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Autore Discussione: Dario Di VICO.  (Letto 120649 volte)
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« Risposta #105 inserito:: Dicembre 24, 2012, 07:00:07 pm »

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Il richiamo a sorpresa del premier Ma ora le donne contino davvero

di Dario Di Vico


«Deve cambiare il modo di vedere la donna». Non capita spesso che un primo ministro nella conferenza stampa di rendiconto finale dell’attività del suo governo se ne esca con una frase di questo tipo. Ieri mattina Mario Monti lo ha fatto sorprendendoci tutti e facendoci sentire, seppur solo per qualche minuto, cittadini di un Paese moderno e inclusivo. La realtà di tutti gli altri santi giorni purtroppo non è così in linea: nell’apposito indice internazionale che si occupa di misurare il gap di genere siamo all’80° posto nel mondo, il tasso di occupazione femminile in Italia è del 46,5% (al Nord 56,6%) e ci fa essere il fanalino di coda dell’Europa, le donne guadagnano in media il 9% in meno degli uomini anche a parità di mansioni e non raggiungono quasi mai il vertice delle imprese e delle organizzazioni in cui lavorano.

Se questi sono i dati bruti del nostro ritardo i sociologi più attenti al fenomeno segnalano da tempo una crescita dell’universo femminile italiano, un movimento «dal basso». Le donne hanno oggi un surplus di motivazione che le rende nei fatti più competitive dei loro coetanei maschi e se è difficile trovare dei numeri che lo attestino può essere comunque interessante osservare come intere professioni che in passato erano monopolio degli uomini, ad esempio l’ingegnere, vedono palesarsi — per ora nelle aule universitarie — addirittura un sorpasso femminile.

Per tentare di spiegare il fenomeno si è ricorsi a un’immagine, l’effetto elastico, secondo cui una realtà sociale viva, rimasta per troppo tempo compressa, nel momento in cui viene seppur parzialmente liberata sviluppa energie doppie rispetto al tempo e allo spazio dati. Corre in avanti come una molla. Se volessimo fare un paragone di carattere sociologico potremmo pensare allo straordinario sviluppo civile della Spagna negli anni immediatamente successivi alla caduta del franchismo. Onestamente non conosciamo ancora tutte le potenzialità insite nell’effetto elastico dovuto al nuovo protagonismo femminile e i riscontri benefici che potrebbe determinare sull’ingessatissima società italiana, però è evidente che le dinamiche messe in moto dalla Grande Crisi hanno giocato contro e quindi hanno concorso quantomeno a ridimensionare la discontinuità rosa.

Nelle chance di modernizzazione legate all’inclusione del Fattore D vanno messi in luce anche dei fattori squisitamente culturali. Secondo una recente ricerca della Confartigianato milanese sulle differenze uomo/donna in campo imprenditoriale emerge che lo stile di direzione femminile presenta dei vantaggi competitivi «orizzontali» nella capacità di ascolto, nell’allargamento delle responsabilità e, infine, nella costruzione dei network di relazione economica. Tutti elementi che in una moderna creazione di valore risultano decisivi sia se applicati alla dimensione comunitario-distrettuale dei nostri territori sia alla nuova cultura del capitalismo delle reti.

Tornando a Monti vale la pena però ricordare come non abbia solo accennato al mutamento necessario nel modo di vedere la donna ma abbia anche ricordato (e biasimato) come in Italia nascano pochi bambini. In sostanza, ha detto il premier uscente, siamo riusciti a sommare due contraddizioni: scarsa partecipazione delle donne al mondo del lavoro e natalità debole. Ci siamo ficcati in un vicolo cieco dal quale però sarebbe bene trovare il modo di uscire e in fretta. Se Monti ci indica la luna noi non vorremmo farci distrarre dal dito e continuare, invece, a guardare in alto. Di conseguenza auspicheremmo che in campagna elettorale si possa discutere (anche) delle politiche necessarie per ridurre lo spread di inclusione femminile.

Magari si potrebbe partire, tanto per restare in casa del Professore, da alcune delle proposte formulate da due docenti dell’Università Bocconi, Alessandra Casarico e Paola Profeta, nel loro libro Donne in attesa pubblicato dalla casa editrice dell’ateneo milanese.

Il nostro welfare si serve dei nonni come sostituti degli asili nido che non ci sono (solo il 12,7% dei bambini li frequentano) e che andrebbero, invece, realizzati utilizzando anche con soluzioni innovative. Nel momento cruciale della maternità non esistono detrazioni Irpef o deduzioni di spesa che vengano incontro alle donne. Si potrebbe prevedere un assegno di 500 euro al mese per le famiglie composte da genitori che lavorano entrambi e con bambini da 0 a 2 anni. Servirebbero sgravi alle imprese che assumono manodopera femminile così come la normativa sui congedi di paternità, oggi troppo timida, andrebbe ampliata e finanziata. Con queste e altre novità, garantiscono le due docenti, si avrebbe sia l’auspicata maggiore partecipazione delle donne al lavoro sia un deciso contributo al Pil. Nella agenda di Monti proposte in questo senso ci sono. Si apra il confronto.

da - http://27esimaora.corriere.it/articolo/il-richiamo-a-sorpresa-del-premierma-ora-le-donne-contino-davvero/
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« Risposta #106 inserito:: Gennaio 14, 2013, 05:52:34 pm »

LE ANALOGIE CON LA CAMPAGNA DEL 2006

La sindrome di Vicenza

Ieri, solo una dozzina d'ore dopo lo straordinario exploit televisivo di Silvio Berlusconi dagli schermi de La7, Laura Puppato, capolista del Pd al Senato, non ha trovato di meglio che dichiarare in conferenza stampa: «Il Veneto deve essere presente nel governo del Paese». In molti hanno interpretato la sortita come un'autocandidatura e forse lo è, ma l'episodio è sicuramente rivelatore dell'umore che circola a sinistra. Si dà per scontata la vittoria e ci si posiziona per entrare nella lista dei ministri. Sottovalutando così la svolta impressa dal Cavaliere alla campagna elettorale. Come nel 2006 Berlusconi usò il convegno confindustriale di Vicenza per lanciarsi alla rincorsa di un Prodi già dato per trionfatore, così da Santoro il leader del centrodestra ha cambiato marcia. Nelle precedenti uscite televisive da Barbara D'Urso e Massimo Giletti il Cavaliere era parso rancoroso e imbolsito, giovedì sera invece con una trasformazione che ha del miracoloso è ridiventato il mattatore capace di inanellare gag, bugie e astuzie da vero uomo di spettacolo.

Vedremo se i sondaggi premieranno da subito la sua performance , di certo la serata è servita a motivare quegli elettori di centrodestra che, delusi dai risultati dei governi Berlusconi, pensano di astenersi. Ad oggi circa il 25% dell'intera platea elettorale dichiara che non voterà, almeno due quinti di loro però possono essere indotti a cambiare parere. È su questa inversione - che riguarderebbe per lo più suoi ex sostenitori - che punta il Cavaliere e aver strappato la vittoria nell'insidiosissima trasferta di Servizio Pubblico contribuisce a galvanizzare le truppe. Ciò non vuol dire che Berlusconi possa rimontare del tutto lo svantaggio, i suoi competitor però da domani faranno bene a comportarsi come se fosse possibile.

Il Pd rischia anch'esso di ripercorrere le orme del passato, replicare le campagne elettorali del '94 e del 2006 iniziate disponendo di un largo vantaggio e poi perse o vinte con un margine striminzito. Come dimostra l'episodio della Puppato, a sinistra alberga un pericoloso sentimento di autosufficienza. Finora il Pd non è riuscito a imporre nell'agenda elettorale nemmeno un tema, ha subito l'offensiva sulle tasse e ha risposto promettendone di nuove o lasciando spazio alle bordate spaventa-ricchi di Nicola Vendola. Sempre per rimanere al confronto con il 2006 vale la pena di ricordare l'effetto negativo che ebbe per l'Unione la proposta di patrimoniale sulla casa avanzata da Fausto Bertinotti.

Probabilmente il Pd ha sottovalutato non solo le capacità di Berlusconi ma anche le inerzie di un sistema bipolare. Quel consistente pezzo di Italia che non vuole le sinistre al governo finora si era nascosto ed è bastato che sulla ribalta si affacciasse un'offerta politica vibrante per riaggregare tutti i pezzi del centrodestra andati precedentemente in frantumi. Da Lombardo alla Lega, da Formigoni a Tremonti. Il Pd finora è rimasto sorpreso, sul breve avrà la tentazione di dare la colpa alla ditta Santoro & Travaglio ma poi probabilmente capirà che in politica i vuoti vengono riempiti e che se si vogliono vincere le elezioni - e soprattutto convincere il Paese - occorre un supplemento di elaborazione. Programmatica ma anche di cultura politica. «Operai e capitale», il libro più importante di Mario Tronti, oggi candidato al Senato in Lombardia, uscì nel 1966. Nove anni prima che nascesse Matteo Renzi.

Dario Di Vico

12 gennaio 2013 (modifica il 13 gennaio 2013)© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_gennaio_12/la-sindrome-di-vicenza-di-vico_2e13527a-5c84-11e2-bd70-6c313080309b.shtml
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« Risposta #107 inserito:: Gennaio 19, 2013, 04:12:13 pm »

LA CRISI E QUALCHE SEGNALE DALLE IMPRESE

C'è un Paese che non s'arrende


In altre stagioni ci saremmo divisi tra ottimisti e pessimisti. Oggi, purtroppo, non c'è partita e i dati del Bollettino economico di Banca d'Italia lo ribadiscono. Peggiorano le stime sul Pil che nel 2013 scenderà dell'1% e non dello 0,2% come indicato in precedenza e anche l'occupazione subirà un ulteriore taglio dell'1%. Scattata e condivisa la fotografia dei guasti della recessione, si sente però l'esigenza di completare l'operazione e di parlare a quella parte del Paese che non solo non si arrende ma qualche risultato lo porta a casa pur camminando controvento. E sì, perché la recessione non equivale a una caduta verticale delle attività, anche questa volta è un mutamento di pelle che, rispetto al passato, sconta in vari settori un arretramento più secco e una drastica contrazione dell'offerta. Lo stesso documento della Banca d'Italia, ad esempio, riconosce la straordinaria vitalità delle nostre aziende esportatrici, che tra l'altro stanno animando una discreta campagna di acquisizioni all'estero. Troppo spesso dimentichiamo che a fare la differenza tra i tedeschi e noi, più che la qualità del prodotto industriale, è l'efficienza della catena distributiva. E purtroppo noi italiani, salvo qualche lodevole eccezione, in logistica e vendita al dettaglio non siamo mai stati tra i primi della classe.

Interpretare il mutamento di pelle è sempre un esercizio difficile ma ci sono episodi che in qualche modo vanno colti perché possono segnare la transizione. Uno di questi è lo sbarco a Sassuolo del colosso americano Mohawk che ha comprato la Marazzi. Quello emiliano della ceramica è il fratello maggiore dei distretti del made in Italy e le dinamiche che lo coinvolgono sono anticipatrici. Sarà dunque interessante vedere come l'arrivo americano rimodulerà i rapporti, spingerà o meno i Piccoli a mettersi assieme, aprirà magari nuove opportunità di collaborazione finalizzate ai mercati terzi. Il cambiamento vede protagoniste anche diverse multinazionali che operano da tempo in Italia, si sono radicate e in qualche modo ibridate. I loro country manager sono degli alleati che qualsiasi governo dovrebbe cercare di portare dalla sua/nostra parte affinché si stabiliscano in Italia nuove localizzazioni produttive e affluiscano risorse per gli investimenti necessari a globalizzare i nostri marchi.

Dove il mutamento di pelle fatica a venir fuori è il mercato interno, troppo debole perché ci possano essere prospettive rosee per le piccole imprese che non esportano e di conseguenza per i livelli occupazionali che hanno garantito finora. Allora i dossier da prendere in mano subito - prima delle urne - possono essere anche solo due: la filiera dell'edilizia e i pagamenti pregressi della pubblica amministrazione. Nel primo caso è stato annunciato un tavolo per monitorare la concessione dei mutui alle famiglie. In quella sede per sostenere la domanda di abitazioni si dovrà valutare l'ipotesi di tornare alla tradizione delle cartelle fondiarie sottoscritte in una prima fase da investitori istituzionali, magari a partire dalla Cassa depositi e prestiti. Quanto ai pagamenti siamo ancora in fase di stallo perché troppe pubbliche amministrazioni, comprese alcune Procure della Repubblica, non hanno i soldi per pagare e le banche faticano a scontare i crediti pur perfettamente certificati. Ma non si può lasciare che tutto marcisca.

Dario Di Vico

19 gennaio 2013 | 8:00© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_gennaio_19/un-paese-che-non-s-arrende-dario-di-vico_0bee296c-6202-11e2-a69b-1ca806f8d8c9.shtml
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« Risposta #108 inserito:: Febbraio 27, 2013, 05:26:53 pm »

Il Nord tra vendette e rivoluzione

Cambia il popolo delle partite Iva

Il Movimento 5 Stelle diventa primo partito, la Lega vede dimezzare i propri consensi. E il Pd arretra rispetto al 2008


PADOVA - In Veneto il Movimento 5 Stelle è diventato in un colpo solo il primo partito con il 24,3%, eppure la prima reazione dei politici locali di lungo corso è stata quella di procedere ad epurazioni oppure di chiedere il rimpasto di giunta a Palazzo Balbi, sede della Regione. Appena uscite le proiezioni la presidente della Provincia di Padova, Barbara Degani (Pdl), ha dimissionato l'assessore all'Interporto Domenico Riolfatto, reo di aver lasciato nelle settimane scorse gli azzurri e di esser passato armi e bagagli con la Lista Monti.

Più preoccupante è il conflitto che si è aperto già nel pomeriggio di ieri tra i due partiti del forzaleghismo a proposito della giunta Zaia: i berlusconiani Giancarlo Galan e Dario Bond hanno chiesto senza mezzi termini il rimpasto in Regione. Contando i voti del Senato la Lega appare in Veneto come la grande sconfitta (a Treviso città è scesa sotto il 9%!), i suoi elettori sono stati il bacino di consenso di Beppe Grillo visto che il partito del Carroccio aveva alle ultime politiche incassato il 27% dei consensi, alle Regionali il 35% e ieri è passato a un misero 11,1%.

Il 24,3% di voti presi da 5 Stelle sono la traduzione nelle urne delle piazze che Beppe Grillo ha riempito in quasi tutte le città del Nord Est e dell'appoggio che ha trovato presso il popolo delle partite Iva, tra gli artigiani e i commercianti. La «pancia del Paese» che era stata la leva del forzaleghismo da queste elezioni esce come in condominio, parte con il centrodestra e parte con i grillini. Ci sarà tempo per analizzare questa mutazione repentina ma nel Nord Est il voto sembra aver preso questa strada. E del resto gli ultimi comizi di Grillo, che è andato fino a Belluno e Rovigo, sono stati dedicati almeno per metà a temi come la difesa del made in Italy, l'abolizione dell'Irap, i soprusi di Equitalia e la revisione degli studi di settore. È interessante notare come in Piemonte il Movimento 5 Stelle ieri abbia preso grosso modo i voti del Veneto (attorno al 25,3%) mentre resta relativamente dietro in Lombardia, attorno al 17-18%. Il paradosso è che anche in una piazza come Varese, dove pure Grillo è rimasto basso (17,4%), pareggia grosso modo i voti presi dalla Lega Nord in quella che è considerata la sua capitale politica per aver espresso le leadership prima di Umberto Bossi e poi di Roberto Maroni.

Intuita la mala parata il sindaco di Verona, Flavio Tosi, già negli ultimi giorni di campagna elettorale aveva iniziato a sostenere la necessità di creare un nuovo contenitore politico che andasse «oltre la Lega». Ieri, dopo i dati che hanno visto il suo partito conquistare un misero 13% a Verona, ha individuato nell'alleanza con il Cavaliere la causa prima della sconfitta della Lega ma tutto ciò non potrà evitare che si riapra il contenzioso con Zaia. Il governatore è parso poco impegnato nei comizi e l'unica affermazione degna di nota che si ricorda di lui nelle ultime settimane è stata sibillina («Il Nord Est è finito») e poca adatta a rastrellare voti. Ieri Zaia pressato dai cronisti se l'è cavata dichiarando che «il vero bocciato di queste elezioni è Mario Monti» ma è il primo a sapere di aver solo tirato il pallone in tribuna.

Il risultato delle regioni del Nord boccia anche il neo laburismo di Pier Luigi Bersani, in Veneto il Pd con il 23,3% segna una performance più bassa di quella delle elezioni politiche del 2008 dove aveva fatto toccato il 26,5%. Il leader piacentino aveva puntato su una candidatura locale, Laura Puppato, che non sembra aver prodotto valore aggiunto. Il risultato delle regioni settentrionali resta amaro per il centrosinistra: al Senato in alcune province come Bergamo e Brescia il distacco dal centrodestra oscilla tra i 17 e i 15 punti. Durissima è stata la competizione in Piemonte che era considerata una regione sicura per il centrosinistra e che invece lo ha visto prevalere sulla coalizione di Berlusconi solo sul filo di lana. C'è da dire che il Piemonte ha riservato un pessimo lunedì ai leghisti che hanno subito un effetto-Cota all'incontrario, pur avendo il governatore della Regione hanno appena superato il 5%.

Scelta civica, la lista promossa da Mario Monti, non è riuscita a entrare in sintonia con la società nordestina. È stata vissuta come un'operazione di establishment appoggiata da qualche struttura confindustriale di base ma poco più. E nemmeno lo svuotamento della lista di Oscar Giannino, che in un primo tempo aveva attirato molte attenzioni, sembra averlo aiutato. Anche in questo caso è stato Grillo a fare da magnete e ad attirare il voto di una protesta indirizzata in primo luogo contro la soffocante pressione fiscale. Uno dei risultati migliori Monti l'ha raggiunto nella sua Varese (11,4%) ma anche a Bergamo e in Piemonte è stato raggiunto lo stesso livello di consensi. Ma non c'è dubbio che dovendo scegliere tra il Cavaliere e il Professore che l'ha sostituito a Palazzo Chigi la risposta del Nord è stata nettamente a favore del primo. L'elettorato moderato continua a pensare che Berlusconi sia il miglior campione che si possa schierare in campo contro la sinistra e anche questa volta non gli ha fatto mancare il suo appoggio.

Di sicuro davanti a un voto così frammentato e alla palese mancanza di indirizzi condivisi la società produttiva del Nord si ritrova oggi un po' più sola. I giovani per sperare di trovare lavoro aprono la partita Iva ma non pare che portino con sé una vera idea di business, nel Nord Est almeno due delle grandi imprese (Electrolux e Benetton) hanno denunciato esuberi di personale, non si riesce a trovare sedi certe nelle quali decidere se sviluppare o meno il traffico cargo dall'aeroporto di Montichiari e intanto sono 12 mila le imprese che rispetto a quattro anni fa hanno chiuso i battenti in Veneto. Eppure aperte le urne e contati i voti assisteremo a un duello per il rimpasto della Regione e a un regolamento di conti in casa leghista tra Tosi e Zaia. Il teatrino della politica non conosce pause.

Dario Di Vico

26 febbraio 2013 | 8:06© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/speciali/2013/elezioni/notizie/26-febbraio-nord-vendette-rivoluzione-di-vico_f99e4d30-7fe0-11e2-b0f8-b0cda815bb62.shtml
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« Risposta #109 inserito:: Marzo 04, 2013, 06:25:18 pm »

L'analisi Nel Movimento - Le ragioni degli attacchi al sindacato

E Grillo prova a «intestarsi» il disagio sociale

La proposta lanciata in campagna elettorale dal M5S è il modello «top down» e tende ad azzerare gli organismi intermedi di ascolto e di canalizzazione del consenso


Anche per la società di mezzo fare i conti con i recenti risultati elettorali non sarà facile. Perché mentre la politica tenterà di costruire nuovi/più complicati equilibri politici e di assicurare una governabilità seppur a tempo, l'associazionismo e la rappresentanza si dovranno misurare con i mutamenti indotti nella dialettica sociale dal successo del Movimento 5 Stelle. Si è ripetuto in questi mesi che la profondità della crisi non si era (fortunatamente) sommata a un'esplosione di conflitto sociale e che gli italiani avevano saputo sviluppare una grande capacità di adattamento alla riduzione di taglia della nostra economia. Più che riempire le piazze avevano saputo stringere la cinghia o tutt'al più sviluppare la contrattazione aziendale. Ma tutto il potenziale che non si è espresso in termini di conflitto sociale aspro, anche solo con le forme che abbiamo conosciuto nel Novecento o che possiamo osservare nelle cronache greche e spagnole, alla fine è sfociato in un clamoroso caso di conflitto politico che ha portato un movimento outsider a scalare il Parlamento.

L'Opa lanciata da Beppe Grillo è riuscita e, vista dal basso, c'è il rischio che in virtù di quest'operazione gli venga intestata de facto la totalità della rappresentanza del «disagio» sociale. La prima dimostrazione che per sindacati, Confindustria, Rete Imprese Italia, cooperative sarà arduo difendere gli spazi di protagonismo che avevano tradizionalmente occupato viene anche dal dibattito di questi giorni. Le priorità programmatiche individuate per costruire gli equilibri di governo poggiano quasi integralmente su misure che attengono alla riforma della politica e relegano più indietro i temi dell'economia reale e della crescita.
Negli ultimi giorni di campagna elettorale Grillo si era lanciato in un attacco ai corpi intermedi di non facile decrittazione.

È parso di capire che ce l'avesse esclusivamente con i sindacati confederali più che con le organizzazioni della rappresentanza d'impresa, visto che in Veneto una piccola sigla aveva radunato per lui un parterre di artigiani e a Parma l'assessore alle Attività produttive viene da un'altra associazione di Pmi. Quale che sia l'interpretazione giusta della sua sparata, Grillo ha però voluto ribadire un'idea della democrazia in cui sembra esserci poco spazio per la società di mezzo. La sua è una proposta top down e tende ad azzerare gli organismi intermedi di ascolto e di canalizzazione del consenso. Se pensiamo come in campagna elettorale la Cgil avesse reinvestito moltissimo sulla nascita di un governo amico, e come già fossero in corso timidi tentativi per aggiungere al blocco laburista un'interlocuzione privilegiata con la Confindustria, si capisce facilmente qual è la portata della discontinuità che le parti sociali si trovano davanti. Equivale a un cambio di paradigma.

Grillo per la Cgil è un avversario più temibile della stessa «bestia nera» Maurizio Sacconi, che pure aveva puntato ad isolarla, perché la pressione del Movimento 5 Stelle agisce anche dall'interno. E' un cavallo di Troia parcheggiato nella cittadella della rappresentanza sociale.
E qui si inserisce un altro tema con il quale confrontarsi, l'evoluzione della Rete. Per come ha saputo usarla il duo Casaleggio-Grillo assomiglia non solo a uno straordinario strumento di comunicazione ma anche a una sorta di infrastruttura del consenso. Rete e società civile tendono a rispecchiarsi l'una nell'altra e con il tempo cercano di assomigliarsi. Se pensiamo al sostanziale analfabetismo digitale della società di mezzo non possiamo non cogliere la preoccupante asimmetria delle forze in campo. Quando a suo tempo un altro partito outsider, la Lega Nord, volle sfidare il sindacato anche «dal basso» mise in campo il Sin.pa. di Rosi Mauro e un insieme di associazioni raccogliticce. Poca roba e sappiamo come è andata a finire. Stavolta la competizione si presenta più ardua e se, di conseguenza, la rappresentanza vorrà resistere dovrà chiedere non solo la riforma della politica ma anche implementare la sua. Sarebbe maramaldesco elencare, qui e adesso, tutti i vizi e le pigrizie della società di mezzo ma di lavoro da fare ce n'è a volontà. Si tratta decidere solo da dove cominciare.

Dario Di Vico
@dariodivico

4 marzo 2013 | 8:43© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_marzo_04/di-vico-grillo-prova-a-intestarsi-disagio-sociale_3ae78a18-8496-11e2-aa8d-3398754b6ac0.shtml
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« Risposta #110 inserito:: Marzo 24, 2013, 05:06:59 pm »

TRE COSE CHE SI POSSONO FARE

L'agenda dei 14 milioni di pendolari che nessuno vuole (ancora) aprire

Tariffe +51%, velocità media sui treni ferma a 35 orari. La protesta di chi viaggia, i disservizi li paghiamo tutti


Dai 14 milioni di pendolari stimati in Italia quelli che stanno pagando di più i costi della crisi usano l'auto per recarsi ogni giorno sul posto di lavoro. Molti di loro sono operai perché le fabbriche ormai sono tutte fuori dei centri abitati, il resto sono lavoratori «flessibili» che devono timbrare il cartellino in orari non coperti dal servizio di trasporto pubblico. Un pendolare con auto ha subìto l'incremento delle tariffe autostradali e della benzina, usa la sua vettura e quindi spende di più in manutenzione ordinaria. In più sia con l'accisa sulla benzina sia con la fiscalità generale partecipa al sussidio del trasporto locale. Eppure non si aggrega, non protesta e di conseguenza non ha voce in capitolo.

La seconda tribù di pendolari è quella che si reca a lavoro con un bus extraurbano. Le tariffe sono in media +30% rispetto alle ferroviarie nonostante che i costi di produzione siano inversi, 15 euro a km per il treno e 3 euro per il bus. Come il pendolare in auto quello in bus è scarsamente organizzato, le proteste hanno come controparte naturale gli autisti dei bus e la relazione informale che si crea con loro serve a mitigare le inefficienze e ad apportare correzioni in corsa. In Lombardia i pendolari in bus sono stimati in circa 1 milione contro 760 mila in treno e la parte del leone la fa il traffico su Milano. La città del Duomo, infatti, attira giornalmente 900 mila pendolari complessivi che sono altrettanti city user in aggiunta ai residenti (1,3 milioni scarsi). Lo spostamento progressivo di popolazione da Milano verso l'hinterland e la provincia trova le motivazioni negli alti costi della città (innanzitutto nell'immobiliare) e nella possibilità di usufruire nei piccoli centri di preziose reti di supporto familiari e non.

IN TRENO - Arriviamo ai pendolari in treno che sono l'ala più organizzata, «i duri». In Italia sono circa 3 milioni. Le prime proteste partivano come estensione delle lotte operaie e culminavano nel blocco dei binari. Poi via via il pendolarismo delle tute blu si è spostato su auto e bus e il treno è diventato interclassista. È facile trovare in carrozza persino magistrati e avvocati che quando vestono i panni del pendolare sono i più rapidi nel promuovere vertenze e cause. Grazie a Internet i pendolari dei treni hanno migliorato la loro organizzazione e ormai attorno a Milano esiste una ventina di comitati. Idem nel resto d'Italia con circolazione immediata delle notizie e addirittura una classifica delle tratte peggio servite o delle linee a binario unico come, per restare in Lombardia, quelle che angustiano i viaggiatori da Cremona a Milano o i pendolari di una parte della Brianza.
I viaggiatori da treno hanno il vantaggio di avere una controparte visibile (i gestori ferroviari) e di utilizzare le stazioni come «cattedrali» della protesta, i pendolari in auto alle prese con un ingorgo ovviamente non sanno con chi prendersela. La particolarità italiana è data dai larghi contributi statali e regionali al trasporto pubblico, cresciuti negli anni: in Lombardia dal 2001 al 2010 l'incremento è stato del 61% contro un'offerta di treni/km cresciuta solo del 30% e un aumento delle tariffe del 51% (l'inflazione ha inciso solo per 21 punti).

La crisi se ha aumentato i costi del pendolarismo in auto ha decongestionato le autostrade e persino le tangenziali con l'eccezione delle ore di punta. Ma ha anche frantumato il lavoro e moltiplicato gli spostamenti. Sia chi opera nel terziario debole (partite Iva, precari) chi nel terziario forte (consulenti, professionisti) raggiunge più posti di lavoro o clienti in ore sempre meno canoniche. I comitati dei pendolari denunciano a più riprese che i treni a loro riservati sono vecchi e sporchi (pulizie e degrado) ma soprattutto sono lentissimi e poco puntuali, nonostante che in più di qualche caso i gestori abbiano allungato (sugli orari) i tempi di percorrenza.
Secondo Dario Balotta di Legambiente «il 2012 è stato l'anno che ha dato più problemi degli ultimi dieci». Consultando Pendolaria, una sorta di libro bianco del trasporto ferroviario, si scopre che l'anno scorso molte Regioni hanno deciso di tagliare corse e treni e ritoccare gli abbonamenti. Nel solo Piemonte 12 linee e il 90% dei treni sulla Napoli-Avellino è stato depennato.

Ma il cambiamento più significativo lo si deve sicuramente all'avvento della Tav e ai riflessi che ha avuto sul traffico pendolari. La forte distanza tra la serie A del trasporto e la serie B è percepita da tutti, si sa che la Tav ha convogliato su di sé gli investimenti ed è diventato un business redditizio, tanto che su quelle linee in soli 5 anni l'offerta è aumentata del 395%. In parallelo il trasporto locale è stato lasciato degradare davanti ai super-treni che hanno l'assoluta precedenza perché devono arrivare in orario per non perdere competitività. «Come conseguenza si è ridotta la velocità all'interno dei nodi urbani come Milano, andando più piano i treni pendolari hanno saturato gli spazi della rete e al minimo ritardo si genera un effetto di propagazione sull'intero traffico. E 15-20 minuti in più per un pendolare sono una tragedia, specie se si ripetono con una certa frequenza» sostiene Andrea Boitani, docente alla Cattolica di Milano e autore del pamphlet «I trasporti del nostro scontento». I clienti dell'Alta velocità pagano bei soldi e se il servizio ritarda magari tornano all'aereo, invece i pendolari «esprimono una domanda più rigida, che non ha alternative più convenienti e quindi su di essa si scaricano le inefficienze».

Se le cose stanno così come si possono risolvere i problemi dei pendolari? Ci vorrebbero più treni, più rapidi e nuovi almeno nelle 20 principali linee dei pendolari dove l'affollamento sta diventando sempre di più ragione aggiuntiva di ritardo. Quanto al recupero di velocità c'è molto da fare, oggi siamo a una media di 35,5 km l'ora contro i 51,4 della Spagna, i 48,1 della Germania e i 46,6 della Francia. Negli anni scorsi ha preso piede la pratica dei bonus di compensazione, che ha raggiunto il culmine con la Caporetto della Trenord lo scorso dicembre. I disservizi prolungatisi per 7 giorni hanno portato alla riduzione del 25% del costo dell'abbonamento. Ma il bonus chi lo paga? Non certo i dirigenti che hanno causato l'inefficienza ma si scarica sulla fiscalità generale. Lo paghiamo tutti. «E comunque sono soldi sottratti alla manutenzione, alla pulizia, alla qualità del servizio e al rinnovo del materiale rotabile. Il bonus è stato un punto di mediazione tra la politica e i comitati pendolari, rischia però di essere l'alibi della deresponsabilizzazione tanto paga Pantalone» commenta Balotta.

E allora? Come si può incidere veramente e cambiare la vita dei milioni di pendolari giornalieri? Il professor Boitani prova a mettere in fila le priorità. «Cambiare le regole di circolazione soprattutto nei grandi nodi per velocizzare il traffico in sicurezza. Accelerare gli investimenti per ampliare la capacità dei nodi metropolitani. Introdurre le gare per l'affidamento dei servizi bus e treni per stimolare l'efficienza e ridurre i sussidi. Rendere più attrattivi gli hub del traffico pendolare trasformandoli in veri e propri centri di servizi». È una lista da libro dei sogni o può trovare ospitalità in qualche agenda di governo?

Dario Di Vico

@dariodivico24 marzo 2013 | 9:53© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/13_marzo_24/di-vico-agenda-14-milioni-pendolari_edbf49ee-9451-11e2-bd1c-50cadb6c1382.shtml
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« Risposta #111 inserito:: Marzo 25, 2013, 07:17:48 pm »

PARTI SOCIALI E NON

Quel «Siamo alla fine» nelle parole di Squinzi

La priorità unica delle due Italie e l'urgenza di un programma per il rilancio economico


In molti hanno considerato le consultazioni che Pier Luigi Bersani ha avviato con le forze sociali come un diversivo. La quadratura del cerchio, la garanzia di una maggioranza al Senato, si presenta ardua da raggiungere e il leader pd sembra aver scelto il percorso più lungo.

Sia chiaro, dedicare più giorni all'ascolto delle rappresentanze del lavoro e dell'impresa è una scelta meritoria, il guaio è che appare figlia di una strategia a zig zag.

Se la costruzione di un governo, come è giusto che sia, parte dalla ricognizione dei problemi e di conseguenza dal profondo disagio che attanaglia la società italiana, bisogna allora essere coerenti e privilegiare i contenuti del rilancio economico sulle pregiudiziali politiche. Se invece un giorno si tenta di agganciare i cantori della decrescita felice e l'altro si coltiva l'idea di far approvare dal Parlamento l'ineleggibilità di Silvio Berlusconi la contraddizione è palese. Non si mette davvero l'economia reale al centro ma la si subordina a indirizzi politici scelti a priori. Del resto la vecchia lettura dei partiti come nomenclatura delle classi non ha più alcun senso e avendo anche gli operai votato più per il Pdl che per il Pd non si può proprio dire che il retroterra sociale dei due schieramenti richieda soluzioni alternative tra loro.

Pur avendo Grillo rimescolato le carte è evidente che il Pd conserva una maggiore presa sugli insegnanti della scuola pubblica, i lavoratori dipendenti, i ceti medi riflessivi. Di converso il Pdl trova con maggiore facilità il consenso dei lavoratori autonomi, degli imprenditori di taglia media e piccola, delle casalinghe. Ma quelle che in passato sono state disegnate come «due Italie contrapposte», in epoca di emergenza economica e di altissima pressione fiscale non differiscono molto tra loro e alla fine convergono sulle stesse priorità (sostegno ai consumi, ossigeno alle filiere produttive, ripresa dell'occupazione giovanile).

E allora forse converrebbe partire da queste considerazioni di buon senso, mettere giù una base programmatica per il rilancio economico e aggregare attorno ad essa il più largo favore delle forze sociali. In questo modo si dribblerebbe l'accusa di cercare diversivi e si produrrebbe una confortante sintonia tra Paese reale ed equilibri politico-parlamentari. Va detto anche che le forze sociali arrivano all'incontro con Bersani con le ossa malconce. Lo tsunami grillino le ha scombussolate e ora faticano persino a ritrovare il bandolo della loro azione. L'attacco di Grillo alla società di mezzo e l'insediamento del Movimento 5 Stelle come cavallo di Troia nella cittadella del consenso di operai e artigiani rende difficile per associazioni e sindacati ripartire come se niente fosse accaduto.

Qualche dirigente nei primi giorni ha provato a dire che il programma dei Cinquestelle «è musica per le orecchie degli artigiani» ma non l'aveva letto, qualche altro leader della rappresentanza sta progettando portali per far dialogare gli iscritti ma nessuno ha finora mostrato il coraggio di sfidare i grillini in campo aperto. Le poche parole che sono state spese dopo le elezioni sono state (giustamente) finalizzate a cercare di sbloccare i pagamenti della pubblica amministrazione alle imprese. Ma è chiaro a tutti che i tempi dell'economia oggi non combaciano con quelli della politica e il presidente della Confindustria, Giorgio Squinzi, con la sua consueta schiettezza è stato lapidario: «Siamo vicinissimi alla fine».

p.s. Ma visto che non c'è tempo da perdere invece di usare tre giorni per farsi ricevere da Bersani non sarebbe stato meglio stilare un documento comune e consegnarlo tutti assieme?

Dario Di Vico
dariodivico

25 marzo 2013 | 8:03© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/13_marzo_25/di-vico-siamo-alla-fine-parole-di-squinzi_a9710fe4-9518-11e2-84c1-f94cc40dd56b.shtml
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« Risposta #112 inserito:: Aprile 08, 2013, 11:15:51 am »

Il Paese reale Tra stallo politico e manovre del governo

«Tutti lì sul caffè gratis alla buvette Ma le imprese sono al capolinea»

Dall'Emilia al Veneto il malessere degli industriali

Le Coop:«I rimborsi? È liquidità che arriva all'economia reale»


Nella mappa dell'imprenditoria italiana gli emiliani vengono considerati da sempre dei moderati. Non protestano a ogni piè sospinto e tutto sommato hanno sempre avuto un rapporto positivo con la politica. Ma adesso il loro sentimento sta cambiando. Dice Maurizio Marchesini presidente della Confindustria dell'Emilia Romagna: «Da quaranta giorni si discute del prezzo del caffè alla buvette di Montecitorio e intanto attorno ci casca il mondo e si stanno perdendo occasioni di sviluppo».

Persino le aziende esportatrici che sono il motore di testa del sistema Emilia rallentano, quelle che lavorano per il mercato interno sono disperate e stanno saltando singole aziende fornitrici che non riescono a stare a galla e che fanno mancare un anello chiave delle filiere produttive. Così i prudenti emiliani stavolta sentono, come non mai, l'esigenza di far sentire il loro profondo malessere. Vorrebbero fortemente che attorno ci fosse anche la partecipazione dei dipendenti, una mobilitazione comune del lavoro e dell'impresa ma i sindacati anche in questo caso sono in ritardo. Ci arrivano dopo. Venerdì 12 e sabato 13, intanto, alcune centinaia di imprenditori bolognesi, parmigiani, modenesi e via di questo passo, andranno a Torino al convegno della Confindustria che stavolta non sarà di routine ma ha tutte le premesse per diventare una grande manifestazione di protesta e di orgoglio. Lo slogan prescelto sarà «il tempo è scaduto» e il sottotitolo non esplicitato può essere letto come... «e noi non ce la facciamo più a supplire alla latitanza della politica».

Gli imprenditori emiliani hanno avuto da sempre un rapporto cordiale con la sinistra ma stavolta Marchesini e i suoi non hanno contezza di cosa stia facendo il Pd, «non si capisce dove sia finito il tradizionale pragmatismo degli amministratori emiliani, non hanno saputo leggere il risultato del voto e così abbiamo perso settimane su settimane». E visto che stavolta sono proprio gli emiliani (da Pierluigi Bersani a Maurizio Migliavacca passando per Vasco Errani) a guidare le mosse del partito la riflessione degli industriali è quasi ad personam. Venerdì 5 a Bologna si sono riuniti tutti i presidenti delle associazioni territoriali e dei settori a trazione emiliana come la ceramica e hanno fatto una conferenza stampa congiunta che sembrava in realtà una manifestazione di sdegno. Che Marchesini ha tradotto in un'affermazione lapidaria: «Se qualcuno pensa di andare a nuove elezioni sappia che nel frattempo noi saremo costretti a portare i libri in tribunale».

Giuliano Poletti è il presidente della LegaCoop, ha rinunciato a candidarsi in Parlamento perché vuole portare avanti il processo di unificazione tra coop bianche e rosse. Anche lui pensa che sia necessario «un governo delle emergenze, di durata limitata nel tempo e imperniato sul rapporto tra Pd e Pdl». Per Poletti i grillini hanno monopolizzato l'agenda politica negli ultimi 40 giorni e i temi dell'emergenza economica e del lavoro sono passati in secondo piano. «So bene che dalle urne è uscita fuori una pressante richiesta di trasparenza della politica ma bastava per onorarla deliberare un unico atto: riformare il finanziamento pubblico ai partiti. E poi un minuto dopo dedicarsi alle aziende e al lavoro».

Il presidente della LegaCoop la pensa come Rete Imprese Italia sul decreto Grilli per i pagamenti della pubblica amministrazione: «Avrei voluto modalità di rimborso più semplici, immediate e avrei preferito che la decisione di immettere liquidità nell'economia reale fosse stata gestita in modo da generare ottimismo. E invece è diventato un provvedimento da ragionieri, per di più sospettosi e così facendo è stato bruciato l'effetto psicologico positivo che il provvedimento avrebbe dovuto avere». Poletti è molto preoccupato per l'avvitamento del credito bancario e per la scomparsa del tema dall'agenda politica. «Banca d'Italia manda segnali di irrigidimento sui controlli e le garanzie ma attenzione bisogna sapere che c'è bisogno di un punto di equilibrio. Se ogni autorità o potere gioca la partita da solo il risultato è un'ulteriore restrizione dei fidi con tutte le conseguenze che è facile immaginare in una fase come questa».

Anche dal Veneto si guarda con grande attenzione all'appuntamento confindustriale di Torino. Roberto Zuccato, presidente degli industriali, racconta della difficoltà di lavorare contemporaneamente su due piani, tamponare l'emergenza e impostare una nuova strategia che porti a quello che chiama «il manifatturiero digitale». Ovvero una capacità del sistema Nord Est si posizionarsi più alto nella scala della qualità e nel frattempo aggregarsi per acquisire la necessaria massa critica. Zuccato molto responsabilmente invita a non fare di tutt'erba un fascio quando si parla dei suicidi. Per ciascun caso bisogna conoscere bene le motivazioni ed evitare le analisi superficiali. «C'è il rischio di indurre all'emulazione e quindi l'enfasi è la cosa meno necessaria in questi momenti». Ciò non vuol dire che agli imprenditori sfuggano i profondi e drammatici cambiamenti che stanno avvenendo negli stili di vita dei cittadini. «Parlo non solo della frequenza ridotta con cui si va al ristorante o in pizzeria ma mi hanno raccontato come le famiglie comincino a riportare a casa i loro cari che avevano affidato a case di riposo per anziani. Non possono permettersi più le rette e poi la pensione del nonno serve per quadrare il bilancio a fine mese. Perché una volta in una casa si lavorava in due o anche in tre, oggi siamo tornati allo stipendio unico».

Dario Di Vico

8 aprile 2013 | 8:08© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/13_aprile_08/tutti-sul-caffe-gratis-buvette-imprese-capolinea-di-vico_9eeaea00-a00c-11e2-b85a-0540f7c490c5.shtml
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« Risposta #113 inserito:: Aprile 15, 2013, 04:13:08 pm »

PARALISI POLITICA E PROBLEMI REALI

Un dialogo nella serietà


Il grido di dolore delle imprese e del lavoro lanciato con forza dal palco confindustriale di Torino non ha trovato ascolto, nella giornata di ieri, da parte delle principali forze politiche. Davanti alla richiesta, avanzata da quella fetta della società civile che identifichiamo come «i produttori», le risposte di Pier Luigi Bersani e Silvio Berlusconi sono state elusive. Il segretario del Pd, che aveva convocato un'iniziativa contro la povertà in una borgata romana, ha addirittura giudicato «indecente» la richiesta di far presto e dare un governo al Paese. Il capo del centrodestra italiano, al quale comunque va riconosciuto di aver offerto disponibilità a un governo di larghe intese, alla fine ha utilizzato la manifestazione di Bari per aprire di fatto la campagna elettorale e ricandidarsi a Palazzo Chigi.

È vero che nei rispettivi discorsi i due antagonisti hanno elencato una serie di provvedimenti economici urgenti, il primo privilegiando i temi del welfare ferito, il secondo dedicando maggiore attenzione ai proprietari di casa e agli imprenditori. Ma in entrambi i casi la scelta delle priorità è parsa come finalizzata a rispecchiarsi nel proprio elettorato, più che a individuare un programma di emergenza di interesse nazionale. Ieri né Bersani né Berlusconi hanno voluto mettersi «nei panni di tutti», hanno preferito fare da specchio alle istanze delle rispettive constituency . In questo modo però, se davvero sono iniziati i comizi elettorali, l'apertura è avvenuta nel modo peggiore: promettendo provvedimenti che non si potranno onorare e lasciando in secondo piano quel dialogo costruttivo all'insegna della serietà di cui abbiamo urgente bisogno.

Le regole della democrazia politica sono sacrosante e la società civile non può opporsi a una nuova chiamata alle urne, ma una campagna elettorale-bis condotta su questo registro si trasformerebbe in un lungo festival del populismo, per di più mascherato dall'alibi di tagliare la strada a Beppe Grillo. E allora, a costo di passare da antipatici, dobbiamo dirlo con chiarezza: lo stato dei nostri conti pubblici non consente di abolire l'Imu e di tagliare il cuneo fiscale. Anzi, con tutta probabilità saremo costretti a una manovra correttiva. Bisogna saperlo. E occorre anche avere l'onestà intellettuale di riconoscere come il governo Monti, pur tra mille errori, è riuscito ad evitare che l'Italia fosse costretta a firmare un memorandum di intesa in cambio degli aiuti del Fondo monetario. I duellanti di ieri non possono dirsi sicuri al cento per cento di conseguire lo stesso risultato. Vale la pena, dunque, imbarcarsi in un'avventura che, in virtù del Porcellum , potrebbe consegnarci un quadro politico altrettanto ingovernabile?

Dal fronte comune che le parti sociali da Torino hanno cominciato a costruire, le forze politiche potrebbero trarre un'altra ispirazione. I produttori hanno detto che in nome dell'interesse dell'economia sono disposti a riporre, anche solo per una fase, le loro bandiere. Perché la politica, invece, si sente realizzata solo quando può farle garrire al vento?

Dario Di Vico

14 aprile 2013 | 8:27© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_aprile_14/dialogo-della-serieta-di-vico_0f0a8118-a4c9-11e2-9ee4-532c6d76e49d.shtml
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« Risposta #114 inserito:: Aprile 30, 2013, 11:28:02 am »

Fermezza e attenzione alle parole


Ieri la Repubblica italiana ha subito un attentato. Che il protagonista, sulla cui controversa biografia sapremo di più nei prossimi giorni, sia un disoccupato e che tutto ciò avvenga nel pieno di una pesantissima recessione non cambia segno e natura del gesto criminale. Il «disagio sociale» non giustifica neanche per un momento le pallottole esplose contro due fedeli servitori dello Stato. Le preoccupazioni, indubbiamente, aumentano se si pensa che nel giro di pochi mesi episodi analoghi si sono verificati in provincia di Padova e a Perugia, dove è stato aperto il fuoco nei confronti di un direttore di banca e di alcune impiegate della Regione Umbria.

In tutte e tre gli episodi i protagonisti si sono dichiarati vittime della Grande Crisi ed esacerbati dalla stretta creditizia, dalle ingiustizie dell'amministrazione o dalla disoccupazione. Il facile ricorso alle armi ci deve però indurre a capire se non si stia producendo un'americanizzazione strisciante della nostra società. La ripetizione di gesti isolati ed eclatanti che puntano a spargere sangue innocente. Assomigliare agli Stati Uniti in questo caso non rappresenterebbe certo una novità rassicurante, segnerebbe una discontinuità di cui sarebbe bene occuparsi.
Al di là però dei raffronti e della necessità di scandagliare gli umori profondi della nostra comunità, è evidente che cinque anni di pesante crisi hanno scavato come una talpa sotto la superficie della coesione, hanno minato antiche e consolidate sicurezze, hanno raffreddato le esigenze di mobilità e rinnovamento dei giovani e ci stanno consegnando un Paese lacerato e inevitabilmente incattivito. In giorni drammatici come ieri lo scoramento prende facilmente piede e nel gesto omicida di un uomo pensiamo di rintracciare la fotografia a grandangolo di una società. Fortunatamente non è così, è una distorsione ottica che sarebbe bene che non diventasse una distorsione mediatica.

Oggi è lunedì e milioni di persone in Italia apriranno le loro aziende, raggiungeranno il loro posto di lavoro, offriranno i loro servizi ad altri cittadini. Con la loro normalità dimostreranno che non tutto è compromesso, che una delle maggiori economie d'Europa possiede ancora il ritmo del suo funzionamento, conosce i suoi diritti e i suoi doveri, non ha abdicato. E però è proprio nei confronti di questa normalissima gente (e non di un attentatore) che la politica oggi è in debito.
Trovo sbagliato, come pure è stato fatto ieri pomeriggio, politicizzare all'estremo il gesto di Luigi Preiti e farne l'ennesimo pretesto di uno stucchevole ping pong di dichiarazioni a effetto, ma il fatto che la sparatoria sia avvenuta a Roma, davanti a Palazzo Chigi e nel giorno del giuramento del nuovo governo, ci spinge inevitabilmente a considerazioni che vanno oltre. Il sorprendente risultato elettorale che ha visto crescere fino al 25% dei voti validi una forza politica come il Movimento 5 Stelle sta creando un dibattito politico «grillo-centrico». Prima il comico è stato presentato come la levatrice del cambiamento, poi dalla stessa parte politica è stato accostato ai lepenisti francesi e infine, da un'altra tribuna, la sua polemica contro la partitocrazia è diventata l'imputata del giorno, il brodo di coltura della sparatoria di ieri. Forse sarebbe meglio che anche il fenomeno Grillo venisse ricondotto ai suoi termini naturali, chi vuole batterlo e ridimensionarlo ha tutti gli strumenti per farlo, eviti di aggiungere veleno a veleno.

Oggi Enrico Letta presenta in Parlamento compagine e programma del nuovo esecutivo, finalmente i problemi degli italiani e le ricette per affrontarli si riprenderanno lo spazio che meritano. Il neo-premier è atteso da scelte difficili che richiedono forza negoziale in Europa, attenta selezione dei provvedimenti da varare e «produzione» di nuova coesione. Un aiuto, seppur indiretto, arriva dalla società di mezzo. Una festa di robusta tradizione come il Primo Maggio quest'anno vedrà per la prima volta, in alcune città, la presenza di una rappresentanza degli imprenditori sul palco sindacale. Un gesto di maturità e un esempio per la politica.

@dariodivico
DARIO DI VICO

29 aprile 2013 | 8:46© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_aprile_29/di-vico-fermezza-attenzione-alle-parole_cb8f018e-b08a-11e2-b358-bbf7f1303dce.shtml
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« Risposta #115 inserito:: Maggio 02, 2013, 06:52:08 pm »

Fermezza e attenzione alle parole

Ieri la Repubblica italiana ha subito un attentato. Che il protagonista, sulla cui controversa biografia sapremo di più nei prossimi giorni, sia un disoccupato e che tutto ciò avvenga nel pieno di una pesantissima recessione non cambia segno e natura del gesto criminale. Il «disagio sociale» non giustifica neanche per un momento le pallottole esplose contro due fedeli servitori dello Stato. Le preoccupazioni, indubbiamente, aumentano se si pensa che nel giro di pochi mesi episodi analoghi si sono verificati in provincia di Padova e a Perugia, dove è stato aperto il fuoco nei confronti di un direttore di banca e di alcune impiegate della Regione Umbria.


In tutte e tre gli episodi i protagonisti si sono dichiarati vittime della Grande Crisi ed esacerbati dalla stretta creditizia, dalle ingiustizie dell'amministrazione o dalla disoccupazione. Il facile ricorso alle armi ci deve però indurre a capire se non si stia producendo un'americanizzazione strisciante della nostra società. La ripetizione di gesti isolati ed eclatanti che puntano a spargere sangue innocente. Assomigliare agli Stati Uniti in questo caso non rappresenterebbe certo una novità rassicurante, segnerebbe una discontinuità di cui sarebbe bene occuparsi.
Al di là però dei raffronti e della necessità di scandagliare gli umori profondi della nostra comunità, è evidente che cinque anni di pesante crisi hanno scavato come una talpa sotto la superficie della coesione, hanno minato antiche e consolidate sicurezze, hanno raffreddato le esigenze di mobilità e rinnovamento dei giovani e ci stanno consegnando un Paese lacerato e inevitabilmente incattivito. In giorni drammatici come ieri lo scoramento prende facilmente piede e nel gesto omicida di un uomo pensiamo di rintracciare la fotografia a grandangolo di una società. Fortunatamente non è così, è una distorsione ottica che sarebbe bene che non diventasse una distorsione mediatica.

Oggi è lunedì e milioni di persone in Italia apriranno le loro aziende, raggiungeranno il loro posto di lavoro, offriranno i loro servizi ad altri cittadini. Con la loro normalità dimostreranno che non tutto è compromesso, che una delle maggiori economie d'Europa possiede ancora il ritmo del suo funzionamento, conosce i suoi diritti e i suoi doveri, non ha abdicato. E però è proprio nei confronti di questa normalissima gente (e non di un attentatore) che la politica oggi è in debito.
Trovo sbagliato, come pure è stato fatto ieri pomeriggio, politicizzare all'estremo il gesto di Luigi Preiti e farne l'ennesimo pretesto di uno stucchevole ping pong di dichiarazioni a effetto, ma il fatto che la sparatoria sia avvenuta a Roma, davanti a Palazzo Chigi e nel giorno del giuramento del nuovo governo, ci spinge inevitabilmente a considerazioni che vanno oltre. Il sorprendente risultato elettorale che ha visto crescere fino al 25% dei voti validi una forza politica come il Movimento 5 Stelle sta creando un dibattito politico «grillo-centrico». Prima il comico è stato presentato come la levatrice del cambiamento, poi dalla stessa parte politica è stato accostato ai lepenisti francesi e infine, da un'altra tribuna, la sua polemica contro la partitocrazia è diventata l'imputata del giorno, il brodo di coltura della sparatoria di ieri. Forse sarebbe meglio che anche il fenomeno Grillo venisse ricondotto ai suoi termini naturali, chi vuole batterlo e ridimensionarlo ha tutti gli strumenti per farlo, eviti di aggiungere veleno a veleno.

Oggi Enrico Letta presenta in Parlamento compagine e programma del nuovo esecutivo, finalmente i problemi degli italiani e le ricette per affrontarli si riprenderanno lo spazio che meritano. Il neo-premier è atteso da scelte difficili che richiedono forza negoziale in Europa, attenta selezione dei provvedimenti da varare e «produzione» di nuova coesione. Un aiuto, seppur indiretto, arriva dalla società di mezzo. Una festa di robusta tradizione come il Primo Maggio quest'anno vedrà per la prima volta, in alcune città, la presenza di una rappresentanza degli imprenditori sul palco sindacale. Un gesto di maturità e un esempio per la politica.
@dariodivico

Dario Di Vico

29 aprile 2013 | 12:16© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_aprile_29/di-vico-fermezza-attenzione-alle-parole_cb8f018e-b08a-11e2-b358-bbf7f1303dce.shtml
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« Risposta #116 inserito:: Maggio 06, 2013, 11:39:55 am »

L'analisi

All'estero i nuovi posti di lavoro

In Italia i giovani restano fuori

In Germania la disoccupazione è arrivata ai minimi storici


Il dibattito sulle politiche del lavoro è concentrato sulle modifiche da introdurre, in piena corsa, alla riforma del lavoro varata dal governo Monti. Ma intanto i dati che in questi giorni arrivano dalla Germania e dagli Stati Uniti invitano ad alzare lo sguardo e a operare una riflessione più "lunga". A Berlino parlano esplicitamente di «piena occupazione» e ne hanno ben donde visto che la disoccupazione è arrivata ai minimi storici dagli anni Novanta. In America i recentissimi dati sulla creazione di nuovi posti di lavoro sono andati al di là delle previsioni e hanno portato la disoccupazione yankee a scendere al 7,5%, anche in questo caso ai livelli minimi dal dicembre 2008. L'Eurozona, presa nel suo insieme, fa purtroppo da contraltare a questi buoni risultati e resta inchiodata a un tasso di disoccupazione del 12,1%, superiore di qualche decimale anche a quello italiano, già di per sé tutt'altro che incoraggiante (11,5%).

È chiaro che al di là dei dati statistici si stanno comparando mercati del lavoro assai diversi tra loro. Prendiamo, ad esempio, la differente diffusione di working poors , di lavoratori poveri, sotto-pagati e sotto-inquadrati. Un caso su tutti: ben 7 milioni di tedeschi hanno un mini-job da 400 euro al mese. Ma anche l'utilizzo del part time fa salire le statistiche perché un mezzo lavoro vale comunque come una persona occupata. A prescindere dalla crisi e dal differente impatto che ha avuto sul Pil dei tre Paesi di cui stiamo parlando (Germania, Usa e Italia) vale la pena in questa sede ricordare come il nostro sistema sia "strutturalmente" arretrato, perché ha una transizione scuola-lavoro che definire farraginosa è un complimento, ha tuttora un basso tasso di occupazione femminile e, per l'appunto, una scarsa diffusione del lavoro part time. La sostanza, dunque, non cambia: abbiamo pagato i cinque anni di crisi con quattro punti di peggioramento della disoccupazione ed evidentemente i segni di ripresa che si ravvisano nell'economia americana in Italia non si intravedono nemmeno.

Nonostante la gravità della recessione lo smottamento dell'occupazione in Italia è relativamente recente e i dati lo fotografano attorno ad ottobre 2012. Fino ad allora, grazie alle varie tipologie di cassa integrazione e alla tendenza degli imprenditori a non liberarsi dei dipendenti (almeno in misura proporzionata al calo dei ricavi), la diga aveva tenuto. Poi, per effetto della stretta creditizia e del crollo della domanda interna, tra l'autunno 2012 e l'inverno 2013 c'è stato una forte fuoriuscita di forza lavoro. Negli ultimi tre mesi la situazione è rimasta sostanzialmente stabile a riprova che il sistema è in bilico, può subire ulteriori gravi contrazioni o può gradatamente riprendersi. Ma è proprio su questo punto che si manifesta la maggiore e più preoccupante differenza tra la nostra economia e quella dei Paesi-chiave di cui abbiamo parlato. Negli Usa e in Germania non c'è tutta la cassa integrazione da riassorbire che si è accumulata in Italia e di conseguenza il miglioramento degli input produttivi del sistema manifatturiero si trasforma quasi immediatamente in aumento dell'occupazione, da noi non è affatto detto. Anzi. Ci sono fondate analisi secondo le quali un'eventuale ripresina dell'industria italiana di trasformazione che si dovesse palesare verso la fine del 2013 o l'anno successivo avrebbe comunque un carattere jobless , senza nuova occupazione. Lo sostiene lo stesso Def predisposto dal governo Monti (secondo il quale il tasso di disoccupazione resterà all'11% fino al 2017!), e lo conferma l'indagine di Prometeia diffusa sabato scorso.

Il perché di questa apparente contraddizione è facile da spiegare. Una ripresina manifatturiera comporterebbe - prima di dare la possibilità di assumere nuovi addetti - un riassorbimento della cassa integrazione, un aumento delle ore lavorate e non un incremento delle persone occupate. Tutti gli accordi raggiunti in questi anni sul governo della flessibilità accompagnerebbero questa tendenza dando maggiore spazio alle aziende per rispondere ai picchi della domanda con maggiori straordinari o strumenti simili. È abbastanza chiaro che per come sono dislocate le forze di rappresentanza sarebbero gli stessi sindacati a sostenere con forza questo percorso per la necessità di dare risposte ai cassaintegrati e puntellare la propria tradizionale platea di consenso. È anche vero che una tendenza di questo tipo accentuerebbe la spaccatura tra insider e outsider, dopo che già abbiamo potuto amaramente constatare come il peso maggiore della crisi sia stato pagato da quella metà del mercato del lavoro che non ha garanzie e rappresentanza stabile. Da qui l'esigenza di riflettere per tempo sulle risposte che vogliamo dare a chi è fuori dalla cittadella e rischia di rimanerci sine die .

Dario Di Vico
dariodivico

6 maggio 2013 | 8:04© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/13_maggio_06/di-vico-estero-nuovi-posti-i-giovani-restano-fuori_b4f4eae2-b60c-11e2-9456-8f00d48981dc.shtml
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« Risposta #117 inserito:: Maggio 25, 2013, 06:00:26 pm »

Crescere o chiudere

Tra i vari spunti che l'assemblea di Confindustria ha fornito con i discorsi di Enrico Letta e Giorgio Squinzi tre meritano di essere sottolineati. Il primo è stato sicuramente sorprendente. Il presidente del Consiglio ha offerto alla platea un obiettivo più che ambizioso: elevare il contributo dell'industria al Pil italiano dal 18 al 20%. L'Italia, dunque, a detta del capo del governo, deve scommettere sulla reindustrializzazione, prendere a modello quanto stanno facendo gli Usa. Squinzi non poteva che accogliere con favore quest'indicazione ma è lecito chiedersi se sia davvero possibile centrare l'obiettivo partendo da una situazione che vede in grave difficoltà settori portanti della manifattura come auto, elettrodomestici e siderurgia. L'assemblea ieri questa domanda non se l'è posta, le occasioni però non mancheranno.

Per reindustrializzare, posto che non possiamo farlo a colpi di nuove Iri, la strada più convincente è di accrescere (notevolmente) il numero delle medie aziende capaci di comportarsi come global company . La manifattura di oggi non è quella del Novecento, le contaminazioni con i servizi sono l'elemento caratterizzante dell'innovazione, distribuzione e logistica sono fattori decisivi per il successo e paghiamo il prezzo di averli sottovalutati.

E allora, se vogliamo perseguire l'obiettivo del 20% la comunità industriale è chiamata a una crescita culturale. È giustissimo chiedere all'Europa di adottare un industrial compact per mettersi in grado di competere con Cina e Usa ma se vogliamo creare «crescita italiana» attraverso l'industria le risposte non potranno arrivare tutte da Bruxelles.

Il secondo punto riguarda il delicato rapporto tra banca e industria. Il presidente Squinzi ha parlato addirittura di una terza ondata di credit crunch e ha stimato in 50 miliardi di euro la riduzione di liquidità dovuta alla chiusura dei rubinetti. Le sue cifre sono state contestate, ad esempio dal banchiere Enrico Cucchiani. Conviene però andare oltre la disputa sui numeri e concentrarsi sulle cose da fare. Se lo Stato rimborsasse tutti i 90 miliardi di mancati pagamenti alle imprese da parte della pubblica amministrazione, darebbe un potente contributo al superamento dello status quo, creerebbe infatti automaticamente più spazio per l'erogazione di ulteriori finanziamenti. Scartata, come sembra, l'ipotesi di creare una bad bank dove raccogliere tutti i crediti dubbi originati dalla morìa delle imprese, è necessario però non chiudere gli occhi di fronte alla realtà e monitorare/ rafforzare la diga rappresentata dall'intero sistema delle garanzie (Fondo centrale e Confidi).

Se poi, come è giusto e come l'obiettivo di reindustrializzare richiede, dalle priorità volgiamo lo sguardo al medio periodo dobbiamo convenire che la relazione tra banche e imprese, deteriorata dalla crisi, va ricostruita su basi nuove. Il credito deve farsi più «tedesco» e accompagnare i passaggi chiave della vita delle aziende. Gli imprenditori devono immettere maggiore trasparenza e più capitale.

Infine il Nord. Il presidente Squinzi ne ha parlato come di un modello che in passato è stato trainante e ora si trova pericolosamente «sull'orlo del baratro».

Un giudizio che va ben al di là della mera fotografia della crisi e ci invita a ragionare su un ampio spettro di fenomeni che includono la decimazione delle piccole imprese, lo stallo dei sistemi locali e il crollo verticale di alcuni distretti, la difficoltà in diverse zone ad operare la staffetta tra padri e figli in azienda, la disperazione che ha spinto diversi imprenditori all'estremo sacrificio, la voglia di moltissimi giovani di andarsene all'estero. La verità è che le culture politiche che pure hanno individuato per prime il valore aggiunto della questione settentrionale non sono poi riuscite a elaborare una moderna prospettiva di sviluppo.

Il federalismo doveva produrre non solo una nuova organizzazione dello Stato ma anche un nuovo costume delle classi dirigenti. Finora purtroppo entrambi gli obiettivi sono stati mancati. E paradossalmente mentre la crisi sferzava il sistema produttivo si moltiplicavano, condite da una forte retorica del territorio, le università locali, le fiere, gli aeroporti, gli enti regionali e tutto quanto potesse produrre nuova intermediazione politica e nuova spesa. Gli imprenditori forse avrebbero dovuto con più convinzione segnalare l'andazzo. Non l'hanno fatto e hanno dovuto scontare una nuova forma di solitudine. Restare a battersi con i concorrenti stranieri per tenere le quote di mercato o quantomeno per non chiudere mentre gli altri si sceglievano la poltrona.

Dario Di Vico
@dariodivico24 maggio 2013 | 7:41© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_maggio_24/crescere-o-chiudere-dario-di-vico_73ecdece-c42b-11e2-9212-dfc1a4ff380d.shtml
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« Risposta #118 inserito:: Maggio 27, 2013, 04:59:30 pm »

Crescere o chiudere

Tra i vari spunti che l'assemblea di Confindustria ha fornito con i discorsi di Enrico Letta e Giorgio Squinzi tre meritano di essere sottolineati. Il primo è stato sicuramente sorprendente. Il presidente del Consiglio ha offerto alla platea un obiettivo più che ambizioso: elevare il contributo dell'industria al Pil italiano dal 18 al 20%. L'Italia, dunque, a detta del capo del governo, deve scommettere sulla reindustrializzazione, prendere a modello quanto stanno facendo gli Usa. Squinzi non poteva che accogliere con favore quest'indicazione ma è lecito chiedersi se sia davvero possibile centrare l'obiettivo partendo da una situazione che vede in grave difficoltà settori portanti della manifattura come auto, elettrodomestici e siderurgia. L'assemblea ieri questa domanda non se l'è posta, le occasioni però non mancheranno.

Per reindustrializzare, posto che non possiamo farlo a colpi di nuove Iri, la strada più convincente è di accrescere (notevolmente) il numero delle medie aziende capaci di comportarsi come global company . La manifattura di oggi non è quella del Novecento, le contaminazioni con i servizi sono l'elemento caratterizzante dell'innovazione, distribuzione e logistica sono fattori decisivi per il successo e paghiamo il prezzo di averli sottovalutati.

E allora, se vogliamo perseguire l'obiettivo del 20% la comunità industriale è chiamata a una crescita culturale. È giustissimo chiedere all'Europa di adottare un industrial compact per mettersi in grado di competere con Cina e Usa ma se vogliamo creare «crescita italiana» attraverso l'industria le risposte non potranno arrivare tutte da Bruxelles.

Il secondo punto riguarda il delicato rapporto tra banca e industria. Il presidente Squinzi ha parlato addirittura di una terza ondata di credit crunch e ha stimato in 50 miliardi di euro la riduzione di liquidità dovuta alla chiusura dei rubinetti. Le sue cifre sono state contestate, ad esempio dal banchiere Enrico Cucchiani. Conviene però andare oltre la disputa sui numeri e concentrarsi sulle cose da fare. Se lo Stato rimborsasse tutti i 90 miliardi di mancati pagamenti alle imprese da parte della pubblica amministrazione, darebbe un potente contributo al superamento dello status quo, creerebbe infatti automaticamente più spazio per l'erogazione di ulteriori finanziamenti. Scartata, come sembra, l'ipotesi di creare una bad bank dove raccogliere tutti i crediti dubbi originati dalla morìa delle imprese, è necessario però non chiudere gli occhi di fronte alla realtà e monitorare/ rafforzare la diga rappresentata dall'intero sistema delle garanzie (Fondo centrale e Confidi).

Se poi, come è giusto e come l'obiettivo di reindustrializzare richiede, dalle priorità volgiamo lo sguardo al medio periodo dobbiamo convenire che la relazione tra banche e imprese, deteriorata dalla crisi, va ricostruita su basi nuove. Il credito deve farsi più «tedesco» e accompagnare i passaggi chiave della vita delle aziende. Gli imprenditori devono immettere maggiore trasparenza e più capitale.

Infine il Nord. Il presidente Squinzi ne ha parlato come di un modello che in passato è stato trainante e ora si trova pericolosamente «sull'orlo del baratro».

Un giudizio che va ben al di là della mera fotografia della crisi e ci invita a ragionare su un ampio spettro di fenomeni che includono la decimazione delle piccole imprese, lo stallo dei sistemi locali e il crollo verticale di alcuni distretti, la difficoltà in diverse zone ad operare la staffetta tra padri e figli in azienda, la disperazione che ha spinto diversi imprenditori all'estremo sacrificio, la voglia di moltissimi giovani di andarsene all'estero. La verità è che le culture politiche che pure hanno individuato per prime il valore aggiunto della questione settentrionale non sono poi riuscite a elaborare una moderna prospettiva di sviluppo.

Il federalismo doveva produrre non solo una nuova organizzazione dello Stato ma anche un nuovo costume delle classi dirigenti. Finora purtroppo entrambi gli obiettivi sono stati mancati. E paradossalmente mentre la crisi sferzava il sistema produttivo si moltiplicavano, condite da una forte retorica del territorio, le università locali, le fiere, gli aeroporti, gli enti regionali e tutto quanto potesse produrre nuova intermediazione politica e nuova spesa. Gli imprenditori forse avrebbero dovuto con più convinzione segnalare l'andazzo. Non l'hanno fatto e hanno dovuto scontare una nuova forma di solitudine. Restare a battersi con i concorrenti stranieri per tenere le quote di mercato o quantomeno per non chiudere mentre gli altri si sceglievano la poltrona.

Dario Di Vico
@dariodivico

24 maggio 2013 | 7:41© RIPRODUZIONE RISERVATA

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« Risposta #119 inserito:: Maggio 28, 2013, 05:03:25 pm »

Amministrative 2013 Il Nord

I voti di imprenditori e partite Iva conquistati da due renziani veneti

La crisi della Lega si allarga alla Lombardia, l'effetto-Maroni non c'è. Il centrosinistra alla guida delle città del Nord


Il Fattore G come Gentilini almeno al primo turno non ha funzionato. Il giovane candidato del Pd Giovanni Manildo non solo è in testa ma ha staccato il sindaco sceriffo di ben 11 punti. Per capire la portata della novità basta ricordare come Gentilini avesse vinto già due volte le comunali di Treviso e avesse ottenuto un terzo successo per interposta persona, Gian Paolo Gobbo, cinque anni fa. Il tutto equivale a venti anni di dominio incontrastato su una città che per la Lega del Veneto è come Varese in Lombardia, visto che oltre alla straordinaria striscia di vittorie di Gentilini la Marca ha espresso Luca Zaia, prima come presidente della Provincia e poi come governatore del Veneto.

Per il Carroccio anche Vicenza ieri è stata amara. Il sindaco uscente Achille Variati ce l'ha fatta addirittura al primo turno staccando di 30 punti Manuela Dal Lago, anch'essa un candidato leghista di prima fila. Entrambi, Manildo e Variati, sono renziani anche se con storie e curriculum molto diversi ma sicuramente il loro posizionamento ha favorito in qualche modo l'attrazione di un voto moderato che in Veneto si è tenuto storicamente lontano dalle liste del centrosinistra.

Per la Lega, dunque, le sconfitte di Gentilini e Dal Lago equivalgono ad altrettanti sonori schiaffoni presi nelle due città del Veneto dove la composizione sociale è incardinata sulla piccola impresa e le partite Iva. I Piccoli, dunque, che alle Regionali avevano decretato il successo di Zaia e che alle ultime politiche avevano gonfiato le vele del Movimento 5 Stelle hanno voltato per la seconda volta di seguito le spalle alla Lega. Magari avranno preferito astenersi, ma è certo che di fronte ai colpi delle crisi aziendali (solo nel Trevigiano ne sono aperte 32) e ai rischi che non ci siano i soldi per rifinanziare la cassa integrazione, il blocco dei produttori non guardi ai leghisti, non dia più peso agli appelli federalisti e non creda nemmeno più alle tirate contro l'immigrazione che avevano contribuito al boom di Gentilini. Non va dimenticato che Treviso è stata la città italiana nella quale con maggior convinzione si è celebrato un Primo Maggio unitario con un palco di sindacalisti e di rappresentanti dell'Unione Industriale e degli artigiani. Aggiungiamoci pure che i leghisti in Veneto sono fieramente divisi tra seguaci di Tosi e supporter di Zaia e il quadro risulta ancora più chiaro.

Dopo i successi alle Politiche di Grillo si è sgonfiata anche la forza dei 5 Stelle. È stato già detto che mentre i primi comizi erano stati molto partecipati, nelle più recenti uscite a Treviso e Vicenza il comico genovese non aveva fatto il pieno. Anche il movimento di piccoli industriali che si era fatto avanti come forza collaterale sotto la guida di Colomban non sembra aver pesato in questa occasione. Grillo a un certo momento aveva intuito che l'elettorato di destra lo stava lasciando e con un paio di sortite sullo ius soli e sul picconatore di Milano Niguarda aveva cercato un recupero. L'operazione non è riuscita e il bottino dei 5 Stelle è rimasto ancorato attorno al 6%.

Se il dato veneto sembra univoco più articolato è il risultato dei principali centri della Lombardia. Il sindaco uscente di Brescia, il ciellino Adriano Paroli, che cinque anni fa aveva vinto al primo turno questa volta dovrà andare al ballottaggio. Il centrosinistra ha recuperato terreno con il candidato Emilio Del Bono che è riuscito a chiudere il primo turno testa a testa con Paroli nonostante che il suo avversario avesse schierato in campagna elettorale nientemeno che Silvio Berlusconi. Brescia, una delle capitali del manifatturiero italiano, vive una crisi profonda che scuote la sua stessa identità. A Sondrio il centrosinistra ha vinto ancora una volta riportando in Comune per il quarto mandato il medico Alcide Molteni. Anche in questo caso la Lega che voleva riconquistare Sondrio ha fatto flop, il suo candidato Lorenzo Gallo della Berta è rimasto intorno all'8% mentre Mario Saverio Fiumanò (Pdl) non è riuscito a toccare il 30%. A Lodi il centrosinistra non è riuscito a ripetere la performance del 2010 quando aveva preso il Comune al primo turno, il nuovo candidato Simone Uggetti è in testa ma dovrà andare al ballottaggio con Giuliana Cuminetti del centrodestra. I risultati però sono così differenti che è difficile trarne una valenza politica generale, tranne il fatto che non sembra esserci stato un effetto-Maroni legato al recente cambio al vertice della Regione Lombardia.

Ovviamente bisognerà attendere i ballottaggi ma il centrosinistra è alla testa di quasi tutte le città più importanti del Nord (Torino, Milano, Bologna, Genova, Trieste, Venezia, Padova) e ora potrebbe aggiungervi Treviso e Brescia. Si conferma così come un partito a vocazione metropolitana che però arranca nei centri minori e nelle valli, soprattutto quanto si vota per le Politiche e non per le Amministrative.

@dariodivico

DARIO DI VICO

28 maggio 2013 | 7:57© RIPRODUZIONE RISERVATA

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