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Autore Discussione: BARBARA SPINELLI -  (Letto 119769 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Aprile 21, 2008, 01:54:57 am »

20/4/2008
 
L'esodo dei poveri da sinistra a destra
 
Barbara Spinelli

 
Il passaggio da sinistra a destra di numerosi elettori popolari ha prodotto in Italia stupore triste o divina sorpresa, ma è un fenomeno non nuovo nelle democrazie e come spesso succede è in America che s'è manifestato negli ultimi decenni, estendendosi poi all'Europa. In realtà è fenomeno antico ­ la Germania prehitleriana conobbe analoghe saldature tra sinistre e destre estreme ­ e se oggi si ripropone con forza è perché alcune componenti riappaiono. Tra esse c'è il risentimento, questa passione che dà immenso ardimento all'individuo che si sente abbandonato e solo nella società, e che il massimo della potenza la raggiunge quando diventa risentimento territoriale, tribale, di classe. Nietzsche dà a tale passione il nome di morale dello schiavo, perché l'uomo del risentimento ha l'impressione quasi fiera di non poter mai raggiungere il benessere o il potere cui aspira. «Il No ­ spiega nella Genealogia della Morale ­ è la sua azione creatrice». Il no è opposto a tutto quello che è «fuori», «altro», che è «non io».

Una prima risposta all'esodo dei poveri verso destra è venuta in queste settimane da Barack Obama. È accaduto il 6 aprile a San Francisco, quando il candidato democratico alle primarie presidenziali ha spiegato alcuni tratti di tale esodo. Nelle piccole città colpite dalla crisi, ha detto, l'amarezza è tale che la persona si sente perduta, ed è a quel punto che s'aggrappa non a reali soluzioni del disagio economico, ma a valori e stili di vita sostitutivi, culturalmente consolatori: l'uso delle armi o della religione, la ripugnanza del diverso, dello straniero.

Amarezza e frustrazione sono varianti del risentimento descritto da Nietzsche, e negarne la realtà vuol dire fuggirla. Sono decenni che le cosiddette questioni culturali sono invocate in America per occultare difficoltà e misfatti economici. Obama è stato giudicato ingenuo, imprudente: avrebbe offeso gli operai, guardandoli dall'alto e comportandosi come uno snob, un elitario (in Italia si dice anche: antipatico). Non è detto che siano critiche errate, ed è vero che Obama rischia molto, sin dalle primarie di martedì in Pennsylvania.

Ma perdere le battaglie non significa aver torto, e i numeri delle urne non ti danno automaticamente ragione: cosa spesso trascurata da commentatori improvvisamente dimentichi di quel che il prosindaco leghista di Treviso Gentilini dice a proposito del ventennio fascista («il ricordo di una maschia gioventù che lavorava, faceva il suo dovere, ubbidiva alle leggi») o delle parole proferite dall'onorevole leghista Salvini («i topi sono più facili da debellare degli zingari. Perché sono più piccoli»). Quel che vince è piuttosto un malinteso, sui valori come sulla povertà: lo stesso malinteso che affligge oggi Obama. L'amarezza di cui ha parlato il candidato è cosa tangibile, dopo le tante promesse non mantenute di Bush, ma d'un tratto è lui ad aver offeso i poveri, la gente comune non beneficata da regali fiscali, il lavoratore autentico che fatica a sbarcare il lunario.

Da parecchi decenni la destra americana si è fatta paladina dei poveri e delle classi medie declassate, e con Bush junior la vocazione s'è ancor più sdoppiata: impoverire i deboli, e scaricare su altri la responsabilità dell'impoverimento. Nel 2004 hanno votato per lui numerose regioni immiserite. Il risentimento che generalmente appartiene alle sinistre è passato a destra, e proprio questo ha voluto dire Obama parlando di quei valori divisivi (le cosiddette wedge questions con cui i repubblicani svuotano l'elettorato democratico: religione politicizzata, aborto, matrimoni gay, controllo delle armi). In Francia sono valori divisivi il nazionalismo, e il rancore contro una sinistra sospettata di transigere su immigrati, sicurezza, ed erede di quel terribile Sessantotto ripetutamente denunciato in America, Francia e Italia.

Il malinteso su valori e povertà è acutamente analizzato da Thomas Frank, in un libro pubblicato in concomitanza con la seconda vittoria di Bush (What's the Matter With Kansas? How conservatives won the heart of America, 2004). Obama ha forse sbagliato a usarne gli argomenti, ma le cose narrate nel libro restano importanti e valgono anche in Europa. Il risentimento ha infatti bisogno, per continuare a infiammare, di un'indignazione che non scema e anzi si dilata, indipendentemente dai risultati elettorali. L'uomo del risentimento rinasce contemplando se stesso, e il se stesso che contempla è non solo insoddisfatto ma eternamente marginale, minoritario, vittima di un'élite dominante che lo tiranneggia e l'imbavaglia. Dell'élite fanno parte i liberal americani (le sinistre europee) e il loro potere è considerato enorme, soffocante, invincibile. Essi agiscono attraverso i giudici, gli universitari, i giornalisti, gli intellettuali, anche quando questi ultimi si spostano a destra.

Qui è la menzogna, che occulta la realtà per istinto e strategia. La conquista dei ceti popolari avviene fingendo che la maggioranza conservatrice, anche quando ha tutti i poteri come in America (parlamento, Corte suprema), anche quando regna su affari ed economia, sia una maggioranza perseguitata. Gli uomini di sinistra, ai suoi occhi, sono al potere comunque, poco importa se eletti o no: il progressismo liberal domina anche se i Repubblicani hanno vinto sei elezioni presidenziali su nove dal 1968; anche quando i Repubblicani controllavano tutti i poteri dello Stato. «Al di là della politica, il liberalismo è un tiranno che domina la nostra esistenza nei modi più svariati e rovesciarlo è praticamente impossibile». L'oppressore e il prepotente quasi sempre s'atteggiano a vittima.

L'ideologia del ressentiment è questo: ritenersi in ogni caso e sempre un outsider, un emarginato, anche quando si hanno le leve del potere. È un dispositivo centrale dei successi di Bush, Sarkozy, Berlusconi: per vincere, occorre che l'indignazione non si raffreddi mai, dunque che la realtà sia a intervalli regolari falsata. Se un giornalista come Marco Travaglio scrive che in Italia permangono conflitti d'interessi e corruzione è considerato subito non un outsider, come irrefutabilmente è, ma un nemico straordinariamente forte e minaccioso. Basta un solo dissidente, basta un giornale minoritario come l'Unità, e gli outsider vincitori si sentono assediati da orde vastissime. Nelle dittature basta l'1 per cento di dissenso ed è panico.

Frank racconta come questo risentimento populista abbia fatto presa nell'800 sulla sinistra ­ in Texas ad esempio ­ e sia stato poi disinvoltamente catturato dalla destra. Perché ciò avvenisse sono cambiate le antiche linee divisorie: la lotta di classe contrapponeva operai e padroni, poveri e ricchi, sopra e sotto, mentre oggi ci si divide tra assistiti o parassiti e salariati, tra bianchi e neri, tra chi è fuori e chi dentro, tra chi si sveglia all'alba ­ dice Sarkozy ­ e chi dopo. Ma soprattutto ci si divide culturalmente: tra snob e autentici, tra antipatrioti come Obama (non porta la spilla con la bandiera Usa sulla giacca) e nazionalisti, tra relativisti e devoti, magari calcolatori ma pur sempre devoti.

La sinistra ha molto da fare, se vuol arrestare la parte menzognera dell'esodo e convincere i fuggitivi che ha perduto per propria insipienza, per propria incapacità di dar risposte razionali alle nuove povertà, ai nuovi bisogni popolari. Si tratta di ricominciare a parlare di economia, di malaffare, di legalità, obbedendo inflessibilmente al principio di realtà. Si tratta di denunciare il potere dove realmente si esercita. Si tratta di rivalutare la sicurezza, senza criminalizzare i giudici ma rendendoli più rapidi e presenti in un settore ­ l'immigrazione ­ che sarà sanato dalla legge uguale per tutti oltre che dall'ordine. Si tratta di dire le cose come stanno: è la più appassionante delle avventure, se solo si designa l'avversario senza aver paura della falsa paura che si incute.

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« Risposta #16 inserito:: Aprile 27, 2008, 11:25:07 am »

27/4/2008
 
Il villaggio della paura
 
Barbara Spinelli
   
 
Non è la prima volta nella storia d'Europa che la cronaca nera prende uno spazio abnorme e simbolico: nelle scelte governative, nelle campagne elettorali, nel farsi delle carriere politiche, nelle strategie dei mezzi di comunicazione. Accadde già una volta nella belle époque: tempo smanioso d'impazienza e di risse, che Thomas Mann chiamò epoca della Grande Nervosità. Nel 1907, il giornale La Petite République, fondato dal socialista Jaurès, titolò in prima pagina: «L'insicurezza è alla moda, questo è un fatto». Il clima era assai simile al nostro: analogo fascino del crimine, analoghe illusioni di rese dei conti. Insicurezza e cronaca nera vennero politicizzate, in Francia, sullo sfondo di vaste dispute sulla pena di morte. Facevano paura le bande di giovani nei quartieri difficili, proprio come oggi: Apache era il loro nome. Proprio come oggi s'invocava una rottura. Categoria che Foucault ebbe a definire, in un'intervista a Telos dell'83, deleteria: «Una delle più dannose abitudini del pensiero moderno è di parlare dell'oggi come di un presente di rottura». Buona parte degli Apache scomparve nella carneficina del '14-'18.

Oggi il fantasma riappare, con forza speciale dopo l'11 settembre e lo svanire dell'Urss. È la tesi dello studioso Laurent Mucchielli, che ha pubblicato una raccolta di testi sul ruolo che l'insicurezza ha svolto nell'ascesa di Sarkozy. In realtà la sicurezza s'era fatta invadente da tempo, con l'espandersi delle estreme destre in Europa. Già negli Anni 90 la figura del nemico cambia («Vi faremo, a voi occidentali, la cosa peggiore che si possa fare a un avversario: vi toglieremo il nemico», disse Georgij Arbatov, in Urss).

Divenuto meno visibile il nemico esterno, si scopre l'Islam non solo fuori ma dentro casa, si escogitano nuovi reati (tra essi la mendicità), e ai cittadini viene offerto il nemico interno, il capro espiatorio da abbattere. I disordini nelle periferie son descritti come guerre civili ­ Los Angeles '92, Francia 2005 e 2007 ­ e la controffensiva si militarizza. La paura diventa lievito della politica: in Usa, Francia, e ora Italia. Il libro di Mucchielli s'intitola: La Frenesia della Sicurezza (La Découverte).

La frenesia risponde a bisogni concreti, soprattutto in zone di non-diritto, dove l'urbanistica ha fatto scempi: zone grigie, le chiamano i consulenti privati cui si rivolgono i governi, di «guerriglia degenerata».

La società Pellegrini, cui spesso ricorre Sarkozy, parla di guerra civile. È quest'esagerazione che desta dubbi, negli esperti di banlieue. Nelle teorie del nemico interno l'insicurezza non è un male da sanare, riformando giustizia, prevenzione, controllo. L'età nervosa trasforma l'insicurezza da problema, che era, in soluzione, in occasione sfruttabile. Anche la paura cessa d'esser problema e diventa soluzione, investimento politico. I giornali fanno la loro parte, un po' per vendere un po' per conformismo. Quasi non sembrano accorgersi della manipolazione che subiscono, dei profitti che politici e imprese private traggono dalla paura.

L'emozione che prende il posto della comunicazione, l'ossessione delle cifre, il linguaggio bellico, le «lunghe scie di sangue»: la stampa imita il politico, perde autonomia, invece di registrare e interpretare escogita titoli-arpioni. È quello che i politici vogliono: «Il silenzio mediatico è un errore», disse il ministro dell'Interno Sarkozy in un discorso ai prefetti del 2003. Così da noi: i telegiornali aprono su un delitto, per poi allacciarsi senza soluzione di continuità a duelli elettorali. E lo spettatore è trascinato nel vortice, diventa attore teleguidato di quella che David Garland, in un libro del 2002, chiama società penale: con il suo voto e la sua rabbia s'immagina demiurgo di nuovi ordini (La Cultura del Controllo, Saggiatore 2004).

La frenesia è passione disperata e panica, non fiduciosa nel progresso sociale ma dominata dal catastrofismo, dall'idea che il criminale sia un individuo predeterminato geneticamente, immutabile. Sono le convinzioni di Sarkozy: non ha più senso la polizia di prossimità, che provava a integrare i giovani in banlieue. «La migliore prevenzione è la sanzione». Decenni di lavoro sulle radici della violenza vengono liquidati, giudicati buonisti, sociologici. Quando paura e insicurezza diventano la Soluzione, il problema svanisce. Il populismo penale straripa, imponendo non riforme di lungo respiro ma pletoriche leggi ad hoc, e politiche dichiarative, simboliche, dettate da permanente indignazione.

In Francia, che per l'Italia è oggi paese laboratorio, il vocabolario bellico adattato all'ordine pubblico è preso in prestito dall'epoca coloniale. Lo spiega Mathieu Rigouste, studioso di scienze sociali: i consulenti più apprezzati dai politici, sulle banlieue, combinano dottrine della contro-insurrezione elaborate nella battaglia d'Algeri con l'odierna lotta al terrore. Così vien cancellato il confine tra sfera civile e militare, tempo di pace e di guerra, interno e esterno. Certo è presto per valutare conclusivamente i risultati di queste politiche, ma un primo bilancio è possibile. L'ossessione delle cifre, della rapidità, della cronica drammatizzazione non ha dato per ora veri risultati.

Il poliziotto-giustiziere appare ancora più illegittimo, nelle banlieue. Le carceri si riempiono, aprendo la via a indulti precipitosi. Soprattutto non funziona la panacea tecnologico-militare (videosorveglianza, biometria): il terrorista non teme la morte né l'occhio altrui. La rapidità è proficua solo in parte: impedisce analisi accurate, corre al risultato-show. È in Inghilterra, dove Blair ha inasprito la repressione, che la percentuale dei minorenni delinquenti è la più forte (20 per cento sulla criminalità globale). In Norvegia, dove perdura il modello «sociologico-protezionista», la percentuale è inferiore al 5 per cento. Mucchielli cita poi una distorsione che conosciamo bene: lo slogan Tolleranza Zero vale per tutti i crimini, «tranne per quelli economici e finanziari: contrariamente ad altri tipi di delinquenza, il governo (francese) cerca, in nome della “modernizzazione” del diritto degli affari, di depenalizzare i comportamenti delinquenti». È la società duale descritta da Garland: da un lato chi s'avvantaggia della deregolamentazione liberista, dall'altra una società disciplinata da regole morali più tradizionali e inasprite.

La politica della paura si concilia male con il pragmatismo che Sarkozy incarna agli occhi di molti. Pragmatismo sempre più incensato, e sempre più equivoco: perché una politica sia efficace, non basta dire che essa «non è di destra né di sinistra». Non c'è nulla di pragmatico nell'ossessione delle cifre, nel disprezzo dei poliziotti di prossimità, nel correre affrettato verso il risultato spettacolare, qualunque esso sia. Non sono pragmatiche le pene minime ai recidivi, che riducono l'autonomia dei giudici. O la carcerazione preventiva che tocca a chi ha già purgato la pena ma viene giudicato tuttora potenzialmente pericoloso (da una commissione di esperti, come voluto dal presidente Sarkozy).

Le ronde proposte dalla Lega possono aver senso: alcuni cittadini partecipano al controllo del territorio, «armati solo di telefonini». Ma non deve significare che Stato e polizia abbassano le braccia. Che la società non solo si autocontrolla ma reprime (salvaguardando ampie zone d'impunità economica, come s'è visto). È per evitare il linciaggio che abbiamo giudici e polizia separati dalla società. Quando ciascuno spia, denuncia, reprime il diverso, il mondo rischia di farsi villaggio, letteralmente: non ordine cosmopolita, ma borgo natio dove il controllo sociale protegge senza freni, e il cittadino perde l'anonimato garantito dalla metropoli, non sfugge agli sguardi, e impara a vivere nel sospetto, senza più lasciar vivere.

da lastampa.it
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« Risposta #17 inserito:: Maggio 12, 2008, 11:58:52 pm »

11/5/2008
 
Scalfari e il folletto scettico
 
BARBARA SPINELLI

 
Tra le molte cose veritiere o acrimoniose che si sono udite nel quarantesimo anniversario del ’68, spicca una lettera inedita di Hannah Arendt, che la rivista tedesca Mittelweg ha pubblicato lo scorso febbraio. È la risposta che la scrittrice inviò a uno studente di teologia, Hans-Jürgen Benedict, il 25 novembre 1967, e le sue riserve sui tumulti europei e americani sfociano in un’asciutta sentenza: «La vera sfida, in politica, è imparare a pensare nei limiti». Il mondo è arduo cambiarlo, se prima non si scopre che a tutto c’è un limite: «Anche alle nostre responsabilità». Oltrepassarlo è follia di grandezza, Größenwahnsinn: «Anche quando essa si nasconde in sentimenti molto sublimi»; anche quando le forze avversate - l’America degli Anni 60-70 - assumono davvero la forma di un «incubo imperialista». Fa impressione ascoltare le parole della Arendt, in questi tempi strani che stracciano con euforia il ’68. Strani perché non è la critica fredda a dominare, ma l’accalorata vendetta delle Erinni. I più aggressivi - Sarkozy in Francia, neo-conservatori in America e Italia - non hanno assorbito quell’asciutto giudizio ma sembrano immersi in analoghe manie di grandezza: anche il loro è un Sessantotto, ma di destra. Anche loro sognano sublimi esportazioni di democrazia. Anche loro incolpano un immaginario establishment culturale, stavolta di sinistra. Anche loro sono refrattari al limite.

Forse è la cosa più difficile, imparare il limite e fondarci sopra non solo la politica, ma un’esistenza. Ci vogliono ingredienti non semplici da trovare, nel mondo e in se stessi: uno sguardo distaccato su di sé, come se ci vedessimo da fuori.

Un’ironia: quella che domanda con aria fintamente credula alla maniera di Socrate. Un distacco, che protegga dalla folie de grandeur. Ci vuole un’attitudine a vivere poeticamente, come in Hölderlin: con azioni «colme di meriti», sì, ma con la coscienza che «poeticamente l’uomo abita questa terra» (Nel blu adorabile...).

Questi ingredienti li ho ritrovati quasi tutti nell’ultimo libro di un grande testimone italiano: Eugenio Scalfari li espone con pudore, come perle di una collana che ciascuno può infilare a suo modo a condizione di maneggiare gli utensili che permettono lo sguardo su di sé: lo scetticismo sulla propria grandezza, la capacità d’ascolto generata dal rivelarsi del limite, infine il distacco. Il lettore avrà singolari sensazioni: ascolterà una vita raccontata come fiaba e al contempo assaporerà un apologo sul distacco, sul metodo di raggiungerlo: non il distacco di chi abbandona le battaglie, ma di chi le continua con il sorriso dell’acrobata di Rilke, nella Quinta Elegia: Subrisio Saltat, il sorriso che spicca il salto.

Già il titolo del libro è indicativo: L’uomo che non credeva in Dio ha suono antico, intreccia il fiabesco rinascimentale al romantico. I capitoli del Gargantua di Rabelais hanno questi titoli, che uniscono romanesque e sberleffo: Come giungemmo allo Sportello abitato da Mordigraffio, oppure: Come passammo per Esagerazione. Qualche secolo dopo, le favole di Grimm propongono imperfetti che ammiccano, annunciano colpi o precipizi impensati: per esempio, la Storia di uno che voleva imparare la paura. All’uomo che non conosceva la paura, come all’uomo che non credeva in Dio, tutto può accadere: la pelle d’oca o i tifoni di Scalfari, che ti cambiano la vita e inaugurano il più esotico dei viaggi: quello dentro di sé. Quello che trasforma la vita in un dramma con due protagonisti-rivali: il pensare e l’agire. I protagonisti convivono, acrobaticamente; si illuminano a vicenda; producono infine il discostarsi del saggio.

Il viaggio dentro l’io si può compiere in molti modi: vanagloriosi o maliziosi, menzogneri o veri. Non sempre approda nel distacco ma quando riesce è perché sono stati usati tre elementi: l’ironia, il dubbio sulle assolute certezze, il candore non come punto di partenza ma di arrivo. Il distacco descritto da Scalfari è di questo tipo: avviene senza paracadute, senza certezze del futuro, senza idea d’un unico centro attorno all’io, «perché il centro è dappertutto», vivendo solo nell’occhio di chi guarda. È il distacco di un Inconsolabile, ma non tenebroso come il Desdichado di Gérard de Nerval.

Il lettore di Scalfari scoprirà quanto possa esser elegante, l’ironia. «La possibilità che dal tuo sguardo emergano visioni autocritiche e scomode è assai limitata, poiché l’io è al tempo stesso attore e giudice delle proprie azioni», dice a un certo punto. «La probabilità che il giudice-attore sia rigorosamente parziale è modesta». O quando evoca la tendenza a dividere il mondo tra buoni e cattivi, e racconta come il vizio infantile ci resti appiccicato addosso in età adulta: il buono che per forza vince, il vittorioso che si tramuta in buono. Oppure quando parla della vecchiaia, dei trampoli smisurati su cui, secondo Proust, camminiamo nell’ultimo tratto di via e che sono il nostro passato: «Per nostra fortuna, anzi per fortuna della nostra specie, il tempo non si trasforma in spazio», la metamorfosi di Proust «resta un espediente letterario con il fascino di un incubo. Eppure...». Scalfari è amico della litote, arte rarissima e lucente: è l’arte di attenuare quel che dici per farlo risultare più forte, o che nega il contrario di quel che vuoi dire (non ti odio, invece che: ti amo). È dispositivo centrale dell’ironia, che tanto mancava al ’68 di ieri e di oggi. Anche la litote ha suono antico, secentesco.

Il distacco, come si può guadagnarlo, meritarlo? Dalle letture che l’hanno accompagnato, immagino che Scalfari vi sia approdato grazie a quel folletto scettico, quel malin génie, che a Descartes insegnò a sospendere il giudizio, a esercitarsi nel dubbio come il funambolo di Rilke: una sorta di spirito malizioso, che ci mette alla prova deridendoci, indicando l’illusorio delle cose, inducendoci a ricominciare sempre l’avvicinamento al vero. Senza il malin génie l’io diverrebbe gonfio, tronfio: la volontà di potenza che abita politici e giornalisti diverrebbe cieco scantinato. Non impareremmo i limiti.

L’uomo che non credeva confessa di non guardare spesso Dio, anche se col pensiero l’incorpora. Ma c’è un grano di mistica in lui, che trasforma il libro in lettera di un’anima: di mistica eretica trecentesca. So che lui sorriderebbe, subito opporrebbe una litote. Ma più volte mi ha fatto venire in mente il Maestro Eckhart, che credeva tanto in Dio ma non vedeva il centro nelle cose e neppure il senso. «Se qualcuno chiedesse per mille anni alla vita: “perché vivi?", ed essa potesse rispondere, non direbbe altro che: "io vivo perché vivo"... e se si chiedesse a un uomo vero, che opera dal suo fondo proprio, "perché operi le tue opere?", se questi dovesse rispondere correttamente, non dovrebbe dire altro che: "io opero perché opero". E se tu gli chiedessi "perché vivi?", risponderebbe: "non lo so, ma vivo volentieri!"». (Sermone In hoc apparuit caritas dei).

Perché restare dove restiamo, diritti? Perché scrivere? Non c’è vero perché. Operiamo per operare, ci accostiamo agli amati e morenti con la pietà di Enea, cui è dedicato un passaggio luminoso del libro. Non mancano le cose su cui dubito, leggendo Scalfari (anch’io penso, come Citati, che non si cerca Dio solo per paura della morte). Ma il candore con cui cerca è squisito, così come l’equilibrio che trova fra pensare l’io e pensare il mondo, fra speculazione e prassi. I filosofi che Scalfari predilige sono frammentari, poetici: Nietzsche, Montaigne, Pascal. Thomas Bernhard, che amava solo questi, li chiamò un giorno i Lachphilosophen: i filosofi ridenti.

Eugenio è un Lachphilosoph. Fa sorridere e pensare profondo. Abita poeticamente questa terra, quest’Italia che spesso infuria. Opera per operare, come gli alberi che accolgono vite e suoni facendosi luoghi, case: «Anche noi, oltre che persone, siamo luoghi e case, ma spesso non lo sappiano e se qualcuno ce lo dice il più delle volte ci sembra un’offesa».

da lastampa.it
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« Risposta #18 inserito:: Maggio 19, 2008, 03:57:19 pm »

18/5/2008
 
La zattera della medusa
 
BARBARA SPINELLI

 
Si è parlato molto, negli ultimi anni, della casta politica e delle sue cecità, dei suoi privilegi. Si è parlato della distanza che la separa dal cittadino, dal suo quotidiano tribolare. Si è parlato assai meno della malattia, vasta, che affligge l’informazione e il compito che essa ha nelle democrazie. Compito di chiamare i poteri a render conto, tra un voto e l’altro. Compito d’abituare l’opinione pubblica non a inferocirsi, ma a capire le complicazioni, a esplorarne le radici, a scommettere con razionalità su rimedi non subito spettacolari. Compito di formare quest’opinione, cosa che spetta all’informazione in quanto «mezzo che mette il cittadino a contatto con l’ambiente che sta al di fuori del suo campo visuale»: lo scriveva Walter Lippmann nei primi Anni 20, e la missione è sempre quella. La malattia non è solo italiana, sono tante le democrazie alle prese con un’informazione che fallisce la prova, che al cittadino non rende visibile l’invisibile, che dal potere politico si fa dettare l’agenda, le inquietudini, gli interessi prioritari. Che è vicina più ai potenti o alle lobby che ai lettori. Che alimenta il clima singolare che regna oggi nelle democrazie: come se vivessero un permanente stato di necessità - di guerra - dove per conformismo si sospendono autonomie, libertà di dire.

La grande stampa Usa si è fatta dettare l’agenda da Bush, per anni. La stampa francese per anni s’è dedicata ai temi prediletti da Sarkozy. Quel che ci rende originali non è dunque la malattia. È il fallire del sistema immunitario, che altrove generalmente funziona. Non sappiamo liberarci dalle patologie, dalle loro cellule.

Siamo immersi in esse con compiacimento, con il senso di potenza che dà l’ebbro sentirsi in branco: lo straordinario conformismo che disvelò Jean-François Revel (Pour l’Italie, 1958) non è scemato. In Italia c’è poca auto-stima ma anche poca analisi di sé. Un romanzo spietato come Madame Bovary è da noi impensabile. Quanto all’informazione, nulla che somigli alle autocritiche dei giornalisti Usa sull’Iraq, emerse quando Katrina travolse New Orleans.

L’informazione italiana non produce anticorpi atti a ristabilire un contatto con la società. Il risultato è palese, oggi, e lo storico Adriano Prosperi lo descrive con nitidezza: nel Palazzo «un venticello dolce di mutuo rispetto tra maggioranza e opposizione, un gusto della correttezza (...) un’aria di intesa e di pace». Fuori, intanto: una guerra tra poveri, e pogrom moltiplicati contro rom e diversi (la Repubblica, 16-5). Il guaio è che anche la stampa è Palazzo: incensa serenità politiche ritrovate e scopre, d’improvviso, una società inferocita da tempo, ormai indomabile dalla destra che l’ha sobillata.

L’enorme polemica suscitata da alcune affermazioni televisive del giornalista Marco Travaglio è sintomo di questa malattia, assieme alla violenza, impressionante, con cui alcuni si scagliano contro di lui (in primis un grande professionista d’inchieste giudiziarie come Giuseppe D’Avanzo). Il Paese traversa tifoni, e i giornalisti trovano il tempo di scannarsi a vicenda come fossero nell’ottocentesca Zattera della Medusa. Chi ha visto il quadro di Géricault, al Louvre, ricorderà la cupa zattera, dove pochi naufraghi pensarono di salvarsi a spese di altri. Su simile zattera sono oggi i giornalisti, mangiandosi vivi. L’istinto della muta è forte in tempi di necessità, di Ultimi Giorni dell’Umanità.

Ignoranza e mancanza di memoria sono tra i mali che impediscono di smettere il cannibalismo tra giornalisti e di suscitare un’opinione pubblica informata. Si ignora quel che succede nel Paese, e da quanto tempo. Il pogrom di Ponticelli non è un evento nuovo. Violenze di mute cittadine contro il capro espiatorio già sono avvenute il 2 novembre 2007, quando squadracce picchiarono i romeni dopo l’assassinio di Giovanna Reggiani. Già il 21-22 dicembre 2006 presidi cittadini incendiarono un campo nomadi a Opera presso Milano, approvati da un consigliere comunale leghista, Ettore Fusco, ora sindaco. E non erano violenze nate da niente, avevano anch’esse album di famiglia che chi ha memoria conosce: la tortura di manifestanti no-global a Genova nel 2001; gli sgomberi dei campi Rom attuati brutalmente dal Comune di Milano nel giugno 2005; le parole del presidente del Senato Pera contro i meticci nell’agosto 2005; le complicità del governo Berlusconi nel rapimento di Abu Omar e nella sua consegna ai torturatori egiziani.

Erano pogrom anche quelli del 2006-2007, e gli oppositori di allora non sapevano che a forza di aizzarli avrebbero suscitato i mostri che adesso, grazie all’allarme europeo, devono condannare. La perdita di memoria è stupefacente, ramificandosi s’espande. D’un tratto Berlusconi è «un’altra persona», al pari di suoi amici come Dell’Utri, Schifani. Non hanno dovuto fare ammenda: sono altre persone perché il conformismo fa letteralmente magie. Non si ricorda quel che è stato Berlusconi ancora ieri: come quotidianamente ha delegittimato Prodi, trascinando dietro di sé l’informazione. Di conflitto d’interesse non si parla più. Non si ricordano i trascorsi dei suoi uomini. I rapporti con la mafia o il vivere vicino a essa sono pur sempre una loro macchia. Travaglio ha avuto il cattivo gusto di non uniformarsi, di dirlo a Fabio Fazio su Rai3. Sta pagando per questo.

Fa parte del conformismo giornalistico il fascino per il potere (il vizio infantile descritto nel libro di Scalfari: non solo i buoni vincono ma chi vince è buono). E anche se il fascino esiste altrove, in Italia è diverso: proprio perché lo Stato è debole, la massima irriverenza verso le cariche repubblicane si mescola non di rado a riverenze esagerate (verso il presidente del Senato, anche verso il Capo dello Stato). L’usanza non esiste in regimi presidenziali come America e Francia.

Travaglio è un professionista che ha molto investigato, ma ve ne sono altri: Abbate che ha indagato su mafia e politica, o Peter Gomez, Gian Antonio Stella, Elio Veltri, Carlo Bonini, Francesco La Licata. Anche D’Avanzo è fra essi, e per il lettore non è chiaro perché si sia tanto accanito contro Travaglio, il cui carattere non è più spigoloso di altri astri giornalistici. Travaglio si è chiesto come mai un politico dal passato non specchiato sia presidente del Senato. Non è illegittimo. Ha violato il sacro della carica, ma la prossimità di Schifani alla mafia è già stata descritta da Lirio Abbate e Peter Gomez ne I Complici - in libreria dal marzo 2007 - senza che mai sia stata sporta querela. Berlusconi s’avvia a esser osannato allo stesso modo, metamorfizzandosi in tabù. L’antiberlusconismo non è più una normale presa di posizione politica; sta divenendo un insulto che disonora oppositori e giornalisti. Qui è l’altra originalità italiana. Nessuno si sognerebbe in America di accusare il New York Times o i democratici di anti-bushismo, nessuno in Francia denuncerebbe l’anti-sarkozismo di Libération o dei socialisti. Da noi lo spirito dell’orda è tale che ieri era indecente difendere Prodi, oggi è indecente attaccare Berlusconi.

Le precipitose scuse di Fabio Fazio non erano necessarie. Più appropriato è quello che ha detto dopo, su La Stampa del 13 maggio: «L’idea che si immagini sempre il complotto, la trama, fa pensare che non possa esistere la normalità; è come se non si riuscisse a concepire che in Italia c’è chi lavora autonomamente. Noi giornalisti non siamo dipendenti della politica. Semmai questo è un atteggiamento proprietario che ha la politica nei confronti dei cittadini». Che cos’è la normalità, per il giornalista? È non farsi intimidire, non lasciarsi manipolare dalla violenza con cui il presidente della Camera Fini giustifica, in aula, gli attacchi a Di Pietro («dipende da quel che dici»). È lavorare solo per i lettori: via maestra per fabbricarsi gli anticorpi che mancano.
 
da lastampa.it
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« Risposta #19 inserito:: Giugno 06, 2008, 10:50:50 pm »

6/6/2008 - VERTICE FAO
 
Tra stomaco e serbatoio
 
 
BARBARA SPINELLI
 
Il vertice della Fao che si è concluso ieri a Roma non ha dato alcuna risposta seria a quello che Robert Zoellick, presidente della Banca Mondiale, ha chiamato il «silenzioso tsunami» dei prezzi alimentari. Ha risposto con l’afasia, l’indifferenza, la disunione, e una volontà, ferrea, d’impotenza. Al comunicato finale son allegate innumerevoli proteste, soprattutto sudamericane. Il vertice ha ignorato i dati che aveva a disposizione, ha finto di non conoscere le cifre che pure parlano chiaro: gli affamati che vertiginosamente aumentano, man mano che i prezzi di cibo e energia salgono; gli egoismi di lobby e Stati affluenti che dilatano una catastrofe tutta fabbricata dall’uomo; le promesse dei ricchi scordate. Basti rammentare il giuramento del vertice Fao nel 1996: «Dimezzeremo entro il 2015 il numero degli affamati», garantirono, e allora gli affamati erano 800 milioni. Già un anno e mezzo dopo erano 863 milioni e nel frattempo se ne sono aggiunti 100, sfiorando il miliardo.

Non sono le organizzazioni internazionali a esser colpevoli di simili disastri, così come non lo sono del degradare del clima, della gestione dei conflitti militari, delle scandalose disparità di ricchezza nel mondo. Le organizzazioni come l’Onu, la Fao, la Banca Mondiale sono grottescamente trascinate sul banco degli imputati, sono ormai macchinalmente ribattezzate con i nomignoli più sprezzanti - son chiamate di volta in volta carrozzoni, elefanti burocratici che mangiano soldi e vanno gettati nella spazzatura - ma tutti questi son giochetti e menzogne, simili ai sotterfugi retorici cui si ricorre in Europa per denigrare gli amministratori di Bruxelles.

Giochetti che gli Stati fanno per nascondere le proprie responsabilità; menzogne utili ad allontanare dai governanti, e dal cittadino, verità scomode e elettoralmente costose. Possiamo pure abolire Fao, Onu, tutti gli organi del dopoguerra: non per questo avremo curato i mali, perché questi ultimi non son generati dalle istituzioni multilaterali ma dagli Stati e dalle loro sovranità assolute, riluttanti a accettare - sopra di sé - qualsivoglia autorità mondiale. Una volta abolite queste istituzioni dovremo ricrearle, perché di istituzioni e di governo mondiale c’è pur sempre e più che mai bisogno, e non di politiche che lusinghino e favoriscano il ciascuno per sé.

Tra gli Stati responsabili degli odierni fallimenti ci sono innanzitutto i più ricchi e potenti. È qui il male, qui l’ignoranza militante che impedisce di riconoscere la natura del disastro e aggiustarla. Se oggi non pare possibile la Rivoluzione Verde che negli Anni 60 scongiurò la carestia nei Paesi poveri, è perché un’immobile apatia s’è insediata nei vertici degli Stati nazione, perché nazionalismi acuti sono di ritorno nei Paesi ricchi, perché la mente degli economisti e dei responsabili occidentali si è ossificata, incapace di adattarsi con elasticità al mutare del mondo e di chi lo abita. Il meccanico gioco di mercato non basta a risolvere la crisi e un collettivo intervento pubblico si impone? L’ideologia liberista frena, inorridita. Le politiche nazionali danneggiano la Terra, ostacolano il libero commercio di beni alimentari? Che muoia il mondo e tutti i filistei, purché le marionette regnanti possano accontentare i propri elettori, arrabbiati e resi ciechi dalle bugie che vengono loro raccontate dalle marionette in questione.

Certo non esiste un’unica responsabilità per l’immane carovita: sono molte e convergenti le cause. A differenza degli Anni 60 c’è il deterioramento del clima e il rarefarsi dell’acqua per le irrigazioni. C’è il prezzo di petrolio e gas che ha raggiunto livelli proibitivi. Ci sono interi e popolosi continenti - Cina, India - che escono dalla povertà, che stanno dando alla luce una vastissima classe media, che cominciano ad avere una dieta più variata, comprendente la carne. C’è l’enorme divario che si sta aprendo tra poveri che crescono pur sopportando prezzi alti e poveri che sopportano il carovita ma non hanno redditi in aumento. Siamo al cospetto di due favole parallele, ha scritto Amartya Sen sul New York Times del 28 maggio: la prima narra l’asimmetria tra poveri e ricchi, la seconda fra poveri e poveri.

La condotta più egoista è quella americana. Sono mesi che l’amministrazione insiste esclusivamente sulle responsabilità degli emergenti, e il segretario all’Agricoltura Ed Shafer l’ha ribadito non senza sfacciataggine a Roma: è la domanda cinese e indiana che fa aumentare i prezzi, allo stesso modo in cui sono Cina e India che accelerano, producendo anidride carbonica, la catastrofe climatica. Minimo è invece, secondo Shafer, l’effetto della produzione di biocarburanti intensificata da Bush nel 2005. Non meno colpevoli per Washington sono coloro che si oppongono - non solo in Europa ma in molti Paesi africani - agli organismi geneticamente modificabili (ogm): visti spesso come panacea, gli ogm rinviano mutazioni più ardue dei comportamenti e delle politiche occidentali.

Il ruolo degli Stati Uniti e dei ricchi viene completamente negato, e le lobby difese a denti stretti. Eppure gli esperti sono unanimi nel constatare come la scelta Usa di sovvenzionare massicciamente le coltivazioni di mais per estrarne energia alternativa (etanolo) abbia crudelmente ridotto le superfici coltivabili per produrre cibo per l’uomo: «Lo stomaco degli affamati è costretto a competere con i serbatoi di benzina», denuncia Sen, ed è chiaro chi perde nell’impari battaglia. Ma su questi punti il governo Usa è inamovibile: ha perfino l’appoggio del Brasile, anche se l’etanolo di quest’ultimo è estratto dalla canna da zucchero e penalizza meno le produzioni di cereali.

Gli occidentali affluenti hanno la tendenza a puntare il dito su cinesi e indiani che consumano più carne: un’analisi non scorretta, ma che indispettisce profondamente Cina e India, che si sforzano di uscire dall’inferno dell’indigenza. Il loro infuriarsi è comprensibile: dicono che in due secoli di rivoluzione industriale l’Occidente ha rovinato il pianeta ed è diventato obeso a forza di rimpinzarsi, e adesso che è confrontato con penuria e carovita fa di tutto per non rimettere in causa proprie abitudini e scelte, quasi sognasse di ricacciare gli emergenti nella povertà. Il rancore è grande, verso Paesi che s’adoperano molto per correggere gli altri, e poco o nulla per correggere se stessi. Che denigrano le istituzioni internazionali solo per proteggere le proprie lobby, le sovranità intangibili dei propri Stati, le proprie ideologie liberiste.

Va di moda oggi vilipendere le utopie degli Anni 60, che erano speranze di futuro: ma quell’epoca era meno cieca, infinitamente più duttile. Di fronte all’Occidente s’accampava un pericolo vero, il comunismo, e tutti i pericoli veri sono anche una sfida, una straordinaria occasione: nel caso specifico, la sfida era di competere col comunismo nell’aiutare i poveri e i diseredati. Nessun pericolo odierno (terrorismo, Iran) è paragonabile a quella minaccia benefica, che teneva sveglia la coscienza occidentale e la mobilitava.

Oggi quella sfida non esiste più: in parte è una disgrazia. Oggi non si tratta di strappare i poveri e gli ultimi alla seduzione sovietica ma di aiutare le singole persone umane a non morire di fame, semplicemente e subito. È questo che gli occidentali non sanno fare. È questo che li rende così afasici, volontariamente impotenti, e vuoti.


da lastampa.it
 
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« Risposta #20 inserito:: Giugno 22, 2008, 04:31:52 pm »

22/6/2008
 
L'opposizione anomala

Barbara Spinelli 
 
 
Spesso chi ci guarda da fuori dice qualcosa su noi e la nostra storia che è difficile dire a se stessi e perfino pensare. Di questo nostro terzo occhio possiamo risentirci o esser grati: comunque avremo l’impressione d’ascoltare una non improbabile verità. Nel mezzo d’un attonito imbarazzo un ange passe: un angelo passa, dicono i francesi. Accade nella vita degli individui come delle nazioni, e l’Italia non è l’unica a sperimentarlo. La Francia ha iniziato a scrutare dentro il proprio passato fascista grazie allo storico americano Robert Paxton, nel '66: l’angelo passò e i francesi impararono a vedere nel vasto buio della collaborazione. Chi guarda da fuori non è necessariamente uno straniero: può anche essere un connazionale che riesce a guardare da una certa distanza, che è meno fasciato da bende linguistiche patrie. Così è stato per l'Italia nell'ormai lunga epoca dominata da Berlusconi. La parola che più spesso la definisce è, da anni, «anomalia democratica»: il terzo occhio questo vede, anche quando comprende l’inquietudine della maggioranza che l’ha votata.

Sull’anomalia di Berlusconi molto è stato scritto, negarla è difficile. È anomalo il conflitto d’interessi. È anomalo che un governante controlli tutte le tv private e, se è al potere, anche le pubbliche. È anomala la naturalezza con cui, quando è Premier, cura i propri interessi e fabbrica leggi che gli evitino processi. È anomalo il fatto che continuamente si indaghi su di lui per corruzione, anche di giudici. Visti da fuori, i magistrati non sembrano eversori. Tutto questo non sorprende più molto: l’anomalia è nota ai più. Molto meno si è scritto invece sull’anomalia dell’opposizione: anomalia che crea ripetuto sgomento, in chi ci osserva con quel terzo occhio. Un’opposizione così impaurita di sé, così ansiosa d’apparire dialogante e conciliante, si vede di rado nelle democrazie. L’articolo dell’Economist del 12 giugno è rivelatore perché del tutto privo dei nostri infingimenti, come in passato lo è stato su Berlusconi. Questa volta lo sbigottimento si sposta su Veltroni: anche se il leader dell’opposizione ha scelto uno «stile Westminster» (governo ombra, fair play formale) «non c’è assolutamente nulla di britannico» nella sostanza del suo agire. Un’opposizione all’inglese, scrive l’Economist, non avrebbe esitato a indagare su Schifani - dopo le rivelazioni di Abbate e Travaglio - scoraggiando la sua nomina a presidente del Senato. Non avrebbe esitato a denunciare le bugie sulla cordata italiana pronta a comprare Alitalia in condizioni migliori di Air France. Avrebbe alzato una barriera contro il reato d'immigrazione clandestina, il divieto d’intercettazione per crimini tutt’altro che minori, le leggi che sospendono un enorme numero di processi (compresi i processi a Berlusconi; il processo per le violenze contro i manifestanti al vertice G8 del 2001; il processo sulle morti causate dall'amianto). La militarizzazione delle città crea straordinari consensi di italiani, infine, senza perciò divenire ordinaria.

Questa fatica-riluttanza a opporsi non solo è poco britannica. È poco francese, tedesca, americana. Perché nessuno, in questi Paesi, teme di apparire quel che è: inequivocabilmente oppositore, portato a dire no e a mostrare sempre quella che potrebbe essere l’alternativa al governo presente. Non mancano naturalmente le eccezioni: nell’emergenza alcune scelte sono condivise. Ma sono eccezioni, appunto: i politici sanno che le emergenze fiaccano la democrazia proprio perché aboliscono il conflitto, deturpano i modi di dire, demonizzano l’opposizione, parlamentare o giornalistica. Vogliono presto tornare a dividersi e appena possono lo fanno.

Così si comportano, senz’alcuna remora, i socialisti francesi, i democratici Usa, i conservatori inglesi: quando attaccano o contrattaccano, non si sentono in dovere di spiegare i motivi profondamente torbidi per cui hanno interrotto il dialogo. Non danno a questo opporsi il nome indecoroso di antiriformismo o massimalismo. Non sono accusati dalla stampa di «pura agitazione», di «precipitare nel rivoluzionarismo verbale». Nessuno si sognerebbe di accusare i democratici Usa di antibushismo, o la sinistra francese di antisarkosismo. Sono eccettuati i Paesi con larghe intese: in Germania i socialdemocratici non attaccano la Merkel perché la necessità li ha spinti nella Grosse Koalition. Nessuno dei due la voleva, ma hanno dovuto farla e non vedono l’ora di smettere, e riprendere la classica dialettica fra chi governa assumendosene le responsabilità e chi si oppone preparando il ricambio. In Italia non c’è Grande Coalizione ma una strana invasiva idea del decoro impone il linguaggio da Grande Coalizione.

In Italia si fatica a dare un nome al governo Berlusconi: un regime paradossale che promette sicurezza e lede la rule of law. Che fa ardite leggi finanziarie e sottovaluta la cultura della legalità. Ma ancor più impervio è dare un nome all’opposizione. Il Pd si oppone ma non vuol essere antiberlusconiano, si oppone ma non vuol farlo con la determinazione - peraltro rara - dell’Ulivo. Si oppone nell’impaccio, quasi avesse alle spalle severissime offensive: contro il conflitto d’interessi, contro le leggi ad personam. Nulla di questo è stato fatto eppure s’espande la paura di apparire antiberlusconiani, non nella realtà dei fatti ma nell’immaginario della pubblica chiacchiera.

Il clima nelle ultime ore sembra mutato, ma siccome alcune tendenze restano converrà indagare sulle radici di questo immaginario fatto di timori e fantasmi. Una delle radici è forse nella storia del Pci, evidentemente ancora inconclusa o mal conclusa. Non più comunisti, ormai liberali, gli eredi di Togliatti sono alla ricerca di un’identità introvabile ma una cosa sanno e desiderano: tutto vogliono essere, fuorché sembrare quello che sono stati in passato, cioè oppositori intransigenti. È l’intensità dell’opporsi che giudicano deleteria, molto più dell’ideologia che per decenni la sorresse. Abbandonata l’ideologia anche l’opporsi in sé viene abbandonato, come qualcosa di cui ci si vergogna, che sveglia un fantasma sgradito: il proprio. Scrive Paolo Flores d’Arcais sull’Unità che Veltroni non sa dire sì sì, no no. In realtà non oscilla: ha un rapporto malsano con il no, associandolo al no massimalista detto per mezzo secolo dai comunisti dell’Est e dell’Ovest.

Per la verità prima ancora di cambiar nome i riformatori postcomunisti avevano cambiato linea. Ma la cambiarono nell’economia, più che su Stato di diritto e rule of law. Ricordo i tempi in cui chi si congedava dai totalitarismi, in Est Europa, era affascinato da Pinochet. Pinochet aveva abolito la rule of law, ma aveva scommesso sul capitalismo con notevole successo, e questo piaceva al postcomunismo. Quel che non gli piaceva era ben altro, e gli incuteva panico. Panico di somigliare alle sinistre radicali, figure redivive del proprio passato. Panico, oggi, di fronte a chi fa dura opposizione concentrandosi innanzitutto sulla rule of law (Di Pietro, Bonino). Il discredito che colpisce i girotondi (ma che hanno fatto di sovversivo?) è segno di questa pavidità e del conformismo che secerne. Il confluire di tradizioni democristiane nel Pd non aiuta. Avvinti gli uni agli altri, i finti affratellati pencolano nel vuoto.

I massimi dirigenti del Pd hanno grandi tremori e forse non sarebbe male che cominciassero a parlarne. Altrimenti chi guarda da fuori continuerà a sbigottirsi: più sorpreso da questi tremori, in fondo, che da Berlusconi. Tra l’Italia e le altre democrazie si sta aprendo un baratro più vasto di quello che immaginiamo: non solo tra governanti diversi ma tra oppositori, giornalisti, sindacati diversi. Quasi non ce ne accorgiamo. Non ne usciremo dicendo che siamo così complicati e che nessuno, fuori casa, è in grado di capirci.
 
da lastampa.it
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« Risposta #21 inserito:: Luglio 06, 2008, 09:32:56 pm »

6/7/2008 - LE IMPRONTE AI ROM
 
Il valzer della paura
 

 
BARBARA SPINELLI

 
Anche se il silenzio è vasto, sulle misure di sicurezza adottate in fretta da Berlusconi, c’è stato chi ha provato sgomento grande, apprendendo che il ministro dell’Interno Maroni aveva messo all’ordine del giorno, come provvedimento risolutivo, le impronte digitali imposte ai bambini Rom: hanno protestato insegnanti impegnati in difficili tentativi di inserzione, e pensatori, storici, politici d’opposizione. Ma le parole più nette, più indipendenti, meno nebbiose son venute dall’interno della Chiesa. Aveva cominciato l’arcivescovo di Milano Tettamanzi, denunciando gli sgomberi dei campi Rom in aprile («Si è scesi sotto il rispetto dei diritti umani»). Poi hanno parlato sacerdoti, vescovi, la Fondazione Migrantes. Infine è giunto l’editoriale di Famiglia Cristiana: un periodico che vende più copie di tutti i giornali (3 milioni di lettori) ed è presente in ogni chiesa.

L’editoriale del direttore, Antonio Sciortino, non usa eufemismi. Parla di «misure indecenti», di un governo per cui «la dignità dell’uomo vale zero». Enumera verità giuridiche elementari: l’accattonaggio non è reato, la patria potestà tolta quando i genitori Rom sono poveri o in condizioni difficili viola la Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia, firmata dall’Italia. Ma soprattutto, ricorda il male scuro dell’Italia, tra i più scuri in Europa. L’Italia porta nel proprio bagaglio il fascismo con le leggi razziali e tuttavia questa «tragica responsabilità» finge di non averla: «Non ce ne siamo vergognati abbastanza». Anche questo crea sgomento: questo passato che non solo non passa, ma sembra dissolto in un acido, come se le revisioni di Fini a Fiuggi non si fossero limitate ad affrancare Alleanza nazionale ma fossero andate oltre, consegnando al nulla tutto un brano di storia nazionale. Il periodico obbedisce al motto del fondatore, Giacomo Alberione: «Famiglia Cristiana non dovrà parlare di religione cristiana, ma di tutto cristianamente».

Tuttavia l’ossessione dello straniero sospetto sin dalla nascita non è solo italiana. In questi giorni si discute di schedatura dell’infanzia in Francia («progetto Edvige»), anche se l’elaborazione di identikit - il profiling - non riguarda le etnie. Ma anche qui si pensa agli stranieri, e il significato è lo stesso: si predispongono liste di sospetti, in nome di uno stato d’emergenza infinita. Il modello d’integrazione del dopoguerra, chiamato in Francia protezionista, viene sostituito da un modello repressivo, dal populismo penale, da un inarrestabile proliferare di reati, dal profiling del diverso. Muta il mondo che abitiamo sempre meno generosamente, meno umanamente: una sorta di catastrofismo antropologico s’insedia negli spiriti e nei governi, che giudica l’uomo malvagio, incendiario. Che abolisce la fiducia: quest’apertura all’altro che scommette sul mutare della persona e non sugli immoti dati del suo corpo e della sua genetica.

Questa politica della sfiducia è iniziata prima dell’11 settembre, ma dopo il 2001 ha impastato sicurezza interna e antiterrorismo, importando dalla guerra le parole, le pratiche, le norme d’eccezione. Un libro uscito quest’anno in Francia, a cura di Laurent Mucchielli, descrive la frenesia della sicurezza impadronitasi dei governanti come dei giornali e spiega bene, in un saggio di Mathieu Rigouste, la militarizzazione delle menti. Anche qui riaffiorano automatismi, si son disperse vergogne o memorie. Rigouste, in un libro d’imminente uscita (L’ennemi intérieur, La Découverte) ricorda che linguaggio e azioni sono radicati nelle repressioni coloniali. Si parla di «contro-insurrezione», di «zone grigie dove s’annidano minacce di guerriglia», di «guerre di bassa intensità permanente» nelle banlieue. Ci sono consiglieri governativi (il colonnello de Richoufftz, il generale Henry Paris) che si fanno forti delle esperienze in Bosnia, Kosovo, perfino in Algeria.

A forza d’impastare il civile e il militare sono tanti i confini che sbiadiscono: tra ordine e emergenza, pace e guerra, e anche tra l’età maggiorenne (in cui diveniamo imputabili, incarcerabili) e quella minorenne, da tutelare e correggere con l’integrazione. Il bambino e l’adolescente diventano incubo, primo anello di catene devianti. Il XX secolo fu marchiato dalla foto del bambino con le braccia alzate, nel ghetto di Varsavia sopraffatto. Quell’immagine rivive: a Guantanamo, in Palestina, in Europa stessa. Chi ha contemplato il tremendo nel prodigioso film di Ari Folman (Waltz With Bachir), ricorderà la scena in cui l’autore, ebreo israeliano, racconta i palestinesi massacrati a Sabra e Chatila e vacilla perché quel che ha visto e quel di cui s’è reso complice gli fa venire in mente il bambino di Varsavia.

Chi difende le leggi Berlusconi difende cause apparentemente buone, e accusa i cristiani dissidenti di cecità: «Voi non andate nelle terre di desolazione e ignorate l’angoscia di tanti italiani», lamentano. Dicono che la legge è fatta per dare ai bambini un’identità che non hanno, per verificare se vanno a scuola, hanno case decenti, son sfruttati. Ma i bambini sfruttati e non scolarizzati in Italia sono ben più numerosi dei Rom, e questo conferma la discriminazione negativa di un’etnia (sono selettivi anche alcuni termini: commissario per la questione Rom, emergenza-Rom). Conferma una visione del male che non insorge perché società e istituzioni barcollano, o l’integrazione fallisce. Il male comincia nel genetico, nel corpo del bambino. Tanto più se diverso: Rom, musulmano, povero.

Sono anni che la delinquenza minorenne ossessiona, e un primo bilancio può esser fatto delle risposte date fin qui in Europa. I più repressivi sono stati i governi inglesi, poi il francese e l’italiano; mentre a Nord è sopravvissuto il modello integrativo. I risultati non confortano i fautori di ghetti. Con le repressioni inglesi, la delinquenza minorile è spettacolarmente aumentata: la sua parte nel crimine globale raggiunge percentuali senza eguali in Europa (20 per cento). Mentre in Norvegia, dove son preservate istituzioni solidali, i minorenni sono meno del 5 per cento della criminalità globale. Molte misure tecnologiche presentate come miracoli sono inefficaci. E in nome delle vittime o delle paure singole, è l’idea di una società coesa che si sfalda, è la sfiducia nelle istituzioni collettive che si attizza. Le impronte digitali, infine, accendono risentimento. Pierre Piazza, autore in Francia di una storia della carta d’identità, evoca afghani in cerca d’asilo che si son bruciati le dita, per protestare contro la schedatura.

I tempi d’azione affrettati e concitati, il rifiuto dei vecchi modi - più lenti - di curare le radici del male anziché estirparle: tutto questo mostra che insicurezza e paura sono spesso considerate una soluzione, più che un problema. Son usate e alimentate come uno strumento utile al potere. Sono la fuga nella politica delle emozioni, dell’annuncio declamatorio, del culto totemico di cifre continuamente contraffatte. A partire dal momento in cui, se un bambino ruba una bici, conta più la bici che la storia del bambino, il salto qualitativo è fatto: il salto nei nuovi reati (di accattonaggio o clandestinità); il salto nel sequestro del corpo, tramite biometria. L’habeas corpus, che è la facoltà di disporre del proprio corpo senza che esso sia manomesso o derubato, si perde.

I cittadini alle prese con lo spavento sono comprensibili. Ma la civiltà ha sue ragioni, che l’individuo impaurito non conosce o sottovaluta. Sono ragioni che riguardano anche lui. Il pastore Martin Niemoeller lo rammenta, in una poesia scritta a Sachsenhausen e Dachau, oggi esposta in un manifesto nelle vie di Roma. All’inizio deportano gli zingari, e tu taci. Poi gli ebrei, i sindacalisti, e sempre taci. Alla fine vengono per prender te. Non c’è più nessuno per protestare.
 
da lastampa.it
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« Risposta #22 inserito:: Luglio 06, 2008, 09:37:30 pm »

POLITICA


LA LETTERA

Spinelli, sì alla manifestazione contro le leggi di Berlusconi


ROMA - L'editorialista della Stampa Barbara Spinelli ha aderito alla manifestazione dell'8 luglio in Piazza Navona. Ecco la lettera inviata agli organizzatori.

"Aderisco alla manifestazione promossa da Furio Colombo, Pancho Pardi e Paolo Flores d'Arcais l'8 luglio a Roma contro le leggi-canaglia del governo Berlusconi, in difesa del libero giornalismo e della legge eguale per tutti.

È urgente che esista la pietra dello scandalo.

È urgente che un risveglio avvenga, anche se di pochi, perché la narcosi delle menti, del linguaggio, della visione, delle memorie è vasta e progredisce.

Non è importante il nome che si dà al regime in cui viviamo. Conta la sua sostanza: la maggioranza che ignora e vilipendia la minoranza, la separazione dei poteri messa in questione, il trionfo degli interessi particolari e privati di chi è a capo del governo, l'impunità garantita a un impressionante numero di crimini, l'esclusione e criminalizzazione di una parte della popolazione, giudicata diversa e sospettabile fin dall'infanzia perché appartenente a altre etnie o razze.

Scegliete il nome che volete, purché il nome abbia rapporto con la sostanza".

Barbara Spinelli

(5 luglio 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #23 inserito:: Agosto 05, 2008, 10:24:54 am »

5/8/2008
 
Il profeta nel purgatorio del Gulag
 
 
 
 
 
BARBARA SPINELLI
 
Quando in Occidente apparve l’Arcipelago Gulag di Aleksandr Solzenicyn - scritto fra il 1958 e il ’68, uscì nel ’73 a Parigi - fu come un torrente che s’abbatté sulle menti, le conquistò o le intimidì, comunque le cambiò per sempre. Il «saggio di inchiesta investigativa» era colmo di fatti, non confutabili; il tono era quello del profeta; lo sguardo sui campi di Lenin e Stalin aveva l’acutezza che possiedono gli occhi costantemente spalancati sul dolore. Occhi che scrutano dietro il sipario srotolato sulle cose; che le disvelano, come nell’Apocalisse quando ogni velo cade. Occhi che scoprono la paura che muove i mondi e tuttavia prepara la coscienza. Come in Isaia 28, 19: «Solo il terrore farà capire il discorso».

I fatti e il terrore narrati da Solzenicyn non erano ignoti. Chi voleva sapere, sapeva quasi da principio. La denuncia più libera era stata negli Anni 30-40: quando Stalin si alleò con Hitler, quando Orwell scrisse la Fattoria degli animali nel ’44, quando Koestler pubblicò Buio a mezzogiorno nel ’40, Lo Yogi e il Commissario nel ’45. La denuncia del comunismo totalitario divenne tabù dopo la guerra vinta con l’aiuto moscovita, creando attorno ai Gulag una sorta di crosta: quasi un secondo Permafrost, con cui le democrazie avvolsero il Permafrost sovietico. Da allora i profeti diverranno eretici inascoltati: Ignazio Silone, Victor Kravchenko, Margarete Buber-Neumann, furono traditori rinnegati per i comunisti sovietici e occidentali e perfino per molti non comunisti. Così Terra inumana di Joseph Czapski, Hexensabbat di Alexander Weissberg-Cybulski, Un mondo a parte di Gustaw Herling, Il Grande Terrore di Robert Conquest.

Il 25 settembre ’76, su La Stampa, Primo Levi si dichiara deluso dai dissidenti, e giunge fino a stabilire una graduatoria etica: «Duole dirlo: il terrore e l’isolazionismo staliniani trasmettono la loro infezione paralizzante anche ai loro testimoni e contestatori. (...) La loro statura è inferiore a quella dei loro corrispettivi che hanno combattuto il terrore hitleriano, o che oggi denunciano i delitti compiuti in Asia e Africa dalla civiltà occidentale».

Solzenicyn fu un torrente perché iniziò a erodere questi tabù, in Francia anche se non in Italia. Qui lo scrittore venne sminuito, spesso ignorato. Più intelligente e astuto dei compagni francesi, il Pci seppe costruire un muro, attorno allo scrittore, che lo teneva a distanza e lo rendeva sospetto. Era troppo russo e sferzante, troppo credente. Disturbava i revisionismi sfumati, e aveva una serietà che stonava: pochi resistettero al conformismo di un’intellighenzia che a differenza della francese non stava discostandosi dal partito comunista, negli anni dell’Arcipelago, ma assaporava proprio allora le sue primizie di potere.

Solzenicyn fu certo un credente, e nell’Italia d’allora - smagata, filistea - questo pesò e ancora pesa. È raro trovare giovani italiani che ammettano d’esser stati illuminati dall’Arcipelago, dai racconti di Salamov, da Koestler. Solzenicyn fu tuttavia un credente singolare, in Russia. La fede che non sfocia in insurrezione, il cristianesimo ortodosso che si sottomette all’autorità, non sono nell’Arcipelago il suo orizzonte. L’orizzonte sono la verità di fatti, il soffrire degli zek-prigionieri, l’introspezione di chi tollerò. La purificazione morale e pre-politica di Tolstoj gli è estranea: «In definitiva il punto non è certo la libertà politica. Lo scopo dello sviluppo dell’umanità non è una vacua libertà. E neppure una felice organizzazione politica della società. L’essenziale, naturalmente, sono i fondamenti morali della società! - solo che questo accade alla fine, ma all’inizio? Ma come primo passo?». La fede ortodossa, lamenta lo scrittore, non si occupa che sbadatamente di questi primi passi; nasconde le sofferenze troppo umane, terrestri; sembra tutta concentrata sulla finale palingenesi: sul Cristo risorto, sul Pantocrator vincitore della Terra. Solo i credenti si salvarono nei Gulag, ma furono credenti peculiari. La seconda parte dell’Arcipelago, dedicata alle tante rivolte nei campi (Novoçerkassk, Kengir, Sachalin, Vorkuta) narra un’ascesa purgatoriale in cui s’intrecciano pazienza e rivolta, spiritualità e sete di coltello. Nell’ortodossia cristiana il Purgatorio non c’è.

La parola dissidente non nasce con Solzenicyn ma con lui s’insedia nel nostro linguaggio. Il dissidente non è l’oppositore, non possedendo gli strumenti per opporsi. Si esprime con la profezia, col mettersi in disparte, col prepararsi. Fa politica sott’acqua, per vie traverse: con i Samizdat clandestini o con l’ironia. Chi tanto s’indigna in Italia contro le irriverenze dei comici potrebbe ricordare quel che fu Radio Erewan, ai tempi dei gulag. Il velo della menzogna fu strappato da comici e profeti: un lascito che non si sperderà.
 
da lastampa.it
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« Risposta #24 inserito:: Agosto 11, 2008, 10:29:09 am »

11/8/2008
 
Le due follie
 
 
BARBARA SPINELLI
 

Una dichiarazione del Comitato Olimpico Internazionale, diffusa all’indomani della guerra fra Georgia e Russia, riassume molto bene l’epoca in cui viviamo e lo stato mentale che la caratterizza: stato fatto di cecità, ignoranza, stupidità militante, irresponsabilità. «Non è quello che il mondo vorrebbe in questo momento vedere», sentenzia a Pechino il Comitato, e forse non sa quanto è fedele al vocabolario dominante nei governi e nei giornali d’Occidente. Anch’essi non vogliono guardare quel che accade e di conseguenza non lo vedono: non da oggi, ma da decenni. Ci si dichiara delusi, traditi, come se le Olimpiadi non fossero state questo sempre, dalle tirannidi greche antiche fino ai Giochi di Hitler nel ’36: un intreccio di bellezza estatica e di brutture, un fascinoso mito d’armonia poggiato sul duro pavimento di realtà fratricide. Le Olimpiadi sono sempre state un mondo parallelo, e lungo i millenni non hanno mai sostituito il mondo effettivo anche se ne hanno raffigurato le illusioni: l’umanità naviga triste verso lidi di felicità fittizia nelle odi di Pindaro come nella modernità.

Le Olimpiadi del 2008 non sono state infangate. La stupidità umana è un fango che precede il mito anche quando se ne nutre, e la caucasica guerra estiva lo conferma: non si può neppure escludere che i bellissimi simboli d’unità a Pechino siano un’immagine insopportabile per il cuore geloso di Mosca, che vede l’impero cinese affermarsi e il proprio degenerare. Al momento tuttavia Putin sembra vincente.

La Georgia non pare aver ripreso i territori che ritiene suoi e si ritira, Washington che era il principale alleato di Tbilisi cerca di negoziare soluzioni Onu accettabili per Putin. Vacilla infine la strategia occidentale alle periferie russe: l’incorporazione nella Nato di Georgia e Ucraina s’allontana.

Sono quasi vent’anni che non vediamo, non ci prepariamo, non pensiamo veramente la fine dell’impero sovietico. Quest’intermezzo era colmo di premonizioni ma l’abbiamo traversato con occhi bendati e idee defunte: con reminiscenze di Hitler e dei cedimenti democratici del ’38, con lo spirito resuscitato del ’14-’18 e dell’autodeterminazione dei popoli. In questi anni la mondializzazione ha messo le radici, accelerata da Cina e India, ma nessuno strumento è stato apprestato per governarla. L’unica bussola resta il predominio unilaterale americano, la sua presenza sempre più estesa in zone strategiche ricche di petrolio e gasdotti. L’unica lente attraverso cui si guarda il reale è quella dell’equilibrio delle potenze, della balance of power che gioca un nazionalismo contro l’altro. Clinton non è Bush junior ma il suo atteggiamento, come quello di Bush padre, non fu diverso. La fame di controllo sul Caucaso ha accomunato tre presidenze Usa, spegnendo i primi passi russi verso il post-nazionalismo e accrescendo nei suoi dirigenti il senso di umiliazione, offesa, risentimento.

In questa vecchia politica si mescolavano due ideologie. La prima immaginava un mercato mondializzato che poteva fare a meno della politica proprio mentre si moltiplicavano nel mondo conflitti più che mai politici su risorse e petrolio. La guerra in Iraq è stata l’acme del Grande Gioco attorno alle risorse, cui si sono aggiunte le interferenze nel Caucaso, la Nato usata come gingillo di potenza, le basi militari insediate in Asia centrale durante le guerre anti-terrore. La seconda ideologia è il nazionalismo etnico, che è riemerso nel pensiero occidentale cancellando la lezione di due guerre mondiali catastrofiche. L’aggressione serba contro i separatismi jugoslavi è sfociata in una guerra che ha visto l’Occidente intervenire a giusto titolo per evitare carneficine ma senza idea alcuna sulle società multietniche da ricostruire. I cedimenti mentali si sono susseguiti: si cominciò con l’appoggio a nazioni omogenee (l’accordo di Dayton suddivise la Bosnia in tre clan etnici) e si finì con il beneplacito alla secessione del Kosovo nel 2008. La sconfitta Usa ed europea ha inizio allora: se il mondo ragiona come nel ’14, non stupisce che anche Putin manipoli le etnie a proprio vantaggio.

Ora ci si indigna tutti sorpresi, ma quel che succede è una logica conseguenza di queste resuscitate idee defunte. E non voler vedere serve a poco, perché il non-visto esiste pur sempre e non eclissa colpe, omissioni, follie che sono di tutti. Non eclissa innanzitutto le colpe del Presidente georgiano, al potere dopo la Rivoluzione delle Rose del 2003. Il regista Otar Iosseliani, intervistato da La Repubblica, lo chiama «un folle, nel senso letterale del termine»: «Siamo nelle mani di un uomo che non ha la minima idea di come si governa ed è in preda al suo delirio di onnipotenza. È evidente che si è fatto prendere dal panico, abboccando alle provocazioni della Russia». Non meno folle è Putin, «anche se molto più intelligente»: non vuol rassegnarsi alla perdita dell’Urss, non ha mai accettato la sovranità della Georgia. Sono anni che eccita Abkhazia e Ossezia del Sud, ai confini georgiani, russificandole. Quasi tutti gli osseti del Sud hanno ottenuto in questi anni passaporti da Mosca e da Mosca sono tutelati.

Una debole tregua era stata instaurata, ai tempi di Shevardnadze presidente georgiano ed ex ministro degli Esteri di Gorbaciov. Truppe di interposizione erano state schierate nella regione - sulla base d’un accordo russo-georgiano stipulato il 24 giugno ‘92 - composte da russi, georgiani, osseti. È questo ordine che il nuovo presidente georgiano ha violato, aggredendo l’Ossezia del Sud e ignorando due referendum favorevoli all’indipendenza. È probabile non abbia agito da solo, e che nella sua follia ci sia del metodo. È il metodo di chi si sente spalleggiato, se non istigato. Alle sue spalle c’è un’America che mira a un’egemonia senza saperla esercitare; che da anni addestra militari georgiani, finanzia il nazionalismo di Tbilisi, promette l’adesione alla Nato più per accendere incendi che per spegnerli. È la crescente presenza Usa nel Caucaso e in Asia centrale che ha spinto anche il Cremlino alla follia. Senza l’appoggio Usa, Saakashvili sarebbe stato meno avventurista. Il suo metodo è l’attacco bellicoso, visto come sostituto della politica. Nato e Unione Europea sono per lui non strumenti di pacificazione, ma attrezzi di guerra.

Infine c’è l’irresponsabilità, vasta, dell’Europa. Sono anni che alle sue periferie si guerreggia, e ancora non ha preso forma un pensiero forte, convincente per Mosca e le nazioni che per secoli erano nella sfera d’influenza russa. Fra l’offerta d’adesione e l’indifferenza c’è il nulla, e il continuo tergiversare facilita ogni sorta di provocazioni. Non solo: l’adesione è offerta sbadatamente, dimenticando le radici ideali dell’Unione. Si appoggia la sovranità georgiana, ma senza spiegare che la sovranità in Europa non è più assoluta. Si permette al leader georgiano di usare la bandiera europea, e di stravolgerla. Per Saakashvili essa è un arma, più che un ponte. La cultura dell’Unione è del tutto assente nel suo ragionare, e di simile ignoranza gli europei non sono incolpevoli. A Tbilisi come a tanti dirigenti dell’Est non è stato detto che nazionalismo e irredentismo non sono più di casa nella comunità europea, né le Riconquiste che violano tregue. Putin non è d’accordo ma lui, almeno, non sventola la bandiera dell’Unione quando parla. Iosseliani ne è certo: «L’esercito georgiano è convinto di poter vincere, perché immagina di avere alle spalle la comunità internazionale e perché la comunità internazionale lo ha illuso. Così la Georgia si trasformerà in una piazza d’armi che si estenderà all’Abkhazia e poi all’Ucraina, e dove si combatteranno indirettamente le due superpotenze, Russia e Stati Uniti». La guerra è ancora in corso, anche se la sua macchina magari si fermerà un po’. Al posto di guida, intanto, c’è la forza di Putin: forza militare, forza di ricatto energetico, forza di chi scruta il nostro vuoto e non è portato a far altro che profittarne.
 
da lastampa.it
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« Risposta #25 inserito:: Agosto 18, 2008, 11:13:46 pm »

17/8/2008
 
L'ora dell'Europa
 
 
  Barbara Spinelli
 
 
In apparenza la storia sembra ripetersi: dopo le divisioni sull’Iraq, anche sulla Georgia gli Occidentali dissentono e l’Europa si divide. Ancora una volta Francia e Germania cercano vie non bellicose, aspirano a un mondo fatto di tregue e regole, si sforzano di opporre al vecchio equilibrio fra potenze, poggiato sulla sovranità totale degli Stati, la cooperazione e il diritto: la missione di Sarkozy a Mosca e Tbilisi è stata il tentativo di salvaguardare tale cultura.

Ancora una volta l’Est europeo, non sentendosi protetto dall’Unione, si schiera con Washington e il suo alleato georgiano. Anche le critiche all'Europa si ripetono: Sarkozy è sospettato di accomodamento - di appeasement - verso Putin; Berlino di asservimento al petrolio russo. Quattro Stati orientali dell’Unione (Polonia e i tre baltici) hanno deciso assieme all’Ucraina di esser presenti a Tbilisi, il 12 agosto, per solidarizzare con Saakashvili, descrivere il Cremlino come nemico assoluto, e condividere le parole di Bush e del candidato repubblicano McCain. Allo stesso modo si sono espressi due intellettuali francesi, André Glucksmann e Bernard-Henri Lévy, sul Corriere della Sera del 13 agosto. Riproponendo l’appeasement degli Anni 30, l'Europa sfiorerebbe la morte. Non così l’America, la cui parola sarebbe chiara e inflessibile.

La storia tuttavia non è immobile e molto è mutato, dalla fine della guerra fredda. Washington ha alle spalle fallimenti colossali: due guerre ritenute facili e sbrigative, in Afghanistan e Iraq, si protraggono con costi spropositati, tanto che mancano forze per altri interventi. Il suo prestigio mondiale è spezzato, e la sua presenza si è enormemente estesa - creando sotto Clinton e Bush problemi per la Russia nel Caucaso - ma è una presenza di parole, non di fatti.

L’America può spingere a avventure senza esito. Non costruisce ordine, non dissuade. Saakashvili ha preso le parole per realtà, e adesso s’accorge che erano solo parole. È caduto nella trappola russa ma anche nella trappola che gli hanno teso, irresponsabilmente, repubblicani e lobby interessati a inventare nuovi Spiriti del Male da combattere.

Anche per questo è l’ora dell'Europa. È ora di un ordine mondiale che difenda gli Stati nati dalla fine dell'Urss, ma dentro il quale la Russia non si senta estranea, reietta, nuovo nemico esistenziale utile per vincere elezioni. Il realismo che all’America manca, sono gli europei a poterlo mostrare, dopo secoli di nazionalismi. Può darsi che la tregua negoziata dall’Eliseo sia effimera: ma è l’unico tentativo di parlare alla Russia e di evitare che si ripetano i crimini in Cecenia e l’offensiva in Georgia. Il fatto che Washington parli solo con Tbilisi è segno non di forza ma di debolezza.

Segnala un potere senza responsabilità, dunque finto.

È ancora presto per dire chi perderà: se la Georgia che ha sfidato Putin contando su alleati inaffidabili, se l’America che ha costruito vere basi nel Caucaso, se l’Europa di Sarkozy. Fin da ora, tuttavia, alcuni punti son chiari. Nella catena delle responsabilità, Washington ha un ruolo chiave. Sulla Russia, ancora non esiste un’idea approfondita nella Nato che si vuole allargare. Neppure gli europei pensano davvero la Russia. Difficile capire i disastri odierni, se non si affrontano questi tre punti fondamentali.

Al disastro si è arrivati per colpe russe e georgiane, ma chi ha dato alla Russia il senso di poter tranquillamente violare il diritto internazionale e invadere una nazione sovrana sono stati gli Occidentali e gli Usa. È osservando la secessione del Kosovo che Putin ha creduto di poter impunemente, anch’egli, usare il secessionismo contro un’integrità territoriale. Se dal sogno di un ordine regolato da leggi (la kantiana Repubblica Mondiale) si è passati allo scontro hobbesiano fra Stati-Leviatani, è perché questa seconda soluzione resta vincente negli Stati Uniti, e perché la kantiana Europa si fa dividere. L’ordine che essa difende è stato eroso dalle due potenze, e tuttavia resta l'unico funzionante. Anche se imperfetto moralmente (metà Europa l’ha sofferto), anche se fondato sul contenimento dell’avversario e non sulla sua distruzione (la Nato servì a questo) esso ha dato all’Europa regole basate sulla dissuasione, sullo scontro bellico evitato, sul rispetto di reciproche aree di influenza. Quest’ordine è stato giudicato inservibile e immorale dopo il ‘90, e da allora l’America ha cominciato a pensare se stessa come unico egemone senza vincoli, come incarnazione di Roma antica, come garante etico del mondo.

È quello che ha impedito per oltre un decennio di pensare la questione centrale dell'Unione: questione che consisteva non solo nella sua riunificazione ma nel rapporto con la Russia, con le sue frustrazioni post-imperiali, con la perdita di territori posseduti dai primi dell’800, con l’immensità della diaspora russa (16-17 milioni, divisi fra Ucraina, Baltici, Kazakistan, Bielorussia, Caucaso).

Per questo è così importante rimeditare storia e funzioni della Nato. In origine essa fu pensata come strumento vendicativo, e tale torna a essere soprattutto se s’incarnerà nella Lega delle Democrazie che McCain vuol opporre alla «Russia revanscista». Lord Ismay, primo segretario generale dell’Alleanza, sostenne che lo scopo era di «tenere i russi fuori, l’America dentro, e la Germania sotto». E così sarebbe stato, se l’Unione europea non avesse invece riabilitato la Germania, dandole il peso che le fu negato dopo il 14-18. Oggi verso la Russia si vuol applicare lo schema di Lord Ismay. La Russia deve esser «tenuta sotto», umiliata: accerchiandola come disse Cheney anni fa, spingendola alla follia, suscitandole attorno innumerevoli staterelli autoritari, nazionalisti, assoldati nella guerra Usa al terrorismo.

Dopo anni di ideologica esportazione della democrazia, adesso il pensiero neo-conservatore rivaluta geopolitica e realismo: alla storia non si sfugge e pensare a un ordine etico mondiale è insensato, scopre Robert Kagan nel suo ultimo libro (The Return of History and the End of Dreams, 2008), smettendo le illusioni sulla freedom agenda - l'esportazione della democrazia - nutrite dal 1996. Oggi Kagan sostiene che gli Stati si muovono come nell’800, e fanno bene: custodendo sfere d’influenza, difendendo interessi economici tramite espansioni territoriali. Una realtà che l’Europa non vedrebbe, impigliata com’è nel sogno di un ordine mondiale giuridicamente vincolante. Sembra una svolta ma non lo è. Anche quando è realista, Kagan s’aggrappa all’illusione: che l’America abbia il diritto di agire unilateralmente ignorando vincoli e leggi, espandendosi a piacimento in zone d’influenza altrui, senza mai essere imitata. La storia si è vendicata, il suo grande emulatore è oggi la Russia.

Anatol Lieven sul Financial Times ha scritto il 14 agosto che la vittoria russa in Georgia è una fortuna, perché ha scongiurato la catastrofe. Se la guerra avesse avuto luogo quando la Georgia era già nella Nato non saremmo intervenuti lo stesso, e l’Occidente sarebbe a pezzi. Ragione per cui: non bisogna promettere quel che non si può mantenere. Non si possono creare autocrazie pur di ridurre la Russia, tanto più che la Georgia di Saakashvili non è un faro di libertà. Basta sentire chi l’ha frequentata per anni come Lieven. Basta sentire intellettuali georgiani come Devi Dumbadze, che sulla Neue Zürcher Zeitung del 14-8 racconta il maniacale nazionalismo di Tbilisi e i massicci aiuti militari di Washington.

Dumbadze racconta come nella nuova televisione dell’esercito georgiano campeggia una citazione davvero inquietante: «Una volta per tutte dobbiamo capire che mai ci riprenderemo i territori perduti con preghiere ridotte a formalità e speranze nella Lega delle nazioni. Ce li riprenderemo solo con la forza delle armi. Hitler 1932».


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« Risposta #26 inserito:: Agosto 31, 2008, 10:39:42 am »

31/8/2008
 
L'anima dell'Europa
 
 
 
 
 
BARBARA SPINELLI
 
Il vertice europeo sulla Georgia che Sarkozy ha convocato per domani a Bruxelles sarà importante non tanto per i risultati che produrrà, ma per le riflessioni che potrebbero iniziare intorno a quel che l’Unione vuol essere in un continente ridivenuto instabile e brutale. L’essenza stessa dell’Unione è infatti malferma, non da oggi ma da anni, e questa è forse l’occasione di ridefinirla, di capire le fonti del disaccordo interno, di vedere se dal chiarimento potrà nascere un modo meno dissonante di vedere le cose e agire. È dai primi Anni 90 che una discussione simile viene elusa, ed è il motivo per cui l’Unione continua a subire gli eventi, lasciandosi dividere da Washington o Mosca. La guerra georgiana e il riconoscimento russo di Sud-Ossezia e Abkhazia hanno lacerato la costruzione europea, strategicamente e anche esistenzialmente. È messa in causa la sua filosofia (alcuni la chiamano postmoderna) fondata sul superamento di Stati sovrani assoluti. È messa in causa l’idea di potenza civile, interessata a fondare i rapporti internazionali su leggi e trattati. La potenza europea non è solo economica. È un modello di relazioni tra Stati che non guerreggiano su territori, che tutelano le minoranze senza più usarle per irredentismi. Ed è un modello di uso della memoria: l’Unione scommette su un futuro comune in memoria del passato, non è fatta per punire gli ingiusti di ieri, regolar conti coi vinti e compiacersi delle loro catastrofi.

Proprio quest’Europa è considerata oggi non più servibile, dalle sue periferie orientali. A esse s’associa l’Inghilterra, da sempre ostile a una Comunità post-nazionale. Parlando in nome di molti orientali, il presidente estone Toomas Ilves è stato perentorio, nei giorni scorsi. In un mondo dove tornano in auge potenze ottocentesche, ha detto, non c’è più spazio per le idee di Monnet e Schuman. Perde senso «l’Europa postmoderna che privilegia incontri e discussioni»; che presuppone «un mondo dove tutti sono buoni e gentili» (Le Monde, 29-8). La Russia è una potenza pre-moderna, e al premoderno di Hobbes tocca tornare, dove l’uomo è lupo per l’uomo. Il dissenso in Europa è acuto, come sull’Iraq. Occorrerà parlarne, per sapere se davvero è al premoderno che urge tornare o se la scommessa comunitaria vale ancora.

In fondo è il momento più adatto per spiegarsi. La forza Usa non è svanita ma le ultime amministrazioni l’hanno indebolita, fino a renderla, in Georgia, irrilevante. Il riconoscimento del Kosovo si è rivelato un boomerang, e l’ultimo Bush è un unico fallimento: dopo la Georgia, intervenire in Iran è impensabile. È sempre più pericolante anche la Nato.

Man mano che s’allarga è meno credibile. A partire dalle guerre balcaniche inoltre ha cambiato natura, divenendo concorrente dell’Onu, ma non ha generato ordine bensì caos. Stefano Silvestri scrive, sul sito dell’Istituto Affari Internazionali: «Questa crisi ha dimostrato chiaramente come la Nato non possa efficacemente sostituirsi all’Unione europea quando la dirigenza Usa è incerta o distratta». Comunque, «la Nato non può essere la chiave di volta della politica nei confronti della Russia».

Per questo oggi è l’ora dell’Europa. L’ora di un «grande e difficile negoziato» con la Russia, ha scritto Arrigo Levi su La Stampa, e l’ora di una spiegazione interna sulla natura dell’Unione. Sarebbe bene se le due cose procedessero con gli stessi tempi, ma se necessario dovrà essere un’avanguardia a negoziare con Mosca un nuovo ordine che sia fondato su una duplice sicurezza: sicurezza degli europei dentro i propri confini, e promessa alla Russia che tali confini non saranno continuamente spostati a Est, dall’Unione o dalla Nato. È difficile dirlo, ma appartenere all’Europa non è appartenere all’Unione. Germania, Francia e Italia potrebbero far proposte, su cui le periferie si pronunceranno aderendo all’iniziativa o rifiutandola. Se le periferie e Londra la boicotteranno complicheranno i lavori dell’avanguardia senza tuttavia ottenere la tranquillità desiderata.
Torneranno ad assaporare il fascino del premoderno, ma ­ lo si vede oggi ­ con risultati per nulla promettenti.

Il chiarimento tra europei è stato eluso prima dell’allargamento, ma meglio tardi che mai. Ci sono cose trascurate dai fondatori, e altre che restano incomprese a Est. Quel che i fondatori devono capire è che gli Stati periferici hanno speciali bisogni di sicurezza, ignoti a chi non vive sul confine. Le periferie sono avamposti, non trasferiscono volentieri sovranità. Occorre dunque rassicurarle, altrimenti sarà l’America a farlo con potenza non meno ottocentesca. Manca, nell’Unione, l’articolo 5 che nella Nato garantisce a ogni Stato aggredito l’assistenza di tutti. L’Ueo (Unione dell’Europa occidentale, fondata nel ’48) ha un analogo articolo 5, incluso nel trattato di Lisbona. Sospeso dopo il no irlandese, il trattato potrebbe attuarsi in parte, cominciando proprio da quest’articolo. Un contingente europeo nei Baltici e in Polonia potrebbe essere la prima tappa del chiarimento: i paesi-avamposto, più rassicurati, sarebbero indotti a capire le ragioni dei fondatori, scoprendo che una maggiore autonomia da Washington significa non solitudine ma forse più sicurezza.
A questo punto si potrebbe aprire alla Russia, analizzando i veri pericoli della sua rinnovata forza. È vero che Mosca ha riaffermato in questi giorni una volontà di potenza trascurata dagli occidentali per oltre un decennio. È vero che Putin e Medvedev hanno per il momento vinto, militarmente. Ma la Russia è molto meno forte di quanto appaia. Non reincarna né l’Urss né lo zarismo. Non ha il grande potere d’influenza (il soft power) che aveva quand’era comunista. Non ha alleati fidati: al vertice dell’Organizzazione di cooperazione di Shanghai (Sco), riunitosi a Dushambe il 28 agosto, enorme è stata la diffidenza cinese e delle repubbliche centroasiatiche (Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Uzbekistan).

L’avventura georgiana e il riconoscimento dei secessionismi spaventano non solo Asia centrale e Cina, non solo Georgia, Ucraina, Moldavia, ma anche Stati amici con forti minoranze russe (Bielorussia). Senza una stabilizzazione negoziata della propria zona d’influenza Mosca è perdente, anche se possiede il petrolio di cui l’Europa (Germania e Italia in testa) non può fare a meno.

Il modello di negoziato già esiste, non bisogna tornare alla vecchia politica di potenza che seduce tanti responsabili americani e dell’Est europeo. La riunificazione tedesca fu negoziata con intelligenza tra Kohl, Gorbaciov e Bush senior: fu un successo, e produsse conquiste cruciali come la moneta unica e il progetto, anche se oggi interrotto, di costituzione. Da quell’esperienza varrà la pena ripartire, mostrandosi fermi con Mosca ma iniziando a comprenderla e a prenderla sul serio. Ignorare risentimenti e paure d’una potenza vinta vuol dire ignorare il reale, e preparare violenze future: già è avvenuto dopo il ’14-’18. Ma anche il Cremlino dovrà scoprire il reale: l’estero vicino che tanto l’inquieta è ormai anche vicinato europeo, e difficilmente potrà pacificarsi se ambedue ­ Unione e Russia ­ non fisseranno i propri confini smettendo di spostarli continuamente. Dopodiché potrebbe nascere una zona di libero scambio, alle frontiere dell’Unione, che includa Russia e Stati ex sovietici e che abbia sue istituzioni e rappresentanti (è la politica di vicinato proposta da Prodi, quando era presidente della Commissione europea). Una comune politica dell’energia potrebbe seguire, evitando che i più forti dell’Unione negozino con il Cremlino escludendo i più deboli.

Questo il compito dell’Europa. Lo assolverà se resterà fedele a Monnet e Schuman. Se saprà agire inventando il futuro, non trasformando la storia presente in giudizio universale e la memoria in un gioco al massacro.

da lastampa.it
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« Risposta #27 inserito:: Settembre 07, 2008, 04:47:14 pm »

7/9/2008
 
La politica del pancione
 
BARBARA SPINELLI
 
D’un tratto in politica s’accampa un Nuovo che scompiglia ogni cosa, che promette addirittura di ricominciare il mondo. Il Nuovo è il corpo del candidato, e non del solito candidato ma del candidato-donna. E neppure di una donna che ha speciali esperienze: quando i giornali americani scrivono che con Sarah Palin «è nata una stella» alludono a un candidato forte perché enormemente simile a tutte le donne e alla loro vita quotidiana, fatta di tanti bambini, tante famiglie accidentate. È la prima volta e questa formula («È la prima volta») ha le virtù d’un mantra: è un cumulo di sillabe che protegge con magica efficacia.

Tutto sembra tramutarsi in mantra, non appena sul palcoscenico fa irruzione la biologia femminile: non intercambiabile con quella dell’uomo, perciò primeva, inaugurale. Nel rifare il mondo, la donna può anche ricorrere all’arma suprema, all’atomica che dissuade l’avversario azzittendolo. Mette in mostra, modernamente disinibita, quel che ancor ieri era intimo: la pancia incinta, dunque il rapporto primordiale con la vita e la morte. Giacché questa è la politica al grado zero: vita o morte, pace o guerra, tutto o nulla. Nella favola di Esopo erano le membra del corpo che si ribellavano alla pancia oziosa. Adesso fa secessione la pancia, reclama il primato assoluto.

C’erano una volta due corpi del Re - accadeva nelle monarchie medievali descritte da Kantorowicz negli Anni 50: il corpo mortale e quello eterno, santo, che raffigura l’istituzione e la Corona e s'incarna in questo o quel re. Ora s’aggiunge un terzo corpo: la pancia incinta che la donna politica, non senza cinismo, eleva come trofeo. La pancia della diciassettenne Bristol, figlia della candidata alla vice presidenza. O la pancia del ministro della giustizia Rachida Dati, in Francia. Un mistero circonda quasi sempre il Terzo Corpo. Il padre è figura secondaria: trascurabile nel caso di Bristol Palin, incerta per Rachida Dati. Il Mondo Nuovo non appartiene ai padri. In questi giorni in America è nata una santa, oltre che stella: il ventre immemorialmente è benedetto. Il corpo politico, chiamato per secoli body politic perché paragonato all’organismo umano, diventa body e null’altro, senza più i parafernali della politica.

In realtà quest’irrompere del corpo non è nuovo. Accadde all’inizio del ’900, quando si cominciò a paragonare le virtù dello sportivo con quelle dell’intelligenza o dello spirito. Robert Musil costruisce un romanzo su questa scoperta: improvvisamente l’Uomo Senza Qualità s’accorge che lo spirito del tempo (lo spirito della comunità) esalta il corpo come la cosa più autentica dell’uomo. Ulrich lo annuncia a Diotima, la cugina borghese che di autenticità è insaziabilmente affamata: «Dio, per ragioni che non ci sono ancora note, sembra aver inaugurato un'epoca della cultura del corpo; perché l'unica cosa che in qualche modo sostiene le idee è il corpo, cui esse appartengono». Aprendo il giornale, un mattino, Ulrich s’imbatte sulla vittoria di un «geniale cavallo da corsa». Il corpo (animale o femminile) ha occupato l'intera scena, divorando la genialità letteraria o politica: è diventato totem, simbolo soprannaturale in cui il clan si identifica. Basta dire corpo di donna ed è Mondo Nuovo, Moderno. Non importa quel che la donna fa: conta l'apparire corporeo, con cui il suo essere coincide perfettamente specie quando la pancia ne è sintesi e apoteosi.

Eventi simili non cadono dal cielo. Hanno antecedenti. In principio c’è un ammalarsi della politica, della democrazia, non per ultimo dei mezzi di comunicazione. Basta sfogliare i giornali, non solo in America, e si vedranno analoghe fatali attrazioni per ciò che è considerato autentico nell’uomo politico. In Italia non avremo forse l’infame curiosare su una diciassettenne incinta, ma lo spazio è egualmente invaso dal gossip, dalla cronaca rosa oltre che nera. Perfino la critica letteraria è spesso solo rosa. Attrae il privato dei politici, in particolare se donne. Si fruga nelle loro vite, nelle pance, come i rotocalchi che spiano divi e sportivi. Da tempo diminuiscono i giornalisti che indagano su altro che questo, con la stessa continuità. In Francia questa metamorfosi si chiama pipolisation: dai rotocalchi people emulati da giornali e tv. Il fenomeno concerne inizialmente sia uomini che donne. Sarkozy ha sfoggiato i propri matrimoni. Ancor prima s'è distinto Berlusconi: il corpo, i capelli, la prestanza fisica sono stati sue sciabole. I giornali si sono adattati al gusto del tempo, al finto realismo che inghiotte il reale.

La donna in politica tende a impigliarsi nella pipolisation: non fosse altro perché viene presentata come nuova e migliore in sé, a prescindere da quello che fa o pensa. Ségolène Royal era ineguagliabile in quanto donna, Hillary Clinton è caduta nella stessa trappola e ora si trova davanti la nemesi che è Sarah Palin. In Italia non è diverso. Di recente, Veltroni s’è augurato un direttore nuovo all’Unità. Non s’è soffermato sulla bravura o non-bravura del direttore Antonio Padellaro, sulla nuova linea che auspicava, sulla vecchia che esecrava. S’è limitato a proferire il mantra, lo scorso 25 maggio sul Corriere della Sera: «Ci vorrebbe una donna alla direzione dell’Unità». Senza spiegare in cosa consistesse l’ancien régime, disse che la rivoluzione era questa. Qualcuno ha commentato, con saggezza: Padellaro era un uomo, purtroppo.

McCain è tutt’altro che maldestro. Adopera la crisi della politica, della democrazia, dei media. Sa di poter contare sull’estensione del gossip, della cultura del corpo. La pancia della povera figlia di Sarah Palin e il corpo del neonato down ostentato nella campagna portano voti, perché riaccendono la guerra culturale che il populismo di destra conduce contro la presunta egemonia della sinistra. Gli studiosi George Lakoff e Thomas Frank denunciano da tempo, in libri e articoli, la fuga della destra nel falso realismo dell’autenticità e nel risentimento dei piccoli verso i forti. È una destra che s’è impossessata di molte bandiere di sinistra: la discriminazione delle piccole città, della povera gente, di chi «non è stato cooptato dall’élite cosmopolita», infine delle donne.

Obama è considerato elitario, cooptato: quindi cosmopolita, non genuinamente americano. Palin invece incarna il nuovo valore dell'Autenticità ed è contro tutte le élite, specie mediatiche. Alla convenzione repubblicana ha entusiasmato: «Ecco una notizia flash per tutti i reporter e commentatori - ha gridato -: vado a Washington non per strappare la loro buona opinione. Vado a Washington per servire il popolo di questo Paese. Non sono parte dell'establishment politico. In questi giorni ho presto imparato che se non sei parte dell’élite, alcuni media non ti considereranno il candidato qualificato». Il politico più seduttore oggi è un maverick: un cane sciolto, una personalità più che una persona. McCain è maverick e anche Sarah Palin perché - così pare - la donna in quanto tale ieri era mobile e oggi è maverick.

La vecchia guerra contro la sinistra dominatrice riprende, e permette a McCain di fingersi nuovo pur continuando Bush. Ma è guerra assai temibile, ricorda Lakoff su Huffington Post: i repubblicani la maneggiano perfettamente da quando Nixon, nel ’69, convocò la maggioranza silenziosa contro il Sessantotto. È guerra che seduce giornali e intellettuali; che ha fatto vincere Reagan e Bush jr. Viene rispolverata ogni volta che i repubblicani, pur di non evocare quel che hanno fatto, si gettano su valori che dividono la sinistra e la intimidiscono sino a incastrarla (famiglia, aborto). Anche l’uso delle donne serve a tale scopo. Se attacchi Sarah Palin sarai accusato di sessismo ed è massima ingiuria. Forse la candidata inciamperà; son numerose le sue azioni passate non pulite. Ma finché resta un totem è vincente, e inattaccabile.

da lastampa.it
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« Risposta #28 inserito:: Settembre 14, 2008, 10:31:29 am »

14/9/2008
 
Quando muore il cervello
 
 
BARBARA SPINELLI
 
L’articolo di Lucetta Scaraffia sull’Osservatore Romano del 3 settembre ha suscitato scandalo e proprio per questo aiuta a pensare profondamente due esperienze di frontiera dell’esistenza umana: il coma irreversibile, e la fine della vita che una commissione di scienziati a Harvard ha deciso, quarant’anni fa, di far coincidere con la morte cerebrale, senza attendere che nel paziente sopraggiunga anche l’arresto cardiocircolatorio. È vero che quella decisione, oggi parametro indiscusso, non cessa di turbare e ha cambiato il nostro rapporto con la morte.

E’difficile non pensare che essa sia stata anticipata non solo grazie a più accurate conoscenze, ma anche per render possibili - sul piano etico, giuridico - i prelievi di organi. I trapianti infatti avvengono in presenza di elettroencefalogramma piatto, ma riescono pienamente solo se cuore e respiro restano attivi grazie a apparecchi esterni: è uno dei motivi per cui il paziente con elettroencefalogramma piatto, incamminato sicuramente verso la morte, vien dichiarato a questo punto trapassato e del suo corpo - tenuto in vita artificialmente - si parla come di cadavere a cuor battente. L’articolo sull’Osservatore introduce in tutte queste certezze la spina dell’angoscia: parole come cadavere a cuor battente resuscitano archetipi impaurenti (morti-viventi, zombie) e per questo la spina d’angoscia aiuta a pensare, su quel che si fa col corpo dell’uomo. I molti testi apparsi ultimamente, di medici e scienziati come Umberto Veronesi o Giuseppe Remuzzi, non sarebbero stati scritti con lo stesso sforzo pedagogico se non avessero dovuto reagire a inquietudini rilevanti.

Cosa accadde esattamente nel ’68, quando la commissione della Medical School di Harvard decretò che la fine delle funzioni cerebrali era morte, anche se il malato continuava a esser attaccato a macchine di respirazione e circolazione sanguigna? Aveva a cuore il paziente, o era mossa anche da altri interessi, di persone disperate e però estranee al morente? Scaraffia cita Hans Jonas, il filosofo tedesco che dal ’69 combatté la definizione di Harvard, proseguendo la battaglia fino a metà degli Anni 80. Sconfortato, scrisse poi che la guerra era perduta. In un post-scriptum dell’85 al testo pubblicato nel ’74 (Controcorrente, in Tecnica, medicina ed etica, Einaudi ’97) constatò: «La mia è stata un’esercitazione in inutilità». L’articolo sull’Osservatore gli rende omaggio: l’esercitazione non è stata vana. Vale dunque la pena rievocare quel che disse precisamente su morte cerebrale e vocazione medica, per estendere la discussione e ricordare alcune sue idee di fondo, lasciate in ombra dall’articolo.

Jonas non era affatto contrario ai trapianti, ne capiva profondamente il dramma, l’urgenza, la natura di dono. Non è vero, insomma, che «consentendo al trapianto si accetta implicitamente la definizione della morte data a Harvard». Quel che il filosofo chiedeva era di dare priorità assoluta al morente, temendo che il suo corpo venisse trasformato innanzi tempo in cadavere e che a questo passo ne seguissero altri ben più scabrosi: i cadaveri potevano esser tenuti artificialmente in vita a tempo indefinito, e trasformati in banche semi-permanenti di organi, sangue, ormoni. Voleva regole più rigide sui prelievi, sperando che essi iniziassero immediatamente dopo lo stacco del respiratore. Dare priorità al morente significava per lui una cosa soltanto: non essendo quest’ultimo più una persona a tutti gli effetti, ed essendo la morte imminente e sicura, ogni tubo o macchina dovevano essere staccati. In maniera chiara, Jonas fa capire che se la nuova definizione della morte avesse avuto come scopo primario quello di consentire il distacco del tubo, sarebbe stata da lui benvenuta.

Jonas era contro l’eutanasia ma favorevole al lasciar morire, in caso di coma irreversibile e se il paziente lo voleva. Anche se incosciente, il moribondo ha infatti diritti inalienabili, e «il diritto di morire è inalienabile come il diritto alla vita». È anzi parte del diritto alla vita («l’essere è un’avventura della mortalità»). Scaraffia sostiene che secondo la dottrina cattolica e le direttive della Chiesa il comatoso irreversibile è persona completa, non identificandosi quest’ultima con le sole attività cerebrali. Jonas era convinto che l’opinione della Chiesa fosse un’altra, vicina alla sua: in particolare la voce di Pio XII, i cui discorsi del ’57 - su rianimazione e analgesia - sono più volte citati nei suoi testi (nel sito Vaticano appaiono solo in spagnolo). Nei due discorsi il Papa considera leciti sia l’interruzione della terapia artificiale in caso di coma irreversibile, sia il ricorso a analgesici che sollevino dal dolore pur accorciando la vita. La definizione della morte, per Pio XII, non appartiene a Dio o alla natura: «Spetta al medico e all’anestesista dare una definizione chiara e precisa della “morte” e del “momento della morte” di un paziente in stato di incoscienza» (24-11-57).
L’obiezione di Jonas alla morte cerebrale resta tuttavia intatta, da meditare sempre. È vero ad esempio che i requisiti che consentono di certificare la morte sono severi, in Italia («La nostra legge è molto più attenta al donatore che all’attività di trapianto. I requisiti \ sono ad abundantiam», scrive Remuzzi sul Sole-24 Ore del 6 settembre). Ma altrove le pratiche sono più disinvolte. Il rischio, scrive Jonas, è che il trapianto diventi soverchiante, e la trasformazione del paziente in cadavere venga sempre più anticipata. Memore dell’uso che il nazismo fece della scienza, Jonas mette in guardia contro questo sperimentare attorno al corpo umano sulla soglia della morte, in nome di entità astratte come la razza, la società, o anche l’umanità. Il rapporto di Harvard creava pericolosi equivoci, minacciando il rapporto di fiducia tra malato e medico: «Il paziente deve esser totalmente sicuro che il medico non sarà il suo boia, e che nessuna definizione della morte gli darà il potere di divenirlo. \ Nessuno ha il diritto al corpo d’un altro».

Il diritto a morire è essenziale in Jonas, e fonda la sua obiezione al rapporto Harvard. La tecnica che simula vita è il suo avversario, e non la convinzione che la persona resti integra con elettroencefalogramma piatto («Non è umanamente giusto prolungare artificialmente la vita di un uomo privato di cervello» - Il paziente immobile o comatoso «non ha meno diritti di chi sceglie di morire rifiutando la dialisi»). Il pericolo non è lo stacco del tubo ma il riattacco del tubo, che simulando vita facilita trapianti. Tracciare confini evidenti tra vita e morte è difficilissimo, aggiunge, e di una cosa è persuaso: l’arresto cerebrale è l’anticamera della morte - è uno «stadio intermedio», una «soglia» - e non la morte (tra la morte del tronco del cervello e l’arresto del cuore passano 48-72 ore, scrive Remuzzi, e tuttavia per il certificato di morte e il trapianto le ore requisite sono 6 per l’adulto e 12 per i bambini, in Italia). Il dubbio di Jonas si riassume così: «In realtà, abbiamo tutti i vantaggi del donatore vivo senza gli svantaggi, che nascono dai diritti e dagli interessi del donatore stesso, che non ha più diritti essendo un cadavere».

Giungiamo così a quella che per Jonas è l’urgenza vera: una ridefinizione della medicina, più che della morte. Il medico deve seguire il comandamento fondatore (primo, non nuocere) ma imparare ad accordare tale comandamento con l’etica. In presenza di atroce dolore non potrà non somministrare medicine che alleviano il dolore, pur accorciando o interrompendo la vita. In ogni momento, si guarderà dal mutare l’uomo in cosa, in mezzo. Lo si tramuta in cosa in ambedue i casi: se non si rispetta il suo diritto a morire, e se gli si antepongono interessi della Società. La morte appartiene all’uomo, non all’umanità.

da lastampa.it
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« Risposta #29 inserito:: Settembre 21, 2008, 08:33:51 am »

21/9/2008
 
La bolla delle illusioni
 
 
 
 
 
BARBARA SPINELLI
 
Il baratro di cui ha parlato Berlusconi, giovedì quando s’è rotto il negoziato Alitalia e la cordata Colaninno ha ritirato la propria offerta, è la condizione in cui ci si trova ogni qual volta la realtà si vendica sull’illusione, che più o meno lungamente aveva abbagliato e confuso le menti. Ogni disincanto genera baratri. La grande illusione esiste anche nel mondo della finanza ed è chiamata bolla: proprio in questi giorni, anch’essa sta scoppiando nelle mani di chi per decenni l’aveva dilatata, fino a scambiarla col reale. Il motore dell’illusione è la distorsione della realtà, ed è il motivo per cui si può parlare di bolla della menzogna per Alitalia e di bolla delle false credenze per la finanza. Come quando è fatta di sapone, la bolla ti avvolge con una membrana trasparente, che ti sconnette dal reale.

Più enormi le illusioni, più durevole la bolla e più brutale lo scoppio. Per questo è importante esplorare il passato, anche se presente e futuro sono prioritari. L’anamnesi della bolla aiuta a capire il momento in cui l’illusione non solo cancella il principio di realtà, ma crea realtà affatto nuove che pesano ancora: una tentazione che non è di ieri ma di sempre, essendo le false credenze loro ingrediente essenziale. La bolla Alitalia s’è palesata non solo alla fine del governo Prodi, ma anche quando ha preso corpo la cordata Colaninno. L’alternativa berlusconiana poteva riuscire, ma essendo nata come bolla aveva bisogno di menzogne e queste non sono state ininfluenti sul negoziato. Ogni volta che il premier parlava (l’ultima a Porta a Porta, il 15 settembre), le contro-verità per forza riaffioravano facendo riemergere il passato ineluttabilmente. Le contro-verità sono almeno sei. Primo, non è vero che le promesse elettorali sono state mantenute: Berlusconi aveva garantito soluzioni migliori rispetto a Air France, e la Cai è certo un rimedio ma non migliore. Secondo, i costi erano ben più alti: sia per i licenziamenti; sia per il futuro mondiale della compagnia (l’italianità era garantita, non una compagnia competitiva nel mondo); sia per il prezzo pagato dai contribuenti. L’economista Carlo Scarpa ha calcolato, sul sito La Voce, che lo Stato - i contribuenti - devono pagare nel piano CAI 2,9 miliardi di euro. Terzo, non è vero che non ci sarebbero stati stipendi diminuiti ma solo aumenti di produttività, come detto dal premier: altrimenti il negoziato non si sarebbe bloccato su questo. Quarto, non è vero che Berlusconi non avrebbe impedito l’accordo Air France: il premier disse pubblicamente che l’avrebbe revocato, se vittorioso alle urne. Quinto, Air France non prevedeva 7000 licenziati ma 2150. Sesto, non è Berlusconi a poter lamentare l’uso politico spinto del caso Alitalia. Rammentare illusioni e contro-verità non è vano perché mostra la stoffa di cui son fatte le bolle: in economia, in politica, nell’individuo. La bolla infatti crea una realtà in cui si finisce per credere, e che diventa realtà: magari virtuale - un’ombra, un’ideologia - ma che incide sulla vita. Chi la dilata comincia a ignorare la membrana e influenza gli attori circostanti. Ogni metafora naturalmente ha difetti, anch’essa deve fare i conti con il reale. Ma l’euforia di illusioni e false credenze è il tessuto della bolla, e se è vero quello che dice Erasmo - la menzogna ha cento volte più presa sull’uomo della verità - la sua potenza non va sottovalutata. La crisi finanziaria è bolla specialmente deleteria: perché ha ramificazioni più vaste e antiche, legate a illusioni sul potere unilaterale Usa e sulla sua pretesa di poter fare da sé. È il morbo descritto nell’ultimo libro di George Soros, il finanziere che s’ispira alla teoria della fallibilità di Popper (The New Paradigm for Financial Markets, 2008). La bolla è centrale nella sua analisi, ed egli la scorge nella crisi dei mutui, dell’economia, della politica estera Usa. All’origine un peccato originale: il doppio fondamentalismo del libero mercato e della superpotenza unica. Nella finanza la grande illusione è stata la seguente: i prezzi di vari prodotti (alta tecnologia, case) sarebbero cresciuti indefinitamente, e l’aspettativa di tale crescita li avrebbe ancor più aumentati. Niente li frenava, visto che i tassi restavano bassi e si moltiplicavano mutui a prezzi attraenti anche se irrealistici. Tale deformazione del mercato, Soros la chiama self-fulfilling prophecy (profezia che si autorealizza) del pensiero manipolatore. Esso pesa sulla realtà sino a stravolgere insidiosamente il rapporto tra domanda e offerta: il finanziere parla di interferenza «riflessiva» tra percezioni distorcenti e fatti reali (questi riflettono la manipolazione e ne vengono trasformati). La profezia che si autorealizza avviene quando la narrazione del reale schiaccia il reale: il vero è sostituito dal racconto. Il postmoderno ha molte affinità con quest’illusione, così simile alle ideologie che affogano il reale nella sua narrativa. Soros denuncia la complicità tra postmoderno e Bush, ma la complicità vale anche per Berlusconi e Alitalia. Un episodio lo comprova, raccontato anni fa dal giornalista Ron Suskind. Già nel 2002, prima della guerra irachena, un consigliere di Bush gli disse: «Il mondo funziona ormai in modo completamente diverso da come immaginano illuministi e empiristi. Noi siamo ormai un impero, e quando agiamo creiamo una nostra realtà. Una realtà che voi osservatori studiate, e sulla quale poi ne creiamo altre che voi studierete ancora» (New York Times, 17-10-2004. Il consigliere sarebbe Karl Rove). Chi non s’adegua è accusato d’appartenere alla reality-based community: comunità antiquata perché interessata alla realtà anziché alla credenza. La comunità realista s’inquieta per le conseguenze della bolla: Iraq, caos afghano, Iran in ascesa, crollo della borsa, declino del dollaro, debolezza mondiale Usa. Chi vive nella bolla non bada a conseguenze, fino a quando la realtà si vendica. Le bugie possono avere gambe molto più lunghe del proverbio: ma non infinitamente lunghe. Chi vive in una bolla è come stregato. Pensa che la profezia si autorealizzi, nel male o nel bene. In Italia abitano il sogno Berlusconi ma anche Cgil e parte dei dipendenti Alitalia. In America il sogno non è meno forte: sia all’inizio, quando milioni di cittadini credettero nella bugia di mutui troppo facili, sia dopo l’infrangersi dell’illusione col piano di salvataggio che trasforma lo Stato in infermiere. Chi vive nella bolla pensa che il mercato prima o poi riequilibrerà domanda e offerta, non si cura degli effetti della bolla né di quelli della bolla scoppiata. L’illusione permane, quando le perdite (di Alitalia o delle compagnie Usa) son convogliate verso bad companies magari salvifiche, e però finanziate dal contribuente. Chi vive nella bolla ha infine e soprattutto l’impressione di poter correre ogni sorta di rischio: in particolare quello che nell’assicurazione si chiama moral hazard, azzardo morale. Si può dar fuoco alla propria casa, tanto siamo coperti. Si può fumare a letto se siamo assicurati dall’incendio, anche se magari nelle fiamme moriremo. Il moral hazard diventa un pericolo nazionale, quando un governo gioca con l’inaffondabilità di un’impresa - l’Alitalia - fidando sul fatto che alla fine pagherà il cittadino. Diventa un pericolo mondiale, quando a correrlo è una superpotenza convinta di dominare il mondo incontrastata, anche se ormai domina poco. Tutto è permesso: tanto siamo i più forti, simili a dèi; o siamo assicurati, il che consente impunità e irresponsabilità. Dicono che il mercato vero deve riprendere il sopravvento. Non so se sia il mercato, visto che il fondamentalismo ne ha fatto uno stendardo. Sono la realtà e la cittadinanza e l'informazione attenta ai fatti (la reality-based community) che devono sgonfiare le bolle, una dopo l’altra.

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