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Autore Discussione: BARBARA SPINELLI -  (Letto 119797 volte)
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« Risposta #180 inserito:: Giugno 15, 2012, 11:49:10 pm »

IL COMMENTO

Berlino-Parigi, la commedia degli errori

di BARBARA SPINELLI


DA QUALCHE giorno si parla, non senza speranza, della proposta avanzata il 7 giugno da Angela Merkel alla televisione tedesca. Un'unione economica e politica dell'Europa, grazie alla quale la moneta unica potrà sormontare i propri squilibri, l'indebitamento degli Stati diverrà comune debito europeo, l'Unione potrà emettere eurobond garantiti solidalmente, sorvegliare le banche unificandole. L'obiettivo sarebbe una Federazione, ottenibile attraverso nuove graduali cessioni di sovranità nazionali: ancora in mano agli Stati, esse sono impotenti di fronte ai mercati. La terra promessa è bella, ma è tutt'altro che chiaro se il Cancelliere voglia, e presto, quel che annuncia. Se non stia guadagnando tempo, dunque perdendolo. Comunque, l'idea è di sfidare il suo principale interlocutore: il nuovo Presidente francese. Ricordi, la Francia, che se l'Europa non si fa la colpa è sua, non dei tedeschi. È da decenni che Parigi avversa cessioni di sovranità, e ora è messa davanti alle sue responsabilità. Né pare recedere: due ministri, degli Esteri e dell'Europa, votarono contro la Costituzione nel 2005.

La rigidità francese è certo corresponsabile del presente marasma - Hollande potrebbe prendere sul serio la Merkel, costringendola a fare quel che dice di volere - ma se ascoltiamo le parole del Cancelliere e soprattutto quelle di Schäuble, ministro del Tesoro, il piano somiglia molto a un villaggio Potemkin: un prodigio, ma di cartapesta. Di poteri rafforzati delle istituzioni
europee la Merkel parlò il 14 novembre 2011 (al congresso democristiano), e poi in una conferenza a Berlino il 7 febbraio, ma mai l'idea divenne formale proposta. Il più esplicito è stato Jens Weidmann, governatore della Bundesbank. Subito dopo l'elezione di Hollande, ha scelto la tribuna di Le Monde, il 25 maggio, per stuzzicare i francesi: mettere in comune i debiti, ha detto, è impossibile senza Federazione. "Perfino nei paesi che reclamano gli eurobond, come in Francia, non constato su questo tema né dibattito pubblico, né sostegno popolare a trasferimenti di sovranità".

Il fatto è che nella posizione tedesca c'è qualcosa di profondamente specioso, e insensatamente lento. Intervistato dall'Handelsblatt, il 5 giugno, Schäuble afferma che l'unione politica è un progetto di lungo termine. Prima bisogna vincere la crisi: ogni Stato con le sue forze, e con piani di austerità che pure hanno mostrato la loro inanità. Fanno male, i piani? Sfiniscono i popoli, e aumentano perversamente i debiti nazionali? Il ministro lo nega: quasi sembra considerare la sofferenza un prelibato ingrediente della rinascita europea. La domanda frana nei paesi indebitati? Niente affatto: "I programmi non diminuiscono il potere d'acquisto, siamo solo di fronte a crisi di adattamento". L'Unione crollerà? Anche questo viene negato: "I grandi scenari apocalittici non si sono mai inverati".

La negazione dei fatti, unita a un impressionante oblio storico (come si fa, in Europa, a dire che gli scenari apocalittici non si sono mai inverati?): sono gli elementi che impregnano oggi la posizione tedesca. Se questa appare così immobile, è perché un dogma la paralizza. È il dogma della "casa in ordine", in voga tra gli economisti tedeschi dagli anni '20: se ogni Stato fa ordine come si deve, la cooperazione internazionale funzionerà e a quel punto si penserà all'unione politica, all'unione bancaria per far fronte alla crisi spagnola, alle misure per l'Italia pericolante. Come spesso accade ai dogmi, essi contengono incongruenze logiche e un'abissale indifferenza al divenire storico.

Il difetto logico, spesso sconfinante nell'ottusità, è palese nel ragionare dei vertici tedeschi. Si riconosce che l'euro senza Stato è zoppo, si rievoca quel che Kohl disse a proposito dell'unione politica, necessario complemento della moneta unica. Per la Merkel come per Schäuble, tuttavia, l'unione ha senso dopo che gli Stati avranno aggiustato le finanze: non diventa lievito della ripresa, ma si aggiunge ex post, quasi un premio. Che significa, allora, dire che l'euro senza Stato è il vizio d'origine dell'unione monetaria? Se i rimedi ai vizi sono rinviati, vuol dire che non sono ritenuti farmaci cruciali. Cruciale è il giudizio dei mercati, non arginabili con un cambio di paradigma nella costruzione europea. Cruciale è il culto del dogma, impacchettato con carta europeista in modo da imbarazzare i francesi. È quel che Walter Benjamin, in un frammento del 1921, chiama religione del capitalismo: quest'ultimo diventa "puro culto", che non redime ma colpevolizza soltanto. Non a caso, dice Benjamin, Schuld ha in tedesco due significati: debito e colpa.

La smemoratezza storica non è meno funesta. Berlino dimentica non solo gli anni '20, quando le furono imposte riparazioni non sostenibili e il paese precipitò nel nazismo. Dimentica anche quel che fu il piano Marshall, nel dopoguerra. Charles Maier, storico a Harvard, spiega che il piano funzionò perché non era condizionato: le riforme sarebbero venute col tempo, grazie alla ripresa europea. Oggi toccherebbe alla Germania avere quell'atteggiamento, che legò riduzione dei debiti e rimborsi dei prestiti alla crescita ritrovata. Scrive Maier: "Gli europei dovrebbero ricordare il monito di George Marshall, nel '47: "Il paziente sprofonda, mentre i dottori deliberano"" (New York Times, 9-6-12).

Anche Obama, quando invita i tedeschi a crescere di più e fa capire che è in pericolo la sua rielezione, è privo di visione lunga. Il vissuto del dopoguerra, la leadership americana che incitò all'unificazione europea, è scordata. Solo ieri la Casa Bianca ha menzionato, auspicandola, l'unione del nostro continente. Gli uomini degli anni '50 che Jean Monnet cita nelle Memorie, (John McCloy, consigliere di molti Presidenti; Dean Acheson, segretario di Stato; David Bruce, ambasciatore Usa in Francia) è come fossero ignoti. Nè sembra dir qualcosa, a Obama e agli europei, la storia stessa dell'America: il passaggio dalla Confederazione di Stati sovrani alla Federazione che Hamilton (allora segretario al Tesoro) accelerò nel 1790 cominciando col mettere in comune i debiti accumulati durante la guerra d'indipendenza.

Il discorso che Thomas Sargent ha tenuto in occasione del premio Nobel per l'economia, nel dicembre 2011, evoca quell'esperienza a uso europeo. Fu la messa in comune dei debiti a tramutare la costituzione confederale in Federazione. Fu per rassicurare i creditori che venne conferito alla Federazione il potere di riscuotere tasse, dandole un bilancio comune non più fatiscente. Solo dopo, forti di una garanzia federale, gli Stati si prefissero nei propri ambiti il pareggio di bilancio, e nacque la moneta unica, e si fece strada l'idea di una Banca centrale.
Invece di preoccuparsi dei poteri forti, Monti ha una grande opportunità: preparare per il prossimo vertice Ue una controproposta europea, basata sul rilancio, la comunità delle banche, la parziale comunitarizzazione dei debiti, da presentare insieme ai governi che lo desiderano, Grecia in primis. I veri poteri forti non sono in Italia. Vale la pena prospettare - non in conferenze ma ai partner - un'unione politica vera.

Non un'unione di cartapesta, ma un piano che dia all'Unione le risorse necessarie, il diritto di tassare più in Europa e meno nelle nazioni (a cominciare dalla tassa sulle transazioni finanziarie e le emissioni di biossido di carbonio), e metta il bilancio federale sotto il controllo del Parlamento europeo, come suggerisce lo storico Maier. Oggi l'Unione dispone di risorse irrisorie (meno del 2 per cento del prodotto europeo), come l'America prima di Hamilton. Se la Merkel non ci sta, gli Stati favorevoli si contino, nel Consiglio europeo. Non succede il finimondo se Berlino è messa in minoranza. Accadde ai tempi dell'euro con la Thatcher. Il primo che in Europa farà votare su proposte serie passerà alla storia.

(13 giugno 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/06/13/news/berlino_parigi_errori-37089911/?ref=HRER1-1
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« Risposta #181 inserito:: Luglio 01, 2012, 03:37:25 pm »

IL COMMENTO

Federazione zoppa

di BARBARA SPINELLI


LA GRECIA ha votato, e forse la cosa che più colpisce è l'effetto che la campagna ha avuto su di noi e sui governi dell'Unione: non si era mai vista un'elezione nazionale che coinvolgesse a tal punto l'Europa intera, i suoi governi, le sue istituzioni.

Un primo segnale era venuto dalle presidenziali in Francia, all'inizio del 2012, quando si formò addirittura un fronte di Stati pro Sarkozy (Merkel lo guidava, secondo indiscrezioni dello Spiegel, con a fianco Monti, Cameron e Rajoy) ma questa volta l'europeizzazione d'un voto nazionale è stata palese, l'intervento è avvenuto senza più veli diplomatici. Angela Merkel ha annullato una visita all'estero, come se l'evento avvenisse in casa, e alla vigilia del voto ha fatto il suo comizio nell'agorà ellenica: "L'Europa non è disposta ad aiutare ancora i Greci, se non rispettano tali e quali gli accordi presi". Minacciando il caos, ha invitato a votare solo i partiti "che non metteranno in questione i memorandum voluti dall'Unione".

Di per sé non è male che la politica dei singoli Stati non sia più introversa, falsamente immunizzata da intromissioni che vengono chiamate straniere solo da chi s'incaponisce a inforcare gli occhiali delle sovranità nazionali assolute. La crisi ha definitivamente annientato sovranità logore sin dal dopoguerra, e logica vuole che non si parli di ingerenza, tantomeno straniera, in una comunità che sia pure parzialmente possiede il volto di una Federazione. Soprattutto non è male che ogni cittadino dell'Unione  -  in Italia, Spagna, Portogallo, Germania  -  senta che il verdetto democratico di Atene peserà su tutti noi, non diversamente dal peso crescente che avrà il voto nelle nostre nazioni.

Il guaio è che non è una Federazione compiuta ma zoppa, l'insieme di Stati che da giorni tremano per Atene. E quella che non dovrebbe essere ingerenza torna a essere intromissione di vecchio stampo, in tali condizioni. Hanno parlato capi di governo come la Merkel, ha pontificato il presidente della Bundesbank Jens Weidmann, rivolgendosi direttamente all'elettore greco (in un'intervista minacciosa su Kathimerini, il 15 giugno, estesa a Corriere della Sera, El País, Público), e naturalmente si sono fatti sentire i mercati, con movimenti di panico non sempre irrazionali.

Hanno taciuto, attonite, le istituzioni comuni (Commissione, Parlamento europeo, Bce). Non è tipico di una Federazione  -  né di un'unione a metà strada fra Federazione e Confederazione di stati sovrani  -  che il capo del governo più potente imponga le sue convinzioni in nome dell'intera zona euro, come fosse un Presidente-garante eletto da tutti. Non è federale il comportamento di Weidmann, che si erge a portavoce di un organo comunitario (la Banca centrale presieduta da Mario Draghi) pur essendo un governatore come gli altri nell'eurosistema.

Ancor più ambigua, anzi asfissiante, è la filosofia che sorregge l'europeizzazione pur benefica delle politiche nazionali. Filosofia che potremmo riassumere così, ascoltando le parole dei più dogmatici in Germania: stare in Europa vuol dire non negoziare mai quel che nell'Unione, man mano, è stato mal fatto. L'idea stessa di rinegoziare un patto o una linea politica è equiparata a condotta fedifraga, e come tale viene stigmatizzata. Questa è forse l'essenza delle federazioni, per Weidmann, ma con la democrazia ha poco in comune. Quando una strada si rivela fallimentare (ed è visibilmente fallimentare in Grecia, avendo aumentato la sua povertà, dunque il suo debito) non dovrebbe esser lecito vietare il rinegoziato, cioè la discussione di tale linea e la sua correzione. Democrazia è anche questo: si prova, si sbaglia, si rettifica, secondo il metodo sperimentale del trial and error.

È quello che ha detto Angel Gurria, segretario generale dell'Ocse (Organizzazione per la cooperazione economica e lo sviluppo), alla vigilia del voto greco. Se il futuro governo greco, quale che sia, sceglierà di restare nella moneta unica, vorrà modificare i termini del salvataggio fissati da Unione e Fondo Monetario: "Se questa è la condizione per scongiurare che Atene esca dall'euro, occorre darle un'opportunità di ricontrattare i prossimi aiuti" (Kathimerini, 17-6-12).

Fa parte di un'ingerenza antiquata e zoppa non aver detto queste cose prima del voto. L'elettorato doveva provare paura, e la deterrenza ha funzionato alla stregua di una minaccia atomica. Ora che il leader della destra Samaras ha vinto, gli stessi tedeschi allentano le briglie: nulla si ridiscute, ma un po' di tempo bisogna darlo a Atene per ripagare i debiti ("Ora dobbiamo venire incontro ai greci e rilanciare la crescita", dice a Andrea Tarquini, su questo giornale, Karl Lamers, ex consigliere europeo di Kohl). Spiegel prospetta comuni emissioni di titoli del debito, anche se limitati e di breve durata (il nome è eurobond-light o euro-bill). Almeno per ora, tuttavia, Berlino risponde no anche a questo.

Quand'è che in democrazia ci si rimette in questione, pena lo sfascio della democrazia stessa? Quando la linea imboccata naufraga, o quando un piano si rivela non tanto difficile quanto impossibile. Troppo facilmente tendiamo a considerare sinonimi i due termini: l'unione e l'accordo su un unico itinerario ritenuto giusto.

Troppo facilmente il Syriza di Alexis Tsipras (e prima George Papandreou, quando voleva fare della questione greca una questione europea, attraverso un referendum sul cosiddetto salvataggio Ue) è stato trattato come partito anti-europeo, nonostante la sua richiesta fosse chiara: un cambio radicale di paradigma, nell'Unione, che non polverizzasse le periferie Sud accentuando diseguaglianze e squilibri. L'unione si cerca quando c'è disaccordo, non quando tutti fin da principio hanno già un'unica opinione: quella, ripetuta da anni come una litania, di Schäuble o della Merkel.

C'è unione se si trova un'uscita dai conflitti che non sia cruenta né impraticabile; se esistono istituzioni sovranazionali capaci di armonizzare idee diverse e di rispettare  -  lo dice Lamers  -  "le condizioni di partenza di ogni paese"; se viene evitata la via imperiale del paese che decide al posto di tutti quale sarà la via aurea, di qui all'eternità. Quest'attitudine ancora non esiste, nell'Eurozona imperfetta cui apparteniamo: un'Eurozona con una moneta, 17 politiche economiche nazionali, una Banca centrale intimidita, nessun bilancio consistente in comune. È stato un errore di Syriza non aver insistito su questi punti.

Abbiamo parlato di cosiddetto salvataggio perché alla Grecia non sono stati garantiti salvataggi, come spiega da mesi l'economista greco Yanis Varoufakis. Non si può continuare a chiamare salvataggio una politica punitiva che non ha prodotto neppure una recessione (la recessione contiene sempre un'opportunità di autocorrezione) ma una vera e propria depressione, che trasforma la Grecia in un grande emporio della miseria ed è "del tutto priva di prospettive di redenzione".

Per affrontare simili dilemmi non basta l'intromissione ansiosa dei capi delle singole nazioni. Non basta neppure per calmare i mercati, che meglio dei governi capiscono, istintivamente, come il male dell'Europa sia innanzitutto politico, non economico. Occorre che nasca una vera agorà democratica in Europa, forte al punto di divenire un contropotere, di imporre un piano di crescita e un'Europa politica. Che in nome di tutti e non solo della Germania parlino le istituzioni sovranazionali (Commissione, Banca centrale). Che parli il Parlamento europeo, troppo silenzioso in tutta questa vicenda. Che i politici nazionali imparino a inforcare occhiali cosmopoliti, oltre a quelli che fanno vedere (con quale miopia!) i soli affari nazionali. Tutto questo ancora manca. Non c'è da lamentarsi se sulla scena europea restano, unici mattatori, solo Angela Merkel e Jens Weidmann.

(19 giugno 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/esteri/2012/06/19/news/federazione_zoppa-37484048/?ref=HREA-1
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« Risposta #182 inserito:: Luglio 11, 2012, 10:13:32 am »

L COMMENTO

La Germania davanti al bivio

di BARBARA SPINELLI

A VOLTE, quando critichiamo Angela Merkel, dimentichiamo quel che sta succedendo in Germania: l'astio che domina tanti commenti di cittadini e politici, contro un'Europa del Sud che sta divenendo loro estranea. L'esigenza democratica, che si mescola ambiguamente a un nuovo nazionalismo e che spinge i tedeschi a fidarsi quasi solo della Corte costituzionale: proprio ieri, la Corte ha iniziato l'esame degli impegni presi da Berlino a Bruxelles, per verificare la loro compatibilità con la sovranità del popolo e del Parlamento. Il Sud Europa non si stanca di ammonire Berlino, evocando l'espandersi di sentimenti antitedeschi. Ma conoscono poco i sentimenti antieuropei che si addensano in Germania.

Citiamo, fra gli epiteti usati dai frequentatori dei giornali sul web, i più significativi: gli italiani, greci, spagnoli, portoghesi sono scrocconi, parassiti, perfidi, svergognati. Puntando l'indice sul passato tedesco, sono soprattutto ricattatori. Sono "cani, e che abbaino pure alla loro altezza". Un lettore conclude: "Chi ha amici simili, non ha più bisogno di nemici". L'astio colpisce anche europeisti come gli ex cancellieri Schmidt e Kohl, i verdi Trittin e Roth, l'ex ministro degli Esteri Joschka Fischer ("un depravato morale"): sono "traditori del popolo", "odiatori della Germania".
Bastano queste citazioni per capire che sarà pieno di insidie, il cammino degli europei verso una progressiva messa in comune dei debiti. La parola solidarietà è vista come una trappola, tesa per costringere i tedeschi a svenarsi per espiare chissà quale colpa.

Questo clima va tenuto presente, quando si parla di scudo antispread o Fondi salva-stati, o si celebrano i progressi raggiunti ai vertici europei. È un clima incendiario, che le classi dirigenti tedesche non sanno evidentemente governare: il più delle volte lo lusingano, altre volte lo contrastano, ma avendone paura. Manca tragicamente la pedagogica capacità di spiegare le cose "nei dettagli": è l'accusa, pesante, che il Presidente Gauck ha rivolto sabato al governo. Né serve la politica dei piccoli passi: solo un salto qualitativo (Unione politica, potenziamento della Bce) creerebbe la scossa che calmerebbe gli animi oltre che i mercati. Le misure piccole sono vissute come una tortura della goccia cinese. Ma nessuno osa, e tra chi osa di meno nelle classi dirigenti ci sono gli economisti: una corporazione che ovunque ha mancato - salvo eccezioni - l'appuntamento con la crisi del 2007-2008.

Ben 172 economisti tedeschi, e non dei minori, hanno firmato giovedì un appello in cui intimano al governo di non cedere alle pressioni e ricusare le misure concordate al vertice del 28 giugno, troppo costose per Berlino. Pur non firmando, è d'accordo anche il governatore della Bundesbank Weidmann, ostile a scudi salva-spread e unione bancaria. Weidmann è membro di un'istituzione comunitaria (il Consiglio direttivo della Bce), e l'uscita è quantomeno anomala. All'appello dei 172 hanno risposto due contro-appelli, firmati tra gli altri da Peter Bofinger e Bert Rürup, membri del Consiglio degli esperti economici che nel 2011 suggerì una messa in comune parziale dei debiti: i 172 sono accusati di nazionalismo e incompetenza. Siamo, insomma, di fronte a un grande dibattito che lascerà tracce, non dissimile dalla disputa fra storici del 1986-87 attorno al passato nazista. Oggi è l'economia al centro, e il ruolo più o meno egemonico, o dominatore, che Berlino deve svolgere nell'Unione.

L'economia può sembrare un tema minore, ma per la storia tedesca non lo è affatto. Quando la Repubblica federale nacque dalle rovine della guerra, l'economia prese il posto della coscienza nazionale, statale, democratica. Quanto all'egemonia: molti invitano la Merkel a esercitarla  - - Obama per primo - ma Berlino tentenna. Non dubita del proprio modello economico, che giudica anzi l'unico valido, superiore a ogni altro. Quel che fatica a fare, è guidare con efficace magnanimità i paesi deboli dell'Unione, come fecero gli americani col Piano Marshall nel dopoguerra. Irretita in dogmi contabili, la Germania ricade nel passato: sa comandare, non ancora guidare.

Il dogma non è solo quello che impone di mettere la "casa in ordine" prima di creare unioni transnazionali (l'assioma non tiene, perché l'unione sovranazionale muta l'ordine casalingo). Dogmatico è il primato dell'economia, fonte pressoché unica dello Stato e della democrazia. Divenne tale soprattutto nel dopoguerra, quando ai tedeschi era negato il diritto di divenire Stato giuridico, ma ha radici lontane. È dai tempi dell'Unione doganale (il Zollverein del 1834 e 1866) che i tedeschi fanno dell'economia il sifone della comunità politica. L'Unione europea deve ricalcare quel modello, che peraltro fallì quando la Prussia inglobò la Confederazione tedesca del nord: prima viene l'economia, poi la politica, lo Stato, il consenso dei popoli. Come scrive Marco D'Eramo su Micromega, anche in Europa, come nello Zollverein, "è la moneta a "battere" lo Stato invece dello Stato a battere moneta". La Merkel e il ministro Schäuble nuotano contro una corrente forte e anche contro se stessi, quando implorano un'unione politica federale: non ascoltarli, come non fu ascoltato Kohl, è letale.

Il primato economico ha una storia nel pensiero tedesco che va esplorata, se non vogliamo che l'unità europea degeneri in guerra prima verbale, poi civile. Alle origini, c'è l'esperienza d'un paese vinto dalla guerra, dimezzato, che nell'economia vide un surrogato di sovranità statale. Gli artefici del nuovo Stato economico furono Ludwig Erhard e i cosiddetti ordoliberali, che negli anni fra le due guerre avevano osteggiato l'idea keynesiana che i mercati possano, debbano esser governati.

L'ordoliberalismo divenne il credo della Repubblica federale, la via per uscire dallo statalismo nazista. Vale la pena ricordare come ne parla Michel Foucault, nelle lezioni del 1978-79. Le parole-chiave furono quelle che Erhard, futuro Cancelliere e allora responsabile dell'amministrazione nella zona occupata dagli anglo-americani, pronunciò il 28 aprile '48: "Bisogna liberare l'economia dai vincoli statali (...) ed evitare sia l'anarchia sia lo Stato-termite. Solo uno Stato capace di stabilire al contempo la libertà e la responsabilità dei cittadini può legittimamente parlare in nome del popolo". Decaduto lo Stato, solo la libera economia poteva ricostituirlo. Un marco solido, una crescita forte, una bilancia dei pagamenti salda: divennero la sovranità sostitutiva della Germania. "La storia aveva detto no allo Stato tedesco, ma d'ora in poi sarà l'economia a consentirgli di affermarsi", e in più di dimenticare un nazismo che non "parlava in nome del popolo" (Foucault, Nascita della biopolitica, Feltrinelli 2005).

Mettere la casa in ordine, e soltanto dopo farsi Stato: il prototipo dello Zollverein fu ripreso da Erhard, e ora va applicato all'Europa. Gli Stati sono incitati a cedere sovranità, ma la costituzione europea sarà economica e di marca tedesca, o non sarà. È stupefacente la disinvoltura con cui un uomo intelligente come Thomas Schmid, vicino nel '68 a Fischer e Cohn-Bendit, confonda il comando con l'egemonia, nel carteggio con Ezio Mauro apparso il 28 giugno su Repubblica: "La Germania deve usare la sua forza per aiutare altri, deve diventare un amministratore e garante per la stabilità riconquistata di Stati oggi deboli (...) deve essere egemone, ma in modo amichevole".
Forse è qui uno dei nodi da sciogliere, nelle discussioni fra governi e fra economisti. L'operazione tedesca è singolare. Parla di Federazione, ma intanto tratta i paesi meridionali dell'Eurozona come se fossero nazioni dimezzate e vinte in guerra, i cui Stati hanno perduto non tanto consistenza, quanto legittimità. Come se tutti dovessero percorrere la via tedesca, pur venendo da storie così diverse.

(11 luglio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/07/11/news/germania_bivio-38855029/?ref=HREA-1
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« Risposta #183 inserito:: Agosto 29, 2012, 04:47:37 pm »

L'analisi

Tragici dilemmi che dividono l'Italia

di BARBARA SPINELLI


Tra le molte maledizioni di cui soffre l'Italia, ce n'è una che a intervalli regolari la insidia: ogni scelta cruciale si presenta sotto forma di dilemma tragico, irrisolvibile. Nella Grecia classica si direbbe: di aporia. Uno scontro mortale tra principi egualmente forti, e spesso egualmente validi. Solo che da noi manca la catarsi, che snoda i nodi. I nostri grovigli, tendiamo a viverli come ineludibili fatalità.

Nel caso dell'acciaieria Ilva, il dilemma consiste nella scelta, inconcepibile in altri paesi europei, tra la morte di fame per il lavoro perduto e la morte per i tumori che la fabbrica ha continuato a espandere lungo gli anni, per inadempienza e corruzione. Nel caso della disoccupazione giovanile, il dilemma viene addirittura presentato come cruento gioco della torre.

Visto lo stato di necessità che traversiamo, chi buttare giù dagli spalti: la generazione dei 30-40 anni o quella successiva? Non so cosa abbia pensato il Presidente Monti, nell'intervista del 27 luglio a Sette, quando ha pronunciato, con la leggerezza dell'apatia, un verdetto anch'esso poco immaginabile altrove in Europa: "Esiste un aspetto di generazione perduta, purtroppo. Si può cercare di ridurre al minimo i danni (...) ma più che attenuare il fenomeno con parole buone, credo che chi (...) partecipa alle decisioni pubbliche debba guardare alla crudezza di questo fenomeno e dire: facciamo il possibile per limitare i danni alla generazione perduta, ma soprattutto impegniamoci seriamente a non ripetere gli errori del passato, a non crearne altre, di generazioni perdute".

Più grave ancora il dilemma  -  l'aporia tragica  -  che è all'origine della pubblica discussione attorno alle inchieste della magistratura di Palermo e Caltanissetta, e all'intervento del Presidente della Repubblica che ha deciso di sollevare un conflitto costituzionale nei confronti degli uffici giudiziari palermitani a seguito di telefonate intercettate con l'ex ministro dell'Interno Mancino, non ancora inquisito per falsa testimonianza.

Non credo che Napolitano voglia ostacolare le inchieste siciliane sulle trattative fra mafia e parti dello Stato: più volte ha assicurato anzi il contrario. Ma condivido il timore espresso su questo giornale da Gustavo Zagrebelsky: il rischio esiste che l'iniziativa presidenziale assuma "il significato d'un tassello, anzi del perno, di tutt'intera un'operazione di discredito, isolamento morale e intimidazione di magistrati che operano per portare luce su ciò che, in base a sentenze definitive, possiamo considerare la "trattativa" tra uomini delle istituzioni e uomini della mafia".

Se mi soffermo su questo caso è perché tra i nostri dilemmi mi pare il più significativo, e il più periodico. Tra le critiche rivolte agli inquirenti dell'antimafia ce n'è una, che ricorre da vent'anni: l'accusa di protagonismo. L'epiteto resiste a tutte le intemperie: chi ha letto il libro Le ultime parole di Falcone e Borsellino (Chiarelettere 2012), ne constaterà l'inossidabile natura, il suo ripetersi ossessivo.

Ecco un altro nostro nodo che non si snoda. I magistrati sono sospettati di intromettersi nella politica e di farla, invece di lavorare in silenzio e risparmiare ministri e deputati: usano rilasciare interviste, impartire lezioni, e soprattutto denunciare l'irresponsabile non-presenza dello Stato. Non da oggi, ma dagli anni del maxiprocesso istruito dal pool di Palermo. Né Falcone né Borsellino bramavano le luci della ribalta. Se si esponevano con tanta frequenza, con accuse così esplicite, è perché percepivano l'isolamento cui erano condannati, l'insabbiamento che minacciava l'operazione verità. Non accade dappertutto, che un magistrato definisca se stesso un morto che cammina.

Lo stesso accade oggi a Antonio Ingroia, quando rilascia interviste colme di inquietudine. O a Roberto Scarpinato, Procuratore generale di Caltanissetta: il culmine l'ha raggiunto il 19 luglio, anniversario della morte di Borsellino, quando ha letto una lettera immaginaria all'amico ucciso dalla mafia vent'anni fa. Una lettera dura per i politici che ogni anno commemorano la strage di via d'Amelio: "Stringe il cuore a vedere talora tra le prime file, nei posti riservati alle autorità, anche personaggi la cui condotta di vita sembra essere la negazione stessa di quei valori di giustizia e di legalità per i quali tu ti sei fatto uccidere; personaggi dal passato e dal presente equivoco le cui vite  -  per usare le tue parole  -  emanano quel puzzo del compromesso morale che tu tanto aborrivi e che si contrappone al fresco profumo della libertà".

A causa di queste parole, il Consiglio superiore della magistratura presieduto da Napolitano ha aperto un fascicolo sul trasferimento d'ufficio del procuratore, rendendo perigliosa la sua nomina ai vertici della procura di Palermo. Lo stesso Csm ha attivato il procuratore generale della Cassazione, affinché verifichi se Scarpinato abbia utilizzato, nella lettera, parole censurabili con provvedimento punitivo. È il motivo per cui Zagrebelsky parla, rivolgendosi a Napolitano, di "eterogenesi dei fini": sollevando un conflitto di poteri con i giudici di Palermo, Napolitano si inserisce, non intenzionalmente, in un contesto che vede i magistrati siciliani fortemente screditati, in difficoltà.

Non fu sollevato lo stesso conflitto nel '93, quando il Presidente Scalfaro fu intercettato nell'ambito di un'inchiesta sulla Banca Popolare di Novara (la Procura di Milano depositò agli atti l'intercettazione, contrariamente alla telefonata Mancino-Napolitano). O quando nel 2009 fu intercettata una telefonata a Napolitano di Guido Bertolaso, indagato per gli appalti. L'intervento del Quirinale è legittimo, Scalfari ha ragione e Ingroia lo conferma. Così come sono comprensibili le preoccupazioni istituzionali espresse da Scalfari in una serie di articoli.

Ma è legittima anche la domanda: perché proprio oggi, e non prima? Cosa c'è di così allarmante nelle inchieste siciliane, da smuovere le pubbliche istituzioni e da dividere fra loro giornali seri? È segno della ricchezza di questo giornale il fatto che ambedue le inquietudini siano presenti e conversino tra loro civilmente.
Forse tutto questo accade perché siamo alla vigilia di elezioni. Perché i partiti temono l'avanzare del Movimento 5 stelle. Forse, più semplicemente, perché l'Italia fin dal dopoguerra passa da un dilemma emergenziale all'altro, e mai arriva a quella che Zagrebelsky chiama la tranquillità del diritto. Anche sull'antimafia l'aporia resta irrisolta, dunque tragica: o vuoi sapere finalmente come ha funzionato il tuo paese  -  se sulla base di compromessi con la malavita oppure no  -  o convivi con misteri italiani eternamente inconoscibili. O la morte della verità, o la morte della politica e delle sue istituzioni.

Il problema è sapere come mai non sia possibile uscire da simili emergenze, e ritrovare la tranquillità politica in cui ciascuno fa la sua parte, e non quella dell'altro. Come mai, per imporre l'austerità in tempi di crisi, da noi sia necessario annunciare che esiste, nientemeno, una generazione perduta. Come mai sia obbligatorio parlare di Grillo come di un "fascista del web". Come mai se critichi una mossa del Quirinale sei accusato (per quale malinteso o cortocircuito?) di voler abbattere Napolitano e Monti.

L'incapacità di stare responsabilmente al proprio posto  -  il politico per governare, il partito per fare programmi, il giudice per giudicare, il giornalista per scrutare e analizzare  -  è certamente all'origine dell'odierno sfacelo. È un'altra conseguenza non voluta delle azioni del Quirinale: il suo desiderio di blindare la carica (con quali conseguenze future?) influenza l'intera classe dirigente, di destra e sinistra, quasi che l'articolo 90 della Costituzione sull'irresponsabilità presidenziale divenisse prerogativa d'ogni politico. Segretamente, si direbbe che ciascuno, schivando il compito che gli compete, voglia Monti in eterno. Se qualcuno non è d'accordo, si fa una legge elettorale per impedirgli di sedere in Parlamento. Intanto si dibatte, all'infinito, su destra e sinistra. Sempre deliberatamente operando in modo che non venga mai l'ora delle responsabilità, dell'azione: della tranquillità del diritto e della politica.

(29 agosto 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #184 inserito:: Settembre 14, 2012, 10:27:50 pm »

L'ANALISI

Tra libertà e responsabilità

di BARBARA SPINELLI

ANCORA una volta, come l'11 settembre 2001, il volto stupefatto dell'America s'è accampato davanti ai nostri occhi. L'ambasciatore Christopher Stevens era appena stato ucciso, e Hillary Clinton non si capacitava.

"Perché è potuto succedere tutto questo? Perché in un paese, la Libia, che abbiamo aiutato a liberare? In una città, Bengasi, che abbiamo salvato dalla distruzione?" Dall'attentato alle Torri sono passati undici anni, e l'angoscia resta muta, quasi l'occhio non vedesse che orrore e buio.

Ancora una volta si risponde con le armi o con i droni, ma la parola è lenta a venire. Ieri Hillary Clinton ha denunciato il video anti-Islam, ma l'attonimento iniziale è significativo. L'occidente lancia al mondo la sua domanda - Perché non ci amate? - e mai fornisce una risposta, mai lo sguardo smette d'appannarsi, disperatamente miope. Il male è nero, e il nero non è dicibile. C'è il rischio di giustificarlo, se provi a vederlo, a capirlo. C'è il rischio di sovvertire il bene di cui ti credi l'artefice: le rivoluzioni arabe, le primavere democratiche, la guerra senza screzi in Libia. Il dilemma è comprensibile: se fai "parlare" il male, gli dai diritto di parola e di esistenza.

Invece bisogna capirlo, il nemico: e studiarlo, osservarlo, anche quando lo combatti, proprio se lo vuoi combattere. È evidente che il video sul Corano è un pretesto, che dopo l'uccisione di Bin Laden si voleva punire l'America, nell'anniversario dell'11
settembre, e scommettere sul peggio: la disfatta elettorale di Obama. Cercare di capire è tutt'altra cosa che giustificare, e non è nemmeno restare neutrali. Nella sua Teoria del Partigiano, Carl Schmitt scrive una cosa su cui vale la pena riflettere, in questi giorni d'ira contro il filmato trasmesso da organizzazioni vicine a Terry Jones, il reverendo che invoca i roghi del Corano: "Il nemico è la forma che assume la nostra questione". Conoscerlo e misurarlo significa conoscere se stessi, la "questione su chi siamo".

Un video distruttore della figura di Maometto ha scatenato in vari paesi musulmani la furia di piccoli ma bene armati gruppi di estremisti. Furia divenuta sanguinaria, a Bengasi: non stupisce che abbia colpito un giusto, un ambasciatore che il Corano lo conosceva e lo rispettava. Anche i morti nel crollo delle Torri, nel 2001, erano innocenti - a loro modo giusti - delle malvagie politiche attribuite ai governi americani. Ma se vogliamo analizzare quello che chiamiamo nemico, e non ripetere sempre la stessa intontita domanda davanti alle telecamere, dobbiamo tentare qualche risposta, e cominciare a formulare quel che la violenza in Libia, Egitto, Yemen dice su di noi, sulle nostre illusioni, sulla "nostra questione".

La nostra questione è la forza prima infamante e infine incendiaria che può emanare da un video diffuso mondialmente su YouTube. Può emanare anche da vignette anti-islamiche, come si è visto in Danimarca nel 2005, o più recentemente da un libro, come quello scritto da Richard Millet in Francia (Langue fantôme - Lingua fantasma, Gallimard). Questa forza di offendere ha un nome sacro, sancito dalle leggi liberali e specialmente inviolabile nella cultura politica statunitense: si chiama libertà di opinione, di espressione, di pubblicazione.

È una libertà che non ammette limiti, che si fa forte dello spirito di tolleranza, che si inventa un Voltaire permissivo che non è mai esistito (non è sua la frase "Disapprovo quel che dite, ma lotterò fino alla morte perché possiate dirlo"). Voltaire difese dalla censura dei benpensanti testi e autori che esecrava: bisognava tuttavia che i testi contenessero qualcosa che per lui era una "verità, anche se triviale". Wikileaks e Assange per esempio portano alla luce fatti veri, e il loro diritto di parola va difeso: cosa che non accade. Non sputano bugie come quelle dette, solo per insultare, sul fondatore della religione musulmana.

La libertà d'opinione professata in democrazia diventa una questione nostra - interpella innanzitutto noi occidentali, dice qualcosa su di noi - quando si trasforma in forza sovranamente indifferente alle conseguenze di quel che viene detto, ignara del rapporto fra parola e azione, negatrice della propria responsabilità. Quest'ultima non ha come scudo leggi egualmente cogenti, e articoli inviolabili delle costituzioni liberali. La responsabilità per le conseguenze di quel che diciamo o scriviamo o filmiamo non è egualmente protetta. È l'uomo pensante che mette insieme quel che l'istinto bruto disgiunge: la libertà e la responsabilità, il diritto di dire qualsiasi cosa capiti e il dovere di non sprezzare e declassare persone e religioni diverse. Un dovere che nelle società liberali abbiamo comunque, con o senza reciprocità.

Gli autori del video non sentivano questo dovere pensante, erano solo sicuri della propria libertà e delle leggi che la tutelano. Che importa se dico che Muhammed era un pedofilo, o quant'altro? Importa invece molto, come Max Weber insegna a proposito della vocazione dell'intellettuale e del politico: chi esercita tali professioni deve saper combinare l'etica delle convinzioni e quella della responsabilità, senza far prevalere l'una sull'altra e sapendo che l'equilibrio fra le due è fragile e sempre scabroso.

La libertà senza confini pensa di essere puro convincimento, e per questo la sua energia desta spesso ammirazione. Ma quando viene meno la responsabilità anche la convinzione vacilla, perde la purezza cui pretende: diventa non solo irresponsabile, ma falsificatrice della realtà. È quel che viene da dire sulle convinzioni dello scrittore Millet. Il suo libro, che sta dividendo i francesi, contiene una riflessione sull'attentato di Breivik nell'isola norvegese di Utoya, il 22 luglio 2011 (69 morti, più otto uccisi a Oslo).

La convinzione di Millet è la seguente: Breivik è "il segno disperato, e disperante, del fatto che l'Europa ha sottostimato le devastazioni del multiculturalismo, e segnala anche la disfatta dello spirituale a vantaggio del denaro". I giovani uccisi nel meeting socialdemocratico incarnano un'Europa "uscita dalla Storia", perché islamizzata e contrassegnata dalla "conversione dell'individuo in piccolo-borghese meticciato, mondializzato, incolto e socialdemocratico - ossia la tipologia delle persone uccise da Breivik".

Contrariamente a Millet, non credo che l'eccidio di Utoya sia una catastrofe perché gli europei sono affetti dalle malattie elencate nel libro (più precisamente, nel brano che ha per titolo "Elogio letterario di Anders Breivik", apparso sul Foglio il 30 agosto): malattie cui l'autore dà il nome di nichilismo multiculturale, perdita di identità, islamizzazione, denatalità, irenica fraternità. Quel che è stato veramente tragico a Utoya, è più semplice e quasi indicibile. Perché i ragazzi presenti nella riunione socialdemocratica non hanno organizzato una difesa, a Utoya?  Perché non hanno escogitato espedienti, gettando sassi o tendendo tranelli, per limitare la furia di Breivik? Come mai sono andati come agnelli al macello? Alcuni di loro hanno reagito: tre adolescenti ceceni, abituati a una vita di guerriglia, hanno salvato ventitré ragazzi, prima gettando pietre poi nascondendoli in una grotta, e in Norvegia sono ricordati come eroi. Anche le vittime hanno responsabilità: questo è quasi indicibile. Il tremendo è che a volte, perché imprigionati o minacciati, hanno solo quella. Ecco un'altra questione nostra. Ma è diversa da quella di Millet o dei video anti-musulmani.

Lasciamo stare le false citazioni di Voltaire, quando parliamo di tolleranza. Voltaire non ha detto che bisogna esser tolleranti con gli intolleranti. Limitiamoci a constatare che la scelta è tragica (ci sono perle incomparabili nei pamphlet più antisemiti di Céline, non ve ne sono, pare, nel libro di Millet e tanto meno nei video contro il Corano) e che la frontiera tra libertà e responsabilità è un'esilissima linea. Ma una risposta dobbiamo cercarla, in noi stessi, se davanti alla violenza non vogliamo divenire sordomuti senza speranza.

(14 settembre 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #185 inserito:: Settembre 19, 2012, 04:58:06 pm »

L COMMENTO

Il Mediterraneo senza Europa

di BARBARA SPINELLI


Scrive il narratore greco Petros Markaris che l'Europa vive una strana insidiosa stagione: del suo sconquasso non parlano che gli economisti, i banchieri centrali.

Con il risultato che la moneta unica diventa la sostanza stessa dell'Unione, non uno strumento ma la sua ragion d'essere, l'unica sua finalità: "L'unità dell'Ue è stata sostituita dall'unità dell'eurozona. Per questo il dibattito rimane così superficiale, come la maggior parte dei dirigenti europei, e unidimensionale, come il tradizionale discorso degli economisti". Priva di visione del mondo, l'Europa ha interessi senza passioni, e non può che dividersi tra creditori nobili e debitori plebei. "Stiamo correndo verso una sorta di guerra civile europea".

Come un improvviso sparo nel silenzio è giunto il nuovo sisma nei paesi musulmani, sotto forma di una vasta offensiva dell'integralismo musulmano contro l'Occidente e i suoi esecrabili video: la violenza s'addensa nel Mediterraneo, e l'Europa - in proprie casalinghe faccende affaccendata - d'un tratto s'accorge che fuori casa cadono bombe. S'era addormentata compiaciuta sulle primavere arabe, ed ecco irrompe l'inverno. Aveva immaginato che le liberazioni fossero sinonimo di libertà, e constata che le rivoluzioni son sempre precedute da scintille fondamentaliste (lo spiega bene Marco d'Eramo, sul Manifesto di ieri), prima di produrre istituzioni e costituzioni stabili. Come Calibano nella Tempesta di Shakespeare, i manifestanti ci gridano: "Mi avete
insegnato a parlare come voi: e quel che ho guadagnato è questo: ora so maledire. Vi roda la peste rossa per avermi insegnato la vostra lingua!".

L'Europa potrebbe dire e fare qualcosa, se non continuasse ad affidare i compiti all'America: non solo in Afghanistan, dove molti europei partecipano a una guerra persa, non solo in Iran, ma nel nostro Mediterraneo. È da noi che corrono i fuggitivi dell'Africa del Nord, quando non muoiono in mare con una frequenza tale, che c'è da sospettare una nostra volontaria incuria. L'Europa potrebbe agire se avesse una sua politica estera, capace di quel che l'America lontana non sa fare: dominare gli eventi, fissare nuove priorità, indicare una prospettiva che sia di cooperazione organizzata e non solo di parole o di atti bellici.

Ormai evocare la Federazione europea non è più un tabù: ma se ne parla per la moneta, o per dire nebulosamente che così saremo padroni del nostro destino. Ma per quale politica, che vada oltre l'ordine interno, si vuol fare l'Europa? Con quale idea del mondo, del rapporto occidente-Islam, dell'Iran, di Israele e Palestina, del conflitto fra religioni e dentro le religioni?

Più che una brutta scossa per l'Unione, l'inverno arabo rivela quel che siamo: senza idee né risorse, senza un comune governo per affrontare le crisi mondiali, e questo spiega il nostro silenzio, o l'inane balbettio dei rappresentanti europei. Difficile dire a cosa serva Catherine Ashton, che si fregia del pomposo titolo di Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza dell'Unione. Nessuno sa cosa pensino 27 ministri degli Esteri, ibridi figuranti di un'Unione fatta di Stati non più sovrani e non ancora federali. Quanto ai popoli, non controllano in pratica più nulla: né l'economia, né il Mediterraneo, né le guerre mai discusse dall'Unione.
Per la storia che ha alle spalle (una storia di democrazie e Stati restaurati grazie all'unione delle proprie forze, dopo secoli di guerre religiose e ideologiche), l'Europa ha gli strumenti intellettuali e politici per divenire un alleato delle primavere arabe in bilico, e di paesi che faticano a coniugare l'autorità indiscussa dello Stato e la democrazia. E resta un punto di riferimento laico per i tanti - in Libia, Egitto, Tunisia - che vedono la democrazia o catturata dai Fratelli musulmani, o minacciata dai fondamentalisti salafiti.

La via di Jean Monnet, nel dopoguerra, fu la combinazione fra gli interessi e le passioni, dunque la messa in comune delle risorse (carbone e acciaio) che dividevano Germania e Francia. La Comunità del carbone e dell'acciaio (Ceca), fu nel 1951 l'embrione dell'Unione: gli Stati non si limitavano più a cooperare, ma riconoscevano in istituzioni sovranazionali un'autorità superiore alla propria. In seguito le istituzioni si sarebbero democratizzate, con l'elezione diretta di un Parlamento europeo sempre più influente. Così potrebbe avvenire tra Europa e Sud Mediterraneo, grazie a una Comunità non basata sul carbone e l'acciaio, ma sull'energia (o in futuro sull'acqua).

Un piano simile è stato proposto, nell'ottobre 2011, da due economisti di ispirazione federalista, Alfonso Iozzo e Antonio Mosconi. L'idea è che Washington non sia più in grado di garantire stabilità e democrazia, nel Mediterraneo e Medio Oriente. Di qui l'urgenza di una Comunità euromediterranea dell'energia: energia spesso potenziale, difficilmente valorizzabile senza aiuti finanziari e tecnologici europei: "Il principio di una Comunità tra eguali è essenziale e ricorda la rivoluzione realizzata dall'Eni di Enrico Mattei, che ruppe il monopolio delle "sette sorelle" petrolifere concedendo per la prima volta alla Persia la gestione in parità delle risorse petrolifere del paese". La nuova Comunità deve "riconoscere ai paesi associati la proprietà delle risorse energetiche e degli impianti, dando all'Europa diritti di utilizzazione su una quota dell'energia prodotta, per un periodo determinato con aumento progressivo della quota utilizzata localmente, in cambio delle tecnologie e degli investimenti effettuati". Si dirà che è solo una comunità di interessi. Lo si disse anche per la Ceca. In realtà l'ambizione politica è forte: sostituire il modello egemonico con un modello paritario e chiedere agli associati precisi impegni democratici, controllati da una comune Assemblea parlamentare.

Sostituire o affiancare il potere Usa nel Mediterraneo vuol dire prendere atto che quel modello non funziona: ha creduto di esportare democrazia con le guerre, creando Stati fallimentari e rafforzando Stati autoritari. Le democrazie (Israele compresa) hanno sostentato per anni i fondamentalisti (i talebani contro l'Urss, Hamas contro l'Olp) e volutamente ignorano una delle principali fonti delle crisi odierne: l'Arabia Saudita, finanziatrice dei partiti salafiti che minano le barcollanti, appena nate democrazie arabe.

Obama è alle prese con importanti insuccessi. Nonostante il discorso di apertura all'Islam tenuto nel 2009 al Cairo, il diritto della forza prevale spesso sulla forza del diritto, come per Bush. Abbiamo già citato l'Arabia Saudita, non meno pericolosa dell'Iran e tuttavia esente da obblighi speciali. Permane l'influenza della destra israeliana su Washington, con effetti nefasti sul Medio Oriente. Guantanamo non è stata chiusa come promesso (risale all'8 settembre la morte di un prigioniero, Adnan Latif, torturato per 10 anni senza processo, nonostante l'ingiunzione dei tribunali a rilasciarlo). L'Iraq è liberato, e nessuno protesta contro i pogrom polizieschi della popolazione gay, testimoniati in questi giorni da un documentario della Bbc. Le guerre scemano, ma sotto Obama l'uso di droni senza piloti è sistematico, in Pakistan, Somalia, Yemen: le uccisioni mirate in zone non belliche "distruggono 50 anni di legge internazionale", sostiene l'investigatore Onu Christof Heyns. La questione ci concerne. Obama risponderà all'attentato di Bengasi con droni che forse partiranno da Sigonella, e sul loro uso il governo italiano non potrà tacere.

Tocca all'Europa dare speranze al Mediterraneo, difendere le sue democrazie. Se si dà un governo, l'Unione avrà l'euro e una politica estera. Solo in tal caso il colpo di fucile che udiamo nei paesi arabi potrà svegliare, come nella poesia di Montale, un'Europa il cui cuore "ogni moto tiene a vile, raro è squassato da trasalimenti".

(19 settembre 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #186 inserito:: Ottobre 04, 2012, 03:43:36 pm »

L'analisi

La latitanza dei partiti

di BARBARA SPINELLI

ANCORA non è chiaro se il presidente del Consiglio Monti contempli oppure no la possibilità di restare a Palazzo Chigi dopo le elezioni. A New York ha detto di sì, il 27 settembre. Ma tornato a Roma è stato più vago: "Lascerò il governo ad altri, nei prossimi mesi". Di certo, però, l'idea di un Monti-bis occupa le menti di molti partiti, e anche degli elettori, e il fatto che sia un'idea avvolta di mistero la rende perfino più insinuante. Monti c'è e non c'è, ha bravure tecniche e una ritrosia istintiva a schierarsi che gli dà una forza peculiare. Una forza non necessariamente positiva: mistero, miracolo, autorità refrattaria alla politica sono attributi del cesarismo. L'altro ieri ha specificato che la classica divisione destra-sinistra va sostituita da quella tra evasori e non evasori: l'estraneità alla politica e al suo progettare pare evidente.

È opinione diffusa che la dichiarazione di New York sia una risposta ai mercati, di nuovo innervositi dall'instabilità italiana. È per rassicurarli che Monti ha detto: "State tranquilli, se opportuno riprendo le redini io". Se le cose stanno così, non stupisce che abbia scelto come platea gli Stati Uniti e non l'Italia. Non da oggi infatti sono due, gli uditori e gli àmbiti territoriali (le constituency) cui gli aspiranti al comando devono rispondere: la constituency dei mercati e quella che democraticamente vota i candidati ai vertici degli Stati. Fin dal 1998, l'ex presidente
della Bundesbank, Hans Tietmeyer, parlò del "plebiscito permanente" (permanentes Plebiszit), che i mercati esercitano minuto dopo minuto sulle politiche nazionali, disciplinandole. A questo elettorato non nazionale ma transnazionale si è rivolto Monti, giovedì, convinto forse che il plebiscito di investitori planetari sia determinante e prioritario.

È come se il secondo plebiscito, affidato dalle costituzioni alla sovranità popolare, sbiadisse sino a svanire, rimosso dal primo. L'epoca che viviamo è per molti versi postcostituzionale (è il motivo per cui urge dare all'Unione una Costituzione vera, scritta dai parlamentari europei, non dai governi), e son simili epoche, secondo il filosofo Leo Strauss, che secernono fatalmente il cesarismo. D'altronde Monti lo disse in due occasioni, il 7 agosto e il 16 ottobre 2011 sul Corriere, nell'autunno di Berlusconi. La prima volta annunciò che il governo "aveva accettato, nella sostanza, un 'governo tecnico'". Formalmente la primazia della politica era intatta, ma "le decisioni principali sono prese da un governo tecnico sopranazionale" (un "potestà forestiero"). Due mesi dopo, descrivendo l'ira dei mercati e di Bruxelles, scrisse che l'Italia era "già oggetto di 'protettorato'". Europa, America, Asia erano persuase che a "far saltare l'eurozona" saremmo stati noi, non Atene. Grazie al proprio governo il pericolo sarebbe oggi sventato. Ogni giorno il ministro Grilli assicura che la nostra sovranità è ripristinata, che non dovremo chiedere aiuti all'Unione (che male ci sarebbe a chiederli, se l'Unione è solidale con Stati che comunque non sono più sovrani e se la sua ricetta è quella di Monti?).

L'indeterminatezza di Monti può nascere da un calcolo o da una ritrosia, come può nascere da calcolo o ritrosia il rifiuto di misurarsi con altri pretendenti nella competizione elettorale. Un rifiuto legittimo  -  il premier è senatore a vita  -  ma non del tutto congruo: un senatore a vita che governa deve poter essere giudicato dalle urne oltre che dai mercati. Il problema è che pochi gli ricordano che candidarsi e parlare di programmi e alleati è dovuto, in democrazia. Qui è il pericolo, ma anche il fascino, che il cesarismo postpolitico pare esercitare.
È una delle singolarità italiane su cui vale la pena riflettere. In Grecia, in Spagna, cittadini indignati denunciano con impeto quello che vivono come diktat non tanto esterno, quanto inconfutabile. In Italia le proteste si frammentano, i sindacati gridano, ma le piazze non si riempiono. Non è una sciagura, ma è una passività colma d'ira che ha qualcosa di malato ed è un'anomalia, nella cosiddetta periferia d'Europa. Sembra confermare quello che Luciano Canfora considerava, nel 2010, la questione cruciale dei nostri tempi: i governi europei hanno scelto la strada dell'abdicazione, per quanto attiene a poteri decisionali fondamentali, in favore degli "esperti". Seguendo alla lettera Tietmeyer, prediligono di fatto il permanente plebiscito dei mercati (Critica della retorica democratica, Laterza).

Ma i primi responsabili del male non sono i mercati. Essi constatano il vuoto di politica, e lo riempiono con loro ansie, esigenze. Responsabili della diserzione sono i partiti, i politici che antepongono la sete di potere alla competenza. E responsabile è il popolo italiano, che a questo andazzo ventennale s'è assuefatto se non affezionato.

L'abdicazione dei partiti è ricorrente, palese. Se davvero volessero governare, se non fossero anch'essi attratti dalla passività, riconoscerebbero che i poteri dei mercati tendono a espandersi naturalmente (vale anche per i mercati quel che dice Montesquieu: "Chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva sin dove non trova limiti. Perché non si possa abusare del potere occorre che il potere arresti il potere". Solo il politico può frenare l'abuso, correggere la vista corta di chi giudica solo il minuto, e contrapporre un potere legittimato democraticamente che duri un po' più a lungo di una seduta di borsa).

Ma i partiti vogliono veramente governare? Vogliono essere protagonisti, o preferiscono assegnare il compito a esperti e tecnici, pur di evitare il difficile o l'impopolare? Tutto fa pensare che un potere così rischioso non lo desiderino, né a destra né a sinistra. Se davvero ambissero a governare, e non solo a espugnare un ben remunerato spazietto, predisporrebbero alleanze durature. Ma soprattutto, approverebbero presto una legge elettorale che non distribuisca ai partiti poteri proporzionalmente spezzettati e quindi privi di responsabilità, ma che permetta la nascita di coalizioni dotate sia di potere sia di responsabilità. Difficile rintracciare questa volontà, debole in Bersani e ancor più in Renzi. Quest'ultimo vuol rifondare il Pd, e la volontà è meritoria e popolare, ma anch'egli s'inviluppa nell'indeterminatezza. Non dicendo con chi governerà, e ripetendo che Monti è il suo faro, cade nella trappola come i concorrenti o avversari. Ogni partito ha lo sguardo fisso su se stesso, pur sapendo perfettamente che da soli si naufraga. Se la legge elettorale non produrrà governi forti, ricadremo nella strana maggioranza di oggi: non una grande coalizione, ma un'accozzaglia di partiti che in solitudine insuperbiscono e in solitudine si corrompono tanto più facilmente.

Anche il popolo elettore tuttavia ha le sue responsabilità. Non dai tempi di Berlusconi, più volte rieletto, ma da molto prima, nutre sfiducia nella politica, nei propri rappresentanti, nello Stato. Non mancano le ragioni, e Grillo non cade dal cielo. A tal punto inaffidabili si sono rivelati i partiti e la politica italiana, inviluppata non nel mistero soltanto ma nella corruzione. Il Movimento 5 stelle misura le febbri italiane, le diffidenze degli elettori, la sfiducia che essi hanno in se stessi, la delusione accesa da alternanze e alternative mancate. Da questo punto di vista è vero che l'Italia è più debole della Grecia. Anche Atene è appesantita da ruberie e lobby, ma almeno dopo un governo tecnico è tornata alla politica, ha potuto scegliere tra visioni opposte della crisi e delle terapie. In Italia no, tutte le istituzioni vacillano, e nell'inerzia si continua a implorare un Cesare postcostituzionale. È così da quando è finita la prima Repubblica. La seconda non è mai cominciata. Tutti questi anni sono passati nell'inane, fallito tentativo di uscire dalla prima.

(03 ottobre 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #187 inserito:: Novembre 14, 2012, 05:44:29 pm »

IL COMMENTO

Un Pantheon senza bussola

di BARBARA SPINELLI


MOLTO presto si è capito, guardando il dibattito tra i candidati alle primarie del centrosinistra 1, che qualcosa di essenziale mancava. Che il palcoscenico occupato dagli attori era simile a una sfera, di cui potevi ammirare o non ammirare la superficie, ma privata di centro. Non abbiamo contemplato il vuoto. Non era assente la voglia di fare politica: anche se voglia parecchio neghittosa, perché restituire alla politica l'importanza perduta implicherebbe riconoscere peccati di omissione non indifferenti, passati e presenti. La bussola c'era, nella sua sferica forma: quel che l'occhio non percepiva era il perno che fissa l'ago magnetico, e che gli dà la sua linea di forza.

Cosa dovrebbe esserci, al centro di uno schieramento che dice di battersi per una sinistra progressista? Per forza una tradizione, una storia, un tempio, meglio ancora un Pantheon che contiene le tombe dei propri uomini illustri. L'ago magnetico non può che partire da lì, altrimenti si muove impazzito in ogni sorta di direzione, senza mai segnalare con chiarezza il Nord. Quando il centro è ovunque e da nessuna parte, sostituito dalle persone che parlano agli elettori (la persona Bersani, o Vendola, o Renzi, o Tabacci, o Puppato) vuol dire che dietro la loro divina genialità - la loro maschera - non esistono genealogie né memoria storica di sé.

Il momento rivelatore di questa perdita del centro è stato quello in cui i cinque candidati hanno elencato i loro monumenti ideali, gli uomini illustri del loro Pantheon, individuale o collettivo. Alcuni erano grandiosi: Papa Giovanni ad esempio, indicato da Luigi Bersani come un uomo che seppe operare "cambiamenti profondi, ma sempre rassicurando", mai seminando spavento. O il cardinale Martini, nominato come stella polare da Nichi Vendola. Due uomini di chiesa, cui si sono aggiunte personalità care a Renzi come Nelson Mandela e Lina, la famosa blogger tunisina.

Del tutto eclissati, nella più sorprendente delle maniere, sono d'un colpo gli uomini che della sinistra sono i veri padri fondatori, i veri aghi della bussola: compresi i padri che si sono aggiunti man mano che il progressismo italiano, senza dirlo ma nei fatti, ha cominciato una sua nuova strada, non più rivoluzionaria ma socialdemocratica. Due ecclesiastici, un eroe della lotta anti-apartheid, un blogger: è bello, ma somiglia molto a una decerebrazione. I centri nervosi del cervello vengono separati dai centri posti inferiormente, scrivono i bollettini medici: il lobotomizzato perde la capacità di movimenti volontari anche se riesce a mantenere la posizione eretta. È come se ci si vergognasse di dichiararsi eredi. Di avere alle spalle un testamento, dunque un'alleanza. Magari i candidati dicono perfino qualcosa di sinistra, ma questo qualcosa è piatto, non ha radici, fluttua come foglia sulle acque, si fa volutamente piccolo e insignificante. Come Bersani quando ha ammesso, qualche settimana fa: "Abbiamo qualche difettuccio, ma di meglio in giro non c'è".

Tutto questo è strano e inedito, se lo paragoniamo alla coscienza di sé che le sinistre hanno generalmente in Europa. Anche quando tradiscono. Soprattutto quando tradiscono. In Germania il pensiero della sinistra, e anche dei Verdi, va automaticamente a lanterne come Willy Brandt, o a resistenti come Kurt Schumacher. In Francia ci si divide su Mitterrand, ma tanto più vivo è l'attaccamento a Léon Blum e al suo Fronte popolare, o a Jean Jaurès, o al fondatore della scuola laica che fu Jules Ferry. Non così in Italia, anche se di figure memorabili ne abbiamo anche noi.

Berlinguer ad esempio: perché Bersani, figlio del Pci, salta un dirigente che vide con acume e sgomento, nell'81 parlando con Eugenio Scalfari, la trappola del consociativismo e del compromesso storico da lui stesso congegnata? "I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai Tv, alcuni grandi giornali".

Fu un grido di rivolta contro il proprio partito, un presentimento di possibili vie d'uscita. Un grido tuttora inascoltato, se solo consideriamo l'atteggiamento corrivo che i suoi eredi hanno avuto per quasi vent'anni verso Berlusconi. Il modello, sconfessato o tradito, si fa imbarazzante. Da questo punto di vista Bruno Tabacci è apparso il più libero di complessi: i suoi esempi - De Gasperi innanzitutto, su Marcora i dubbi sono leciti - hanno radici inconfutabili nella storia del cattolicesimo politico italiano.

Imbarazzo e vergogna di sé (anche Vendola ne è affetto) spiegano l'omissione di altri antenati, che assieme alla sinistra hanno lottato contro le degenerazioni economiche e le corruttele italiane: non appartenenti al Pci ma a formazioni come il Partito d'Azione o il socialismo. Sono tanti. Ma quando si perde il centro precipitano nell'oblio le vette di preveggenza e saggezza che furono Piero Calamandrei, Vittorio Foa, Federico Caffè, Sylos Labini. O, fortunatamente citata da Laura Puppato: Tina Anselmi, cancellata perché fece piena luce, troppa probabilmente, sulle trame della P2. Data addirittura per defunta dal giornalista Vittorio Feltri, recentemente davanti a una platea televisiva muta, egualmente decerebrata. In Italia evidentemente si muore anche da vivi. È la nostra specialità cinica e crudele. Leopardi la chiamava la nostra incompatibilità con gli slanci, i dolori, le speranze delle epoche romantiche vissute da altre nazioni europee.

Nel Pantheon sostitutivo ci sono due stranieri, come Mandela e la blogger Lina Ben Mhenni. Anche questo è bello e nobile, perché ci fa uscire dalla provincia. Ma la sinistra quando esce dalla provincia percorre grandi distanze, ha sogni di esotismo, e in questo Renzi è apparso più di altri vecchio. Se avesse citato Che Guevara sarebbe stato la stessa cosa. Perdere il centro vuol dire non far spazio all'Europa, e correre molto lontano restando qui, inchiodati dentro casa e nel presente. Vuol dire lasciare nel buio personaggi come Albert Camus, subito europeista dopo la guerra. O William Beveridge, ideatore di un piano del Welfare che dall'Inghilterra trasmigrò presto nel continente liberato: era un liberale profondamente influenzato dal socialismo della Fabian society, e militò con convinzione per l'unificazione dell'Europa.

Beveridge è punto di riferimento ineludibile per chiunque voglia resuscitare lo spirito di Ventotene (Vendola l'ha evocato, dunque vorrebbe forse riesumarlo) sapendo che l'idea d'Europa nacque in piena guerra fratricida dando al futuro tre obiettivi fondamentali: la federazione del continente, la democrazia, e lo Stato sociale.

Infine mancano riferimenti laici, accanto a quelli religiosi: come Ernesto Rossi, collocato oggi in un Pantheon per pochi aficionados, nonostante l'attualità delle sue battaglie europeiste e laiche. Assenti anche i martiri dell'antimafia, e tanti altri che non enumero solo perché lo spazio non basta.

Perdere il centro non significa naturalmente perdere le elezioni. Ma perdere la bussola sì, e con essa la memoria e la capacità di cercare, se non trovare, il Nord. Significa entrare nel futuro con tali e tanti complessi, tali e tante cautele, che il passo si fa claudicante. Mai spavaldo, come in chi discende da una lunga storia e pur facendo i conti con essa non si sente obbligato a dimenticarla.

(14 novembre 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #188 inserito:: Novembre 18, 2012, 03:15:21 pm »

LE IDEE

Il fattore P e i re negligenti

di BARBARA SPINELLI


Esiste il fattore P (fattore Politica), come in guerra fredda esisteva, secondo la formula che Alberto Ronchey escogitò nel 1979, il fattore K, da kommunizm in russo. Il fattore K impedì all'Italia, per mezzo secolo, di darsi una democrazia compiuta. Troppo potente era il Pci, perché fossero ammesse vere alternanze. La democrazia, bloccata, s'incancrenì presto: assicurata l'immobile permanenza del trono, tutto era permesso. Il fattore P è più subdolo: quel che oggi si tende a escludere, ma senza dirlo, è la Politica tout court, intesa come dibattito fra visioni che si contrappongono perché la migliore sia votata, sperimentata, o respinta. Ovvio che se vien sottratta la politica-dibattito evapora anche la democrazia, che è sovranità del popolo ma, forse ancor più, controllo dei governati sui governanti. L'esclusione è subdola perché chi esce da questo schema subito è sospettato di antipolitica.

Se il fattore K nacque dalla guerra fredda, il fattore P è frutto insidioso della crisi economica, che alla guerra somiglia sempre più. La nazione in guerra non discute: si mobilita. La via d'uscita è univoca, e chi può tracciarla meglio dei tecnici, generali o economisti? Quel che accomuna le guerre e le grandi crisi è lo stato di ineluttabilità, che riduce le libere alternative. Il Regno della necessità si fa legge di natura, e s'installa a dispetto di smentite o disavventure.

La prevalenza del tecnico non è un fenomeno solo italiano: lo spiega Ralph Bollmann sul numero di settembre della rivista Merkur, esaminando il ruolo, "quasi sempre negativo", che gli esperti economici hanno avuto in Germania: a cominciare da Ludwig Erhard, Cancelliere dopo Adenauer, che fu ingegnoso negli anni dell'occupazione alleata, non dopo. Né è un fenomeno esclusivamente nazionale: l'Unione europea rischia analogo rattrappimento. Il tecnico Monti agisce politicamente, ma non senza una certa impazienza per la dialettica politica democratica, e per le sue lentezze parlamentari (intervista a Spiegel, 5-8-12).

Un fastidio simile lo spinge a difendere la tecnocrazia di Bruxelles, in un libro scritto con l'eurodeputata Sylvie Goulard (La democrazia in Europa, Rizzoli). Quel che si deduce dall'estratto apparso domenica su Repubblica è di grande interesse. Il libro chiede un'Unione più democratica, e a giusto titolo ricorda che se l'Europa non si fa, la colpa non è degli eurocrati ma dei governanti nazionali, della loro procrastinazione, imperizia, strapotere. Ma la tesi centrale, nel brano pubblicato, è un'altra: "A livello europeo, la richiesta di più "politica" risulta alquanto sconcertante. Da un lato perché essa mostra di ignorare il carattere intrinsecamente politico del progetto europeo sin dai suoi esordi (...). Dall'altro perché l'esperienza insegna che "più politica" tante volte significa meno rigore e più problemi: i giochi della politica minano la fiducia nelle istituzioni comuni; gli scambi di favori (...) possono portare ad accogliere nell'Eurozona uno Stato che non soddisfa del tutto i criteri richiesti, a chiudere un occhio su un deficit pubblico o ancora a ignorare una pericolosa bolla immobiliare".

I politici, secondo gli autori, non solo dissipano forze e tempo nel gioco della politica (l'incubo italiano è sempre quello: la contesa fra guelfi e ghibellini, la politica come gioco, o teatrino). Peccano soprattutto di imperizia, avendo ignorato le bolle finanziarie generatrici della crisi. Così come pecca il popolo, animato più da "pulsioni" che da ragionamenti. Ambedue, politici e popolo, eludono il solo farmaco che guarisca: i governi di unità nazionale, atti a "rassicurare gli investitori e i partner europei".

"Più politica tante volte significa meno rigore e più problemi": ecco la frase chiave, che tradisce impazienza di fronte alla politica-controversia. Un poco somiglia al disprezzo che Donoso Cortés nutriva, nell'800, per la clase discutidora dei Parlamenti borghesi. La guerra economica, in altre parole, meglio lasciarla ai periti tanto è complessa. Ma è proprio vero? Da quel che si sa, quasi nessun perito previde la crisi del 2007-2008. Perfino la regina d'Inghilterra se ne stupì, nel novembre 2008, in un incontro con eminenti economisti alla London School of Economics, e chiese: "Possibile che non abbiate visto venire nulla? Why did nobody notice it?". Chi aveva visto e suonato l'allarme fu per anni considerato uno stravagante, dentro e fuori le accademie. Quanto al governo tecnico italiano, sono tanti gli errori, troppi per non destare il sospetto che anche l'intenditore si districhi a fatica. Il problema non sono le battute, di cui Monti si rammarica. Dietro le battute ci sono sviste, calcoli mal fatti o fatti a tavolino, e marce indietro che denotano ragionamenti (e convinzioni) non sempre stabili. Ci sono le incessanti titubanze sugli esodati; i tagli di fondi (poi parzialmente ritirati) per i malati di Sla; la legge sulla corruzione, che lascia impuniti reati gravi quali il falso in bilancio e l'auto-riciclaggio; i tagli alla pubblica istruzione; l'aumento di ore di lavoro degli insegnanti a parità di stipendio, poi sconfessato; il pasticcio del tributo Imu per la Chiesa. I tecnici sono d'aiuto, in crisi e in guerra. Ma senza convinzioni civili forti rischiano di cadere anch'essi nella procrastinazione, nel disorientamento.

E i politici? I politici e i partiti continuano a delegare al tecnico i propri compiti. Scrive ancora Bollmann che gli unici esperti di politica restano pur sempre i politici.
Solo loro sanno trovare equilibri accettabili tra bisogni di cassa e bisogni del Paese, tra economia e Stato di diritto, tra nazione e mondo. Solo loro possono pensare nuovi modelli di sviluppo, attento al clima e alla tutela del bene pubblico. I tecnici sono il più delle volte, come diceva Friedrich Schlegel a proposito degli storici, "profeti volti all'indietro". Stabilizzano il presente, anche parlando del futuro. Di rado sono i fondatori di ordini nuovi, in casa e in Europa.

Il guaio è che i politici in Italia non vogliono esserlo. Sono affetti da nolitio, non-volontà. Temono, se rifiutano le unità nazionali, l'epiteto dell'antipolitico, del demagogo.
Sono anch'essi inorriditi dalle "pulsioni" del popolo (Grillo è pulsione). Somigliano ai re negligenti, che Dante colloca in un'aiuola fiorita dell'Antipurgatorio.
Mettendosi da parte, s'aggrappano al potere per il potere: terreno tra i più propizi per la corruzione morale. Se non fosse così, non si darebbero tanto da fare per fabbricare una legge elettorale che lascia in piedi tutte le storture della legge precedente tranne l'unico vantaggio che aveva: far uscire dalle urne una maggioranza chiara.

In guerra fredda, un tacito accordo (la conventio ad excludendum) allontanava il Pci dal potere. Oggi la conventio allontana la politica. È l'argomento di Ilvo Diamanti, su Repubblica di lunedì: Monti è stato designato in quanto tecnico non eletto. "Perché non deve rispondere ai cittadini delle sue scelte. Ha ottenuto la fiducia del Parlamento proprio perché non è un politico. Per questo si fanno largo progetti di legge elettorale con l'obiettivo di impedire a qualcuno di vincere davvero. Per costringere le principali forze politiche al compromesso. Come nella Prima Repubblica. Per riproporre Monti al governo".

Lo scenario non è diverso in Europa. "La richiesta di più politica risulta alquanto sconcertante", scrive Monti. Perché sconcertante? Quando la politica si autoesclude in quanto inesperta, non resta che la tecnocrazia e questo diventa un problema. La domanda di più politica, e di partiti che anche in Europa lavorino a un ordine nuovo, è più che giustificata in una crisi che corrode il progetto europeo degli esordi. Marx diceva che i governi moderni sono semplici comitati d'affari delle forze di mercato.
 
Oggi il caso pare aggravarsi. Per lungo tempo, l'eurocrazia fu un servizio tecnico degli Stati. Ora anche i governi nazionali sono servizi tecnici. Comitati d'affari nazionali d'un comitato d'affari europeo, in un circolo vizioso che solo il ritorno alla politica, dunque della speranza, può spezzare.

(17 novembre 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #189 inserito:: Novembre 28, 2012, 11:24:19 pm »

Il parlar-vero delle primarie

di BARBARA SPINELLI


MOLTO dipende ora da quel che si farà, nel Pd e nel centrosinistra, del tesoro accumulato alle primarie di domenica, e di quel che esse rivelano: un'enorme domanda di democrazia, e un bisogno, possente, che la politica torni in primo piano. Che non si nasconda dietro governi tecnici come se non fosse capace, per incompetenza o neghittosità, di pesare con idee alternative sulla crisi e le sofferenze che ne discendono.

Non è detto che 3,1 milioni di elettori desiderino estromettere gli esperti, estranei ai partiti e allergici ai loro conflitti. Il voto è probabilmente spurio: in parte il popolo delle primarie vuole che partiti o movimenti ricomincino o comincino a governare, in parte è complice della sospensione della politica democratica classica, fatta di alternanze e ancor più di alternative alle ricette presenti. Resta che i cittadini si sono incaponiti nella loro domanda di politica, nella loro voglia di contare, e il voto l'hanno dato a candidati che per settimane si sono battuti non per guidare un partito, non per figurare meglio in Parlamento, ma per governare l'Italia in prima persona.

Le categorie che Albert Hirschmann teorizzò in un famoso saggio del 1970 sono più che mai attuali: alla strategia del tirarsi fuori (dell'exit), la cittadinanza antepone la presa di parola (il voice). Il voice è per natura partecipativo e "informativo" (cerca una spiegazione del declino incombente sulla Repubblica). L'exit prende atto del declino, non va oltre: è un ammonimento, necessario ma non sufficiente.

Quel che molti elettori sembrano chiedere è che le primarie non siano un Truman Show, un cinema che proietta il film illusorio di un'alternativa riservandosi poi di proporre governi tecnici appena differenti dall'attuale. Conviene sapere quel che si dice, quando si afferma che più di tre milioni desiderano contare. Se pensano di poter contare, vuol dire che prendono per vera la ripetuta promessa dei candidati: il prescelto andrà a Palazzo Chigi, non s'è presentato alla ribalta con l'intimo retropensiero di capovolgere poi quel che ha raccontato. Una così massiccia affluenza alle urne non è il rifiuto della rabbia cui viene dato il nome frettoloso e comodo di antipolitica. È una presa di parola che costruisce sulla premonizione del declino. Tra exit e voice ci sono più legami di quanto si immagini.

Non si può escludere, insomma, che gli elettori alle primarie rifiutino il protrarsi dello stato di emergenza e le maggioranze solo numeriche che dopo l'uscita di Berlusconi si sono installate al potere. Rivendica maggioranze politiche. Il quasi ventennio berlusconiano non può esser più grave di quello fascista, e dal fascismo si uscì con la politica e una Costituzione, oggi da ripristinare come sostengono Salvatore Settis e Gustavo Zagrebelsky. Se la democrazia fu bloccata per decenni, dopo il '45, non fu solo perché s'imponesse una lunga decompressione dopo Mussolini, ma anche e soprattutto perché era iniziata la guerra fredda e il Pci era troppo forte. Se ricominciare il normale conflitto democratico fu possibile allora, con l'Italia a pezzi, perché non oggi? Perché non usciamo da una guerra?

Se queste cose non vengono dette con precisione, e comunicate subito al centro con cui forse si governerà, vorrà dire che le primarie sono servite a poco, e che l'euforia è un po' chimerica. Non sarebbe d'altronde la prima volta che la volontà popolare cade nel vuoto. Ricordiamo i no al finanziamento pubblico dei partiti; a alleanze governative decise dopo il voto e non prima; a improvvisati mutamenti della Costituzione (respinti da 16 milioni, nel referendum del 2006). Ricordiamo il no a leggi elettorali che impediscono al cittadino di selezionare i propri rappresentanti, anche se non c'è stato referendum.

Non solo: se i finalisti delle primarie non saranno chiari su tali questioni, le stesse elezioni politiche rischieranno l'irrilevanza, qualora il verdetto venisse stravolto e gli elettori raggirati. Invocare il ritorno della politica equivale a chiedere che la politica ci sia e abiti a Palazzo Chigi, avvalendosi magari di Monti come ministro. Che la dialettica politica non sia sospesa in nome di una presunta nostra immaturità, e che possano esser messe alla prova altre linee politiche, se le agende dei governi precedenti non hanno dato risultati convincenti.

Solo a queste condizioni si possono usare le parole che circolavano domenica: bagno di democrazia, bella giornata. Solo a condizione di rompere il cielo di plastica che avvolge il Truman Show, e di dire ai votanti l'intera verità: sulle condizioni che saranno poste a futuri alleati, e sulla parola data (Bersani ha detto che torneremo alle urne, se Palazzo Chigi sarà negato al candidato con più voti).

Il compito di parlar-vero spetta sia a Bersani sia a Renzi. Nessuno dei due potrà dire una cosa in campagna, e poi accordarsi con chi esigerà che Monti resti perché mancheranno i numeri per governare senza Casini e le lobby montiane. Non dimentichiamo quel che Monti dice non oggi ma da anni: solo con sacre alleanze l'Italia uscirà dalla crisi; non con le alternanze che fondano la democrazia. Chissà se i votanti alle primarie sono tutti d'accordo con simili concezioni.

Ci sarà dunque bisogno non di euforia ma di fredda limpidezza, nel duello Bersani-Renzi. Limpidezza sulla natura delle primarie, che sono pur sempre una scelta fra candidati premier, non tra chi garantisce di rappresentare meglio di altri il Pd, nei negoziati che potrebbero riprodurre la soluzione Monti (magari spostata a sinistra) e quel che essa ha in fin dei conti significato: l'accantonamento dell'alternanza, la fine di un bipolarismo anche se imperfetto, e una linea economica che si sottrae, ritenendosi l'unica praticabile, al sì o al no delle urne.

L'unico candidato trasparente, su alternanza e alternativa, è Vendola: quel che chiede infatti è un'idea diversa di sviluppo e risanamento, e anche un'Europa più politica e davvero federale (il riferimento al Manifesto di Ventotene è esplicito). Le primarie sono un esercizio di stile, se Bersani e/o Renzi emargineranno non tanto la persona Vendola quanto il suo discorso di verità sulle nuove vie da tentare, quando i politici torneranno a governare. Se Bersani si occuperà solo degli elettori di Renzi (e viceversa) avremo primarie del Pd. Non di una coalizione di governo.

Si obietterà che l'alleanza Bersani-Vendola (o Renzi-Vendola) si svuoterà, in assenza di una maggioranza al Parlamento. Che non potrà fare a meno del centro, e di chi imporrà, perentoriamente, il Monti bis. Che sarà già un progresso, se il Monti bis rappresenterà il centro sinistra promettendo più equità. Forse è vero ma almeno lo si dica, alle primarie e alle politiche. E si dica subito a Casini, e alle liste montiane, che la loro forza non nasce dai numeri, ma da quella che Ezio Mauro chiama un'auto-unzione.

Non è detto che l'operazione verità riesca, perché il centrosinistra ha sorretto Monti e meditato poco su alternanze e alternative. Il marasma sociale non è quello della Grecia ma scuola e sanità sono in quasi bancarotta, dopo le ricette montiane. Quando nel pronto soccorso del San Giovanni Bosco a Torino c'è chi aspetta 4 giorni per essere accolto ("non ci sono posti") è già Grecia, e non è vero che il peggio è finito.

Neppure un minuto, Bersani e Renzi si sono battuti per inventare un'Europa che faccia crescita quando agli Stati tocca il rigore (dunque un governo politico dell'Unione, con risorse di bilancio consistenti). Del tutto confusa, infine, la battaglia per una legge elettorale che rappresenti i cittadini ma garantisca pur sempre alla coalizione vincente di governare. E non parliamo qui della lotta anti-mafia, assente nei discorsi, o della misera legge anticorruzione che discolpa reati come falso in bilancio e autoriciclaggio.

Dicono che la sinistra è troppo triste. Per anni fu lo slogan di Berlusconi, purtroppo ripreso da Renzi. Se le primarie vogliono essere un esercizio di verità, anche questo luogo comune va sfatato. Non c'è da stare allegri, con la crisi che traversiamo, con l'ambiente svenduto all'Ilva o i pronti soccorsi intasati. La tristezza registra la verità che viviamo. Anch'essa può dare l'euforia di cui c'è bisogno, e spingere al voice anziché all'exit.

FRATTAGLIE
Alle primarie 2005 Prodi fu eletto candidato Premier (4,5 milioni di voti) e lo divenne.
Monti stesso ha detto domenica: "Un altro governo tecnico sarebbe una sconfitta per la politica".

(28 novembre 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #190 inserito:: Dicembre 12, 2012, 05:38:30 pm »

Lo spirito del tempo

di BARBARA SPINELLI


L'EUROPA, cui ci siamo abituati a guardare come al Principe che ha il comando sulle nostre esistenze, sta manifestando preoccupazione, da giorni, per il ritorno di Berlusconi sulla scena italiana. È tutta stupita, come quando un'incattivita folata di vento ci sgomenta. I giornali europei titolano sul ritorno della mummia, sullo spirito maligno che di nuovo irrompe. Sono desolate anche le autorità comunitarie: "Berlusconi è il contrario della stabilità", deplora Martin Schulz, presidente del Parlamento europeo.

Tanto stupore stupisce. Primo perché non è così vero che l'Unione comandi, e il suo Principe non si sa bene chi sia. Secondo perché i lamenti hanno qualcosa di ipocrita: se il fenomeno Berlusconi ha potuto nascere, e durare, è perché l'Europa della moneta unica lo ha covato, protetto. Una moneta priva di statualità comune, di politica, di fiato democratico, finisce col dare questi risultati. La sola cosa che non vien detta è quella che vorremmo udire, assieme ai compianti: la responsabilità che i vertici dell'Unione (Commissione, Consiglio dei ministri, Parlamento europeo) hanno per quello che succede in Italia, e in Grecia, in Ungheria, in Spagna.

Se in Italia può candidarsi per la sesta volta un boss televisivo che ha rovinato non poco la democrazia; se in Ungheria domina un Premier  -  Viktor Orbán  -  che sprezza la stampa libera, i diritti delle minoranze, l'Europa; se in Grecia i neonazisti di Alba Dorata hanno
toni euforici in Parlamento e alleati cruciali nell'integralismo cristiano-ortodosso e perfino nella polizia, vuol dire che c'è del marcio nelle singole democrazie, ma anche nell'acefalo regno dell'Unione. Che anche lì, dove si confezionano le ricette contro la crisi, il tempo è uscito fuori dai cardini, senza che nessuno s'adoperi a rimetterlo in sesto. Gli anni di recessione che stiamo traversando, e il rifiuto di vincerla reinventando democrazia e politica nella casa europea, spiegano come mai Berlusconi ci riprovi, e quel che lo motiva: non l'ambizione di tornare a governare, e neppure il calcolo egocentrico di chi si fa adorare da coorti di gregari che con lui pensano di ghermire posti, privilegi, soldi. Ma la decisione  -  fredda, tutt'altro che folle  -  di favorire in ogni modo, per l'interesse suo e degli accoliti, l'ingovernabilità dell'Italia. Chi parla di follia non vede il metodo, racchiuso nelle pieghe delle sue mosse. E non vede l'Europa, che consente il caos proprio quando pretende arginarlo.

Cosa serve a Berlusconi? Un mucchietto di voti decisivi, perché il partito vincente non possa durare e agire, senza di lui, poggiando su maggioranze certe alla Camera come al Senato, dove peserà il voto di un Nord (Lombardia in testa) che non da oggi ha disappreso il senso dello Stato. Così fu nell'ultimo governo Prodi, che aveva il governo ma non il potere: quello annidato nell'amministrazione e quello della comunicazione, restato nelle mani di Berlusconi. La guerra odierna non sarà diversa da quella di allora: guerra delle sue televisioni private, e di una Rai in buona parte assoggettata. Guerra contro l'autonomia dei magistrati, mal digerita anche a sinistra. Guerra di frasi fatte contro l'Europa (Che c'importa dello spread?). Guerra del Nord contro il Sud, se risuscita l'asse con la Lega. L'arte del governare gli manca ma non quella del bailamme, su cui costruire un bellicoso potere personale d'interdizione. La democrazia non funziona, senza magistrati e giornali indipendenti, e proprio questo lui vuole: che non funzioni. Se non teme una candidatura Monti, è perché non è detto che essa faciliti la governabilità.

Ma ecco, anche in questo campo l'Europa ha fallito, non meno degli Stati. La libera stampa è malmessa  -  in Italia, Ungheria, Grecia, dove vai in galera se pubblichi la lista degli evasori fiscali. Ma nessun dignitario dell'Unione, nessun leader democratico ha rammentato in questi anni che il monopolio esercitato da Berlusconi sull'informazione televisiva viola in maniera palese la Carta dei diritti sottoscritta nel 2007. È come se la Carta neanche esistesse, quando importano solo i conti in ordine.

Nessuno ricorda che la Carta non è un proclama: da quando vige il Trattato di Lisbona, nel 2009, i suoi articoli sono pienamente vincolanti, per le istituzioni comuni e gli Stati. Nel libro che ha scritto con l'eurodeputata Sylvie Goulard (La democrazia in Europa), Monti neppure menziona la Carta. Forse non ha orecchie per intendere quel che c'è di realistico (e per nulla comico), nell'ultimo monito di Grillo: "Attenzione alla rabbia degli italiani!". Forse non presentiva, mentre redigeva il libro, il ritorno di Berlusconi e il suo intonso imperio televisivo. Eppure parla chiaro, l'articolo 11 della Carta: "Ogni individuo ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche". Niente è stato fatto, in Europa e negli Stati, perché tale legge vivesse, e perché la stabilità evocata da Schulz concernesse lo Stato di diritto accanto ai conti pubblici.

Il silenzio sulla libera stampa non è l'unico peccato di omissione delle autorità europee, nella crisi. Probabilmente era improrogabile, ridurre i debiti pubblici negli Stati del Sud. Ma l'azione disciplinatrice è stata fallimentare da tanti, troppi punti di vista. Non solo perché alimenta recessioni (due, in cinque anni) che aumentano i debiti anziché diminuirli. Ma perché non ha intuito, nella stratificazione dei deficit pubblici, una crisi politica della costruzione europea (una crisi sistemica). Perché l'occhio fissa lo spread, dimentico del nesso fatale tra disoccupazione, miseria, democrazia. Perché senza inquietudine accetta che si riproduca, nell'Unione, un distacco del Nord Europa dal Sud che tristemente echeggia le secessioni della Lega.

L'antieuropeismo che Lega e Grillo hanno captato, e che Berlusconi vuol monopolizzare, è una malattia mortale (una disperazione) che affligge in primis l'Europa, e in subordine le nazioni. È il frutto della sua letale indolenza, della sua mente striminzita, della cocciuta sua tendenza a rinviare la svolta che urge: l'unità politica, la comune gestione dei debiti, la consapevolezza  -  infine  -  che il rigore nazionale immiserirà le democrazie fino a sfinirle, se l'Unione non mobiliterà in proprio una crescita che sgravi i bilanci degli Stati.

L'ultimo Consiglio europeo ha toccato uno dei punti più bassi: nessun governo ha respinto la proposta di Van Rompuy, che presiede il Consiglio: la riduzione di 13 miliardi di euro delle comuni risorse (10% in meno) di qui al 2020. L'avviso non poteva essere più chiaro: l'Unione non farà nulla per la crescita, anche se un giorno mutualizzerà parte dei debiti. Di un suo potere impositivo (tassa sulle transazioni finanziarie, carbon tax: ambedue da versare all'Europa, non agli Stati) si è taciuto. Anche se alcune aperture esistono: da qualche settimana si parla di un bilancio specifico per l'euro-zona, quindi di mezzi accresciuti per una solidarietà maggiore fra Stati della moneta unica. Ma la data è incerta, né sappiamo quale Parlamento sovranazionale controllerà il bilancio parallelo.

Non sorprende che l'anti-Europa diventi spirito del tempo, nell'Unione. Che Berlusconi coltivi l'idea di accentuare il caos: condizionando chi governerà, destabilizzando, lucrando su un antieuropeismo popolare oltre che populista. Dilatando risentimenti che reclameranno poi un uomo forte. Un uomo che, come Orbán o i futuri imitatori di Berlusconi, scardinerà le costituzioni ma promettendo in cambio pane, come il Grande Inquisitore di Dostoevskij. È grave che il governo Monti non abbia varato fin dall'inizio un decreto sull'incandidabilità di condannati e corrotti. Che non abbia liberalizzato, dunque liberato, le televisioni. Che abbia trascurato, come la sinistra, la questione del conflitto d'interessi. Magari credeva, come l'Europa prima del 1914, che bastassero buone dottrine economiche, e il prestigio personale di cui godeva nell'economia-mondo, per metter fine alla rabbia dei popoli.

(12 dicembre 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #191 inserito:: Dicembre 19, 2012, 05:32:24 pm »

Quando la società è orfana dello Stato

di BARBARA SPINELLI


Mario Monti contro Silvio Berlusconi? Ancora una volta, quel che accade in Italia si decide a Milano: nelle sue istituzioni politiche, nelle sue università, nelle sue aziende, nelle personalità che di qui partono, a intervalli regolari, per conquistare Roma. "Milano è la chiave d'Italia", la clef d'Italie, diceva Margherita d'Austria, zia di Carlo V, quando la caduta del Ducato di Milano mise fine alle libertà dell'Italia nel Cinquecento.

Fu chiave e resta tale non tanto per la geografia, quanto per le virtù e i vizi che la città ha mostrato di possedere, prima dell'Unità e fino ai giorni nostri: virtù d'impegno civile, vizi di estraneità allo Stato. Sia Berlusconi che Monti di questa città sono figli, di qui son salpati per Roma: il primo poggiando sulle sue aziende e su Milano 2, il secondo sul vivaio di economisti della Bocconi. Monti si ritiene alternativo all'inventore di Forza Italia, e certo non ha ingombranti interessi privati da anteporre a quelli pubblici. Ha una levatura e un respiro europeo del tutto assenti nel Cavaliere. Ma è alternativo per davvero, ne ha la volontà, oppure è l'altra faccia d'una medaglia che non muta?

Per rispondere a questi interrogativi, e tentare un distinguo fra le due figure milanesi oggi dominanti l'Italia, è assai utile leggere il libro-pamphlet appena pubblicato da Franco Continolo, che per anni ha operato nel mercato finanziario e che la città la vede da vicino se non da dentro, come il dottor Tulp nella Lezione di anatomia di Rembrandt. Il titolo (Milano "clef d'Italie", edito da Lampi di Stampa) rimanda subito all'essenza: cioè al rapporto della città con lo Stato, la politica, l'Italia. Ed è un libro doppiamente prezioso, perché i punti di vista dell'autore s'intrecciano a quelli di storici e scrittori che lungo i secoli hanno analizzato proprio questo rapporto, e che meticolosamente vengono trascritti e inanellati come in una collana: da Pietro Verri a Manzoni, Croce, Chabod; da Rosario Romeo a Giorgio Rumi.

La tesi del libro è avvincente: pur nell'alternarsi di fasi di rinascita a più lunghe fasi di decadenza, "Milano bifronte" appare incapace di diventare pòlis, città-stato, formatrice di classe dirigente. Nell'800, dopo un periodo che Continolo chiama dell'incivilimento, la città, con l'insurrezione antiaustriaca delle Cinque Giornate (18-22 marzo 1848) diventa chiave del Risorgimento, e nei decenni successivi all'Unità può fregiarsi del titolo di capitale morale. La laicità dello Stato è centrale per gli innovatori ("Val più il dubbio d'un filosofo  -  così Cattaneo  -  che tutta la morta dottrina d'un mandarino e d'un frate"). Notiamo tuttavia che l'incivilimento, rappresentato da illuministi come Pietro Verri, Cesare Beccaria, Giandomenico Romagnosi, Alessandro Manzoni, Carlo Cattaneo, era stato avviato proprio dalla potenza occupante, l'Austria di Carlo VI, Maria Teresa, Giuseppe II. Fondamentale, per le implicazioni politiche e civili oltre che economiche, fu la riforma del catasto.

Con Bava Beccaris, il generale che guida la repressione violenta, sproporzionata, della sommossa del 6-9 maggio 1898, il fuoco dell'incivilimento risorgimentale si spegne, e la città cessa di essere capitale morale per ridivenire capitale della restaurazione e, non di rado, dell'eversione. Il suo essere capitale morale durò poco: fu un'eccezione alla regola. La sua storia è fatta essenzialmente di quest'eccezione. Dall'incivilimento si passa dunque all'imbarbarimento, al prevalere dell'interesse privato sul pubblico (è il modello ricchezza privata-miseria pubblica), al venir meno della passione che aveva animato la scelta cavouriana e unitaria del vecchio ceto patrizio, al riproporsi dell'alleanza fra potere politico e gerarchie ecclesiastiche.

Su questa fase di decadenza, durata per gran parte del '900, si sofferma Tommaso Padoa-Schioppa in una lettera del settembre 2009, pubblicata in apertura del libro, quasi un'epigrafe. Scrive Padoa-Schioppa: "Non è un'esagerazione affermare che dei 150 anni trascorsi dal 1861, forse la metà sono stati consacrati alla costruzione dello Stato italiano; altrettanti a una vera opera di distruzione che si è fatta più intensa negli ultimi decenni e ancor più negli anni più recenti". Le responsabilità milanesi non si limitano all'aver suscitato le "tre marce su Roma"  -  Mussolini, Craxi, Berlusconi  -  per "mettere un leader politico "decisionista" alla guida del Paese".

Un'intera classe imprenditoriale "ha lasciato che nel suo corpo prosperassero le cellule malate dei rapporti impropri con la politica e con le amministrazioni pubbliche, dei capitali sottratti all'impresa e portati fuori dall'Italia, dell'evasione e della corruzione fiscale, della manipolazione dell'informazione economica".
L'imbarbarimento, Continolo lo riassume nel concetto, caro allo storico Rumi, di società senza Stato. Lo Stato è vissuto come nemico invadente, estraneo ai pragmatici bisogni della borghesia imprenditoriale milanese. E di conseguenza sono nemici la politica, l'impegno civile, il Meridione.

Le pagine più terribili del libro evocano l'ostilità dei socialisti di Turati e dei repubblicani milanesi alle celebrazioni del XX Settembre. Basti citare un articolo de La Critica sociale, diretto da Turati, nel 25° anniversario della breccia di Porta Pia: "Il 20 settembre, simbolo del compimento dell'unità che ci ha disuniti, che ha sovrapposto un minuscolo sciame d'arpie all'immenso popolo degli squallidi lavoratori italiani, non può essere per questi che giorno di raccoglimento e di protesta". Lo sciame d'arpie impersonava il Sud. Lo spirito antimeridionale delle sinistre milanesi fu feroce, e favorì la connivenza con il conservatorismo cattolico.

Così veniamo all'oggi: alla quarta apparizione, nell'orizzonte della politica nazionale e romana, di un milanese di primo rango. Monti non viene da un'impresa come Berlusconi, ma da un'università, la Bocconi, che non è mai riuscita veramente a selezionare classe dirigente. È giunta l'ora in cui l'Ateneo si riscatta, in cui rivive la tradizione dell'incivilimento? È fondata, la fede di Umberto Ambrosoli nel senso di responsabilità rinato in Lombardia? In apparenza sì, ma molti dubbi restano da chiarire. La continuazione del governo Monti è reclamata a viva voce dai vertici ecclesiastici (Bagnasco, Ruini).

Riceve il sostegno di Comunione e Liberazione, che furbamente s'è congedata da Berlusconi. È difficile che con lui tali vertici siano disturbati da leggi sulle questioni dette etiche, cruciali per l'incivilimento e la laicità dell'Italia: nuove regole sul fine vita, rispetto della legge sull'aborto, unione matrimoniale o semi-matrimoniale fra omosessuali. È difficile che Monti difenda la neutralità laica dello Stato, attaccata aspramente dall'arcivescovo di Milano Angelo Scola il 6 dicembre a Sant'Ambrogio. Tanto decisivo è l'imprimatur del Vaticano, e della Dc europea: un imprimatur ingombrante, troppo, ma di buon grado accolto dal Premier.

La laicità è forse la prova nodale per Monti, in un paese dove la Chiesa s'intromette nella politica pesantemente. Dove l'egemonia ecclesiastica non è esercitata dagli eredi del Concilio ma  -  lo spiega il teologo Massimo Faggioli commentando l'omelia di Scola  -  dai creazionisti anti-Obama del cattolicesimo americano (Huffington Post, 7 dicembre). Sembra enorme, il divario fra Berlusconi e Monti. Ma ancora non sappiamo bene la visione che Monti ha del mondo: se auspichi la riscoperta del senso dello Stato, o se sia un fautore della società senza Stato, senza politica, senza contrapposizione fra partiti. Di una società che tramite i suoi manager, o banchieri, o economisti, "educhi il Parlamento" e la politica, e li sorpassi, come lui stesso ha auspicato il 5 agosto nell'intervista a Spiegel, infastidito dalle tante, lente procedure della democrazia.

(19 dicembre 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #192 inserito:: Dicembre 28, 2012, 11:54:46 pm »

Moderatamente europeo

di BARBARA SPINELLI


Ancora non è chiaro cosa significhi, nelle parole di Monti, il centrismo radicale proposto come Agenda di una futura unità nazionale: un ordine nuovo, addirittura, dove le classiche divisioni fra destra e sinistra sfumerebbero. Non è chiaro cosa significhi in particolare per l'Europa: presentata come suo punto più forte. Punto forte, ma stranamente sfuggente.

Centrista, sì, ma radicale non tanto. Lo stesso titolo dell'Agenda tradisce l'assenza di un pensiero che si prefigga di curare alle radici i mali presenti. "Cambiare l'Italia, riformare l'Europa" promette cambi drastici negli Stati ma in Europa una diplomazia graduale, senza voli alti, senza i radicalismi prospettati in patria. Se Monti avesse voluto davvero volare alto, ed esser veramente progressista come annunciato domenica in conferenza stampa, avrebbe dato all'Agenda un titolo meno anfibio, più trascinante: non riformare, ma "cambiare l'Europa per cambiare l'Italia".

La formula prescelta è in profonda contraddizione con l'analisi cupa di una crisi che ha spinto e spinge l'Italia e tanti paesi su quello che troppo frequentemente, troppo ossessivamente, vien chiamato orlo del baratro. Una crisi che continua a esser vista come somma di politiche nazionali indisciplinate; mai come crisi - bivio necessario, presa di coscienza autocritica - del sistema Europa, moneta compresa. È come se contemplando un mosaico l'occhio fissasse un unico tassello, senza vedere l'insieme del disegno. I problemi che abbiamo, questo
dice l'Agenda, ciascuno ha da risolverli a casa dentro un contenitore - l'Unione - che essenzialmente funziona e al massimo va corretto qui e lì.

L'Agenda propone qualcosa di ardito, è vero: il prossimo Parlamento europeo dovrà avere un "ruolo costituente". Dunque c'è del guasto, nel Trattato di Lisbona: siamo sprovvisti di una Costituzione sovranazionale. Ma resta nella nebbia quel che debba essere la Costituzione a venire, e drammatica è l'assenza di analisi sul perché il Trattato vigente non sia all'altezza delle odierne difficoltà e del divario apertosi fra Nord e Sud Europa. Più precisamente, manca il riconoscimento che stiamo vivendo una crisi economica, politica, sociale dell'Unione intera (una crisi sistemica), che non si supera limitandosi a far bene, ciascuno per proprio conto, "i compiti a casa" come prescrive l'ortodossia tedesca. Nella storia americana, Alexander Hamilton ebbe a un certo punto questa presa di coscienza: decise che il potere sovranazionale si sarebbe fatto carico dei singoli debiti, e fece nascere dalla Confederazione di Stati semi-sovrani una Federazione, dotata di risorse tali da garantire, solidalmente, una più vera unità. È il momento Hamilton - non centrista-moderato ma radicale - che non si scorge né a Bruxelles, né nell'Agenda Monti.

Unici impegni concreti sono il pareggio di bilancio e la riduzione del debito pubblico in Italia: dunque la nuda applicazione del Fiscal compact, del Patto di bilancio del marzo 2012, corredato fortunatamente da un reddito di sostentamento minimo e forme di patrimoniale. Certo, fare l'Europa è anche questo. Certo: è giunta l'ora di dire che la crescita di ieri non tornerà tale e quale ma dovrà mutare, in un'economia-mondo non più dominata dai vecchi paesi industrializzati. Quel che si nasconde, tuttavia, è che non esistono solo due linee: da una parte Monti, dall'altra i populismi antieuropei. Esistono due europeismi: quello conservatore dell'Agenda, e quello di chi vuol rifondare l'Unione, e perfino rivoluzionarla. Tra i sostenitori di tale linea ci sono i federalisti, i Verdi tedeschi che chiedono gli Stati Uniti d'Europa, molti parlamentari europei. Ma ci sono anche quelle sinistre (il primo fu Papandreou in Grecia, e il Syriza di Tsipras dice cose simili) secondo le quali le austerità sono socialmente sostenibili a condizione che l'Europa cambi volto drasticamente, e divenga il sovrano garante di un'unità federale, decisa a schivare il destino centrifugo della Confederazione jugoslava.

I fautori della Federazione (parola evitata da Monti) non si concentrano solo sulle istituzioni. Hanno uno sguardo ben diverso sulla crisi, su come cambia la vita dei cittadini. Hanno una visione più tragica, meno liberista-tecnocratica: non saranno il Fiscal compact e il rigore a sormontare i mali dell'ineguaglianza, della povertà, della disoccupazione, ma una crescita ripensata da capo, e la consapevolezza che le diseguaglianze crescenti sono la stoffa della crisi. L'Agenda è fedele al più ortodosso liberismo: tutto viene ancora una volta affidato al mercato, e l'assunto da cui si parte è che finanze sane vuol dire crescita, occupazione, Europa forte: non subito forse, ma di sicuro. Immutato, si ripete il vizio d'origine dell'Euro. Quanto all'Italia, ci si limita a dire che il rispetto riguadagnato in Europa dipenderà dalla sua credibilità, dalla sua capacità di convincere gli altri partner. Convincere di che? Non lo si dice.

L'idea alternativa a quella di Monti è di suddividere i compiti, visto che gli Stati, impoveriti, non possono stimolare sviluppo e uguaglianza. Se a questi tocca stringere la cinghia, che sia l'Unione a assumersi il compito di riavviare la crescita, di predisporre il New Deal concepito da Roosevelt per fronteggiare la crisi degli anni '30, o la Great Society proposta negli anni '60 da Johnson "per eliminare povertà e ingiustizia razziale". L'idea di un New Deal europeo circola dall'inizio della crisi greca, ma non sembra attrarre Monti. È un progetto preciso: aumentare le risorse del bilancio dell'Unione a sostegno di piani europei nella ricerca, nelle infrastrutture, nell'energia, nella tutela ambientale, nelle spese militari. Non mancano i calcoli, accurati, dei vasti risparmi ottenibili se le spese dei singoli Stati verranno accomunate.

Per tale svolta occorre tuttavia che il bilancio dell'Unione non sia striminzito come oggi (l'1% del pil. Nel bilancio Usa la quota è del 23). Che aumenti alla grande, grazie all'istituzione di due tasse, trasferite direttamente dal contribuente alle casse dell'Unione: la tassa sulle transazioni finanziarie e quella sull'emissione di diossido di carbonio. La carbon tax (gettito previsto: 50 miliardi di euro) segnalerebbe finalmente la volontà di far fronte a un disastro climatico già in corso, non ipotetico. Cosa ne pensa Monti? Sappiamo che vuol tassare le transazioni finanziarie, ma gli eventuali introiti già sono accaparrati dal Tesoro nazionale.

Perché l'Agenda vola così basso? Perché Monti è europeo, ma moderatamente. Perché, scrive Marco D'Eramo nel suo Breve lessico dell'ideologia italiana, la moderazione del centrista "è quella che modera le altrui aspettative e l'altrui livello di vita. Modera la nostra fiducia nel futuro" (Moderato sarà lei, Marco Bascetta e Marco D'Eramo, Manifestolibri 2008). E perché la sua dottrina dell'union sacrée è la fuga patriottico-centrista dalle contrapposizioni anche aspre che sono il lievito della democrazia dell'alternanza.

L'unione sacra che Monti preconizza da anni idoleggia l'unanimità: proprio quel che sempre in Europa produce accordi minimalisti. Non è un inevitabile espediente (come nella Germania citata dal Premier) ma il finale e migliore dei mondi possibili. Di qui la sua ostilità alla divisione destra-sinistra: un'avversione che come oggetto ha la divisione stessa, la pacifica lotta fra idee alternative. È significativa l'assenza di due vocaboli, nell'Agenda. Manca la parola democrazia (tranne un riferimento alle primavere arabe e alle riforme europee "democraticamente decise e controllate") e manca la laicità: separazione non meno cruciale in Italia.

Diceva Raymond Aron di Giscard d'Estaing, l'ispettore delle Finanze divenuto Presidente nel '74: "Quest'uomo non sa che la storia è tragica". Qualcosa di simile accade a Monti, e un esempio è il modo in cui pensa di risolvere la questione Vendola, espellendolo dall'union sacrée perché le sue idee "nobili in passato, sono perniciose oggi". Quel che il Premier non sa, è che Vendola impersona la questione sociale che fa ritorno in Occidente, assieme alla questione dei diritti e di un'altra Europa. Quel che pare ignorare, è che pernicioso non è Vendola.
È il malessere che egli denuncia. Della sua voce abbiamo massimo bisogno.

Non sono semplicemente idee, quelle bollate come perniciose. Sono il vissuto reale in Grecia, Italia, Spagna. Roosevelt lo capì: e aumentò ancor più le spese federali, investì enormemente sulla cultura, la scuola, la lotta alla povertà, l'assistenza sanitaria. Non c'è leader in Europa che possegga, oggi, quella volontà di guardare nelle pieghe del proprio continente e correggersi. Non sapere che la storia è tragica, oggi, è privare di catarsi e l'Italia, e l'Europa.

(27 dicembre 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #193 inserito:: Gennaio 09, 2013, 05:20:28 pm »

Un'agenda per la sinistra

di BARBARA SPINELLI

Forse per la sinistra è giunto il momento di togliere lo sguardo dall'Agenda Monti, di sottrarsi alla sua malia, di vedere le opportunità che sempre s'annidano nei disinganni. Che il premier non sia un uomo sopra le parti, la sinistra ormai lo sa, lo vede. L'incanto s'è rotto, Monti salendo in politica è sceso dal piedistallo dove era stato messo, e questo dovrebbe spingere le sinistre coalizzate a concentrare tutte le forze, le attenzioni, su quello che hanno da dire e offrire in proprio.

Da dire e offrire a proposito della crisi e dei modi di uscirne, del Welfare e dello Stato di diritto da salvaguardare, dell'Europa e di un mondo non più egemonizzato dalla potenza Usa ma non compiutamente multipolare.

Vero è che Monti coltiva sottilmente l'ambiguità: vorrebbe essere al tempo stesso uomo di parte e uomo estraneo alle parti. Vorrebbe entrare in politica guidando un centro liberista e contando umilmente le proprie forze, e al tempo stesso ignorare i numeri, imporsi come premier futuro anche se la sinistra raccoglierà più voti. L'umiltà si mescola all'hybris, alla dismisura, e la malia continua. Lui l'alimenta con ragionamenti intelligenti, insidiosi e assai disinvolti. Il voto, il popolo sovrano, le tradizioni democratiche: ai suoi occhi pesano relativamente, se l'approdo ha da essere comunque un Monti bis.

Tanto più dovrebbero contare - il voto, il popolo sovrano - agli occhi di chi vuol salvare quel che la democrazia esige: il contrapporsi di programmi diversi su come saranno governate, e con quale visione della crisi, l'Italia e l'Europa. Uscire dall'emergenza unanimistica è l'imperativo più urgente, se in Italia ha da ritornare la politica, e l'opera di disinganno comincia da qui: con la rinascita di una destra e una sinistra. È un disinganno duro per Monti, che congedandosi dalle proprie malie vorrebbe salvarne una, almeno: quella dell'emergenza. L'emergenza come lui ambiguamente la racconta è al contempo finita e infinita: finita grazie al suo governo, infinita essendo che domani ci sarà ancora bisogno di lui, uomo provvidenziale chiamato a fronteggiare uno stato di pericolosità pubblica che non scema.

Sono ambiguità che vale la pena smantellare, se si vuol uscire dal mito antidemocratico di un centrismo che regna immobile, senza confrontarsi con idee alternative né con alternanze di governo, perché al di fuori del proprio perimetro non conosce altro che "ali estreme", da tagliare o silenziare. Una sorta di repubblica moderatamente radicale, che ricorda la Restaurazione del regno nella Francia dell'800: "Nazionalizzare il monarca e monarchizzare la nazione", tale era il suo motto.

A simili equivoci, Partito democratico e Sel hanno un modo di rispondere: mettendo in risalto quel che è differente e nuovo nelle proprie agende. Pensando se stessi a prescindere dal centro con cui toccherà negoziare, se l'ascesa di Monti ci restituirà camere ingovernabili. Sentimenti gemelli come l'illusione o la disillusione sono rischiosi, in politica. Meglio trattare Monti come normale rivale, puntare sulla sua umiltà più che sulla sua hybris, e contrapporre alla sua forza la propria, nel duello. Ha detto il premier: "Spero che Bersani convinca, ma non vinca". È una scommessa sull'ingovernabilità dell'Italia, che però fotografa la realtà: infatti Bersani convince, senza dar l'impressione di voler vincere. Purtroppo la sua agenda somiglia parecchio a quella di Monti, come rammenta Eugenio Scalfari. Nelle prossime settimane converrà dire in che cosa le sinistre dissomigliano dalla destra, e dal centro. Converrà anche rivedere alcuni successi di Monti. È vero: a Bruxelles fu ottimo commissario alla concorrenza, quando s'accapigliò con Microsoft. Non risulta che abbia combattuto con pari vigore l'assenza di concorrenza nell'informazione televisiva italiana. La lotta all'evasione c'è, ma non all'altezza dei proclami. Nel 2012 gli introiti (6,4 miliardi) sono aumentati di mezzo miliardo rispetto al 2011: appena un centesimo dell'evasione annua (120 miliardi).

Le politiche di rigore sono il primo punto da discutere. In Europa non esiste solo la linea Monti, o Merkel. Lo stesso Fondo Monetario, con insistenza crescente, sta rivedendo strategie troppo cocciutamente difese. La tesi, esposta una prima volta nell'ottobre scorso, è che un errore grave è stato compiuto, dai neo-liberisti intenti a salvare l'euro. L'errore consiste nell'aver creduto che il rigore non avrebbe compresso oltre misura sviluppo e occupazione. Olivier Blanchard, direttore dell'ufficio studi del Fondo, conferma in un rapporto dell'inizio 2013 che i calcoli sono stati sbagliati (almeno nel breve termine, ma il breve termine è tempo lungo per le società): i tagli alla spesa pubblica hanno avuto effetti depressivi - sulla domanda interna, sulla crescita, sullo stesso debito pubblico - molto più ampi del previsto. Sul Washington Post del 3 gennaio, Howard Schneider parla di mea culpa dei vertici Fmi, e di una "tempesta nei circoli econometrici": degli economisti che, con Monti, basano le previsioni su modelli matematici. Stefano Fassina, responsabile economico del Pd tanto vituperato da Monti, ha richiamato l'attenzione sulla svolta del Fondo sin dal 12 ottobre 2012. Chi, nel suo partito, riprende i suoi argomenti per meglio confutare l'Agenda Monti?

In Europa Fassina non è solo. Sono inquieti i portoghesi: il Presidente Cavaco Silva vuole che la Corte costituzionale si pronunci sui piani di austerità, visto che "esistono fondati dubbi sulla giustizia nella distribuzione dei sacrifici tra i cittadini". È irritato il governo irlandese, costretto a sacrifici (per rifinanziare le proprie banche) non più chiesti, oggi, a Madrid. Il primo a dissentire dalla trojka (Unione europea, Bce, Fmi) fu George Papandreou in Grecia: disse che la crisi era politica più che finanziaria, e poteva esser vinta solo se l'Europa cambiava alle radici, evitando che le discipline nei singoli paesi accentuassero povertà e disuguaglianza. Fu silenziato, divenne un paria. In Europa lo ascoltarono solo i Verdi.

Costruire un'Europa diversa è la principale discriminante, oggi, fra progressisti e liberisti. Non è vero che centro e sinistre difendono la Federazione in egual modo. Monti non pronuncia la parola, nell'Agenda. Mentre la pronunciano Vendola e Bersani, che chiedono gli Stati Uniti d'Europa e un governo federale dell'eurozona. Volere la Federazione non è battaglia marginale: significa dare all'Unione i mezzi politici e finanziari per contrastare la crisi non solo nella solidarietà, ma predisponendo piani comuni di rilancio finanziati da comuni risorse.
Al momento vincono i minimalisti: il bilancio non ha da crescere, ordina Londra, imitata da Germania, Olanda, Finlandia, Svezia. L'Italia difende le spese che ci sono destinate, senza esigere incrementi di bilancio.
Anche in politica estera la posizione può divenire discriminante. Si tratta di dare all'Europa nuovi compiti, non più dipendenti dalla potenza americana in declino: soprattutto nel Sud Mediterraneo, dove le primavere democratiche non sono finite ma stanno appena ora cominciando.
Si parla molto di credibilità italiana all'estero, e di sicuro oggi la nostra voce è meno svilita. Ma voce per dire che, sul mondo?

Ci sono alcuni punti infine, nell'Agenda Monti e nelle decisioni del premier, che non sono affatto di destra: fra questi il reddito minimo, o la decisione di escludere dalla propria lista gli inquisiti, oltre ai condannati. Una sinistra che voglia non solo convincere, ma vincere, non può limitarsi a criticare il rivale-avversario. Che si mostri ancora più progressista di lui, che non gli lasci l'esclusiva delle politiche buone. Che aggiunga alle proprie agende quel che Monti visibilmente omette: la difesa strenua della laicità e dei diritti, compreso il diritto di cittadinanza degli immigrati nati in Italia. Se non lo fa, vuol dire che è ancora preda delle malie del premier e dei suoi incantamenti.

(09 gennaio 2013) © Riproduzione riservata

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« Risposta #194 inserito:: Gennaio 31, 2013, 10:59:13 am »

Silvio il nostalgico
   
di Barbara Spinelli, da Repubblica, 30 gennaio 2013

Fece bene quando uccise Matteotti, incarcerò gli oppositori? Quando inviò l’esercito in Etiopia, ordinandogli di usare i gas asfissianti a scopo di sterminio? Quando entrò in guerra accanto a Hitler, e non per evitare una vittoria tedesca troppo vasta ma convinto da sempre che urgeva vendicare l’oltraggio del ’14-18? Oppure fece bene perché seppe governare accentrando tutti i poteri, reintroducendo la pena di morte, soggiogando l’amministrazione della giustizia? Quando si incontra un politico provocatore, che consapevolmente sceglie il giorno in cui si ricorda la Shoah per inquinare il consenso antifascista da cui è scaturita la Costituzione, è sempre la seconda domanda quella che conta, che aiuta a capire, e la seconda domanda purtroppo è mancata.

Ma in fondo quel che vorremmo sapere lo sappiamo già, perché Berlusconi non è caduto dal cielo: né oggi né nel ’94. Perché quel consenso è stato gracile sempre, a dispetto delle commemorazioni, e lui quest’oscurità italiana la sa, l’attizza, ne fa tesoro. Non aveva mai parlato in questo modo del fascismo, ma sul Regime, e sulla Resistenza, ha già detto in passato cose sufficienti. Ha già detto che Mussolini «non ha ammazzato nessuno; mandava la gente a far vacanza al confino» (settembre 2003). Ha già detto che la Costituzione fu scritta «sotto l’influsso di una fine di una dittatura, e con la presenza al tavolo di forze ideologizzate che hanno guardato alla Costituzione russa come un modello» (7-2-2009). Che è congegnata in modo da rallentare le decisioni dei governi, e dilatare proditoriamente il potere giudiziario. Il suo giudizio sull’autonomia della magistratura non è senza rapporto con il suo sguardo su Mussolini ed è chiaro da tempo: l’autonomia è patologica, e i magistrati fedeli ai dettati della Carta sono «mentalmente disturbati, antropologicamente diversi ». Affinché non ci fossero equivoci sulle sue preferenze aveva decretato, il 26 gennaio 2004: «Il fascismo è stato meno odioso dell’odierna burocrazia dei magistrati che usano la violenza in nome della giustizia».

Berlusconi non è il primo né l’unico in Europa a rompere il consenso costituzionale che ha visto rinascere le democrazie nel continente, e le ha spinte a unirsi in una semi-federazione. Da quando quest’ultima si è allargata a Est, molti Stati che avevano patito l’impero sovietico sono giunti a conclusioni simili: il comunismo era il vero nemico, più delle dittature di destra. Ricordo dissidenti di rilievo, negli anni del golpe di Jaruzelski in Polonia, che ne erano convinti. Alcuni erano sedotti da Pinochet: spietato con gli oppositori, ma paladino di dottrine liberiste, filo- occidentali, che avevano resuscitato l’economia cilena. Le attese del-l’Est erano economiche più che politiche. La regressione fascistoide di Viktor Orbán e del partito Fidesz in Ungheria (a suo tempo un partito di dissidenti libertari oltre che liberisti) mette in pratica quel fascino di Pinochet. Orbán è uno dei vicepresidenti del Partito popolare europeo: una formazione che è andata sempre più corrompendosi, da quando ha accolto – dimenticando De Gasperi o Adenauer – capi politici come il Premier ungherese o l’ex Premier italiano.

L’Europa unita non ha l’ardire di dare il nome di costituzione alle proprie leggi fondamentali, ma la sua Carta dei diritti e il Trattato di Lisbona hanno valore costituzionale (se costituzionali sono le leggi che tengono insieme i cittadini). Quando l’articolo 2 del Trattato dice che «l’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani», comprese le minoranze, è evidente il riferimento alle dittature d’Europa. Quando la Carta dei diritti, non meno vincolante giuridicamente del Trattato, afferma che saranno rispettati «i diritti derivanti in particolare dalle tradizioni costituzionali (…) e dalla convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali », è lo spirito della Resistenza che convoca e suggella. Berlusconi non riconosce le tradizioni costituzionali italiane, e di conseguenza neppure quelle dell’Unione europea. Si dice «migliore amico di Israele», e questa è per lui la patente antifascista decisiva: Israele dovrebbe essere il primo a negargliela.

Al pari di Orbán, e di molte destre europee, l’ex Premier usa far leva sulla democrazia, per sgretolarla dal di dentro. Un’operazione tanto più facile, in un paese dove il confine fra estrema destra e conservatori è sempre più labile. Non esiste da noi una forte destra repubblicana come in Germania, né esiste la tradizione gollista che per anni, in Francia, ha rifiutato ogni patto con Le Pen. L’Italia politica onorò fino all’ultimo il generale Rodolfo Graziani, condottiero della guerra d’Etiopia, e negli anni ’80-90 giocò a riabilitare il fascismo e a declassare l’antifascismo, comunista o azionista. Disinformata, gran parte del suo popolo s’è confusa, smarrita. Una vera politica della memoria – così la chiamano in Germania – da noi non c’è mai stata. È mancata soprattutto a destra: l’unica forza in grado di capire e curare efficacemente le proprie escrescenze estremiste. Da sola, la sinistra non le placa: le attizza.

L’idea che Berlusconi si fa della democrazia ha acuito questa confusione. A suo parere è la sovranità del popolo, e lei sola, a garantire la democraticità di uno Stato. A che serve tutta un’impalcatura di leggi, di contrappesi? Se il popolo (in realtà non tutto: la maggioranza) premia partiti e persone che avversano la Carta o violano la legge, la Costituzione e la giustizia dovranno sottomettersi: tale è il verdetto delle urne. E assoluta è la sovranità dell’eletto; nessun potere può esistere accanto a lui o sopra. Precisamente contro questa perversione della sovranità democratica fu inventata l’Unione europea, dopo secoli di guerre tra assoluti sovrani nazionali. Sia detto per inciso: l’invenzione nacque proprio in quell’isola di detenzione, a Ventotene, ribattezzata dieci anni fa luogo di vacanza.

Da quando ha fatto irruzione nella vita politica italiana, Berlusconi ha scelto l’anticomunismo come arma prediletta. Era appena finita la guerra fredda, e non poche destre europee si ritrovarono d’un tratto orfane del nemico esistenziale. Meglio tenere in vita il morto, pensò il fondatore di Forza Italia: serviva a guadagnar voti, additando pericoli totalitari non esistenti, e a bloccare il doppio risanamento civile che Falcone e Borsellino avevano iniziato in Sicilia contro la mafia, e che Mani Pulite tentò a Nord. Fu rapido, il cortocircuito. Berlusconi associò magistrati e comunisti, e ambedue vennero accusati di sovversione antidemocratica.

I dispotismi europei del secolo scorso sono nati con gli stessi metodi, falsificando la storia e attizzando i risentimenti che le grandi crisi economiche, mal governate, suscitano sempre nei popoli immiseriti. Berlusconi scimmiotta Mussolini in piena coscienza: nessuna delle sue parole è – come sembra credere Mario Monti – una malaccorta «battuta infelice ». In cuor suo sa perfettamente che in tempi bui cresce la sete dell’uomo forte, delle dittature. Se la destra e il centro non vedono all’orizzonte nient’altro che sbadate follie, vuol dire che non sono del tutto preparate a un’argomentazione seria sul pericolo che incombe: in Grecia, o in Ungheria, o in Italia. Che hanno dimenticato come ci sia sempre del metodo nelle follie, e come la preparazione sia tutto, in politica come nella vita di ciascuno.

(30 gennaio 2013)

da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/silvio-il-nostalgico/
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