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Autore Discussione: BARBARA SPINELLI -  (Letto 119994 volte)
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« Risposta #75 inserito:: Ottobre 26, 2009, 09:40:17 am »

26/10/2009 - LE IDEE

Le parole per battere la mafia
   
L'intervento agli stati generali di Libera: è il momento di dire quello che conosciamo

BARBARA SPINELLI


Da anni ci interroghiamo su questo male che non viene estirpato, la mafia: in particolare sulla lunga storia di trattative fra una parte dello Stato e la malavita, con poteri occulti che mediano fra due potenze facendone entità paragonabili. Anche per il potere della malavita, non solo per il potere legale, dovrebbero valere le parole di Montesquieu: «Chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva sin dove non trova limiti. Perché non si possa abusare del potere occorre che il potere arresti il potere».

Forse però è venuto il momento di dire quello che sappiamo, e non solo di farci domande. Di dire, come fece Pasolini il 14 novembre 1974 a proposito delle trame eversive italiane, che in realtà: noi sappiamo. Sono anni che sappiamo, anche se non abbiamo tutte le prove e gli indizi. Sappiamo che le trattative sono esistite, prolungandosi fino al 2004. Sappiamo che viviamo ancor oggi - con le leggi che ostacolano la lotta alla mafia, con lo scudo fiscale che premia l’evasione - sotto l’ombra di un patto. Sappiamo il sangue che mafia, camorra, ’ndrangheta hanno versato lungo i decenni. Sappiamo il sacco di Palermo, e di tante città: sacco che continua. Sappiamo che l’Italia si va sgretolando davanti a noi come fosse un castello che abbiamo accettato di fare di carta, anziché di mattoni e di buon cemento non fornito dalla mafia - sì, noi l’abbiamo accettato, noi che eleggiamo chi ha il potere di favorire o frenare la malavita. Sappiamo che basta leggere le sentenze - anche quelle che assolvono gli imputati per mancanza di prove o, peggio, per prescrizione - per conoscere le responsabilità di politici che, per aver conquistato e mantenuto il potere grazie alla malavita, non dovrebbero essere chiamati coi nomi, nobili, di rappresentanti del popolo o di statisti.

Tutte queste cose, come avviene nei paesi che vivono sotto il giogo di un potere totalitario, le sappiamo grazie a persone che hanno deciso di denunciare, di testimoniare, e non solo di testimoniare ma di rimboccarsi le maniche e cominciare a costruire un’Italia diversa: tra i primi l’associazione Libera, e i giudici che hanno indagato su mafia e politica sapendo che avrebbero pagato con la vita, e uomini come Roberto Saviano, e giornalisti che esplorano le terre di mafia come Anna Politkovskaja esplorava, sapendo di essere mortalmente minacciata, gli orrori della guerra russa contro i ceceni.

Sono i medici dell’Italia. Ma medici che osservano un giuramento di Ippocrate speciale, di tipo nuovo: resta il dettato che comanda l’azione riparatrice, risanatrice. Nella sostanza, l’obbligo di non nuocere, di astenersi da ogni offesa e danno volontario. Ma cade il comandamento del segreto, vincolante in Ippocrate, che comanda: «Tutto ciò ch’io vedrò e ascolterò nell’esercizio della mia professione, o anche al di fuori della professione nei miei contatti con gli uomini, e che non dev’essere riferito ad altri, lo tacerò considerando la cosa segreta».

Il paragrafo del giuramento cade, perché troppo contiguo alla complicità, al delitto di omertà: questa parola che offende e storpia la radice da cui viene e che rimanda all’umiltà, all’umirtà. La vera umiltà consiste nell’infrangere il segreto, nel far letteralmente parlare le pietre e il cemento, le terre e i mari inquinati, poiché è denunciando il male che esso vien conosciuto e la guarigione può iniziare. Per questo l’informazione indipendente è così importante, in Italia: spesso lamentiamo un’opinione pubblica indifferente, ma, prima di esser aiutata a divenire civica, essa deve essere bene informata: con parole semplici, non specialiste, con esempi concreti. I medici di cui ho parlato - medici dell’Italia e delle sue parole e della sua natura malate - combattono proprio contro questo silenzio, che protegge i mafiosi, copre oscuri patti fra Stato e mafia, lascia senza protezione le loro vittime. I medici danno alle cose un nome, e su questa base agiscono.

C’è un modo di servire lo Stato che chiamerei paradossale: si serve lo Stato, pur sapendo che esso è pervertito, che nella nostra storia c’è stato più volte un doppio Stato. Uomini come Falcone, Borsellino, il giudice Chinnici, don Giuseppe Puglisi, don Giuseppe Diana e i tanti uomini delle scorte avevano questa fedeltà paradossale allo Stato. Uomini così sono come esuli, come De Gaulle che lasciò la Francia quando fu invasa da Hitler e dall’esilio londinese disse: la Francia non coincide con la geografia; quel che rappresento è «una certa idea della Francia», che ha radici nella terra ma innanzitutto nella mente di chi decide di entrare in resistenza e sperare in un mutamento.

La riconquista del territorio e della legalità è come la speranza, anch’essa sempre paradossale. Prende il via da una perdita del territorio, dalla consapevolezza che se lo Stato non ha più presa su di esso, ciascuno di noi perde la terra sotto i piedi. E quando dico territorio perduto dico le case che franano non appena s’alza la tempesta, i terremoti che uccidono più che in altre nazioni, l’abitare che diventa aleatorio, brutto, perché la costruzione delle case avviene con cemento finto, fatto di sabbia più che di ferro, procurato dalle mafie. Come nella lettera di Paolo ai Romani, è dalla debolezza che si parte, altrimenti non ci sarebbe bisogno di sperare: «Ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe ancora sperarlo? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza».

Ecco, per ora speriamo quel che non ancora vediamo: una cultura della legalità, una politica del territorio restituito a chi vuole abitarlo decentemente. Per ora abbiamo una certa idea dell’Italia, della lotta alla mafia. Ma se sappiamo quel che accade da tanto tempo, pur non avendo tutte le prove, già metà del cammino è percorsa e l’agire diventa non solo necessario ma possibile. Anche questo Paolo lo spiega bene, quando elenca le tappe della speranza. Prima viene l’afflizione, la conoscenza del dolore. L’afflizione produce la pazienza, e questa a sua volta la virtù provata. È sul suolo della virtù provata che nasce la speranza, e a questo punto la prospettiva cambia. A questo punto sappiamo una cosa in più, preziosa: non si comincia con lo sperare, per poi agire. Si comincia con la prova dell’azione, e solo dalla messa alla prova nascono la speranza, la sete di trovare l’insperato, l’anticipazione attiva - già qui, ora - di un futuro possibile. Ha detto una volta Giancarlo Caselli una cosa non dimenticabile: «Se essi sono morti (parlava di Falcone, Borsellino) è perché noi tutti non siamo stati vivi: non abbiamo vigilato, non ci siamo scandalizzati dell’ingiustizia; non lo abbiamo fatto abbastanza, nelle professioni, nella vita civile, in quella politica, religiosa». Per questo corriamo il rischio, sempre, di disimparare perfino la speranza.

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« Risposta #76 inserito:: Novembre 01, 2009, 10:30:38 am »

1/11/2009 - SPECIALE OBAMA UN ANNO DOPO

America terra desolata
   
BARBARA SPINELLI


C’è allarme, da qualche tempo, su Obama e il suo cambiamento. Aumentano gli scontenti, specie nella sua base. Crescono campagne d’odio, in un partito repubblicano divenuto semi-fascista. Si moltiplicano le accuse di scarsa fermezza, sveltezza. Il cambiamento promesso il giorno dell’elezione, il 4 novembre 2008, ancora non si vede del tutto. Spesso pare smentito: su sicurezza e libertà, il Presidente è sospettato di proseguire, intimidito, alcuni costumi di Bush. Ciascuna di queste accuse ha una sua ragion d’essere. Ma tutte sembrano come cieche, incapaci di vedere la profondità della crisi americana e la tenace volontà con cui il Presidente l’affronta, non schivando pericoli e ostacoli ma andando ogni volta lì dove le loro radici sono più potenti, per studiarle e smontarle. Quel che i critici non vedono è al tempo stesso la forza delle resistenze al cambiamento, i mali troppo antichi per esser sveltamente sanati, e il mutamento già avvenuto del clima mondiale. È come fossero impermeabili alla pedagogia della verità inaugurata da Obama sin dal primo giorno: «La strada è lunga e ripida, disseminata di sconfitte e inciampi. Non arriveremo alla meta in un anno, e forse neppure in quattro».

Obama si trova a guidare un paese che è, da molti punti di vista, la terra desolata di T.S. Eliot: un cumulo di immagini infrante. È sempre ancora il paese più inventivo, e «la sua influenza resterà molto grande rispetto alla modestia della sua condotta», dice Kissinger. Ma la caduta, non solo economica, è tangibile. La Cina che diventa il primo creditore degli Stati Uniti, il dollaro che diffonde instabilità perché riflette la crisi di una sola nazione pur restando moneta mondiale, son segni di un equilibrio internazionale che si ricostruisce su basi diverse - un po’ come in Europa prima del ’14 - con l'America che non è più l’unica, la più sana, la più esemplare delle potenze. Le guerre di Bush contro il terrore volgono al fallimento, non solo in Iraq da cui Obama s’è ritirato. L’esitazione del Presidente sull’aumento di truppe in Afghanistan è segno di serietà: l’appoggio al regime corrotto di Karzai ha avuto come risultato la conquista talebana di oltre metà Afghanistan, e un’insurrezione antiamericana ormai disgiunta da taleban e Al Qaeda. Senza Obama, Karzai non sarebbe stato costretto a rifare le elezioni che aveva truccato.

Viene poi il disastro mentale, culturale: il disastro di un nazionalismo che ha radici secolari, e più volte è divenuto malattia acuta, apocalittica convinzione d'esser sempre nel bene trionfante. L’ideologia messianico-affaristica di Bush non è che l’apice di un'onda lunga, che risale alla seconda metà dell’800, e che vede nell’America una nazione eletta a guidare il mondo, la lucente città sulla collina che redime e rieduca la terra peccaminosa perché tale è il suo destino manifesto. Obama fa i conti anche con questa tradizione, che ha avuto come epigono farsesco Bush jr. e s’è impersonata in Wilson nel ’14-18, in Reagan negli Anni 80. Anche qui non siamo che agli inizi, e Obama ha cominciato l'opera con un’ambizione più grande ancora di quella di Roosevelt, prima del ’39. Allora Washington rispose al collasso economico con il protezionismo, l’isolazionismo. Obama affronta ambedue i collassi, e proprio nel momento in cui cura il paese apre al mondo. Stabilisce un nesso fra le due crisi - sul piano interno una democrazia parlamentare corrosa dalle lobby e un potere esecutivo screditato da continue trasgressioni della legge e della costituzione; sul piano esterno il tracollo del prestigio Usa - e con atti e parole mostra di volerle combattere confutando certezze fin qui incrollabili.

Prima certezza messa in questione: quella di esser nel giusto, sempre. Una certezza smisuratamente dilatata dopo la guerra fredda. Sicure d’aver vinto grazie alla loro egemonia culturale, economica, politica, tre amministrazioni hanno dimenticato una verità elementare: è molto più facile per il vinto imparare dalle sconfitte, che per il vincitore apprendere dalla vittoria. Vincitrice, l’America ha smesso nell’89 di pensare, senza costruire il dopo. Negli anni dello scontro con l’Urss era stata la guida del mondo libero. Caduta l’Urss ha voluto divenire guida del mondo, quello libero e quello da liberare: potenza che non tollera rivali, persuasa d'esser sempre, sola, nel giusto. I neo-conservatori hanno perfino vagheggiato la replica dell’impero romano. Le abitudini della guerra fredda, che avevano favorito la sconfitta dell'avversario, son divenute vizi che frenano ogni capacità di capire il mondo e ridisegnarlo. Anche qui, il clima è mutato e risultati si vedono: in Iran, Iraq, nei discorsi sull’Islam, negli impegni su disarmo nucleare e clima, nel taglio ad alcune spese militari.

Obama è figlio dei movimenti civili che infransero il mito nazionalista del faro di libertà. È l’erede di chi lottò contro la guerra in Vietnam e l’odio razziale. Anche per questo suscita repulsioni così violente, non per quello che fa ma per quello che è e dice: sul rispetto dell’altro, del diverso. Per come ha commentato, mercoledì, la legge contro i crimini fondati sull’orientamento sessuale.

Il tempo della delusione forse verrà, se deve. Ma in una battaglia appena iniziata è insensato dar per scontata la disfatta, trasformare la speranza in vizio, e decretare già ora che il Presidente non si libererà da quella che lo storico Anders Stephanson chiama la «sovranità globale», la chimerica predestinazione americana al bene (Destino manifesto, Feltrinelli 2004). Sino a oggi, in fondo, l’America non aveva vissuto quel che l'Europa ha sperimentato nel ’45: la scoperta inorridita di sé, della propria insolenza nazionalista, e la svolta che rappresentò l'abbandono - tramite l’Europa unita - della sovranità assoluta degli Stati. Anche se non ha davanti a sé città annientate, l'America conosce un tracollo mentale non diverso.

Ma è un bivio difficile, perché antichi sono i mali, e lenta la cura. La coalizione di interessi che blocca il cambiamento è portentosa. Perché non continuare a spendere e arricchirsi come in passato, lasciando i deboli a terra, visto che comunque resteremo i primi nel mondo e che non si vedono in giro città rase al suolo? Questa la doppia presunzione, interna e mondiale, che ha visto nascere una superpotenza solitaria con i piedi d'argilla, perché dotata di un modello sociale che lascia più di 30 milioni di americani senza protezione sanitaria. Resistono le lobby, le assicurazioni private, e quello che Eisenhower chiamava il complesso militare-industriale. Per questo è già un progresso grande: la riforma sanitaria è difficile, per quarant’anni è stata impossibile, e tuttavia Obama la farà. Smettere le guerre e tornare al multilateralismo è lento, eppure qualcosa già si muove.

Molto dipende da come son vissute in casa le mutazioni, e questo non vale solo per l'America. Lo vediamo anche in Italia: i cambiamenti sono visti come qualcosa che spetta ai governi, non al cittadino che dopo il voto si scopre responsabile. Le società non sono traversate da grandi movimenti civili. L'America di Johnson abolì la segregazione razziale perché spinto da una corrente vasta che mai si scoraggiò. Obama non ha alle spalle simili movimenti ma una società più inerte, atomizzata, capricciosa.

Anche l’Europa può molto. Può mostrare che il suo modello di sovranità condivisa è la via. Anche per questo è un bene che la candidatura di Blair alla presidenza stia tramontando. Non tanto perché ha partecipato alla guerra in Iraq, ma perché l’Inghilterra è l’unica nazione importante, in Europa, che non ha rinunciato al mito, menzognero ormai anche per gli Stati Uniti, della sovranità assoluta. È un bene che Helmut Schmidt, il grande vecchio, abbia detto il vero: sarebbe pericoloso se un antieuropeo, per di più carismatico, diventasse il nostro portavoce in un’America che sta cambiando.

da lastampa.it
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« Risposta #77 inserito:: Novembre 08, 2009, 10:21:51 am »

8/11/2009

Quel muro che cadde sulla sinistra
   
BARBARA SPINELLI

Il muro di Berlino cadde sulla testa della sinistra italiana come il giorno del Signore nella prima lettera di Paolo ai Tessalonicesi: «Voi sapete bene che il giorno del Signore arriverà come un ladro, di notte. Proprio quando la gente dirà “Pace e sicurezza”, improvvisa piomberà su di essi la rovina, allo stesso modo che arrivano alla donna incinta i dolori del parto. E non scamperanno». Per alcuni nel partito comunista italiano fu proprio così: Alessandro Natta, che fino all’88 aveva guidato il Pci, confidò a Claudio Petruccioli (era il 10 novembre, poche ore dopo la notte fatale) che «Hitler aveva vinto».

Fu in quei giorni che il suo successore, Achille Occhetto, cominciò a parlare, alla Bolognina, della Cosa: non riuscì ancora a darle un nome, ma sentì che per scampare bisognava subito inventarsi un partito nuovo e soprattutto un nome che facesse dimenticare il passato con i suoi tanti pensieri falsi, le sue doppie verità, le sue volontarie impotenze. Per molti militanti fu una scossa, perché il passato non lo dismetti in una notte alla maniera in cui Stalin dismetteva storie e compagni, cancellandone le tracce.

Perché il nuovo non puoi definirlo una Cosa, solo perché hai paura di usare parole tragicamente disonorate come progetto, ideologia, meta. Non solo: se i vertici cambiarono così prontamente strada, vuol dire che per decenni avevano nascosto alla base il vero: se avessero parlato prima, non avrebbero permesso che l’Italia restasse senza alternanza per quasi mezzo secolo.

Da allora sono passati vent’anni, e gli eredi del Pci ancora soffrono quel congedo precipitoso, quel vocabolario che d’un colpo si svuota. Ci sono parole che lasciano l’impronta anche se son nebbia, e un destino simile toccò alla Cosa. Al posto dell’idea del mondo, comparve questo sostantivo che è un annuncio, un guscio che si promette di riempire: «un nome generico - scrive il Devoto - che riceve determinazione solo dal contesto del discorso». Tutto da allora è stato futuro appeso a un contesto indeterminato: anche le primarie, cui si era chiamati a aderire senza saper bene a cosa si aderisse. Anche la speranza di coniugare le due forze fondatrici della repubblica: il socialismo e il cattolicesimo, dimenticando (lo storico Giuseppe Galasso l’ha ricordato il 30 agosto sul Corriere della Sera) il terzo incomodo che è la tradizione laica, liberale, radicale. Riesaminando l’ultimo ventennio, Arturo Parisi parla del controllo che le nomenclature dell’ex Pci hanno finito con l’acquisire sull’Ulivo, e del patto stretto da esse con i falsi innovatori dello stesso partito. I candidati segretari regionali provenienti dai Ds erano nelle ultime primarie il 75 per cento del totale, facendo «coincidere la geografia elettorale del Pd con i confini del voto comunista» e sconfiggendo l’Ulivo (intervista a Gianfranco Brunelli, Il Regno 16/2009).

Forza indispensabile della sinistra ma non bene identificata, l’ex Pci l’ingombra con il peso, non leggero, di una storia ripudiata. Sono anni che espia, fino all’eccesso, un passato di cui tuttavia non vuol parlare. Il centrismo, i toni bassi, la tregua fra i poli, la politica senza contrapposizioni: siamo in un paese dove il principale partito di sinistra, vergognandosi del passato, non fa vera opposizione per tema di somigliare a quel che era. Dallo spirito dell’89 ha appreso poco. Lo stato di diritto, l’onestà delle élite, la scoperta del conflitto sale della democrazia: la liberazione dell’89 ha preso da noi la forma di Mani Pulite, senza lambire la politica. Inutile prendersela con i magistrati, se l’ansia di rigenerazione hanno finito con l’esprimerla solo loro. Bersani ha preso atto, ieri, che dialogo è ormai una «parola malata e ambigua».

L’espugnazione dell’Ulivo e del Pd non crea identità. Anche il socialismo italiano fu espugnato così: usurpandolo, non integrandolo e cercando di capire l’altrui tracollo oltre che il proprio. Anche per il socialismo italiano la caduta del Muro spuntò infatti come un ladro notturno. Le metamorfosi del Pci sono una storia di crudele appropriazione, ma il socialismo è non meno colpevole di questo furto di vocaboli e identità. Non è mai riuscito a divenire dominante, come nel resto d’Europa. E quando con Craxi volle disputare la rappresentanza della sinistra al Pci non seppe trarne le conseguenze: continuò nei suoi doppi giochi, prospettò l’unità delle sinistre senza rinunciare a spartire potere, non si rinnovò moralmente ma degradò sino a divenire il simbolo della corruttela italiana.

In un lucido saggio sull’Italia, lo storico Perry Anderson descrive un partito socialista che ingenera il berlusconismo, spiegando come questi sia erede dell’ultimo Psi più che della Dc (London Review of Books, 21-3-02). La spregiudicatezza di Craxi è un tratto speciale e irripetibile della nostra cultura. Altrove lo spregiudicato è figura settecentesca che combatte pregiudizi, dogmi: non coincide con l’uomo senza scrupoli. Da noi i due tratti si confondono, e spregiudicatezza è encomiabile virtù di chi sprezza le regole, la legge, l’etica, nella certezza che il potere renda tutto lecito se non legale. L’intera classe dirigente ne è responsabile, e non stupisce che da decenni l’agenda della politica sia dettata da Berlusconi.

Occhetto sperava forse in una svolta autentica. Sperava in una carovana che viaggiando associasse forze diverse, e temeva la caserma anelata da Massimo D’Alema. Un timore che si rivelò giustificato, ma che non vede il solo D’Alema sul banco degli imputati. Questi fu almeno chiaro: l’Ulivo non gli piacque mai. Più colpevoli furono i falsi innovatori, che promettevano senza mantenere: che non hanno esitato, come Veltroni, a distruggere l’ultimo governo Prodi. Ciononostante è D’Alema la persona chiave del ventennio. In qualche modo è restato quel che era, senza più dogmi ma con inalterata volontà di potenza. Dei comunisti ha la stessa insofferenza verso il dissenso, lo stesso fastidio freddo verso la stampa indipendente. Sono sue e non di Berlusconi frasi come: «I giornali? È un segno di civiltà non leggerli. Bisogna lasciarli in edicola». La morte temporanea dell’Unità, nel 2000, lo testimonia. Michele Serra parlò di delitto perfetto su la Repubblica: «La fine dell’Unità, forse più ancora della Bolognina, illumina lo sconquasso identitario della sinistra italiana. Ne racconta le insicurezze, i complessi di inferiorità, l’incerto e poco lineare incedere verso una modernità spesso vissuta da praticoni».

Vivere la modernità da praticoni è l’abbandono dell’ideologia, in nome dell’antidogmatismo. Il fatto che le ideologie totalitarie siano perite, non significa che un partito possa solo vivere di volontà di potenza, e su essa fabbricare inciuci. Che possa continuare a ricevere il colore da discorsi effimeri. Dotarsi di un’ideologia vuol dire avere un sistema coerente di immagini, metafore, princìpi etici. Vuol dire pensare un diverso rapporto con gli stranieri, la natura, il lavoro che muta, l’immaginario. A differenza della politica quotidiana, l’ideologia ha una durata non breve ma media, e la durata non è imperfezione. È perché non aveva idee sull’informazione di massa e sulla società di immigrazione che la sinistra fu travolta da Berlusconi. Che non seppe adottare, subito, una legge sul conflitto d’interesse. Che giunse sino a chiamare la Lega una propria costola.

Perry Anderson ritiene che la nostra sinistra sia invertebrata. Una Cosa appunto, senza scheletro: un metamorfo, come nel film di Carpenter. Il suo sogno ricorrente è quello d’un paese normale: un’altra Cosa - imprecisa, mimetica - che dall’89 cattura gli spiriti. La sinistra invertebrata ha corteggiato Clinton, Blair, Schröder, tessendo elogi del moderatismo, del centrismo. Vita normale, per la sinistra, ha significato sin qui smobilitazione ideologica, conformismo: il nuovo ancora lo si aspetta.

da lastampa.it
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« Risposta #78 inserito:: Novembre 15, 2009, 10:30:18 am »

15/11/2009

Fini e il male minore
   
BARBARA SPINELLI


Da quando ricopre la terza carica dello Stato, Gianfranco Fini ha un’aspirazione che lo domina, costante: quella a esser statista oltre che uomo politico, e a scorgere nelle trasgressioni istituzionali di Berlusconi pericoli che lui, anche se solitario, vuol diminuire o combattere. Il suo magistero, come quello di Napolitano, è delicato: egli rappresenta la nazione, non può esser presidente di parte. Ma Fini ha osato molto, ultimamente, fino a praticare quella che Albert Hirschman chiama l’autosovversione: esprimendosi su temi essenziali come l’immigrazione, i diritti civili, il testamento biologico, la laicità.

Il libro che ha appena pubblicato (Il futuro della libertà. Consigli non richiesti ai nati nel 1989, Rizzoli) conferma una volontà precisa, e il desiderio di pensare la democrazia italiana nel tempo lungo, prendendo congedo dai dizionari delle «parole neoideologiche» e dei luoghi comuni («Il caso di Eluana Englaro ci ha dimostrato in modo eclatante che la politica italiana tende ancora a presentarsi, nei momenti di più aspro confronto, non secondo le linee contemporanee del “fare”, ma secondo le linee novecentesche dell’ “essere”, vale a dire le linee in definitiva rassicuranti, ma immobili, dell’ “identità”»).

Proprio perché ha deciso di scandagliare nuovi mari, vorrei porre al presidente una domanda di fondo, attorno a un assioma apparentemente importante che lo guida: se sia giusto, nonché utile, perseguire sistematicamente il Male Minore, nella resistenza al degrado delle istituzioni democratiche. Se davvero la situazione sia così degradata e povera di alternative, da imporre questa classifica dei mali, basata sulle categorie economiche del più e del meno.
 
Nelle dittature la ricerca del male minore è spesso la sola via, anche se non necessariamente la più feconda.

Spesso è un camuffamento per iniziare i recalcitranti; solo di rado ingenera i casi Schindler, che accettò il nazismo salvando 1100 ebrei. Ma nella democrazia? L’economia dei mali è usanza antica, ma ha senso farne un assioma?

L’interrogativo si pone perché tutta la politica italiana, da anni, ruota attorno a questo concetto. L’hanno interiorizzato le opposizioni, svariati giornali, anche la Chiesa. Lo difendono i centristi (nuovi o vecchi): spesso moderati per non-scelta, per calcolo breve, per conformistica aderenza all’opinione dominante. L’ultimo esempio di politica del male minore è quello di Fini nell’incontro col presidente del Consiglio del 10 novembre: per evitare il peggio ­ la prescrizione rapida, cui Berlusconi assillato dai processi Mills e Mediaset teneva molto ­ il presidente della Camera gli ha concesso il processo breve, che è una prescrizione camuffata e accorcia i procedimenti con l’eccezione di alcuni reati (non i più gravi d’altronde, essendo escluso anche il reato di clandestinità: «una semplice contravvenzione punibile con banale ammenda», commenta Giulia Bongiorno, deputato, vicina a Fini).

La giustizia lenta affligge gli italiani, ma il rimedio non consiste nel dichiarare che il processo si estingue automaticamente dopo tre gradi di giudizio per la durata complessiva di 6 anni, bensì nell’introdurre preliminarmente le riforme che consentono di abbattere i tempi. Riforme da applicare a monte, senza toccare i processi pendenti. Non si tratta di troncare i processi, ma di accelerarne il corso. Dichiarare estinto un processo perché dopo due anni non c’è sentenza di primo grado è di una gravità estrema. In certi casi, soprattutto per reati delicati con rogatorie internazionali, due anni davvero non bastano. Scansare il male maggiore è buona cosa, ma quello minore ­ ambiguo, sdrucciolevole ­ non è detto dia frutti.

Classificare i mali e le colpe è attività millenaria, in teologia e filosofia. Cominciò il cristianesimo nel IV secolo a graduarli, con Agostino, introducendo nella valutazione il calcolo economico (il filosofo Foucault parla di teologia economica). C’erano colpe più o meno nefaste, e alcune erano talmente nefaste che in assenza di alternative la Chiesa tollerava mali minori. Nell’«economia del male», sosteneva Agostino, meglio le prostitute che l’adulterio; meglio uccidere l’aggressore prima che egli uccida l’innocente. La guerra, se proporzionata e volta al bene, divenne giusta. Il fine comunque rimaneva determinante, e il fine era il perfezionamento e l’imprescindibile trasformazione dell’uomo cui esso conduce.

Secolarizzandosi, tuttavia il male minore non punta più alla perfezione-trasformazione, ma all’ottimizzazione dell’esistente e del male.

Cessa d’essere tappa d’un cammino accorto, si fa consustanziale alla democrazia, addirittura suo sinonimo. Lo descrive con maestria Hannah Arendt, negli Anni 50 e 60, con ragionamenti che sono ripresi oggi da Eyal Weizman, l’architetto israeliano direttore del Centre for Research Architecture a Londra, in un eccellente libricino intitolato Male Minore (Nottetempo 09). Marco Belpoliti l’ha recensito su La Stampa il 28-8-09.

Accade a ciascuno di cercare il male minore, nella vita individuale e pubblica. È il momento in cui urge, tatticamente, scongiurare il precipizio nel peggio. In politica spingono in questo senso la prudenza, l’astuzia.
Ma il male minore rischia di installarsi, di divenire concetto stanziale anziché nomade: non ambivalente paradosso ma via aurea, con esiti e danni collaterali che possono esser devastanti, non subito ma nel lungo periodo. A forza di mitigare l’iniquità agendo dal suo interno, in effetti, sorgono insidie che la Arendt spiega bene: «Lungi dal proteggerci dai mali maggiori, i mali minori in politica ci hanno invariabilmente condotti ai primi».

«Ossessionati dai mali assoluti» (Shoah, Gulag) ci abituiamo a non vedere il nesso, stretto, tra male maggiore e minore.

La mente stessa muta, quando il male minore si cristallizza in norma.

Chi l’adotta tende a scordarsi, dopo, che in fin dei conti ha optato per un male. Nella memoria, l’opzione si trasfigura e si naturalizza, in politica, trasformando l’eccezione in regola: «Una misura meno brutale ­ scrive Weizman ­ è anche una misura facilmente naturalizzabile, accettabile, tollerabile. Quando misure eccezionali vengono normalizzate, possono venire applicate più frequentemente». E applicandole con crescente frequenza, «qualsiasi senso dell’orrore verso il male si perde», non solo nei politici ma nell’insieme della nazione.

Quando Fini sceglie un piccolo male per evitare al peggio, è pur sempre nel male che resta, anche se forse a disagio: con effetti infausti sul futuro cui tiene tanto. Una successione di piccoli mali finisce infatti col produrre un male grande raggiunto cumulativamente, non fosse altro perché è impossibile calcolare l’estensione dei loro guasti.

Fini e Napolitano vengono da esperienze non dissimili. Ambedue hanno accostato i mali assoluti, avendone condivise le ideologie, e con coraggio ne sono usciti. Ambedue hanno scoperto le virtù del moderatismo pragmatico, del male minore.

Ma il male minore è una trappola, se il suo essere anfibio e la miopia del pragmatismo son taciuti. Il male assoluto, paradossalmente, attenua la vigilanza: «Chi sceglie il male minore dimentica rapidamente d’aver scelto a favore del male», dice la Arendt. Dimentica che l’eroe delle tragedie greche è sempre alle prese con un dilemma: con due mali più o meno terribili, con le due corna del toro infuriato. La via di Robert Pirsig, evocata da Weizman, è non privilegiare un corno piuttosto che l’altro, ma prendere il toro per le corna (Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, Adelphi 1981). Il che significa: disobbedire, rifiutare il miserando gioco della torre.

Oppure: «Si può gettar sabbia negli occhi del toro; si può tentare di addormentare il toro con una ninna nanna; e infine ci si può rifiutare di scendere nell’arena».

da lastampa.it
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« Risposta #79 inserito:: Novembre 22, 2009, 10:36:24 am »

22/11/2009

Chi vogliamo essere
   
BARBARA SPINELLI


Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? La domanda, antica, può produrre pensiero profondo oppure ottusità, veggenza oppure cieco affanno.

Ci sono momenti della storia in cui la domanda secerne veleni, chiusura all’altro. Uno di questi momenti fu la vigilia delle prima guerra mondiale: nella Montagna incantata, Thomas Mann parla di Tempi nervosi. Anche oggi è uno di questi momenti. La fabbricazione di un’identità con ferree e univoche radici è piena di zelo in Francia, Inghilterra, e nervosamente, astiosamente, in Italia. In Italia un partito xenofobo è al governo e addirittura promette «Natali bianchi», liberati dagli immigrati che saranno scacciati ­ parola del sindaco di Coccaglio, presso Brescia ­ profittando dei permessi di soggiorno in scadenza. Come in certi film tedeschi (Heimat, Il Nastro bianco) è un villaggio-microcosmo che genera mostri. Genera anche irrazionalità, come ha spiegato un medico del lavoro di Bologna, Vito Totire, in una bellissima lettera inviata il 19 novembre al direttore della Stampa: non sono gli italiani a compiere oggi le bonifiche dell’amianto, «ma gli immigrati, per pochi euro, in condizioni di sicurezza incomparabilmente migliori di quelle di anni fa ma non del tutto immuni da rischi».

In Francia un collettivo sta preparando un giorno di sciopero, intitolato «24 ore senza di noi»: quel giorno gli immigrati resteranno a casa, per mostrare cosa accadrebbe se smettessero di lavorare e consumare.

Ma non sono solo economiche, le ragioni per cui l’immigrato è prezioso, indispensabile. Specialmente in Italia ha una funzione più segreta, più vera. Gli immigrati anticipano la risposta alle tre antiche domande, prefigurando quel che saranno in avvenire i cittadini italiani. Sono un po’ i nostri posteri, che contribuiranno a forgiare la futura identità dell’Europa e delle sue nazioni. Saremo quel che diverremo con loro, mescolando la nostra cultura alla loro. D’altronde le radici d’Europa son fatte da Atene, Gerusalemme, Roma, Bisanzio-Costantinopoli. Il culmine della civiltà fu raggiunto dalla res publica romana: un impasto meticcio di molte lealtà.

Gli immigrati, nostri posteri, sono proprio per questo scomodi. Perché entrando nelle nostre case ci porgono uno specchio in cui scorgiamo quel che siamo, il senso del diritto e della giustizia che stiamo perdendo. Esistono comportamenti civici che l’immigrato, accostandosi all’Europa con meno stanchezza storica, fa propri con una naturalezza ignota a tanti italiani.

Gli esempi si moltiplicano, e quasi non ci accorgiamo che la nostra stanchezza è rifiuto di preparare il futuro, e generalmente conduce al collasso delle civiltà. Il regista Francis Ford Coppola, intervistato per La Stampa da Raffaella Silipo e Bruno Ventavoli (19-11) descrive il possibile collasso: «Amo l’Italia ma mi rende triste. Perché è un paese in cui i padri divorano i figli, si prendono tutto senza lasciar nulla e i giovani devono andarsene per avere un’opportunità».

È significativo che lo dica un italo-americano, nipote di nostri emigranti. Che evochi, con l’immagine dello sbranamento cannibalico, una crudeltà radicale verso il prossimo: la crudeltà del padre che usurpa figli e futuro, convinto che fuori dal suo recinto non c’è mondo. Anche Stefano Cucchi, il ragazzo pestato a morte il 16 ottobre nei sotterranei di un tribunale a Roma, è un figlio sbranato. In alcune parti d’Italia la vita non vale nulla, uccisa dall’apatia ambientale più ancora che dalla lama. Anche qui, come nei lavori pericolosi, l’immigrato agisce spesso al nostro posto, con funzione vicaria. Nel caso di Cucchi c’è un unico testimone, anche se parla confuso: un immigrato detenuto del Ghana, addirittura clandestino, che rischia tutto rivelando la verità.

Allo stesso modo sono immigrati africani a insorgere contro camorra e ’ndrangheta. Prima a Castel Volturno, il 19 settembre 2008, dopo una carneficina che uccise sei cittadini del Togo, Liberia, Ghana. Poi il 12 dicembre 2008 a Rosarno, presso Reggio Calabria, dopo il ferimento di due ivoriani. Regolari o clandestini, gli immigrati hanno una fede nello Stato di diritto che gli italiani, per paura, rassegnazione, sembrano aver smarrito. Roberto Saviano rese loro omaggio: «Le due più importanti rivolte spontanee contro le mafie, in Italia, non sono partite da italiani ma da africani. In dieci anni è successo soltanto due volte che vi fossero, sull’onda dello sdegno e della fine della sopportazione, manifestazioni di piazza non organizzate da associazioni, sindacati, senza pullman e partiti. (...) Nessun italiano scende in strada». (Repubblica, 13-5-2009).

Ci sono video che dicono queste cose inconfutabilmente. Il video che ritrae l’indifferenza di decine di passanti quando venne ucciso, il 26 maggio, il musicista rumeno Petru Birlandeanu, nella stazione cumana di Montesanto. Il video che mostra l’assassinio di Mariano Bacioterracino, lo svaligiatore di banche ucciso l’11 maggio da un camorrista a Napoli. Anche qui i passanti son lì e fanno finta di niente. Difficile non esser d’accordo con Coppola: l’Italia mette tristezza, e a volte in tanto buio non ci sono che gli immigrati a emanare un po’ di luce.

Ai potenti non piacciono i film noir sull’Italia. Roberto Maroni, ad esempio, ha criticato la diffusione del video su Bacioterracino, predisposta dal procuratore di Napoli Lepore con l’intento di «scuotere la popolazione che per sei mesi non si era mossa». Insensibile alla pedagogia civica del video, il ministro s’indigna: «Hanno dato l’idea di una città, Napoli, ben diversa dalla realtà». D’altronde fu sempre così, nella storia della mafia.

Nel 1893, quando in un treno che lo portava a Palermo fu ucciso Emanuele Notarbartolo, un uomo onesto che combatteva la mafia nel Banco di Sicilia, il senatore mandante fu infine assolto perché non si voleva trasmettere un’immagine ignobile della Sicilia e dell’Italia. Durante il fascismo, il prefetto Mori combatté una battaglia che molti ­ nel regime, nei giornali ­ interpretarono come denigrazione della patria. Cesare Mori fu allontanato perché non imbelliva la nostra identità ma l’anneriva per risanarla.

Dice ancora Coppola che un film come Gomorra l’infastidisce. Non racconta una storia, tutto è freddo, terribile: «E’ spaventoso vedere Napoli rappresentata con tanto realismo. Quei delinquenti non sono più esseri umani». È vero, il film non è fascinoso e chiaro come il Padrino. È inferno, caos. Ma è tanto più reale. Viene in mente Salamov, il detenuto dei Gulag, quando critica il crimine troppo imbellito da Dostoevskij, «falsificato dietro una maschera romantica» (Salamov, Nel Lager non ci sono colpevoli, Theoria 1992).

Tra Dostoevskij e Salamov c’è stato il Gulag, che solo una «scrittura simile allo schiaffo» può narrare. Tra Coppola e Gomorra c’è il filmato che ritrae Bacioterracino atterrato senza schianto. È ancora Saviano a scrivere: «Il video decostruisce l’immaginario cinematografico dell’agguato. Non ci sono braccia tese a impugnare armi, non ci sono urla di minaccia, non c’è nessuno che sbraita e si dispera mentre all’impazzata interi caricatori vengono riversati sulla vittima inerme. Niente di tutto questo. La morte è fin troppo banale per essere credibile. L’esecuzione è un gesto immediato, semplice, poco interessante, persino stupido. Ma è la banalità della scena, quella assurda serenità che la circonda e che sembra ovattarla e relegarla al piano dell’irrealtà, che mette in dubbio l’umanità dei presenti. Dopo aver visto queste immagini è difficile trovare giustificazioni per chi ritiene certi argomenti diffamatori per Napoli e per il Sud».

Le tre domande dell’inizio restano. Impossibile rispondere, se la realtà del nostro divenire non la guardiamo assieme agli immigrati. Se non vediamo che non solo per loro, anche per noi e forse specialmente per noi valgono i versi di Rilke: «Ogni cupa svolta del mondo ha tali diseredati, cui non appartiene il passato né ancora il futuro più prossimo. Poiché anche il più prossimo è lontano per l’uomo».

da lastampa.it
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« Risposta #80 inserito:: Novembre 29, 2009, 02:48:55 pm »

29/11/2009

L'ipocrisia infinita
   
BARBARA SPINELLI


Da qualche tempo son molti i politici italiani che pretendono d’aver abbandonato ogni falsità, d’aver infine compiuto l’intrepido gesto che sfata le ipocrisie, d’aver imboccato la via stretta della verità. Dopo parecchio vagare ammettono che in questione non è più l’agire del governo ma il privato destino d’un presidente del Consiglio che non è protetto da processi pendenti, e che potrebbe essere indagato per concorso in stragi mafiose.

Sentono che la terra trema sotto Palazzo Chigi e dicono, come Casini, che è inane sfasciare la giustizia pur di sbrigare un caso singolo: meglio «eliminare le ipocrisie» e riconoscere che serve una legge, la decisiva, per «salvaguardare Berlusconi». La Corte Costituzionale gli ha negato l’immunità, ma egli ha pur sempre vinto le elezioni e deve poter governare: diamogli dunque lo scudo che cerca, visto che alternative non ci sono.

Nella sostanza è il discorso di Berlusconi che vince: la magistratura impedisce alla democrazia di funzionare, quindi è eversiva. È in atto una guerra civile, insinua: uno spettro che in Italia tacita in special modo gli ex comunisti.

Le cose potrebbero tuttavia non stare così, e ci si può chiedere se uscendo da un’ipocrisia non si entri in un nuovo gioco mascherato, che vela anziché svelare. Chi ha detto che l’unica via sia lo scudo immunitario?

L’altra via stretta è la possibilità che Berlusconi si difenda non dai processi ma nei processi, come Andreotti. O la possibilità che il ceto politico tragga le conseguenze, allontanando un leader non condannato ma debilitato da troppi processi e congetture. È accaduto per molti dirigenti in molte democrazie occidentali. Quel che sorprende in Italia è che quest’alternativa, se si esclude Di Pietro, nessuno la propone: subito è detta sovversiva. Essa non presuppone il governo dei giudici, o addirittura dei pentiti. La decisione spetta alla politica, e se questa tace o s’accuccia, c’è solo la voce dei magistrati, per quanto sommessa, a esser udita. L’altra cosa sorprendente è che la tesi sul contrasto tra voto popolare e legalità intimidisca più l’opposizione che la destra.

Su questo giornale, il 23 novembre, c’è stata una presa di posizione forte, di Fabio Granata che è vicepresidente della Commissione antimafia e fedele di Fini, contro chi scredita i processi di mafia. Intervistato da Guido Ruotolo, Granata denuncia il «berlusconismo che rischia di cancellare la nostra identità: quella di chi crede nei valori della legalità, dell’antimafia, della giustizia, del senso dello Stato». Nel Pdl, egli è «guardato come un appestato», «accusato di essere giustizialista».

Ciononostante resiste: «Ho visto la gente impazzita di rabbia e dolore ai funerali di Paolo Borsellino, che (...) faceva parte della famiglia missina. Quella enorme e disperata domanda di giustizia l’ho tenuta nel cuore e per questo non potrei non sostenere chi dal ’92 cerca irriducibilmente di affermarla. Meglio un giorno da Borsellino che cento anni da Vito Ciancimino. Liberare l’Italia dalle mafie dovrebbe rappresentare il primo punto all’ordine del giorno dell’azione di qualsiasi governo». Granata non ritiene colpevoli Berlusconi e Dell’Utri ma approva le inchieste di Palermo, Caltanissetta, Firenze (le procure che investigano sulle stragi del ’92-’93). Loda il «lavoro tenace» del giudice Antonio Ingroia (il procuratore aggiunto di Palermo che indaga sul patto Stato-mafia): «Lo ricordo perfettamente accanto a Paolo Borsellino, quel giorno alla sala mortuaria per riconoscere il corpo maciullato di Falcone».

La cosa strana non è che queste parole vengano da destra. Borsellino era vicino alla destra, e quest’ultima ha una lunga tradizione di lotta alla mafia, a causa del senso dello Stato acuto (a volte sfrenato) che la anima.

Ci fu l’attività di Cesare Mori in Sicilia, fra il 1924 e il ’29: attività peraltro ostacolata da dignitari fascisti che temettero il suo assedio.

Apparteneva alla destra storica il senatore Leopoldo Franchetti, il primo che perlustrò il fenomeno mafioso, scrivendo nel 1876 un rapporto sulle Condizioni politiche e amministrative della Sicilia: un classico sulla malavita. Apparteneva alla destra storica Emanuele Notarbartolo, il direttore del Banco di Sicilia che volle far pulizia e fu ucciso dalla mafia il 1° febbraio 1893. Il mandante era un senatore mafioso, processato e poi assolto.

Strano è il cedimento-fatalismo dell’opposizione, al centro e nel Pd.

Ambedue vedono la legislatura divorata dai guai giudiziari d’un singolo, ma nell’essenza si dichiarano imbelli. È come se ritenessero del tutto impensabile una contromossa della politica che non sia l’accomodamento, o come diceva Gaetano Mosca nel 1900: il «lasciar andare, la fiaccona». Come se dicessero: il leader non può governare e il dilemma si risolve non ricongiungendo democrazia e legalità, ma disgiungendole. Fondando il primato della politica non su atti trasformativi, ma tutelativi.

Forse senza rendersene conto, il Pd interiorizza l’alternativa democrazia-legalità. Martedì a Ballarò Luciano Violante ne è parso prigioniero: da una parte la democrazia, dall’altra la legalità. Ha mancato di ricordare che le due cose o sono sinonimi, oppure non si ha né democrazia né legalità. Voleva probabilmente dire che non sono i giudici a far cadere un governo, tanto meno i pentiti. Ha finito col dire che non è neppure la politica (partiti, parlamento) a poterlo fare. Torna a galla l’idea leninista secondo cui la democrazia sostanziale può confliggere con quella legale. È una fortuna che Napolitano abbia detto in modo chiaro, venerdì, che spetta invece a politica e parlamento sanare i presenti squilibri.

Tutto questo avviene forse perché le indagini su politica-mafia sono a una svolta. Si accumulano verbali sempre più sinistri, che legano Berlusconi e Dell’Utri alle stragi. Ce n’è uno in particolare, quello del pentito Romeo, secondo cui nei primi ’90 «c’era un politico di Milano (il nome fattogli dal pentito Spatuzza è Berlusconi) che aveva detto a Giuseppe Graviano (un capomafia) di continuare a mettere le bombe», indicando perfino «i siti artistici dove metterle». I verbali non inducono ancora la magistratura a aprire un’indagine, ma la loro portata è oltremodo conturbante. Un sospetto malefico pesa sul presidente del Consiglio: che oltre al conflitto di interessi economici, ne esista un altro che lo espone a minacce di pentiti e carcerati mafiosi.

Il governo in realtà sostiene ben altro: la sua lotta alla mafia sarebbe dura; secondo alcuni, è sotto pressione proprio per questo. Nell’agosto scorso Berlusconi ha affermato di voler «passare alla storia come il presidente del Consiglio che ha sconfitto la mafia». Né mancano dati promettenti: la legge del carcere duro inasprita (legge 41 bis), i beni mafiosi sequestrati, un gran numero di capi malavitosi arrestati.

Al contempo tuttavia son favoriti i colletti bianchi che fanno affari con la mafia. C’è lo scudo fiscale, che chiede all’evasore una restituzione minima di quel che dovrebbe (il 5 per cento), e in cambio gli consente, restando anonimo, di cancellare reati come il riciclaggio di denaro sporco (lo spiega il giudice Scarpinato sul Fatto del 15-11-09). C’è la legge sulle intercettazioni, che ostacola le inchieste sulla mafia. C’è il Comune di Fondi, in mano alle destre: tuttora non sciolto, malgrado la collusione con la mafia sia certificata da oltre un anno. Contestata da don Ciotti, c’è una legge che mette in vendita parte dei beni confiscati alla mafia, col pericolo che prestanome incensurati li riacquistino. C’è infine il processo breve: un processo morto, per i colletti bianchi collusi.

La svolta secerne sospetti a raggiera. Quelli che Franchetti chiamava i facinorosi della classe media (amministratori, politici) potrebbero aver l’impressione che il cuore dello Stato sia nelle loro mani. È sospettato il presidente del Senato Schifani, per rapporti con i fratelli Graviano e assistenza giuridica al costruttore Lo Sicco, oggi in galera per mafia. È indagato Nicola Cosentino, sottosegretario al Tesoro, per concorso esterno in associazione camorristica. Ambedue restano al loro posto, sotto gli occhi non tanto dei magistrati quanto della mafia, esperta in ricatti. Che sia l’ora della politica è evidente. Le democrazie vivono e muoiono nel funzionare o non funzionare del comportamento politico, non di quello giudiziario.

da lastampa.it
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« Risposta #81 inserito:: Dicembre 06, 2009, 11:22:04 am »

6/12/2009

La nuova guerra mondiale
   
BARBARA SPINELLI


Gli scienziati più preveggenti, quando descrivono l’evoluzione possibile dello sconquasso climatico, parlano di guerra. Guerre tra Stati, per metter le mani su acqua, combustibili, metalli scarseggianti. E poi una guerra più enorme, mai vista, nella quale siamo già immersi come responsabili e vittime. Una guerra che impone revisioni radicali: nel modo in cui viviamo, pensiamo, diciamo; nell’idea che ci facciamo della democrazia, dell’economia. Michel Serres, il filosofo francese che insegna a Stanford, parla di guerra mondiale, un termine apparentemente noto ma che per lui significa tutt’altro: questa volta il conflitto è mondiale perché ha per protagonisti l’umanità e il nostro pianeta, il mondo. Un conflitto anomalo, non tra Stati. L’immagine evocata da Serres è quella dei due uomini di Goya che lottano fino allo stremo.

Inutile domandarsi chi avrà la meglio, nel mortale accapigliamento. I volti striati di sangue, i duellanti hanno i piedi conficcati nelle sabbie mobili. Non ci sono vincitori, se non le sabbie mobili che inghiottiranno l’uno e l’altro indistintamente.

Il vertice sul clima che comincia domani a Copenhagen è un consiglio di guerra che ha questa pintura negra, sullo sfondo. Forse il primo consiglio, perché al vertice di Kyoto nel ’97 erano ancora molti i riluttanti, tra cui i primi avvelenatori che sono America e Cina. Quella fase è superata.

Riluttanti e negazionisti si fanno rari, e la verità del collasso nessuno la mette più in causa. Obama sarà presente al vertice. Pechino, indocile per anni, scopre di essere al tempo stesso colpevole e vittima dello sfascio annunciato.

È come se entrassimo in un altro mondo con gli strumenti mentali del vecchio, inconsapevoli per impreparazione indolente al rischio della sconfitta. Ci inoltriamo pensando che lo scontro sarà tra popoli e Stati, come in passato; che potremo barricarci in fortezze; che potremo fare il morto, come nella guerra fredda, scegliendo la non-azione. Ora invece si tratta di agire, di metterci nella pelle d’un futuro forse non scontato ma di certo plausibile, dicono gli scienziati. Nel ’36, prima dell’ultima guerra, Churchill disse che le procrastinazioni e le mezze misure erano fallite; il tempo delle conseguenze (period of consequences) era iniziato.

Anche oggi entriamo in un’epoca dove l’inazione produce conseguenze, battaglie regressive esiziali: come il divieto svizzero di costruire minareti, il muro tra Stati Uniti e Messico, la cortina che i soldati indiani presidiano lungo il Bangladesh, per evitare che popolazioni minacciate dal clima riparino negli slum di Calcutta, Delhi, Mumbai.

Ripensare la democrazia e perfino i tempi moderni, con i loro dosaggi di necessità e libertà, è ineluttabile. Perché grande è la tentazione di dire: nell’emergenza ricorreremo all’autoritarismo. Perché una parte della popolazione mondiale patisce l’inquinamento dei ricchi, e si sentirà legittimata a esigere non solo aiuto ma accoglienza. Già ora, ci sono terre che cominciano a sprofondare nei mari: il Bangladesh, le Maldive. Nel Pacifico, le isole di Tuvalu scompariranno entro il 2040. Nel 2002, il premier Talake annunciò che avrebbe portato gli Usa davanti alla Corte internazionale di giustizia, per emissione spropositata di gas serra.

Tra le cose da ripensare c’è la paura. Siamo stati educati da Roosevelt a diffidarne: «L’unica cosa da temere è la paura stessa». Ma in fondo la paura è salvezza, se non è politica che paralizza spezzando le resistenze. È la convinzione del filosofo Hans Jonas: «La paura, ancorché caduta in un certo discredito morale e psicologico, fa parte della responsabilità altrettanto quanto la speranza, e noi dobbiamo perorarne la causa, poiché la paura è oggi più necessaria che in qualsiasi altra epoca in cui, animati dalla fiducia nel buon andamento delle cose umane, si poteva considerarla con sufficienza una debolezza dei pusillanimi e dei nevrotici» (Il principio responsabilità, Einaudi 2009).

Sono tante, le paure. Paura di perdere un modo di vita, e il diritto del singolo di produrre e consumare quanto desidera. Paura di rinunciare alla massima libertà moderna ­ la tutela delle condotte private dallo Stato ­ in nome di nuovi limiti e obblighi che solo l’autoritario pugno statale sembra poter inculcare. Infine: paura di immensi spaesamenti, di esser sommersi da un’umanità espiantata e dislocata dallo squasso terrestre.

Sono paure comprensibili. Tra gli effetti più funesti del dissesto climatico ci sono infatti gli esodi immani. Fin d’ora il popolo del Bangladesh (160 milioni) fugge terre inondate o non più coltivabili perché salate. Se il mare dovesse alzarsi d’un metro, perché si sciolgono i ghiacci sull’Himalaya e in Groenlandia, un terzo del Paese s’inabisserebbe e i rifugiati sarebbero 40 milioni, dice la Banca Mondiale. Già oggi migliaia di africani scappano da deserti dilatati. Gli scienziati danno cifre impressionanti. Se temperatura e mari superano certe soglie, i fuoriusciti saranno miliardi. Quel che dimentichiamo è che i più (72 per cento, secondo l’Onu) non vanno in Occidente ma in altri Paesi poveri. Gli sfollati asiatici e africani cadono poi nelle mani delle mafie, il cui potere sugli Stati e sul mondo crescerà. Ma è inane combattere solo le mafie. All’origine c’è l’esodo, e dell’esodo gli occidentali ricchi sono i primi colpevoli, con la loro lunga storia di industrializzazione.

La piaga degli esuli ambientali è scritta nel nostro futuro e non la cureremo erigendo muri e distruggendo la globalizzazione, ma approfondendola. Sono i rifugiati climatici, e non hanno lo statuto dato ai profughi politici nel ’900. Alieni, non hanno diritti e questo è imprevidenza oltre che scandalo. Sono apolidi di un nuovo tipo, inascoltabili perché non i dittatori li perseguitano ma la natura. Lo scandalo è attutito solo se lo si governa: con apposite agenzie Onu, con convenzioni sui rifugiati estese agli esuli climatici. L’alternativa è un pianeta urlante di tumulti e risentimento.

La paura secerne anche chiusura smagata, cuore indurito: la frana dell’altro non mi riguarda, separarmene mi salverà. Nessuno però scampa se si prosciuga il lago del Ciad (di cui vivono 20 milioni di persone), o se sono inondati i grandi delta del Gange, del Nilo, del Mekong. La paura di Jonas è fertile: «Bisogna appropriarsi della paura trasformandola nel dovere di agire. La responsabilità è la cura per un altro essere quando venga riconosciuta come dovere, diventando apprensione».

Al disastro non siamo preparati, e questo ci rende così ignari della democrazia: delle sue fragilità, e delle sue virtù. Solo la democrazia educa tramite l’informazione indipendente, e solo un cittadino informato è responsabile. Solo in democrazia le catastrofi non sfociano in selezioni etniche o sociali. Non è più democrazia, quando l’America trascura New Orleans colpita da Katrina perché abitata da afro-americani. Non è democratica l’Europa centrale che nelle alluvioni sacrifica impassibilmente i concittadini Rom.

Dobbiamo imparare a trattare la Terra come la casa, l’automobile. Non è sicuro ma plausibile che l’incendio le distruggerà, e la paura che ne abbiamo ci spinge a sottoscrivere una polizza d’assicurazione. Lo stesso urge fare con la terra, l’acqua, i mari, le foreste di cui è fatto il pianeta. Nell’immediato potremmo proteggerci asserragliandoci, ma alla lunga perderemo ancor più perché i sacrifici cresceranno. Alla lunga, solo le sabbie mobili della pittura nera saranno vincitrici.

È pensare il futuro, il compito. Lo dice Machiavelli nel Principe, che sopravvivono solo le civiltà che prevedono discosto, lontano, come i Romani antichi: «Li quali, non solamente hanno ad avere riguardo alli scandali presenti, ma a’ futuri, et a quelli con ogni industria ovviare; perché, prevedendosi discosto, facilmente vi si può rimediare; ma, aspettando che ti si appressino, la medicina non è a tempo, perché la malattia è diventata incurabile».

da lastampa.it
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« Risposta #82 inserito:: Dicembre 11, 2009, 04:45:17 pm »

11/12/2009

Il legno storto dell'umanità
   
BARBARA SPINELLI


Barack Obama non ha nascosto il padre spirituale di cui si sente figlio e erede, ieri a Oslo ricevendo il premio Nobel della pace: se non ci fosse stato prima di lui Martin Luther King, a battersi per i diritti dei neri e a ricevere nel 1964 lo stesso premio, lui non sarebbe alla testa degli Usa.

Se sono qui è in conseguenza diretta del lavoro che King svolse un’intera vita. Sono la viva testimonianza della forza morale della non violenza». Il Presidente ha parlato anche della purezza dell’indignazione che le guerre, sempre, suscitano nell’animo umano: «Non c’è nulla di debole, nulla di passivo, nulla d’ingenuo, nel credo e nell’esistenza di uomini come Gandhi e King».

Ma pace e guerra sono immerse nella storia, e di quest’ultima lo statista deve tener conto. Deve esser cosciente che la storia non è lineare e progressista, non conferma la perfezione umana, non produce pace universale con mezzi sempre pacifici, non è gravida di guerre che mettono fine a tutte le guerre. Non è neppure una storia di rivoluzioni che cambiano la stoffa di cui è fatto l’essere umano, rendendolo infine buono, mite, ed estromettendo con un gesto volitivo il male dalla terra. Sogni simili furono alla base delle guerre sante ­ quelle cristiane di ieri, quelle di chi pretende oggi di combattere in nome dell’Islam ­ e sempre precipitarono in disastri, tanto più devastanti quanto più predicavano l’amore: «Le crociate ci ricordano che nessuna Guerra santa può mai essere guerra giusta».

Dopo anni di visioni apocalittiche del mondo ­ l’umanità va piegata sotto il giogo di un’unica verità straboccante, va condotta anche contro voglia verso nuove rive dell’essere ­ l’America di Obama ripensa il passato, riscopre il concetto di guerra giusta che il cristianesimo teorizzò nel IV secolo, fa propria infine la visione, kantiana, di un mondo non perfetto ma fallibile e perfettibile, che ha diritto a non esser piegato ma illuminato.

È di Kant l’idea che nessuno sulla terra ha in mano la perfezione: «Da un legno storto come quello di cui è fatto l’uomo, non si può costruire niente di perfettamente dritto». Obama sembra pensare al legno storto di cui sono fatti uomini e nazioni, quando invita a non illudersi («Il male esiste nel mondo»), e giunge alla conclusione che neppure chi dirige gli uomini, quale che sia il regime in cui si trova, possiede le chiavi appropriate del presente e futuro. Perché il perfezionamento funzioni occorre che le istituzioni prendano il posto degli uomini e dei politici, perché solo le istituzioni hanno continuità nel tempo, edificano nel lungo periodo, non dipendono né dai sondaggi né dal voto. Creare istituzioni internazionali che tengano a freno le guerre, che le prevengano, che ne disciplinino le regole evitando straripamenti destinati a mietere più vittime tra i civili che tra i guerrieri, fu la grande lezione appresa nelle due ultime guerre mondiali.

Anche le guerre giuste infatti degenerano, non rappresentano la soluzione del dramma. La guerra fra nazioni, condotta nella persuasione che la forza fondi il diritto, fu teorizzata da Thomas Hobbes nel XVII secolo ma era già invisa a Tucidide nella Guerra del Peloponneso. Anche qui è Kant che prende il sopravvento, con la sua Repubblica cosmopolita resa forte dal diritto, contro la seduzione che Hobbes ha esercitato sulle menti americane per decenni.

Obama è immerso ancor oggi in due guerre ­ una che ha deciso di finire in Iraq, l’altra che intende inasprire in Afghanistan ma finendola nel 2011 ­ e può apparire singolare che riceva fin d’ora il premio della pace. Tuttavia i cambiamenti ci sono, visibili. La sua non sembra essere la guerra della superpotenza che non tollera concorrenti e agisce senza curarsi del parere altrui, come nelle metafore marziane dei neo-conservatori statunitensi. Non è neppure la «guerra infinita» contro il terrorismo annunciata da Bush figlio, e del tutto svanita è l’idea che solo in tal modo ­ con una sorta di palingenetica Guerra Santa ­ il male sarà estirpato (un libro pubblicato nel 2004 da Richard Perle e David Frum aveva precisamente questo titolo: La fine del male, in italiano Estirpare il male. Come vincere la guerra contro il terrore). Evocando indirettamente quel che dissero Agostino e Tommaso d’Aquino sulla guerra giusta, Obama fissa le regole: l’offensiva deve essere l’ultima risorsa, deve esser proporzionata all’aggressione, non deve far vittime civili esorbitanti. E promette fedeltà alle istituzioni, alle convenzioni internazionali, alle norme etiche che Bush jr aveva ignorato nel corso delle sue guerre.

Tuttavia Obama non si accontenta di questi limiti, che sono stati fissati alle condotte belliche. Forse è l’umiltà che lo anima, forse il cammino ancora aleatorio che sta percorrendo: fatto sta che non è una certezza univoca che lo guida, ma la consapevolezza del dilemma tra pace e guerra.

Obama non sceglie la guerra giusta contro il sogno che mette fine alle guerre e le rifiuta. Vive dentro la contraddizione, considera egualmente valide ambedue le verità, accetta l’esistenza di un conflitto fra verità che non è sanabile. È vero, le guerre a volte sono non solo necessarie ma moralmente giustificate: non si poteva abbattere Hitler o il Giappone imperiale senza le armi. Non si può abbattere Al Qaeda senza le armi, probabilmente. Ma non meno vero è quello che dicevano King e Gandhi. «La guerra in sé non è mai gloriosa ­ conclude Obama ­ e mai dobbiamo strombazzarla come tale. (...) Per quanto giustificata, la guerra è garanzia sicura di umana tragedia».

La via di uscita dal dilemma è il paradosso: bisogna sapersi riconciliare col nemico, lasciargli fino all’ultimo una porta aperta, anche se può venire il momento in cui occorre la resa dei conti militare. Non bisogna respingere guerre che si ritengono giuste, anche se esse spargono comunque sofferenza. Pensare per paradossi la guerra e la pace comporta, secondo il Presidente, una «continua espansione della nostra immaginazione morale».

Non mancano le trappole, per chi vive sì vasti dilemmi nelle vesti di Presidente e comandante in capo della potenza americana. Se si affronta l’Iran e la sua aspirazione all’atomica, non si può continuare nell’attuale finzione, e nascondere a se stessi ­ come fa Obama ­ che all’origine di tanti terremoti medio orientali c’è un non detto, che nessuno osa scoperchiare: l’esistenza in quella parte del mondo di una potenza atomica ­ lo Stato d’Israele ­ che non si dichiara tale e però incita un’intera regione al risentimento costante e al riarmo. L’altra trappola è racchiusa nella stessa umanizzazione delle guerre. La storia degli ultimi decenni ha visto molti conflitti seminare devastazioni del tutto sproporzionate fra i civili, proprio perché a puntellarli c’era una vasta rete di soccorso umanitario. Una guerra che avviene in simultanea con l’attivarsi degli organismi umanitari ­ è la tesi del filosofo Slavoj Zizek, o dell’architetto israeliano Eyal Weizman ­ rischia di separare ogni distinzione fra guerriero e soccorritore-infermiere: prolungando indefinitamente le attività belliche, rendendole più efficienti.

Sono trappole che possono divenire perverse, e rendere ingiusto quel che inizialmente era o appariva giusto. Se non sono riconosciute come insidie reali rischiano di dar ragione alle parole, citate ieri da Obama, di Luther King: «La violenza non genera una pace permanente. Non risolve nessun problema sociale: ne crea solo di nuovi e più complicati».

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« Risposta #83 inserito:: Dicembre 13, 2009, 10:07:41 am »

13/12/2009

Le istituzioni più forti degli uomini
   
BARBARA SPINELLI


Non è escluso che dal grande chiasso che regna ai vertici del governo nasca, taciturno ma testardo, un attaccamento più intenso degli italiani alle istituzioni e alla carta costituzionale su cui poggiano le istituzioni. Il politico che se ne sente ingabbiato e vuole liberarsene continuerà magari a esser applaudito, per la spavalderia che esibisce e per il ruolo di vittima che recita. Ma in parallelo con questo consenso, fatto di adorazione e indolenza, è probabile che si rafforzi proprio la pianta che il leader vorrebbe disseccare: la pianta, rara in Italia, che quando attecchisce dà come frutto il senso delle leggi e dello Stato. C’è qualcosa nel chiasso della presente legislatura che ricorda i dipinti dell’espressionismo tedesco, durante la Repubblica di Weimar: volti stravolti da eccitazioni, maschere che sogghignano, città sghembe che urlano senza più ordine. Kurt Tucholsky scrisse che il precipizio «spettrale» cominciava con l’uomo che mette l’Io in primo piano (politico o scrittore, giornalista o imprenditore).

Hitler era un uomo così, e l’Io che accampava era la sua persona e qualcosa di più nascosto, torbido: l’Io della nazione, del Popolo illimitatamente sovrano. «L’Io di per sé non esiste», scrive Tucholsky fin dal 1931: «Quest’uomo non esiste; in realtà egli è solo il chiasso, che produce». Il frastuono coesiste da tempo con il rispetto italiano delle istituzioni, a ben vedere. La seduzione e il carisma di Berlusconi hanno alcune qualità inossidabili, ma non meno incorruttibili sono stati, lungo gli anni, l’ammirativa affezione per i garanti della Costituzione e l’adesione dei cittadini all’equilibrio fra i poteri. Sono stati molto popolari Oscar Luigi Scalfaro, Carlo Azeglio Ciampi. Lo è Giorgio Napolitano. Anche l’adesione agli organismi di garanzia non scema, come dimostrano i sondaggi favorevoli al Csm e alla Consulta. La lezione sulla Costituzione che Scalfaro tenne nel 2008 all’Auditorium di Roma riscosse un successo vasto.

È una conferenza che andrebbe riascoltata: la maniera in cui l’ex Presidente racconta la scrittura intellettualmente elettrizzante della Carta, le visioni profetiche che essa contiene, fa rivivere un testo che non è affatto vecchio e che in pieno frastuono non andrebbe modificato. Ricordo in particolare il passaggio sui diritti della persona: per la prima volta in Italia, dice Scalfaro, lo Stato non li concede né si limita a garantirli, ma li riconosce. I diritti precedono i governi e le Carte, e davanti a essi gli uni e le altre «si inchinano». Ricordo anche quel che disse a proposito del referendum del 2006 sulla riforma costituzionale del governo Berlusconi. Gli italiani dissero no non solo alla devoluzione ma anche, con forte maggioranza (più del 60 per cento), a un Premier dotato di poteri esorbitanti, compreso quello che scioglie le Camere e che la Carta affida al Capo dello Stato. Istituzioni e carte costituzionali hanno questo, di specialmente prezioso: durano più degli uomini, dei governi, delle campagne elettorali, dei sondaggi.

Sono lì come una tavola fatta di pietra, conferiscono stabilità a quel che nell’alternarsi democratico delle maggioranze necessariamente è votato all’instabilità. È significativo che non solo le nazioni uscite dalla dittatura si siano messe come prima cosa a riscrivere le Carte, ma che anche l’edificio europeo abbia anteposto la permanenza delle istituzioni all’impermanenza degli uomini, dopo le guerre del ’900. Jean Monnet, che dell’Europa fu uno degli artefici, venerava in particolar modo le istituzioni. Citando il filosofo svizzero Henri Frédéric Amiel scrive nelle Memorie: «L’esperienza di ciascun uomo è qualcosa che sempre ricomincia da capo. Solo le istituzioni son capaci di divenire più sagge: esse accumulano l’esperienza collettiva e da questa esperienza, da questa saggezza, gli uomini sottomessi alle stesse regole potranno vedere non già come la propria natura cambi, ma come il proprio comportamento si trasformi gradualmente» (Cittadino d’Europa, Guida 2007, i corsivi sono miei).

Questo vuol dire che grazie alle istituzioni non cambia la natura dell’uomo (missione impossibile e, se tentata, deleteria) ma il suo comportamento: il progresso di cui è capace l’uomo vive e si trasmette solo attraverso le istituzioni che egli sa darsi. Per alcuni, le istituzioni e le costituzioni hanno una forza così potente - la forza del Decalogo - da sostituire identità controverse come la nazione o l’identità etnica. Non sono Habermas e le sinistre ad aver inventato il concetto, non a caso tedesco, di patriottismo costituzionale. Lo coniò negli Anni 70 un conservatore, Dolf Sternberger: per l’allievo di Hannah Arendt, il patriottismo costituzionale era «una sorta di amicizia per lo Stato» (Staatsfreundschaft): amicizia che Weimar non aveva posseduto a sufficienza. L’adesione italiana alle istituzioni e alla Costituzione ha radici più forti che ai tempi di Weimar. Ha una resilienza a quell’epoca sconosciuta. Uomini come Scalfaro e Ciampi, nella Germania di allora, non avrebbero avuto la popolarità che hanno oggi in Italia.

Per Sternberger, il patriottismo costituzionale era l’unica identità possibile per un paese ridotto a mezza nazione dal nazionalismo etnico, la dittatura e la guerra. Una condizione che si diffonde, con la mondializzazione: tutte le nazioni hanno, nel globo, sovranità dimezzate. L’altro concetto formulato da Sternberger è quello di democrazia agguerrita. Alle violazioni delle leggi e agli abusi d’un singolo potere, la democrazia deve rispondere anche con la forza. In guerra si difende con le armi; in pace con le istituzioni, le leggi, le corti, perché queste si decompongono meno rapidamente e facilmente di un uomo o una maggioranza. Le istituzioni nascono quando l’uomo scopre il male, fuori e dentro di sé. Quando il politico, spinto esclusivamente da volontà di potenza, mostra di non tollerare confini e non riconosce, sopra di sé o al proprio fianco, poteri che frenino i suoi abusi. Quando smette, dice Ciampi, di essere compos sui: pienamente padrone di sé (intervista al Corriere della Sera, 11-12-09).

Limiti e contrappesi sono necessari anche quando l’espansione della volontà di potenza s’incarna nel popolo e nelle sue maggioranze: il popolo non ha innocenza e anch’esso può divenire despota, insofferente ai limiti. La democrazia che gli attribuisce sovranità assoluta non è già più democrazia. Anche questa è una lezione del Novecento: comunismo, fascismo e nazismo sono state escrescenze della democrazia, e tutte son partite dall’idea che il popolo-sovrano sia compos sui per natura. L’idea che l’uomo sia naturalmente buono è di Rousseau, e tende a squalificare sia il controllo esterno delle istituzioni sia il controllo interiore della coscienza, scriveva nel 1924 un altro filosofo conservatore, Irving Babbitt: «Con la scomparsa di questo controllo, la volontà popolare diventa solo un altro nome dell’impulso popolare» (Babbitt, Democracy and Leadership, 1924). Quel che avvince gli italiani, negli ultimi capi di Stato, è l’attitudine o comunque l’aspirazione a fissare uno standard, a farsi custodi non notarili ma perfezionisti della Costituzione.

Nel dizionario Battaglia, lo standard è «la norma riconosciuta o il criterio o l’insieme di norme o di criteri a cui devono fare riferimento o a cui si devono uniformare attività, servizi, comportamenti, metodi operativi o di lavorazione, e in base ai quali sono valutati». Quando vengono meno gli standard i popoli tendono a guardare non verso l’alto ma verso il basso, e il chiasso che ne esce si fa spettrale come nelle parole di Tucholsky.

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« Risposta #84 inserito:: Dicembre 24, 2009, 09:51:47 am »

24/12/2009

L'incontro fra l'uomo e l'occasione
   
BARBARA SPINELLI


Non sono pochi coloro che si domandano, quando perdono la fiducia di poter cambiare il mondo: come si rinasce? E ancora: possibile che non esistano politici forti come Churchill o Luigi Einaudi, capaci di spiegare i mali che incombono senza occultarli, d'indicare la rotta senza temere l'impopolarità? Sono due domande diverse, perché la prima riguarda la responsabilità dell'individuo mentre la seconda concerne la selezione del leader. Ma tutte e due hanno in comune l'angoscia del presente e il desiderio di migliorare la pòlis: di renderla meno tenebrosa, opaca. Di uscire da qualcosa che somiglia a una prigione, dietro le cui inferriate l'occhio stanco s'abitua a vedere poco spazio, poche novità, poco futuro.

Non è la prima volta che l'uomo ha avuto quest'impressione di cadere, oggi così intensa: questo senso di grandi occasioni per sempre perdute. Eppure la storia insegna che proprio in quei momenti la mente si sveglia, ricomincia: che proprio allora ridiventiamo uomini che agiscono, che prendono iniziative. Alla vigilia della prima guerra mondiale alcuni spiriti vigili intravidero il collasso, dietro la chimera del dolce commercio mondiale e della belle époque. Altri spiriti profetici ritennero che il mondo andava reinventato, dopo l'atomica gettata su Hiroshima. Ogni collasso si presenta come morte delle cose e al tempo stesso come possibile rinascita, come nuovo inizio e iniziazione. Pensare la pòlis era questo, già per Agostino: «Perché ci fosse un cominciamento fu creato l'uomo. Per introdurre nel mondo la facoltà del dare inizio: la libertà».

Oggi, di fronte a mutamenti climatici che insidiano il pianeta, siamo a un bivio simile: ancora una volta, è da noi che dipende la facoltà di dare inizio, escogitando un nuovo rapporto dell'uomo con la natura, con l'economia, con la crescita. Possiamo annientare la terra oppure provare a custodirla. Possiamo cercare di informarci sui pericoli o accettare spiegazioni che vengono dall'alto. Possiamo cominciare a vedere il pianeta come una persona: con inviolabili diritti alla vita. In uno dei suoi più sublimi romanzi, Joseph Conrad narra l'incontro - fondativo - dell'uomo con l'Occasione. Nella prima giovinezza Lord Jim perde l'Occasione, consegna al naufragio la nave affidatagli: per accidia, ignoranza volontaria, impreparazione. Tutta la sua vita diventa a questo punto anelito d'incrociare di nuovo l'Occasione, senza mancarla.

In fondo le nazioni riunite la scorsa settimana a Copenhagen hanno vissuto un'esperienza analoga. Hanno mancato l'occasione, in modo clamoroso perché le sciagure non erano loro ignote. La sfida era limpida, e tuttavia il fallimento è stato totale: nessun impegno vincolante, nessuna parola chiara detta ai popoli. Perfino l'accordo del '97 a Kyoto fu più serio di questo. Come quando Lord Jim diserta la nave, hanno vinto tutte le forze dell'animo che impediscono di rinascere, di ripartire: la forza di inerzia e l'accidia, la vista corta, la non responsabilità e l'accontentarsi triste. Lasciare il pianeta così com'è è molto più che accumulare debiti per le generazioni future. È condannare a morte i nipoti e la terra che lasceremo in eredità.

Vale la pena ricominciare? Fernando Pessoa ha ragione: «Tutto vale la pena, se l'anima non è piccola». Tutto, anche il Mare di Tenebre che ci aspetta oltre il fatidico Capo Bojador: perché a quel mare «Dio diede il pericolo e l'abisso, ma è in lui che fece rispecchiare il cielo». Si tratta solo di sapere come, di intuire nella figura della Catastrofe la presenza dell'Occasione, del libero initium di Sant'Agostino. Vorrei ricordare qui un preciso momento storico, in cui l'Occasione si presentò - appunto - sotto forma di morte dell'umanità. Accadde quando l'America di Truman sganciò l'atomica su Hiroshima, il 6 agosto 1945. Ho guardato il New York Times di allora, per capire l'epifanico incontro dell'uomo con la sua Occasione. Ci fu orrore, e al contempo subitaneo risveglio delle menti.

Il giorno dopo il disastro, il 7 agosto, il New York Times scrive che per governare una scoperta scientifica così atrocemente ambigua, gravida «di immensi benefici e di impensabili annientamenti», occorreva «creare subito, senza rinvii, un mutamento mentale e le necessarie istituzioni nazionali e mondiali». Il 12 settembre '45 Hanson Baldwin, esperto militare del quotidiano, sostiene che il mondo è a una svolta: «Nella mente di molti stranieri e di tanti americani, l'atomica non è solo uno straordinario successo scientifico. Segna la fine della leadership morale americana».

Anche allora l'occasione fu persa: a poco servì l'allarme dei profeti, e quel che venne non fu il governo mondiale dei pericoli ma la mortale gara atomica Usa-Urss. È a questo punto che Robert Oppenheimer, che pure aveva fabbricato la bomba, tenta di resuscitare l'Occasione. Quel che propone alla potenza americana dei primi Anni 50 è una politica del candore, della trasparenza. Candore nei negoziati internazionali, nella comunicazione col popolo, nei colloqui fra scienziati. L'atomica aveva non solo squilibrato i poteri nel mondo, ma minacciava ogni leadership morale e la natura stessa della democrazia. Compito essenziale del leader era dire la verità, con candore: i pericoli e disastri bisognava che la gente li vedesse nitidi davanti a sé, che non venissero nascosti alla vista e alla coscienza del mondo. L'umanità doveva rendersi conto che camminava sull'orlo di baratri, guardandoci dentro. Non piacque a nessuno, la proposta di Oppenheimer. In America, i falchi lo denunciarono per filosovietismo alla commissione McCarthy. La bomba doveva restare indiscussa, avvolta da tenebre.

Ma l'ingiunzione etica e politica di Oppenheimer serve anche oggi. La paura del futuro che traspare nei commenti del '45 sul New York Times; l'immediata richiesta di azione, che la paura secerne quand'è feconda; la consapevolezza che i veri attacchi alla democrazia vengono dalla manipolazione dell'informazione, e da giornali conformisti che occultano la verità. Questo abbiamo appreso, da fallimenti e cadute. Lord Jim insegna che solo chi ha perduto grandi occasioni sa risvegliarne di nuove, riconoscerne l'aspetto, trasformarle in meta di un'intera esistenza.

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« Risposta #85 inserito:: Gennaio 10, 2010, 10:42:50 am »

10/1/2010

Se questi sono uomini
   
BARBARA SPINELLI


Il futuro in cui siamo già immersi comincia nella piana di Gioia Tauro: a Rosarno in provincia di Reggio Calabria (un’autentica guerriglia urbana è ancora in corso), come a Castel Volturno e a Reggio stessa, dove la ’ndrangheta ha voluto intimidire i magistrati con un attentato alla procura generale. Il futuro comincia a Rosarno perché i principali problemi della nostra civiltà si addensano qui: le fughe di intere popolazioni dalla povertà e dalle guerre (guerre spesso scatenate dagli occidentali, generatrici non di ordine ma di caos); le vaste paure che s’insediano come nebbie, intossicando la vita degli immigrati e dei locali; le cruente cacce al diverso; il dilagare di una mafia esperta in controllo mondializzato.

A ciò si aggiunga l’impossibilità di arrestare migrazioni divenute inarrestabili, perché da tempo non si trovano italiani e cittadini di Paesi ricchi disposti a fare, allo stesso salario, i lavori fatti da africani. Si aggiunga l’ipocrisia di chi crede che la risposta consista in un’identità monoculturale da ritrovare.

E la menzogna di chi non sopporta lo sguardo inquieto e assicura: abbiamo già praticamente vinto le mafie, Gomorra appartiene al passato, è «un vecchio film in bianco e nero», come dice Maroni. Non per ultimo, si aggiunga lo Stato che perde il controllo del territorio e il monopolio della violenza: i neri a Rosarno combattono contro ronde private di locali, infiltrate da ’ndrangheta e armate di fucili. Il pensiero della Lega è egemonico e le rivolte vengono associate, dal ministro Maroni, non alle mafie ma all’immigrazione clandestina che si promette di azzerare sanando ogni male. È inganno anche questo. Quando in Francia s’infiammarono le banlieue, nel novembre 2005, Romano Prodi disse che il fenomeno, mondiale, non avrebbe risparmiato l’Italia. Fu deriso e non creduto.

Non era menzogna invece. È vero che l’Italia ha da anni una reputazione cupa, e impaura a tal punto immigrati e fuggitivi da suscitare, nei loro animi, il senso di schifo di cui parla Balotelli. Gran parte dell’Europa ha una cupa reputazione, ma questo non scusa i nostri misfatti e silenzi: il silenzio del sindacato soprattutto, abituato a proteggere pensionati e operai delle grandi industrie (ormai dei privilegiati) e del tutto afasico sull’intreccio mafia, immigrati, sfruttamento. Il massimo della spudoratezza è raggiunto quando i nostri ministri citano Zapatero o Sarkozy, quasi che gli errori altrui nobilitassero i nostri. Quasi che non esistesse, in Italia, quel sovrappiù che è il potere malavitoso. Le rivolte di questi giorni discendono dal fallimento dello Stato e lo rivelano. È la conclusione cui giunge il prezioso libro di Antonello Mangano, scritto sui ventennali disastri di Rosarno e Castel Volturno. Il titolo è: Gli africani salveranno Rosarno - E, probabilmente, anche l’Italia (Terrelibere.org 2009).

Le rivolte odierne hanno infatti una storia alle spalle, occultata dai politici e da molti giornali. Coloro che a Rosarno hanno reagito con ira distruttiva a un’ennesima aggressione contro i lavoratori neri (due feriti a colpi di carabina, giovedì) sono gli stessi che nel dicembre 2008 si ribellarono alla ’ndrangheta. Erano stati feriti quattro immigrati, e gli africani fecero qualcosa che da anni gli italiani non fanno più. Scesero in piazza, chiedendo più Stato, più giustizia, più legalità. Contribuirono alle indagini dei magistrati con coraggio, rompendo l’omertà e rischiando molto.

Denunciarono gli aggressori a volto scoperto, pur non essendo protetti da permessi di soggiorno. È vero dunque: gli africani salveranno Rosarno e forse l’Italia, come scrive anche Roberto Saviano. Poco prima della rivolta a Rosarno si erano ribellati gli africani a Castel Volturno, il 19 settembre 2008, rispondendo a una sparatoria di camorristi che aveva ammazzato sei immigrati.

Quel che è accaduto dopo è una sciagura prevedibile, e per rendersene conto basta vedere come vivono, gli africani dell’antimafia. Sono eloquenti più di altri i video di Medici senza Frontiere, che parlano di crisi umanitaria nella piana di Gioia Tauro. Il rapporto che Msf ha redatto nel 2008 ha un titolo ominoso: «Una stagione all’inferno», come il poema di Rimbaud. Difficile descrivere altrimenti gli africani che vivono in stabilimenti industriali abbandonati, come la cartiera «La Rognetta» a Rosarno, o l’oleificio dismesso presso Gioia Tauro. Dentro l’oblò del silos per l’olio: giacigli di stracci. Tutt’intorno, fuochi e soprattutto rifiuti, montagne di rifiuti tra cui vagano, tristi ombre, esseri umani che si costruiscono alloggi di cartone o tende senza sanitari. Vedere simili paesaggi ricorda Gaza, gli slum pachistani: non è vita primitiva ma l’osceno connubio tra architetture industriali moderne, indigenza estrema e apartheid. Un africano dice sorridendo a Medici senza Frontiere: «Tra l’una e le quattro di notte inutile provare a dormire. Troppo freddo».

Ci nutriamo volontariamente di menzogne, come il protagonista nel poema di Rimbaud, quando diciamo che quest’oscenità nasce dall’eccessiva tolleranza verso i clandestini. Abbiamo chiamato noi gli africani a raccogliere aranci, consci che nessuno lo farà a quel prezzo e per tante ore (25 euro per un giorno di 16-18 ore; 5 euro vanno a caporali mafiosi e autisti di pullman). E la tolleranza denunciata da Maroni non è verso i clandestini ma verso le condizioni in cui vivono clandestini o regolari.

Dopo aver tollerato tutto questo, e versato nella regione milioni di euro finiti in tasche sbagliate, ogni stupore è fuori luogo. I tumulti odierni non sorprendono: se questi africani non son uomini, come s’intuisce nei video, impossibile che non sboccino, prima o poi, i Frutti dell’Ira di John Steinbeck. Scritto nel ’39 durante la Grande depressione, il libro Furore poteva sperare, almeno, nel New Deal di Roosevelt che noi non abbiamo.

Ne abbiamo tuttavia bisogno, di un New Deal, che metta fine all’apartheid e non si limiti a spostare immigrati come mandrie da un posto all’altro. Perfino i poliziotti, spiega Antonello Mangano, dicono che la risposta non può essere solo punitiva, che gli africani sono una comunità mite, che le migrazioni continueranno. Con l’estendersi delle catastrofi climatiche saranno enormi, gli esodi. Non è vero che la questione della cittadinanza viene per ultima. Le grandi crisi si affrontano con grandi scommesse iniziali, fondatrici di nuove solidarietà. Non è vero neppure che i liberal e la Chiesa sono retrogradi, come scrive Angelo Panebianco sul Corriere. Pensare in grande l’integrazione è preparare oggi il futuro.

Dicono che l’identità stiamo smarrendola, a forza di rinunciare alle nostre radici e di convivere con diversi che ci condannano al meticciato.

Anche questa è menzogna. In realtà siamo già cambiati: non perché incomba il meticciato tuttavia, ma perché la nostra identità non è più quella ­ curiosa, accogliente, porosa ­ che fu nostra quando emigravamo in massa e incontravamo violenza. È un ottimo viatico l’ultimo libro di Gian Antonio Stella (Negri Froci Giudei - L’eterna guerra contro l’altro, Rizzoli 2009): si scoprirà che la mutazione già è avvenuta, nel linguaggio della Lega e nella disinvoltura con cui si accettano segregazioni che trasformano l’uomo in non uomo.

L’identità che abbiamo perduto, la recuperiamo solo se non tradiamo quella vera inventandone una falsa. Solo se sblocchiamo le memorie e ricordiamo che le sommosse antimafia dei neri prolungano le rivolte italiane condotte, sempre in Calabria, da uomini come Peppe Valarioti e Giannino Losardo, i dirigenti comunisti uccisi dalle ’ndrine nel 1980. Solo se scopriremo che il nostro problema irrisolto non è l’identità italiana, ma l’identità umana. Le scuole non hanno bisogno delle quote del ministro Gelmini (non più di tre alunni su dieci per classe in tutta Italia, come se Gesù avesse imposto quote di accesso alla stalla di Betlemme: non più di tre Magi). Hanno bisogno di insegnare il mondo che muta. Altrimenti sì, è l’inferno di Rimbaud: «L’Inferno antico: quello di cui il Figlio dell’Uomo aperse le porte».

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« Risposta #86 inserito:: Gennaio 17, 2010, 10:27:19 pm »

17/1/2010

Catastrofe non solo naturale
   
BARBARA SPINELLI

Le immagini di Haiti devastata non dicono per intero il disastro, come quasi sempre accade nelle grandi calamità naturali. Dicono il punto terminale di una storia lunga, accorciandola e sforbiciandola d’imperio.

Ritraggono la tragedia ignorando le tragedie già avvenute: tremando, la terra le inuma ancor più profondamente. Raffigurano in modi sconnessi lo sguardo di un bambino salvato, struggente di bellezza, e il fulgore ­ tremendo ­ dei machete impugnati da superstiti a caccia di cibi, acqua, medicine. Orrore, bellezza, empatia, discordia: sono frammenti caotici di un tutto inafferrabile. Sono istantanee, e ogni istantanea è la punta di iceberg che restano inesplorati. Vediamo solo questa punta, commossi da eventi estremi. Facendo uno sforzo sentiamo l’odore di morte, descritto dai reporter. La base dell’iceberg, quel che viene prima del sisma, s’inabissa sotto le macerie con i morti. È il terribile destino di parole come umanità, soccorsi umanitari, guerre umanitarie: parole cui si ricorre in simili emergenze e che cancellano la storia, eclissano le responsabilità dei grandi e dei piccoli, dei singoli e delle autorità pubbliche. Parole che narrano una catastrofe solo naturale, non anche umana e politica. Per questo è così prezioso il giornalismo scritto. La televisione mostra solo un pezzetto di realtà, più o meno bene (i telegiornali italiani meno bene della Bbc).

Twitter cattura l’urlo di Munch. Solo lo scritto ha la respirazione lenta della storia. Solo lui può dire quel che era prima del punto terminale, e come possa succedere che l’acme sia questo e non un altro, se possibile meno esiziale.

Le fotografie delle catastrofi sono sempre in qualche modo taroccate. Ci viene «rifilata» una realtà, contorta magari inconsciamente. Privilegiando un riquadro e trascurandone altri falsifichiamo l’immagine, come ben spiegato in un blog attento alle manipolazioni visive (G.O.D., Ghostwritersondemand): ci lamentiamo dei trucchi, «ma siamo noi i grandi rifilatori». Noi che aggiustiamo le foto dei cataclismi, i reportage, trasformando individui e popoli in nuda umanità indistinta alle prese con la natura e sconnessa dalla pòlis. Foto e telecamere mostrano la mano che soccorre, non quella che ha distrutto e aumentato la vulnerabilità d’un Paese. Denunciano la natura matrigna della natura, non della politica; l’eclisse di Dio, non dell’uomo imputabile. Basta leggere su La Stampa i due articoli scritti da Lucia Annunziata, il 14 e 16 gennaio, per scoprire dietro l’Ultimo istante e l’Ultimo uomo una miserabile storia fabbricata dai politici.

Qualcosa in realtà l’intuiamo, osservando i filmati trasmessi dai Caraibi. Sembra di vedere il bastimento di schiavi neri in fuga dall’Africa, che dopo essersi ammutinati sequestrano ­ nel racconto di Melville ­ il comandante Benito Cereno e si autogovernano con crudeli leggi del taglione: la nave si chiama San Dominick, ai nostri tempi Haiti. E proprio a Haiti Melville pensava: il primo luogo dove gli schiavi neri si liberarono negli Anni 90 del Settecento, inneggiando sotto la guida del leggendario Toussaint L’Ouverture alla rivoluzione francese. Pensava alla grandezza delle rivoluzioni e alle rovine che provocano quando perpetuano il tumulto e non si danno leggi stabili. Haiti somiglia a quella nave, divenuta isola.

Anche a Port-au-Prince, come nel naviglio San Dominick, regna l’anomia che secerne despoti. Chi guarda il dramma nei Caraibi non vede autorità locali, che tengano ordine. Non vede poliziotti né ministri haitiani, ma solo potentati e organizzazioni esterni. L’assenza di immagini parla più di quelle esibite, anche qui.

La storia occultata sotto la punta dell’iceberg eccola: è un inarrestabile sanguinario regolamento di conti fra cleptocrazie e fra mafie che oggi usano l’isola per i traffici di droga. È fatta di un’emancipazione gloriosamente iniziata e mai finita, perché sempre ha preferito le dittature generate dall’anarchia rivoluzionaria alle istituzioni che durano. I geologi dicono che identici terremoti, in Paesi ben amministrati, non seminano morte sì vasta. Lo sostiene la sismologa Kate Hutton: vent’anni fa, un terremoto di eguale forza colpì il Sud di San Francisco. Fece 63 morti, non 100-200.000 come a Haiti.

La mano dello Stato non si vede a Port-au-Prince perché non c’era neanche prima, se mai c’è stata. È il motivo per cui sono nate baraccopoli così cadenti e indifese a Port-au-Prince, scrive la scrittrice Amy Wilentz: se i morti son tanti è perché l’agricoltura, degradata, ha spinto migliaia di contadini a inurbarsi negli slum di quella che veniva chiamata Perla delle Antille. I terremotati abruzzesi lo sanno, pur non avendo subito un sisma analogo. Se le case non fossero state costruite con la sabbia, se lo Stato avesse contrastato le speculazioni mafiose, il sisma sarebbe stato diverso: cataclismi dello stesso tipo in Giappone non fanno morti.

Anche dietro la mano internazionale che corre in aiuto, anche dietro quella di Obama, c’è una lunga storia di peccati di omissione e di inani interventismi. Scrive il quotidiano Independent che occorre una «politica globale delle catastrofi». Ma anche questi appelli sono foto che ci rifiliamo a vicenda. Il disfarsi di Haiti rivela ed esige di più: rivela che aiuti umanitari e allo sviluppo vanno ripensati, perché fallimentari, e organizzati prima dei cataclismi. Fallimentari furono in primis gli interventi stabilizzatori americani, specialmente di Clinton. Washington tutto ha fatto, impossessandosi nella sostanza dell’isola, tranne rafforzare il suo Stato, le sue infrastrutture: ha installato dittatori, poi li ha cacciati, poi re-insediati (è il caso del sacerdote-presidente Aristide, negli Anni 90) senza mai scommettere sulle capacità locali di rendere l’isola meno vulnerabile ai ricorrenti sismi e uragani (con case meno cadenti, quartieri meno malavitosi, politiche del territorio più affidabili). Da un secolo, Washington «manda alternativamente nell’isola marines e spedizioni di aiuti umanitari - senza mai salvarla. (....) Haiti è un neo purulento sul volto di due delle più luminose pagine di storia del nostro mondo: la rivoluzione francese e quella americana» (Lucia Annunziata, La Stampa 14-1-10).

Lo strazio umanitario ha questo di peculiare: cancella ogni errore, di governi locali o di potenze esterne o di mafie. Mette in scena un male interamente naturale, che fa tabula rasa della storia. Non a caso lo chiamano Apocalisse: parola da evitare, perché nell’Apocalisse non c’è più modo di correggersi. O gli danno il nome di male assoluto, estirpandolo dalla catena storica delle causalità e fantasticando globali empatie umane che oltrepassano la politica. Il racconto di Kleist sul terremoto del Cile racconta il naufragare di leggi e responsabilità. Quando l’uomo è solo di fronte alla natura non resta che il fato, e «tremendo appare l’Essere che regna sopra le nubi»: «Pareva che tutti gli animi fossero riconciliati, dopo che v’era rintronato il colpo spaventoso. Nella memoria non sapevano risalire più in là di esso».

Impietoso, Kleist racconta come la memoria si vendichi, nel mondo non immaginario ma reale. Basta un attimo e la riconciliazione si spezza, proprio come a Haiti: nel mondo reale ci sono i tumulti, i machete, le guerre per il cibo, l’assenza di polizia locale e di Stato.

L’umanitario fa parte della modernità rivoluzionaria come la fotografia e la Tv. Il suo sguardo si fissa sull’ultimo attimo: «Nella memoria non risale più in là». Urge invece risalire, far politica ricordando: anche su scala mondiale. Dice Kafka che bisogna «inoltrarsi nel buio con la scrittura, come se il buio fosse un tunnel». L’immagine fotografica livella ogni cosa, del tutto ignara che ogni buio è un tunnel, anche quando a prima vista pare piatto.

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« Risposta #87 inserito:: Gennaio 24, 2010, 03:44:19 pm »

24/1/2010

La memoria inutile
   
BARBARA SPINELLI

La memoria, che in Italia non è mai diventata musica di fondo della politica come nelle nazioni che con tenacia hanno lavorato sul proprio passato (parliamo in modo speciale della Germania, ma l’esame di coscienza fu approfondito anche in Sud Africa, unendo la sete di verità al bisogno di riconciliazione), è raramente trattata, dalla nostra classe dirigente, come qualcosa che aiuta a capire perché un male è nato, perché si perpetua mutando le forme, perché i rimedi non l’hanno curato ma anzi aggravato. La memoria in Italia rischiara poco il passato e per nulla il presente: è una memoria ancillare, e quasi sempre emiplegica. Ancillare, perché asservita a questa o quella forza politica oltre che a effimere contingenze.
Emiplegica, perché chi la strumentalizza fa salire in superficie solo i frammenti di passato che gli permettono di evitare, e tradire, l’esame di coscienza.

Come nel malato emiplegico, una parte della memoria storica resta immersa in un sonno scuro che consente ai ricordi di restare selettivi e che impedisce il giudizio storico. Verso la storia, parecchi politici e giornalisti hanno uno strano atteggiamento: da una parte ammettono che non possono scriverla loro, essendo troppo coinvolti nel presente. Dall’altra pretendono di dirla in prima persona, fingendo olimpiche distanze che non possiedono. Il direttore del Tg1, nel celebrare i dieci anni della morte di Craxi, accampa precisamente tale pretesa: «È arrivato il momento ­ dice ­ di guardare alle vicende di Craxi con gli occhi della storia».

Il ricordo degli anni di Bettino Craxi non è l’unico esempio di memoria tradita. Anche il terrorismo italiano è ricordato con metodi poco corretti, anche la storia del fascismo o di Salò. A partire dal momento in cui la memoria è maneggiata alla stregua di domestica, quel che finisce col prevalere è una visione dei mali italiani radicalmente distorta. Il male che la coscienza impone di esaminare non fu un male in sé: in fondo, lo divenne perché vinto dalla Storia. In molti casi fu perfino nobile, non meno del suo avversario. Il conflitto non è fra ragione e torto, fra giustizia e crimine, ma fra chi ha vinto e chi ha perso. In Italia si è ragionato così su Salò, e anche sul terrorismo. Prima di rientrare da Parigi a Roma per presentarsi alla giustizia, Toni Negri sostenne che il terrorismo era «superato perché vinto», e per questo non era più «di attualità». La lotta armata di per sé non era condannabile.

Lo stesso accade per la memoria di Craxi. La sua battaglia politica è considerata grande e bella, se non fosse per Mani Pulite che gli strappò la vittoria e macchiò questa compatta bellezza. Ovvio, in queste condizioni, che le colpe siano tutte esterne al soggetto («L’inferno, sono gli altri», dice Sartre) come spesso succede nella memoria dei vinti che non guardano dentro di sé, perché inebriati dall’esperienza della vittima. La memoria selettiva e ancillare ci restituisce in tal modo un Craxi grande statista, soprattutto un modernizzatore, il cui nobile progetto fallì a causa, essenzialmente, dei magistrati. Per riscoprirlo è raccomandato non solo di separare la politica dai fatti di corruzione, ma di estromettere i fatti di corruzione lasciando che resti, del leader, solo la luce. Le inchieste giudiziarie cadono nelle ombre del corpo politico emiplegico. Nietzsche parlava di memoria antiquaria, che ammobilia «con pietà o furia collezionista» un nido familiare chiuso, impenetrabile dall’esterno, conservatore del passato.

Altra cosa la memoria critica, che guarisce trasformandoci: memoria faticosa, perché gli uomini tendono a «darsi un passato da cui si vorrebbe derivare, in contrasto con quello da cui si deriva».

Senza dubbio il leader socialista fu un politico con encomiabili progetti iniziali: unificare le sinistre, rafforzando la componente socialista dell’unione e banalizzando, alla maniera di Mitterrand, l’ingresso dei comunisti nel governo; liberare sinistre e sindacati da formule errate come la scala mobile; legare il Psi al dissenso nei paesi comunisti. La sua opera di modernizzatore fu, secondo molti, la sua più grande virtù. Modernizzazione che tuttavia riuscì solo in parte. Che fu a un certo punto abbandonata, autonomamente. Che si spezzò non solo perché fortemente avversata dai comunisti ma perché Craxi smise di volerla, prepararla, attuarla.

L’azione di Craxi fu in realtà un singolarissimo impasto di intuizioni giuste e coraggiose, di spregio profondo della politica, di intreccio tra politica e mondo degli affari, di uso spregiudicato di mezzi finanziari illeciti. La corruzione non fu un dettaglio inessenziale di tale azione ma un suo torbido elemento costitutivo. Era moderno il politico che si crea spazi di potere con l’aiuto di potentati economici, e in cuor suo ritiene inefficace la via virtuosa. Il motto degli esordi craxiani fu: primum vivere, prima di tutto urge vivere e sopravvivere. In un’intervista a Eugenio Scalfari, il 3-5-90 su Repubblica, Craxi non nasconde la crisi abissale della democrazia e dei partiti: la società italiana si era irrobustita per conto proprio, dice, mentre il ceto politico era restato una chiusa corporazione, incapace di rinnovarsi. E a Scalfari che gli chiede perché, Craxi replica: «Non ci sono più ideali, si gestiscono interessi».

In fondo non sono diversi i due discorsi tenuti alla Camera durante Mani Pulite, il 3 luglio ’92 e il 9 aprile ’93. Due discorsi che descrivono la corruzione di un intero sistema politico. Questo dice la chiamata di correo del ’92: «Tutti sanno che buona parte del finanziamento politico è irregolare o illegale.(...) Non credo che ci sia nessuno in quest’aula (...) che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro». Nessuno si alzò, e l’atto mancato resta la vergogna dei politici e di una classe dirigente. Una vergogna che in assenza di memoria critica s’è estesa. A Scalfari, Craxi aveva detto: «Non ci sono più ideali, si gestiscono interessi». Oggi, gli interessi particolari sono diventati ideali e il loro conflitto con la politica una cosa normale per tanti.

La modernizzazione di Craxi fallì dunque molto prima di Mani Pulite, a causa del malaffare in cui i partiti, compreso il suo, nuotavano. Fallì perché il Pci si oppose per anni all’alternanza, preferendo compromessi con la Dc che preservavano lo status quo. Fallì per l’immobilità in cui Craxi stesso sprofondò: il primum vivere divenne brama del vivere per vivere, di arraffare frammenti del presente e del potere, di non progettare più nulla.

Il socialismo italiano naufragò per colpa dei socialisti, non dei magistrati: e naufragò perché più di altri aveva suscitato sì vaste attese.

Perfino alcuni successi del capo socialista andrebbero narrati in maniera meno edulcorata, censurata. Sigonella non fu un atto di autonomia verso l’America, ma la misera messa in libertà d’un gruppo terrorista (i palestinesi di Abu Abbas) che aveva ucciso proditoriamente, sull’Achille Lauro, un anziano americano in sedia a rotelle, Leon Klinghoffer, solo perché ebreo. Anche in economia Craxi non fu modernizzatore. Lo spiega bene Salvatore Bragantini, sul Corriere del 14 gennaio: sotto la guida sua e dei successori «il nostro debito pubblico è volato dal 60% al 120% del Pil; (...). Nell’escalation del debito ebbe il suo bel peso l’aumento dei costi delle opere pubbliche dovuto alle tangenti, scoperte grazie a Mani Pulite».

Oggi, censurare tanta parte del passato è utile soprattutto a Berlusconi e alla sua offensiva contro la giustizia. Se il duello è tra vincitori e vinti, e non tra buongoverno e governo corruttibile, si tratta di contrattaccare e vincere finalmente la guerra. Oggi ci si difenderà dai processi, ma restando al potere anziché fuggendo come latitanti. Stefania Craxi lo ha detto chiaramente, il 3 gennaio alla televisione: «La storia di Craxi si ripete con Berlusconi. Gli italiani allora non credettero a Craxi, ma a Berlusconi, oggi, credono». A questo serve la politica della memoria in Italia: a perpetuare la melma in cui ci troviamo, senza mai cominciare l’esame di coscienza che da essa ci libererebbe.

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« Risposta #88 inserito:: Gennaio 31, 2010, 08:21:52 am »

31/1/2010

La strana disfatta
   
BARBARA SPINELLI

Non stupisce lo strano silenzio che circonda, d’un tratto, la guerra iniziata da americani ed europei in Afghanistan, quasi nove anni fa. Guerra senza più bussola, che nel 2001 scacciò i talebani e ora è tutta intenta a facilitare il loro ritorno al potere, addirittura remunerandoli in cambio di qualche gentilezza sulla costituzione. Guerra di cui «abbiamo ormai abbastanza», ammette con candore lo stesso comandante della Nato in Afghanistan, generale McChrystal. Guerra degradata a simulacro, già da tempo. Nessun occidentale vuol finirla, nessun ministro della difesa rinuncia a foto di gruppo con soldati al fronte, ma in cuor suo ciascuno sa la verità: la guerra che solennemente vien continuata è in fondo già considerata perduta. La commedia è recitata da voltagabbana ignari del pudore, che hanno bisogno della messa in scena per evitare l’onta di una fuga. Solo per i soldati e i loro capi il conflitto non è simulacro ma dura prova in cui si rischia la morte, si guadagna l’onore, si merita una pietà ancora più grande. Degenere e posticcia, questa guerra è paradigma dei tempi che viviamo. Sono uomini vuoti che vediamo ai comandi della politica, come nel poema di Thomas Eliot: «Siamo gli uomini vuoti /Siamo gli uomini impagliati /Che appoggiano l’un l’altro /La testa piena di paglia». Figure senza forma, ombre senza colore, forza paralizzata, gesto privo di moto: da sempre, le facce e le voci dei voltagabbana «sono quiete e senza senso».

La sete di negoziare col nemico fino a ieri equiparato al male assoluto è vasta e si estende; anche quando viene dissimulata o perfino negata. È anche una via obbligata e necessaria, quando la vittoria si fa difficile: con chi trattare, se non con l’avversario? Non è la trattativa in sé a colpire negativamente, ma l’impressionante vuoto nelle teste, l’afasia del linguaggio, la presunzione che la disfatta sia una vittoria. Colpisce infine la cecità su una guerra antiterrorista che complessivamente è in stato di degenerazione: quasi dieci anni dopo l’assalto alle Torri di New York, Stati Uniti ed europei hanno praticamente perso dappertutto. Il pericolo terrorista s’è spostato in Pakistan e Yemen, e non smette di nuotare nell’azzurro liquido del mondo-web. Blair è costretto a giustificare la guerra irachena davanti alla Commissione Chilcot, a Londra, e a sventolare bugie come fossero bandiere. Un’analoga commissione, il 12 gennaio in Olanda, ha già definito illegale la partecipazione all’offensiva in Iraq.

Così sfila davanti al nostro sguardo una generazione di politici europei (nel Regno Unito Blair, in Olanda Balkenende, in Italia Berlusconi) che senza tema di contraddirsi dice, oggi, quel che ancor ieri considerava eretico.

Era eretico patteggiare col nemico, ma ora si può, si deve, è cosa buona e bella. La svolta era nell’aria da mesi, ma ora s’è fatta urgente per varie ragioni. Sono gli stessi militari favorevoli all’aumento di truppe a far capire che la guerra, essendo invincibile, è in pratica finita: primo fra tutti il generale McChrystal, che tanto ha influito sulle scelte di Obama.

In un’intervista di domenica scorsa al Financial Times, auspica anch’egli i negoziati e dichiara, perentorio: «Come soldato, il mio personale sentimento è che di guerreggiare ne abbiamo abbastanza. Non puoi fare alcun progresso politico, fin tanto che guerreggi». Karl Eikenberry, ambasciatore Usa in Afghanistan, disse precisamente questo, in due cablogrammi inviati nel mese di novembre al Dipartimento di Stato: la guerra non era vincibile, e l’aumento di soldati un rischio anziché un’opportunità. Pubblicati dal New York Times il 26 gennaio, i due promemoria parlano chiaro: Karzai «non è un partner strategico adeguato», disinteressato com’è a «erigere un governo e una sovranità». L’unica cosa che Karzai vuole è una «guerra senza fine al terrore» (la guerra che Bush aveva promesso), grazie alla quale Kabul riceve soldi e non deve ricostruirsi come Stato funzionante e non corrotto.

A questa ragione se ne aggiunge un’altra, non meno decisiva: la defezione del Pakistan, senza il quale la sconfitta è certa. Le forze talebane legate al terrorismo hanno infatti lì le loro basi, non in Afghanistan. E le notizie che giungono da Islamabad sono devastanti. Il 21 gennaio, durante una visita del ministro della Difesa Robert Gates, il governo pakistano ha annunciato la sospensione ­ per almeno un anno ­ di ogni operazione antiterrorista nel Waziristan del Nord: nella zona, cioè, dove son rifugiati i talebani più duri (la rete Haqqani, responsabile dell’attacco del 18 gennaio al palazzo presidenziale di Kabul).

La terza ragione è la persona di Karzai. Già screditato dai brogli elettorali, il Presidente è profondamente esecrato dalla propria popolazione. Lo dice l’agenzia Onu che si occupa di droga e corruzione (Unodc), in un rapporto del 19 gennaio: il 59 per cento degli intervistati giudica la «disonestà pubblica e la corruzione» più preoccupante ancora dell’insicurezza (54 per cento) o della disoccupazione (52 per cento). Nel 2009, i cittadini afghani hanno dovuto pagare tangenti a funzionari dello Stato per un totale di 2,5 miliardi di dollari (l’equivalente di quel che hanno ricavato dal traffico di oppio, il 23 per cento della ricchezza nazionale). Corruzione in Afghanistan vuol dire Karzai, e Karzai vuol dire forze alleate, non solo americane ma dei partecipanti alla missione (in ordine decrescente Inghilterra, Germania, Francia, Italia, ecc). Ovvio che tutti costoro siano visti come occupanti.

Anche questa guerra, come è successo per la crisi economica, è stata una bolla gonfiata da frettolose supposizioni, menzogne ideologiche, che infine s’è scontrata con la realtà ed è scoppiata. Era una bolla speculativa anche il linguaggio che l’accompagnava, e che contagiò tanti politici e intellettuali d’Europa. Fu dipinta come riedizione della guerra mondiale contro Hitler, e chi obiettava era subito tacciato di appeasement, di accomodamento col terrorismo islamico nel quale s’incarnava in questo secolo il male assoluto. Un male più che mai mostruoso, perché riviveva anche da morto come uno zombi: per questo Bush e Cheney dissero che la guerra sarebbe durata generazioni. Lo storico Marc Bloch scrisse sull’invasione nazista della Francia un libro essenziale: si intitola La Strana Disfatta, perché la guerra fu condotta con le menti e le armi del conflitto precedente, ignorando incomprensibilmente il tempo presente. Proprio questo è accaduto in Afghanistan, con la variante che Hitler è stavolta invitato a tornare al potere.

Obama non ha cambiato strategia, ma da qualche tempo ha smesso di parlare di guerra necessaria (o «esistenziale», come diceva Frattini pochi mesi fa, senza ben sapere quel che diceva). Nel discorso del 2 dicembre, il Presidente Usa ha addirittura fissato il giorno in cui le operazioni finiranno: nel 2011 si torna a casa, non si attende la vittoria come di solito succede nelle guerre. Tutti vogliono tornare a casa, pur continuando a parlare di guerra giusta. Per questo la disfatta è così strana; per questo è così surreale il silenzio che avviluppa i negoziati con i talebani.

È strana, la disfatta, non solo perché è una ritirata mal confessata. È soprattutto una strage di parole: solenni, di breve durata, ma dure a morire. Dopo 9 anni, molti morti e crudeli torture inflitte nelle prigioni di Bagram e Guantanamo, ecco l’arcinemico talebano trasformato in interlocutore meritevole di un Fondo internazionale di aiuti. Ecco Karzai che guida le danze della riconciliazione, da noi trattato come il sovrano che non è. In fondo non è interamente sua la colpa. Lui propone patti espliciti col nemico; Holbrooke usa eufemismi, e il patto lo chiama «reintegrazione». Reintegrazione fa più fine, e ha il pregio di essere una parola talmente grigia da passare inosservata.

Così deve concludersi una guerra cominciata per motivi tutt’altro che ignobili, combattuta comunque con coraggio, proseguita malamente, culminata infine nell’ipocrisia. Parafrasando l’epilogo triste che Eliot riserva agli uomini impagliati, è questo il modo in cui finisce la grande guerra al terrore. Finisce non con uno schianto, ma un flebile lamento: Not with a bang, but a whimper.

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« Risposta #89 inserito:: Febbraio 07, 2010, 06:38:06 pm »

7/2/2010

Europa, castello di bugie
   
BARBARA SPINELLI

In un mondo che sta mutando in profondità e a ritmi rapidissimi, l’Europa ha una reputazione forse immeritata ma non lontana dalla realtà.
Appare come potenza addormentata, che non partecipa alla storia del presente, capace solo di adombrarsi quando è trascurata e non consultata. Non l’ha svegliata la fine della guerra fredda. Non sono bastate a destarla le vicissitudini di un dominio americano sul mondo che da unipolare che era dopo l’89, si è infranto prima in guerre fallimentari, poi nella crisi finanziaria del 2008.

Crisi che perdura, che ha accelerato l’emergere di nuove potenze (Cina, India, Brasile), che ha scalfito il primato non solo dell’America ma dell’Occidente.
Questi eventi erano occasioni straordinarie di risveglio, che gli europei tuttavia hanno sistematicamente mancato. La tendenza a ripetere lo stesso errore significa che c’è del metodo, nella loro follia: più precisamente, c’è l’abitudine a vivere in illusioni che son dure a morire e scambiate con la realtà. Non si spiega altrimenti il malcontento imbronciato con cui i governi hanno reagito alla sfida che lunedì è venuta da Washington: Obama non avrebbe intenzione, dopo esperienze deludenti, di recarsi al vertice euro-americano di Madrid convocato in aprile dalla presidenza spagnola dell’Unione. Come bambini schiaffeggiati, gli europei fanno il muso: Obama ­ si dicono tutti allibiti ­ ci tratta come se non esistessimo. Avevamo tanto sperato in lui ed ecco che si disinteressa all’Europa: è segno che il suo mito è finito, fallito. «C’era una volta Obama», scrivono i commentatori ignorando, in unisono con i governi, la bolla di menzogne in cui l’Europa vive.

Se non fossero ignari è il contrario che scriverebbero: «C’era una volta l’Europa», prima che il sonno la sommergesse. Dovrebbero ringraziare Obama, che denunciando la malattia invita il continente a divenire la potenza che non vuol essere. Ma il risveglio è difficile, in Paesi che di bugie lusinghiere si nutrono: sull’economia, sull’America, su se stessi. Delle molte chimere che dominano in Europa a due anni dalla crisi, quella che riguarda l’America non è l’unica ma è tra le più nefaste.

La malattia europea è oggi fatta di cecità. Cosa non capiamo, precisamente, della crisi? Non ne capiamo la natura perché chiudiamo gli occhi alle mutazioni che essa suscita, sia economiche sia politiche. Non vediamo il mondo post-americano, post-atlantico, che sta emergendo: mondo di cui Obama è espressione. È questa incomprensione che ci rende, agli occhi statunitensi, poco interessanti: noi stessi siamo incapaci di curiosità, di un interessamento che vada oltre l’utile immediato. Lo spiega con lucidità un opuscolo scritto nel novembre scorso da Jeremy Shapiro e Nick Witney per il Council of Foreign Relations creato in Europa dalla Fondazione Soros.

L’avvento di Obama nasce dalla coscienza di questo mondo post-americano.
Nuove potenze salgono grazie alla crisi, non più occidentali. Vecchie industrie faticano a sopravvivere e innovare, in continenti ricchi destinati comunque a crescere di meno.
La potenza americana non dismette la propria forza, ma la sua leadership è deteriorata. Chi denuncia il declino di Obama non vede che il declino oltrepassa la sua persona ed è un fenomeno che proprio lui si trova a dover governare. Il suo presunto disinteresse all’Europa nasce da qui: il Presidente constata che questa consapevolezza non esiste in Europa. Che da noi regna una nostalgia della perduta stabilità atlantica, della vecchia indiscussa egemonia Usa. I vertici istituzionalizzati Europa-Usa sono manifestazioni, ai suoi occhi, di quest’immobile rimpianto: sono luoghi dove non si discutono le cose essenziali, per il semplice fatto che l’Europa come soggetto non vuole esistere. Luoghi dove sulla sostanza prevale il processo, caro agli europei: i lunghi elenchi di temi, il parlare che elude l’agire.

Deluso dal precedente vertice di Praga, Obama teme che anche la riunione di Zapatero finisca in un processo di Madrid.
Il fastidio del Presidente dice qualcosa di importante su di noi, più che su di lui. Dice la nostra incapacità di proposte, e di difendere interessi e convinzioni con un’unica voce governante, non con relazioni bilaterali privilegiate. Dice l’immensa paura europea d’un conflitto con Washington: conflitto vissuto alla stregua d’una colpa anche da finti riottosi come la Francia. Dice la stasi di un continente che non sa entrare nell’era post-americana, né riconoscere come l’Europa non sia più cruciale per la sicurezza Usa. Dipende dagli europei se Obama ricorre a gesti indisponenti per dire, ai sordi volontari, verità ineludibili: la guerra fredda è finita; alla vecchia alleanza atlantica tenete più voi che noi.

La minaccia americana di snobbare l’Europa potrebbe essere un’occasione preziosa, per smettere le illusioni e costruirsi un destino. Se è vero che Obama è stanco dell’Europa proteiforme che gli si accampa davanti con una sfilata di rappresentanti in competizione fra loro, vuol dire che urge un’unità più stretta, anche più antagonista. In una lettera a Van Rompuy, il Presidente che guiderà il Consiglio europeo nei prossimi tre anni e che per giovedì ha convocato un vertice d’urgenza, il liberale Guy Verhofstadt dice allarmato che è l’ora di accelerare l’integrazione, e di guardare in faccia il mondo che muta: un mondo in cui la forza appartiene alle Unioni vaste e non agli inutilizzabili Stati-nazione.

Non vedere il mondo post-americano va di pari passo con la cecità fronte a uno sconquasso che non è solo economico ma politico. Non c’è praticamente governo europeo che dica ai propri elettori il vero stato delle cose: che spieghi come la crisi sarà lunga, come nulla sarà come prima perché proprio quel prima ha condotto al disastro. Vediamo in questi giorni come il nascondimento della verità contamini anche i discorsi sulla crisi dell’auto.
È così anche nei rapporti con l’America. Shapiro e Witney sono espliciti: non è colpa degli Stati Uniti ma degli europei, se la discussione s’insabbia. All’origine c’è l’affastellarsi di quattro grandi illusioni.

L’illusione di poter ricavare qualcosa da rapporti bilaterali o dalla Nato, piuttosto che dalla nascita d’un rapporto Unione-Usa. L’illusione che l’Europa resti cruciale per la sicurezza Usa. L’illusione che gli europei possano affermarsi considerando l’armonia atlantica un fine in sé, un feticcio, quando proprio di dispute c’è bisogno perché l’America ascolti.
L’illusione infine che l’America veda nell’Europa un’intelligenza superiore, anche se inattiva. È l’illusione ­ scrivono gli autori ­ che ebbero i Greci nell’impero romano, fino a quando si accorsero che Cicerone li chiamava, spregiativamente, graeculi.

Alla base di queste chimere c’è quella riguardante lo Stato-nazione.
«Dopo l’attentato alle Torri e la crisi del settembre 2008 ­ scrive Verhofstadt ­ è nato un nuovo ordine mondiale, impietoso con le (ormai sorpassate) illusioni nazionali di gran parte degli Stati europei». I fatti lo confermano: nelle politiche già comunitarie (commercio, concorrenza, moneta) l’Europa è potente, udibile, ascoltata. Non lo è affatto nei settori che gli Stati custodiscono con sovranità che sono simulacri. Verhofstadt è convinto che, se l’Unione avesse avuto un unico leader, al vertice di Copenhagen sul clima la catastrofe sarebbe stata minore.

Il rapporto con l’America è analizzato severamente da chi oggi chiede più Unione: l’Europa è accusata di voler sempre compiacere e sempre ingraziarsi Washington, con relazioni privilegiate da cui ci si aspettano ricompense che ­ Blair lo sa ­ non giungono mai. Difendere i propri interessi col muso duro, agire indipendentemente in Medio Oriente, meditare sulla guerra afghana senza farne un capitolo dei rapporti euro-americani: questo è ricominciare la storia.

Il sonno è confortevole, pensano gli europei. Meglio aspettare che la tempesta passi: «Calati juncu ca passa la china», càlati giunco ché passa la piena, dice il motto mafioso fatto proprio dai governi dell’Unione. Sarkozy ha ostentato indifferenza, giovedì, dopo un incontro con Angela Merkel: «Dov’è il dramma se Obama non viene?». Il guaio è che il dramma persiste, anche se il giunco si piega. L’Europa rischia l’irrilevanza. Rischia di essere un continente messo fuori gioco in irresistibile declino. È quello che accadrà, se non si sveglia in tempo.

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