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Autore Discussione: Pier Luigi BATTISTA  (Letto 108890 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Novembre 08, 2010, 05:00:42 pm »

Il commento

Strappo Finale, ma Poi?

«Futuro e libertà» nasce con un traguardo così ambizioso da sembrare velleitario e irrealistico: costruire un centrodestra che non abbia più Berlusconi come suo indiscusso e carismatico leader. È questa rilevante ambizione che rende differente la creatura di Gianfranco Fini dalla miriade di partitini che nascono e prosperano esclusivamente nei corridoi affollati delle manovre di palazzo.

Si dà il caso però che Berlusconi non sia (ancora) il passato perché è e continua a essere il leader del centrodestra, il capo del governo, il leader del partito maggiore della coalizione. Perciò lo scontro tra le ambizioni di Fini e la realtà della leadership berlusconiana non può che essere la fonte di un conflitto durissimo, violento, irriducibile, ultimativo. Una stagione politica lunga ormai più di quindici anni si sta chiudendo drammaticamente. È, deve essere, compito e responsabilità dei leader in conflitto evitare che il loro dramma non si trasformi nel dramma dell'Italia, di un Paese in crisi che rischia seriamente di sprofondare nel caos.

Ponendo una condizione pressoché irricevibile da Berlusconi, Fini ha messo la parola fine al governo nato dal risultato elettorale del 2008. Ha chiesto ai ministri suoi seguaci di rimettere il mandato. Ha rovesciato l'agenda politica suggerita da Berlusconi come base per un eventuale «patto di legislatura». Ha sottolineato una diversità radicale e inconciliabile con la Lega, principale alleato del premier (pur aprendo al Senato federale). Bisogna dire con chiarezza che non è affatto normale che un presidente della Camera dia il benservito ufficiale al presidente del Consiglio. Ma perché a questo punto non si aggiunga anomalia ad anomalia, Fini deve prendere un impegno: da presidente della Camera, faccia in modo che non ci sia una crisi extraparlamentare, ciò che stonerebbe in modo troppo stridente con il ruolo istituzionale che ricopre.

Fini ha tutto il diritto di indicare a «Futuro e libertà» la via della sfiducia al governo, ma non al di fuori del Parlamento, fuori e contro le procedure che ogni crisi di governo esige. Ma se ha a cuore l'interesse della Nazione, se davvero, come ha ripetutamente detto a Perugia, vuole restituire alla politica quella dignità, quella decenza, quel «rispetto delle istituzioni» che si sono smarriti in questi anni, allora non metta a repentaglio il rango internazionale dell'Italia ed eviti almeno che la sfiducia venga esercitata sulla Legge di stabilità. Sarebbe un gioco troppo pericoloso, troppo irrispettoso per gli interessi italiani. Esporrebbe l'Italia a una pessima figura internazionale. Se sfiducia ha da essere, che sia su altri provvedimenti, non su leggi su cui l'Italia intera può giocarsi ciò che resta della sua credibilità.

Ma oramai lo strappo si è consumato, la rottura appare irreversibile. A Perugia si è misurato il drammatico errore di Berlusconi, alimentato da consiglieri rancorosi e miopi, di voler liquidare le posizioni di Gianfranco Fini come una molesta questione personale da eliminare con un provvedimento disciplinare (il deferimento ai probiviri, nientemeno). Il partito che Fini ha fatto nascere a Perugia appare invece come una forza politica vera, proiezione di un'anima autentica del centrodestra italiano. È stato lo stesso Fini a sottolinearlo più volte.

Non vuole che Futuro e libertà esca culturalmente e politicamente dal «perimetro del centrodestra». Non vuole che la rottura con Berlusconi possa preludere a una «subalternità» nei confronti della sinistra. Vuole andare «oltre» Berlusconi e non «contro» il Pdl. Ora, a rottura consumata, Fini dovrà dimostrare di essere conseguente con queste premesse. Non prestarsi a maggioranze abborracciate e precarie che, fatte salve le prerogative del Quirinale, suonino come un oltraggio alla volontà popolare espressa nel 2008. Non cedere alla tentazione di governi dai nomi più fantasiosi («tecnici», «istituzionali», «di larghe intese») che assomiglierebbero a un ribaltone e che tra l'altro regalerebbero a Berlusconi la fantastica chance di presentarsi come vittima di una manovra oligarchica e ostile al popolo che ha vinto le elezioni. Se la rottura è una cosa seria, allora Fini deve accettare di misurarsi con nuove elezioni, anche in presenza di una legge elettorale orribile. Dovrà contribuire a tracciare un percorso di uscita da una stagione politica oramai tramontata avendo come stella polare gli interessi dell'Italia, la sua credibilità internazionale, la sua stabilità finanziaria. È una porta strettissima.

Ma non ce ne sono altre. È la scelta più seria, ma anche la prova della serietà con cui nasce un nuovo partito. Il resto è scorciatoia, giochino politicista, furbizia effimera. Tocca a Fini, non solo a lui, ma soprattutto a lui, imboccare la strada giusta.

PIERLUIGI BATTISTA

08 novembre 2010
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« Risposta #61 inserito:: Novembre 27, 2010, 04:45:53 pm »

RIFORMA DELL'UNIVERSITA', I FINIANI SUI TETTI

La scalata sbagliata

I deputati del Fli che salgono sui tetti assieme agli studenti in rivolta, non immaginano neanche quanto il loro gesto abbia rischiato di far drammaticamente scendere qualcos'altro: la credibilità di un nuovo partito che pure, alimentando molte speranze, si era presentato come l'alfiere del merito, della modernità europea, del riformismo liberale. E infatti, Fini si è giustamente premurato di rassicurare che Fli voterà sì alla riforma Gelmini.

I finiani avrebbero mille ragioni per marcare la loro differenza dall'immobilismo di un governo assopito da mesi nel «non fare» e nel tirare a campare. Da una maggioranza che vivacchia, assorbita dall'ossessione per le vicende personali del premier. Hanno invece scelto di inscenare la loro presenza determinante per le sorti del governo ostacolando una riforma di cui l'Italia ha necessità improrogabile. Non che la riforma dell'università del ministro Gelmini sia inattaccabile, migliorabile, inemendabile. Ma gli emendamenti devono servire a renderla più efficace, non a diventare pretesto e bandiera di manovrette dilatorie e di furbizie parlamentari. Il partito del «merito», come più volte è stato presentato dallo stesso Fini, non può esordire penalizzando una riforma che fa del recupero del merito il suo cardine, che svecchia e contesta il reclutamento baronale, i finanziamenti a pioggia, la scandalosa chiusura nei confronti dei talenti giovani, tutto ciò che rende umiliante il confronto tra l'università italiana e quella degli altri Paesi dell'Europa e dell'Occidente, mortifica la ricerca, premia la mediocrità e il livellamento verso il basso.

Non è sufficiente la riforma Gelmini? Certo che non lo è. Ma le proteste sui tetti e sui monumenti (a proposito: che ne è in questo caso della tutela e della sicurezza dei nostri beni culturali?) vanno fatalmente nella direzione opposta. Si tingono di conservatorismo, difesa dello status quo, fatalismo, rassegnazione nei confronti di qualunque riforma che abbia, appunto, il merito come sua base fondante. È un errore anteporre la guerriglia contro Berlusconi alle ragioni di contenuto che dovrebbero consigliare un atteggiamento non ostruzionistico nei confronti della riforma dell'università. Lo è anche quello della sinistra riformista che nel nome della guerra santa al governo e per non disperdere il consenso della piazza, smarrisce le stesse ragioni della propria identità culturale. Un applauso sui tetti, ma un'occasione mancata per l'alternativa riformista.

A Bastia Umbra Gianfranco Fini ha detto di voler accettare una sfida ambiziosa: quella di costruire una destra moderna, repubblicana, costituzionale e «deberlusconizzata», anziché l'ennesimo partitino destinato a campare sul potere di veto, sui giri di giostra parlamentare, sulle imboscate di corridoio, sulla filosofia deteriore dell'«ago della bilancia». Fa bene a convincere i suoi seguaci a far passare la riforma dell'università richiesta dalle componenti più innovative della società italiana. Con i miglioramenti dovuti, certo, ma con lo scopo di farla andare in porto e non di farla naufragare con metodi surrettizi. Si tratta del primo test del nuovo «Futuro e libertà». Poi c'è la legittima battaglia sul governo e con il premier, la lotta politica che culminerà con il voto del 14 dicembre. Ma senza giocare sulla pelle degli studenti, dell'università, della ricerca, del sapere, della cultura: il «partito del merito» non può permetterselo.

Pierluigi Battista

27 novembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #62 inserito:: Dicembre 10, 2010, 11:20:17 am »

CAMBI DI CASACCA E BUGIE DISINVOLTE

La commedia degli eletti

La politica italiana diventa un mistero indecifrabile, un enigma imperscrutabile che però poggia con teatrale evidenza su due desolanti certezze. La prima è che le istituzioni si sono degradate in poche ore a un indecente mercato di voti. La seconda è che il tatticismo convulso e maniacale sta divorando se stesso, e le manovre di corridoio e di anticamera hanno finito per oscurare ogni barlume di razionalità in un universo politico che sta sprofondando con sempre meno dignità nel crepuscolo di ciò che resta della Seconda Repubblica.

Non è un giudizio dettato dal moralismo, sebbene la scena politica e giornalistica sia occupata dalle invettive sul «tradimento», la «compravendita», il «collaborazionismo», persino gli elogi della «prostituzione» (politica, si intende). È lo sconcerto sugli improvvisi cambi di casacca. Sui seguaci del più intransigente antiberlusconismo di marca dipietrista che si convertono con sorprendente tempismo alle ragioni del presidente del Consiglio. Sui frammenti dei transfughi del centrosinistra, un trio di disperati politici dell'ultima ora, che convocano una conferenza stampa per formare un nuovo movimento e per dire che, in tre, voteranno il 14 dicembre in tre modi diversi. Su Italo Bocchino che prima nega perentoriamente di essersi incontrato con Berlusconi e poi lo ammette, smentendo se stesso con una disinvoltura da consumato frequentatore delle più rocambolesche manovre di Palazzo.
Non è moralismo. Ma è anche insofferenza per chi, con pavloviano automatismo difensivo e autoassolutorio, dice che «è sempre stato così». Non è vero: spesso è andata quasi così (specialmente ai tempi dell'agonia del governo Prodi) ma non proprio «così» come in questi giorni. Adesso una soglia è stata oltrepassata. Un confine di elementare pudore è stato violato. Nemmeno l'ipocrisia di motivazioni politiche che giustifichino e diano dignità a un cambio di collocazione politica: solo voltafaccia plateali nelle forme e oscuri nei contenuti. Solo tariffari, mutui sospetti da estinguere in fretta, fantasmi di leggi ad hoc: lunedì sapremo forse qualcosa del destino del Parco dello Stelvio e, insieme, del voto della Svp? Quanto costa la fiducia a un governo? E la sfiducia?

Che una legislatura nata con una maggioranza solida e ampia debba trasformarsi in una partita di caccia all'ultimo voto utile è il simbolo di un declino inimmaginabile fino a pochi mesi fa. Inconcepibile in una tempesta economica e finanziaria, e per fortuna il governo almeno nella blindatura dei conti pubblici ha saputo tenere il timone con fermezza. Inammissibile in una democrazia che dovrebbe vivere di alternative chiare, di progetti contrapposti, di conflitti alla luce del sole e che invece si sta smarrendo in un caos accompagnato dalle urla scomposte delle tifoserie più agguerrite. E dove il Parlamento deve avere un suo decoro da difendere, se non altro per rendere omaggio ai 150 anni di vita di una Nazione che non merita lo spettacolo sconfortante di una fiducia a tariffa.

Pierluigi Battista

10 dicembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_dicembre_10/20101210NAZ01_49_041dee44-0425-11e0-b06d-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #63 inserito:: Dicembre 13, 2010, 04:14:36 pm »

La scelta di una strategia

Così il Cofondatore ha scelto di rischiare il tutto per tutto

Se Berlusconi ottenesse la fiducia, Fini vedrebbe dilapidato il suo vantaggio acquisito il 29 settembre

         
Se Silvio Berlusconi non venisse sfiduciato, fosse anche per l'apporto avventuroso di uno o due voti dell'ultimo minuto, Gianfranco Fini vedrebbe dilapidato il suo sorprendente vantaggio acquisito il 29 settembre scorso. Quel giorno Fli sancì il carattere determinante della propria presenza nella maggioranza. Incassò la rinuncia alle elezioni anticipate fino a pochi giorni prima minacciate dal premier. A Bastia Umbra Fini ha però deciso di fare un passo ulteriore.

Un cambio di casacca in più, martedì, e quel passo imprudente potrebbe rivelarsi fatale per il presidente della Camera. Il rischio più grosso se l'è assunto proprio lui, Gianfranco Fini. Per gli altri alleati di un sinora evanescente terzo polo, in primis Pier Ferdinando Casini, questa non è la partita finale. Per Fini sì. E' vero che dopo il voto del 14 potrebbe esserci una devastante guerriglia parlamentare a vanificare la battaglia vinta da Berlusconi a Montecitorio. Ma intanto la violenza simbolica della sconfitta numerica avrebbe l'effetto di indebolire, e forse perfino di disarticolare il neo-partito finiano. Fino a Bastia Umbra, giocando in difesa, Fini ha fatto brillantemente muro contro l'offensiva di annientamento politico che il fronte berlusconiano aveva scatenato in estate. Non era bastata la brutalità dell'estromissione di stampo leninista decretata dal Pdl ai danni del suo co-fondatore che aveva osato dissentire pubblicamente dal Capo.
E nemmeno una virulenta campagna mediatica giocata con il famigerato "metodo Boffo". E neanche una fallimentare campagna acquisti in Parlamento che a settembre avrebbe dovuto neutralizzare i finiani in rotta con Berlusconi. Fini era uscito trionfatore da quel triplice assalto. A Bastia Umbra decise però di affondare con il contropiede.

Ma se le controffensive non riescono, gli effetti sono disastrosi per chi ha attaccato con troppa e velleitaria frettolosità. La sfiducia a Berlusconi voleva dire infliggere il colpo definitivo al premier. Ma se quel colpo va a vuoto, il contraccolpo sarebbe violentissimo per chi fallisce l'obiettivo. Se il riferimento alla "congiura" non suonasse troppo malizioso, si potrebbe ricordare come per Machiavelli "per esperienzia si vede molte essere state le coniure, e poche aver avuto buon fine". E come quella mancanza di "buon fine" abbia sistematicamente portato alla disfatta, nella storia, i "coniurati". Mentre l'acquisizione formale di un peso determinante nella maggioranza dava a Fini la possibilità di logorare Berlusconi, fargli la fronda, preparando "l'Opa sul centrodestra" avendo davanti a sé più tempo a disposizione, l'accelerazione di Bastia Umbra ha comportato invece il raggiungimento di uno scopo in tempi ristretti. Ma se quel "buon fine" machiavellicamente non viene raggiunto, diventa inevitabile la consumazione di una sconfitta dolorosa.

Per questo, ovviamente Berlusconi a parte, Fini rischia più di tutti. Se riuscirà a incassare la sfiducia dovrà immediatamente spendere il frutto di una momentanea ma clamorosa vittoria disegnando inevitabilmente nuove maggioranze e nuove alleanze. Altrimenti, con Berlusconi ancora in sella a Palazzo Chigi, Fini dovrà ricominciare a tessere una tela completamente nuova, ma stavolta dagli esiti imprevedibili e da una condizione di debolezza che procurerà al mondo finiano un effetto esattamente opposto a quello ottenuto alla fine di settembre, con Berlusconi uscito perdente dal duello. E la rivincita, stavolta, sarà la più difficile delle scommesse.

Pierluigi Battista

13 dicembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/speciali/2010/la-fiducia/notizie/battista_cofondatore_tutto_per_tutto_3be9a3a2-0684-11e0-ad1a-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #64 inserito:: Gennaio 19, 2011, 12:21:04 pm »

I REGALI

La corte degli avidi al bancomat di Arcore

Tra assegni e regali, la corte degli avidi usò l’«amico Silvio» come un bancomat


Nessuno che fosse disinteressato. Tutti attorno al Grande Ricco generoso. Come cavallette assetate. Compresi quelli di cui il Grande Ricco si fidava. Un milione 200 mila euro in «prestito ». Ottocentomila a Lele Mora, che ne aveva bisogno. Quattrocento a Emilio Fede, come beneficio. Fede a Mora dice che chiederà al Capo Bancomat: «Uno e due, di cui 100 li dà a me in due rate che ho prestato 50 e 50, capito?». Mora capisce perfettamente: «Certo». Fede a Mora: «Vuol dire che possono diventare uno e mezzo: io ne prendo quattro e tu otto, va bene? ». Mora a Fede: «Benissimo, meraviglia, meraviglia, bravo direttore, bravo». Hanno trovato l’isola del tesoro. La cornucopia. La cassaforte sempre disponibile. Lo sportello da cui attingere senza remore. Una cresta collettiva. Un vortice di pagamenti, regali, doni, con un giro di persone che ha intravisto la «meraviglia» di cui ripetutamente, come incantato da una visione da Paese dei Balocchi, parla Lele Mora. Anche bonifici. Dicitura: «Bonifico o/c Silvio Berlusconi in favore di Alessandra Sorcinelli - prestito infruttifero ». O assegni circolari. Come nei colloqui intercettati: «Se facessimo dei circolari le andrebbero bene oppure...? ». «Benissimo anche quelli». Allora «busta chiusa a ritirare», «Mi fai un regalo, un regalissimo ». Il denaro come, secondo Marx, «equivalente universale». Un modo dotto di dire che, nella modernità, tutto ha un prezzo. Secondo Georg Simmel il denaro è il simbolo della riduzione dei valori qualitativi in valori quantitativi.

Ma Simmel non deprecava. Descriveva. Avrebbe ricavato un supplemento di dettagli se avesse letto le intercettazioni in cui il «quantitativo », nei rapporti con il detentore di grandi ricchezze, soppianta il «qualitativo ». «Papi qua è la nostra fonte di lucro». «Mi devi dare una certa stabilità economica». «Amore per favore aiutami a trovare un lavoro per chiedere un mutuo che è uno dei miei sogni più grandi».
Fino al terrificante: «Gli ho detto che ne voglio uscire almeno con qualcosa... cioè mi dà... però... 5 milioni a confronto del macchiamento del mio nome». Ecco l’equivalente universale: 5 milioni di euro («a confronto») per un congruo e sicuro «smacchiamento». Come un bancomat, o un biglietto della lotteria. O la cornucopia universale da spremere prima che sia troppo tardi, fino all’ultima stilla. «Va bene, non ti chiedo tanto, mille». «No, mille sono tanti». «Mille, ma sono 500 euro a testa, caro». Caro, in tutti i sensi. E ancora: «Torniamo a casa almeno con 4 mila euro e perciò domani ci devi essere per forza». «Cash! Eh, un cristiano normale lavora sette mesi per prendere quello che ho preso io». «Sono stata un po’ cogliona perché non ho beccato nulla». La nottata «è valsa nove scarpe». «Un braccialetto e 2.000 euro». «Dice alla madre di aver ricevuto 7». Un sms dice che la rivale «ha avuto 6,5, ok?». «Ho diviso in due una busta da 5». Un esercito di gente che acchiappa, arraffa, incassa, agguanta. Senza nemmeno un trasporto d’affetto per la fonte di tanta fortuna. Che anzi viene insolentito, sfruttato senza limiti, indicato come la risoluzione di ogni problema. «Cavolo Francesca, un diamantino piccino!

C’è scritto F di Francesca piccolino d’oro, preferivo i soldi». «Questi sono gli inizi dai». «Comunque c’è soltanto il trilocale, eh, libero». «Gli aveva fregato la casa». Due cd di Apicella. Delusione? Aperti, ecco «quattro banconote da 500 euro». «Tutta la notte a 300 euro», altre cose, sempre «a 300 euro». «Lui ha regalato un anello e un bracciale a tutte, compresa Maria». «Basta che non siano 50 euro».
E poi, se non arriva l’equivalente universale, se il flusso di denaro, appartamenti, creste, bonifici, assegni circolari, bracciali, collane, diamantini, buste, banconote si dissecca o appare sulla via dell’esaurimento, l’esercito vorace di chi si stringe al Grande Ricco trasformato in bancomat diventa crudelmente avido, sempre più esigente, sempre più disposto a lasciare solo chi è all’origine di tanti variegati benefici. Da «l’importante mi sta riempiendo di soldi» fino a «vado io a tirargli la statua in faccia», se il bancomat annuncia di non funzionare più secondo i ritmi di chi vuole approfittare e mettere le mani nel tesoro dei miracoli. Basta solo un annuncio e il Grande Ricco si ritrova solo, come il Rag. incaricato di saldare i conti e mettere ordine tra postulanti, finti amici e affamati di denaro. «Prestito infruttifero».

Pierluigi Battista

19 gennaio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #65 inserito:: Febbraio 05, 2011, 09:39:52 am »


LA RIFORMA E LE PARTI IN COMMEDIA

Il teatrino della politica

Umberto Bossi ha ammesso che il capo dello Stato ha ragione quando chiede alla maggioranza, per il rispetto dovuto al Parlamento, che il decreto del federalismo debba passare per l’aula di Montecitorio. Il leader della Lega avrebbe potuto pensarci il giorno prima.
E il Consiglio dei ministri, convocato d’urgenza in via straordinaria, avrebbe potuto evitare la forzatura di un decreto fatto apposta per neutralizzare un parere parlamentare in contrasto con la linea del governo. Una provvisoria via d’uscita frettolosa, sbrigativa, irrituale che Giorgio Napolitano non avrebbe consentito di imboccare. Giulio Tremonti, pochi minuti prima del comunicato del Quirinale, aveva definito il decreto sul federalismo una «svolta storica». Ecco, una svolta storica di queste proporzioni non può realizzarsi per strade oblique, con espedienti mediocri, con un rapporto tanto spregiudicato nei confronti delle istituzioni rappresentative.

E il federalismo? Il federalismo è diventato un guscio vuoto, un simbolo, una bandiera da sventolare. Un pretesto. L’ennesimo, in questo scorcio di legislatura in cui ogni voto parlamentare diventa il giorno del Giudizio, il momento supremo e definitivo che sancisce il destino di ciascuno. Giovedì tutti i protagonisti non si sono misurati sul federalismo, ma ne hanno fatto strumento per ingaggiare una prova di forza. Bossi ha legato l’esito del voto della commissione parlamentare alla sopravvivenza del governo. Le opposizioni hanno rivisto il miraggio della spallata al governo che avrebbe mandato a casa il premier o addirittura, come Gianfranco Fini, l’oggetto di un mercanteggiamento con il leader della Lega: promessa di un voto favorevole di Futuro e libertà in cambio di un acrobatico sganciamento del Carroccio da Berlusconi. I vertici del Pdl, per ammansire i malumori leghisti, ne hanno fatto il teatro di una spettacolare prova di supremazia, anche a costo di uno strappo istituzionale che Napolitano si è visto costretto a riparare.

I contenuti del federalismo, la «svolta storica» evocata dal ministro dell’Economia, inevitabilmente svaniscono. Si perdono nel nevrotico conteggio quotidiano che dovrebbe dimostrare alla maggioranza di esistere, forte dell’apporto dei singoli parlamentari via via strappati all’opposizione, e a quest’ultima di contare ancora qualcosa, pur nello sgocciolio di defezioni e ritirate. I voti parlamentari diventano così tappe di una gara giocata allo spasimo, tanto da suggerire a Berlusconi l’immagine di un trionfale punteggio sportivo: «sette a zero». L’invito del capo dello Stato a evitare la guerra permanente viene disatteso. Il conflitto tra politica e magistratura raggiunge l’apice, e si minaccia da parte del governo di reinserire nel calendario parlamentare materie esplosive come la legge sulle intercettazioni e quella sul processo breve. Una nevrosi del «tirare avanti» che logora e dissolve la discussione politica in un perenne incontro di pugilato senza costrutto. Questo è il cruccio del capo dello Stato. E una ragione in più per prendere atto, con rammarico, che una stagione è finita e che il ricorso al voto anticipato, anche con una pessima legge elettorale, forse è diventata una scelta obbligata.

Pierluigi Battista

05 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #66 inserito:: Febbraio 14, 2011, 04:20:27 pm »


LE SCELTE E GLI OSTACOLI DI FINI

Se il leader si sospende

Gianfranco Fini ha detto che i valori del suo nuovo partito sono quelli con i quali nacque il Pdl, prima del suo fallimento. Dichiarazione un po' troppo spavalda, ma che ha il pregio della chiarezza: vuol dire che Futuro e libertà guarda all'elettorato di centrodestra come alla sua area di riferimento. Non è un no esplicito all'unione sacra antiberlusconiana. Ma è il segnale di una fisionomia netta anche in prossimità delle elezioni di cui ora anche Fini chiede la celebrazione anticipata. Anche questa è una novità: Fli pensa oramai che se cade il governo Berlusconi, l'unica alternativa è il voto subito. Senza pasticci, governicchi e coalizioni da metter su per prender tempo. Un contributo alla chiarezza.

Per la prima volta, inoltre, Fini ha messo sul tavolo l'eventualità di sue dimissioni dalla presidenza della Camera. Le ha proposte contestualmente a quelle del premier, rendendole così una sfida quasi impossibile. Ma è la prima volta che la parola «dimissioni» entra nel lessico finiano (vicenda Montecarlo a parte). Prima era un tabù, vissuto come un diktat a cui sottrarsi per non darla vinta al nemico Berlusconi. Ora, sia pur nelle forme paradossali di un doppio passo indietro, l'ipotesi delle dimissioni di un presidente della Camera, diventato nel frattempo leader di partito, entra nell'orizzonte delle scelte di Fini.

Risulta invece poco chiara la decisione di sospendersi da leader di un partito appena nato per non abbandonare la postazione di Montecitorio. È una prassi inconsueta: Casini e Bertinotti si autosospesero nel momento in cui assunsero una carica istituzionale. Qui avviene il contrario: è una carica istituzionale che sospende la propria leadership per manifesta incompatibilità. Ma forse Fini avrebbe potuto esercitare con pienezza la propria leadership in Fli abbandonando la presidenza della Camera. Nessuno vi avrebbe visto un «cedimento». Anzi, sarebbe stato più esplicito l'investimento di energie che il leader avrebbe devoluto alla sua nuova creatura, mentre esplodono minacciose rese dei conti tra i neocolonnelli. I militanti del Fli avrebbero visto il loro punto di riferimento spendersi a tempo pieno per le battaglie di partito. Ma può un partito nascere in forma con una paternità «sospesa», ostacolata da cause di forza maggiore?

Dal congresso del Fli, il disegno di un «terzo polo» inteso come stabile forza e non come provvisorio cartello elettorale non appare l'orizzonte preferito da Fini. Il bipolarismo, a differenza di Casini, resta la sua bussola politica. Ma come rimettersi in connessione con l'elettorato di centrodestra mantenendo incandescente la polemica con Berlusconi sarà il passaggio più difficile. Una grande ambizione che rischia di diventare azzardo velleitario. E il timone di una nuova nave, in circostanze così tempestose, non può mai restare sospeso.

Pierluigi Battista

14 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali
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« Risposta #67 inserito:: Marzo 11, 2011, 04:31:07 pm »

Alcuni punti fermi

Sulla giustizia si potrebbe evitare l'ennesima guerra di religione, se ambedue gli schieramenti la smettessero di farsi imprigionare dall'incubo di Silvio Berlusconi. Certo, sembra impossibile scindere il tema della giustizia dalle vicende giudiziarie che riguardano il premier. Ma bisogna liberarsi dalla dittatura delle convenienze. E non aver paura di entrare nel merito delle cose, uscendo dallo schema perenne di una maggioranza prepotente e di una opposizione rinchiusa nella retorica impotente del «no» globale e preventivo.

La separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri non può essere un tabù per il centrosinistra, anche se a proporla è il governo Berlusconi. Superfluo ricordare che quel tabù venne già violato nella Bicamerale presieduta da D'Alema tra il '96 e il '98. E del resto l'imparzialità e la terzietà del giudice rispetto alle parti è una garanzia per lo Stato di diritto tanto quanto l'indipendenza della magistratura dal potere politico. Un'opposizione libera dall'incubo di Berlusconi non potrebbe forse trovare un terreno di interlocuzione sul tema della terzietà, contrastando al contempo ogni tentazione di subordinazione dei pubblici ministeri agli imperativi della politica? Non è un tabù nemmeno la responsabilità civile dei giudici laddove sia ravvisabile un dolo nei loro comportamenti: se non altro perché un referendum ne ha sostenuto il principio (poi disatteso) già negli anni Ottanta. Perché la sinistra garantista dovrebbe avere paura di un principio che vincola i magistrati a una condotta di responsabilità simile a quella cui devono giustamente attenersi tutti i professionisti che svolgono attività su temi delicatissimi per la vita e la libertà dei cittadini? Sull'obbligatorietà dell'azione penale, poi, spieghi l'opposizione se oggi questa regola viene effettivamente osservata nelle procure italiane, o se i fascicoli che si accumulano sulle scrivanie dei tribunali non siano smaltiti con criteri che con l'«obbligatorietà» hanno poco a che fare.

Di tutto questo si può e si deve discutere, senza gridare all'«eversione» per proposte opinabili ma non incompatibili con i principi dello Stato di diritto. «Discutere», però, deve valere per tutti. Per il Pd, che può trovare un'occasione per smarcarsi dall'ipoteca giustizialista di Di Pietro. Ma soprattutto per la maggioranza di governo che non può procedere a strappi, spallate, ultimatum. Che non deve lasciarsi sopraffare da sentimenti di vendetta politica nei confronti della magistratura. Che non può pretendere di vendere un pacchetto preconfezionato senza ascoltare un'opposizione dialogante, i magistrati, gli avvocati e, naturalmente, i consigli saggi del presidente della Repubblica. I modi e i toni con cui la riforma della giustizia è stata annunciata lasciano temere il peggio. Ma la maggioranza è ancora in tempo a rovesciare questa impressione. Per realizzare con serietà, e senza proclami bellicosi, una riforma promessa oramai da 17 anni. Nell'interesse di tutti, e non per la conquista di un trofeo.

Pierluigi Battista

11 marzo 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #68 inserito:: Marzo 26, 2011, 11:55:36 am »

GIUSTIZIA TRA RIFORME E SCORCIATOIE

I professionisti dell'emendamento


La riforma della giustizia è un tema troppo delicato per lasciarlo ai professionisti dell'emendamento nascosto e delle aggiunte da inserire di soppiatto. La maggioranza di governo è stata fatta bersaglio di sospetti pregiudiziali, fino a negarne la «legittimità» ad affrontare il tema della giustizia. Sono accuse inaccettabili in una democrazia in cui la maggioranza scelta dagli italiani ha il diritto e il dovere di governare. Ma dovrebbe essere cura di questa stessa maggioranza evitare, come purtroppo sta accadendo, di snaturare i contenuti della riforma con provvedimenti discutibili, ambigui, o inclusi con l'obiettivo nemmeno tanto mimetizzato di favorire le vicende giudiziarie del premier.

Se dunque si parla di separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici, non devono esserci tabù. E anche la discussione sull'obbligatorietà dell'azione penale merita di essere affrontata senza remore. Non ci sono santuari intoccabili. Trincee da difendere. Rendite di potere da salvaguardare. Però non ha senso dilatare a dismisura l'ambito della responsabilità civile per i magistrati che sbagliano. Il referendum che fu votato dagli italiani reclamava una sanzione per quei magistrati che si fossero macchiati nei loro comportamenti di «dolo o colpa grave». Includere la categoria elastica della «manifesta violazione del diritto» introduce un elemento di equivoco e di genericità che aumenterà inevitabilmente controversie, ripicche e conflitti. Appare una norma punitiva, un'appendice ritorsiva che dà l'impressione di voler umiliare un avversario temibile, non, come dovrebbe essere, di tutelare i cittadini da abusi, persecuzioni, sciatterie, crudeltà gratuite.

L'irruzione periodica delle norme sulla «prescrizione breve», poi, assomiglia più all'ennesimo anello da aggiungere alla catena delle leggi ad personam che non a un provvedimento utile per riformare la giustizia italiana. Getta il peso delle vicende giudiziarie del premier in una riforma che dovrebbe riguardare la generalità e sembra fatta apposta per allontanare la semplice prospettiva della convergenza di una parte dell'opposizione che pure non è insensibile ai richiami di una riforma in senso garantista. Del resto, era stato lo stesso ministro Alfano ad assicurare che non ci sarebbero stati provvedimenti sospettabili di favorire il premier nel testo della riforma. Quella rassicurazione sembra caduta nel nulla. Oggi è il turno della «prescrizione breve». Domani potrebbe essere la riproposizione sotto mentite spoglie del «processo breve». Dopodomani chissà. Perché far vivere le istituzioni e l'opinione pubblica nella perenne attesa di qualche nuovo agguato? Perché alimentare in modo permanente il sospetto che la maggioranza stia provando a manomettere la legislazione in materia di giustizia per andare incontro alle esigenze del suo leader?

Meglio dunque che la maggioranza dia seguito ai buoni propositi enunciati dal suo ministro (e dallo stesso premier, del resto). Ha i titoli politici e istituzionali per governare, e non sarà certo la componente più oltranzista della magistratura e negargliene il diritto e la legittimità. Imbottire però la riforma di espedienti, eccentricità, estremismi e personalismi rende il percorso di una riforma seria più problematico. Ne verrebbe compromessa la credibilità della maggioranza. E la stessa speranza di riformare la giustizia.

Pierluigi Battista

26 marzo 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #69 inserito:: Marzo 31, 2011, 05:57:05 pm »

Sull'Orlo del Precipizio

Malgrado l'esortazione di Giorgio Napolitano da New York, la politica italiana ha conosciuto ieri una delle giornate più convulse e sguaiate della storia repubblicana. Ma se si voleva dare plastica rappresentazione del male che secondo il capo dello Stato affligge il nostro sistema politico, a cominciare da un'atmosfera di guerriglia nutrita dalla sistematica e reciproca delegittimazione delle parti, ieri il copione è stato purtroppo recitato alla perfezione. Non un insulto è stato risparmiato nella caotica follia che ha investito e avvilito ieri il Parlamento e la piazza antistante. Non un urlo rauco, non un'invettiva, un gesto di disprezzo, un'espressione smodata, una manifestazione di odio: tutto concentrato in una manciata d'ore. E nessuno ne esce con un profilo di decoro e di innocenza. Nessuno.

Non la maggioranza di governo, che non ha esitato a svilire la riforma della giustizia, riducendola con un escamotage parlamentare a scudo per le vicende giudiziarie del premier. Non l'opposizione, tentata addirittura da velleità aventiniane, e che sembra succube di una frenesia da megafono: quella che trasferisce la discussione parlamentare, anche vivace e dura, nell'incandescenza del comizio. Non i ministri che scambiano con il presidente della Camera battute irripetibili. Non il clima da stadio che ha stravolto l'aula di Montecitorio. Non le scene di linciaggio simulato che riesumano le pagine peggiori della guerriglia delegittimante di cui ha parlato il presidente della Repubblica e che riportano ai riti di piazza in auge nella stagione di Mani Pulite: lo spettacolo sconsolante delle monetine, l'assedio al Parlamento, i politici «nemici» bollati indistintamente come «mafiosi».

Difficile distribuire colpe e responsabilità. Quando domina la rissa, non si riesce più a distinguere i colpi dati e quelli incassati. Ma colpisce la disponibilità alla rissa continua. La pretestuosità con cui si coglie ogni occasione per inscenare la solita liturgia della guerra civile «a bassa intensità», come è stata definita. Ancor più pretestuosa e colpevole quando a pochi chilometri dall'Italia la scena della guerra non è una liturgia, ma una terribile realtà. Non è che la guerra debba silenziare ogni conflitto, o che un'atmosfera di mistica unità nazionale debba anestetizzare il dissenso, o addomesticare la discussione parlamentare. Ma nemmeno può valere il contrario: la politica della provocazione quotidiana e permanente, il braccio di ferro continuo, una spirale di ritorsioni che si avvita senza fine. Lo spettacolo di ieri ha dato a questo scenario intossicato una teatralità di gesti che contribuisce ad alimentare un'atmosfera di ultimatum permanente. Quanto la rissa continua stia nelle corde popolari o non emani piuttosto dal clima chiuso e avvelenato dei palazzi della politica è difficile dire. Ma non è difficile capire che l'orlo del precipizio è vicino. Tra insulti e monetine, rischiamo addirittura di non accorgercene.

Pierluigi Battista

31 marzo 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #70 inserito:: Aprile 08, 2011, 10:29:44 pm »

Noi e la Libia

Una guerra strana, declassata in fretta

Non si sa più chi vince e chi perde

   
 di Pierluigi Battista

La guerra che non c'è. Sparita, svanita, declassata a spirale di scaramucce tra forze in campo la cui unica strategia appare l'eterno andirivieni: oggi avanzo, domani rinculo; e viceversa. Oggetto di contesa per una diplomazia internazionale ondivaga, volubile, pazzotica. La guerra impantanata nel deserto della Libia. La guerra più sconclusionata del mondo. Una guerra in cui non solo non si sa più chi vince e chi perde,ma anche a quale realtà dovrebbe corrispondere la vittoria o la sconfitta.

Il dittatore Gheddafi ha rintuzzato la controffensiva dei ribelli, ma non è stato distrutto, o cacciato, o mandato in esilio.
Allora ha vinto? Non si sa. Il dittatore Gheddafi non riesce a riprendersi la Cirenaica in mano agli insorti, soffre la defezione di una parte del suo clan, non è più il padrone incontrastato del territorio libico, la sua contraerea è stata devastata da un paio di raid franco-anglo-americani. Allora ha perso? Non si sa. E gli insorti? Con gli aerei internazionali autorizzati dall'Onu vanno avanti. Appena quegli aerei stanno fermi, gli insorti fuggono su trabiccoli scalcagnati, sparacchiano in aria con i kalashnikov, ma con forza e impatto militare pari a zero. Vincono? Perdono?

E nella comunità internazionale chi vince dopo che l'Europa si è spezzata, le nazioni sono andate per conto proprio, l'America rilutta, la «rivoluzione dei gelsomini» è seppellita dalla disattenzione dei media mondiali? Che ne è della sollevazione in Siria, esplosa dopo che l'Onu aveva autorizzato i raid in Libia? Quelli che detestano Sarkozy, a cominciare dalle truppe combattive del neo-pacifismo di destra, se la prendono con le smanie francesi. Ma proprio loro, incendiati di ardore difensivo nei confronti del despota di Tripoli con cui si condividevano affari e spettacoli circensi, avevano accusato Sarkozy di creare un disastro dando troppa corda ai ribelli libici. Dicevano, in sintonia con Gheddafi, che dietro gli insorti ci fosse Al Qaeda. Deve essere davvero alla frutta, Al Qaeda, se affida il suo destino eversivo e terroristico a bande disordinate e poco avvezze persino alla guida degli autocarri in fuga. Ma anche il fronte «guerrafondaio» dovrà ripensare i modi dell'appoggio a truppe raccogliticce, impotenti, militarmente inette fino a punte grottesche.

Ecco, il grottesco. Difficile che in questa guerra pazza qualcuno sia riuscito ad evitare una punta di grottesca inconcludenza. Non la Francia, la cui muscolarità non sembra raggiungere obiettivi adeguati alla gloria che quella nazione meriterebbe. Non gli Stati Uniti, che fanno la guerra facendo finta di non farla, vanno all'avanguardia ma si vogliono mostrare in retroguardia. Non Gheddafi, che si ritrova nel suo bunker, abbandonato da una parte dei suoi, ridotto a spararle sempre più grosse e addirittura a supplicare Obama, richiamandolo a comuni matrici religiose, di finirla con l'ostilità nei confronti del suo regime. Non l'Europa, politicamente defunta in questa strana e inafferrabile guerra. Non l'Italia, che in due mesi ha cambiato idea almeno quattro volte sulla questione libica e che, fattasi più tenue e sopportabile la nostalgia per il dittatore che aveva promesso stabilità e affari, cerca con affanno i segni del «dopo», un rapporto di interlocuzione con chi, forse, dovrebbe arrivare al posto di Gheddafi.

E ora, dopo appena qualche settimana, la guerra libica abbandona le prime pagine dei giornali. Chi è interessato alle traiettorie del petrolio si industria per trovare una linea e una prospettiva. La «rivoluzione araba» viene abbandonata a se stessa, nel timore che l'estremismo fondamentalista rompa gli argini e tradisca le aspirazioni liberali delle giovani piazze in rivolta. Tutto viene travolto dalla questione dell'immigrazione. Con i giovani arabi che vedono nell'Europa e nell'Occidente modelli di inaffidabilità: questo sì carburante per i fondamentalisti che possono dimostrare la loro superiorità sulle democrazie indecise a tutto. Mentre le notizie da Bengasi e da Misurata, da Tripoli e dalla Sirte appaiono sempre più lontane, confuse, avvolte in un'ovatta di disinformazione creata dalle propagande contrapposte. La guerra più strana e scervellata. Dove l'unica cosa vera è il sangue di chi in Libia ci ha rimesso la vita. Non sapendo, forse, nemmeno il perché.


08 aprile 2011
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« Risposta #71 inserito:: Aprile 12, 2011, 06:40:48 pm »

PAESE COMPOSTO, POLITICA INCONCLUDENTE

Un litigio permanente

Arringando la sua folla, davanti al Palazzo di Giustizia di Milano, il premier ha detto ieri di aver trascorso una «mattina surreale». Ecco: sono mesi che l'Italia vive una condizione surreale. La maggioranza più estesa della storia repubblicana è diventata ostaggio di un pugno di «responsabili» che già annunciano, obliquamente, che domani il governo potrebbe vivere momenti difficili alla Camera sulla prescrizione breve.

Le riforme «epocali», come quella della giustizia, svaporano o si rattrappiscono in provvedimenti ad personam che costringono il Parlamento a ripetute maratone condite da urla e insulti. La benefica «scossa» all'economia, annunciata con solennità quasi due mesi fa, si è arenata nel nulla. Ora è il turno del piano triennale per la «Riforma lavoro». Si spera che stavolta vada avanti, certificando fattivamente una volontà riformatrice sinora disattesa. Una speranza obbligata, mentre la maggioranza sembra inabissarsi nell'era del litigio permanente.

Si litiga con la magistratura, oramai a ritmi spossanti, con le udienze in tribunale che si trasformano nei comizi del lunedì, con le squadre dei fan e degli odiatori che si fronteggiano per strada. Si litiga con l'Europa per gli immigrati: con qualche buona ragione, ma smentita da minacce neo isolazioniste che rischiano di far ripiombare la Lega, e con essa stavolta tutta la maggioranza, in un'eurofobia autolesionista. Si litiga nel Pdl, con le cene correntizie che profilano una condizione di guerra tribale di tutti contro tutti. Scatti di nervi, tentazioni scissionistiche. E il fantasma del «25 luglio» che da reminiscenza storica si trasforma in uno scenario da incubo evocato da uno degli esponenti di punta del berlusconismo come Fabrizio Cicchitto.

La rendita assicurata dall'annessione del variopinto manipolo dei «responsabili» si sta esaurendo. Per un attimo, dopo il trionfo parlamentare nel voto di fiducia dello scorso 14 dicembre, si era pensato che la legislatura potesse affrontare la fase finale con un piglio riformatore che era mancato nei mesi precedenti: giustizia, economia, ora il lavoro. Ma nel giro di poche settimane la politica italiana sembra risucchiata nella sua nevrosi chiassosa e inconcludente. Nel frattempo, incombe la crisi economica e finanziaria, e scoppia una guerra a un passo da noi. Ma l'Italia, sottoposta a continui traumi sociali, sembra conservare una sua miracolosa tranquillità e persino l'emergenza dell'immigrazione viene affrontata tutto sommato con calma e freddezza.

Il Paese appare solido, la politica in continua fibrillazione. Il contrario del Napoleone raffigurato da Jacques-Louis David, dove il cavaliere tiene con fermezza le redini di un destriero irrequieto e smanioso: qui in Italia è invece il cavaliere - la politica - a dare in escandescenze mentre l'Italia si mostra composta e autocontrollata. Stavolta c'è bisogno di una svolta vera, altrimenti non si vivacchia ma si sprofonda. E le elezioni potrebbero risultare il male minore.

Pierluigi Battista

12 aprile 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #72 inserito:: Maggio 31, 2011, 03:57:08 pm »

La Lega medita lo strappo

La disfatta berlusconiana nelle urne è un uragano destinato ovviamente in primis a rovesciarsi sul destino politico del capo del governo, ma anche a scardinare il sistema politico degli ultimi quindici anni. Uno sconvolgimento in cui nulla resterà come prima: partiti, alleanze, leader, sistemi elettorali, aggregazioni, schieramenti. Primo fra tutti il centrodestra così come lo abbiamo conosciuto, alla vigilia di un divorzio tra il Pdl e la Lega che potrebbe addirittura preannunciare lo sfaldamento dell’impalcatura bipolare che ha retto l’intera vicenda della Seconda Repubblica. Per capire cosa ne sarà dell’attuale maggioranza dopo il sisma che l’ha travolta in tutta Italia con pari violenza devastante, occorrerà decifrare infatti proprio le mosse del partito di Bossi: il vero grande sconfitto di queste elezioni assieme a quello di Silvio Berlusconi. Il risultato negativo della Lega ha infatti svuotato di senso tutti gli scenari su cui si sono esercitati sinora i sondaggi in previsione di nuove elezioni politiche.


Tutti questi scenari, a parte marginali variazioni numeriche, erano infatti fondati sulla previsione che l’ineluttabile crisi del Pdl sarebbe stata compensata dal contestuale boom dei voti leghisti, lasciando sostanzialmente inalterato il margine di vantaggio del centrodestra sui competitori dell’opposizione. Questo schema è esploso in un weekend fatale che ha stravolto la cornice politica degli schieramenti così come li abbiamo conosciuti sinora. La Lega è stata severamente punita insieme a Berlusconi, abbandonata da una base popolare infuriata, delusa e stremata da un’alleanza con il Pdl che le sta erodendo consenso e credibilità. Per la prima volta Bossi è stato colpito a causa della sua alleanza con Berlusconi. Per la Lega si è simbolicamente chiusa la stagione della coalizione di centrodestra. Questo è un dato certo, malgrado le dichiarazioni rassicuranti diffuse dalla Lega nella serata di ieri. Incerti sono solo i modi, i tempi e il linguaggio con cui avverrà l’operazione sganciamento della Lega da questa maggioranza.


Con ogni probabilità, la Lega farà della richiesta di una nuova legge elettorale proporzionale, alla «tedesca», con lo sbarramento e senza l’obbligo di alleanze precostituite, il simbolo della rottura definitiva del patto oramai consumato che la tiene avvinta al destino di Berlusconi. Una richiesta che potrebbe ottenere il consenso non solo del Terzo Polo, ma anche della parte maggioritaria del Pd e persino della sinistra «radicale » rappresentata da Vendola. Il ritorno al sistema proporzionale potrebbe suonare come il segno della liberazione da vincoli di coalizione oramai percepiti come una gabbia soffocante, a destra, ma anche al centro e a sinistra. «Andare da soli» suonerebbe come il refrain del nuovo proporzionalismo. Una rivendicazione delle mani libere, il sintomo dell’insopportazione per i ricatti e i veti di coalizione che hanno intossicato il fragile bipolarismomaggioritario della Seconda Repubblica. Il principale sconfitto sarebbe Berlusconi, che della «religione del maggioritario» si è fatto artefice e sacerdote per oltre un quindicennio sin dalla sua avventurosa «discesa in campo ». E se l’appello leghista trovasse il consenso della maggior parte delle forze politiche che si oppongono a Berlusconi, si sarebbe innescato il detonatore capace di far deflagrare ciò che resta della Seconda Repubblica.


Il sistema proporzionale, come si vede dall’esempio tedesco, non è in sé un ostacolo insuperabile per la democrazia dell’alternanza. Ma in Germania il sistema politico è strutturato su partiti forti e stabili che danno all’elettorato il senso di schieramenti alternativi che si fronteggiano. In Italia questa forza dei partiti non c’è, men che mai in una condizione di potenziale e caotico sfaldamento del partito che di Berlusconi è diretta e imprescindibile emanazione. Il bipolarismo italiano si è identificato totalmente nella figura di Berlusconi, anche nella parte che gli si è opposta e che ha trovato nell’antiberlusconismo il fattore coesivo più potente. Lo sganciamento della Lega dal Pdl, se si associasse a una battaglia per il sistema proporzionale, intonerebbe inevitabilmente il de profundis non solo per il berlusconismo, ma per la stagione bipolarista così come si è imposta in Italia negli ultimi quindici anni. Un terremoto politico dagli esiti incerti e tumultuosi. Un disordine che si farebbe a fatica a definire, con Schumpeter, «distruzione creatrice».

Pierluigi Battista

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« Risposta #73 inserito:: Giugno 20, 2011, 08:35:16 am »

CENTRODESTRA, FARSI MALE DA SOLI

Gli estremisti del linguaggio

Se Silvio Berlusconi volesse dimostrare di saper ancora esercitare una parvenza di leadership sul suo mondo traumatizzato da due disfatte consecutive, dovrebbe in primo luogo tenere a bada il lessico incontrollato di un centrodestra (linguisticamente) allo sbando. Per il bene del centrodestra metta fine, se vuole e se ne è in grado, alla forsennata deriva estremista del linguaggio dei suoi zelanti esternatori del nulla. Rintuzzi le dichiarazioni più sconsiderate, l'urlo di chi reagisce con la disperazione delle parole all'incubo di una sconfitta dolorosa. Per il bene del centrodestra, dica ai suoi che perdere non significa necessariamente perdere malissimo, dando di sé l'immagine peggiore e più squilibrata. Più odiosa, addirittura.

Dica che è insensato che i ministri sparacchino sui precari. Che i dichiaratori professionali alla Stracquadanio attribuiscano la sconfitta referendaria ai perditempo di sinistra che gironzolano per il Web. Che l'intimazione a spostare i ministeri al Nord non incanta nemmeno più il deluso elettorato leghista. Se il centrodestra pensasse di compensare il dolore aspro della sconfitta con la rincorsa alle parole meno sorvegliate, commetterebbe l'ennesimo errore catastrofico. A Milano, tra il primo e il secondo turno, il centrodestra si è abbandonato all'estro dell'oltranzismo verbale: gli ululati su «zingaropoli», le orde di musulmani che espugnano il Duomo, il terrorismo anni Settanta addirittura. Si è visto come è finita: con l'apocalisse, degna conclusione di una maratona verbale cominciata con l'equiparazione dei magistrati alle Br.

È probabile che il destino del berlusconismo sia segnato. Ma non è obbligatorio che la fine venga vissuta con un cupio dissolvi che fa paura e disorienta persino l'elettorato più caparbio del centrodestra. Non è necessario che tutto si riduca a barzelletta, alle battute che vorrebbero ostentare disinvoltura ma denunciano soltanto angoscia per un imminente de profundis. Lo dica, il leader del centrodestra, ai suoi. Dica al ministro Maroni che è legittimo dissociarsi apertamente e lealmente dall'azione militare in Libia, ma non dare l'impressione, per ingraziarsi il frastornato elettorato leghista, di non saper stare responsabilmente in un'alleanza internazionale e di non stare dalla parte dei nostri militari che rischiano la vita sui cieli di Tripoli. Lo dica a se stesso, il premier, tutte le volte che viene travolto dalla sciagurata tentazione di giocare in occasioni ufficiali sul «bunga bunga» in presenza di attoniti capi di Stato stranieri, come è accaduto l'altro giorno con il premier israeliano.

Il linguaggio è importante, non è un orpello stilistico: è il marchio che certifica l'affidabilità di un progetto politico. E se quel che resta del progetto politico del centrodestra venisse sepolto da un linguaggio prigioniero dell'estremismo e della provocazione dissennata, la sconfitta, oltre che amara, sarebbe l'annuncio, sempre più cupo, dell'ultimo disastro.

Pierluigi Battista

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« Risposta #74 inserito:: Luglio 09, 2011, 04:59:48 pm »


Il commento

Salvate almeno le forme


Non bastano le rettifiche imbarazzate, le scuse e gli abbracci dopo le gaffes, le smentite tardive, le retromarce, per constatare come nella compagine di governo oggi scarseggino addirittura i prerequisiti minimi della lealtà reciproca. E non nell'ordinaria amministrazione. Ma nel fuoco di una manovra economica che, oltre ai numeri e alle cifre, dovrebbe trasmettere al mondo e all'opinione pubblica un'immagine di credibilità. Una credibilità che, in queste condizioni, appare però sempre più evanescente e controversa.

Due anni così, e così malamente vissuti, sarebbero letali. Per tutti. Per il governo, per la politica, per gli italiani. I contrasti tra il premier e il ministro dell'Economia hanno raggiunto livelli di asprezza in grado di oltrepassare il racconto dei più maliziosi retroscenisti della politica. L'inserimento furtivo della cosiddetta norma «salva-Fininvest» è stato il detonatore di uno scontro che ora non conosce nemmeno le regole del fair play, tra battute pubbliche cruente («chiedetelo a Letta») e chiamate di correità («Tremonti sapeva») che rendono sempre più problematico persino lo stare insieme di personalità così distanti nello stesso governo. Il clima tra i ministri si è fatto tossico e irrespirabile. Non servirebbero nemmeno più le intercettazioni telefoniche o i fuori onda per rivelare, con gli sguardi, con la mimica dell'insopportazione e con le dichiarazioni incendiarie degli stessi ministri, in quale palude avvelenata di sospetti, fastidi reciproci, antipatie incrociate, gelosie e irritazioni stia sprofondando la comunità di un governo che dovrebbe comunicare agli italiani i segnali di un minimo di compattezza e, per usare una parola molto cara ma molto abusata nel centrodestra in crisi, di «responsabilità».

Le recenti disfatte elettorali e referendarie hanno innescato un vortice di accuse per additare all'opinione pubblica il capro espiatorio colpevole di tutte le sconfitte. L'unanimità raggiunta per la nomina di Alfano a segretario del Pdl si sfarina al primo contatto con la realtà delle decisioni impopolari e delle manovre lacrime e sangue. L'elettorato del centrodestra è deluso, irato, frastornato. La pillola dell'inasprimento fiscale dovrebbe essere, se non addolcita, almeno resa digeribile da comportamenti rigorosi, che riflettano il senso di una difficoltà comune e di sacrifici condivisi. Invece si rilancia, tra allusioni e mezze ammissioni, il gioco dell'eventuale ripresentazione parlamentare della norma che favorirebbe le aziende del premier.

E tutto malgrado l'opposizione esplicita della Lega, l'imbarazzo crescente di una parte della maggioranza, l'impopolarità assoluta di un provvedimento che appare tanto più legato alle «cose» del capo del governo quanto più la coalizione di maggioranza si dimostra insensibile alle cose pubbliche bocciando inopinatamente, con l'avallo autolesionistico del Pd, i risparmi cospicui che potrebbero giungere dall'abolizione delle Province.

La crisi e l'instabilità cronica di una coalizione, di un leader, di un governo sono oramai esplicite e, con ogni probabilità, irreversibili. Il vivacchiamento, il tirare a campare, per di più condito da una violenza dei rapporti tra gli stessi ministri che non ha quasi precedenti nella storia repubblicana, raffigurano lo scenario peggiore, proprio mentre la manovra economica chiede agli italiani uno sforzo notevole, pesantissimo in una condizione sociale ed economica già sfiancata dalla crisi degli ultimi anni. Un soprassalto di serietà, oppure la presa d'atto di un'esperienza finita e di una nuova consultazione popolare. Tutto, tranne le liti puerili in un governo che non riesce più a governare.

Pierluigi Battista

08 luglio 2011 07:46
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