dal movimento di grillo democrazia diretta o epurazione continua?

Di Pierluigi Battista

Oramai è un’ossessione compulsiva: tagliare, espellere, cacciare, amputare. Una specie di rito di purificazione da osservare con puntuale meticolosità, come se la mistica della purezza non potesse fare a meno di indicare la figura del reprobo come minaccia per la setta.

Ora tocca alla parlamentare Serenella Fucksia. Il sacro blog viene chiamato a deliberare la sua cacciata dal Movimento 5 Stelle. Il motivo? La cittadina Fucksia non avrebbe versato al Movimento la parte di stipendio da parlamentare, rinunciando alla quale i seguaci di Grillo dovrebbero attestare la loro irriducibile estraneità al sistema dei partiti. Ma si tratta di un pretesto, di un appiglio formale per procedere più speditamente all’epurazione che renda più compatto il movimento, lo liberi dalla presenza frenante degli impuri, dei tiepidi, di chi ha perso l’ardore delle origini e soprattutto la fiducia del capo che tutto dispone e tutto decide con la liturgia della democrazia manipolata via web.

Del resto la parlamentare Fucksia non avrebbe neanche i titoli per lamentarsi: non risulta che in passato abbia pronunciato una sola parola di dissenso quando altri suoi colleghi sono passati sotto le forche caudine dell’epurazione e per i primi due anni si è sottoposta con convinzione alla pratica virtuosa dell’automutilazione degli emolumenti.

Resta l’incompatibilità assoluta tra la disciplina fanatica del Movimento e le procedure normali della democrazia, e anche l’impossibilità dentro i Cinque Stelle di posizioni che non coincidono con quelle sancite dalla linea ufficiale, in Parlamento ma anche nelle città e nelle realtà locali. Ogni minima deviazione viene punita, indicata alla pubblica riprovazione del blog: e il rito viene addirittura definito «democrazia diretta». Non c’è possibilità di autodifesa, nemmeno una parvenza di processo democratico in cui l’epurato possa dire la sua. Tutto affidato alla volontà indiscutibile dell’assemblea. Un’ossessione. Una setta.
29 dicembre 2015 (modifica il 29 dicembre 2015 | 08:41)
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_dicembre_29/i-parlamentari-espulsi-movimento-grillo-democrazia-diretta-o-epurazione-continua-5e28c7f0-adfe-11e5-a515-a44ff66ae502.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA I gufi, i sindacati e gli altri nemici le parole che ...
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 30, 2015, 06:01:11 pm
L’analisi
I gufi, i sindacati e gli altri nemici le parole che raccontano il premier
Scelte (e slide) in conferenza stampa.
Anche i giornalisti nel mirino: abolirei l’Ordine
Da Merkel a Cottarelli
Le critiche piovono, tra gli altri, sull’ex commissario alla spending review

Di Pierluigi Battista

«Sobillare» è parola del vocabolario politico molto impegnativa e carica di (cattiva) storia, e Matteo Renzi l’ha usata in conferenza stampa per denunciare i «sobillatori» sindacali che avrebbero terrorizzato i professori precari agitando lo spettro della «deportazione» scolastica, parola ancor più sovraccarica di storia cattiva e tragica usata irresponsabilmente dai sindacati. Ma la denuncia della «sobillazione» si attaglia perfettamente al racconto che Matteo Renzi vuole dare di se stesso: lui e i nemici, lui contro i «gufi», lui contro chi rema contro, lui contro i rosiconi, lui contro i conservatori. Lui contro. Il racconto renziano, storytelling se si preferisce, è strutturato sull’antagonismo, sul dualismo, tra lo slancio del giovane premier e l’occhiuta resistenza di chi vuole ostacolarlo, animato sempre e inevitabilmente da motivi oscuri e inconfessabili, da malmostosità reazionaria e senile, da autolesionismo dannoso per l’Italia. Se non ci fosse un nemico, Renzi dovrebbe inventarlo. E anche ieri nella consueta conferenza stampa il premier ha creato la regia dell’inimicizia perfetta. Sembrava quasi smanioso, nella ricerca del nemico.

Martedì è apparso così composto da sembrare quasi stanco e svogliato. Il contrario dell’effervescenza ipercinetica della prima conferenza stampa, una raffica di battute, motti di spirito, annunci choc, giovanilismo sfrenato e twittarolo. La conferenza stampa in cui un premier aveva introdotto la «slide» come simbolo di modernità e discontinuità rispetto alle uscite in doppiopetto della vecchia politica pigra e dal passo da dinosauro. Martedì Renzi ha usato una slide per trasmettere il suo messaggio. Ma con una novità: il fumetto del gufo. L’antitesi, il nemico, il sabotatore, il sobillatore. La retorica del gufo disfattista sta diventando un po’ logora? Renzi non può rinunciare al suo messaggio, ma ha bisogno di stilizzarla, renderla più comprensibile, immaginifica. Ecco allora il gufo appollaiato sulla slide. Non il «taci, il nemico ti ascolta», ma «metti il segno più, che il gufo mette il segno meno». Il gufo è la perfetta rappresentazione della coppia amico-nemico, noi-loro. Suggerisce l’idea di qualcuno che trama nell’ombra, si compiace delle sconfitte, vuole che Renzi fallisca e con lui ogni proposito di riforma e di innovazione. Hai dubbi sulla politica economica del governo? Gufo. Ha qualche dubbio che le tasse a conti fatti diminuiranno? Disfattista. Non pensi che la riforma del Senato sia la migliore sulla faccia della Terra? Rosicone. E infatti ieri Renzi ha annunciato nella conferenza stampa dedicata alla costruzione del nemico che sul referendum costituzionale lui, il giovane premier baldanzoso e generoso, giocherà la partita finale, l’Armageddon, lui contro tutti, Russell Crowe solo nell’arena, il gladiatore ad affrontare la triste armata dei gufi di ogni colore.

E quanti ce n’erano di gufi, che Renzi ha stanato in conferenza stampa. I giornalisti, prima di tutto. Maltrattati tramite duello con il presidente dell’Ordine dei giornalisti, organismo che Renzi dice di voler abolire. O meglio, dice che «se fosse per lui», l’Ordine sarebbe bell’e che abolito. Ma lui fa il presidente del Consiglio. Vuole abolire l’Ordine dei giornalisti? Lo faccia (qualcuno protesterà, ma molti saranno dalla parte del premier). Però se lo fa, poi chi potrebbe sostituire quel comodo nemico? Poi i nemici soliti, i sindacati, gufi sobillatori. Poi però la new entry, Angela Merkel e l’establishment europeo, presi a bersaglio nei giorni in cui il governo era in difficoltà per il pasticcio della Banca Etruria, e che ieri sono diventati nuovamente il nemico da respingere, i frenatori dell’Italia, gli umiliatori di professioni che vorrebbero calpestare la nostra giovane e dinamica e intraprendente e rottamatrice Nazione soffocata dall’austerità europea e tedesca in particolare. E poi persino il commissario Cottarelli, quello della spending review, che avrebbe tagliato male secondo il premier che finalmente si è liberato di lui e la cui opera potatrice dunque, per Renzi, sarebbe stata ben peggiore di un governo che alla fine ha deciso di tagliare molto poco. O quasi niente, come dicono i gufi che scrivono, altrimenti detti, altro luogo frequentatissimo nel lessico renziano, «commentatori», oppure «professoroni».

Tra la prima conferenza stampa e questa di fine 2015, le dinamiche posturali (c’è tutta una sofisticatissima bibliografia sulla «prossemica del potere»), il lessico, le stesse espressioni facciali di Renzi sono cambiate moltissimo. Prima era più baldanzoso, ora è meno felice, politicamente si intende. Prima per lui parlava solo il futuro, e il «cronoprogramma» era tutto una promettente avventura. Oggi il tempo scorre inesorabilmente, e il gioco si fa duro: o con me o contro di me, o con il cambiamento oppure nella schiera infetta dei gufi. Meno sorrisi, meno complicità con i giornalisti amicalmente chiamati per nome, come avveniva nella prima conferenza stampa, e più circospezione, più sospetto addirittura. Sembrerebbe un Renzi un po’ preoccupato. Ma forse sarebbe da gufi sottolinearlo.

30 dicembre 2015 (modifica il 30 dicembre 2015 | 08:58)
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Da - http://www.corriere.it/cronache/15_dicembre_30/i-gufi-sindacati-altri-nemici-4898dca0-aeca-11e5-8a3c-8d66a63abc42.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Capodanno Rai: così la tv pubblica svela il suo volto...
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 03, 2016, 06:34:24 pm
il caso

Capodanno Rai: così la tv pubblica svela il suo volto sfilacciato
Il countdown anticipato, la bestemmia in diretta tv, lo spolier sul finale di «Star Wars»: tutti gli scivoloni di quella che viene definita la «più grande industria culturale del Paese»


Di Pierluigi Battista

Mancavano soltanto pochi secondi, anzi, mancava soltanto un minuto e pochi secondi all’arrivo del 2016 e la Rai ha fatto il botto. Non i soliti botti di Capodanno, la solita gara festosa di stappamenti sincronizzati di spumante, ma il botto di una Rai sfortunata, caotica, gaffeur, scombinata. Allo sbando, per quel minuto maledetto che ha anticipato di soppiatto l’ingresso del nuovo anno per un errore di calcolo. Allo sbando orario. Non lo sbando alcolico del cenone. Ma lo sbando di un’azienda di Stato che percepisce il canone e che non può permettersi, per disorganizzazione e per smania di incassi, di esibire il suo lato più trash. E ora, per quel minuto divorato con sciatteria, la Rai è diventata un caso nazionale. Anzi, da ieri pure internazionale con l’intervento severo dell’Osservatore Romano, giornale dello Stato vaticano. E si sa quanto, Oltretevere, si guardi con sollecita preoccupazione alle faccende di Raiuno. Dove, per sciatteria ripetuta, hanno mandato in onda pure una bestemmia. E passi per la rivelazione del finale di Star Wars, ultimo sfregio di una serata da Peter Sellers in Hollywood Party. Ma una bestemmia, addirittura! Su Raiuno, addirittura! Peggio, molto peggio del minuto rosicchiato agli orologi d’Italia.


Ora, un errore è sempre possibile, persino mandare in onda il segnale orario sbagliato quando gli italiani si aggrappano a quel segnale orario per declamare tutti insieme il conto alla rovescia e fare il brindisi a mezzanotte in punto. Però la Rai rivendica il suo ruolo di servizio pubblico. In nome del quale percepisce un canone che gli italiani devono pagare obbligatoriamente e tra poco, minuto più minuto meno, se lo troveranno nella bolletta elettrica. Dunque non è lecito che si possa comportare come la più scalcinata delle tv locali. Dicono che quella bestemmia è passata perché ogni messaggio in tv erano soldi che entravano: ma il servizio pubblico? Dicono addirittura che qualcuno abbia ritoccato dolosamente il segnale orario per sgambettare la concorrenza, come si fa quando, nelle giornate elettorali, si divulgano con qualche secondo di anticipo i primi exit poll sotto embargo: ma il servizio pubblico? Ecco, è per questa locuzione usurata, «servizio pubblico», che la notte Rai di Capodanno può diventare un caso politico per giorni e giorni. Un «servizio pubblico» può trasferire per giorni e giorni centinaia di persone a Matera, come scrive su queste colonne Paolo Conti, facendo un uso discutibile delle risorse di cui dispone anche grazie al pagamento obbligatorio del canone? Un servizio pubblico può affidarsi ai «filtri esterni», come denuncia lo stesso direttore generale Antonio Campo dall’Orto, cioè, presumibilmente, a produzioni non interne, quando poi i «filtri interni» rimangono inutilizzati con spreco ulteriore delle risorse pubbliche?


Ecco, la Rai, quella che nella retorica nazionale viene ripetutamente definita la «più grande industria culturale del Paese» non può sbagliare così grossolanamente confondendo audience e servizio pubblico, impazzendo dietro giochetti ed espedienti da tv commerciale del tutto legittimi in qualunque azienda sul mercato tranne in quella che con il canone non si può definire una semplice azienda sul mercato. Sei la «più grande industria culturale del Paese»? Allora non puoi proprio mettere l’orologio un minuto avanti, devi stare attento affinché non passino bestemmie in sovrimpressione (povero Leopoldo Mastelloni, che si giocò una carriera) e non solo perché altrimenti ti attacca l’Osservatore Romano. Certo, fare lo spoiler sul finale di Star Wars ha pure un suo perché beffardo e malandrino. Ma mancare per pochi secondi l’appuntamento, che è fatto di secondi fatali, è davvero imperdonabile. Percepisci il canone? Te lo devi meritare, non puoi rispecchiare il volto più caotico e sfilacciato della Nazione. Prima che arrivi il 2017, anche se in anticipo di un minuto.

3 gennaio 2016 (modifica il 3 gennaio 2016 | 10:30)
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Da - http://www.corriere.it/cronache/16_gennaio_03/capodanno-rai-cosi-tv-pubblica-svela-suo-volto-sfilacciato-599faeaa-b1fb-11e5-829a-a9602458fc1c.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Quelle donne libere umiliate a Colonia dal fanatismo
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 09, 2016, 05:49:37 pm
Gen. 07
L’attacco è alla libertà femminile, a quella emancipazione impossibile in contesti che danno legittimazione al dominio del maschio
È un atto di sopraffazione culturale, non si tratta di semplice bestialità   
Quelle donne libere umiliate a Colonia dal fanatismo

Di Pierluigi Battista

Gli uomini che a Colonia si sono avventati come animali sulle donne in festa per il Capodanno volevano punire la libertà delle loro vittime. Hanno palpeggiato, molestato, umiliato, violentato, picchiato le donne che osavano andare da sole, che giravano libere di notte, che si abbigliavano senza rispetto per le ingiunzioni e i divieti consacrati dai padroni maschi. Consideravano prede da disprezzare e da percuotere le donne che facevano pubblicamente uso di una libertà che gli stupratori e gli energumeni di Colonia considerano inconcepibile, peccaminosa, simbolo di perversione, donne che studiano e lavorano. Che sposano chi desiderano e non il marito oppressore che la famiglia, la tradizione, il clan assegnano loro. Che non sono costrette a uscire solo in compagnia dell’uomo prevaricatore. Che bevono e mangiano in libertà, entrano nei locali, fanno l’amore quando scelgono di farlo, brindano a mezzanotte, indossano jeans e magliette, flirtano, fanno sport e si scoprono per praticarlo, hanno la sfrontatezza di festeggiare il Capodanno con i loro amici maschi. Per chi considera la libertà delle donne un peccato da estirpare, le donne libere sono delle poco di buono da umiliare, da riempire di lividi sul seno e sulle cosce aspettandole all’uscita della metropolitana e con la polizia impotente e immobilizzata. Come si fa con gli esseri considerati inferiori.

Come è accaduto a Colonia in una tragica e sconvolgente prima volta nella storia dell’Europa contemporanea in tempo di pace. È stato un rito di umiliazione organizzato, coordinato, diretto a colpire quello che oramai comunemente viene definito uno «stile di vita».

Nonostante i retaggi del passato, nonostante le tenebre oscurantiste che ancora avvolgono come fumo di un passato ostinato le città e persino le famiglie dell’Europa figlia dell’Illuminismo, malgrado i branchi di lupi che infestano i nostri Paesi e fanno morire di paura le donne che si avventurano sole, le ragazze indifese di fronte al bullismo e al teppismo, malgrado tutto questo, la libertà della donna resta pur sempre un principio e una pratica di vita inimmaginabile in altri contesti culturali, in altri sistemi di valori.

Ed è l’incompatibilità valoriale con questo spirito di libertà che le bande di Capodanno hanno voluto manifestare contro le donne che andavano a ballare, a bere, a baciare anche.

Non capire il senso di «prima volta» che gli agguati di Colonia portano con sé è un modo per restare ciechi, per non capire, per farsi imprigionare dalla paura e dall’afasia.

Così come non abbiamo voluto vedere, abbiamo fatto finta di niente, siamo restati volontariamente ciechi quando al Cairo, nella leggendaria piazza Tahrir, la «primavera araba» diventò cupa e le donne a decine cominciarono in nome dell’Islam ad essere aggredite, molestate, violentate dai super-fanatici del fondamentalismo misogino. Ora dovremmo cercare di capire che nelle gesta di prevaricazione degli uomini che odiano le donne libere si riflette un gesto di aggressività valoriale di stampo irriducibilmente sessista e non lo sfogo barbarico di un primitivismo pulsionale. Un atto di sopraffazione culturale, non di ferocia animalesca e irriflessa.

Con tutte le cautele e il senso di responsabilità che si deve in questo genere di problemi, Colonia ha lo stesso significato di aggressione simbolica dell’irruzione fanatica nella redazione di Charlie Hebdo : lì veniva scatenata un’offensiva mortale contro la libertà d’espressione, considerata un peccato scaturito nel cuore del mondo infedele; qui contro la libertà della donna, la sua emancipazione impossibile e temuta in contesti culturali che danno legittimazione ideale e persino religiosa al predominio e alla sopraffazione del maschio. Certo, è diverso lo sterminio dei vignettisti dalle botte umilianti di Colonia. Ma c’è un comune sostrato punitivo, l’identificazione di un simbolo culturalmente indigeribile che stabilisce una distanza abissale tra uno «stile di vita» libero e una mentalità che bolla la libertà delle persone, uomini e donne allo stesso modo, come una turpitudine, un’offesa, un peccato, un oltraggio.

Rubricare invece le violenze di Colonia come una delle tante, tristissime manifestazioni di aggressione contro le donne che infestano la vita delle città europee significa smarrirne la specificità, la novità, il senso stesso della sua dinamica. Significa non capire cosa ha mosso gli aggressori, il fatto che fossero centinaia e centinaia in un abuso di massa del corpo e della libertà delle donne come non si era mai visto. Loro, gli aggressori, possono dire che le donne colpite e umiliate «se la sono cercata» semplicemente perché hanno scelto un modo di vivere inammissibile e peccaminoso. A noi il compito di difenderlo, questo modo di vivere, e di considerare inviolabili le donne, e la loro libertà.

Da - http://27esimaora.corriere.it/articolo/quelle-donne-libere-umiliatea-colonia-dal-fanatismo/


Titolo: Pier Luigi BATTISTA I magistrati al lavoro e l’infermiera di Piombino
Inserito da: Arlecchino - Maggio 30, 2016, 05:48:38 pm
GIUSTIZIA INGIUSTA

I magistrati al lavoro e l’infermiera di Piombino
Quanto spreco di tempo, spreco di denaro, spreco di lavoro, per arrivare in Italia a costruire inchieste che poi verranno regolarmente scucite dalle sentenze definitive

  Di Pierluigi Battista

Il neopresidente dell’Associazione Nazionale Magistrati Piercamillo Davigo sostiene che la magistratura italiana, malgrado le apparenze e le interminabili ferie che ne allietano le estati, lavori più dei colleghi sparsi in tutti gli angoli del mondo. Chissà se nel conteggio finale, a corroborare questa ardita tesi, debbano essere anche incluse le ore, i giorni, le settimane (poche) che i giudici del Riesame di Livorno hanno dovuto adoperare per smontare le ore, i giorni, le settimane (moltissime) con cui la Procura aveva motivato un’accusa terribile nei confronti di un’infermiera di Piombino, indicata, con il concorso del sistema corrivo dei media, come una sterminatrice di 13 anziani (anzi 14). Avessero lavorato qualche ora di più, magari avrebbero tenuto conto di tutte le valutazioni con cui il Riesame ha considerato inconsistenti gli indizi a carico dell’infermiera.

Magari l’infermiera non sarebbe stata additata al pubblico ludibrio come un’acclarata assassina seriale prima che un processo regolare ne confermasse l’innocenza, costituzionalmente tutelata fino a sentenza definitiva ma irrisa come una favoletta da tutti i forcaioli d’Italia che in questi anni hanno demolito le fondamenta stesse dello Stato di diritto. Magari le analisi scientifiche avrebbero potuto scagionare chi in pochi giorni ha dovuto subire il processo con condanna incorporata di un’opinione pubblica affamata di mostri. Ed ha subito l’onta e l’angoscia di una carcerazione preventiva usata in Italia con una frequenza da record (questo sì), magari impegnando con un lavoro inutile e supplementare l’attività della polizia penitenziaria.

Sono conteggiate, nel calcolo suggerito dal dottor Davigo, anche tutte le pratiche giudiziarie che finiscono regolarmente nel nulla, che vengono indicate all’opinione pubblica con grande dispendio di strumenti comunicativi e che poi si perdono, tutte le megainchieste, le superinchieste che non riescono a cavare un ragno dal buco. Quanto lavoro, quante ore da aggiungere alla diuturna attività dei magistrati italiani presi da Davigo come un modello mondiale di produttività e di abnegazione. E quanto spreco di tempo, spreco di denaro, spreco di lavoro, per arrivare a costruire inchieste che poi verranno regolarmente scucite dalle sentenze definitive. Errori fisiologici? O non piuttosto, la smania di apparire, di avere un ruolo da protagonisti, di giocare di concerto con i media? Anche a costo di costruire mostri che mostri non erano.

29 maggio 2016 (modifica il 29 maggio 2016 | 14:59)
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Da - http://www.corriere.it/cultura/16_maggio_30/i-magistrati-lavoroe-l-infermiera-piombino-cdd2677c-259b-11e6-8b7b-cc77e9e204b3.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA JeSuisCharlie sempre Anche se non ci piace (ieri e oggi NO!)
Inserito da: Arlecchino - Settembre 07, 2016, 12:03:06 pm
LA POLEMICA DOPO LE VIGNETTE SUL TERREMOTO

#JeSuisCharlie sempre Anche se non ci piace
Chi stabilisce i confini della decenza quando si parla di satira?
Perché non possiamo gridare alla censura nonostante i contenuti oltraggiosi o che ci paiono una porcheria

Di Pierluigi Battista

#JeSuisCharlie anche se «Charlie Hebdo» pubblica vignette volgari e oltraggiose. Perché la libertà d’espressione è anche diritto alla volgarità. Naturalmente deve esistere una reciprocità di diritti: se la satira vuole vedere riconosciuto quello dell’irriverenza assoluta e offensiva, deve anche riconoscere il diritto altrui a criticare le schifezze che si pubblicano in nome della satira. Se noi volessimo rispettare solo la libertà di ciò che ci aggrada, non ci vorrebbe un grande sforzo. Lo sforzo è riconoscere la libertà di dire e disegnare e rappresentare cose opposte a quelle che pensiamo e che consideriamo giuste, buone, persino sacre. Dicono: ma non si oltrepassino i confini della decenza. Ma chi stabilisce questi confini? La censura è per definizione il campo dell’arbitrio, della discrezionalità, della prepotenza di chi pretende di incarnare il Giusto e il Buono. E allora, dobbiamo accettare passivamente le volgarità sui nostri morti sepolti dal terremoto? Certo che no, nessuna passività. Possiamo dire attivamente che si tratta di una porcheria. Oppure possiamo avvalerci di quell’altra fondamentale libertà che sarebbe da stolti dimenticare, e cioè la libertà di non comprare un vignettificio che non ci piace. Non vuoi «Charlie Hebdo»? Non andare in edicola a comprarlo. Questa è la libertà, a meno che uno non sia costretto a pagare cose che non vuole vedere, come avviene con il canone Rai. Quando c’è la sfida dei fanatici jihadisti che vogliono toglierci ogni libertà, bisogna essere rigorosi nel difendere ogni libertà. Compresa quella che non ci piace. Perciò #JesuisCharlie, anche se stavolta sono stati dei veri farabutti.

2 settembre 2016 (modifica il 2 settembre 2016 | 21:58)
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Da - http://www.corriere.it/esteri/16_settembre_03/jesuis-charlie-sempre-anche-se-non-ci-piace-29471684-7146-11e6-82b3-437d6c137c18.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA «No straccione», «Sì radical chic»
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 10, 2016, 11:36:10 pm
Il caso

«No straccione», «Sì radical chic»
E torna lo stereotipo antropologico
Se il popolaccio vota i populisti, allora, per ritorsione polemica, l’establishment, i privilegiati, gli snob, i radical-chic votano per la minoranza che si considera la serie A

Di Pierluigi Battista

È tornato. Dopo qualche anno di oblio è tornato il formidabile argomento antropologico come chiave per decifrare i fenomeni elettorali e soprattutto per ribadire l’inferiorità appunto antropologica di chi vota in una direzione che non ti aggrada. Laura Puppato, una neo-pasdaran del Sì un tempo molto di sinistra nel Pd ma che per la sua conversione filo-renziana ha dovuto addirittura subire l’anatema e poi l’espulsione dell’Anpi, nota che il Sì vince all’estero: testimonianza che la «fuga dei cervelli», l’espressione è sua, c’è stata veramente e dunque che i più intelligenti, e non i buzzurri, gli incolti, i rozzi, hanno capito le ragioni della riforma costituzionale clamorosamente bocciata nelle urne.

Chicco Testa
Poi c’è il pasticcio geo-antropologico di Chicco Testa che su Twitter si è, per così dire, espresso male: «Il Sì fa il risultato migliore a Milano, Bologna e Firenze e il peggiore a Napoli, Bari, Cagliari. C’è altro da aggiungere?». C’è da aggiungere che Chicco Testa è stato interpretato molto malignamente e travolto da un’ondata di insulti dove «razzista» era uno dei più benevoli. Lui poi si è spiegato, ha detto che non aveva niente contro i meridionali ma voleva suggerire l’idea che il No avesse vinto nei capoluoghi dove massimo è il voto di scambio. Precisazione anche questa problematica, perché qualcuno ha fatto notare che due città su tre, Bari e Cagliari, sono rette da giunte di centrosinistra con sindaci che si sono apertamente schierati per il Sì. Ma insomma la frittata era stata fatta. Solo che la frittata aveva messo in moto una replica di tipo altrettanto socio-antropologico perché un interlocutore ha chiesto: «A Capalbio chi ha vinto?».

La risposta
Ecco il contro-argomento antropologico: se il popolaccio vota i populisti, allora, per ritorsione polemica, l’establishment, i privilegiati, gli snob, i radical-chic votano per la minoranza che si considera la serie A. E dunque Capalbio, ovvio, secondo lo stereotipo più vieto la capitale dello chicchismo benpensante, benestante, aperto (tranne con le quote di profughi), illuminato, progressista. E dunque anche sarcasmi «in Rete» (si dice così) per il fatto che le uniche zone di Roma dove è prevalso il Sì, molto di misura peraltro, siano il centro storico, quello delle terrazze e degli ambienti cool e soprattutto i Parioli, antropologicamente un tempo territorio della destra e dei «fasci» e da un po’ di anni a questa parte tempio dei benestanti benpensanti che votano la sinistra blasonata. Ed ecco l’immediata e velenosa risposta antropologica a chi ha fatto notare che il Sì a Renzi ha la maggioranza nelle zone più avvantaggiate di Milano (mentre l’hinterland ha premiato il No «straccione»): «Consolatevi con un sano happy hour». Ecco non più sezioni, ma apericena: la mutazione antropologica della sinistra bene è tutta in questa dicotomia.

I precedenti
Per la verità l’argomento antropologico ha vissuto il suo momento di gloria attorno al ’94, quando la sinistra «chic» rimase traumatizzata dal massiccio voto popolare a favore della Lega ma soprattutto a favore di Berlusconi, il venditore, il tycoon, la maschera che incarnava l’antitesi antropologica del mondo delle buone letture, come quello di Umberto Eco, che diceva di leggere Kant mentre i suoi connazionali guardavano la tv. Ed è singolare e paradossale che il protagonista della scomunica antropologica nei confronti dell’elettorato credulone e populista che si era fatto abbindolare da Berlusconi rispondesse al nome di Gustavo Zagrebelsky, uno dei pesi massimi del No accusato a sua volta di essere espressione di una inferiorità antropologica. Zagrebelsky scrisse infatti un denso libro, Il «Crucifige» e la democrazia in cui si dimostrava che il popolo lasciato a se stesso («il paradigma della massa manovrabile», si espresse dottamente) non avrebbe fatto altro che scegliere Barabba e condannare Gesù. Da qui l’allarme verso quelle che chiamava «le concezioni trionfalistiche e acritiche del potere al popolo». Un’analisi molto più raffinata del rude argomento antropologico adoperato allora da Dario Fo verso l’elettorato leghista: «gente imbecille». E anche dell’invettiva contro la «porca Italia» che Umberto Saba scagliò contro il popolo che alle elezioni del ’48 si era permesso di optare per lo Scudo crociato anziché per il Fronte popolare. Popolare, non «populista», perché allora il termine aveva tutto un altro significato. L’antropologia come arma per screditare chi vota all’opposto dei suoi desideri. Già sentita. Meglio l’happy hour.

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6 dicembre 2016 (modifica il 7 dicembre 2016 | 09:21)

Da - http://www.corriere.it/referendum-costituzionale-2016/notizie/referendum-costituzionale-2016-no-straccione-si-radical-chic-f7adf972-bbf4-11e6-a857-3c2e3af6f0b6.shtml?intcmp=exit_page


Titolo: Pier Luigi BATTISTA La puzza sotto il naso degli ex turisti low cost
Inserito da: Arlecchino - Agosto 08, 2017, 06:24:37 pm
La puzza sotto il naso degli ex turisti low cost

  Di Pierluigi Battista

Questa campagna ridicola e malmostosa contro il cosiddetto «turismo low cost», che pena. Che spocchia da nuovi ricchi, da penultimi arrivati che vogliono dimenticare quando low cost erano loro e le ciabatte che indossavano non erano più eleganti di quelle di adesso e le code per una visita mordi e fuggi ai musei non erano meno colpite dalla zaffate di afrore quando a inondare le città del mondo erano quelli che adesso si ergono a paladini del borgo natio, che poi natio non lo è mai stato perché veniamo tutti, immenso ceto medio vagante per il pianeta, da qualche provincia, da qualche periferia, da qualche ricerca della trattoria low cost.
In quel film formidabile che è «C’eravamo tanto amati» di Ettore Scola, noi italiani poveracci usciti da una guerra catastrofica e perduta facevamo pellegrinaggio al «Re della mezza porzione», perché non potevamo permettercene una intera e Nino Manfredi affamato invocava «una mezza porzione, ma abbondante». E poi per sentirci cittadini del mondo, vagabondi di una patria universale, ci si sdilinquiva con le gesta e la retorica dell’epopea «on the road». E adesso? Adesso ci fanno schifo i nuovi vagabondi inquadrati dai tour operator, i milioni di poveracci che ora consumano solo una bottiglietta d’acqua minerale, e facciamo finta di apparire buoni e rispettosi con la tradizione difendendo la botteguccia, il ciabattino d’una volta, il falegname che non si frequenta più dopo essere andati in massa all’Ikea: low cost.
Barcellona, città moderna e cosmopolita, boicotta i turisti che tirano fuori pochi soldi, fa la schizzinosa, se la prende con la nuova volgarità, dimenticata quella vecchia di tutti noi.
Che poi una cosa in realtà non facevamo: gettarci ignudi nelle fontane, per esempio, oppure scaraventarsi nella laguna di Venezia dal ponte claudicante di Calatrava, o vergare graffiti osceni sui monumenti pensando di fare street art, chissà, o abbuffarci di pastasciutta sulle scalinate delle dimore storiche. Perché eravamo beneducati, forse?
No, perché sapevamo che le locali forze dell’ordine, i vigili urbani o chi per loro ci avrebbero ruvidamente preso per un orecchio prima di pagare una cospicua multa, se ti trovavi a vandalizzare in qualche democrazia, o di trascorrere qualche ora in una inospitale stazione di polizia, in quei Paesi che non erano propriamente campioni dei diritti umani.
E allora prendiamocela con le autorità che non si fanno rispettare. E smettiamola di fare i sussiegosi, gli snob ridicoli, noi che ancora dobbiamo nascondere le pezze ai pantaloni con cui giravamo il mondo per conoscere posti fantastici. Low cost.

6 agosto 2017 (modifica il 6 agosto 2017 | 20:40)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/17_agosto_07/puzza-sotto-naso-b8f95308-7ad4-11e7-8803-6174d9288686.shtml


Titolo: Pierluigi Battista. Politica e corpi intermedi, quella folla adesso è sola
Inserito da: Arlecchino - Marzo 09, 2018, 06:39:33 pm
Politica e corpi intermedi, quella folla adesso è sola

Si chiama «disintermediazione», ma ora nessuno appartiene più a niente.

E scatta la ribellione. «Dicono che la Nazione sia un ferrovecchio e un’altra appartenenza viene meno»

  Di Pierluigi Battista

Che abbaglio colossale abbiamo preso, noi che abbiamo inneggiato incantati alla modernità che ci avrebbe fatto più simili agli altri, ai Paesi più avanzati. L’abbiamo chiamata liberazione, ed era solitudine di massa. Emancipazione dalle appartenenze, dalle ideologie, dalle corporazioni, oppure, con termine gergale più sofisticato, «disintermediazione», annullamento dei mille corpi intermedi che fanno da cuscinetto tra lo Stato e l’individuo. Ma ora, a emancipazione avvenuta, nessuno appartiene più a niente. È solo, senza vincoli, senza luoghi in cui ritrovarsi, senza una comunità in cui vivere insieme agli altri. Solo con una tastiera, escluso da tutti, forgotten man, ma nel senso che è dimenticato da tutti, non solo dal potere lontano, quello che non si occupa più di te. E ti tratta pure con disprezzo. E non sa più come parlarti. E in quale lingua poi, visto che è una lingua che appartiene solo a pochi. Una delle cose più stupide predicate in questi decenni è stata per esempio il disprezzo per i partiti. Mea culpa. I partito erano quello che erano, elefantiaci, costosi, mostri burocratici, arroganti, molto disinvolta con una certa intermediazione che conoscevano bene, quella con cui gonfiavano le risorse che consentivano apparati mastodontici. Ma le sezioni dei partiti erano cose serie. Ce n’erano in ogni quartiere, in ogni rione: tre, cinque, otto sezioni di partito, non molto distanti. Qualche volta volavano cazzotti, ma solo qualche volta. In quelle sezioni ci si riuniva, si andava la sera dopo il lavoro, si discuteva, ci si confrontava, si litigava, si giocava a carte e a biliardino. La sezione di partito era un corpo intermedio pieno di vita, un punto di riferimento, un luogo caro a cui appartenere.

Periferia abbandonata
Oggi non ce n’è più neanche una (o forse qualcuna, vuota, riempita solo a ridosso di scadenze elettorali, non con militanti ma con subalterni malpagati che preparano i volantini). Non ci sono giornali di partito in cui riconoscersi all’edicola. Non ci sono più tante edicole. Se hai un problema con il lavoro, i sindacati, altro corpo intermedio potentissimo, sempre più burocratico e autoriferito oramai, non ti danno più una mano, per il semplice fatto che non esistono più, svaniti nei loro bunker. Non esiste più un cinema di quartiere. Non esiste più un teatro di quartiere, non esiste più un luogo dove andare a sentire qualche concerto nelle periferie abbandonate: ma ormai è tutto periferia abbandonata. E non ci si affeziona alle periferie abbandonate. Sei solo, asserragliato in casa, non vai più al cinema, non vai più «al partito», non vai più «al sindacato», hai paura anche, ma in tv dicono che statisticamente non dovresti più avere paura. E allora non voti più, e se vai a votare voti quelli che ti sembrano l’unica comunità rimasta, e che almeno riesce a dare una lezione a quelli che contano ma non contano più nulla per te.

Arcaiche «corporazioni»
David Riesman, già negli anni Cinquanta, la chiamava «folla solitaria». Ecco, la «folla solitaria» è arrivata, trascinata dalla «disintermediazione». Si svuotano le parrocchie, anche. E i campetti dove i ragazzi giocavano a pallone: «alla viva il parroco» si diceva appunto. Come diceva Paolo Conte: «Neanche un prete per chiacchierar». Le organizzazioni di mestiere sono state liquidate come arcaiche «corporazioni»: al loro posto, il nulla. Le banche popolari: erano un’istituzione sociale, fondata sulla fiducia che si deve alla banca dei padri, dei nonni, dei bisnonni, e adesso cosa sono diventate? E le cooperative, che hanno di diverso oramai da una gelida organizzazione industriale dove il sentimento di appartenenza è semplicemente sparito? E i consorzi, le reti che ti tenevano legati a un territorio, a un sapere condiviso, a un mestiere, a una competenza? Tutti svanito, tutto disintermediato: la «folla solitaria».

L’ingresso nella tumultuosa post-modernità
Le statistiche, quelle davvero interessanti, dicono che i ceti disagiati, mandano sempre meno i loro figli all’Università: e quando il merito viene strapazzato, resta solo il privilegio, oppure la raccomandazione, l’ultimo legame che unisce le persone alla politica, detto anche «voto di scambio». È stata una liberazione, ma che ne è delle strade dei quartieri periferici in cui non c’è più un negozio? Una folla solitaria nelle strade solitarie. C’è qualcosa di sbagliato nel modo con cui abbiamo concettualizzato l’ingresso nella tumultuosa post-modernità. La famiglia in cui sei un po’ meno solo? Una gabbia. Anche la Nazione dicono che sia un ferrovecchio e un altro luogo mentale dell’appartenenza viene meno, salvo sfogarsi quando la Nazionale vince i Mondiali. E allora scatta la ribellione cieca. E sopra ci si lamenta della rozzezza, come se ai sanculotti occorresse fare l’esame di eleganza.

7 marzo 2018 (modifica il 8 marzo 2018 | 00:18)
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Da - http://www.corriere.it/elezioni-2018/notizie/elezioni-2018-politica-corpi-intermedi-quella-folla-adesso-sola-a9d056ec-224f-11e8-a665-a35373fafb97.shtml


Titolo: Pier Luigi BATTISTA Il blog di Grillo difende Orbán? Una caricatura del leghismo
Inserito da: Arlecchino - Aprile 05, 2018, 05:11:30 pm

IL COMMENTO

Il blog di Grillo difende Orbán? Una caricatura del leghismo

Di Pierluigi Battista

Che terribile confusione, nel ribollente calderone dei 5 Stelle. Mentre i rifugiati siriani marciano verso l’Occidente che li accoglie con Beethoven, umiliando la Budapest che aveva soppresso i convogli verso ovest, sul blog di Beppe Grillo escono panegirici sull’Ungheria di Orbán e sui pericoli del «multietnico». Un impasto di umori che riaffiorano periodicamente nel magma grillino, ancor prima che una linea politica razionale e decifrabile. Per Orbán un’obliqua simpatia, che riecheggia i toni salviniani che di tanto in tanto condizionano l’atteggiamento ambiguo del Movimento sul tema dell’immigrazione. Una simpatia per i regimi chiusi e intolleranti che più volte sembra permeare l’ambigua politica estera, se così si può definire, di questo movimento.

Da non dimenticare che Grillo, in uno dei suoi spettacoli, prese tanti applausi quando spiegava che non c’era nulla di male per «due schiaffetti» assestati in caserma «ai marocchini rompicoglioni». Da non dimenticare l’onorevole Di Battista che inveiva contro l’imperialismo americano dicendosi favorevole a una trattativa con i decapitatori dell’Isis. Da non dimenticare i negazionismi sull’11 settembre, l’elogio delle donne iraniane velate contro quelle peccaminose dell’Occidente tessuto da Grillo sul bordo di una piscina nel relax della Costa Smeralda. E le accuse al sionismo che controllerebbe i media occidentali e le ribadite posizioni di durezza sull’immigrazione mentre i disperati sbarcavano a Lampedusa. Solo pezzetti di un mosaico poco chiaro. Eppure rivelatori di uno stato d’animo, di un’ambiguità, di una tentazione mai sopita o domata. Orbán sarà contento di questa inattesa solidarietà. Gli elettori del Movimento 5 Stelle forse, anzi certamente, un po’ meno. Fare la caricatura del leghismo non è poi questa gran trovata promozionale.

6 settembre 2015 (modifica il 6 settembre 2015 | 08:14)
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_settembre_06/blog-grillo-difende-orban-caricatura-leghismo-cdc61c3e-545d-11e5-b241-eccff60fea73.shtml