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Autore Discussione: Pier Luigi BATTISTA  (Letto 108874 volte)
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« Risposta #75 inserito:: Luglio 21, 2011, 05:48:06 pm »

La febbre è alta

Nessuno può credere alla favola di un « fumus persecutionis » schizofrenico e a corrente alternata, tanto denso al Senato sul destino giudiziario e la libertà personale di Tedesco (Pd), quanto vago su quello di Papa (Pdl). Come è ovvio, è stato invece solo il calcolo politico a garantire esiti così difformi (un «sommerso» di destra e un «salvato» di sinistra) nei due casi che, in una grottesca corsa alla par condicio politico-giudiziaria, dovevano conquistare la scena in simultanea nelle due Camere.

Perciò ieri è stata una giornata nera della storia repubblicana. Una data di svolta dove, tra trappole e agguati, vendette consumate all'ombra del voto segreto e acrobazie di furbi e doppiogiochisti, la maggioranza si è sgretolata in una battaglia decisiva. Ma ne esce anche macchiata la reputazione delle istituzioni, compromessa l'immagine di credibilità del Pd, minata la stessa leadership di Bossi in una Lega da ieri molto più maroniana che bossiana.

Istituzioni parlamentari macchiate, perché non ha contato nulla il merito giudiziario e processuale sulla base del quale i parlamentari di Camera e Senato avrebbero dovuto decidere a favore o contro l'arresto di due loro colleghi, ma solo l'applicazione di una feroce logica politica, che ha fatto di Tedesco e di Papa due birilli da buttare giù o da risparmiare solo per convenienza. Oppure per inviarsi messaggi trasversali e indecifrabili tra partiti, tutti e nessuno escluso, che oggi godono nell'opinione pubblica di uno dei tassi più bassi e umilianti di gradimento morale.
Compromessa la credibilità del Pd che, proprio nel giorno in cui diventa pubblica una vicenda giudiziaria che coinvolge Filippo Penati, ex capo della segreteria politica di Bersani, finisce per apparire come il beneficiario di un insopportabile trattamento di favore, con ogni probabilità favorito da franchi tiratori infedeli alla linea ufficiale del partito. Tanto da rendere molto problematica, a fronte di un evidente e rovinoso tracollo del berlusconismo, l'adozione di un'aggressiva «questione morale» da agitare contro gli avversari. Il Pd come parte integrante di una Casta impunita: ecco l'immagine che rischia di danneggiare il partito di Bersani, soprattutto se Tedesco, non dimettendosi da senatore, continuasse a farsi scudo della sua immunità parlamentare.

Ma soprattutto esce dissolta la maggioranza di governo. Con la Lega che fa deflagrare il patto di alleanza con Berlusconi. Con il Pdl chiuso nel bunker del rancore. Con Berlusconi che deve mettere in archivio le cene riparatorie con Bossi e prendere atto di un Carroccio sempre più guidato da Maroni, così insofferente con l'alleato da tradirlo nel momento decisivo. C'è da chiedersi come una maggioranza così devastata, incapace di governare l'ordinaria amministrazione o la questione dei rifiuti, possa affrontare la tempesta economica che ci sta scuotendo.

Pierluigi Battista

21 luglio 2011 07:54© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_luglio_21/la-febbre-e-alta_b88bec04-b358-11e0-a9a1-2447d845620b.shtml
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« Risposta #76 inserito:: Agosto 11, 2011, 12:29:41 pm »

Non possiamo aspettare otto giorni

Le Borse europee, nel loro catastrofico precipitare, non possono attendere il 18 agosto. E se i riti della politica sono lunghi e farraginosi, i mercati, invece, sono brutalmente impazienti. Perciò l'annuncio che solo dopo Ferragosto verrà convocato un Consiglio dei ministri straordinario per varare le misure anticrisi (sia pur con l'eventuale concessione di un improbabile anticipo di qualche ora) può impressionare solo chi è assuefatto ai ritmi elefantiaci della nostra politica. Ma i giorni del vuoto e della non decisione condannano all'incertezza e al panico chi investe, chi compra, chi vende, chi risparmia. Un disastro nel disastro.

Il vuoto temporale, dunque. Ma anche il vuoto delle idee. Mentre il sottosegretario Letta si dice corrucciato perché negli ultimi cinque giorni gli eventi sono precipitati, mentre il ministro Tremonti considera obsoleta (da «ristrutturare») la manovra già durissima annunciata a luglio, all'inizio dell'uragano, non emerge nessuna idea credibile su come e dove e quanto «ristrutturare». Rimbalzano i «no». Il no di Bossi a interventi sul sistema pensionistico. Il no del premier alla patrimoniale. Il no globale del Partito democratico che definisce «massacro sociale» misure che qualunque governo, anche non presieduto da Berlusconi, sarebbe costretto a prendere. Il no a prescindere della Camusso (sciopero generale?). E le incertezze su liberalizzazioni e costi della politica.

Le «parti sociali», convocate in una mega riunione in cui la parata di tutti i ministri schierati enfaticamente per la grande occasione che poi si è rivelata inutile, nicchiano, contestano misure che non esistono, affidate ancora al cicaleccio dei corridoi, alle indiscrezioni più o meno interessate. Addirittura annunciano che sul mercato del lavoro faranno da sole, e che il governo si astenga dall'intervenire: praticamente un'esortazione ad abdicare. Passa il tempo, ma gli appuntamenti con la decisione non sono rispettati. È il trionfo della politica dei veti e dei ricatti reciproci, della difesa degli orticelli di ciascuno. Nella maggioranza denunciano complotti e lamentano accorati la prepotenza dei mercati che mirerebbero alla sostituzione di questo governo. Ma forse i mercati, e con loro i cittadini, i risparmiatori, gli imprenditori, i lavoratori vorrebbero semplicemente un governo. Un governo, nella tempesta che scuote il mondo, che facesse il governo. Che decidesse, e in fretta. E non traccheggiasse di settimana in settimana. Non indicasse date improbabili. Non lesinasse sui tagli e sui risparmi. Se è una guerra quella che deve essere combattuta, le decisioni non possono sottostare alla normalità paludosa dei vertici tra i partiti. La guerra non può sguarnire nessun fronte, e un governo che si impigliasse in una trattativa in cui ogni sua componente scarica solo sugli altri il gravame dell'impopolarità risulterebbe un governo inadeguato, su cui non investire nessuna fiducia.

Aspettando, scettici e impotenti, il 18 agosto, mentre le Borse bruciano e l'attesa diventa un dramma.

Pierluigi Battista

11 agosto 2011 08:48© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_agosto_11/battista_non-possiamo-aspettare-otto-giorni_4d0f539a-c3d8-11e0-9d94-686c787ab248.shtml
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« Risposta #77 inserito:: Settembre 17, 2011, 04:31:28 pm »

IL GOVERNO, LA CRISI E LE INCHIESTE

Ragionevoli considerazioni

Il premier scelto dagli elettori va rispettato. Ma la premiership , consacrata dal voto popolare, deve essere esercitata meritandosela ogni giorno, proprio per rispettare la volontà di quegli elettori. Il governo, però, rischia di dissolversi e di avvitarsi nei suoi errori. Bossi è stato sin troppo esplicito, purtroppo tra l'ennesimo gestaccio e l'ennesima pernacchia: così non si può andare avanti fino al 2013. L'elettorato di centrodestra è deluso e frastornato. I suoi capi devono comprenderne gli umori e i malumori, e non rinchiudersi nell'ultima trincea, bollando come tradimento e diserzione ogni barlume di ragionevolezza.

La ragionevolezza dice che il conforto dei ripetuti voti parlamentari di fiducia non è più in grado di nascondere la debolezza oramai macroscopica di un governo che certo ha appena avuto il merito di varare una manovra economica di dimensioni gigantesche, ma che appare ogni giorno di più assente, risucchiato in una logica di autodifesa, appiattito e svuotato nello scontro incandescente tra il suo leader e la magistratura. La sua credibilità ne risulta fortemente intaccata. E forse i primi a non credere alle loro parole e ai loro proclami sono proprio i suoi esponenti di spicco che parlano di riforme da fare, ma sanno che certamente non saranno fatte da qui al 2013. Per questo l'abulia politica del premier rischia di contagiare tutto lo schieramento che lo sostiene. Impedendo allo stesso centrodestra di immaginare un futuro politico che, oramai appare chiarissimo, non potrà più riconoscere come suo leader eterno la personalità di Silvio Berlusconi, trascinante in un quindicennio che lo ha visto protagonista assoluto ma che sembra aver irrevocabilmente imboccato il viale del tramonto.

L'opinione pubblica del centrodestra non ha torto quando sente un eccesso persecutorio, il modo accanito con cui una magistratura ossessionata dalla figura di Berlusconi sogna una spallata politica che si fa forte di una montagna di oltre centomila intercettazioni (un'enormità) per minare la stessa reputazione politica e personale del premier, prima ancora che la verità giudiziaria sia accertata. Ma è nell'interesse dello stesso centrodestra che la fine di un'esperienza politica di oltre diciassette anni non assomigli allo sprofondamento di un regime asserragliato nel palazzo del capo, in una spirale di auto-emarginazione destinata ad annientare ogni possibilità di rinascita con una nuova leadership e una nuova classe dirigente.

Hanno ragione a dire che non può essere la magistratura l'istituzione abilitata a far cadere i governi. Ma una politica responsabile è anche quella che sa imboccare tempestivamente un'altra strada prima di ingaggiare una guerriglia di resistenza pur di non prendere atto di una situazione di disagio che lo stesso Bossi ieri ha impietosamente fotografato. Scelga il centrodestra la formula giusta e gli uomini più rappresentativi per chiudere un capitolo della storia politica italiana e per aprirne un altro in cui il suo elettorato possa riconoscersi. Per promuovere una transizione politica e non per subire un diktat giudiziario. Nell'interesse di tutti, ma anche di un centrodestra che rischia di finire nel discredito e nella mancanza di una leadership sempre più incapace, oramai, di onorare gli impegni presi nel 2008.

Pierluigi Battista

17 settembre 2011 08:19© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_settembre_17/Ragionevoli-considerazioni-editoriale-pierluigi-battista_f4ed5e90-e0ed-11e0-98a6-ace789a755c8.shtml
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« Risposta #78 inserito:: Settembre 27, 2011, 10:47:29 am »

DIVIDERSI NEL MOMENTO PEGGIORE

Un litigio che fa male

Berlusconi e Tremonti dopo il voto su Milanese


«Altre domande?», ha tagliato corto ieri il premier Berlusconi quando gli hanno chiesto cosa pensasse dell'assenza di Giulio Tremonti nella votazione parlamentare per l'arresto di Milanese, consigliere del ministro. Altre domande? In effetti ce ne sarebbero. Per esempio: è possibile che il presidente del Consiglio e il ministro dell'Economia si trattino pubblicamente come nemici e non perdano occasione per punzecchiarsi, darsi sulla voce, mostrare a ogni occasione insofferenza reciproca e addirittura rancore? Un'altra domanda: che spettacolo è quello di un rapporto così lacerato tra premier e ministro dell'Economia quando nel mondo finanziario internazionale è tempesta perfetta, l'Italia è declassata da un'agenzia di rating e gli italiani sono chiamati a fare sacrifici durissimi?

Anche i contrasti politici, legittimi, richiedono forme appropriate. Invece ieri l'assenza di Tremonti nel Consiglio dei ministri è stato uno strappo che ha alimentato fino al parossismo i malumori dei suoi colleghi. Ma le istituzioni funzionano così: nel rispetto di regole e di comportamenti che non diano il senso di un governo spaccato, minato dalla disistima reciproca, squassato da risentimenti personali. Di più: la stessa credibilità internazionale di un Paese è fatta di gesti che trasmettano la rappresentazione della sua compattezza di fronte alla bufera. Il contrario dello scontro permanente cui stiamo assistendo sbigottiti.

Quella di ieri, del resto, è solo (per ora) l'ultima scena di un teatrino di dispetti e frecciate che da tempo hanno scardinato un rapporto di lealtà politica minima tra Berlusconi e Tremonti, e proprio in una giornata agitata dal caso Milanese. Già una volta il premier aveva platealmente interrotto il ministro dell'Economia nel pieno di una conferenza stampa in cui venivano illustrate le linee di una manovra molto dura.

È noto, inoltre, che nel corso di una deposizione davanti ai giudici Tremonti si è lamentato del «metodo Boffo» che gli ambienti politici e giornalistici più prossimi al presidente del Consiglio avrebbero avuto in animo di praticare a suo danno. Una parte del Pdl, inoltre, si è più volte scagliata contro il ministro dell'Economia bollandolo come responsabile di una linea fiscale contraria a quella, ispirata alla religione antitasse, incarnata da Berlusconi. E non è un mistero che lo stesso Berlusconi abbia in mente di costituire un think tank che elabori un piano di liberalizzazioni (una politica economica parallela?) per contrastare quello che considera il «neostatalismo» di Tremonti.

«Altre domande?». Questa: è possibile che una così totale mancanza di comunicazione tra il premier e il ministro possa durare a lungo senza provocare conseguenze letali sull'azione del governo, ma soprattutto sulla credibilità dell'Italia messa sotto osservazione? La risposta non può che essere: no, non è possibile. Il gioco pericoloso delle ripicche deve finire. Al più presto. Subito.

Pierluigi Battista

23 settembre 2011 08:32© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_settembre_23/battista_litigio_fa_male_f02b261c-e5a2-11e0-b1d5-ab047269335c.shtml
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« Risposta #79 inserito:: Ottobre 06, 2011, 09:21:27 am »

Il limite della decenza

Oramai un rancore sordo e inestinguibile sta rendendo impossibile la convivenza di Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti in uno stesso governo. Mentre le agenzie di rating declassano l'Italia, il ministro dell'Economia rilascia dichiarazioni in cui, neanche tanto velatamente e malgrado tardive e poco persuasive smentite, si indica come esempio virtuoso la scelta di Zapatero in Spagna di farsi da parte e di anticipare le elezioni. Altri ministri rispondono con invettive e addirittura, come Giancarlo Galan, oltrepassando la soglia dell'insulto. Non sono più i colpi e le tensioni che oramai da mesi intossicano il rapporto tra Berlusconi e Tremonti: siamo alla guerra totale. Ma un Paese in cui il governo è così spaccato appare un Paese senza timone. Allo sbando. Non ce lo possiamo permettere.
Il gorgo rissoso in cui sta sprofondando la lite tra il premier e il suo ministro non è solo un'offesa allo stile o una macchia che mina la credibilità dell'Italia. È il simbolo di una paralisi: la stessa che sta impedendo, nello smarrimento di quel minimo di senso delle istituzioni che un governo ha il dovere di onorare, la nomina del nuovo Governatore della Banca d'Italia.

Un governo che si comporta in questo modo autolesionistico scatena inevitabilmente la guerra di tutti contro tutti. Dove ciascuno gioca per sé, scambiando il proprio «particolare» per l'interesse generale che dovrebbe invece essere promosso e custodito da un governo democraticamente eletto. Ma un governo così lacerato appare sempre meno in grado di trasmettere agli italiani il senso di una riscossa e di un soprassalto di orgoglio. E quando la politica appare vuota e impotente, troppe corporazioni si affollano vocianti per rubarle il mestiere. Con il rischio che poi non sappiano più fare nemmeno il loro.

Senza una guida politica, oggi le «parti» aspirano abusivamente all'«intero»: non più parti sociali, ma surrogati di partiti politici. Con la pretesa di sostituirsi ai governi. E con il rischio che le singole parti sconfinino in un terreno in cui gli interessi particolari, frammentati e parcellizzati, siano scambiati per l'interesse generale. Una pretesa sbagliata. Una scena in cui tutti i ruoli si confondono. La Confindustria gioca la carta del protagonismo politico. Gli ordini professionali contrari alle liberalizzazioni si organizzano come lobby in Parlamento. La Confcommercio denuncia come leso «interesse generale» l'aumento dell'Iva. La Cgil sublima come «diritti fondamentali» gli interessi della sua base di pensionati e la Cisl quelli dei «suoi» statali. E così via. Tutti con la segreta speranza di accumulare visibilità e forza nell'attesa che il ciclo berlusconiano si esaurisca.

La lite tra il premier e il suo ministro dell'Economia non può perciò non avere una fine, e in tempi brevissimi. Se il ministro ritiene giusta la scelta di Zapatero, per il bene della Spagna, di togliersi dalla scena, tragga lui le conclusioni sull'eventualità che l'esempio spagnolo sia emulato dal governo italiano, o almeno dal suo ministro dell'Economia. E se il premier ritiene davvero, come sostengono i suoi pasdaran, che addirittura Tremonti abbia tramato con le agenzie di rating per infliggere un colpo durissimo al governo di cui pure è magna pars , non può pretendere che questo sospetto infamante, se confermato, possa restare senza conseguenze. In un Paese serio, non nel teatrino tragico che lo sta rappresentando.

Pierluigi Battista

06 ottobre 2011 07:55© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_ottobre_06/battista_limite-alla-decenza_85a6bfaa-efd8-11e0-afdf-a2af759d2c3b.shtml
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« Risposta #80 inserito:: Ottobre 14, 2011, 05:21:31 pm »

Lo specchio della paura

Incassando l’ennesima fiducia del Parlamento, sia pur con qualche significativa defezione, Berlusconi potrebbe uscire dalla sindrome del bunker, sbaragliare i fantasmi degli agguati e dei tradimenti, non spacciare l’illusione di un’impossibile stabilità fino al termine naturale della legislatura. E dare a un centrodestra esausto e frastornato, con le elezioni anticipate del 2012, il senso di un futuro politico anche con la fine oramai irreversibile del «berlusconismo ».

Potrebbe farlo, anche se è molto improbabile che lo faccia con una maggioranza numerica che non ha più il profilo di una vera e credibile maggioranza politica. Il suo discorso di ieri in Parlamento è stato lo specchio di una paura paralizzante. Vago sui contenuti del decreto per lo sviluppo, per la paura di scontentare qualche fetta o frammento della maggioranza, e in primis il suo ministro dell’Economia da cui lo dividono abissi di diffidenza e di insopportazione. Elusivo sui malumori che attraversano, con tentazioni frondiste e addirittura con malcelate velleità ribaltoniste, il suo stesso partito. Minimizzatore, quando ha ridimensionato a mero incidente tecnico (di cui si è personalmente scusato) il disastro del governo sul Rendiconto generale dello Stato. Il suo unico obiettivo è stato quello di placare gli alleati: Bossi e le turbolenze leghiste, la voracità infida dei Responsabili, i mormoratori del partito. Non ha detto l’unica cosa che avrebbe riscattato l’atmosfera di agonia interminabile che oramai grava sul suo governo: che il centrodestra è pronto ad affrontare il giudizio degli elettori già nei prossimi mesi, che una stagione politica si è irrevocabilmente conclusa e che da questo indubbio fallimento l’elettorato del centrodestra non ne uscirà per forza di cose orfano, sconfitto, senza casa, senza leader.

Riconoscere l’esaurimento di una stagione politica non avrebbe in sé nulla di umiliante, nel caso in cui la paura della fine non assumesse sfumature apocalittiche. Se invece il terrore di un futuro inesistente fosse domato, se si indicasse un orizzonte temporale breve per nuove elezioni in grado (come in Spagna) di tranquillizzare i mercati e stroncare la speculazione, se ci si concentrasse esclusivamente sui provvedimenti per lo sviluppo (senza prove di forza sulle intercettazioni e sulla lunghezza variabile di prescrizioni e processi), allora un gesto di responsabilità verso l’Italia sarebbe anche un possibile traguardo per i moderati italiani spaesati e disillusi. L’alternativa è invece il vivacchiare tra ricatti e trappole, annunci di disimpegni, rancori sempre più esplosivi tra i ministri e tra il premier e il suo ministro dell’Economia. Nell’attesa del prossimo, certo, «incidente» che deprimerà sempre più il popolo del centrodestra e galvanizzerà i propugnatori di spallate dal più che dubbio profilo costituzionale. Una possibile, dignitosa via d’uscita ancora c’è. Ed è l’ultima.

Pierluigi Battista

14 ottobre 2011 07:38© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_ottobre_14/battista-specchio-della-paura_8ee73d20-f621-11e0-abf0-c6818ffd4921.shtml
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« Risposta #81 inserito:: Novembre 11, 2011, 04:47:04 pm »

I Promessi Alleati

Con il loro sì, anche se comprensibilmente sofferto e tormentato, il Pdl e il Pd imboccherebbero con grande coraggio una strada nuova e piena di incognite. Se decidessero (come sembra possibile) di dar vita tutt'e due insieme e con il Terzo polo a un governo presieduto da Mario Monti, saprebbero di dover pagare un prezzo elevatissimo. Ma dimostrerebbero che la politica, la vituperata e bistrattata politica, è stata in grado per una volta, la volta più importante, di anteporre il bene comune agli interessi di bottega.
Pdl e Pd sono di fronte a un bivio: il più difficile della loro storia. Caricandosi il peso di un programma impopolare ma virtuoso, in linea con le pressanti indicazioni europee e anche sul tracciato di riforme strutturali e liberalizzatrici di cui ha improrogabile bisogno, sanno cosa aspetta loro. Vivrebbero uno squassante terremoto interno. Vedrebbero andare in pezzi schieramenti e alleanze. Affronterebbero la rivolta di una parte consistente dei loro elettorati. Passerebbero un anno pieno di pericoli e di trappole. Ma si guadagnerebbero il merito storico di aver tirato su l'Italia dal precipizio in cui, mai come adesso, sta rischiando di cadere.
In questi giorni l'Italia sta conoscendo una rivoluzione dagli esiti imprevedibili. L'annuncio delle dimissioni di Berlusconi ha rimescolato tutte le carte. L'incubo del default costringe tutti i protagonisti, non solo i partiti, ma anche il mondo dell'informazione, dell'economia, delle istituzioni, della società a destarsi dalla pigrizia della consuetudine e del già noto. Sta ribaltando il sistema politico e le nostre categorie concettuali da cima a fondo. Un governo di «grande coalizione» è certamente un'anomalia democratica. Ma lo era anche quella tedesca tra il 2005 e il 2009 che ha stretto i cristiano-democratici e i socialdemocratici in un innaturale abbraccio lungo quasi una legislatura. Quando Churchill diede vita nel '40 a un governo che prometteva «lacrime, sudore e sangue», pretese che quel governo fosse di unità nazionale, anche nella Gran Bretagna patria del bipolarismo dell'alternanza.
C'era la guerra, è vero. Ma anche il fallimento dell'Italia e la sua emarginazione dall'Europa sono prospettive contro cui è necessario combattere una guerra che comporterà costi dolorosissimi. Se poi la Lega e l'Italia dei valori si dissociassero, privilegiando l'egoismo di partito sull'interesse nazionale, sarebbero il Pdl e il Pd a intestarsi il merito di aver giocato un ruolo nella bufera di una svolta storica: un anno di sacrifici, ma con la prospettiva di ripristinare le condizioni di una sana competizione democratica, in un'Italia che ha trovato la via d'uscita dalla tempesta economica e finanziaria e una strada per ridarle sviluppo e crescita con una ricetta che né un governo di centrodestra né uno di centrosinistra sarebbero in grado di realizzare.
Nell'immediato, i due partiti avrebbero tutto da guadagnare da un loro diniego. Il Pdl metterebbe a tacere il devastante malumore che sta avvelenando il partito dopo l'uscita di scena del leader. Non sarebbe costretto a trangugiare medicine amarissime. Salvaguarderebbe l'alleanza con la Lega. Il Pd potrebbe ingaggiare nell'immediato una campagna elettorale con notevoli possibilità di vittoria. Non si comprometterebbe con una politica di sacrifici che dai banchi dell'opposizione avrebbe volentieri bollato come «macelleria sociale», non regalerebbe a Di Pietro (e a Vendola?) lo scettro della protesta, con l'ovvia prospettiva di scardinare un'alleanza elettorale che sembrava fuori discussione. Ecco perché, se scegliessero la strada più impervia, quella verso cui Berlusconi sta cercando di spingere il suo riottoso partito, il Pdl e il Pd dovrebbero essere accompagnati dal massimo rispetto, anche da chi commenta le cose della politica e non deve misurarsi con quell'ingrediente essenziale della politica democratica che è il consenso. Il governo politico (non «tecnico») cui potrebbero dar vita, con la spinta determinante del Quirinale e con un premier che non potrà non interpretare con il massimo rigore la missione che gli viene istituzionalmente chiesta, richiederebbe una responsabilità eccezionale in condizioni eccezionali. Un compito che forse sarà avaro di riconoscimenti, ma che rappresenterà un soprassalto di serietà e di dedizione al bene comune. Un regalo insperato, una svolta obbligata.
Pierluigi Battista

PIERLUIGI BATTISTA
11 novembre 2011 07:45© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_novembre_11/battista_promessi_alleati_d673471e-0c2a-11e1-bdbd-5a54de000101.shtml
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« Risposta #82 inserito:: Gennaio 16, 2012, 11:50:11 am »

La tragedia della costa concordia

E adesso severità

Stavolta non c'è l'attenuante di un cataclisma naturale o, come usa dire, di una tragica fatalità. Di tragico, oltre alla morte di tante persone, c'è la sconcertante sequenza di leggerezze, di manifestazioni di incompetenza, di fatuità, di irresponsabilità, di viltà che, tutte, richiedono una severità senza indulgenze per chi si è macchiato di comportamenti così folli. E resta il senso di assoluta insicurezza alimentato dalla certezza che troppi imperdonabili errori potevano essere evitati per non permettere un disastro così inaccettabile a pochi metri dall'isola del Giglio.

Ma come è possibile avvicinarsi in quel modo a un'isola?
Quale vertice di assurda mancanza di conoscenza specifica del proprio mestiere può portare il comando di una nave a sbattere contro gli scogli di un'isola? E poi cercare la strada pietosa della menzogna dicendo che si trattava di scogli non rilevati sulle mappe: questo dettaglio oltrepassa davvero il senso della decenza, come se una nuvola di omertà avesse cominciato ad addensarsi per nascondere le responsabilità personali di chi comandava la nave portandola dove non doveva essere portata.

Mai, in nessuna circostanza, per qualsiasi scusa o ragione.
C'erano molti cittadini di nazionalità straniera su quella nave da crociera. L'Italia deve al mondo, all'opinione pubblica internazionale, alle famiglie di chi ha perso la vita, di chi è rimasto ferito, di chi è restato fortunatamente indenne, una spiegazione convincente e sanzioni durissime per i responsabili di questa tragedia. La compagnia della crociera deve spiegare come sia possibile affidare navi di quella stazza, con migliaia e migliaia di ignari passeggeri, a equipaggi capaci di tali errori, di tali imprudenze. Salutare l'isola, fare l'«inchino»? È assurdo, ci sono le sirene per onorare quel rito, non l'avvicinamento folle alle coste di un'isola. Andare volontariamente fuori rotta: come è possibile che qualcuno, al comando di una nave, possa aver pensato che fosse lecito?

È grave se la sicurezza dei cittadini, dei turisti, di chi ha deciso di imbarcarsi per una crociera, dell'ambiente, dei nostri mari, delle nostre coste, delle nostre isole sia messa così a repentaglio da persone inaffidabili. Al di là del profilo penale che verrà confermato dalle indagini sulla tragedia del Giglio, c'è un profilo umano e morale che lascia sgomenti e che non permette soluzioni accomodanti. Perché quella nave si trovasse lì, e per quali imperscrutabili ragioni ce l'avessero condotta esige risposte chiare, nette. Chiare e nette come non lo sono state finora. Come chiaro e netto deve essere l'impegno di chiunque organizzi queste crociere a riesaminare senza indulgenze la capacità professionale di chi ne è alla guida. E anche l'impegno delle autorità portuali a non lasciare che degli incompetenti solchino i nostri mari per andare a cozzare contro degli scogli che stanno lì da sempre, conosciuti da tutti. Mai più.

Pierluigi Battista

16 gennaio 2012 | 9:18© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/editoriali/12_gennaio_16/e-adesso-severita-pierluigi-battista_f076e028-4008-11e1-a5d2-75a8a88b1277.shtml
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« Risposta #83 inserito:: Gennaio 27, 2012, 03:20:28 pm »

Bossi, Berlusconi e Monti

Le spine e la spina


Per Bossi, Berlusconi sarebbe «una mezza cartuccia» se non staccasse la spina al governo Monti. È vero il contrario. Bossi si sta dimezzando come leader politico, prigioniero dei suoi stessi ricatti e lazzi, insulti e gestacci. Invece Berlusconi, confermando il suo appoggio al governo sta dimostrando, pur nel momento peggiore di una parabola politica ventennale, di avere forza, carattere e senso della responsabilità. Di saper pagare prezzi elevatissimi per il suo (sofferto) sostegno al governo che è subentrato a quello da lui diretto e traumaticamente lasciato. Il Berlusconi «populista» e schiavo dei sondaggi si dimostra capace di scelte impopolari e dolorose, di saper sfidare le irrequietezze del suo mondo, di non accettare la prosa ricattatoria di un Bossi dalla leadership sempre più debole anche all’interno della Lega.

Il Pdl e il Pd hanno compiuto una scelta coraggiosa nel sostenere un governo tecnico mentre l’Italia rischiava (e rischia) il fallimento. Il Pdl anche un po’ di più. Dopo la riforma delle pensioni, la base sociale del Pd non è stata travolta dalla minacciata, ma non ancora attuata, riforma del mercato del lavoro. Nel frattempo il serbatoio elettorale del Pdl è stato duramente intaccato. Colpiti i tassisti e i farmacisti, i commercianti, le libere professioni, gli autotrasportatori, il ceto medio asfissiato dall’imposizione fiscale, i milioni di proprietari della prima casa che avevano visto nell’abolizione dell’Ici una boccata d’ossigeno. Molti elettori del Pdl sono in rivolta. I parlamentari del partito sono sempre più tentati dalle sirene del disimpegno e della fronda e invocano il loro leader perché la smetta di svenarsi a vantaggio di un governo votato ma non amato, sostenuto ma temuto. Persino molti maggiorenti del partito di Berlusconi lavorano per sganciare il Pdl da una politica di pesanti sacrifici a scapito di un elettorato deluso e preoccupato, in passato attratto da Berlusconi per il suo messaggio antitasse e oggi ferito da un’imposizione fiscale sempre più gravosa.

Se Berlusconi rompesse con Monti, ne potrebbe ricavare un vantaggio immediato. I sondaggi diramano bollettini disastrosi, e la tentazione della piazza e dell’opposizione potrebbe apparire come una facile via per la salvezza. Ma Berlusconi ha detto nuovamente di no a una scorciatoia che condurrebbe l’Italia verso esiti ignoti. Per la seconda volta il leader del Pdl ha imposto al suo partito una via diversa da quella delle elezioni immediate. Non è detto, ovviamente, che il rapporto con il governo Monti non possa precipitare nei prossimi mesi. Ma per adesso la spina non viene staccata. Non una scelta da «mezza cartuccia», ma da statista intero. Gli avversari di Berlusconi dovrebbero avere l’onestà intellettuale di riconoscerlo. Potrebbero seguire l’esempio dello stesso Monti: che infatti si rifiuta di liquidare sprezzantemente l’esperienza del governo che l’ha preceduto.

Pierluigi Battista

27 gennaio 2012 | 8:11© RIPRODUZIONE RISERVATA

http://www.corriere.it/editoriali/12_gennaio_27/battista-le-spine-e-la-spina_a1a339cc-48ac-11e1-b976-995c60acee8e.shtml
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« Risposta #84 inserito:: Febbraio 06, 2012, 08:55:04 am »

Battista e lo strano vizio dei liberali a giorni alterni

Il nuovo inserto culturale del “Corriere della Sera” ha dedicato una doppia pagina alla crisi della cultura liberale in Italia.

Ma qualche responsabilità ce l'ha anche il quotidiano di via Solferino con le sue frequenti sbandate: dalla sponsorship alle crociate dell'ultima Fallaci alle posizioni cerchiobottiste sulla libertà sul fine vita.

di Emilio Carnevali

Vale per il liberalismo la provocazione con cui alcuni rispondono all'interrogativo sull'esistenza di Dio: «Dimmi cosa intendi per Dio e ti dirò se ci credo».

Ecco perché prima di dolersi della «fine dell'illusione liberale» – come fa Pierluigi Battista in una bella pagina doppia della Lettura, il nuovo inserto culturale del Corriere della Sera – vale forse la pena di rievocare, per grandi linee, ciò di cui si piange la scomparsa.

Il pensiero liberale è infatti un arcipelago quanto mai complesso, talvolta contraddittorio, di tradizioni ed idee. Ogni progetto classificatorio applicato al liberalismo si imbatte fin dall'inizio in enormi, quasi insormontabili, difficoltà; fin da quando è costretto a confrontarsi con il paradosso che alcuni fra i pensatori annoverati fra i “padri fondatori” – come Locke, Montesquie e Kant – non hanno mai conosciuto né il sostantivo (liberalismo), né l'aggettivo (liberale), per lo meno nell'accezione con la quale oggi li utilizziamo.

Se però volessimo individuare un “nucleo di base”, un minimo comun denominatore capace di tenere insieme, bene o male, personalità molto diverse fra loro all'interno di una stessa famiglia politica potremmo farci aiutare dalla distinzione proposta da Giuseppe Bedeschi nella sua Storia del pensiero liberale. Ovvero dalla separazione fra una dimensione politico-giuridica del liberalismo e una filosofico-spirituale. All'interno della prima rientrerebbe, secondo Bedeschi, la definizione del liberalismo come «dottrina che afferma la limitazione dei poteri dello Stato in nome dei diritti individuali» (e in tale ambito «liberalismo e giusnaturalismo sono indissolubilmente connessi»). All'interno della seconda l'attenzione cadrebbe su un atteggiamento ed una pratica, più che su un sistema di leggi ed istituzioni, essendo qui il liberalismo inteso come la convinzione filosofica secondo la quale «in ogni uomo è iscritta la vocazione ad assumere, attraverso la libertà che è in lui, la responsabilità del proprio destino».

Ora, moltissime delle istanze contenute in questa duplice accezione sono parte integrante della storia politica e culturale dei paesi occidentali ormai da svariati decenni. Tanto che non è difficile notare quanto l'atteggiamento di certi sedicenti liberali amici di Putin e Gheddafi strida con il “senso comune liberaldemocratico” ancor prima che con i testi di Kelsen o di Bobbio. Fa bene Battista a puntare il dito contro l'anomalo centrodestra italiano per il quale «i dittatori, se servono a mantenere l'ordine, possono passare anche per ammirevoli alleati». Ma del resto questo è un problema che nel corso del Novecento ha afflitto molti “difensori della libertà” cultori del realismo politico e memori della celebre frase con la quale Roosevelt descrisse il dittatore nicaraguense Anastasio Somoza: «Sarà anche un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana».

Tuttavia un'analisi non superficiale della “crisi di popolarità” che ha investito il pensiero liberale non può fermarsi alla superficie della rappresentanza politica. Occorre in primo luogo vedere se non sia da attribuire qualche responsabilità anche a quella parte di società civile e mondo della cultura da cui ci si sarebbe potuti aspettare sensibilità e comportamenti ben diversi da quelli messi in mostra dal piazzista di Arcore e dai suoi professori di complemento.
Nel suo articolo Battista cita quei sedicenti intellettuali liberali che sono stati «persino acquiescenti con la tortura». Per evidenti ragioni non fa però il nome del professor Angelo Panebianco, che dalle colonne del suo stesso giornale firmò un editoriale intitolato “Il compromesso necessario” (13 agosto 2006). Ipotizziamo che un grande attentato sia sventato grazie a confessioni di terroristi estorte sotto tortura: da qui partiva il ragionamento di Panebianco. «Chi se la sentirebbe in Occidente di condannare quei torturatori? La risposta è: un gran numero di persone». E «fra coloro che condannerebbero i torturatori senza dubbi né tentennamenti», aggiungeva il professore, «ci sarebbero anche tante brave persone in buona fede che hanno orrore del terrorismo ma che credono che cose come la legalità, i diritti umani e quello che chiamano (in genere, senza sapere bene cosa sia) lo 'stato di diritto' debbano sempre avere la precedenza su tutto». Un modo un po' singolare di propagandare il verbo liberale.

Ma non è l'unico infortunio in cui è incorso in questi anni il Corriere della Sera. Su tutto possiamo ricordare la grandiosa campagna celebrativo-promozionale che ha accompagnato gli ultimi scritti di Oriana Fallaci. Pagine di una tale inaudita volgarità che sarebbero state ben più a loro agio nelle pubblicazioni semiclandestine di qualche gruppuscolo di estrema destra che sui fogli di un grande giornale liberal-borghese. L'ultima Fallaci – spiace dirlo per una giornalista il cui percorso professionale, fortunatamente, non è riconducibile solo alle crepuscolari invettive contro «i figli di Allah che si moltiplicano come topi» - sta al liberalismo come Borghezio sta a Isaiah Berlin.
È mai possibile scambiare per una limpida voce della coscienza critica dell'Occidente, alfiere dei valori di una società aperta, chi nei suoi articoli scrive: «C’è qualche cosa, negli uomini arabi, che disgusta le donne di buon gusto»? Come si è potuto proporre quello sgangherato manipolo di teocons all'amatriciana – dalla Fallaci a Magdi Cristiano Allam, passando per il filosofo già popperiano Marcello Pera – come un presidio dei valori liberali orgogliosamente rivendicati dal nostro modello di convivenza?

Ma veniamo, in conclusione, all'obiezione che più direttamente vogliamo sollevare a Pierluigi Battista per una omissione, a nostro avviso cruciale, che caratterizza il suo articolo. Cosa ne è delle grandi battaglie civili, come quella condotta da Piergiorgio Welby o da Beppino Englaro, che più recentemente hanno segnato nel nostro Paese la nuova frontiera biopolitica del “vecchio liberalismo”? «L'unico scopo che autorizzi l'esercizio del potere nei confronti di qualsiasi membro di una comunità civile contro la sua volontà, è quello di evitare un danno agli altri. A un'autorizzazione del genere, il bene personale dell'individuo, fisico o morale che sia, non basta». Così scriveva John Stuart Mill nel suo celebre saggio On Liberty. E questa dovrebbe essere la stella polare di ogni liberale coerente nelle questioni cosiddette “eticamente sensibili”.

Naturalmente si può scegliere di non adottare tale punto di vista. Il liberalismo può essere un impegno “fastidioso”, che richiede spesso il coraggio di andare controcorrente. Come quando, per citare un caso particolarmente impopolare, i radicali Rita Bernardini e Sergio d'Elia si recarono in visita ispettiva al carcere di Rebibbia dopo le segnalazioni di maltrattamenti subiti dal gruppo dei famigerati “stupratori di Guidonia” (in un clima di opinione pubblica nel quale a rischiare il linciaggio non furono solo gli stupratori, ma la stessa Bernardini dopo quella visita. Eh sì, per i liberali lo stato di diritto vale anche per gli stupratori).

Invece c'entra poco con il culto liberale dell'autonomia dell'individuo ciò che scrisse – in nome di un troppo spesso abusato senso dell'equidistanza – Pierluigi Battista in occasione del secondo anniversario della morte di Eluana Englaro, mentre roventi polemiche accompagnavano l'assurda scelta del governo Berlusconi di proclamare proprio quel giorno, il 9 febbraio, “Giornata nazionale degli stati vegetativi”: «Da una parte si griderà alla 'deriva eutanasica'. Dall'altra all'ingerenza clericale. Da una parte gli strali contro un presunto 'partito della morte'. Dall'altra la denuncia di un potere malvagio che vuole allungare i suoi tentacoli sui corpi dei sudditi, incuranti della loro libertà di scelta. (…) Verrà celebrato l'ennesimo rito del dibattito inconcludente, della rissa a colpi di accuse feroci. Ne godranno i professionisti della discussione infinita». Caro Battista, come può un liberale mettere sullo stesso piano avversari e sostenitori della libertà di scelta?

P.s. Non ci siamo occupati di proposito in questo articolo delle doglianze per la presunta caduta in disgrazia del liberal-liberismo rappresentato da pensatori come Fredrich Von Hayek. La crisi economica nella quale siamo immersi è già sufficiente a far maturare seri dubbi sull'opportunità di identificale il liberalismo con questa “ideologia tanto più estrema in quanto nega di essere tale” (Corrado Ocone, sempre sul supplemento La Lettura).

(31 gennaio 2012)

da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/battista-e-lo-strano-vizio-dei-liberali-a-giorni-alterni/
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« Risposta #85 inserito:: Febbraio 09, 2012, 10:33:56 am »

Il GOVERNO DEI TECNICI E IL PAESE

Una relazione da rafforzare


Il governo Monti ha svolto più che egregiamente i compiti a casa. Ha ridato credibilità e centralità all'Italia. Ha fatto del nostro Paese un interlocutore autorevole dell'Europa (e degli Stati Uniti, come ha confermato sul Corriere l'ambasciatore Usa a Roma). Ha avviato una politica economica dolorosa ma efficace, rimesso sui binari i conti impazziti, allontanato il fantasma del fallimento. Ma basta? Forse, a costo di apparire incontentabili, non basta. Perché gli incoraggianti risultati sui conti sembrano un po' più opachi, se dalle formule matematiche si passa alla vita vera degli italiani, alle emozioni e ai simboli che ne cementano la coesione.

È vero, un governo tecnico non ha come obiettivo il consenso. Ma la prospettiva di un destino comune è pur sempre la missione di un governo che, oltre all'autorevolezza e alla competenza, deve saper trasmettere agli italiani fiducia, forza, energia in uno dei momenti più difficili della loro storia. Se il naufragio di una nave colpisce l'immaginazione pubblica e ferisce come un'umiliazione l'intera compagine nazionale per la sconsideratezza di comandanti fatui e tremebondi, un governo sensibile al bene comune deve esserci, deve dire qualcosa, deve essere presente. Se l'Italia, sommersa dalla neve, conta decine di morti, paesi senza energia elettrica, treni bloccati nel gelo, Roma tramortita dal caos, autostrade paralizzate, il governo, anche se tecnico, non può rifugiarsi dietro un'impassibile tecnicità, deve dare l'impressione di voler tirar fuori l'Italia dal disastro, sanzionare gli incapaci, dare una sferzata all'opera di chi si spende senza requie per soccorrere chi è in difficoltà.

Populista» sarà pure una brutta parola, una tentazione troppo invasiva nella nostra storia più recente. Ma i pericoli del populismo non devono impedire a un governo di essere popolare, di entrare in un rapporto di sintonia, di connessione emotiva, di compartecipazione con le sorti del «popolo» genericamente inteso. Non è obbligatorio essere simpatici, ma nemmeno perdersi in dichiarazioni inutilmente antipatiche. Bisogna dire la verità, ma non è che per evitare il rischio della demagogia bisogna mostrarsi indifferenti alle passioni della democrazia. Andare in una fabbrica in difficoltà, affrontare una delle piazze pulite in cui si esprime un malcontento diffuso, visitare un'università del Mezzogiorno per parlare con gli studenti di talento ma senza futuro, un convegno di liberi professionisti che si sentono penalizzati da misure dure e per loro drammatiche, persino sfidare in un confronto pubblico chi è vittima della crisi, darebbe a questo governo una forza simbolica straordinaria.

Nessuna nostalgia dell'esibizionismo festaiolo, ma l'atmosfera dei centri studi che hanno sfornato un consesso di ministri tra i più preparati e affidabili della nostra storia non può essere l'unico orizzonte emotivo, culturale, persino lessicale di chi sta chiedendo agli italiani di «fare compiti» difficili e gravosi. In un'atmosfera di angoscia che non può lasciare sordo anche il più tecnico ed efficace dei governi. Che ha reso miracolosamente credibile l'Italia nel mondo, ma che comunichi agli italiani un nuovo orgoglio. Missione impervia, ma non impossibile.

Pierluigi Battista

9 febbraio 2012 | 7:46© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_febbraio_09/relazione-da-rafforzare-battista_37191e5c-52e6-11e1-8f96-43ef75befe7d.shtml
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« Risposta #86 inserito:: Marzo 20, 2012, 11:46:50 pm »

L'analisi

L'eterno vizio di «minimizzare» e la solitudine dei bersagli dell'odio

La caccia all'ebreo non conosce requie

La profanazione del cimitero ebraico di Lione, L'11 agosto del 2004 (Ap)La profanazione del cimitero ebraico di Lione, L'11 agosto del 2004 (Ap)

Non solo in Francia. Anche in Italia hanno ucciso bambini ebrei solo perché erano bambini ebrei. Anche in Italia, su una nave italiana che è territorio italiano, hanno ucciso un vecchio ebreo in carrozzella, solo perché era un ebreo. Non nell'epoca nera dello sterminio. Non nella pagina più vergognosa della storia italiana. Ma negli ultimi trent'anni. Come in Europa, dove la caccia all'ebreo, l'ebreo come bersaglio da annientare, da schiacciare sotto il peso dell'odio, non ha mai conosciuto requie. Fino all'orrenda strage di Tolosa.
Si tende sempre a non crederci, a non prendere atto della realtà. A non evocare l'antisemitismo come veleno permanente, reso ancora più aggressivo quando si traveste da verbo antisionista. Contro l'ebreo si incontrano tutti gli estremisti, tutti i fanatici, tutti quelli che considerano la democrazia un vizio da sradicare. Quando nel 1982 vennero presi di mira in tutta Europa i cimiteri ebraici, le sinagoghe, le scuole israelitiche, i luoghi di culto degli ebrei, gli eredi del nazismo trovarono convergenze e appoggi tra chi, durante la guerra del Libano, predicava insieme la distruzione dello Stato di Israele e degli ebrei, fisicamente. Fu in quei giorni che in Italia, il 9 ottobre del 1984, un piccolo bambino ebreo, Stefano Gay Taché, venne assassinato da un commando di terroristi mediorientali mentre usciva insieme alla sua famiglia dalla sinagoga Maggiore di Roma per celebrare l'ultimo giorno della festa di Sukkot. Assassinato perché era un ebreo: vittima di un odio assoluto e inestinguibile. E altri bambini ebrei feriti, altri adulti ebrei tra la vita e la morte. Una ferita nella coscienza nazionale che non si è ancora rimarginata. Pochi anni dopo, sull' Achille Lauro , nave italiana, un vecchio signore paralitico di nome Leon Klinghoffer venne ucciso da un commando di terroristi palestinesi. Non stava bombardando Gaza, stava in crociera con sua moglie. Ma doveva essere «punito» perché ebreo. Tutta l'«epopea» di Sigonella che ne seguì, quanto tenne in conto che sul territorio italiano alcuni terroristi avevano trucidato un vecchio ebreo, e quanto venne considerato il fatto che lasciar andar via i terroristi significava lasciare impunito il gesto mostruoso di una banda di antisemiti?
E invece si tende sempre a minimizzare. Se non a giustificare, per carità, almeno a ridimensionare la portata simbolica di un delitto contro gli ebrei. Chiunque sia l'assassino: un fanatico nazi o un fanatico islamista che nella sua guerra santa contro «l'entità sionista» prevede anche il massacro degli ebrei, ovunque si trovino. Quando nel 2006 venne rapito a Parigi un giovane ebreo, Ilan Halimi, la polizia francese si affannava a non dare troppo credito alla pista antisemita. Poi si seppe che Ilan, durante i 24 giorni di prigionia, venne torturato, orrendamente seviziato mentre le sue urla, forse, potevano essere captate nella banlieue a maggioranza musulmana dove l'ostaggio era stato rinchiuso, prima di essere arso vivo e gettato come immondizia lungo la ferrovia. Poi, quando vennero scoperti gli aguzzini e gli assassini, si tenne un processo. E durante il processo il capo della banda, dopo aver iniziato il discorso con «Allah Akbar», definì gli ebrei «nemici da combattere per il bene dell'umanità». Perché la polizia francese non imboccò allora la pista giusta da subito, perché aveva tanta paura nel riconoscere che l'antisemitismo aveva assunto un nuovo volto nel cuore di Parigi e che un giovane ebreo poteva essere sottoposto a sevizie per giorni e giorni nel cuore popoloso della città?
Gli ebrei continuano a essere un bersaglio dell'odio razziale, religioso e politico nell'Europa degli ultimi decenni del Novecento e nei primi del Duemila. Quando negli anni Settanta i terroristi dirottarono l'aereo di linea Parigi-Tel Aviv dell'Air France e atterrarono a Entebbe, nell'Uganda del tiranno Idi Amin Dada, divisero gli ostaggi, dopo averne controllato l'identità e i passaporti, in due colonne: quella su cui si poteva trattare e quella da condannare senza indugi. La colonna senza speranza era composta da ebrei, da condannare perché ebrei. C'erano dei terroristi tedeschi, tra i dirottatori, e un vecchio ebreo mostrò a uno dei figli dei «volenterosi carnefici di Hitler» i numeri che gli avevano tatuato sul braccio nel campo di sterminio. Non ebbero pietà nemmeno di lui, e solo il tempismo del blitz israeliano impedì il massacro di ebrei che si stava preparando con scientifica precisione.
La violenza antisemita, punto di incrocio di deliri ideologici di matrice diversa ma di identica capacità di odio, ha conosciuto una recrudescenza significativa negli ultimi decenni. Con un'opinione pubblica impaurita e sgomenta, mai interamente solidale con gli ebrei colpiti dal fanatismo. Un'altra strage. Un altro massacro. Un'altra invocazione di «mai più». Un'altra volta, l'ennesima, disattesa.

Pierluigi Battista

20 marzo 2012 | 8:31© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/esteri/12_marzo_20/l-eterno-vizio-di-minimizzare-e-la-solitudine-dei-bersagli-dell-odio-pierluigi-battista_6cae5998-7257-11e1-a140-d2a8d972d17a.shtml
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« Risposta #87 inserito:: Marzo 29, 2012, 05:05:19 pm »

LE FRASI DEL PREMIER E DI ALTRI

Troppe parole fuori registro


Non può finire con una «scazzottata» tra tecnici e politici. Anzi, non può nemmeno cominciare questa esibizione muscolare che rischia di compromettere le cose buone fin qui fatte da un governo tecnico sorretto da partiti politici responsabili. E di vanificare la serietà con cui gli italiani, con tutte le tensioni e le asprezze che necessariamente accompagnano un passaggio così tormentato della vita nazionale, stanno affrontando colpi e sacrifici durissimi.

Si deve fermare l' escalation verbale che ieri ha raggiunto il culmine con il duello tra il presidente Monti e il segretario del Pd Bersani. Non servono le parole sprezzanti nei confronti dei partiti, equiparati, come traspare da alcune risposte del ministro Fornero, a distributori di «caramelle», paladini di spese facili e regalie fortunatamente arginate dal rigore intransigente di un provvidenziale governo tecnico. Non si può però nemmeno assecondare la nuova tendenza dei partiti, in particolar modo del Pd, a sgomitare per la riconquista del palcoscenico e a liquidare come «prepotenza» tecnica la legittima scelta di decidere, di consultare chi di dovere, senza però farsene ostaggi, di arrivare a una conclusione senza passare per la consuetudine paralizzante della ritualità concertativa. Monti non dovrebbe reagire, proprio mentre rappresenta degnamente l'Italia in Estremo Oriente, maltrattando l'immagine dei partiti. I partiti non pensino che il baratro sia oramai lontano e che possa riprendere con spensierata irresponsabilità la festa di prima. I tecnici hanno bisogno dei partiti e non possono pretendere i benefici di un'assoluta autosufficienza. Ma i partiti devono ancora cominciare a riflettere sulle ragioni di una sconfitta storica della politica, sul grado di dissolvimento e sul discredito che il ruolo della politica ha oramai raggiunto nell'opinione pubblica.

Lo sforzo, ancora una volta, deve essere comune. Lo sforzo di chi governa per continuare nell'azione intrapresa qualche mese fa in un momento drammatico, per non lasciarsi sedurre dalla spirale della comunicazione a effetto e per rispettare ancora di più le difficoltà di chi, nella società, è alle prese con una tassazione elevatissima, con l'angoscia della perdita del lavoro, con le retribuzioni che si assottigliano. Lo sforzo dei partiti che lo sostengono di non voler chiudere frettolosamente con l'epoca della responsabilità, di archiviare al più presto il governo tecnico e di prepararsi a una competizione elettorale confusa e rissosa, come al solito. Uno degli effetti benefici del governo tecnico, tra l'altro, è stato la rapidità con cui si è disinnescata l'esasperazione mediatica della «dichiarazionite», l'agitarsi convulso, iper-loquace e inconcludente che ha scambiato il bipolarismo per un ring in cui trionfa chi urla in modo sgangherato.

La «sobrietà» tecnica, dopo aver riportato la discussione politica su un terreno meno astruso e verboso, non può poi rilassarsi e imitare, sia pur alla lontana, uno stile comunicativo di ripicche e di ritorsioni verbali che lasciano solo una scia di rancore e di incomprensione. L'evocazione allusiva dei «cazzotti» scriteriatamente menzionati da Bersani rischia poi di accelerare un'abitudine che credevamo sepolta insieme alle liturgie della Seconda Repubblica. Un salto all'indietro, le cui ripercussioni dovranno essere neutralizzate. Da tutti. In un soprassalto di responsabilità, come è accaduto nei mesi scorsi.

Pierluigi Battista

29 marzo 2012 | 7:52© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_marzo_29/troppe-parole-fuori-registro-editoriale-pierluigi-battista_0d2ebd24-795e-11e1-a69d-1adb0cf51649.shtml
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« Risposta #88 inserito:: Giugno 25, 2012, 10:18:23 am »

Anche la generazione di D'Alema e Veltroni si richiamava a cinema o musica

Da Mary Poppins ai Righeira, icone «post»

Il bricolage senza ideologie di Renzi: l'unico politico è San Suu Kyi E ai dirigenti del partito: «L'estate sta finendo, il loro mandato no»


Mary Poppins, per quanto antica, appare decisamente post. E pop. Una icona non nuova, ma rinnovata. Tradizionale, ma non tanto da essere menzionata, citata e proiettata nel discorso di un aspirante leader di partito. E invece due minuti di Matteo Renzi sono stati interamente dedicati a lei, a Mary Poppins. Tra una parabola sulla Polaroid e una citazione dei Righeira.
Con Renzi il Pd, piaccia o no, assume una coloritura post-ideologica. E non si lascia alle spalle solo l'ideologia pesante e totalizzante, quella dell'èra dei Togliatti e dei De Gasperi, o dei Berlinguer e dei Moro. No, anche quella, moderna, disinvolta, dinamica, «di tendenza» di una generazione politica, quella di Veltroni ma anche di D'Alema, che ai simboli della cultura politica più tradizionale affiancava richiami al mondo «moderno» del cinema e della canzone. Veltroni rilanciò l'«I care» di don Milani e l'omaggio alla tradizione liberal-azionista con la visita torinese a Norberto Bobbio. Ma non risparmiava citazioni e riferimenti a McEwan, o a De Gregori. Con Renzi la mescolanza tra i due piani, tra la dimensione pop e quella più consona al vecchio stile del discorso, si assottiglia fino a scomparire del tutto.

Ha cominciato con Fosbury, l'atleta che ha rivoluzionato la tecnica e lo stile (e l'efficacia) del salto in alto in atletica leggera: lo avevano preso per pazzo con quel salto di spalle, poi ogni record venne sbriciolato grazie a un movimento che sarebbe diventato naturale e imprescindibile per tutti gli atleti impegnati in quella specialità. Per parlare di innovazione e di coraggio, la vecchia ideologia, pur resasi moderna e dinamica, avrebbe senza dubbio citato Steve Jobs. Renzi no: è andato direttamente all'atletica leggera. E va al calcio quando dice che nessuno è indispensabile, figurarsi una classe politica che è incapace di farsi da parte. Parla di Guardiola che lascia il Barcellona di Messi e Iniesta. E pensa a Bersani (oltre che ai maggiorenti del partito) a suo avviso privi del coraggio di Guardiola. Va direttamente ai Righeira, simboli del disimpegno canoro anni Ottanta, per criticare i parlamentari (D'Alema, Veltroni, Bindi, Marini) che sono entrati al tempo dei Righeira, un secolo fa: «L'estate sta finendo, il loro mandato no».

Cita Aldo Biscardi, nientemeno. Un personaggio della vecchissima televisione ma è con l'immagine televisiva che la generazione di Renzi è venuta su. È vero. Menziona un politico, un premio Nobel per la pace che ha conosciuto le vessazioni del regime birmano ed è un simbolo della battaglia contro l'oppressione: Aung San Suu Kyi. Ma è un riferimento sufficientemente non circostanziato dal punto di vita ideologico per consentirne una fruizione ecumenica e universalistica. Ma prima di tutto cita la Polaroid, simbolo un po' vecchiotto della fotografia pre-digitale, che ebbe un successo gigantesco nella generazione che precede quella di Renzi, che ha conosciuto l'onta dell'obsolescenza, ma che ha saputo rinnovarsi per non soccombere del tutto. Messaggio: la sfida delle novità tecnologiche va affrontata con coraggio, altrimenti ci si inabissa nell'inutilità, nella marginalità, in un oggetto di antiquariato se non addirittura in una cianfrusaglia da dimenticare in cantina. E poi l'attore citato: Fabio Volo. Il simbolo di un nuovo cinema, non Bertolucci o addirittura Fellini.

Con i partiti all'antica ci si industriava a costruire Pantheon, ascendenze, paternità, gallerie di personaggi che dessero il senso di un «progetto» culturale e politico fatto anche di tradizioni: tradizioni da superare, ma mai da dimenticare. Con Renzi questo sforzo sembra invece destinato all'inconcludenza o alla frustrazione. L'essere contemporanei è diverso dall'essere moderni (è uno dei dogmi del post-moderno). E diventa impossibile prevedere quale tra i mille personaggi della televisione e della musica «leggera» e dell'oggettistica commerciale verrà preso a modello e messo su un piedistallo. Un lavoro di bricolage più che di sistematizzazione ideologica. Un bagaglio leggero che lascia negli armadi le armature pesanti del «vecchio» discorso politico. Può piacere o non piacere, ma forse è il salto generazionale decisivo. Con la musica dei Righeira.

Pierluigi Battista

24 giugno 2012 | 9:32© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_giugno_24/da-mary-poppins-ai-righeira-icone-post_f3c16982-bdcc-11e1-a8f4-59710be8ebe6.shtml
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« Risposta #89 inserito:: Agosto 17, 2012, 06:43:38 pm »

IL NUOVO SOGGETTO POLITICO
 
Tanti centri (piccoli e confusi)
 
In una lettera-appello al Corriere della Sera un gruppo di intellettuali che formano l'ossatura di «Fermare il declino» e di «Italia futura» chiede alla composita aggregazione centrista che si sta formando di essere più coraggiosa e di sposare con più convinzione la causa della «rivoluzione liberale». Ma forse l'aggregazione ancora in fieri è troppo composita e variegata per sposare con convinzione la ricetta che vorrebbe trasformare l'Italia in un Paese meno statalista e più aperto alle benefiche virtù del libero mercato. Troppo multiforme per aspirare a una voce univoca. Oggi il «centrismo» è montiano a Roma e lombardiano nella Sicilia sull'orlo del default. E poi, è concepibile che a capeggiare la «rivoluzione liberale» ci sia Raffaele Bonanni, il capo della Cisl che per storia e formazione culturale con il liberalismo (e liberismo) einaudiano non ha nessun rapporto e che si è opposto con tutte le sue forze alla riforma delle pensioni varata dal governo Monti?
 
Oggi una formazione di centro potrebbe avere un notevole spazio elettorale. Il Pd appare sempre più solo «sinistra», sempre più propenso a un'alleanza con Vendola e incline a sposare una linea neo-socialdemocratica ovviamente antitetica alla «rivoluzione liberale», ma soprattutto destinata a una convivenza problematica con l'appoggio alla politica del governo Monti, sinora sostenuto con lealtà e continuità. A destra il Pdl è ed appare incerto e stordito, indeciso se consegnarsi nuovamente al carisma sia pur appannato di Berlusconi o tuffarsi in un oltranzismo protestatario e rancoroso che esige la rottura con il governo Monti sostenuto anche al prezzo della rottura con la Lega. Il «Centro», in tutte le sue declinazioni, potrebbe risultare un'offerta appetibile quando la sinistra e la destra radicalizzano il loro messaggio e si affidano a un oltranzismo identitario che rassicuri il loro elettorato e sciolga gli imbarazzi del sostegno al governo Monti, calamita di disagi sociali inevitabili in una crisi così profonda dell'economia e della società. Ma basta «non» essere di sinistra e «non» essere berlusconiani per apparire un'alternativa credibile? Il «Centro» può essere soltanto, come chiedono giustamente i firmatari della lettera al Corriere , il luogo dell'equilibrio, la casa della moderazione, l'ideale di un'equidistanza che distolga dal gravoso compito di dire che cosa esattamente bisognerebbe fare per spingere l'Italia fuori dal pantano?
 
Queste incertezze non sono solo l'assillo di una porzione minoritaria dell'opinione pubblica italiana. È un'intera porzione della nostra società che stenta oggi ad essere rappresentata. Che si riconosce nello sforzo del governo Monti e che vorrebbe trasformare il rigore da obbligo dettato da circostanze eccezionali a scelta consapevole per qualunque governo «politico» in grado di amministrare l'eredità di un governo «tecnico» senza sperperarne i risultati e senza dilapidare il capitale di fiducia riconquistato, almeno in parte e mai irrevocabilmente, nella comunità internazionale. Questa parte dell'Italia oggi è senza voce politica e ancora non si vedono i contorni di chi potrebbe chiederle la fiducia nella prossima tornata elettorale. Troppe contraddizioni, troppi tatticismi, troppi comportamenti ondivaghi e anche opportunistici indeboliscono la promessa di chi vuole proporre agli italiani una ricetta nuova e diversa. Tanti piccoli «centri» destinati, in questo modo, all'irrilevanza. O alla subalternità.
 
Pierluigi Battista

17 agosto 2012 | 9:08© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_agosto_17/tanti-centri-piccoli-confusi-battista_2bc7cc60-e82d-11e1-a0d6-4062e922f4c6.shtml
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