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Autore Discussione: BARBARA SPINELLI -  (Letto 119958 volte)
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« Risposta #150 inserito:: Settembre 21, 2011, 11:43:39 pm »

IL COMMENTO

Lo strano silenzio della Chiesa

di BARBARA SPINELLI

IL SOSTEGNO che i vertici della Chiesa continuano a dare a Berlusconi è non solo uno scandalo, ma sta sfiorando l'incomprensibile.
Che altro deve fare il capo di governo, perché i custodi del cattolicesimo dicano la nuda parola: "Ora basta"? Qualcosa succede nel loro animo quando leggono le telefonate di un Premier che traffica favori, nomine, affari, con canaglie e strozzini? Non sono sufficienti le accuse di aver prostituito minorenni, di svilire la carica dimenticando la disciplina e l'onore cui la Costituzione obbliga gli uomini di Stato? Non basta il plauso a Dell'Utri, quando questi chiamò eroe un mafioso, Vittorio Mangano? Cosa occorre ancora alla Chiesa, perché si erga e proclami che questa persona, proprio perché imperterrita si millanta cristiana, è pietra di scandalo e arreca danno immenso ai fedeli, e allo Stato democratico unitario che tanti laici cattolici hanno contribuito a costruire?

Un tempo si usava la scomunica: neanche molto tempo fa, nel '49, fu scomunicato il comunismo (il fascismo no, eppure gli italiani soffrirono il secondo, non il primo). Se Berlusconi non è uomo di buona volontà, e tutto fa supporre che non lo sia, la Chiesa usi il verbo. Ha a suo fianco la lettera di Paolo ai Corinzi: "Vi ho scritto di non mescolarvi con chi si dice fratello, ed è immorale o avaro o idolatra o maldicente o ubriacone o ladro; con questi tali non dovete neanche mangiare insieme. Spetta forse a me giudicare quelli di fuori? Non sono quelli di dentro che voi giudicate? Quelli di
fuori li giudicherà Dio. Togliete il malvagio di mezzo a voi!".

Anche l'omissione è complicità. Sta accadendo l'intollerabile dal punto di vista morale, in politica, e i vertici della Chiesa tacciono: dunque consentono. Si può scegliere l'afonia, certo, o il grido inarticolato di disgusto: sono moti umani, ma che bisogno c'è allora di essere papa o vescovo? (avete visto, in Vaticano, Habemus Papam?). Dicono che parole inequivocabili son state dette: "desertificazione valoriale", "società dei forti e dei furbi", "cultura della seduzione". Ma sono analisi: manca la sintesi, e le analisi stesse son fiacche. D'un sol fiato vengono condannati gli eccessi dei magistrati, pareggiando ignominiosamente le condanne. Da troppo tempo questo è, per tanti laici cattolici scandalizzati ma non uditi, incomprensibile. Quasi che il ritardo nella presa di coscienza fosse ormai connaturato nella Chiesa. Quasi che l'espiazione (penso ai mea culpa di Giovanni Paolo II, nobili ma pur sempre tardivi) fosse più pura e santa che semplicemente non fare il male: qui, nell'ora che ci si spalanca davanti.

Un gesto simile a quello di Cristo nel tempio, un no inconfondibile, allontanerebbe Berlusconi dal potere in un attimo. Alcuni veramente prezzolati resterebbero nel clan. Ma la maggior parte non potrebbero mangiare insieme a lui, senza doversi ogni minuto giustificare.
Non è necessario che l'espulsione sia resa subito pubblica, anche se lo sapete, uomini di Chiesa: c'è un contagio, del male e del malaffare. Forse basterebbe che un alto prelato vada da Berlusconi, minacci l'arma ultima, la renda nota a tutti. Questa è l'ora della parresia, del parlar chiaro: la raccomanda il Vangelo, nelle ore cruciali.

Sarebbe un'interferenza non promettente per il futuro, lo so. Ma l'interferenza è una prassi non disdegnata in Vaticano, e poi non dimentichiamolo: già l'Italia è governata da podestà stranieri in questa crisi (Mario Monti l'ha scritto sul Corriere: "Le decisioni principali sono prese da un "governo tecnico sopranazionale"), e Berlusconi d'altronde vuole che sia così per non assumersi responsabilità. Resta che gli alleati europei possono poco. E una maggioranza che destituisca Berlusconi ancora non c'è in Parlamento.
Lo stesso Napolitano può poco, ma la sua calma è d'aiuto, nel mezzo del fragore di chi teme chissà quali marasmi quando il Premier cadrà.
Il marasma postberlusconiano è fantasia cupa e furba, piace a chi Berlusconi ce l'ha ormai nelle vene. Il marasma, quello vero, è Berlusconi che non governa la crisi ma si occupa di come evitare i propri processi: tanti processi, sì, perché di tanti reati è sospettato. L'Italia è un battello ebbro, il capitano è un simulacro. Non ci sono congiure di magistrati, per indebolire la carica. Il trono è già vuoto. Il pubblico ministero, organo dello Stato che rappresenta l'interesse pubblico, deve per legge esercitare l'azione penale, ogni qualvolta abbia notizia di un reato, e in molte indagini Berlusconi è centrale: come corruttore o vittima-complice di ricatti.

Gli italiani non possono permettersi un timoniere così. Se sono economicamente declassati, la colpa è essenzialmente sua. Berlusconi non farà passi indietro, gli oppositori si ridicolizzano implorandolo senza mai cambiare copione. Oppure vuole qualcosa in cambio, e anche questo sarebbe vituperio dell'Italia. Il salvacondotto proposto da Buttiglione oltraggia la Costituzione. Casini lo ha smentito: "Sarebbe tecnicamente e giuridicamente impossibile perché siamo in uno Stato di diritto".

Perché la Chiesa non dice basta? Si dice "impressionata" dalle cifre dell'evasione fiscale, ma la vecchia domanda di Prodi resta intatta: "Perché, quando vado a messa, questo tema non è mai toccato nelle omelie? Eppure ha una forte carica etica" (Famiglia cristiana, 5-8-07). E come si spiega tanta indulgenza verso Berlusconi, mentre Prodi fu accusato di voler essere cristiano adulto? Pare che sia la paura, ad attanagliare i vertici ecclesiastici: paura di perdere esenzioni fiscali, sovvenzioni. Berlusconi garantisce tutto questo ma da mercante, e mercanti sono quelli che con lui mercanteggiano, di quelli che Cristo cacciò dal tempio rovesciandone i banchi. E siete proprio sicuri di perdere privilegi? Tra gli oppositori vi sono persone a sufficienza, purtroppo, che non ve li toglieranno. Paura di un cristianesimo che in Italia sarebbe saldamente ancorato a destra? Non è vero. Non posso credere che lo spauracchio agitato da Berlusconi (un regime ateo-comunista)abbia ancora presa. Oppure sì? Penso che la Chiesa sia alle prese con la terza e più grande tentazione. Alcuni la chiamano satanica, perché di essa narra il Vangelo, quando enumera le prove cui Cristo fu sottoposto: la prova della ricchezza, del regno sui mondi: "Tutte queste cose ti darò, se prostrandoti mi adorerai". La Chiesa sa la replica di Gesù.

Il Papa ha detto cose importanti sulla crisi. Che agli uomini vengon date pietre al posto del pane (Ancona, 11 settembre). La soluzione spetta a politici che arginino i mercati con la loro autorevolezza. Non saranno mai autorevoli, se ignorano la quintessenza della decenza umana che è il Decalogo. Ma neanche la Chiesa lo sarà. Diceva Ilario di Poitiers all'imperatore Costanzo, nel IV secolo dC: "Noi non abbiamo più un imperatore anticristiano che ci perseguita, ma dobbiamo lottare contro un persecutore ancora più insidioso, un nemico che lusinga; non ci flagella la schiena ma ci accarezza il ventre; non ci confisca i beni (dandoci così la vita), ma ci arricchisce per darci la morte; non ci spinge verso la libertà mettendoci in carcere, ma verso la schiavitù invitandoci e onorandoci nel palazzo; non ci colpisce il corpo, ma prende possesso del cuore; non ci taglia la testa con la spada, ma ci uccide l'anima con il denaro".

(21 settembre 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2011/09/21/news/silenzio_chiesa-21976172/?ref=HRER1-1
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« Risposta #151 inserito:: Ottobre 08, 2011, 11:24:35 am »

IL COMMENTO

Riconquistare il futuro

di BARBARA SPINELLI

UN ASPETTO impressionante, nella crisi che traversiamo, è l'impreparazione dei popoli. Non è l'impreparazione di chi si sente riparato. La crisi, inasprendo ineguaglianze divenute smisurate lungo gli anni, pesa sui popoli da tempo. Ma questa volta gli animi sono impauriti, disorientati, come se mancasse loro una bussola che indichi dove sta, veramente, il Nord. Nei Paesi più colpiti, come la Grecia, la disperazione può sfociare in guerra civile: come può sdebitarsi una nazione così sprofondata nella recessione, senza sfasciarsi? Nei Paesi che stanno meglio, come la Germania, cresce un isolazionismo antieuropeo non meno intirizzito. In Italia il disorientamento è diverso: la democrazia è talmente guastata, il legame sociale talmente liso, l'opinione talmente disinformata, che ciascuno scorge nella crisi qualcosa che concerne gli altri, mai se stesso.

Anche se diversi, i popoli hanno però questo, in comune: non sanno la storia che fanno. Vivono come in una caverna: fuori c'è un aperto da cui dipendono - l'Europa, il mondo - ma di cui non sanno nulla. Non vedono il futuro, sempre aperto visto che lo scriviamo noi. Non vedono che il futuro è ormai cosmopolitico nei fatti, non nella teoria. La cosa che più temono è cambiare ottica. Ogni novità appare ominosa, mai si presenta come occasione d'imparare la vita all'aperto. Come in Balzac, gli impauriti accettano che il passato domini il presente, e del presente diventano i proscritti.

Questa impreparazione non è tuttavia priva di speranze, in Italia. Basta una cifra - 1 milione 200 mila che condannano la legge elettorale - e subito si capisce come il popolo voglia riprendersi il futuro, partecipare al suo farsi. Come sia disgustato da politici che usano il popolo, che gli tolgono sovranità nell'attimo in cui ne magnificano il primato. L'essenza del populismo è questo bluff. Nei quattro ultimi referendum c'è sete non solo di verità ma di società maggiorenne, e non stupisce che tanti partiti li abbiano avversati o vissuti passivamente.

È stato difficile, trovare i banchetti per affossare il Porcellum: indicazioni assenti, orari fasulli, reticenze nelle sedi del Pd. Se fosse stato facile, forse avrebbero votato 3-4 milioni. Cosa dicono infatti i referendum? Dicono che sì, i popoli sono impreparati, ma perché qualcuno li vuole così: incavernati, frammentati, dunque malleabili. Dicono che la formazione dell'opinione pubblica - ingrediente fondamentale in democrazia - è stata guastata dal dominio politico sulle tv. I firmatari del referendum giudicano che la politica, come organizzatrice del bene comune, non fa il suo mestiere ma protegge poteri e ricchezze di clan.

Paul Krugman spiega bene come tali poteri si nutrano di dottrine economiche "completamente divorziate dalla realtà", fondate sulla menzogna: la menzogna secondo cui non c'è crescita se vengono tassati i ricchi, e quella secondo cui la crisi nasce da troppi regolamenti e non, come i fatti dimostrano, da assenza di regole (New York Times, 29-9-11). Le parole di Napolitano, venerdì a Napoli, smascherano questo fallimento: non sono parole politiche, quelle che promettono mini-Stati padani, ma "grida che si levano dai prati". Così come è grida la difesa di una legge elettorale nella quale "conta soprattutto mantenere buoni rapporti con il partito che ti nomina, non con gli elettori".

In questo la crisi economica somiglia alla guerra che Samuel Johnson descrive nel '700: le sue "maggiori calamità sono la diminuzione dell'amore della verità, e la falsità dettata dall'interesse e incoraggiata dalla credulità". Questo fanno i moderni pretendenti politici: invece di guidare incoraggiano la credulità, assecondano gli interessi di chi vuol conservare privilegi e ineguaglianze che la deregolamentazione liberista ha creato.

Ma soprattutto di Europa i politici non sanno parlare, in nessun Paese dell'Unione: la evocano sempre come nostro obbligo, mai come nostra opportunità. Denunciano sempre la sua inconsistenza, senza chiarire che se l'Europa è debole è perché i governi la mantengono in questo stato, non affidandole poteri e aggrappandosi al proprio diritto di veto. Loro compito sarebbe di far capire come stiano davvero le cose, di smettere le illusioni di cui nutrono se stessi e gli altri. È perché i politici non sono all'altezza - la politica è nulla, senza pedagogia delle crisi - che i popoli s'immobilizzano. Il populismo lusingandoli li sfrutta, per occultare quel che accade: una crisi che rovina non solo l'economia, ma quel che tiene unite le società e dunque la democrazia. Una diserzione delle classi dirigenti, restie a spiegare come solo in un governo europeo ritroveremo la padronanza (la sovranità) che tutti stiamo perdendo, governati e governanti. Secondo alcuni, il populismo è il marchio del XXI secolo. Orfano di alfabeto, proscritto dal presente: ecco il popolo-Golem che i populisti plasmano. Ora i popoli gli si rivoltano contro. Erano consumatori, anziché cittadini. Costretti d'un colpo a consumare meno, sgomenti, si riscoprono cittadini.

La paura può divorare l'anima, la storia non essendo progressista lo testimonia. Ma può anche aguzzare la vista. Nell'800, una prima previdenza pubblica nacque perché il socialismo incuteva spavento. Bismarck, in Germania, fu il primo a creare lo Stato che protegge i deboli e l'interesse generale, trasformando la paura di perdere il passato in costruzione del futuro. Così la destra storica in Italia. Le prime norme a tutela del lavoro, della vecchiaia, dell'invalidità, degli infortuni vennero dal liberale Giolitti. La destra di oggi non somiglia in niente a quella di ieri. Va detto che l'Italia, pur anomala, non è un caso isolato. È venditrice di illusioni perfino la Germania, sono populisti Sarkozy e Cameron, per non parlare di governi liberticidi o corrotti come Ungheria o Bulgaria. Se oggi i governanti volessero ritentare la via di Bismarck, dovrebbero abituare i popoli a pensare che da soli non ce la faranno. Ogni giorno constatiamo che la statura conta, nella globalizzazione: sei forte se rappresenti non uno staterello (la Padania ad esempio) ma se competi con le grandezze demografiche della Cina, dell'India, del Brasile, degli Usa, della Russia.

Inizialmente il populismo sorge come risposta democratica alle oligarchie. Un laccio stringe il capo al suo popolo, e questo laccio, simbolo della sovranità popolare, comanda su tutto, non tollerando né istituzioni intermedie né autorità sovranazionali. Il populismo semplifica, quando per uscire dalla crisi urge complicare, differenziare i poteri. Si parla spesso di una ricaduta nel Trattato di Westfalia, che consacrò gli Stati sovrani assoluti. Si dimentica che l'Europa nel 1648 era in ascesa, mentre oggi precipita frantumandosi. Due guerre mondiali l'hanno emarginata storicamente, e resuscitare Westfalia è grottesco oltre che pericoloso.

L'Italia è in questo un laboratorio. Il deserto tra leader e popolo non resta vuoto, viene occupato da nuove oligarchie: più mafiose di prima, indifferenti al bene comune. Al posto del legame sociale s'insedia l'identità (etnica, religiosa, sessuale) fondata sul rigetto dell'altro. Le liste di politici gay, apparse in rete giorni fa, è un episodio da Ultimi Giorni dell'Umanità. In una democrazia decente i giornali le ignorano. Se non lo fanno è perché il populismo è l'aria che tutti respiriamo. La crisi diventa occasione se si dice la verità. Bisogna cominciare a dire che in Occidente non riusciremo a crescere come ieri. Secondo gli esperti, ci vorranno 40-50 anni perché i salari dei Paesi emergenti (Cina, India, Brasile, Russia) raggiungano i nostri. Il nostro futuro sarà fatto di meno consumi. Non di crescita zero, purché sia un crescere diverso. Fu inventata per questo l'Europa unita. Perché non aveva più senso, costruire il futuro facendosi governare dalle menzogne sul passato.

(05 ottobre 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2011/10/05/news/riconquistare_futuro-22715579/?ref=HREA-1
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« Risposta #152 inserito:: Ottobre 18, 2011, 04:46:52 pm »

IL COMMENTO

Il potere in maschera

di BARBARA SPINELLI

Che l'Italia fosse un campione anomalo nel novero delle democrazie lo si sapeva già. Ce ne accorgiamo ogni volta che qualche straniero, di sinistra o destra, ci guarda sbigottito - o meglio ci squadra - e dice: "Non è Berlusconi, il rebus. Il rebus siete voi che non sapete metterlo da parte". Tutto questo è noto, e spesso capita di pensare che il fondo sia davvero stato raggiunto, che più giù non si possa scendere.

Invece si può, tutti sappiamo che il fondo, per definizione, può esser senza fondo. C'è sempre ancora un precipizio in agguato, e incessanti sono i bassifondi se con le tue forze non ne esci, magari tirandoti su per i capelli. L'ultimo precipizio lo abbiamo vissuto tra sabato e lunedì.

Una manifestazione organizzata in più di 900 città del mondo, indignata contro i governi che non sanno dominare la crisi economica senza distruggere le società, degenera a Roma, solo a Roma, per colpa di qualche centinaio di black bloc che in tutta calma hanno potuto preparare un attacco bellico congegnato alla perfezione, condurlo impunemente per ore, ottenere infine quel che volevano: rovinare una protesta importante, e fare in modo che l'attenzione di tutti - telegiornali, stampa, politici - si concentrasse sulla città messa a ferro e fuoco, sul cosiddetto inferno, anziché su quel che il movimento voleva dire a proposito della crisi e delle abnormi diseguaglianze che produce fra classi e generazioni. Il primo precipizio è questo: torna la questione
sociale, e subito è declassata a questione militare, di ordine pubblico.

Il secondo precipizio è la pubblicazione, ieri su Repubblica, di un colloquio telefonico 1 avvenuto nell'ottobre 2009 fra Berlusconi e tale signor Valter Lavitola, detto anche faccendiere o giornalista: un opaco personaggio che il capo del governo tratta come confidente, che la segretaria del premier tranquillizza con deferenza. Nessuno può dirgli di no, perché sempre dice: "Mi manda il Capo". Lo si tocca con mano, il potere - malavitosamente sommerso - che ha sul premier e dunque sulla Politica. È a lui che Berlusconi dice la frase, inaudita: "Siamo in una situazione per cui o io lascio oppure facciamo la rivoluzione, ma vera... Portiamo in piazza milioni di persone, cacciamo fuori il palazzo di giustizia di Milano, assediamo Repubblica e cose di questo genere". E riferendosi alla sentenza della Consulta che gli ha appena negato l'impunità: "Hai visto la Corte costituzionale? ha detto che io conto esattamente come i ministri".

Lavitola non è un eletto, né (suppongo) una gran mente. Ma un'autorità la possiede, se è a lui che il premier confida il proposito di ricorrere al golpe che disarticola lo Stato. È una vecchia tentazione che da sempre apparenta il suo dire a quello dei brigatisti, e per questo la parola prediletta è rivoluzione: contro i magistrati che indagano su possibili suoi reati (già prima che entrasse in politica) o contro i giornali da accerchiare, con forze di polizia o magari usando le ronde inventate dai leghisti. Sono due precipizi - il sequestro di una manifestazione ad opera dei black bloc, l'appello berlusconiano al golpe rivoluzionario - che hanno in comune non poche cose: il linguaggio bellico, le questioni sociali prima ignorate poi dirottate. E non l'esercizio ma la presa del potere; non la piazza democratica ascoltata come a Madrid o New York ma distrutta. Anche l'attacco dei Nerovestiti era inteso ad assediare i giornali su cui scriviamo. A storcere i titoli di prima pagina del giorno dopo, a imporci bavagli.

La guerra fa precisamente questo, specie se rivoluzionaria. Nazionalizza le esistenze, le frantuma separandole in due tronconi: da una parte gli individui spaventati che si rifugiano nel chiuso casalingo; dall'altra la società declassata, chiamata a compattarsi contro il nemico. Scompare la vita civile, e con essa lo spazio di discussione democratica, l'agorà. Tra il Capo militare e la folla: il nulla. È la morte della politica.
Dovremmo aprire gli occhi su queste cateratte; su questo alveo fiumano che digrada da anni ininterrottamente. Dovremmo non stancarci mai di vedere nel conflitto d'interessi il male che ci guasta interiormente, e non accettarlo mai più: quale che sia il manager che con la scusa della politica annientata si farà forte della propria estraneità alla politica. Dovremmo dirla meglio, la melmosa contiguità fra i due atti di guerra: le telefonate in cui Berlusconi si affida a un buio trafficante aggirando tutti i poteri visibili, e i black bloc che sequestrano i manifestanti ferendone le esasperate speranze. Tra le somiglianze ce n'è una, che più di tutte colpisce: ambedue i poteri sono occulti. Ambedue sono incappucciati.

È dagli inizi degli anni '80 che andiamo avanti così, con uno Stato parallelo, subacqueo, che decide sull'Italia. Peggio: è dalla fine degli anni '70, quando i 967 affiliati-incappucciati della loggia massonica P2 idearono il "Piano di Rinascita". Il Paese che oggi abitiamo è frutto di quel Piano, è la rivoluzione berlusconiana pronta a far fuori palazzi di giustizia e giornali. Sono anni che il capo di Fininvest promette la democrazia sostanziale anziché legale (parlavano così le destre pre-fasciste nell'Europa del primo dopoguerra) e sostiene che la sovranità del popolo prevale su tutto. Non è vero: la res publica non è stata in mano al popolo elettore, neanche quando il leader era forte. Sin da principio era in mano a poteri mascherati, a personaggi che il Capo andava a scovare all'incrocio con mafie che di nascosto ricattano, minacciano, non si conoscono l'un l'altra, come nei Piani della P2.

Non a caso è sotto il suo regno che nasce una legge elettorale che esautora l'elettore, polverizzando la sovranità del popolo. Non spetta a quest'ultimo scegliere i propri rappresentanti - lo ha ricordato anche il capo dello Stato, il 30 settembre - ma ai cacicchi dei partiti e a clan invisibili. Se ne è avuta la prova nei giorni scorsi, quando Berlusconi ha chiamato i suoi parlamentari a dargli la fiducia: "Senza di me - ha detto - nessuno di voi ha un futuro". Singolare dichiarazione: non era il popolo sovrano a determinare il futuro, nella sua vulgata? Basta una frase così, non tanto egolatrica quanto clanicamente allusiva, per screditare un politico a vita.

La sensazione di piombare sempre più in basso aumenta anche a causa dell'opposizione: del suo attonito silenzio - anche - di fronte alla manifestazione democratica deturpata. D'improvviso non c'è stato più nessuno a difendere gli indignati italiani, e gli incappucciati hanno vinto. Non è rimasto che Mario Draghi, a mostrare passione politica e a dire le parole che aiutano: "I giovani hanno ragione a essere indignati (...) Se la prendono con la finanza come capro espiatorio, li capisco, hanno aspettato tanto: noi all'età loro non l'abbiamo fatto". E proprio perché ha capito, ha commentato amaramente ("È un gran peccato") la manifestazione truffata. Nessun politico italiano ha parlato con tanta chiarezza.

La minaccia alla nostra democrazia viene dagli incappucciati: d'ogni tipo. Vale la pena riascoltare quel che disse Norberto Bobbio, poco dopo la conclusione dell'inchiesta presieduta da Tina Anselmi sulle attività della P2. Il testo s'intitolava significativamente "Il potere in maschera": lo stesso potere che oggi pare circondarci d'ogni parte. Ecco quel che diceva, che tuttora ci dice: "Molte sono le promesse non mantenute dalla democrazia reale rispetto alla democrazia ideale. E la graduale sostituzione della rappresentanza degli interessi alla rappresentanza politica è una di queste. Ma rientra insieme con altre nel capitolo generale delle cosiddette trasformazioni della Democrazia. Il potere occulto no. Non trasforma la Democrazia, la perverte. Non la colpisce più o meno gravemente in uno dei suoi organi vitali, la uccide. Lo Stato invisibile è l'antitesi radicale della Democrazia".

(18 ottobre 2011) © Riproduzione riservata
DA - http://www.repubblica.it/politica/2011/10/18/news/il_potere_in_maschera-23405377/?ref=HRER2-1
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« Risposta #153 inserito:: Ottobre 26, 2011, 04:48:21 pm »

L'EDITORIALE

Lo sberleffo della verità

di BARBARA SPINELLI

Chi frequenta i summit delle istituzioni europee, e ne conosce le deferenze opportuniste, le verità lente a dirsi, le cerimoniose capricciosità, non dimenticherà facilmente quel che è successo domenica, nella conferenza stampa di Nicolas Sarkozy e Angela Merkel a Bruxelles. Un giornalista li interroga sulla credibilità di Berlusconi, ed ecco che d'improvviso scoppia un'ennesima bolla, fatta sin qui di illusioni e non-detti: una delle tante, nei quattro anni di crisi che abbiamo alle spalle. La bolla di uno Stato-subprime: debitore di seconda categoria, poco affidabile. Alcuni giudicano disdicevole la sbirciata complice che si sono lanciati l'un l'altro Sarkozy e la Merkel, e umiliante quell'attimo muto, terribile, che ha preceduto l'erompere inaudito della risata, subito echeggiata dai giornalisti presenti. È vero, è stata umiliazione e anche qualcosa di più: un atto di sfiducia che non avanza più mascherata, che si esibisce senza pudori sapendo il consenso mondiale di cui gode. Un assassinio politico in diretta.

È difficile ricordare episodi simili, nella storia dell'Unione, e non stupisce che gli autori stessi dell'incredibile gag siano quasi spaventati da quel che hanno fatto. Fonti governative tedesche si sono preoccupate ieri d'attenuare il colpo: "Le allusioni italiane sul sorriso scambiato ieri in conferenza stampa tra Merkel e Sarkozy sono basate su un equivoco". Ma colpo resta, quel che abbiamo visto domenica: e poco importa se sarà stato un attimo, se lo strappo sarà ricucito e  -  parola di Montale  -  "come s'uno schermo s'accamperanno di gitto alberi case colli per l'inganno consueto". Per un attimo, è come se i dirigenti dei due motori d'Europa  -  Francia e Germania  -  avessero smesso di credere nelle virtù della diplomazia, della pazienza, e solennemente avessero bocciato un primo ministro nel più crudele dei modi, perché altra via non c'è. Sembra uno sfogo incontrollato ma c'è del metodo, nello sfogo: non è nelle istituzioni italiane che si cessa di credere, ma in chi governa. Dopo lo scoppio ilare Sarkozy s'è fatto serio, ha evocato il colloquio tra lui, la Merkel e Berlusconi, ed è stato chiarissimo: "La nostra fiducia, la riponiamo nel senso di responsabilità dell'insieme delle autorità italiane: politiche, finanziarie e economiche". Angela Merkel ha aggiunto: "La fiducia non nasce solo dalla costruzione d'un ombrello salva-Stati. È di prospettive chiare che c'è bisogno". Sono giorni che il Cancelliere non interpella Palazzo Grazioli per ottenere assicurazioni (che legittimità può avere, una sede governativa privata?) ma il Quirinale.

Il messaggio non potrebbe essere più netto, e ultimativo ("vi diamo tre giorni"). E c'è in esso del metodo perché ogni parola è pesata: è sulle istituzioni italiane che gli europei fanno affidamento, non sulla persona Berlusconi. Spetta all'insieme delle autorità italiane, politiche, finanziarie ed economiche mostrare il senso di responsabilità che il premier evidentemente non possiede. Può sembrare un insulto  -  un capo di Stato o di governo non dovrebbe ridacchiare in pubblico di un collega  -  ma la crisi che traversiamo è talmente vasta, e funesta per tutti i cittadini d'Europa, che il galateo diplomatico per forza si sfalda. Non sono due leader arroganti a sbeffeggiare l'alleato; è il disastro europeo che può nascere dal vuoto politico italiano che secerne l'inaudito incidente. Un disastro che Berlusconi ancor oggi elude, quando dopo il vertice proclama: "Non c'è stato e non c'è rischio Italia". L'occultamento dura dal 2007-2008 ("Non c'è crisi. Siamo i primi in Europa") con effetti catastrofici su quel popolo che il premier s'ostina a chiamare sovrano.

La cosa triste nell'Unione europea è la sua impotenza, quando un paese membro azzoppa la propria democrazia e con false informazioni frena l'insorgere  -  nei singoli cittadini  -  della responsabilità. Bisogna essere democratici, per poter entrare nell'Unione. Non bisogna necessariamente esserlo, per restarvi. C'è un articolo del trattato di Lisbona (il numero 7) che prevede sanzioni quando uno Stato si discosta dalla democrazia: ma nessuno, neanche l'opposizione in Italia, ha mai osato fare appello a esso. L'unico espediente dell'Unione, quando vuol render manifesta un'incompatibilità non solo economica e finanziaria con Stati devianti, è di conseguenza la peer pressure, la pressione dei pari grado. E la pressione non sembra in grado di secernere altro che il sogghigno. Solo quando è in gioco l'economia, pare efficace.

Ma è un sogghigno che va analizzato, perché spesso ridendo diciamo cose molto vere. Dichiarandosi fiduciosi nell'insieme delle autorità italiane, i colleghi dell'Unione scommettono proprio su quella pluralità di poteri che Berlusconi continua a contestare, e a questi poteri si rivolgono: spetta a voi risolvere il rebus Berlusconi, e mostrare un senso di responsabilità che metta fine allo sberleffo mondiale scatenato da Palazzo Grazioli. È un appello, non recondito, alle forze responsabili della maggioranza: che sfiducino loro il premier, prima delle elezioni perché non c'è più tempo. Che mandino ai prossimi vertici europei un capo di governo di cui nessuno ridacchi più.

Si ricorda spesso il Gran Consiglio fascista, che il 25 luglio '43 mise in minoranza Mussolini grazie alla mozione di Dino Grandi. Ma non c'è bisogno di risalire tanto indietro. Anche l'Unione delle democrazie postbelliche conobbe casi simili. Il 20 novembre 1990, Margaret Thatcher cadde in seguito a un voto interno del suo partito, prima delle elezioni, e anche lei fu messa da parte per incompatibilità con l'Europa comunitaria. Due giorni dopo il Gran Consiglio conservatore, il premier si dimise e lasciò in lacrime Downing Street. Che l'Europa e i mercati avessero decretato la sua fuoriuscita era stato confermato, il primo novembre, dalle dimissioni di Geoffrey Howe, il vice primo ministro più aperto all'Unione e all'euro. Michael Heseltine, conservatore, fu il Dino Grandi della situazione.

Berlusconi non può più andare a Bruxelles, dopo un episodio del genere. Perché trascina verso il basso non solo l'Italia, ma l'intera zona euro. Un primo monito è venuto da Mario Monti, non un semplice pretendente al trono ma un conoscitore-frequentatore delle istituzioni europee: "Sarebbe opportuno che quanti hanno dato il loro sostegno al governo Berlusconi (...) prendessero maggiore consapevolezza della realtà internazionale che rischia di travolgerci, di trasformare l'Italia da Stato fondatore in Stato affondatore dell'Unione europea" (Corriere della Sera, 16 ottobre 2011).

Berlusconi non può presentarsi a Bruxelles, e l'Europa non può concedersi l'anomalia italiana: è la lezione dello sberleffo, che solo in apparenza è irridente ma la cui sostanza è spaventosamente seria. È come quando ride una persona che piange. Nessuna cosa detta da Berlusconi ha più peso né senso, tanto trasuda incultura delle cose europee. Anche la sua insistenza sulle dimissioni di Bini Smaghi, membro della Bce, ha qualcosa di intollerabilmente ottuso, agli occhi non solo del diretto interessato ma di tutta la Bce. Bini Smaghi deve andarsene, "essendo stato nominato dal governo senza passare attraverso alcun tipo d'elezione o concorso". Sono frasi come queste, di una rozzezza e insipienza senza limiti, che rendono velenosa la vicenda. Bini Smaghi non è, a Francoforte, un rappresentante dell'Italia ma di Eurolandia. La sua nomina, come quella di Draghi, prevede ben 3 votazioni (Eurogruppo, Parlamento europeo, Consiglio europeo) e il Trattato contiene regole precise per la rimozione dei membri del Comitato esecutivo Bce, che può avvenire solo per motivi gravi. Comunque non può esser decretata né da Berlusconi né da Sarkozy, in nome dei rispettivi Stati nazione.
La crisi strappa tanti veli, compreso questo. È il suo lato positivo: le regole diventano più importanti, non meno, man mano che lo sconquasso s'estende. Berlusconi le ignora del tutto, ed è un autentico miracolo che abbia alla fine nominato una personalità profondamente indipendente come Ignazio Visco alla testa di Banca d'Italia. Quanto a lui, non farà alcun passo indietro: chiederglielo è nenia un po' beota. Ma la pressione dei pari esercitata a Bruxelles può avvenire anche in Italia. Sempre che esistano uomini della destra davvero responsabili, che non usino questo nobile aggettivo per brigare, alla Scilipoti, prebende e notorietà.

(25 ottobre 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #154 inserito:: Novembre 01, 2011, 11:49:30 am »

IL LIBRO

Pensare una cosa di sinistra

Dal Brasile alla Germania, le idee per cambiare la politica.

Il nuovo saggio di Federico Rampini è uno sguardo cosmopolita sui modelli alternativi per superare la crisi

di BARBARA SPINELLI

 
GIA' DA MOLTI ANNI Federico Rampini ci ha abituati a nomadizzare, con i libri su Cina, India, America. Ma questa volta si ferma, mescola le cose viste, ed estrae una sua sintesi. Questa volta il giornalista errante vuole influire sulla pòlis, e specialmente sulla provincia della pòlis che gli è vicina: la sinistra. Il suo ultimo libro è una lettera (Alla mia sinistra, Mondadori) e il nomade si trasforma in pedagogo, che insegna l'arte preziosa che ha appreso: lo sguardo cosmopolita. Il suo cosmopolitismo non nasce da una dottrina, da cui viene dedotta l'apertura, curiosa, al diverso. Nel suo cammino verso la condizione di cittadino del mondo, Rampini adotta il metodo induttivo. È esplorando realtà e fatti lontani che le lenti cosmopolite si impongono, come unico metodo per capire il presente: grazie a esse scopriamo che Italia, Europa, Occidente, sono frammenti d'un mosaico più vasto, e sorprendente. Chiusi nei recinti nazionali, crederemo di vedere, ma non vedremo. È una delle lezioni del libro. Il lettore sarà impressionato dalla mole di notizie sul miracolo economico di India, Cina, Brasile, o sulla globalizzazione che si fa caos cruento ai confini tra Messico e Stati Uniti (viene in mente l'atroce serie di morti in 2666 di Roberto Bolaño). La sua Cindia (Cina+India), il suo Brasile, la sua America, ci pare di conoscerli un po' anche noi, quando chiudiamo il libro: di penetrarne splendori e miserie.

Vediamo un capitalismo che secerne al tempo stesso prodigi e degradi inauditi, in incessante movimento.
Vediamo meglio noi stessi, e come tuttora ci illudiamo di essere centro del mondo. Il bello del libro è che ne esci lettore in metamorfosi: una strana condizione, non dissimile dalla scoperta, nella pittura pre-rinascimentale, della prospettiva. È fatta di antinomie la prospettiva: di spazi scoperchiati. Siamo abituati a parlare di recessione, dopo il collasso del 2007-2008, ma non tutti la vivono così. Per un'enorme parte della terra (i Bric, cioè Brasile, Russia, India, Cina) la crisi non è Grande Contrazione. È nuovo inizio, promesso a milioni di reietti. È una formidabile "redistribuzione della speranza", scrive l'autore. Si accompagna a svolte geopolitiche di cui appena ci rendiamo conto: non si contraggono solo i nostri consumi, il nostro welfare. Si raggrinza l'America del Nord, come l'Europa dopo le guerre del '900. Sono passati appena dieci anni, da quando Washington si autoproclamò nuova Roma imperiale: la malinconia cattura ora anche lei, come catturò l'Europa. Gli spiriti animali del capitalismo, euforici, hanno traslocato in Brasile, Cina, India. Lì la Storia ricomincia.

C'è un interrogativo cruciale posto da Rampini: "Poteva andare altrimenti?" Erano fatali, in Occidente, il naufragio delle speranze e della politica, il predominio di anonimi poteri finanziari cui per decenni è stata concessa la sregolatezza, la frode degli impuniti, il baratro infine che ha risucchiato il nostro capitalismo? Non era affatto ineluttabile, tutto poteva andare diversamente se avessero prevalso la legge, l'etica pubblica. Chi ha visto il terribile film di Charles Ferguson sulla crisi, Inside Job, sa di che parliamo. Non era fatale che la sinistra s'insabbiasse nel mimetismo, cedesse al caos del mercato: soprattutto l'osannata sinistra riformista di Clinton, Blair, che facilitò l'egemonia della destra e la sua letale deregolamentazione.

Rampini non esita a parlare di plutocrazia: un termine forse troppo incandescente (fu usato dai fascismi contro la democrazia). Quel che è osceno, nel potere della ricchezza, è l'uso che se ne fa: la disuguaglianza patologica che ha prodotto, l'arroganza imperiale, l'assenza di limiti, dunque di morale. La crisi ha rivelato una corruzione mentale profonda delle élite, e il declino della morale occidentale è l'evento del secolo. Il 29 gennaio 2002, poco dopo l'11 settembre, Paul Krugman scrisse un memorabile articolo sul New York Times (The great divide): non era stato l'11 settembre a "cambiare ogni cosa". Il punto di svolta che smascherò il nostro marciume, lo ricorda anche Rampini, fu lo scandalo Enron, la gloriosa società legata a Bush e Dick Cheney, travolta il 2 dicembre 2001 dal falso in bilancio.

Tutto poteva andare diversamente: da quest'analisi autocritica urge partire. La storia non si fa con i se ma la coscienza storica sì. L'Europa sarebbe diversa, se fosse stato attuato il piano Delors su comuni investimenti, finanziati da euro-obbligazioni. Se l'euro non fosse restato senza Stato. Se qualcuno avesse voluto davvero "cambiare il gioco". Rampini riserva parole dure a quel che disse Tommaso Padoa-Schioppa, quand'era ministro dell'economia: "La tasse sono una cosa bellissima". Forse dimentica che bellissima per lui non era l'azione del pagare, ma l'idea che il consumatore si sentisse contribuente a beni comuni (strade, scuole, trasporti): frasi del genere, eretiche, "cambiano il gioco". Rampini stesso denuncia la rivolta americana del Tea Party contro statalismo e fisco. È la conferma che spesso votiamo contro noi stessi: "Per un'illusione ottica sconcertante, o un miraggio collettivo, il 16 per cento degli americani è persuaso di appartenere all'1 per cento dei più ricchi (...). L'idea che qualunque intralcio alla libertà di mercato ci rende tutti un po' più poveri, e prigionieri di uno Stato oppressivo, ha una forza irresistibile nella cultura di massa americana".
Se le cose potevano andare diversamente ieri, tanto più oggi. La scoperta della prospettiva (di un pianeta non più dominato dall'occidente) aiuta a escogitare modi di vivere diversi, adatti alla Grande Contrazione. Modi cui Rampini dedica il bel capitolo finale: basati sulla sottrazione, non sull'addizione del superfluo. Sono vie percorribili e non tristi, contrariamente a quel che si disse quando Berlinguer o Carter parlarono (nel '77 e '79) di austerità. Proprio i paesi emergenti inventano oggi crescite ecologicamente vigili. Il Brasile escogita l'automobile di biofibre, o il bioetanolo ricavato da canna da zucchero. Per scoprire nuove idee basta guardare dove la speranza rinasce. Basta inforcare gli occhiali cosmopoliti.

Di una cosa l'autore è convinto: l'egemonia culturale, dopo la crisi petrolifera del '73, è la destra anti-Stato a conquistarla. E il fallimento non sembra intaccarla. È la vera sfida che la sinistra ha di fronte. Ma come nell'800 e '900, la socialdemocrazia è forse la soluzione. È socialdemocratico il Brasile di Lula. È socialdemocratico il modello tedesco, austero custode dello Stato sociale anche quando governano i democristiani: unica alternativa alla Cina, secondo Rampini. Tutto questo, Rampini lo scrive alla sinistra, perché non abbia paura di "cambiare il gioco". Perché apprenda la prospettiva. Perché non viva anch'essa, come i populisti, nella "menzogna permanente". Perché non diventi, come Obama, un soldato missing in action, che non dà più segno di vita: o perché morto in battaglia, o perché caduto in mano nemica, o perché disertore.

(01 novembre 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #155 inserito:: Novembre 07, 2011, 09:14:06 am »

Serve più Europa

di Barbara Spinelli, da Repubblica, 2 novembre 2011


Da quando hanno cominciato a protestare, gli indignati hanno denunciato via via l'ottimismo illusionista dei governi, le istituzioni internazionali spesso indifferenti ai vincoli democratici, infine la Banca centrale europea: nostro salvagente, ma salvagente riluttante a tramutarsi in prestatore di ultima istanza. Le denunce possono convincere o no, ma dietro c'è una domanda cruciale, cui non si sfugge.

La domanda è comune agli indignati e alle forze che in queste ore, più che mai, mostrano di non credere in Stati come Grecia e Italia, non escludendo funeste bancarotte: chi comanda, nell'emergenza che viviamo? E se davvero la crisi prelude a una mutazione radicale delle società, se davvero Roma o Atene s'inabissano: quali poteri decideranno il da farsi, combinando o non combinando i sacrifici con la giustizia sociale che fonda le nostre democrazie? Chi controlla i controllori?

Davanti a questo bivio stiamo, e la domanda è cruciale perché pone al tempo stesso la questione della sovranità e della democrazia. E perché è una domanda che in Italia sale dal Quirinale stesso, che giudica il vuoto politico ormai non più tollerabile. La risposta che dà Berlusconi - colpevole è l'euro, "moneta strana che non ha convinto nessuno" - è non solo becera. È nichilista, perché scaricare le responsabilità su Francoforte significa perpetuare la truffa illusionista e non capire il tracollo del proprio ventennio: ventennio che si chiude con una sorta di sconfitta bellica simile a quella che travolse Mussolini. Quando il Premier gioca allo sfascio attaccando l'euro, e poi fa come se avesse detto il contrario, mostra che la cacofonia affligge non tanto la sua maggioranza quanto la sua testa, e quel che la testa gli fa dire. Con cortesia gelida, Mario Monti gli ha ricordato in una lettera aperta sul Corriere che "anche le parole non sorvegliate hanno un costo", pagato da noi tutti.

Altri giocano allo sfascio, più o meno scompostamente. C'è chi, come il Premier greco, indice un referendum spericolatissimo sull'austerità, presentandolo come democrazia. C'è chi accarezza l'idea di sospenderla, la democrazia, persuaso in segreto che la via sia quella di Donoso Cortés, il politico spagnolo dell'800 che preferiva l'autoritarismo alla sempre titubante clase discutidora. Chi parla di governi italiani di salute nazionale indica la soluzione (il Quirinale stesso fa sapere che "servono larghe intese"), ma esiste il rischio di curare i mali col veleno che li ha creati. Non abbiamo bisogno che al governo vada un outsider infastidito dalla politica, magari con nuovi conflitti d'interesse: l'esperimento è già stato fatto, dopo Mani Pulite, dall'imprenditore di Arcore. Credo che l'Italia abbia sete di veri politici, di servitori dello Stato come Monti che è stato per anni civil servant in Europa, allo stesso modo in cui per liberarsi da Tangentopoli ebbe bisogno di Ciampi, del suo senso della res publica. Il nostro risanamento non può avvenire in due tempi: prima la democrazia sospesa, poi il ritorno al confronto politico normale.

Se ben governata, la catastrofe italiana può infatti riservare sorprese non distruttive, e fornire una risposta alla doppia domanda di indignati (e mercati) su sovranità vera e democrazia. Tutto verte attorno al termine commissariamento, vissuto come un'onta da gran parte della nostra classe dirigente. In un articolo pubblicato il 28 ottobre sul Sole 24 ore, dopo l'accordo di Bruxelles e la lettera d'intenti italiana, Beda Romano ha scritto un importante articolo, che punta il dito sulla frase più rivelatrice del comunicato finale del vertice Ue: "Invitiamo la Commissione a fornire una valutazione dettagliata delle misure e a monitorarne l'attuazione, e le autorità italiane a fornire tempestivamente tutte le informazioni necessarie per tale valutazione".

Il passaggio equivale a un commissariamento solo se restiamo convinti che gli Stati nazione siano ancora capaci di comando, nell'emergenza. Ma il comunicato può esser letto in modo radicalmente diverso: come primo segno di una riduzione delle sovranità nazionali, non negativa anche se vissuta - in Italia - dolorosamente e non democraticamente. "L'Italia è diventata all'improvviso un banco di prova per l'intera unione monetaria", scrive Romano, e, lungi dall'essere commissariata, potrebbe essere "il battistrada di una nuova Europa".

Non per questo però il dramma s'attenua. L'esperimento che trasforma l'Italia in embrione di governo europeo nasce con vizi gravi: affronta la questione della sovranità, non della democrazia. È uno dei punti salienti del discorso, lucido, che Napolitano ha tenuto a Bruges il 26 ottobre: una nuova Europa sta forse nascendo, non solo economica ma politica, dotata di una "sovranità europea condivisa", ma alla metamorfosi dell'Unione potranno contribuire in maniera inventiva solo Stati non disfatti, ridotti a cavie, tentati dall'antipolitica, ma che stiano in piedi agendo da protagonisti su ambedue i piani: apprendendo la cultura della stabilità, e spingendo i partner dell'Unione a fare più Europa, a dotare il bilancio comunitario di più mezzi, a osare la messa in comune dei debiti con gli eurobond, a riprendere il sentiero dell'Europa sociale. Anche nel quadro di un avanzamento dell'Unione, ha detto Napolitano lunedì, "restano affidate inderogabili funzioni agli Stati nazionali, e decisivo resta il loro concorso al perseguimento delle stesse politiche comuni europee". Come concorrere, se lo Stato naufraga?

La cessione di sovranità non può iniziare profittando di un legno marcio, oltre che storto. Altrimenti il battistrada diverrà spauracchio. La Francia farà simili passi? E la Germania, il cui nuovo nazionalismo Habermas giudica severamente, cederà infine sovranità? Si ritorna così alla prima domanda: se l'Italia è apripista, chi comanderà la futura Europa delle sovranità condivise? Che volto avrà il governo sovranazionale: quello del Leviatano di Hobbes (l'autorità fa legge), oppure esisteranno regole cui l'auctoritas dovrà sottostare? Se il referendum greco minaccia l'euro, quale democrazia europea inventare, perché i cittadini non si sentano spodestati?

Disvelare i veri poteri e democratizzarli è il compito dei partiti europei. Un compito arduo in Italia, perché doppio: si tratta di allontanare Berlusconi, che evidentemente crea sfiducia ovunque, e di lavorare, in Europa, per un salto di qualità federale. Nicola Zingaretti, nel manifesto scritto il 27 ottobre sul Foglio, fa proprio questo: è l'unico, a me pare, ad auspicare una battaglia simultanea in Italia e Europa. Quel che propone, in sintonia con Napolitano, è lanciare subito "una campagna per l'elezione diretta del presidente dell'Unione europea", per rispondere alla richiesta di un nuovo spazio politico. I politici italiani di destra e sinistra sono accusati di aver "abdicato alla missione per la quale fu intrapreso il cammino dell'unità (il cui simbolo vincente è stato senz'altro Romano Prodi)" e d'aver rinunciato ad affiancare un'Unione politica democratica a quella economica. Alla domanda di indignati e mercati urge rispondere indicando con chiarezza quali sono i poteri e i contropoteri negli Stati e nell'Unione: "Nell'era della comunicazione globale le persone vogliono giustamente sapere chi decide e controllare direttamente l'iter delle scelte".

Anche la Banca centrale europea deve cambiare, secondo Zingaretti, e darsi nuovi poteri e missioni: "Bisogna dotare l'euro degli stessi strumenti di cui gode oggi il dollaro, ed evitare che l'assenza di strumenti difensivi flessibili nel sistema monetario esponga la nostra moneta alla speculazione". Non lo propone solo Krugman, spesso scettico verso l'euro. Anche europeisti come Paul De Grauwe, Charles Wyplosz, Jacques Delors, chiedono che sia consentito all'istituto di Francoforte di divenire una Banca centrale autentica, prestatrice di ultima istanza. Solo così, secondo Delors, le istituzioni europee saranno "non i pompieri, ma gli architetti dell'Europa" che verrà, se la vorremo.

(2 novembre 2011)
da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/serve-piu-europa/
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« Risposta #156 inserito:: Novembre 13, 2011, 11:09:05 am »

   
L'ANALISI

Cala il sipario sul Truman Show

di BARBARA SPINELLI

Ci sono due scene, nel fine regno di Berlusconi, che dicono la sua caduta con crudezza inaudita: più ancora del voto del rendiconto dello Stato che ha attestato, ieri, lo svanire della maggioranza. Ambedue le scene avvengono fuori Italia, trasmesse dal mezzo che Berlusconi per decenni ha brandito come scettro: la tv. La prima è il riso di Sarkozy e Merkel, quando una giornalista chiede se Roma sia affidabile. È l'equivalente del lancio di monete su Craxi: un'uccisione politica. La seconda scena è del 4 novembre, dopo il G20 a Cannes, e forse è quella che parla di più. Con volto tirato, stupito, il Premier ripete che di crisi non c'è traccia, che "per una moda passeggera" i mercati s'avventano sul nostro debito sovrano: "Noi siamo veramente un'economia forte, la terza economia europea, la settima economia del mondo... la vita in Italia è la vita di un Paese benestante, in tutte le occasioni questo si dimostra... i consumi non sono diminuiti, i ristoranti sono pieni, con fatica si riesce a prenotare posti negli aerei, i posti di vacanza nei ponti sono assolutamente iperprenotati... ecco, non credo che voi vi accorgiate, andando a vivere in Italia, che l'Italia senta un qualche cosa che possa assomigliare a una forte crisi! Non mi sembra!"

Vale la pena soffermarsi su questa frase - su questo "non credo", "non mi sembra" - perché in pochi secondi apprendiamo quel che è stato, ed è, il berlusconismo: l'apparenza che usurpa il reale, e il vocabolario di tale usurpazione. Non è il linguaggio della politica, che anche quando s'ingarbuglia s'adatta astuto alle circostanze. Non è neanche il linguaggio di una classe: in questo caso, di un imprenditore sceso in politica perché messo alle strette dalla giustizia. È il linguaggio dello spot promozionale: insistente, sempre eguale a se stesso, sempre indirizzato al cittadino che di politica non vuol sapere, sempre pronto ad annusare il possibile cliente in chi sta appeso alla Tv.

Per il pubblicitario non c'è crisi, non ci sono precipizi, ma un mondo liscio, parallelo a quello - reale - che sta "là fuori". Nei disastri il pubblicitario c'è o non c'è a seconda delle convenienze: iper-presente all'Aquila, iper-latente in Liguria e a Genova. In pieno sfascio economico la réclame non smetterà di esibire sontuosi sofà, mogli che corrono ai centri benessere, lussuose automobili che una giovane coppia, piccata, non compra perché le ritiene, nientemeno, "troppo poco care". Ecco, il quasi ventennio Berlusconi è stato questo: uno show che dominava le menti anche se sporadicamente governava la sinistra. Un Truman Show, che alla fine beve il cervello stesso del suo demiurgo.

Ricordate il finale del film? È il risveglio che Eugenio Scalfari invoca nell'articolo di domenica. Truman, l'eroe in fuga, giunge ai limiti estremi di quello che crede essere il mondo ed è invece un immenso studio Tv. Col proprio veliero cozza contro una parete che s'erge all'orizzonte e simula, tutta dipinta d'azzurro, il cielo ai confini con le acque (lo spazio azzurro dei fan di Berlusconi, nel sito Pdl). Dalla cabina di regia è interpellato dal capo della Grande Manipolazione, Christof, e Truman che ha scoperto la verità gli chiede: "E io chi sono?" - "Tu sei la star" - "Non c'era niente di vero..." - "Tu, eri vero. Per questo era così bello guardarti. Ascoltami Truman, là fuori non troverai più verità di quanta ne esista nel mondo che ho creato per te: le stesse ipocrisie, gli stessi inganni, ma nel mio mondo, tu non hai niente da temere... Io ti conosco meglio di te stesso. Tu hai paura. Per questo non puoi andar via". La sfera di cristallo s'infrange quando Truman scoppia a ridere, recita la frase-spot che ripeteva nel finto villaggio, e esce dallo show: "Caso mai non vi rivedessi... Buon pomeriggio, buona sera e buona notte! Già...".

Accade così il risveglio ma non sarà facile, perché quasi tutti hanno concorso alla costruzione della sfera con nuvole, notti, cieli finti. Perché tanti si sono abituati alle frasi-spot, all'infantile ecolalia. Anche la sinistra ha concorso, fin da quando permise che un proprietario di reti tv si candidasse a premier. Non dimentichiamo come finirono i governi Prodi, affossati da chi pretendeva sostenerli e parve ignaro che il tycoon perdeva magari il governo ma non il potere. L'ultimo esecutivo di sinistra, nel 2006-2008, fu considerato fallimentare dagli stessi alleati di Prodi perché troppo rigoroso in economia, troppo preoccupato di sincronizzare i tempi italiani con l'orologio europeo. Chi nomina ancora in pubblico Vincenzo Visco, dipinto dalla destra come Dracula assetato di sangue perché in lotta con l'evasione fiscale? Eppure Tremonti ha dovuto riesumare non poche sue misure: oggi l'evasore è ritratto come insetto parassita, parola che Visco non usò.

L'altro giorno, intervistato da Lilli Gruber a 8½, Enrico Letta è stato evasivo sull'austerità. Senza Berlusconi, ha detto, noi "non abbiamo davanti un tempo di drammi quanto alle misure da prendere. L'Italia è un Paese che ha fondamentali assolutamente solidi, forti. Ha imprenditori, ha lavoratori, ha ricchezze, ha patrimoni. L'Italia ha tante, tante, tante possibilità di farcela! Noi non siamo la Grecia! Siamo proprietari delle nostre case, proprietari in buona parte del nostro debito pubblico. L'Italia ha la ricchezza!" Che dovremo fare, caduto questo governo? Ci salveremo "facendo scelte che indichino la terra promessa. Perché ci sono una serie di importanti riforme che non sono fatte solo per sacrificarsi: ma per cambiare ed essere migliori!". Tutto questo è vago, e non così diverso, in fondo, da quanto detto dal Premier a Cannes. Perfino certi suoi tic verbali sono ripresi: l'ubiquo avverbio "assolutamente", o le infantilizzanti parole a raffica (tante tante tante possibilità, riecheggianti la grande grande grande riforma giudiziaria). Non è vero quello che si legge in queste ore: "Berlusconi non esiste".
Centro e sinistre si stanno dimostrando responsabili, ma non è evidente che abbiano, della crisi, una visione davvero chiara. Che siano pronti ad affrontare il tema destinato per volontà del Premier a sovrastare la campagna elettorale: l'Europa. Nell'attacco il centrosinistra è bravo. Molto meno nel contrattacco. Continuerà a denunciare il commissariamento, o lavorerà su misure più eque ma per noi necessarie? E come replicherà allo spot di Berlusconi, secondo cui è colpa dell'euro se stiamo male? Possibile che nessuno gli ricordi che al governo c'era lui, quando l'euro fu introdotto nel 2002 e i prezzi s'impennarono senza trasparenza né controllo alcuno? Dovrebbe far riflettere il fatto che il dibattito interno al Pd, o la battaglia europea su una vera Banca centrale, prestatrice di ultima istanza, avvengano soprattutto sul Foglio.

Uscire dal Truman Show significa rifare le istituzioni italiane, oggi sfatte. Non è chiaro se la sinistra darà alla Rai l'indipendenza dai partiti che possiede la Bbc. Se lotterà in Europa per trasformarla in qualcosa di più democratico e sovranazionale. Se riempirà di contenuti i discorsi sull'etica pubblica, combattendo corruzione, cricche, mafie. Se vorrà la legge elettorale reclamata dai cittadini, e candiderà parlamentari debitori verso gli elettori, non i partiti. Se contrasterà l'inadeguatezza e i fallimenti della seconda repubblica senza proporre tutti i mali della prima. Promettono male, i posti nelle liste di centro sinistra garantiti ai transfughi Pdl.

Non so cosa intendesse Prodi, quando domenica su Repubblica ha detto che "Bersani è una persona eccellente, di grandi capacità, ma non riesce a "uscire"". A me pare che parlasse di un'uscita dal deserto del reale: dal Truman Show. Berlusconi scimmiotta Mao: "Grande è la confusione sotto il cielo, la situazione è eccellente". Siamo sicuri che non lo scimmiotti anche la sinistra? I sogni utopici, dice Slavoj Žižek, eliminano il "rumore di fondo": cioè la realtà. Siamo sicuri che questo rumore sapremo udirlo, capirlo, restituirgli uno spazio?

(09 novembre 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2011/11/09/news/editoriale_spinelli-24695067/?ref=HREA-1
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« Risposta #157 inserito:: Novembre 16, 2011, 11:42:12 am »

IL COMMENTO

La scommessa di un tecnico

di BARBARA SPINELLI

NEL GIRO di pochi giorni è accaduto qualcosa di importante, sia in Italia sia in Grecia, che ci obbliga a inforcare nuovi occhiali, di tipo bifocale, fatti per vedere quel che accade in Italia e simultaneamente in Europa, quel che s'è guastato e va riparato qui da noi e lì. Anche il tempo dovremo imparare a guardarlo con lenti bifocali, combinando la veduta ampia e la corta. Italia e Grecia non sono comparabili, perché la nostra svolta mette fine a un lungo esperimento populista, quello berlusconiano. Ma Roma e Atene hanno in comune due cose non trascurabili. In ambedue, la politica è stata per decenni sinonimo di corruzione e realtà occultata, e per questo è degenerata. In ambedue, si sta tentando una via inconsueta: lo scettro passa a uomini considerati tecnocrati, ma che non sono affatto nuovi alla politica.

I due tecnici sanno perfettamente la dedizione speciale (la vocazione) che ci si aspetta dal professionista politico, ed è con la massima naturalezza che Monti, intervistato, ha detto che "operazioni così grandi" - riordinare la nostra economia - "richiedono politica, più che tecnica". Sia lui che Papademos non sono nuovi alla politica, solo che l'hanno fatta a un altro livello: quello europeo. La res publica italiana, che è lo spazio cui la nostra democrazia è avvezza, ha come complemento, ormai, una res publica europea: una cosa pubblica, con suoi organi di governo e controllo democratico, che influisce sulle nostre vite non meno dei governi nazionali.
Che fa di ciascuno di noi, anche se non lo percepiamo, cittadini europei oltre che italiani.

Mario Monti è stato per 9 anni nel governo europeo che è la Commissione di Bruxelles: lì si è occupato prima di mercato interno poi di concorrenza, e ha condotto battaglie molto dure, molto politiche, contro gli abusi di posizione dominante e il capitalismo senza regole. Cos'è stata, la sua cocciuta battaglia contro Microsoft o la fusione General Electric-Honeywell, se non governo dell'economia? Lucas Papademos è stato per 8 anni vicepresidente della Banca centrale europea, e ha visto il ruolo della Bce farsi cruciale. L'uno e l'altro hanno fatto politica piena, se politica è governo della vita pubblica e dei suoi conflitti in nome di cittadini (o nazioni) associati.
Parlare di un potere di tecnocrati e banchieri centrali che avrebbe usurpato il trono del politico vuol dire ignorare coscientemente la realtà in cui viviamo, fatta non di evaporazione ma di differenziazione-moltiplicazione della sovranità politica. Siamo membri delle nazioni e al tempo stesso dell'Europa. La sovranità del popolo si esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione italiana, ma anche di quella europea. La seconda Costituzione esiste di fatto - con le sue leggi preminenti sulle nazionali, con la sua Carta dei diritti inserita nel Trattato dunque giuridicamente vincolante - anche se gli Stati, vigliaccamente, si son rifiutati di dare al Trattato di Lisbona il nome di Costituzione. È per una sorta di ignoranza militante, strabica, che non scorgiamo quel che pure esiste. Un'ignoranza che paradossalmente affligge più i centristi che le forze estreme, di destra o sinistra. Queste ultime hanno visioni più apocalittiche e nazionaliste, ma spesso vedono più chiaro.

Anche l'accusa di scarsa democraticità nasce da ignoranza militante. Le istituzioni europee non sono del tutto democratiche, il Parlamento europeo non ha i poteri che dovrebbe avere. Ma ne ha molti. Dipende dai partiti accorgersene, e fare vera politica europea: trasformando le elezioni dei deputati di Strasburgo in autentica deliberazione comune, imponendo l'elezione diretta del Presidente della Commissione, suscitando un'agorà europea. Quanto alla democrazia italiana, non è credibile chi ritiene lesa la Costituzione perché caduto un governo non si va subito alle urne. La prassi degli ultimi 18 anni ha personalizzato le elezioni sino a diffondere un'idea storta della nostra democrazia: l'idea che il popolo scelga il leader una volta per tutte.

La personalizzazione è il riflesso della dottrina berlusconiana, non della Costituzione. Quando un Premier perde la maggioranza per governare, il Quirinale tenta di formare un altro esecutivo. Allo stesso modo è il Presidente del consiglio incaricato e non i clan partitici a proporre ministri al capo dello Stato (articolo 92 della Carta). Rifondare la democrazia è tornare alla Costituzione scritta, non a quella sfigurata da consuetudini e poteri più o meno occulti fin dai tempi della Prima repubblica.

Ma anche i due cosiddetti tecnici chiamati a guidare Italia e Grecia devono apprendere l'arte politica nella sua accezione ormai doppia, nazionale e (sempre più) europea. L'esperto economico ha spesso la tendenza a contemplare tabelline. Cambiare il mondo, creare istituzioni politiche, non è precisamente la cosa cui è abituato. Invece dovrà farlo - in Italia dovrà occuparsi di legge elettorale, di indipendenza Rai dai partiti - se è vero che la crisi è una grande trasformazione sociale, democratica, geopolitica. Anche l'euro fu progetto politico, voluto da statisti come Kohl e Mitterrand: tecnici e banchieri centrali, di rado rivoluzionari, erano contrari.

La scommessa di Monti e Papademos ha senso se assumono in pieno il rischio della politica, non solo in patria. Anche in Europa infatti urge il riscatto, oltre che a Roma o Atene. Anzi, a Roma e Atene è possibile solo se avviene anche in Europa. Non è ammissibile che a indicare la linea sia un leader nazionale (Merkel, Sarkozy) piuttosto che istituzioni comuni come Commissione, Parlamento europeo, Bce. Non è ammissibile che Berlino continui a opporsi a un'Europa più solidale, e a istituzioni o misure che accentuino l'unità: un governo federale, una Banca centrale prestatrice di ultima istanza, un Fondo salva-Stati sovranazionale, un ricorso agli eurobond.
Sono istituzioni e misure auspicate dai governi in difficoltà, ma anche da organi comunitari come la presidenza dell'Eurogruppo e il Parlamento europeo. D'altronde personalità tedesche di primo piano invocano simili rivoluzioni: tra esse il ministro del Tesoro Schäuble (intervista a Le Monde, 13-9). Il no tedesco forse s'attenuerebbe se gli Stati rinunciassero a parte della propria sovranità economica (avvenne quando Berlino accettò l'euro in cambio del Patto di stabilità): è una strada da tentare. Non è stato Monti, in un bell'articolo sul Financial Times del 20 giugno, a denunciare l'immobilizzante deferenza tra Stati dell'Unione? Speriamo che questa impavida capacità critica la dimostri anche da Premier, se scioglierà la riserva. Speriamo che anche in casa non sia troppo deferente. Non sarebbe stato promettente includere nel governo Gianni Letta, se questi non avesse garantito pubblicamente l'indipendenza dagli interessi personali  del capo. Ancor meno promettente la scelta, da parte di Papademos, di due ministri della destra più estremista, Makis Voridis e Adonis Georgiades.

Converrà esserne coscienti: finisce per il momento Berlusconi, non il berlusconismo. Non finisce l'estremismo del centro che lo caratterizza, e che si nutre e nutre l'elettorato di paura del nuovo. Non si ricomincia da zero, come se alle spalle non avessimo il quasi ventennio. La memoria da tener viva, e l'arte politica da reinventare, sono come l'amore del prossimo insegnato nel Vangelo. Cos'è l'amore del prossimo, chiede il dottore della Legge (l'equivalente del tecnocrate filisteo)? Gesù risponde con la parabola del Samaritano che si trasforma guardando il dolore che ha davanti (gli si spaccano le viscere, questa la compassione che prova) e conclude, rivolto all'esperto in leggi e teorie: "Và, e anche tu fà lo stesso". Anche in Italia è questa la via: "Và, e fà memoria. Và, con spirito profetico oltre che col tuo sapere tecnico, e fà politica".

(16 novembre 2011) © Riproduzione riservata

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« Risposta #158 inserito:: Novembre 24, 2011, 06:35:59 pm »

L’occasione Monti per sconfiggere il berlusconismo

di Barbara Spinelli, da Repubblica, 23 novembre 2011


Nel presentare il proprio governo, il 16 novembre scorso, il nuovo premier Mario Monti ha raccontato come i dirigenti dei partiti abbiano preferito non entrare nell’esecutivo e ha aggiunto un’osservazione significativa, e perturbante. «Sono arrivato alla conclusione, nel corso delle consultazioni, che la non presenza di personalità politiche nel governo agevolerà, piuttosto che ostacolare, un solido radicamento del governo nel Parlamento e nelle forze politiche, perché toglierà un motivo di imbarazzo».

La frase turba perché con un certo candore rivela una verità oculatamente nascosta. Così come sono congegnati, così come agiscono da decenni, i partiti non sanno fare quel che prescrive la Costituzione: non sono un associarsi libero di cittadini che «concorre con metodo democratico a determinare la politica nazionale»; rappresentano più se stessi che i cittadini; e nel mezzo della crisi sono motivo d’imbarazzo. Il nuovo premier ama la retorica minimalista – la litote, l’eufemismo – ma quando spiega che le forze politiche non vogliono scottarsi perché «stanno uscendo da una fase di dialettica molto molto vivace tra loro» (e non senza asprezza aggiunge: «Spero, che stiano uscendo») snida crudamente la realtà.

È una realtà che dovrebbe inquietarci, dunque svegliarci: al momento, i partiti sono incapaci di radicare in Parlamento e in se stessi l’arte del governare. Sanno conquistare il potere, più che esercitarlo con una veduta lunga e soprattutto precisa del mondo. Sono come reclusi in un cerchio. È ingiusto che Monti deprezzi la nobile parola dialettica. Ma i partiti se lo meritano.

Questo significa che l’emergenza democratica in cui viviamo da quando s’è disfatto il vecchio sistema di partiti, nei primi anni ‘90, non finisce con Berlusconi: il berlusconismo continua, essendo qualcosa che è in noi, nato da storture mai raddrizzate perché tanti vi stanno comodi. Il berlusconismo irrompe quando la politica invece di ascoltare e incarnare i bisogni della società accudisce i propri affari, spesso bui. La dialettica, che dovrebbe essere ricerca dell’idea meno imprecisa, per forza degenera. È a quel punto che le lobby più potenti, constatando lo svanire di mediatori tra popolo e Stato, si mettono a governare direttamente, accentuando lo sradicamento evocato da Monti.

Questa volta, a differenza di quanto accadde nel ‘94, entrano in scena tecnici di grande perizia, e l’Età dei Torbidi con ministri inetti, eversivi, premiati perché asserviti al capo, è superata. Ma non tutto di quell’età è superato, e in particolare non il vizio maggiore: il conflitto d’interessi. Un vizio banalizzato, quando a governare non sono solo accademici e civil servants europei come Monti, ma banchieri che sino al giorno prima hanno protetto non la cosa pubblica bensì i profitti di aziende, banche. È il caso di Corrado Passera, che appena nominato ha lasciato Banca Intesa ma guida dicasteri e deleghe (sviluppo, infrastrutture, trasporti, telecomunicazioni) legati rischiosamente ad attività di ieri. Sarà ardua la neutralità, quando si tratterà di favorire o no i treni degli amici Montezemolo e Della Valle, di favorire o no quell’Alitalia che lui stesso (con i sindacati) volle italiana, nel 2008, assecondando l’insania di Berlusconi e affossando l’accordo di Prodi e Padoa-Schioppa con Air France: l’italianità costò ai contribuenti 3-4 miliardi di euro, e molti disoccupati in più. Passera assicura: «I fatti dimostreranno» che conflitto d’interessi non c’è. Vedremo. Il male che Monti denunciò su La Stampa il 4-5-07 (il «potere occulto delle banche», la «confusione tra politica e affari») e tanto irritò Passera, per ora resta.

Alcuni dicono che la democrazia è sospesa, e qualcosa di vero c’è perché la Repubblica italiana non nacque come Repubblica di ottimati. Ma il grido di sdegno suona falso, e non solo perché la Costituzione non prevede l’elezione di un premier, caduto il quale si torna al voto. È falso perché preserva, occultandolo, uno dei nostri più grandi difetti: l’inattitudine a esplorare i propri storici fallimenti.

Se la democrazia viene affidata ai tecnici e alla loro neutralità ideologica, è perché politica e partiti hanno demandato responsabilità che erano loro, specie in tempi di crisi. Perché non hanno raccontato ai cittadini il mondo che muta, lo Stato nazione che ovunque vanta sovranità finte, l’Europa che sola ci permette di ritrovare sovranità. Perché non dicono che esiste ormai una res publica europea, con sue leggi, e che a essa urge lavorare, dandole un governo federale, un Parlamento più forte, una Banca Centrale vera. Non domani: oggi.

La situazione italiana ha una struttura tragica, che toccò l’acme quando fu scoperchiata Tangentopoli ma che è più antica. Ogni tragedia svela infatti una colpa originaria, per la quale son mancate espiazioni e che quindi tende a riprodursi, sempre più grave: non a caso non è mai un eroe singolo a macchiarsi di colpe ma un lignaggio (gli Atridi, per esempio). La colpa scardina la pòlis, semina flagelli che travolgono legalità e morale pubblica. Alla colpa segue la nemesi: tutta la pòlis la paga.

In Italia la scelleratezza comincia presto, dopo la Liberazione. Da allora siamo impigliati nel cortocircuito colpa-nemesi, senza produrre la catarsi: il momento della purificazione in cui – nelle Supplici di Eschilo – s’alza Pelasgo, capo di Argo, e dice: «Occorre un pensiero profondo che porti salvezza. Come un palombaro devo scendere giù nell’abisso, scrutando il fondo con occhio lucido e sobrio così che questa vicenda non rovini la città e per noi stessi si concluda felicemente». Lo sguardo del palombaro è la rivoluzione della decenza e della responsabilità che tocca ai partiti, e l’avvento di Monti mostra che l’anagrafe non c’entra. Sylos Labini che nel ‘94 vide i pericoli non era un ragazzo. Scrive Davide Susanetti, nel suo bel libro sulla tragedia greca, che il tuffo di Pelasgo implica una più netta visione dei diritti della realtà: «Per mutare non bisogna commuoversi, ma spostarsi fuori dall’incantesimo funesto del cerchio» che ci ingabbia (Catastrofi politiche, Carocci 2011).

Monti non è ancora la guarigione, visto che decontaminare spetta ai politici. Per ora, essi vogliono prendere voti come ieri: vendendo illusioni. Ma Monti è un possibile ponte tra nemesi e catarsi. Già il cambiamento di linguaggio conforta: sempre le catarsi cominciano medicando le parole. L’ironia del premier sull’espressione staccare la spina è stata un soffio di aria fresca nel tanfo che respiriamo. Altre parole purtroppo restano. Quando Passera dice che «sì, assolutamente» usciremo dalla crisi, usa il più fallace degli avverbi. Anche la parola blindare andrebbe bandita: nasce dal linguaggio militare tedesco (lo scopo è render l’avversario cieco, blind). Non è una bella dialettica.
Monti è l’occasione, il kairòs che se non cogliamo c’inabissa. Per i partiti, è l’occasione di mutare modi di pensare, rappresentare, in Italia e soprattutto in Europa. Di ricominciare la «lunga corsa» intrapresa dopo il ‘45. Di darsi un progetto, non più sostituito dall’Annuncio o l’Evento: quell’Evento, dice Giuseppe De Rita, «che scava la fossa in cui cadrà il giorno dopo».

Non c’è un solo partito che abbia idee sull’Europa da completare. Non ce n’è uno che dica il vero su clima, demografia, pensioni, disuguaglianza, crisi che riorganizza il mondo. Diciamo commissariamento, come se poteri europei fatali ci comandassero. In realtà siamo prede di forze lontane perché l’Europa politica non c’è. Monti denunciò a giugno l’eccessiva deferenza fra Stati dell’Unione. Speriamo non sia troppo deferente con Berlino. Che glielo ricordi: le austerità punitive imposte prima della solidarietà sovranazionale sono come le Riparazioni sfociate dopo il 14-18 nella fine della democrazia di Weimar.

Le patologie italiane permangono, nonostante i molti onest’uomini al governo. Il fatto che il partito più favorevole a Monti, l’Udc, sia invischiato nelle tangenti Enav-Finmeccanica, e si torni a parlare di «tritacarne mediatico», è nefasto. Il pensiero profondo che salva lo si acquisisce solo se si scende giù nell’abisso, scrutando il fondo. Scrutarlo con l’aiuto di un’informazione indipendente aiuterà chi pensa che non basti un Dio, per risollevarci e rimettere nei cardini il mondo.

(23 novembre 2011)

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« Risposta #159 inserito:: Novembre 30, 2011, 11:37:26 am »

COMMENTO

La sovranità tedesca

di BARBARA SPINELLI

Sta diventando uno dei luoghi comuni dei nostri tempi: l'idea che l'Europa, costretta a difendere con brutali austerità la sua moneta unica, sia incompatibile con la democrazia fin qui conosciuta. Uno dopo l'altro si consumano governi, partiti, e nuovi leader vanno al comando. Son detti tecnocrati: più semplicemente, sono uomini spinti ad apprendere presto, a caldo, una nuova arte della politica.
La vera questione non è l'assenza di democrazia, non è il famoso deficit democratico. Lo slogan è una magica litania, un mantra escogitato per scompigliare gli animi nascondendo loro la realtà: non la democrazia è minacciata, ma la sovranità che le nazioni europee pretendono di possedere. Tutte le nazioni, compresa quella che più di altre sembra padrona di sé e dell'Europa: la nazione tedesca.

L'esempio più lampante di questa confusione fra crisi della democrazia e crisi della sovranità è infatti la Germania di Angela Merkel, che grazie alla sua potenza sta mettendo a rischio con rigido dogmatismo non solo l'Euro, ma la Comunità nata nel dopoguerra.
È in nome della democrazia, della supremazia assoluta del popolo sovrano e dei vincoli impliciti in tale supremazia, che il Cancelliere si adopera perché non nasca una solidarietà attiva tra gli Stati della zona euro. Il dilemma, qui come altrove, non è oggi tra democrazia e tecnocrazia ma tra democrazia nazionale e democrazia europea.

Le iniziative tedesche degli ultimi anni (dalla sentenza della Corte costituzionale del 30 giugno 2009, da quella emessa già nel '93) mirano a questo: dare preminenza alle istituzioni rappresentative nazionali (in primis il Parlamento) e rifiutare un'Unione più solidale in nome del deficit democratico che essa implicherebbe. I populisti sono i primi a profittare di quest'emiplegico rapporto con la realtà, e ben contenti si appropriano del mantra dimenticando che la democrazia va oggi governata con tutto il corpo della politica: nazionale ed europeo. La professione di fede democratica è divenuta per i populismi di destra e sinistra un sotterfugio per svilire l'Unione europea. Per nobilitare passioni non nobili e occultare, appunto, i fatti che ci stanno davanti. Le chiusure tedesche hanno molto in comune con i populismi, che sequestrano la democrazia rattrappendola come una stoffa mal lavata.

La crisi sta mostrando che ben altro è il dilemma: non lo spegnersi democratico, non l'Europa delle élite. Quel che la crisi sta estraendo dall'ombra in cui è relegata, con la violenza di un forcipe, è l'incapacità degli Stati di capire che le sovranità hanno cessato da tempo di essere assolute, che ogni cittadino e ogni Stato è immerso ormai in una scena cosmopolitica cui Habermas dà il nome di "politica interna mondiale". Henrik Enderlein, un economista socialdemocratico che da tempo critica il nazionalismo del proprio governo, parla di inattitudine a riconoscere la "comunità di destino" europea, e a darle sostanza. Confondere la questione della democrazia con quella della sovranità nazionale significa schivare il compito più urgente: reinventare democrazia e politica nelle nazioni e in Europa, contemporaneamente.

Può stupire che proprio la Germania sia all'avanguardia in questo nascondimento del reale: il paese che con più vigore, dal dopoguerra, non solo consentì a drastiche deleghe di sovranità ma le invocò, sperando nell'Europa politica. Quella passione non è seppellita ma è entrata in un letargo intriso di esitazioni, lentezze, tentazioni populiste. Questa è l'emiplegia inasprita dalla Merkel: solo l'occhio nazionale vede, giudica. Solo le rappresentanze nazionali contano  - Corte costituzionale, Parlamento federale, Banca centrale tedesca -  a scapito di organi sovranazionali nati dal consenso di popoli e Stati come la Commissione, il Parlamento europeo, la Banca centrale di Francoforte.

Se così stanno le cose vuol dire che anche l'immagine della Germania-condottiera europea è affatto inappropriata: Berlino comanda, sì, ma non dirige. Il ministro degli Esteri Sikorski ha parlato chiaro ai tedeschi, lunedì a Berlino: "Sarò probabilmente il primo ministro polacco a dirlo: temo assai meno la potenza della Germania che la sua inattività. Siete divenuti nazione indispensabile in Europa: non potete fallire nella guida". È il peccato di nolitio, non volontà, che Berlino commette. Due forze la dominano, solo in apparenza dissimili: i sondaggi e la Bundesbank, un'istituzione mitizzata perché tutte le paure tedesche trovano in essa conforto, da oltre mezzo secolo. Anche in patria dunque la Merkel non è leader. Niente a vedere con Kohl, che assieme a Mitterrand creò la moneta unica e non esitò a contrastare l'allora governatore della Bundesbank, Tietmeyer. Niente a vedere con l'ex cancelliere Schmidt, che nel '96 scrisse una durissima lettera aperta a Tietmeyer, e accusò la Bundesbank di essere "uno Stato nello Stato".
Oggi sta accadendo esattamente quel che Schmidt paventava: se l'Europa vede in Berlino un gendarme arrogante, è a causa delle paure che la Bundesbank attizza in patria e fuori. In Germania mi dicono: è come se la politica tedesca avesse perso la battaglia condotta anni fa con i guardiani del Marco, e quegli stessi guardiani (quello Stato nello Stato) pilotassero la barca. Come se prendessero una rivincita, sfruttando la più profonda delle passioni tedesche: la paura.

Se davvero la Merkel ascoltasse la democrazia, oggi dovrebbe tener conto che la paura di un'Unione europea più stretta non è affatto dominante in Germania. Il Cancelliere è confortato da sondaggi, industriali, esperti. Ma altre forze, in casa ed Europa, gli resistono.
In casa, è criticato aspramente da socialdemocratici e Verdi. Secondo Sigmar Gabriel, capo della Spd, solo un governo economico europeo e gli eurobond eviteranno la rovina: la Merkel è paragonata a Brüning, il Cancelliere che aprì la via a Hitler con politiche deflazionistiche. Ma obiettano anche molti democristiani. Kohl per primo: il 24 agosto, ha detto che il Paese "ha perso il compasso, dilapidato il capitale di fiducia" in Europa. Werner Langen, presidente del gruppo Cdu/Csu al Parlamento europeo, dichiara che per fronteggiare l'odierna speculazione "la decisione spetta alla Bce (dunque alle istituzioni europee legittimate a farlo, ndr) che deve custodire la stabilità dei prezzi ma anche la messa in sicuro della liquidità sui mercati". Elmar Brok, esperto Cdu di politica europea, dice: "C'è qualcosa nella discussione tedesca sul ruolo della Bce che mi sfugge completamente".

Ancora più forte l'opposizione europea, e non solo di paesi contagiati come Italia o Grecia. Nei giorni scorsi, hanno preso le distanze da Berlino governi sin qui devoti alla Merkel: il ministro delle finanze olandese e finlandese chiedono ora quel che a Berlino è eresia: un "ruolo più attivo" della Bce. In sostanza, chiedono l'abbandono della dottrina tedesca della "casa in ordine", imperante in Germania da quasi un secolo: la dottrina secondo cui prima va ripulita la propria casa, e solo dopo scatta la solidarietà internazionale o sovranazionale.

In nome del popolo e dei sondaggi, dunque di una visione solo nazionale della democrazia, Angela Merkel sta minando l'Europa, la natura sovranazionale del suo ordine democratico. Il 23 novembre ha aggredito Barroso  -  definendo "inquietanti e sconvenienti" le sue proposte sugli eurobond - violando il diritto di proposta conferito dai Trattati all'esecutivo europeo. Dicono che il Cancelliere preferisce la tecnocrazia alla democrazia. Non è vero: abusando della democrazia, ne fa un'arma della paura. Schmidt denunciò proprio questo, nella lettera del '96, quando evocò la "monomaniaca ideologia deflazionistica della Banca centrale che negli anni '30-32 preparò l'avvento di Hitler". E quando denunciò le "ipocondriache paure tedesche di fronte all'innovazione".

(Domani il secondo articolo: la Germania ricostruirà l'Europa?)

(30 novembre 2011) © Riproduzione riservata

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« Risposta #160 inserito:: Dicembre 01, 2011, 10:56:13 am »

IL COMMENTO

Berlino salverà l'Europa?

di BARBARA SPINELLI


DA QUANDO s'è inasprito l'attacco alla zona euro, il sociologo Ulrich Beck accusa la Germania di un peccato grave: l'euronazionalismo. Dimentica delle regole democratiche, spesso arrogante, Angela Merkel incarnerebbe "una versione europea del nazionalismo della Deutsche Mark", elevando a dogma continentale la propria cultura della stabilità. Per sua colpa i tecnocrati avrebbero soppiantato i politici europei.

Il veto opposto al referendum sull'austerità, annunciato e poi abbandonato dall'ex Premier Papandreou, testimonierebbe il divario apertosi fra Europa e democrazia. Sono molti gli indizi che sembrano dar ragione a Beck. La Merkel s'ostina a scartare proposte su un sostegno più attivo della Bce ai paesi in difficoltà, nonostante le obiezioni mosse nel suo stesso partito, nell'opposizione, perfino nel Comitato dei cinque Saggi (il Sachverständigenrat) incaricato di guidare i governi tedeschi nelle scelte economiche. Almeno due di loro, Peter Bofinger e Bert Rürup, si battono per una Bce più dinamica e per gli eurobond (non solo al fine di arginare la speculazione; anche per piani di rilancio che gli Stati non possono permettersi ma l'Unione sì). Romano Prodi ha detto, sul Messaggero: "È venuto ora il tempo che la Germania prenda una decisione su come vorrà utilizzare l'immenso potere raggiunto. Lo può usare a servizio di se stessa e dell'Unione europea, o contro se stessa e contro l'Europa". A Berlino, l'economista Henrik Enderlein non è meno duro: la Germania,
dice, non ha capito che "l'euro non poteva vivere a lungo senza una comune politica fiscale, economica. Che non era un punto d'arrivo dell'integrazione, ma un punto di partenza".

Eppure la Germania non è stata sempre così riluttante, almeno in teoria. L'idea che l'euro fosse arrischiato, senza unione politica, affiorò più volte in passato  -  nella stessa Bundesbank, nella Corte costituzionale  -  e proprio ora che urge avanzare Berlino si ritrae, come inorridita da un ramarro. Iniziare avventure nuove in politica è difficile, quando il popolo impaurito si fa calmare da posizioni che hanno il potere ansiolitico delle ortodossie o dei localismi. Meglio chiudersi in recinti, e dire tanti No.

Alcune denunce di Beck sono diffuse nelle sinistre europee (non la parte del suo discorso favorevole a un'Europa cittadina, sovranazionale), ma molti critici del neo-nazionalismo tedesco non le condividono. Il referendum greco è da questi ultimi disapprovato non perché troppo democratico, ma perché chiedendo ai cittadini di pronunciarsi solo sui tagli di spesa, rischiava di usare il popolo anziché illuminarlo. Nessun cittadino ama i tagli, specie quando i più ricchi sono risparmiati. Se oggi venisse posta la vera questione ai greci ("Volete restare nell'euro?") non è detto che la risposta sarebbe negativa.

Quel che spesso viene trascurato, è che la cultura tedesca della stabilità non è un mostro, anche se radicalmente imperfetta perché orfana di un'autentica scelta europea. È una cultura che ha fatto della Germania l'unica alternativa non spietata ai modelli cinese e americano: è fondata sulla valorizzazione dei sindacati, su misure concordi contro le delocalizzazioni, su salari alti (Federico Rampini lo spiega bene in Alla mia sinistra). Anche la questione demografica, Berlino l'ha affrontata con saggezza: l'abbandono del diritto del sangue, che vietava agli stranieri nati in Germania d'esser cittadini tedeschi (un diritto "folle o assurdo", secondo Napolitano, tuttora valido da noi) risale al 2000. Mario Monti, parlando al Senato il 17 novembre, ha difeso una cultura non esogena della stabilità: "Gli studi dei migliori centri di ricerca italiani avevano individuato le misure necessarie molto prima che esse venissero recepite nei documenti che abbiamo ricevuto dalle istituzioni europee".

I critici più seri del comportamento tedesco sanno queste cose, e sperano dunque che le regressioni siano reversibili. Le lentezze della Merkel sulla Grecia sono state sciagurate (l'anno e mezzo perduto ha scatenato l'odierno marasma) ma sono anche il segno che il male tedesco non è la volontà imperiale, ma l'incapacità di volere. All'ultimo minuto, Berlino non ha mollato Atene. È il motivo per cui non si può escludere una svolta, sia pur timida, al vertice dei capi di Stato o di governo dell'8-9 dicembre. A meno di crisi aggravata, il governo tedesco continuerà a respingere una gestione comune del debito, dunque gli eurobond. A escludere che la Banca centrale europea diventi prestatore di ultima istanza. Ma qualcosa forse si muove: è successo il 23 novembre, quando Berlino ha visto pericolare i propri titoli di Stato, e toccato con mano la realtà. Se l'euro finisce sarà rovina anche per lei, che di una moneta più debole del marco ha profittato esportando al massimo.

La presa di coscienza potrebbe prender forme diverse, più o meno stabili o dannose. Il Cancelliere promette cose "molto impressionanti", e tra queste cose potrebbe esserci il ritorno all'antica convinzione europeista, secondo la quale occorre un'unione federale  -  specie fra stati dell'euro  -  perché si possa mettere in comune sforzi, sacrifici. A queste condizioni sì, la solidarietà è accettata: la paura che i soldi siano sperperati si attenuerebbe. Quel che potrebbe ripetersi, è la scommessa fatta con l'euro. Già allora la moneta tedesca era la più forte, e per spingere Kohl a sacrificare il marco sovrano fu necessario dare qualcosa in cambio: nacque così il Patto di stabilità e crescita. Lo stesso andrebbe fatto ora, per convincere la Merkel e il suo popolo. Oggi tocca fare un passo avanti ulteriore: se si vuole un Fondo salva-Stati davvero potente, urge dare alla Germania la garanzia che esso non faciliterà il lassismo e servirà a mettere sotto controllo la politica fiscale ed economica degli stati, che dovranno quindi rinunciare alla loro sovranità in materia. Tali garanzie dovranno valere anche per Berlino. Dice Alfonso Iozzo, economista e federalista militante: "Jean Monnet direbbe oggi: istituiamo subito un Governo provvisorio dell'Eurozona dotato dei poteri  -  a carattere federale come nel caso della moneta  -  per gestire l'Unione Fiscale: un governo che assicuri la stabilità finanziaria dei paesi che avranno così rinunciato alla piena sovranità, e avvii un nuovo ciclo di sviluppo". Non si otterrà questo: ma questo dovrebbe essere l'obiettivo.

La questione della Banca centrale europea prestatore d'ultima istanza è più complessa. Le resistenze non vengono solo da Berlino, ma dalle autorità monetarie europee. La Bce, dicono a Francoforte, è prestatore di ultima istanza nei confronti delle banche, non degli Stati. L'articolo 123 del Trattato di Lisbona vieta a Bce e banche centrali nazionali di prestare direttamente fondi ai governi. Questo significa che esse possono acquistare titoli solo sul mercato secondario, oggi instabile. È quello che la Bce ha fatto in questi mesi, anche se in misura limitata e senza certezze di continuità. L'assenza di certezza dà l'impressione di una Banca non affidabile come la Federal Reserve. I suoi difetti non solo imputabili solo a Berlino, ma difetti restano. La Germania che guida l'Europa è a un incrocio di strade. Può fare o disfare l'Unione. La disfa più che mai, quando sogna un piccolo nucleo di paesi risparmiatori: armato magari di eurobond, isola degli happy few. Sarebbe la soluzione più micidiale: getterebbe nel caos gli stati che usano l'euro, ma fuori dal cerchio magico.

Forse al prossimo vertice capiremo meglio dove voglia andare Berlino: se verso una spaccatura europea o un trattato più federale. Al centro, quella che Schmidt chiamava nel '96 l'"ipocondriaca paura tedesca del nuovo", unita ai timori che Berlino incute in Europa. Di questi timori il dispositivo centrale è la parola azzardo morale: quello che si corre quando i dilapidatori, perché assistiti o rassicurati, cessano di vigilare se stessi e disciplinarsi. Spetta alle istituzioni europee, e a tutti gli Stati, dimostrare che l'azzardo scema se accanto alla cultura della stabilità nasce una fiducia reciproca duratura, che solo l'unità politica dell'Europa può dare.

(01 dicembre 2011) © Riproduzione riservata

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IL COMMENTO

Le lacrime e le parole

di BARBARA SPINELLI


TENDIAMO a dimenticare che in tutti i monoteismi, il cuore non è la sede di passioni o sentimenti sconnessi dalla ragione. Nelle tre Scritture, compresa la musulmana, il cuore è l'organo dove alloggiano la mente, la conoscenza, il distinguo.

Se il cuore di una persona trema, se quello del buon Samaritano addirittura si spacca alla vista del dolore altrui, vuol dire che alla radice delle emozioni forti, vere, c'è un sapere tecnico del mondo. Per questo il pianto del ministro Fornero, domenica quando Monti ha presentato alla stampa la manovra, ha qualcosa che scuote nel profondo.

Perché dietro le lacrime e il non riuscire più a sillabare, c'è una persona che sa quello di cui parla: in pochi attimi, abbiamo visto come il tecnico abbia più cuore (sempre in senso biblico) di tanti politici che oggi faticano a rinnovarsi. Pascal avrebbe detto probabilmente: il ministro non ha solo lo spirito geometrico, che analizza scientificamente, ma anche lo spirito di finezza, che valuta le conseguenze esistenziali di calcoli razionalmente esatti. Balbettavano anche i profeti, per esprit de finesse.

È significativo che il ministro si sia bloccato, domenica, su una precisa parola: sacrificio. La diciamo spesso, la pronunciano tanti politici, quasi non accorgendosi che il vocabolo non ha nulla di anodino ma è colmo di gravità, possiede una forza atavica e terribile, è il fondamento stesso delle civiltà: l'atto sacrificale può esser sanguinoso, nei miti o nelle tragedie greche, oppure quando la comunità s'incivilisce è il piccolo sacrificio di sé cui ciascuno consente per ottenere una convivenza solidale tra diversi.

Non saper proferire il verbo senza che il cuore ti si spacchi è come una rinascita, dopo un persistente disordine dei vocabolari. È come se il verbo si riprendesse lo spazio che era suo. Nella quarta sura del Corano è un peccato, "alterare le parole dai loro luoghi". Credo che l'incessante alterazione di concetti come sacrificio, riforma, bene comune, etica pubblica, abbia impedito al ministro del Lavoro  -  un segno dei tempi, quasi  -  di compitare una locuzione sistematicamente banalizzata, ridivenuta d'un colpo pietra incandescente. Riformare le pensioni e colpire privilegi travestiti da diritti è giusto, ma fa soffrire pur sempre.

Di qui forse la paralisi momentanea del verbo: al solo balenare della sacra parola, risorge la dimensione mitica del sacrificio, il terrore di vittimizzare qualcuno, la tragedia di dover  -  per salvare la pòlis  -  sgozzare il capro espiatorio, l'innocente.

Medicare le parole presuppone che si dica la verità ai cittadini, e anche questo sembra la missione che Monti dà a sé e ai partiti. Riportare nel loro luogo le parole significa molto più che usare correttamente i dizionari: significa rimettere al centro concetti come il tempo lungo, il bene comune, il patto fra generazioni.

Significa, non per ultimo: rendere evidente il doppio spazio  -  nazionale, europeo  -  che è oggi nostra cosmo-poli e più vasta res publica. Il presidente del Consiglio lo sa e con cura schiva il lessico localistico, pigro, in cui la politica s'è accomodata come in poltrona. Stupefacente è stato quando ha detto, il 17 novembre al Senato: "Se dovete fare una scelta  -  mi permetto di rivolgermi a tutti  -  ascoltate! non applaudite!".

L'applauso, il peana ipnotico (meno male che Silvio c'è), le grida da linciaggio: da decenni ci inondavano. Era la lingua delle tv commerciali, del mondo liscio che esse pubblicizzavano, confondendo réclame e realtà: illudendo la povera gente, rassicurando la fortunata o ricca. Erano grida di linciaggio perché anch'esse hanno come dispositivo centrale il sacrificio: ma sacrificio tribale, che esige il capro espiatorio su cui vien trasferita la colpa della collettività.

Erano capri gli immigrati, i fuggitivi che giungevano o morivano sui barconi. E anche, se si va più in profondità: erano i malati terminali che reclamano una morte senza interferenze dello Stato e di lobby religiose. La nostra scena pubblica è stata dominata, per decenni, dalla logica del sacrificio: solo che esso non coinvolgeva tutti, proprio perché nel lessico del potere svaniva l'idea di un bene disponibile per diversi interessi, credenze. Solo contava il diritto del più forte, che soppiantava la forza del diritto.

Ascoltare quello che effettivamente vien detto e fatto non ci apparteneva più. Anche il ministro Giarda si è presentato domenica come medico delle parole: "Son qui solo per correggere errori". Non ha esitato a correggere i colleghi, e ha avuto l'umiltà di dire: "Se avessimo più tempo, certo la nostra manovra sarebbe migliore".

Monti ha fatto capire che questa, "anche se siamo tecnici", è però politica piena: "L'esperienza è nuova per il sistema politico italiano. A noi piace esser cavie da questo punto di vista". Singolare frase, in un Paese dove a far da cavie sono di solito i cittadini. Ma frase coerente alla politica alta: dotata di una veduta lunga, indifferente alla popolarità breve.

Pensare i sacrifici non è semplice, perché gli italiani e gli europei da tempo si sacrificano, e tuttavia constatano disuguaglianze scandalose. Perché sacrificandosi deprimono oltre l'economia. Lo stesso Sarkozy, che campeggiò come Presidente che poteva abbassare le tasse ai ricchi visto che le cose andavano così bene, è oggi costretto ad ammettere che i francesi "stringono la cinghia da trent'anni".

Quel che è mancato, nel sacrificio cui i popoli hanno già consentito, è l'equità, l'abolizione della miseria, delle disuguaglianze. Forse  -  l'emozione dei potenti resta misteriosa  -  Elsa Fornero ha pianto perché le misure sono dure per chi ha pensioni grame. Se solo le pensioni sotto 936 euro saranno indicizzate all'inflazione, tante pensioni basse rattrappiranno come pelle di zigrino.

Si poteva fare diversamente forse, e non tutte le misure sono ardite. La lotta all'evasione fiscale iniziata dall'ultimo governo Prodi ricomincia, ma più blanda. La cruciale tracciabilità introdotta da Vincenzo Visco (1000 euro come soglia, da far scendere in due anni a 100) è fissata durevolmente a 1000. Oltre tale cifra è vietato accettare pagamenti in contanti, che sfuggono al fisco: una draconiana stretta anti-evasione è evitata. Né si può dire che tutto sia equo, e la crescita veramente garantita.

Il fatto è che si parla di decreto salva-Italia, ma si manca di chiarire come il decreto sia anche salva-Europa. Non è un'omissione irrilevante, perché il doppio compito spiega certe durezze del piano. Speriamo sia superata. Ogni azione italiana, infatti, è urgentissimo accompagnarla simultaneamente ad azioni in Europa: per smuovere anche lì incrostazioni, privilegi, dogmi.

Per dire che non si fa prima "ordine in casa" e poi l'Europa, come nella dottrina tedesca, ma che le due cose o le fai insieme, con un nuovo Trattato europeo più solidale e democratico, o ambedue naufragheranno.
 

(06 dicembre 2011) © Riproduzione riservata

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« Risposta #162 inserito:: Dicembre 09, 2011, 10:54:39 pm »

Barbara Spinelli: “Chiesa e Ici, una questione morale”


È scandaloso che la Chiesa italiana chieda più equità nella manovra, e non sia sfiorata dal dubbio che anche lei debba contribuire ai sacrifici chiesti agli italiani, pagando come ciascuno l’Ici sugli immobili. Non dovrebbe neppure aspettare che il governo discuta la questione. Dovrebbe anticipare le mosse dell’esecutivo ed esigere – qui, subito – di essere tassata come lo sono tutti, di contribuire al risanamento italiano con una parte delle proprie ricchezze. Se non lo fa, non potrà esser chiamata Chiesa della povertà, Chiesa che assiste gli ultimi, i derelitti. Confermerà di essere una lobby come le altre, e anzi più potente delle altre: perché più ascoltata, perché – anche quando tace, proprio perché tace – più rumorosa.

Da quando la crisi si è acuita, molti personaggi facoltosi – in Italia, Usa, Francia – hanno chiesto di essere tassati di più, ritenendo di godere di privilegi non meritati e di dover alleviare le sofferenze dei concittadini. Non si sono sentite richieste simili dalle massime autorità ecclesiastiche, che di privilegi ne hanno molti e che in Italia influiscono sulle scelte politiche dei governi con un’insistenza e un’efficacia del tutto inusuali in altri paesi d’occidente. Così facendo, la Chiesa italiana conferma ancora una volta che il Samaritano straniero ha più compassione dei sacerdoti e leviti, che passano accanto al perseguitato e al ferito cambiando marciapiede.

Quanto al governo Monti, una cosa è chiara: tra le prove che aveva di fronte a sé ce n’era una essenziale, ed era quella della laicità. L’ha mancata, esonerando la Chiesa da una tassazione che è giusta solo se coinvolge in prima linea i più ricchi, più potenti e più organizzati. Anche pagare le tasse su immobili che la Chiesa usa a fini commerciali è una questione morale. È un brutto inizio, dal quale ci si possono attendere i peggiori compromessi su altri temi etici – testamento biologico in primis – che solo per una minoranza di italiani prefigurano valori non negoziabili.

(8 dicembre 2011)

da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/barbara-spinelli-chiesa-e-ici-una-questione-morale/
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« Risposta #163 inserito:: Dicembre 14, 2011, 06:55:15 pm »

COMMENTO

Se l'Europa si scopre mortale

di BARBARA SPINELLI

SONO due anni che gli Stati europei vivono una crisi che somiglia a una guerra, di quelle che cambiano il mondo. La guerra non è conclusa e quel che imparammo nel '45, oggi l'apprendiamo con terribile lentezza. Allora tutti si gettarono in una grande corsa: per ricostruire, e anche ricostruirsi interiormente. Oggi si procede a fatica, e per anni è prevalsa l'inerzia o perfino la denegazione. Siamo vissuti come immersi nelle acque dell'ottimismo: avevamo l'Unione europea, avevamo la moneta unica come apogeo. Il disastro, ritenuto impossibile, non era calcolato.

Invece il disastro era non solo possibile ma dietro l'angolo, e per questo urge un risveglio analogo a quello postbellico degli europei e dei loro leader (Monnet, Adenauer, De Gasperi). Alcuni, come Paul Valéry, si svegliarono già prima, dopo il '14-'18: "Noialtri, civilizzazioni, sappiamo ora che siamo mortali. Il tempo del mondo finito comincia". Non dimentichiamo mai che da tale presa di coscienza nacquero due cose, non una: l'Europa, e il Welfare. La prima era un no ai nazionalismi, la seconda alle recessioni punitive che scaraventavano genti disperate nelle dittature. Oggi siamo a un bivio simile, e un primo parziale risveglio è iniziato al vertice dell'8-9 dicembre a Bruxelles.
Il tempo del mondo finito comincia con la consapevolezza che la moneta è davvero in pericolo, se non s'accompagna a un'unione economica-politica che leghi più strettamente i paesi dell'Euro. Se i governi non osano, finalmente, dire la verità ai confusi, spaventati
cittadini: le nostre sovranità nazionali sono troppo fatiscenti, per fronteggiare una mutazione mondiale che si manifesta con il caos dei mercati. Non possiamo più permetterci finti sovrani. Neanche possiamo permetterci di dire, come tanti cittadini mossi da giusta rabbia verso i sacrifici richiesti, che la colpa dei debiti eccessivi è imputabile all'1 per cento dei popoli. Da trent'anni l'elettore ha legittimato, votandoli, governi sperperatori, custodi di caste privilegiate.

Anche i politici tedeschi hanno mentito ai cittadini: un atavico impasto di ordine e paura ha abituato all'autodisciplina la nazione, ma anch'essa ha creduto nell'Euro inattaccabile. La Sueddeutsche Zeitung è severa con le sue élite: "Non si può salvare l'Euro tedesco, dando all'Euro europeo solo garanzie limitate". La cultura della stabilità è un bene (tutt'altro che imperiale) che Berlino ha disseminato in Europa; ma è mancata la coscienza che anche il suo piccolo mondo finiva, se cadeva l'Unione. Che anche la solidarietà sociale è un bene pubblico europeo, come la stabilità. Non si può fare l'Euro senza unione economico-politica, dicevano gli scettici tedeschi. Ora che l'unione si può fare s'imbronciano, e fanno come se l'Euro fosse un punto d'arrivo, non di partenza.

Il vertice di Bruxelles è stato giudicato negativamente da molti europeisti, ma potrebbe essere un ricominciamento. Non per la prima volta, i governi più consapevoli hanno deciso di isolare Londra, di tentare un'unione fiscale più compatta partendo da un gruppo ristretto di paesi: quelli dell'Euro, cui s'aggiungerà chi vorrà. La loro sovranità diminuisce, visto che compiti cruciali, di controllo preventivo e sanzione, sono delegati a organi sovranazionali come la Commissione, la Corte di giustizia, la Banca centrale che agirà come agente del Fondo salva-stati operativo nel luglio 2012, prima del previsto. Alcuni denunciano l'accordo intergovernativo: l'Europa comunitaria dei 27 sarebbe scavalcata, i conflitti col Trattato di Lisbona sicuri. Ma anche questo dobbiamo ricordare: l'Europa si è sempre perfezionata a scaglioni (Schengen, moneta unica). I cavilli giuridici si superano, se si vuole.

Un altro progresso è l'abbandono, sia pur stentato, del voto all'unanimità (il liberum veto che già una volta, nella Polonia del '700, fece morire una nazione). Il Fondo salva-Stati abbandonerà, in emergenza, il diritto di veto. E certo ci sono parole aspre, come l'automatismo delle sanzioni. Ma l'automatismo è benefico, non fosse altro perché mette fine a quella che Monti chiamò, tempo fa, "l'eccessiva deferenza fra stati dell'Unione". In un regime di deferenza i controllori giudicano i controllati, omertosamente si proteggono l'un l'altro. Nel trattato dell'eurozona, solo una maggioranza qualificata di stati potrà opporsi a sanzioni automatiche.

Un'ondata di sdegno si è levata ultimamente contro Berlino: per l'arroganza di certe condotte (Volker Kauder, deputato democristiano e uomo di fiducia della Merkel, ha detto: "L'Europa ora parla tedesco!"). Lo sdegno è stato utile, e soprattutto è servita l'insurrezione socialdemocratica. L'europeismo sta rimettendo radici nella sinistra tedesca, e il Pd farà bene a sostenerla in ogni modo. Il risultato è stato che la Merkel ha dovuto scuotersi dal sonno dogmatico che prescriveva di metter prima "la casa in ordine" e poi fare l'Europa: nei giorni precedenti il summit, sembra aver capito che nessuno stato da solo può salvare l'Europa. Che dare autorità alla Commissione, alla Corte di giustizia, alla Bce è infinitamente più efficace del grido accentratore di un solo Stato. Non a caso la Bce ha annunciato, forte dell'unione fiscale voluta dall'eurozona, che da ora in poi sosterrà le banche per periodi prolungati (tre anni), accettando come garanzie i titoli di Stato di scarsa qualità. Di fatto la Bce già è prestatore di ultima istanza, senza dirlo, assicurando liquidità alle banche, e quindi respiro a Stati e cittadini.

Nel suo discorso al congresso socialdemocratico, il 4 dicembre, Helmut Schmidt ha puntato il dito su contraddizioni europee non più sopportabili: non solo fra sovranità statali e moneta unica, ma anche fra regole del Trattato. Quest'ultimo vieta, ad esempio, il salvataggio europeo degli Stati. Ma è in conflitto con il principio di sussidiarietà che Schmidt riassume così: "Quando uno Stato da solo non riesce a regolare i propri problemi, l'Unione deve farsene carico". La stessa costituzione tedesca è tra le più ardite su questo punto: nell'Articolo Europeo aggiunto dopo la moneta unica (nr 23), è scritto che la Germania, "per realizzare l'Europa unita, può delegarle sovranità".
Val dunque la pena essere prudenti, quando si accusa la Germania. Chi si è opposto alla diminuzione del diritto di veto e difende prerogative degli Stati non è Berlino, ma Parigi. È a Parigi che occorre una rivoluzione europea, più che in Germania. Molte rigidità tedesche sono state inasprite, lungo un ventennio, dall'Eliseo. E i socialisti non sono meglio di Sarkozy. Hollande, candidato all'Eliseo, fonda la propria campagna sul diniego d'ogni ingerenza europea. Quanto all'attuale Presidente, l'intervista che pubblichiamo su Repubblica è pura ipocrisia: l'unione fiscale va bene perché il potere "torna ormai agli Stati (...) non s'organizza più attorno alla Bce e alla Commissione". Bugie siffatte confondono i cittadini, e pure i mercati.

Il nuovo ordine europeo è duro per i popoli. Il mondo cambia; ricchezze e speranze traslocano da Ovest a Est. Di fronte non abbiamo 1-2 anni, ma molti anni di bassa crescita. Tanto più duro è l'ordine se non si salva l'idea del Welfare, oltre che l'Euro. Se i mali scatenatori della crisi (diseguaglianze, privilegi, corruzione, agenzie di rating asservite alle lobby) ci vengono ripresentati addirittura come farmaci. Se l'Europa non comincia a pensare una nuova crescita, ecologica, e a darsi i mezzi (non l'odierno avaro bilancio) per scommettere tutti insieme sullo sviluppo oltre che sulla stabilità. Lo chiedeva il socialista Papandreou: mai fu ascoltato.

Le elezioni del Parlamento europeo, nel 2014, saranno una prova decisiva. Se la Commissione avrà più peso, è essenziale che il suo Presidente sia eletto dai popoli. È indispensabile che anche i deputati dell'Unione si sveglino: reclamando tasse sulle transazioni finanziarie, e una severa sorveglianza di banche, borse. Martin Schulz, futuro Presidente, è stato chiamato da Schmidt a una "rivolta del Parlamento europeo". È essenziale che nasca una vera agorà europea, che vinca l'ignoranza dei più e le ipocrisie dei pochi.

(14 dicembre 2011) © Riproduzione riservata

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« Risposta #164 inserito:: Dicembre 28, 2011, 05:58:29 pm »

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Abolire la miseria

di BARBARA SPINELLI

CERTE volte dimentichiamo che il pensiero di unirsi in una Federazione, nato come progetto non utopico ma concreto nell'ultima guerra in Europa, non ha come obiettivo la semplice tregua d'armi fra Stati che per secoli si sono combattuti seminando morte. È un progetto che va alle radici di quei nostri delitti collettivi che sono stati i totalitarismi, le guerre. Che scruta le ragioni per cui gli individui possono immiserirsi al punto di disperare, anelare a uno strabiliante Redentore terreno, immaginare la salvezza schiacciando i propri simili: i deboli, in genere. Dicono che i motivi che spinsero gli europei a unirsi, negli anni '50, sono svaniti perché il compito è assolto: la guerra è oggi tra loro impensabile. Questo spiegherebbe come mai non esistono più statisti eroici come Monnet, De Gasperi, Adenauer: uomini marchiati dalla guerra di trent'anni della prima metà del '900.

Chi parla in questo modo trascura quello sguardo scrutante che i fondatori gettarono sulla questione della miseria, e l'estrema sua attualità. Trascura, anche, quel che l'Europa unita ha tentato di fare, per creare non solo istituzioni politiche ma sociali, economiche. Dai delitti del '900 siamo usciti, nel '46, con un patto di mutua assistenza fra cittadini.

È detto Welfare perché prese forma in Inghilterra grazie al piano concepito durante la guerra, su mandato del governo, da William Beveridge, uno dei fondatori della Federal Union: lo Stato del Benessere (meglio sarebbe
dire Bene-Vivere: il bene dell'Essere è cosa più scabrosa) dà sicurezza non aleatoria all'indigente, l'escluso, l'anziano, il paria. Per questo è una grave svista pensare che l'Europa abbia concluso la missione, e stia lì solo come arcigna guardiana dei conti in ordine. Esattamente come nel dopoguerra, sono richiesti Fondatori, Inventori: se la crisi odierna è una sorta di guerra, è urgente immaginare istituzioni durature perché i mali che stanno tornando (miseria, diseguaglianza) non trascinino ancora una volta le società in strapiombi di disperazione, risentimento, e quell'odio dell'altro che si disseta bramando capri espiatori (ieri gli ebrei, oggi gli immigrati e in prospettiva anche i vecchi che "muoiono così tardi").

Abolire la miseria: così s'intitolava lo splendido libro che l'economista Ernesto Rossi, autore con Altiero Spinelli e Eugenio Colorni del Manifesto di Ventotene, scrisse in carcere nel '42 e pubblicò nel '46: "Bisogna unire tutte le nostre forze per combattere la miseria per le stesse ragioni per le quali è stato necessario in passato combattere il vaiolo e la peste: perché non ne resti infetto tutto il corpo sociale". La sfida oggi è identica, e sono le pubbliche istituzioni nazionali e europee a doversi assumere il compito. Affidarlo a chiese o filantropi vuol dire regredire a tempi in cui solo la carità era il soccorso. In molti paesi arabi sono gli estremismi musulmani a occuparsi del Welfare, confessionalizzandolo. Non è davvero il modello da imitare: gli Stati europei si sono sostituiti alle chiese fin dal '200, creando istituzioni laiche aperte a tutti. Anche l'Europa unitaria investe su organismi comuni perché  -  sono parole di Jean Monnet  -  "gli uomini sono necessari al cambiamento, ma le istituzioni servono a farlo vivere". E aggiunge, citando il filosofo svizzero Amiel: "L'esperienza d'ogni uomo ricomincia sempre; solo le istituzioni diventano più sagge: accumulano l'esperienza collettiva e da quest'esperienza e saggezza, gli uomini sottomessi alle stesse regole vedranno cambiare non già la loro natura, ma trasformarsi gradualmente il loro comportamento". È laico anche questo: voler cambiare i comportamenti, non la natura dell'uomo.

È importante ricordare come nacque il Welfare, perché in Europa, Italia compresa, le campagne elettorali si svolgeranno su questi temi, e sul banco degli imputati ci sarà spesso la medicina stessa che dopo il '45 ci somministrammo sia per abolire le guerre, sia per abolire la miseria. Non è improbabile, ad esempio, che le destre italiane  -  non ancora emendate  -  tramutino l'Europa in bersaglio: da essa verrebbero quelle regole che ci impoveriscono e commissariandoci, ci umiliano. L'attacco al governo Monti, quando s'inasprirà, sfocerà in attacco all'Unione. È già chiaro negli slogan leghisti. Lo è nell'offensiva di Berlusconi contro le tasse: cioè contro il tributo che ciascuno (specie i ricchi) deve versare per preservare la pubblica salute.

Rifondare oggi l'Europa concentrandosi sulla lotta alla miseria significa capire perché l'Unione ci chiede certi comportamenti, e al tempo stesso inventare istituzioni aggiuntive che diano sicurezza all'esercito, in aumento, di disoccupati e precari. Significa comprendere che la battaglia al debito pubblico non è una mania né una mannaia: è il patto generazionale che l'Unione ci chiede di stringere, visto che gli Stati da soli non l'hanno fatto per timore delle urne. Il Trattato di Maastricht impone di non caricare le generazioni future di debiti contratti dalla presente generazione per procurarsi dei beni senza pagare le relative imposte, scrive Alfonso Iozzo, economista e federalista europeo, in un saggio sulla re-invenzione del Welfare ("Il Federalista", 1/2010).

Val la pena leggerlo, questo saggio, che poggia sulle solide basi di studi fatti da James Meade, Nobel dell'economia, sui modi di garantire redditi minimi di cittadinanza all'intera società. Il presupposto è estinguere il debito degli Stati, e trasformarlo in credito pubblico: in un patrimonio che lo Stato preveggente tiene per sé, dedicandolo non alle spese correnti ma al finanziamento del Welfare, questo bene non solo sminuito ma spesso inviso. Iozzo è convinto, come il liberal Meade, che la ricchezza delle nazioni o dell'Europa (il Pil) vada calcolata con nuovi metodi (Meade chiamava il suo Stato Agathopia, il Buon posto in cui vivere). Il criterio non è più la differenza fra quel che costano i beni prodotti e il reddito ricavato. È il patrimonio di cui dispone lo Stato, è la sua gestione: l'obiettivo è sapere se alle generazioni future verrà lasciato un capitale maggiore o minore di quello che noi abbiamo ricevuto dalle generazioni precedenti. Le leggi di Maastricht applicano tale metodo, prescrivendo come primo passo l'estinzione del debito pubblico.

Resta da compiere il secondo passo: la trasformazione del debito in un credito che protegga i cittadini in tempi di crisi. Non tutti hanno come patrimonio il petrolio norvegese, ma Oslo è un modello e ogni Stato ha l'acqua, l'aria, possibilmente nuove forme di energia: altrettanti beni pubblici consumati dall'individuo. Poiché petrolio e gas prima o poi finiranno, la Norvegia ha istituito con i ricavi energetici un Fondo pensione sottratto all'azzardo dei mercati. Solo il 4% del Fondo può essere annualmente usato per la spesa pubblica, lasciando ai cittadini un capitale a disposizione per il futuro, quando il patrimonio sarà esaurito (ogni norvegese è proprietario virtuale attraverso il Fondo di circa 100.000 euro, contro una quota del debito pubblico a carico di ogni italiano di 30.000 euro).

Avendo combattuto i debiti pubblici, l'Europa potrebbe escogitare iniziative simili, inducendo gli Stati a garantire nuova sicurezza sociale. Non solo; potrebbe far capire che nei costi vanno ormai incluse l'acqua sperperata, l'aria inquinata: beni non rinnovabili come il petrolio norvegese. Si parla molto di far ripartire la crescita. Ma essa non potrà esser quella di ieri, e questa verità va detta: perché i paesi industrializzati non correranno come Asia o Sudamerica; e perché la nostra crescita sarà d'avanguardia solo se ecologicamente sostenibile. Di qui l'importanza delle prossime elezioni: non solo quelle nazionali, ma quelle del Parlamento europeo nel 2014. Chi griderà contro le tasse e contro l'Europa troppo patrigna e severa promette un paese dei balocchi, dove è sempre domenica e sempre truffa. Meglio saperlo prima, che troppo tardi. Meglio ricominciare l'eroismo, di cui non cessa il bisogno.

(28 dicembre 2011) © Riproduzione riservata

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