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Autore Discussione: MASSIMO GIANNINI  (Letto 166904 volte)
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« Risposta #240 inserito:: Gennaio 29, 2012, 11:53:31 pm »

IL DOSSIER

Lavoro, ecco il piano Fornero Contratti sfoltiti e protezioni più moderne

Il ministro del Welfare convocherà imprese e sindacati tra mercoledì e giovedì: confronto diviso su quattro tavoli.

Tra i capitoli Forme Contrattuali, formazione, flessibilità. ammortizzatori sociali

di MASSIMO GIANNINI

"Siamo pronti. Mercoledì o giovedì torneremo a sederci al tavolo con le parti sociali. Saremo prudenti, ma determinati: puntiamo ad un'intesa di alto profilo riformatore". Dopo una falsa partenza, il ministro del Welfare Elsa Fornero si prepara a riconvocare imprese e sindacati, e a rilanciare la riforma del mercato del lavoro. "Ripartiamo da quattro tavoli: forme contrattuali, formazione, flessibilità e ammortizzatori sociali". Chi in queste ore ha parlato con la Fornero, la descrive determinata, anche se un po' seccata per le polemiche interne alla squadra di governo. Non vuole alimentare i dissensi con il "collega" Corrado Passera: "Le polemiche non servono, non aiutano. Certo, siamo diversi, ma le cose tra noi vanno benissimo...". Il ministro preferisce concentrarsi sulla road map di una riforma che, dopo il decreto Salva-Italia sul rientro dal deficit e il decreto Cresci-Italia sulle liberalizzazioni, è diventata cruciale per il futuro del Paese. Una riforma "necessaria, anche in relazione ai nostri impegni con l'Europa". Ma una riforma complessa, per le resistenze che incontra, soprattutto tra Cgil, Cisl e Uil, e soprattutto su certi argomenti specifici, come la cassa integrazione straordinaria e l'articolo 18. Ma stavolta, proprio per evitare che il confronto si impantani subito su questi singoli capitoli ad altissima intensità politica, la Fornero ha concordato insieme a Monti il "metodo dello spacchettamento", cioè la divisione della trattativa in quattro "sotto-tavoli". Nessun documento "prendere o lasciare", ma una serie di proposte, un ascolto delle richieste, e poi una sintesi finale, sulla quale costruire il consenso. Ecco su quali basi si svilupperà il dialogo con le parti sociali.

LE FORME CONTRATTUALI
Si parte da una premessa di base: nella insostenibile "giungla dei 46 modelli contrattuali" attualmente in vigore, alcuni hanno dato buona prova (contratti a progetto, part time) altri hanno determinato abusi (lavoro interinale). La Fornero punta allora ad una riduzione netta del numero delle tipologie contrattuali, anche attraverso il meccanismo degli incentivi e dei disincentivi al loro utilizzo. Il "contratto unico" sul modello Boeri-Garibaldi, da questo punto di vista, è un'ipotesi sul tappeto, come lo è il modello Ichino: tutti ruotano intorno all'idea di un contratto di base, per i neo-assunti, di durata più o meno triennale e a tutele crescenti. Ma questo impianto non può esaurire le piattaforme contrattuali possibili: "Non ha senso eliminarle tutte, comprese quelle che hanno dato buoni risultati". Semmai si tratta di aggiornarle.

Per i giovani che si affacciano per la prima volta sul mercato del lavoro, il ministro condivide la richiesta di Camusso, Bonanni e Angeletti: si parte dal contratto di apprendistato, "sul quale c'è ampia condivisione". Anche in questo caso, si possono apportare correttivi alla riforma varata dal precedente governo, per rendere quel meccanismo più flessibile. Ma su questo la Fornero è convinta di poter raggiungere un "accordo soddisfacente" con i sindacati.

LA FORMAZIONE
È una "questione cruciale". Una "priorità" per il governo. Qui occorre un "salto culturale", che l'intero mondo del lavoro (produttori e lavoratori) deve dimostrasi in grado di compiere. La formazione non avviene "una sola volta nella vita". La formazione è una risorsa che non si acquisisce all'inizio del ciclo produttivo, e poi basta, ma va assicurata fino al raggiungimento dell'anzianità. Se aumenta l'età pensionabile, deve aumentare anche la spesa che le aziende destinano a questo scopo, e che in concorso con lo Stato deve garantire anche a chi perde il lavoro in età avanzata di potersi riconvertire, e di poter rientrare nel mercato anche se ha superato i 50 anni di età. È il concetto di "formazione permanente", sul quale il governo chiede uno sforzo a tutto il sistema produttivo, partendo dal presupposto che i fondi da attingere al bilancio pubblico sono limitati.

LA FLESSIBILITÀ
È il nodo più spinoso, come dimostrano i fatti di questi ultimi quindici anni, da quando il governo del primo Ulivo tentò di discutere con la Cgil di revisione dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Ma anche su questo, la Fornero non è pessimista. Flessibilità in entrata e in uscita non vuol dire necessariamente abolire l'obbligo di reintegro per i lavoratori licenziati senza giusta causa né giustificato motivo. Il ministro lo ripete da giorni, con tutti gli interlocutori possibili: "Dobbiamo depurare la questione dal suo valore ideologico: il governo sulla flessibilità non ha né uno spirito di rivincita, né la voglia di imporre un suo diktat. Cerchiamo solo di risolvere un problema, senza traumi né conflitti". Qual è il problema, lo ha spiegato la stessa Fornero, nel suo intervento in un convegno a Milano: "Oggi esiste un legame eccessivo tra il singolo lavoratore e il suo posto di lavoro. Un legame che si tende a far "resistere", molto spesso, anche quando l'azienda che fornisce quel posto di lavoro non è più in grado di assicurarlo. Questo problema va risolto". Come, lo dirà la trattativa al tavolo con le parti sociali. Alla Fornero stanno a cuore due cose. La prima è far capire alle imprese che il ricorso ad una maggiore flessibilità del lavoro deve avere comunque un costo elevato. La seconda è far capire ai sindacati che "nessuno, nel governo, si sogna di mettere a repentaglio i diritti, perché i diritti sono la base del patto sociale".

GLI AMMORTIZZATORI SOCIALI
Questo è l'ultimo tavolo, in termini di scansione temporale. Perché come sostiene da sempre il ministro, "nessuno può pensare che tutto cambi da domani mattina: c'è un'emergenza, che va affrontata subito, e c'è un disegno di più lungo respiro", che riguarda appunto il sistema di Welfare. Gli ammortizzatori sociali sono il cuore della riforma che verrà. Ma il compito è improbo. Si tratta di spostare risorse da una voce all'altra, per rafforzare l'assistenza anche con strumenti come il salario minimo. Si tratta di trovarne di nuove, per sostituire strumenti "non più adeguati ai tempi che stiamo vivendo". Ma al Tesoro di fondi da dedicare a questo capitolo di spesa, al momento, praticamente non ce ne sono, come Piero Giarda e Vittorio Grilli hanno ripetuto al presidente del Consiglio l'altro ieri. Per questo si interviene su quello che c'è. La cassa integrazione, sulla quale lunedì scorso si è innescata una reazione durissima dei sindacati e delle imprese, è uno dei fronti più caldi. Chi le ha parlato riferisce che il ministro considera la Cig uno strumento "sub-ottimale". Chi ci sta dentro se la vuole tenere, e non la vuole cambiare. Ma secondo il ministro quella "coperta" non può durare in eterno. C'è una "comprensibile paura", ad abbandonare una forma di tutela che dura da decenni. Ma "bisogna cambiare, per migliorare". La Fornero vuole trovare, insieme alle parti sociali, soluzioni più efficaci e moderne, ma non meno sicure. "Nessuno sarà abbandonato al suo destino".

Questa è dunque la strategia, che il ministro del Welfare ha messo a punto insieme al premier, in vista dell'ennesima "settimana cruciale" per i destini del Paese. Domani il vertice europeo, e tra mercoledì e giovedì il nuovo round con imprese e sindacati. Questa volta non si può sbagliare. Ce lo chiede l'Europa, ce lo chiedono le multinazionali straniere, che spesso sono restie ad investire in Italia proprio per la farraginosità del nostro mercato del lavoro. La Fornero, dopo aver fatto una riforma dolorosa ma strutturale come le pensioni, si gioca tutte le sue carte. Concertazione o no, confida "nel senso di responsabilità delle parti". Sa di avere il sostegno, prezioso, del presidente della Repubblica Napolitano. Ripete a tutti che il governo "non vuole abbattere totem". Che occorre "discutere di tutto, laicamente e pragmaticamente". Ricorda, ancora una volta, "la lezione di Luciano Lama". Spera che la ricordino anche i suoi "successori".

m.gianninirepubblica.it

(29 gennaio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/economia/2012/01/29/news/lavor_piano_fornero-28945203/
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« Risposta #241 inserito:: Febbraio 11, 2012, 11:14:22 pm »

 
IL COMMENTO

Frankenstein in Parlamento

di MASSIMO GIANNINI

COME il sonno della ragione, l'incrocio tra governo "strano" e Parlamento sovrano genera mostri. Duemilaquattrocento emendamenti presentati al Senato sul decreto legge per le liberalizzazioni sono un'offesa al buon senso e al buon gusto. Tradiscono un'idea malintesa, che allontana sempre di più gli eletti dagli elettori. Non si vuole difendere la sovranità del potere legislativo. Si vuole proteggere l'intangibilità del sistema corporativo.

La "lenzuolata" appena varata da Monti e Passera non ha la stessa forza di quelle introdotte da Prodi e Bersani nel 1998 e nel 2006.
Come conferma il rapporto della Commissione europea anticipato ieri da "Repubblica", è ancora troppo timida. Non affonda la lama della concorrenza nel ventre molle della rendita, in aree strategiche come le banche e le reti, le assicurazioni e le professioni. Ma rappresenta comunque un enorme salto di qualità, rispetto alla palude di statalismo e di immobilismo della legislatura berlusconiana. Non farà risparmiare 1.800 euro l'anno ad ogni famiglia italiana, né farà crescere il Pil dell'1,4%, l'occupazione dell'8% e i salari reali del 12%, come spera il governo. Ma è sicuramente la prima, salutare scossa a un'economia paralizzata, a una società bloccata.

Un Parlamento responsabile, invece di partorire i suoi Frankenstein, avrebbe il dovere di convertire in fretta il decreto. E se proprio volesse rifiutare la logica del prendere o lasciare, dovrebbe apportare poche modifiche, e solo migliorative, nell'unica direzione possibile: quella dell'ulteriore apertura al mercato nei troppi settori ancora troppo protetti.

Per esempio, facendo scattare da subito lo scorporo dall'Eni della rete di trasporto del gas della Snam. Accelerando la separazione della rete ferroviaria da Trenitalia. Scardinando definitivamente il diritto di esclusiva per i gestori delle pompe di benzina. Imponendo l'immediata riduzione delle commissioni bancarie a carico degli esercenti per l'utilizzo delle carte di credito. Aprendo definitivamente a tutti i più giovani le porte d'accesso alle professioni. Rimuovendo i vincoli agli agenti monomandatari delle compagnie d'assicurazione riunite nell'indifendibile cartello della Rc-auto. Estendendo il meccanismo del price cap per le tariffe autostradali anche alle concessioni in essere (compresa quella di Autostrade) e non solo a quelle future. Moltiplicando le licenze dei taxi. Ripristinando la libera vendita dei farmaci di fascia C nelle para-farmacie.

L'elenco potrebbe continuare. Con una decina di emendamenti di questo tenore, il pacchetto Monti-Passera diventerebbe davvero la "rivoluzione liberale" di cui c'è bisogno, nell'Italia delle mille corporazioni e dei cento forconi. Invece a Palazzo Madama è partito il vecchio, caro assalto alla diligenza. Duemilaquattrocento proposte di modifica. Una sparuta minoranza, per lo più firmata da esponenti del centrosinistra, introduce alcuni effettivi rafforzamenti al testo. Ma per il resto la quasi totalità degli emendamenti, 700 firmati da senatori del solo centrodestra, recepiscono altrettante richieste delle solite lobb in guerra permanente contro qualunque cambiamento: avvocati, farmacisti e tassisti. Il presidente del Consiglio lo aveva previsto, giusto una settimana fa, durante il videoforum su "Repubblica Tv". "Sono preoccupato, ma non molleremo", aveva detto. Forse neanche lui aveva immaginato una reazione così abnorme delle "caste" che purtroppo trovano ascolto in Parlamento.

È un pessimo segnale. Non bastano le buone intenzioni bipartisan dei relatori, che in vista del dibattito in aula sperano di sfoltire questa selva ingestibile di emendamenti. Il governo sarà comunque obbligato a porre la fiducia, se non vuole che la lenzuolata del decreto Cresci-Italia finisca in mille pezzi, com'è già in parte successo con il decreto Salva-Italia. Sarebbe la quinta fiducia in tre mesi e mezzo, con un bottino di voti in calo costante: dai 556 sì all'insediamento dell'esecutivo tecnico, il 18 novembre, ai 420 sì al decreto svuota-carceri del 9 febbraio. Anche questo è un modo per logorare un governo che toglie ossigeno politico a un agguerrito e disperato drappello di "riluttanti" della ex maggioranza. Pur di sabotare il manovratore, cavalcano qualunque rivolta delle categorie. Se ha davvero l'ambizione di "cambiare il modo di vivere degli italiani", come ha annunciato da Washington, Monti non può e non deve cedere a questa destra sudamericana, che agonizza tra le macerie del berlusconismo. Ne va della modernizzazione del Paese.

m.giannini@repubblica.it

(11 febbraio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/02/11/news/parlamento_liberalizzazioni-29684693/
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« Risposta #242 inserito:: Febbraio 13, 2012, 11:32:55 am »

L'EDITORIALE

Il dovere della notizia

di MASSIMO GIANNINI


NON C'È BISOGNO di aver letto la "lezione" di Joseph Pulitzer alla Columbia University, per sapere che "un giornalismo onesto e indipendente è la forza più possente che una civiltà moderna abbia mai sviluppato".

Per questo, pur prendendo atto della smentita congiunta di Palazzo Chigi e della Cgil a proposito dell'incontro segreto tra Monti e Camusso per concordare una riforma dell'articolo 18, non possiamo che confermare la veridicità della notizia. Esprimiamo la massima considerazione nei confronti del presidente del Consiglio, di cui apprezziamo l'impegno profuso per mettere in sicurezza il Paese e modernizzare la sua economia.

Abbiamo un profondo rispetto per il segretario generale del più importante sindacato italiano, di cui comprendiamo lo sforzo nel tutelare i suoi iscritti e al tempo stesso allargare la base della sua rappresentanza sociale anche ai giovani, ai precari e agli "invisibili" del mercato del lavoro. Ma vorremmo rassicurare entrambi.

Nel metodo, nella sua lunga storia Repubblica non ha mai avuto l'abitudine di "inventare" notizie "assolutamente infondate". Meno che mai per "forzare la mano" di qualcuno. Il compito di un giornale "onesto e indipendente", appunto, è sempre e solo quello di cercare informazioni, verificarle attraverso fonti sicure e attendibili, e poi pubblicarle. È quello che è accaduto anche in questa circostanza.

La notizia di un faccia a faccia tra Monti e Camusso
ci è arrivata da una fonte sicura e attendibile. Ci è stata confermata da ambienti autorevoli. L'abbiamo pubblicata, com'era nostro dovere, senza porci la solita, insinuante domanda che inquina da troppo tempo il discorso pubblico italiano: cui prodest? Non è un nostro problema. Un quotidiano ha un solo "giudice", al quale rendere conto ogni giorno con la qualità della sua informazione: il lettore. Tutto il resto non conta.

Nel merito, né Palazzo Chigi né la Cgil possono smentire (e infatti non lo fanno) che il confronto sulla riforma dell'articolo 18 sia ormai prossimo a una svolta. Questo è, a prescindere dalle posizioni "note e stranote" della Cgil. Non si vede perché pubblicare un retroscena che spieghi questo livello più avanzato della trattativa debba essere interpretato come un tentativo di "far saltare il confronto" o di esercitare "pressioni improprie".

Per confortare questa lettura vagamente complottista, tra l'altro, la Cgil incappa in un palese salto logico. Recita il comunicato: "Prima due fondi di Scalfari, ora una notizia falsa in prima pagina: chi vuole forzare la mano?". La risposta è: nessuno. E non si vede quale possa essere il nesso tra il retroscena di Claudio Tito pubblicato ieri e gli editoriali di Eugenio Scalfari pubblicati la settimana scorsa.

La prima è una notizia, i secondi sono opinioni. Con una notizia non si può polemizzare. Su un'opinione si può discutere, come in effetti ha fatto la Camusso, rispondendo per lettera al nostro giornale e confutando la tesi di Scalfari sul riformismo di Luciano Lama.

Quello che non si può fare è collegare idealmente e strumentalmente le due cose. Come se Repubblica avesse orchestrato una qualche oscura e misteriosa "campagna". Per fare cosa, poi? Mettere la Cgil con le spalle al muro, per aiutare il governo (come sembrava trasparire tra le righe nella lettera di risposta della Camusso al primo editoriale di Scalfari)? O far saltare la trattativa con le parti sociali, per sabotarlo (come sembra emergere dal comunicato stampa di ieri)?

Nessuna forzatura, nessun sabotaggio. Solo libera e corretta informazione. Se poi da tutto questo scaturirà un buon accordo per modernizzare il nostro mercato del lavoro, senza far strage dei diritti ma estendendoli a chi non ne ha alcuno, sarà tanto meglio per l'Italia.

m.giannini@repubblica.it

(13 febbraio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/02/13/news/il_dovere_della_notizia-29782508/?ref=HREC1-45
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« Risposta #243 inserito:: Febbraio 21, 2012, 12:14:50 pm »


IL COMMENTO

Il Grande Capitale vuole il bis

di MASSIMO GIANNINI

DOPO i riconoscimenti della City e di Wall Street, era fin troppo facile prevedere che Mario Monti avrebbe mietuto successi anche a Piazza Affari. Milano è la sua "casa", in ogni senso. Da anni non è più la "capitale morale" del Paese. Ma resta pur sempre il cuore dell'economia e della finanza italiana. E oggi questo cuore batte palesemente per il Professore. Non è un'opinione, ma una constatazione. Quello di Monti non è il "governo dei Poteri Forti", ma è un fatto che i Poteri Forti sostengono il governo di Monti. I "montiani" non sono tutti banchieri, ma è un altro fatto che tutti i banchieri sono "montiani". Per constatarlo basta ascoltare i pensieri e le parole di quello che una volta si chiamava il "gotha" dell'economia e della finanza italiana, riunito a Palazzo Mezzanotte per sentire il presidente del Consiglio.

Da Giovanni Bazoli a Federico Ghizzoni, da Enrico Cucchiani a Luigi Abete. Da Fulvio Conti a Franco Bernabè, da Marco Tronchetti Provera a Flavio Cattaneo. Non trovi un solo esponente della business community che non guardi al "governo strano" come alla sola ancora di salvezza per un'Italia alla deriva. Soprattutto, che non si affidi alla cultura del "tecnico" per evitare di ricadere nell'impostura del "politico". Un ragionamento che non vale solo per l'oggi. Chi opera in Borsa e muove ogni giorno qualche miliardo di euro, non può non apprezzare qui ed ora l'effetto Monti sui mercati: dal famigerato "Btp Day" del 28 novembre 2011, quando i rendimenti sui nostri titoli di Stato superarono l'8%, i tassi si sono quasi dimezzati e i prezzi sono lievitati. Se rivendesse oggi, chi avesse investito allora guadagnerebbe il 10,2% sui Btp a 5 anni, il 12% sui Btp a 10 anni e addirittura il 16,1% sui Btp indicizzati all'inflazione. Un affarone.

Il passaggio di fase, che non riguarda il presente ma il futuro, lo sintetizza un noto banchiere: "Il problema non è quello che succede oggi, ma quello che succederà nel 2013. Pd e Pdl, Terzo Polo e Idv pensano davvero di tornare in campo come una volta, magari senza nemmeno aver cambiato la legge elettorale? Questo Paese ha bisogno di una transizione più lunga, e solo Monti la può garantire. Non basta la parentesi di un anno per fare tutte le riforme che servono". Un altro banchiere, ancora più noto, si spinge più in là: "Un anno di Monti non basta a noi, ma non basta neanche ai mercati. Perché lo spread non cala più di tanto? Perché gli investitori si fidano dell'Italia di adesso, ma non di quella che uscirà fuori dalle urne del 2013". Una lettura confortata da un indicatore oggettivo: la curva del differenziale tra i tassi sui titoli italiani e quelli tedeschi, da alcune settimane, è scesa in modo strutturale e più marcato sui Btp a 2 anni, che non su quelli a 10. È la conferma che i mercati, paradossalmente, comprano Italia sul breve ma non sul lungo termine.

La "corrente montiana" non agita solo le acque della palude stagnante e inconcludente dei partiti, come dimostrano le fibrillazioni di Palazzo innescate dalla sortita di Walter Veltroni. Attraversa impetuosa, e in questo caso pienamente condivisa, anche l'establishment italiano. Se un ex leader del Pd non vuole "regalare Monti alla destra", quel simulacro nazionale di "borghesia produttiva" non vuole "regalare l'Italia ai partiti". C'è una classe dirigente che considera l'esperimento del Professore un punto di non ritorno. Dopo questo governo niente potrà e dovrà essere più prima. Quindi, bisogna trovare il modo di prolungare la "formula" per almeno un'altra legislatura. Troppe e troppo complesse sono ancora le riforme da fare. Non solo la crescita, il mercato del lavoro, le liberalizzazioni. A questo governo la comunità degli affari chiede di tutto e di più. Abbattere "i privilegi della casta" e fare le "vere privatizzazioni", valorizzare il patrimonio immobiliare e "rifondare la pubblica amministrazione", ripensare le Authority e portare le piccole imprese in Borsa. Non un programma emergenziale. Piuttosto un piano quinquennale. Oltre tutto, da portare avanti "senza ascoltare le parti sociali". Cioè senza farsi bloccare dai sindacati.

Qui si annida la vera incognita, nell'endorsement che il Grande Capitale offre al premier con il suo lunghissimo applauso. Piaccia o no, quello di Monti è vissuto da tanta parte del Paese come il governo delle élite. Un governo che rischia di essere appiattito sulla frontiera di un'altra antipolitica. Stavolta calata dall'alto e non salita dal basso. Ma il risultato non cambia. Il Professore, opportunamente, prova a sottrarsi. L'insistenza con la quale ribadisce il suo mandato "a termine" è credibile: dire che questo governo è "di breve durata", ed ha come orizzonte massimo "la prossima primavera", è un modo per sollecitare la politica a riappropriarsi del suo primato. Il passaggio sui Salotti Buoni è ineccepibile: dire che "in passato hanno tutelato bene l'esistente e consentito la sopravvivenza un po' forzata dell'italianità di alcune aziende, impedendo la distruzione creatrice schumpeteriana", è un modo per accusare i capitalisti in nome del capitalismo.

Ma al fondo, e prima ancora di capire cosa accadrà nel 2013, il problema di Monti è ancora una volta quello di costruirsi un vero "popolo". Di guadagnarsi sul campo, con l'equità fiscale e la giustizia sociale, un consenso che vada ben oltre il pur importante "recinto" di Piazza Affari. L'Italia si è finalmente liberata del governo populista del Cavaliere. Ma aspetta ancora il governo popolare del Professore.

(21 febbraio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/02/21/news/capitale_bis_giannini-30231764/
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« Risposta #244 inserito:: Febbraio 26, 2012, 06:11:20 pm »

   
L'ANALISI

Un lasciapassare ad personam

di MASSIMO GIANNINI

Le sentenze si rispettano. Sempre. Sia quando esaudiscono un'aspettativa, sia quando la frustrano. Promanano dai tribunali della Repubblica, dunque da un potere riconosciuto dalla Costituzione. Per questo, anche la sentenza che ha salvato Silvio Berlusconi dalla condanna per il caso Mills merita rispetto. Ciò non toglie che anche questa, come molte altre che l'hanno preceduta, sia l'ultima ferita allo Stato di diritto. L'ennesino salvacondotto "ad personam", che ha permesso all'ex presidente del Consiglio di sottrarsi al suo giudice naturale. I luogotenenti della propaganda arcoriana sono già all'opera. Raccontano la solita favola, che purtroppo abbiamo imparato a conoscere in questi quasi vent'anni di eclissi della ragione. "È finita la folle corsa dei pubblici ministeri", esulta Ghedini. "La persecuzione è fallita, ho subito oltre 100 processi e sono stato sempre assolto", ripete il Cavaliere. Manipolazioni e mistificazioni, ad uso e consumo di un'opinione pubblica narcotizzata e di un'informazione addomesticata.

La prima bugia. La corsa dei pm non è stata affatto "folle". Nella vicenda Mills, come la sentenza della Corte di Cassazione ha già certificato nell'aprile 2010, confermando sul punto le due precedenti pronunce di primo e secondo grado, è scritto nero su bianco: Berlusconi fu il "corruttore" dell'avvocato inglese, che ricevette 600 mila dollari per testimoniare il falso nelle inchieste sui fondi neri depositati nelle società offshore della galassia
Mediaset. Ora sarà necessario aspettare il deposito delle motivazioni, ma anche quest'ultima pronuncia del tribunale di Milano riconferma quell'impianto accusatorio. Mills fu corrotto dal Cavaliere, come il pm Fabio De Pasquale, tutt'altro che folle, ha tentato di dimostrare in questi cinque lunghi anni di processo. E se il Cavaliere non subisce la condanna che merita, questo non accade perché "non ha commesso il fatto", o perché "il fatto non sussiste", come prevedono le formule di assoluzione piena. Ma dipende solo dal fatto che il reato è prescritto. E non è prescritto per caso. Le irriducibili tattiche dilatorie della difesa da una parte, le insopportabili pratiche demolitorie del governo forzaleghista dall'altra, hanno "cucito" la prescrizione sulla figura dell'ex premier.

Qui sta la seconda bugia. Berlusconi ha subito finora non 100 processi, ma 17. Di questi 4 sono ancora in corso: diritti Mediaset, Mediatrade, Ruby e affare Bnl-Unipol. Di tutti gli altri, solo 3 si sono conclusi con un'assoluzione, per altro con formula dubitativa. Tutti gli altri 11, compreso l'ultimo sul caso Mills, si sono risolti grazie alle norme ad personam che lo stesso Berlusconi, usando il pugno di ferro del governo, ha imposto al Parlamento per fuggire dai processi, invece che difendersi nei processi. Depenalizzazione dei reati di falso in bilancio (da All Iberian alla vicenda Sme-Ariosto), estensione delle attenuanti generiche (dall'affare Lentini al Consolidato Fininvest), riduzione dei tempi della prescrizione (dal Lodo Mondadori al caso Mills, appunto). Sono tante le "leggi-vergogna" con le quali il presidente-imputato è intervenuto nella carne viva dei suoi processi, per piegarne il corso e l'esito in suo favore.

Anche la sentenza di ieri, dunque, è il frutto avvelenato di questa scandalosa semina berlusconiana. Un irriducibile cortocircuito tra istituzioni. Un insostenibile conflitto tra poteri. L'esecutivo militarizza il legislativo per sottomettere il giudiziario. Quella stagione, per fortuna, è politicamente alle nostre spalle. Ma i danni collaterali, purtroppo, continuano a scuotere il Paese. In una destra ormai popolata di anime perse, ma non per questo meno irresponsabili, c'è già chi vede in questa prescrizione processuale l'occasione di un riscatto politico per il Cavaliere. Questa sì, è una vera follia. L'incubo berlusconiano l'abbiamo già attraversato, e continuiamo ancora a pagarne il prezzo sulla nostra pelle e con le nostre tasche. A chi oggi continua a protestare a vanvera per il "golpe in guanti bianchi" di Mario Monti, bisognerà ricordare che se in Italia c'è stato davvero un ciclo di "sospensione della democrazia", l'abbiamo vissuto con il governo del Cavaliere. Non certo con quello del Professore.


(26 febbraio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/02/26/news/un_lasciapassare_ad_personam-30515797/
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« Risposta #245 inserito:: Marzo 02, 2012, 10:58:51 am »

LE IDEE

L'opa ostile sul professore

di MASSIMO GIANNINI


È PARTITA l'Opa su Monti. Ed è più ostile di quanto non sembri. Dopo Casini, anche il Cavaliere lancia dunque la sua offerta pubblica d'acquisto sul Professore. Silvio Berlusconi ha avvelenato i pozzi per un quasi ventennio, costruendo un "bipolarismo di guerra" fondato sull'aggressione e la delegittimazione dell'avversario.

E adesso, come per miracolo, si concede una folgorazione tardiva: la Grosse Koalition all'italiana, o all'amatriciana. Pdl, Pd e Terzo Polo, secondo l'ex premier, dovrebbero accordarsi per candidare Mario Monti a Palazzo Chigi anche per la prossima legislatura.

Sulla carta, una proposta tutt'altro che peregrina. L'ipotesi di un "Monti bis" riflette un sentimento diffuso. Prima di tutto nella testa vuota di una politica che non ha più molto da offrire agli elettori, e che per questo si affida al governo tecnico come ad uno scudo dietro al quale ripararsi, in attesa di ricostruire una piattaforma programmatica accettabile e autosufficiente.

E poi soprattutto nella pancia disillusa di un Paese che invece ha molto da chiedere, e che per questo guarda al governo tecnico come a un punto di non ritorno, una riserva imperdibile di competenza e di credibilità alla quale attingere finché si può. Letta in questa chiave, la mossa di Berlusconi è allo stesso tempo astuta e disperata.

L'astuzia consiste nell'ennesima operazione di mimesi politica e di trasformismo mediatico. Il Cavaliere vuol far credere agli italiani che il governo montiano è
la prosecuzione naturale, sia pure con altri mezzi, del governo berlusconiano. "Lo sosteniamo, perché sta portando avanti il nostro programma". Questo ripete l'uomo di Arcore, per spiegare il suo endorsement nei confronti del Professore. Per questo può restare a Palazzo Chigi altri cinque anni. "È uno di noi": questo è il messaggio implicito che la propaganda berlusconiana tenta di trasmettere all'opinione pubblica.

Ma a dispetto della banale vulgata arcoriana, a muovere il Cavaliere non è un improbabile "spirito costituente". È invece la solita intenzione di confondere le acque e nascondere i problemi. Lo dicono i fatti. In questi lunghi anni di avventura cesarista e populista, Berlusconi non ha mai neanche provato a fare una seria riforma delle pensioni (che la Lega gli ha sempre bloccato) né un pacchetto serio di liberalizzazioni (che la ex An gli ha sempre avversato).

Non ha mai neanche provato a far pagare le tasse agli evasori, né a far pagare l'Ici alla Chiesa. Dunque, non si vede proprio in cosa consista la presunta "continuità" di azione e di ideazione tra il governo forzaleghista di ieri e quello "di impegno nazionale" di oggi. Il "decisionismo" moderato di Monti non è in alcun modo assimilabile al radicalismo inconcludente di Berlusconi.

Ma al Cavaliere, oggi, conviene azzardare l'Opa sul Professore per due ragioni. La prima ragione riguarda il centrodestra. Tutti i sondaggi lo dimostrano: senza la Persona che l'ha inventato e costruito a sua immagine e somiglianza, il partito personale si dissolve nel Paese, scivolando verso un drammatico 20% di consensi. Se le condizioni non mutano, il Pdl è condannato a una sconfitta sicura, sia alle amministrative di primavera sia alle politiche dell'anno prossimo.

Non solo: senza il collante del leader onnipotente e carismatico, il partito si disgrega al suo interno, confermando il fallimento della Rivoluzione del Predellino e la natura "mercenaria" di una destra tenuta assieme non dagli ideali, ma solo dagli interessi.

Con l'annessione unilaterale di Monti, il Cavaliere da un lato annega l'inevitabile disfatta elettorale dentro uno schema di Grande Coalizione dove non vince e non perde nessuno, e dall'altro lato rappattuma i cocci di un partito altrimenti destinato a una serie di scissioni a catena.

La seconda ragione riguarda il centrosinistra. Con questo "audace colpo", Berlusconi cerca di rimandare la palla avvelenata nel campo di un Pd già diviso, costretto a dire no, per il 2013, ad un patto per un "governo di salute pubblica" di cui è oggi il principale contraente e garante.

Qui, dunque, sta la disperazione della "svolta" berlusconiana. Una scelta imposta dall'istinto di sopravvivenza, e non certo dal "senso di responsabilità". Fa bene Bersani a sottrarsi immediatamente all'"alleanza innaturale". Farebbe bene Monti a sottrarsi gradualmente all'"abbraccio mortale".

Il Professore deciderà tra un anno se e come "capitalizzare" la sua esperienza politico-istituzionale. Ma una cosa è certa: il "montismo", per come lo stiamo imparando a conoscere, non è e non sarà mai riducibile a una "variante mite" del berlusconismo.

m.giannini@repubblica.it
 

(02 marzo 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #246 inserito:: Marzo 22, 2012, 12:21:17 pm »

COMMENTO

Il velo strappato

di MASSIMO GIANNINI


"NIENTE birra e panini al numero 10 di Downing Street", era il motto di Margareth Thatcher ai tempi della storica vertenza con i minatori inglesi. Nella Gran Bretagna di Iron Lady con i sindacati non si trattava. Trent'anni dopo, nell'Italia di Mario Monti le porte di Palazzo Chigi sono aperte: con le parti sociali si tratta, e si è trattato a lungo in questi giorni e in queste settimane. Ma il risultato pratico è lo stesso. Se i "corpi intermedi" della società condividono le scelte, tanto meglio. In caso contrario, il governo va avanti comunque.
Lo strappo si è dunque compiuto. Il presidente del Consiglio ha deciso di scrivere la sua riforma del mercato del lavoro sacrificando la Cgil. Un sacrificio pesante, e gravido di conseguenze. È ancora una volta l'articolo 18 a segnare un decisivo cambio di fase, che modifica strutturalmente non solo le relazioni industriali, ma anche le consuetudini politiche del Paese. Dietro alla rottura tra Monti e Camusso c'è molto di più di un dissenso sulle nuove norme che regolano i licenziamenti. C'è la fine della concertazione, che ha scandito i rapporti tra politica ed economia nella Seconda Repubblica. C'è la fine di una costituzione materiale, che dal 1992 ha affiancato la Costituzione formale nelle fasi più acute della crisi italiana.

Nel passo compiuto dal governo c'è una svolta di merito. Anche nella legislazione giuslavoristica italiana cade quello che tutti consideravano l'ultimo tabù. L'articolo 18, cioè l'obbligo di reintegrare il lavoratore, resterà solo nei licenziamenti per motivi discriminatori, e varrà per tutte le aziende, comprese quelle con meno di 15 dipendenti. Ma a questa estensione "dimensionale" della tutela corrisponde una limitazione di quella "funzionale". Nei licenziamenti per motivi disciplinari soggettivi toccherà al giudice decidere se applicare la reintegra o l'indennizzo. E nei licenziamenti per motivi economici oggettivi scatterà solo l'indennizzo. Proprio quest'ultima è stata la molla che ha fatto scattare il no della Cgil.

Sarebbe ingeneroso liquidare questo no come il solito riflesso pavloviano di una deriva sindacale massimalista e conservatrice.
La preoccupazione della Camusso, ancorché non del tutto condivisa da Bonanni e Angeletti, è tutt'altro che infondata. In questo nuovo schema l'articolo 18, di fatto, non viene "manutenuto", ma manomesso. I diritti si trasformano in moneta. Una forzatura paradossalmente accettabile, in un Paese che cresce a ritmi del 3% e crea un milione di posti di lavoro l'anno, o in un Paese che ha un sistema collaudato e coperto di flexsecurity scandinavo. Non nell'Italia di oggi, in piena recessione, con una disoccupazione giovanile del 29,7% e un nuovo sistema di ammortizzatori sociali che entrerà a regime solo nel 2017. In queste condizioni, la "via bassa" della produttività e della competitività scelta finora dalle imprese espone i lavoratori a un rischio oggettivo: qualunque crisi aziendale sarà regolata con i licenziamenti per motivi economici, al "prezzo" di un indennizzo che costerà poco più di un qualunque pre-pensionamento.

Questo aspetto non può essere trascurato, in un sistema produttivo che investe assai poco (negli ultimi dieci anni la quota di ammortamenti dell'industria è calato dal 6 al 3,7% rispetto al fatturato) e che già ora tende a far pagare ai più deboli il conto della crisi.
È un problema serio, che indebolisce il molto di buono che pure c'è nella riforma del governo, dall'introduzione di una tutela universale per chi perde il lavoro al disincentivo alle troppe forme contrattuali che hanno perpetuato finora il massacro sociale del precariato.
E stupisce che il premier giustifichi la decisione di scardinare l'articolo 18 con la necessità di far cadere un impedimento "vero o presunto" agli investimenti esteri in Italia. Non si comprime un diritto, in nome di una "presunzione". Se c'è anche solo un ragionevole dubbio che per le imprese straniere l'articolo 18 sia "un alibi" per non investire, allora le si convince con la forza dei numeri.
E i numeri, oggi, dicono che su 160 mila cause di lavoro pendenti solo 300/500 sono attivate ai sensi di quella norma, che dunque è un falso problema.

Ma nel passo compiuto dal governo c'è anche una svolta di metodo. Monti lo spiega con una chiarezza esemplare. Quando riconosce il dispiacere per la rottura con la Cgil, ma aggiunge che il "potere di veto" non è più consentito a nessuno. Quando racconta di aver cercato fino all'ultimo il consenso di tutti, ma annuncia che al vertice finale di domani "non ci sarà alcuna firma" delle parti sociali su un documento del governo. Quando ammette che il dialogo con le parti sociali "è importantissimo", ma avverte che non può tradursi in una "cultura consociativa" che in passato ha scaricato il costo degli accordi sulla collettività. La cesura, culturale e politica, è chiarissima: il governo consulta, ma non concerta. Il suo unico interlocutore è il Parlamento, ripete più volte il premier. È al Parlamento che questo governo risponde, ed è in Parlamento che questo governo si andrà a cercare i numeri che servono a far passare questa riforma.

È un principio incontestabile. La sovranità del potere legislativo non è in discussione. Neanche (o meno che mai) per un governo tecnico che si regge su una convergenza tripartita, piuttosto che su una maggioranza organica. Ma anche qui ci sono due domande, che non possono essere evase. La prima domanda: il governo ha fatto davvero tutto il possibile per imbarcare anche la Camusso nell'intesa?
Il dubbio è legittimo: l'impressione che in una parte del governo e del Parlamento vi siano forze che animate da una rivincita ideologica spingono per "dare una lezione" alla Cgil è forte, e non da oggi. Come è forte l'impressione che all'esecutivo, in fondo, non dispiaccia presentare a Bruxelles e ai mercati una riforma del lavoro accompagnata dallo "scalpo" del sindacato più importante, da esibire come un trofeo di "guerra".

La seconda domanda: il governo ha chiare le implicazioni politiche di questo strappo? L'accordo separato che esclude la Cgil riapre una drammatica spaccatura dentro il Pd. Il silenzio di Bersani è assordante, e rivela da solo l'enorme imbarazzo di un partito irrisolto, che sarà pure attraversato dalla faglia "socialdemocratica", ma che resta pur sempre l'"azionista di riferimento" del governo Monti.
Il presidente del Consiglio non può non essere consapevole di cosa può accadere nel centrosinistra (e magari anche nella Lega) di qui al voto parlamentare sulla riforma. Caduto un tabù, può cadere anche un governo.

(21 marzo 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #247 inserito:: Marzo 26, 2012, 06:40:04 pm »

IL COLLOQUIO

Lavoro, la Fornero: "Possibili modifiche ma no a una riforma ridotta in polpette"

Parla il ministro del Lavoro: "Il disegno di legge non si può snaturare, niente reintegro per i licenziamenti economici.

Le imprese non abusino della flessibilità. 

Sull'articolo 18, il Pd è favorevole a una manutenzione.

La Cgil non ci ha mai fatto controproposte" 

di MASSIMO GIANNINI

 
ROMA - "Questa è una riforma seria ed equilibrata. Spero che i partiti capiscano: modifiche se ne possono fare, ma il governo non accetterà che questo disegno di legge venga snaturato, o sia ridotto in polpette". Schiumati almeno in parte i veleni ideologici della prima ora, Elsa Fornero riflette sullo scontro in atto intorno al disegno di legge che riscrive le regole sui licenziamenti, sui contratti flessibili e sugli ammortizzatori sociali.

E lancia un appello alle Camere: "Questo provvedimento potrà anche subire qualche cambiamento, ma chiediamo che il Parlamento sovrano ne rispetti l'impianto e i principi basilari. In caso contrario dovrà assumersi le sue responsabilità, e il governo farà le sue valutazioni".

Insieme al presidente del Consiglio Monti, il ministro del Welfare è al centro delle polemiche. Dopo la riforma delle pensioni, anche quella del lavoro la vede in prima linea, a fronteggiare le critiche. Come quelle di Susanna Camusso, che a Cernobbio ha contestato a Fornero le sue "lacrime di coccodrillo". "Non lo nego, ci sono rimasta male. Io avevo espresso il mio rammarico per la rottura con la Cgil. Ero stata sincera. Mi dispiace che il mio rammarico e la mia sincerità siano state giudicate con tanto sarcasmo". Distonie personali, che nascondono dissensi politici.

I sindacati contestano il metodo: con lo strappo deciso martedì scorso e ratificato venerdì in Consiglio dei ministri, Monti e Fornero hanno di fatto chiuso l'era della concertazione, relegando le parti sociali a un ruolo di semplice consultazione. Il ministro non nega la portata della svolta, ma la argomenta.

"La linea l'ha tracciata il presidente Monti: le discussioni con le parti sociali si fanno, e sono doverose, ma a un certo punto devono finire, e il governo deve trarre le sue conclusioni, anche se qualcuno non è d'accordo. Su questo, da parte nostra, c'è assoluta fermezza. Il fatto che il premier abbia ribadito che l'approvazione del disegno di legge avviene "salvo intese" ha un significato meramente tecnico. Vuol dire che ci riserviamo di scrivere le norme nel modo più chiaro e più completo possibile. Non vuol dire invece che su certe norme sia ancora in corso una trattativa. Non vuol dire che la discussione è ancora aperta, e che per un'altra settimana riparte la giostra, e qualcuno è ancora in tempo per salirci sopra. Il provvedimento è quello, e non cambierà fino al suo approdo in Parlamento".

Ma i sindacati (a questo punto non più solo la Cgil ma anche la Cisl, la Uil e la Ugl) contestano soprattutto il merito. Cioè la riscrittura dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che nella sua nuova versione esclude la possibilità di reintegro in caso di licenziamenti per motivi economici oggettivi. Anche su questo punto, Fornero rinnova la linea della fermezza.

"Abbiamo il massimo rispetto per il Parlamento, che valuterà il disegno di legge e deciderà se e come cambiare. Ma per quanto riguarda il governo, è chiaro che non accetteremo modifiche che snaturino il senso delle singole norme. E sull'articolo 18 il senso della nostra riforma è chiaro: nei licenziamenti per motivi economici oggettivi è previsto l'istituto dell'indennizzo, e non quello del reintegro. Si possono fare correzioni specifiche, ma questo principio-base della legge dovrà essere rispettato".

È proprio questo, tuttavia, il punto di frizione e di rottura maggiore con la Cgil, e anche con il Partito democratico. Il ministro del Welfare capisce, ma non condivide. "Io non voglio accusare nessuno, ci mancherebbe altro. Dico solo che il Pd si è più volte dichiarato disponibile a una "manutenzione" sull'articolo 18, anche se noi non abbiamo mai capito cosa questo significhi nella pratica. Quanto alla Cgil, non ci ha mai fatto controproposte... ".

Il leader della Uil Angeletti, tuttavia, nei giorni scorsi ha rivelato un retroscena che fa riflettere. I tre sindacati insieme avevano presentato al premier un pacchetto completo e già blindato, che anche per i licenziamenti economici (oltre che per quelli disciplinari) prevedeva il cosiddetto "modello tedesco", cioè la facoltà del giudice di decidere tra il reintegro e l'indennizzo del lavoratore. Monti avrebbe rifiutato l'offerta, confezionando un pacchetto che in realtà, a conti fatti, scavalca addirittura "a destra" il modello tedesco.

Perché questa forzatura? Fornero racconta una storia diversa: "La Cgil non si è mai spinta fin lì - sostiene - e quanto al modello tedesco noi non scavalchiamo nessuno. Le norme scritte in una legge ordinaria si interpretano, l'articolo 18 non è scritto nella Costituzione. Il nostro provvedimento prevede espressamente che le aziende non possano ricorrere strumentalmente a licenziamenti oggettivi o economici che dissimulino altre motivazioni. In questi casi, se il lavoratore proverà la natura discriminatoria o disciplinare del licenziamento, il giudice applicherà la relativa tutela. Non solo: il presidente Monti, nella stesura definitiva del ddl, si è impegnato a evitare ogni forma di abuso in questa materia. Dunque, nessuna macelleria sociale. Non distruggiamo i diritti di nessuno".

Per questo, secondo il ministro del Welfare, il Parlamento nell'esame del provvedimento dovrebbe rispettarne l'equilibrio. "Noi siamo sereni. Pensiamo di avere dalla nostra la forza e la bontà delle argomentazioni. Come sempre, avremmo voluto fare di più. Ma le assicuro che anche noi tecnici abbiamo un cuore, e sentiamo fino in fondo il disagio che pesa sulla vita di tante persone. Non è solo la Cgil ad avere una coscienza rispetto ai lavoratori, agli operai, ai giovani, ai disoccupati. Con questo disegno di legge, per la prima volta dopo tanti anni, cerchiamo di creare le condizioni per aumentare l'occupazione, rimettiamo mano agli ammortizzatori sociali".

L'ampiezza dell'intervento c'è, in effetti. Ma non si può nascondere la pochezza delle risorse. Con meno di 2 miliardi non si fa molto, per ridisegnare un sistema di tutele universali per tutti coloro che finora ne sono stati sprovvisti. "È vero - ammette Fornero - su questo le do ragione. Ai precari avremmo voluto dare di più, ma un po' d'indennità con la mini-Aspi gliel'abbiamo pur data. Tra niente e un po', le chiedo, cosa è meglio? La verità è che anche in questa riforma, come nelle altre che abbiamo fatto, abbiamo dovuto e dobbiamo tenere conto di tanti interessi contrapposti e di altrettanti opposti estremismi. In tanti, troppi dimenticano che il Paese è in grandissima difficoltà, e le risorse a disposizione sono davvero poche. Per alcuni la grande riforma del mercato del lavoro è abolire del tutto l'articolo 18, per altri è abolire tutti i contratti flessibili. Noi ci muoviamo su questo sentiero, che è molto, molto stretto".

Il sentiero è stretto anche dal punto di vista politico. Bersani si prepara a un braccio di ferro parlamentare per modificare il provvedimento, Alfano giudica indebolito il governo per via della scelta rinunciataria del disegno di legge. "Un decreto legge - obietta Fornero - sarebbe stato una forzatura, data la vastità dei temi contenuti nel provvedimento. Ci sono regole precise, sulla necessità ed urgenza, e le regole non possono essere bypassate. La legge delega avrebbe rischiato di avere tempi persino più lunghi del ddl. Per questo abbiamo optato per quest'ultimo strumento. Ma guai se questo venisse letto come un cedimento, che consente ai partiti di fare melina, di allungare i tempi e di annacquare la riforma. Sarebbe un disastro per l'Italia, anche sui mercati".

Dunque, la riforma va approvata in fretta, e non va depotenziata. Ammesso che sia una riforma "potente" e capace di creare posti di lavoro, e non una battaglia simbolica per abbattere un tabù, o peggio un pretesto offerto alle imprese per difendere la competitività licenziando i lavoratori invece che aumentando gli investimenti.

Il ministro del Welfare non si sottrae, e dopo aver esortato il Parlamento si rivolge anche agli industriali: "Non mi aspetto certo licenziamenti di massa, come effetto della nostra riforma. Purtroppo mi aspetto i licenziamenti legati alla recessione, che già c'erano prima e che continueranno ad esserci, perché la crisi non è affatto finita. Ma proprio per questo rinnovo l'appello ai nostri imprenditori: non abusate della buona flessibilità che la riforma introduce. Sarebbe il modo più irresponsabile di farla fallire".

m.giannini@repubblica.it

(26 marzo 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #248 inserito:: Marzo 29, 2012, 05:09:00 pm »

RETROSCENA

Riforma del lavoro, giustizia e Rai le mosse del premier da Tokyo

Il governo studia una exit strategy sull'articolo 18. "Voglio unire, non dividere", dice Monti.

Severino dirà no alla proposta di abolire la concussione. Sul dg di Viale Mazzini scelte in "totale autonomia"

di MASSIMO GIANNINI


"IO VOGLIO unire, non dividere. Voglio trovare soluzioni che facciano avanzare il Paese, non creare problemi che spacchino partiti o parti sociali...". Mario Monti è appena rientrato dalla cena ufficiale con le autorità giapponesi, e al telefono con la squadra dei suoi collaboratori di Palazzo Chigi tiene il briefing di fine giornata.

Una giornata che ruota intorno a due "fusi" diversi. A Tokyo mancano pochi minuti alla mezzanotte. A Roma sono quasi le cinque del pomeriggio. In Giappone il presidente del Consiglio incassa l'ennesimo successo in termini di credibilità e prestigio internazionale. In Italia registra invece un ulteriore inasprimento dei rapporti politici con la sua non-maggioranza, e in particolare con il Pd.

Per questo, sia pure a dodicimila chilometri di distanza, Monti ci tiene a raffreddare il clima. "Non ho mai inteso mancare di rispetto alle forze politiche - chiarisce con il suo 'team' - e sono io il primo a lavorare per cercare misure condivise. Anche sulla riforma del mercato del lavoro".

Dopo l'evocazione del motto andreottiano sul "meglio tirare a campare che tirare le cuoia", ora la coalizione tripartita fibrilla per il nuovo avvertimento montiano che rimbalza dall'Asia: "Il governo ha il consenso, i partiti no". Benzina sul fuoco delle polemiche, in un momento in cui le fiamme sono già altissime per lo scontro sull'articolo 18. Il premier osserva: frasi estrapolate da ragionamenti più ampi, che non volevano "irridere nessuno".

Monti sa bene che non può fare a meno del sostegno dei partiti. E come ha provato a spiegare a più riprese a tutti i suoi interlocutori, prima e durante questo viaggio asiatico, non vuole in alcun modo che nel Palazzo e nel Paese si generi la sensazione di una "asimmetria politica": con "un Pdl che supporta il governo, e un Pd che lo sopporta". Sarebbe inaccettabile. Ma è quello che rischia di succedere, se non si riporta il conflitto sui licenziamenti su un terreno di ragionevolezza.

Non è facile. Per ragioni politiche: la svolta decisionista e post-concertativa voluta dal premier sull'articolo 18 ha creato una frattura oggettiva con il centrosinistra e con il sindacato. E poi anche per ragioni personali: si racconta che Monti sia rimasto "profondamente dispiaciuto" per le parole di Bersani, che mercoledì della scorsa settimana, dopo la prima rottura con le parti sociali, alla direzione del Pd ha detto "il presidente del Consiglio non ha mantenuto le promesse".

Per un politico di professione sarebbe normale. Per il Professore non lo è affatto. "Si può non condividere una mia proposta, ma non si può dire che non mantengo la parola...", si è sfogato allora con i suoi collaboratori. Secondo la sua ricostruzione dei fatti, al vertice di maggioranza di venerdì 16 marzo, immortalato dalla famosa foto di gruppo trasmessa da Casini su Twitter, il premier aveva spiegato per filo e per segno la proposta sull'articolo 18, compresa la riscrittura della norma sui licenziamenti per motivi economici senza più la possibilità del reintegro.

Comunque siano andate le cose, ora i "pontieri" di Palazzo Chigi e quelli di Largo del Nazareno (Dario Franceschini in testa) sono al lavoro per ricucire lo strappo. Monti ci tiene a lanciare segnali distensivi, e lo ripete al telefono da Tokyo ai suoi luogotenenti: "Sono convinto che il varo di questa riforma sia importante, nell'interesse dei lavoratori, dei giovani, dei precari, dei disoccupati. Confido nel senso di responsabilità di tutti". Ma perché il varo di questa riforma unisca e non divida coalizione e partiti, come il premier auspica, è necessario sciogliere il nodo della tutela prevista nei "licenziamenti oggettivi o economici".

Il punto è delicatissimo. Monti al telefono mette a punto la "road map" delle prossime ore. Lo staff della Presidenza del Consiglio si riunirà oggi, insieme al ministro del Welfare Fornero e con gli uffici giuridici del Quirinale, per ragionare sulla stesura del testo del ddl. Lunedì sera, al rientro dall'Estremo Oriente, il premier troverà quel testo sulla sua scrivania, e deciderà il da farsi sul capitolo "Disciplina sulla flessibilità in uscita e tutele del lavoratore".

Si devono vagliare rilevanti profili di costituzionalità, sui quali si stanno applicando i giuristi del Colle. Si possono esaminare graduazioni diverse nell'applicazione delle tutele tra vecchi e nuovi assunti, sulle quali sta facendo approfondimenti il ministro Fornero. Si possono studiare correttivi alla fase giurisdizionale, che nell'accertamento della natura dei licenziamenti impugnati potrebbero assegnare un ruolo diverso al giudice, sui quali si sta esercitando il Guardasigilli Severino.

Una cosa è certa, e Monti lo ribadisce ai suoi anche da Oltre-Oceano: "Qui non c'è qualcuno che deve fare passi indietro, semmai tutti insieme dobbiamo fare un passo avanti". Il premier vuole evitare una "conta" in Parlamento sull'articolo 18, che spaccherebbe la maggioranza e i partiti che la compongono. Sarà il governo, pare di capire, a prendere un'iniziativa autonoma. Prima o all'avvio dell'iter parlamentare. Proprio per far sì che sulla riforma si arrivi a un via libera condiviso, almeno a livello politico.

I rapporti di forza dentro la maggioranza devono essere salvaguardati. Una logica di vincitori e vinti sarebbe esiziale per la vita stessa dell'esecutivo. A dispetto delle apparenze, che riflettono il grande gelo tra Monti e Bersani, il capo del governo percepisce il beneficio di un Pd convinto e coeso alle sue spalle, e intuisce il maleficio di un Pdl che aspetta solo di potergli rinfacciare un "cedimento alla sinistra" sui licenziamenti, per imporgli un cedimento uguale e contrario sulle questioni che stanno più a cuore alla destra. Due su tutte: la giustizia e la Rai. Sono dossier velenosi, di cui Monti conosce la pericolosità. Anche per questo continua a monitorarli anche dall'altra parte del mondo.

Sulla giustizia, dopo l'incidente della telefonata di Cicchitto e alla vigilia del vertice di domani tra la Severino e i tecnici del tripartito, il "mandato" è chiaro: non si accettano mercanteggiamenti, e se qualcuno pensa di bussare alla porta del governo per chiedergli di far suo l'emendamento Pd che abolisce la concussione e cancella i processi in corso (a partire da quello di Silvio Berlusconi sul caso Ruby per arrivare a quello di Filippo Penati sul caso Falck) ha sbagliato indirizzo.

Sulla Rai i tempi sono più lunghi e se ne riparlerà dopo il primo turno delle amministrative, ma anche qui la linea è tracciata: il premier vaglierà i nomi del nuovo cda e sceglierà il nuovo direttore generale (resistendo alle pressioni di chi in queste ore punta a una riconferma di Lorenza Lei) in totale autonomia dalle segreterie di partito.

Queste sono le "pratiche" che lo aspettano lunedì prossimo, al suo ritorno a Roma. Pratiche roventi che per un attimo, sabato scorso, avevano quasi convinto il premier a rinunciare al suo viaggio in Asia. Poi ha prevalso un altro ragionamento, con il quale Monti conclude il suo briefing telefonico: "Dopo Wall Street e la City, il Nikkei e soprattutto la Cina sono troppo importanti per riaffermare la credibilità dell'Italia e ristabilire la fiducia dei mercati".

L'operazione sembra riuscita. L'America di Obama, che ha decretato a suo tempo la "liquidazione" per via finanziaria del governo Berlusconi (al quale non ha mai perdonato i rapporti con Putin e Gheddafi), ha già ricominciato a "comprare Italia", e ora pare ci sia addirittura una lista di multinazionali già pronte a investire da noi, in attesa di capire l'esito della partita sui licenziamenti.

In Europa il premier ha giocato di sponda con le istituzioni comunitarie e con la Bce. Ha potuto contare su Mario Draghi, il cui ragionamento è stato chiarissimo: se aderite al "fiscal compact", per la Banca centrale è più facile lanciare il maxi-piano di rifinanziamento per le banche. E se passa questo, le banche italiane faranno provvista all'Eurotower all'1%, e con quei fondi potranno ricominciare a comprare Btp, accelerando la riduzione dello spread. È quello che è accaduto e sta accadendo. Ha potuto contare sul sostegno di Angela Merkel, presso la quale è interceduto personalmente Papa Ratzinger.

Per completare l'operazione "Salva-Italia" all'estero mancava solo l'Asia. "E l'Asia sta rispondendo con entusiasmo", è l'ultimo messaggio che arriva da Tokyo, quando lì è quasi l'una di notte e in Italia sono le sei del pomeriggio. Anche grazie al lavoro di un "ambasciatore" che finora è rimasto dietro le quinte, ma che ha aiutato e sta aiutando Monti passo passo, nella prossima due giorni cinese: Romano Prodi, che a Pechino è più apprezzato e coccolato che a Roma. Che sia il destino dei Professori prestati alla politica? Tocca a Monti, da martedì prossimo, dimostrare il contrario.

m.giannini@repubblica.it
 

(29 marzo 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #249 inserito:: Aprile 05, 2012, 10:39:34 am »

L'EDITORIALE

Il riformismo della democrazia

di MASSIMO GIANNINI


UNA RIFORMA "di rilievo storico". Mario Monti saluta così la nuova disciplina del mercato del lavoro. Un giudizio fin troppo enfatico.
La Storia va sempre maneggiata con cura. Ma la soddisfazione del presidente del Consiglio è comprensibile. In poco più di due mesi, il suo governo è riuscito dove sette governi precedenti avevano fallito in poco meno di vent'anni.

Il definitivo via libera al testo del disegno di legge, ottenuto con la mediazione della maggioranza tripartita e la non-opposizione della Triplice sindacale, è un traguardo ad alta intensità politica, anche se ad incerto impatto economico. Un primo passo avanti sulla via di una modernizzazione ancora troppo lontana, e di un Welfare ancora troppo povero.

Come sempre, in questi casi si redige la lista dei vincitori e i vinti. Mai come stavolta ha vinto il riformismo. La pratica più difficile, ma più promettente. Quella della democrazia, che comporta la fatica del confronto, se serve dello scontro, e che alla fine decide senza rinunciare per principio alla ricerca del consenso. Quella del buonsenso governante, che respinge i veti ma sa ricomporre i conflitti in quello che una volta si sarebbe definito "un equilibrio più avanzato". Quella del metodo concertativo, che può anche prescindere dall'assenso preventivo delle parti sociali, ma riconosce come valore la coesione nazionale.

Monti ha avuto il merito di non farsi imprigionare dall'algida camicia di forza del tecnico, che vive e opera nel vuoto della statica professorale e della meccanica mercatista, senza curarsi della dinamica sociale e della logica politica. Ha avuto l'intelligenza di ascoltare e il coraggio di correggere la sua impostazione iniziale, su un tema cruciale e non solo simbolico come l'articolo 18 che, piaccia o no ai liberisti un tanto al chilo, chiama in causa i diritti del lavoro grazie ai quali un individuo diventa un cittadino.

L'esito non era affatto scontato. La zavorra ideologica con la quale era stata caricata la questione dei licenziamenti rischiava di trascinare nel gorgo l'intera riforma. Azzerando e annullando anche tutto quello che c'era di buono. L'avvio di una lotta al drammatico dualismo occupazionale, che vede padri protetti e figli senza tutele. L'inizio di una guerra senza quartiere all'apartheid del precariato, con l'incentivo a recuperare la centralità del contratti a tempo indeterminato e il disincentivo ad abusare dei co. co. pro e delle finte partite Iva.
 
La riscrittura dell'articolo 18, nella prima versione annunciata dal governo il 21 marzo scorso, era inaccettabile perché ingiusta.
Introduceva una disparità clamorosa tra il diritto dell'azienda a licenziare e quello del lavoratore a non essere licenziato. Declinava in modo del tutto arbitrario le forme di tutela, escludendo a priori quella "reale" del reintegro nei licenziamenti illegittimi per motivi economici.

Impuntarsi su questa ingiustizia sociale, e impiccarsi a questa antinomia giuridica, avrebbe rischiato di mettere a repentaglio l'esistenza dell'intero provvedimento (oltre che la vita dello stesso governo). Monti l'ha capito, e ha modificato la norma prima ancora di trasmettere il disegno di legge al presidente della Repubblica.

Un atto di responsabilità, oltre che di equità. Il compromesso finale è accettabile, anche se per una valutazione oggettiva occorrerà leggere il testo del provvedimento per chiarirne i punti ancora sospesi, a partire dall'onere della prova nel "nuovo" processo del lavoro.
 
Bersani ha avuto il merito di dar voce a questo bisogno di giustizia sociale, intestandoselo fino in fondo e a prescindere dalla battaglia di Susanna Camusso. È riuscito a convincere il premier a reintrodurre l'istituto del reintegro e a dare più poteri al giudice nell'accertamento della manifesta insussistenza o infondatezza del licenziamento economico.

Soprattutto, è riuscito a tenere unito il Pd, su una posizione critica ma costruttiva perché propositiva. Non si è lasciato attraversare dalla faglia socialdemocratica interna al partito né stritolare nella cinghia di trasmissione al contrario rispetto alla Cgil. Anche questo esito non era affatto scontato. La prospettiva di un'implosione del Pd, dilaniato tra le due anime del socialismo europeo e del cattolicesimo democratico, era tutt'altro che irrealistica.

Il segretario, questa volta, è riuscito a scongiurarla, proprio sulla frontiera più calda per l'intera sinistra. Il partito ha retto, su una linea progressista e riformista. E proprio questa è stata la chiave per convincere Monti a cedere e costringere Alfano e Casini a negoziare, senza contropartite di altra natura sul piano economico (come la flessibilità totale in entrata) e "contro-natura" sul piano politico (come la giustizia e la Rai).
 
Chi sicuramente ha perso, in questa partita ad alto rischio, è la nutrita schiera degli schumpeteriani d'accatto che, attraverso la mistica della "distruzione creatrice" del capitale, puntavano a consumare la loro vendetta ideologica e post-novecentesca contro il lavoro, e quindi contro la sinistra e il sindacato. Lo stormo dei falchi pidiellini che puntavano ad annettere Monti alla destra berlusconiana, che citavano a sproposito Giacomo Brodolini e Marco Biagi, che evocavano il decreto di San Valentino dell'84 e il titolo dell'Avanti nel primo centrosinistra del '63: "Da oggi ognuno è più libero".

Purtroppo non fu vero allora. Per fortuna non è vero oggi, almeno sul versante della libertà di licenziare. L'operazione revanchista non è riuscita. Cgil, Cisl e Uil, recuperando un accettabile livello di unità sindacale, hanno respinto l'attacco, dimostrando che la loro "resistenza" era mirata alla collaborazione e non alla conservazione.
 
Ora la riforma può attraversare in fretta e senza danni l'iter parlamentare. Anche questo è un valore aggiunto, come ha spiegato il premier: dopo la manovra anti-deficit, la stretta sulle pensioni e le liberalizzazioni, il fattore tempo nell'approvazione della legge sul lavoro conta quasi quanto il suo contenuto. Tuttavia, incassato il dividendo politico della riforma, quello che manca è ancora e sempre il dividendo economico.

Affermare che questa legge servirà "a creare posti di lavoro e a rilanciare la crescita", come hanno sostenuto il presidente del Consiglio e il ministro Fornero, è purtroppo velleitario, per non dire illusorio. In un ciclo di recessione acuta, questa riforma non basterà a sostenere l'occupazione e a rilanciare il Pil. Tra l'altro, con un sistema di ammortizzatori sociali e di politiche attive per il lavoro finanziati con poco più di 1,7 miliardi non si va lontano.
 
Lo sviluppo economico è altrove. E questa è la missione che tocca al governo, ora che l'"alibi" dell'articolo 18 è stato rimosso, portandosi via il grumo di polemiche e di risentimenti che da sempre lo accompagnavano. Aspettiamo (con pochissima fiducia) l'invasione delle multinazionali straniere, finalmente pronte a investire in un'Italia più "flessibile".

Proprio nel giorno della riforma "di rilievo storico", colpisce un'altra notizia: la Danieli, colosso della siderurgia italiana, annuncia un gigantesco piano di investimenti in Serbia. Ed elenca i motivi che la inducono a non scommettere sull'Italia: nell'ordine, "costo delle materie prime, costo della manodopera, scarsità di tecnici e ingegneri, cuneo fiscale e scarsa competitività del Sistema-Paese".

La rigidità del mercato del lavoro "in uscita" non figura nell'elenco. Come sostiene il ministro Fornero, "l'articolo 18 è stata una grande conquista, ma il mondo è cambiato". Come dimostra il caso Danieli, il vero tabù italiano non è l'articolo 18 che c'era, ma la crescita che non c'è.

m.giannini@repubblica.it
 
(05 aprile 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #250 inserito:: Maggio 02, 2012, 10:24:02 am »


IL COMMENTO

La fine del Nirvana

di MASSIMO GIANNINI


"NON TIRERÒ a campare", aveva promesso Monti il 26 aprile, con una sorprendente parafrasi del vecchio motto andreottiano. Da allora è passato poco più di un mese. E il presidente del Consiglio, in effetti, ha dato al Paese e al Palazzo l'impressione di una preoccupante deriva dorotea. Fiaccato dalla dolorosa polemica sulla riforma del mercato del lavoro, bersagliato dalla velenosa Vandea fiscale cavalcata dai populisti di ogni colore, logorato dallo speculare ritorno di fiamma dei partiti, il premier ha rischiato un pericoloso galleggiamento. Per questo, da giorni, si aspettava un colpo d'ala, che riportasse il "governo di impegno nazionale" all'altezza del suo compito e l'Italia in sicurezza sui mercati internazionali.

Proprio nella settimana in cui è risuonata l'eco sinistra delle elezioni anticipate, quel colpo d'ala è finalmente arrivato. Il varo della "spending review" messa a punto dal ministro Giarda, e la nomina di Enrico Bondi come commissario straordinario per la razionalizzazione della spesa pubblica, segnano una svolta radicale nel cammino del risanamento e nel destino del governo. Cambia la quantità dei sacrifici finanziari che saranno richiesti agli italiani di qui al 2013. Cambia la qualità dei rapporti politici che accompagneranno la strana maggioranza fino al termine della legislatura.

Dal punto di vista economico, l'operazione di taglio della spesa corrente "comprimibile", cioè quella che non riguarda pensioni, stipendi e costo degli interessi sul debito, sancisce un'inversione di rotta attesa da anni. Dopo una manovra fin troppo infarcita di aumenti di imposta, il Professore trova il coraggio di compiere l'atto più politico che esista: incidere con il bisturi sul corpo amorfo della spesa improduttiva, nella quale si annidano non solo gli sprechi, ma anche e soprattutto le rendite di sottogoverno e le clientele partitiche ed elettorali.

Una missione che tentò meritoriamente, e purtroppo inutilmente, Tommaso Padoa-Schioppa, e che ora torna d'attualità con un obiettivo arduo ma ambizioso: risparmiare 4,2 miliardi in soli sette mesi.

Si poteva osare di più? È possibile.

Nel lungo periodo, la spesa "non incomprimibile" è cifrata da Monti in 295 miliardi. Nel breve, è stimata in 80 miliardi. I tagli potenziali, dunque, sono tanti. Ma l'importante è cominciare, e non rassegnarsi all'inerzia degli inasprimenti fiscali, né cedere al ricatto conservativo delle amministrazioni. E a questa impresentabile destra italiana, che ora si indigna per la nomina di Bondi sostenendo che non serve il "tecnico dei tecnici" per ridurre i costi del Leviatano statale, bisognerà pur chiedere dov'era e cosa faceva, mentre governava il Paese per quasi undici anni sugli ultimi diciotto, e la spesa corrente cresceva indisturbata del 34 per cento.

Il grande risanatore dei crack Ferruzzi e Parmalat avrà un compito difficile, e quasi proibitivo. Ma se c'è una chance di farcela, Bondi è l'uomo giusto. Competenza e coraggio non gli mancano. Per piegare le resistenze partitocratiche e burocratiche avrà bisogno di un sostegno granitico del governo che lo ha nominato, e di un appoggio politico delle parti sociali e delle forze più responsabili presenti in Parlamento. La stessa cosa vale per gli altri "consulenti" scelti dal premier, da Francesco Giavazzi che dovrà monitorare i tagli degli aiuti alle imprese, a Giuliano Amato che dovrà occuparsi del finanziamento ai partiti. È nell'interesse dell'Italia e dei contribuenti, che la "spending review" abbia successo. Solo così sarà possibile scongiurare l'aumento di due punti dell'Iva, già programmato per ottobre, e magari trovare risorse aggiuntive da restituire alle famiglie.

Dal punto di vista politico, la svolta di Monti è ancora più netta. La revisione dei criteri di spesa, per il premier, è l'occasione per regolare qualche conto sospeso con chi, nelle piazze o nelle aule di Montecitorio, in questi giorni ha irresponsabilmente gettato benzina sul fuoco della protesta anti-tasse. Il decreto Salva-Italia è troppo sbilanciato dal lato delle imposte, che assorbono i due terzi dell'intera manovra correttiva. La pressione fiscale è a livelli eccezionalmente alti, e crescerà ancora l'anno prossimo fino al livello record del 45,4 per cento del Pil. Ma in questo clima di perdurante instabilità finanziaria in Europa, e di destabilizzante tensione sociale in Italia, quello che sta facendo la destra è vergognoso, oltre che pericoloso.

La Lega di Maroni, il barbaro sognante che si spaccia "moderato", sobilla i comuni a non pagare l'Imu.

Il Pdl di Alfano, il segretario di Berlusconi che si proclama "responsabile", propone a chi ha pagamenti in sospeso dalla Pubblica Amministrazione di compensarli non versando le imposte fino ad esaurimento del suo credito. Mancava solo Giulio Tremonti, l'ex ministro dei condoni e dei tagli lineari, a lamentare "tasse e aumenti" e a evocare "un buco da 20 miliardi". Parole usate come pietre, in un discorso pubblico già fin troppo esasperato, da chi ha governato in questi ultimi tre anni e mezzo, e ha portato il Paese a un passo dalla bancarotta etica, politica ed economica. Guido Carli, a suo tempo, li avrebbe definiti "atti sediziosi". Oggi, più prosaicamente, possiamo definirli penosi esercizi di bassa demagogia, in cui si mescolano cinismo, opportunismo e "peggiorismo". Monti finalmente sbatte in faccia a questa sciagurata destra forzaleghista tutto il peso delle sue responsabilità storiche. Marca una cesura definitiva con Berlusconi, smascherando le sue nefandezze sui campi che gli sono da sempre più cari. Sulle tasse, gli ricorda le disinvolte campagne a favore dell'evasione e l'allegra cancellazione dell'Ici che oggi rende necessaria le reintroduzione dell'Imu.

Sulla giustizia, gli ricorda la "corruzione dilagante", cioè la vera "tassa occulta" che soffoca l'economia.

Sulle televisioni, gli ricorda lo scempio della Rai, del tutto priva di "logiche di trasparenza, merito e indipendenza dalla politica".

Anche solo per questa operazione-verità, gli italiani devono essere grati al Professore. Comunque vada, avrà avuto il merito di aver spazzato via il bugiardo "Nirvana" nel quale ci ha trascinato, per troppi anni, il Cavaliere.

m.giannini@repubblica.it
 
(01 maggio 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #251 inserito:: Maggio 22, 2012, 03:43:33 pm »

L'EDITORIALE

Un altro Paese

di MASSIMO GIANNINI

L'ITALIA cambia colore. Dal weekend elettorale, macchiato dal sangue innocente di Brindisi e dal sisma devastante di Ferrara, nasce una nuova geografia politica. Certo, c'è lo sfondamento trionfale di Grillo a Parma. Ma prima di questo, c'è il mutamento strutturale dei rapporti di forza tra i poli. Fino a ieri, tra i comuni con più di 15 mila abitanti, il centrodestra ne amministrava 98, il centrosinistra 56. Da oggi è l'opposto: il centrosinistra governa 95 città, il centrodestra solo 34. È finito un ciclo, anche se un altro non è ancora cominciato.

Tra primo e secondo turno, questo voto locale riflette in pieno la voglia irriducibile di cambiamento che attraversa il Paese su scala nazionale. Un bisogno di voltare pagina che avviene solo in parte "dentro" il sistema, ma che per il resto alligna non necessariamente "contro", ma sicuramente "fuori" dal sistema. Liquidato frettolosamente come "anti-politica", il fenomeno è in realtà molto più articolato e complesso. Nasconde piuttosto una domanda di "altra politica", alla quale i partiti tradizionali non sembrano più in grado di dare risposta.

Lo dice il pericoloso aumento dell'astensionismo, che ai ballottaggi è cresciuto di 13 punti rispetto al primo turno di due settimane fa e di 11 punti rispetto al secondo turno del 2007. Se ad una tornata locale in cui il cittadino può eleggere direttamente il suo sindaco vota solo il 51,4%, vuol dire davvero che quella che un
tempo si sarebbe definita la frattura tra Paese reale e Paese legale è ormai quasi insanabile, e che la sfiducia non riguarda più solo le nomenklature costose e parassitarie, ma la stessa democrazia rappresentativa.

Lo conferma il clamoroso successo del Movimento 5 Stelle, che va molto al di là della conquista finale nella "Stalingrado" emiliana, dove Pizzarotti ha quasi doppiato i voti del rivale Bernazzoli: vuol dire che ha intercettato non solo i consensi dirottati dal Pdl, ma anche quelli più arrabbiati del Pd. Il grillismo ha fatto il pieno quasi ovunque, da Genova (oltre il 15%) a Verona (9,5%), da La Spezia (10,7%) ad Alessandria (11.7%). Pur presentandosi solo in 101 comuni su 941, dopo il primo turno l'Istituto Cattaneo lo accreditava di un 8,7% a livello nazionale. Dopo i ballottaggi c'è già chi gli accredita addirittura un 20%. Probabilmente il dato è sovrastimato. Sicuramente l'offerta politica dei candidati sindaci scelti da Grillo è più credibile di quella che lui stesso propone per il governo del Paese.

Ma il dato politico è incontrovertibile: il comico genovese ha stravinto. E stavolta non c'è niente da ridere. I suoi competitori hanno ora il dovere del confronto: l'etichetta snobistica da "guitto" sfascista e qualunquista non può più servire. Lui stesso ha ora il dovere della responsabilità: la rendita facile e demagogica dei Vaffa-day non può più bastare.

L'Italia "azzurra" non esiste più: la scomparsa del Pdl dal territorio è più stupefacente persino di quella del suo padre-padrone dal Palazzo. Il partito del popolo delle Libertà ammaina la sua bandiera ovunque, dalle sue roccaforti del Nord alle sue casematte del Sud. E fa quasi tenerezza Angelino Alfano, il povero "segretario senza il quid", che vede capitolare la trincea proprio nella sua città natale, Agrigento. L'Italia "verde" va scomparendo: la disfatta della Lega è più sorprendente persino della resistenza del Senatur. E fa quasi sorridere Maroni, il povero "barbaro sognante", che tra le macerie giura "la traversata nel deserto è finita", senza capire che invece comincia solo adesso. L'asse Berlusconi-Bossi muore qui, insieme all'uso politico della Questione Settentrionale che la "premiata ditta" ne ha fatto in questi lunghi anni, nascondendo i più biechi interessi affaristici dietro i vessilli ideologici del populismo e del federalismo.

L'Italia "rossa" resiste, e semmai riallarga i suoi confini nelle zone in cui li aveva ridotti da anni. Ha ragione Bersani a rivendicare il risultato. Ma al leader del Pd non può sfuggire che il suo partito al momento vive e vegeta soprattutto grazie ai collassi dell'avversario. Non può sfuggirgli che il "grande partito dei progressisti italiani" oggi arriva a stento al 25%. Non può sfuggirgli che, nonostante le ultime "riconquiste" di schieramento, le insegne che svettano sui municipi di Milano o di Genova, di Napoli, di Cagliari o di Palermo non sono le sue. E quanto alla sconfitta di Parma, non può sfuggirgli l'effetto surreale che produce lui stesso, quando replica "non è vero che perdiamo ovunque contro i grillini, il Pd ha vinto a Budrio e a Garbagnate". Questa è quasi comicità involontaria.

Infine, con il fallimento del Terzo Polo di Casini e senza una seria riforma della legge elettorale, a Bersani non può sfuggire che di qui al 2013 non ci sono vie d'uscita: può solo riproporre un caravanserraglio simil-unionista, insieme a Vendola e a Di Pietro. Una non-soluzione che forse serve a vincere ma non a governare, e che gli italiani hanno già testato con esiti disastrosi nel 2006.

Sfiancati da un quasi ventennio di Forza Italia, gli elettori ora chiedono con forza un'"altra Italia". Il Pd è ormai il primo partito della nazione. Tocca alla sinistra riformista riscrivere il progetto. Elaborare i contenuti e individuare il "contenitore" che possa raccogliere l'istanza di rinnovamento sempre più urgente nel Paese. Non ci si può sedere sulla riva del fiume, e aspettare che passi il cadavere dei nemici. Chi si ferma a Budrio e Garbagnate è perduto.

m.giannini@repubblica.it
 

(22 maggio 2012) © Riproduzione riservatA

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« Risposta #252 inserito:: Maggio 31, 2012, 04:30:14 pm »

IL COMMENTO

Il dovere della verità

di MASSIMO GIANNINI


CORVI in Vaticano, talpe a Palazzo Chigi? Il giallo del disegno di legge sulla riforma dell'organismo disciplinare per l'operato dei magistrati è molto più di un incidente di percorso. Forzatura burocratica, manovra politica. Qualunque sia il movente, è un episodio grave e inquietante, che si verifica nel cuore della struttura di governo e si traduce nella sconfessione pubblica di uno dei suoi uomini più rappresentativi: Antonio Catricalà. La smentita della presidenza del Consiglio è netta: quel testo, anticipato ieri da Repubblica, esiste ed è stato all'attenzione del governo. Ma il premier Monti "aveva già da tempo ritenuto tale iniziativa inopportuna e non percorribile". E il guardasigilli Severino l'aveva bocciato, considerando "impossibile una simile riforma attraverso legge ordinaria anziché costituzionale". A questo punto una domanda si impone: chi e perché lo ha promosso e lo ha portato avanti?

La portata tecnicamente eversiva di quel disegno di legge è sotto gli occhi di tutti. Come hanno scritto ieri sul nostro giornale Liana Milella e Gianluigi Pellegrino, con quelle norme si sarebbe stravolto, per via legislativa, un principio di autonomia funzionale garantito dalla Costituzione attraverso il Consiglio superiore della magistratura. Attraverso l'istituzione di un nuovo organismo "misto" di valutazione dell'operato delle toghe, il lavoro dei magistrati sarebbe stato di fatto riportato sotto il controllo della politica. Un obiettivo perseguito per anni
dal Cavaliere, nella fase più rovente del berlusconismo da combattimento, e per fortuna scongiurato dalla resistenza del Capo dello Stato e delle opposizioni. Ma ora silenziosamente e misteriosamente rilanciato dalla tecnostruttura di Palazzo Chigi. All'insaputa o addirittura contro la volontà del presidente del Consiglio.

Qui sta la straordinaria gravità del fatto. Come dimostrano i documenti che pubblichiamo oggi in esclusiva, a sponsorizzare il provvedimento non è stato un funzionario qualsiasi, ma il sottosegretario di Palazzo Chigi. Monti e la Severino, come recita il comunicato ufficiale, avevano "già da tempo" respinto e archiviato l'iniziativa. Tuttavia, Catricalà in persona ha trasmesso quel testo agli organi istituzionali preposti alla formulazione di un parere giuridico. Catricalà in persona ha firmato di suo pugno la lettera di accompagnamento, inviata il 2 maggio alla Corte dei conti e il 14 maggio al Consiglio di Stato. E appena quattro giorni fa, come dimostra il verbale che riproduciamo a pagina 11, il Consiglio di Stato si è riunito per formulare il suo parere, su un disegno di legge che "già da tempo" il capo del governo aveva considerato politicamente insostenibile e giuridicamente impraticabile.

Come può essere accaduto un simile cortocircuito? Il sottosegretario è stato ispirato da qualcuno, o ha fatto di testa sua? E poi: ha agito autonomamente, senza sapere che il suo presidente del Consiglio e il ministro competente erano contrari all'iniziativa? Oppure sapeva di questa contrarietà, e nonostante questo è andato avanti lo stesso? In tutti e due i casi, si tratta di un serio strappo istituzionale. Nella prima ipotesi, è un atto pericoloso: un sottosegretario non può assumersi una responsabilità così grande, senza informare i suoi "superiori", su un tema nevralgico per la vita democratica, come la giustizia e i rapporti tra politica e magistratura. Nella seconda ipotesi, è un atto sedizioso: un sottosegretario non può prendere decisioni sottobanco, meno che mai se contrarie alla volontà del presidente del suo Consiglio.

Gli interrogativi sono tanti. I punti oscuri da chiarire sono ancora di più. Il comunicato di Palazzo Chigi risponde a una metà del problema: quello che riguarda l'orientamento di Monti, per fortuna fermo sul principio dell'indipendenza della magistratura. Ma l'altra metà della questione rimane in ombra: e questa tocca a Catricalà portarla alla luce del sole. Il "Gianni Letta" del governo tecnico, come viene spesso definito, non può essere sospettato di ruoli impropri, né può apparire come la "talpa" che scava il terreno sotto i piedi di Monti. È un servitore dello Stato, e deve rispondere di ciò che fa al capo del governo (che lo ha scelto) e ai cittadini (anche se non lo hanno eletto).
L'unica cosa che non può fare, dopo quello che è successo, è tacere. Il suo predecessore sapeva farlo benissimo, e per tanti, troppi anni gli è stato concesso questo "privilegio". Ma Catricalà, oggi, non se lo può più permettere.
m.giannini@repubblica.it

(28 maggio 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #253 inserito:: Giugno 02, 2012, 09:32:56 am »

IL COMMENTO

Lo sguardo corto della politica

di MASSIMO GIANNINI


UNA "CRISI di gravità eccezionale", come quella descritta da Ignazio Visco nelle sue prime Considerazioni finali, imporrebbe "l'eccezionalità" come paradigma della fase. Per fronteggiare problemi eccezionali servirebbero leader eccezionali, capaci di adottare soluzioni eccezionali. Invece, in questa piega sconfortante della modernità, non c'è quasi niente di eccezionale. Se non gli effetti della stessa crisi, rovinosa per la vita di tante persone. È come se le élite politiche non avessero la percezione di cosa rischino gli Stati e i popoli, in termini di progresso economico e di coesione sociale. Così può capitare un paradosso: che siano proprio le tecnocrazie, accusate di snaturarle o addirittura "sovvertirle", a dimostrarsi più sensibili ai destini delle democrazie. Di fronte al pericolo di quella che Paul Krugman chiama "l'ellenizzazione del discorso europeo", e alla possibilità che sull'agorà di Atene bruci anche la moneta unica, tocca alla "triade tecnocratica" Monti-Draghi-Visco chiedere alla politica di assumersi le sue responsabilità.

Le parole di Mario Monti, che ricorda la minaccia di un "contagio finanziario" tuttora incombente sui debiti sovrani dell'Eurozona, pesano come un macigno sulle spalle di Angela Merkel. Tocca a lei "riflettere profondamente" sulla necessità di accelerare gli sforzi per la crescita, senza i quali verrà meno il sostegno pubblico alle politiche di rigore. Tocca alla Cancelliera di Ferro, indipendentemente da chi avrà la maggioranza al Reichstag nel 2013, far ragionare i suoi concittadini su cosa ha significato l'euro. Per una Ue che dal 2008 ha bruciato 4 milioni di posti di lavoro all'anno, c'è una Germania che non è mai stata così ricca: secondo i dati Bundesbank, nel 2011 il patrimonio finanziario dei tedeschi ha raggiunto la cifra record di 4.715 miliardi. Per i figli della Repubblica di Weimar il Deutsche Mark è una suggestione. Ma per i nipoti l'euro è un affarone. Sono davvero in condizione di rinunciarci?

Le parole di Mario Draghi al Parlamento di Strasburgo pesano come pietre sulla coscienza di un establishment accidioso e indeciso a tutto. "Chiedetevi come sarà l'Europa tra dieci anni, quale tipo di visione vogliamo avere e quali saranno le tappe per arrivarci: prima si definirà questo cammino, meglio sarà per tutti". L'Europa di oggi, irresoluta e irresponsabile, produce insieme un'economia della depressione e una politica dell'insicurezza. Senza una strategia di lungo respiro, i governanti dalla veduta corta si nutrono di pura tattica, battendo il tempo dell'Europa su quello delle rispettive scadenze elettorali. Non sono capaci di rispondere alla domanda di futuro e di crescita, di lavoro e di equità che promana dai popoli. Ma per scaricarne le tensioni, sono bravissimi a indicare un "pessimo esempio" (la povera Grecia) e un ottimo capro espiatorio (i ricchi banchieri). Non che i signori del credito non abbiano la loro buona dose di colpe. Ma è sempre troppo facile pretendere dai tecnici quello che i politici non sanno o non vogliono dare. Nella "disputa" in corso, nonostante tutto, oggi hanno più ragione i primi dei secondi. Ha più ragione Draghi, che dopo aver garantito 500 miliardi di acquisti di titoli di Stato con il "Securities Markets Programme" e altri 1.000 miliardi di liquidità immessa sul mercato con i due "Ltro" di dicembre e febbraio, ora avverte "non c'è più tempo da perdere, non possiamo colmare la mancanza di azione sul fronte dei conti pubblici, non è il nostro mandato né il nostro dovere, la Banca centrale europea non può riempire il vuoto lasciato dalle mancanze della governance europea".

Le parole pronunciate da Ignazio Visco, per il suo esordio nel salone delle assemblee di Palazzo Koch, non sono da meno: "Inerzia politica, inosservanza delle regole e scelte economiche errate rischiano oggi di mettere a repentaglio l'intera costruzione... I processi decisionali, condizionati dal metodo intergovernativo e dal principio dell'unanimità, sono ancora lenti e farraginosi". Serve un'Europa che funzioni come "federazione di Stati". Servono processi decisionali rapidi, risorse pubbliche comuni e regole davvero condivise. Ma sono compiti che "esorbitano dalla sfera d'azione del sistema delle banche centrali, e investono responsabilità politiche, nazionali e comunitarie". E sono compiti che rimandano a una saggia riflessione di Tommaso Padoa-Schioppa, giustamente rievocata dal governatore: "L'insidia è di credere che l'euro sia l'ultimo passo, che l'Europa unita sia ormai cosa fatta". Più che un monito, una profezia. L'euro andrebbe difeso, dall'opportunismo degli scettici e dal cinismo dei mercati. Ma è proprio questo che manca. Come dice Visco, mancano "manifestazioni convergenti della volontà irremovibile di preservare la moneta unica".

La "piccola Italia", in tutto questo, vive un dramma nel dramma. E anche qui (soprattutto qui, viene da dire) servirebbe una visione all'altezza dello "stato d'eccezione" in cui siamo precipitati. Ma proprio qui, nel vuoto e nel silenzio assordante di una politica frammentata e delegittimata, la "supplenza" dei tecnici mostra i suoi limiti. Forte della debolezza di una maggioranza tripartita sempre più confusa e disarticolata, Monti fa quello che può, anche se potrebbe fare di più. E il governatore, che di questo governo è in definitiva un "azionista di riferimento", dice un po' meno di quel che dovrebbe. È verissimo che l'esecutivo ha riportato il bilancio pubblico "su una dinamica sostenibile e credibile". È un po' meno vero che ha "rianimato la capacità di crescita dell'economia". È verissimo che la pressione fiscale è "a livelli ormai non compatibili con una crescita sostenuta". È un po' meno vero che si è aperto il "vasto cantiere" delle riforme strutturali.

Dopo la cocente delusione per il modesto debutto del nuovo presidente di Confindustria Squinzi, da Visco era lecito aspettarsi proprio una maggiore "visione" sul futuro del Paese, anche al prezzo di una minore "condivisione" sulle scelte compiute dal governo, e magari anche dal sistema bancario (la denuncia della moltiplicazione delle poltrone nei board poteva essere molto più severa, se è vero che i primi 10 gruppi bancari contano ben 1.136 cariche; la rampogna sul contenimento delle remunerazioni degli amministratori doveva essere molto più dura, se è vero che un "ceo" di fresca nomina nel 2011 ha incassato 66 mila euro per aver lavorato una sola settimana). Ma è evidente che, con i tecnici a Palazzo Chigi, cambia anche il ruolo di Palazzo Koch. È difficile fare i "supplenti dei supplenti". Dal dopoguerra, la stella della più prestigiosa e autorevole istituzione economica nazionale ha brillato ancora di più quando al governo c'era un ceto politico inetto e incapace di far uscire l'Italia dalla lunga notte della Repubblica. Oggi è diverso. Quel ceto politico sopravvive in Parlamento, ma è sempre più screditato nel Paese e soprattutto non abita più nella "stanza dei bottoni". Dal Cavaliere al Professore: è già un enorme passo avanti, anche se la notte non è ancora finita.

m.giannini@repubblica.it

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« Risposta #254 inserito:: Giugno 18, 2012, 05:00:54 pm »


IL COMMENTO

Il compromesso sulla morale

di MASSIMO GIANNINI

TRA minacce del Pdl e anatemi del Pd, sulla legge anti-corruzione si consuma un pessimo compromesso al ribasso. Fatto di ipocrisie politiche che nascondono le cattive conoscenze della destra e di anomalie giuridiche che riflettono le scarse conoscenze della sinistra. Non sappiamo se il testo di "mediazione" elaborato dal ministro Severino vedrà effettivamente la luce. Ma sappiamo per certo che quel provvedimento non risolve i problemi di un Paese incapace di voltare pagina sul terreno della legalità, di uscire dalle logiche da "Stato di eccezione" delle norme ad personam inventate negli anni del berlusconismo da combattimento, o dalle apparenti guerre di posizione che spesso servono solo a mascherare forme improprie di quietismo istituzionale.

L'Italia, il Paese di Tangentopoli, vive una nuova questione morale. Il malaffare prospera nella zona grigia che incrocia politica ed economia, e costa ogni anno 60 miliardi ai contribuenti, come ci ricorda la Corte dei conti. Secondo uno studio del Pew Research, citato dal professor Luigi Guiso, tutti i cittadini dei Paesi industrializzati sono convinti che il Paese meno corrotto d'Europa sia la Germania, e a eccezione dei cechi, dei polacchi e dei greci, tutti considerano che il Paese più corrotto sia l'Italia. È un dato oggettivo. Di fronte a questa evidenza, uno Stato serio avrebbe una strada molto semplice da percorrere: allungare i tempi della prescrizione dei processi scandalosamente abbattuti dalle leggi su misura volute da Berlusconi (su tutte, la ex Cirielli), o in subordine inasprire le pene per il reati di corruzione e di concussione per induzione. Per ragioni evidentemente inesplicabili alle opinioni pubbliche, i partiti non possono o non vogliono procedere su questa via maestra, semplice e coerente con l'obiettivo di rafforzare i principi dello Stato di diritto. Preferiscono pasticciare e litigare su proposte contraddittorie, che celano le peggiori intenzioni. E il governo preferisce mediare con soluzioni macchinose, che autorizzano i peggiori sospetti.

È inutile negare l'innegabile. Se passasse la legge Severino (nella versione su cui è stata posta la fiducia alla Camera, che spacchetta i due principali reati contro la pubblica amministrazione nelle altrettante fattispecie della corruzione per costrizione e della indebita induzione) l'impatto sui processi in corso sarebbe sicuro. Nel processo Ruby che coinvolge Berlusconi, secondo una parte della Procura potrebbe non esserci "continuità giuridica" e il reato di concussione per la telefonata alla Questura di Milano potrebbe decadere. Certo, resterebbe il reato di prostituzione minorile, ma quello è molto più difficile da dimostrare in dibattimento.

Nel processo che vede coinvolto Filippo Penati per le tangenti nell'area Falck almeno due delle tre concussioni per le quali l'ex sindaco di Sesto è imputato risulterebbero già prescritte nel 2010, mentre la terza si prescriverebbe entro il prossimo anno. Certo resterebbero i reati di finanziamento illecito e corruzione, ma questi sono di ben minore gravità sul piano delle pene. Questo è lo stato dell'arte. E non c'è alcun parlamentare onesto né alcun opinionista preparato che possa smentirlo. La battaglia che stanno inscenando i partiti, quindi, è del tutto insensata e strumentale. Il Pd avrebbe dovuto capirlo per tempo, e far saltare subito un tavolo velenoso, dove non sono ammesse trattative, meno che mai sotto banco. Si sarebbe almeno risparmiato il danno e la beffa di vedersi ora esposto alla gogna mediatica, per aver sostenuto una norma "salva-Penati", proprio dal partito personale del Cavaliere che per lui ha costruito in quasi vent'anni ogni genere di salvacondotto. Lo stesso partito che adesso, nella relativa incertezza sull'efficacia delle nuove norme nel processo Ruby, porta la sua aberrante "filosofia" fino alle più estreme conseguenze, minacciando ritorsioni sulla legge per la responsabilità civile diretta delle toghe: una norma che salva solo Penati è insostenibile, dicono i dottor Stranamore del Pdl, ce ne vuole una che salva espressamente tutti, a partire dal Cavaliere.

La miserabile follia di questo "negoziato" è sotto gli occhi di tutti. Tanto più se la si accompagna con l'altra mostruosità di questa nuova legge anti-corruzione, che per sancire l'ovvio, cioè l'incandidabilità immediata del parlamentare che abbia subito una condanna definitiva, rimanda a un'erratica delega al governo, che visti i tempi stretti della legislatura rischia di non vedere mai più la fase attuativa. Sono nutrimenti preziosi, per la "bestia" dell'anti-politica, ma anche per la domanda di "altra politica" che pure si leva, sempre più forte, dalla pancia e dalla testa degli italiani. Di fronte a questo scempio del buon senso e del buon diritto, non resta che lanciare un appello ai due poli e al Guardasigilli, sulla scia di quanto ha già scritto su Repubblica Gianluigi Pellegrino. Concordino, tutti insieme, un disarmo bilaterale, e rinuncino a riscrivere il codice per salvare questo, quello o tutti quanti. Lascino com'è l'articolo 317 del codice penale, che disciplina la concussione per induzione (unica forma conosciuta e diffusa di reato contro la Pubblica amministrazione) e si limitino a integrarla con un codicillo di due righe, in cui si prevede l'eventuale punibilità del concusso, oltre che del concussore. Per fare questa scelta non servono settimane né mesi né anni. Basta una mezz'ora per scrivere la norma, e un paio di giorni per approvarla nei due rami del Parlamento. Governo e maggioranza abbiano un sussulto di dignità e di responsabilità, e lo facciano. Gli italiani onesti, che chiedono solo democrazia e legalità, gliene saranno finalmente grati.
m.giannini@repubblica.it

(16 giugno 2012) © Riproduzione riservata

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