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Autore Discussione: MASSIMO GIANNINI  (Letto 166831 volte)
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« Risposta #270 inserito:: Marzo 04, 2013, 06:20:30 pm »

Da Mps a La7. Quei Passeri sul filo del telegrafo

MASSIMO GIANNINI

Osservi il fondo del pozzo italiano, la crisi atroce di governabilità che paralizza il Paese, le procedure che regolano i passaggi istituzionali, i riti che scandiscono il confronto politico, e non puoi fare a meno di pensare al solito Koestler di "Schiuma della terra": passeri cinguettano sui fili del telegrafo, mentre il telegrafo trasmette telegrammi con l'ordine di uccidere tutti i passeri...

L'Italia sgovernata aspetta il 15 marzo per l'avvio delle consultazioni al Quirinale, mentre sui mercati sono pronti a scatenare l'inferno.
Dopo il voto l'impennata degli spread ci è costato 80 milioni, le ultime due aste di Bot e Btp scontano già un aumento dei rendimenti e un calo della domanda, il Tesoro trema in vista della doppia asta di buoni a breve e a mediolungo del 13 e 14 marzo, e del totale di 273 miliardi di titoli di Stato da collocare nell'intero 2013. L'ordine già corre sui fili. Ma i passeri, placidi e ignari, sono sempre lì che cinguettano.

****

Guardi il buco nero del Montepaschi, lo stillicidio di inchieste e di nuovi capi d'imputazione che riguardano i vecchi vertici della banca, i conti in affanno, il rischio di fuga dei depositanti, il Tesoro che deve affrettarsi a staccare l'assegno dei Monti bond, e non puoi fare a meno di pensare agli stessi fili del telegrafo, e agli stessi passeri che ci zampettano sopra, in attesa dell'inevitabile esecuzione. Non paghi dei disastri già combinati in questi anni di socialismo municipale, i "grandi elettori" della Fondazione Mps si scontrano su come deve cambiare lo statuto, e su quante delle sedici poltrone in lizza si dovranno spartire in futuro il Comune, la Provincia, l'Università e la Curia di Siena dentro la Deputazione Mps. Non gli è bastato il bagno di fango delle elezioni di lunedì scorso nella città del Palio, dove la sinistra è colata a picco. La banca affonda per colpa loro. Ma i passeri, arroganti e incoscienti, sono sempre lì che litigano.

****

Consideri la penosa telenovela della tv italiana, beauty contest coraggiosamente cancellato e gare sulle frequenze falsamente annunciate, finte vendite di La7 in campagna elettorale e continui stop and go a ridosso del voto, offerte vere o presunte di qualche "campione nazionale" ed aste chiuse poi aperte poi richiuse ora forse riaperte, e non puoi fare a meno di pensare alle chiacchiere e alle occasioni perdute di questi ultimi mesi.

Bisognava tagliare le ali a Sua Emittenza il Cavaliere, allo strapotere del suo impero pubblico-privato. Bisognava stroncare il gigantesco conflitto di interessi televisivi che lo avviluppa, da presidente del Consiglio come da capo dell'opposizione. E invece tutto finisce in gloria dei suoi amici, vicini o lontani, Cairo o Sposito che siano. Altri Passeri, delusi e silenziosi, sono sempre lì che aspettano.

m.giannini@repubblica.it

(04 marzo 2013) © Riproduzione riservata

DA - http://www.repubblica.it/rubriche/polis/2013/03/04/news/da_mps_a_la7_quei_passeri_sul_filo_del_telegrafo-53827583/
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« Risposta #271 inserito:: Marzo 13, 2013, 11:32:46 am »

Un premio ai sediziosi

di MASSIMO GIANNINI

C'E' RIMASTO solo un faro, a illuminare questa lunga notte della Repubblica. Negli ultimi giorni del suo settennato, Giorgio Napolitano deve guidare il Paese fuori dalla crisi. Il "peso" di questa consapevolezza ispira ogni riga del comunicato con il quale il Capo dello Stato invita la politica e la magistratura a ritrovare il senso della "comune responsabilità istituzionale", in uno dei tornanti più critici della storia repubblicana. Ma questa volta l'appello del Colle, insieme alla condivisione istituzionale, riflette una "sproporzione" politica.

La condivisione istituzionale è ovvia. In un'Italia lacerata dal conflitto permanente tra i poteri dello Stato, innescato negli anni Novanta da Tangentopoli ed esasperato nel quasi Ventennio berlusconiano dalle torsioni cesariste del Cavaliere, il "ristabilimento di un clima corretto e costruttivo nei rapporti tra politica e giustizia" è davvero il minimo che si possa esigere. Napolitano non si è mai stancato di chiederlo, con equilibrio e con determinazione, nell'intera traiettoria del suo mandato. Che ci riprovi oggi è logico e giusto.

È giusto invocare che politici e magistrati non si percepiscano come "mondi ostili". È giusto pretendere che si evitino "tensioni destabilizzanti per il nostro sistema democratico", vista soprattutto "l'estrema importanza e delicatezza degli adempimenti istituzionali che stanno venendo a scadenza". È giusto ricordare al Cavaliere e ai "caimani" in grisaglia schierati davanti al tribunale di Milano che nessuna "investitura popolare ricevuta" può esonerare un politico dal "più severo controllo di legalità", che è e deve restare "un imperativo assoluto per la salute della Repubblica". Ed è altrettanto giusto rammentare ai magistrati che non si devono mai sentire depositari di "missioni improprie", ma devono limitarsi al rispetto scrupoloso dei "principi del giusto processo sanciti dal 1999 nell'articolo 111 della Costituzione".

Parole incontestabili. Suggerite dal buon senso e dal senso dello Stato. Ma Napolitano non si ferma qui. Questa volta pronuncia altre parole, che nella contesa in atto tra la "destra di piazza" e la magistratura configurano un'evidente sproporzione politica. Il presidente della Repubblica, sia pur respingendo quasi con disprezzo "l'aberrante ipotesi" del complotto delle toghe rosse evocato dal Cavaliere e dalle sue truppe cammellate, giudica "comprensibile" la preoccupazione del Pdl di "veder garantito che il suo leader possa partecipare adeguatamente alla complessa fase politico-istituzionale già in pieno svolgimento".

Il movente che spinge Napolitano ad accogliere questa "preoccupazione" è chiaro. Di qui alla metà di aprile si susseguiranno appuntamenti fondamentali, per trovare una via d'uscita dalla crisi. L'insediamento delle nuove Camere, l'avvio delle consultazioni, l'elezione dei presidenti dei due rami del Parlamento. Il messaggio implicito ai giudici che stanno indagando o processando Berlusconi è il seguente: fate in modo che gli appuntamenti giudiziari che lo riguardano non intralcino o non si sovrappongano con queste scadenze, dal buon esito delle quali dipendono le sorti politiche della nazione.

L'effetto pratico di questo "monito" è rilevante. Nei fatti, è come riconoscere al Cavaliere un "legittimo impedimento" automatico, o un "Lodo Alfano" provvisorio, che da qui ai prossimi mesi gli fa scudo ai processi nei quali è ancora coinvolto, e dai quali ancora sistematicamente si sottrae, non più nella sua veste di presidente del Consiglio, ma in quella di leader "dello schieramento che è risultato secondo, a breve distanza dal primo, nelle elezioni del 24 febbraio".

L'effetto politico è ancora più eclatante. E non è un caso che gli "arditi" del Pdl, appena rientrati dalla "marcia su Milano", ora festeggino il comunicato del Colle. Gli "atti sediziosi" di questa destra italiana, pronta a sfidare un Palazzo di giustizia per salvare il suo leader dai "giudici-cancro da estirpare", non solo non vengono sanzionati come meriterebbero. Ma alla fine risultano addirittura premiati. Il comunicato del Quirinale arriva il giorno dopo quella che Christopher Lasch definirebbe un'impensabile "rivolta delle élite". Un "assedio" simbolico, ma fino a un certo punto, di un gruppo di eletti del popolo che si ribellano contro un potere dello Stato. Un fatto enorme, mai accaduto dal 1948 ad oggi, che avrebbe dovuto sollevare una reazione sdegnata di tutte le istituzioni e di tutte le forze politiche.

E invece il presidente della Repubblica ha ricevuto una delegazione del Pdl guidata da Alfano, salito sul Colle per chiedere provvedimenti punitivi contro la magistratura e per annunciare altrimenti l'Aventino della destra. Quasi un ricatto, al Paese e alle sue istituzioni. Comunque un "atto di forza" intollerabile, che andava respinto con sdegno e con altrettanto forza. E che invece ha raggiunto il suo scopo. Assicurare un improprio "salvacondotto" a un cittadino che, per quanto "popolare", è e dovrebbe essere uguale a tutti gli altri di fronte alla legge. Rilanciare il padre-padrone di questa destra, impresentabile perché irresponsabile, dentro uno schema politico che ora gli consente persino di rivendicare il Quirinale, oltre che di giocare a viso aperto la partita delle "larghe intese". Nel silenzio, assordante e colpevole, della sinistra e del Pd, che difende il suo fortino mentre i vecchi "arci-nemici" e i nuovi "falsi-amici" saccheggiano quel che resta dell'Italia.

m.giannini@repubblica.it

(13 marzo 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/03/13/news/premio_sediziosi-54438056/?ref=HRER1-1
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« Risposta #272 inserito:: Marzo 14, 2013, 03:50:03 pm »

I veri sediziosi

di MASSIMO GIANNINI

RINGRAZIAMO il Presidente della Repubblica per la sua lettera. Non dubitiamo che la delegazione del Pdl salita al Quirinale non abbia formulato richieste di "impropri interventi". Tuttavia la necessità di "provvedimenti punitivi contro la magistratura " e il preannuncio di un "Aventino della destra" erano stati già espressi pubblicamente più volte dai dirigenti del Pdl, e per giorni hanno fatto da sfondo all'incontro concesso dal Presidente all'onorevole Alfano.

Diamo atto al Capo dello Stato delle sue "vibrate reazioni espresse direttamente ai principali esponenti del Pdl" per la loro marcia sul tribunale di Milano. E ci rallegriamo che il Presidente, dopo essersi limitato a giudicare quella manifestazione "senza precedenti" nel comunicato di due giorni fa, nella lettera a Repubblica aggiunga ora "per la sua gravità".

Quanto al riconoscimento a Berlusconi di un "legittimo impedimento automatico", prendiamo atto delle parole del Capo dello Stato: "nessuno scudo". E' un'affermazione importante, perché a leggere il comunicato dell'altroieri l'impressione che Berlusconi e la destra avrebbero potuto interpretare le parole del Presidente come una sconfessione per la magistratura e un "salvacondotto" per il Cavaliere era fortissima. La prova, purtroppo, sta nelle reazioni odierne di tutto il Pdl (a partire da Ghedini) e nell'intervista di Berlusconi a Panorama.

Invece di accogliere l'appello a ritrovare "il senso del limite e della misura", il Cavaliere torna ad attaccare le toghe e a contraddire il Quirinale. Napolitano considera "aberrante" la teoria del complotto giudiziario, Berlusconi la rilancia evocando una "operazione Craxi 2" contro di lui.

Sappiamo bene che anche la magistratura commette i suoi errori. Ma con "rigore e zelo", e con il rispetto dovuto alla più alta carica dello Stato, continuiamo ad avere un'idea molto precisa su chi siano i veri "sediziosi".

(14 marzo 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/03/14/news/veri_sediziosi-54521585/?ref=HRER3-1
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« Risposta #273 inserito:: Marzo 22, 2013, 06:26:52 pm »

La strada stretta

di MASSIMO GIANNINI


La missione che oggi il Capo dello Stato affiderà a Bersani è ai limiti del temerario. Costruire la Terza Repubblica su una piccola maggioranza "da combattimento" e due grandi minoranze "di blocco". Il leader del Pd deve tentare un "governo strano", che per nascere ha bisogno di non essere sfiduciato dal Pdl e per durare ha bisogno di non essere impallinato dall'M5S. Un'equazione quasi impossibile, per l'aritmetica e per la politica. Ma l'unica in campo, per evitare il ritorno alle urne.

Al termine di un giro di consultazioni che non sono bastate a diradare i "banchi di nebbia" paventati fin dall'inizio dal presidente della Repubblica, è logico e giusto che Napolitano dia l'incarico a Bersani, sia pure con riserva. Ed è logico e giusto che lui ci voglia provare: è pur sempre il "vincitore-sconfitto" nel voto del 24 febbraio. In questa veste (già di per sé molto scomoda) la strada che il segretario dei democratici deve percorrere si fa sempre più stretta e pericolosa. Si muove tra due paletti, resi espliciti dall'esito degli incontri al Quirinale.

Il primo paletto è interno: il Pd è indisponibile a ogni ipotesi di coalizione o forma di alleanza, palese od occulta, con il Pdl: dunque ribadisce il suo no pregiudiziale alle larghe intese riproposte da Berlusconi, "pillole avvelenate" che il Cavaliere prova ad offrire al centrosinistra, con l'unico obiettivo di rientrare in un gioco politico dal quale al momento è escluso. Il secondo paletto è esterno: Beppe Grillo è indisponibile a ogni ipotesi di fiducia o forma di sostegno, palese od occulto, a un governo diverso da quello guidato dal suo stesso non-partito: dunque il Movimento 5Stelle ribadisce la sua vocazione "totalitaria" e si rifiuta di condividere con qualunque altra forza politica le insegne del cambiamento, di cui si ritiene unico proprietario o intestatario.

Con questi vincoli, quello che da oggi è il nuovo "presidente incaricato" prova a mettere in piedi un governo non auto-sufficiente, che non può contare su una maggioranza pre-costituita, ma che deve tentare di costituirla con il metodo delle geometrie variabili. Queste geometrie vanno ricercate su due piani diversi.

C'è un piano politico, che si articola sulla necessità di far fronte all'emergenza della crisi (allentando la morsa del rigore fiscale, ridando liquidità al sistema delle imprese, sbloccando gli investimenti degli enti locali) e alla questione morale (varando una legge severa contro la corruzione e tagliando i costi della "casta"). Su questi temi la convergenza in Parlamento non è legata alle pregiudiziali tattiche, ma è dettata dalle posizioni "ideologiche": una seria legge sul finanziamento ai partiti potrà forse contare sulla stampella di Grillo, mentre una vera legge sul conflitto di interessi escluderà automaticamente Berlusconi dal perimetro della maggioranza.

C'è poi un piano istituzionale, che si articola sulla necessità di riscrivere la legge elettorale, sul dimezzamento del numero dei parlamentari e sulla creazione di un Senato delle autonomie. Riforme largamente condivise, almeno sulla carta, che a parte la prima devono passare attraverso l'iter della revisione costituzionale fissata dall'articolo 138, e che dunque devono essere approvate con la maggioranza dei due terzi. E qui Bersani deve necessariamente puntare a una convergenza trasversale e più ampia, "per il bene del Paese". Ma per poter attuare queste riforme di sistema, avvertite come urgenti da tutti, nel Palazzo e nel Paese, è necessario che il governo guidato dal leader del Pd possa vedere la luce, e dunque ottenga una fiducia, o quanto meno una "non sfiducia", in Parlamento.

Il ragionamento del leader è chiaro: chi si chiama fuori, a questo punto, si assume la responsabilità di impedire che l'Italia possa uscire dalla palude nella quale sta sprofondando. Chi affonda il suo "governo del cambiamento" si assume la responsabilità di portare il Paese esattamente dove nessuno (tranne Grillo e Casaleggio) sembra disposto ad andare: e cioè verso nuove elezioni. Con lo stesso orribile Porcellum che produce solo ingovernabilità, e senza le misure che possono tamponare la recessione, arginare la povertà e fermare la tragica emorragia di posti di lavoro.

Il "piano A" del leader del centrosinistra è lodevole. Ma oggettivamente ha un solo punto di forza: è l'unica soluzione in campo, prima di risciogliere nuovamente le Camere e tornare ancora una volta alle urne. Il gioco dei veti incrociati e delle reciproche incompatibilità sembra aver già bruciato tutti i possibili piani B, C o D. Governi tecnici o istituzionali, governi del presidente o dell'esploratore: ormai tutte le alternative sembrano precluse. Dalla logica ferrea dei numeri, dall'irriducibile irredentismo dei grillini o dall'irresponsabile tatticismo del Cavaliere.

Non osiamo nemmeno immaginare quali contropartite potrebbe pretendere Berlusconi (a partire proprio dall'elezione del successore di Napolitano sul Colle) per non intralciare il cammino di Bersani. Già basta questo, per capire quanto sia rischioso e accidentato il sentiero che dovrebbe portare il Pd a Palazzo Chigi. Stavolta in gioco, oltre al governo del Paese, c'è il destino della sinistra italiana.
m.giannini@repubblica.it

(22 marzo 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/03/22/news/la_strada_stretta-55093414/?ref=HREA-1
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« Risposta #274 inserito:: Marzo 26, 2013, 11:24:37 pm »

La paga dei leader e la lezione di Peres

Massimo GIANNINI


In una lezione al Workshop Ambrosetti a Villa d’Este, nel settembre 2012, Shimon Peres spiega come sta cambiando la natura delle leadership nel mondo globale. La delegittimazione delle classi dirigenti, indotta da una crisi senza precedenti, diffonde nei popoli l’impressione che il mondo stia diventando «non governato». Chi dovrebbe farlo, a tutti i livelli, non solo non sa offrire risposte, ma spesso non sa nemmeno «quali sono le domande». Alcune grandi aziende globali sembrano poter supplire a questa vuoto, stimolando nei cittadini domande (di consumo) per le quali hanno già pronte le risposte (di prodotto). Ma questo non può bastare, a rilegittimare le leadership. Né di chi governa un Paese, né di chi guida un’azienda. Secondo Peres, serve un radicale mutamento di orizzonte delle elite. «Oggi, se un leader vuole essere accettato e dunque popolare, deve servire, non governare...». Tornano in mente queste parole dell’ex statista israeliano, buone per la politica e l’economia, leggendo da un lato i dati Confcommercio sul crollo del Pil, che fa crescere oltre quota 4 milioni il numero dei nuovi poveri, e dall’altro lato l’accordo raggiunto in sede Ue per «salvare» ancora i bonus milionari dei banchieri. Due scandali della democrazia. Dimostrano l’insostenibilità di un’ineguaglianza sociale che può degenerare anche in un Paese storicamente abituato ai compromessi al ribasso. Con quale sprezzo del ridicolo Consiglio Ue e Parlamento di Strasburgo hanno concordato di prorogare di un altro anno, dal 2013 al 2014, l’entrata in vigore del tetto ai compenso dei manager in servizio presso le banche di Eurolandia? Come si può non vedere che se un ceo «merita» un assegno annuale pari a 200, 300 o 400 volte lo stipendio di un suo dipendente, prima o poi il sistema collassa? Come abbiamo raccontato su Affari&Finanza dell’11 marzo, funziona così ovunque, bene o male che vadano le aziende. Vale in Europa, dove alla Barclays l’ad Bob Diamond nel 2011 ha incassato 17,5 milioni di sterline, mentre il capo dell’investment banking Rich Ricci ha portato a casa quasi 18 milioni di sterline. Ma vale anche in Italia. E non c’è bisogno di rievocare le vergogne della razza predona (come l’ex dg di Mps Antonio Vigni che nel 2011, mentre la banca perdeva 4,6 miliardi, intascava ben 5,4 milioni). Basta fermarsi ai gioielli della finanza che fa utili: per esempio le Generali, dove l’ex ceo Giovanni Perissinotto è stato rimosso dagli azionisti con un «premio» da 11,6 milioni, mentre al suo successore Mario Greco è stato appena riconosciuto un bonus da 1,8 milioni per i soli primi cinque mesi del 2012. «Indignatevi!», ammoniva Stéphane Hessel. Provate a dargli ancora torto, adesso.
m.giannini@repubblica.it

(25 marzo 2013) © Riproduzione riservata

DA - http://www.repubblica.it/rubriche/polis/2013/03/25/news/la_paga_dei_leader_e_la_lezione_di_peres-55313443/
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« Risposta #275 inserito:: Aprile 09, 2013, 11:26:11 am »

   
Il compromesso antistorico

di MASSIMO GIANNINI


A POCHI giorni dalla scadenza del suo settennato, Napolitano non rinuncia ad inoculare dosi massicce di pedagogia istituzionale in un sistema politico malato. Non si rassegna al tri-polarismo bloccato che paralizza il Paese e al grillismo arrabbiato che occupa il Parlamento. Invoca le "larghe intese" tra Pd e Pdl. Sbocco normale, in qualunque altra democrazia europea. "Compromesso antistorico", nell'Italia di oggi.

È vero. Nella teoria, un accordo programmatico pieno tra sinistra e destra sarebbe il miglior antidoto per curare i mali del Paese, spurgarne i veleni politici e lenirne i disagi sociali. Sarebbe la formula più proficua per rimettere in moto l'economia e riaprire il cantiere delle riforme costituzionali. Sarebbe l'argine più efficace per fermare l'onda a Cinque Stelle, che si nutre degli immobilismi parlamentari e dei bizantinismi regolamentari, si ingrossa con il disprezzo del professionismo politico inteso come male assoluto, si alimenta della teoria semplicistica di Jackson (su cui si è fondato lo spoil system americano) e quella rivoluzionaria di Lenin (imperniata sull'idea che anche una semplice cuoca può fare il capo dello Stato).

Ma, nella pratica, l'esperimento che riuscì nel 1976, quando Dc e Pci si accordarono per far nascere il terzo governo Andreotti, non è in alcun modo ripetibile. Le analogie storiche non reggono. Le condizioni politiche non esistono. È comprensibile che il presidente, per motivi di biografia politica e personale, sia rimasto legato a quel pezzo di Storia repubblicana, che vide un'Italia ferita a morte reagire e risollevarsi, in mezzo al piombo delle Brigate Rosse, lo scandalo Lockheed e una crisi economica pesantissima.

È quasi inutile ricordare quello che Napolitano già sa meglio di chiunque altro. Quel monocolore democristiano di trentasette anni fa, che si resse sulla "non sfiducia" del partito comunista (oltre che del Psi, del Psdi, del Pli e del Pri) nacque grazie alla riflessione e all'elaborazione politica di due leader della statura di Aldo Moro e di Enrico Berlinguer. Fu la tappa intermedia di un percorso iniziato nel '74 con il progetto berlingueriano del "compromesso storico", e culminato nel '78 nell'approdo moroteo del governo di "solidarietà nazionale" (nato proprio cinque giorni prima del tragico rapimento di Via Fani).

Bersani non è Berlinguer, e su questo non ci sono dubbi. Ma quello che conta di più, in questo parallelismo storico improprio e improponibile, è che Berlusconi non è Moro. Un abisso incommensurabile, umano, culturale e politico, separa lo statista di Maglie dall'uomo di Arcore. Non c'è accostamento possibile tra la filosofia con la quale Moro propiziò le "larghe intese" nel '76 e l'idolatria con la quale Berlusconi propugna adesso la "grande coalizione". Il primo aveva un progetto generale, che puntava a sciogliere la democrazia bloccata di quella lunga stagione di Guerra Fredda unendo temporaneamente le forze dei due grandi partiti di massa. Il secondo ha un obiettivo individuale, che punta a barattare la formazione del governo con l'elezione del presidente della Repubblica, la trattativa sulle riforme con il suo salvacondotto giudiziario.

Lasciamo stare per un momento la parabola populista, cesarista e tecnicamente rivoluzionaria del Cavaliere che ha caratterizzato il suo quasi Ventennio. Mettiamo da parte il suo gigantesco conflitto di interessi, la sua campagna forsennata contro i magistrati condotta dalla trincea di Palazzo Chigi, la sua propensione a far saltare tutti i tavoli, dalla Bicamerale in poi. Torniamo al parallelismo tra lo schema moroteo dell'epoca e il proposito berlusconiano di oggi. Moro, con i suoi limiti e i suoi occhi chiusi sulle nefandezze del suo segretario Freato e dei capibastone delle correnti scudocrociate, chiese al suo partito di "non aver paura di avere coraggio", e quel coraggio lo pagò con la vita. Oggi l'unico coraggio del Cavaliere è quello del ricatto: il sostegno a "un governo Bersani", ma all'unica condizione che al Quirinale vada lui stesso o, in subordine, Gianni Letta.

Non basta tutto questo a considerare Berlusconi un alleato impossibile per chiunque? Questa consapevolezza, per gli eletti e gli elettori del centrosinistra, non significa che con il Cavaliere non si debba nemmeno parlare. Ha ragione Dario Franceschini, quando sostiene che l'avversario non si sceglie, perché lo hanno già scelto gli italiani. Dunque il dialogo è essenziale. Purché, in questo tempo sospeso delle istituzioni, serva a individuare un metodo per far ripartire l'orologio dei poteri dello Stato, dall'esecutivo al legislativo. E prima ancora ad eleggere un presidente della Repubblica, dotato di tutte le prerogative e gli strumenti che la Costituzione gli assegna.

Se serve a questo e solo a questo, e quindi non a negoziare patti scellerati di altra natura o merci di scambio contro-natura, l'incontro tra Bersani e Berlusconi non è solo opportuno ma è doveroso. Se invece tra i partiti c'è ancora chi si culla nel sogno del "compromesso antistorico", farà bene a svegliarsi in fretta, e ad acconciarsi ad un rapido ritorno alle urne. Il governo Monti ci ha momentaneamente salvato dalla bancarotta. Ma il suo evidente insuccesso sulle riforme di sistema sta lì a dimostrare che la "grande coalizione" all'italiana, e alla berlusconiana, non funzionerà mai.

m.giannini@repubblica.it

(09 aprile 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/04/09/news/il_compromesso_antistorico-56245827/?ref=HREA-1
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« Risposta #276 inserito:: Aprile 09, 2013, 05:47:48 pm »

Se Telecom gioca alle ombre cinesi

Massimo Giannini

Le ombre cinesi su Telecom Italia non fanno paura. Dopo tanti piani velleitari, parecchi giri di valzer e qualche ballon d'essai, la trattativa con H3G è l'affare più convincente che si profila all'orizzonte. Il cda di giovedì prossimo, per Franco Bernabè, può essere davvero la "telefonata che ti allunga la vita". Ma più che il destino del ceo, di fatto quasi sfiduciato dai suoi stessi azionisti, c'è in gioco il futuro del gigante italiano della telefonia. Stavolta non si scherza. Il primo a capirlo è stato Mario Greco, ad delle Generali, che ha suonato la campanella di fine-ricreazione. "Non esistono partecipazioni strategiche": lo ha detto, lo sta mettendo in pratica. E si parte proprio da Telco, dove il Leone di Trieste potrebbe sfilarsi. Mediobanca non può far finta di niente: Alberto Nagel, a prescindere dalla disavventura con i Ligresti, è a sua volta impegnato in un processo di rinnovamento e riposizionamento che parte da Bpm e quindi potrebbe coinvolgere anche la cassaforte in cui è custodita Telecom. Dal punto di vista finanziario ci sarà modo e tempo per giudicare l'impatto dell'operazione. Certo un concambio tarato ai valori di Borsa attuali non è realistico. Questo vale tanto per 3 Italia (valutata 2 miliardi) quanto a maggior ragione per Telecom (che ora ne vale poco più di 10). Si vedrà. Ma intanto è l'aspetto industriale dell'eventuale matrimonio che sembra avere una sua logica. Il partner cinese è uno dei più forti e dei più liquidi a livello mondiale. Non ha alcun interesse né per affari "mordi e fuggi" (sul modello Sawiris) né per alleanze "di blocco" (sul modello Telefonica). Naturalmente, per consentire l'ingresso di un socio estero, tanto più se "extra. comunitario", è necessario sbrigliare prima il groviglio della rete, che a quel punto andrebbe affidata a mani sicure rigorosamente italiane. Il dossier Cassa Depositi e Prestiti non è il massimo, ma gestito in questa ottica sarebbe accettabile. Naturalmente dovrebbe trattarsi di uno scorporo integrale, e funzionale all'utilizzo dell'infrastruttura da parte di tutti gli operatori, in un regime di tariffe finalmente concorrenziali. Scorporata la rete, una Telecom finalmente alleggerita dai debiti (che oggi superano i 28 miliardi) potrebbe convolare a nozze con H3G. E il nuovo socio "straniero" potrebbe fare tutto quello che Telefonica non ha mai voluto fare: cioè lanciare Telecom nella sfida del mercato globale delle tlc, uscendo dal perimetro di un mercato domestico ormai saturo e sempre più asfittico. È stato il paradosso di questi anni: gli spagnoli hanno allungato le mani su Telecom solo per impedirgli di crescere dov'era più forte, cioè in Sud America. Un paradosso che la creazione di Telco ha cristallizzato e reso strutturale. Per questo, oggi, tocca proprio ai soci della holding sciogliere l'"abbraccio mortale".
m.giannini@repubblica.it

(08 aprile 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/rubriche/polis/2013/04/08/news/se_telecom_gioca_alle_ombre_cinesi-56183885/
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« Risposta #277 inserito:: Aprile 18, 2013, 06:17:18 pm »

Il metodo sbagliato

di MASSIMO GIANNINI

L'UOMO del Colle è Franco Marini. L'ex leader storico della Cisl è dunque la figura super partes che, in continuità con il settennato di Napolitano, può rappresentare "l'unità nazionale". Una decisione sofferta, maturata nello schema delle "larghe intese" tra Pd e Pdl. Pierluigi Bersani la saluta come "una scelta di responsabilità", perché anche Marini può essere "il presidente di tutti". Silvio Berlusconi la benedice come una "buona candidatura", perché Marini "è persona del popolo". Hanno ragione tutti e due. Ma la somma non fa l'intero. Questo compromesso bipartisan tradisce le attese che il segretario del Pd aveva alimentato parlando di una "carta a sorpresa" sul modello Boldrini-Grasso alla Camera e al Senato.

Sul Quirinale è invece tornata la vecchia logica. Meno innovativa e più conservativa. Il problema non è il "merito" della scelta. Marini è persona degnissima e non merita di finire nel tritacarne nel quale rischiano di precipitarlo le comprensibili resistenze di un bel pezzo della sua stessa costituency. Il problema è il metodo con il quale si è arrivati alla scelta, che chiama in causa i rapporti di forza tra centrosinistra e centrodestra. E, insieme al metodo, c'è un problema politico, che interroga direttamente il Pd, il suo rapporto con il Paese e il suo orizzonte culturale e identitario.

Nel merito, Marini merita il massimo rispetto. La sua storia personale parla per lui. Esponente della sinistra sociale della Dc di Donat Cattin, democratico sincero e antifascista convinto. Segretario generale della Cisl ai tempi di Lama e Benvenuto, presidente del Senato, poi senatore. Non è sospettabile di cedevolezze, sulla linea del Piave della difesa della Costituzione e dei poteri dello Stato, sistematicamente attaccati e delegittimati nel quasi Ventennio berlusconiano. Uomo di esperienza politica collaudata, e oltre tutto con il cuore e il cervello immersi da sempre nel corpo vivo della società italiana, che soffre i morsi della recessione e della disoccupazione. Chi meglio di lui, dall'alto dell'istituzione più rappresentativa della Repubblica, può interpretare i bisogni e i disagi del Paese reale, travolto dalla crisi globale?

Nel metodo, Bersani aveva di fronte a sé una strada maestra. Da vincitore virtuale delle elezioni, aveva il diritto- dovere di fare un nome degno, di sicura sensibilità istituzionale e costituzionale, individuato preferibilmente al di fuori dalla nomenklatura di partito. Aveva il diritto-dovere di presentare quel nome agli italiani, di offrirlo e di spiegarlo come fattore di coesione e di garanzia, per tutti i cittadini e per tutte le forze politiche. Aveva il diritto-dovere di chiedere, su quel nome, il voto unanime dei gruppi parlamentari. Con un percorso aperto, lineare, trasparente. Che parlasse al Paese, molto più che al Palazzo.

Il leader del Pd ha imboccato invece un'altra via. Infinitamente più tortuosa, contraddittoria e a tratti incomprensibile. E a un giorno dall'inizio del voto dei Grandi Elettori, con una sorprendente rinuncia all'esercizio della leadership, ha inopinatamente consegnato la decisione finale nelle mani di Berlusconi, sottoponendogli non un nome, ma una rosa. Così il Cavaliere ha potuto scegliere la soluzione per lui più vantaggiosa, lucrando una golden share sul settennato impropria e immeritata rispetto ai numeri e ai rapporti di forza tra i due poli.

Non è tutto. Dopo la mossa vincente e convincente sui nuovi presidenti di Camera e Senato, Bersani aveva anche indicato i due requisiti fondamentali per la selezione del nuovo Capo dello Stato. "Competenza" e "cambiamento": queste erano le password che avrebbero aperto le porte del Colle al nuovo inquilino. Qui c'è uno scarto visibile tra obiettivo e risultato. Marini ha certamente grande competenza (anche se, per usare il linguaggio dei costituzionalisti,
non ha alle spalle né standing internazionale né expertise da grande "meccanico nell'officina delle istituzioni "). Ma in tutta onestà non si può affermare che Marini rappresenti il "cambiamento". Può darsi che Matteo Renzi abbia torto, quando sostiene che è "uomo del secolo scorso". Tuttavia ha qualche ragione quando aggiunge che la sua candidatura è "uno schiaffo al Paese", che invoca inutilmente la rifondazione della politica e il ricambio delle classi dirigenti. Non si può certo dire che Marini sia una risposta alla domanda di futuro che sale dall'Italia e che ispira il "Pd possibile" sognato dal sindaco di Firenze.

E qui la scelta di metodo nasconde il problema politico. Era già accaduto dopo il voto del 24-25 febbraio, per la formazione del nuovo governo: usando la vecchia metafora andreottiana, anche per l'elezione del nuovo presidente della Repubblica Bersani aveva due "forni" ai quali rivolgersi per impastare il suo pane: il forno di Grillo e il forno di Berlusconi. Sul governo, il leader del Pd ha inutilmente provato a rivolgersi al forno di Grillo, umiliandosi persino di fronte ai suoi "pizzaioli", e gli è andata male. Sul Quirinale, ha ostinatamento bussato al forno di Berlusconi, cedendogli la prima scelta, e ora rischia di andargli male ugualmente. Perché mentre nel primo caso il pane di Grillo era immangiabile, visto che i Cinque Stelle non fanno coalizione con nessuno, nel secondo caso era invece commestibilissimo.

La candidatura di Stefano Rodotà, inventata ad arte dall'ex comico, apriva e forse aprirebbe ancora un terreno nuovo (e non banalmente "nuovista", in stile Milena Gabanelli) che il Pd avrebbe potuto utilmente esplorare. O "appropriandosi" per tempo di quello stesso candidato, che è un fior di costituzionalista ed è stato a suo tempo presidente del Pds. O proponendo un candidato simile, come ad esempio Sabino Cassese, a sua volta simbolo di quel rinnovamento sul quale si fondano le istanze della società civile e di una larghissima fetta di elettorato della sinistra, riformista o radicale che sia.

Con la candidatura di Marini, Bersani rinuncia a questa "esplorazione". Non sappiamo se dietro ci sia un calcolo inconfessato sulla nascita di un possibile "governo di minoranza", magari con la non sfiducia del Pdl. Ci rifiutiamo di crederlo. Ma vediamo il risultato che questa decisione del segretario ha prodotto. Il Pd che si conta e si spacca, lungo una faglia che non attraversa solo i renziani ma anche le altre correnti interne. Sel e Vendola che si sfilano. Il centrosinistra che offre ancora di più il suo fianco già martoriato alle sciabolate impietose di Grillo e Casaleggio, e si allontana ancora un po' dal suo elettorato, confuso e sgomento. E infine il pericolo che tutto questo precipiti nella rappresentazione plastica dell'ennesimo paradosso: Marini, voluto da Bersani e scelto da Berlusconi, che viene eletto solo da una "scheggia" di Pd e da un blocco mono-litico di centrodestra, occasionalmente "ricostituito" da Pdl, Lega e Scelta Civica.

Un bel capolavoro, che si poteva e si doveva evitare. E che il Partito democratico, più lacerato che mai ed esposto al napalm del suo Vietnam interno, rischia di pagare carissimo nell'immediato futuro.

m.giannini@repubblica.it

© Riproduzione riservata (18 aprile 2013)

da - http://www.repubblica.it/speciali/politica/elezioni-presidente-repubblica-edizione2013/2013/04/18/news/metodo_marini-56885917/?ref=HREA-1
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« Risposta #278 inserito:: Aprile 30, 2013, 04:39:20 pm »

Le strane nomine dello Stato Padrone


A due mesi esatti dal voto del 24-25 febbraio, nel vuoto pneumatico del governo e nel caos entropico della politica, c’è un’istituzione che marcia indisturbata verso la «meta», per altro ignota ai più. Quell’istituzione è la Cassa depositi e prestiti, forse l’ultima vera cassaforte rimasta in un Paese impoverito come l’Italia. La scorsa settimana, a sorpresa, il vertice della Cdp è stato confermato in blocco dagli azionisti, cioè il Tesoro e le fondazioni bancarie. Dunque lunga vita a Franco Bassanini, presidente, e a Giovanni Gorno Tempini, amministratore delegato. Navigatori di lungo corso, che hanno solcato indomiti i mari tremontiani e quelli montiani, e che ora si preparano ad affrontare anche i marosi del governo che verrà, se e quando verrà. La continuità è importante, per un istituto che custodisce oltre 220 miliardi di risparmi postali degli italiani, usufruisce di un utile di quasi 3 miliardi e distribuisce un dividendo di circa 1 miliardo. E lo è ancora di più per un istituto che è ormai diventato e può ancora di più diventare un ingranaggio essenziale nel meccanismo di gestione della politica industriale e di trasmissione delle risorse all’economia reale. Due esempi di questa fase, per capirci. Il primo: la Cdp è al centro del discusso progetto di scorporo della rete Telecom, che oltre a quella per la banda larga o ultralarga potrebbe presto portare alla costituzione di una holding di tutte le reti infrastrutturali del Paese. Il secondo: la Cdp è uno dei rubinetti essenziali attraverso cui potrebbe scorrere almeno una parte dei 40 miliardi di debiti commerciali che la Pubblica amministrazione si prepara a rimborsare alle imprese private. Dunque, è utile che questi delicati dossier siano affidati a mani sicure, che conoscano la fase istruttoria per poi realizzare al meglio quella esecutiva. Ma nella scelta compiuta dal governo Monti c’è una contraddizione oggettiva, che merita qualche riflessione e, ancora di più, qualche spiegazione. Nella stessa settimana in cui l’azionista pubblico riconferma senza un attimo di esitazione i vertici della Cassa depositi e prestiti, decide invece di non decidere nulla su quelli della Finmeccanica, temporaneamente affidata alla «cure» di Alessandro Pansa dopo l’arresto di Giuseppe Orsi il 12 febbraio. La motivazione colpisce: è più giusto che a decidere chi dovrà guidare il colosso malato della difesa sia il prossimo governo. Dunque, tutto rinviato alla prossima assemblea, che si svolgerà a giugno. Come si diceva un tempo nel salotto televisivo di Arbore, una domanda sorge spontanea: perché il principio si applica a Finmeccanica e non alla Cdp? Non è in gioco la fiducia verso Bassanini e Gorno Tempini, amministratori rispettabilissimi. Si tratta solo di capire se c’è un metodo, nella follia dello Stato Padrone.

m.giannini@repubblica.it

(22 aprile 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/rubriche/polis/2013/04/22/news/le_strane_nomine_dello_stato_padrone-57213321/
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« Risposta #279 inserito:: Maggio 07, 2013, 11:11:07 pm »

Le intese larghissime di Catricalà allo Sviluppo


Nel «governo del nostro scontento», come l’ha felicemente ribattezzato la copertina di Internazionale, Enrico Letta è riuscito a ridurre quasi al minimo sindacale i danni collaterali di un governo di coalizione di cui Silvio Berlusconi, piaccia o no, detiene a tutti gli effetti la golden share. Ma se la «riduzione del danno» è stata possibile per la lista dei ministri, l’operazione è riuscita assai meno per la lista dei sottosegretari. Nel numero di Affari & Finanza in edicola lunedì 6 maggio diamo conto di programmi e organigrammi dei due principali ministeri economici. Qui, su tutte, colpisce una gattopardesca operazione di «riciclaggio». Antonio Catricalà lascia la poltrona strategica di sottosegretario Palazzo Chigi, e si sposta allo Sviluppo. Se si vuole una rappresentazione plastica delle larghe intese, questa è perfetta. Catricalà è un grand commis di lungo corso. Nell’anno e mezzo di servizio alla presidenza del Consiglio, è stato considerato «l’uomo all’Avana» di Gianni Letta, il plenipotenziario berlusconiano dentro la «casta dei quiriti». Ora, come spiega l’articolo di Stefano Carli, con il suo nuovo incarico Catricalà dovrà gestire almeno due dossier ad altissima intensità politica. Quello sulle frequenze tv, e soprattutto quello sulla rete Telecom.

Cosa ci possiamo aspettare? Non ce ne voglia l’ex presidente dell’Antitrust. Ma la risposta, temo, è un bel nulla. L’ipotetica operazione H3G, per Telecom è per il Sistema-Paese, implica una scelta forte di politica industriale. Come ho già scritto, l'affare con Li Ka Shin ha senso solo se dal conferimento di 3 e dall’ingresso dei cinesi nasce una vera società della rete in capo al Fondo strategico della Cdp, autonoma e non controllata da Telecom, che investe sull’infrastruttura e la mette a disposizione di tutti gli operatori, a tariffe e a condizioni paritarie e concorrenziali. Un’opzione del genere cambierebbe radicalmente la fisionomia del mercato, non solo nelle tlc ma anche nelle televisioni. La rete in fibra ottica in tutte le case degli italiani determinerebbe una gigantesca «disintermediazione» dell’offerta tv, in termini di contenuti e di servizi. Altrove, in Europa e nel mondo, il fenomeno è in pieno corso. È immaginabile anche in Italia, dove Mediaset per sopravvivere resta disperatamente aggrappata al satellite e al digitale terrestre? Catricalà avrà il coraggio di fare un passo del genere, a tutto danno del Cavaliere? Mi permetto di dubitarne. Nel frattempo, dal giorno della nascita del governo Letta, Mediaset ha guadagnato in Borsa più del 10%. A spanne, il titolo (che capitalizza circa 2,3 miliardi) ha aumentato dunque il suo valore di oltre 200 milioni. Sempre a spanne, la famiglia Berlusconi (che controlla il 40% delle azioni) si è già arricchita di un’ottantina di milioni. Magia delle intese larghe. Anzi, larghissime. m.giannini@repubblica.it

(06 maggio 2013) © Riproduzione riservata
DA - http://www.repubblica.it/rubriche/polis/2013/05/06/news/le_intese_larghissime_di_catrical_allo_sviluppo-58151518/
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« Risposta #280 inserito:: Maggio 10, 2013, 10:54:11 pm »

Così Berlusconi utilizzava i fondi neri per corrompere politici e giudici

Si conferma che sulle oltre 60 società del Group B transitarono fondi neri per quasi mille miliardi di lire.

In vent'anni evasi centinaia di milioni

di MASSIMO GIANNINI


SI TORNA in piazza, come ai bei tempi. Tutti "con Silvio", che nei giorni festivi rispolvera la mimetica e l'elmetto, smettendo i panni inconsueti e severi dello Statista indossati nei giorni feriali. Contro le "toghe rosse". Contro la "gogna a regola d'arte". Contro "le procure d'assalto", gli "inquisitori accaniti", i "grandi orologiai" che regolano sapientemente le loro lancette sulle fortune del Cavaliere. Soprattutto, contro quest'ultima "sentenza impresentabile" nel processo d'appello sui diritti cinematografici Mediaset, che conferma una condanna pesantissima a carico di Silvio Berlusconi.

Di fronte all'ennesima, grave disavventura giudiziaria del suo leader, la grancassa della destra produce il solito rumore. Un fragoroso profluvio di stilemi indignati e di frasi già fatte, che servono a confondere e a nascondere. Tutti si chiedono "cosa succede", adesso che l'ossessione giudiziaria del capo del Pdl minaccia la già fragilissima esistenza del "governo di servizio" guidato da Enrico Letta. Ma nessuno si chiede piuttosto "cosa è successo", per giustificare una sanzione così devastante a carico del principale "azionista di riferimento" della strana maggioranza tripartisan.

Quella che si deve confondere, agli occhi dell'opinione pubblica, è l'anomalia storica di un imprenditore che ha scelto di "scendere in campo" anche per sottrarsi al giudice penale, con la pretesa di riconoscere come suo unico giudice naturale il popolo sovrano. Oggi, complice una sinistra distrutta e disarmata, Berlusconi azzarda una sottile operazione culturale: risorgere come "uomo di Stato", attraverso la "grande politica" delle larghe intese, che monda ogni peccato e depotenzia ogni reato. Solo in questo modo, come teorizza Giuliano Ferrara, potrà "obliterare ogni valore morale delle condanne che lo riguardano".

Quella che si deve nascondere, agli occhi dei cittadini-elettori, è la responsabilità penale di un imputato "eccellente" e tuttora innocente (fino al giudicato definitivo) ma che ha già subito 17 processi, 14 assoluzioni (10 per effetto delle leggi ad personam) e 3 condanne, compresa l'ultima dell'altroieri. Oggi, complice la propaganda egemone e il nuovo clima di "unità nazionale", Berlusconi ritenta l'audace colpo: banalizzare la verità dei suoi reati dietro la cortina fumogena della "persecuzione giudiziaria". Solo in questo modo si può cambiare il nome alle cose, sollevando un polverone intorno alla forma (una "sentenza folle basata solo sull'eliminazione dell'avversario per via giudiziaria") per coprire la sostanza (ll contenuto di quella stessa sentenza, che lo inchioda a 4 anni di carcere e 5 anni di interdizione).

E allora vale la pena di rileggerla, questa pronuncia della Corte d'Appello di Milano, che ricalca e conferma quella di primo grado dell'ottobre 2012. Vale la pena di capire cosa c'è dietro quella condanna per "frode fiscale". Detta così sembra poco, e invece rivela un sistema di "gestione aziendale" che, attraverso la provvista estera e i fondi neri, è quasi sempre al servizio della "corruzione politica". Ieri a vantaggio di Craxi e di Metta. Oggi (verrebbe da pensare) del faccendiere Lavitola o del senatore De Gregorio.
 
LA FRODE FISCALE: PERCHÉ SERVONO I FONDI NERI
Al Cavaliere, per il periodo 2002 e 2003, viene contestata una frode al fisco di circa 7 milioni di euro, per l'acquisto di diritti su film e prodotti tv comprati e rivenduti, a prezzi gonfiati, tra società offshore controllate dalla stessa Mediaset. I pm De Pasquale e Spadaro avevano scoperto operazioni fraudolente per 370 milioni di dollari. All'inizio del processo Berlusconi era infatti indagato anche per appropriazione indebita e falso in bilancio. Ma le leggi ad personam hanno dato buoni frutti: due capi d'imputazione sono caduti, grazie alla prescrizione accorciata. L'entità delle cifre si è ridotta. Ma lo schema scoperto e descritto dai magistrati, nelle motivazioni della sentenza di primo grado, è chiarissimo.

"Le imputazioni descrivono un meccanismo fraudolento di evasione fiscale sistematicamente e scientificamente attuato fin dalla seconda metà degli anni '80 nell'ambito del gruppo Fininvest, connesso al cosiddetto "giro dei diritti televisivi"... I diritti di trasmissione televisiva, provenienti dalle majors o da altri produttori e distributori, venivano acquistati da società del comparto estero e riservato di Fininvest, e quindi venivano fatte oggetto di una serie di passaggi infragruppo, o con società solo apparentemente terze, per essere poi trasferite ad una società maltese che a sua volta li cedeva, a prezzi enormemente maggiorati, alle società emittenti. Tutti questi passaggi erano privi di qualunque funzione commerciale...".

Dunque, dagli atti si evince un dispositivo contabile codificato e finalizzato a produrre denaro fittizio. Secondo i magistrati, Berlusconi ne era "il dominus indiscusso". "Il cosiddetto "giro dei diritti" si inserisce in un contesto più generale di ricorso a società offshore anche non ufficiali ideate e realizzate da Berlusconi avvalendosi di strettissimi e fidati collaboratori quali Berruti, Mills e Del Bue". La "riferibilità" al Cavaliere della "ideazione, creazione e sviluppo del sistema che consentiva la disponibilità di denaro separato da Fininvest ed occulto", secondo la sentenza, è "pacifica". Com'è altrettanto pacifico che l'intero meccanismo sia stato ideato "per il duplice fine di realizzare un'imponente evasione fiscale e di consentire la fuoriuscita di denaro dal patrimonio Fininvest/Mediaset a beneficio di Berlusconi".

Il Cavaliere è "l'ideatore". Ma anche il "beneficiario" e, come direbbe Ghedini, "l'utilizzatore finale". Ma a cosa è servito questo "disegno criminoso", che secondo i giudici dimostra la "naturale capacità a delinquere" del capo della destra italiana? Che uso è stato fatto, nel corso del tempo, di questo fiume sommerso di soldi finiti nella disponibilità dell'ex premier anche dopo la sua discesa in campo del '94? La risposta, in buona parte, sta ancora negli atti giudiziari e nelle sentenze. Non solo nell'ultima, che riguarda i diritti tv. Ma anche nelle precedenti, e non meno inquietanti.

ALL IBERIAN E CRAXI, MILLS E LE MAZZETTE AI GIUDICI

Il "motore" della macchina che sforna i fondi neri, come spiega la Corte d'appello, è custodito nel "comparto estero di Fininvest", cioè nelle società offshore, situate in Paesi come le Isole Vergini, il Jersey e le Bahamas... sui conti delle quali... far transitare il denaro...". L'esistenza di queste società è "documentalmente provata". Century One e Universal One, Principal Communication e Principal Network. Edsaco e Amt. Medint e Lion. Poi Arner e Ims. Una rete di spa più o meno occulte. Le prime fanno parte del "Fininvest Group B", cioè il "comparto estero riservato" sul quale la casa madre del Cavaliere ha scaricato, dalla fine degli anni '80, gli "affari sporchi".
Non lo dice solo la sentenza della Corte d'appello dell'altroieri. Ma l'intera parabola processuale di Berlusconi, che testimonia l'esistenza di un polmone finanziario pensato e costruito per pagare tangenti. I giudici di secondo grado, non a caso, citano la pronuncia con la quale il 25 febbraio 2010 la Cassazione ha condannato in via definitiva Mills, che per coprire Berlusconi dichiara il falso in aula. "Per la Fininvest - scrive la Suprema Corte - erano state create tra 30 e 50 società, costituite prevalentemente nelle Isole del Canale e nelle Vergini... Tra queste società vi era All Iberian, con sede a Guernsey, divenuta nel corso della propria attività "la tesoreria di un gruppo di società offshore"... Per evitare gli effetti della Legge Mammì (che aveva fissato un tetto al possesso delle reti televisive in Italia) era stata utilizzata la società Horizon, posseduta da Mills, che aveva costituito la società lussemburghese Cit...".

Più avanti gli stessi giudici di Cassazione, citando un'altra sentenza definitiva emessa nella vicenda Arces, ricordano che sempre dal segretissimo "Fininvest Group B" vennero fuori le mazzette con le quali "la Guardia di Finanza era stata corrotta affinché non venissero svolte approfondite indagini in ordine alle società del gruppo Fininvest". E infine, ancora la Cassazione ricorda che anche "i fatti relativi all'illecito finanziamento in favore di Bettino Craxi da parte di Fininvest, sempre attraverso All Iberian, erano stati definitivamente dimostrati, sulla base di plurime prove testimoniali e documentali...".

A questo punto si può trarre qualche conclusione. Gli atti certificano, ancora una volta, che i soldi del comparto B delle società Fininvest, direttamente riconducibile a Berlusconi, servirono a foraggiare politici e magistrati fin dai tempi della Prima Repubblica. Si conferma (come scrisse Giuseppe D'Avanzo sul nostro giornale, l'ultima volta nel luglio 2011) che sulle oltre 60 società del Group B "very discreet" della Fininvest transitarono allora fondi neri per quasi mille miliardi di lire. I 21 miliardi che hanno ricompensato Craxi per la legge Mammì. I 91 miliardi, poi trasformati in Cct, erogati per la stessa ragione ad "altri politici" mai scoperti. Le risorse destinate da Cesare Previti alla corruzione dei giudici di Roma, tra i quali Vittorio Metta, per manipolare il verdetto sulla battaglia di Segrate. Gli acquisti di pacchetti azionari che, in violazione delle regole di mercato, favorirono le scalate a Mondadori, Standa, Rinascente.

Questo dicono le carte, a dispetto delle urla di piazza del Cavaliere e delle chiacchiere da talk show dei suoi corifei. E questo, oggi più che mai, è importante e doveroso ricordare, per non cedere al "cupio dissolvi" collettivo in nome del quale si vuole riscrivere la Storia italiana di questi anni. Dice un deputato pdl: "In questi giorni che vedono le forze politiche faticosamente impegnate in una fase di pacificazione e di coesione nazionale, il Palazzo di giustizia di Milano appare sempre più come quel giapponese armato fino ai denti, inconsapevole della fine della guerra...". Ecco l'arma finale per la "distrazione di massa". In questo Ventennio, in Italia, non c'è stata nessuna "guerra". Ma anche ammesso che ci sia stata, e che ora sia finita grazie al condono tombale e morale delle "larghe intese", quello che non può finire è lo Stato di diritto. È il primato della Costituzione, che vuole tutti i cittadini uguali di fronte alla legge.

m.giannini@repubblica.it

(10 maggio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/05/10/news/grande_corruttore-58460499/?ref=HRER1-1
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« Risposta #281 inserito:: Maggio 21, 2013, 04:55:36 pm »

   
Il sacco dei Ligresti e la morale di Sutton


Cronache di ordinaria disuguaglianza, negli Stati Uniti. Racconta il Wall Street Journal, in un'inchiesta pubblicata venerdì scorso, che nel 2012, forse all'acme della Grande Crisi globale, i "ceo" delle maggiori multinazionali americane hanno guadagnato, in media, circa 10 milioni di dollari a testa. Non male, considerando che il resto della popolazione, cioè quel 99 per cento difeso da "Occupy Wall Street" sul quale specula e prospera l'elite dell'1 per cento, nel frattempo se n'è andato in malora. Cronache di ordinaria follia, in Italia. Racconta il Sole 24 Ore, in un "Pay Watch" di Gianni Dragoni pubblicato sempre venerdì scorso, che nel 2012 si è consumato l'ultimo, clamoroso "furto con destrezza" della solita Razza Predona ai danni delle casse di Fonsai, prima del complesso passaggio al gruppo Unipol. La famiglia Ligresti al gran completo, e il management del gruppo Fondiaria-Sai e Premafin, si sono portati a casa una bella vagonata di milioni, proprio nell'annus horribilis di quella che un tempo fu una grande compagnia d'assicurazione. Giulia Ligresti ha percepito 1,69 milioni lordi come presidente e ad di Premafin, per otto mesi e mezzo. Paolo Ligresti, consigliere Fonsai fino al 30 ottobre e titolare di altre cariche dentro al gruppo, ha incassato 1,09 milioni. Jonella Ligresti, presidente di Fonsai per nemmeno quattro mesi, ha messo in borsa 925 mila euro. E vai: la famiglia di Don Salvatore è servita. Ma anche un'altra famiglia, quella dell'ex ministro Ignazio La Russa, ha avuto il suo. Geronimo La Russa, figlio di cotanto padre e membro del cda Premafin per sei mesi, ha messo in tasca 11.500 euro più 549.171 euro come prestazioni professionali del suo studio legale. Vincenzo La Russa ha percepito invece 91.239 euro come consigliere Fonsai più 441.485 euro come prestazione professionale. Così va il mondo. Il nonsense è che stiamo parlando di un polo finanziario in perdita fissa da parecchi anni, e che stava portando i libri in tribunale se alla fine non lo avesse salvato il Cavaliere Bianco delle cooperative rosse Carlo Cimbri (vedremo nel tempo con quali esiti). Bando ai qualunquismi e ai populismi. Ma a leggere queste cronache marziane mi è venuto in mente l'ultimo, magnifico libro di Jr Moehringer, "Pieno giorno". Racconta la vita di Willie Sutton, mitico eroe-rapinatore di banche all'epoca della Grande Depressione. "Sono tempi duri, la gente non ne può più. Prezzi alle stelle, tasse troppo alte, milioni di persone piene di rabbia e con la pancia vuota. Ingiustizia. Disuguaglianza. La guerra alla povertà è una presa in giro... Siamo sempre alle solite, dice Sutton. Non del tutto, dice Fotografo: La merda è la stessa, ma la gente non vuole più mandarla giù. La gente scende nelle strade, fratello". Appunto.

m.giannini@repubblica.it

(20 maggio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/rubriche/polis/2013/05/20/news/il_sacco_dei_ligresti_e_la_morale_di_sutton-59195892/
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« Risposta #282 inserito:: Maggio 28, 2013, 05:02:05 pm »

La primavera dello scontento

di MASSIMO GIANNINI


In queste amministrative c'è la primavera del nostro scontento. Quando un elettore su due resta a casa e rinuncia al rito civile del voto, la crisi della democrazia rappresentativa è compiuta. Il dato che colpisce di più, in un test elettorale che interessava 7 milioni di italiani, è il trionfo del partito astensionista. Se alle politiche di febbraio lo tsunami grillino aveva spazzato via i "vecchi" partiti, stavolta la vera onda anomala è quella del non voto, che non è più protesta "creativa", cioè ricerca del candidato o della lista che rompono tutti gli schemi. È invece rinuncia preventiva, cioè scelta di chi non vuole più scegliere.

Perché lo considera inutile, e perché sente che la democrazia è ormai solo procedura di palazzo, e non più "cura" della polis. Se la democrazia rappresentativa non mi rappresenta perché non risolve i problemi della mia vita quotidiana, il mio voto non serve. Bisogna guardare innanzitutto dentro questo drammatico abisso che divide politica e società, per non caricare il voto di significati troppo "paradigmatici". Ma al fondo dell'abisso, un bilancio parziale è comunque possibile. La clamorosa risacca che prosciuga ovunque il Movimento 5 Stelle lascia sul terreno l'esito più imprevedibile: un Pd che non molla e un Pdl che tracolla.

A dispetto dei sondaggi che a livello nazionale fotografano una ritirata del Partito democratico e un'avanzata del Popolo della Libertà, il voto delle città riflette l'esatto contrario. Il centrosinistra a Roma ipoteca il Campidoglio. Su 16 comuni capoluogo ne conquista 5 al primo turno, confermandosi in testa in altri 10. È un sorpasso in retromarcia, perché avviene nel clima di sfiducia e disincanto di cui abbiamo detto. Ma resta un risultato piuttosto sorprendente: dimostra che forse non tutto è perduto, e che il partito, con le sue strutture logore e con i suoi leader ammaccati, un barlume di radicamento sul territorio ancora ce l'ha. La soddisfazione di Epifani è dunque comprensibile. Tuttavia, anche qui conviene non farsi troppe illusioni.

Il vantaggio di Marino nella Capitale è ampio e difficile da colmare. Ma il ballottaggio è sempre un'altra partita, come può testimoniare Rutelli che la perse rovinosamente cinque anni fa. E l'ex chirurgo si afferma per ora grazie a una strana alchimia, difficilmente ripetibile su scala nazionale. Un misto di "oltrismo" e di "nuovismo": non a caso il suo slogan era "Non è politica, è Roma". Una miscela di radicalità e di alterità rispetto allo stesso Pd: non a caso lui stesso non ha votato per il governo Letta e a questo primo turno lo ha sospinto soprattutto il voto di Sel. La formula Marino non è facilmente esportabile, in un partito che invece guarda ormai a Matteo Renzi, fautore e simbolo dello "sfondamento al centro", come il candidato premier predestinato. Dunque serve cautela. Per i prossimi quindici giorni e anche per i prossimi quindici mesi, quando si dovrà celebrare un congresso che si vuole, giustamente, fondativo di un nuovo centrosinistra, capace di ibridare in un'identità finalmente risolta quell'"amalgama mal riuscito" che è stato il Pd in questi anni.

Il centrodestra subisce una batosta pesante, e altrettanto inaspettata. A Roma paga l'impresentabilità di Alemanno, il peggior sindaco degli ultimi 50 anni, travolto dal nulla che ha rappresentato, sul piano amministrativo e su quello culturale. Non sono bastate le assunzioni clientelari di famigli ed ex picchiatori fascisti all'Atac e all'Ama. Hanno pesato le bugie propagandistiche sul calo delle tasse (tra Imu e addizionale Irpef Roma è la città dove se ne pagano di più) e gli scandali del suo sottobosco (in testa il suo braccio destro Mancini). Risultato: se il Pdl perde anche Roma, non amministra più nessuna grande città. Un trauma per la destra capitolina, ma anche per la leadership berlusconiana. Il Cavaliere si illude di tenere ancora assieme, sotto la sua sovranità carismatica, le ultime schegge impazzite dell'ex Msi e i residui avamposti prealpini della Lega. Questo voto amministrativo non lo premia, da nessun punto di vista. Il Popolo delle Libertà perde quasi ovunque al Nord, da Sondrio a Vicenza, da Treviso a Imperia. E il Carroccio scompare in Veneto, cioè nel cuore della prima epifania padana di trent'anni fa.

Resta da spiegare l'eclissi totale delle Cinque Stelle. Un non-partito che solo tre mesi fa ha sfondato le porte del Palazzo d'Inverno, sull'onda di una forza d'urto che giustamente non abbiamo solo definito "anti-politica", ma anche "altra-politica". Ebbene, com'è accaduto in Grecia alla destra neo-fascista di Alba Dorata e alla sinistra estremista di Syriza, anche il Movimento di Grillo e Casaleggio ha subito l'enorme riflusso di chi l'aveva scelto per "dare un segnale", e ora è rimasto deluso. M5S non va al ballottaggio in nessun comune capoluogo, e nel complesso del voto amministrativo perde tra la metà e i due terzi dei consensi che aveva ottenuto nel voto politico. Piaccia o no al conducator genovese e al suo guru, è il segno che in questi tre mesi è mancata proprio quell'"altra politica" che gli elettori si aspettavano dal movimento. E invece è stato il vuoto, riempito solo dagli sfondoni di forma e di sostanza dei capigruppo e da un dibattito surreale e autoreferenziale sulle diarie e gli scontrini degli "onorevoli-cittadini".
Per una crudele legge del contrappasso, anche le 5 Stelle, appena entrate nel Palazzo e dunque cooptate dal Sistema, agli occhi dell'opinione pubblica sono diventate una banalissima e irrilevante "parte degli arredi". E' la conferma di quello che l'ex comico non vuole accettare: non solo la sana dialettica interna, ma soprattutto il buon uso di un tesoretto elettorale che non serve a nulla se non viene speso e investito sul mercato politico. Se oltre centocinquanta deputati e senatori non producono politica, cioè proposte e leggi utili alla collettività, la "missione" palingenetica del grillismo perde totalmente di significato. Cade l'assioma sul quale si regge il futuro regno di Gaia: "uno vale uno". Non è più vero. Se il Movimento non cambia, e se non ricostruisce sul disastro in Friuli, in Val d'Aosta e ora nei comuni capoluogo, "uno vale zero". E dunque non vale neanche la pena votarlo.

La domanda cruciale che tutti si fanno, adesso, è come questo risultato incida sul governo Letta. Se il voto di Roma, soprattutto, rafforzi o meno la Grande Coalizione. L'impressione - com'è già accaduto per l'Imu e per lo ius soli, per la riforma elettorale e per quella sul finanziamento pubblico, per la sentenza Mediaset e per il processo Ruby - è che anche questa contesa elettorale contribuirà a far fibrillare la stranissima maggioranza. La sensazione - come dimostra la percentuale stratosferica dell'astensionismo - è che in generale le Larghe Intese, per quanto necessarie o necessitate, non riscaldino i cuori della gente. Lo conferma un'evidenza, in questo momento davvero paradossale: mentre governano insieme a livello nazionale, saranno proprio il centrosinistra e il centrodestra a sfidarsi nei ballottaggi a livello locale. L'uno contro l'altro, e irriducibilmente diversi. Com'è giusto che sia, in una sana democrazia dell'alternanza.

(28 maggio 2013) © Riproduzione riservata
      
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« Risposta #283 inserito:: Maggio 28, 2013, 11:07:29 pm »

Visco ci parli delle banche che prestano poco denaro

Massimo GIANNINI

Il «capitalismo in-finito», come lo chiama Aldo Bonomi nel suo saggio appena uscito da Einaudi, ha il solito brutto vizio di sempre. Scandagliando nel profondo della crisi drammatica di questi anni, l’autore pesca solide ragioni di critica verso il «sistema»: l’inconcludenza della politica e l’inefficienza dei governi, l’entropia dei mercati e la miopia dell’Europa, il cinismo delle banche e il conservatorismo dei sindacati. Giorgio Squinzi, alla sua seconda assemblea confindustriale, non sfugge a questo collaudato clichè. L’impresa dice molto di tutti, e quasi niente di sé. Ma su un punto il leader degli industriali rilancia una verità incontestabile, al di là dell’angosciosa rappresentazione di un Nord «sull’orlo del baratro» (che ha già ingoiato buona parte delle 70 mila aziende cessate negli ultimi cinque anni) e dell’orgogliosa rivendicazione del ruolo cruciale della manifattura (che rappresenta il 17% del Pil e l’80% dell’export). Quella verità è la stretta del credito, che si stringe al collo del sistema produttivo. Non si sa se stia per partire la «terza ondata» del credit crunch. Se non è vero, è comunque verosimile. Ma si sa qual è stato l’esito delle prime due ondate che si sono susseguite finora: lo stock dei prestiti erogati negli ultimi diciotto mesi si è ridotto di 50 miliardi di euro. Secondo il neo-ministro Zanonato la restrizione raggiungerebbe addirittura i 60 miliardi. E in ogni modo, come ricorda Squinzi, quasi un terzo delle imprese non ha liquidità sufficiente a fronteggiare le esigenze operative. Quindi il problema non è solo che non si può investire, ma - come spiega Marcello De Cecco nel suo commento - non si possono neanche più pagare gli stipendi ai dipendenti. Alle critiche i signori del credito rispondono sgranando il loro rosario di lamentazioni, uguali e contrarie a quelle dei signori dell’industria. Il giro di vite imposto dall’Eba sui ratios patrimoniali, la stretta della Vigilanza sugli accantonamenti, il boom delle sofferenze e dei crediti incagliati, esplosi anche nel primo trimestre. È tutto vero. Ma qualche domanda ormai si impone. A cosa serve avere un sistema bancario che si appunta un Core Tier 1 del 10% come una medaglia sul petto, se poi da cotanta stabilità di capitale proprio non discende un’altrettanta disponibilità di credito per l’economia reale? E a cosa serve ostentare il ritorno dei profitti, che secondo Prometeia nel 2013 dovrebbero raggiungere un totale di 2,4 miliardi per l’intero sistema creditizio, se nel frattempo le aziende manifatturiere portano i libri in tribunale? Qualche risposta sarebbe gradita. Magari dal governatore Ignazio Visco, che venerdì prossimo officerà l’assemblea annuale della Banca d’Italia. Aspettiamo le sue Considerazioni finali, che speriamo siano meno autoreferenziali di quelle di Squinzi.
m.giannini@repubblica.it

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« Risposta #284 inserito:: Giugno 03, 2013, 04:40:29 pm »

Le larghe contese e lo Stato padrone


La promessa è solenne. Le prossime nomine saranno decise "secondo criteri selettivi, oggettivi e procedure trasparenti di prossima definizione".
Il ministero del Tesoro spiega così la ragione del rinvio delle scelte sul nuovo organigramma di Finmeccanica, che per conoscere il suo destino dovrà attendere un'assemblea convocata entro la prima metà di luglio. Una bella grana per Fabrizio Saccomanni, che interrompendo finalmente il lungo sonno del suo predecessore deve reintegrare due posti nel cda del più quotato e inguaiato polo industrialtecnologico della difesa. Il presidente (dopo l'arresto dell'ex numero uno Giuseppe Orsi) e il consigliere dimissionario Franco Bonferroni. Ma non è l'unico dossier, aperto sul tavolo del ministro di Via XX Settembre.

Di nomine da fare ce ne sono altre, non meno importanti. Dalle Ferrovie a Invitalia, dalla Sace a F2i. Una gran giro di poltrone, in ballo di qui alla prossima estate. Da uomo delle istituzioni, arrivato dalla Banca d'Italia, Saccomanni vorrebbe rinnovare i consigli delle Spa controllate dal Tesoro secondo parametri "rivoluzionari", per un Paese abituato all'eterna mangiatoia dello Stato padrone. La selezione delle candidature dovrebbe "assicurare la qualità professionale e la competenza tecnica dei prescelti". Requisiti di onorabilità e di "legalità", cioè assenza di pendenze giudiziarie di qualunque genere. Vincoli di incompatibilità con altri incarichi di natura politica o economica, cioè assenza di conflitti di interesse di qualunque tipo. Insomma, una griglia severa. Che da un lato potrebbe alzare di molto l'asticella, per la scelta dei futuri amministratori. E dall'altro lato potrebbe azzerare interi consigli di amministrazione già intasati di personaggi improbabili, e per lo più al di sotto di ogni sospetto di lottizzazione.

L'iniziativa del Tesoro è lodevole. Ma mantenere la promessa sarà dura anche per un tecnico puro come Saccomanni. Pare infatti che il ministro si sia deciso a congelare le mosse su Finmeccanica, e ad annunciare una revisione complessiva dei criteri di nomina, perché nel frattempo si è scatenata una corsa frenetica all'accaparramento. La Grande Coalizione all'italiana riaccende i soliti appetiti. I partiti della "stranissima maggioranza" sono tornati famelici. Le aziende pubbliche sono ancora una volta un bottino da spartire. Come ai bei tempi, si intruppano in sala d'aspetto politici trombati o semi-falliti, manutengoli del Burosauro quirite e amici degli amici del sottobosco governativo. Persino il faccendiere Luigi Bisignani si riaffaccia sul proscenio, per spiegare chi e come spartisce la torta tra i litiganti, nel Belpaese delle Larghe Intese e delle Larghe Contese.
Auguri, ministro Saccomanni. E se può, resista.

m.giannini@repubblica.it

(03 giugno 2013) © Riproduzione riservata

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